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L’autore

Slavoj Žižek è nato, scrive libri, morirà.


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Titolo originale:
Like a Thief in Broad Daylight

© 2018 Slavoj Žižek


© 2019 Adriano Salani Editore s.u.r.l. - Milano

ISBN 978-88-3331-239-2

Traduzione di Valentina Paradisi


Redazione e impaginazione: Scribedit - Servizi per l’editoria

In copertina: © Pawel Czerwinski / unsplash


Progetto grafico: Camille Barrios / ushadesign

Ponte alle Grazie è un marchio


di Adriano Salani Editore s.u.r.l.
Gruppo editoriale Mauri Spagnol

Prima edizione digitale: marzo 2019


Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione,
anche parziale, non autorizzata.
Indice

Introduzione. Prima le brutte notizie, poi quelle belle... che possono essere
ancora peggiori
Capitolo primo. Lo stato delle cose
Il mondo sottosopra del capitalismo globale
Il capitalismo virtuale e la fine della natura
Di uomini e topi, o verso il capitalismo postumano
Capitolo secondo. Stravaganze del potere
La navigazione di Lenin in territori inesplorati
Elezioni, pressione popolare, inerzia
Benvenuti nella noia di tempi interessanti!
Capitolo terzo. Dall’identità all’universalità
Ciò che Agatha sapeva
Come combattere la malattia di Huntington
L’eterno ritorno della solita lotta di classe
Capitolo quarto. Ernst Lubitsch, sesso e comunicazione indiretta
Dalla comunicazione indiretta a ratatatata
Contro il sesso contrattuale
Cinismo, umorismo e impegno
Un gesto leninista in La La Land e in Black Panther
Conclusione. Per quanto ancora potremo agire globalmente e pensare
localmente?
Note
Come un ladro in pieno giorno
A Jela, con a ---- !
Introduzione
Prima le brutte notizie, poi quelle belle...
che possono essere ancora peggiori

La vera vita di Alain Badiou 1 si apre affermando provocatoriamente che la


funzione della filosofia, da Socrate in poi, è stata quella di corrompere i
giovani, di alienarli (o, piuttosto, «straniarli» nel senso del verfremden
brechtiano) rispetto all’ordine politico-ideologico predominante, di seminare
dubbi radicali e renderli capaci di pensare autonomamente. I giovani si
sottopongono al processo educativo per essere integrati nell’ordine sociale
egemonico, che è il motivo per cui la loro educazione riveste un ruolo
fondamentale nel perpetuarsi dell’ideologia dominante. Non c’è da
sorprendersi, dunque, che Socrate, «il primo filosofo», ne sia stato anche la
prima vittima, condannato dal democratico tribunale di Atene a bere il
veleno. Ma questo «sprone» non è forse solo un altro nome del male – male
nel senso che disturba il normale corso della vita? Tutti i filosofi hanno
«spronato»: Platone sottopose gli antichi miti e costumi a un’incessante
disamina razionale, Cartesio mise in discussione l’armonioso universo
medioevale, Spinoza finì per venire scomunicato, Hegel liberò la forza
onnidistruttiva della negatività, Nietzsche demistificò le basi stesse della
nostra moralità... anche se essi sono apparsi talvolta come filosofi di Stato,
l’apparato statale con loro non si è mai sentito del tutto a proprio agio.
Dovremmo tenere a mente anche le loro controparti, i filosofi
«normalizzanti» che cercavano di ripristinare l’equilibrio perduto e di
riconciliare la filosofia con l’ordine stabilito: Aristotele rispetto a Platone,
Tommaso d’Aquino rispetto al primo effervescente cristianesimo, la teologia
razionale post-leibniziana rispetto al cartesianesimo, il neokantismo rispetto
al caos post-hegeliano...
Il duo Jürgen Habermas e Peter Sloterdijk non è forse l’ultima
incarnazione di questa tensione tra «spronare» e «normalizzare», palesata
nella loro reazione all’impatto devastante delle scienze moderne, in particolar
modo delle scienze cognitive e della biogenetica? Il progresso della scienza
odierna distrugge i presupposti fondamentali del nostro concetto quotidiano
di realtà.
Ci sono quattro atteggiamenti prevalenti che si possono adottare nei
confronti di questa svolta. Il primo è semplicemente insistere sul naturalismo
radicale, ovvero perseguire eroicamente la logica dello scientifico «disincanto
della realtà» a qualunque costo, anche se le vere e proprie coordinate
fondamentali del nostro orizzonte di esperienza significante finiscono per
risultarne sconvolte. (Nelle scienze cognitive, Patricia e Paul Churchland
optano nel modo più radicale per questa posizione). Il secondo è quello del
tentativo disperato di andare al di sotto o al di là dell’approccio scientifico
fino ad arrivare a una qualche lettura del mondo presumibilmente più
originaria e autentica (la religione o altri tipi di spiritualità sono i principali
candidati) – cosa che fa, in fin dei conti, Heidegger. Il terzo e più inutile
atteggiamento è quello che cerca di forgiare una sorta di «sintesi» new age tra
Verità scientifica e il mondo premoderno del Significato: la tesi è quella
secondo la quale gli stessi risultati scientifici (mettiamo la fisica quantistica)
ci portano ad abbandonare il materialismo e a rivolgerci verso una nuova
spiritualità (gnostica o orientale). Ecco una classica declinazione di questa
idea:
L’evento centrale del ventesimo secolo è la detronizzazione della materia. Nella
tecnologia, in economia, e nelle politiche nazionali, la ricchezza sotto forma di
risorse fisiche sta costantemente perdendo terreno dal punto di vista del valore e del
significato. Le forze della mente sono dovunque in ascesa rispetto alla forza bruta
delle cose. 2

Questo modo di ragionare rappresenta l’ideologia nel suo lato peggiore.


L’aver iscritto nuovamente le problematiche propriamente scientifiche (il
ruolo delle onde e delle oscillazioni nella fisica quantistica, ad esempio) nel
campo ideologico della «mente rispetto alla brutalità delle cose» nasconde il
risultato davvero paradossale della nota «scomparsa della materia» nella
fisica moderna: il modo in cui i processi propriamente «immateriali» perdono
il loro aspetto spirituale e diventano un argomento legittimo delle scienze
naturali.
Nessuna di queste tre opzioni è accettabile per chi detiene il potere, che
alla fine vuole soltanto avere la sua fetta di torta e mangiarla: ha bisogno
della scienza come fondamento della produttività economica, ma vuole allo
stesso tempo mantenere i fondamenti etico-politici della società lontani dalla
scienza. In questo modo arriviamo alla quarta opzione, una filosofia di Stato
neokantiana il cui caso esemplare oggi è Habermas (ma ce ne sono altri,
come Luc Ferry in Francia). È uno spettacolo abbastanza triste vedere
Habermas che prova a controllare gli esplosivi risultati della biogenetica e a
ridimensionarne le conseguenze filosofiche; tutti i suoi sforzi tradiscono la
paura che qualcosa stia per accadere, che emergerà una nuova dimensione
dell’«umano», che la vecchia immagine della dignità e dell’autonomia umana
sopravvivrà indenne. Le reazioni esagerate in questo caso sono diffuse, come
ad esempio la ridicola risposta al discorso pronunciato da Sloterdijk a Elmau
su biogenetica e Heidegger, 3 che scorge l’eco dell’eugenetica nazista nella
proposta (abbastanza ragionevole) di farci sollecitare dalla biogenetica a
scrivere nuove regole dell’etica. Il progresso tecnico e scientifico viene
percepito come una tentazione che ci può portare «troppo lontano», entrando
nel terreno proibito della manipolazione biogenetica e così via, mettendo così
in pericolo il cuore stesso della nostra umanità.
La recente «crisi» etica in riferimento alla biogenetica rende effettivamente
necessaria ciò che saremmo pienamente giustificati a chiamare una «filosofia
di Stato»: una filosofia che, da una parte, promuova la ricerca scientifica e il
progresso tecnico e, dall’altra, ne limiti il pieno impatto socio-simbolico,
impedendo che costituiscano una minaccia alla costellazione etico-teologica
esistente. Non ci sorprende che i filosofi più vicini a queste richieste siano i
neokantiani: Kant stesso si interrogava sul modo in cui, tenendo pienamente
in considerazione la scienza newtoniana, estromettere dall’ambito scientifico
la responsabilità etica; come lui stesso spiegava, egli aveva limitato il raggio
del sapere per creare lo spazio per la fede e la moralità. Ma i filosofi di Stato
di oggi non si stanno forse trovando davanti allo stesso compito? I loro sforzi
non sono forse volti a capire in che modo, attraverso diverse versioni della
riflessione trascendentale, confinare la scienza nel suo orizzonte di significato
preordinato e dunque denunciare come «illegittime» le sue ricadute nella
sfera etico-religiosa? In questo senso, Habermas è in effetti il massimo
filosofo della (ri)normalizzazione, che tenta disperatamente di impedire il
collasso del nostro ordine etico-politico prefissato:
Non potrà forse essere che il corpus di Jürgen Habermas sarà uno dei pochi in cui,
un giorno, non si ritroverà più alcuno sprone? Heidegger, Wittgenstein, Adorno,
Sartre, Arendt, Derrida, Nancy, Badiou, e persino Gadamer, accade continuamente
di imbattersi in dissonanze. La normalizzazione si afferma. La filosofia del futuro,
l’integrazione portata a compimento. 4

La ragione di questa avversione habermasiana verso Sloterdijk è dunque


chiara: Sloterdijk è il massimo «spronatore», colui che non teme di «pensare
pericolosamente» e di mettere in discussione i presupposti della libertà e della
dignità umana, del nostro welfare state liberale, ecc. Non dovremmo avere
timore nel chiamare questo orientamento «cattivo», se intendiamo «cattivo»
nel senso elementare delineato da Heidegger: il pericolo «che è cattivo con
rabbia e quindi il più tagliente, è lo stesso pensare. Egli è costretto a pensare
contro sé stesso, e ciò solo di rado è in suo potere». 5 Dovremmo spingere
Heidegger un po’ più in là: non solo il pensiero è sbagliato nella misura in cui
non riesce a rivolgersi contro sé stesso, contro il modo di pensiero
tradizionale; se il più profondo potenziale del pensiero è pensare liberamente
e «contro sé stesso», dal punto di vista del pensiero convenzionale, il pensare
non può che sembrare un atto «cattivo». È fondamentale insistere e rimanere
in questa ambiguità, così come resistere alla tentazione di trovare una facile
via d’uscita definendo qualche tipo di «giusta misura» fra i due estremi della
normalizzazione e dell’abisso della libertà.
Ma ciò significa forse che dovremmo semplicemente scegliere da che parte
stare in questa contrapposizione, «corrompere i giovani» o garantire una
stabilità significativa? Il problema è che, oggi, la contrapposizione semplice
diventa complicata: la nostra realtà di capitalismo globale, impregnata com’è
dalla scienza, è lei stessa «spronante», sfida i nostri presupposti più profondi
in modo molto più sconvolgente delle più selvagge speculazioni filosofiche,
così che il compito del filosofo non è più quello di mettere in discussione
l’edificio simbolico-gerarchico che fonda la stabilità sociale ma, per tornare a
Badiou, far cogliere ai giovani i pericoli dell’ordine nichilista che si va
sempre più affermando e che si presenta come il regno delle nuove libertà.
Viviamo in un’epoca straordinaria in cui non esiste una tradizione su cui
possiamo basare la nostra identità, nessuna cornice di un universo
significante che ci permetta di condurre una vita al di là della riproduzione
edonista. Il nichilismo odierno, il regno dell’opportunismo cinico
accompagnato da un’angoscia costante, legittima sé stesso come liberazione
dai vecchi limiti: siamo liberi di reinventare costantemente le nostre identità
sessuali, di cambiare non solo il nostro lavoro o la nostra traiettoria
professionale, ma anche le nostre caratteristiche più soggettive come
l’orientamento sessuale. In ogni caso, lo scopo di queste libertà è strettamente
prescritto dalle coordinate del sistema esistente, e anche dal modo in cui la
libertà consumista opera nella pratica: la possibilità di scegliere e consumare
si trasforma impercettibilmente in un obbligo a scegliere da parte del Super-
io. La dimensione nichilista di questo spazio di libertà può funzionare solo in
un’accelerazione costante; nel momento in cui rallenta, diventiamo
consapevoli dell’insensatezza di tutto il movimento. Questo Nuovo Disordine
del Mondo, questo emergere graduale di una civiltà senza-mondo, colpisce in
modo esemplare i giovani, che oscillano fra l’intensità del consumarsi
completamente (godimento sessuale, droghe, alcool, fino alla violenza) e lo
sforzo di avere successo (studiare, costruirsi una carriera, guadagnare
denaro... all’interno dell’ordine capitalistico esistente). La trasgressione
permanente diventa così la norma; prendiamo ad esempio il vicolo cieco della
sessualità o dell’arte contemporanea: c’è qualcosa di più noioso, opportunista
e sterile del soccombere al Super-io che ci impone di inventare senza posa
nuove trasgressioni e provocazioni artistiche (l’artista-performer che si
masturba in pubblico o che si taglia masochisticamente, lo scultore che mette
in scena i cadaveri di animali in decomposizione o escrementi umani) o, in
parallelo, di darsi a forme di sessualità sempre più «estreme»?
L’unica vera alternativa a questa follia sembra essere la follia ancora
peggiore del fondamentalismo religioso, il ritirarsi violento in una qualche
tradizione artificialmente resuscitata. L’ironia più grande sta nel fatto che il
ritorno brutale a una tradizione ortodossa (inventata, ovviamente) appare
come il massimo «sprone»: i giovani attentatori suicidi non sono forse la
forma più radicale di gioventù corrotta? Il massimo compito del pensiero
odierno è quello di riconoscere i precisi contorni di questo vicolo cieco e
trovarne la via di uscita. Un recente aneddoto mostra perfettamente la
paradossale coincidenza degli opposti che sta alla base della fuga dalla
fedeltà a una tradizione per un incitamento alla trasgressione. In un albergo di
Skopje, in Macedonia, la mia compagna chiese se fosse permesso fumare in
camera e la risposta che ottenne dall’addetta alla reception fu inestimabile:
«Ovviamente no, è proibito dalla legge. Ma nella camera ci sono dei
portacenere, per cui non c’è problema». La contraddizione tra proibizione e
permesso era presupposta in modo palese e quindi cancellata, trattata come
non-esistente: il messaggio era «è proibito, ed ecco come lo potete fare».
Questo incidente ci offre forse la miglior metafora della difficile situazione
ideologica dei nostri tempi.
Come siamo arrivati a questo punto? Uno dei massimi contributi della
cultura americana al pensiero dialettico è dato dalla serie di battute piuttosto
volgari dei medici sul genere «prima le brutte notizie poi le belle», del tipo:
«La brutta notizia è che ha un cancro in fase terminale e morirà entro un
mese. La bella è che abbiamo scoperto che ha anche una grave forma di
Alzheimer, dunque quando sarà arrivato a casa avrà già dimenticato la brutta
notizia». Dovremmo forse tenere un atteggiamento simile nei confronti della
politica radicale. Dopo tante «brutte notizie», dopo aver visto crollare
tristemente tante speranze nell’ambito di un’azione politica radicale
(compresa fra i due estremi di Maduro in Venezuela e Tsipras in Grecia), è
facile cedere alla tentazione di dire che tali azioni non hanno mai avuto la
benché minima speranza, che erano condannate fin dall’inizio, che aver
creduto a un vero ed efficace cambiamento per il meglio è stata una mera
illusione. Quello che dovremmo fare non è cercare «belle notizie» alternative,
ma distinguere le belle notizie dentro quelle brutte, cambiando il nostro punto
di vista e guardandole in modo nuovo. Prendiamo la prospettiva
dell’automazione della produzione, che ridurrà radicalmente, almeno nelle
paure della gente, la richiesta di lavoratori facendo dunque esplodere la
disoccupazione. Ma perché temere questa prospettiva? Non ci apre forse alla
possibilità di una nuova società in cui dovremo lavorare tutti molto meno? In
quale società viviamo, se anche le belle notizie vengono sempre trasformate
in brutte? Oppure, prendiamo un altro esempio di notizie belle/brutte: la
lezione fondamentale che abbiamo appreso dalla recente pubblicazione dei
cosiddetti Paradise Papers non è forse semplicemente il fatto che i super-
ricchi vivono nelle loro zone speciali liberi dai vincoli delle leggi comuni?
Stanno comunque emergendo nuove aree in cui è possibile un’azione di
emancipazione, come accade ad esempio nelle città guidate da un sindaco o
da una giunta comunale che impongono un’agenda progressista in
contrapposizione ai regolamenti statali o federali. Numerosi sono qui gli
esempi, da singole città (Barcellona, Newark, perfino New York) a reti di
città; di recente, molte autorità locali americane hanno deciso di continuare a
rispettare gli impegni presi per combattere la minaccia ecologica che pure
sono stati cancellati da Trump. Ciò che importa, in questo caso, è il fatto che
le autorità locali si dimostrano più sensibili ai temi globali di quanto non lo
siano le più alte autorità dello Stato. È per questo motivo che non dovremmo
ridurre questo nuovo fenomeno a una battaglia delle comunità locali contro i
regolamenti dello Stato: le amministrazioni locali si preoccupano di temi che
sono allo stesso tempo locali e globali, facendo pressione allo Stato a partire
da due diverse direzioni. Ad esempio, il sindaco di Barcellona insiste ad
aprire la città ai rifugiati, cercando allo stesso tempo di frenare l’eccessiva
invasione di turisti nella città.
Un altro passo nella direzione dell’emancipazione è il modo in cui le
donne si stanno ribellando en masse alla violenza sessuale maschile. La
copertura che assicurano i media a questa evoluzione non ci deve distrarre dal
suo vero contenuto: niente di meno che un cambiamento epocale, un grande
risveglio, un nuovo capitolo nella storia dell’uguaglianza. Per migliaia di
anni, le relazioni fra i sessi sono state regolate e pianificate; tutto questo viene
adesso messo in discussione e indebolito. E adesso le proteste non vengono
dalla minoranza LGBT ma dalla maggioranza: le donne. Ciò che sta
emergendo è qualcosa di cui siamo sempre stati consapevoli, ma che
semplicemente non eravamo capaci (desiderosi, pronti) di affermare
apertamente: le centinaia di modi in cui le donne vengono sfruttate dal punto
di vista sessuale. Adesso le donne stanno facendo luce sul lato oscuro delle
nostre dichiarazioni ufficiali di uguaglianza e rispetto reciproco, e ciò che
stiamo scoprendo è, fra l’altro, quanto sia ipocrita e parziale la nostra
elegante critica all’oppressione delle donne nel mondo musulmano: è con la
realtà delle nostre stesse forme di oppressione e sfruttamento che dobbiamo
confrontarci.
Come in ogni cambiamento rivoluzionario, ci saranno numerose
«ingiustizie», ironie e così via. (Ad esempio, io dubito che le azioni del
comico americano Louis CK, per quanto deplorevoli e volgari, possano
essere messe allo stesso livello della violenza sessuale diretta). Ma, di nuovo,
non dobbiamo lasciarci distrarre: dobbiamo rimanere concentrati sui problemi
che si intravedono all’orizzonte. Anche se alcuni paesi stanno già
sperimentando una nuova cultura sessuale post-patriarcale (pensiamo
all’Islanda, in cui due terzi dei bambini nascono al di fuori del matrimonio, e
in cui le donne occupano più posti nelle pubbliche istituzioni degli uomini),
una delle cose più urgenti da fare è capire cosa stiamo guadagnando e cosa
stiamo perdendo nel cambiamento delle tradizionali norme di
corteggiamento. Bisognerà stabilire nuove regole per evitare una cultura
sterile di paura e incertezza; inoltre, ovviamente, dobbiamo essere certi che
questo risveglio non si trasformi nell’ennesimo caso in cui la legittimazione
politica si basa sulla condizione di vittima del soggetto.
La caratteristica di base della soggettività odierna non è forse quella strana
combinazione di soggetto libero che sperimenta sé stesso in quanto in fin dei
conti responsabile del proprio destino, e soggetto che fonda l’autorità del suo
discorso sulla sua condizione di vittima di circostanze che non può
controllare? Qualunque contatto con un altro essere umano viene
sperimentato come potenziale minaccia; se l’altro fuma, o se mi dà
un’occhiata bramosa, mi sento già ferito. Questa logica della vittimizzazione
viene oggi universalizzata, e va molto al di là dei casi standard di molestie a
sfondo sessuale o razzista; pensiamo, ad esempio, alla crescita dell’industria
finanziaria del risarcimento danni, dagli accordi presi dalle multinazionali
americane del tabacco alle richieste di risarcimento delle vittime
dell’Olocausto e di coloro che erano sottoposti ai lavori forzati nella
Germania nazista, fino all’idea che gli Stati Uniti dovrebbero pagare agli
afro-americani centinaia di milioni di dollari per tutto ciò di cui sono stati
privati a causa della schiavitù. Questa idea del soggetto come vittima
irresponsabile viene portata avanti da una prospettiva estremamente
narcisistica, in cui ogni incontro con l’Altro appare come una minaccia
potenziale per l’immaginario e precario equilibrio del soggetto; in quanto
tale, non è l’opposto del libero soggetto progressista, ma piuttosto il
supplemento intrinseco ad esso. Nell’odierna predominante forma di
individualismo, l’affermazione del soggetto psicologico centrato su di sé
paradossalmente si sovrappone alla percezione di sé come vittima delle
circostanze.
Per tornare al posacenere: il pericolo è che, in modo simile, nel corrente
risveglio, l’ideologia della libertà personale possa silenziosamente fondersi
con la logica della vittima (riducendo la libertà alla libertà di far emergere la
propria condizione di vittima). Una politicizzazione radicale ed
emancipatoria del risveglio sarebbe allora superflua e la battaglia delle donne
diventerebbe una delle tante proteste in atto, come quella contro il
capitalismo globale, le minacce ecologiche, il razzismo, per una democrazia
diversa e così via.
In che modo allora potrà avvenire una trasformazione sociale radicale?
Certamente non come una vittoria trionfante e neppure sotto forma di una
catastrofe ampiamente dibattuta e preannunciata nei media, ma «come un
ladro di notte»: «infatti sapete bene che il giorno del Signore verrà come un
ladro di notte. E quando la gente dirà: ‘C’è pace e sicurezza!’, allora
d’improvviso la rovina li colpirà, come le doglie una donna incinta; e non
potranno sfuggire» (San Paolo, Lettera ai Tessalonicesi 5,2-3). Non sta forse
già accadendo proprio questo nella nostra società, ossessionata com’è con
«pace e sicurezza»? A ben guardare, in ogni caso, vediamo che il
cambiamento sta già avvenendo sotto gli occhi di tutti: il capitalismo si sta
chiaramente disintegrando per diventare qualcos’altro. Trasformazione che
non percepiamo del tutto perché siamo profondamente immersi
nell’ideologia.
Vale la stessa cosa per il trattamento psicoanalitico, in cui la risoluzione
arriva anch’essa «come un ladro di notte», come un effetto secondario
inatteso, mai come il raggiungimento di un obiettivo dato. Per questo motivo
la pratica psicoanalitica è qualcosa che è possibile solo grazie alla sua stessa
impossibilità, affermazione che molti sarebbero pronti a definire come tipico
esempio di gergo postmoderno. In ogni caso, non è stato forse proprio Freud
a indicare questa direzione, quando ha scritto che le condizioni ideali del
trattamento psicoanalitico sarebbero quelle in cui della psicoanalisi non ci
sarebbe più bisogno? È per questo che Freud ha inserito la pratica della
psicoanalisi nell’elenco delle professioni impossibili. Dopo che il trattamento
psicoanalitico è iniziato, il paziente fa resistenza mettendo in atto (fra le altre
cose) il transfert, e il trattamento procede attraverso l’analisi del transfert
stesso e delle altre forme di resistenza. Non può esistere un trattamento
diretto, «liscio»: in un trattamento, inciampiamo subito nei medesimi ostacoli
attraverso i quali stiamo lavorando.
Tornando alla politica: non vale forse esattamente la stessa cosa per ogni
rivoluzione e ogni processo di emancipazione radicale? Le rivoluzioni sono
possibili solo a partire dalla loro stessa impossibilità: l’ordine del capitalismo
globale esistente può immediatamente respingere tutti i tentativi di
sovvertirlo, e la battaglia anticapitalista può essere efficace solo se affronta
queste contromisure, se trasforma in armi gli strumenti stessi della sua
sconfitta. Non c’è motivo di aspettare il momento giusto, il momento in cui
sarà possibile un cambiamento morbido; questo momento non arriverà mai, la
storia non ci offrirà mai una tale opportunità. Bisogna correre il rischio e
intervenire, anche se il raggiungimento dell’obiettivo sembra (ed è, in un
certo senso) impossibile; solo così facendo si può cambiare la situazione
trasformando l’impossibile in possibile, in un modo che non è mai
prevedibile.
Anche se può sembrare che siamo ormai tutti defintivamente alla mercé
della manipolazione dei media, 6 può sempre accadere il miracolo: il falso
universo della manipolazione può improvvisamente sbriciolarsi e disfarsi da
solo. Nella campagna elettorale che ha preceduto le elezioni nazionali del
2017, Jeremy Corbyn è stato oggetto di una ben programmata campagna di
diffamazione da parte dei media conservatori, che lo hanno ritratto come
indeciso, incompetente, non eleggibile, e così via. Come ha fatto allora a
uscire così bene da tutto ciò? Non è sufficiente dire che ha resistito con
successo alle calunnie grazie alla semplice dimostrazione della sua onestà,
della sua correttezza e del suo interesse per i problemi della gente comune. È
andato bene proprio a causa della tentata campagna di diffamazione: senza di
essa sarebbe rimasto probabilmente un leader un po’ noioso e poco
carismatico, senza una chiara visione politica, semplicemente un
rappresentante del vecchio Labour Party. È stato proprio nel suo modo di
reagire alla spietata campagna contro di lui che la sua normalità è emersa
come una caratteristica positiva, come qualcosa che ha attirato gli elettori,
disgustati dai volgari attacchi contro di lui, e tale slittamento non era
prevedibile: era impossibile sapere in anticipo come sarebbe andata la
campagna contro di lui. Questa indecidibilità (per usare un termine un tempo
di moda) è una caratteristica della determinazione simbolica che non può
essere spiegata nei termini di un semplice e lineare determinismo: non è una
questione di dati insufficienti, di argomenti più forti di altri, ma di come i
medesimi argomenti possano funzionare a favore o contro. Un tratto del
carattere – l’enfatizzata, onesta ordinarietà di Corbyn – può essere un
argomento a suo favore (per gli elettori stanchi dei blitz mediatici dei
conservatori) o contro di lui (per coloro convinti che un leader debba essere
forte e carismatico). Quel je ne sais quoi in più che decide come andranno le
cose è ciò che sfugge anche alla propaganda meglio organizzata.
A coloro che si affidano a oscure speculazioni spiritual-cosmologiche
suonerà familiare questa idea, assai diffusa: quando tre pianeti (di solito la
terra, la sua luna e il sole) si ritrovano sullo stesso asse, avviene qualche
enorme cataclisma; l’intero ordine dell’universo viene temporaneamente
messo fuor di sesto, e deve ritrovare il suo equilibrio (come sarebbe dovuto
accadere nel 2012). Non possiamo forse dire lo stesso per il 2017, con i suoi
triplici anniversari? Nel 2017 abbiamo celebrato non solo il centenario della
Rivoluzione d’Ottobre ma anche il centocinquantesimo anniversario della
prima edizione del Capitale di Marx (1867) e il cinquantesimo anniversario
della cosiddetta Comune di Shanghai quando, durante la Rivoluzione
Culturale, gli abitanti di Shanghai decisero di seguire le parole di Mao alla
lettera e prendere direttamente il potere, rovesciando il dominio del Partito
Comunista (motivo per cui Mao decise rapidamente di riportare l’ordine
mandando l’esercito a soffocare la Comune). Non segnano forse questi tre
eventi le tre fasi del movimento comunista? Il Capitale di Marx ha definito i
fondamenti teorici della rivoluzione comunista, la Rivoluzione d’Ottobre è
stato il primo tentativo riuscito di rovesciare uno Stato borghese e costruire
un nuovo ordine sociale ed economico, mentre la Comune di Shanghai
rappresenta il tentativo più radicale di realizzare l’aspetto più audace della
visione comunista, l’abolizione del potere dello Stato e l’imposizione del
potere diretto delle persone, organizzato come una rete di comuni locali.
Ciò che la storia ci insegna qui è che, quando prendiamo in considerazione
il centenario della Rivoluzione d’Ottobre, il primo caso di «territorio
liberato» al di fuori del capitalismo, della presa di potere e rottura della
catena dello Stato capitalista, dobbiamo sempre vederlo come la fase mediana
(di mediazione) fra due estremi, la struttura antinomica della società
capitalista (analizzata nel Capitale), a partire dalla quale si è sviluppato il
movimento comunista, e le non meno antinomiche péripéties del potere di
Stato comunista, culminate nel cul de sac della Rivoluzione culturale cinese.
Una volta preso il comando, il nuovo potere si confronta con l’immenso
compito di organizzare una nuova società. Pensiamo allo scambio di battute
fra Lenin e Trockij alla vigilia della Rivoluzione d’Ottobre: Lenin disse:
«Cosa ci succederà se falliamo?» e Trockij rispose: «E cosa ci succederà se
riusciamo?».
Oggi siamo bloccati su questa domanda. Il presente saggio prova a
confrontarsi con essa in tre atti tragici più un quarto, una sorta di
supplemento comico. La premessa del saggio è che oggi, più che mai,
dovremmo attenerci all’indicazione marxista di base: il comunismo non è un
ideale, un ordine normativo, una sorta di «assioma» etico-politico, ma
qualcosa che sorge come reazione al corrente processo storico e ai suoi vicoli
ciechi. Nel lontano 1985, Félix Guattari e Toni Negri hanno pubblicato un
piccolo libro in francese intitolato Les nouveaux espaces de liberté, che in
inglese è diventato Communists Like Us (Semiotexte, Los Angeles 1990); 7 in
modo del tutto non intenzionale, questo titolo suggerisce l’imminente
«classizzazione» medio-alta dell’idea comunista, che ha fatto un modesto
ritorno sulle scene come slogan per alcuni agiati accademici che non hanno
nulla a che vedere con i poveri veri e gli sfruttati. I nuovi comunisti sono
«come noi», colti accademici culturalmente di sinistra; non c’è nessuna
radicale trasformazione soggettiva in ballo. Il «comunismo» diventa un’isola
dalla quale ognuno «sottrae» sé stesso; un esempio di ciò che potremmo
chiamare «opportunismo di principio», ovvero aderire fedelmente a concetti
astratti «radicali» come modo per rimanere «puri», evitando «compromessi»,
anche perché si evita anche un qualunque coinvolgimento diretto nella
politica reale.
Dunque, quando diciamo che l’idea del comunismo continua ad avere una
sua rilevanza (o irrilevanza, se è per questo), non dovremmo pensare a
un’idea regolativa in senso kantiano, ma in senso strettamente hegeliano; per
Hegel, «idea» è un concetto che non è un mero dover-essere (Sollen), ma
contiene anche il potere della sua realizzazione. Il problema della realtà
dell’idea del comunismo è dunque quella di distinguere nella nostra realtà
tendenze che puntano in quella direzione, altrimenti è un’idea su cui non vale
la pena perdere tempo.
Capitolo primo
Lo stato delle cose

Il mondo sottosopra del capitalismo globale


Per cambiare davvero le cose, bisognerebbe ammettere che, all’interno del
sistema esistente, niente può esser davvero cambiato. Jean-Luc Godard ha
dato voce al motto «Ne change rien pour que tout soit différent» («non
cambiare niente perché tutto sia diverso»), un’altra versione di «devono
cambiare alcune cose perché tutto rimanga uguale». Nella nostra dinamica
consumistica tardo-capitalista siamo continuamente bombardati da nuovi
prodotti, ma questo cambiamento costante sta diventando sempre più
monotono. Quando il sistema può essere conservato solo tramite una continua
autorivoluzione, coloro che si rifiutano di cambiare qualunque cosa diventano
in effetti gli agenti del vero cambiamento: un cambiamento nel principio
stesso del cambiamento.
O, per dirla in un altro modo, il vero cambiamento non è solo il
rovesciamento del vecchio ordine ma, soprattutto, stabilirne uno nuovo.
Louis Althusser una volta improvvisò una tipologia di leader rivoluzionari
che rispettassero la classificazione degli uomini fatta da Kierkegaard in
ufficiali, cameriere e spazzacamini: coloro che citano i proverbi, coloro che
non li citano, e coloro che ne inventano di nuovi. I primi sono dei furfanti
(ciò che pensava Althusser di Stalin), i secondi sono grandi rivoluzionari
destinati a fallire (Robespierre); solo i terzi comprendono la vera natura di
una rivoluzione e hanno successo (Lenin, Mao). Questa triade rispecchia tre
modi diversi di relazionarsi con il grande Altro (la sostanza simbolica, il
regno delle abitudini e della saggezza non scritte ed espresse al meglio nella
stupidità dei proverbi). I furfanti semplicemente re-iscrivono la rivoluzione
nella tradizione ideologica della loro nazione (per Stalin, l’Unione Sovietica
rappresentava l’ultima fase dello sviluppo progressivo della Russia). I
rivoluzionari radicali come Robespierre falliscono perché, semplicemente,
mettono in atto una frattura con il passato senza riuscire nell’intento di far
rispettare una nuova serie di abitudini (pensiamo al sommo fallimento
dell’idea di Robespierre di sostituire la religione con il nuovo culto
dell’Essere Supremo). Leader come Lenin e Mao hanno avuto successo
(almeno per un certo tempo) perché hanno inventato nuovi proverbi, nel
senso che hanno imposto nuove abitudini che regolavano la vita quotidiana.
Uno dei migliori goldwynismi racconta di come, dopo che venne a sapere che
molti critici lamentavano che i suoi film fossero pieni di vecchi cliché, Sam
Goldwyn scrisse una nota per il suo dipartimento di sceneggiatori: «Abbiamo
bisogno di un maggior numero di nuovi cliché!». Aveva ragione, e si tratta
del compito più difficile per una rivoluzione: creare nuovi cliché per la vita
quotidiana delle persone qualunque.
Dovremmo qui fare un passo ulteriore. Il compito della sinistra non è solo
quello di proporre un nuovo ordine, ma anche di cambiare la prospettiva di
ciò che appare possibile. Il paradosso della nostra difficile situazione è
dunque che, mentre la resistenza al capitalismo globale apparentemente non
fa altro che fallire nel fermarne l’avanzata, fallisce anche nel riconoscere le
numerose tendenze che indicano chiaramente la progressiva disintegrazione
del capitalismo. È come se le due tendenze (resistenza e auto-disintegrazione)
si muovessero su due livelli diversi e non si potessero incontrare, così
abbiamo futili proteste e allo stesso tempio un declino immanente, e non c’è
modo di metterli assieme in un tentativo coordinato di emancipazione dal
mondo dal capitalismo. Ma come siamo arrivati a questo? Mentre la maggior
parte della sinistra tenta disperatamente di proteggere i diritti dei lavoratori
dai violenti attacchi del capitalismo globale, sono quasi esclusivamente gli
stessi capitalisti più «progressisti» (da Elon Musk a Mark Zuckerberg) che
parlano di post-capitalismo, come se proprio del concetto di passaggio dal
capitalismo come lo conosciamo a un nuovo ordine post-capitalista si
appropriasse il capitalismo stesso.
In un’intervista uscita nel novembre 2017 su The Atlantic, Bill Gates ha
affermato che il capitalismo non sta funzionando, e che il socialismo è l’unica
speranza che abbiamo per salvare il pianeta. Il suo ragionamento si basa su
un semplice calcolo ecologico: se vogliamo evitare una catastrofe globale
dobbiamo ridurre drasticamente l’uso dei combustibili fossili, ma il settore
privato è troppo egoista per produrre delle alternative pulite ed economiche,
dunque l’umanità deve agire al di fuori delle forze di mercato. Gates stesso ha
annunciato l’intenzione di investire di tasca propria due miliardi di dollari
sull’energia verde, pur non essendoci una prospettiva di guadagno, e ha
chiamato a raccolta altri miliardari per contribuire a liberare gli Stati Uniti dai
combustibili fossili entro il 2050 con simili gesti di filantropia. 1 Da una
posizione di sinistra ortodossa, è facile farsi beffe dell’ingenuità della
proposta di Gates. Rimproveri che possono anche essere giusti, ma che
pongono la seguente questione: cosa sta proponendo, di realistico, la sinistra,
rispetto a quello che dovremmo fare? Le parole, nei dibattiti pubblici,
contano: anche se ciò di cui parla Gates non è «vero socialismo», parla però
dei gravi limiti del capitalismo; e, di nuovo, i sedicenti socialisti dei nostri
tempi hanno davvero un’idea seria di ciò che dovrebbe essere oggi il
socialismo?
Il tipico rimprovero mosso dalla sinistra radicale alle esperienze della
sinistra al potere è che, invece di collettivizzare davvero la produzione e
attuare una democrazia reale, essa è rimasta all’interno dei confini delle
politiche convenzionali della sinistra (nazionalizzando i mezzi di produzione
o tollerando il capitalismo in modo socialdemocratico, imponendo una
dittatura autoritaria o giocando al gioco della democrazia parlamentare).
Forse è arrivato il momento di porsi la domanda secca: ok, ma cos’altro
avrebbero dovuto o potuto fare? Come sarebbe stato, nella pratica, un
modello autentico di democrazia socialista? Questo sacro Graal – un potere
rivoluzionario che evita tutte le trappole (stalinismo, socialdemocrazia) e
sviluppa un’autentica democrazia delle persone in termini di società ed
economia – non è forse un’entità puramente immaginaria, che per definizione
non può essere riempita di un contenuto reale?
Hugo Chávez, presidente del Venezuela dal 1999 al 2013, non era solo un
populista che ha buttato via i soldi derivanti dal petrolio. Ampiamente
ignorati dai media internazionali sono gli sforzi complessi e spesso incoerenti
di superamento di un’economia capitalista, sperimentando nuovi modi di
organizzazione della produzione, e tentando di superare l’alternativa
proprietà privata o statale: cooperative di contadini e lavoratori,
partecipazione dei lavoratori, controllo e organizzazione della produzione,
varie forme ibride tra proprietà privata e controllo e organizzazione sociale, e
così via. Industrie inutilizzate dai proprietari possono essere date in mano ai
lavoratori, ad esempio. È un percorso pieno di alti e bassi: ad esempio, dopo
diversi tentativi, il progetto che prevedeva di cedere industrie nazionalizzate
ai lavoratori, attraverso una distribuzione delle azioni, è stato abbandonato.
Sebbene esistano tentativi sinceri di integrare le iniziative dal basso con
proposte statali, bisogna anche tenere conto dei numerosi fallimenti
economici, delle inefficienze e della diffusa corruzione. Di solito accade che,
dopo sei mesi pieni di entusiasmo, le cose comincino ad andare a rotoli. Nei
primi anni del chávismo, ci trovavamo evidentemente davanti a una diffusa
mobilitazione popolare. Tuttavia, resta un grande interrogativo: in che modo
questa fiducia nell’auto-organizzazione del popolo ricade o dovrebbe ricadere
sul governo? È possibile immaginare ancora oggi un autentico potere
comunista? I risultati che abbiamo ottenuto sono stati il disastro (Venezuela),
la capitolazione (Grecia) o il pieno ritorno al capitalismo (Cina, Vietnam).
In Cina, i tentativi ufficiali di definizione di una teoria sociale marxista
cercano di tracciare un quadro del mondo contemporaneo che, per dirla in
modo semplice, rimane in fin dei conti lo stesso degli anni della Guerra
fredda: lo scontro su scala mondiale tra capitalismo e socialismo va avanti
senza tregua, il fiasco del 1990 è stato solo una battuta d’arresto temporanea,
tanto che oggi i principali contendenti non sono più Stati Uniti e Russia ma
Stati Uniti e Cina, che rimane un paese socialista. L’esplosione del
capitalismo in Cina viene letta come un caso esemplare di ciò che nella prima
Unione Sovietica veniva chiamato Nuova Politica Economica, dunque quello
che si verifica in Cina è un nuovo «socialismo con caratteristiche con cinesi»,
ma ancora socialismo: il Partito Comunista rimane al potere, controlla
strettamente le forze di mercato e le dirige. Da questo punto di vista, il
successo economico della Cina degli ultimi decenni viene interpretato come
la dimostrazione non del potenziale produttivo del capitalismo, ma della
superiorità del socialismo sul capitalismo. Per supportare questa lettura, che
prende in considerazione anche il Vietnam, il Venezuela, Cuba e addirittura
la Russia come Stati socialisti, bisogna dare al nuovo socialismo una svolta in
senso decisamente conservatore dal punto di vista sociale. E non è questa
l’unica ragione per cui la riabilitazione del socialismo è palesemente non-
marxista, poiché ignora completamente il fondamento di base del marxismo
secondo il quale il capitalismo si definisce a partire dalle relazioni capitaliste
di produzione, non dal tipo di potere statale. 2
Tutti coloro che si fanno ancora qualche illusione su Putin, dovrebbero
ricordare che ha scelto come filosofo ufficiale tale Ivan Ilyin, un teologo
politico russo che, dopo essere stato espulso dall’Unione Sovietica all’inizio
degli anni Venti sulla famosa «nave dei filosofi», affermava, andando contro
sia al bolscevismo sia al liberalismo occidentale, una propria versione di
fascismo russo: lo Stato come comunità organica guidata da un monarca
benevolo. Dobbiamo tuttavia ammettere che esiste una parziale verità in
questa posizione cinese: persino nel capitalismo più selvaggio, chi controlla
gli apparati statali conta qualcosa. Sia il marxismo classico sia l’ideologia del
neoliberalismo tendono a ridurre lo Stato a un meccanismo secondario che
risponde ai bisogni della riproduzione del capitale; entrambi quindi
sottovalutano il ruolo attivo svolto dagli apparati statali nei processi
economici. È sbagliato, oggi, feticizzare il capitalismo come grande lupo
cattivo che controlla gli Stati: gli apparati statali sono attivi proprio al cuore
dei processi economici, e fanno molto di più che semplicemente garantire
condizioni legali e non solo (educative, ecologiche) della riproduzione del
capitale. Sotto molte forme diverse, lo Stato è attivo come agente economico
diretto (aiuta le banche in fallimento, sostiene alcune industrie selezionate,
organizza la difesa e altri equipaggiamenti); negli Stati Uniti, oggi, circa il
50% per cento della produzione viene mediata dallo Stato (un secolo fa
questa percentuale si attestava fra il 5 e il 10%). I marxisti avrebbero dovuto
imparare questa lezione dal socialismo di Stato, in cui lo Stato era un agente
economico diretto e un regolatore, così che, qualunque cosa fosse, si trattava
di uno Stato senza una classe capitalista; alcuni studiosi marxisti usano per
definirlo il termine sospetto di «capitalismo di Stato». Ma se è possibile avere
uno Stato capitalista senza i capitalisti in quanto classe, fino a che punto
possiamo immaginare uno Stato non capitalista con i capitalisti che rivestono
un ruolo chiave nell’economia? Se il modello cinese è certamente inadeguato,
nel suo mettere insieme esplosive disuguaglianze sociali con uno Stato
autoritario forte, dovremmo comunque non escludere a priori la possibilità di
uno Stato forte non capitalista che ricorra a elementi del capitalismo in alcuni
degli ambiti della vita sociale. È possibile accettare alcuni elementi del
capitalismo senza permettere che la logica del capitale diventi il principio che
sovradetermina la totalità sociale.
Come ha scritto Julia Buxton, la rivoluzione boliviana «ha trasformato le
relazioni sociali nel Venezuela e ha avuto un enorme impatto su tutto il
continente. Ma la tragedia sta nel fatto che non è mai stata adeguatamente
istituzionalizzata dimostrando così di essere insostenibile». 3 Ok, ma come la
si può istituzionalizzare in modo autentico? È fin troppo semplice dire che le
politiche autenticamente emancipatorie dovrebbero tenersi a una certa
distanza dallo Stato; il problema fondamentale è cosa farne di quello Stato. È
possibile immaginare addirittura una società al di fuori dello Stato? Sono
problemi che dobbiamo affrontare qui e ora: non c’è tempo per aspettare
soluzioni future e, nel frattempo, tenerci a una distanza di sicurezza dallo
Stato. In altre parole, perché non c’era una sinistra venezuelana a proporre
un’alternativa autenticamente radicale a Chávez e Maduro? Perché
l’iniziativa dell’opposizione a Chávez è stata lasciata all’estrema destra, che
ha egemonizzato trionfalmente la battaglia di opposizione, affermando di
essere la voce delle persone comuni che subivano le conseguenze della
cattiva gestione economica di Chávez?
All’inizio del marzo 2018, una piccola notizia è passata quasi inosservata
in mezzo ai «grandi» eventi: in Sudafrica, il partito al potere (il Congresso
Nazionale Africano) ha deciso di espropriare i contadini bianchi delle loro
terre senza alcuna compensazione. Questa scelta, una volta messa in atto,
metterà nuovamente la sinistra davanti a un grande dilemma. Ovviamente, in
qualche modo è necessario intervenire, dal momento che, come conseguenza
dell’apartheid, la minoranza bianca possiede ancora la maggioranza delle
terre coltivabili. In ogni caso, come potrà realizzarsi tale provvedimento
senza causare un’altra catastrofe economica sul modello dello Zimbabwe?
Essa diventerebbe un’arma nelle mani dell’opinione pubblica liberale
secondo la quale i neri non possono davvero guidare l’economia, e
screditerebbe inoltre su larga scala le azioni radicali di sinistra.
In breve: e se invece la ricerca di un’autentica Terza via, al di là della
socialdemocrazia, che non arriva molto in là, e del «totalitarismo», che va
troppo in là, fosse una perdita di tempo? La strategia della sinistra radicale è
quella di cercare di dimostrare, con grande sofisticazione teorica, che la
radicalizzazione «totalitaria» nasconde in realtà il suo opposto: lo stalinismo
era in realtà una forma di capitalismo di Stato, e così via. Nel caso del
Venezuela, la sinistra radicale attribuisce il fiasco del chávismo al suo essersi
compromesso con il capitalismo, non solo affondando nella corruzione ma
scendendo a patti con i grandi gruppi internazionali per sfruttare le risorse
naturali del Venezuela. Di nuovo, in linea di principio questo è vero, ma cosa
avrebbe dovuto fare il governo? In Bolivia, il governo Morales-Linera non è
caduto in questi tranelli, ma cos’ha fatto oltre a rimanere all’interno dei
confini di una forma di politica «democratica» più modesta?
Forse, per uscire da questo vicolo cieco, il primo passo dovrebbe essere
quello di abbandonare la nostra ossessione per il progresso e, al contrario,
concentrarci su ciò che è rimasto indietro, escluso – dagli dei e dal mercato.
Negli ultimi decenni nella narrativa popolare è emerso un tema inusuale, dal
livello più basso del trash fondamentalista (Tim LaHaye et consortes) alle
serie tv (Leftovers): il tema degli «esclusi». L’Armageddon sta arrivando, Dio
ha preso con sé i privilegiati per salvarli dagli orrori a venire. Ma cosa
succede se proponiamo una volgare lettura economica del successo popolare
di questo tema? Come accade spesso, sembra che Dio in persona abbia dato
ascolto alla voce del capitale, per cui la questione degli esclusi è legata alla
nostra complessa situazione economica nel capitalismo globale. Gli «esclusi»
sono forse, e per certo, solo coloro che non sono stati capaci di inserirsi nel
flusso dei rifugiati e sono dovuti rimanere nel caos dei loro paesi?
La maggior parte dei rifugiati non vuole vivere in Europa, vuole avere una
vita decente nel paese di provenienza. Invece che lavorare in questa
direzione, le potenze occidentali trattano il problema come «crisi
umanitarie», i cui due estremi sono l’ospitalità e il timore di perdere il proprio
stile di vita. In questo modo si crea un antagonismo pseudo-«culturale» fra i
rifugiati e gli strati più bassi della popolazione locale, rendendoli parte di un
conflitto che trasforma una battaglia politico-economica in uno «scontro di
civiltà».
Sarebbe bene evitare qualunque semplicistica romanticizzazione dei
rifugiati. Alcuni esponenti della sinistra europea affermano che i rifugiati
sono un proletariato nomade che può operare come il cuore di un nuovo
movimento rivoluzionario europeo, affermazione profondamente
problematica. Il proletariato, per Marx, è composto da lavoratori sfruttati
disciplinati attraverso il lavoro e creatori di ricchezza e, mentre il precariato
odierno può valere come una nuova forma di proletariato, il paradosso dei
rifugiati è che sono i primi a voler diventare proletariato. Non sono «nulla»,
non hanno alcun posto all’interno della gerarchia sociale del paese in cui
sono accolti; ma da qui a diventare un proletariato in senso strettamente
marxista il passo è lungo. Per cui, invece di celebrare i rifugiati come
proletari nomadi, non sarebbe più giusto affermare che sono la parte più
dinamica e ambiziosa della popolazione dei loro paesi, coloro che hanno la
volontà di riuscire, e che i veri proletari sono piuttosto quelli che sono rimasti
e sono stati esclusi in quanto stranieri nel loro stesso paese (con tutte le
connotazioni religiose del termine: «esclusi», coloro che non hanno raggiunto
Dio nell’estasi).
La tendenza del capitalismo globale è quella di fare dell’80% di noi degli
«esclusi». Un secolo fa, Vilfredo Pareto è stato il primo a identificare la
cosiddetta legge 80/20: l’80% delle terre è posseduta dal 20% delle persone,
l’80% dei profitti sono prodotti dal 20% dei dipendenti, l’80% delle decisioni
vengono prese nel 20% del tempo in cui dura una riunione, l’80% dei link sul
web rimandano a meno del 20% delle pagine web, l’80% dei piselli sono
prodotti dal 20% dei baccelli. Come hanno suggerito alcuni sociologi ed
economisti, l’odierna esplosione della produttività economica ci mette
davanti alla dimostrazione definitiva di questa legge: l’attuale economia
globale tende verso una condizione in cui solo il 20% della forza lavoro può
svolgere tutto il lavoro necessario, così che il restante 80% delle persone è di
fatto irrilevante e di nessuna utilità, potenziale disoccupato. Nel momento in
cui questa logica raggiunge il suo punto più estremo, non sarebbe forse
ragionevole ridurla alla sua stessa autonegazione: un sistema che rende l’80%
delle persone irrilevanti e inutili non è forse lui stesso irrilevante e inutile? Il
problema è dunque, primariamente, non che stia emergendo un nuovo
proletariato globale, ma qualcosa di molto più radicale: miliardi di persone
semplicemente non sono necessari, neppure le fabbriche che sfruttano i
lavoratori riescono ad assorbirli. Questo aspetto viene trascurato dalle
politiche di sinistra, che si sono ormai ridotte a combattere per conservare ciò
resta, e sta velocemente scomparendo, del welfare state; ma nella devastante
politica economica attuale si tratta di una battaglia persa. Persa non solo per
la presenza dell’élite finanziaria che trae profitto dalla sua perdita, ma perché
questa stessa élite finanziaria può fare affidamento sul crescente esercito di
coloro che non hanno nemmeno mai avuto accesso ad alcuno di questi
«benefici» e, al contrario, li denunciano in quanto privilegi (i giovani, i
lavoratori precari). 4
La battaglia per conservare i benefici del vecchio welfare state è dunque,
in fin dei conti, quella della classe lavoratrice stabile contro i nuovi elementi
marginali iper-sfruttati (lavoratori precari, nuovi schiavi, ecc.), che non hanno
mai goduto di questi benefici. Il marxista italiano Toni Negri una volta
rilasciò un’intervista durante una passeggiata in una strada periferica di
Mestre; la telecamera del giornalista lo coglie mentre supera una fila di
lavoratori che stavano manifestando contro la chiusura di un’industria tessile.
Negri indica i lavoratori e osserva in modo sprezzante: «Guardateli! Non
sanno di essere già morti!». Per Negri, questi lavoratori rappresentano tutto
quanto c’è di sbagliato nel tradizionale socialismo sindacalista, tutto
concentrato sulla sicurezza del lavoro aziendale, un socialismo
impietosamente reso obsoleto dalle dinamiche del capitalismo
«postmoderno», con la sua egemonia del lavoro intellettuale. Invece di
reagire a questo nuovo «spirito del capitalismo» nel modo della
socialdemocrazia tradizionale, vedendolo come una minaccia, Negri afferma
che bisognerebbe invece sposarlo del tutto, riconoscendo in esso, nelle
dinamiche del lavoro intellettuale e della sua interazione sociale non
gerarchica e non centralizzata, i germi del comunismo. Se portiamo questa
logica fino alla sua conclusione, non possiamo che essere d’accordo con chi
afferma cinicamente che, oggi, il compito principale dei sindacati dovrebbe
essere quello di rieducare i lavoratori in modo da permettere loro di adattarsi
alla nuova economia digitale. Il problema, nella posizione di Negri, sta nel
suo uso del concetto spinoziano di moltitudine: piuttosto che accettare i suoi
entusiastici esempi (e quelli di Michael Hardt), dovremmo ricordare l’ultima
scena (nella versione originale del 1827) del Boris Godunov di Musorgskij in
cui, in una foresta nei pressi di Kromy, una folla celebra la caduta dello zar.
Ecco la descrizione (presa senza vergogna da Wikipedia):
Una musica tempestosa accompagna l’entrata di un nutrito gruppo di vagabondi
che hanno catturato il boiardo Chruščov. La folla si piega al suo cospetto in un
omaggio irriverente (Non è un falco che vola sopra il cielo). Uno Jurodivyj
(Innocente) entra in scena, seguito da alcuni monelli, e canta una canzone senza
senso alla luna, ai bambini che piangono. I monelli lo perseguitano colpendo
ripetutamente il suo cappello di metallo. L’Innocente ha una copeca, che i ragazzini
gli sottraggono: per questo inizia a gemere pateticamente. Varlaam e Misail
ascoltano a debita distanza i canti sui crimini commessi da Boris e dai suoi seguaci
prima di entrare in scena. La folla sta tentando una congiura (Un coraggio ardito
sorge e si diffonde) tesa a denunciare Boris. Due gesuiti vengono sentiti a distanza
cantare in latino, pregando il loro Dio che salvi Dmitrij, poi entrano in scena ed i
vagabondi si preparano a giustiziarli sommariamente impiccandoli, e fanno appello
alla Vergine Santa per avere aiuto. Una processione di araldi annuncia l’arrivo
dell’esercito di Dmitrij. Varlaam e Misail lo glorificano (Gloria allo zarevic!)
insieme alla folla. Il pretendente richiama e fa spostare da un lato tutti i perseguitati
da Boris Godunov, libera il boiardo Chruščov e continua la sua marcia verso
Mosca. Mentre la folla si allontana, l’Innocente è l’unico a rimanere cantando una
canzone struggente (Sgorgate, sgorgate, lacrime amare!) sull’arrivo del nemico,
delle tenebre oscure e impenetrabili e del dolore che sta per abbattersi sulla Russia.

In questo caotico mescolarsi di voci (credenti ortodossi, emissari cattolici,


il pretendente Dmitrij e i suoi sostenitori, un boiardo spaventato, dei bambini
sadicamente scherzosi), la compassione si unisce all’opportunismo,
l’innocenza alla corruzione, la passione per la libertà alla sorda
manipolazione. Siamo, qui, quanto più lontano possibile da qualunque
affermazione di una volontà popolare emancipatoria; ciò che si intravede
sullo sfondo è un’oscurità impenetrabile. Ma che dire della visione opposta?
Fino a quando le dinamiche del nuovo capitalismo renderanno superflua una
percentuale sempre crescente di lavoratori, che dire del progetto di riunire
tutti i «morti viventi» del capitalismo globale, tutti gli esclusi dal «progresso»
neocapitalista, tutti coloro resi superflui, obsoleti, tutti coloro che non sono in
grado di adattarsi a nuove condizioni? La scommessa è, ovviamente, quella di
poter creare un corto-circuito diretto fra questi esclusi della storia e gli aspetti
più progressisti della storia stessa. 5
I liberal che riconoscono il problema degli esclusi dal processo
sociopolitico hanno come scopo l’inclusione di coloro le cui voci non trovano
ascolto: tutti i punti di vista devono essere ascoltati, tutti gli interessi presi in
considerazione, i diritti umani di ciascuno garantiti, tutti i modi di vita, le
culture e le pratiche devono essere rispettati. L’ossessione di questa forma di
democrazia è la protezione di ogni genere di minoranza: culturale, religiosa,
sessuale, ecc. La democrazia adotta qui la formula della paziente
negoziazione e del compromesso. Ciò che va perduto è la posizione del
proletario, quella dell’universalità incarnata nell’escluso. Per questo motivo,
a guardare bene, diventa chiaro che l’inclusione liberale non era ciò a cui
mirava Chávez: non stava accogliendo gli esclusi dalla preesistente cornice
liberal-democratica ma stava, al contrario, prendendoli, gli «esclusi» abitanti
delle favelas, come sua base, e riorganizzando la politica attorno a loro. Per
quanto possa apparire pedante e astratta, questa differenza, quella fra
«democrazia borghese» e «dittatura del proletariato», è fondamentale.
La vera scelta, dunque, sta fra due posizioni: dobbiamo continuare a
giocare al gioco del prendersi cura degli esclusi, o dobbiamo invece
affrontare il compito ben più difficile del cambiamento del sistema globale
che li genera? Senza un tale cambiamento, la nostra situazione sarà sempre
più irrazionale. Per orientarci in questo vicolo cieco, dovremmo essere
consapevoli dei gravi limiti della politica degli interessi. Partiti come Die
Linke in Germania rappresentano gli interessi della classe lavoratrice che
costituisce il loro elettorato: migliore assistenza sanitaria e modalità di
pensionamento, stipendi più alti, e così via; questo li colloca automaticamente
all’interno dei confini del sistema esistente, e il loro scopo non è dunque
quello dell’emancipazione autentica. Non si devono seguire semplicemente
gli interessi; essi devono essere ridefiniti per accogliere idee che non possono
essere ridotte a semplici interessi. 6 Per questo motivo ci troviamo
continuamente davanti al paradosso delle destre populiste che, quando
arrivano al potere, a volte mettono in atto delle misure che stanno dalla parte
degli interessi dei lavoratori, come nel caso della Polonia, dove
il PIS (Diritto e Giustizia, il partito della destra populista al potere) si è trasformato
da nullità ideologica in un partito che ha saputo introdurre cambiamenti scioccanti
con velocità ed efficienza eccezionali [...] ha messo in atto i più consistenti aiuti
sociali della storia della Polonia contemporanea. I genitori ricevono 500 złoty (120
dollari) al mese per ogni figlio dopo il primo, o per tutti i bambini nel caso di
famiglie più povere (il reddito medio mensile è di circa 2.900 złoty, ma più dei due
terzi dei polacchi guadagna di meno). Di conseguenza, il tasso di povertà si è
abbassato del 20-40%, e del 70-90% fra i bambini. L’elenco prosegue: nel 2016, il
governo ha introdotto le cure mediche gratuite per i cittadini sopra i 75 anni. Lo
stipendio minimo al momento supera quello indicato dai sindacati. L’età di
pensionamento è stata ridotta da 67 anni per uomini e donne a 60 per le donne e 65
per gli uomini. Il governo sta inoltre progettando un alleggerimento delle tasse per i
contribuenti più poveri. 7

Il PIS rappresenta ciò che anche Marie Le Pen prometteva di fare in


Francia: una combinazione di misure anti-austerità – benefici sociali che
nessun partito di sinistra osa prendere in considerazione – più la garanzia di
ordine e sicurezza che afferma l’identità nazionale e promette di affrontare la
minaccia dell’immigrazione. Chi può combattere questa combinazione, che fa
direttamente appello alle massime preoccupazioni della gente comune?
Possiamo intravedere all’orizzonte una strana e perversa situazione in cui la
«sinistra» ufficiale rafforza le politiche di austerità (invocando allo stesso
tempo i diritti multiculturali), mentre la destra populista incrementa le
politiche anti-austerità per aiutare i poveri (seguendo un programma
xenofobo e nazionalista); il più recente esempio di ciò che Hegel ha descritto
come «die verkehrte Welt», il mondo alla rovescia.

Il capitalismo virtuale e la fine della natura


Anche se Marx ci ha dato un’analisi insuperabile della riproduzione
capitalista, il suo errore non è stato solo quello di credere nel collasso finale
del capitalismo, non vedendo dunque il modo in cui il capitalismo emerge
rafforzato da ogni crisi; ha fatto un errore ancora più fondamentale. Il
marxismo è stato descritto con precisione da Wolfgang Streeck: il marxismo
aveva ragione sulla «crisi finale» del capitalismo, nella quale stiamo
certamente entrando di questi tempi; ma questa crisi è esattamente quella di
un prolungato processo di decadimento e disintegrazione senza alcuna
Aufhebung all’orizzonte, nessun agente che dia a questo decadere una
funzione positiva e lo renda una sorta di mezzo per raggiungere un livello più
alto di organizzazione sociale:
È un pregiudizio marxista – o meglio, modernista – che il capitalismo come epoca
storica finirà solo quando si vedrà all’orizzonte una società nuova e migliore, e un
soggetto rivoluzionario pronto a migliorarla per far avanzare l’umanità. Il che
presuppone un livello di controllo politico sul nostro comune destino che, nella
rivoluzione neoliberale globale, non possiamo neppure sognare dopo la distruzione
delle agenzie collettive e dunque di tale speranza. 8

Streeck elenca numerosi segni di questo decadimento: indici di profitto più


bassi, aumento della corruzione e della violenza, finanziarizzazione (profitto
tratto da operazioni finanziare commerciali parassitarie rispetto al valore di
produzione). Il paradosso delle politiche finanziarie di Stati Uniti e Unione
Europea è che enormi contributi di denaro non riescono ad attivare la
produzione, dal momento che per la maggior parte spariscono nelle
operazioni del capitale fittizio. Questo è il motivo per cui si dovrebbe
respingere l’interpretazione liberale standard di Hayek dell’esplosione del
debito (i costi di mantenimento del welfare state): i dati dimostrano
chiaramente che la maggior parte di esso se ne va per alimentare il capitale
finanziario e i suoi profitti.
Questo decadimento presenta un’altra conseguenza inattesa. Rebecca
Carson ha dimostrato di recente come la finanziarizzazione del capitale (in
cui la maggior parte del profitto viene generato in D-D, lo scambio del denaro
per il denaro, senza fondarsi sulla valorizzazione [Verwertung] della forza
lavoro, che produce plusvalore) paradossalmente porta al ritorno di relazioni
di dominio dirette e personali; 9 e in modo sorprendente, dal momento che,
come ha sottolineato Marx, D-D è il capitale nella sua forma più impersonale
e astratta. È fondamentale qui cogliere il collegamento fra tre elementi: il
capitale fittizio, il dominio personale e la riproduzione sociale della forza
lavoro. La speculazione finanziaria avviene prima della valorizzazione;
consiste prevalentemente in operazioni di credito e investimenti di
speculazione in cui non viene speso ancora nessun denaro in investimenti
reali o nella produzione. Credito significa debito, dunque i soggetti di questa
operazione (non solo individui, ma banche e istituzioni che gestiscono il
denaro) non sono coinvolti nel processo semplicemente in quanto soggetti
della forma-valore, ma sono anche creditori e debitori e in quanto tali sono
anche parte di un’altra forma di relazione di potere che non si basa sul
dominio astratto della mercificazione:
Quindi, la particolare relazione di potere coinvolta nelle operazioni di credito ha
una dimensione personale di dipendenza (credito-debito) che si differenzia dal
dominio astratto. Questa relazione di potere personale, in ogni caso, avviene
proprio attraverso il processo di scambio descritto in termini astratti da Marx come
completamente impersonale e formale dal momento che le relazioni sociali delle
operazioni di credito sono costruite sulle relazioni sociali della forma-valore.
Dunque il fenomeno delle forme personali di dipendenza che vengono allo scoperto
attraverso la sospensione della valorizzazione con il capitale fittizio non significa
che le forme astratte di dominio non siano altrettanto presenti. 10

La dinamica di potere implicata dal capitale fittizio non è una dicotomia


netta fra gli agenti: mentre il dominio personale per definizione avviene a
livello di interazione diretta, i debitori sono in massima parte non individui
ma banche e fondi di investimento che speculano sulla produzione futura. E,
in effetti, le operazioni del capitale fittizio non vengono forse svolte sempre
più senza alcun intervento diretto, ovvero, semplicemente da computer
programmati ad hoc? In ogni caso, queste operazioni in qualche modo
devono essere ritradotte in relazioni personali, e qui l’astrazione appare come
dominio personale. Se il capitale è finanziarizzato e sempre più fittizio, così
che le relazioni personali sono sempre meno mediate dalla mercificazione,
cosa accade allora a queste relazioni? C’è solo una via d’uscita: da qualche
parte devono spuntare di nuovo fuori le relazioni di dominio diretto.
Coloro che non sono soggetti a una diretta mercificazione ma che rivestono
un ruolo cruciale nella riproduzione della forza lavoro sono anche coinvolti
dalla crescente dipendenza dalla valorizzazione futura che ci si aspetta dalla
circolazione del capitale fittizio: il capitale fittizio viene sostenuto
dall’aspettativa di una valorizzazione in arrivo, dunque la riproduzione della
forza lavoro viene messa sotto pressione in modo che coloro che non faticano
nel presente siano pronti a faticare in futuro. Per questo motivo il tema
dell’educazione (nella sua versione produttivo-tecnocratica: essere pronti per
il competitivo mercato del lavoro) è oggi così importante, ed è anche
intrecciato a quello del debito: uno studente fa dei debiti per pagarsi
l’istruzione, e ci si aspetta che questo debito venga restituito attraverso l’auto-
mercificazione, ovvero, quando lo studente trova un lavoro. L’educazione è
anche uno dei temi fondamentali rispetto al discorso dei rifugiati: come
renderli una forza lavoro utile?
Dal momento che, nella nostra società, la libera scelta viene elevata a
valore supremo, il controllo e il dominio sociale non possono più mostrarsi
mentre invadono la libertà del soggetto; devono apparire proprio come (ed
essere sostenuti da) l’esperienza degli individui in quanto esseri liberi. Ci
sono molteplici modi in cui questa non-libertà appare sotto forma del suo
opposto: quando siamo privati dell’assistenza sanitaria universale, dicono che
ci stanno dando una nuova libertà di scelta (di scegliere chi provvede alla
nostra salute); quando non possiamo più fare affidamento su un impiego a
tempo determinato e siamo obbligati a cercare un lavoro nuovo e precario
ogni due anni, dicono che abbiamo l’opportunità di reinventarci e scoprire
nuovi e inattesi potenziali creativi nascosti nella nostra personalità; quando
dobbiamo pagare per l’istruzione dei nostri figli, ci dicono che diventiamo
«imprenditori di noi stessi», che agiamo come capitalisti che scelgono
liberamente come investire le risorse che possiedono (o che hanno chiesto in
prestito) nell’educazione, nella salute, nei viaggi... Costantemente bombardati
dalle cosiddette «libere scelte», obbligati a fare delle scelte per la maggior
parte delle quali non siamo neppure adeguatamente qualificati (o rispetto alle
quali non abbiamo informazioni sufficienti), sperimentiamo sempre di più la
nostra libertà per quello che effettivamente è: un peso che ci priva della vera
scelta del cambiamento. La società borghese di solito cancella le caste e altre
forme di gerarchia, mettendo tutti gli individui sullo stesso piano in quanto
soggetti del mercato, distinti solo da differenze di classe; ma il tardo
capitalismo odierno, con la sua ideologia «spontanea», si sforza di cancellare
la distinzione di classe stessa proclamandoci tutti «imprenditori di noi stessi»,
lasciando che le differenze fra di noi siano meramente quantitative (un grande
capitalista prende in prestito centinaia di miliardi di dollari per i suoi
investimenti, un povero lavoratore duemila per migliorare la sua formazione).
Anche l’assai celebrato «Commons collaborativo» svolge qui la sua parte.
Marx ha sempre sottolineato che lo scambio fra lavoratore e capitalista è
«giusto» nel senso che i lavoratori (di norma) vengono pagati per il pieno
valore della loro forza lavoro in quanto merce: non c’è qui nessuno
«sfruttamento» diretto, non è che i lavoratori «non vengono pagati per il
valore effettivo della merce che stanno vendendo ai capitalisti». Per cui,
mentre in un’economia di mercato, io rimango di fatto dipendente, questa
dipendenza è non di meno «civile», messa in atto nella forma di uno scambio
di mercato «libero» fra me e altre persone e non di una servitù manifesta o
addirittura della coercizione fisica. È facile deridere Ayn Rand, ma c’è una
briciola di verità nel famoso «inno al denaro» che si trova nel romanzo La
rivolta di Atlante: «finché non scoprirete che il denaro è alla radice di ogni
bene, sarete voi stessi gli artefici della vostra rovina. Quando il denaro finirà
di essere il mezzo di scambio fra gli uomini, allora gli uomini diverranno gli
schiavi degli uomini. Sangue, fruste e fucili... o dollari. Fate la vostra scelta...
non ce n’è altra». 11 Marx non diceva forse qualcosa di simile nella nota
formula secondo cui nell’universo delle merci «le relazioni tra le persone
assumono la forma delle relazioni tra le cose»? Nell’economia di mercato, le
relazioni tra le persone possono apparire come relazioni di libertà e
uguaglianza vicendevolmente riconosciute: il dominio non è più esercitato
direttamente e non è visibile in quanto tale. Il «socialismo reale» nel XX
secolo ha dimostrato che il superamento dell’alienazione del mercato abolisce
la libertà «alienata» e con essa la libertà tout court, riportandoci alle relazioni
«non alienate» del dominio diretto. Fino a che punto il Commons
collaborativo è esposto allo stesso pericolo? Posso sopravvivere senza
l’intervento di un agente regolatore che controlli il mezzo di collaborazione
ed eserciti così un dominio diretto?
Questo, ovviamente, non implica in alcun modo che, in questa nuova
forma di dominio, il denaro non abbia più un ruolo, o che si tratti di una
forma di dominio diretta: il denaro continua ad avere un ruolo cruciale, ma
dal momento che la sua distribuzione non si fonda più sul processo di
valorizzazione (lavoratori che vengono pagati per la loro fatica, ecc.), inizia a
funzionare come mezzo diretto di dominio. In altre parole, il denaro viene
usato come mezzo di potere politico, come un modo per esercitare questo
potere e controllarne i soggetti. Inoltre, anche se alcuni studiosi affermano
che in questo modo andiamo al di là delle relazioni di scambio delle merci e
sfruttamento-attraverso-la-valorizzazione, dovremmo comunque insistere sul
fatto che la valorizzazione attraverso la circolazione del capitale rimane lo
scopo finale di tutto il processo della riproduzione economica.
Ci aspettiamo senz’altro che saltino fuori altre divisioni e gerarchie: esperti
e non esperti, cittadini a pieno titolo ed esclusi, minoranze religiose, sessuali
e di altro tipo. Tutti i gruppi non ancora inseriti nel processo di
valorizzazione, fino ai rifugiati e ai cittadini dei «paesi canaglia», vengono
così progressivamente sussunti in forme di dominio personale,
dall’organizzazione dei campi profughi al controllo giuridico di coloro che
vengono considerati potenziali fuorilegge; una forma di dominio che spesso
ha un volto umano (come quello dei servizi sociali usati per rendere più
morbida «l’integrazione» dei rifugiati nella nostra società).
Perché questa rinascita di un’autorità diretta, non-democratica? Al di sopra
e al di là delle differenze culturali, essa è strettamente necessaria alla logica
del capitalismo odierno. Il problema centrale che oggi ci troviamo davanti è:
in che modo il predominio (o addirittura il ruolo egemonico) tardo-capitalista
del «lavoro intellettuale» incide sul fondamentale schema marxista della
separazione del lavoro dalle sue condizioni oggettive, così come su quello
della rivoluzione come riappropriazione soggettiva delle condizioni
oggettive? In ambiti come quello di internet, la produzione, lo scambio e il
consumo sono inestricabilmente legati, potenzialmente addirittura identici: il
mio prodotto viene immediatamente comunicato e consumato da altri. Il
concetto classico di Marx del «feticismo delle merci», in cui le «relazioni tra
persone» assumono la forma di «relazioni tra cose», deve essere dunque
completamente ripensato: nel «lavoro immateriale», le «relazioni tra
persone» non sono «così tanto nascoste sotto la patina dell’oggettività, ma
sono esse stesse proprio il materiale del nostro sfruttamento quotidiano», 12
tanto che non possiamo più parlare di «reificazione» nel senso classico di
Lukács. Lungi dall’essere invisibile, la relazionalità sociale, nella sua vera e
propria fluidità, è l’oggetto del marketing e dello scambio: nel «capitalismo
culturale» non si possono più vendere (o comprare) oggetti che «portino»
un’esperienza culturale o emotiva, si vendono (o comprano) direttamente
queste esperienze. E dal momento che la relazione sociale è direttamente
inserita nel mercato, le relazioni personali di dominio lo sono a loro volta –
pago qualcuno che si comporti come mio servo... Non c’è da sorprendersi,
dunque, che, per cancellare questa violazione della libertà e ripristinare un
falso equilibrio, molti dirigenti paghino della prostitute per giochi
masochistici di autoumiliazione.
Il potere dell’economia di mercato di appropriarsi di riflesso di una
resistenza nei suoi confronti sembra inesauribile. Chiunque abbia uno
smartphone sa cosa significhi la pressione da parte del Super-io di imparare a
usarne tutte le possibili applicazioni, da Facebook a Twitter al registrare e
fare foto. Dopo l’acquisto di un oggetto così costoso, che promette meraviglie
inaudite, non si può non sentirsi in colpa ignorando tutta questa ricchezza e
usandolo solo come un telefono qualunque. La possibilità di attivare nuove
applicazioni si trasforma impercettibilmente nell’obbligo di farlo. E ora, ciò
che doveva accadere è accaduto: questa nostra inquietudine è stata
intercettata e ci è stata proposta una via d’uscita. Il Light Phone 2
ha poche ed essenziali funzioni, come i messaggi, la sveglia, o le indicazioni
stradali, per cui diventa più facile lasciar stare il telefono più spesso, o per sempre.
È un telefono che in pratica ti rispetta. 13

Vediamo qui all’opera una strana negatività: si compra un telefono per ciò
che non si vuole che faccia (non si vuole che ti tenti ad andare su Facebook,
Twitter, eccetera). Si finisce così in un paradosso circolare: prima paghiamo
per tutte le funzioni aggiuntive fornite dagli smartphone, poi paghiamo
ancora di più per comprare un po’ di libertà e liberarci da queste funzioni
aggiuntive. «Rispetto» è una strana parola da usare qui, implica che gli
smartphone in qualche modo ci manchino di rispetto. È fondamentale notare
come non vengano semplicemente eliminati. Nessuno si aspetta da noi che
buttiamo i nostri smartphone: l’«ottuso» Light Phone ci permette di
guadagnare un po’ di respiro, di fuggire dalla presa degli smartphone almeno
temporaneamente, di lasciarceli alle spalle per poter passare un po’ di tempo
esclusivo... in breve, il Light Phone ha un senso solo se la minaccia degli
smartphone continua a intravedersi all’orizzonte; se semplicemente
buttassimo lo smartphone e usassimo solo il Light Phone, non faremmo altro
che regredire al livello tecnologico più basso e dunque tornare alla stupidità.
Tutte queste complicazioni ci portano a ripensare la cosiddetta «teoria del
valore lavoro», cosa che non deve in alcun modo essere letta come
l’affermazione della necessità di rifiutare lo scambio, o il suo ruolo nella
costituzione del valore, in quanto mera apparenza che nasconde il fatto
centrale che il lavoro è l’origine del valore. Se consideriamo il denaro
solamente come una risorsa secondaria, un mezzo pratico che facilita lo
scambio, poi si apre la strada all’illusione, a cui da sinistra hanno ceduto i
seguaci di Ricardo, secondo la quale sarebbe stato possibile sostituire il
denaro con semplici foglietti che riportassero la quantità di lavoro svolto dai
portatori e che davano loro il diritto di avere in cambio la parte
corrispondente del prodotto sociale; come se, per mezzo di questo diretto
«denaro lavoro», si potesse evitare qualunque «feticismo», garantendo che
ciascun lavoratore venisse pagato per il suo «pieno valore». Il punto
dell’analisi di Marx è che questo progetto ignora le determinazioni formali
del denaro che rendono il feticismo un effetto necessario. In altre parole,
quando Marx definisce il valore di scambio come il modo dell’apparenza del
valore, dovremmo mobilitare l’intera portata hegeliana della contrapposizione
tra essenza e apparenza: l’essenza esiste solamente in quanto appare, non pre-
esiste alla sua apparenza. Allo stesso modo, il valore di una merce non è una
sua intrinseca proprietà sostanziale che esiste indipendentemente dalla sua
apparenza nello scambio.
Questo è anche il motivo per cui dovremmo abbandonare il tentativo di
espandere il valore in modo che tutti i tipi di lavoro possano essere
riconosciuti come una fonte di valore; pensiamo all’importante richiesta
femminista degli anni Settanta di legalizzare il lavoro domestico (dal cucinare
al prendersi cura della casa e dei figli) in quanto creatore di valore, o alcune
delle richieste dell’eco-capitalismo contemporaneo di integrare i «liberi doni
della natura» nella produzione di valore (cercando di determinare i costi
dell’acqua, dell’aria, delle foreste e degli altri beni comuni). Tutte queste
proposte non sono «altro che un sofisticato green-washing e una
mercificazione dello spazio a partire dalle quali può essere organizzato un
fiero attacco all’egemonia del modo di produzione capitalista e delle sue (e
nostre) alienate relazioni con la natura»: 14 nel loro tentativo di esser «giusti»
e di eliminare o almeno contrastare lo sfruttamento, questi tentativi
semplicemente rafforzano una mercificazione onnicomprensiva e ancora più
potente. Anche se cercano di essere «giusti» a livello di contenuto (ciò che
conta come valore), falliscono nel problematizzare proprio la forma di
mercificazione: il valore dovrebbe essere considerato in tensione dialettica
con il non-valore, ovvero per affermare ed espandere quegli ambiti che non
sono all’interno della produzione di valore di mercato, come i lavori di casa o
il «libero» lavoro culturale e scientifico, nel loro ruolo fondamentale. La
produzione di valore può prosperare solamente se è incorporata nella sua
negazione immanente, il lavoro creativo che non genera valore di mercato, ed
è per definizione suo parassita. Per cui invece che mercificare le eccezioni e
comprenderle all’interno del processo di valorizzazione, bisognerebbe
lasciarle fuori e distruggere la cornice che le considera di livello inferiore. Il
problema con il capitale fittizio non è che è fuori dalla valorizzazione, ma che
rimane parassitario della finzione della valorizzazione a venire.
Un’ulteriore sfida all’economia di mercato deriva dalla diffusa
virtualizzazione del denaro, che ci spinge a riformulare del tutto i concetti
standard marxisti di «reificazione» e «feticismo delle merci», almeno fintanto
che questo tema si basa ancora sul concetto di feticcio come oggetto solido,
la cui presenza stabile nasconde la sua mediazione sociale. Paradossalmente,
il feticismo raggiunge il suo culmine proprio quando il feticcio stesso viene
«dematerializzato», trasformato in un’entità virtuale, fluida, «immateriale»; il
feticismo del denaro troverà il suo culmine nel passaggio alla forma
elettronica, quando anche le ultime tracce della sua materialità saranno
scomparse. Il denaro elettronico è la terza forma, dopo il denaro «reale», che
incarna direttamente il suo valore (oro, argento), e il denaro cartaceo che,
sebbene sia un «semplice segno» privo di un valore intrinseco, è ancora
legato alla sua esistenza materiale. Ed è solo in questa fase, quando il denaro
diventa un punto di riferimento puramente virtuale, che finalmente assume la
forma di una presenza spettrale e indistruttibile: io ti devo 1.000 dollari, e non
importa quante banconote reali io bruci, ti devo ancora 1.000 dollari; il debito
è iscritto da qualche parte nello spazio virtuale digitale. Ed è solo con questa
assoluta «dematerializzazione» che la famosa vecchia tesi di Marx nel
Manifesto del Partito comunista (nel capitalismo, «tutto ciò che è solido si
scioglie nell’aria») acquisisce un significato molto più letterale di quello che
Marx aveva in mente, ora che non solo la nostra realtà sociale e materiale è
dominata dal movimento spettrale/speculativo del capitale, ma questa realtà
stessa viene progressivamente «spettralizzata» (il «Sé proteiforme» al posto
del vecchio Soggetto identico a sé stesso, la fluidità sfuggente delle sue
esperienze al posto della stabilità degli oggetti posseduti). In breve, quando la
normale relazione tra oggetti solidi e materiali e le idee fluide si rovescia (gli
oggetti vengono progressivamente dissolti in esperienze fluide, mentre le sole
cose stabili sono impegni simbolici virtuali), è solo a questo punto che ciò
che Derrida ha definito l’aspetto spettrale del capitalismo si realizza
pienamente.
In ogni caso, come abbiamo già visto, tale spettralizzazione del feticcio
contiene i germi del suo opposto, della sua auto-negazione: l’inaspettato
ritorno di relazioni dirette di dominio personale. Il capitalismo legittima sé
stesso come il sistema economico che implica e promuove le libertà personali
(come condizione dello scambio di mercato); ma le sue stesse dinamiche
hanno portato a una rinascita della schiavitù. Nonostante la schiavitù si fosse
quasi estinta alla fine del Medioevo, è esplosa nuovamente nelle colonie
europee dall’inizio dell’età moderna fino alla Guerra civile americana. Oggi,
una nuova epoca di schiavitù sta nascendo a fianco della nuova epoca del
capitalismo globale. Anche se non ha più una condizione di legalità, la
schiavitù assume una moltitudine di nuove forme: milioni di lavoratori
immigrati nella penisola saudita, privati dei diritti civili e delle libertà più
basilari; il controllo assoluto su milioni di lavoratori nelle fabbriche asiatiche,
spesso organizzate come campi di concentramento; il massiccio uso della
forza lavoro nello sfruttamento delle risorse naturali in numerosi Stati
dell’Africa centrale (ad esempio il Congo).
Questo rovesciamento del virtuale nel materiale appare nel modo più
feroce possibile nell’imminente fine della natura. Leggendo articoli e
guardando servizi sugli effetti devastanti dell’uragano Irma, mi è venuto in
mente Trisolaris, lo strano pianeta del Problema dei tre corpi, capolavoro
fantascientifico di Liu Cixin. Uno scienziato si ritrova immerso nel gioco di
realtà virtuale «Tre corpi» in cui i giocatori si trovano su un pianeta alieno,
Trisolaris, i cui tre soli sorgono e tramontano a intervalli totalmente
imprevedibili: essi sono a volte lontanissimi e terribilmente freddi, a volte
vicinissimi e caldi in modo devastante, a volte non si vedono per lunghi
periodi. I giocatori possono in qualche modo disidratare sé stessi e il resto
della popolazione per superare le stagioni peggiori, ma la vita è una lotta
costante contro elementi in apparenza imprevedibili. Nonostante questo, i
giocatori lentamente riescono a trovare il modo di costruire delle forme di
civiltà e cercano di prevedere questi strani cicli di caldo e di freddo.
Fenomeni come quello dell’uragano Irma non dimostrano forse che la nostra
Terra si sta gradualmente trasformando in Trisolaris? Uragani devastanti,
carestie e alluvioni, per non citare il riscaldamento globale, non sono forse
tutti fenomeni che ci dicono che siamo davanti a qualcosa che non possiamo
definire altro che «la fine della natura»? «Natura» deve essere intesa, qui, nel
senso tradizionale del ritmo regolare delle stagioni, di un contesto affidabile
della storia umana, qualcosa su cui possiamo fare affidamento con l’idea che
sia sempre al suo posto.
È difficile per un estraneo immaginare cosa voglia dire quando un ampio
territorio densamente popolato scompare sotto l’acqua, e milioni di persone
perdono le coordinate di base del loro universo di riferimento: la terra con i
suoi campi, ma anche con i suoi monumenti culturali, la materia dei loro
sogni, non c’è più, così che, anche se circondata dall’acqua, tali persone sono
in qualche modo pesci fuor d’acqua; come se l’ambiente che per migliaia di
generazioni è stato il fondamento delle loro vite iniziasse a franare. Catastrofi
simili sono accadute, ovviamente, per secoli, alcune addirittura fin dalla
preistoria dell’umanità. Di nuovo oggi c’è che, vivendo noi in un’epoca
«disincantata», post-religiosa, a tali catastrofi non riusciamo più a dare un
senso come parte di un ciclo naturale più ampio o come espressione di una
collera divina. Pensiamo a come, nel 1906, il filosofo americano William
James ha descritto la sua reazione a un terremoto:

L’emozione è stata tutta di gioia, e ammirazione. Gioia davanti all’intensità che


un’idea astratta come quella di «terremoto» può assumere quando viene verificato
nel concreto e tradotto nella realtà sensibile [...] e ammirazione, davanti al modo in
cui la piccola e fragile casa di legno può tenersi insieme nonostante tali scosse. Non
ho percepito nemmeno l’ombra della paura; è stato un sentimento di puro piacere e
accoglienza. 15

Come siamo lontani qui dalla distruzione dei veri e propri fondamenti del
nostro contesto di vita!
Fenomeni come il riscaldamento globale ci rendono consapevoli del fatto
che, nonostante tutta l’universalità delle nostre attività pratiche e teoriche, a
un certo livello di base non siamo altro che una delle tante specie viventi sul
pianeta Terra. La nostra sopravvivenza dipende da alcuni parametri naturali
che diamo per scontati. Il riscaldamento globale ci insegna che la libertà
dell’umanità è possibile solo avendo come contesto un ambiente stabile
(temperatura, composizione dell’aria, acqua a sufficienza e scorte
energetiche, e così via): gli esseri umani possono «fare quello che vogliono»
solo fintanto che rimangono abbastanza marginali, in modo da non turbare
seriamente i parametri della vita sulla Terra. Il limite della nostra libertà, che
diventa palpabile con il riscaldamento globale, è il risultato paradossale
proprio della crescita esponenziale della nostra libertà e del nostro potere,
ovvero della nostra sempre crescente capacità di trasformare la natura che ci
circonda, fino al punto di destabilizzare i fondamenti geologici alla base della
vita. La «natura» dunque diventa letteralmente una categoria socio-storica,
ma non nel senso amato dal giovane Lukács, in cui il contenuto di ciò che per
noi è (o conta per noi come) «natura» è sempre sovradeterminato da una
totalità sociale storicamente specificata che struttura l’orizzonte
trascendentale della nostra comprensione della natura. Piuttosto, diventa una
categoria socio-storica nel senso molto più radicale e letterale (ontico) di
qualcosa che non è solo uno sfondo stabile dell’attività umana, ma è
influenzato da essa nelle sue stesse componenti di base.
Stiamo così entrando in una nuova fase in cui è semplicemente la natura
stessa che evapora nell’aria: la principale conseguenza dei passi da gigante
nell’ambito della biogenetica è la fine della natura. Una volta che conosciamo
le regole della loro costruzione, gli organismi naturali vengono trasformati in
oggetti che possono essere manipolati. La natura, umana e non umana, viene
così «desostanzializzata», privata della sua densità impenetrabile, di ciò che
Heidegger chiamava «terra». Questo ci invita a leggere con occhi nuovi il
titolo freudiano Unbehagen in der Kultur, scontento, disagio nella cultura. Il
titolo viene normalmente tradotto con Il disagio della civiltà, perdendo così
l’occasione di portare sulla scena la contrapposizione di cultura e civiltà: il
disagio è nella cultura, nella sua violenta rottura con la natura, mentre la
civiltà può essere letta esattamente come il tentativo secondario di mettere le
cose insieme, di «civilizzare» il taglio, di reintrodurre l’equilibrio perduto e
un’apparenza di armonia. Con gli ultimi sviluppi, il disagio si sposta dalla
cultura alla natura stessa: la natura non è più «naturale», lo sfondo «denso» e
affidabile delle nostre vite; appare adesso come un meccanismo fragile che,
in ogni momento, può esplodere in senso catastrofico.
La natura è sempre più in disordine, non perché sopraffaccia le nostre
capacità cognitive, ma primariamente perché non siamo capaci di governare
gli effetti del nostro intervento sul suo corso; chissà quali saranno le
conseguenze definitive dell’ingegneria biogenetica o del riscaldamento
globale? La sorpresa viene da noi, riguarda l’opacità del nostro ruolo: il
problema non è qualche mistero cosmico come l’esplosione di una
supernova, siamo noi stessi, la nostra attività collettiva. È ciò che chiamiamo
«antropocene»: una nuova epoca nella vita del nostro pianeta, in cui noi
umani non possiamo più fare affidamento sulla Terra come riserva pronta ad
assorbire le conseguenze della nostra attività produttiva. Dobbiamo
riconoscere che viviamo su un’«astronave Terra» ed essere responsabili e
tenuti a rispondere delle sue condizioni. Proprio nel momento in cui
diventiamo abbastanza potenti da influenzare gli elementi più fondamentali
della nostra esistenza, dobbiamo accettare di essere solo una delle tante
specie animali su un piccolo pianeta. Una volta capito questo, è necessario
relazionarsi al nostro ambiente in modo nuovo: dobbiamo diventare dei
semplici agenti che collaborano con il proprio ambiente, che negoziano
continuamente un livello di stabilità tollerabile, senza alcuna formula a priori
che garantisca la propria sicurezza.
Ma questo significa forse che dobbiamo assumere un atteggiamento di
difesa e andare in cerca di un nuovo limite, un ritorno a (o, piuttosto,
l’invenzione di) un nuovo equilibrio? Questo è quello che il pensiero
ecologico dominante proporrebbe di fare, e lo stesso obiettivo è perseguito
dalla bioetica nei confronti della biotecnologia: la biotecnologia esplora le
nuove possibilità degli interventi genetici (manipolazione genetica,
clonazione, eccetera) mentre la bioetica si sforza di imporre dei limiti morali
su ciò che la biotecnologia ci permette di fare. In quanto tale, la bioetica non
è immanente alla pratica scientifica: interviene in questa pratica da fuori,
imponendo su di essa una morale esterna. Si potrebbe perfino dire che la
bioetica è il tradimento dell’etica interna allo sforzo scientifico, l’etica del
«non compromettere il tuo desiderio scientifico, segui il suo percorso
inesorabilmente». Tali tentativi di porre un limite falliscono perché non
tengono conto del fatto che non esiste un limite oggettivo: stiamo scoprendo
che l’oggetto stesso, la natura, non è stabile. Gli scettici amano sottolineare i
limiti della nostra conoscenza della natura; in ogni caso, questi limiti non
implicano in nessun modo che dovremmo minimizzare la minaccia ecologica.
Al contrario, dovremmo essere ancora più attenti, dal momento che la
situazione è completamente imprevedibile. Le recenti incertezze sul
riscaldamento globale non significano che le cose non siano troppo serie,
piuttosto che sono molto più caotiche di quanto pensassimo, e che i fattori
naturali e sociali sono inestricabilmente collegati.
Possiamo dunque usare il capitalismo stesso contro questa minaccia?
Anche se il capitalismo può facilmente trasformare l’ecologia in un nuovo
campo di investimento e competizione capitalista, la natura stessa del rischio
implicato preclude fondamentalmente una soluzione di mercato: perché? Il
capitalismo funziona soltanto all’interno di specifiche condizioni sociali:
comporta la fiducia nel meccanismo oggettivato dell’«invisibile mano» del
mercato che, come una sorta di astuzia della ragione, garantisce che la
competizione degli egoismi individuali operi per il bene comune. In ogni
caso, siamo nel bel mezzo di un cambiamento radicale: ciò che oggi
intravediamo all’orizzonte è l’inaudita possibilità che un intervento
soggettivo inneschi una catastrofe ecologica, una disastrosa mutazione
biogenetica, un disastro nucleare o social-militare simile. Per la prima volta
nella storia umana, l’atto di un singolo agente socio-politico può alterare e
interrompere il processo storico e addirittura naturale globale.
Jean-Pierre Dupuy fa qui riferimento alla teoria dei sistemi complessi, che
ne rappresenta le due opposte caratteristiche: il loro carattere stabile e robusto
e l’estrema vulnerabilità. Questi sistemi si possono adattare a grandi
disordini, integrarsi e trovare un nuovo equilibrio e una nuova stabilità – fino
a una certa soglia (un «punto di non ritorno»), al di sopra della quale un
piccolo elemento di disturbo può determinare una catastrofe totale e portare
allo stabilirsi di un ordine completamente diverso. Per secoli, l’umanità non
si è dovuta preoccupare dell’impatto sull’ambiente della sua attività
produttiva; la natura era in grado di adattarsi alla deforestazione, all’uso del
carbone e del petrolio, e così via. In ogni caso, non possiamo essere sicuri di
non essere, adesso, in avvicinamento al punto di non ritorno; non possiamo
esserne certi dal momento che tale punto viene percepito chiaramente solo
quando è già troppo tardi, retrospettivamente. O prendiamo seriamente la
minaccia della catastrofe ecologica e decidiamo di fare oggi delle cose che, se
la catastrofe non accade, sembreranno ridicole o non facciamo nulla e
perderemo tutto se, al contrario, la catastrofe accade. Lo scenario peggiore è
quello di scegliere una via di mezzo, di prendere una serie limitata di
contromisure: in questo modo falliremo comunque (ovvero, il problema è che
non esiste una via di mezzo: o la catastrofe ecologica avviene o non avviene).
In una tale situazione, parlare di previsione, prevenzione e controllo del
rischio diventa inutile.
Le lezione più importante che dobbiamo imparare è, dunque, che l’umanità
dovrebbe prepararsi a vivere in un modo più «plastico» e nomade: i
cambiamenti globali o locali nell’ambiente potrebbero avere bisogno di
inaudite trasformazioni sociali su larga scala. Mettiamo che una nuova,
gigantesca eruzione vulcanica renda tutta l’Islanda inabitabile: dove
andrebbero gli islandesi? E a quali condizioni? Verrebbe dato loro un pezzo
di terra o si disperderebbero in tutte le parti del mondo? E se invece la Siberia
del Nord diventasse più ospitale e adatta all’agricoltura, mentre ampie regioni
sub-sahariane diventassero troppo aride per una popolazione numerosa, come
si potrebbe organizzare lo scambio di popolazioni? Quando cose simili sono
accadute in passato, i cambiamenti sociali sono avvenuti in modo spontaneo,
con violenze e devastazioni; tale prospettiva è catastrofica nello scenario
odierno, con le armi di distruzione di massa che abbiamo a disposizione. Una
cosa è certa: la sovranità nazionale dovrà essere radicalmente ridefinita, e
dovranno essere inventati nuovi livelli di cooperazione globale. E che dire
degli immensi cambiamenti nell’economia e nel consumo che saranno
necessari come conseguenza dei nuovi contesti climatici, o della carenza di
fonti idriche ed energetiche? Attraverso quali processi decisionali verranno
portati avanti questi cambiamenti?
E, da ultimo, ma non per importanza, è necessario tenere a mente la strana
coincidenza degli opposti nelle minacce che dobbiamo fronteggiare: i
problemi arrivano dall’esterno «materiale» (la fine della natura, le catastrofi
ambientali) e dall’interno, dalla sfera virtuale «immateriale» (chi controlla lo
spazio digitale che ci controlla? Chi manipola gli hackers?).

Di uomini e topi, o verso il capitalismo postumano


Caduta libera, il primo episodio della terza serie di Black Mirror, è
ambientato in una realtà alternativa in cui le persone possono giudicarsi a
vicenda usando i loro telefoni, e in cui questi giudizi possono influenzare
tutta la vita. Racconta la storia di Lacie, una giovane donna esageratamente
ossessionata dai giudizi ricevuti che, dopo essere stata scelta dalla sua celebre
amica d’infanzia come madrina per il suo matrimonio, vuole usare
quest’occasione per migliorare le sue valutazioni e coronare i suoi sogni:
l’accesso a molti posti è possibile solo con un giudizio superiore a 4,5 (su 5).
Però sbaglia e va tutto a rotoli, e alla fine viene valutata 0. È in possesso di
una tecnologia che le permette di rimuovere la valutazione, ma viene
incarcerata per queste azioni. Mentre è in cella, Lacie comincia a litigare con
un’altra detenuta e questa rabbia reciproca si trasforma in reciproca felicità
quando capiscono che sono libere di farlo. Ma si tratta di una realtà
alternativa? Secondo un articolo del Business Insider, «la Cina potrebbe usare
dei dati per creare un punteggio riferito a ciascun cittadino in base alla loro
affidabilità»:
Il governo cinese sta progettando il miglioramento di un sistema che connetta le
valutazioni di credito finanziario, sociale, politico e legale dei cittadini in un unico
grande sistema di credito di affidabilità sociale. L’idea sarebbe che se qualcuno
infrange il credito in un ambito, la cosa ricadrà anche su tutti gli altri ambiti. Al
piano cinese per questo sistema più ampio di valutazione si sta lavorando fin dal
2015. Ma in settembre, il governo ha emesso un sistema a punti delle penalità
proposte per coloro che «infrangono il credito sociale» (cosa che può accadere non
ripagando un debito, ad esempio, o esprimendo online un’opinione contraria al
governo). Secondo questi documenti, ecco quello che potrebbe accadere se si ha un
punteggio basso: non venire presi in considerazione per un posto pubblico, perdere
l’accesso alla sicurezza sociale e al welfare, essere perquisiti con maggiore
attenzione nei passaggi di dogana, essere espulsi da posizioni elevate all’interno del
settore alimentare e farmaceutico, non trovare un posto letto sui treni notturni,
essere buttati fuori dagli alberghi e dai ristoranti di lusso, non essere presi in
considerazione dalle agenzie di viaggio, non poter iscrivere i propri figli alle scuole
private più costose. 16

Potremmo pensare semplicemente che si tratti dell’ennesimo resoconto del


totalitarismo cinese. Ma noi non stiamo forse facendo già la stessa cosa, solo
in modo più discreto? Invece di guardare a come vengono raccolti i dati
quando facciamo una domanda di lavoro o chiediamo un prestito in banca,
diamo un’occhiata a un esempio più sottile:

In una recente assemblea dell’Azienda dei trasporti londinese (Transport for


London) è stata discussa la possibilità di «ludicizzare» (gamify) il pendolarismo
all’interno della città. Per semplificare questa possibilità, la TfL ha reso l’API
(application programming interface) e i flussi di dati usati per monitorare tutti i
mezzi di trasporto londinesi (autobus, metropolitane, treni sopraelevati, ferrovie)
Open Source e Open Access nella speranza che gli sviluppatori di app possano
inventare delle app specifiche per Londra riguardanti il sistema di trasporto
pubblico, massimizzando il profitto. Un’idea è che se una specifica stazione della
metropolitana si sta intasando a causa dei ritardi, la TfL può mettere dei «premi in
palio» per chi sceglie strade alternative contribuendo così a ridurre l’ingorgo. Se la
prevenzione degli ingorghi può non apparire come la dimostrazione della distopia
di un controllo statale e aziendale assoluto, mostra però in realtà il potenziale
pericoloso di queste tecnologie. Mostra che il Regno Unito non è così lontano dal
sistema ludico di «credito sociale» studiato per il miglioramento a Pechino, che
valuta l’affidabilità di ciascun cittadino premiandolo per la sua dedizione allo Stato
cinese. Se i media popolari britannici hanno avuto reazioni scandalizzate davanti a
queste innovazioni nello sviluppo di applicazioni cinesi, uno sguardo più attento
alle attuali strutture elettroniche di mappatura e controllo dei nostri movimenti
dimostra che un sistema simile è già in fase di sviluppo anche a Londra. Nella
«città intelligente» a venire non saranno solo gli ingorghi a dover essere eliminati
ma tutti gli usi sbagliati o le occupazioni pericolose dello spazio. 17

Inoltre, si dovrebbe tenere a mente che tali valutazioni non sono mai
onnicomprensive: presuppongono sempre una doppia deroga. Decenni fa, la
rivista Mad pubblicò una serie di variazioni sul tema dei quattro livelli della
gerarchia. Rispetto alla moda, ad esempio, in basso ci sono quelli che vivono
al di fuori della moda e semplicemente non la considerano; poi ci sono quelli
che cercano di seguirla ma rimangono sempre indietro; poi ci sono quelli che
possono permettersi di essere del tutto in sintonia con le ultime tendenze; e,
infine, quelli che stanno al livello più alto che, come quelli al livello più
basso, non si curano di ciò che indossano perché sono loro che fanno la
moda; ciò che decidono di indossare è la moda. Non varrebbe forse la stessa
cosa con il credito sociale? In basso ci sono gli esclusi a cui non importa di
come vengono valutati; poi ci sono quelli che rimangono indietro e cercano
di migliorare le loro valutazioni; poi quelli che raggiungono le valutazioni
migliori; e infine, di nuovo, quelli che, come quelli al livello più basso, non si
curano delle loro valutazioni perché possono avere accesso a tutto (in Cina,
ad esempio, i membri più potenti della nomenklatura di Stato certamente non
si preoccuperebbero delle proprie valutazioni). I gruppi che si trovano al
livello più basso e più alto sono in un certo senso entrambi liberi: non si
preoccupano delle loro valutazioni, e possiamo addirittura dire che quelli al
livello più basso sono più liberi rispetto a quelli al livello più alto che hanno
altre preoccupazioni (riusciranno a mantenere sempre quella posizione?).
Forse quelli che stanno al livello più basso, esclusi come sono dalla
valutazione e orgogliosamente ignorandola, corrispondono ai nuovi proletari
contemporanei i quali sono, come ha detto Marx, liberi in un doppio senso:
quello di non avere possessi sociali, e semplicemente quello dell’essere liberi.
Oggi, coloro che sono al di sopra delle valutazioni, sono ovviamente i
grandi gruppi legati alle agenzie governative; esemplificano la
privatizzazione dei nostri beni comuni. La figura di Elon Musk è qui
emblematica: appartiene allo stessa tipologia di Bill Gates, Jeff Bezos, Mark
Zuckerberg, ecc., tutti miliardari con una «coscienza sociale». Rappresentano
il capitale globale nel suo aspetto più seducente e «progressivo»; in breve, il
più pericoloso. Musk ama mettere in guardia sulle minacce poste dalle nuove
tecnologie alla dignità e alla libertà umane, cosa che, ovviamente, non gli
impedisce di investire nell’avventura di un’interfaccia neurale chiamata
Neuralink, una compagnia che si dedica all’invenzione di dispositivi da
impiantare nel cervello, con lo scopo finale di aiutare gli esseri umani a
fondersi con i software e a tenere il passo con i progressi dell’intelligenza
artificiale. Questi progressi potrebbero migliorare la memoria o permettere di
interfacciarsi in modo più diretto con i dispositivi informatici: «Nel corso del
tempo io credo che vedremo probabilmente una fusione più profonda di
intelligenza biologica e intelligenza digitale». 18 Ogni innovazione
tecnologica viene prima presentata così, sottolineandone i benefici in termini
umanitari e di salute, in modo da renderci ciechi davanti a implicazioni e
conseguenze ben più nefaste: possiamo anche solo immaginare quali nuove
forme di controllo contiene questo cosiddetto «laccio neurale»? È questo il
motivo per cui è assolutamente necessario tenerlo al di fuori del controllo del
capitale privato e del potere statale e renderlo del tutto aperto al pubblico
dibattito. Julian Assange aveva ragione nel suo libro fondamentale e
stranamente ignorato: per capire in che modo le nostre vite oggi vengano
controllate, e in che modo questo controllo venga percepito come una nostra
libertà, dobbiamo concentrarci sull’ambigua relazione esistente fra le aziende
private che controllano i diritti e le agenzie segrete di Stato. 19
Questo è ciò che fa di Assange una vera minaccia per il sistema, e
possiamo solo immaginare le segrete pressioni esercitate di recente dalle
potenze occidentali sull’Ecuador per far sì che questo piccolo Stato desse un
ulteriore giro di vite all’isolamento di Assange rispetto allo spazio pubblico:
non ha più accesso a internet, a molti visitatori non è permesso vederlo... la
lenta morte sociale di una persona che è stata confinata per quasi sei anni in
un appartamento nell’ambasciata ecuadoriana di Londra. Era già accaduto
una volta, per un breve periodo, all’epoca delle elezioni americane, ma allora
era stata una reazione alla pubblicazione da parte di WikiLeaks di documenti
che avrebbero potuto influenzare quelle elezioni, mentre oggi non abbiamo
più nessuna scusa: «l’ingerenza» di Assange nelle relazioni internazionali
consiste solo nell’aver pubblicato su internet le sue opinioni sulla crisi
catalana e sullo scandalo dell’avvelenamento di Skripal’. Perché dunque
adesso un tale provvedimento, e perché se ne è parlato così poco?
Su questa seconda domanda, non basta dire che la gente si è
semplicemente stancata di Assange: un ruolo chiave l’ha rivestito la lunga,
lenta e ben orchestrata campagna di diffamazione che ha toccato il livello più
infimo pochi mesi fa con la diffusione della notizia, non verificata, secondo la
quale gli ecuadoriani volevano sbarazzarsi di lui a causa del suo cattivo odore
e della sporcizia dei suoi vestiti. Nella prima fase di questi attacchi pubblici, i
suoi ex-amici e collaboratori dissero in pubblico che WikiLeaks aveva
iniziato bene ma poi si era impantanato a causa della non oggettività politica
di Assange (la sua ossessione anti-Hillary, i suoi legami sospetti con la
Russia...). A questo è seguita una diffamazione personale più diretta: è
paranoico e arrogante, ossessionato dal potere e dal controllo... Ora abbiamo
raggiunto il livello direttamente corporale degli odori e delle macchie di
sporco.
Assange un paranoico? Quando vivi costantemente in un appartamento
controllato da tutte le parti, vittima di una sorveglianza perenne da parte dei
servizi segreti, chi non lo sarebbe? Megalomane? Quando il capo (ora ex)
della CIA afferma che il tuo arresto è prioritario, non significa almeno che in
qualche modo sei una «grande» minaccia per qualcuno? Comportarsi come il
capo di un’organizzazione di spie? Ma WikiLeaks è un’organizzazione di
spie, anche se al servizio delle persone, per tenerle informate su ciò che
accade dietro le quinte. Assange è forse uno che scappa dalla giustizia, che si
nasconde nell’ambasciata ecuadoriana per evitare un processo? Ma che tipo
di giustizia è quella che minaccia di arrestarlo anche dopo che le accuse sono
cadute?
Arriviamo dunque alla grande questione: perché proprio adesso? Io credo
che un nome basti a spiegare tutto: Cambridge Analytica, un nome che
rappresenta tutto ciò per cui combatte Assange: lo svelamento dei rapporti tra
le grandi aziende private e le agenzie governative. Pensiamo a quanto
ossessivamente si è parlato delle interferenze russe nelle elezioni americane:
ora sappiamo che non erano gli hacker russi (in teoria complici di Assange) a
spingere gli elettori verso Trump ma le nostre stesse agenzie di elaborazione
dati, che avevano unito le loro forze con quelle politiche. Ciò non significa
che la Russia e i suoi alleati fossero innocenti: probabilmente hanno davvero
cercato di influenzare i risultati, esattamente come fanno gli Stati Uniti in
altri paesi (solo che, in quei casi, si chiama «aiutare la democrazia»). Ma
significa anche che il grande lupo cattivo che distorce la nostra democrazia è
proprio qui, non al Cremlino; ed è esattamente quello che non ha fatto che
ripetere Assange.
Ma dove si trova, di preciso, questo grande lupo cattivo? Per cogliere
l’intera portata di questo controllo e questa manipolazione bisognerebbe
andare oltre il legame fra aziende private e partiti politici (come accade nel
caso di Cambridge Analytica) e arrivare alla compenetrazione di compagnie
di elaborazione dati come Google o Facebook e agenzie statali per la
sicurezza. Non dovremmo essere sconvolti dalla Cina, ma piuttosto da noi
stessi, nel momento in cui accettiamo le stesse regole credendo di mantenere
la nostra piena libertà e che i nostri media ci stiano solo aiutando a realizzare
gli obiettivi che ci siamo posti (almeno in Cina le persone sono pienamente
consapevoli di essere controllate). L’immagine generale che sta emergendo,
unita a ciò che sappiamo anche degli ultimi sviluppi della biogenetica, ci
offre una prospettiva adeguata e terrificante delle nuove forme di controllo
sociale che rendono il buon vecchio totalitarismo del ventesimo secolo una
goffa e primitiva macchina di controllo.
Il più grande risultato ottenuto dal nuovo sistema cognitivo-militare è che
l’oppressione diretta e palese non è più necessaria: gli individui si controllano
molto meglio e si «incoraggiano» nella direzione desiderata quando
continuano a sperimentare sé stessi come agenti liberi e autonomi della loro
vita. Ecco un’altra lezione che abbiamo imparato da WikiLeaks: la nostra
non-libertà è più pericolosa quando viene sperimentata come il mezzo vero e
proprio della nostra libertà; cosa ci può essere di più libero dell’incessante
flusso di comunicazioni che permettono a ciascun individuo di diffondere le
proprie opinioni e costituire comunità virtuali a proprio piacimento? È per
questo motivo che è assolutamente necessario tenere la rete digitale al di fuori
del controllo del capitale privato e del potere statale, ovvero renderla
completamente accessibile al dibattito pubblico.
È chiaro adesso perché Assange debba essere messo a tacere proprio
quando il discorso su Cambridge Analytica attraversa tutti i media. Coloro
che stanno ai posti di comando tentano di ridurre il tema a un «cattivo uso»
specifico fatto da alcune aziende private e alcuni partiti politici: ma dov’è lo
Stato stesso, gli apparati parzialmente invisibili del cosiddetto «Stato
profondo»? Chiaro che il Guardian, che ha dedicato ampio spazio allo
«scandalo» di Cambridge Analytica, abbia recentemente pubblicato un
disgustoso attacco ad Assange dipingendolo come un megalomane in fuga
dalla giustizia. Scrivete quello che volete su Cambridge Analytica e Steve
Bannon, ma non fermatevi su ciò che Assange ci stava dicendo: che gli
apparati statali che ora dovrebbero in teoria indagare sullo «scandalo» sono a
loro volta parte del problema.
Assange si è definito una spia delle e per le persone: non spia le persone
per conto di quelli che stanno al potere, ma spia quelli che stanno al potere
per conto delle persone. È per questo motivo che gli unici che adesso lo
possono aiutare davvero siamo noi, le persone. Solo la nostra pressione e una
nostra mobilitazione possono alleviarne le difficoltà. Leggiamo spesso di
come i servizi segreti sovietici non solo abbiano punito i traditori anche dopo
decenni, ma anche di come abbiano combattuto strenuamente per liberarli se
catturati dal nemico. Assange non ha nessuno Stato alle spalle, solo noi, le
persone: facciamo almeno quello che facevano i servizi segreti russi,
combattiamo per lui indipendentemente da quanto tempo ci vorrà!
Il controllo digitale di recente ha preso una piega ancora più infausta. John
Steinbeck ha tratto il titolo della sua famosa novella dalla poesia A un topo di
Robert Burns:
Sono veramente dolente che il dominio dell’uomo
abbia spezzato l’unione sociale della natura
e giustifichi la cattiva opinione
che ti fa sobbalzare
dinanzi a me, tuo povero compagno nato dalla terra
e mortale come Te!
[...]
i migliori piani dei topi e degli uomini
van spesso di traverso
e non ci lascian che dolore e pena
invece della gioia promessa.

Questi versi raccontano di un essere umano che chiede scusa a un topo


perché ha spezzato «l’unione sociale della natura» a causa della sua fame di
dominio sul mondo naturale, cosa che giustifica la cattiva opinione del topo e
la sua paura degli esseri umani. L’uomo inoltre ammette che, anche se dietro
i suoi piani c’erano le migliori intenzioni, sono andati male, causando
nient’altro che dolore e pena. Possiamo immaginare una scena simile fra uno
scienziato e il topo su cui ha fatto il seguente esperimento?

Immagina qualcuno che controlla da lontano il tuo cervello, che obbliga l’organo
decisionale centrale del tuo corpo a mandare messaggi ai tuoi muscoli che tu non
hai autorizzato. È un’idea incredibilmente spaventosa, ma gli scienziati sono
riusciti a rendere reale questo incubo da fantascienza, anche se su scala molto
minore, e sono stati addirittura capaci di indurre i soggetti testati a correre, stare
immobili sul posto, o anche perdere del tutto il controllo sui loro arti.
Fortunatamente, la ricerca è fatta a fin di bene... per adesso. Lo sforzo, portato
avanti dal professore di fisica Arnd Pralle, della University at Buffalo College of
Arts and Sciences, si basava su una tecnica chiamata «stimolazione magneto-
termale». Non è esattamente un processo semplice, necessita infatti dell’impianto
di elementi di DNA costruiti appositamente e nanoparticelle che si attaccano a
specifici neuroni; ma una volta che questa procedura minimamente invasiva è
compiuta, il cervello può essere controllato a distanza attraverso un campo
magnetico alternato. Quando vengono applicati questi input magnetici, le particelle
si riscaldano, facendo attivare i neuroni [...] Nonostante sia stata testata solo sui
topi, la ricerca potrebbe avere ampie ricadute nell’ambito delle neuroscienze. Il
Sacro Graal per sognatori come Elon Musk è la possibilità, un giorno, di modificare
i nostri cervelli eliminando i disturbi dell’umore e rendendoci creature più perfette.
Questa ricerca pionieristica potrebbe davvero costituire un importante passo avanti
in quella direzione. 20

La speranza espressa con riserva che questa ricerca sia «fatta a fin di
bene... per adesso» suona come la famosa battuta del medico «prima le belle
notizie, poi quelle brutte». Quando una nuova invenzione come la
digitalizzazione diretta del nostro cervello viene venduta al grande pubblico, i
media di solito ne sottolineano i relativi benefici per la salute e l’opportunità
di riduzione della sofferenza. Neppure il famosissimo piccolo dito di Stephen
Hawking, il collegamento minimo fra il suo cervello e il mondo esterno,
l’unica parte di tutto il suo corpo paralizzato che poteva muovere, sarebbe più
necessario: con una mente attraversata da fili, sarebbe stato in grado di far
muovere la sua sedia a rotelle, ovvero avrebbe potuto usare il suo cervello
come macchina di controllo remoto. Ma, come si dice, chi semina raccoglie:
la digitalizzazione dei nostri cervelli apre la strada a inaudite possibilità di
controllo. Fra parentesi, la notizia che cito non è esattamente nuova: già nel
maggio 2002 si era saputo che gli scienziati della New York University
avevano attaccato al cervello di un ratto un microchip in grado di ricevere
segnali, tanto che si poteva controllare il ratto, decidere la direzione in cui
avrebbe corso grazie a una specie di meccanismo di guida, come le
macchinine telecomandate. Per la prima volta, alla «volontà» di un agente
animale vivente, alle sue decisioni «spontanee» sui movimenti da fare, era
subentrata una macchina esterna. Ovviamente, qui la grande questione
filosofica è: in che modo lo sfortunato ratto «faceva esperienza» del suo
movimento, che veniva in effetti deciso dall’esterno? Ha continuato a
sperimentarlo come qualcosa di spontaneo (ovvero, era del tutto
inconsapevole di essere guidato), o capiva che «c’era qualcosa che non
andava», che una forza esterna stava decidendo i suoi movimenti?
E, in modo ancora più cruciale, proviamo ad applicare lo stesso
ragionamento a un identico esperimento fatto sugli esseri umani (che, al di là
delle questioni etiche, non dovrebbe essere molto più complicato, dal punto
di vista tecnico, di quello sul ratto). Potremmo sostenere che la categoria
umana di «esperienza» non dovrebbe essere applicata al ratto, ma dovremmo
porci la stessa domanda rispetto a un essere umano. Per cui, di nuovo, io,
essere umano guidato dall’esterno, continuerei a sperimentare i miei
movimenti come qualcosa di spontaneo? Rimarrei del tutto inconsapevole del
fatto che i miei movimenti sono comandati, o capirei che qualcosa non
funziona, che un potere esterno li sta determinando? E in che modo,
esattamente, questa «forza esterna» si manifesterebbe? Come qualcosa dentro
di me, una pulsione interna irrefrenabile, o come una semplice coercizione
esterna? Se io rimango del tutto inconsapevole del fatto che il mio
comportamento «spontaneo» è comandato dall’esterno, possiamo davvero
andare avanti a fingere che la cosa non abbia alcuna conseguenza per il
nostro concetto di libero arbitrio?
Con un po’ di ironia, possiamo già ritrovare, nella nostra realtà politica, un
simile essere umano «comandato»: quando Alexis Tsipras, un sostenitore
delle politiche anti-austerità, dopo aver vinto trionfalmente il referendum
dicendo no alle pressioni finanziarie dell’Unione Europea, ha cambiato
improvvisamente posizione e ha acconsentito a mettere in atto le politiche di
austerità più dure, non è stato forse come se i poteri politico-finanziari di
Bruxelles avessero premuto un bottone e lo avessero trasformato nel loro
giocattolo telecomandato? Molti osservatori hanno notato che, dopo questo
cambiamento, quando Tsipras appare in televisione in compagnia dei grandi
capi europei, c’è qualcosa di strano nel suo comportamento: spesso non fa
altro che stare in piedi e sorridere, come se non fosse pienamente cosciente di
quello che sta facendo. In ogni caso, il quadro è molto più complesso. Il 17
ottobre 2017 Tsipras ha visitato Trump alla Casa bianca e, parlando nel Rose
Garden dopo il loro incontro, ha affermato di essere finalmente pronto a
un’alleanza: «Abbiamo valori comuni. Non dobbiamo dimenticare che il
valore della democrazia e della libertà è nato in Grecia. È uno dei valori che
attraversa la cultura e la tradizione americana. Il presidente adesso porta
avanti quella tradizione». 21 Lo Tsipras che vediamo qui non è il fantoccio di
un’Europa che impone politiche di austerità, intravediamo una sorta di
eccesso personale autentico, e non c’è nessun capitale internazionale che gli
sta facendo pressione. Il suo elogio di Trump è decisamente più soggettivo, e,
dal punto di vista geopolitico, ha un suo senso (gli Stati Uniti, infastiditi dalla
Turchia, puntano di nuovo sulla Grecia), esattamente come la dichiarazione
rilasciata durante la visita in Israele due anni fa secondo la quale
Gerusalemme è la capitale eterna degli ebrei, o il suo manifestare vicinanza
alla Serbia e ad altri paesi ortodossi. Si può anche comprendere che, dopo le
esperienze amare con l’Unione Europea, Tsipras stia cercando supporto da
parte dei paesi anti-europeisti. In ogni caso, niente di tutto ciò può giustificare
in alcun modo la sua posizione: stiamo semplicemente avendo a che fare con
le tragicomiche conseguenze della sua capitolazione al ricatto europeo.
Mentre questa immagine di Tsipras come un giocattolo telecomandato non
è ovviamente altro che uno scherzo politico di gusto piuttosto cattivo,
sorgono qui questioni importanti, di tipo non solo filosofico ma politico:
quando Musk afferma «un giorno noi saremo in grado», chi saranno questi
«noi»? Le grandi aziende, i governi, chiunque abbia del denaro? Una cosa è
certa: scienza e filosofia dovranno unire le forze. Accade di tanto in tanto che
un’idea simile appaia in due campi del sapere diversi, che non comunicano
affatto, prendiamo ad esempio la speculazione «postmoderna» e la scienza
empirica. Cosa che è accaduta negli ultimi decenni con l’idea di un anti-
umanesimo teorico o di un soggetto inumano, che ha avuto un ruolo
importante nel pensiero francese contemporaneo, da Foucault a Lacan fino a
Badiou. Recentemente, le scienze cognitive hanno proposto la loro versione
dell’anti-umanesimo: con la digitalizzazione delle nostre vite e la prospettiva
di un collegamento diretto tra il nostro cervello e un macchinario digitale,
stiamo entrando in una nuova era postumana in cui cambierà la nostra
fondamentale percezione di noi stessi come agenti umani liberi e
responsabili. In questo modo, il postumanesimo non è più una proposta
teorica eccentrica ma una questione che riguarda la nostra vita quotidiana.
Questi due aspetti possono essere uniti in un’unica prospettiva teorica, o sono
condannati a parlare lingue diverse (con la teoria «postmoderna» che critica il
cognitivismo come un ingenuo determinismo naturalista, e i cognitivisti che
liquidano la teoria «postmoderna» come una speculazione inutile che rimane
ancorata allo spazio filosofico tradizionale)? 22 La prima cosa da notare qui è
che l’emergere di agenti postumani e l’epoca dell’antropocene sono le due
facce dello stesso fenomeno: esattamente nel momento in cui l’umanità
diventa il massimo fattore geologico che minaccia l’intero equilibrio della
vita della Terra, inizia anche a perdere le sue caratteristiche di base e si
trasforma in postumanità.
La domanda sottesa a questo problema è: in che modo il capitalismo e la
prospettiva della postumanità sono collegati? Di solito si presuppone che il
capitalismo sia più storico e la nostra umanità, comprese le nostre differenze
sessuali, più di base, perfino astorica; in ogni caso, oggi, ciò a cui stiamo
assistendo non è altro che un tentativo di integrare il passaggio alla
postumanità con il capitalismo. A questo sono rivolti gli sforzi nei nuovi guru
miliardari come Elon Musk: le loro previsioni sul modo in cui il capitalismo
«come lo conosciamo» stia giungendo alla fine fanno riferimento al
capitalismo «umano», e il passaggio di cui parlano è quello dal capitalismo
umano al capitalismo postumano. Blade Runner 2049 parla di questo; eccone
il riassunto (di nuovo, preso senza vergogna da Wikipedia): 23
Anno 2049, i replicanti (umani su cui sono state fatte operazioni di bioingegneria)
sono stati del tutto integrati nella società come servi e schiavi. L’agente K è un
replicante di ultima generazione ed è uno dei nuovi blade runner. Il film comincia
con K che ha l’incarico di rintracciare un vecchio replicante di nome Sapper
Morton, un ex medico militare disertore il quale vive da solo in una fattoria. K lo
rintraccia e, dopo un’estenuante lotta, lo «ritira». In seguito, l’agente trova una
scatola sepolta sotto un albero morto nei pressi dell’abitazione di Sapper. K torna al
suo appartamento dove ad attenderlo c’è Joi, una dolce intelligenza artificiale
olografica comandata da un braccio elettromeccanico, programmata per essere
l’amante ideale. K aggiorna Joi grazie a un emulatore datogli come bonus per il suo
lavoro, rendendola in grado di andare dove desidera. Mentre Joi prova la sua nuova
capacità uscendo fuori dell’abitazione, K viene informato che l’oggetto sepolto è
stato recuperato e aperto, e al suo interno è stato trovato uno scheletro. Gli analisti
del LAPD ricostruiscono che si tratta di una donna morta a seguito di
complicazioni durante un parto cesareo (fatto probabilmente da Sapper per
salvarla), ma K nota qualcosa di strano mentre analizzano le ossa e scoprono incisa
in una di esse un numero di serie: la donna è una replicante nexus. Joshi, il capo di
K, è sconvolta dal ritrovamento, in quanto non si credeva che i nexus fossero
capaci di accoppiarsi e riprodursi, e quindi ordina di eliminare qualsiasi prova del
ritrovamento, intimando a K di trovare e ritirare il figlio replicante, poiché la
notizia potrebbe creare un’instabilità nell’ordine tra umani e replicanti.
K si presenta alla sede della Wallace Industries, dove il personale identifica lo
scheletro ritrovato come quello di Rachel, replicante creata dalla ex Tyrell
Corporation, che ebbe una relazione con il vecchio blade runner Rick Deckard,
scomparso con lei dal 2019. Il fondatore della società, Niander Wallace, crede che i
nexus capaci di riprodursi possano essere il prossimo passo nella sua produzione e
favorire l’espansione delle colonie extramondo, popolate da soli androidi, e quindi
ordina a Luv, la sua replicante tirapiedi, di rubare i resti di Rachel dalla stazione di
polizia e di pedinare K in modo da risalire al figlio replicante. K ritorna alla fattoria
di Sapper e nota, incisa sull’albero morto, la data 6/10/21, che coincide con
l’incisione presente su un cavallino di legno presente in un ricordo che gli è stato
innestato. K si reca nel luogo in cui è ambientato questo ricordo, un orfanotrofio a
San Diego, ritrovando il giocattolo nel posto dove lo aveva nascosto da bambino, e
credendo quindi che l’impianto potrebbe essere un vero ricordo del suo passato,
ipotesi avvalorata anche da Joi.

Tempo prima, K aveva controllato le nascite avvenute nel giugno del 2021,
scoprendo un’anomalia: Rachel ha apparentemente dato alla luce due gemelli che
condividono lo stesso DNA di sesso opposto, e pare che solo il maschio sia ancora
vivo. K si reca quindi dalla dottoressa Ana Stelline, che lavora come creatrice di
ricordi da innestare ai replicanti prodotti dalla Wallace Industries e che, dopo
averlo informato che è illegale innestare ai replicanti memorie vere appartenute agli
umani, gli conferma piangendo che si tratta di un ricordo reale, inducendolo così a
credere di essere lui stesso il figlio della nexus morta. Dopo avere fallito un test
sulla sua natura di replicante, K viene sospeso da Joshi, lasciandole intendere che
ha portato a termine la missione, cioè ritirare il bambino, che è lui stesso. La stessa
Joshi, per compassione, lo lascia andare.
K prosegue l’indagine per conto proprio e fa analizzare il cavallino di legno: in
esso vengono trovate tracce di radioattività, che lo conducono alle rovine post-
apocalittiche di Las Vegas. Qui K ritrova Deckard, che gli rivela di aver alterato le
date di nascita per coprire le loro tracce, venendo costretto a lasciare Rachel con un
gruppo di replicanti rivoluzionari per la sua sicurezza.

Nel frattempo Luv uccide Joshi e rintraccia K. Nello scontro Luv distrugge
sadicamente Joi, lasciando K in fin di vita, e rapisce Deckard. K viene soccorso dal
gruppo rivoluzionario, condotto da Freysa, che lo informa che il vero erede di
Rachel e di Deckard è Stelline, in quanto solo lei poteva essere capace di
impiantare i propri ricordi nella sua mente. Freysa ordina a K di uccidere Deckard
affinché egli non fornisca a Wallace informazioni sul movimento.

È importante che questa parte del film sia ambientata a Las Vegas. Molti
critici vi hanno ritrovato degli echi tarkovskiani, non solo nel ritmo lento ma
anche nel paesaggio, che evoca la Zona di Stalker. Nel primo Blade Runner,
la megalopoli stessa è una Zona, mentre al di fuori c’è una natura verde
intatta (verso la quale Deckard e Rachel fuggono alla fine del film, almeno
nella prima versione che è stata distribuita); in Blade Runner 2049, l’intera
superficie della Terra è una Zona velenosa (la storia si svolge dopo una
catastrofe ecologica), ma esiste una sorta di Zona all’interno della Zona:
l’area attorno a Las Vegas, in cui Deckard si sta nascondendo, il territorio
radioattivo in cui solo i replicanti possono sopravvivere, e in cui le forze della
polizia umana possono intervenire solo per tempi brevi, e con pesanti
protezioni e maschere. Nella Zona di Las Vegas il tempo è bloccato in un
eterno movimento circolare che viene reso perfettamente dall’eterno
ologramma autoreplicantesi dello show di vecchie star (Elvis Presley, ecc.) su
un palco abbandonato. Una cosa che non ha nessun fascino, l’iper-realtà
dell’ologramma, è fratturata e continuamente interrotta; ma ricordiamoci in
ogni caso che qui ci troviamo in una sorta di territorio liberato, o almeno in
un territorio abbandonato dal potere statale in cui ha la sua base anche la
resistenza dei replicanti.
Tornato a Los Angeles, Deckard viene portato davanti a Wallace, il quale
insinua che i sentimenti che Rachel aveva per lui erano stati installati da
Tyrell per verificare se era possibile che una replicante rimanesse incinta.
Quando Deckard si rifiuta di collaborare, Wallace lo fa scortare da Luv in una
zona extramondo per torturarlo ed estorcergli informazioni. K però li
raggiunge, uccide Luv e inscena la morte di Deckard per proteggerlo sia da
Wallace sia dai replicanti. Porta Deckard all’ufficio di Stelline e si lamenta
del fatto che i suoi ricordi più belli appartengano a lei. Deckard entra
cautamente nell’ufficio e si avvicina a Stelline, mentre K muore per le ferite
riportate.
Come è dunque possibile che i due replicanti (Deckard e Rachel) abbiano
costituito una coppia sessuale e procreato un essere umano in modo umano,
vissuto in quanto tale come evento traumatico, celebrato da alcuni come un
miracolo e visto da altri con orrore e come una minaccia? Si tratta di
riproduzione o di sesso, ovvero, di sessualità nella sua specifica forma
umana? Il film si concentra esclusivamente sulla riproduzione, eludendo
ancora la grande questione: la sessualità, privata della sua funzione
riproduttiva, può sopravvivere nell’era postumana?
L’immagine della sessualità rimane quella standard: l’atto sessuale è
mostrato dal punto di vista maschile, così che la donna androide in carne ed
ossa viene ridotta a supporto fisico per la donna olografica di fantasia Joi,
creata per servire l’uomo: «deve sovrapporsi a un corpo reale, per cui oscilla
continuamente fra le due identità, dimostrando che la donna è il vero soggetto
diviso, e l’Altro in carne ed ossa serve solo come veicolo per la fantasia». 24
Joi non è materializzata ma è una fantasia maschile programmata, che si
trasforma da compagna di casa, a casalinga fino all’operatrice del sesso
adattabile ai desideri e alle volontà del suo possessore. La scena di sesso del
film è dunque fin troppo direttamente «lacaniana» (sul filone di film come
Her), e ignora l’autentica eterosessualità in cui il partner non è
semplicemente un supporto che mi permette di mettere in scena le mie
fantasie ma un Altro reale. 25 Il film inoltre non indaga la differenza
potenzialmente antagonistica fra gli stessi androidi, fra gli androidi «di carne
vera» e quelli i cui corpi sono solo delle proiezioni olografiche
tridimensionali: in che modo, nella scena di sesso, la donna androide in carne
ed ossa si relaziona con l’essere ridotta a supporto fisico per la fantasia
maschile? Perché non si oppone e boicotta la cosa?
Il film offre un’intera panoplia di modalità di sfruttamento, compreso
quello di un imprenditore semi-illegale che sfrutta il lavoro minorile
(centinaia di orfani umani) per cercare tra i rifiuti componenti di vecchie
macchine digitali. Da un punto di vista tradizionalmente marxista, si pongono
qui strane questioni: se gli androidi costruiti lavorano, si può parlare ancora
di sfruttamento? Il loro lavoro produce un valore in eccesso rispetto al loro
valore in quanto merci così da poter essere fatto proprio dai loro proprietari
come plusvalore? Ricordiamoci che l’idea di migliorare le capacità umane
per creare lavoratori o soldati postumani perfetti ha una lunga storia nel
ventesimo secolo. Alla fine degli anni Venti, niente meno che Stalin finanziò
il progetto dell’«uomo scimmia» portato avanti dal biologo Il’ja Ivanov (un
seguace di Alexandr Bogdanov, oggetto della critica di Lenin nel suo
Materialismo ed empiriocriticismo): l’idea era che unendo umani e scimmie
si potesse ottenere un perfetto lavoratore e un perfetto soldato, resistente al
dolore, alla stanchezza e alla cattiva alimentazione. Nel suo innato razzismo e
sessismo, Ivanov, ovviamente, cercò di unire maschi umani con femmine di
scimmia; inoltre, gli uomini che utilizzava erano africani del Congo, in base
all’idea che fossero geneticamente più affini alle scimmie: lo Stato sovietico
finanziò una costosa spedizione in quella zona. Quando gli esperimenti
fallirono, Ivanov fu liquidato. Anche i nazisti usavano regolarmente dei
farmaci per migliorare la forma fisica dei loro soldati più scelti, e l’esercito
americano sta facendo adesso degli esperimenti su mutamenti genetici e
farmaci per rendere i soldati super-resilienti (ad esempio, hanno già piloti
pronti a volare e combattere per settantadue ore).
Nell’ambito della finzione, a questo elenco dovremmo aggiungere gli
zombie. I film horror registrano una differenza di classe nell’atteggiamento di
vampiri e zombie: i vampiri sono ben educati, ricercati, aristocratici, vivono
in mezzo alle persone normali, mentre gli zombie sono maldestri, passivi,
sporchi e attaccano dall’esterno, come una primitiva rivolta degli esclusi.
L’equazione fra zombie e classe lavoratrice è stata resa in modo chiaro
nell’Isola degli zombies di Victor Halperin (1932), lungometraggio sui morti
viventi realizzato prima che il Codice Hays, che proibiva riferimenti diretti
alla brutalità dei capitalisti e alle lotte salariali, cominciasse a regolamentare i
film di Hollywood. Nel lungometraggio in questione non ci sono vampiri,
ma, significativamente, il protagonista malvagio, che controlla gli zombie, è
interpretato da Bela Lugosi, diventato famoso un anno prima nei panni di
Dracula. L’isola degli zombies è ambientato in una piantagione di Haiti, il
luogo della più celebre rivolta di schiavi. Lugosi riceve in visita il
proprietario di un’altra piantagione e gli mostra la sua fabbrica di zucchero,
dove i lavoratori sono zombie che, come egli si affretta a spiegare, non si
lagnano per i lunghi turni di lavoro, non pretendono sindacati, non scioperano
e non smettono mai di lavorare. Un film del genere non sarebbe mai stato
possibile dopo l’imposizione del Codice Hays.
Con un ulteriore bel rovesciamento della formula standard secondo la
quale l’eroe, che vive (e percepisce sé stesso) come una persona qualunque,
scopre di essere una figura eccezionale con una missione speciale, K in Blade
Runner 2049 pensa di essere la figura speciale che tutti stanno cercando (il
figlio di Deckard e Rachel), ma pian piano capisce che (come tanti altri
replicanti) è solo un replicante qualunque ossessionato da un’illusione di
grandezza, per cui finisce per sacrificarsi per Stelline, la figura davvero
eccezionale. L’enigmatica Stelline qui è fondamentale: è lei la «vera» figlia
(umana) di Deckard e Rachel, il che significa che è la figlia umana dei
replicanti, invertendo in questo modo il processo dei replicanti creati
dall’uomo. Vivendo isolata nel suo mondo (incapace di sopravvivere negli
spazi aperti pieni di piante vere e vita animale), condannata a una sterilità
assoluta (vestiti bianchi in una stanza vuota con muri bianchi), a un contatto
con la vita limitato all’universo virtuale generato dalle macchine digitali,
riveste la posizione ideale di una creatrice di sogni (lavora come
imprenditrice indipendente, che programma falsi ricordi da impiantare nei
replicanti). In quanto tale, Stelline non è in alcun modo un agente sovversivo:
è una freelance che lavora per Wallace con il compito di evitare che i
replicanti si ribellino; in breve, è l’ideologa responsabile della società di
Wallace, che produce sogni e ricordi in massa per la soddisfazione dei
soggetti. Il movimento di resistenza non avrebbe forse tutte le ragioni di
rapirla e metterla a lavorare per loro? Stelline rappresenta l’assenza (o,
piuttosto, l’impossibilità) della relazione sessuale, che sostituisce con una
ricca tappezzeria fantasmatica. È chiaro dunque che la coppia creata alla fine
del film non è la classica coppia sessuale ma l’unione asessuale di padre e
figlia. È per questo motivo che le immagini finali del film sono allo stesso
tempo familiari e strane: K sacrifica sé stesso in un gesto cristologico sulla
neve per creare la coppia padre-figlia.
C’è un potere di redenzione in questa ritrovata unione? O dovremmo
leggerne il significato sullo sfondo del sintomatico silenzio del film sulla
frizione sociale esistente fra gli umani nella società descritta: dove si trovano
le «classi più umili» degli esseri umani? In ogni caso, il film rende bene
l’antagonismo che spacca l’élite dominante stessa all’interno del capitalismo
globale: quella fra lo Stato e i suoi apparati (rappresentati da Joshi) e le
grandi multinazionali (rappresentate da Wallace) che perseguono il progresso
fino al suo esito distruttivo:
Quando la posizione dello Stato politico-legale del LAPD è di potenziale conflitto,
Wallace vede solamente i potenziali produttivi rivoluzionari dei replicanti auto-
riproducentesi che egli spera possano dargli una mano nei suoi affari. La sua
prospettiva è quella del mercato; e vale la pena guardare a queste prospettive
contraddittorie di Joshi e Wallace, poiché sono indicative delle contraddizioni
esistenti in effetti tra la politica e l’economia; o, detta altrimenti, indicano
stranamente l’intersezione tra il meccanismo dello Stato di classe e le tensioni del
modo economico di produzione. 26

Anche se Wallace è un vero essere umano, agisce come se fosse inumano,


un androide accecato dal desiderio eccessivo, mentre Joshi rappresenta
l’apartheid, la netta separazione fra umani e replicanti, o, per usare le sue
parole: «Le cose hanno un loro ordine. Il mondo è costruito su un muro che
separa per tipo. Di’ a ognuna delle due parti che non c’è nessun muro, e
otterrai una guerra... o un massacro». La sua idea è che se non viene
mantenuta questa separazione, abbiamo la guerra e la disintegrazione. «Se un
bambino nasce da una madre replicante (o da genitori replicanti), è anche lui
un replicante? Se ha creato le sue stesse memorie, è ancora un replicante?
Qual è dunque adesso il confine tra umani e replicanti se questi ultimi
possono autoriprodursi? Cosa definisce la nostra umanità?». 27 Non
dovremmo allora, memori di Blade Runner 2049, integrare il famoso
passaggio del Manifesto del Partito comunista aggiungendo che
«l’unilateralità e la chiusura mentale (sessuale) diventano sempre più
impossibili», che nell’ambito delle pratiche sessuali «tutto ciò che è solido
evapora, tutto ciò che è sacro viene profanato», e che il capitalismo tende a
sostituire l’eterosessualità normativa standard con un proliferare di identità
e/o orientamenti instabili e mutevoli? La celebrazione odierna delle
«minoranze» e dei «marginali» è la posizione maggioritaria predominante:
perfino le destre alternative, che si lamentano del terrorismo insito nel
politicamente corretto liberal, si presentano come protettori di minoranze in
pericolo. O prendiamo quei critici del patriarcato che lo attaccano come se
fosse ancora una posizione egemone, ignorando ciò che Marx ed Engels
hanno scritto più di centocinquant’anni fa nel primo capitolo del Manifesto
del Partito comunista: «Dove ha raggiunto il dominio, la borghesia ha
distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliche». 28 Passaggio
che viene ancora ignorato dai quei teorici della cultura di sinistra che
indirizzano le loro critiche all’ideologia e alla pratica patriarcale. Per non
parlare della prospettiva di nuove forme di postumanità androide (manipolate
geneticamente o biochimicamente) che manderà in frantumi proprio la
separazione fra umani e inumani.
Perché dunque la nuova generazione di replicanti non si ribella?

A differenza dei replicanti della versione originale, gli ultimi replicanti non si
ribellano mai, anche se non ne viene chiarito il motivo, se non che non sono
programmati per farlo. Il film, in ogni caso, suggerisce una spiegazione: la
differenza fondamentale tra i nuovi e i vecchi replicanti riguarda la relazione con i
loro falsi ricordi. I vecchi replicanti si ribellavano perché credevano che i loro
ricordi fossero veri e dunque potevano vivere l’alienazione dello scoprire che non
lo erano. I nuovi replicanti sanno fin dall’inizio che i loro ricordi sono falsi, dunque
non vengono mai ingannati. Il punto è dunque che il disconoscimento feticistico
dell’ideologia rende i soggetti più schiavi dell’ideologia che non la semplice
ignoranza del suo funzionamento. 29

La nuova generazione di replicanti è privata dell’illusione di ricordi


autentici, di tutto il contenuto sostanziale del loro essere, e sono così ridotti al
vuoto della soggettività, ovvero allo stato proletario puro di substanzlose
Subjektivität. Dunque, il fatto che non si ribellino non può forse significare
che la ribellione deve essere sostenuta dalla consapevolezza di un qualche
contenuto autentico minacciato da un potere oppressivo?
K mette in scena un falso incidente per far scomparire Deckard, non solo
agli occhi dello Stato e del capitale (la Wallace Corporation) ma da quelli dei
ribelli replicanti (guidati da una donna, Freysa, un nome che, ovviamente,
rimanda all’idea di libertà, Freiheit in tedesco). Sebbene si possa giustificare
la sua decisione sapendo che anche Freysa vuole la morte di Deckard per
impedire che Wallace scopra il segreto della riproduzione dei replicanti – sia
l’apparato statale (incarnato da Joshi) sia i rivoluzionari (incarnati da Freysa)
vogliono la morte di Deckard – la decisione di K dà comunque alla storia una
prospettiva umanistico-conservatrice: cerca di preservare l’ambito della
famiglia dal conflitto sociale di base, presentando entrambe le parti come
ugualmente brutali. Questa mancata presa di posizione tradisce la falsità del
film: è tutto troppo umanistico, nel senso che tutto ruota attorno agli umani, a
coloro che vogliono essere (presi come) umani, o a quelli che non sanno di
non essere umani. (Non è forse il risultato della biogenetica il fatto che noi –
umani «ordinari» – in effetti siamo questo, umani che non sanno di non
essere umani, ovvero macchine di neuroni con autoconsapevolezza?). Il
messaggio umanistico implicito del film è quello della tolleranza liberale:
dovremmo dare agli androidi sentimenti umani (amore e così via), diritti
umani, trattarli come umani, accoglierli nel nostro universo; ma con il loro
arrivo, il nostro universo sarà ancora nostro, rimarrà lo stesso universo umano
che conosciamo?
Ciò che manca è una qualunque considerazione del cambiamento che
l’arrivo degli androidi dotati di consapevolezza significherà per la condizione
degli umani stessi: noi umani non saremo più umani nel senso tradizionale,
qualcosa di nuovo salterà fuori, e come lo definiremo? Inoltre, rispetto alla
distinzione fra androidi con corpi «reali» e androidi-ologrammi, fin dove
dovrebbe arrivare il nostro riconoscimento? Dovremmo riconoscere i
replicanti-ologrammi dotati di emozioni e consapevolezza (come Joi, che è
stata creata per servire e soddisfare K) come entità che agiscono come
umani? Dovremmo tenere a mente il fatto che Joy, ontologicamente una mera
replicante-ologramma priva di un suo corpo reale, compie l’atto estremo del
sacrificio di sé stessa per K, atto per il quale non era stata programmata. 30
Al di là di questo Nuovo, rimane soltanto l’opzione di un sentimento
nostalgico di minaccia (la minacciata sfera «privata» della riproduzione
sessuale), una falsità che è iscritta nella forma visiva e narrativa del film. In
questa forma, l’aspetto represso del suo contenuto ritorna, non nel senso che
la forma è più progressista, ma nel senso che la forma serve a nascondere il
potenziale progressista e anticapitalista della storia. Il ritmo lento, con il suo
immaginario anestetizzato, esprime la posizione sociale della mancata presa
di posizione, di un vagare passivo.
Questo ci riporta alla lotta di classe. I replicanti sono lavoro servile
prodotto in massa per umani privilegiati, adatti principalmente al lavoro in
ambienti malsani, su altri pianeti in cui gli umani non possono sopravvivere,
o, come afferma Wallace: «Ogni grande civiltà è stata costruita sulle spalle di
una forza lavoro a sua disposizione». Se questo è vero, sarebbe stato
comunque fin troppo semplice ridurre l’antagonismo tra umani e replicanti a
uno spostamento metaforico di quello tra privilegiati e non privilegiati
(sfruttati/esclusi) all’interno della società umana:

Man mano che K procede con le sue indagini, incontriamo sempre più indizi di una
società schiavista che ipoteticamente esiste da almeno trent’anni: silos di bambini
lavoratori che smantellano circuiti elettronici abbandonati; spazzini che vivono su
gigantesche discariche di metallo arrugginito; prostitute nelle strade; un «allevatore
di proteine» che conduce una misera esistenza nel fango. Vediamo addirittura a un
certo punto un addetto alle pulizie, forse il primo in assoluto in un film di
fantascienza hollywoodiano. Questo è il nostro mondo, il mondo di oggi. 31

Di nuovo, se anche questo fosse vero, non è tutta la verità: la prospettiva di


forme di vita postumane non è più solo un progetto che riguarda le
generazioni future, ma qualcosa che mette in moto gli attuali tentativi del
capitalismo globale di rimandare la sua crisi definitiva. Arriviamo così a
quello che possiamo affermare essere il messaggio del film:

Al di là della filosofia alla Baudrillard sul «come sappiamo di essere umani?»,


Blade Runner 2049 si domanda cosa significhi essere umani, e azzarda
coraggiosamente qualche ipotesi. È la capacità di creare delle connessioni, di essere
empatici con gli altri, di amare, di avere dei valori. È anche la volontà di agire, di
resistere, di combattere per quei valori. «Morire per la giusta causa è la cosa più
umana che si possa fare» dice un personaggio. È un invito alla rivoluzione. Non
domani ma adesso. 32

Qui, in ogni caso, subentra un’ambiguità. Il personaggio che pronuncia la


frase sul morire per la giusta causa è Freysa, colei che è a capo della
resistenza dei replicanti, e mentre K lo ripete molte volte, dà però a questa
affermazione un senso diverso, non-politico, sostituendo alla causa
emancipatoria di liberazione universale l’obiettivo di un incontro fra padre e
figlia che li sottrae entrambi dalla lotta politica; nella prospettiva di K, morire
per la giusta causa non è per nulla un invito alla rivoluzione. 33
Quale sarebbe stata dunque una forma autentica di contatto tra umano e
replicante? Quando si discute del problema «gli androidi devono essere
trattati come umani?», l’attenzione di solito si focalizza sulla consapevolezza
o sulla coscienza: sono dotati di una vita interiore? (Anche se i loro ricordi
sono programmati e impiantati, possono comunque essere vissuti come
autentici). Forse, in ogni caso, dovremmo spostare l’attenzione dalla
coscienza o consapevolezza all’inconscio: possiedono un inconscio nel senso
esatto e freudiano del termine? L’inconscio non è una qualche dimensione
irrazionale più profonda ma ciò che Lacan avrebbe chiamato un’«altra scena»
virtuale che accompagna il contenuto conscio del soggetto.
Facciamo un esempio forse inaspettato. Pensiamo alla famosa battuta di
Ninotchka di Lubitsch: «‘Cameriere! Vorrei un caffè senza panna!’ ‘Mi
dispiace, signore, la panna è finita, abbiamo solo latte, posso darle un caffè
senza latte?’». A livello fattuale, un caffè resta sempre un caffè, ma quello
che possiamo fare è trasformare un caffè senza panna in un caffè senza latte;
o, in modo ancora più semplice, aggiungere la negazione implicita e rendere
un caffè semplice un caffè senza latte. La differenza tra «caffè semplice» e
«caffè senza latte» è puramente virtuale, non c’è differenza nella tazza di
caffè vera e propria, e vale esattamente lo stesso per l’inconscio freudiano: la
sua condizione è altrettanto puramente virtuale, non è una realtà psichica «più
profonda», in breve l’inconscio è come il «latte» nel «caffè senza latte». E
qui sta l’inganno: il grande Altro digitale, che ci conosce meglio di quanto
noi non conosciamo noi stessi, può a sua volta cogliere la differenza tra
«caffè semplice» e «caffè senza latte»? O la sfera controfattuale è al di fuori
della portata del grande Altro digitale, che si limita ai fatti del nostro cervello
e del contesto sociale di cui noi non siamo consapevoli? La differenza qui è
quella tra i fatti «inconsci» (psichici, sociali) che ci determinano e
l’«inconscio» freudiano, la cui condizione è puramente controfattuale. Questo
ambito dei controfattuali può essere operativo solo se è in atto la soggettività:
per registrare la differenza tra «caffè semplice» e «caffè senza latte», deve
essere operativo un soggetto. E, tornando a Blade Runner 2049, i replicanti
possono percepire questa differenza?
Capitolo secondo
Stravaganze del potere

La navigazione di Lenin in territori inesplorati


In Stato e Rivoluzione (1917), una sorta di lavoro teorico preparatorio per la
Rivoluzione d’Ottobre, Lenin ha chiarito la sua visione della condizione dei
lavoratori, in cui ogni kucharka (non un cuoco, soprattutto non un grande
chef, ma una più modesta domestica che lavora nella cucina di una ricca
famiglia) dovrebbe imparare a guidare lo Stato, in cui ciascuno, anche i gradi
più alti dell’amministrazione, avrebbe il salario di un operaio, in cui tutti gli
amministratori verrebbero eletti direttamente dalle loro circoscrizioni locali,
che potrebbero poi richiamarli in ogni momento, e in cui non ci sarebbe alcun
esercito permanente.
Il modo in cui questa visione si è trasformata nel suo opposto subito dopo
la Rivoluzione d’ottobre è oggetto di numerose analisi critiche; ma, forse, ciò
che è ancora più interessante, è il fatto che Lenin proponga come base
normativa di questa visione «utopica» un concetto quasi habermasiano delle
«regole elementari della convivenza sociale, da tutti conosciute da secoli,
ripetute da millenni in tutti i comandamenti». 1 Nel comunismo, questa base
normativa permanente della convivenza umana finalmente governerà in modo
non distorto: solo in una società comunista, «liberati dalla schiavitù
capitalistica, dagli innumerevoli orrori, barbarie, assurdità, ignominie dello
sfruttamento capitalistico», gli uomini «si abituano a poco a poco a osservare
le regole elementari della convivenza sociale [...] a osservarle senza violenza,
senza costrizione, senza sottomissione, senza quello speciale apparato di
costrizione che si chiama Stato». 2
Circa una pagina dopo, Lenin scrive di nuovo: «Sappiamo inoltre che la
principale causa sociale degli eccessi che costituiscono infrazioni alle regole
della convivenza sociale è lo sfruttamento delle masse»; 3 il che significa,
forse, che la rivoluzione si basa, dal punto di vista normativo, su una qualche
forma di regole universali che funzionano come «natura umana» eterna? (E,
forse, ritroviamo questa preoccupazione per le «regole elementari della
convivenza sociale» nelle critiche fatte negli ultimi mesi di vita ai villani
comportamenti di Stalin). Il tema del fondamento normativo deve essere
affrontato in tutti i suoi aspetti: ad esempio, su cosa dobbiamo basare il
nostro rifiuto del razzismo?
Lacan afferma che la scienza è nata «dal momento in cui Galileo ha posto
dei piccoli rapporti tra lettera e lettera con una barra nell’intervallo [...]. La
scienza è proprio questo, parte da qui. Ed è per questo che ripongo la mia
speranza nel fatto che, passando sotto qualsiasi rappresentazione, arriveremo
forse ad avere sulla vita qualche dato più soddisfacente». 4 Jean-Claude
Milner chiarisce come, per Lacan, «i rapporti tra lettera e lettera, piuttosto
che la matematica, siano il reale punto di partenza»:
dopo un lungo periodo in cui la matematica ha incluso le lettere nella scienza, le
lettere in quanto tali sono ora riapparse nella loro piena autonomia. Per questa
ragione, è possibile sperare in dati migliori sulla vita. Perché? Perché il riemergere
di lettere autonome nella scienza moderna è avvenuto nella biologia. 5
La visione dell’esistenza posta in questo modo preclude radicalmente tutte
le principali caratteristiche del nostro concetto intuitivo di vita come unità
organica: «Questa struttura chimica che, partendo da elementi distribuiti in
qualunque mezzo e in qualunque modo li vogliamo qualificare, costruirebbe,
in base alle leggi della sola scienza, una molecola di DNA – come si potrebbe
avviare? Tutto ciò a cui porta la scienza non è altro che la percezione che non
c’è niente di più reale di questo; in altre parole, niente è più impossibile da
immaginare». 6
Milner, da questa irrappresentabilità della vita, nel momento in cui
concepiamo la sua struttura a partire da formule composte da lettere, trae una
conclusione politica radicale: solo la riduzione della vita a una serie di lettere
prive di qualunque significato più profondo o di unità organica può
proteggerci dal razzismo:

Per molti secoli, la vita è stata la madre di tutte le rappresentazioni immaginarie, il


cui esempio più tragico è stato prodotto dalle politiche razziali e dal Lebensraum.
Grazie alla lettera, è possibile sperare di andare al di là delle rappresentazioni,
perfino sul soggetto della vita [...] Se letteralizzata, la vita è il Reale in quanto tale;
se la biogenetica, piuttosto che la matematica, è la scienza del Reale, allora tutte le
forme di pseudo-rappresentazione che fingono di essere basate sulla realtà della
vita portano al mito fondamentale dell’umanità moderna, ovvero il razzismo. Di
conseguenza, l’arma migliore contro il razzismo non è la pietà o la paura, ma
l’irrappresentabilità delle lettere della vita. 7

Ma le cose sono davvero così semplici e chiare? Perfino James Watson,


che vinse il premio Nobel nel 1962 per la scoperta della struttura a doppia
elica del DNA nel 1953, ha affermato più volte che i neri sono meno
intelligenti dei bianchi e che l’idea che «uguali capacità della ragione»
fossero condivise nei diversi gruppi razziali era un’illusione. 8 Tali
affermazioni non erano solo opinioni personali, ma si basavano sulle sue
ricerche sul DNA. E non era il solo a muoversi su questa strada: molti razzisti
cercano di trovare un fondamento biogenetico alla gerarchia delle razze. In
Slovenia, il principale politico di destra afferma che gli sloveni sono
geneticamente più vicini agli scandinavi che agli altri slavi (il suo scopo è,
evidentemente, di staccare gli sloveni dai Balcani e farli confluire nel gruppo
etnico settentrionale tedesco). Proprio l’irrappresentabilità delle lettere della
vita (citata da Milner) conferisce al razzismo un’aura di magia scientifica.
L’argomentazione di Watson non è così facile da confutare come può
sembrare. Se guardiamo al problema da un punto di vista puramente
scientifico, per quale motivo le «capacità della ragione» (qualunque sia il
modo, anche problematico, con cui le vogliamo definire) dovrebbero essere
uguali fra le razze? L’uguaglianza è una norma etico-politica, non un fatto: le
persone sono uguali nonostante le loro differenze naturali e sociali.
Potremmo addirittura fare un ulteriore passo avanti e chiederci: qual è l’esatta
condizione dell’uguaglianza? Cosa intendiamo quando diciamo che le
persone sono uguali, che condividono tutte la stessa libertà, la stessa ragione
e la stessa dignità? Se questa uguaglianza come norma è un fatto storico, una
cosa che è emersa solamente con la modernità, allora le persone sono
diventate uguali solo quando l’uguaglianza è diventata una norma. Dunque su
cosa basiamo il nostro appello all’uguaglianza? È un fatto naturale (in che
senso?), un fatto (o, piuttosto, una caratteristica a priori) della natura umana,
o (come Habermas ha cercato di dimostrare) una struttura normativa
implicata dal fatto della comunicazione simbolica; o, di nuovo, una norma
che emerge con la modernità (e che, di conseguenza, non ha alcun significato
nelle civiltà premoderne, tanto da essere, in effetti, una forma di colonialismo
culturale da trattare come universale)? Inoltre, se il cosiddetto assioma di
uguaglianza è parte di una specifica costellazione storica, in che senso
possiamo affermare che sia eticamente superiore a forme di gerarchia più
tradizionali (o scientifiche moderne)? Ogni affermazione della superiorità
dell’uguaglianza non è forse circolare, nel senso che presuppone già ciò che
cerca di dimostrare? Una risposta hegeliana sarebbe stata che l’uguaglianza-
nella-libertà emerge inevitabilmente dalle contraddizioni pragmatiche insite
in tutti i concetti di giustizia precedenti; ma siamo già pronti, noi, ad
appoggiare il concetto «eurocentrico» di progresso che è alla base di questo
atteggiamento?
Il riferimento alla natura umana non è l’ultima parola di Lenin, in ogni
modo. In un altro passaggio di Stato e Rivoluzione sembra affermare quasi il
contrario: sorprendentemente, fonda la famosa e famigerata differenza fra
stato alto e basso del comunismo su un diverso stato della natura umana.
Nella prima fase, più bassa, abbiamo ancora a che fare con la stessa «natura
umana» di tutta la storia di sfruttamento e lotta di classe, mentre ciò che
accadrà nella seconda fase, più alta, è che la «natura umana» stessa sarà
cambiata:
Noi non siamo degli utopisti. Non «sogniamo» di fare a meno, dall’oggi al domani,
di ogni amministrazione, di ogni subordinazione; questi sono sogni anarchici [...]
che di fatto servono unicamente a rinviare la rivoluzione socialista fino al giorno in
cui gli uomini saranno cambiati. No, noi vogliamo la rivoluzione socialista con gli
uomini quali sono oggi, e che non potranno fare a meno né di subordinazione, né di
controllo, né di «sorveglianti, né di contabili». [...] I lavoratori uniti possono essi
stessi benissimo assumere tecnici, sorveglianti, contabili e pagare il lavoro di tutti
costoro, come quelli di tutti i funzionari dello Stato in generale, con un salario da
operaio. 9

La cosa interessante qui è che il passaggio dalla fase più bassa a quella più
alta del comunismo non si fonda primariamente sullo sviluppo delle forze
produttive al di là della penuria, ma su un cambiamento nella natura umana.
In questo senso il comunismo cinese (nel suo momento più radicale) aveva
ragione: ci può essere un comunismo di povertà se cambiamo la natura
umana, e un socialismo di relativa prosperità («comunismo goulash»).
Quando la situazione si fa più disperata (come nel caso della Russia durante
la guerra civile del 1918-1920), c’è sempre la tentazione millenarista di
vedere in questa miseria assoluta un’occasione unica per passare direttamente
al comunismo; in questo senso va letto il Čevengur di Platonov. Lenin
dunque sembra oscillare fra un riferimento habermasiano alle regole naturali
esterne di un cambiamento sociale e un cambiamento nella natura umana
stessa, l’emergere di un Nuovo Uomo; su cosa si fondano le oscillazioni e le
tensioni di Lenin? Torniamo all’acuta analisi di Milner sugli imbrogli delle
rivoluzioni dell’Europa moderna che culminano nello stalinismo. Il punto di
partenza di Milner è la distanza radicale che separa l’esattezza (la verità dei
fatti, l’accuratezza relativa ad essi) e la verità (alla cui causa siamo votati):

Quando ammettiamo la differenza radicale fra esattezza e verità, ci resta solo una
massima etica: mai contrapporle. Non rendere mai l’inesatto il mezzo privilegiato
degli effetti della verità. Non trasformare mai questi effetti in sottoprodotti della
menzogna. Non rendere mai il Reale uno strumento per la conquista della realtà. E
mi permetterei di aggiungere: non rendere mai la rivoluzione la leva di un potere
assoluto. 10

Nel giustificare questo appello al potere assoluto, i proverbi hanno un


ruolo significativo nella tradizione comunista, da «la rivoluzione non è un
pranzo di gala» di Mao al leggendario «per fare la frittata bisogna rompere le
uova» stalinista. Il detto preferito fra i comunisti iugoslavi era più osceno:
«non si può dormire con una ragazza senza lasciare tracce». Ma il punto è
sempre lo stesso: sostenere una brutalità senza limiti. Per coloro che credono
nell’esistenza di Dio (sotto forma del grande Altro della storia, di cui sono gli
strumenti), tutto è permesso. In ogni caso, il riferimento teologico può
funzionare anche in maniera opposta: non nel senso fondamentalista del
legittimare misure politiche come l’imposizione di una volontà divina, i cui
strumenti sono i rivoluzionari, ma nel senso che la dimensione teologica
serve come una sorta di valvola di sfogo: un segno dell’apertura e
dell’incertezza della situazione, che impedisce agli agenti politici di
concepire le loro azioni in termini di auto-trasparenza; «Dio» significa che
dovremmo sempre tenere a mente che il risultato delle nostre azioni non
corrisponderà mai alle nostre aspettative. Questo «mind the gap» 11 non fa
solo riferimento alla complessità della situazione in cui noi interveniamo;
riguarda soprattutto l’estrema ambiguità nell’esercizio della nostra stessa
volontà.
Ma questo cortocircuito fra verità ed esattezza non è forse l’assioma di
base di Stalin (che, ovviamente, doveva rimanere non detto)? Alla verità non
è solo permesso di ignorare l’esattezza; le è permesso di cambiarle il vestito
arbitrariamente. Forse la peculiarità di alcune parole russe può guidarci su
questo terreno: spesso, in russo, ci sono due parole per quello che a noi
occidentali appare lo stesso termine, una che indica il significato comune del
termine e l’altra un uso «assoluto», più connotato eticamente. C’è istina, il
concetto comune di verità in quanto rispondenza ai fatti e, di solito con la
maiuscola, Pravda, la verità assoluta che designa anche il concetto connotato
eticamente di Ordine del Bene. C’è svoboda, la comune libertà di fare quello
che vogliamo all’interno dell’ordine sociale e volja, la pulsione assoluta, più
connotata dal punto di vista metafisico, di seguire la propria volontà fino al
punto dell’autodistruzione; come amano dire i russi, in Occidente avete la
svoboda, noi abbiamo la voljia. Poi c’è il gosudarstvo, lo Stato nei suoi
aspetti amministrativi ordinari, e derzhava, lo Stato come agente unico del
potere assoluto. (Se applichiamo la ben nota distinzione Walter Benjamin-
Carl Schmitt, potremmo arrischiarci ad affermare che la differenza fra
gosudarstvo e derzhava è quella fra ordine costituito e costituentesi:
gosudarstvo è la macchina amministrativa dello Stato che fa il suo corso
come prescritto dalle norme legali, mentre derzhava è l’agente del potere
incondizionato). Ci sono gli intellettuali, le persone colte, e l’intelligencija,
gli intellettuali incaricati della speciale missione di riformare la società, e che
ad essa si dedicano. (Su questa falsariga, è già presente in Marx la distinzione
implicita tra «classe operaia» – una semplice categoria dell’essere sociale – e
«proletariato» – una categoria della verità, il soggetto rivoluzionario vero e
proprio).
Non è forse questa contrapposizione in fin dei conti quella elaborata da
Alain Badiou fra Evento e la positività del mero Essere? Istina è la verità
meramente fattuale (corrispondenza, adeguatezza), mentre pravda indica
l’auto-referentesi Evento della verità; svoboda è la normale libertà di scelta,
mentre voljia è il risoluto Evento della libertà. In russo questa distanza è
chiaramente percepibile, ed evidenzia così il rischio radicale che ogni
Evento-Verità comporta: non c’è nessuna garanzia ontologica che la pravda
riuscirà ad affermare sé stessa a livello fattuale (coperta dalla istina). E, di
nuovo, sembra quasi che la consapevolezza di questa distanza sia incarnata
nel linguaggio russo, nell’espressione unica awos o na awos, che significa
qualcosa come «con fortuna»; esprime la speranza che le cose vadano bene
quando si compie un gesto fortemente rischioso senza la capacità di
prevederne tutte le possibili conseguenze, qualcosa come l’«On attaque, et
puis on verra» di Napoleone, spesso citato da Lenin.
Dove sta dunque Lenin in tutto questo? Milner lo colloca sul limite, nel
portare la tensione al suo estremo: mentre rimaneva pienamente votato
all’ortodossia marxista, che intende la rivoluzione come parte della realtà
storica globale, nella sua pratica politica esercitava la massima apertura e
improvvisazione, passando dal terrore rivoluzionario a una parziale apertura
al capitalismo; e in questo processo i bolscevichi «commisero tutti gli errori
possibili», come lui stesso afferma:

Durante la Rivoluzione francese stessa, è facile riconoscere i momenti in cui i più


razionali e i più coraggiosi fra i rivoluzionari persero le speranze. La maggior parte
di loro era competente e colta, ma nessun precedente storico nella storia, nessuna
scoperta scientifica, e nessuna argomentazione filosofica li poteva aiutare. Lo
stesso può dirsi di Lenin. Chiunque abbia letto le sue opere non può che ammirarne
l’intelligenza, la cultura enciclopedica, e la capacità di inventare nuovi concetti
politici. Non di meno, i suoi scritti mostrano anche una crescente incertezza rispetto
alla situazione che lui stesso aveva creato. Giusta o sbagliata che fosse, la NEP era
stata non solo un punto di svolta; implicava una severa autocritica, quasi un
rinnegamento. Almeno, dimostrava che Lenin si era confrontato con la sua stessa
mancanza di conoscenza nel campo della politica economica in cui, come marxista,
era sicurissimo di sé; stava in realtà scoprendo un nuovo paese politico. Stava per
imbattersi proprio nella difficoltà che Saint-Just aveva annunciato. 12

Il che ci riporta all’ambiguità di Hegel rispetto all’impegno politico: come


possiamo tenere insieme la posizione ex post di Hegel (pensare è come il volo
del gufo di Minerva: il suo scopo non è discernere quello che sarà ma
cogliere la struttura razionale di quello che è) con il suo impegno politico
appassionato (il suo ultimo scritto è una polemica contro il Reform Bill
inglese del 1831)? Da dove, a partire da quale posizione, era impegnato
politicamente? In che modo ha evitato di ricadere nel dover-essere (Sollen)
qui, nei suoi scritti più impegnati? Non dava forse voce, nella critica al
Reform Bill, alla sua paura che il voto universale (direzione verso la quale il
Reform Bill si stava muovendo) minacciasse il suo stesso modello di Stato
corporativo? Non giudicava allora forse gli eventi dal punto di vista del
modello dello Stato razionale dispiegato nella sua Filosofia del diritto,
violando dunque così la sua stessa visione, secondo la quale il fatto stesso di
aver sviluppato il modello significa che il suo tempo è passato? È troppo
semplice dire che, per Hegel, «ciò che è» non è solo uno stato stabile delle
cose ma una situazione storica aperta e piena di tensioni e potenziali.
È più utile mettere in relazione l’impasse di Hegel con la visione di Saint-
Just: «Ceux qui font des révolutions ressemblent au premier navigateur
instruit par son audace» («Coloro che fanno le rivoluzioni sono simili ai
primi navigatori, che hanno per guida solo la loro audacia»). 13 Non è forse
questa la conseguenza della scelta di Hegel di confinare la presa concettuale
al passato? Come soggetti chiamati in causa, dobbiamo agire avendo una
visione del futuro, ma per delle ragioni a priori non possiamo basare le nostre
decisioni su uno schema razionale di progresso storico (come pensava Marx),
per cui dobbiamo improvvisare e correre dei rischi. Era questa anche la
lezione che Lenin aveva imparato leggendo Hegel nel 1915? Il paradosso è
che ciò che Lenin aveva preso da Hegel, che viene normalmente denunciato
come il filosofo della teleologia storica, del progresso inesorabile e regolare
verso la libertà, era l’assoluta contingenza del processo storico.
Si sarebbe tentati di mettere a confronto il Lenin «decisionista» del 1917
con il Lenin degli ultimi anni, un Lenin più pragmatico e realista che cerca
disperatamente di istituzionalizzare la rivoluzione in un modo molto più
modesto; in ogni caso, ciò che le due posizioni condividono è, non ho timore
di affermare, la spietata volontà di arrivare al potere e poi tenerselo stretto. La
determinazione di Lenin nel prendere il potere non rispecchiava soltanto la
sua ossessione per esso, significava molto di più: la sua ossessione (nel senso
buono del termine) per l’apertura di un «territorio liberato», uno spazio
controllato da forze di emancipazione al di fuori del sistema capitalista
globale. Per questo motivo qualunque concetto romantico di rivoluzione
permanente era del tutto alieno a Lenin: quando, dopo la sconfitta della
sperata rivoluzione pan-europea all’inizio degli anni Venti, alcuni bolscevichi
pensavano che sarebbe stato meglio perdere il potere che tenerselo in quelle
condizioni, Lenin ne fu inorridito. Lenin era una sorta di strutturalista: il
posto del potere ha la priorità rispetto al suo contenuto, per cui dovremmo
tenercelo e poi capire come riempirlo.
Inoltre, c’è un chiaro contrasto fra la strategia di Lenin del rischiare grandi
azioni e il suo pragmatismo spietato, un pragmatismo che è evidente nella sua
decisione di imporre la Rivoluzione d’Ottobre. Dopo la Rivoluzione di
febbraio, Lenin vide subito un’occasione unica di prendere il potere. Questa
idea derivava dalla sua analisi di una costellazione del tutto specifica, non era
l’espressione di un qualche «decisionismo» astratto. D’altra parte, c’era
molto più «utopismo» negli sforzi di Lenin di riempire lo spazio lasciato
libero dal sistema capitalista con nuovi contenuti. Il paradosso è che fu
pragmatico nella conquista del potere, e utopico nel decidere cosa farne una
volta ottenutolo.
Ciò che Lenin aveva davvero imparato da Hegel era il concetto di
universalità concreta e del suo utilizzo in politica. «Universalità concreta»
significa che non esiste un’universalità astratta delle regole, non ci sono
situazioni «tipiche», abbiamo sempre a che fare con delle eccezioni; in ogni
caso, una totalità concreta è la totalità che regola il contesto concreto delle
eccezioni. Dovremmo così, proprio in nome della nostra fedeltà all’analisi
concreta, respingere qualunque forma di nominalismo. All’affermazione
nominalista che non esiste un’universalità pura e neutrale, che ogni
universalità si trova all’interno del conflitto di particolari modi di vita,
bisognerebbe rispondere: «No, oggi sono i particolari modi di vita che non
esistono come modi autonomi di esistenza storica, l’unica vera realtà è quella
del sistema capitalista universale». Questo è il motivo per cui, diversamente
dall’identità politica, che si focalizza sul modo in cui ciascun gruppo (etnico,
religioso, sessuale) dovrebbe essere in grado di asserire pienamente la propria
specifica identità, il compito ben più difficile e radicale è quello di mettere
ogni gruppo in grado di accedere alla piena universalità. Questo accesso
all’universalità non significa riconoscere che l’uno è anche parte del genere
umano universale, o affermare alcuni valori ideologici che vengono
considerati universali. Piuttosto, significa riconoscere l’universalità di
ciascuno, il modo in cui essa agisce nelle fratture della specifica identità di
ciascuno, come «l’opera del negativo» che mina proprio ognuna di queste
identità.
Paradossalmente, la debolezza filosofica di Lenin ha contribuito al suo
genio politico, e ne è stata in qualche modo una condizione. Per cui, anche se
Lukács all’inizio degli anni Venti (nei suoi Storia e coscienza di classe e
Lenin) aveva ragione a interpretare il pensiero e l’azione di Lenin come
fondati nella struttura della soggettività hegeliana, con il proletariato come il
soggetto-sostanza storico, non gli era però chiaro che, per complesse ragioni
di dialettica storica, un Lenin pienamente consapevole di ciò che stava
facendo non sarebbe stato in grado di farlo. Ecco un altro caso della strana
dialettica del non sapere come condizione del fare; e la sorpresa è che questo
esempio occorre nell’opera di Lukács, un filosofo il cui concetto di coscienza
di classe implica l’identità auto-trasparente del sapere e del fare (l’atto stesso
dell’arrivare a una coscienza di classe è, per il proletariato, un atto pratico, un
fare, un cambiamento simultaneo nel suo reale essere sociale). 14 Non ci
sorprende, dunque, che anche se Lenin aveva cercato di sviluppare una
cornice teorica per la sua pratica (la cornice di una totalità complessa,
sovradeterminata, in cui l’eccezione è la legge e permette una rivoluzione
nell’«anello più debole» del sistema capitalista), la tensione era diventata
sempre più palpabile.
Cosa fece allora Stalin a questo punto? «Stalin prese la via più semplice
nel preferire l’assoluta solitudine di S1 (il Significante Padrone) che conduce
all’opportunismo assoluto. Nessun partito, nessuna famiglia, nessun alleato
tranne quelli circostanziali, ma anche nessuna teoria predeterminata delle
forme sociali, nessun criterio accettato per la razionalità, nessuna regola
etica». 15
Forse qui, Milner ha una visione un po’ troppo limitata. A un certo livello,
la frattura di Stalin con Lenin era puramente discorsiva, nell’imporre con
violenza un’economia soggettiva del tutto diversa. La distanza fra i principi
generali (le «leggi storiche») che regolano la realtà e le decisioni improvvise
e pragmatiche, ancora percepibile in Lenin, viene semplicemente sconfessata,
e i due estremi arrivano a coincidere direttamente: da una parte, abbiamo un
opportunismo pragmatico totale, dall’altra, questo opportunismo pragmatico
viene legittimato da una nuova ortodossia marxista che propone un’ontologia
generale. Il che significa che Lenin stesso non era un «leninista»: il
«leninismo» è una costruzione retroattiva del discorso stalinista. La chiave
per il leninismo come ideologia (stalinista) viene fornita da Michail Suslov, il
membro del Politburo responsabile dell’ideologia dagli ultimi anni di Stalin
fino all’epoca di Gorbačëv. Alexei Yurchak ha sottolineato come né
Chruščëv né Brežnev avrebbero emesso alcun documento prima che Suslov
l’avesse controllato – perché?
Nel 1990, Fyodor Burlatsky, un precedente consigliere di Chruščëv e Andropov,
descrisse una tecnica usata da Suslov per manipolare le parole di Lenin. Suslov, che
era a capo dell’ideologia del Politburo, nel suo ufficio al Cremlino aveva
un’enorme collezione di citazioni di Lenin. Erano scritte su tessere di biblioteca,
organizzate per temi, e contenute in uno schedario di legno. Ogni volta che veniva
avviata una nuova campagna politica, una misura economica, o una scelta di
politica internazionale, Suslov trovava la giusta citazione di Lenin per sostenerla.
Una volta, all’inizio degli anni Sessanta, il giovane Burlatsky mostrò a Suslov la
bozza di un discorso che aveva preparato per Chruščëv. Dopo aver studiato
attentamente il testo, Suslov indicò un punto e disse: «sarebbe bene spiegare questa
idea con una citazione da Vladimir Il’ič». Quando Burlatsky rispose che avrebbe
trovato una citazione adeguata, Suslov lo interruppe: «No, ci penserò io». Burlatsky
scrive: «Suslov corse nell’angolo del suo ufficio, tirò fuori un cassetto e lo mise sul
tavolo. Con le sue dita lunghe e affilate cominciò rapidamente a scorrere fra le
varie tessere. Ne tirò fuori una e la lesse. No, non va bene. Poi ne prese un’altra.
No, ancora non va bene. Finalmente prese un’altra tessera e esclamò con
soddisfazione: ok, questa è quella giusta.
Le citazioni di Lenin della collezione di Suslov erano estrapolate dal loro contesto
originale. Poiché Lenin era uno scrittore estremamente prolifico che commentava
ogni tipo di situazioni storiche e sviluppi politici, Suslov poteva trovare le giuste
citazioni per legittimare come «leninista» quasi ogni argomentazione o iniziativa, a
volte anche in contraddizione l’una con l’altra. Un altro scrittore ricordava che
«esattamente le stesse citazioni dei fondatori del marxismo-leninismo che Suslov
usava con successo sotto Stalin e per le quali Stalin lo apprezzava così tanto, più
tardi furono usate dallo stesso Suslov per criticarlo». 16

Questa era la verità del leninismo sovietico. Lenin era il riferimento


assoluto: una sua citazione legittimava qualunque misura politica, economica
o culturale, ma in un modo assolutamente pragmatico e arbitrario;
esattamente lo stesso modo in cui la Chiesa cattolica cita la Bibbia.
(Dovremmo anche considerare fino a che punto Lenin stesso usava in modo
simile i testi di Marx). In altre parole, far riferimento a Lenin non poneva
vincoli di nessun genere: qualunque misura politica diventava accettabile se
legittimata da una sua citazione. Il marxismo diventa così una «visione del
mondo» che ci permette di accedere alla realtà oggettiva e alle sue leggi,
processo che porta a un nuovo falso senso di sicurezza: i nostri atti sono
coperti «ontologicamente», parte della «realtà oggettiva» regolata da leggi
note a noi comunisti. In ogni caso, il prezzo pagato per questa sicurezza
ontologica è terribile: l’esattezza, nel senso della verità sui fatti, alla quale
Lenin era ancora devoto, scompare; i fatti possono essere volontariamente
manipolati e cambiati retroattivamente, eventi e persone diventano non-eventi
e non-persone. In altre parole, nello stalinismo il Reale della politica –
interventi brutali e soggettivi che violano la tessitura della realtà – ritorna
vendicandosi, anche se sotto forma del suo opposto, il rispetto per la
conoscenza oggettiva.
Seguendo la svolta stalinista, le rivoluzioni comuniste erano basate su una
chiara visione della realtà storica («socialismo scientifico»), delle sue leggi e
tendenze, così che, nonostante l’imprevedibile svolgersi degli eventi, la
rivoluzione era del tutto collocata in questo processo della realtà storica;
come amavano dire, il socialismo dovrebbe essere costruito in ogni paese in
base alle sue specifiche condizioni, ma in accordo con le leggi generali della
storia. In teoria, la rivoluzione veniva in questo modo privata della
dimensione della soggettività vera e propria, delle incursioni radicali del
Reale nella tessitura della «realtà oggettiva», in evidente contrasto con la
Rivoluzione francese, le cui figure più radicali la consideravano un processo
aperto privo di qualunque sostegno in una necessità superiore.
Oggi, ancora di più che all’epoca di Lenin, navighiamo in territori
inesplorati, privi di qualunque mappatura cognitiva globale; e se fosse
proprio questa assenza di una mappatura chiara a darci la speranza di trovare
un modo per evitare la chiusura totalitaria? 17

Elezioni, pressione popolare, inerzia


Yanis Varoufakis apre il suo Adulti nella stanza con il racconto di come, il 16
aprile 2015, in un angolo buio del bar di un albergo di Washington, Larry
Summer gli abbia detto:
«Yanis, hai fatto un grosso errore» [...].
Simulando assoluta indifferenza risposi:

«E che errore sarebbe, Larry?»


«Hai vinto le elezioni» fu la risposta. 18

In quale preciso senso la vittoria di Syriza è stato un errore? Accettando il


gioco elettorale, vincendo nel momento sbagliato, o...? Il secondo turno delle
elezioni presidenziali francesi del maggio 2017 ci ha posto in modo ancora
più evidente questo vecchio dilemma della sinistra radicale: votare o non
votare alle elezioni parlamentari? La miserabile scelta fra Marine Le Pen e
Emmanuel Macron ci ha indotto alla tentazione di smettere di votare del
tutto, di rifiutarci di prendere parte a questo rituale sempre più privo di
significato.
In questo contesto, prendere una decisione è un gesto pieno di ambiguità.
Le argomentazioni contro il voto oscillano sottilmente (o apertamente) fra
due versioni, quella«morbida» e quella «dura». La versione «morbida» si
concentra in particolare sulla democrazia pluripartitica nei paesi capitalisti
con due ragioni principali: 1) i media controllati dalla classe dominante
manipolano la maggior parte dei votanti impedendo loro di prendere
decisioni razionali nel loro interesse; 2) le elezioni sono un rituale che si tiene
ogni quattro anni la cui funzione principale è quella di rendere passivi gli
elettori nel lungo periodo che intercorre fra due elezioni. L’ideale sotteso a
questa critica è quello di una democrazia «diretta» non rappresentativa, con
una partecipazione diretta e continua della maggioranza. La versione «dura»
fa un ulteriore passo in avanti e si fonda (più o meno esplicitamente) sulla
profonda sfiducia nella maggior parte delle persone: la lunga storia del
suffragio universale in Occidente dimostra che l’ampia maggioranza delle
persone è, di norma, passiva, presa nell’inerzia della sopravvivenza, non
disposta a mobilitarsi per una causa. Per questo motivo, ogni movimento
radicale è sempre limitato a una minoranza di avanguardia, e per raggiungere
l’egemonia deve attendere pazientemente una crisi (di solito una guerra) che
offra lo spiraglio di un’opportunità. In questi momenti, un’avanguardia
autentica può cogliere l’attimo, mobilitare le persone (anche se non la vera
maggioranza) e prendere il potere.
I comunisti sono stati sempre completamente «non-dogmatici», pronti ad
attaccarsi ad altri temi: terra e pace (Russia), liberazione nazionale e unità
contro la corruzione (Cina). Sono stati sempre ben consapevoli del fatto che
la mobilitazione sarebbe presto finita, e preparavano con attenzione
l’apparato che li avrebbe conservati al potere quando sarebbe arrivato quel
momento. (Diversamente dalla Rivoluzione d’ottobre, che trattava
esplicitamente i contadini come alleati secondari, la Rivoluzione cinese non
fingeva nemmeno di essere proletaria: si rivolgeva direttamente ai contadini
come al proprio nucleo di supporto principale).
Il grande e caratterizzante problema del marxismo occidentale è stato il
soggetto rivoluzionario non sufficientemente motivato: com’è possibile che
la classe operaia non completi il passaggio dall’In-sé al Per-sé e non si
costituisca come un agente rivoluzionario? Questo problema ha costituito la
principale raison d’ětre della relazione tra marxismo e psicoanalisi, che fu
evocata per spiegare i meccanismi libidici inconsci che impediscono il
sorgere della coscienza di classe intrinseca all’essere vero e proprio, cioè la
situazione sociale, della classe operaia. In questo modo, la verità dell’analisi
socio-economica marxista veniva preservata, e non c’era ragione per cedere
terreno alle teorie «revisioniste» sull’emergere della classe media, ecc. Per
questa stessa ragione, il marxismo occidentale era costantemente alla ricerca
di altri agenti sociali che potessero rivestire un ruolo rivoluzionario, sostituti
che potessero rimpiazzare la classe operaia indisposta: i contadini del Terzo
mondo, gli studenti e gli intellettuali, gli esclusi... e ora i rifugiati.
Il fallimento della classe operaia come soggetto rivoluzionario era proprio
al cuore della Rivoluzione bolscevica: l’abilità di Lenin fu quella di
intercettare il «potenziale di rabbia» dei contadini delusi. La Rivoluzione
d’ottobre fu vinta con lo slogan «terra e pace», rivolto all’ampia maggioranza
contadina, cogliendo il momento esatto della loro massima scontentezza.
Lenin si era già soffermato su questo tema una decina di anni prima, motivo
per cui inorridiva davanti alla prospettiva del successo delle riforme agrarie
di Stolypin, che miravano a creare una classe nuova e forte di contadini
autonomi; scrisse che se Stolypin avesse avuto successo, l’occasione di una
rivoluzione si sarebbe persa per decenni.
Tutte le rivoluzioni socialiste che hanno avuto successo, da Cuba alla
Jugoslavia, hanno seguito questo modello, nel cogliere l’opportunità in una
situazione estremamente critica, cooptando la battaglia di liberazione
nazionale o altri movimenti nutriti dalla «rabbia capitale». Ovviamente,
chiunque creda nella logica dell’egemonia qui direbbe che si tratta della
«normale» logica della rivoluzione, che la «massa critica» si raggiunge
esattamente e precisamente attraverso una serie di equivalenze fra molteplici
richieste, e che dipende sempre da una serie di circostanze specifiche,
addirittura uniche. Una rivoluzione non accade mai quando tutti gli
antagonismi collassano nel grande Uno, ma quando combinano il loro potere
in modo sinergico.
Il problema, in ogni caso, qui è più complesso: il punto non è solo che la
rivoluzione non cavalca più il treno della storia, seguendone le leggi, dal
momento che non c’è storia, essendo la storia un processo contingente e
aperto. Il problema è un altro: è come se ci fosse una Legge della Storia, una
linea predominante più o meno chiara dello sviluppo storico, e la rivoluzione
potesse avvenire solo nei suoi interstizi, «controcorrente». I rivoluzionari
devono aspettare pazientemente quel periodo di tempo (di solito molto breve)
in cui il sistema diventa apertamente mal funzionante o collassa, poi cogliere
lo spiraglio dell’opportunità, afferrare il potere che in quel momento sta in
mezzo alla strada, per così dire, ed è pronto per essere preso, e poi rafforzare
la presa su quel potere, costruendo apparati repressivi e così via. Poi, una
volta esaurito il momento di confusione, quando la maggioranza ha smaltito
la sbornia ed è delusa dal nuovo regime, è già troppo tardi per liberarsene
perché esso si è saldamente consolidato.
Non solo, i comunisti sono stati attenti a calcolare il momento giusto per
bloccare la mobilitazione popolare. Prendiamo l’esempio della Rivoluzione
culturale cinese, che senza dubbio contiene elementi di un’utopia messa in
atto. Proprio alla fine, prima che l’agitazione fosse bloccata dallo stesso Mao
(dal momento che aveva già raggiunto l’obiettivo di ristabilire il pieno potere
e di liberarsi della competizione fra i piani alti della nomenklatura) fu il
momento della Comune di Shanghai, citata nell’Introduzione. È significativo
che proprio a questo punto Mao ordinò all’esercito di intervenire e
ripristinare l’ordine. Il paradosso è quello di un leader che innesca dei
disordini incontrollabili proprio mentre sta cercando di esercitare il pieno
potere personale; la sovrapposizione di dittatura estrema ed estrema
emancipazione delle masse.
L’aspetto più evidente della «presenza popolare» è dunque il radunarsi di
ampi gruppi di persone negli spazi pubblici centrali, e un’importante
questione aperta è: in che modo opera la presenza/pressione del cyberspazio,
qual è il suo potenziale? La presenza popolare è esattamente quello che dice
il termine, la presenza in quanto opposta alla rappresentazione, la pressione
diretta verso gli organi rappresentativi del potere; è ciò che definisce il
populismo in tutte le sue forme, e (di solito, anche se non sempre) deve
basarsi su un leader carismatico. Gli esempi abbondano: la folla fuori dalla
conferenza della Louisiana che sostiene il governatore populista Huey Long e
gli garantisce la vittoria con un voto chiave nel 1932; le folle che esercitano
pressione per conto di Milošević in Serbia; le folle che rimangono per giorni
in piazza Tahrir durante la Primavera araba chiedendo la deposizione di
Mubarak; le folle a Istanbul durante le proteste contro Erdoğan, e così via.
Quando sono presenti, le «persone stesse» rendono palpabile la loro forza
direttamente, aldilà della rappresentazione, ma allo stesso tempo si
trasformano ontologicamente in altro. In una breve poesia sulle rivolte dei
lavoratori della RDT nel 1953, Brecht cita un funzionario di partito
dell’epoca che diceva che il popolo aveva perso la fiducia del governo. Non
sarebbe stato forse più semplice, si domanda astutamente Brecht, che il
governo sciogliesse il popolo e ne eleggesse un altro? Invece di leggere
questa poesia ironicamente, la dovremmo prendere sul serio: sì, in una
situazione di mobilitazione popolare, la massa inerte delle persone comuni
viene transustanziata in una forza unita e politicamente impegnata.
Si dovrebbe sempre tenere a mente che la presenza permanente del popolo
significa uno stato di emergenza permanente; cosa accade dunque quando il
popolo si stanca, quando non è più in grado di reggere la tensione? I
comunisti al potere hanno due soluzioni (o, piuttosto, due facce dell’unica e
possibile soluzione): il potere del Partito su una popolazione passiva e una
falsa mobilitazione popolare. Trockij stesso, il teorico della rivoluzione
permanente, era ben consapevole che il popolo non poteva vivere per anni in
uno stato continuo di tensione e intensa attività, 19 e ribalta questo fatto in
un’argomentazione a favore di un partito d’avanguardia: l’auto-
organizzazione in consigli locali non può prendere il posto del partito, che
deve governare le situazioni quando il popolo si stanca; e, per divertire il
popolo e salvare le apparenze, può essere utile di tanto in tanto un grande
spettacolo di pseudo-mobilitazione, dalle parate staliniste a quelle odierne
nella Corea del Nord. Negli Stati capitalisti esiste, ovviamente, un altro modo
per alleggerire la pressione popolare: elezioni (più o meno) libere –
recentemente in Egitto e in Turchia, ma anche nella Francia del 1968.
Ricordiamoci che l’agente della pressione popolare è sempre una minoranza:
il numero dei partecipanti attivi nel movimento di Occupy Wall Street del
2011 contro l’iniquità economica globale era molto più vicino all’1% che al
99% del suo slogan.
In francese, dopo alcuni verbi e congiunzioni, si usa il cosiddetto ne
explétif. Viene anche chiamato il «ne non negativo» perché non ha un valore
negativo in sé, viene usato in situazioni in cui la frase principale ha un
significato negativo (o negativo-cattivo o negativo-negato), come espressioni
di paura, avvertimento, dubbio e negazione. 20 Ad esempio: «Elle a peur
qu’il ne soit malade» («Lei teme che lui sia malato»). Lacan ha osservato
come questa negazione superflua renda perfettamente la distanza che separa il
nostro vero desiderio inconscio dal nostro desiderio cosciente: quando una
moglie teme che il marito sia malato, potrebbe in realtà temere che non sia
malato (desiderando che lo sia). E non potremmo forse dire esattamente la
stessa cosa dei partiti al potere negli Stati socialisti che si lamentano
continuamente del fatto che la gente non si impegna abbastanza in politica,
che è troppo passiva e indifferente? «Ils ont peur que le people ne soit passif
et indifferent»: ciò che temono davvero è che la gente non rimanga passiva e
indifferente.
Dovremmo allora semplicemente ignorare le elezioni? Di qualunque tipo
di elezioni si tratti, misurano qualcosa in modo puramente numerico, la
percentuale di popolazione che si riconosce nelle maggiori opzioni politiche
presentate pubblicamente. Questo è il motivo per cui i comunisti al potere
devono sempre restare fedeli alla formula delle libere elezioni con voto
segreto, anche se il risultato è un prevedibilissimo 90% o più a favore del
regime esistente (dopo due anni al potere, anche gli khmer rossi misero in
scena questo rituale); o, ancora di più, alla forma della democrazia
pluripartitica, come in passato in Polonia o nella RDT; e in quanti sanno che
perfino la Cina di oggi è una democrazia pluripartitica con posti assegnati ad
altre forze «patriottiche» diverse dal Partito comunista? Inoltre, per costituire
l’organo dirigente del partito dominante stesso, non sono forse necessarie
elezioni di un qualche tipo? Era questo il principale problema nel primo
bolscevismo: è possibile avere una democrazia interna al partito senza che ci
sia una qualche forma di democrazia nella società, al di fuori del partito? In
che modo possiamo lasciare aperto un canale per un riscontro autentico da
parte del popolo al di fuori del circuito del partito? Il problema non è mai
stato che la nomenklatura del partito non sapesse cosa pensavano davvero le
persone: attraverso i servizi segreti ne erano sempre fin troppo informati.
Il modello cinese da questo punto di vista è il più coerente: i membri
dell’organo dirigente de facto (sette membri del Comitato centrale
dell’ufficio politico del Partito comunista cinese) vengono eletti circa ogni
otto anni durante un congresso del Partito, senza alcun dibattito; alla fine del
congresso vengono semplicemente presentati come una misteriosa
rivelazione. La procedura di selezione comprende delle complesse e del tutto
oscure negoziazioni dietro le quinte, tanto che i delegati in assemblea che
approvano unanimemente la lista la vengono a conoscere solo quando votano.
Non si tratta qui di un «deficit democratico» secondario: questa
impenetrabilità è strutturalmente necessaria (all’interno dei sistemi autoritari,
le uniche alternative sono una monarchia de facto, come nella Corea del
Nord, o il modello comunista tradizionale di un leader che lascia il potere
solo quando muore).
Il problema di base è questo: come andare al di là della democrazia
pluripartitica senza cadere nella trappola della democrazia diretta? In altre
parole: come inventare un modo diverso di passività della maggioranza,
come fare i conti con l’inevitabile alienazione della vita politica? Questa
alienazione deve essere compresa nel suo livello più fondamentale, come
l’eccesso costitutivo del funzionamento del potere reale, sottovalutato dal
liberalismo così come dai sostenitori di sinistra della democrazia diretta.
Pensiamo al concetto liberale di potere rappresentativo: i cittadini
trasferiscono il loro potere (parte di esso) allo Stato, ma a precise condizioni
(questo potere è definito dalla legge, limitato da condizioni molto precise nel
suo esercizio dal momento che le persone rimangono la massima fonte di
sovranità e possono revocare il potere se lo ritengono necessario). In breve, lo
Stato, con il suo potere, è il contraente minore in un contratto in cui il
contraente maggiore (le persone) può in qualunque momento revocare o
cambiare, in fondo nello stesso modo in cui ognuno di noi può cambiare il
contratto con gli enti che si occupano dei nostri rifiuti o della nostra salute. In
ogni caso, se ci mettiamo a osservare attentamente la struttura di potere di
uno Stato reale, possiamo facilmente vedere un segnale implicito ma
inconfondibile: «Dimenticatevi dei nostri limiti – in fin dei conti, possiamo
fare con voi quello che vogliamo!». Questo eccesso non è un supplemento
contingente che inquina la purezza del potere, ma un suo elemento
necessario; senza di esso, senza la minaccia di un’onnipotenza arbitraria, il
potere dello Stato non è un vero potere, perde la sua autorità.
Il modo per spezzare l’incantesimo del potere è dunque non quello di
soccombere alla fantasia di un potere trasparente; bisognerebbe piuttosto
svuotare l’edificio del potere dal suo interno, separando la struttura dal suo
agente (il detentore del potere). Come già analizzato decenni fa da Claude
Lefort, qui sta il cuore dell’«invenzione democratica», nel posto vuoto del
potere, nella distanza fra il posto del potere e gli agenti contingenti che, per
un periodo limitato, possono occupare quel posto. Paradossalmente, la
promessa sottesa alla democrazia è dunque non solo che non esiste agente
politico che abbia un diritto «naturale» al potere, ma, in modo molto più
radicale, che «il popolo» stesso, la massima origine del potere sovrano in
democrazia, non esiste come entità sostanziale. Nel senso kantiano, il
concetto democratico di «popolo» è negativo, un concetto la cui funzione è
semplicemente quella di indicare un certo limite: impedisce a qualunque
agente determinato di governare con piena sovranità. (L’unico momento in
cui «il popolo» esiste è nelle elezioni democratiche, che è precisamente
quello della disintegrazione dell’intero edificio sociale; nelle elezioni, il
«popolo» si riduce a una raccolta meccanica di individui). L’affermazione
che il popolo esiste davvero è l’assioma di base del «totalitarismo», e l’errore
del «totalitarismo» è strettamente omologo al kantiano uso improprio
(«paralogismo») della ragione politica: «il popolo esiste» attraverso un
determinato agente politico che agisce come se incarnasse (non solo
rappresentasse) il popolo, la sua vera volontà (il partito totalitario e il suo
leader); ovvero, nei termini di una critica trascendentale, come
un’incarnazione fenomenica del popolo noumenico.
I critici della democrazia rappresentativa non fanno altro che variare il
tema secondo il quale, per ragioni formali a priori e non solo a causa di
distorsioni accidentali, le elezioni pluripartitiche tradiscono la vera
democrazia; ma, accettando questa criticità come il prezzo da pagare per
qualunque democrazia funzionante, bisognerebbe aggiungere che è a causa di
questa minima «alienazione» compresa nell’aggettivo «rappresentativa» che
una democrazia funziona. Ovvero, ciò che questa «alienazione» indica è il
carattere «performativo» della scelta democratica: il popolo non vota per ciò
che vuole (lo sa fin da prima), è attraverso questa scelta che scopre ciò che
vuole. Un vero leader non segue soltanto i desideri della maggioranza, ma
rende consapevole il popolo di ciò che vuole.
È per questo motivo, dunque, che la democrazia conserva il suo
significato, anche se la scelta che offre è tra programmi molto simili; una tale
scelta vuota rende palese che non c’è nessun detentore predestinato del
potere. La logica implicazione di questa premessa è l’idea di Kojin Karatani
di unire le elezioni a una lotteria che determini chi ci governerà. Questa idea
è più tradizionale di quanto non possa sembrare (lo stesso Karatani cita
l’antica Grecia); paradossalmente, persegue lo stesso obiettivo della teoria
della monarchia di Hegel. Karatani corre eroicamente un rischio, proponendo
una definizione apparentemente folle della differenza esistente tra dittatura
della borghesia e dittatura del proletariato: «Se il suffragio universale con
voto segreto, ovvero, la democrazia parlamentare è la dittatura della
borghesia, dovremmo ritenere l’introduzione della lotteria la dittatura del
proletariato». 21 Non era forse la stessa idea che stava alla base del pensiero
di Lenin quando, in Stato e Rivoluzione, affermava, come citato sopra, la sua
visione di uno Stato dei lavoratori in cui ogni kucharka avrebbe dovuto
imparare a guidare lo Stato? Dalla democrazia (elettorale) alla lottocrazia...
Significa forse questo che l’esperienza non conta? No, dal momento che
qui entra in scena un’altra separazione: quella tra S1 e S2, tra Significante-
Padrone e sapere dell’esperto. Il Padrone (il popolo attraverso il voto) decide,
fa la sua scelta, ma gli esperti suggeriscono cosa scegliere; il popolo vuole
l’apparenza della scelta, non scegliere davvero. Questo è il modo in cui
funzionano le nostre democrazie, con il nostro consenso: agiamo come se
fossimo liberi e decidessimo liberamente, non solo accettando
silenziosamente, ma addirittura pretendendo che un’ingiunzione invisibile
(incorporata nella forma vera e propria del nostro linguaggio libero) ci dica
cosa fare e cosa pensare. Come Marx sapeva già molto tempo fa, il segreto
sta nella forma stessa. In questo senso, in una democrazia, ogni cittadino
qualunque è effettivamente un re, ma un re in una democrazia costituzionale,
un re che decide solo formalmente, la cui funzione è quella di firmare delle
misure da proporre a un’amministrazione esecutiva. Per questo il problema
dei rituali democratici è omologo a quello della democrazia costituzionale:
come proteggere la dignità del re? Come salvare l’apparenza che sia il re a
decidere effettivamente, quando tutti sanno che non è così? Ciò che
chiamiamo la «crisi della democrazia» non accade quando il popolo smette di
credere nel suo stesso potere ma, al contrario, quando smette di fidarsi delle
élite, quelle che dovrebbero in teoria conoscere per loro e fornire loro delle
linee guida, quando sperimenta l’angoscia di sapere che «il (vero) trono è
vuoto», e che la decisione adesso spetta davvero a lui. Nelle «libere elezioni»
c’è dunque sempre un’apparenza minima di cortesia: coloro che detengono il
potere cortesemente fingono di non averlo davvero, e ci chiedono di decidere
liberamente se vogliamo rieleggerli, seguendo la logica del gesto fatto per
essere rifiutato.
Ma in che modo si tratta di una modalità diversa da quella del comunismo
«totalitario», in cui gli elettori sono spinti a partecipare a un rituale di libera
scelta vuoto, il votare per qualcuno, che viene invece loro imposto? La
risposta ovvia è che nelle elezioni democratiche esiste una minima libertà di
scelta, una scelta che ha una minima ricaduta. Ma la differenza più rilevante è
che nel comunismo «totalitario» la distanza tra Significante-Padrone e sapere
dell’esperto scompare: in che modo? La distanza tra Lenin e Stalin riguarda
precisamente questo aspetto. E oggi a che punto siamo rispetto a questo
dilemma?

Benvenuti nella noia di tempi interessanti!


C’è una vecchia maledizione cinese (della quale nessuno in Cina sa niente,
per cui si tratta probabilmente di un’invenzione occidentale) che suona: «che
voi possiate vivere in tempi interessanti!». I tempi interessanti sono tempi di
difficoltà, confusione e sofferenza. E sembra che in alcuni paesi
«democratici» si sia assistito di recente a uno strano fenomeno che dimostra
che in effetti viviamo in tempi interessanti: un candidato emerge e vince le
elezioni quasi dal nulla, creando in un momento di confusione tutto un
movimento attorno al suo nome; Silvio Berlusconi e Macron sono saliti alla
ribalta in questo modo. Ma cosa indica questo processo? Certamente non si
tratta di un impegno popolare diretto al di là dei partiti politici, al contrario,
non dobbiamo mai dimenticare che questi personaggi emergono con il pieno
supporto del sistema sociale ed economico dominante. La loro funzione è
quella di nascondere i veri antagonismi sociali, le persone si ritrovano
magicamente unite contro una qualche minaccia «fascista» che viene
demonizzata. Nel 1990, Václav Havel fu il primo a dichiarare apertamente
questo sogno: quando, dopo essere stato eletto presidente, incontrò per la
prima volta Helmut Kohl, fece una strana proposta: «perché non lavoriamo
insieme per sciogliere tutti i partiti politici? Perché non fondiamo
semplicemente un unico grande partito, il Partito dell’Europa?». Possiamo
immaginare il sorriso scettico di Kohl...
Ciò che questo improvviso emergere di partiti dal nulla e senza programmi
chiari indica è la disintegrazione dello spazio politico per come lo
conosciamo: anche se i partiti politici rimangono la cornice generale della
vita politica, è come se avessero esaurito il loro potenziale. Si aprono qui
molteplici opzioni, e dipendono tutte da come i nuovi antagonismi politici
(populisti contro tecnocrati, ecc.) si definiscono. Ma ciò che è chiaro è che
non esiste più un progetto politico vero e proprio che mobiliti e organizzi le
persone. Se mai nascerà un nuovo progetto politico, dovrà venire dalla
sinistra.
Questo strano fenomeno, uno degli effetti visibili del già citato riassetto a
lungo termine dello spazio politico europeo, ci riporta a Berlusconi e Macron:
i nuovi movimenti emergono dal nulla quando nessuno dei vecchi grandi
partiti, conservatori o progressisti, riesce a imporsi come l’agente di un nuovo
centro radicale; il sistema dunque va nel panico e deve inventarsi un nuovo
movimento per mantenere le cose così come sono. I nomi dei rispettivi
movimenti (ben più di quelli dei semplici partiti) suonano simili nella loro
vuota universalità, che si addice a tutti e a tutto. Chi non sarebbe d’accordo
con Forza Italia! o con La République En Marche, entrambi slogan che
indicano il senso astratto di un movimento vittorioso senza alcuna
indicazione sulla direzione del movimento e sui suoi scopi. Entrambi
vengono alla ribalta come reazioni di un sistema nel panico. C’è, ovviamente,
un’ovvia differenza tra i due, un diverso accento: Berlusconi entrò in scena
quando, dopo una grande campagna anti-corruzione, tutta la configurazione
politica tradizionale italiana era crollata e gli ex-comunisti erano rimasti
l’ultima forza vitale, mentre Macron si è fatto largo quando il populismo
neofascista della Le Pen minacciava di vincere le elezioni. Possiamo
descrivere al meglio il suo ruolo con una parola usata da alcuni dei suoi
sostenitori: negli ultimi anni, Marine Le Pen è stata gradualmente de-
demonizzata, percepita come parte dello spazio politico «normale»
(accettabile), mentre il compito è quello di ri-demonizzarla, di mostrare al
pubblico politico che rimane la stessa vecchia fascista antisemita, e in quanto
tale non può essere accettata da nessun democratico serio. Un tale gesto di ri-
demonizzazione certamente non è sufficiente: invece di focalizzarsi soltanto
sul feticcio demoniaco, ci si dovrebbe immediatamente domandare in che
modo un tale «demonio» sia potuto emergere nella nostra società (nel caso
della Le Pen, si tratta di una reazione alla politica di cui Macron è
l’incarnazione). La funzione della demonizzazione è esattamente quella di
nascondere questo legame, di attribuire la colpa a un agente al di fuori del
nostro spazio democratico.
Una classica argomentazione liberale a sostegno della Clinton o Macron
contro Trump o la Le Pen è che, se è vero che ciò che rappresentano la
Clinton o Macron è la stessa complessa situazione da cui sono emersi Trump
e la Le Pen, non votare per la Clinton o Macron equivale a votare per un
disastro reale per impedire un disastro possibile futuro. Questa
argomentazione suona convincente, a patto che ne ignoriamo la temporalità.
Se la Le Pen fosse stata eletta presidente nel 2017, avrebbe potuto innescare
una forte mobilitazione antifascista, rendendo una sua rielezione
inimmaginabile, in più avrebbe potuto dare una forte spinta all’alternativa di
sinistra. Dunque i due disastri (la Le Pen presidente adesso o la minaccia
della Le Pen presidente tra cinque anni) non sono la stessa cosa: il disastro
dopo cinque anni di governo Macron, se si rivelasse un fallimento, sarebbe
ben più serio di quello che non è accaduto nel 2017.
Storicamente, era un compito della sinistra quello di porre tali questioni,
dunque non possiamo sorprenderci che, con il nemico demonizzato, la
sinistra radicale sia opportunamente sparita dalla scena; pensiamo a come,
nelle elezioni francesi del 2017, qualunque scetticismo da parte della sinistra
verso Macron fosse subito tacciato come sostegno alla Le Pen. Possiamo
dunque rischiare prudentemente l’ipotesi che tale eliminazione della sinistra
fosse il vero scopo di tutta l’operazione, e che il nemico demonizzato ne
fosse un adeguato supporto. Julian Assange ha scritto di recente che la
ragione per cui l’apparato del Partito democratico americano ha sposato la
narrazione «non abbiamo perso – ha vinto la Russia» è che, se non l’avessero
fatto, allora la rivolta creata da Bernie Sanders durante le elezioni
presidenziali del 2017 avrebbe dominato il partito. E nello stesso modo in cui
l’apparato democratico americano demonizza Trump per liberarsi di Sanders,
che costituisce una minaccia, l’apparato francese demonizza la Le Pen per
sviare una possibile radicalizzazione di sinistra.
Il titolo dell’articolo sul Guardian di Hadley Freeman, la voce inglese
della sinistra liberale anti-Assange e pro-Hillary, dice tutto: «La Le Pen è una
revisionista dell’Olocausto di estrema destra. Macron no. Una scelta
difficile?». 22 Com’era immaginabile, il testo comincia adeguatamente con:
«Essere un consulente finanziario è uguale a essere un revisionista
dell’Olocausto? Il neoliberalismo è pari al neofascismo?» e liquida
sarcasticamente perfino il sostegno condizionato della sinistra per Macron al
secondo turno delle elezioni, con la posizione di: «Adesso votiamo Macron –
con grande riluttanza». Si tratta del peggior ricatto liberale: bisognerebbe
sostenere Macron incondizionatamente, non importa che sia un centrista
neoliberale, basta solo il fatto che sia contro la Le Pen... È la vecchia storia di
Hillary contro Trump: davanti alla minaccia fascista, dovremmo tutti riunirci
sotto la sua bandiera (e opportunamente dimenticare in che modo il suo
gruppo abbia brutalmente superato in astuzia Sanders e dunque contribuito a
perdere le elezioni). Non ci è nemmeno concesso di porre la domanda: sì,
Macron è un europeista, ma quale tipo di Europa rappresenta? Proprio
quell’Europa il cui fallimento nutre il populismo della Le Pen, l’anonima
Europa al servizio del neoliberalismo! Questo è il punto cruciale della
questione: sì, la Le Pen è una minaccia, ma se supportiamo con tutti noi stessi
Macron, non ci ritroviamo forse in una sorta di circolo vizioso combattendo
l’effetto sostenendone la causa? Il che ci ricorda un lassativo al cioccolato in
vendita negli Stati Uniti. Viene pubblicizzato con l’ingiunzione paradossale:
«Siete costipati? Mangiate più cioccolata!». In altre parole, mangiate proprio
ciò che causa la costipazione, per poterne guarire. In questo senso, Macron è
il candidato lassativo-al-cioccolato, che ci propone come cura ciò che ha
causato la malattia.
Entrambi i candidati si sono presentati come anti-sistema, la Le Pen in un
modo palesemente populista mentre Macron con modalità molto più
interessanti: era al di fuori dei partiti politici esistenti ma, proprio per questo,
rappresentava il sistema in quanto tale, nella sua indifferenza rispetto alle
scelte politiche predefinite. In contrapposizione alla Le Pen, che
rappresentava la vera passione politica, l’antagonismo del Noi contro di Loro
(dagli immigrati alle élite finanziarie non patriottiche), Macron rappresentava
una tolleranza apolitica e onnicomprensiva. Sentiamo spesso dire che la
politica della Le Pen trae la sua forza dalla paura (paura degli immigrati, delle
anonime istituzioni finanziarie internazionali), ma non vale forse la stessa
cosa per Macron? È arrivato prima perché gli elettori temevano la Le Pen, e il
cerchio si è così chiuso: nessuno dei candidati proponeva una visione
positiva, erano entrambi candidati della paura.
La vera posta in gioco di questo voto diventa chiara se lo collochiamo nel
suo contesto storico più ampio. Nell’Europa occidentale e orientale
intravediamo segni di una ridefinizione a lungo termine dello spazio politico.
Fino a poco tempo fa, esso era dominato da due tipologie di partiti
maggioritari che si rivolgevano a tutto l’elettorato: un partito di centrodestra
(cristiano-democratico, liberal-conservatore, del popolo) e un partito di
centrosinistra (socialista, socialdemocratico), con partiti più piccoli che si
rivolgevano a una piccola fetta di elettori (ecologisti, neofascisti, ecc.). Ora,
progressivamente, sta emergendo una tipologia di partito che rappresenta il
capitalismo globale, di solito relativamente tollerante verso l’aborto, i diritti
degli omosessuali, e verso le minoranze religiose, etniche e così via; in
contrapposizione a questo partito c’è di solito un partito populista anti-
immigrati sempre più forte che, nelle sue frange, è accompagnato da gruppi
esplicitamente neofascisti e razzisti. Il caso tipico qui è quello della Polonia:
dopo la scomparsa degli ex-comunisti, i partiti principali sono il partito
liberale centrista «anti-ideologico» del precedente primo ministro Donald
Tusk e il partito cristiano-conservatore dei fratelli Kaczyński . Il tema chiave
per il centro radicale odierno è questo: quale dei due maggiori partiti,
conservatore o liberale, riuscirà a presentarsi come l’incarnazione della non-
politica post-ideologica in contrapposizione all’altro partito, che verrà
liquidato in quanto «ancora all’interno dei vecchi spettri ideologici»?
All’inizio degli anni Novanta, i conservatori erano i migliori in questo; più
tardi, sono stati i liberali di sinistra che sembravano in vantaggio, e Macron è
l’ultimo rappresentante di un centro radicale puro. Jürgen Habermas e Peter
Sloterdijk, i due grandi filosofi che si contendono la scena tedesca, hanno di
recente manifestato la loro ammirazione e un certo entusiasmo per Macron,
come se fosse una nuova speranza per l’Europa, addirittura insinuando che
possa essere – allo stesso modo in cui Hegel, quando vide Napoleone a
cavallo a Jena, lo descrisse come il Weltgeist a cavallo – l’incarnazione
dell’attuale Geist europeo. Quando due persone così lontane iniziano a
parlare lo stesso linguaggio, è sempre un momento sintomatico, non della
loro unità più profonda ma del rifiuto («repressione») che li unisce, in questo
caso il rifiuto di una sinistra più radicale.
Abbiamo così raggiunto il punto più basso delle nostre vite politiche: una
pseudo-scelta, se mai ce n’è stata una. Sì, la vittoria della Le Pen avrebbe
aperto scenari pericolosi. Ma la calma portata dalla trionfante vittoria di
Macron non è meno pericolosa, dal momento che la sua vittoria non ci ha
davvero svegliato, anzi, il suo effetto è stato quasi il contrario: sospiri di
sollievo dappertutto, l’incubo è passato, grazie a Dio il pericolo è stato tenuto
a bada, l’Europa e la nostra democrazia sono salve, e possiamo così tornare di
nuovo al nostro sonno liberal-capitalista.
Nella situazione disperata in cui ci troviamo, davanti a una falsa scelta,
dovremmo semplicemente avere il coraggio di astenerci dal voto. Astenerci, e
iniziare a pensare. Il luogo comune «basta parlare, agiamo» è profondamente
ingannevole, adesso bisognerebbe affermare esattamente l’opposto: basta
pressioni all’azione, iniziamo a parlare seriamente, ovvero, a pensare! E con
questo intendo che dovremmo anche lasciarci alle spalle
l’autocompiacimento della sinistra radicale che ribadisce costantemente la
falsità delle scelte offerte dallo spazio politico, e che solo una sinistra radicale
rinnovata ci può salvare; sì, in un certo senso, ma perché poi questa sinistra
non riesce a emergere? Quale visione ha la sinistra da offrire, che sia
abbastanza concreta da mobilitare la gente? Non dovremmo mai dimenticare
che la causa ultima del circolo vizioso di Le Pen e Macron in cui siamo
caduti è la scomparsa di un’alternativa di sinistra percorribile.
È chiaro così che un nuovo spettro si aggira per le politiche liberal-
progressiste in Europa e negli Stati Uniti, lo spettro del fascismo. Trump
negli Stati Uniti, Le Pen in Francia, Orbán in Ungheria; vengono tutti
demonizzati come il nuovo Male contro al quale dovremmo unire le nostre
forze. Ogni minimo dubbio e riserva sulle alternative che ci vengono offerte
viene immediatamente visto come il segno di una segreta collaborazione con
il fascismo. In un’importante intervista rilasciata a Der Spiegel nell’ottobre
2017, Emmanuel Macron ha detto alcune cose che sono state accolte con
entusiasmo da tutti quelli che vogliono combattere la nuova destra fascista:
Ci sono tre possibili reazioni davanti ai partiti di estrema destra. Il primo è quello di
agire come se non esistessero e non rischiare prendendo iniziative politiche che
possano mettere questi partiti contro di te. Questo è ciò che è accaduto diverse volte
in Francia e abbiamo visto che non funziona. Il popolo che stai credendo di aiutare
non si ritrova più nei tuoi discorsi di partito. E lascia che la destra si costruisca il
suo pubblico. La seconda reazione è quella di rincorrere questi partiti estremisti di
destra sul piano del fascino che hanno per le persone.
Der Spiegel: E la terza possibilità?

Macron: Dire che queste persone sono i miei veri nemici e che li combatteremo. Ed
è esattamente quello che è accaduto nel secondo turno delle elezioni presidenziali
francesi. 23

Se l’affermazione di Macron è encomiabile, è necessario integrarla in una


prospettiva di autocritica. L’immagine demonizzata di una minaccia fascista
funziona chiaramente come nuovo feticcio politico, nel semplice senso
freudiano di un’immagine affascinante la cui funzione è quella di nascondere
il vero antagonismo. Il fascismo in sé è intrinsecamente feticista, necessita di
una figura come quella dell’ebreo, condannato come causa esterna dei nostri
problemi; una figura simile ci permette di nascondere gli antagonismi
immanenti alla nostra società. Io sostengo che vale esattamente la stessa cosa
per il concetto di «fascista» nell’immaginario liberale odierno: esso ci
permette di nascondere i vicoli ciechi immanenti che sono alla radice della
nostra crisi. Il desiderio di non scendere a nessun compromesso con la Alt-
right (la cosiddetta «destra alternativa») può facilmente nascondere il punto
di compromissione con essa a cui siamo già arrivati. Dovremmo accogliere
ogni segno di questa autocritica che pian piano sta emergendo e che, nel
rimanere totalmente antifascista, getta anche uno sguardo critico alle
debolezze della sinistra liberale; si veda, ad esempio, lo straordinario
intervento di Susan Sarandon. 24 La Sarandon non afferma che il
politicamente corretto del MeToo vada troppo in là, ma che sia pseudo-
radicale, che la sua radicalità sia solo una posa. Il compito non è quello di
costruire una coalizione tra la sinistra radicale e la destra fascista, ma di
tagliare la boccata d’ossigeno fornita dalla classe operaia alla destra
alternativa rivolgendosi ai loro elettori. Il modo per raggiungere questo
obiettivo è quello di spostarsi ancora più a sinistra, con un messaggio più
radicale e critico, ovvero fare esattamente quello che stavano facendo
Sanders e Corbyn e che è stato alla base del loro relativo successo.
Un altro aspetto della nuova ondata di razzismo è la mobilitazione del lato
osceno dell’ideologia. Quando il conservatore nero Ben Carson era in corsa
per diventare il candidato presidenziale repubblicano, ha raccontato la sua
vita come un percorso dalla delinquenza giovanile fino all’acquisizione della
morale cristiana. In ogni caso, quando i giornalisti hanno indagato sul suo
passato, sono stati sorpresi di scoprire che non era mai stato un delinquente:
al contrario, era sempre stato un ragazzo modesto e ben educato. Ma qui
arriva la vera sorpresa: davanti a questa scoperta, i sostenitori di Carson
continuarono a sostenere che da ragazzo era davvero stato un delinquente: ma
perché questa strana insistenza? Non sarebbe stato meglio che Carson si fosse
presentato fin dall’inizio agli occhi dei suoi elettori (soprattutto bianchi
cristiani e conservatori) come un bravo ragazzo? No: un passato da
delinquente corrisponde perfettamente alla sua immagine, quella del classico
ragazzo di colore, caduto nel crimine e in altri vizi e che trova la forza nel
duro lavoro, nella disciplina e nel cristianesimo. Questo era proprio ciò che i
suoi sostenitori volevano vedere: non semplicemente un bravo ragazzo nero
(in quanto tale lo avremmo dovuto riconoscere come uno di noi, del tutto
uguale a noi), ma uno che prima aveva goduto appieno del suo essere nero
anche nei suoi aspetti di trasgressione (i peccati delle razze «inferiori»
affascinano sempre i conservatori bianchi e sono chiaramente l’oggetto di
un’ambigua invidia), e che poi aveva trovato la forza di castigare la sua
natura selvaggia nera e di diventare un cristiano ricco di morale proprio come
loro. Ricordiamoci che Carson aveva anche affermato che la schiavitù, per
quanto deplorabile, aveva aiutato i neri a scoprire e ad accettare il
cristianesimo: il ruolo del cristianesimo in questa storia era quello di
civilizzare i selvaggi neri integrandoli nella cultura bianca.
È solo in questo contesto che possiamo capire come Donald Trump, un
uomo volgare e depravato, che incarna esattamente l’opposto della moralità
cristiana, possa funzionare come eroe prescelto dai cristiani conservatori. La
spiegazione che di solito ci viene data è che, mentre i cristiani conservatori
sono ben consapevoli dell’aspetto problematico della personalità di Trump,
hanno scelto di ignorare questo lato delle cose in nome della sua agenda
politica, in particolare della posizione anti-abortista. Se riuscirà a imporre
nuovi membri conservatori della Corte suprema che potrebbero quindi
ribaltare il caso Roe contro Wade (la decisione della Corte suprema che ha
legittimato l’aborto), allora tutti i suoi peccati saranno spazzati via... ma le
cose sono davvero così semplici? E se fosse proprio la doppia personalità di
Trump – il suo rigido moralismo, assieme alla lascivia e alla volgarità
personale – a renderlo particolarmente attraente per i cristiani? E se essi si
identificassero segretamente proprio con questa duplicità? Vale esattamente
la stessa cosa per l’attuale capo de facto della Polonia, Jarosław Kaczyński,
che, in un’intervista 1997 a Gazeta Wyborcza, esclamò senza alcuna
eleganza, «Teraz kurwa my». Questa frase (diventata da allora una battuta
classica della politica polacca) si può tradurre all’incirca con «è arrivato
finalmente il nostro dannato momento, adesso siamo al potere, tocca a noi»
ma il suo significato letterale è più volgare, qualcosa come «è arrivato il
nostro turno di scopare la prostituta» (dopo aver fatto la coda in un
bordello). 25 È significativo che questa frase sia stata pronunciata
pubblicamente da un devoto cattolico conservatore, il protettore della morale
cristiana: è il lato nascosto che effettivamente supporta la politica «morale»
cattolica.
Anche dalle parti del comunismo non siamo lontani da tali volgarità. Ad
esempio, nel suo discorso del luglio 1959 alla Conferenza di Lushan, quando
i primi rapporti chiarirono che il Grande balzo in avanti era stato un
fallimento, Mao chiamò i quadri del partito ad assumersi la loro parte di
responsabilità, e concluse il discorso ammettendo la sua stessa responsabilità,
soprattutto per la sfortunata campagna sulla produzione di acciaio in ogni
villaggio: «Ne è venuto fuori un gran caos generale e io me ne assumo la
responsabilità. Compagni, dovete tutti analizzare le vostre responsabilità. Se
dovete cacare, cacate! Se dovete scoreggiare, scoreggiate! Vi sentirete molto
meglio». 26
Perché questa metafora così volgare? In che senso l’ammissione autocritica
della propria responsabilità per errori gravi può essere paragonata al bisogno
di cacare e scoreggiare? Immagino che la risposta sia, per Mao, che assumersi
la propria responsabilità non significa provare rimorso, il che potrebbe
addirittura spingerti a considerare le dimissioni; è più che, nel farlo, ti sollevi
dalla responsabilità, per cui è ovvio che ti sentirai «molto meglio», come
dopo una bella cacata; non ammetti di essere tu stesso una merda, quindi ti
liberi della merda che hai in te. L’autocritica stalinista funziona esattamente
così.
Quello che dobbiamo imparare, qui, è che questo aprirsi del sottofondo
osceno al nostro spazio ideologico (per dirla in modo semplice, il fatto che
adesso si possano fare pubblicamente affermazioni di tipo razzista, sessista,
eccetera che, fino a poco tempo fa, appartenevano al nostro spazio privato)
non significa certo che il tempo della mistificazione sia passato, che
l’ideologia adesso mostri apertamente le sue carte. Al contrario, quando
l’oscenità penetra nella scena politica, la mistificazione ideologica raggiunge
il suo apice: gli interessi veramente politici, economici e ideologici diventano
più invisibili che mai. In breve, l’oscenità pubblica è sempre supportata da un
moralismo nascosto, chi la mette in atto è sempre segretamente convinto di
stare combattendo per una causa, ed è su questo livello che dovrebbe essere
attaccato. Il problema non è che Trump sia un pagliaccio. Il problema è che
dietro alle sue provocazioni c’è un programma, un metodo nella sua follia. Le
volgari oscenità di Trump (e di altri) fanno parte della loro strategia populista
per vendere questo programma alla gente comune, un programma che
(almeno sul lungo periodo) agisce contro la gente comune: tasse più basse per
i ricchi, meno assistenza sanitaria e tutele per i lavoratori, e così via.
Sfortunatamente, la gente è pronta a mandar giù molte cose, se vengono loro
presentate con una risata.
C’è una vecchia barzelletta sovietica deliziosa su Radio Erevan (la stazione
radio armena che era il tradizionale bersaglio delle battute sovietiche). Un
ascoltatore chiede: «È vero che Rabinovitch ha vinto una macchina nuova
alla lotteria?». La radio risponde: «In teoria sì, è vero, solo che non era una
macchina nuova ma una vecchia bicicletta, e non l’ha vinta, gli è stata
rubata». Lo stesso vale per le elezioni presidenziali francesi del 2017: è vero
che, in una grande dimostrazione di unità antifascista, il popolo francese ha
eletto uno sconosciuto e ha sconfitto una minaccia per l’Europa? In teoria sì,
solo che il vittorioso Macron rappresenta un’Europa lontana dalle persone
comuni, ovvero proprio la politica che ha reso forte la Le Pen, e non è uno
sconosciuto ma il potere costituito allo stato puro.
Ovviamente la Le Pen e Macron non sono la stessa cosa – la differenza è
ovvia – ma nonostante ciò la scelta fra i due non è una vera scelta. Per
capirlo, basta guardare al contesto di entrambi i candidati: la Le Pen è una
populista razzista, ma fa appello anche alle insoddisfazioni popolari e dei
lavoratori; Macron presenta sé stesso come un europeista tollerante e umano,
ma la politica economica che rappresenta è la prima causa
dell’insoddisfazione popolare verso l’Europa. La triste prospettiva che ci
attende è quella di un futuro in cui, ogni quattro anni, saremo gettati nel
panico, spaventati da una qualche forma di «pericolo neofascista», e in questo
modo ricattati a votare per il candidato «civilizzato» all’interno di elezioni
insensate prive di una visione positiva... Allo stesso tempo, potremo dormire
sonni tranquilli nell’abbraccio del capitalismo globale dal volto umano.
L’oscenità della situazione toglie il fiato: il capitalismo globale si presenta
oggi come l’ultima protezione contro il fascismo; e se qualcuno cerca di
evidenziare alcuni dei seri limiti di Macron viene accusato di – sì, di
complicità con il fascismo, dal momento che, come non fanno altro che
ripetere i media più potenti (e non solo), l’estrema sinistra e l’estrema destra
adesso vanno a braccetto: entrambe sono antisemite, nazionaliste-
isolazioniste, anti-globalizzazione, eccetera. Questo è il punto di tutta
l’operazione: far scomparire la sinistra, ovvero l’unica vera alternativa. La
donna che sta dietro Macron non è sua moglie ma la proverbiale TINA –
ovvero «non c’è alternativa». 27 Macron non porta speranza, uccide la
speranza, la speranza di liberarci del tutto della minaccia del populismo
razzista. Minaccia che è davvero reale: e il modo in cui funziona è stato
evidente il 24 ottobre 2017 quando i media hanno riportato le seguenti
affermazioni di Victor Orbán, primo ministro ungherese, senza che le lettere
arrossissero per la vergogna:

Orbán ha definito l’Europa centro-orientale «zona senza migranti». Lo ha affermato


durante la celebrazione dell’anniversario della Rivoluzione ungherese del 23
ottobre 1956. Secondo lui, gli Stati dell’Europa centro-orientale sono riusciti a
respingere con decisione l’immigrazione illegale ed è la sola zona del continente
europeo senza migranti. Orbán ha affermato: «L’impero mistico-finanziario ci ha
portato queste ondate migratorie della nuova era, milioni di migranti, l’invasione di
migranti. Loro hanno elaborato questo progetto con il quale vogliono far diventare
l’Europa un continente meticcio. Ma noi siamo riusciti a resistere. I polacchi, i
cechi, gli slovacchi, i rumeni e gli ungheresi dovrebbero unirsi in questo processo».
È sicuro che tutte le prossime elezioni in Europa dimostreranno che i cittadini
vogliono decidere per sé, e farsi carico direttamente della situazione politica.
«Vogliamo un’Europa sicura, giusta, cristiana e libera», ha concluso, e ha avvertito:
«Non dovremmo mai sottovalutare il lato oscuro della forza», citando Star Wars nel
riferirsi alle trame di coloro che starebbero dietro all’invasione dei migranti,
aggiungendo che essi «non hanno una struttura forte, ma hanno una rete
sviluppata». Ha poi aggiunto: «L’Unione Europea e la Commissione europea
devono riguadagnarsi l’indipendenza dall’impero di Soros prima che il miliardario
concluda il suo programma di distruzione del continente». 28

Qualunque associazione tra le «zone senza migranti» di Orbán e il vecchio


tentativo nazista di creare «zone senza ebrei» è, ovviamente, molto vicina. Il
riferimento fatto da Orbán al «lato oscuro» dell’Europa, «l’impero mistico-
finanziario» incarnato da Soros l’ebreo, va esattamente in questa direzione,
ovvero verso l’idea fascista della cospirazione ebraico-plutocratica. Questo è
il modo in cui oggi l’estrema destra populista spiega la «minaccia» dei
migranti musulmani. Nell’immaginazione antisemita, «l’Ebreo» è il Padrone
invisibile che segretamente tira le fila, che è il motivo per cui i migranti
musulmani non sono gli ebrei di oggi: sono tutti troppo visibili, non invisibili,
sono chiaramente non integrati nella nostra società, e nessuno può affermare
che essi segretamente tirino le fila; se si vuol vedere nella loro «invasione
dell’Europa» un piano segreto, allora dietro ci devono essere gli ebrei.
Il fatto che Orbán abbia tenuto il suo discorso durante la celebrazione
dell’anniversario della Rivoluzione ungherese del 23 ottobre 1956 suona
involontariamente ironico. Uno dei momenti più drammatici della
sollevazione fu quando l’esercito sovietico stava circondando i ribelli, e
questi mandarono un disperato messaggio a Vienna: «Noi qui stiamo
difendendo l’Occidente». Ora, dopo il collasso del comunismo, il governo
cristiano-conservatore individua come il suo maggior nemico la democrazia
liberale consumista dell’Occidente multiculturale, che oggi l’Europa
occidentale rappresenta, e invoca un nuovo ordine comunitario, più organico,
per sostituire la «turbolenta» democrazia liberale degli ultimi due decenni.
Orbán si è già espresso a favore del «capitalismo con valori asiatici», per cui,
se la pressione europea su Orbán dovesse continuare, possiamo facilmente
immaginarcelo che manda un messaggio all’Oriente: «Noi qui stiamo
difendendo l’Asia!». 29
In America, Trump sta difendendo la sua versione dell’«Asia» (che non ha
nulla a che fare con la realtà dell’Asia, ovviamente), i cui contorni sono facili
da identificare. A volte, il modo migliore per valutare una notizia è quello di
accostarla a un’altra, e tale confronto spesso ci permette di cogliere la vera
posta in gioco di un dibattito. Prendiamo le reazioni a un testo importante:
nell’estate del 2017, David Wallace-Wells ha pubblicato il saggio La terra
inabitabile, che ha riscosso immediato successo. 30 Descrive in modo chiaro
e sistematico tutte le minacce alla nostra sopravvivenza, dal riscaldamento
globale alla prospettiva di un miliardo di rifugiati per questioni climatiche, e
le guerre e il caos che tutto questo comporterà. Invece che concentrarci sulle
prevedibili reazioni (accuse di allarmismo, ecc.), dovremmo leggerlo insieme
a due fatti collegati alla situazione qui descritta. Innanzitutto c’è, ovviamente,
l’esplicita negazione da parte di Trump delle minacce ecologiche; poi c’è il
fatto osceno che i miliardari che da una parte sostengono Trump dall’altra si
stanno preparando per l’apocalisse investendo in lussuosi rifugi sotterranei in
cui sarebbero in grado di sopravvivere in isolamento per almeno un anno, con
provviste di verdure fresche, palestre, e così via. 31
Un altro esempio è un testo scritto da Bernie Sanders. Nell’ottobre 2017,
Sanders ha scritto un incisivo commento sul budget repubblicano, il cui titolo
dice tutto: «Il budget repubblicano è un regalo ai miliardari: è Robin Hood al
contrario». 32 Il testo è scritto in modo chiaro, pieno di fatti e interpretazioni
convincenti: perché dunque non ha ottenuto la risonanza dovuta? Dovremmo
leggerlo insieme a ciò che hanno riportato i media sull’indignazione suscitata
dall’annuncio che Sanders sarebbe stato l’oratore di apertura della
Conferenza delle donne di Detroit. I critici sostenevano che fosse un errore
far parlare Sanders, un uomo, a una conferenza dedicata all’affermazione dei
diritti delle donne in politica. 33 Non importa che fosse solo uno dei due
uomini di sessanta relatori, senza alcun rappresentante transgender (qui la
differenza sessuale era stata improvvisamente accettata come non
problematica). Dietro a questa indignazione si intravedeva, ovviamente, la
reazione dell’area clintoniana del Partito democratico nei confronti di
Sanders: il suo malessere verso la critica di sinistra portata avanti da Sanders
all’odierno capitalismo globale. Quando Sanders sottolinea i problemi
economici, viene accusato di «volgare» riduzionismo di classe, mentre a
nessuno importa nulla quando i capi delle grandi società sostengono i diritti
LGBT+.
Dovremmo dunque concludere, da tutto questo, che il nostro compito è
quello di mandar via Trump il prima possibile? Quando Dan Quayle, non
esattamente famoso per il suo alto quoziente intellettivo, era il vicepresidente
di Bush senior, circolava la battuta secondo la quale l’FBI aveva un compito
segreto da portare a termine in caso di morte del presidente: uccidere subito
Quayle. Speriamo che l’FBI abbia la stessa consegna per Pence in caso di
morte o di impeachment di Trump: Pence è, semmai, perfino peggio di
Trump, un vero cristiano conservatore. Ciò che rende il trumpismo
minimamente interessante sono le sue incongruenze: pensiamo al fatto che
Steve Bannon non solo è contrario al piano fiscale di Trump, ma invoca
apertamente l’innalzamento delle tasse per i ricchi fino al 40%, sostenendo
inoltre che il salvataggio delle banche con soldi pubblici sia un «socialismo
per ricchi»: cose che certamente non suonano come musica alle orecchie di
Pence.
Steve Bannon ha recentemente dichiarato guerra, ma a chi? Non contro i
democratici di Wall Street, non contro gli intellettuali liberal o gli altri soliti
sospetti, ma contro il potere costituito del Partito repubblicano stesso.
Essendo stato espulso dalla Casa Bianca da Trump, sta combattendo per la
missione di Trump al suo stato più puro, anche se talvolta va contro lo stesso
Trump; non dimentichiamo che Trump sta fondamentalmente distruggendo il
Partito repubblicano. Bannon mira a essere il capo di una rivolta populista dei
sottoprivilegiati contro le élite; sta prendendo il messaggio di governo di
Trump (da parte del popolo e per il popolo) più alla lettera di quanto non osi
fare Trump. Senza giri di parole, Bannon è come le SA rispetto a Hitler, la
parte populista e lower-class di cui Trump si dovrà sbarazzare (o che dovrà
almeno neutralizzare) per essere accettato dal sistema e funzionare senza
problemi come capo dello Stato. È per questo che Bannon vale tanto oro
quanto pesa: è una spia costante dell’antagonismo che attraversa il Partito
repubblicano. Il suo populismo, almeno, è pronto a cogliere l’ipocrisia
dell’ordine liberale dominante. Ad esempio, la lezione fondamentale della
recente pubblicizzazione dei cosiddetti Paradise papers non è forse,
semplicemente, il fatto che i super-ricchi vivano nello loro zone speciali al di
fuori delle leggi comuni? Micah White riassume questa lezione in due punti:
Primo, da tutte le parti le persone, che vivano in Russia o in America, sono
oppresse dagli stessi minuscoli circoli sociali di élite ricche che ingiustificatamente
controllano i nostri governi, le società, le università e la cultura [...] C’è una
plutocrazia globale che impiega la stessa manciata di compagnie per nascondere i
soldi e per condividere le cose al proprio interno invece che con i cittadini. Questo
getta le basi per un movimento sociale globale.
Secondo, e più importante, queste fughe di notizie indicano il fatto che la nostra
terra si è divisa in due mondi separati e diseguali: uno abitato da 200.000 super-
ricchi e l’altro dai sette miliardi di esclusi.

Non impariamo in realtà nulla di nuovo dai Paradise Papers, in qualche


modo siamo sempre stati a conoscenza dei loro contenuti. Nessuna novità nei
dati precisi che confermano i nostri vaghi sospetti, ma piuttosto un
cambiamento in quello che, seguendo Hegel, dovremmo chiamare Sitten, il
costume pubblico, che adesso sembra essere meno tollerante nei confronti
della corruzione. Dobbiamo stare attenti a non idealizzare questa nuova
situazione: una battaglia contro la corruzione può essere facilmente fatta
propria da forze conservatrici anti-liberali il cui eterno motto è «troppa
democrazia porta corruzione». Non di meno, si è aperto un nuovo spazio: la
richiesta che i ricchi e potenti obbediscano alla legge può essere sovversiva
nel momento in cui il sistema non la può veramente sostenere, ovvero, nel
momento in cui i paradisi fiscali e altre forme di attività finanziarie illegali
sono parte integrante del capitalismo globale.
La prima conclusione che siamo spinti a trarre da questa strana situazione è
che è tornata la lotta di classe come massimo fattore determinante della nostra
vita politica, nel buon vecchio senso marxista di «determinazione in ultima
istanza»: anche se la posta in gioco appare del tutto diversa, dalle crisi
umanitarie alle minacce ecologiche, la lotta di classe si affaccia da dietro le
quinte e getta la sua ombra.
La seconda conclusione è che la lotta di classe è sempre meno direttamente
trasposta nella lotta tra partiti politici, e avviene sempre più all’interno di
ogni grande partito politico. Negli Stati Uniti, la lotta di classe attraversa il
Partito repubblicano (la classe dirigente del partito contro i populisti alla
Bannon) e il Partito democratico (l’ala clintoniana contro il movimento di
Sanders). Non dovremmo mai dimenticare, ovviamente, che Bannon è la
guida della destra alternativa mentre Clinton sostiene diverse cause
progressiste, come la lotta contro il razzismo e il sessismo. In ogni caso, allo
stesso tempo, non dovremmo mai dimenticare che la battaglia LGBT+ può
anche venire cooptata dal liberalismo più di moda contro «l’essenzialismo di
classe» della sinistra.
La terza conclusione dunque riguarda la strategia della sinistra in questa
complessa situazione. Se un qualunque patto tra Sanders e Bannon è escluso
per ovvi motivi, un elemento chiave della tattica della sinistra dovrebbe
essere quello di approfittare senza pietà delle divisioni in campo nemico e
combattere per i sostenitori di Bannon. Per farla breve, non c’è vittoria della
sinistra senza l’ampia alleanza di tutte le forze anti-sistema. Non dovremmo
mai dimenticare che il nostro vero nemico è il sistema capitalista globale e
non la nuova destra populista, che è semplicemente una reazione a questa
impasse. Se ce lo dimentichiamo, allora la sinistra semplicemente scomparirà
dalla scena, come sta già avvenendo con la sinistra moderata social-
democratica in buona parte d’Europa (Germania, Francia...) o, come ha
affermato Sławomir Sierakowski nel suo In Europa, l’unica scelta è fra
destra o estrema destra: «dal momento che i partiti di sinistra sono collassati,
l’unica opzione che rimane agli elettori è il conservatorismo o il populismo di
destra». 34
Otterrà dunque Trump il suo giusto castigo? Le sue decisioni impulsive,
come il rifiuto di appoggiare la dichiarazione concordata del G7 nel Quebec
nel giugno 2018, non sono solo espressioni delle sue personali fissazioni.
Sono reazioni alla fine di un’era del sistema economico globale, reazioni che
sono supportate da una visione sbagliata di ciò che sta accadendo. In ogni
caso, la visione sbagliata di Trump si basa non di meno sulla percezione
corretta che il sistema mondiale esistente non funziona più. Un ciclo
economico sta arrivando alla conclusione, un ciclo iniziato all’inizio degli
anni Settanta, l’epoca in cui nacque ciò che Yanis Varoufakis chiama il
«Minotauro globale», la mostruosa macchina che ha guidato il mondo
dall’inizio degli anni Ottanta fino al 2008. La fine degli anni Sessanta e
l’inizio degli anni Settanta non era solo l’epoca della crisi del petrolio e della
stagnazione; la decisione di Nixon di abbandonare il sistema aureo per il
dollaro americano era il segno di uno spostamento molto più radicale nel
funzionamento di base del sistema capitalista. Alla fine degli anni Sessanta,
l’economia americana non era più in grado di continuare a riciclare le sue
eccedenze in Europa e in Asia: le sue eccedenze si erano trasformate in
deficit. Nel 1971, il governo americano rispose a questo declino con una
mossa strategica audace: invece di contrastare i deficit in espansione della
nazione, decise di fare il contrario, di incrementarli. E chi avrebbe pagato per
loro? Il resto del mondo! In che modo? Attraverso un trasferimento
permanente di capitale che correva incessantemente da una parte all’altra dei
due grandi oceani per finanziare i deficit americani. Questi deficit allora
iniziarono ad operare
come un aspirapolvere gigante, assorbendo i beni in eccedenza e il capitale degli
altri popoli. Anche se tale «disposizione» era l’incarnazione del più grossolano
disequilibrio immaginabile su una scala planetaria [...] ciò nondimeno fece sorgere
qualcosa che rassomigliava a un equilibrio globale: un sistema internazionale di
flussi finanziari e mercantili in grado di creare una parvenza di stabilità e di crescita
costante.
Le principali economie mondiali del surplus (cioè Germania, Giappone e, in
seguito, Cina) continuavano a sfornare merci che gli americani continuavano a
trangugiare. Quasi il 70% dei profitti raccolti su scala globale da questi paesi
venivano poi ritrasferiti indietro negli Stati Uniti, sotto forma di flussi di capitale
diretti a Wall Street. E che se ne faceva Wall Street di quei flussi di capitali? Li
trasformava istantaneamente in investimenti diretti, azioni, nuovi strumenti
finanziari, crediti, di forma vecchia o nuova, eccetera. 35

Questa crescente bilancia di mercato negativa dimostra che gli Stati Uniti
sono il predatore non produttivo: negli ultimi decenni, hanno dovuto
risucchiare un miliardo di dollari al giorno dalle altre nazioni per pagare i
propri consumi ed è, in quanto tale, il consumatore keynesiano universale che
fa girare l’economia mondiale. (Fine della discussione per l’ideologia
economica anti-keynesiana che sembra oggi predominante!). Questo afflusso
di denaro, in effetti simile alla decima pagata nella Roma antica (o i doni
sacrificati al Minotauro nell’antica Grecia), si fonda su un meccanismo
economico complesso: ci si «fida» degli Stati Uniti come centro stabile e
sicuro, così che tutti gli altri, dai paesi arabi produttori di petrolio all’Europa
occidentale fino al Giappone, e ora anche la Cina, investono i loro profitti in
eccesso negli Stati Uniti. Dal momento che questa fiducia è soprattutto
ideologica e militare, non economica, il problema per gli Stati Uniti è
giustificare il loro ruolo imperiale: necessitano di uno stato di guerra
permanente, così devono inventarsi la «guerra al terrore», e presentarsi come
il protettore universale di tutti gli altri Stati «normali» (non «canaglia»).
L’intero globo dunque tende a funzionare come una Sparta universale con le
sue tre classi, ora emergenti come il Primo, il Secondo e il Terzo mondo: 1)
gli Stati Uniti come potere militare-politico-ideologico; 2) l’Europa e parti
dell’Asia e dell’America latina come regioni industrial-manifatturiere
(fondamentali qui sono la Germania e il Giappone, a capo delle esportazioni
mondiali, oltre, ovviamente, all’emergente Cina); 3) il resto sottosviluppato,
gli iloti di oggi, coloro che sono «esclusi». In altre parole, il capitalismo
globale ha portato a una nuova tendenza generale verso l’oligarchia,
mascherata da celebrazione della «diversità delle culture»; l’uguaglianza e
l’universalismo stanno sempre più scomparendo come principi politici reali.
Dal 2008 in avanti, questo sistema mondiale neospartano ha cominciato a
crollare. Negli anni di Obama, Paul Bernanke, a capo della Federal Reserve,
ha dato un’altra boccata d’ossigeno a questo sistema: approfittando del fatto
che il dollaro americano è la valuta globale, ha finanziato le importazioni
stampando massicciamente moneta. Trump ha deciso di affrontare il
problema in modo diverso: ignorando il delicato equilibrio del sistema
globale, si è concentrato su elementi che possono essere presentati come
«ingiustizie» per gli Stati Uniti: enormi livelli di importazioni che stanno
riducendo il lavoro in patria, e così via. Ma ciò che lui denuncia come
«ingiustizia» è parte di un sistema di cui gli Stati Uniti hanno approfittato:
essi stavano effettivamente «derubando» il mondo importando merci e
pagandole con i debiti e stampando moneta. E il medesimo gioco del
derubare ovviamente continuerà: Trump non solo ha abbassato le tasse per i
ricchi, ha anche silenziosamente accolto diverse richieste di area democratica
sull’alleviamento della situazione dei poveri, il che significa che il deficit
esploderà... e quando gliene si chiederà conto, Trump probabilmente
risponderà con il vecchio ritornello reaganiano: «Il nostro deficit è grande
abbastanza da camminare con le sue gambe!».
Non ci sorprende dunque che adesso Trump si stia rivolgendo a Kim Jong-
un in modo molto più amichevole rispetto ai suoi grandi alleati europei:
anche qui, gli estremi si incontrano, e dovremmo ricordarci che, da un punto
di vista economico e geopolitico, è l’Europa il vero nemico di Trump. Con la
disintegrazione del sistema che ha dominato il mercato globale dagli anni
Settanta, gli Stati Uniti stanno diventando sempre più l’elemento distruttivo
di questo stesso mercato. Diversamente dal 1945, il mondo non ha bisogno
degli Stati Uniti, sono gli Stati Uniti che hanno bisogno del mondo. A
Singapore si sono dunque incontrati due emarginati: l’emarginato escluso
(Kim) e l’emarginato che sta proprio al centro del nostro mondo. Dal quando
Trump ha manifestato l’intenzione di invitare Kim alla Casa Bianca, sono
perseguitato da un sogno: non quello nobile di Martin Luther King ma uno
molto più strano (e molto più semplice da realizzare). Trump ha rivelato il
suo amore per le parate militari, proponendo di organizzarne una a
Washington, ma agli americani l’idea sembra non piacere. E se dunque il suo
nuovo amico Kim gli potesse dare una mano? E se ricambiasse l’invito e
preparasse uno spettacolo per Trump nel grande stadio di Pyongyang, con
centinaia di migliaia di nordcoreani ben addestrati che sventolano bandiere
colorate a formare gigantesche immagini in movimento di Kim e Trump
sorridenti?
In un mondo in cui le decisioni vengono prese in incontri riservati di
«leader forti» non c’è posto per l’Europa come la conosciamo. Ovviamente,
Trump si sente più a suo agio in compagnia di leader autoritari con cui può
«fare affari», soprattutto se agiscono solo per conto del loro stesso Stato.
«America first» può fare affari con «Cina first» o «Russia first», o il post-
Brexit «Regno Unito first», non con un’Europa unita. L’obiettivo di Trump è
quello di fare affari economici con singoli partner che possano essere ricattati
fino alla sottomissione, per cui è di estrema importanza che l’Europa agisca
come un’unica forza economica e politica. È talmente piena di pericoli questa
nuova situazione, che si apre per l’Europa un’occasione unica: impegnarsi
nella formazione di un nuovo sistema economico globale che non sarà più
dominato dal dollaro americano come valuta globale. Nell’economia globale
è guerra, dunque è tempo di misure estreme. L’Europa dovrebbe essere
consapevole che non si può tornare indietro alle condizioni esistenti prima di
Trump. Per infliggere a Trump il suo giusto castigo è necessario un ordine
mondiale davvero nuovo. Né la Russia né la Cina lo possono creare, sono
all’interno dello stesso gioco di Trump, parlano lo stesso linguaggio
dell’«America (Russia, Cina) first». Lo può fare solo l’Europa, ma è qui che
la reazione dell’Europa e del Canada si rivela insufficiente: invece di
difendere una nuova visione, agiscono come una parte offesa che si lamenta
del fatto che gli Stati Uniti hanno infranto le regole prestabilite. All’incirca
nell’ultimo decennio, l’Europa ha agito sempre più come l’ex leader
dell’OLP Yasser Arafat, del quale si disse che non avesse mai perso
un’occasione di perdere un’occasione. La crisi dei migranti, la Catalogna... È
probabile che l’Europa perderà di nuovo l’occasione. Noi europei
chiaramente non siamo forti abbastanza da respingere l’ordine americano di
boicottare l’Iran. (Come oggi sappiamo, subito dopo che la Merkel annunciò
orgogliosamente che la Germania avrebbe agito come se l’accordo con l’Iran
fosse ancora valido, grandi compagnie tedesche silenziosamente
abbandonarono l’Iran). In tempi come questi, c’è davvero da vergognarsi di
essere europei, nonostante tutte le eroiche affermazioni che si fanno. Ecco
l’orgogliosa reazione francese alla nuova situazione creata dall’abbandono da
parte di Trump dell’accordo nucleare con l’Iran, in cui si legge che la volontà
dell’Europa è quella di affermarsi come un blocco di potere sovrano e di
agire come se il patto fosse ancora valido:
Il governo francese ha detto che l’Europa è pronta a introdurre misure che
annullino l’effetto delle sanzioni imposte da Donald Trump su qualunque azienda
non americana che continui a fare affari con l’Iran. L’avvertimento arrivato dal
ministro delle finanze francese, Bruno Le Maire, suggerisce che la proposta di
Trump di obbligare l’Europa a seguire la politica estera americana riguardo all’Iran
potrebbe portare a un duro contraccolpo da parte delle aziende e dei politici
europei, ed esorta in particolar modo a una politica estera europea più forte e
indipendente. «Dobbiamo lavorare fra di noi in Europa per difendere la nostra
sovranità politica europea», ha detto Le Maire, aggiungendo che l’Europa potrebbe
usare gli stessi strumenti degli Stati Uniti per difendere i propri interessi. Ha
aggiunto: «Vogliamo essere un vassallo che obbedisce e scatta sull’attenti?». 36

Suona bene, ma l’Europa ha forza e unità sufficienti per farlo? Il nuovo


«asse del male» dell’Est europeo post-comunista (dagli Stati del Baltico fino
alla Croazia) si unirà alla resistenza verso gli Stati Uniti, o si piegherà ad essi
dando un’ulteriore dimostrazione del fatto che la rapida espansione
dell’Europa verso Est è stata un errore? Ciò che complica ulteriormente le
cose è che l’Europa deve fronteggiare la sua stessa rivolta populista,
innescata dalla sfiducia crescente delle persone verso la tecnocrazia di
Bruxelles, vista come un centro di potere senza legittimazione democratica. Il
risultato delle ultime elezioni italiane è stato che, per la prima volta in un
paese occidentale sviluppato, i populisti euroscettici sono andati al potere. E
ricordiamoci che il ritiro dall’accordo con l’Iran è solo uno dei tre atti anti-
europei messi in campo dagli Stati Uniti: abbiamo anche lo spostamento
dell’ambasciata americana in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, fortemente
osteggiata dall’Unione Europea e, ovviamente, i primi colpi sparati in una
guerra commerciale con tre dei maggiori partner americani, imponendo
tariffe sulle importazioni di acciaio e alluminio provenienti da Europa,
Canada e Messico.
Anche se molti di noi simpatizzano con la reazione europea, non dobbiamo
dimenticare il retroscena (normalmente ignorato) della decisione americana.
Per capirlo, passiamo a un argomento che potrebbe sembrare del tutto
incongruo: il putiferio sollevato in America dall’improvvisa cancellazione
della serie televisiva di grande successo della ABC Roseanne a causa di un
tweet razzista scritto dalla star della trasmissione, Roseanne Barr. Nel suo
articolo Con la scomparsa dalla scena di Roseanne Barr, la classe
lavoratrice americana sarà cancellata dalla TV?, 37 Joan Williams
suggerisce che la sinistra cominci finalmente ad ascoltare la classe lavoratrice
bianca. Osserva come un fatto chiave di tutta questa vicenda sia passato
inosservato: tale cancellazione «ha privato la televisione americana di una
delle poche rappresentazioni empatiche della vita della classe operaia bianca
dell’ultimo mezzo secolo, in altre parole, da che la televisione esiste». 38
Williams esplicitamente sostiene la decisione di escludere Barr a partire dal
suo tweet razzista, ma aggiunge: «Detto questo, la razza non è l’unica
gerarchia sociale. Immagini offensive della classe operaia bianca sono parte
integrante della mancanza di rispetto culturale che ha spianato la strada a un
demagogo come Trump». 39 Le tristi peripezie della classe operaia bianca
sono la chiara indicazione del tramonto del sogno americano:
Teoricamente, ogni americano nato negli anni Quaranta guadagnava più dei suoi
genitori; oggi, sono meno della metà. La rivolta della Rust Belt (la «cintura della
ruggine») che ha portato alla Brexit e a Trump è una conseguenza delle fabbriche
dismesse, delle città fantasma, e di mezzo secolo di vane promesse. Gli esclusi
sono molto, molto arrabbiati; Trump è il loro dito medio. Più insulta le élite della
costa, più i suoi seguaci se ne compiacciono. In fin dei conti, qualcuno si è accorto
di loro. 40

Ed è fondamentale leggere la guerra tariffaria di Trump contro i suoi più


stretti alleati in questo contesto: nella sua versione populista del conflitto di
classe, lo scopo di Trump è (anche) quello di proteggere la classe operaia
americana (e i metalmeccanici non sono forse le figure più emblematiche
della classe operaia tradizionale?) dalla «disonesta» competizione europea,
salvando così il lavoro americano. Ed è sbagliato liquidare in questo caso
Trump come un semplice demagogo:
Dietro le quinte, Trump ha sbalordito Nancy Pelosi, capogruppo democratica della
Camera dei Rappresentanti, approvando ogni singolo programma sociale di cui lei
faceva richiesta [...] Qualunque cosa si possa pensare di questo presidente, sta
dando denaro non solo ai più ricchi, che ovviamente ne ottengono la massima parte,
ma anche a molti poveri. 41

Di nuovo, si tratta del motivo per cui tutte le proteste dei dirigenti pubblici
e degli economisti in Europa, Canada e Messico, così come le contromisure
da loro proposte, mancano l’obiettivo: seguono la logica di libero scambio
internazionale dell’OMC, mentre solo una sinistra che si rivolga alle
preoccupazioni di tutti coloro che stanno ai margini può davvero contrastare
Trump.
A un livello profondo e spesso nascosto, i nuovi conservatori americani
percepiscono l’Unione Europea come il nemico. Questa percezione, tenuta
sotto controllo nel discorso politico pubblico, esplode nel suo doppio osceno
sotterraneo, la visione politica fondamentalista dell’estrema destra cristiana,
con la sua paura ossessiva del Nuovo Ordine Mondiale (Obama è
segretamente colluso con le Nazioni unite, le forze internazionali
interverranno negli Stati Uniti per rinchiudere tutti i veri patrioti americani in
campi di concentramento; un paio d’anni fa, si diceva che le truppe
latinoamericane fossero già nelle pianure del Midwest a costruire campi di
concentramento...). Un modo per risolvere questo dilemma è la linea dura dei
cristiani fondamentalisti, articolata nelle opere di Tim LaHaye et consortes. Il
titolo di uno dei romanzi di LaHaye esplicita questa direzione: Il complotto
europeo. I veri nemici degli Stati Uniti non sono i terroristi islamici –
nient’altro che burattini manipolati in gran segreto dai secolaristi europei, e
cioè dalle vere forze dell’anticristo che vogliono indebolire gli USA per
stabilire un Nuovo Ordine Mondiale guidato dalle Nazioni Unite. In un certo
senso, queste considerazioni sono corrette: l’Europa non è solo un altro
blocco geopolitico di potere, ma una visione globale che è in definitiva
incompatibile con gli Stati-nazione. Cosa impedisce dunque all’Europa di
raccogliere le forze e reagire?
Il 18 maggio 2017 ho avuto una conversazione pubblica con Will Self
all’Emmanuel Centre di Londra. Il momento più indimenticabile (almeno per
me) è stato quando Self, mentre concordava con me sul fatto che, se le cose
continuano così, la nostra società è spacciata, e ci attende una catastrofe
inimmaginabile, mi ha rimproverato perché continuo a credere in un qualche
grande atto «rivoluzionario» che trasformerà la tendenza globale e ci
impedirà di scivolare verso la catastrofe. La sua idea è che, con il nostro
modo di vivere attuale, siamo così profondamente immersi nel processo di
autodistruzione (non solo ecologica) che nessuna consapevolezza di quello
che stiamo facendo potrà mai impedirci di farlo. Self poi ha chiesto al
pubblico quanti di loro avessero uno smartphone, ricordando loro che ogni
telefono necessita di columbite-tantalite (il coltan), un prezioso metallo
proveniente dal Congo, dove viene estratto sostanzialmente con un lavoro
schiavista e in modo dannoso per l’ambiente. Cosa possiamo fare allora,
avendo ammesso che siamo tutti corresponsabili e incapaci di intervenire
attivamente? La risposta di Self: niente di che, giusto pagare le tasse (per
permettere allo Stato di mantenere un livello minimo di giustizia e welfare) e
godere delle nostre vite in isolamento, masturbandoci... La mia risposta (che
qui non riesco ad articolare propriamente) è che una tale affermazione cinico-
edonista si addice perfettamente a coloro che sono al potere, che si tratta di
ideologia allo stato puro: qualsiasi contro-atto collettivo viene svalutato in
partenza («Chi sei tu per protestare? Non stai anche tu usando la columbite-
tantalite? Che diritto hai di incolpare le grandi multinazionali?»), dunque
tutto ciò che possiamo fare è rimanere privati cittadini che godono
masochisticamente delle proprie colpe e si ritirano a piaceri privati. Questo
stato delle cose non significa che siamo perduti: piuttosto ci indica la stessa
direzione di Gioele 3,14: «Moltitudini! moltitudini! Nella valle del Giudizio!
Poiché il giorno dell’Eterno è vicino, nella valle del Giudizio». Questi
versetti ci forniscono la prima accurata descrizione del momento in cui una
società si trova davanti a un bivio, davanti a una scelta che può deciderne il
destino. Questa è l’attuale situazione dell’Europa.
Qualunque populista anti-immigrati sarebbe pienamente d’accordo con
questa affermazione: sì, l’identità vera e propria dell’Europa è minacciata
dall’invasione di musulmani e di altre moltitudini di rifugiati. Ma la vera
situazione è esattamente l’opposto: sono gli odierni populisti anti-immigrati
ad essere la vera minaccia al cuore di emancipazione dell’Illuminismo
europeo. Un’Europa in cui sono al potere persone come Marine Le Pen o
Geert Wilders non è più Europa. Per cosa vale dunque la pena combattere in
questa Europa?
La vera novità della Rivoluzione francese sta nella distinzione fra i diritti
dei cittadini e quelli dell’uomo. Bisognerebbe qui respingere il classico
concetto marxista di diritti umani come diritti dei membri della società civile
borghese. Mentre i cittadini sono definiti dall’ordine politico di uno Stato
sovrano, «umano» è ciò che resta di un cittadino quando viene privato della
cittadinanza, mettendolo nella posizione di ciò che in artiglieria si chiama lo
spazio aperto, ridotto a un corpo astratto che parla. È in questo senso che i
diritti umani universali dovrebbero restare il nostro punto di riferimento
quando discutiamo della difficile relazione fra le costrizioni della cittadinanza
e particolari modi di vivere. Senza questa bussola regrediamo inevitabilmente
alla barbarie.
Nella sua lettura della famosa/famigerata differenza fra diritti umani e
diritti del cittadino, Milner respinge il concetto critico marxista di diritti
umani come quelli dei membri della società civile borghese: per Milner, un
cittadino è un membro di una comunità, ne condivide la cultura specifica,
mentre un essere umano è ciò che resta di un cittadino quando viene privato
della cittadinanza. I diritti umani sono diritti «naturali» solo in questo senso
di esternalità rispetto a una particolare cultura; non hanno nulla a che vedere
con la natura esterna, dal momento che si applicano a ciò che resta di un
cittadino dopo che è stato sottratto a una polis specifica. In questo senso, la
loro «natura» è un effetto retroattivo della cultura; si applica a un essere
umano ridotto al livello zero di corpo parlante:
Riusciamo a cogliere un po’ del reale dei diritti del corpo analizzando quello che
accade quando essi vengono negati agli individui. Ogni giorno ci fornisce un nuovo
esempio. Non ho bisogno di pensare alle bombe o ai gas velenosi, penso a Calais:
coloro che sono ammassati lì dal 2000 non hanno nessuna colpa, non sono accusati
di nulla, non hanno infranto la legge in nessun modo; stanno semplicemente lì e lì
vivono; la prova che sono vivi è che qualche volta muoiono. Nessuno sa che lingua
parlino e in ogni caso non li si ascolta. Sappiamo solo che parlano. Sono dunque
ridotti allo stato di corpi parlanti; dall’insediamento a cui sono obbligati essi
rendono letteralmente visibile in modo negativo la realtà dei diritti dell’uomo e
della donna [...] Questi diritti sono palesemente diversi dai diritti di un cittadino dal
momento che i rifugiati sono esattamente non i cittadini di Calais e la maggior
parte di loro non vuole diventarlo. 42

Milner insiste sulla «volgare» materialità di questi diritti: 43 sono più


basilari del diritto di organizzare assemblee, della libertà di parola, della
libertà di opinione, e così via. Prima vengono i bisogni materiali del corpo:
acqua, cibo, igiene, uno spazio minimo di riservatezza. Se gli individui ne
vengono privati, i loro diritti umani «più elevati» scompaiono. I diritti umani
sono, prima di tutto, diritti materiali di base: bagni, cucine, assistenza
sanitaria. I diritti iniziano con lo spazio per la secrezione: è il triste
fondamento della mia storia sulle diverse forme delle toilette europee. Se
pensiamo che i diritti umani (in quanto diversi da quelli del cittadino) sono
stati proclamati per la prima volta durante la Rivoluzione francese, è facile
notare l’ironia del fatto che Calais è una città francese. Qui, ovviamente,
entriamo in un doppio gioco: i marxisti sottolineano i diritti «materiali»
rispetto alla libertà di opinione, libertà di stampa, ecc. (ma poi non li
concedono quando salgono al potere), mentre le «democrazie borghesi»
sottolineano altre libertà.
Il fatto è che i diritti umani universali sono, proprio nella loro universalità,
storicamente prodotti e determinati; la loro esatta estensione e il loro esatto
contenuto sono il risultato di battaglie sociopolitiche. Averli rinominati, come
ha fatto Milner, «i diritti dell’uomo/della donna» non è forse in sé l’effetto
delle contemporanee battaglie femministe? Inoltre dovremmo tenere a mente
che, anche se gli umani che sono coperti da questi diritti sono «proletari» nel
senso di privati della cittadinanza, non sono comunque in nessun modo degli
astratti cogito cartesiani: sono individui inseriti in uno specifico modo di
vivere, spesso in conflitto con quello del paese in cui risiedono come
rifugiati. Dobbiamo dunque tenere qui in considerazione tre livelli:
l’universalità astratta di un essere umano in quanto portatore di diritti umani,
la particolarità di uno specifico modo di vivere a cui un individuo appartiene,
e la singolarità della cittadinanza come momento di mediazione fra i due
estremi (come cittadino, sono universale, ma universale in quanto
appartenente alla singolarità di uno Stato). L’interazione di questi tre livelli
non può che determinare molteplici difficoltà; basti pensare alle stravaganze
del potere che affliggono gli odierni tentativi di mettere in atto
un’emancipazione radicale.

Per poter affrontare queste difficoltà, dobbiamo mettere in campo un’altra


triade di universale, particolare e singolare: la triade di (universale)
sollevazione delle masse, la (particolare) organizzazione politica e... cosa
dovrebbe rappresentare il singolare? Questo terzo elemento ci riporta a Lenin,
con cui abbiamo iniziato il capitolo. Nell’ondata di celebrazioni del 2017 per
il centenario della Rivoluzione d’Ottobre, la sua lezione più importante per
noi, oggi, è passata inosservata (o era citata come prova che la Rivoluzione
fosse stata un colpo portato avanti da un gruppo segreto e assolutamente non
una vera sollevazione popolare). Questa lezione riguarda la collaborazione
eccezionale tra Lenin e Trockij.
Il cuore dell’«utopia» di Lenin nasce dalle ceneri della catastrofe del 1914,
facendo i conti con l’ortodossia della Seconda internazionale: l’imperativo
radicale di distruggere lo Stato borghese, ovvero lo Stato in quanto tale, e di
inventare una nuova forma sociale e comune priva di esercito permanente,
polizia o burocrazia, in cui tutti possano prendere parte all’amministrazione
delle questioni sociali. Per Lenin non si trattava di un progetto teorico per un
futuro lontano; nell’ottobre del 1917 Lenin affermava «possiamo all’istante
mettere in moto un apparato statale costituito da dieci se non venti milioni di
persone». 44 Questa urgenza del momento è la vera utopia. Ciò su cui ci
dovremmo soffermare è proprio la follia (in senso strettamente
kierkegaardiano) di questa utopia leninista; semmai, lo stalinismo rappresenta
un ritorno al «senso comune» realistico.
Non si può sovrastimare il potenziale esplosivo di Stato e Rivoluzione; in
questo testo, «ci si sbarazzò improvvisamente del vocabolario e della
grammatica della tradizione politica occidentale». 45 Ciò che è venuto dopo si
può chiamare, prendendo a prestito il titolo del saggio di Althusser su
Machiavelli, La solitude de Lénine: il momento in cui di fatto era da solo, a
combattere contro la corrente del suo stesso partito. Quando, nelle sue Tesi di
aprile del 1917, Lenin vide l’Augenblick, l’unica possibilità di una
rivoluzione, le sue proposte vennero innanzitutto accolte con stupore o
disprezzo da parte della grande maggioranza dei suoi compagni di partito.
All’interno del Partito bolscevico, nessun leader di peso sostenne il suo
appello alla rivoluzione, la Pravda fece il passo straordinario di dissociare il
partito, e il comitato editoriale per intero, dalle Tesi di aprile di Lenin; lungi
dall’essere una lusinga opportunista e un modo per sfruttare l’umore
dominante della popolazione, le idee di Lenin erano invece ampiamente
idiosincratiche. Bogdanov ha definito le Tesi di aprile il «delirio di un
pazzo», e perfino Nadežda Krupskaja, la moglie di Lenin, disse: «temo che
sembri che Lenin sia impazzito». 46
Nel febbraio del 1917 Lenin era bloccato a Zurigo, senza nessun contatto
affidabile in Russia, e si teneva aggiornato sugli eventi che capitavano là
prevalentemente tramite la stampa svizzera; in ottobre, guidò la prima
rivoluzione socialista compiuta; dunque, cosa accadde nel mezzo? In
febbraio, Lenin capì subito l’opportunità rivoluzionaria, il risultato di
circostanze contingenti uniche; se non si fosse colto l’attimo, la possibilità di
una rivoluzione sarebbe andata perduta, forse per decenni. Perfino un paio di
giorni prima della Rivoluzione d’Ottobre, Lenin scrisse: «Il trionfo della
rivoluzione russa e mondiale dipende dalla battaglia di due o tre giorni». Nel
suo ostinato insistere sul fatto che si dovesse correre il rischio e passare
all’azione, Lenin era solo, ridicolizzato dalla maggioranza dei membri del
Comitato centrale del suo stesso partito. In ogni caso, per quanto
indispensabile sia stato l’intervento personale di Lenin, non si dovrebbe
cambiare la storia della Rivoluzione d’Ottobre in quella del genio isolato
davanti alle masse disorientate che gradualmente impone la sua visione.
Lenin riuscì nel suo intento perché il suo appello, nell’aggirare la
nomenklatura del partito, trovò risonanza in ciò che si sarebbe tentati di
chiamare micropolitica rivoluzionaria: l’incredibile esplosione di una
democrazia dal basso, di comitati locali che spuntavano fuori in ogni angolo
delle grandi città russe e che, ignorando l’autorità del governo «legittimo»,
prendevano in mano la situazione. Questa è la storia non detta della
Rivoluzione d’ottobre, il contrario del mito del piccolo gruppo di spietati e
devoti rivoluzionari che compiono il coup d’état...
D’altro canto, il concetto del piccolo gruppo di spietati e devoti
rivoluzionari che compiono il coup d’état non è solo un mito; c’è in esso un
essenziale granello di verità. Quando l’insoddisfazione popolare crebbe e
l’idea di Lenin che stesse emergendo una situazione rivoluzionaria cominciò
ad essere accettata, la maggioranza dei capi del Partito bolscevico voleva
organizzare una sollevazione popolare di massa. Trockij, in ogni caso,
sosteneva una posizione che, per i marxisti tradizionali, non poteva che
apparire «blanquista»: una ristretta e ben formata élite avrebbe dovuto
prendere il potere. Dopo un breve tentennamento, Lenin difese Trockij,
spiegando perché in realtà non stesse sostenendo il blanquismo:
In una lettera dell’ottobre 1917, Lenin difesa la tattica di Trockij: «Trockij non sta
giocando con le idee di Blanqui» scrisse, «una congiura militare è blanquismo se
essa non è organizzata dal partito di una classe determinata, se coloro che
l’organizzano non hanno valutato correttamente il momento politico in generale e
la situazione internazionale in particolare. C’è una grande differenza fra una
congiura militare, deplorevole da ogni punto di vista, e l’arte dell’insurrezione
armata». 47

Proprio in questo senso, «Lenin è stato lo stratega, l’idealista, l’ispiratore,


il deus ex machina della rivoluzione, ma l’uomo che ha inventato la tecnica
del coup d’état bolscevico è stato Trockij». 48 Rispondendo ai successivi
difensori «trockijsti» di un Trockij (quasi) democratico che sosteneva una
mobilitazione di massa autentica e una democrazia dal basso, si dovrebbe
sottolineare che Trockij era fin troppo consapevole dell’inerzia delle masse; il
massimo che ci si poteva attendere dalle «masse» era una caotica
scontentezza. Una forza militare fermamente definita e ben preparata
dovrebbe utilizzare questo caos per attaccare il potere e dunque aprire la
strada alle masse perché possano davvero organizzarsi... A questo punto, in
ogni caso, sorge una domanda fondamentale: cosa fa questa élite ristretta? In
che senso «prende il potere»? Diventa qui visibile la vera novità del pensiero
di Trockij: questa forza impressionante non «prende il potere» nel senso
tradizionale del coup d’état di palazzo, occupando gli uffici governativi e i
quartieri generali dell’esercito, non si concentra sul confronto con la polizia o
con l’esercito sulle barricate. Citiamo alcuni brani da Tecnica del colpo di
Stato (1931) di Curzio Malaparte per capire di cosa si tratta:

La polizia di Kerenskij e le autorità militari si preoccupano soprattutto di difendere


l’organizzazione burocratica e politica dello Stato, i Ministeri, il Palazzo Maria,
sede del Consiglio della Repubblica, il Palazzo di Tauride, sede della Duma, il
Palazzo d’Inverno, lo Stato Maggiore Generale. Trockij, che si accorge in tempo di
questo errore, riduce gli obiettivi della sua tattica ai soli organi tecnici della
macchina dello Stato e della città. Il problema dell’insurrezione non è per Trockij
che un problema di ordine tecnico. «Per impadronirsi dello Stato moderno» egli
dice «occorre una truppa d’assalto e dei tecnici: delle squadre d’uomini armati
comandate da ingegneri».
Mentre Trockij organizza razionalmente il colpo di Stato, il Comitato Centrale del
Partito bolscevico organizza la rivoluzione proletaria. È la Commissione composta
di: Stalin, Sverdlov, Boubnow, Ouritzki e Dzeržinskij, quasi tutti nemici dichiarati
di Trockij, che elabora il piano della sollevazione generale. I membri di questa
Commissione, alla quale Stalin, nel 1927, cercherà di attribuire il merito esclusivo
del colpo di Stato dell’ottobre 1917, non hanno nessuna fiducia nell’esito
dell’insurrezione. [...]

Alla vigilia del colpo di Stato, quando Trockij dichiara [a Dzeržinskij] che le
guardie rosse debbono ignorare l’esistenza del governo di Kerenskij, che non si
tratta di combattere il governo con le mitragliatrici, ma d’impadronirsi dello Stato,
che il Consiglio della Repubblica, i Ministeri, la Duma, non hanno nessuna
importanza, dal punto di vista della tattica insurrezionale, e non debbono costituire
gli obiettivi dell’insurrezione armata, che la chiave dello Stato non è
l’organizzazione burocratica e politica, non è il Palazzo di Tauride, né il Palazzo
Maria, né il Palazzo d’Inverno, ma l’organizzazione tecnica, e cioè le centrali
elettriche, le ferrovie, i telefoni, i telegrafi, il porto, i gazometri, gli acquedotti. 49

Trockij dunque si concentrò sulla rete materiale (tecnica) del potere


(ferrovie, elettricità, forniture idriche, posta, ecc.), rete senza la quale il
potere dello Stato non ha un appoggio e diventa non operativo. Lasciamo che
le masse mobilitate combattano la polizia e assaltino il Palazzo d’inverno (un
atto privo di una vera rilevanza): la mossa essenziale viene compiuta da una
piccola minoranza devota...
Invece di appagarsi di un meschino rifiuto moralista-democratico di una
tale procedura, bisognerebbe piuttosto analizzarla a freddo e pensare a come
applicarla oggi, dal momento che questa intuizione di Trockij è tornata
attuale con la progressiva digitalizzazione delle nostre vite in quella che può
essere caratterizzata come la nuova era del potere postumano. La maggior
parte delle nostre attività (e «passività») vengono oggi registrate in una
qualche nuvola digitale, che inoltre ci valuta costantemente, tracciando non
solo le nostre azioni ma anche i nostri stati emotivi; quando viviamo
un’esperienza di massima libertà (navigando nel web, dove tutto è a
disposizione), siamo in realtà del tutto «esteriorizzati» e sottilmente
manipolati. La rete digitale attribuisce un nuovo significato al vecchio slogan
«il personale è politico». È in gioco non solo il controllo delle nostre vite
private: oggi tutto viene regolato da una qualche rete digitale, dai trasporti
alla salute, dall’elettricità all’acqua. È il motivo per cui la rete oggi è il nostro
common più importante, e la battaglia per il suo controllo è la battaglia di
oggi. Il nemico è la combinazione di commons privatizzati e controllati dallo
Stato, grandi aziende globali (Google, Facebook) e agenzie di sicurezza
nazionale (NSA). Ma tutto questo lo conosciamo, dunque cosa c’entra
Trockij?
La rete digitale che supporta il funzionamento delle nostre società, così
come i loro meccanismi di controllo, è la massima figura della rete tecnica
che supporta il potere: questo non conferisce forse nuovo ossigeno all’idea di
Trockij secondo cui il fattore chiave dello Stato non sta nelle sue
organizzazioni politiche e di segreteria, ma nei suoi servizi tecnici? Di
conseguenza, nello stesso modo in cui, per Trockij, prendere il controllo della
posta, dell’elettricità, delle ferrovie e così via era il momento determinante
della presa rivoluzionaria del potere, non può essere che oggi
l’«occupazione» della rete digitale sia assolutamente fondamentale se
dobbiamo rompere il potere dello Stato e del capitale? E, nello stesso modo
in cui Trockij chiedeva la mobilitazione di un piccolo, disciplinato e
«vigoroso partito, tecnici esperti e bande di uomini armati guidati dagli
ingegneri» per risolvere questa «questione della tecnica», la lezione di questi
ultimi decenni è che né le ampie proteste dal basso (che abbiamo visto in
Spagna e in Grecia), né movimenti politici ben organizzati (partiti con
complesse visioni politiche) sono sufficienti: abbiamo anche bisogno di una
forza ristretta ed efficace di «ingegneri» devoti (hackers, talpe...) organizzati
come gruppo segreto e ben disciplinato. Il suo compito dovrà essere quello di
«occupare» la rete digitale, di strapparla dalle mani delle aziende e delle
agenzie di Stato che adesso di fatto la controllano.
WikiLeaks qui era solo l’inizio, e il nostro motto dovrebbe essere di tipo
maoista: facciamo fiorire centinaia di WikiLeaks! Il panico e la rabbia con
cui le persone ai posti di potere, coloro che controllano i nostri commons
digitali, hanno reagito ad Assange è la dimostrazione che una tale azione
colpisce nel segno. Sarà una guerra piena di colpi bassi; saremo accusati di
fare il gioco del nemico (come la campagna contro Assange accusato di
essere al servizio di Putin), ma dovremmo farci l’abitudine e imparare a
ribattere con gli interessi, rispondendo spietatamente colpo su colpo per
abbatterli tutti. Non furono forse anche Lenin e Trockij accusati di agire al
soldo dei tedeschi e/o dei banchieri ebrei? E per quanto riguarda il timore che
tale attività possa disturbare il funzionamento delle nostre società e dunque
minacciare milioni di vite: dovremmo ricordarci che sono le persone al potere
che sono pronte a chiudere la rete digitale, in modo selettivo, per isolare e
contenere le proteste; quando l’insoddisfazione pubblica esplode in modo
consistente, la prima mossa è sempre quella di disconnettere la rete internet e
i telefoni.
Abbiamo dunque bisogno di un equivalente politico della triade hegeliana
di universale, particolare e singolare. Universale: una sollevazione di massa,
nello stile di Podemos. Particolare: un’organizzazione politica che possa
tradurre l’insoddisfazione in un programma politico operativo. Singolare:
gruppi specializzati «elitari» che, agendo in modo puramente «tecnico»,
indeboliscano il funzionamento del controllo e della regolamentazione
statale. Senza questo terzo elemento, i primi due rimangono impotenti.
Capitolo terzo
Dall’identità all’universalità

Ciò che Agatha sapeva


Il diciottesimo romanzo di Agatha Christie, Passeggero per Francoforte
(pubblicato nel 1970 con il sottotitolo An Extravaganza), uno dei pochi della
sua opera che non sia stato adattato per il cinema o per la televisione, è un
romanzo che «scivola dall’improbabile all’incredibile e alla fine atterra nella
confusione dell’incomprensibile. Dovrebbe essere offerto un premio al lettore
che riesce a spiegare la fine. Riguarda una baraonda di giovani degli anni
Sessanta, droga, un nuovo superman ariano e così via, soggetti sui quali la
Christie aveva, a dir poco, una presa incerta». 1
In ogni caso, questa «confusione dell’incomprensibile» non si deve alla
senilità della Christie: le cause sono evidentemente politiche. Passeggero per
Francoforte è il romanzo più personale, profondamente sentito e allo stesso
tempo politico dell’autrice; esprime la sua personale confusione, il suo
disorientamento rispetto a quello che stava accadendo nel mondo alla fine
degli anni Sessanta: droghe, rivoluzione sessuale, proteste studentesche,
omicidi, ecc. È fondamentale osservare come questo sentimento schiacciante
di confusione venga espresso da un’autrice specializzata in romanzi gialli,
che parlano di crimini e del lato più nascosto della natura umana. La ragione
più profonda della sua disperazione sta nella sensazione che, nel mondo
caotico degli anni Settanta, non fosse più possibile scrivere dei romanzi gialli
che avessero ancora come presupposto una società stabile basata sulla legge e
sull’ordine, solo momentaneamente disturbata da un crimine ma poi riportata
all’ordine dall’opera dell’investigatore. Nella società degli anni Settanta, caos
e crimine erano diffusi, per cui non c’è da stupirsi che Passeggero per
Francoforte non sia un giallo: non c’è un omicidio, una logica, una
deduzione. Il senso del collasso della mappatura cognitiva più elementare
percepito dalla Christie, la sua enorme paura del caos, viene reso chiaramente
nell’Introduzione al romanzo:

Basta saper guardare quello che ci fornisce quotidianamente la Stampa. Attingere


dalla prima pagina. Che cos’accade nel mondo, oggi? Che cosa dice la gente, che
cosa pensa, che cosa fa? Analizzare gli avvenimenti del 1970 in Inghilterra.
Leggere la prima pagina tutti i giorni, per un mese, prendere appunti, considerare,
classificare.

Ogni giorno, un omicidio.


Una ragazza strangolata.

Una donna anziana malmenata e derubata dei suoi miseri guadagni.


Giovani aggrediti o aggressori.

Edifici e cabine telefoniche fracassati e sventrati.


Smercio di droga.

Bambini scomparsi e cadaveri di bambini assassinati.


Può essere l’Inghilterra, questa? L’Inghilterra è veramente così? Si ha la
sensazione... no... non ancora, ma potrebbe diventarlo.

Si sta risvegliando la paura... paura di ciò che potrebbe essere. Non tanto per gli
avvenimenti in sé, ma per le motivazioni che potrebbero nascondersi dietro di essi.
Alcune conosciute, altre ignote, ma sentite. E non solo in Inghilterra. Nelle altre
pagine del giornale, trafiletti più scarni: notizie dall’Europa, dall’Asia,
dall’America, da tutto il mondo.
Dirottamenti di aerei.

Rapimenti.
Violenza.

Sommosse.
Odio.

Anarchia... tutto in crescendo.


Tutto pare condurre al misticismo della distruzione, al piacere nella crudeltà.

Che cosa significa?

Dunque, cosa significa tutto ciò? Nel romanzo, la Christie ci dà una


risposta. Ecco la trama: di ritorno da Malaya, sir Strafford Nye, un annoiato
diplomatico, viene avvicinato nella sala d’aspetto dell’aeroporto di
Francoforte da una donna la cui vita è in pericolo; per aiutarla, accetta di
darle il suo passaporto e la sua carta d’imbarco. In questo modo, si trova
involontariamente catapultato in un intrigo internazionale la cui unica via di
fuga sarà quella di vincere in astuzia la contessa von Waldsausen assetata di
potere, che vuole dominare il mondo manipolando e armando tutta la
gioventù del pianeta. Questa terribile cospirazione mondiale ha qualcosa a
che fare con Richard Wagner e «il giovane Sigfrido». Veniamo a sapere che,
verso la fine della Seconda guerra mondiale, Hitler aveva fatto visita a un
manicomio dove aveva incontrato un gruppo di persone che credevano di
essere Hitler, aveva fatto scambio con uno di loro ed era dunque
sopravvissuto alla guerra. Era poi fuggito in Argentina, dove si era sposato ed
aveva avuto un figlio che era stato marchiato con una svastica sul tallone: «il
giovane Sigfrido». Nel frattempo, nel tempo presente, le droghe, la
promiscuità e le proteste studentesche sono tutte segretamente causate da
agitatori nazisti che vogliono portare l’anarchia in modo da poter instaurare
nuovamente il loro dominio su scala mondiale.
Questa «terribile cospirazione mondiale» è, ovviamente, una fantasia
ideologica nella sua forma più pura: una strana sovrapposizione della paura
dell’estrema destra e di quella dell’estrema sinistra. Il minimo che si possa
dire a favore della Christie è che colloca il cuore della congiura nell’estrema
destra (neonazista), non tra i soliti sospetti (comunisti, ebrei, musulmani).
L’idea che dietro le proteste studentesche del ’68 e la battaglia per la
liberazione sessuale ci fossero i neonazisti, nella sua palese follia, nondimeno
testimonia il disintegrarsi di una mappa cognitiva solida della nostra crisi; il
fatto che la Christie sia stata spinta a rifugiarsi in una tale costruzione
paranoica indica l’estrema confusione e il panico in cui si trovava. Il ritratto
che emerge della nostra società è semplicemente confuso, scollegato dalla
realtà (fra parentesi, anche se in misura minore, si può dire la stessa cosa per
il romanzo più strano di John le Carré, Una piccola città in Germania,
ambientato in una situazione simile). Ma la sua prospettiva è davvero troppo
folle per essere presa sul serio? La nostra epoca, con leader come Donald
Trump e Kim Jong-un, non è forse altrettanto folle? Non siamo forse oggi
tutti un gruppo di passeggeri per Francoforte? La nostra situazione è confusa
in modo non dissimile da quello descritto dalla Christie: abbiamo un governo
di destra che rafforza i diritti dei lavoratori (in Polonia), un governo di
sinistra che persegue le più rigide politiche di austerità (Grecia). Non c’è da
stupirsi che, per ripristinare una minima mappa cognitiva, la Christie faccia
ricorso alla Seconda guerra mondiale, «l’ultima buona guerra», ri-traducendo
la nostra confusione nelle sue coordinate.
Bisognerebbe nondimeno notare come la forma stessa dello scioglimento
adottato dalla Christie (una grande trama nazista che manovra tutto) rispecchi
stranamente l’idea fascista della cospirazione ebraica. Oggi, la destra estrema
populista propone una spiegazione simile per la «minaccia» dei migranti
musulmani. Nell’immaginazione antisemita, l’«ebreo» è il Padrone invisibile
che segretamente tira le fila; esattamente il motivo per cui i migranti
musulmani non sono gli ebrei di oggi: sono fin troppo visibili, non invisibili,
sono chiaramente non integrati nella nostra società, e nessuno afferma che
tirino segretamente le fila. Se qualcuno vede nella loro «invasione
dell’Europa» un piano segreto, allora dietro devono esserci gli ebrei, come si
rileva da un articolo apparso da poco su una delle principali riviste
settimanali slovene, in cui si legge che «George Soros è una delle persone più
depravate e pericolose dei nostri tempi», responsabile «dell’invasione delle
orde negroidi e semitiche e di conseguenza del tramonto della UE... come
tipico sionista-talmudico, è un acerrimo nemico della civiltà occidentale,
dello Stato-nazione e dell’uomo bianco ed europeo». Soros avrebbe
l’obiettivo di costruire una «coalizione arcobaleno composta da emarginati
sociali: froci, femministe, musulmani e uomini di cultura marxisti
perdigiorno», la quale avvierebbe «lo smantellamento dello Stato-nazione, e
la trasformazione della UE nella distopia multiculturale degli Stati Uniti
d’Europa». Inoltre, Soros sarebbe incoerente nel suo sostegno all’idea
multiculturale:
la promuove esclusivamente in Europa e negli Stati Uniti, mentre nel caso di
Israele, sempre lui, in un modo che per me è totalmente giustificato, finisce per
concordare sul monoculturalismo, sul razzismo latente e sulla costruzione di muri.
Diversamente che in Europa e negli Stati Uniti, non chiede che Israele apra i
confini e accolga i «rifugiati». Un’ipocrisia, questa, tipica del sionismo talmudico. 2

Questa fantasia disgustosa, che mette assieme l’antisemitismo e


l’islamofobia, è poi così lontana da quella immaginata dalla Christie? Non
sono forse entrambe un tentativo disperato di orientarsi in tempi confusi? Le
notevoli oscillazioni nella percezione pubblica della crisi coreana sono in
questo senso significative. Una settimana ci dicono che siamo sull’orlo di una
guerra nucleare, poi c’è una pausa di sette giorni e poi la guerra minaccia
nuovamente di esplodere. Quando sono stato a Seul nell’agosto del 2017, i
miei amici che abitano là mi dicevano che non c’è nessuna seria minaccia di
guerra dal momento che il regime della Corea del Nord sa che non
sopravvivrebbe, proprio adesso che le autorità della Corea del Sud stanno
preparando la popolazione a una guerra nucleare. Non molto tempo fa i nostri
giornali raccontavano del ridicolo crescendo di insulti fra Kim Jong-un e
Donald Trump. L’ironia stava nel fatto che, in una situazione in cui due
uomini apparentemente immaturi si arrabbiano e si insultano a vicenda, la
nostra unica speranza sta in qualche vincolo istituzionale anonimo e invisibile
che impedisca a questa rabbia di esplodere in una vera guerra. Di solito
tendiamo a lamentarci del fatto che nella politica alienata e burocratizzata
attuale, le pressioni e i vincoli istituzionali impediscano ai politici di
esprimere il loro vero punto di vista; ora invece speriamo che tali vincoli
impediscano l’espressione di visioni personali del tutto folli. Come siamo
arrivati a questo punto?
Alain Badiou di recente ci ha messo in guardia dai pericoli del crescente
ordine nichilista post-patriarcale che si presenta come il regno delle nuove
libertà. La disintegrazione delle fondamenta etiche condivise delle nostre vite
è chiaramente indicata dall’abolizione della leva obbligatoria universale in
numerosi paesi sviluppati: il concetto stesso dell’essere pronti a rischiare la
propria vita per una causa armata comune sembra sempre più privo di scopo,
se non semplicemente ridicolo, così che le forze armate, in quanto corpo in
cui tutti i cittadini partecipano allo stesso modo, stanno diventando sempre
più una forza mercenaria. Questa disintegrazione colpisce i due sessi in modo
diverso: gli uomini stanno lentamente diventando degli eterni adolescenti,
senza un passaggio chiaro di iniziazione alla maturità (il servizio militare,
imparare un mestiere, neppure l’educazione riveste più questo ruolo). Non ci
sorprende, dunque, che, per colmare questa mancanza, proliferino le bande
giovanili, che forniscono un surrogato di iniziazione e di identità sociale. Al
contrario degli uomini, le donne oggi maturano sempre prima, ci si aspetta
che sappiano controllare le proprie vite, pianificare le proprie carriere; in
questa nuova versione della differenza sessuale, gli uomini sono adolescenti
ludici, dei fuorilegge, mentre le donne appaiono forti, mature, serie, legali e
punitive. Sta così emergendo una nuova figura femminile: un agente di potere
freddo e competitivo, seducente e manipolatore, che dà testimonianza del
paradosso secondo il quale «nelle condizioni del capitalismo le donne
possono fare meglio degli uomini» (Badiou): il capitalismo contemporaneo
ha inventato la sua propria immagine di donna.
Questo ci riporta a Trump e a Kim, due eterni adolescenti, entrambi
propensi a esplosioni irrazionali e brutali che danneggiano loro stessi. Anche
se le differenze fra la Corea del Nord e gli Stati Uniti sono ovvie,
bisognerebbe comunque insistere sul fatto che entrambi si aggrappano a una
versione estrema della sovranità statale («Corea first», «America first»);
inoltre l’evidente follia della Corea del Nord (un piccolo paese pronto a
rischiare tutto e a bombardare gli Stati Uniti) ha la sua controparte negli Stati
Uniti, che stanno ancora fingendo di recitare la parte del poliziotto mondiale,
un singolo Stato che si assume il diritto di decidere quali altri possono
possedere armi nucleari o meno. La soluzione, dunque, non è scontrarsi con
la Corea del Nord, ma trovare un modo genuino di «internazionalizzare» le
armi nucleari, di rendere impossibile la situazione in cui a un singolo Stato
sovrano è permesso di possederle (e con esse di minacciare gli altri Stati). Nel
momento in cui ci concentriamo solo sulla «follia» della Corea del Nord,
stiamo già accettando la premessa secondo la quale non le dovrebbe essere
permesso di fare ciò che solo le selezionate «superpotenze» possono fare; è
tutto il quadro che dovremmo cambiare.
Questa necessità di cambiare l’intero ordine emerge esattamente quando ci
troviamo davanti a una minaccia di distruzione totale (dovuta a una guerra
nucleare o a una catastrofe ecologica). In una tale situazione, la nostra prima
reazione è uno sforzo di difesa per garantire la nostra sopravvivenza:
dimentichiamoci pure i grandi progetti emancipatori di cambiamento
radicale, il nostro compito oggi è di combattere per la sopravvivenza di ciò
che abbiamo, con tutti i compromessi necessari e la moderazione che questo
comporta... ma cos’è esattamente quello che abbiamo? La minaccia della
distruzione totale dell’umanità ci rende consapevoli della totalità
dell’umanità; l’umanità appare come una sola entità solo se vista nella
prospettiva della sua (auto)distruzione, non prima. Dunque la vera scelta non
è fra il conservare quello che abbiamo o il perdere tutto (o, in termini di
Guerra fredda, fra lo sviluppare armi nucleari per proteggere le nostre libertà
o abbandonare le armi nucleari ma esporci al rischio di perdere le nostre
libertà); nelle parole di Alenka Zupančič:
La vera scelta è fra perdere tutto e creare quello che stiamo per perdere: solo
questo potrebbe salvarci alla fine, in un senso profondo [...] Quando cadiamo nella
minaccia e nella paura di «perdere tutto» siamo in effetti in ostaggio di qualcosa
che non esiste (ancora). E questa sorta di ricatto non è forse, esattamente, il modo
migliore per essere sicuri che non accadrà mai? Ci spinge a concentrare le nostre
energie sul salvataggio di ciò che esiste e di ciò che abbiamo, ma esclude
qualunque reale alternativa, e i mezzi per pensare davvero in modo diverso [...]
Questo possibile appello alla consapevolezza della bomba non è semplicemente
«facciamo tutto quello che è in nostro potere prima che sia troppo tardi», ma
piuttosto «costruiamo prima questa totalità (unità, comunità, libertà) che stiamo per
perdere a causa della bomba». 3

Sta qui l’unica occasione che la vera minaccia della distruzione nucleare (o
ecologica, se è per questo) ci offre: quando diventiamo consapevoli del
pericolo di perdere tutto, automaticamente cadiamo in un’illusione
retroattiva, un cortocircuito tra la realtà e i suoi potenziali nascosti. Quello
che vogliamo salvare non è la realtà del nostro mondo, ma la realtà come
sarebbe potuta essere se non fossimo stati ostacolati dagli antagonismi che
hanno dato vita alla minaccia nucleare. Ecco la nostra vera scelta quando ci
troviamo davanti alla distruzione totale: quella fra un ritrarsi terrorizzati
nell’autoconservazione e l’impegno attivo per il cambiamento che ha scopi
ben più ampi. Se chiamiamo a raccolta le forze per la seconda opzione, allora,
in termini hegeliani, passiamo dall’«universalità astratta» (della negatività
liberata che può portare solo alla distruzione nucleare globale)
all’«universalità concreta» (di un nuovo ordine alternativo in cui tali
catastrofi non saranno più possibili).
Ciò di cui abbiamo bisogno è niente di meno che un nuovo movimento
anti-nucleare globale, una mobilitazione globale che faccia pressione sulle
potenze nucleari e agisca in modo aggressivo, organizzando proteste di
massa, boicottaggi, eccetera. Tale movimento dovrebbe concentrarsi non solo
sulla Corea del Nord ma anche su quelle superpotenze che si assumono il
diritto di monopolizzare le armi nucleari. I riferimenti pubblici all’uso delle
armi nucleari dovrebbero essere trattati come un’offesa criminale, e i capi di
Stato che mostrano apertamente di essere pronti a mettere in pericolo milioni
di vite innocenti per proteggere il loro potere personale dovrebbero essere
trattati come i peggiori criminali.

Come combattere la malattia di Huntington


Il fatto che il primo viaggio all’estero di Trump sia stato in Arabia Saudita e
Israele è significativo. Se lo mettiamo insieme all’accoglienza trionfale che
ha riservato al presidente egiziano al-Sisi alla Casa Bianca, possiamo
chiaramente vedere come stia prendendo forma un nuovo asse mediorientale
del male con il pieno sostegno americano: Turchia, Arabia Saudita, Israele,
Egitto. La recente brutale esclusione del Qatar è il primo vero atto di questo
asse, probabilmente una punizione per il ruolo positivo svolto da Al Jazeera
nella Primavera araba. L’ironia incredibile è che tutto ciò viene fatto in nome
della lotta al terrorismo, mentre l’Arabia Saudita è impegnata in un terrore di
Stato estremamente repressivo nello Yemen, con bombardamenti e milioni di
profughi. Il fatto che questo terrore di Stato sia bene o male ignorato dai
nostri media principali la dice lunga: per quanto deplorevoli siano stati gli
ultimi attacchi terroristici a Londra, dovremmo sottolineare che coloro che
non vogliono parlare di Yemen dovrebbero tacere anche sugli attentati a
Londra e a Parigi.
È il contesto geopolitico di questi slittamenti tettonici che ci dovrebbe
preoccupare. Una vignetta pubblicata nel giugno 2008 sul quotidiano
viennese Die Presse rappresentava due austriaci tracagnotti di aspetto
vagamente nazista seduti a un tavolo; uno di loro ha in mano un giornale e
commenta con l’amico: «Ecco, un antisemitismo del tutto giustificato viene
di nuovo scambiato per una facile critica a Israele!». Questa caricatura
rovescia l’argomentazione classica di coloro che difendono le politiche dello
Stato di Israele e, quando oggi i fondamentalisti cristiani sostenitori della
politica israeliana respingono le critiche provenienti dalla sinistra, la loro
linea di argomentazione implicita non è forse stranamente vicina a questo
modo di ragionare? Pensiamo ad Anders Breivik, il terrorista norvegese anti-
immigrati che ha provocato una strage: era antisemita ma a favore di Israele
perché vedeva in esso la prima linea di difesa contro l’espansione
musulmana. Voleva perfino che fosse ricostruito il Tempio di Gerusalemme,
ma nel suo «manifesto» aveva scritto: «non esiste un problema ebraico
nell’Europa occidentale (ad eccezione di Regno Unito e Francia) dal
momento che sono solo un milione, e 800.000 di questi vivono fra Francia e
Regno Unito. Al contrario gli Stati Uniti, con più di sei milioni di ebrei
(600% in più rispetto all’Europa) hanno in effetti un problema ebraico
considerevole». Breivik incarna così il massimo paradosso del sionista
antisemita. 4
La risposta teoricamente di sinistra a questo paradosso la troviamo
espressa al meglio in un graffito comparso su un muro a Lubjana, la mia città
natale: «Se fossi un palestinese della Cisgiordania, sarei anche un
negazionista dell’Olocausto»; è esattamente questa la logica che dobbiamo
evitare ad ogni costo, se non altro perché riproduce la tipica argomentazione
sionista: «Un sopravvissuto all’Olocausto ha il diritto di ignorare le piccole
ingiustizie che lo Stato di Israele sta perpetrando contro i palestinesi». In
entrambi i casi, la condizione di vittima viene usata come giustificazione per
il comportamento razzista nei confronti dei propri nemici, come quelli che
affermano che «bisognerebbe comprendere gli occasionali accessi antisemiti
tra gli arabi alla luce delle sofferenze palestinesi, e bisognerebbe
comprendere le politiche di Israele in Cisgiordania alla luce delle terribili
persecuzioni del passato». Tale ragionamento non manca di blasfemia: da
parte sionista, sminuisce l’orrore inimmaginabile dell’Olocausto a strumento
delle politiche locali diventando così un affronto per i milioni di vittime.
L’unica posizione etica accettabile in questo caso è quella della solidarietà
universale: dobbiamo sostenere la lotta palestinese per l’autonomia, non
nonostante il ribadito antisemitismo mostrato dagli arabi ma per la stessa
ragione per cui dobbiamo ricordare l’Olocausto. La formula sionista pseudo-
anti-imperialista come forma esemplare del razzismo contemporaneo è
sbagliata esattamente come è sbagliata la formula sionista
dell’«antisemitismo e altre forme di razzismo», che tende a squalificare ogni
critica allo Stato di Israele in quanto antisemita. Dobbiamo tenerci lontani da
qualunque ipocrisia, non ci può essere nessuna «comprensione» per il modo
aggressivo in cui la popolazione ebraica locale viene spesso maltrattata dai
musulmani in paesi come la Norvegia o la Svezia, così come non ci può
essere nessuna «comprensione» per il modo in cui vengono trattate le donne e
gli omosessuali da molti gruppi musulmani e in molti Stati islamici.
L’alleanza fra la sinistra radicale occidentale e i musulmani fondamentalisti
«anti-imperialisti», che rende i radicali occidentali, politicamente corretti,
strani compagni di strada dei fondamentalisti musulmani, deve essere
respinta come un’aberrazione ideologica. Se la battaglia contro
l’antisemitismo e quella per i diritti dei palestinesi non vengono percepite
come aspetti dello stesso problema, ci ritroveremo in un nuovo stato di
barbarie.
Oggi ci troviamo davanti a una nuova versione di questo antisemitismo
sionista: il rispetto islamofobico per l’islam. Gli stessi politici che ci allertano
sui pericoli dell’islamizzazione dell’Occidente cristiano, da Trump a Putin, si
sono rispettosamente congratulati con Erdoğan dopo la vittoria nel
referendum turco (che gli ha permesso di far man bassa di ulteriori poteri): il
regime autoritario dell’islam va bene per la Turchia ma non per noi. 5
Possiamo dunque ben immaginarci una nuova versione della vignetta per Die
Press con due austriaci tracagnotti di aspetto vagamente nazista seduti a un
tavolo; uno di loro ha in mano un giornale e commenta con l’amico: «Ecco,
un’islamofobia del tutto giustificata viene di nuovo scambiata per una facile
critica alla Turchia!». In che modo possiamo intendere questa stramba
logica? È una reazione, una falsa cura, alla grande malattia sociale dei nostri
tempi: quella di Huntington.
Di solito i primi sintomi della malattia di Huntington sono degli strani,
casuali e incontrollabili movimenti chiamati còrea, che si possono presentare
all’inizio come una smania generale, movimenti piccoli, involontari o
incompleti, la perdita della coordinazione... Ma un’esplosione di populismo
brutale non ha forse lo stesso aspetto? Inizia con quelli che sembrano essere
degli eccessi di violenza casuali contro gli immigrati, esplosioni non
organizzate che esprimono appena un malessere generale e un’irrequietezza a
proposito degli «intrusi stranieri», per poi crescere gradualmente fino a
diventare un movimento ben coordinato e fondato ideologicamente, ciò che
l’altro Huntington (Samuel) ha chiamato «scontro di civiltà». Questa
coincidenza è rivelatrice: ciò a cui ci riferiamo di solito con questa
espressione è effettivamente la malattia di Huntington dell’odierno
capitalismo globale.
Secondo Samuel Huntington, dalla fine della Guerra fredda la «cortina di
ferro dell’ideologia» è stata sostituita dalla «cortina di velluto della cultura».
La cupa visione dello «scontro di civiltà» di Huntington potrebbe sembrare
esattamente l’opposto della luminosa prospettiva della fine della storia di
Francis Fukuyama sotto forma di democrazia liberale mondiale. Ma cosa può
esserci di più lontano dall’idea pseudo-hegeliana di Fukuyama secondo la
quale la formula finale del migliore degli ordini sociali possibili è da
ritrovarsi nella democrazia capitalista e liberale dello «scontro di civiltà»
come principale battaglia politica del ventunesimo secolo? Come stanno
insieme, allora, le due cose?
Dalla nostra esperienza odierna, la risposta è chiara: lo «scontro di civiltà»
è la politica alla «fine della storia». I conflitti etnico-religiosi sono la forma di
scontro che si addice al capitalismo globale: nella nostra epoca di «post-
politica», in cui la politica vera e propria viene progressivamente sostituita da
un’esperta amministrazione della società, l’unica fonte di conflitto legittimata
che rimane è la tensione culturale (etnica, religiosa). L’odierno emergere di
violenza «irrazionale» deve dunque essere letto come strettamente correlato
alla depoliticizzazione della nostra società, ovvero, alla scomparsa della
dimensione propriamente politica e alla sua traduzione in livelli diversi di
«amministrazione» degli affari sociali. Se accettiamo questa tesi, l’unica
alternativa allo «scontro di civiltà» rimane la coesistenza pacifica di civiltà (o
di ways of life, «modi di vita», espressione oggi più in voga): matrimoni
forzati e omofobia (o l’idea che una donna che cammina da sola in uno
spazio pubblico sia un invito allo stupro) vanno bene, rimangono solo
confinati ad altri paesi che, d’altronde, sono del tutto inclusi economicamente
nel mercato mondiale.
Il Nuovo Ordine Mondiale che sta emergendo, dunque, non è più la
democrazia liberale globale di Fukuyama, ma quello della coesistenza
pacifica di diversi modi di vita politico-teologici; coesistenza, ovviamente,
nel contesto del fluido funzionamento del capitalismo globale.
L’oscenità di questo processo è che può apparire come progresso nella
battaglia anti-coloniale: all’Occidente liberale non sarà più concesso di
imporre standard agli altri, tutti i modi di vivere saranno trattati come
uguali... Non ci sorprende allora che Robert Mugabe abbia mostrato una certa
simpatia per lo slogan trumpiano «America first!»: «America first!» per voi,
«Zimbabwe first!» per noi, «India first!» o «Corea del Nord first!» per loro.
In questo modo funzionava l’Impero britannico, il primo impero capitalista
globale: a ogni comunità etnico-religiosa era permesso di seguire il proprio
modo di vita – gli indù in India bruciavano in tutta sicurezza le vedove, e così
via – e queste «consuetudini» locali venivano o criticate in quanto barbare o
ammirate per la loro saggezza premoderna, ma comunque tollerate dal
momento che ciò che contava era che, dal punto di vista economico, facevano
parte dell’Impero.
La politica trumpiana dell’«America first» ha aperto la strada alla Cina per
presentarsi come l’agente della nuova globalizzazione: nell’autunno del 2017
il presidente cinese, Xi Jinping, ha sollecitato i leader mondiali a respingere il
protezionismo, abbracciare la globalizzazione e a stringersi tutti assieme
«come uno stormo di oche dal collo lungo in volo». Xi celebrava i nuovi
progetti di infrastrutture cinesi da miliardi di dollari come un modo per
costruire una versione moderna dell’antica Via della seta, preannunciando
una nuova epoca d’oro della globalizzazione. È fondamentale vedere come
non esista contraddizione fra la globalizzazione del mercato e l’accento sul
proprio specifico «modo di vivere» nella sfera culturale.
Per questo motivo, la recente dimostrazione di unità franco-tedesca, così
come l’affermazione fatta da Angela Merkel sul fatto che l’Europa dovrà
imparare a stare in piedi da sola e smettere di contare sulla protezione degli
Stati Uniti, è più che un semplice gesto di benvenuto della crescente
autoconsapevolezza europea: non c’è posto per ciò che l’Europa rappresenta
nel Nuovo Ordine Mondiale di Trump, Putin, Modi, Mugabe e Erdoğan.
L’Europa dovrà affermare la sua tradizione di emancipazione combattendo
non queste minacce straniere, ma la versione di esse che lei stessa ha dato, la
minaccia del populismo nazionalista. E questo è il motivo per cui l’idea
dell’Unione Europea è qualcosa per cui vale la pena combattere, nonostante
la miseria della sua esistenza reale: nel mondo del capitalismo globale
odierno, essa offre l’unico modello di organizzazione trans-nazionale con
l’autorità di limitare la sovranità nazionale e il compito di garantire un
minimo di standard ecologici e di welfare state. In essa sopravvive qualcosa
che discende direttamente dalle migliori tradizioni dell’Illuminismo europeo.
Il nostro compito non è quello di umiliare noi stessi come i massimi colpevoli
dello sfruttamento colonialista, ma di combattere per questa parte della nostra
tradizione, che è importante per la sopravvivenza dell’umanità. L’Europa nel
nuovo mondo globale è sempre più sola, liquidata come un vecchio
continente esausto e irrilevante che gioca un ruolo secondario nei conflitti
geopolitici attuali. Come ha scritto recentemente Bruno Latour: «L’Europe
est seule, oui, mais seule l’Europe peut nous sauver» (L’Europa è sola, sì, ma
solo l’Europa ci può salvare).
Uno dei segnali affidabili di opportunismo politico è ciò che, facendo un
parallelismo con le particelle della fisica, potremmo chiamare
correlazionismo politico. Mettiamo che io e il mio nemico teniamo entrambi
in mano una palla che può essere o bianca o nera, e nessuno di noi ne conosce
il colore. Non mi è permesso di guardare nel mio pugno chiuso, e dunque
abbiamo quattro possibilità: bianco-bianco, nero-nero, nero-bianco, bianco-
nero. Immaginiamo che, per qualche motivo, entrambi sappiamo che le due
palle (quella che ho in mano io e quella che ha il mio nemico) sono di colore
diverso; in questo caso ci sono solo due possibilità, nero-bianco e bianco-
nero. E se per caso scopro il colore della palla del mio nemico,
automaticamente so anche quello della mia, le due palle sono correlate. (Ciò
accade in fisica quantistica quando le particelle sono divise e il loro spin
rimane correlato: se misuro lo spin di una particella, automaticamente
conosco anche quello dell’altra). Accade spesso, ed è accaduto, qualcosa di
simile in politica (soprattutto nella sinistra). Non so bene che posizione devo
tenere all’interno di una particolare battaglia politica, ma quando vengo a
sapere la posizione del mio nemico assumo automaticamente quella opposta.
Bisognerebbe anche aggiungere che Lenin fece una critica feroce di questo
atteggiamento (ironicamente, il suo obiettivo era Rosa Luxemburg). 6 E
questo era ciò che accadeva durante la Guerra fredda in ambito culturale:
quando, alla fine degli anni Quaranta, la cultura occidentale veniva vista
come promotrice di un cosmopolitismo universale (sotto l’influenza ebraica),
i comunisti pro-sovietici, dalla Russia alla Francia, decisero di diventare
patriottici, promuovendo le proprie tradizioni culturali e attaccando
l’imperialismo che le distruggeva.
Non sta forse accadendo qualcosa di simile nelle reazioni al referendum
catalano che ha messo la Spagna in subbuglio alla fine del 2017? Ricordiamo
che Putin, che ha definito la disintegrazione dell’Unione Sovietica
un’immane catastrofe, ora sostiene l’indipendenza catalana. Lo stesso vale
per tutti gli europeisti di sinistra che si contrapponevano alla disintegrazione
della Jugoslavia come esito dell’oscuro complotto tedesco-vaticano; ora,
invece (come per la Scozia), la separazione va bene. E lo schieramento
centrista-liberale occidentale non è certo meglio: sempre pronto a sostenere
qualunque movimento separatista che minacci il potere geopolitico della
Russia, adesso ci mette in guardia rispetto all’unità della Spagna in pericolo
(denunciando ipocritamente le violenze della polizia spagnola sugli elettori
catalani, ovviamente). In Slovenia, questa confusione ha raggiunto il suo
apice: la vecchia sinistra, che fino alla fine era in prevalenza contraria
all’indipendenza slovena, a favore invece di una Jugoslavia rinnovata e più
aperta, adesso sta organizzando delle petizioni e delle manifestazioni per la
Catalogna, mentre la destra nazionalista, che ha combattuto per la piena
indipendenza della Slovenia, si schiera oggi con discrezione a favore
dell’unità della Spagna (dal momento che il loro collega conservatore
Mariano Rajoy è il Primo ministro spagnolo). Vergogna della classe dirigente
europea: alcuni hanno diritto di sovranità e altri no, ovviamente a seconda
degli interessi geopolitici.
Almeno una delle argomentazioni contrarie all’indipendenza catalana
sembra in ogni caso razionale: il sostegno di Putin non è, forse, ovvia parte
della sua strategia per rafforzare la Russia operando allo stesso tempo per la
disintegrazione dell’Europa? Non dovrebbero allora i sostenitori di
un’Europa unita e forte invocare l’unità della Spagna? Qui, si dovrebbe avere
il coraggio di ribaltare il ragionamento. Sostenere l’unità della Spagna è
anche parte della corrente tendenza ad affermare il potere degli Stati
nazionali rispetto all’unità europea. Ciò di cui abbiamo bisogno per
accogliere nuove sovranità nazionali (della Catalogna, della Scozia, forse, e
così via) è dunque semplicemente un’Unione Europea più forte: gli Stati
nazionali dovrebbero adattarsi ai ruoli più modesti di mediatori fra le
autonomie regionali e un’Europa unita. In questo modo, l’Europa può evitare
debilitanti conflitti fra gli Stati ed emergere come agente internazionale più
forte, al pari degli altri grandi blocchi geopolitici.
Il fallimento della UE nel prendere una posizione chiara rispetto al
referendum catalano è solo l’ultima di una serie di cantonate, la più grande
delle quali riguarda la mancanza assoluta di una strategia politica coerente
rispetto al flusso di rifugiati provenienti dal Medio Oriente e dal Nord Africa.
Quello che è successo di recente nello Yemen e in Siria (la distruzione
sistematica dell’intero Yemen, le terrificanti sofferenze dei civili a Ghūṭa,
eccetera) è un nuovo esempio di come verranno creati i futuri migranti; il
momento di fare qualcosa è adesso, senza aspettare la nuova ondata per
riesumare le nostre battaglie umanitarie. La confusa reazione davanti
all’arrivo dei rifugiati non è riuscita a tenere conto della differenza di base tra
migranti e rifugiati: i migranti arrivano in Europa alla ricerca di un lavoro,
per rispondere alla domanda di forza lavoro dei paesi europei sviluppati,
mentre i rifugiati non arrivano primariamente per lavorare, ma semplicemente
per trovare un posto sicuro in cui poter vivere, e spesso non amano nemmeno
gli Stati in cui si ritrovano. I rifugiati che erano soliti riunirsi a Calais sono un
caso emblematico: non volevano rimanere in Francia ma andare nel Regno
Unito. Lo stesso vale per i paesi che fanno più resistenza nell’accogliere i
rifugiati (i nuovi «assi del male», Croazia, Slovenia, Ungheria, Repubblica
Ceca, Polonia, le repubbliche baltiche e l’Austria): sono certamente posti in
cui i rifugiati non vogliono insediarsi. Ma forse l’effetto più assurdo di tutta
questa confusione è che la Germania, l’unico paese che si è comportato in
modo semi-decente verso i rifugiati, è diventata il bersaglio di numerose
critiche, non solo da parte delle destre che difendono l’Europa ma anche da
parte delle sinistre: con la modalità tipica del Super-io, si sono concentrati
sull’anello più forte della catena, attaccandolo per non essersi dimostrato
ancora più forte.
L’aspetto più preoccupante della crisi catalana è stata l’incapacità
dell’Europa di prendere una posizione chiara: o permettere ai suoi Stati
membri di adottare una propria politica rispetto ai separatismi o ai rifugiati, o
prendere delle misure reali contro coloro che non vogliono accettare delle
decisioni prese collettivamente. Perché tutto ciò è così importante? L’Europa
dovrebbe funzionare come un’unità minima, a supporto dei singoli Stati,
fornendo una rete di sicurezza per le loro tensioni. Solo un’Europa di questo
tipo può essere un agente determinante nel Nuovo Ordine Mondiale
emergente, in cui gli agenti di potere sono sempre meno i singoli Stati. È
chiaramente negli interessi della Russia e degli Stati Uniti indebolire l’Europa
o addirittura innescare la sua disintegrazione: nascerebbe così un vuoto di
potere che verrebbe colmato da nuove alleanze dei singoli Stati europei con la
Russia o con gli Stati Uniti. C’è qualcuno, in Europa, a cui piacerebbe uno
scenario del genere?

L’eterno ritorno della solita lotta di classe


La tensione fra spazio globale e Stati nazionali sta in questa difesa di uno
specifico (etnico, religioso, culturale) modo di vivere, che viene percepito
come minacciato dalla globalizzazione; e l’intera questione della protezione
del proprio modo di vivere è problematica in tutte le sue versioni, comprese
quelle «progressiste». Pensiamo alle polemiche sorte negli Stati Uniti sulle
statue di Robert E. Lee: era un gentiluomo del Sud che stava solo
combattendo per un certo modo di vivere? Una famosa immagine del
gentiluomo del Sud è presente anche in tanta letteratura «progressista», da
Orazio nel testo di Lillian Hellman Le piccole volpi, un patriarca gentile dal
cuore debole che inorridisce davanti al progetto della moglie di un brutale
sfruttamento capitalista della loro proprietà, a Atticus Finch nel Buio oltre la
siepe di Harper Lee che, come viene rivelato nella continuazione, ha anche un
nascosto lato razzista. Dunque, improvvisamente, la Confederazione non
riguardava la schiavitù ma la protezione di un «modo di vivere» locale dal
brutale attacco capitalista. Questi liberal di sinistra, figure di un anti-
capitalismo conservatore bucolico-patriarcale, aiutano sinceramente i neri del
Sud nel momento della loro oppressione e delle false accuse; in ogni caso, la
loro simpatia finisce quando i neri cominciano non solo a combattere ma
anche a mettere in discussione la libertà reale fornita dal sistema liberale del
Nord.
Ma Robert E. Lee non era nemmeno quel tipo di gentiluomo. Non ci sono
notizie di suoi eventuali scrupoli in merito alla schiavitù. Inoltre, anche fra i
proprietari di schiavi si distinguevano coloro che, quando rivendevano i
propri schiavi, si preoccupavano che le famiglie con i bambini rimanessero
unite, e coloro a cui non importava nulla e le separavano; Lee apparteneva a
quest’ultimo tipo, ben peggiore. Può essere benissimo che fosse un
gentiluomo ben educato e con una certa onestà personale, ma non di meno
trattava con grande brutalità gli schiavi. La cosa difficile da accettare è che le
due cose andassero insieme.
Un vero gentiluomo bianco fu invece condannato a morte da Robert E.
Lee: John Brown, una delle figure chiave della storia americana, il fervente
abolizionista cristiano che arrivò vicinissimo a introdurre una logica
emancipatorio-egualitaria radicale nel panorama politico americano. Come ha
scritto Margaret Washington, una famosa studiosa di storia americana, egli
espresse molto chiaramente il fatto che non vedeva differenze fra i bianchi e i
neri e «non lo espresse dicendolo, ma nella pratica», 7 ed è questo il modo in
cui un vero gentiluomo agisce e parla, se al termine «gentiluomo» può essere
data una dimensione emancipatoria. Il suo conseguente egualitarismo lo portò
a prendere le armi contro la schiavitù: nel 1859 provò ad armare gli schiavi,
sollevando così una ribellione violenta contro il Sud; la rivolta venne sedata e
Brown fu messo in prigione da una forza federale guidata niente meno che da
Robert E. Lee. Dopo essere stato riconosciuto colpevole di omicidio,
tradimento e incitazione all’insurrezione degli schiavi, Brown venne
impiccato il 2 dicembre. Anche oggi, dopo molto tempo dall’abolizione della
schiavitù, Brown rimane una figura controversa nella memoria collettiva
americana: la sua unica statua, in un oscuro angolo del quartiere di Quindaro
di Kansas City (l’originaria città di Quindaro era una delle fermate principali
nella cosiddetta Underground Railroad), è stata spesso vandalizzata.
È dunque perfino scontato affermare che tutti i grandi miti fondatori
americani andrebbero analizzati di nuovo: c’è anche un lato oscuro della
Guerra di indipendenza, di Alamo e così via. Gli «eroi di Alamo» stavano
anche difendendo la proprietà degli schiavi. Questo altro lato viene ritratto in
un interessante film del 1999, Un uomo un eroe, di Lance Hool, che racconta
la storia di John Riley (Tom Berenger) e del Saint Patrick’s Battalion, un
gruppo di immigrati irlandesi cattolici che disertarono l’esercito degli Stati
Uniti prevalentemente protestante per passare con la parte cattolica del
Messico durante la Guerra messicano-statunitense del 1846-1848 e
combatterono eroicamente per difendere la Repubblica del Messico
dall’aggressione statunitense. Alla fine Riley viene fatto prigioniero di
guerra, e mentre sta lavorando in una cava di pietre, al suo precedente
comandante americano che gli annuncia che è stato liberato, risponde: «Sono
sempre stato libero».
Il punto non è quello di smascherare la Guerra d’indipendenza nella sua
falsità: indubbiamente c’è una dimensione emancipatoria nelle opere di
Jefferson, Paine e così via. Invece di essere un proprietario di schiavi,
Jefferson è un anello importante nella catena delle battaglie di emancipazione
odierne, e ci sono ragioni per affermare che la battaglia per l’abolizione della
schiavitù è stata fondamentalmente la prosecuzione del lavoro di Jefferson.
Jefferson era un uomo diverso da Robert E. Lee, e le incoerenze nella sua
posizione dimostrano soltanto quanto la Rivoluzione americana sia un
progetto non finito (come avrebbe detto Habermas). In un certo senso, la sua
vera conclusione, il suo secondo atto, è stato la Guerra civile; in un altro
senso, è finita solo nel 1960, con l’acquisizione del diritto di voto da parte dei
neri; e, in un altro senso, come dimostra la permanenza del mito della
Confederazione, non è finita nemmeno oggi. (In modo simile, anche se la
prospettiva di Immanuel Kant è razzista, ha non di meno contribuito al
processo che ha portato alle battaglie di emancipazione contemporanee; in
parole povere, non esisterebbe nessun marxismo e nessun socialismo senza
Kant). È questo il punto che non ha colto Trump quando ha inserito il
«rispetto» per Lee all’interno del canone del rispetto per la tradizione
americana e si è chiesto quando tutto ciò sarebbe finito: prima Lee, poi
Washington, poi... Ciò che si nasconde dietro la battaglia per le statue di Lee
è semplicemente il rifiuto di portare la Rivoluzione americana a una
conclusione.
Ma c’è un altro aspetto dei proclami di Trump che viene normalmente
ignorato: la sua riluttanza, senza alcuna ambiguità, a condannare la violenza
della destra alternativa e le sue ripetute affermazioni sul fatto che «entrambe
le parti sono colpevoli» rispecchia stranamente la strategia multiculturalista
della sinistra («Sì, l’Isis sta commettendo crimini terribili, ma non facciamo
anche noi cose altrettanto brutte? Chi siamo noi per giudicarli?»). Come ha
osservato Jamil Khader in un intervento fondamentale, 8 nelle sue reazioni
alla strage di Charlottesville, Trump ha mostrato non solo multiculturalismo
ma anche, e soprattutto, la tradizione emancipatoria dell’universalismo. 9
Questo aspetto, inoltre, era assente dalla maggior parte delle reazioni liberal e
di sinistra ai commenti di Trump sulla schiavitù e sulla supremazia bianca,
ovvero
che nessuna identità può riempire facilmente lo spazio vuoto dell’universalità con il
suo adeguato contenuto, e che le identità dovrebbero sempre essere accolte per
mantenere le promesse della dimensione universale immanente che esiste nella
forma di un vuoto al loro stesso cuore. Un cambiamento radicale, se non
rivoluzionario, può avvenire solo quando i liberali e le persone di sinistra
ripenseranno il loro concetto di identità alla luce di questa dimensione universale
repressa al suo stesso cuore [...] Il problema è che i discorsi di sinistra e liberali più
diffusi sulla politica dell’identità e sul politicamente corretto hanno spostato la
battaglia per la giustizia, la libertà, e l’uguaglianza dall’oppressione e dallo
sfruttamento alla tolleranza e al rispetto sotto l’etichetta di un’ideologia post-
razziale [...] Le altre controverse affermazioni di Trump sull’equivalenza morale fra
i terroristi suprematisti bianchi neonazisti e gli attivisti antifascisti non saltano fuori
dal nulla. Al contrario, quello che dice sulla violenza «da molte parti» e che ci
fossero «molte persone perbene da entrambe le parti» è sintomatico delle stesse
strategie umaniste che i liberali e le persone di sinistra hanno usato durante le lotte
di cultura e di canone per relativizzare i conflitti, soggettivizzare l’Altro (dando
all’Altro malvagio una voce e una storia umana), e rimanere su un terreno
neutro. 10

Sulla stessa falsariga, Walter Benn Michaels ha scritto a proposito delle


polemiche (spesso ridicole) sull’appropriazione culturale:
Anche le nostre stesse storie non ci appartengono, le storie non appartengono a
nessuno. Piuttosto, siamo tutti nella posizione degli storici, a cercare di capire
quello che è realmente successo [...] I crimini di identità, sia quelli fantasmatici,
come il furto culturale, sia quelli reali, come il razzismo e il sessismo, sono perfetti
per questo scopo, dal momento che, diversamente dalla redistribuzione verso il
basso della ricchezza, contrapporsi ad essi lascia la struttura di classe intatta [...] Il
problema non è che le persone ricche non riescono a sentire la sofferenza dei
poveri; non devi essere una vittima della disuguaglianza per volerla eliminare. E il
problema non è che la storia dei poveri non appartiene ai ricchi; il problema
rilevante a proposito delle nostre storie non è il fatto che rivelino o meno il
privilegio di qualcuno, ma se sono vere. Il problema è che tutta l’idea dell’identità
culturale è incoerente, e che il dramma dell’appropriazione che essa rende possibile
produce una società sempre più stratificata economicamente, con un modello di
giustizia sociale che si rivolge a tutto tranne che alla stratificazione economica. 11

Benn Michaels qui ha tutte le ragioni: ovviamente dovremmo combattere


le appropriazioni culturali dei bianchi liberal, ma non solo perché praticano
un disequilibrio nello scambio culturale; dovremmo combatterle proprio
perché mettono in pratica la battaglia per l’emancipazione in modo tale da
ignorarne e neutralizzarne la dimensione chiave. E lo stesso vale per la
battaglia femminista. Negli ultimi decenni, è venuta alla ribalta una nuova
forma di femminismo, soprattutto negli Stati Uniti, che non si può che
designare «femminismo neoliberale»; 12 le sue tre caratteristiche di base
sono: 1) individuazione di una persistente disuguaglianza di genere (oggi, la
disuguaglianza di genere non è sistematica ma prevalentemente la
conseguenza di scelte individuali, dunque non c’è alcun bisogno di un’analisi
strutturale e di vasti cambiamenti sociali); 2) privatizzazione delle risposte
politiche (le soluzioni devono essere individuali); 3) liberazione attraverso il
capitalismo (le donne possono ottenere e garantire l’uguaglianza di genere
attraverso il libero mercato: «la femminista è l’imprenditrice, capace di essere
competitiva in mezzo agli uomini, e di vincere o perdere sul mercato»). 13 Il
fascino di questa prospettiva sta anche nei piaceri che promette: evitare il
conflitto (battaglie politiche organizzate), compiacersi nei consumi, nel
successo finanziario, e così via. 14 Non ci troviamo forse qui davanti a un
caso esemplare di ri-articolazione egemonica in cui il femminismo viene
inserito in una diversa catena di equivalenze? Se questo processo di ri-
articolazione è aperto e in fin dei conti contingente, non possiamo affermare
che il femminismo neoliberale sia un «tradimento» del «vero» femminismo
che collega la liberazione femminile all’emancipazione universale di tutti
coloro che vengono sfruttati. Il femminismo è, allora, un’universalità
concreta che si trasforma in nuove figure, in cui non dovremmo introdurre
una distinzione critica fra il femminismo borghese e quello radicale ma
vedere i diversi femminismi come momenti particolari, ognuno dei quali
contribuisce con un nuovo contenuto, apre nuovi spazi per la pratica politica,
e allo stesso tempo implica specifiche limitazioni? Se non è così, allora,
perché, esattamente, non lo è? Perché l’unico antagonismo universale è la
lotta di classe, un antagonismo che attraversa l’intero edificio sociale,
l’impossibile/reale che getta la sua ombra su tutti gli altri antagonismi.
La premessa di base del marxismo classico (la premessa che fonda la sua
invocazione all’«unità di teoria e pratica») è che, a partire dalla sua posizione
sociale oggettiva (quella della «parte dei senza parte» [Ranciére] dell’edificio
sociale, il punto della sua «torsione sintomatica» [Badiou]), la classe operaia
viene spinta verso una corretta interpretazione dello stato della società (i suoi
antagonismi di base) e, allo stesso tempo, verso l’azione che deve essere
intrapresa per mettere le cose in chiaro (la trasformazione rivoluzionaria). Ma
questo vale ancora oggi? L’insorgere della furia e della rabbia populiste non
testimonia forse una frattura irriducibile nell’«unità di teoria e pratica»? È
come se la posizione sociale «oggettiva» di coloro che sono sfruttati ed
emarginati non li spingesse più verso una «mappatura cognitiva» chiara della
loro situazione critica, che li impegnerebbe in una battaglia di emancipazione
universale, ma piuttosto si esprime in un’impotenza frustrata e
occasionalmente violenta, e che tradisce la loro perdita di un orientamento di
base. Per cui, invece di un fronte unito, le classi basse locali temono i
migranti, che si rifugiano nel fondamentalismo, mentre i sindacati lottano per
le garanzie sociali di coloro che rappresentano maggiormente, spesso contro
altre parti della classe operaia piuttosto che contro il capitale; è possibile
immaginare qui un fronte compatto? La prevista unità viene necessariamente
e continuamente minata dalla controforza immanente al processo in corso
della lotta di classe: il conflitto fra classi basse locali e migranti (o fra la
battaglia femminista e quella dei lavoratori) non è un abominio imposto
dall’esterno, non è causato dalle manipolazioni della propaganda nemica, ma
la forma dell’apparenza della lotta di classe stessa. I lavoratori locali
percepiscono i migranti come i lacchè del grande capitale, portati nel paese
per indebolirli e per mettersi in competizione con loro a partire dagli stipendi
più bassi che hanno; i migranti vedono i lavoratori locali, anche se poveri,
come parte integrante dell’ordine occidentale che li marginalizza. Nessuna
facile predica sul fatto che in realtà siano tutti sulla stessa barca può essere
efficace se la competizione è reale.
Proprio qui sta il limite fatale di qualsiasi tentativo di contrastare
l’insorgere del populismo di destra con un populismo di sinistra, un
populismo che ascolterebbe le preoccupazioni reali delle persone comuni
invece di provare a imporre su di loro dall’alto la visione teorica del loro
compito storico. Le paure, le speranze e i problemi che le «persone reali»
sperimentano nelle loro «vite reali» appaiono loro sempre come momenti di
una certa visione ideologica, ovvero, come ha detto bene Althusser,
l’ideologia non è una cornice concettuale imposta dall’esterno sulla
complessità della realtà, è la nostra esperienza della realtà in sé. Per rompere
l’ideologia, non è sufficiente liberarsi delle lenti ideologiche distorte, è
necessario un duro lavoro teorico.
Per avere un’idea della complessità di questa battaglia, prendiamo un
esempio recente del conflitto fra diverse esigenze di emancipazione. In un
campus americano, è successo da poco un incidente: 15 un gruppo di giovani
operai latinoamericani stava restaurando la facciata di una casa che dava su
una piscina vicina, in cui stavano facendo il bagno, in costume, alcune
ragazze del ceto medio; gli operai hanno cominciato a fare degli espliciti
apprezzamenti alle ragazze (ciò che in America Latina chiamano el piropo).
Come è ovvio, le ragazze si sono sentite molestate, si sono lamentate, e la
soluzione imposta dalle autorità è stata non meno ovvia: collocare un muro di
plastica a separare la casa dalla piscina, con uno speciale tunnel di plastica in
cui gli operai dovevano passare per arrivare sul posto di lavoro, escludendoli
così dalla vista della piscina. Un esempio perfetto del modo politicamente
corretto di affrontare il sessismo che non fa altro che rafforzare le linee di
separazione fra gruppi di persone.
Dal punto di vista delle donne, l’accaduto era un palese esempio di
molestia sciovinista-maschile che rende la donna un oggetto, una preda
sessuale, mentre dal punto di vista degli operai la loro esclusione era un
esempio non meno palese della conservazione di una distinzione di classe, di
protezione della classe media bianca dal contatto con dei semplici operai. Si
tratta dunque di un caso di lotta femminista contrapposta alla lotta di classe,
con la possibile soluzione a lungo termine di unirle in qualche modo e
convincere entrambe le parti che le loro rispettive battaglie sono momenti
della stessa battaglia universale per l’emancipazione? Non è poi così
semplice, dal momento che è la lotta di classe stessa che sovradetermina la
tensione fra le due lotte: il piropo degli operai risultava ovviamente tanto più
molesto per le ragazze in quanto proveniente da ragazzi della classe bassa,
non meritevoli della loro attenzione, e i ragazzi erano consapevoli di questo
aspetto quando sono stati ripresi. Il femminismo può inserirsi anche in un
gioco di classe, sottintendendo che le classi più basse sono volgari,
scioviniste, non politicamente corrette, tanto che la paura di essere
«molestate» si rivela una paura della volgarità delle classi basse. Tutto ciò, in
ogni caso, non significa che dobbiamo dire alle donne «sopportate le molestie
in nome della solidarietà con la classe operaia (e tenete presente che sono
stranieri, latinoamericani, e hanno il loro modo di vivere)!»; a questo livello,
nel confronto diretto delle due prospettive, il conflitto non può essere risolto,
e questo vicolo cieco irrisolvibile È la realtà della lotta di classe.
Riconoscere il ruolo sovradeterminante della lotta di classe non significa
accettare la classica affermazione marxista «essenzialista» secondo la quale
la sessualità diventa violenta a causa della lotta di classe ma rimane in sé non
violenta; la lotta di classe coopta la violenza immanente e i vicoli ciechi che
attengono alla sessualità in quanto tale. Allo stesso modo, altre battaglie
particolari obbediscono alla loro stessa logica antagonista immanente: ad
esempio, diversi «modi di vivere» etnico-religiosi sono immanentemente in
disaccordo a causa dei diversi modi di regolare la jouissance collettiva,
mentre l’industria umana influenza il nostro ambiente in modo
potenzialmente pericoloso indipendentemente dagli specifici modi di
produzione. La lotta di classe non introduce l’antagonismo ma
sovradetermina quello che è già immanente. Più esattamente, l’antagonismo
di classe è doppiamente iscritto: incontra sé stesso nella sua determinazione
oppositiva, all’interno delle battaglie la cui totalità sovradetermina. Tornando
al nostro esempio, la lotta di classe è rappresentata dalla resistenza verso gli
operai messicani da parte delle ragazze in piscina (in contraddizione con le
loro pretese femministe), inoltre sovradetermina l’articolazione stessa di
queste specifiche battaglie. La realtà della lotta di classe è la tensione fra due
lotte di emancipazione ma, di nuovo, non nel senso per cui gli operai
rappresentano il proletariato e le ragazze la borghesia. Se si dovesse decidere
a quale parte dare priorità in questo conflitto, ci sarebbero forti
argomentazioni a sostegno del fatto che le ragazze sono state effettivamente
molestate e dovessero in qualche modo essere protette. La dinamica
complessiva della lotta di classe è il fattore sovradeterminante del conflitto e,
di conseguenza, quello che rende il conflitto insolubile nei suoi stessi termini
(anche se diamo la priorità alle ragazze molestate, rimane un’ombra
d’ingiustizia in questa scelta). E vale lo stesso per la scelta opposta: la lotta di
classe è quella che rende anche la scelta «di classe» degli operai messicani
rispetto alle ragazze altrettanto ingiusta. Paradossalmente, la lotta di classe è
essa stessa il fattore che limita la portata di un riferimento diretto alla lotta di
classe...
La caratteristica formale che rende la lotta di classe eccezionale è che non
può essere ridotta a un caso di politica identitaria: mentre lo scopo del
femminismo non è quello di distruggere gli uomini ma di stabilire regole
nuove e più giuste sul modo in cui i due sessi debbano interagire, e mentre il
fondamentalismo religioso più aggressivo vuole affermarsi distruggendo le
altre religioni, la lotta di classe proletaria mira ad abolire la differenza di
classe, eliminando non solo la classe dominante ma anche sé stessa; lo scopo
della lotta proletaria è quello di creare le condizioni in cui i proletari stessi
cesseranno di esistere. (Sulla stessa falsariga, John Summers ha sottolineato
come il multiculturalismo sia emerso come l’ideologia delle élite aziendali:
una politica rivolta alle questioni di genere, alla razza o a qualunque altra
identità è una gara persa in partenza. La lotta identitaria è una perfetta
sostituta della lotta di classe, dal momento che tiene le persone in un conflitto
reciproco permanente, mentre le élite stanno in disparte e osservano la partita
da una distanza di sicurezza). 16 Un’analisi recente pubblicata dal Guardian
mette in luce l’inconsistenza di base delle politiche identitarie:
Molte persone di sinistra si sono rese perfettamente conto che il colour blindness
veniva usato dai conservatori per contrapporsi alle politiche intese a risarcire gli
errori storici e le persistenti disuguaglianze razziali. Con il collasso dell’Unione
Sovietica, le preoccupazioni economiche anticapitaliste della vecchia sinistra hanno
iniziato a occupare un ruolo di secondo piano rispetto al modo nuovo di intendere
l’oppressione: la politica di redistribuzione veniva rimpiazzata da una «politica di
ricognizione». Nasceva la moderna politica identitaria. Come scrive la
professoressa Sonia Kruks dell’Oberlin college, «ciò che rende le politiche
identitarie una significativa deviazione rispetto ai [movimenti] precedenti è la loro
richiesta di riconoscimento a partire dalle medesime basi che prima lo impedivano:
è in quanto donne, in quanto neri, in quanto lesbiche che i gruppi chiedono di
essere riconosciuti [...]La richiesta non è di inclusione all’interno dell’ovile
dell’‘umanità universale’ [...] né di rispetto ‘nonostante’ le proprie differenze.
Quello che si chiede, piuttosto, è rispetto per sé stessi in quanto diversi».
Quando l’icona liberal Bernie Sanders ha detto ai suoi sostenitori, «non è
abbastanza dire ‘Hey, sono latinoamericana, votate per me’», Quentin James, uno
degli uomini che stavano dietro agli sforzi di Hillary Clinton per raggiungere le
persone di colore, replicò che «i commenti di Sanders sulle politiche identitarie
suggeriscono che possa essere anche lui un suprematista bianco». Il che ci porta
alla caratteristica più impressionante del tribalismo politico delle destre odierne: la
politica dell’identità bianca che si è mobilitata attorno all’idea dei bianchi come
gruppo in pericolo e discriminato. Le persone vogliono vedere la propria tribù
come eccezionale, come qualcosa di cui essere profondamente orgogliosi; l’istinto
tribale è proprio questo. Per decenni, i non-bianchi negli Stati Uniti sono stati
incoraggiati a accontentare i propri istinti tribali esattamente in questo modo
mentre, almeno pubblicamente, i bianchi americani non l’hanno fatto. 17

La politica identitaria raggiunge il suo apice (o, piuttosto, il suo punto più
basso) quando fa riferimento all’esperienza unica di una specifica identità di
gruppo come il fatto definitivo che non può essere dissolto in nessuna
universalità: «Solo chi è donna/lesbica/trans/nero/cinese sa cosa vuol dire
essere donna/lesbica/trans/nero/cinese». Se questo può essere vero a un
livello banale, bisognerebbe comunque negare a tale affermazione qualunque
rilevanza politica e rifarsi senza alcuna vergogna all’antico assioma
illuminista: tutte le culture e le identità possono essere comprese, bisogna
solo fare uno sforzo per coglierle. 18 Il segreto della politica identitaria è che,
in essa, la posizione bianca/maschile/etero rimane uno standard universale,
ognuno la capisce e sa cosa voglia dire, ed è il motivo per cui è il punto cieco
della politica identitaria, l’unica identità che non si può asserire. Prima o poi,
in ogni caso, assisteremo al ritorno del rimosso: l’identità
bianca/maschile/etero irrompe sulla scena e inizia a giocare la stessa carta –
«nessuno ci capisce davvero, bisogna essere bianco/maschio/etero per capire
cosa significa essere bianco/maschio/etero...». Ciò che questi rovesciamenti
dimostrano è che non ci si può liberare dell’universalità così facilmente. La
vecchia, ovvia, osservazione marxista sul fatto che non esiste un’universalità
neutrale, ovvero che ogni universalità che si presenta come neutrale nasconde
e dunque privilegia dei privilegi di fatto, non dovrebbe sedurci al punto da
abbandonare l’universalità in quanto tale; se lo facciamo, cancelliamo il fatto
che la nostra stessa argomentazione contro le false universalità parla dalla
posizione della vera universalità (che ci permette di percepire la posizione dei
non privilegiati come ingiusta). Paradossalmente, l’affermazione dell’identità
bianca/maschile/etero li priverebbe della loro universalità implicita e li
spingerebbe ad accettare la loro particolarità.
Potrebbe sembrare che una tale affermazione facesse direttamente il gioco
dei suprematisti bianchi, ma lo fa davvero? Chiunque sia preoccupato dal
nuovo populismo anti-immigrati dovrebbe fare lo forzo di guardare Europa:
The Last Battle (Tobias Bratt, Svezia, 2017), un documentario in dieci parti
che si può scaricare gratis facilmente. Mostra, per esteso, la versione
neonazista degli ultimi cento anni di storia europea, dominata dai banchieri
ebrei che controllano tutto il nostro sistema finanziario; fin dall’inizio, il
giudaismo si nascondeva dietro al comunismo, e i ricchi ebrei hanno
finanziato direttamente la Rivoluzione d’ottobre per dare un colpo mortale
alla Russia, baluardo del cristianesimo; Hitler era un pacifico patriota tedesco
che, dopo essere stato democraticamente eletto, ha trasformato la Germania
da un paese devastato a una nazione ricca di benessere, con i più alti standard
di vita nel mondo sottraendosi alle banche internazionali controllate dagli
ebrei; l’ebraismo internazionale gli dichiarò guerra, nonostante Hitler
combattesse strenuamente per la pace; dopo il fallimento delle rivoluzioni
comuniste europee del 1920, i capi comunisti capirono che prima bisognava
distruggere le fondamenta morali dell’Occidente (religione, identità etnica,
valori familiari) e quindi fondarono la Scuola di Francoforte, il cui scopo era
quello di denunciare la famiglia e l’autorità come strumenti patologici di
dominazione, e di minare qualunque identità etnica in quanto oppressiva.
Oggi, nelle vesti delle diverse forme di marxismo culturale, i loro sforzi
stanno finalmente mostrando dei risultati; le nostre società sono preda
dell’eterna colpa dei loro presunti peccati, sono aperte all’invasione senza
freni dei migranti, perse nel vuoto individualismo edonista e nella mancanza
di patriottismo. Questa corruzione viene segretamente governata da ebrei
come Soros, e solo una nuova figura come Hitler, che risveglierebbe il nostro
orgoglio patriottico, ci può salvare... Quando ci troviamo davanti a questo
spettacolo, non si può evitare l’impressione che, anche se gli autori sono
andati molto più in là rispetto alla media del nostro populismo razzista, in
Europa vediamo una sorta di «centro assente» della moltitudine dei
movimenti comunitari e populisti che prosperano al momento, il punto-zero
verso il quale tutti tendono e in cui convergerebbero.
Quando, nel criticare questa tendenza, ho affermato che la peggiore
minaccia per l’Europa sono i suoi difensori populisti/razzisti, sono stato
rimproverato per l’ovvia assurdità delle mie parole: in che modo coloro che
vogliono difendere l’Europa possono costituire una minaccia? All’inizio, la
risposta è semplice: l’Europa che questi difensori cercano di salvare
(un’Europa neotribale fatta di identità etniche definite) è la negazione di tutto
ciò che c’è di grande nella tradizione europea. (L’ovvia critica anti-europeista
alla mia affermazione è, chiaramente, che l’Europa, l’agente del dominio
coloniale globale, non ha alcun diritto di offrire i suoi fondamenti ideologici
come arma possibile contro il razzismo). In questo c’è qualche verità, e non
ci sorprende che i più radicali «difensori» dell’Europa guardino con sospetto
al cristianesimo e preferiscano la spiritualità pagana (celtica, nordica). Si può
vedere facilmente dove stia il problema: perfino coloro che ancora aderiscono
a parole all’Europa cristiana invocano uno strano cristianesimo con aspetti
decisamente pagani. Di recente, Orbán ha dichiarato
la fine della «democrazia liberale» in Ungheria, dicendo che ha fallito nel difendere
le libertà e la cultura cristiana sulla scia della crisi dei migranti. Ha promesso che
costruirà una «democrazia cristiana» che sconfigga i dettami europei. «L’era della
democrazia liberale è arrivata alla fine. È inadeguata a proteggere la dignità umana,
inaccettabile nel dare la libertà, non può garantire la sicurezza fisica, e non può più
conservare la cultura cristiana». 19

Non sono forse queste affermazioni difficili da accostare alle seguenti


tratte dalla Lettera ai Gàlati 3,28: «Non c’è Giudeo né Greco; non c’è
schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in
Cristo Gesù»? E come si comportano i cristiani difensori della famiglia con il
famoso passaggio di Matteo 12,46-50:

In quel tempo, mentre Gesù parlava ancora alla folla, ecco sua madre e i suoi
fratelli stavano fuori e cercavano di parlargli. Qualcuno gli disse: «Ecco, tua madre
e i tuoi fratelli stanno fuori e cercano di parlarti». Ed egli, rispondendo a chi gli
parlava, disse: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Poi, tendendo la mano
verso i suoi discepoli, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chiunque fa
la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre».
C’è, tuttavia, un’altra contro-argomentazione di alto livello portata spesso
avanti contro i migranti: il punto non è che, nel loro modo di vivere, sono
diversi da noi, ma che sono loro ad avere dei problemi con la differenza (la
coesistenza di modi diversi di vivere) in quanto tale. Il caso esemplare qui è
quello del politico della destra populista olandese Pim Fortuyn, ucciso
all’inizio del maggio 2002, due settimane prima delle elezioni in cui ci si
aspettava che avrebbe preso un quinto dei voti: un populista di destra le cui
caratteristiche personali e le cui opinioni (quasi tutte) erano a tutti gli effetti
politicamente corrette. Era gay, aveva buone relazioni personali con molti
immigrati, un innato senso dell’ironia... insomma, era un liberale bravo e
tollerante sotto ogni aspetto, tranne che per l’orientamento politico:
avversava gli immigrati fondamentalisti a causa del loro disprezzo per
l’omosessualità, i diritti delle donne, ecc.
La risposta è, ovviamente, che questa argomentazione si basa su una sorta
di meta-razzismo, ovvero su una forma più sottile di razzismo in cui
affermiamo la nostra superiorità sull’Altro proprio affermando che il nostro
Altro, non noi, è razzista... Ma qui ci troviamo davanti a un ulteriore
problema, ancora più fondamentale: affermare l’apertura e la fluidità delle
identità non è sufficiente, ed è l’indeterminatezza che sta portando le persone
verso coloro che sostengono l’identità etnica populista. La grossa questione
dunque è: che tipo di identità è accettabile per un radicale di sinistra?
L’universalismo astratto non funziona, come ha chiarito, fra gli altri, Claude
Lévi-Strauss che, nei saggi raccolti nel secondo volume della sua
Antropologia strutturale, 20 ha ben dimostrato come una forte asserzione
della propria identità etnica e addirittura della propria superiorità rispetto agli
altri non implichi necessariamente il razzismo. Ha dimostrato che molte tribù
che si definiscono «umane» (rispetto ad altre tribù a cui negano questa
qualità), ovvero nel cui linguaggio la parola per «umano» è la stessa per
«appartenente alla nostra tribù», non sono razziste nel senso moderno del
termine. Anche se possono apparire razziste in modo offensivo, guardandoci
meglio la loro posizione è molto più modesta e dovrebbe essere letta come
un’implicita asserzione dell’essere all’interno di uno specifico modo di
vivere: «siamo quello che siamo, e per noi questo è ciò che significa essere
umani; non possiamo uscire dal nostro mondo per giudicare noi e gli altri da
chissà dove, dunque lasciamo che gli altri facciano quello che vogliono». In
breve, la loro affermazione di identità personale non è mediata negativamente
dagli altri sotto forma di invidia.
Per poter mascherare le proprie divisioni, l’identità populista si basa sul
riferimento negativo all’Altro: non esiste nazista senza un ebreo, europeo
senza minaccia dei migranti, ecc. In ogni caso, il politicamente corretto si
fonda anche su un riferimento negativo, parassitario rispetto all’Altro
«scorretto», sessista/razzista; è questo il motivo per cui la soggettività
politicamente corretta è un insieme di eterno senso di colpa (alla ricerca delle
ultime tracce di razzismo o sessismo in sé stessi) e arroganza (in un continuo
rimprovero e giudizio delle colpe degli altri). Il paradosso è dunque che il
problema del fondamentalismo populista non sta nel fatto che è troppo
identitario (contro il quale dobbiamo enfatizzare la fluidità e la contingenza
di ogni identità) ma, al contrario, nel fatto che manca di una vera e propria
identità, che la sua identità si fonda sulla negazione del suo Altro costitutivo.
I cosiddetti fondamentalisti, che siano cristiani o musulmani, sono davvero
fondamentalisti nel senso autentico del termine? Credono davvero? Ciò di cui
mancano è una caratteristica che è facile da discernere in tutti i
fondamentalismi autentici, dai buddhisti tibetani agli amish americani:
l’assenza di risentimento e invidia, la profonda indifferenza nei riguardi del
modo di vivere dei non credenti. Se i cosiddetti fondamentalisti di oggi
credono davvero di aver trovato la loro Verità, perché si devono sentire
minacciati dai non credenti, perché li devono invidiare? Quando un buddhista
incontra un edonista occidentale, difficilmente lo condanna, semplicemente
osserva con benevolenza che la sua ricerca edonista della felicità è
controproducente. Al contrario, gli pseudo-fondamentalisti sono invece molto
infastiditi, intrigati e affascinati dalla vita peccaminosa dei non credenti.
Possiamo ben capire che, nel combattere l’altro peccaminoso, stanno
combattendo la loro stessa tentazione. È per questo che i cosiddetti
fondamentalisti cristiani o musulmani costituiscono una disgrazia per il vero
fondamentalismo.
Ma questo significa forse che dovremmo semplicemente tollerare una
coesistenza pacifica di diversi modi di vivere? Sfortunatamente, non è questa
la soluzione. Dovremmo rimanere fermi nell’approccio propriamente
dialettico: una tale accettazione dell’identità non invalida in nessun modo
l’universalità, la rende semplicemente «concreta» in senso hegeliano. Quando
i suprematisti bianchi dicono «vogliamo per noi soltanto le stesse cose che i
presunti emarginati vogliono per sé – asserire liberamente e sviluppare la
nostra identità, il nostro modo di vivere», non c’è nulla di sbagliato
nell’affermazione in sé. Il problema è che non intendono solo questo ma
molto di più, privilegiando implicitamente il loro modo di vivere a spese
degli altri; in breve, il problema sta nella loro universalità implicita. Ogni
modo di vita implica la sua propria universalità: non riguarda solo sé stesso
ma anche il modo in cui si relaziona agli altri, e le due cose non possono
essere separate. Il multiculturalismo liberale occidentale è diverso, mettiamo,
dalla coesistenza delle religioni e dei gruppi etnici in India; il problema (non
solo) con l’islam è il modo con cui si relaziona alle altre religioni e culture (e
all’ateismo) nei paesi in cui è presente: vengono tollerate in quanto uguali,
possono agire nello spazio pubblico? Quando i liberal occidentali
proibiscono certe pratiche sessuali (non solo) dei musulmani, come i
matrimoni combinati contro la volontà della donna coinvolta, lo Stato ha il
diritto di intervenire o è un’intrusione nel modo di vivere altrui? Il problema
è che la relazione fra i diversi modi di vivere è sempre anche un conflitto di
universalità; non esiste uno spazio neutro universale che ne sia esente.
L’unico vero gesto di emancipazione è dunque quello di perseverare nella
ricerca dell’universalità (come ha fatto, ad esempio, Malcom X). E la persona
bianca dovrebbe avere uno sguardo di autocritica rispetto alla propria
posizione, ovviamente, ma senza cadere nel circolo vizioso dell’eterna colpa.
La proibizione di asserire l’identità particolare dell’Uomo Bianco (come
modello di oppressione altrui), anche se si presenta già come un’ammissione
di colpa, gli conferisce comunque una posizione centrale: proprio questo
divieto del diritto di affermare la sua particolare identità lo rende il mezzo
universale-neutrale, il posto a partire dal quale la verità sull’oppressione degli
altri diventa accessibile. Ed è per questo che i bianchi liberal indulgono con
tanta gioia nell’autoflagellazione: il vero scopo della loro attività non è quello
di aiutare gli altri per davvero, ma il Lustgewinn causato dalle loro
autoaccuse, il sentimento della loro superiorità morale rispetto agli altri. Il
problema di questa autonegazione dell’identità bianca non è che va troppo in
là ma anzi che non ci va abbastanza: mentre il suo contenuto enunciato
sembra radicale, la sua posizione di enunciazione rimane quella di
un’universalità privilegiata.

Quando proviamo a capire come mettere in relazione la battaglia universale


per l’emancipazione con la pluralità dei modi di vivere, niente dovrebbe
essere lasciato al caso, neppure i concetti generali più palesi. I liberali di
sinistra guardano al concetto stesso di «modo di vivere» con sospetto (a meno
che non sia riferito a minoranze marginali, ovviamente), come se nascondesse
un veleno proto-fascista; contro questo sospetto, bisognerebbe accettare il
termine nella sua versione lacaniana, come qualcosa che superi tutte le
caratteristiche culturali verso il cuore del Reale, della jouissance; un «modo
di vivere» è in fin dei conti il modo in cui una certa comunità organizza la sua
jouissance. Per questo motivo quello dell’«integrazione» è un argomento così
sensibile: quando un gruppo viene messo sotto pressione per «integrarsi» in
una comunità più vasta, spesso, spinto dal timore di perdere il suo modo di
jouissance, fa resistenza. Un modo di vivere non implica soltanto rituali
legati al cibo, alla musica, alla danza, alla vita sociale e così via, ma anche, e
soprattutto, abitudini e norme scritte e non scritte inerenti la vita sessuale
(comprese quelle degli incontri e del matrimonio) e la gerarchia sociale (il
rispetto per i più anziani, e così via). In India, ad esempio, alcuni teorici post-
coloniali difendono persino il sistema delle caste come parte di uno specifico
modo di vivere che dovrebbe essere protetto dall’attacco violento
dell’individualismo globale.
Per risolvere questo problema, la prospettiva più diffusa è quella di un
mondo unito con tutti i suoi floridi modi di vita particolari, ognuno dei quali
afferma la sua differenza rispetto agli altri, non in una relazione di
antagonismo, non alle loro spese, ma come dimostrazione positiva di
creatività che contribuisce all’arricchimento di tutta la società. Quando si
impedisce a un gruppo etnico di esprimere la sua identità in questo modo
creativo, facendogli pressione affinché vi rinunci e si «integri» nella cultura e
nel modo di vita dominante (di solito quello occidentale), esso non può
reagire se non ritirandosi in una differenza negativa, un fondamentalismo
regressivo e purista che combatte la cultura dominante, anche con mezzi
violenti; in breve, la violenza fondamentalista è una reazione della quale la
cultura predominante è responsabile.
Tutta questa prospettiva di differenze creative, di identità particolari che
contribuiscono a un mondo unito, minacciato dalla violenta pressione sulle
minoranze affinché si «integrino» – in altre parole, dalla falsa universalità del
modo di vita occidentale, che si impone come standard per tutti gli altri –
deve essere respinta nella sua interezza. Il mondo in cui viviamo è uno, ma è
così perché è attraversato (e, in un certo senso, perfino tenuto insieme) dallo
stesso antagonismo che è iscritto esattamente al cuore del capitalismo
globale. L’universalità non si colloca al di sopra e al di fuori delle identità
particolari, è un antagonismo che taglia dall’interno ogni «modo di vivere».
Questo antagonismo determina tutte le battaglie di emancipazione: le regole
esplicite e quelle non scritte che riguardano la gerarchia, l’omofobia, il
dominio maschile e così via sono costituenti chiave del «modo di vivere» in
cui tali battaglie avvengono. Prendiamo il caso molto delicato di Cina e
Tibet: la violenta colonizzazione cinese del Tibet è un dato di fatto, ma
questo fatto non deve farci dimenticare che tipo di paese fosse il Tibet prima
del 1949, e anche prima del 1959; una dura società feudale con una rigida
gerarchia regolata fin nei minimi dettagli. Alla fine degli anni Cinquanta,
quando le autorità cinesi in qualche modo tolleravano ancora il «modo di
vivere» tibetano, l’abitante di un villaggio andò a fare visita ai suoi genitori in
un villaggio vicino senza chiedere il permesso al suo signore feudale. Quando
fu catturato e minacciato di una severa punizione, si rifugiò in una vicina
guarnizione militare cinese, ma quando il signore feudale lo venne a sapere
cominciò a lamentarsi del fatto che i cinesi si stavano brutalmente
immischiando nel modo di vivere tibetano. E aveva ragione! Cosa
dovrebbero fare allora i cinesi? Un altro esempio simile riguarda un’usanza
tibetana: se un servo incontrasse un proprietario terriero o un prete su un
sentiero stretto, lui
si fermerebbe di lato, a una certa distanza, mettendo una manica sulla spalla, con il
volto chinato in basso e tirando fuori la lingua, un gesto di cortesia da parte degli
appartenenti alle classi inferiori verso quelle superiori, e oserebbe riprendere il suo
cammino solo dopo che i servi precedenti fossero passati. 21

Per fugare qualunque illusione sulla società tibetana, non è sufficiente


osservare la spiacevole natura di questa usanza. Ben al di là del normale farsi
da parte e inchinarsi, l’individuo subordinato, come se non fosse abbastanza,
deve mantenere un’espressione di umiliante stupidità (con la bocca aperta, la
lingua di fuori, gli occhi all’insù) in modo da segnalare, con questa smorfia
grottesca, la sua idiozia priva di dignità. La cosa fondamentale qui è
riconoscere la violenza di questa pratica, una violenza che nessuna
considerazione delle differenze culturali e nessun rispetto per l’alterità può
cancellare. Di nuovo, e in casi come questo, quand’è che il rispetto per il
modo di vivere altrui raggiunge il suo limite? Certo, non dobbiamo
intervenire dall’esterno imponendo i nostri standard, ma non è forse un
dovere di ogni combattente per l’emancipazione il sostegno incondizionato di
coloro che, nelle altre culture, resistono dall’interno a tali usanze oppressive?
Gli anti-colonialisti di solito sottolineano come i colonizzatori cerchino di
imporre la loro cultura come universale e dunque danneggino il modo di
vivere degli indigeni; ma che dire della strategia opposta, che sta nel
rafforzare le tradizioni locali in modo da rendere la dominazione coloniale
più efficiente? Non ci sorprende che l’amministrazione coloniale britannica
in India elevasse Le leggi di Manu – un’antica e dettagliata giustificazione del
sistema di caste oltre che un manuale per lo stesso sistema – a testo seminale
da usare come riferimento per stabilire il codice legale che avrebbe reso la
dominazione in India il più efficiente possibile; entro un certo limite, si
potrebbe persino dire che Le leggi di Manu sono diventate il libro della
tradizione indù solo retroattivamente. E, in modo più sottile, le autorità
israeliane stanno facendo la stessa cosa in Cisgiordania: tollerano
silenziosamente «gli omicidi d’onore» (o almeno non svolgono delle indagini
serie su di essi), essendo ben consapevoli che la vera minaccia per loro è
costituita non dai musulmani devoti e tradizionalisti ma dai palestinesi
moderni.
Questa è la lezione che non solo i rifugiati ma tutti i membri delle
comunità tradizionali dovrebbero imparare: il modo per reagire al
neocolonialismo culturale non è quello di resistergli in nome della propria
cultura tradizionale ma di reinventare una modernità più radicale; cosa di cui
Malcom X, di nuovo, era ben cosciente. È questo non essere pronti ad
accettare il ruolo primario dell’universalità che indebolisce la maggior parte
degli studi postcoloniali. Il lavoro di Ramesh Srinivasan è rappresentativo
dello sforzo di «decolonizzare» la tecnologia digitale, che non è solo una
cornice tecnologica neutra e universale per lo scambio fra culture: essa
privilegia una certa cultura (quella occidentale moderna), tanto che persino
gli sforzi più generosi di ampliare la competenza informatica e includere tutti
nel «villaggio globale» digitale, in realtà segretamente diffondono la
colonizzazione, insistendo sull’integrazione dei subalterni nella modernità
occidentale e dunque opprimendone la specificità culturale. 22 Srinivasan
accenna rapidamente al fatto che le comunità stesse sono «sfaccettate e
diverse», ma invece di sviluppare questo punto fino all’idea di antagonismo
che attraversa ogni comunità, lo fa confluire nella relativizzazione globale e
nella parzialità di qualsiasi visione. Le unità di base della sua visione della
realtà sono le comunità che, attraverso le loro pratiche di vita, si formano la
loro visione della realtà; esse sono il punto di partenza, e le «conversazioni
che superano i limiti della comunità» arrivano in un secondo momento, così
che quando le mettiamo in pratica dovremmo stare sempre molto attenti a
rispettare la voce autentica di quella particolare comunità. Qui sta l’inganno
del concetto assai popolare di «villaggio globale»: esso impone su specifiche
comunità non occidentali presupposti che non sono i loro, ovvero, mette in
atto un colonialismo culturale:
Se è importante conoscere le altre persone, le culture, e le comunità nei loro
termini, dobbiamo rispettare il potere e l’importanza di tutti gli usi creativi della
tecnologia, quelli locali, culturali, nativi e quelli basati sulle comunità. Le
conversazioni che superano i limiti della comunità possono e devono emergere, ma
solo quando le voci dei loro partecipanti vengono davvero rispettate. Da questo
punto di vista, il «villaggio globale» è il problema piuttosto che la soluzione.
Dobbiamo rifiutare i presupposti relativi alla tecnologia e alla cultura che sono
dettati dai concetti occidentali di cosmopolitismo. 23

Ecco perché Srinivasan critica Ethan Zuckerman, il quale

ha ragione a dire che molte delle sfide odierne, come quella del cambiamento
climatico, richiedono una conversazione globale e una consapevolezza trans-
culturale. Ma non tutte le sfide sono globali e in realtà pensare globalmente alle
tradizioni, alle conoscenze, alle battaglie e alle identità delle persone può anche, in
modo non intenzionale, escluderle da una posizione di controllo e di potere. 24

Per cui, di nuovo, la visione globale è strettamente secondaria; prima viene


la molteplicità delle comunità locali con le loro specifiche «ontologie». E
perfino la scienza moderna con la sua portata globale viene storicamente
relativizzata come uno dei tanti campi del sapere senza alcun diritto di essere
privilegiata; Srinivasan approva le parole di Boaventura de Sousa Santos, il
quale afferma che
il privilegio epistemologico garantito alla scienza moderna dal diciassettesimo
secolo in avanti, che ha reso possibili le rivoluzioni tecnologiche che hanno
consolidato la supremazia occidentale, è stato anche lo strumento dell’eliminazione
delle altre forme di conoscenza non-scientifiche [...] È venuto il momento di
costruire una società più democratica e giusta e [...] decolonizzare la conoscenza e
il potere. 25

Sarebbe semplice dimostrare che tale «ontologia fluida» della molteplicità


delle culture si fonda su una visione tipica dell’Occidente postmoderno
basata sulla storicizzazione di tutta la conoscenza, una visione che non ha
nulla a che fare con le vere società premoderne. Ma ancora più importante è
la relazione fra il disconoscimento da parte di Srinivasan dell’universalità (la
sua insistenza sul primato di culture/comunità particolari) e il suo ignorare gli
antagonismi interni e costitutivi di particolari comunità: sono le due facce
dello stesso non-riconoscimento, dal momento che l’universalità non è
un’entità neutra elevata al di sopra di culture particolari; è iscritta in esse,
opera in esse, nella veste dei loro antagonismi interni, delle loro incoerenze e
negatività distruttive. Ogni particolare modo di vita è una formazione
politico-ideologica il cui compito è quello di nascondere un antagonismo
sotteso, un modo particolare di affrontare questo antagonismo, e tale
antagonismo attraversa l’intero spazio sociale. A parte alcune tribù della
giungla amazzonica che non hanno ancora stabilito un contatto con la società
moderna, tutte le comunità oggi sono parte della civiltà globale nel senso che
la loro stessa autonomia deve essere spiegata nei termini del capitalismo
globale. Prendiamo il caso dei tentativi fatti dalle tribù dei nativi americani di
resuscitare il loro antico modo di vivere. Il contatto con la civiltà moderna ha
fatto deragliare e ha bloccato questo modo di vivere, e ha avuto il devastante
effetto di lasciare le tribù totalmente disorientate, prive di una cornice stabile
di riferimento comune; i loro tentativi di riguadagnare una qualche stabilità,
ripristinando il cuore del loro modo di vivere tradizionale, di solito
dipendono da quale nicchia riescono a ricavarsi nell’economia di mercato
globale. Molte tribù, saggiamente, spendono in questo ripristino i guadagni
che traggono dai diritti sui casinò e sulle miniere o, con le parole di Richard
Wagner, «Die Wunde schließt der Speer nur, der sie schlug» (La ferita può
essere guarita solo dalla lancia che l’ha causata).
In 1984 di Orwell, c’è un famoso scambio fra Winston e O’Brien, il suo
interrogatore. Winston gli chiede:
«Il Grande Fratello esiste?»
«Certo che esiste. Il Partito esiste. Il Grande Fratello è l’incarnazione del Partito».

«Esiste nello stesso modo in cui esisto io?»


«Tu non esisti» rispose O’Brien.

Non potremmo forse pronunciare parole simili sull’esistenza


dell’universalità? Come detto prima, all’affermazione nominalista secondo la
quale non esiste un’universalità pura e neutrale, possiamo rispondere «no,
oggi è il modo particolare di vivere che non esiste come modo autonomo di
esistenza storica, l’unica vera realtà è quella del sistema capitalista
universale». Dunque, in contrapposizione alle politiche identitarie, che si
concentrano sul modo in cui ogni gruppo dovrebbe essere in grado di
affermare pienamente la propria identità particolare, il compito più radicale è
quello di dare a ciascun gruppo la possibilità di un pieno accesso
all’universalità, il che non significa riconoscere che l’uno è anche parte del
genere umano universale, o affermare alcuni valori ideologici che vengono
considerati universali. Significa riconoscere in che modo l’universalità di
ognuno è all’opera nelle fratture della propria particolare identità, come il
«lavoro del negativo» che mina ogni particolare identità; o, come ha
affermato Susan Buck-Morss, «l’umanità universale è visibile ai margini»: 26

L’umanità universale non sorge dando egual diritti a molteplici culture distinte, in
modo che i popoli vengano riconosciuti come parte dell’umanità indirettamente,
attraverso la mediazione di identità culturali collettive, ma sorge con l’evento
storico che si verifica a un dato punto di rottura. È nelle discontinuità della storia
che i popoli la cui cultura è stata logorata fino al cedimento arrivano a esprimere
un’umanità che va al di là dei limiti culturali. Ed è grazie alla nostra identificazione
appassionata in questa condizione pura, libera e vulnerabile che abbiamo una
chance di comprendere quello che questi popoli dicono. L’umanità comune esiste
malgrado la cultura e le sue differenze. La non-identità di una persona con il
collettivo permette solidarietà sotterranee che hanno la possibilità di rivolgersi al
sentimento morale universale, unica fonte, oggi, di entusiasmo e speranza. 27

Qui Buck-Morss fornisce una precisa argomentazione contro la poesia


della diversità postmoderna: essa maschera la sottesa identità della violenza
brutale agita da culture e regimi culturalmente diversi: «possiamo dirci
soddisfatti da questa richiesta di riconoscimento delle ‘multiple modernità’
con una politica della ‘diversità’ o ‘multiversalità’, quando in effetti le
disumanità di queste molteplicità sono spesso straordinariamente
identiche?». 28
Inoltre, quando i la sinistra liberal ripete il solito ritornello sul fatto che il
sorgere del terrorismo è il risultato degli interventi coloniali e militari
dell’Occidente in Medio Oriente, intendendo che siamo noi, in fin dei conti, i
responsabili, quest’analisi, anche se ci parla di rispetto degli altri, rappresenta
un caso esemplare di trattamento condiscendente nei confronti dell’Altro,
ridotto a una vittima passiva priva di qualunque programma. Ciò che una tale
prospettiva non riesce a cogliere è che gli arabi non sono in nessun modo solo
vittime passive delle macchinazioni neocoloniali europee e americane. I loro
diversi modi di agire non sono solo reattivi, sono diverse forme di impegno
attivo all’interno della complessa situazione che stanno vivendo: la spinta
espansiva e aggressiva verso l’islamizzazione (finanziando moschee in paesi
stranieri, ad esempio) e una guerra aperta con l’Occidente sono modi di
impegnarsi attivamente in una situazione avendo uno scopo ben definito.
Per la stessa ragione, bisognerebbe anche dubitare del valore
emancipatorio dell’appellativo di «nativi» o «primi uomini» verso coloro che
sono stati colonizzati. Quando, negli Stati Uniti, si ventilò l’ipotesi che i
nativi americani di oggi («indiani») non fossero i primi abitanti umani di
quelle zone, e che fossero subentrati a un’altra razza precedente, la reazione
della sinistra liberale è stata quella di intravedere un’oscura manovra per
dimenticare gli orrori della colonizzazione («ciò che noi, bianchi, abbiamo
fatto agli indiani, essi lo hanno fatto ad altri»). Allo stesso modo, gli
antirazzisti guardano con sospetto agli storici che tentano di dimostrare che i
primi coloni bianchi (i boeri) in Sudafrica vi si trovassero
contemporaneamente (o addirittura da un paio di decenni prima) all’odierna
maggioranza nera, che ha invaso il paese provenendo dal nord, subentrando
agli abitanti originari (boscimani e ottentotti). Se questi sospetti sono
giustificati, ovvero, se gli scopi di queste ricerche da parte dei razzisti bianchi
sono palesi, bisognerebbe non di meno respingere con fermezza l’idea che
dimostrare che i «nativi americani» di oggi o la maggioranza nera in
Sudafrica non fossero i veri «primi uomini» di quei territori sminuisca o
indebolisca in qualche modo la battaglia antirazzista per una piena
emancipazione dei neri o dei «nativi americani». Il razzismo di oggi non ha
nulla a che vedere con la domanda storica su chi si trovasse lì per primo:
riguarda le relazioni odierne di dominio e sfruttamento.
L’eredità occidentale è effettivamente non solo quella del dominio
imperialista coloniale o postcoloniale, ma anche quella dell’esame autocritico
della violenza e dello sfruttamento che l’Occidente ha portato nel Terzo
mondo. I francesi hanno colonizzato Haiti, ma la Rivoluzione francese ha
fornito anche il fondamento ideologico per la ribellione che ha liberato gli
schiavi e fondato un Haiti indipendente; il processo di decolonizzazione si è
avviato quando le nazioni colonizzate hanno chiesto di avere gli stessi diritti
che aveva l’Occidente. In breve, non dovremmo mai dimenticare che
l’Occidente ha fornito proprio quegli standard con i quali esso (assieme ai
suoi critici) ha misurato il proprio passato criminale.
Capitolo quarto
Ernst Lubitsch,
sesso e comunicazione indiretta

Theodor Adorno ha ribaltato la paternalistica domanda di stampo storicistico


di Benedetto Croce «cosa è vivo e cosa è morto della filosofia di Hegel?» (il
titolo di una delle sue opere principali): se il pensiero di Hegel è ancora vivo,
allora la domanda che ci dovremmo porre non è «in che modo si colloca
l’opera di Hegel rispetto alla nostra attuale costellazione? In che modo lo
dobbiamo leggere perché abbia ancora qualcosa da dirci?», ma «in che modo
ci collochiamo noi oggi rispetto a Hegel, ai suoi occhi?». Vale esattamente la
stessa cosa per il regista Ernst Lubitsch: la domanda è «come apparirebbe la
nostra contemporaneità agli occhi di Lubitsch?». Qui sta la sua attualità:
rifiutando, ovviamente, con disgusto il neorazzismo populista, avrebbe
immediatamente colto la falsità del suo opposto, il moralismo politicamente
corretto, vedendone chiaramente la segreta complicità. Lubitsch sarebbe stato
sconcertato nel vedere in che modo i perversi piaceri delle oscenità, perfino
l’ironia, si siano spostati verso la destra, mentre la sinistra è sempre più
ingabbiata in un moralismo patetico, ascetico e puritano.
Il che significa che non ci potrà essere alcun rinnovamento della sinistra
senza un tocco alla Lubitsch.

Dalla comunicazione indiretta a ratatatata


In che modo allora Lubitsch avrebbe contrastato questa scellerata accoppiata?
Attraverso una comicità indiretta: ma funziona? Dopo che furono emerse
nella loro interezza le atrocità commesse dai nazisti, il capolavoro di Lubitsch
Vogliamo vivere! (1942), così come Il grande dittatore di Chaplin (1940),
vennero entrambi criticati per aver sminuito gli orrori del nazismo facendone
una commedia; Chaplin stesso disse che se fosse stato al corrente dell’orrore
dei campi di concentramento non avrebbe mai girato quel film. In ogni caso,
la situazione è molto più complessa e ambigua; non si tratta forse del fatto
che, in una tragedia, le vittime mantengono comunque un minimo di dignità?
E quindi che, quando l’orrore supera un certo limite, ritrarlo come una
tragedia è sminuirne in modo blasfemo la portata? Ad Auschwitz (o in un
gulag), le vittime erano talmente deprivate della loro dignità umana da non
poter più nemmeno essere percepite come eroi tragici; al contrario, è entrato
in campo un elemento comico; non ci sorprende dunque che alcuni dei
migliori film sui campi di concentramento siano delle commedie. Dovremmo
dunque stupirci che una delle battute che circolavano a Sarajevo durante
l’assedio delle truppe serbe fra il 1992 e il 1995, quando le forniture di gas
venivano spesso interrotte, fosse: «Qual è la differenza fra Auschwitz e
Sarajevo? Che almeno ad Auschwitz non restavano mai senza gas». E che
dire della famosa battuta diffusa fra i sopravvissuti al massacro di Srebrenica
del 1995, quando più di settemila uomini e ragazzi bosniaci vennero uccisi
dalle truppe serbe? (Per capire questa battuta bisogna ricordare che, nella
vecchia Jugoslavia, quando si andava dal macellaio per comprare del manzo,
il macellaio di solito chiedeva «con ossa o senza?»; le ossa si aggiungevano
per dare più sapore al brodo di manzo). Dopo la guerra, un rifugiato torna a
Srebrenica dalla Germania per comprare un pezzo di terra e costruirci una
casa, chiede il prezzo a un amico e l’amico risponde: «Dipende, lo vuoi con
ossa o senza ossa?». Ecco come si affronta e si scende a patti con il trauma
per il quale non esiste un lutto possibile: lo trasformi in battuta. E non c’è
nulla di irrispettoso in questo: al contrario, tali battute implicano la
consapevolezza del fatto che la memoria è ancora troppo fresca per poter
iniziare il processo del lutto.
Sulla stessa falsariga si colloca una storia raccontatami da Wolf Biermann
che non degna neppure del colonnello Ehrhardt della Gestapo in Vogliamo
vivere! All’inizio degli anni Novanta incontrò alcuni gruppi verdi della
Germania dell’Est; fra di essi vi erano alcuni ecologisti neonazisti, e quando
Biermann li rimproverò per le loro simpatie per Hitler, ottenne una risposta
sconvolgente: «No, noi siamo molto critici nei confronti di Hitler. Sì, ha fatto
delle cose buone, come sbarazzarsi degli ebrei, ma ha fatto anche tante cose
orribili, come distruggere le foreste per costruire autostrade». (Osserviamo
come questa critica rovesci la tipica difesa di Hitler: «Sì, ha fatto delle cose
orribili, come uccidere gli ebrei, ma ha fatto anche alcune cose buone, come
costruire autostrade e far arrivare i treni in orario!»).
La posizione di Lubitsch ha un profondo fondamento ontologico. In una
delle scene più efficaci di Vogliamo vivere!, l’attore polacco Joseph Tura,
durante una conversazione con un collaborazionista polacco di alto livello, si
finge il colonnello Ehrhardt e commenta le dicerie sul suo conto («E così mi
chiamano Campo-di-concentramento-Ehrhardt?») ridendo fragorosamente, in
(quello che noi percepiamo come un) modo esagerato e ridicolo. Poco dopo,
Tura è costretto a fuggire perché sta arrivando il vero Ehrhardt; quando la
conversazione torna di nuovo sulle dicerie sul suo conto, il vero Ehrhardt
reagisce nello stesso modo ridicolo ed esagerato del suo sosia. Il messaggio è
chiaro: anche il vero Ehrhardt non è sé stesso in modo immediato, egli imita
il proprio sosia o, più precisamente, l’idea ridicola di sé stesso. Se Tura recita
la parte di Ehrhardt, questi recita la parte di sé stesso. (Fra parentesi, abbiamo
qui un perfetto esempio di distinzione hegeliana fra umorismo soggettivo e
oggettivo: Tura che recita la parte di Ehrhardt in modo esagerato è un
umorismo soggettivo, con Tura che si prende gioco di lui, mentre Ehrhardt
che mette in scena la stessa esagerazione è umorismo oggettivo, un umorismo
iscritto nel soggetto stesso). Non potremmo forse dire la stessa cosa di
Donald Trump, che a sua volta recita la parte di sé stesso?
Con questo non vogliamo dire che Lubitsch sia un cinico ironico e
postmoderno la cui premessa è che, dal momento che tutto è mediato e
indiretto, con ognuno di noi che recita sé stesso, il vero amore esiste solo in
una specie di sfera romantica al di là della mediazione comica. Dobbiamo
imparare a collocarlo all’interno di tutte queste confusioni comiche. Se c’è un
esempio di amore vero e duraturo in Vogliamo vivere!, un modello di
matrimonio ideale, è quello fra Joseph e Maria Tura (Giuseppe e Maria, la
coppia per eccellenza!). Maria non fa altro che flirtare a destra e a manca e
tradirlo, mentre Joseph è un egocentrico totale convinto della propria
grandezza, ma sono assolutamente inseparabili. Il loro divorzio non è
nemmeno immaginabile, non è possibile che Maria lasci Joseph e vada a
vivere con il pilota con cui lo tradisce. Il che significa che non esiste alcuna
formula universale per una relazione sessuale riuscita: l’unica universalità è
quella negativa, quella del fallimento, e, per compensare questo fallimento,
una coppia dovrebbe inventare una formula idiosincratica, ciò che Lacan
chiamava sinthom, il nodo minimo del godimento, che, se funziona, può
essere molto più stabile dell’amore puro e appassionato.
Ma, di nuovo, questo non indica forse i limiti che ha oggi, per noi, la
prospettiva di Lubitsch? Stiamo sempre più sperimentando il fatto che ciò che
per Lubitsch era ancora uno scherzo oggi viene semplicemente messo in atto
nella vita reale (politica e ideologica). Pensiamo alla leggendaria battuta di
Ehrhardt «noi facciamo il concentramento, i polacchi fanno i campi»: i
manager che oggi invocano l’austerità non potrebbero forse usare parole
simili? Forse, le battute alla Lubitsch funzionano solo finché c’è un’ipocrisia
liberale da prendere in giro; ma che dire di quando il potere esercita la sua
brutalità, abbandonando la sua maschera liberal-umanitaria-democratica? Si
sarebbe quasi tentati di dire: rimettetevi la maschera dell’ipocrisia!
In ogni caso, Lubitsch sarebbe stato ben consapevole che una tale e
improvvisa rimozione della maschera è sempre falsa. Nei «rivoluzionari»
anni Sessanta era di moda affermare la perversione rispetto al compromesso
dell’isteria: un pervertito viola direttamente le norme sociali, fa apertamente
ciò che un isterico si limita a sognare o a esprimere ambiguamente nei suoi
sintomi. Ovvero, il pervertito si muove effettivamente al di là del Padrone e
della sua Legge, mentre l’isterico non fa altro che provocare il suo Padrone in
un modo ambiguo che può anche essere letto come la richiesta di un Padrone
più autentico...In contrapposizione a questa lettura, Freud e Lacan hanno
costantemente sottolineato come la perversione, lungi dall’essere sovversiva,
è in realtà il lato nascosto del potere: ogni forma di potere necessita della
perversione come sua trasgressione intrinseca che lo sostiene. Per poter
essere operativo, qualunque edificio ideologico deve essere incoerente: le sue
norme esplicite devono essere supportate da una serie di norme implicite di
livello più alto che ci dicono come dobbiamo comportarci con quelle esplicite
(quando rispettarle e quando violarle). In altre parole, un’ideologia non è fatta
soltanto delle sue norme esplicite; comprende sempre un lato nascosto e
osceno che viola quelle norme esplicite. Tale incoerenza è ciò che la rende
un’ideologia. In ogni caso, quello che sta accadendo oggi non è proprio la
stessa cosa, ma una forma di dissonanza nuova dal punto di vista qualitativo:
una dissonanza ammessa apertamente, e per questa ragione trattata come
irrilevante. La storia del posacenere con cui abbiamo iniziato questo saggio ci
fornisce la matrice per questa nuova forma; pensiamo al dibattito sulla
tortura: la posizione delle autorità americane non suonava forse come «la
tortura è proibita, ed ecco come si fa la simulazione di annegamento»? Il
paradosso è dunque che, oggi, l’inganno è in qualche modo minore rispetto al
funzionamento più tradizionale dell’ideologia: nessuno viene davvero
ingannato.
È proprio quando sembriamo aprirci alle fantasie più sporche della nostra
mente che il punto davvero traumatico rimane represso. In ogni caso, lo stile
indiretto di Lubitsch non è forse a sua volta condizionato dalla censura del
Codice Hays? Adorno da qualche parte ha scritto che un film davvero bello
avrebbe seguito tutte le norme del Codice Hays, anche se non per obbedire
alla legge ma spinto da una necessità immanente; ed è quello che fa Lubitsch,
anche se non del tutto...
Un caso esemplare del funzionamento di queste norme si trova nella
famosa breve scena verso i tre quarti del film Casablanca: Ilsa Lund (Ingrid
Bergman) arriva nella stanza di Rick Blaine (Humphrey Bogart) per cercare
di ottenere le lettere di transito che permetterebbero a lei e a suo marito, il
capo della Resistenza Victor Laszlo, di fuggire da Casablanca in Portogallo e
da lì in America. Dopo essere scoppiata a piangere e aver detto «se tu sapessi
quanto ti amavo, quanto ti amo ancora», i due si baciano in un primo piano
che poi si dissolve in un’immagine, che dura tre secondi e mezzo, della torre
dell’aeroporto di notte, con il suo riflettore, e poi si torna a un’immagine
dall’esterno della finestra della stanza di Rick, in cui lui è in piedi e sta
guardando fuori mentre fuma una sigaretta. Si gira verso la stanza e dice «e
allora?». Lei ricomincia la sua storia... La domanda che subito sorge è,
ovviamente: cos’è successo nel frattempo, durante quella ripresa
dell’aeroporto? Hanno fatto sesso o no? Il film non è semplicemente
ambiguo; al contrario genera due significati molto chiari, anche se si
escludono reciprocamente: l’hanno fatto, non l’hanno fatto. Fornisce una
serie di segnali in codice per dire che l’hanno fatto, e che quella ripresa di tre
secondi e mezzo implica un periodo di tempo più lungo (la visione di una
coppia che si bacia appassionatamente di solito indica l’atto sessuale dopo la
dissolvenza; la sigaretta è anche il classico segnale di rilassamento dopo
l’atto; e c’è la volgare connotazione fallica della torre). In parallelo, un’altra
serie di segnali suggerisce che non l’abbiano fatto, che la ripresa della torre
dell’aeroporto corrisponda al tempo diegetico reale (il letto sullo sfondo è
intatto; la conversazione sembra procedere senza interruzione). Mentre, al
livello superficiale della storia, il film può essere costruito dallo spettatore in
piena obbedienza ai più rigorosi codici morali, esso offre allo stesso tempo, ai
più sofisticati, indizi sufficienti per costruire una narrazione alternativa, e
sessualmente molto più audace. Ecco come funziona l’ideologia nel cinema
classico hollywoodiano: non c’è nulla che venga del tutto represso, tutto può
essere suggerito senza ambiguità ma in modo codificato (se qualcuno afferma
che un ragazzo indossa un profumo, significa che è gay, ecc.).
Nel cinema hollywoodiano successivo, questo gioco della trasgressione
implicita diventa più complicato. Si pensi a quella che è probabilmente la
scena più intensa di Tutti insieme appassionatamente: dopo essere fuggita
dalla famiglia von Trapp e aver fatto ritorno al convento, incapace di
affrontare l’attrazione sessuale che avverte nei confronti del barone, Maria
non trova pace nemmeno qui, perché il suo desiderio non accenna ad
affievolirsi. La madre superiora la chiama a sé e le consiglia di tornare dalla
famiglia von Trapp per cercare di risolvere il suo rapporto con il barone. E lo
dice con una strana canzone intitolata Climb Ev’ry Mountain!, il cui tema,
sorprendentemente, è: Fallo! Corri il rischio di cogliere ciò che il tuo cuore
desidera! Non permettere che considerazioni meschine ti sbarrino la strada!.
Dunque proprio la persona che dovrebbe predicare l’astinenza e la rinuncia si
rivela come l’agente della fedeltà al proprio desiderio. Significativamente,
quando Tutti insieme appassionatamente fu proiettato nella Jugoslavia
(ancora socialista) alla fine degli anni Sessanta, questa scena, i tre minuti di
questa canzone, fu l’unica parte del film ad essere censurata. L’anonimo
censore socialista dimostrò così la sua profonda comprensione del potere più
pericoloso dell’ideologia cattolica: lungi dall’essere la religione del sacrificio,
della rinuncia ai piaceri terreni (in contrapposizione all’affermazione pagana
della vita delle passioni), il cattolicesimo offre un subdolo stratagemma per
cedere ai propri desideri senza doverne pagare il prezzo, per godere della vita
senza la paura del decadimento e della sofferenza debilitante che ci aspetta
alla fine del viaggio. Oggi che casi di pedofilia emergono continuamente
nella Chiesa cattolica, potremmo facilmente immaginare una versione
aggiornata di questa scena: un giovane prete si rivolge al suo superiore,
confessando di essere ancora torturato dal desiderio nei confronti dei
ragazzini e invocando ulteriori castighi; l’abate risponde cantando Climb
Ev’ry Young Boy!
Non è questo, in ogni caso, che fa Lubitsch: la sua «mediatezza», il suo
essere indiretto, non arriva a un tale gioco primitivo, in cui codici precisi
indicano ciò che accade dietro le porte chiuse (l’atto sessuale o qualcosa di
simile). Lubitsch è ben consapevole che una tale tecnica integra in modo
perverso la legge con il suo lato oscuro e osceno: la messa in atto diretta e
perversa del contenuto represso equivale alla repressione più forte, ovvero, è
esattamente quando sembriamo aprirci alle fantasie più perverse della nostra
mente che il punto davvero traumatico rimane represso. Cosa fa allora
Lubitsch?
Anche se non sono un fan di Sex and the City, un aspetto interessante
emerge nell’episodio in cui Miranda si ritrova coinvolta in una relazione con
un ragazzo che ama dire cose sporche durante il sesso, e dal momento che lei
preferisce il silenzio, lui la sollecita a dire qualunque cosa sporca le venga in
mente, senza alcun freno. All’inizio Miranda si rifiuta, ma poi sta al gioco, e
le cose vanno bene, il sesso diventa intenso e appassionato, finché... finché lei
non dice qualcosa che turba seriamente l’amante e lo fa battere in ritirata fino
alla rottura della loro relazione. Nel farfugliare, la donna dice di essersi
accorta che a lui piace, mentre fanno l’amore, spingere il dito di lei nel
proprio sedere. Senza volerlo, è andata a cogliere proprio l’eccezione: sì, di’
tutto quello che vuoi, tira fuori tutte le immagini sporche che ti vengono in
mente, ma non quello. Questo incidente ci insegna una cosa importante:
anche l’universalità del parlare liberamente si basa su alcune eccezioni
diverse dalla brutalità estrema. Il dettaglio proibito è in sé una cosa piccola e
piuttosto innocente, e possiamo solo immaginare perché il ragazzo, rispetto
ad esso, sia stato invece così sensibile; con tutta probabilità, perché
l’esperienza passiva che evoca (la penetrazione anale) turba la sua
identificazione maschile. Il dettaglio lo ha disturbato non semplicemente
perché per lui era troppo, ma perché andava a colpire il suo nocciolo
fantasmatico più profondo che non era in grado di affrontare apertamente, un
sinthom (un nodo che condensa) del suo godimento. Possiamo immaginarci
Miranda che, mentre fanno l’amore, gli chiede cosa vuole che lei gli faccia, e
possiamo essere certi che lui quello, la cosa che desidera di più, non sarebbe
mai in grado di dirlo; è lei che lo deve scoprire, ma senza fargliene parola.
Bisognerebbe anche leggere il fraintendimento occorso fra Miranda e il suo
amante seguendo la formula della sessuazione lacaniana: l’amante intende la
sua richiesta nei termini «mascolini» di un’universalità basata su
un’eccezione (dire cose sporche e dire tutto... tranne quello), mentre Miranda
la intende nei termini «femminili» del non-tutto senza alcuna eccezione (dire
semplicemente quello che ti viene in mente senza preoccuparsi di dire «tutto»
e dunque senza alcuna eccezione). Elena Ferrante ha scritto di recente:
«Persino oggi, dopo un secolo di femminismo, non possiamo essere
pienamente noi stesse». E se proprio l’idea di «essere pienamente sé stessi»
fosse un’idea maschile? 1
Il filosofo tedesco F.W. Schelling ha definito il «perturbante» come
l’apparire, il venire alla luce, di qualcosa che dovrebbe rimanere nascosto. È
questo il modo in cui il perturbante causa l’angoscia, non perché ci mette
davanti al fatto che qualcosa manca, ma perché manca il mancare stesso,
perché otteniamo fin troppo. L’amante di Miranda si sente castrato perché da
lei ottiene troppo, più di quello che ha chiesto davvero; ha chiesto di dare
voce a tutte le oscenità che le venivano in mente, e ciò che ottiene è
l’eccezione su cui si basava tutta la sua universalità. L’uomo sperimenta qui
la castrazione: non è la mancanza ad essere castrante, ma questo «troppo».
Nel film di Lubtisch L’allegro tenente del 1931 (poco prima dell’entrata in
vigore del Codice Hays), questo eccesso osceno viene portato all’estremo. 2 I
primi cinque minuti del film mettono in scena il passaggio dalla
comunicazione indiretta (la modalità fondamentale del tocco alla Lubitsch)
all’eccesso (il suo opposto implicito). Inizia con una breve scena in stile
indiretto: una persona vestita in modo formale sale le scale, si ferma davanti
alla porta di un appartamento, tira fuori dalla sua valigetta un documento (il
conto di un acquisto di vestiti costosi) e suona il campanello; non risponde
nessuno, allora bussa alla porta ma, di nuovo, non risponde nessuno, e
l’uomo se ne va. Subito dopo la sua partenza, una ragazza sale le scale e a sua
volta bussa alla porta, ma questa volta si capisce che il suo modo di bussare
segue un codice stabilito. La porta si apre e la ragazza entra; dopo un
interludio segnalato dallo spegnersi delle luci, esce dalla porta, piena di gioia.
In questo modo indiretto, impariamo tutte le cose essenziali di colui che abita
l’appartamento senza nemmeno vederlo: si tratta di Niki, un ufficiale
dell’esercito imperiale austriaco (come ci informa la targa vicino alla porta),
che ama indossare abiti costosi, si gode la vita, ed è un seduttore seriale. Ma
arriva subito la contro-scena: dopo la partenza della ragazza, ci troviamo
all’interno dell’appartamento e vediamo Niki (interpretato da Maurice
Chevalier) in camicia da notte; altrettanto soddisfatto, sta in piedi, guarda in
faccia noi spettatori e canta una canzone decisamente oscena e imbarazzante
che esalta la vita nell’esercito. La canzone è tutta basata sul parallelismo fra
gli esercizi militari (seguire gli ordini, attaccare, sparare) e il sesso. Descrive
il compito dell’ufficiale come quello dell’«abbattere» le ragazze, e Niki lo
rappresenta con la parola suggestiva ed enfatizzata «ratatatata»; ciò che
accresce l’oscenità del tutto è che la performance di Chevalier viene messa in
scena con il suo accento francese, pieno di parole francesi, che rimandano
all’immagine diffusa nella cultura popolare del francese sofisticato, seduttore
e promiscuo (e del tutto incoerente rispetto al fatto che si presenta come un
ufficiale austriaco). Il parallelismo fra attività militare e sessuale sottolinea
anche il fatto che, nella copula, un uomo sta servendo, facendo un servizio
alla donna, obbedisce ai suoi ordini, che è il motivo per cui, quando, dopo
essersi sposato con la principessa, Niki finge deliberatamente di non cogliere
i suoi inviti sessuali e si rifiuta di esaudirli, dobbiamo leggere questo atto
come un gesto di ribellione, un lavoratore che si rifiuta di obbedire al suo
padrone.
Seguono poi una serie di rovesciamenti comici e, alla fine del film, dopo
che Niki si lascia sedurre dalla principessa, esce di nuovo dalla porta della
camera da letto e si rivolge agli spettatori con la stessa canzone, cambiando
leggermente alcune parole (che elogiano non solo relazioni casuali ma il
sesso coniugale) e concludendola ancora una volta con l’osceno «ratatatata».
«La cosa» (l’atto sessuale) accade di nuovo dietro la porta, così che, a livello
formale, la comunicazione indiretta prevale; ma l’oscenità di quello che
accade davanti alla porta (la canzone con il suo «ratatatata» dello sparare – ed
eiaculare – su una donna) è in un certo senso più «sporca» di una descrizione
diretta di quello che accade dietro quella porta chiusa. Tornando a Miranda di
Sex and the City: «ratatatata» riveste esattamente lo stesso ruolo del «mettere
il dito nell’ano», quello di un dettaglio che sarebbe dovuto restare taciuto,
nascosto. L’oscenità diretta di questo episodio del «ratatatata» indica che
L’allegro tenente è stato girato prima del Codice Hays, e anche prima che
Lubitsch mettesse a punto il suo «tocco»; nel Lubitsch maturo, una simile
oscenità diretta è impossibile. Nell’Allegro tenente (1931) (e, come vedremo,
nell’Uomo che ho ucciso, 1932) ci sono degli elementi di Lubitsch, ma
isolati, allo stato grezzo, «senza tocco».

Contro il sesso contrattuale


Per questo motivo Lubitsch sarebbe inorridito davanti all’idea dei contratti
sessuali che stanno proliferando all’indomani del movimento MeToo, dagli
Stati Uniti al Regno Unito fino alla Svezia. L’obiettivo dichiarato è,
ovviamente, palese: escludere elementi di violenza e dominio nel contatto
sessuale. L’idea è che, prima di fare sesso, entrambi i partner debbano
firmare un documento che afferma la loro identità, il loro consenso a
impegnarsi nell’atto sessuale, così come le condizioni e i limiti della loro
attività (uso del preservativo, di linguaggio sporco, il diritto inviolabile di
ciascun partner di fare un passo indietro e interrompere l’atto in qualunque
momento, di informare il partner di eventuali problemi di salute, questioni
religiose, ecc.). Suona bene, ma pone subito tutta una serie di problemi e
ambiguità.
Iniziamo dalle basi. In Occidente, almeno, stiamo diventando tutti sempre
più consapevoli della portata di coercizione e sfruttamento presente nelle
relazioni sessuali. In ogni caso, dovremmo anche tenere a mente il fatto non
meno diffuso che ogni giorno milioni di persone giocano al gioco della
seduzione, con l’evidente scopo di attrarre un partner con cui fare l’amore. Il
risultato, nella moderna cultura occidentale, è che ci si aspetta che entrambi i
sessi rivestano in questo gioco un ruolo attivo. Quando le donne si vestono in
modo provocatorio per attirare gli sguardi maschili, quando si «rendono
oggetti» loro stesse per sedurli, non lo fanno offrendosi come oggetti passivi:
sono l’agente attivo della loro stessa «reificazione», manipolano gli uomini,
fanno giochi ambigui, compreso il diritto di uscire in qualunque momento dal
gioco anche se, all’uomo, questo può apparire contraddittorio rispetto ai
«segnali» precedenti. Questo ruolo attivo delle donne è la loro libertà, che
preoccupa così tanto i vari fondamentalisti, da quelli musulmani, che hanno
proibito recentemente alle donne di toccare e giocare con le banane e altri
frutti che possono ricordare il pene, ai nostri sciovinisti tradizionali, che
hanno esplosioni di violenza contro la donna che prima li «provoca» e poi li
rifiuta. La liberazione sessuale femminile non è solo il rifiuto puritano di
essere «reificate» (come oggetti sessuali per gli uomini), ma il diritto di agire
attivamente con l’auto-reificazione, offrendosi e sottraendosi in base alla
propria volontà. Sarà ancora possibile affermare questi semplici fatti, o la
pressione del politicamente corretto ci spingerà a supportare questi giochi con
un qualche tipo di dichiarazione di consensualità formale-legale?
Sì, il sesso è attraversato da giochi di potere, da oscenità violente, ma la
cosa difficile da ammettere è che essi ne sono parte implicita. Il problema è
che la sessualità, il potere e la violenza sono molto più profondamente legati
di quanto non pensiamo, così che gli elementi di quella che può essere
considerata brutalità possono anche essere sessualizzati, ovvero diventare
oggetto di un investimento libidico; dopo tutto, il sadismo e il masochismo
sono forme dell’attività sessuale. La sessualità depurata dalla violenza e dai
giochi di potere può facilmente finire desessualizzata. Alcuni osservatori
particolarmente attenti hanno già notato come l’unica forma di relazione
sessuale che risponde pienamente ai criteri del politicamente corretto sarebbe
un contratto firmato da partner sadomasochisti. L’emergere del politicamente
corretto e della violenza sono le due facce della stessa medaglia: se la
premessa di base del politicamente corretto è la riduzione della sessualità a un
reciproco consenso basato su un contratto, aveva ragione Jean-Claude Milner
a suggerire che il movimento per i diritti degli omosessuali raggiunge
inevitabilmente il suo apice nei contratti che regolano forme estreme di sesso
sadomasochistico (trattare una persona come un cane al collare, traffico di
schiavi, tortura, fino all’omicidio consensuale). In tali forme di schiavitù
consensuali, la libertà di mercato di un contratto nega sé stessa: il traffico di
schiavi diventa l’affermazione definitiva della libertà. È come se il titolo
«Kant con Sade» diventasse realtà in modo del tutto inatteso.
Dunque, come combattere questa tendenza? Il primo compito è quello di
assicurarsi che l’attuale rinascita della battaglia femminista non rimanga
limitata alla vita pubblica delle persone ricche e famose, ma possa invece
avere un effetto a cascata e penetrare nella vita quotidiana di milioni di
individui qualunque e «invisibili». E l’ultimo (ma non per importanza)
aspetto è capire come collegare questa rinascita alle attuali battaglie politiche
ed economiche, come impedire che di essa si impossessino sia l’ideologia sia
la prassi dell’Occidente liberale, semplicemente come l’ennesimo modo per
riaffermare la propria supremazia. Ricordiamoci che molti degli accusati, a
partire da Harvey Weinstein, hanno reagito dichiarando pubblicamente che si
sarebbero fatti aiutare dalla terapia; gesto disgustoso come pochi altri! Le
loro azioni non erano esempi di una patologia tutta personale, erano
espressione dell’ideologia maschile predominante e delle sue strutture di
potere, e sono queste che devono essere cambiate.
Quasi nello stesso momento in cui sono cominciati a emergere gli scandali
legati a Harvey Weinstein, sono stati pubblicati i cosiddetti Paradise Papers,
ed è inevitabile interrogarsi sul perché nessuno abbia invitato a smettere di
ascoltare la musica di Bono (il grande sostenitore delle cause umanitarie,
sempre pronto ad aiutare i poveri in Africa) o di Shakira per il modo in cui
hanno evitato di pagare le tasse truffando così le autorità pubbliche di enormi
quantità di denaro, o suggerito che la famiglia reale inglese debba ricevere
meno soldi pubblici dal momento che ha parcheggiato parte della sua
ricchezza in paradisi fiscali, mentre il fatto che Louis CK abbia mostrato il
pene ad alcune donne gli ha immediatamente rovinato la carriera. Non si
tratta forse di una versione del vecchio motto brechtiano «Cos’è derubare una
banca rispetto al fondarne una?». Truffe di enormi quantità di denaro sono
tollerabili, mentre mostrare il pene ad alcune donne ti rende all’istante un
emarginato? 3 È per questo che i contratti non funzioneranno mai. I contratti
sessuali dovrebbero essere legalmente vincolanti o no? Se no, cosa impedisce
a un uomo violento semplicemente di firmarne uno e poi non rispettarlo?
Se sì, possiamo anche solo immaginare l’incubo legale che la sua
violazione potrebbe comportare? Il che non significa che dobbiamo
appoggiare la lettera firmata da Catherine Deneuve e da altre che critica gli
«eccessi» del «puritanesimo» del MeToo e difende le forme tradizionali di
galanteria e seduzione. Il problema non è che il MeToo stia andando troppo
in là, a volte avvicinandosi a una sorta di caccia alle streghe, e che sia
necessaria un po’ più di moderazione e comprensione, ma il modo in cui il
MeToo affronta il problema. Nel minimizzare la complessità dell’interazione
sessuale, non solo sfuma il confine fra un atteggiamento sbagliato e lascivo e
la violenza criminale, ma nasconde anche forme invisibili di estrema violenza
psicologica dietro un’immagine di gentilezza e rispetto.
Lo scandalo di Rotherham (bande giovanili pakistane che terrorizzavano e
violentavano in serie centinaia di ragazze bianche provenienti dalle aree più
povere) si sta replicando adesso a Telford e in altre città britanniche. La
sinistra sta di nuovo dimostrando la sua incapacità di confrontarsi
apertamente con il problema in modo non-razzista; preferisce minimizzare o
relativizzare per non cadere nell’islamofobia. Evidentemente, non ha ancora
capito che, ogni volta che troviamo delle scuse per non affrontare questo
argomento, portiamo nuovi voti alla Alt-Right, la cosiddetta «destra
alternativa». E dove sono qui le femministe del MeToo? A volte sembra che
si preoccupino di più di un paio di donne benestanti sconvolte dalla vista del
pene di Louis CK che di centinaia di ragazze povere violentate brutalmente.
Inoltre, la scena descritta a più riprese dalle sostenitrici del MeToo è quella
di un uomo predatore che minaccia di violentare una donna (o quanto meno
la costringe a fare sesso), ma che dire della maggioranza delle donne che
(come gli uomini) desiderano fare sesso ma vengono ignorate in quanto poco
attraenti? Possiamo immaginare la loro sofferenza, specialmente nei nostri
tempi di politicamente corretto, quando una «bella donna» viene considerata
sempre di più un’espressione da maschi predatori che reifica le donne (e,
ovviamente, la percezione che alcune donne siano belle e attraenti permane
ancora più forte al livello del non detto...)?
Nel rispondere a coloro che hanno insistito sulla differenza tra Weinstein e
Louis CK, le attiviste del MeToo hanno affermato che chi dice questo non ha
idea di come funzioni la violenza maschile e di come venga fatta esperienza
di essa, e che la masturbazione davanti alle donne può essere non meno
violenta nei suoi effetti della forza fisica maschile. Anche se c’è un elemento
di verità in queste affermazioni, non di meno dovremmo tracciare un limite
ben chiaro nella logica che sostiene queste argomentazioni: ciò che uno sente
non può essere la misura definitiva dell’autenticità, poiché i sentimenti
possono anche mentire; se neghiamo questo, semplicemente neghiamo
l’inconscio freudiano. (Fra parentesi, questo riferimento ai sentimenti come
massimo criterio dell’autenticità riproduce fedelmente il vecchio pregiudizio
anti-femminista, elaborato, fra gli altri, da Descartes e da alcuni dei primi
razionalisti, sulle donne come esseri totalmente determinati dalle loro
emozioni, dalle quali non riescono a emanciparsi attraverso la riflessione). In
un dominio patriarcale davvero efficace, una donna non fa nemmeno
esperienza del suo ruolo di vittima umiliata e sfruttata; accetta semplicemente
la sua sottomissione come parte dell’ordine delle cose.
La risposta più ovvia, che arriva dalla cultura popolare, alla tesi sull’attuale
oppressione e dominazione maschile sulle donne, è il mega-bestseller di E.L.
James Cinquanta sfumature di grigio, romanzo scritto da una donna su una
donna che gode della sua sottomissione sessuale nei confronti di un uomo che
è (così ci dicono i media) estremamente letto dalle donne. Nel rispondere a
questo aspetto critico bisognerebbe, ovviamente, evitare ad ogni costo delle
rapide contro-affermazioni pseudo-psicoanalitiche del tipo di «il romanzo
della James evidenzia come anche le donne che sembrano richiedere
un’emancipazione rispetto al potere maschile sono in realtà alla mercé del
profondo desiderio masochistico inconscio di essere dominate dagli uomini».
L’affermazione femminista secondo la quale le donne che si abbandonano a
fantasie masochiste sono un caso di identificazione con il nemico e di
interiorizzazione del punto di vista patriarcale non se la passa meglio. La
prima cosa da fare è guardare più da vicino a ciò che fa Cinquanta sfumature
di grigio: non implica il godere di una reale subordinazione ma piuttosto il
godere di una fantasia di subordinazione, che è una cosa del tutto diversa e
non dovrebbe certamente essere interpretata come la richiesta di una vera
subordinazione. Una delle lezioni fondamentali della psicoanalisi è che,
quando le nostre fantasie più profonde ci vengono imposte dall’esterno,
l’esperienza è assolutamente devastante; per dirla senza giri di parole, quando
una donna che sogna segretamente di essere maltrattata durante il sesso viene
effettivamente violentata, l’effetto è molto più terribile che nel caso di uno
stupro che non evoca tali fantasie.
Un’ulteriore osservazione da fare (e che è stata ampiamente sviluppata da
Deleuze) è che non c’è simmetria tra masochismo e sadismo: mentre un
sadico maltratta brutalmente la sua vittima per umiliarla, il masochismo si
basa su un contratto che definisce esattamente i termini dello scambio,
compresi i limiti della violenza (che di solito viene messa in scena
teatralmente). Non è forse quello che accade in Cinquanta sfumature di
grigio? Il due partner stipulano un contratto dal quale possono uscire in
qualunque momento. Inoltre, la violenza che viene agita è molto gentile, del
tutto imparagonabile al vero supplizio delle donne terrorizzate dai loro
partner. (C’è, ovviamente, un altro tipo di masochismo femminile reale, ma
decisamente non è quello di cui tratta Cinquanta sfumature di grigio). In un
certo senso, si potrebbe persino dire che tale contratto masochistico presenta
un caso di legittimazione del potere femminile: è la donna che colloca l’uomo
nel ruolo teatrale di suo Padrone e definisce i termini del loro scambio.
Questo è ciò che intendeva Lacan quando rispondeva alla domanda di Freud
«Cosa vuole una donna?»: un padrone, ma un padrone che lei può dominare e
manipolare.
La forma canonica del contratto masochista, pensiamo alla Venere in
pelliccia di Sacher-Masoch, vede il partner maschile nella posizione della
«vittima» che colloca da contratto la donna nel ruolo di sua Domina e la
istruisce con grande precisione su quello che gli deve fare (frustarlo,
calpestarlo, umiliarlo con parole volgari, ecc.). Se dobbiamo credere a quello
che ci dicono i mezzi di comunicazione, tali contratti sono molto diffusi fra i
manager di successo, che integrano il loro esercizio spietato dell’autorità
amministrativa mettendo in scena delle fantasie masochiste, cosa che non
diminuisce in alcun modo il loro concreto potere sociale, ma funziona solo
come sua integrazione oscena. Il fatto che, in Cinquanta sfumature di grigio,
sia una donna (non solo l’eroina del romanzo ma anche la scrittrice e un vasto
pubblico di lettrici) ad assumere questo ruolo non è forse un segno rovesciato
del declino del patriarcato? Una delle definizioni di Padrone è esattamente
«colui che ha il diritto di mettere in atto le sue fantasie».
Ma la violenza entra nel campo della sessualità anche a un livello più
elementare. Quando qualcuno, in modo del tutto inatteso, ci dichiara il suo
amore appassionato, la nostra prima reazione, che precede la possibile
risposta positiva, non è forse quella di sentire che ci viene imposto qualcosa
di osceno e invadente? A metà del film di Alejandro Iñárritu 21 grammi,
Paul, che sta morendo a causa di una cardiopatia, dichiara teneramente il suo
amore a Cristina, traumatizzata dalla recente morte del marito e dei due figli
piccoli, che rapidamente si allontana. Quando si incontrano la volta dopo,
Cristina esplode lamentandosi della natura violenta delle dichiarazioni
d’amore:
Lo sai, mi hai fatto pensare tutto il giorno. Non ho parlato con nessuno per mesi e ti
conosco appena e ho già bisogno di parlare con te [...] E c’è qualcosa a cui più
penso meno capisco: come diavolo ti sei permesso di dirmi che ti piaccio? [...]
Rispondimi, perché non mi è piaciuto per niente che tu l’abbia fatto [...] Non puoi
semplicemente incontrare una donna che conosci a malapena e dirle che ti piace.
Non puoi! Non sai cosa sta passando, cosa sta vivendo [...] Non sono sposata, sai.
Non sono niente al mondo. Semplicemente non sono niente. 4

Subito dopo, Cristina guarda Paul, solleva una mano e inizia


disperatamente a baciarlo sulla bocca; dunque non è che a lei lui non piacesse
o non lo desiderasse; il problema per lei era, al contrario, che lo voleva,
ovvero, il punto del suo rammarico era: che diritto ha lui di muovere il mio
desiderio? Dunque, di nuovo, anche quando il contatto sessuale è desiderato
da entrambe le parti, ci può essere un elemento di violenza nel farlo iniziare,
la violenza, esattamente, di iniziarlo in modo diretto. La ragione,
semplicemente, è che il desiderio sessuale non aderisce mai all’immagine del
proprio sé, viene sperimentato sempre come una violenta intrusione. Qui non
esiste contratto che possa aiutare; chiedere un contratto può essere in sé una
forma di violenza (che, in circostanze speciali, può a sua volta diventare parte
di un gioco sessuale masochista). E questo è ciò che complica qualunque
tentativo diretto di regolare le cose. Quando i commentatori cercano di
riassumere i risultati dell’attuale nuova ondata di mobilitazione per
l’emancipazione delle donne, una delle conclusioni è che «no significa no»
non è sufficiente per avere una «vita sessuale felice», dal momento che lascia
aperta la strada per forme di coercizione più sottili; ecco un caso esemplare di
questa modalità di argomentazione:
Assillare qualcuno fino a una sottomissione nauseata può tecnicamente rientrare
nella legalità, ma non è la strada per una vita sessuale felice e potrebbe non
proteggere più un uomo dalla riprovazione pubblica. Ciò che i giovani uomini
dovrebbero cercare, suggerisce Tillman, non è l’assenza potenzialmente ambigua di
un «no», ma la presenza entusiastica di un «sì, sì, sì» o un consenso chiaro. «Nel
2018 ‘no significa no’ è del tutto antiquato. Mette tutta la pressione sulla persona
nella posizione più vulnerabile, e se qualcuno non ha la capacità o la sicurezza per
parlare apertamente allora sarà destinato a subire una violenza» afferma. «Se non
c’è un sì entusiasta, se c’è dell’esitazione, se c’è un qualcosa del tipo ‘mah, non so’
– in questo momento storico significa no». 5

Non si può che essere d’accordo con tutti i passaggi di questo brano: come
un «sì» detto sotto pressione equivalga a un «no» eccetera. Ciò che è
problematico è «la presenza entusiastica di un ‘sì, sì, sì’»; è facile
immaginare in quale umiliante posizione questa condizione possa mettere una
donna che, per dirla senza giri di parole (e perché no?), vuole con tutta sé
stessa fare sesso con un uomo; in pratica, deve dire qualcosa che equivale ad
affermare pubblicamente «ti prego, scopami!»... E non ci sono forse modi più
sottili (ma non di meno chiari, senza ambiguità) per fare la stessa cosa?
Inoltre, se si cerca la strada per «una vita sessuale felice», la si cerca invano
per la semplice ragione che non esiste: nel sesso le cose, per ragioni
immanenti, vanno sempre male, e l’unica possibilità di «una vita sessuale
[relativamente] felice» è quella di trovare un modo perché questi fallimenti
operino contro loro stessi. Cercare direttamente «la strada per una vita
sessuale felice» è il modo più sicuro per rovinare le cose, e la scena
immaginaria dei due partner che esclamano entusiasticamente «sì, sì, sì»,
nella vita reale, è quanto di più simile all’inferno.
Le cose si fanno ancora più complesse con il diritto di ritirarsi
dall’interazione sessuale in qualunque momento; si dice raramente quanto
questo diritto apra la strada a nuove modalità di violenza. E se la donna, dopo
aver visto il suo partner nudo con il pene in erezione, cominciasse a prenderlo
in giro e a dirgli di andarsene? E se l’uomo facesse la stessa cosa con lei? È
possibile immaginare una situazione più umiliante? Il caso estremo della
violenza di un tale tirarsi indietro è la dolorosa scena di Cuore selvaggio di
David Lynch in cui Bobby Peru (interpretato da Willem Dafoe) si impone
con violenza a Lula (Laura Dern), intrufolandosi nel suo spazio e
sussurrandole e poi gridando in modo osceno: «Di’ scopami!». Quando, dopo
una pressione estenuata e dolorosa lei esausta pronuncia in maniera appena
percettibile «Scopami!» (nell’ambiguità in cui la coercizione è
inestricabilmente legata a un’eccitazione interiore), lui si allontana e le dice
con un sorriso: «No grazie, non ho tempo oggi, devo andare! Ma se
ricapitasse l’occasione lo farei volentieri». L’effetto è così umiliante su di lei
che, in un certo senso, la violenza simbolica del suo ritirarsi, del rifiuto di
un’offerta che è stata estorta a forza, è peggio che se l’avesse invece accettata
e l’avesse poi davvero scopata. Chiaramente, si può trovare un modo
appropriato per risolvere una tale impasse con le buone maniere e la
sensibilità, cosa che per definizione non può essere stabilita dalla legge. Se si
vuole impedire la violenza e la brutalità aggiungendo nuove clausole al
contratto, si perde di vista la caratteristica centrale dello scambio sessuale,
che è esattamente un delicato equilibrio fra ciò che viene detto e ciò che viene
taciuto. Lo scambio sessuale è pieno di queste eccezioni, in cui una
comprensione silenziosa e il tatto sono l’unico modo di procedere quando si
vogliono fare le cose ma non si vogliono dire esplicitamente, quando la
brutalità emotiva estrema può essere agita sotto forma di gentilezza e quando
la stessa violenza moderata può diventare sessualizzata. Se percorriamo
questa strada fino in fondo, dobbiamo concludere che persino un entusiastico
«sì, sì, sì» può effettivamente mascherare la violenza e il dominio. Monica
Lewinsky di recente ha affermato di
confermare le sue affermazioni del 2014 secondo le quali la loro relazione era
consensuale, ma riflette sugli «ampi differenziali di potere» che esistevano fra i
due. La signora Lewinsky ha affermato che all’epoca «aveva una comprensione
limitata delle conseguenze» e si rammarica quotidianamente per l’accaduto. «La
definizione che dà il dizionario di ‘consenso’? Dare il permesso che qualcosa
accada», ha scritto. «Eppure cosa significava questo ‘qualcosa’ in questo caso, date
le dinamiche di potere, la sua posizione, e la mia età? [...] Era il mio capo. Era
l’uomo più potente del pianeta. Aveva 27 anni più di me, con un’esperienza della
vita ampia abbastanza per sapere meglio di me cosa significava». 6
È vero, ma lei non ha solo dato il consenso, ha preso l’iniziativa del
contatto sessuale, ed era Clinton che aveva «acconsentito» e gli «ampi
differenziali di potere» avevano probabilmente un ruolo centrale nella sua
attrazione verso di lui. E quando afferma che, visto che lui era un uomo più
adulto e con un’esperienza della vita maggiore, avrebbe dovuto «sapere
meglio» di lei e respingere le sue avance, non c’è forse qualcosa di ipocrita in
questo attribuirsi il ruolo di vittima innocente? Non ci troviamo forse qui
davanti all’esatto opposto, forse simmetrico, della prospettiva dei
fondamentalisti islamici che ritengono che un uomo che violenta una donna è
stato segretamente sedotto (provocato) da lei. Tale lettura della violenza
maschile come risultato della provocazione femminile viene spesso riportata
dai media. Nell’autunno del 2006, Sheik Taj Din al-Hilali, una delle figure
religiose più importanti in Australia, ha provocato uno scandalo quando, in
seguito alla carcerazione di un gruppo di musulmani accusati di stupro di
gruppo, ha commentato: «Se prendi della carne e la metti fuori, per strada,
senza prima coprirla, [...] e i gatti vanno lì e se la mangiano [...] di chi è poi la
colpa, dei gatti o della carne scoperta? Il problema è la carne che non viene
coperta». La natura scandalosa del paragone tra la donna non velata e la carne
cruda e non coperta ha distratto da un altro assunto, molto più sorprendente,
che sottolinea il pensiero di al-Hilali: se le donne vengono ritenute
responsabili della condotta sessuale degli uomini, ciò implica allora che gli
uomini siano completamente indifesi se messi di fronte a quelle che
percepiscono come provocazioni sessuali; che proprio non sappiano
resistervi; che siano, insomma, totalmente asserviti ai propri appetiti sessuali.
Diversamente da questa concezione della totale mancanza di responsabilità
dei maschi riguardo alla propria condotta sessuale, l’enfasi sull’erotismo
femminile in Occidente poggia sulla premessa che gli uomini sanno
contenere i propri istinti, che non sono schiavi accecati dalle pulsioni
sessuali.
Questo addossare completamente alla donna la responsabilità dell’atto
sessuale ricorda stranamente la prospettiva della Lewinsky secondo la quale,
nonostante l’iniziativa fosse stata del tutto sua, la responsabilità era
interamente di Clinton. Nello stesso modo in cui, dal punto di vista dei
fondamentalisti musulmani, gli uomini sono vittime innocenti della perfida
seduzione femminile anche quando commettono uno stupro, nel caso della
Lewinsky, la donna è stata una vittima anche se è stata lei a dare inizio
all’affaire. La simmetria fra i due casi è fallace, ovviamente, dal momento
che in entrambi i casi sono gli uomini a essere nella posizione reale di
dominio sociale e politico. In ogni caso, giocare la carta della vittima inerte in
un caso come quello della Lewinsky è uno spettacolo di autoumiliazione che
non aiuta in nessun modo l’emancipazione femminile, e non fa altro che
confermare l’uomo come padrone.
Coloro che ammettono l’esistenza delle cosiddette «zone grigie» (fra i due
estremi dello scambio sessuale, quello reciprocamente desiderato e quello
imposto con un’evidente violenza) di solito perdono la loro posizione
sfumata all’interno dell’interazione sessuale stessa. Soprattutto oggi, nei
nostri tempi politicamente corretti, un processo di seduzione comporta
sempre la mossa rischiosa del «fare il primo passo»; in questo momento
potenzialmente pericoloso ci si espone, si entra nello spazio intimo di un’altra
persona. Il pericolo sta nel fatto che, se il mio passo viene respinto, sembrerà
un atto di molestia politicamente scorretto; dunque c’è un ostacolo da
superare. Qui, in ogni caso, entra in scena una sottile asimmetria: se il mio
passo viene invece accettato, non significa che ho superato con successo
l’ostacolo: il fatto è che, retroattivamente, scopro che quell’ostacolo non c’è
mai stato.
Bisognerebbe inoltre tenere a mente che il dominio patriarcale corrompe
entrambi i poli, o, per citare Arthur Koestler: «Se il potere corrompe, è vero
anche il contrario; la persecuzione corrompe le vittime, sebbene forse in modi
più sottili e tragici». Di conseguenza, bisognerebbe parlare anche della
manipolazione da parte delle donne e della loro brutalità emotiva (in fin dei
conti come risposta disperata al dominio maschile): le donne contrattaccano
in ogni modo possibile. E bisognerebbe anche ammettere che, in molte parti
della nostra società in cui il patriarcato tradizionale è stato ampiamente
indebolito, gli uomini sono comunque sotto pressione, così che la giusta
strategia sarebbe quella di affrontare anche le angosce maschili e lottare per
un patto fra il movimento delle donne per l’emancipazione e le
preoccupazioni maschili. La violenza maschile sulle donne è in larga parte
una reazione di panico al fatto che l’autorità maschile tradizionale si è
indebolita, e parte della battaglia per l’emancipazione dovrebbe essere quella
di dimostrare agli uomini in che modo l’accettare le donne emancipate li
solleva dalle loro angosce e permette loro di vivere vite più soddisfacenti.
In un recente scambio polemico, alcune femministe hanno reagito alle
osservazioni critiche fatte da Germaine Greer al movimento MeToo; 7 la loro
tesi era che, se la posizione della Greer – che le donne si dovessero liberare
sessualmente dal dominio maschile e assumere in prima persona una vita
sessuale attiva senza alcun ricorso alla vittimizzazione – era valida negli anni
del movimento della liberazione sessuale, oggi le cose sono diverse. Ciò che
è accaduto nel frattempo è che l’emancipazione sessuale delle donne (il loro
coinvolgimento nella vita sociale in quanto esseri sessuali attivi, con la piena
libertà di prendere l’iniziativa) è stata essa stessa mercificata: sì, le donne non
vengono più percepite come oggetti passivi del desiderio maschile, ma la loro
sessualità attiva in sé adesso appare agli occhi degli uomini come se fossero
sempre disponibili, sempre pronte a impegnarsi in uno scambio sessuale. In
queste nuove circostanze, dire chiaramente «NO!» non è una semplice
autovittimizzazione, dal momento che implica il rifiuto di questa nuova
forma di soggettivazione sessuale delle donne, della richiesta che le donne
non solo si sottomettano passivamente alla dominazione sessuale maschile
ma che si comportino come se la volessero attivamente.
Se in questa linea di pensiero c’è un forte elemento di verità, dovremmo
comunque aggiungere almeno due osservazioni. Non dobbiamo mai
dimenticare che questa falsa soggettivazione viene sostenuta da una pressione
interiorizzata del Super-io, così che il primo passo che le donne dovrebbero
compiere è quello di liberarsi da questa pressione; come scriveva Marcuse
negli anni Sessanta, la libertà è una condizione di liberazione: per liberare te
stesso, devi prima spezzare le catene interiori dell’ideologia. Secondo, c’è
ancora una grande differenza fra il mostrare una sessualità attiva per
compiacere il desiderio maschile e agire effettivamente come agenti sessuali
autonomi; quest’ultimo non piace ai possibili partner maschili e tende a
sollecitare la loro ansia.
Così torniamo al sesso contrattuale: ciò che lo rende problematico non è
solo la sua forma legale ma anche la sua parzialità nascosta. Ovviamente
privilegia il sesso occasionale, in cui i partner ancora non si conoscono e
vogliono evitare fraintendimenti sulla loro unica notte d’amore. Dobbiamo
indirizzare la nostra attenzione anche verso quella relazione duratura
permeata da forme di violenza e di dominio in modi molto più sottili dello
spettacolare sesso obbligato in stile Weinstein. Per parafrasare di nuovo
Brecht, cos’è il destino di una stella del cinema che, per garantirsi una
carriera, una volta ha fatto sesso sotto ricatto (o è stata direttamente stuprata),
rispetto a una povera casalinga che da anni viene terrorizzata e umiliata dal
marito?
In fin dei conti, non ci sono leggi o contratti che possano aiutare in un caso
come questo, solo una rivoluzione nei costumi; e questo ci riporta alla
procedura fondamentale di Lubitsch, il suo famoso stile indiretto, il suo
palese rifiuto di ritrarre la cosa in sé, che fosse sesso o violenza. È una
tecnica potente: alla fine, significa che la coppia durante il sesso non è mai da
sola, che è sempre implicato un terzo elemento, anche se è solo lo sguardo
immaginario di un testimone. L’esempio più chiaro lo troviamo nel suo
Un’ora d’amore (1932), in cui una donna e un uomo, Mitzi e Andre,
entrambi sposati, si ritrovano casualmente sullo stesso taxi. La loro tresca
prende avvio dal fatto che, a un osservatore immaginario, i due sembrano
amanti, anche se sono solo seduti nello spazio ristretto di una macchina.
Mitzi dice: «Guardaci, lui legge un giornale, lei guarda dal finestrino...
ahahah...». Poi aggiunge in tono più serio: «Prova a spiegarlo a tua moglie!».
Andre non può resistere al potere dell’apparenza; anche se chiaramente è
innamorato di sua moglie, il modo in cui questa scena appare è incriminante e
i suoi effetti non possono essere cancellati. Mitzi qui non sta facendo
riferimento a un’istanza fisicamente presente, nel senso che «se qualcuno ci
vedesse in questo momento, concluderebbe automaticamente che si tratta di
una relazione d’amore». L’istanza che ha in mente è molto più complessa ed
evoca il concetto affrontato fra gli altri da Robert Pfaller: quello di un
osservatore ingenuo che non giudica la situazione a partire dalle vere
intenzioni del soggetto ma esclusivamente in base a come le cose appaiono. 8
Il tema di una fantasticheria decentrata che sostiene un rapporto sessuale
prende una strana piega nel film di Lubitsch L’uomo che ho ucciso (1932),
che viene spesso liquidato come un fallimento, ma che fa emergere questa
caratteristica isolata dal contesto del Lubitsch più maturo; privo di tocco, per
così dire, in ogni modo non ancora parte del tocco alla Lubitsch. Ecco il
riassunto della trama. Tormentato dal ricordo di Walter Holderlin (!), un
soldato che ha ucciso durante la Prima guerra mondiale, il musicista francese
Paul Renard si reca in Germania per trovare la famiglia di Holderlin, usando
come guida l’indirizzo di una lettera trovata sul corpo dell’uomo. Il signor
Holderlin inizialmente si rifiuta di accogliere Paul in casa sua, ma cambia
idea quando la fidanzata di suo figlio, Elsa, lo riconosce come l’uomo che
aveva lasciato dei fiori sulla tomba di Walter. Invece di rivelare il loro vero
legame, Paul racconta agli Holderlin che era un amico di Walter dai tempi del
conservatorio. Nonostante l’ostilità e la disapprovazione dei compaesani, gli
Holderlin prendono in simpatia Paul, il quale si innamora di Elsa; dopo aver
tergiversato per un po’, le racconta la verità sulla morte di Walter. Lei lo
convince a non dire nulla ai genitori di Walter, che lo hanno accolto come un
figlio, e Paul rinuncia a togliersi il peso dalla coscienza per restare con la
famiglia adottiva. Il signor Holderlin gli regala il violino di Walter e, nella
scena finale del film, Paul suona accompagnato da Elsa al pianoforte, sotto lo
sguardo amorevole dei genitori. C’è qualcosa di disturbante in questo film,
una strana oscillazione fra melodramma poetico e osceno umorismo. La
coppia (la giovane donna e l’assassino del suo precedente fidanzato) sono
felici insieme, sotto lo sguardo protettivo dei genitori del fidanzato morto; è
questo sguardo che fornisce la cornice fantastica alla loro relazione, e l’ovvia
domanda è: si comportano davvero come amanti solo per amore dei genitori,
o questo sguardo è una scusa per fare sesso? Si tratta, ovviamente, di una
falsa domanda, perché non importa quale delle due alternative sia vera: anche
se lo sguardo dei genitori fosse solo una scusa per fare sesso, è comunque una
scusa necessaria.
A volte, la vita reale incontra Lubitsch, prendendo le sue trame in modo
tale da spingere le cose un po’ più in là. La situazione di base del suo
Scrivimi fermo posta (1940) è accaduta nella vita reale a Sarajevo (fra tutti i
posti possibili) a metà degli anni Novanta, subito dopo l’assedio della città.
Una giovane coppia di sposi era in crisi, ognuno si era stancato dell’altro,
dunque per dare nuova energia alla rispettiva vita emotiva cominciarono
entrambi a intrattenere delle intense relazioni via e-mail con due sconosciuti,
confidandosi i sogni, eccetera. Dal momento che, in entrambi i casi,
sembrava che avessero trovato il partner ideale, decisero di incontrarsi di
persona. Quando l’incontro avvenne, in un bar, rimasero sbalorditi scoprendo
che avevano flirtato tra di loro per tutto il tempo. E quale fu il risultato di
questa coincidenza? Li portò a scoprire la profonda armonia dei loro sogni
facendoli così rimanere insieme in una comprensione più profonda? Credo
che Lubitsch sarebbe stato propenso a vedere in una tale vicinanza di sogni
un cattivo presagio, e avrebbe immaginato che sarebbero fuggiti l’uno
dall’altra in preda all’orrore...
E, di nuovo, questa comunicazione indiretta è all’opera a ogni livello;
penso che Lubitsch non si sarebbe sorpreso di scoprire che la posizione
sessuale paradigmatica del cinema a luci rosse (e la sua ripresa) è quella di
una donna sdraiata sulla schiena con le gambe aperte all’indietro e le
ginocchia sopra le spalle; la camera è di fronte, e mostra il pene che penetra
la vagina (di solito la faccia dell’uomo è invisibile, è ridotto a uno
strumento), ma quello che vediamo sullo sfondo, fra le cosce, è la faccia della
donna in preda alla gioia dell’orgasmo. Questa minima «riflessività» è
fondamentale: se vedessimo soltanto il primo piano della penetrazione la
scena diventerebbe presto noiosa, perfino disgustosa, più una sorta di
dimostrazione medica; bisogna aggiungere lo sguardo rapito della donna, la
reazione soggettiva rispetto a quello che sta accadendo. Inoltre, questo
sguardo non è diretto al suo partner, ma a noi, gli spettatori, dandoci
conferma del suo piacere; noi spettatori incarniamo chiaramente il ruolo del
grande Altro che deve registrare il godimento della donna. Il culmine della
scena dunque non è la soddisfazione maschile (del suo partner sessuale o
dello spettatore); lo spettatore è ridotto a puro sguardo: è la gratificazione
sensuale della donna (messa in scena per lo sguardo maschile, ovviamente).
L’ironia qui sta proprio nel fatto che nel momento in cui la donna non viene
«reificata» ma resa soggetto la sua umiliazione è ancora peggiore. Questa
elementare scena da cinema a luci rosse rende perfettamente la riflessività
minima che attraversa dall’interno qualunque immediato Uno orgasmico.
E questo è il motivo per cui non è che semplicemente «lo facciamo», ma
dobbiamo fare l’amore. In un bel dialogo di Downsizing di Alexander Payne
(2017), dopo che il protagonista ha fatto sesso con una rifugiata vietnamita, la
donna gli chiede con il suo inglese stentato se per lui questa fosse stata una
scopata per amore, o una scopata di solo sesso, o una scopata per
compassione, e così via, e per tutta risposta l’uomo le chiede perché usasse
una parola così volgare invece del più educato e gentile «fare l’amore». La
donna accoglie il rilievo e continua a parlare di «fare uno scopare» invece di
«scopata» soltanto: «perché hai fatto uno scopare con me?». E, in un certo
senso, ha ragione: forse la definizione di amore è che tu non ti limiti a
scopare il tuo partner, ma fai uno scopare con lui o lei...

Cinismo, umorismo e impegno


Qui, in ogni caso, ci troviamo davanti all’ambiguità di base di Lubitsch. La
sua soluzione, la sua terza via, non è forse l’edonismo generoso della
comunicazione indiretta, attraverso la quale noi godiamo di tutte le deviazioni
che erotizzano il sesso? Per chiarire questo punto fondamentale, proviamo ad
affrontare la questione di base: dov’è il problema in paradiso in Mancia
competente (Trouble in Paradise, 1932)? Il testo della canzone che
accompagna i titoli di testa ci dà una definizione del «problema» a cui qui si
allude: prima appaiono le parole «trouble in» («problemi in»), quindi, sotto le
stesse, un letto matrimoniale, e infine la parola «paradise». Il «paradiso» in
questione corrisponde dunque a un rapporto sessuale appagante: «That’s
paradise / while arms entwine and lips are kissing / but if there’s something
missing / that signifies / trouble in paradise» («Questo è il paradiso / quando
braccia si intrecciano e labbra si baciano / ma se manca qualcosa / allora sono
/ problemi in paradiso»). Per dirla in termini brutalmente diretti, «problema in
paradiso» è il modo in cui Lubitsch parafrasa la massima lacaniana il n’y a
pas de rapport sexuel.
Forse questo ci riporta a quello che è il tocco di Lubitsch al suo livello più
fondamentale: un modo ingegnoso per far funzionare questo fallimento.
Ovvero, invece di interpretare l’assenza di relazione sessuale come un
ostacolo traumatico a causa del quale una relazione amorosa deve esaurirsi in
un qualche tipo di finale tragico, proprio questo ostacolo può essere ribaltato
in una risorsa comica, può funzionare come qualcosa che debba essere
aggirato, a cui alludere, con cui giocare, da sfruttare, manipolare e di cui
prendersi gioco: in breve, sessualizzato. La sessualità è un’impresa che
prospera sul suo massimo fallimento.
Su questa falsariga comica, si potrebbe immaginare un diverso finale (à la
Lubitsch) per la Tosca di Puccini, in cui la musica rimane la stessa e cambia
solo l’azione degli ultimi secondi. Joseph Kerman ha scritto un pungente
commento sulle note finali di Tosca, in cui l’orchestra riprende
pretenziosamente la «stupenda» e patetica linea melodica dell’E lucevan le
stelle di Cavaradossi, come se, non sapendo bene cosa fare, Puccini abbia
semplicemente ripetuto la melodia più «di effetto» della partitura precedente,
ignorando del tutto la narrazione e la logica emotiva. 9 Nella versione di
Puccini, quando Cavaradossi viene prelevato dalle guardie per essere ucciso
sul tetto del palazzo della prigione, Tosca lo prende da parte e gli spiega che
l’esecuzione sarà finta, ma che lui stesso deve fingere in modo credibile
perché poi possano scappare liberi e insieme. Mario viene portato via e Tosca
viene lasciata in un’attesa impaziente. Nel momento in cui l’esecuzione viene
compiuta e si è fatto fuoco, Mario cade a terra. Tosca urla, felice della sua
interpretazione perfetta. Una volta che tutti se ne sono andati, la donna corre
da Mario per abbracciarlo, sopraffatta dalla felicità all’idea della nuova vita
che li aspetta. Ma quando si china su di lui, capisce che è morto; Scarpia l’ha
tradita dall’aldilà, le pallottole erano vere. Con il cuore spezzato, si getta su di
lui e piange... Immaginiamo un piccolo cambiamento: dopo che Tosca ha
capito che l’uomo è morto davvero e lancia un urlo disperato, Mario si alza
con una risata e le dice che, fingendo di essere morto, l’ha solo voluta
prendere in giro; in realtà Scarpia ha mantenuto la parola e le pallottole erano
finte. La coppia si abbraccia con passione accompagnata dalla musica di E
lucevan le stelle.
In ogni caso, come è stato osservato da alcuni attenti critici, c’è
un’ambiguità fondamentale proprio nel punto centrale di Mancia competente
che viene poi evocata in Partita a quattro (1933). Lubitsch sembra assumere
la posizione cinica del rispettare le apparenze per poi tradirle in segreto.
Pensiamo al celebre detto di Heinrich Heine (altro contemporaneo di Marx e
Kierkegaard), secondo cui bisognerebbe apprezzare sopra ogni altra cosa «la
libertà, l’uguaglianza e la zuppa di granchio». Qui «zuppa di granchio» sta
per tutti quei piccoli piaceri in assenza dei quali diventeremmo dei terroristi
(se non nella realtà, almeno mentalmente) che seguono un’idea astratta a cui
conformano, costringendola, la realtà, senza curarsi delle circostanze
concrete. Questa saggezza si mostra nel modo più chiaro nel Cielo può
attendere (1943). All’inizio del film, il vecchio Henry van Cleve entra nella
sfarzosa anticamera dell’Inferno ed è accolto da «Sua Eccellenza» in persona
(il diavolo), al quale racconta la storia della sua vita dissoluta, così che possa
decidere il suo posto all’Inferno. Dopo aver ascoltato la storia di Henry, Sua
Eccellenza, un uomo vecchio e affascinante, gli nega l’ingresso e gli
suggerisce di provare «dall’altra parte», dove lo attendono sua moglie Martha
e suo nonno; lassù potrebbero avere una «stanzetta vuota nella dépendance».
Il diavolo, dunque, non è altro che Dio stesso con una vena di saggezza, dal
momento che non prende i divieti troppo sul serio, consapevole del fatto che
sono le piccole trasgressioni a renderci umani... Ma se il diavolo è un essere
buono e saggio, non è allora Dio a incarnare il Male autentico, nel suo essere
privo di saggezza ironica e insistere sulla cieca obbedienza alla Legge? Ciò
che il diavolo sa è che ci deve essere qualche problema in paradiso se
vogliamo godercelo.
I temi politici qui sono molto importanti: se il nostro orizzonte è quello del
realismo cinico e benevolente – e non è forse il discorso centrale di
Ninotchka (1939), in cui il perseguimento del piacere vince sull’ideologia? –
allora una sinistra più radicale dovrebbe essere benevolmente presa in giro.
Ma le cose sono davvero così semplici? Prendiamo Jaroslav Hašek, l’autore
del leggendario romanzo comico Il buon soldato Sc’vèik (1923), che viene di
solito visto come un portavoce del buonsenso delle persone comuni rispetto a
tutte le forme di fanatismo. Il romanzo racconta le avventure di un soldato
ceco qualunque che danneggia l’ordine dominante semplicemente prendendo
gli ordini troppo alla lettera. Sc’vèik si ritrova in prima linea nelle trincee in
Galizia, in cui l’esercito austriaco sta combattendo i russi. Quando i soldati
austriaci cominciano a sparare, il disperato Sc’vèik corre nella terra di
nessuno davanti alle loro trincee, muovendo le mani disperatamente e
gridando: «Non sparate! Ci sono degli uomini dall’altra parte!». Questo era
ciò a cui mirava Lenin nella sua invocazione agli stanchi contadini e alle altre
masse di lavoratori nell’estate del 1917 per interrompere la guerra, parte di
una spietata strategia per ottenere il sostegno popolare e dunque il potere,
anche se la cosa avrebbe portato alla sconfitta militare del suo stesso paese. Il
collegamento con Lenin non è così inverosimile se prendiamo in
considerazione il fatto, assai meno noto, che, subito dopo la Prima guerra
mondiale, Hašek combatté come Politkommissar in una divisione
dell’Armata rossa nella Guerra civile russa. E vale la stessa cosa per
Lubitsch: non dovremmo mai dimenticare quei momenti inattesi, nei suoi
film, in cui esplode la furia violenta, come quando l’eroe di Mancia
competente esplode con la sua amata a proposito dell’ingiustizia di un
sistema che persegue i piccoli furti ma tollera le ruberie finanziarie, o il
momento in Fra le tue braccia (1946) in cui la protagonista sottolinea come
(con evidenti implicazioni politiche) a volte si possono aggiustare le cose con
piccoli accorgimenti, altre invece bisogna intervenire risolutamente e
distruggere tutto per rimettere tutto a posto.
Torniamo dunque, con questo, all’inizio: Lubitsch e la sinistra. Non voglio
certo fare di Lubitsch un bolscevico sotto copertura, almeno non uno
stalinista. E per quanto riguarda l’approccio di Lubitsch allo stalinismo,
dovremmo andare al di là di Ninotchka; l’eccezionale figura di Michail
Suslov sarebbe stata un personaggio molto più indicato. 10 Possiamo allora
immaginare una scena, simile a quella del Cielo può attendere, in cui
Lubitsch si trova davanti a un severo Kommissar bolscevico che deve
decidere se spedirlo in un gulag o a ricoprire un posto fra i gerarchi del
Partito comunista? Sapendo come funziona il sistema, Lubitsch confessa
prontamente tutti i suoi peccati da individualista piccolo-borghese, ma il
Kommissar (interpretato da Bela Lugosi, come in Ninotchka), proprio come il
diavolo generoso del Cielo può attendere, gli dice che, purtroppo, il gulag
non è il posto giusto per lui, e poi gli offre non una piccola stanza sul retro
del paradiso ma qualcosa di molto più interessante. Si ricorda di una delle
ultime proposte di Lenin. Nell’ultimo Lenin troviamo infatti,
inaspettatamente, una caratteristica che ricorda Lubitsch: l’attenzione alle
buone maniere e all’umorismo. L’educazione è qualcosa di più che un puro
obbedire alla legalità imposta dall’esterno, e di meno della pura attività
morale: è il regno ambiguo e impreciso di ciò che non si è strettamente
obbligati a fare (se non lo fai, non infrangi nessuna legge), ma che non di
meno ci si attende che venga fatto. Si tratta dunque di regole implicite, non
dette, di questioni di tatto, di qualcosa con cui il soggetto ha, di norma, una
relazione che non passa attraverso la riflessione: qualcosa che appartiene alla
nostra sensibilità spontanea, una vena profonda di abitudini e attese che è
parte dei costumi che abbiamo ereditato (Sitten). Qui sta il vicolo cieco
autodistruttivo del politicamente corretto: cerca di formulare in modo
esplicito, addirittura legalizzare, un modo di essere e comportarsi; se guardo
una donna in un modo che è considerato offensivo, io non solo mi comporto
male, violo la legge.
Lenin era consapevole del fatto che, al di là di quanto potesse essere
emancipatorio il nuovo Padrone bolscevico, doveva essere integrato da
un’altra forma di controbilanciamento. Come ha osservato Moshe Lewin nel
suo L’ultima battaglia di Lenin, 11 alla fine della sua vita Lenin stesso aveva
intuito questa necessità: pur ammettendo pienamente la natura dittatoriale del
regime sovietico, propose un nuovo organo di governo, la Commissione
centrale di controllo. Ciò che colpisce a prima vista è l’inaspettata attenzione
posta da Lenin sull’educazione e sulla civiltà, cosa strana da parte di un duro
bolscevico. Il famoso appello a rimuovere Stalin riguarda anche la mancanza
di educazione di quest’ultimo:
Stalin è troppo grossolano, e questo difetto, del tutto tollerabile nell’ambiente e nei
rapporti tra noi comunisti, diventa intollerabile nella sua funzione di segretario
generale. Perciò io propongo ai compagni di pensare alla maniera di togliere Stalin
da questo incarico e designare a questo posto un altro uomo che, a parte tutti gli
altri aspetti, si distingua dal compagno Stalin solo per questa migliore qualità, di
essere cioè più tollerante, più leale, più cortese e più riguardoso verso i compagni,
meno capriccioso ecc. 12

Anche se la battaglia di Lenin contro le norme della burocrazia statale è


ben nota, ciò che è meno noto, come ha osservato acutamente Lewin, è che
con il suo proposito della Commissione centrale di controllo Lenin stava
cercando di far quadrare il cerchio di democrazia e dittatura dello Stato-
partito; pur ammettendo pienamente la natura dittatoriale del regime
sovietico, egli tentò
di stabilire al vertice della dittatura un equilibrio tra elementi differenti, un sistema
di controlli reciproci che possa giocare il ruolo – il parallelo è approssimativo –
della separazione dei poteri in un regime democratico. Un importante Comitato
centrale elevato al rango di Conferenza del partito, traccia le linee di insieme della
politica e sovraintende all’insieme dell’apparato del Partito, partecipando
contemporaneamente esso stesso all’esecuzione dei compiti più importanti [...] Una
parte di questo Comitato centrale, organizzata in Commissione centrale di
controllo, oltre a partecipare alle funzioni comuni del Comitato centrale, deve
anche controllare quest’ultimo, e gli organi ristretti che ne emanano: Ufficio
politico, Segretariato, Orgbjuro. La Commissione centrale di controllo [...] doveva
occupare una posizione speciale nel quadro complessivo delle istituzioni; la sua
indipendenza doveva essere assicurata dal suo collegamento diretto al Congresso
del Partito, senza passare per l’Ufficio politico e i suoi strumenti amministrativi, né
per il Comitato centrale. 13

Ispezioni ed equilibri, divisione dei poteri, controllo reciproco; era questa


la disperata risposta di Lenin alla domanda: chi controlla i controllori? C’è
qualcosa di onirico, propriamente fantasmatico in questa idea della
Commissione centrale di controllo: un corpo di controllo indipendente ed
educativo con un margine «apolitico», fatto dei migliori insegnanti e
specialisti tecnocrati che tengono sotto scacco il politicizzato Comitato
Centrale e i suoi organi; in breve, il sapere neutro degli esperti che tiene sotto
scacco l’esecutivo di partito... In ogni caso, tutto dipende qui dalla reale
indipendenza del Congresso del Partito, de facto già minata dai divieti delle
fazioni che avevano permesso al massimo apparato del Partito di controllare
il Congresso, liquidando i critici come «scissionisti». L’ingenuità della
fiducia di Lenin negli esperti tecnocrati è ancora più sorprendente se ci
ricordiamo che viene da un politico che era altrimenti pienamente
consapevole della pervasività della lotta politica, la quale non permette
alcuna posizione neutrale. In ogni caso, la proposta di Lenin non può essere
ridotta a questa dimensione; nel «sognare» (espressione sua) il modo di
operare della CCC, descrive il modo in cui questo corpo dovrebbe risolversi a
qualche astuzia, qualche tranello o qualcosa del genere. So che in uno Stato austero
e serio dell’Europa occidentale quest’idea susciterebbe veramente orrore, e nessun
funzionario per bene acconsentirebbe di metterlo in discussione. Ma io spero che
non ci siamo ancora burocratizzati a tal punto, e che la discussione di questa idea
susciterà in noi soltanto buon umore.
Perché infatti non unire l’utile al dilettevole? Perché non servirsi di un tiro
scherzoso o semischerzoso per scoprire qualcosa di ridicolo, di dannoso,
semiridicolo, semidannoso, ecc.? 14

Non è questo forse un doppio quasi osceno del potere esecutivo «serio»
concentrato nel Comitato centrale e nel Politburo, una sorta di intellettuale
non organico del movimento, un agente che fa ricorso all’umorismo, agli
scherzi, e all’astuzia della ragione, tenendosi a distanza... una sorta di
analista? Dunque, forse, non potremmo immaginare Lubitsch a capo di
questa Commissione di controllo? L’ovvia controargomentazione sarebbe:
ma la struttura autoritaria del potere bolscevico non impedirebbe a una figura
come quella di Lubitsch di rivestire qualunque ruolo chiave? In risposta,
potremmo citare Hegel quando afferma, nell’Introduzione alla sua
Fenomenologia, che «la misura dell’esame si muta, se ciò di cui dovrebbe
essere misura non regge all’esame; quindi è sotto esame non soltanto il
sapere, ma anche la misura dell’esame stesso». Applicato rudemente al nostro
caso, questo significa che, se Lubitsch non si addice a Lenin, allora abbiamo
bisogno di un nuovo Lenin, un Lenin che tollerasse, addirittura invocasse,
una figura come quella di Lubitsch a capo della sua Commissione di
controllo.

Un gesto leninista in La La Land e in Black Panther


Tracce di questo altro Lubitsch «leninista», non solo di quello cinico e
benevolente, le troviamo in molti prodotti hollywoodiani successivi, bisogna
solo sapere dove e come cercarle. Prendiamo La La Land di Damien Chazelle
(2016); fra le critiche politicamente corrette che sono state fatte, quella che si
mette in luce per la maggiore stupidità è che nel film non compaiano coppie
gay, pur essendo ambientato a Los Angeles, città con una forte componente
gay fra i suoi abitanti. Come mai, queste voci della sinistra politicamente
corretta che si lamentano per la sottorappresentazione delle minoranze
etniche e sessuali nel cinema di Hollywood non si lamentano mai per la
grossolana e falsa rappresentazione della maggioranza della classe operaia
dei ceti bassi? Va forse bene che gli operai siano invisibili, basta che compaia
almeno un personaggio gay o lesbica? Ricordo un incidente simile avvenuto
durante il primo seminario intitolato L’idea di comunismo tenutosi a Londra
nel 2009. Alcune persone fra il pubblico si lamentarono che ci fosse soltanto
una donna fra i partecipanti, e inoltre nessuna persona di colore e nessuna
proveniente dall’Asia; al che Alain Badiou rispose che era strano che a
nessuno invece importasse che non ci fossero operai fra i partecipanti anche
se l’argomento era il comunismo.
Tornando a La La Land, dovremmo tenere a mente che il film si apre con
la descrizione di centinaia di lavoratori precari o disoccupati che stanno
andando verso Hollywood alla ricerca di un lavoro che possa dare una svolta
alle loro carriere. La prima canzone (Another Day of Sun) li mostra che
cantano e ballano per far passare il tempo mentre sono bloccati nel traffico
dell’autostrada. Mia e Sebastian, che si trovano anche loro lì, ognuno nella
sua macchina, sono i due che faranno successo, le ovvie eccezioni. E, da
questo punto di vista, il loro innamorarsi (che renderà possibile il loro
successo) entra nel racconto per mettere su uno sfondo di invisibilità tutti gli
altri che il successo non lo otterranno, con l’implicazione che è il loro amore
(e non solo un colpo di fortuna) a renderli speciali e destinati a riuscire. 15
Competizione spietata è il nome del gioco, senza alcuna traccia di solidarietà
(pensiamo alle numerose scene di provini in cui Mia viene ripetutamente
umiliata). Non c’è da sorprendersi se, quando ho sentito le prime parole della
canzone più famosa del film (City of stars, are you shining just for me? City
of stars, there’s so much that I can’t see), mi sono dovuto trattenere dal
canticchiare, in risposta, la più stupida delle repliche marxiste ortodosse
immaginabili: «No, non risplendo solo per un individuo piccolo-borghese e
ambizioso come te, risplendo anche per le migliaia di lavoratori sfruttati e
precari di Hollywood che tu non vedi e che non avranno successo come te,
per dare loro un po’ di speranza!».
Mia e Sebastian cominciano una relazione e vanno a vivere insieme, ma si
allontanano per inseguire la fama: Mia ambisce a diventare un’attrice mentre
Sebastian vorrebbe possedere un club in cui poter, insieme, fare
dell’autentico vecchio jazz. Dapprima Sebastian si unisce a un gruppo di pop-
jazz con cui va in tournée, poi, dopo il fiasco della prima del suo
monodramma, lascia Los Angeles e torna a casa nella sua Boulder City.
Rimasto solo a Los Angeles, Sebastian riceve una chiamata da un
responsabile del casting che ha assistito alla rappresentazione di Mia, gli è
piaciuta e invita la ragazza a un provino per un film. Sebastian guida fino a
Boulder City e la convince a tornare. Al provino, viene chiesto a Mia di
raccontare una storia, e la ragazza inizia a cantare una canzone su sua zia, che
è all’origine del suo sogno di diventare attrice. Sicuro che il provino sia stato
un successo, Sebastian afferma che Mia deve dedicarsi anima e cuore a
questa opportunità. Si giurano di amarsi per sempre, ma sono incerti sul loro
futuro. Cinque anni dopo, Mia è diventata un’attrice famosa ed è sposata con
un altro uomo, dal quale ha avuto una figlia. Una sera la coppia finisce in un
jazz bar. Vedendo l’insegna «Seb’s», Mia capisce che Sebastian ha
finalmente aperto il club che desiderava. Sebastian si accorge di lei, che ha un
aspetto inquieto e rammaricato, in mezzo alla folla, e inizia a suonare la loro
canzone d’amore; da qui si passa a una lunga sequenza onirica in cui i due
immaginano quello che sarebbe potuto accadere se la loro relazione avesse
funzionato perfettamente. La canzone finisce con Mia che se ne va con il
marito. Prima di uscire, la ragazza scambia con Sebastian un lungo sguardo
d’intesa e un sorriso, felice per i sogni che entrambi hanno realizzato.
Come è stato osservato da numerosi critici, i dieci minuti di fantasia finale
mostrano come sarebbe stato il finale della storia in un classico musical
hollywoodiano. Una tale lettura conferma la riflessività del film: mostra come
sarebbe dovuto finire il film rispetto alle regole del genere a cui fa
riferimento. La La Land è chiaramente un film che riflette su sé stesso, un
film sul musical come genere, ma sta in piedi anche da solo, non c’è bisogno
di conoscere tutta la storia del musical per apprezzarlo e capirlo. Come ha
scritto André Bazin a proposito di Luci della ribalta di Chaplin (1952): è un
film che riflette sulla carriera in declino del vecchio Chaplin, ma funziona da
solo, non c’è bisogno di conoscere gli esordi di Chaplin nelle vesti del
vagabondo per apprezzarlo. È interessante, inoltre, che più si va avanti in La
La Land, meno numeri da musical sono presenti e più diventa un puro
melodramma, fino a che, nel finale, siamo di nuovo catapultati nel musical
sotto forma di fantasia.
A parte gli ovvi riferimenti ad altri musical, Chazelle ammicca sottilmente
a Cappello a cilindro, la classica commedia musicale svitata di Mark
Sandrich con la coppia Rogers-Astaire (1935). Ci sono molte cose buone da
dire su Cappello a cilindro, a partire dal ruolo del tip-tap come intrusione
disturbante nella routine quotidiana (Astaire si esercita sul pavimento
dell’albergo che sta esattamente sopra Ginger Rogers, spingendola a
lamentarsi, cosa che fa incontrare e nascere la coppia); dovremmo anche
citare il tema del matrimonio che viene dichiarato non valido a posteriori; il
processo del falso matrimonio e della sua ripetizione; il domestico di un ricco
uomo che si arrabbia con lui perché ha messo la cravatta sbagliata e si rifiuta
di parlargli... Rispetto a La La Land, ovviamente ci colpisce l’assoluta
piattezza psicologica dei personaggi di Cappello a cilindro, in cui non c’è
profondità, solo un’azione da marionette che emerge perfino nei momenti più
intimi. La canzone finale e la sua messa in scena (Piccolino) non ha alcuna
relazione con il lieto fine del racconto; le parole della canzone sono del tutto
autoreferenziali, raccontano semplicemente come è nata la canzone stessa e ci
invitano a ballare:
By the Adriatic waters Venetian sons and daughters
Are strumming a new tune upon their guitars.
It was written by a Latin, a gondolier who sat in
His home out in Brooklyn and gazed at the stars.
He sent his melody across the sea to Italy,
And we know they wrote some words to fit that catchy bit
And christened it the Piccolino.
And we know that it’s the reason why
Everyone this season is strumming and humming a new melody.
Come to the Casino and hear them play the Piccolino.
Dance with your bambino to the strains of the catchy Piccolino.
Drink your glass of vino, and when you’ve had your plate of scallopino,
Make them play the Piccolino, the catchy Piccolino.
And dance to the strains of that new melody, the Piccolino. 16

E questa è la verità del film: non la trama ridicola, ma la musica e il tip-tap


come scopi in sé. Si può fare un parallelismo con Le scarpette rosse di Hans
Christian Andersen: la protagonista non può smettere di ballare, è una
pulsione irresistibile. Il dialogo cantato fra Astaire e Rogers, anche quando
raggiunge il massimo della sensualità (come nella famosa Dancing cheek to
cheek), è solo un pretesto per la musica e il ballo. La La Land lo possiamo
considerare superiore, dal momento che appartiene all’ambito del realismo
psicologico: la realtà si intromette nel mondo sognante del musical (come le
ultime messe in scena dei film di supereroi, che fanno emergere la
complessità psicologica del personaggio, i suoi traumi e i suoi dissidi
interiori). Ma è fondamentale osservare come la storia altrimenti realistica
deve concludersi con la fuga in una fantasia musicale.
La prima e ovvia lettura lacaniana di La La Land vedrebbe nella sua trama
l’ennesima variazione del tema «non c’è relazione sessuale»: le carriere di
successo di Mia e Sebastian, che li separano, sono come il Titanic che
colpisce l’iceberg nel film di James Cameron. Le loro carriere sono lì per
preservare intatto il sogno d’amore (messo in scena nella fantasia finale),
ovvero, per mascherare l’impossibilità intrinseca del loro amore, il fatto che,
se fossero rimasti insieme, si sarebbero trasformati in una coppia amara e
delusa. Di conseguenza, la versione definitiva del film sarebbe stata il
rovesciamento della situazione finale: Mia e Sebastian stanno insieme e si
godono il loro successo professionale, ma le loro vite sono vuote, dunque
vanno in un locale e si immaginano di essere felici conducendo una vita
modesta insieme, avendo entrambi rinunciato alle rispettive carriere.
Ci imbattiamo in un rovesciamento simile in The Family Man (Brett
Ratner, 2000). Jack Campbell, un dirigente di Wall Street, single, il giorno
della vigilia di Natale viene a sapere che la sua ex fidanzata, Kate, lo ha
chiamato dopo molti anni. Il giorno di Natale, l’uomo si sveglia in una
camera da letto nella periferia del New Jersey con Kate e due bambini; torna
di corsa al suo ufficio e al suo condominio newyorchese, ma i suoi amici più
cari non lo riconoscono. Sta vivendo, adesso, la vita che avrebbe potuto avere
se fosse rimasto con la sua fidanzata (una modesta vita in famiglia, in cui fa il
rivenditore di pneumatici per il padre di Kate e lei l’avvocato non-profit).
Proprio quando Jack finalmente capisce il vero valore di questa nuova vita,
questa epifania lo catapulta nella sua ricca vita precedente. Rinuncia a
chiudere un grosso affare per intercettare Kate, che a sua volta ha puntato
sulla carriera ed è diventata un ricco avvocato che lavora per un’azienda.
Quando l’uomo scopre che lei lo ha chiamato solo per ridargli alcune cose
prima di trasferirsi a Parigi, Jack la rincorre all’aeroporto e, nel tentativo di
ritrovarne l’amore, le descrive la famiglia che avevano in quell’universo
alternativo. Lei accetta di bere insieme un caffè all’aeroporto, lasciando
intendere che potrebbe esserci un futuro... Si raggiunge dunque una delle
peggiori soluzioni di compromesso: in qualche modo i due cercheranno di
mettere insieme il meglio dei loro rispettivi mondi, restando dei ricchi
capitalisti ma allo stesso tempo una coppia innamorata con preoccupazioni
umanitarie; in breve avranno la botte piena e la moglie ubriaca.
La La Land evita almeno questo facile ottimismo. Dunque cosa accade, in
realtà, alla fine del film? Ovviamente non si tratta solo del fatto che Mia e
Sebastian decidono semplicemente di dare la priorità alla carriera rispetto alla
loro relazione. In fin dei conti, si potrebbe aggiungere che entrambi
raggiungono il successo e coronano i loro sogni proprio grazie alla relazione
che hanno avuto, così che il loro amore funziona come una sorta di mediatore
evanescente: lungi dall’essere un ostacolo al loro successo, al contrario lo
«media». Possiamo dunque dire che il film sovverte l’immagine
hollywoodiana della coppia – Mia e Sebastian coronano entrambi i loro
sogni, ma non come coppia? E questo rovesciamento è forse qualcosa di più
che una semplice preferenza narcisistica e postmoderna della realizzazione
personale rispetto all’amore? In altre parole, e se il loro amore non fosse un
vero amore-Evento? Inoltre, e se il loro «sogno» di carriera non fosse una
vera dedizione alla Causa dell’arte ma solo quello, un sogno? E se nessuna
delle richieste in gioco (carriera, amore) mostrasse davvero una dimensione
«evenemenziale», la dedizione incondizionata che consegue a un vero
Evento? Il loro amore non è vero, il loro inseguire la carriera non è una
dedizione artistica assoluta. In breve, il tradimento di Mia e Sebastian va più
a fondo di una semplice scelta che li spinge a rinunciare all’alternativa: tutta
la loro vita è già il tradimento di un’esistenza autenticamente dedicata a
qualcosa. Ed è anche il motivo per cui la tensione fra le due richieste (di
amore e di carriera) non è un dilemma esistenziale tragico, ma un’incertezza
molto delicata. 17
Tale lettura è in ogni caso troppo semplice, ignora l’enigma della fantasia
finale: di chi è quella fantasia, di lui o di lei? Non è forse di lei? Lei è
l’osservatrice-sognatrice, e tutto il sogno si concentra sul suo destino, va a
Parigi a girare il film, eccetera? Per rispondere ad alcuni critici che hanno
rilevato come il film privilegi la prospettiva maschile, ovvero che Sebastian
sia il partner attivo della coppia, bisognerebbe dire che Mia è il punto centrale
soggettivo del film: la scelta è molto più sua che di lui, che è il motivo per
cui, alla fine, lei è una grande star e Sebastian, lungi dall’essere una celebrità,
è solo il proprietario di un jazz club di relativo successo (che vende anche
pollo fritto). La differenza diventa evidente quando ascoltiamo con attenzione
le due conversazioni fra Mia e Sebastian in cui uno dei due deve fare una
scelta. Quando Sebastian le annuncia che si unirà al gruppo e sarà quasi
sempre in tournée, Mia non chiede cosa implichi questo per loro due; al
contrario, gli chiede se è proprio quello che vuole e desidera, e Sebastian
risponde che al pubblico piace quello che fa, dunque suonare con il gruppo
significa un lavoro fisso e una carriera, con la possibilità di mettere un po’ di
soldi da parte e aprire il suo jazz club. Ma la ragazza insiste, a ragione, sul
fatto che il punto vero siano i suoi desideri: ciò che la infastidisce non è che,
scegliendo questa carriera (suonare con il gruppo) lui la tradirà (tradirà la loro
relazione) ma che, invece, tradirà sé stesso, la sua vera vocazione. Nella
seconda conversazione, che avviene dopo il provino, non c’è nessun conflitto
o tensione: Sebastian capisce subito che per Mia recitare non è solo
un’opportunità di carriera ma una vera vocazione, qualcosa che deve fare per
sé stessa; abbandonarla sarebbe un disastro per le basi stesse della sua
personalità, e la scongiura di farlo senza alcun rimpianto o riserva. Qui non si
tratta di scegliere fra l’amore e la vocazione: in un senso paradossale ma
profondamente vero, se lei rinunciasse alla prospettiva di recitare per stare
con lui a Los Angeles, tradirebbe anche il loro amore, nato dalla comune
dedizione a una Causa.
Arriviamo qui a un problema ignorato da Badiou nella sua teoria
dell’Evento: se allo stesso soggetto si indirizzano molteplici Eventi, a quale
di essi bisogna dare priorità? Un artista cosa dovrebbe decidere di fare se non
può tenere insieme la sua vita amorosa (costruire una vita insieme a un
partner) e la sua dedizione all’arte? Dovremmo respingere i termini stessi di
questa scelta: in un dilemma autentico, non bisognerebbe decidere fra Causa
e amore, fra la fedeltà all’uno o all’altro. La relazione autentica fra Causa e
amore è più paradossale. La lezione fondamentale del film Rapsodia di
Charles Vidor è che, per ottenere l’amore della donna amata, l’uomo deve
dimostrarsi capace di sopravvivere senza di lei, di preferirle la sua missione o
professione. Le scelte immediate sono due: 1) la mia carriera è quello che
conta di più, la donna è solo un divertimento, una distrazione; 2) la donna è
tutto per me, sono pronto a umiliarmi, ad abbandonare tutta la mia dignità
pubblica e professionale per lei. Entrambe sono false, e portano
all’abbandono dell’uomo da parte della donna. Il messaggio del vero amore è
quindi: anche se sei tutto per me, io posso sopravvivere senza di te, sono
pronto ad abbandonarti per la mia missione o professione. Per una donna, il
modo migliore per mettere alla prova l’amore di un uomo è quindi «tradirlo»
nel momento cruciale della sua carriera (un esame importante, una trattativa
che deciderà la sua carriera, il primo concerto pubblico nel film). Solo se
saprà sopravvivere alla prova e porterà a termine con successo il suo compito,
per quanto profondamente traumatizzato dall’abbandono della donna, lui la
meriterà e lei tornerà da lui. Il paradosso sottinteso è che l’amore, proprio
come l’assoluto, non dovrebbe essere postulato come obiettivo esplicito,
dovrebbe mantenere lo status di sottoprodotto, di qualcosa che otteniamo
come un dono immeritato. Forse non c’è amore più grande di quello di una
coppia rivoluzionaria, dove ciascuno dei due innamorati è pronto ad
abbandonare l’altro in qualunque momento se la rivoluzione lo richiede.
La questione quindi è: in che modo un collettivo emancipatore e
rivoluzionario che incarna la «volontà generale» influenza un’intensa
passione erotica? Da quello che oggi sappiamo sull’amore tra i bolscevichi
durante la Rivoluzione russa, all’epoca avvenne qualcosa di eccezionale,
nacque una nuova forma di coppia: due persone che vivevano in uno stato
d’emergenza permanente, totalmente devote alla causa rivoluzionaria, pronte
a sacrificare ogni personale realizzazione sessuale, pronte persino ad
abbandonare e tradire l’altro se la rivoluzione lo esigeva, ma nello stesso
tempo totalmente devote reciprocamente, capaci di godere con estrema
intensità dei rari momenti passati insieme. La passione degli innamorati era
tollerata, perfino tacitamente rispettata, ma ignorata nel discorso pubblico
come qualcosa che non riguardava gli altri (ci sono tracce di questo anche in
quello che sappiamo della storia di Lenin con Inessa Armand). Non c’è un
tentativo di Gleichschaltung, di far valere l’unità tra la passione intima e la
vita sociale: la disgiunzione radicale tra passione sessuale e attività social-
rivoluzionaria viene pienamente riconosciuta. Le due dimensioni sono
accettate come totalmente eterogenee, ciascuna irriducibile all’altra, non c’è
armonia tra loro, ma è proprio questo riconoscimento a rendere non
antagonistico il loro rapporto. E non succede lo stesso in La La Land? Mia
non compie forse la scelta «leninista» della sua causa e Sebastian forse non la
appoggia, rimanendo in questo modo entrambi fedeli al loro amore? 18
Anche se una tale lettura, ovviamente, va in direzione opposta alla
percezione dominante del film, può essere giustificata dal semplice fatto che
offre l’unico modo di leggere in modo sensato alcuni importanti dettagli della
tessitura filmica. Vale la stessa cosa per Black Panther, un prodotto per altri
versi molto ambiguo i cui momenti finali, non di meno, mostrano un altro
tipo di fedeltà leninista. 19 Il primo segno dell’ambiguità del film è
l’accoglienza entusiastica ricevuta da tutte le parti politiche: dai sostenitori
dell’emancipazione dei neri, che hanno visto in esso la prima grande
affermazione hollywoodiana del potere nero, passando dai modesti liberal di
sinistra, che hanno simpatizzato con la sua ragionevole soluzione – istruzione
e aiuto, non battaglia – fino ad alcuni esponenti dell’Alt-right (la «destra
alternativa»), che hanno facilmente riconosciuto nell’affermazione
dell’identità nera e del suo modo di vivere presente nel film semplicemente
un’altra versione dell’«America first» di Trump (e, fra parentesi, è per questo
motivo che Mugabe, prima che perdesse il potere, disse alcune buone parole
su Trump). Quando tutte le parti si riconoscono nello stesso prodotto,
possiamo essere certi che il prodotto in questione è ideologia allo stato puro,
ovvero una sorta di contenitore vuoto con al suo interno elementi
antagonistici.
Ecco la trama: 20 durante l’alba dell’uomo in Africa si schiantò un
meteorite composto di vibranio; cinque tribù iniziarono a lottare per
possederlo. Un uomo mangiò l’Erba a Forma di Cuore, una pianta modificata
dalle radiazioni del meteorite, che gli diede dei poteri eccezionali, diventando
la prima «Pantera nera». L’uomo riunì quattro delle tribù, tranne quella dei
Jabari, e nacque così il regno di Wakanda, di cui lui divenne il primo re. Il
vibranio fece diventare il Wakanda molto più progredito dal punto di vista
tecnologico di qualsiasi altra nazione, ma il re decise di nascondere il vero
Wakanda agli occhi di tutti, fingendolo un paese sottosviluppato del Terzo
mondo. 21 Nel 1992, il re T’Chaka fa visita al fratello N’Jobu che vive sotto
copertura a Oakland, California. T’Chaka accusa N’Jobu di aiutare il
trafficante d’armi sul mercato nero Ulysses Klaue a rubare il vibranio dal
Wakanda. Il partner di N’Jobu rivela di essere Zuri, un altro abitante di
Wakanda in incognito, e conferma i sospetti di T’Chaka.
Oggi, dopo la morte di suo padre, T’Challa, torna a casa per assumere il
trono. Lui e Okoie, il capo del reggimento Dora Milaje (una guardia
pretoriana femminile della corte) recuperano Nakia, sua informatrice del
mondo esterno e suo vecchio amore, affinché possa assistere alla sua
incoronazione con la madre Ramonda e la sorella minore Shuri. Durante la
cerimonia si presenta M’Baku, capo della tribù Jabari, e sfida il principe per
il trono in un combattimento rituale. T’Challa lo batte e lo convince a cedere
piuttosto che morire.
Nel frattempo Klaue e Erik Stevens, un giovane militante nero, rubano un
manufatto di vibranio in un museo di Londra. Il re, assieme a Nakia e al capo
della guardia reale Dora Milaje, Okoye, si reca a Busan, nella Corea del Sud,
dove il trafficante venderà il metallo. Qui scopre che il compratore di Klaue è
l’agente della CIA Everett Ross, ma vengono scoperti.
T’Challa cattura il trafficante dopo un folle inseguimento. Il luogo
dell’interrogatorio viene però assaltato e Klaue liberato; il re nota che il capo
degli assalitori, che una volta al sicuro uccide senza rimorsi Klaue e il resto
della banda, ha il suo stesso anello. T’Challa e compagni tornano a Wakanda
per salvare Ross, gravemente ferito per proteggere Nakia.
Mentre Shuri cura Ross, T’Challa si confronta con il suo consigliere Zuri
su N’Jobu. Zuri spiega che N’Jobu progettava di condividere la tecnologia di
Wakanda con i discendenti africani di tutto il mondo per aiutarli a conquistare
i loro oppressori. Quando T’Chaka arrestò N’Jobu, questo attaccò Zuri,
obbligando T’Chaka a ucciderlo. T’Chaka ordinò a Zuri di dire che N’Jobu
era scomparso e aveva lasciato un figlio americano, Erik, che era diventato un
soldato nero americano specializzato nel sovvertire i governi del Terzo
mondo che costituivano una minaccia per gli interessi americani. Nel
frattempo Erik (che ha assunto il nome di Killmonger) uccide Klaue e porta il
suo cadavere a Wakanda. Viene portato davanti agli anziani della tribù, a cui
rivela la sua identità rivendicando il trono. Killmonger sfida T’Challa in un
combattimento rituale; Zuri offre la sua vita ma inutilmente, infatti Erik, dopo
aver sconfitto il cugino, lo getta giù dalla cascata; inoltre dopo aver bevuto
l’infuso dell’Erba a Forma di Cuore, ordina di bruciarla tutta, ma Nakia riesce
a prenderne un po’. Killmonger, con il sostegno di W’Kabi e del suo esercito,
si prepara a spedire dei carichi di armi di Wakanda agli agenti segreti in giro
per il mondo.
Nakia, Shuri, la regina madre Ramonda e Ross si recano dalla tribù Jabari
per chiedere aiuto a M’Baku; qui scoprono che alcuni pescatori hanno
ritrovato T’Challa in uno stato di coma. Nakia dà alla regina la pianta
dell’Erba e la fa bere al figlio, che si riprende per combattere Killmonger, che
indossa una sua armatura di Black Panther e ordina a W’Kabi e al suo
esercito di attaccare T’Challa.
T’Challa e compagni attaccano Killmonger e chi gli è fedele, anche se le
Dora Milaje si schierano col loro precedente re, mentre Ross entra nel
laboratorio di Shuri e da remoto controlla un jet per fermare le spedizioni di
vibranio. I due cugini si battono con le armature di Black Panther finendo in
una miniera di vibranio. T’Challa alla fine colpisce a morte il cugino
infilzandolo con una delle sue spade. Killmonger rifiuta di essere curato,
scegliendo di morire da uomo libero piuttosto che amare come uno schiavo di
fatto.
Nella scena finale, T’Challa fonda un centro di assistenza sociale
nell’edificio in cui è morto N’Jobu; il centro, che sarà guidato da Nakia e
Shuri, diffonderà conoscenze e aiuto per i più deboli. In una scena aggiuntiva
nei titoli di coda, T’Challa, Okoye e Nakia si recano alle Nazioni Unite e
T’Challa comunica alla delegazione riunita che vuole condividere le
conoscenze avanzate di Wakanda con il mondo, ma in modo pacifico,
sostenendo l’istruzione e mettendo a disposizione le loro tecnologie superiori.
Già il punto di partenza sembra problematico e ambiguo, quanto meno: la
storia recente ci insegna che essere benedetti da una preziosa risorsa naturale
diventa piuttosto una segreta maledizione; pensiamo al Congo di oggi, uno
«Stato canaglia» inattivo con bambini soldato drogati e così via esattamente a
causa della sua incredibile ricchezza di risorse naturali (e per il modo in cui
vengono sfruttate senza pietà). La scena poi si sposta a Oakland, che è stata
una delle roccaforti delle vere Pantere nere, un movimento radicale di
liberazione dei neri degli anni Sessanta che venne soppresso senza pietà
dall’FBI (alcuni membri vennero uccisi, eccetera). Seguendo la strada del
fumetto Black Panther, il film, senza mai nemmeno citare le vere Pantere
nere, in un semplice ma non meno magistrale atto di manipolazione
ideologica, ne ruba efficacemente il nome, così che la prima associazione che
adesso viene in mente non è con la vecchia organizzazione militante radicale
ma con il re-supereroe di un potente regno africano. Più esattamente, nel film
ci sono due pantere nere, il re T’Challa e suo cugino Erik, ognuno dei quali
incarna una diversa visione politica. Erik è cresciuto a Oakland ed è stato
assunto nelle black operations dell’esercito americano; il suo ambito è quello
della povertà, della violenza di banda e della brutalità militare, mentre
T’Challa è cresciuto nella protetta opulenza della corte reale di Wakanda; di
conseguenza, Erik invoca una solidarietà globale militante (Wakanda
dovrebbe mettere la sua ricchezza e le sue conoscenze a disposizione degli
oppressi di tutto il mondo così da poter ribaltare l’attuale ordine mondiale),
mentre T’Challa si sta spostando lentamente dal tradizionale isolazionismo
del «Wakanda first!» a un globalismo graduale e pacifico che agirebbe
all’interno delle coordinate dell’attuale ordine mondiale e delle sue
istituzioni, diffondendo istruzione e aiuto tecnologico, e preservando allo
stesso tempo l’unicità della cultura e del modo di vivere di Wakanda. (Per
questo T’Challa è più un eroe dubbioso su quale strada intraprendere rispetto
al supereroe tradizionale iperattivo, mentre il suo nemico Killmonger è
sempre pronto ad agire e sa come farlo). Il fatto che un agente della CIA
rivesta un ruolo chiave nella sua vittoria finale la dice lunga... (Si potrebbe
immaginare che il compito di distruggere gli aerei spediti da Killmonger per
dare armi ai rivoluzionari in giro per il mondo sia stato dato all’agente bianco
della CIA, dal momento che il re non si fida dei suoi compatrioti neri, che
potrebbero sabotare la missione perché simpatizzano con Killmonger).
Se molti critici hanno apprezzato il ruolo attivo rivestito dalle donne nella
corte di Wakanda, insieme alla pluralità delle loro diverse posizioni (difesa,
saggezza dell’anzianità, scienza e tecnologia...), una tale affermazione di
femminilità è strettamente subordinata al dominio maschile. Per cui anche
nell’apertura di Wakanda al mondo, tutto quello che cambierà sarà che una
dose di saggezza tradizionale conterrà gli eccessi del capitalismo selvaggio.
Con T’Challa che indossa l’elmo, coloro che dettano oggi le regole possono
continuare a dormire in pace.
Uno dei segni che qualcosa non torna in questo quadro è lo strano ruolo dei
due personaggi bianchi, il «cattivo» sudafricano Klaue e il «buono» agente
della CIA Ross. Il «cattivo» Klaue non funziona nel ruolo di villain a cui è
predestinato, è troppo debole e comico. Ross è invece una figura molto più
enigmatica, in un certo senso il sintomo del film: un agente della CIA (il che
significa che i suoi superiori, e dunque il governo americano, sanno di
Wakanda) che prende parte agli eventi con una distanza ironica, come se non
lo riguardassero del tutto, come se stesse partecipando a una trasmissione
televisiva. Perché viene scelto da Shuri come pilota dell’aereo che dovrà
colpire quelli che trasportano le armi agli agenti di Killmonger sparsi per il
mondo (il ruolo di solito riservato ai neri «buoni» nel classico film
catastrofico di fantascienza)? Non è forse che prende il posto del sistema
globale esistente nell’universo del film? E allo stesso tempo prende il nostro
posto, la maggioranza di spettatori bianchi del film, come se ci dicesse: «Va
bene apprezzare questa fantasia di supremazia nera, ma nessuno di noi è
veramente minacciato da questo universo alternativo!».
Dunque resta solo Killmonger come vero cattivo, una pantera nera
rivoluzionaria degli anni Sessanta contro la mitica Pantera nera reale del
nostro universo di supereroi dei fumetti... Il fatto che T’Challa si apra alla
«buona» globalizzazione ma venga anche sostenuto dalla sua incarnazione
repressiva, la CIA, dimostra che non c’è una reale tensione fra i due: il
«ritorno alle radici» si addice perfettamente al capitalismo globale, che può
essere messo in discussione solo da un diverso progetto globale. Non
dovremmo dunque subire il fascino dello spettacolo della capitale di
Wakanda come una città moderna alternativa in cui la tecnologia risponde ai
bisogni degli uomini, in cui la tradizione e l’ultra-modernità si fondono senza
fratture: ciò che questo bello spettacolo nasconde è la visione seguita da
Malcolm X quando adottò il cognome X. Con la scelta della X come
cognome intendeva segnalare che i mercanti di schiavi che portavano via gli
schiavi africani dalla loro patria li avevano brutalmente privati delle loro
radici familiari ed etniche, di tutto il loro mondo e di tutta la loro cultura; non
era sua intenzione mobilitare i neri a combattere per il ritorno alle radici
africane primordiali, ma precisamente appropriarsi dell’apertura fornita dalla
X, una nuova e sconosciuta (perdita di) identità generata dal processo stesso
di schiavitù che aveva fatto perdere per sempre le radici africane. L’idea è
che questa X, che priva i neri della loro tradizione particolare, offra
un’opportunità unica per ridefinire (reinventare) sé stessi, per creare
liberamente una nuova identità molto più universale dell’universalità
professata dai bianchi. (Come è ben noto, Malcolm X trovò questa nuova
identità nell’universalismo dell’islam). La preziosa lezione di Malcolm X
viene dimenticata in Black Panther: per arrivare a una vera universalità, un
eroe deve passare attraverso l’esperienza di perdere le proprie radici.
Le cose sembrano dunque chiare, a conferma dell’insistenza di Fred
Jameson su quanto sia difficile immaginare un mondo davvero nuovo, un
mondo che non rifletta soltanto (inverta, integri) l’ordine mondiale esistente.
Possiamo solo meravigliarci davanti a quel critico che ha avuto il coraggio di
scrivere che Frantz Fanon, il teorico della liberazione dei neri attraverso la
ribellione violenta, sarebbe stato «orgoglioso del film»... In ogni caso, ci sono
segnali che interferiscono con questa lettura semplice e ovvia, segnali che ci
spingono verso la lettura del film nel modo in cui Leo Strauss legge Platone e
Spinoza, così come il Paradiso perduto di Milton. Anche se ha usato termini
come «insegnamento segreto», Strauss non era uno gnostico che si dedicava
all’«ermeneutica profonda»; non stava cercando il Platone esoterico nel senso
di un qualche sapere nascosto da decodificare rispetto al testo pubblico. Tutto
viene mostrato e detto, tutte le teorie alternative vengono presentate in modo
chiaro; un’attenta lettura straussiana non fa altro che portare l’attenzione a dei
segni che indicano che l’ovvia gerarchia delle posizioni teoriche deve essere
invertita.
Ad esempio, il primo libro della Repubblica di Platone tratta del dialogo
polemico fra Socrate e Trasimaco, che sono in forte disaccordo rispetto
all’esito della discussione che Socrate ha avuto con Polemarco sul tema della
giustizia: Trasimaco afferma che «la giustizia è l’utile del più forte» (338c) e
che «se realizzata in modo adeguato, l’ingiustizia è più forte, più da uomo
libero e più da signore della giustizia» (344c). Socrate risponde forzandolo ad
ammettere che esiste un modello di giustizia al di là dell’utile del più forte. In
ogni caso, una lettura attenta evidenzia la vera posizione di Platone: riguardo
ai fatti, Trasimaco ha ragione, la giustizia è l’utile del più forte, ma questa
verità andrebbe tenuta segreta dal momento che il suo svelamento pubblico
ferirebbe e demoralizzerebbe la maggior parte delle persone comuni la cui
sensibilità morale chiede che il diritto sia più forte di quello che può essere.
Vale lo stesso con il Paradiso perduto di Milton: anche se segue la linea
ufficiale della Chiesa di condanna della ribellione di Satana, le simpatie di
Milton stanno chiaramente dalla parte di Satana. (Dovremmo inoltre
aggiungere che non importa se questa preferenza per il lato o agente «oscuro»
sia conscia o inconscia per l’autore di un testo, il risultato non cambia). E non
vale forse la stessa cosa anche per Il cavaliere oscuro di Christopher Nolan,
la parte conclusiva della sua trilogia su Batman? Anche se Bane è il cattivo
ufficiale, ci sono dei segnali che fanno di lui, molto più dello stesso Batman,
l’autentico eroe del film, distorto come il suo cattivo: è pronto a sacrificare la
vita per il suo amore, pronto a rischiare tutto per ciò che sente come
un’ingiustizia, e questo aspetto di base viene nascosto da segni di cattiveria
distruttiva superficiali e piuttosto ridicoli.
Dunque, tornando a Black Panther: quali sono i segnali che ci permettono
di riconoscere Killmonger come il vero eroe? Ce ne sono molti, a partire dalla
scena della sua morte, in cui Erik ferito gravemente preferisce morire libero
piuttosto che essere curato e sopravvivere nella falsa abbondanza di
Wakanda; il forte impatto etico delle ultime parole di Killmonger basta a far
crollare l’idea che sia semplicemente un villain. Segue poi una scena di
straordinario calore: Killmonger, morente, è seduto sul bordo di un precipizio
di montagna a osservare la meraviglia del tramonto di Wakanda, e suo cugino
T’Challa, che lo ha appena sconfitto, gli sta seduto in silenzio di fianco. Non
c’è qui alcun odio, solo due uomini fondamentalmente buoni con una diversa
visione politica che condividono i loro ultimi momenti dopo la fine della
battaglia; una scena inimmaginabile in un film d’azione tradizionale, che
culmina sempre con la violenta distruzione del nemico. 22 Questi momenti
finali, da soli, bastano a insinuare un dubbio nella lettura più scontata del film
e ci sollecitano a una riflessione molto più profonda.
Conclusione
Per quanto ancora potremo
agire globalmente e pensare localmente?

Cosa possiamo imparare da Hegel su Donald Trump e i suoi critici di


sinistra? Stranamente, un bel po’ di cose. Nel suo resoconto critico dell’ironia
romantica, Hegel la liquida duramente come un esercizio di negatività vuota,
di una vana soggettività che percepisce sé stessa come superiore rispetto a
qualunque contenuto oggettivo, che si prende gioco di tutto, colta negli
«sprazzi di un umorismo che si serve di ogni contenuto unicamente per far
valere la propria soggettiva spiritosaggine»:
È l’artista stesso che penetra nell’argomento. Perciò, la sua attività principale
consiste nel far in sé decomporre e dissolvere, ad opera della potenza di trovate
soggettive, lampi di pensiero e sorprendenti modi di concepire tutto ciò che
pretende di farsi oggettivo e di acquistare una forma fissa della realtà o che sembra
possederla nel mondo esterno. Con ciò ogni autonomia di un contenuto oggettivo e
la connessione della forma, in sé fissa, data dalla cosa stessa, vengono in sé
annientate, e la rappresentazione diviene solo un giuoco con gli oggetti, una
deformazione e un rovesciamento della materia ed insieme uno scorrere in su ed in
giù, un incrociarsi di espressioni, modi di vedere e atteggiamenti soggettivi, con cui
l’autore porta allo sbaraglio sé stesso e i suoi oggetti. 1
La posizione di Hegel viene normalmente considerata conservatrice:
invece dell’ironia anarchica e distruttiva in senso lato dei romantici,
bisognerebbe riconoscere il Buono e il Vero incarnato nelle tradizioni,
ovvero, il suo cuore razionale. In ogni caso, Hegel in questo passo è in realtà
molto più ambiguo. Primo, la sua critica di base all’umorismo soggettivo non
è relativa al fatto che mette in discussione tutto il contenuto oggettivo, senza
prenderlo sul serio, relativizzandolo, ma che tutto questo atteggiamento
ironico e onnidistruttivo è in realtà completamente impotente: nella pratica
non minaccia nulla, fornisce soltanto al soggetto ironico l’illusione di una
libertà interiore e di una superiorità. Quando gli individui si ritrovano in una
rete impenetrabile di relazioni sociali, l’unico modo per asserire la loro
personalità è con la scorta di scherzi che teoricamente ne dimostrano l’insita
superiorità.
Hegel all’ironia soggettiva romantica replica con un’ironia ontologica
molto più radicale che caratterizza il cuore più profondo della dialettica: a
proposito dell’ironia di Socrate, afferma che «per suo mezzo si è condotti a
conferire concretezza alle idee astratte. Ragione e fede, in quanto presupposti,
sono idee vuote ed astratte; se diventano concrete, è perché vengono
sviluppate e vengono riguardate come qualcosa di sconosciuto. [...] Socrate
contribuisce alla spiegazione delle idee». 2 L’approccio dialettico non cerca
attivamente di minare la realtà, che percepisce come antagonista; lascia
semplicemente che essa sia come deve essere (o come afferma di essere),
prendendola più seriamente di quanto non faccia lei con sé stessa,
permettendole in questo modo di distruggersi. Questa ironia è in un certo
senso oggettiva, per cui è ovvio che, in un breve passaggio (e purtroppo non
ulteriormente sviluppato) Hegel contrapponga all’umorismo soggettivo ciò
che chiama «umorismo oggettivo»:
L’umorismo d’altra parte si cura pure dell’oggetto e della forma che esso ha entro il
suo riflesso soggettivo, noi otteniamo con ciò una penetrazione intima nell’oggetto,
giungiamo a un umorismo in un certo senso oggettivo. [...] La forma di cui qui si
parla si mostra solo quando il parlare dell’oggetto non è semplicemente un
nominarlo, un’etichetta o un titolo, che dice esclusivamente solo ciò che l’oggetto è
in generale, ma quando intervengono un sentimento profondo, un acuto motto di
spirito, una riflessione sensata ed un movimento arguto della fantasia, che con la
poesia dell’apprensione animano ad ampliano anche ciò che è minimo. 3

Abbiamo qui a che fare con un umorismo che, concentrandosi su dettagli


sintomatici significanti, fa emergere le incoerenze e gli antagonismi insiti
nell’ordine esistente. Non sarebbe dunque legittimo estrapolare da queste
indicazioni l’idea che la totalità sociale in sé sia attraversata da antagonismi,
battuta da rovesciamenti comici? La libertà si trasforma in terrore, l’onore in
lusinga: ma questi rovesciamenti non sono forse la materia dell’astuzia della
ragione? È possibile immaginare un caso più terrificante di umorismo
oggettivo di quello dello stalinismo, del rovesciamento comico delle grandi
speranze di emancipazione in una violenza terrorista e autodistruttiva? Non si
potrebbe dire che Stalin è stato, in questo senso, il più grande burlone del XX
secolo? E non è forse, nel nostro tempo, la libertà individuale di scelta a sua
volta uno scherzo, la verità dietro alla quale sta la disperata situazione dei
lavoratori precari? Pensando al fatto che i migliori prodotti culturali
dell’epoca stalinista sono state le battute politiche, verrebbe di nuovo la
tentazione di parafrasare Brecht: cos’è mai persino la miglior barzelletta anti-
stalinista rispetto alla barzelletta costituita dalla politica stalinista in sé? O,
guardando più vicino a noi, cosa possono essere persino le migliori
barzellette su Trump rispetto alla barzelletta costituita dalla reale politica
trumpiana? Immaginiamoci che un comico, un paio d’anni fa, avesse messo
in scena a teatro le affermazioni, i tweet e le decisioni di Trump: sarebbero
state percepite come battute non realistiche, esagerate. Dunque Trump è già
la parodia di sé stesso, con l’effetto perturbante che la realtà del suo
comportamento è più offensivamente divertente della maggior parte delle sue
parodie.
Dal momento che l’umorismo oggettivo dispiega la negatività insita nella
cosa in sé, è chiaro che molti interpreti di Hegel, da Dieter Henrich in poi,
vedano nell’umorismo oggettivo l’ultima spiaggia dell’arte moderna, dell’arte
alla fine dell’arte. Possiamo addirittura tentare qui un ulteriore passo e
proporre il concetto di umorismo assoluto, l’unità di umorismo soggettivo e
oggettivo: la percezione di come l’umorismo oggettivo necessiti di quello
soggettivo per riprodursi. In questo senso, la critica dell’umorismo soggettivo
fatta da Hegel è oggi più attuale che mai. Uno dei miti popolari degli ultimi
regimi comunisti nell’Europa dell’Est era che ci fosse un dipartimento di
polizia segreta la cui funzione era (non di raccogliere, ma) di inventare e
mettere in circolazione barzellette politiche contro il regime e i suoi
rappresentanti, consapevoli della funzione positiva e stabilizzante di queste
barzellette: le battute politiche offrono alle persone un modo semplice e
tollerabile per sfogarsi, alleggerendole dalle loro frustrazioni.
E, a un livello diverso, vale la stessa cosa per Trump. Pensiamo a quante
volte i media liberal hanno annunciato che Trump era stato colto in castagna
e aveva commesso un suicidio politico (prendendo in giro i genitori di un
eroe di guerra, vantandosi delle donne conquistate, ecc.). Gli arroganti
commentatori progressisti erano sconvolti dal fatto che i loro duri e continui
attacchi alle volgari uscite razziste e sessiste di Trump, alle sue inesattezze,
alle assurdità economiche e così via non lo toccassero minimamente ma anzi,
forse, ne alimentassero il fascino mediatico. Non capivano come funziona
l’identificazione: di solito ci identifichiamo con le debolezze dell’altro, non
solo, e non principalmente, con i suoi punti di forza. Dunque più i limiti di
Trump venivano presi in giro, più la gente comune si identificava con lui e
percepiva gli attacchi a lui rivolti come boriosi attacchi a sé stessa. Per essa, il
messaggio subliminale delle volgarità di Trump era: «Sono uno di voi!», e si
sentiva costantemente umiliata dall’atteggiamento spocchioso delle élite
liberal nei suoi confronti. Come ha detto brevemente Alenka Zupancič, «i
poverissimi lottano al posto dei ricchissimi, come è stato chiaro nell’elezione
di Trump. E la sinistra non fa quasi nulla più che prenderli in giro e
insultarli». 4 O, dovremmo aggiungere, la sinistra fa persino peggio:
«comprende» in modo paternalistico la confusione e la cecità dei poveri.
Questa arroganza della sinistra liberal esplode nella sua forma più pura nel
nuovo genere di talk show di commento politico e comico (Jon Stewart, John
Oliver), che nella maggior parte dei casi mette in mostra il puro senso di
superiorità dell’élite intellettuale liberal:
Fare la parodia di Trump è, nel caso migliore, una distrazione rispetto alla realtà
della sua politica; in quello peggiore, trasforma tutta la politica in una battuta. Il
processo non ha nulla a che vedere con gli attori o con gli scrittori e con le scelte
che fanno. Trump ha costruito la sua candidatura sull’agire comicamente; è stata la
sua immagine nella cultura popolare per decenni. È semplicemente impossibile
parodizzare davvero un uomo che è coscientemente una parodia di sé stesso, e che
è diventato presidente degli Stati Uniti a partire da questa performance. 5

Nei miei lavori precedenti, ho fatto riferimento a una barzelletta diffusa nei
bei tempi andati del «socialismo reale», molto amata dai dissidenti. Siamo
nella Russia del XV secolo, durante l’occupazione dei mongoli, un contadino
e sua moglie camminano per una strada polverosa di campagna. Un soldato
mongolo a cavallo gli si ferma accanto e dice al contadino che sta per
violentare sua moglie. Poi aggiunge: «Ma, dato che c’è tanta polvere a terra,
tu dovresti tenermi i testicoli, così non mi si sporcano!». Dopo che il
mongolo ha finito con la moglie del contadino e se ne va, il contadino
comincia a ridere e a fare salti di gioia. La moglie, sorpresa, gli domanda:
«Ma che fai, salti di gioia dopo che mi hanno violentata brutalmente davanti
a te?». Il contadino le risponde: «L’ho fregato! Ha le palle piene di polvere!».
Questa triste barzelletta racconta le difficoltà dei dissidenti: pensano di
sferrare colpi durissimi alla nomenklatura di partito, mentre la nomenklatura
continua a violentare la gente. E non si può dire la stessa identica cosa di Jon
Stewart e di quanti, come lui, prendono in giro Trump? Non gli stanno forse
impolverando o, nel migliore dei casi, graffiando le palle?
La lezione fondamentale che apprendiamo dalla dialettica è dunque che
l’inutile umorismo soggettivo dovrebbe essere contrastato non dalla seria
analisi «oggettiva», ma dall’umorismo oggettivo di Hegel, che fa emergere le
assurdità insite nella nostra realtà. Non dovremmo avere paura di cogliere
questo aspetto umoristico persino nelle nostre esperienze più terrificanti.
Dopo la première a Berlino nel 2015, Terror di Ferdinand von Schirach è
diventato un successo mondiale, con centinaia di repliche in tutto il mondo,
accompagnate da un dibattito etico senza fine sui media. È un dramma
giuridico, il racconto del processo a carico di Lars Koch, pilota di guerra
tedesco che ha abbattuto un aereo civile che era stato dirottato da un
terrorista; l’aereo si stava dirigendo su uno stadio che conteneva 70.000
persone (era in corso la partita Germania-Inghilterra), e la pragmatica
decisione di Koch, decisione con la quale ha infranto la legge costituzionale,
fu di rinunciare alla vita dei 164 passeggeri piuttosto che permettere al
terrorista di massacrare un numero ben più alto di persone allo stadio. Alla
fine, il pubblico deve votare e giudicare della sua colpevolezza: ogni
spettatore ha un piccolo telecomando con due bottoni, 1 (colpevole) e 2 (non
colpevole), e il pubblico decide il verdetto. Come si può immaginare, il
pubblico, almeno nei teatri occidentali, si schiera dalla parte della non
colpevolezza.
Ci troviamo qui senza dubbio davanti a una genuina antinomia di ragione
morale (per rifarci a Kant): se formuliamo il dilemma in modo così chiaro,
ovviamente c’è una sola soluzione possibile. Qualunque gioco di cifre e
certezze – sul modello di «sono assolutamente certo che uccidendo una
persona ne salverò almeno cinquanta, dunque...» – non è altro che
un’oscenità. Ma la nostra sensazione di pancia che ci sia qualcosa di
profondamente sbagliato e falso nella scelta posta dal dramma è pienamente
giustificata: tale scelta è ideologia allo stato puro, soprattutto a partire da
quello che tralascia pur di presentare un quadro chiaro e semplice. Di fondo,
ci si rivolge a noi in quanto individui, messi davanti a una scelta
difficilissima la cui chiarezza (abbattere l’aereo o meno?) nasconde tutte le
altre questioni di rilievo. Che dire della possibilità di svuotare lo stadio (c’era
tempo a sufficienza), che dire delle cause geopolitiche di tali atti terroristici,
che dire dei nostri interventi militari nei paesi arabi, che dire della nostra
alleanza con l’Arabia Saudita? Abbiamo forse scelto una di queste opzioni, ci
è stata data questa possibilità? Perché sentiamo la pressione della scelta solo
quando ci troviamo davanti alle conseguenze di tutte queste altre scelte
precedenti?
Ma c’è un altro aspetto, più basilare, dello spettacolo, che dovremmo
interrogare. A ben vedere, capiamo che, quando Koch decide di abbattere
l’aereo, non sta facendo realmente una scelta individuale ed esistenziale ma
segue soltanto l’implicita ingiunzione sociale. Le conversazioni con i suoi
superiori dell’esercito chiariscono che loro si aspettano che lui abbatta
l’aereo; e che addirittura gli fanno sottilmente pressione perché lo faccia, ma
non vogliono dirglielo apertamente. La situazione ci richiama di nuovo al
portacenere dell’inizio di questo saggio, in cui una contraddizione tra
proibizione e permesso viene apertamente ipotizzata e dunque cancellata,
trattata come non-esistente; il messaggio è stato: «È proibito, ed ecco come lo
si fa». La situazione di Koch non era forse la stessa? Il messaggio ripetuto dai
suoi superiori era: «È proibito dalla legge... e fallo!».
Così funziona l’esercito. Ricordo un incidente simile avvenuto quando
facevo il militare. Una mattina, la prima lezione era sulla legge militare
internazionale, e fra le altre regole l’ufficiale disse che era proibito sparare ai
paracadutisti quando sono ancora in aria, prima che tocchino il suolo. Per una
fortunata coincidenza, la lezione successiva era sull’uso del fucile, e lo stesso
ufficiale ci insegnava come mirare a un paracadutista in aria (come, mentre lo
puntiamo, dobbiamo tenere conto della velocità della discesa e della
direzione e della forza del vento, e così via). Quando uno dei soldati chiese
conto all’ufficiale della contraddizione fra questa lezione e quello che
avevamo imparato solo un’ora prima, l’ufficiale si limitò a replicare con una
risata cinica: «Come puoi essere così stupido? Non lo sai come va la vita?».
Dovremmo qui osservare che, in caso di guerra nucleare, l’immaginazione
popolare brama uno scenario opposto: quello del singolo ufficiale che,
davanti al preciso comando, si rifiuta di premere il bottone salvando così il
mondo. Pensiamo a uno spaventoso dettaglio sulla crisi missilistica cubana:
solo a posteriori abbiamo saputo quanto siamo stati vicini a una guerra
nucleare durante una contesa navale fra un cacciatorpediniere americano e un
sottomarino sovietico B-59 al largo di Cuba il 27 ottobre 1962. Il
cacciatorpediniere sganciò in profondità delle cariche vicino al sottomarino
per obbligarlo a risalire, non sapendo che possedeva un siluro a testata
nucleare. Vladimir Orlov, un membro della truppa sottomarina, durante la
conferenza tenutasi a L’Avana, disse che il sottomarino sarebbe stato
autorizzato a sparare se tre ufficiali fossero stati d’accordo. Gli ufficiali
cominciarono a discutere animatamente se fosse il caso di affondare la nave.
Due dissero di sì e uno disse di no. «Un ragazzo chiamato Archipov salvò il
mondo» fu l’amaro commento che fecero gli storici dell’incidente. 6 Non
facciamo forse tutti silenziosamente affidamento su un’azione del genere nel
fiero scambio fra Stati Uniti, Corea del Nord e altri, ovvero che, nel momento
decisivo, un singolo individuo trovi la forza di fermare il folle ciclo di
minacce e contro-minacce nucleari?
Sulla falsariga del testo di von Schirach, possiamo immaginare una serie di
alternative: se un missile nord-coreano diretto a Guam va in pezzi, gli Stati
Uniti dovrebbero rispondere? E come? Ma quello che dovremmo sempre
tenere a mente è la follia di tutta la situazione: mentre siamo tutti minacciati
dalla catastrofe ecologica, continuiamo a giocare al gioco
dell’autodistruzione. Le decisioni che i nostri leader stanno prendendo in
considerazione non sono sulla scala di «Quante persone innocenti sono
autorizzato a uccidere per salvarne molte di più?» ma «Quanti milioni di
astanti innocenti sono pronto a uccidere, direttamente e indirettamente, per
contrattaccare il nemico?». Questo è ciò di cui si parla davvero quando si
evocano le conseguenze catastrofiche di un conflitto nucleare: moriranno
milioni e milioni di persone ma, in qualche modo, lo dobbiamo fare lo stesso
e reagire.
Ciò che complica ulteriormente le cose è che, ad ascoltare Kim Jong-un
che parla di un attacco devastante agli Stati Uniti, non possiamo che chiederci
in che modo vede la sua stessa posizione. Parla come se non fosse
consapevole che il suo paese, compreso sé stesso, ne sarebbe distrutto; è
come se stesse giocando a un gioco di fantasia. Sta dunque bluffando, non sta
davvero considerando una guerra nucleare? Se l’assioma di fondo della
Guerra fredda era quello della MAD (Mutual Assured Destruction,
Distruzione mutua assicurata), quello dei giochi nucleari odierni sembra
essere il suo opposto, quello della NUTS (Nuclear Utilization Target
Selection, Selezione del target di utilizzazione nucleare), l’idea che,
attraverso un colpo di precisione chirurgica, possiamo distruggere il
potenziale nucleare del nemico mentre il guscio anti-missile ci protegge da un
contrattacco. Più esattamente, gli Stati Uniti adottano una diversa strategia:
agiscono come se continuassero a credere nella logica della MAD nelle
relazioni con Russia e Cina, mentre sono allo stesso tempo tentati di seguire
la NUTS con l’Iran e la Corea del Nord. Il meccanismo paradossale della
MAD rovescia la logica della «profezia che si autoavvera» in una «intenzione
di autoistupidimento»: il fatto stesso che ogni parte possa essere sicura che,
se decide di sferrare un attacco nucleare sull’altra, l’altra risponderà con una
forza distruttiva, garantisce il fatto che nessuna delle due inizierà la guerra.
La logica della NUTS è, al contrario, che il nemico può essere costretto al
disarmo se sa che possiamo colpirlo senza rischiare un contrattacco. Il fatto
stesso che due strategie direttamente contraddittorie vengano adottate
simultaneamente dalla stessa superpotenza dimostra il carattere fantasmatico
di tutto il ragionamento. L’unica cosa che ci resta da fare in questa situazione
è mobilitare un pubblico internazionale il più vasto possibile per
criminalizzare direttamente ogni discorso sull’uso delle armi nucleari e di
tutte le altre armi di distruzione di massa. I leader e gli Stati che le prendono
anche solo in considerazione dovrebbero essere trattati come paria, come
osceni mostri subumani. Contro di loro, tutto dovrebbe essere permesso, dal
boicottaggio di massa all’umiliazione personale.
L’incombente conflitto militare tra Stati Uniti e Corea del Nord contiene
un doppio pericolo. Anche se entrambe le parti stanno certamente bluffando,
e non pensano davvero a un reale conflitto nucleare, la retorica non funziona
mai solo come retorica e può sempre sfuggire di mano. Inoltre, come hanno
commentato molti osservatori, la cosa strana è che Trump abbia deciso di
occupare una posizione simmetrica rispetto a quella di Kim Jong-un, alzando
la posta in gioco. Questa escalation ricorda sempre di più lo scontro per il
riconoscimento di due soggetti descritto da Hegel, in cui il vincitore è colui
che dimostra di essere pronto a morire piuttosto che a scendere a un
compromesso in nome della vita. Trump dunque, senza rendersene conto, si è
infilato in un gioco che non necessita di un vero superpotere; nel caso di una
nazione piccola e debole come la Corea del Nord, un avvertimento discreto e
fermo sarebbe sufficiente. L’atto altrimenti diventa ridicolo.
Con i primi passi verso una storica distensione fra Corea del Nord e Corea
del Sud dell’inizio del 2018, il tono si è magicamente trasformato in un tono
di reciproco rispetto e collaborazione, e ciò che ci sembra strano è proprio la
facilità di questo cambiamento, come se fossimo parte di uno strano gioco in
cui improvvisi rovesciamenti ci impediscono di prenderlo sul serio. Ma tali
rovesciamenti sono forse possibili anche fra Israele e Iran, fra gli Stati Uniti e
la Russia? Hanno iniziato a circolare delle strane voci su Trump in odore di
Nobel per la pace: lo otterrà? I francesi hanno una bella espressione, Voyons
voir, che possiamo tradurre con «stiamo a vedere». Quattro presidenti
americani hanno vinto il Nobel per la pace: Theodore Roosvelt, Woodrow
Wilson, Jimmy Carter (dopo aver lasciato l’incarico) e Barack Obama, nel
2009, per il suo «straordinario sforzo nel rafforzare la diplomazia
internazionale e la cooperazione fra le persone», spiegazione che è un falso, e
che esprimeva soltanto la speranza che Obama agisse in quel modo per il
futuro.
Per quanto incredibile sia la proposta che a Trump venga dato il premio
Nobel per la pace, dovremmo non di meno reagire in tre modi a una cosa del
genere. Primo, dovremmo ricordare che il grande compromesso che ha
permesso la svolta verso una risoluzione pacifica della crisi coreana è stato
reso possibile non da Trump ma da Kim Jong-un: Kim ha fatto la concessione
fondamentale, dunque il premio andrebbe dato a Kim e a Trump, e il ridicolo
insito in questa idea è ovvio: un premio per la pace per il capo del paese forse
più aggressivo al mondo? Donald e Kim dovrebbero forse essere premiati
solo per aver attuato una svolta e non per aver agito così follemente come
temevamo? Inoltre, come può stare insieme l’iniziativa a sostegno del Nobel
per la pace a Trump con la sua belligerante uscita dal patto con l’Iran? Il fatto
che questa uscita sia stata contestata da tutti gli alleati americani dell’Europa
occidentale apre la strada a un nuovo scenario globale geopolitico: potrebbe
isolare gli Stati Uniti dalla comunità degli Stati che continueranno ad aderire
al patto, riducendo in questo modo gli Stati Uniti a una delle tante potenze
mondiali.
In ogni caso, la scomoda verità (per i liberal di sinistra) è che, lungi
dall’essere solo il folle e bellicoso leader americano, Trump non sembra poi
così male se messo a confronto con Hillary Clinton. Quando il Guardian le
ha chiesto se credesse davvero che la Clinton sarebbe stata più pericolosa di
Trump, Susan Sarandon ha risposto:
Penso che lei fosse davvero, davvero pericolosa. Saremmo già in guerra se fosse
diventata presidente. Non sarebbe stato più semplice. Pensiamo a quello che è
successo durante l’era Obama e di cui non ci siamo accorti. Lei avrebbe fatto le
stesse cose, in modo disonesto. Ha deportato molte più persone di quante non ne
siano state deportate ora. Come abbia potuto ottenere il Nobel per la Pace proprio
non lo capisco. 7

Dovremmo dunque sempre ricordarci che, alla peggio, Trump sta


semplicemente continuando la politica dei suoi predecessori.
Quando, dopo aver annunciato l’incontro con Kim Jong-un, Trump ha
deciso di uscire dall’accordo con l’Iran, si sarebbe potuto credere di avere
davanti agli occhi due Trump diversi in rapida successione, il Trump
«pacifista», le cui azioni portano al disarmo in Corea, e il Trump
«belligerante», che ha deciso di uscire dal patto con l’Iran e dunque di portare
instabilità e rischi di guerra (non solo) in Medio Oriente. Ma c’è solo un
Trump che stava facendo esattamente la stessa cosa in entrambi i casi. Nel
caso della Corea del Nord, ha iniziato esercitando forti pressioni, comprese
sanzioni economiche e minacce militari, e lo stesso sta facendo con l’Iran,
forse con la speranza che, se ha funzionato la prima volta, possa funzionare di
nuovo... Sarà così? Non dobbiamo dimenticare l’ovvia differenza fra i due
casi: la Corea del Nord è uno Stato isolato privo di interessi nella regione,
mentre l’Iran è profondamente coinvolto nei conflitti mediorientali. Uno dei
pochi eventi che hanno fatto sorgere un minimo di speranza in questo
pericoloso pasticcio è stato l’incontro diretto, del tutto inatteso, fra i leader
delle due Coree alla fine del maggio 2018, dopo che Trump aveva cancellato
l’incontro con Kim. Forse, è l’unico modo giusto di procedere: superare le
ingerenze americane e allentare le tensioni a livello locale, senza l’«aiuto»
delle superpotenze.
E se invece gli Stati Uniti fossero ben consapevoli del fatto che la
pressione sull’Iran non funzionerà? E se, insieme a Israele e all’Arabia
Saudita, si stessero invece preparando alla guerra contro l’Iran? È difficile
immaginare le conseguenze di un tale conflitto, soprattutto se pensiamo al
fatto che, sul lungo periodo, non è possibile impedire a un paese di acquistare
armi nucleari (o chimiche, o biologiche). In ogni caso, ciò che non è difficile
vedere, è l’assurdità del concetto stesso di Trump candidato al premio Nobel
per la pace; chi se lo meriterebbe davvero, dunque? Pensiamo a Sophia
Karpai, a capo dell’unità cardiografica dell’ospedale del Cremlino alla fine
degli anni Quaranta. La sua (casuale) sfortuna fu quella di dover fare per due
volte un elettrocardiogramma a Andrej Ždanov, il capo comunista, uno il 25 e
l’altro il 31 luglio 1948, pochi giorni prima della morte di Ždanov per infarto.
Il primo ECG, fatto dopo che Ždanov aveva manifestato alcuni problemi al
cuore, non mostrò nulla di rilevante (un infarto non poté né essere confermato
né smentito), mentre il secondo aveva mostrato, in modo inatteso, un quadro
decisamente migliore (il blocco intraventricolare era scomparso,
un’indicazione chiara del fatto che non ci fosse stato un infarto). Nel 1951 la
donna fu arrestata con l’accusa di aver falsificato i dati, in accordo con gli
altri dottori che avevano in cura Ždanov, e di aver cancellato le prove
evidenti che un infarto ci fosse effettivamente stato, dunque privando Ždanov
delle cure specifiche di cui avrebbe avuto bisogno. Dopo un trattamento
brutale, fatto di percosse violente e ripetute, tutti gli altri dottori
confessarono. «Sophia Karpai, che il suo capo medico Vinogradov aveva
descritto come nient’altro che ‘una tipica persona della strada con la morale
della piccola borghesia’, venne messa in una cella frigorifera impedendole di
dormire: tuttavia, non confessò». 8
L’impatto della sua determinazione è inestimabile: la sua confessione
avrebbe convalidato «il complotto della dottoressa», attivando
immediatamente il meccanismo che, una volta in azione, avrebbe portato alla
morte di centinaia di migliaia di persone, forse anche a una nuova guerra
europea (secondo il piano di Stalin, il «complotto» sarebbe stata una
dimostrazione che i servizi occidentali avevano tentato di uccidere i massimi
leader sovietici: sarebbe dunque stata usata come scusa per attaccare
l’Europa).
Ha resistito fino a quando Stalin non è entrato nel suo coma finale,
dopodiché l’intero caso venne messo da parte. Questa fermezza contro tutti
gli ostacoli è in definitiva ciò di cui sono fatti i veri eroi. Veniamo a sapere di
questi casi solo a volte e solo dopo anni. Se dunque ci fosse un minimo di
giustizia, il Nobel per la pace non dovrebbe essere dato né ai politici in
attività, per i loro atti presenti (cioè, per non esser stati brutali come ci si
aspettava che fossero), né ai politici per i loro presunti atti futuri; il premio
dovrebbe essere dato retroattivamente, ad eroi senza nome come Archipov e
la Karpai.

Tornando al nostro discorso principale, la logica della competizione tra Stati-


nazione è estremamente pericolosa perché va direttamente contro il bisogno
impellente di stabilire un nuovo modo di relazionarci con il nostro ambiente,
una sfida politico-economica radicale chiamata da Peter Sloterdijk
«l’addomesticamento della belva cultura». Fino ad ora, ogni cultura ha
disciplinato o istruito i propri membri e garantito la pace civile per mezzo del
potere dello Stato; ma sulla relazione tra Stati e culture differenti non ha mai
cessato d’incombere la possibilità che scoppiasse una guerra, e i periodi di
pace si sono ridotti ad armistizi temporanei. Per come è stata formulata da
Hegel, l’etica dello Stato culmina nel gesto più elevato di eroismo, l’essere
pronti a sacrificare la propria vita per lo Stato-nazione; se ne deduce quindi
che le relazioni barbariche e selvagge tra gli Stati servono a fondare la vita
etica all’interno dello Stato. La Corea del Nord, perseguendo la costruzione
implacabile di un arsenale nucleare per colpire obiettivi distanti, non è
l’esempio ultimo di questa logica di sovranità assoluta dello Stato-nazione?
Tuttavia, accettando pienamente di vivere sull’Astronave Terra, un compito
s’impone con urgenza: civilizzare le stesse civiltà, imporre la solidarietà
universale e la cooperazione fra tutte le comunità umane; un compito reso
ancora più arduo dall’emergere della violenza «eroica» legata all’etnia e alle
religioni settarie e della prontezza nel nel sacrificio di sé stessi (e del mondo)
per la propria, specifica causa.
Rivolgendosi ai membri del Parlamento russo il 1o marzo 2018, Vladimir
Putin ha affermato: «I lanci di prova del missile e le prove a terra hanno reso
possibile la creazione di un’arma nuovissima, un nuovo missile da crociera
con un sistema di propulsione nucleare. Il raggio d’azione è illimitato. Può
agire per un periodo illimitato di tempo. Nessuno al mondo possiede una cosa
simile». Fra gli applausi ha concluso: «La Russia ha ancora il maggiore
potenziale nucleare al mondo, ma nessuno ci ascolta. È tempo che ci
ascoltino». 9
Sì, dobbiamo ascoltare queste parole, ma ascoltarle come quelle di un
pazzo che si unisce in duetto ad altri due pazzi. Ricordiamo come, non molto
tempo fa, Kim Jong-un e Donald Trump abbiano gareggiato sui bottoni a loro
disposizione per innescare una guerra nucleare, con Trump che affermava che
il suo bottone era più grande di quello di Kim. Ora abbiamo anche Putin che
si unisce a questa oscena competizione (la quale, cosa che non dobbiamo mai
dimenticare, è una competizione che può distruggerci tutti in modo rapido ed
efficace) affermando che il suo è il più grande... Ognuno poi può,
ovviamente, affermare di volere solo la pace, e che sta solo reagendo alla
minaccia posta dagli altri (ad esempio, Putin ha subito aggiunto che stava
solo reagendo alle affermazioni di Trump secondo le quali, grazie ai suoi
scudi protettivi, gli Stati Uniti possono vincere la guerra nucleare con la
Russia); è vero, ma questo significa che la follia sta in tutto il sistema, nel
circolo vizioso in cui cadiamo una volta che vi entriamo dentro. La struttura
qui è simile a quella del «supposto-credere», in cui tutti i partecipanti
agiscono individualmente in modo razionale, attribuendo l’irrazionalità
all’altro che ragiona esattamente allo stesso modo. Degli anni della mia
giovinezza nella Jugoslavia socialista ricordo un episodio che riguardò la
carta igienica. Un giorno cominciò a girare voce che non c’era carta igienica
a sufficienza nei negozi. Le autorità rassicurarono subito la popolazione
dicendo che di carta igienica ce n’era a sufficienza per un uso normale, e,
sorprendentemente, ciò non solo era vero, ma la maggior parte delle persone
ci credette anche. Comunque, un consumatore medio potrebbe ragionare così:
«So che c’è carta igienica a sufficienza e che la voce che gira è falsa, ma che
succede se qualcuno la prende seriamente e, preso dal panico, comincia a
comprarne quantità esagerate, causando in questo modo una vera penuria?
Dunque, sarà meglio che vada e ne compri un bel po’ anch’io». Non è
nemmeno necessario credere che qualcuno prenderà quella voce sul serio – è
sufficiente presupporre che qualcuno creda, come te, che ci saranno persone
che la prenderanno sul serio: l’effetto è lo stesso, ovvero una penuria reale di
carta igienica nei negozi. (Il fenomeno dei bitcoin non ha forse questa esatta
struttura – un’entità la cui unica sostanza è la credenza in essa da parte dei
soggetti – portata all’estremo? Il mantra secondo il quale, a un certo punto, i
bitcoin dovranno collassare, proprio perché si fondano sul nulla, esprime la
nostra paura, non la paura di questo collasso ma quella opposta secondo cui
qualcosa che si basa sul nulla possa non di meno esistere indefinitamente).
Questa follia diventa visibile nel momento in cui ci poniamo una semplice
domanda: in che modo i protagonisti di questo stallo nucleare (Kim, Trump,
Putin) si immaginano il momento in cui premeranno il bottone? Non sono
forse consapevoli al cento per cento che il loro stesso paese ne risulterà
distrutto dalle conseguenti rappresaglie? Ne sono consapevoli... ma anche no,
ovvero parlano chiaramente da una posizione schizofrenica: anche se sanno
che moriranno, parlano come se in qualche modo fossero al di fuori del
pericolo e potessero colpire il nemico da un punto sicuro. Questa posizione
schizofrenica combina i due assiomi del conflitto nucleare, MAD e NUTS. Il
fatto stesso che due strategie direttamente contraddittorie siano messe in atto
contemporaneamente dalla stessa superpotenza testimonia il carattere
fantasmatico di tutto il ragionamento. Nel dicembre 2016 questa incoerenza
ha raggiunto un apice di ridicolo quasi inimmaginabile: Trump e Putin hanno
entrambi sottolineato la possibilità di nuove amichevoli relazioni fra Russia e
Stati Uniti, affermando allo stesso tempo il loro massimo impegno nella corsa
agli armamenti; come se la pace tra le superpotenze potesse arrivare soltanto
da una nuova Guerra fredda. Alain Badiou ha scritto che i contorni della
guerra futura sono stati già delineati:

Gli Stati Uniti e la loro cricca occidental-giapponese da una parte, la Cina e la


Russia dall’altra, armi atomiche dappertutto. Non ci resta che dar retta a Lenin: «O
la rivoluzione impedirà la guerra, o la guerra provocherà la rivoluzione». Ecco
come possiamo definire la massima ambizione del lavoro politico a venire: per la
prima volta nella storia, la prima ipotesi – la rivoluzione impedirà la guerra – deve
diventare realtà, e non la seconda – la guerra provocherà la rivoluzione. È
effettivamente la seconda ipotesi che si è materializzata nella Russia della Prima
guerra mondiale, e in Cina durante la Seconda. Ma a che prezzo! E con quali
conseguenze a lungo termine! 10

Non è possibile evitare di concludere che un cambiamento sociale radicale,


una rivoluzione, sia necessario per civilizzare le nostre civiltà. Non possiamo
permetterci di sperare che una nuova guerra porti a una nuova rivoluzione:
una nuova guerra vorrebbe probabilmente dire la fine della civiltà come la
conosciamo, con i sopravvissuti (se mai ce ne fossero) organizzati in piccoli
gruppi autoritari. In ogni caso, il massimo ostacolo a questo processo di
civilizzazione delle civiltà non è tanto la violenza fondamentalista e settaria
quanto il suo apparente contrario, la cinica indifferenza. Nell’ottobre 2017,
Donald Trump ha dichiarato l’emergenza sanitaria pubblica in risposta a ciò
che ha definito «vergogna nazionale e tragedia umana»: la crescente,
epidemica dipendenza da oppiacei negli Stati Uniti, «la peggiore crisi delle
droghe nella storia americana», causata dalla prescrizione di massa di farmaci
antidolorifici a base di oppiacei: «Gli Stati Uniti sono di gran lunga il
massimo consumatore di questi farmaci, con un consumo procapite di
antidolorifici di gran lunga superiore a qualunque altro paese. Nessuna parte
della nostra società, giovani o vecchi, ricchi o poveri, urbana o rurale, è
immune da questa piaga di dipendenza». Anche se Trump è quanto di più
lontano si possa immaginare dall’essere un marxista, le sue affermazioni non
possono che ricordarci la famosissima definizione che, nel suo Per la critica
della filosofia del diritto di Hegel, ha dato Marx della religione come «oppio
del popolo», che vale la pena citare:
La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza
cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del
popolo. Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire
esigerne la felicità reale. L’esigenza di abbandonare le illusioni sulla sua
condizione è l’esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni.
La critica della religione, dunque, è, in germe, la critica della valle di lacrime, di
cui la religione è l’aureola.

Si nota subito come Trump, che vuole avviare la sua battaglia agli oppiacei
proibendo le medicine più pericolose, è un marxista molto volgare, simile a
quei comunisti duri e puri (come Enver Hoxha o i Khmer Rossi) che
cercarono di indebolire la religione semplicemente dichiarandola fuori legge.
La posizione di Marx è molto più sottile: invece di combattere direttamente la
religione, lo scopo dei comunisti è quello di cambiare la situazione sociale di
sfruttamento e dominio che dà origine prima di tutto al bisogno di religione.
Marx non di meno rimane troppo ingenuo, non solo nella sua idea di
religione, ma anche rispetto alle diverse forme che l’oppio dei popoli riveste.
È vero che l’islam radicale è un caso esemplare di religione come oppio dei
popoli: un falso confronto con la modernità capitalista che permette ai
musulmani di immergersi nel loro sogno ideologico, mentre i loro paesi sono
devastati dagli effetti del capitalismo globale; e vale esattamente la stessa
cosa per il fondamentalismo cristiano. Nel gennaio 2018, si è saputo che in
Egitto i legislatori

stanno seriamente considerando di far approvare una legge che renderebbe illegale
l’ateismo. La blasfemia in Egitto è già illegale, e le persone vengono
frequentemente arrestate per aver insultato o diffamato la religione grazie alle
rigide leggi del paese. La nuova proposta renderebbe illegale non credere in Dio,
anche senza parlarne. 11

Sorgono immediatamente due questioni: in che modo le autorità


stabiliranno se una persona è atea se essa non ne fa parola? Un commento
ironico: faranno una scansione del cervello del sospettato con gli strumenti
usati dai neuro-teologi che cercano di determinare se ci sono tracce di
esperienza religiosa nei loro neuroni? Seconda domanda: come giustificano
questa misura estrema? Ecco la risposta ipotizzata da Khaled Salah, nel suo
articolo Gli atei stanno arrivando:
I pericoli del terrorismo sono noti, ma sono in pochi a sapere che l’ateismo e il
terrorismo sono ugualmente distruttivi. Inoltre l’ateismo indebolisce l’identità delle
persone e mette in dubbio verità stabilite, legate alla storia, ai canoni e ai simboli
religiosi, ai compagni e seguaci del Profeti, e porta in fin dei conti al collasso delle
fondamenta di interi paesi e delle loro sacre verità. 12

Dunque non è il fondamentalismo religioso ma l’ateismo che deve essere


ritenuto responsabile del terrore, anche se viene fatto in nome della religione!
Questo modo di argomentare ricorda la reazione della Chiesa cattolica
americana all’ondata di pedofilia che ha coinvolto i suoi preti: ha evocato una
dubbia ricerca che faceva risalire la colpa alla cultura secolar-edonista che
aveva contagiato i preti... La cosa triste è che, dal momento che negli ultimi
decenni l’ateismo con una sfumatura islamofobica si è definito come una
scelta rispettabile nello spazio pubblico americano (l’ateismo sul genere degli
Harris, Pinker, Hitchens, ovviamente), è diventato di moda in alcuni circoli
della sinistra «radicale» sminuire la critica alla religione perché potrebbe
«servire al nemico»... In ogni caso, oggi, nel nostro mondo occidentale, ci
sono altre due forme di oppio del popolo: l’oppio e il popolo. Come dimostra
l’incremento del populismo, l’oppio del popolo è anche il «popolo» stesso, il
confuso sogno populista destinato a nascondere il nostro stesso antagonismo.
E, ultimo ma non per importanza, per molti di noi l’oppio del popolo è
l’oppio stesso, la fuga nelle droghe. Esattamente il fenomeno di cui parla
Trump.
Come sempre, per produrre gli oppiacei (non solo letteralmente ma anche
ideologicamente) – come «il popolo» – serve un apparato tecnologico molto
sofisticato. Se c’è una figura che spicca come «eroe del nostro tempo» è
quella di Christopher Wylie, un gay vegano canadese che, a ventiquattro
anni, è saltato fuori con l’idea che ha portato alla fondazione di una
compagnia chiamata Cambridge Analytica, un’azienda di analisi dei dati che
è arrivata a rivendicare un ruolo prioritario nella campagna inglese per
l’uscita dell’Europa; più tardi, è diventata una figura chiave nelle operazioni
digitali della campagna elettorale di Donald Trump, inventando l’apparato
bellico psicologico di Steve Bannon. Il piano di Wylie era di entrare in
Facebook, estrarne i profili di milioni di persone in America e usare le loro
informazioni private e personali per creare dei sofisticati profili psicologici e
politici, e poi produrre delle pubblicità politiche mirate su di loro e studiate
per operare sul loro specifico profilo psicologico. A un certo punto, Wylie è
andato su tutte le furie: «È assurdo. La compagnia ha creato i profili
psicologici di 230 milioni di americani. E adesso vogliono lavorare con il
Pentagono? Sarebbe come Nixon sotto steroidi». 13
Ciò che rende questa storia così affascinante è che combina elementi che
normalmente percepiamo come opposti. La «destra alternativa» presenta sé
stessa come un movimento che si rivolge alle preoccupazioni delle persone
comuni, bianche, lavoratrici, profondamente religiose, che rappresentano i
valori semplici della tradizione e aborrono l’eccentricità corrotta di
omosessuali e vegani, e anche dei nerd del digitale; ora invece veniamo a
sapere che il loro trionfo elettorale è stato gestito e orchestrato esattamente da
quel nerd che incarna tutti i loro fantasmi... In questo fatto c’è qualcosa di più
di un semplice aneddoto: indica chiaramente la vacuità del populismo della
«destra alternativa», che deve affidarsi agli ultimi ritrovati della tecnologia
per mantenere la sua presa sugli elettori dell’America rurale. Inoltre cancella
l’illusione che essere un nerd informatico di nicchia equivalga
necessariamente a una posizione «progressista» anti-sistema.
Dunque questa necessità di fuggire nell’oppio da dove deriva? Per
parafrasare Freud, dobbiamo dare un’occhiata alla psicopatologia della vita
quotidiana del capitalismo globale. Un’ulteriore forma di odierno oppio del
popolo è la nostra fuga nell’universo digitale pseudo-sociale di Facebook,
Twitter, e così via. In un discorso fatto ai laureati di Harvard nel maggio
2017, Mark Zuckerberg ha detto al pubblico: «Il nostro compito è quello di
creare la sensazione di avere uno scopo!» e questo detto da un uomo che, con
Facebook, ha creato uno dei massimi strumenti per far perdere tempo al
mondo!
Come ha dimostrato Laurent de Sutter, la chimica nella sua forma
scientifica è diventata parte di noi: ampi settori delle nostre vite sono
caratterizzati dalla gestione delle nostre emozioni attraverso le medicine,
dalle pillole per dormire agli antidepressivi fino ai narcotici più pesanti. Non
siamo solo controllati da poteri sociali impenetrabili, ma le nostre stesse
emozioni vengono «date in appalto» alla sollecitazione chimica. I compiti di
questo intervento chimico sono duplici e contraddittori: usiamo delle
medicine per tenere sotto controllo le sollecitazioni esterne (shock, angosce,
ecc.), per renderci meno sensibili ad esse, e per generare un’eccitazione
artificiale se siamo depressi e privi di desiderio. Le medicine vengono
dunque impiegate per far fronte alle due contrapposte minacce delle nostre
vite quotidiane, la sovreccitazione e la depressione, ed è fondamentale
osservare in che modo l’uso di queste medicine si relazioni con la nostra vita
privata e pubblica: nei paesi sviluppati dell’Occidente, le nostre vite
pubbliche sono sempre più manchevoli di eccitamento collettivo (ad esempio
quello portato da un genuino impegno politico), mentre le medicine
sostituiscono questa mancanza con forme di eccitamento privato (o, piuttosto,
intimo); operano una sorta di eutanasia sulla vita pubblica ed eccitano
artificialmente quella privata. 14 (Ciò che resta dell’appassionato impegno
politico in Occidente è soprattutto l’odio populista, cosa che ci porta alla
seconda forma di oppio del popolo, il popolo stesso). Il paese più
profondamente impregnato di questa tensione è la Corea del Sud; ecco il
racconto che ha fatto Franco Berardi del suo recente viaggio a Seoul:
Questo è il ground zero del mondo, un canovaccio del futuro del pianeta. [...]
Dopo la colonizzazione e le guerre, dopo la dittatura e la fame, la mente
sudcoreana, liberata dal peso del corpo naturale è entrata in modo levigato nella
sfera digitale con un grado di resistenza culturale che sembra inferiore a quello di
ogni altra popolazione del mondo. Questa è la risorsa principale che ha permesso
l’incredibile performance economica della rivoluzione elettronica. Nello spazio
culturale svuotato, l’esperienza coreana è segnata da un grado estremo di
individualizzazione e al tempo stesso è diretta verso il cablaggio definitivo della
mente collettiva.

L’individuo sorride solitaria monade che cammina nello spazio urbano in continua
tenera interazione con le foto, i twitters, i giochi che provengono dal piccolo
schermo. Ma la monade solitaria è un’interfaccia levigata del flusso connettivo.
La Corea del Sud ha il tasso di suicidi più alto al mondo. Lì, il suicidio è la causa di
morte più comune per i minori di 40 anni. È interessante notare che il tasso di
suicidi in Corea del Sud è raddoppiato nell’ultimo decennio [...] nello spazio di due
generazioni, la condizione dei cittadini è sicuramente migliorata dal punto di vista
del reddito, della nutrizione, della libertà e della possibilità di viaggiare all’estero.
Il prezzo di questo miglioramento è stato però la desertificazione della vita
quotidiana, l’iper-accelerazione dei ritmi, l’estrema individualizzazione delle
esistenze e la precarietà del lavoro, che significa anche concorrenza sfrenata [...]
l’intensificazione del ritmo di lavoro, la desertificazione del paesaggio e la
virtualizzazione della vita emotiva stanno convergendo per creare un livello di
solitudine e disperazione a cui è difficile opporsi consapevolmente. 15

Le impressioni di Berardi danno di Seul l’immagine di un luogo privato


della propria storia, un luogo astratto. Badiou ha detto che viviamo in uno
spazio sociale che viene progressivamente sperimentato come astratto. Anche
l’antisemitismo nazista, per quanto terribile, aveva aperto un mondo:
descriveva i suoi problemi e proponeva un nemico, cioè la «cospirazione
ebraica»; definiva un obiettivo e i mezzi per realizzarlo. Il nazismo ha
spezzato la realtà in un modo che ha permesso ai suoi argomenti di acquisire
una mappatura cognitiva globale.
Forse è qui che si dovrebbe individuare uno dei principali pericoli del
capitalismo: sebbene globale, sostiene una costellazione ideologica senza
tempo, che priva la stragrande maggioranza delle persone di qualsiasi
mappatura cognitiva significativa. Questo dunque è ciò che spinge milioni di
persone a cercare rifugio negli oppiacei. Non solo la nuova povertà e la
mancanza di prospettive, ma anche l’insopportabile pressione del Super-io
nei suoi due aspetti: la pressione per il successo professionale e la pressione
per godere la vita al massimo. Questo secondo aspetto forse è ancora più
inquietante: cosa resta della nostra vita quando il nostro rifugio nel piacere
privato diventa quasi un obbligo? In breve, non è forse Trump stesso, il modo
in cui agisce, scrive continuamente tweet, ecc., la causa della malattia che sta
cercando di curare?
Tornando agli anni Sessanta, il motto dei primi movimenti ecologici era
«Pensare globalmente, agire localmente!». Con la sua politica di sovranità
che rispecchia la posizione della Corea del Nord, Trump promette di fare
l’esatto opposto, di trasformare gli Stati Uniti in una potenza globale, ma
questa volta nel senso di «Agire globalmente, pensare localmente!». Non
dovremmo temere di aggiungere che questo luogo ha un nome preciso –
pensiamo localmente perché siamo bloccati nella platonica caverna
dell’ideologia – dunque come ne possiamo uscire? Ecco che incontriamo una
complessa dialettica di libertà e servitù:
L’uscita dalla caverna inizia quando uno dei prigionieri non solo viene liberato
dalle sue catene (come mostra Heidegger, questo non basta certamente a liberarlo
dall’attaccamento libidico alle ombre), ma viene spinto fuori. Questo chiaramente
deve essere il posto per la funzione (libidica, ma anche epistemologica, politica e
ontologica) del padrone. E può essere solo un padrone che non mi dice esattamente
quello che devo fare né di chi potrei diventare strumento, ma deve essere un
padrone che semplicemente «mi restituisce a me stesso». E, in un certo senso, si
potrebbe dire che la cosa potrebbe ricongiungersi alla teoria dell’anamnesi
platonica (ricordare ciò che non si è mai saputo, per così dire) e implica che il
padrone vero e proprio semplicemente afferma, o mi rende possibile affermare che
«Io lo posso fare», senza dirmelo. 16

L’osservazione che fa qui Ruda è molto sottile: non è solo che, se sono
lasciato da solo nella caverna, anche senza catene, preferisco rimanere lì, così
che un padrone mi deve forzare a uscire; devo offrirmi volontariamente per
essere forzato a uscire, allo stesso modo in cui, quando un soggetto inizia un
percorso di psicoanalisi, lo deve fare volendolo fare, accettando
volontariamente lo psicoanalista come proprio padrone (anche se in un modo
molto specifico):
Proprio a questo punto sorge un problema nel riferirsi al padrone in termini
psicoanalitici: significa forse che coloro che necessitano di un padrone sono –
sempre – nella posizione dell’analizzando? Se, politicamente, un tale padrone è
necessario per diventare ciò che si è (per usare la formula nietzschiana), e questo
può essere strutturalmente collegato alla liberazione del prigioniero dalla caverna
(obbligarlo dopo avergli tolto le catene e lui ancora non vuole andar via), il
problema è come tenere insieme questo con l’idea che l’analizzando debba essere
costitutivamente un volontario (e non semplicemente uno schiavo o un garante).
Dunque, in breve, deve esserci una dialettica di padrone e volontario: una dialettica
perché il padrone in qualche modo costituisce i volontari in quanto tali (li libera da
una posizione che precedentemente sembrava non discutibile), così che poi
diventano seguaci volontari dell’ingiunzione del padrone, per cui il padrone in fin
dei conti diventa superfluo – ma forse solo per un certo periodo di tempo; dopo
bisogna ripetere lo stesso processo (non si riesce mai ad abbandonare del tutto la
caverna, tanto che bisogna re-incontrare costantemente il padrone, e le angosce che
questo comporta, ovvero, l’intervento del padrone è necessario se le cose si
bloccano di nuovo, o diventano mortalmente abitudinarie).

Ciò che complica ulteriormente il quadro è il fatto che

il capitalismo si fonda in massima parte sul lavoro non pagato e dunque


strutturalmente «volontario». Ci sono, per dirla con Lenin, volontari e «volontari»,
dunque bisognerebbe distinguere non solo fra i diversi tipi di figure di padrone ma
anche collegarle (se il collegamento con la psicoanalisi è in questo modo
pertinente) a diversi modi di intendere il volontario, l’analizzando. Anche
l’analizzando, un volontario, deve in qualche modo essere forzato all’analisi. Il che
potrebbe chiamare in causa la classica lettura della dialettica servo-padrone, ma
penso che si dovrebbe tenere a mente che non appena lo schiavo si identifica come
tale non lo è già più, mentre il lavoratore volontario nel capitalismo può
identificarsi in quello che è e questo non cambia nulla (il capitalismo interpella le
persone come «nullità», volontari, ecc.).

I due livelli di volontariato (che sono allo stesso tempo due livelli di
servitù volontaria) sono diversi, non solo rispetto al contesto della servitù (ai
meccanismi di mercato, a una causa di emancipazione); è la forma in sé che è
diversa. Nella servitù al capitalismo noi semplicemente ci sentiamo liberi,
mentre nell’autentica liberazione accettiamo una servitù volontaria nella
forma del servire una Causa e non solo noi stessi. Nell’odierno, cinico
funzionamento del capitalismo, io so benissimo quello che sto facendo e
continuo a farlo, l’aspetto liberatorio della mia conoscenza è sospeso, mentre
nell’autentica dialettica di liberazione la consapevolezza che ho della mia
situazione è già il primo passo verso la liberazione. Nel capitalismo sono reso
schiavo esattamente quando «mi sento libero»: questo sentimento è la forma
stessa della mia servitù, mentre in un processo emancipatorio sono libero
quando «mi sento come uno schiavo», ovvero il sentimento di essere uno
schiavo è già testimonianza del fatto che, al cuore della mia soggettività, sono
libero; solo quando la mia posizione di enunciazione è quella di un soggetto
libero posso sperimentare la mia schiavitù come un abominio. Abbiamo
dunque qui due versioni del rovesciamento del nastro di Möbius: se seguiamo
la libertà capitalista fino alla fine, si trasforma in una vera e propria forma di
servitù, e se vogliamo spezzare la servitù volontaria capitalista la nostra
affermazione di libertà di nuovo deve assumere la forma del suo opposto, del
servire volontariamente una Causa.
Se Marx ha definito i diritti umani borghesi quelli di «liberté-égalité-
fraternité e Bentham», la versione proletaria e propriamente di sinistra
dovrebbe essere «libertà-uguaglianza-fraternità e... terrore», il terrore di
essere strappati dalla compiacenza della vita borghese e dalle sue battaglie
egoistiche, il terrore come pressione per elevare noi stessi verso
un’emancipazione universale. Bentham o il terrore: questa, forse, è la nostra
scelta definitiva. Ma perché il terrore è necessario? Perché oggi le nostre
catene nella caverna non sono quelle dell’ideologia tradizionale. Robert
Pippin di recente ha sottolineato questo spostamento:
La complessità della nostra situazione ha creato un qualcosa senza precedenti di cui
solo la filosofia [di Hegel], con la sua capacità di spiegare il ruolo «positivo» del
negativo, e la realtà dell’agenzia di gruppo e della soggettività collettiva, può dare
conto. La vita nelle società moderne sembra avere creato il bisogno di stati
doxastici collettivi straordinariamente dissociati, una ripetizione dei vari personaggi
del dramma dell’autoinganno narrato nella Fenomenologia. In questo contesto noi
crediamo sinceramente di essere devoti a princìpi e massime fondamentali ai quali
non siamo realmente devoti, dato quello che facciamo [...] I princìpi possono essere
riconosciuti e noti coscientemente e sinceramente ma, essendo i princìpi che sono,
non possono essere integrati in una forma di vita vivibile e coerente. Le condizioni
sociali per l’autoinganno in questo tipo di contesto possono aiutare a dimostrare
che il problema non viene adeguatamente descritto come quello in cui molti
individui in effetti cadono nell’autoinganno. L’analisi non è di tipo morale, non è
focalizzata sugli individui. Deve essere intesa come parte del Geist storico. 17

Il punto fondamentale di questo passaggio è il modo in cui Pippin


sottolinea il ruolo «positivo» del negativo, e «la realtà dell’agenzia di gruppo
e della soggettività collettiva»: il «negativo», in questo caso, è la dissonanza,
la distanza fra una tessitura esplicitamente ideologica e la sua pratica reale nel
mondo reale. Il suo ruolo positivo significa che questa dissonanza non
impedisce la piena realizzazione di un’ideologia ma la rende «vivibile», è una
condizione del suo reale funzionamento; se eliminiamo la parte negativa,
l’edificio ideologico stesso crolla. L’enfasi sull’«agenzia di gruppo e sulla
soggettività collettiva» significa che non ci preoccupiamo soltanto delle
imperfezioni degli individui; in quel caso, la colpa sarebbe quella della
singola persona, con la sua corruzione e depravazione morale, e la cura
andrebbe cercata nel suo miglioramento spirituale. Ciò con cui abbiamo a che
fare è una dissonanza iscritta nello spirito sociale «oggettivo» stesso, nella
struttura di base delle usanze sociali. Tali forme collettive di autoinganno
funzionano come modi dell’essere sociale oggettivo, e sono dunque in un
certo senso «vere» anche se sono false.
Nel suo L’America giorno per giorno (1948), Simone de Beauvoir
scriveva: «molti razzisti, superando il rigore scientifico, si ostinano a
dichiarare che anche se non ne sono stati stabiliti i motivi fisiologici, sussiste
il fatto che i negri sono inferiori ai bianchi: basta attraversare l’America per
esserne convinti». 18
Il suo punto di vista sul razzismo è stato spesso frainteso: ad esempio,
Stella Sandford afferma che «non ci sono giustificazioni per il modo in cui
Beauvoir accetta il ‘fatto’ di questa inferiorità»; «con la sua cornice filosofica
esistenzialista, ci saremmo piuttosto aspettati di sentirla parlare
dell’interpretazione di differenze fisiologiche esistenti in termini di inferiorità
e superiorità [... ] o di evidenziare l’errore insito nell’uso dei giudizi di valore
‘inferiore’ e ‘superiore’ per indicare delle caratteristiche proprie dell’essere
umano, come per ‘confermare un fatto dato’». 19 È evidente cosa disturba la
Sandford in questo passaggio. È consapevole che l’affermazione della
Beauvoir sull’inferiorità dei neri mira a qualcosa di più del semplice fatto
che, nell’America del Sud dell’epoca (e anche successiva), i neri venissero
trattati come inferiori da parte della maggioranza bianca e, in un certo senso,
lo erano davvero. Ma la sua soluzione critica, attenta a evitare delle
affermazioni razziste sulla reale inferiorità dei neri, è quella di relativizzare la
loro inferiorità in quanto frutto dell’interpretazione e del giudizio dei bianchi
razzisti, e distanziarla dal problema del loro stesso essere. Ma ciò che questa
morbida distinzione non riesce a cogliere è la dimensione davvero tagliente
del razzismo: l’«essere» dei neri (come dei bianchi o di chiunque altro) è
socio-simbolico. Quando vengono trattati come inferiori dai bianchi, questo
non li rende davvero inferiori al livello della loro identità socio-simbolica. In
altre parole, l’ideologia bianca razzista esercita un’efficienza performativa:
non interpreta semplicemente quello che sono i neri, determina il loro stesso
essere e la loro stessa esistenza sociale.
Possiamo dunque cogliere il motivo per cui la Sandford e altri critici della
Beauvoir si sono opposti alla sua definizione del fatto che i neri fossero
realmente inferiori: questa resistenza è in sé ideologica, basata sulla paura
che, se ammettiamo questo punto, allora avremo perso la libertà, l’autonomia
e la dignità interiore dell’essere umano. Che è il motivo per cui tali critici
insistono sul fatto che i neri non sono inferiori, ma semplicemente «resi
inferiori» dalla violenza del discorso bianco razzista; un’imposizione che non
li colpisce, in ogni caso, al vero cuore del loro essere, e alla quale loro
possono resistere in quanto agenti liberi e autonomi nelle loro azioni, nei loro
sogni e nei loro progetti.
Pippin ha ragione nel sottolineare che la descrizione fatta da Hegel di tale
autoinganno collettivo è molto più rilevante per i nostri tempi delle sue
soluzioni istituzionali positive. C’è, ovviamente, un problema con la sua
diagnosi: si accorda alla dialettica «progressiva» di Hegel, in cui il portare
alla luce l’incoerenza conduce all’autocancellazione, mentre nella vita reale
la dissonanza di un’ideologia è la sua stabilità definitiva: solo in una
situazione specifica – un cambiamento nella sensibilità ideologica – capire
che il nostro edificio ideologico è dissonante porta alla sua disintegrazione.
Ad esempio, anche se la schiavitù era ovviamente incompatibile con la
moralità cristiana, c’è voluto molto tempo prima che diventasse intollerabile
per la maggioranza.
Papa Francesco di solito ha delle giuste intuizioni in ambito teologico e
politico. Di recente, tuttavia, ha commesso un grave errore nel sostenere la
proposta, portata avanti da alcuni cattolici, di cambiare la frase che nel Padre
Nostro chiede a Dio di «non indurci in tentazione»: «Dio che ci induce in
tentazione non è una buona traduzione. Sono io a cadere, non è lui che mi
butta nella tentazione per poi vedere come sono caduto, un padre non fa
questo, un padre aiuta ad alzarsi subito. Quello che ti induce in tentazione è
Satana, quello è l’ufficio di Satana». Dunque il pontefice suggerisce di
seguire quanto fatto dalla Chiesa cattolica francese, che usa già la frase «non
mi lasci cadere nella tentazione». 20
Per quanto possa sembrare convincente questo ragionamento, perde di
vista il paradosso più profondo del cristianesimo e dell’etica. Non ci espone
forse Dio alla tentazione nell’Eden, quando avverte Adamo ed Eva di non
mangiare il frutto dell’albero della conoscenza? Perché allora, prima di tutto,
ha creato quell’albero, e poi addirittura lo mette al centro dell’attenzione?
Non era forse consapevole del fatto che l’etica umana può sorgere solo dopo
la Caduta? Molti teologi sensibili e scrittori cristiani, da Kierkegaard a Paul
Claudel, erano pienamente consapevoli del fatto che, nel suo aspetto di base,
la tentazione nasce nella forma del Bene, o, come dice Kierkegaard in Timore
e tremore a proposito di Abramo, quando gli viene ordinato di uccidere
Isacco, la sua situazione è tale per cui «la tentazione è la stessa etica». Ma la
tentazione del falso Dio non è forse ciò che caratterizza tutte le forme di
fondamentalismo religioso?
Ecco un esempio storico forse sorprendente: l’uccisione di Reinhard
Heydrich. A Londra, il governo cecoslovacco in esilio decise di uccidere
Heydrich; Jan Kubiš e Jozef Gabčík, a capo della squadra scelta per
l’operazione, furono paracadutati nelle vicinanze di Praga. Il 27 maggio
1942, da solo con il suo autista in una macchina aperta (per dimostrare il suo
coraggio e la sua sicurezza), Heydrich stava andando nel suo ufficio. Quando,
ad un incrocio in un sobborgo di Praga, la macchina rallentò, Gabčík si fermò
davanti alla macchina e prese la mira con un fucile mitragliatore, ma l’arma si
inceppò. Invece di ordinare al suo autista di accelerare, Heydrich fece
fermare la macchina e decise di affrontare gli assalitori. In quel momento,
Kubiš lanciò una bomba sul retro dell’auto mentre si fermava, e l’esplosione
ferì sia Heydrich che Kubiš. Quando il fumo si schiarì, Heydrich uscì dal
relitto con la pistola in mano; inseguì Kubiš per mezzo isolato, ma era debole
per lo shock e crollò. Ordinò al suo autista, Klein, di cacciare Gabčík a piedi,
mentre, sempre con la pistola in mano, si strinse il fianco sinistro, che
sanguinava copiosamente. Una donna ceca a questo punto soccorse Heydrich,
fermando il furgone da lavoro dal quale lo aveva visto. Dapprima era stato
messo nella cabina di guida, ma si era lamentato per il movimento del
furgone che gli causava dolore, quindi era stato posto nel retro del furgone, a
pancia in giù, e rapidamente portato al pronto soccorso in un ospedale vicino
(per inciso, anche se Heydrich morì un paio di giorni dopo, c’era una
possibilità concreta che sarebbe potuto sopravvivere, quindi questa donna
avrebbe potuto passare alla storia come colei che aveva salvato la vita di
Heydrich). Mentre un simpatizzante nazista militarista sottolineerebbe il
coraggio personale di Heydrich, ciò che mi affascina è il ruolo dell’anonima
donna ceca: ha aiutato Heydrich, che giaceva disteso in una pozza di sangue
senza alcuna protezione militare o della polizia. Sapeva di chi si trattava? Se
lo sapeva, e non era una simpatizzante del nazismo (entrambe le ipotesi più
probabili), perché lo ha fatto? Era la semplice e istintiva reazione dell’umana
compassione, dell’aiutare il nostro prossimo in difficoltà chiunque esso (o
ess*, come presto saremo obbligati a scrivere) sia? Questa compassione
dovrebbe forse vincere la consapevolezza che questo «prossimo» era uno dei
massimi criminali nazisti responsabile di migliaia (poi milioni) di morti? Ciò
a cui ci troviamo davanti qui è la scelta definitiva fra l’umanesimo astratto
liberale e l’etica implicita nella battaglia di emancipazione radicale: se
seguiamo l’umanesimo liberale fino alla sua logica conclusione, ci ritroviamo
a perdonare i peggiori criminali; e se facciamo la stessa cosa con l’impegno
politico parziale, finiamo per trovarci dalla parte dell’universalità
emancipatoria, nel cui caso, la povera donna ceca avrebbe dovuto resistere
alla propria compassione e cercare di finire Heydrich.
Tali impasse sono materia del reale impegno nella vita etica, e se li
escludiamo in quanto problematici rimaniamo con un testo sacro benevolente
e privo di vita. Ciò che si cela dietro questa esclusione è il trauma del Libro
di Giobbe in cui Dio e Satana organizzano direttamente la distruzione della
vita di Giobbe per mettere alla prova la sua devozione. Molti cristiani
sostengono che il Libro di Giobbe andrebbe per coerenza escluso dalla Bibbia
come una bestemmia pagana. Tuttavia, prima di soccombere a questa pulizia
etica politicamente corretta, dovremmo soffermarci un momento a
considerare ciò che, con essa, perderemmo. Se vogliamo mantenere viva
l’esperienza cristiana, dobbiamo resistere alla tentazione di purificarla da tutti
i passaggi «problematici», che sono esattamente la materia che conferisce al
cristianesimo le tensioni insopportabili della vita vera.
Vale la stessa cosa per la possibilità di sopravvivenza di uno Stato. Come
ha osservato acutamente Fred Jameson, l’Antigone di Sofocle non è la storia
della disintegrazione dell’unità organica delle tradizioni (Sittlichkeit), della
divisione di questa unità in costumi pubblici e privati (familiari). Piuttosto, il
conflitto etico descritto in Antigone è costitutivo dell’ordine pubblico; è una
storia sulla costituzione, non sulla distruzione, del potere dello Stato. A causa
di questo limite, anche Pippin sembra perdere di vista la reale portata
dell’autoinganno odierno, quando lo descrive in termini quantitativi («un
fenomeno persino più diffuso», ecc.):

Ma l’autoinganno collettivo del tipo analizzato da Hegel è [oggi] un fenomeno


diverso e probabilmente persino più diffuso [...] «Gli attori politici vengono
presentati, e si presentano», suggerisce [Bernard] Williams, «come gli attori di una
soap opera, che rivestono ruoli in cui né fingono cinicamente di rappresentare delle
posizioni che sanno essere false (non sempre o soprattutto, comunque), né, data la
teatralità, l’esagerazione, la retorica del ‘fingere’ e del ‘protestare troppo’, abitano
questi ruoli in modo confortevole e autentico». La descrizione che fa Williams è
memorabile. «Vengono chiamati per nome o hanno lo stesso tipo di soprannomi
scherzosi dei personaggi delle soap opera, le stesse personalità vagamente
abbozzate, la stessa predisposizione al trionfo e all’umiliazione che vengono
schematicamente collegati alle azioni degli altri personaggi. Si crede in loro come
si crede ai personaggi di una soap opera: si accetta l’invito a credergli, almeno
parzialmente». Poi procede affermando che «i politici, i media, e il pubblico sono
complici nel fingere che vengano prese in considerazione delle realtà importanti,
che il mondo odierno venga adeguatamente analizzato. Cosa che ovviamente non
avviene. Tutta la strategia è il tentativo di evitare di farlo» [...] il tutto viene
spiegato al meglio dicendo che il Geist, in questo caso, il Geist comune di una
nazione, è, nella sua auto-rappresentazione, impegnato in un autoinganno collettivo
[...] ed è esattamente la situazione in cui ci troviamo, nelle nostre anonime società
di massa, in cui l’assenza di ciò che, secondo Hegel, equivale a una genuina
condivisione, Sittlichkeit, è un’assenza percepita, non solo un’assenza
indeterminata. 21

In ogni caso, il fatto che nelle nostre «anonime società di massa» l’assenza
di Sittlichkeit sia «un’assenza percepita, non solo un’assenza indeterminata»
non preclude in nessun modo la possibilità che la Sittlichkeit operi qui come
un sogno retroattivo che nasconde il fatto che la sua stessa realtà implichi una
dissonanza. Inoltre, i passaggi citati di Williams che descrive gli attori politici
come i personaggi di una soap opera, anche se ben scritti, portano davvero al
risultato che promettono? Descrivono davvero una nuova forma di corruzione
morale? Il fatto che «i politici, i media, e il pubblico sono complici nel
fingere che vengano prese in considerazione delle realtà importanti, che il
mondo odierno venga adeguatamente analizzato» non è forse la caratteristica
di ogni ideologia nel suo reale funzionamento? In ogni ideologia, la chiara
divisione fra chi inganna e chi viene ingannato è sfumata, dal momento che
l’ingannato è complice dell’illusione e addirittura vuole essere ingannato.
Quello che sta accadendo oggi non è esattamente lo stesso, ma una forma
qualitativamente nuova di dissonanza: una dissonanza ammessa apertamente,
e per questa ragione trattata come irrilevante. Il paradosso è dunque che,
oggi, c’è in un certo senso meno inganno rispetto al modo in cui funzionava
l’ideologia nel passato: nessuno viene realmente ingannato.
In altre parole, non è che prima della nostra attuale epoca prendessimo le
regole e le proibizioni seriamente mentre oggi le violiamo apertamente.
Quello che è cambiato sono le regole che regolano le apparenze, ovvero ciò
che può apparire nello spazio pubblico. Mettiamo a confronto la vita sessuale
di due presidenti americani, Kennedy e Trump. Come oggi sappiamo,
Kennedy ebbe numerose relazioni, ma la stampa e la televisione lo
ignoravano; al contrario, ogni passo (vecchio e nuovo) di Trump viene
seguito dai media, per non dire del fatto che lo stesso Trump parla
pubblicamente in un modo così osceno che sulla bocca di Kennedy non
sarebbe nemmeno immaginabile. La distanza che separa lo spazio pubblico
dignitoso e il suo rovescio osceno viene ora sempre più trasposta nello spazio
pubblico, con conseguenze ambigue: incoerenze e violazioni delle regole
pubbliche vengono accettate apertamente o almeno ignorate ma, allo stesso
tempo, siamo sempre più consapevoli di queste stesse incoerenze.
A questo punto arriviamo al massimo dell’ironia: per come funziona oggi,
l’ideologia appare come il suo esatto opposto, come una critica radicale delle
utopie ideologiche. L’ideologia predominante oggi non è la visione positiva
di un qualche futuro utopico ma una cinica rassegnazione, un’accettazione
del «mondo per come è», accompagnata dall’avvertimento che se lo
vogliamo cambiare troppo, ne conseguirà solo l’orrore totalitario. Qualunque
immaginazione di un mondo diverso viene liquidata come ideologia. Alain
Badiou l’ha espresso in modo splendido e preciso: oggi la funzione principale
della censura ideologica non è quella di frantumare la vera resistenza (è
infatti il compito dell’apparato statale repressivo), ma di frantumare la
speranza, di denunciare immediatamente qualunque progetto critico come
qualcosa che apre una strada il cui esito non può essere altro che il gulag, o
qualcosa di simile. Aveva esattamente questo in mente Tony Blair quando ha
chiesto di recente: «È possibile definire una politica che sia quello che
chiamerei post-ideologica?». 22
Per poter comprendere il modo in cui funziona l’ideologia nella maniera
più tradizionale, la famosa espressione «Devi proprio essere stupido per non
vederlo!» dovrebbe essere ribaltata in «Devi proprio essere stupido per
vederlo!»: ma cosa? L’elemento ideologico supplementare che fornisce
significato a una situazione confusa. Nell’antisemitismo, ad esempio, dovevi
essere stupido quanto bastava per vedere «l’Ebreo» come agente segreto che
teneva segretamente le fila e controllava la vita sociale. Oggi, in ogni caso, il
cinico e predominante funzionamento dell’ideologia stessa afferma: «Devi
proprio essere stupido per vederla»: cosa? La speranza di un cambiamento
radicale.
Note

Introduzione
1. A. Badiou, La vera vita. Appello alla corruzione dei giovani, Ponte alle
Grazie, Milano, 2016.
2. G. Glider, in J.L. Casti, Would-Be Worlds, John Wiley & Sons, New
York, 1997, p. 215.
3. P. Sloterdijk, Regole per il parco umano, in Non siamo ancora stati
salvati, Bompiani, Milano, 2004, pp. 239-266.
4. P. Trawny, Freedom to Fall. Heidegger’s Anarchy, Polity Press,
Cambridge, 2015, p. 98.
5. M. Heidegger, Note II, in Quaderni neri 1942-1948, citato in Trawny,
Freedom to Fall, cit., p. 60.
6. Quanto veniamo manipolati dai media si coglie facilmente dalle lacune
nel modo in cui i media riportano gli eventi. Ad esempio, il conflitto
nell’Ucraina orientale è stato per alcuni mesi trattato come una minaccia alla
pace del mondo per poi, semplicemente, scomparire (almeno dalle prime
pagine); è stato silenziosamente rinormalizzato. Quando l’Ucraina ha fatto
richiesta all’Occidente di più armi di difesa, allora è saltato fuori di nuovo, e
abbiamo scoperto che i combattimenti erano sempre andati avanti senza
sosta.
7. Il saggio in italiano è stato pubblicato da Selene nel 2007 con il titolo Le
verità nomadi. (N.d.T.)

1. Il disagio del capitalismo globale


1. Si veda http://yournewswire.com/bill-gates-we-need-socialism-to-save-
the-planet/. È interessante osservare come le parole esatte di Gates non
possano essere confermate in modo indipendente.
2. Per questa prospettiva si veda, fra gli altri, il vol. 7, n. 1 (marzo 2017) di
International Critical Thought, in particolare gli interventi di Domenico
Losurdo, William Jefferies, Peggy Raphaelle e Cantave Fuyet.
3. J. Buxton, Venezuela After Chavez, in New Left Review, n. 99 (2016), p.
25.
4. A. Zupančič, Apocalypse, again (manoscritto inedito).
5. In The Timbuktu School for Nomads (Nicholas Brealey, London, 2016),
Nicholas Jubber fornisce una dettagliata descrizione della vita quotidiana dei
nomadi Tuareg nel centro dell’Africa sahariana, un gruppo di persone
«escluse» quasi in senso letterale dalla rapida globalizzazione odierna.
(Secondo alcune fonti, persino il loro nome, Tuareg, deriverebbe da «esclusi
da Dio»). La sorpresa sta nel fatto che alcune caratteristiche della loro vita
nomade appaiono simili alla vita nomade degli individui più «avanzati», che
sono in costante movimento. Non possiamo forse immaginarci che, forniti
degli attuali supporti digitali (telefoni cellulari, tablet, ecc.) i Tuareg non si
immergerebbero con facilità nella società «postmoderna» con la sua costante
mobilità?
6. Sono debitore di questa osservazione a Karl-Heinz Dellwo.
7. Da www.project-syndicate.org/commentary/…
8. W. Streeck, How Will Capitalism End?, Verso Books, London, 2016, p.
57.
9. Si veda R. Carson, Fictitious Capital, Personal Power and Social
Reproduction, (manoscritto inedito, 2017).
10. Ibid.
11. A. Rand, La rivolta di Atlante. L’uomo che apparteneva alla Terra,
Corbaccio, Milano, 2007, p. 92.
12. N. Power, Dissing, in Radical Philosophy, n. 154 (2009), p. 55.
13. www.thelightphone.com/#lpii
14. D. Harvey, comunicazione privata.
15. W. James, On Some Mental Effects of the Earthquake, disponibile alla
pagina http://storyoftheweek.loa.org/2010/….
16. www.businessinsider.com/china-social-credit-score-like-black-mirror-
2016-10.
17. Citato da A. Bown, The Playstation Dreamworld (in corso di
pubblicazione presso Polity Press).
18. www.theverge.com/2017/….
19. J. Assange, Quando Google ha incontrato WikiLeaks, Stampa
alternativa, Viterbo, 2015.
20. M. Wehner, Scientists remotely hacked a brain, controlling body
movements, citato da http://bgr.com/2017/….
21. www.cnn.com/2017/….
22. Si veda J. Dickstein e G. Basu Thakur, Lacan and the Posthuman,
Palgrave-Macmillan, London, 2017.
23. Per questo testo faccio riferimento a molte idee di miei amici, in
particolare Matthew Flisfeder e Todd MacGowan.
24. T. MacGowan, conversazione privata.
25. Il film non fa altro che allinearsi alla tendenza, già in esplosione, verso
bambole in silicone sempre più perfette. Si veda B. Appleyard, Falling in
Love With Sexbots, in Sunday Times, 22 ottobre 2017, pp. 24-25: «I robot del
sesso arriveranno a breve e fino al 40% degli uomini si dice interessato a
comprarne uno. L’amore a senso unico potrebbe essere l’unica relazione del
futuro». Dietro al fascino di questa tendenza c’è il fatto che, in fondo, non
porta niente di nuovo: semplicemente rende concreta la tipica procedura
maschile di ridurre la partner reale a un supporto delle proprie fantasie.
26. M. Flisfeder, Blade Runner 2049 in Perspective (manoscritto inedito).
27. Ibid.
28. K. Marx e F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, Laterza, Roma-
Bari, 1995, pp. 85-86.
29. T. MacGowan, conversazione privata.
30. Sono debitore di questa osservazione a Peter Strokin, Mosca.
31. Tratto da www.theguardian.com/film/….
32. Ibid.
33. Una delle critiche che sono state rivolte alla mia lettura riguardava il
fatto che, come è ovvio, in quanto marxista, ignoro la dimensione gnostica
del film, eccone un esempio significativo:
1. I nomi. Joshi è molto vicino a Jeshua (Gesù) e significa portatore di
luce, collegato al Sole. Un simbolo solare, associato al cristianesimo e
all’ordine. Deckard ricorda molto Descartes (ho letto che Philip K. Dick
aveva questa intenzione ma ho i miei dubbi). Niander Wallace. Niander =
nuovo uomo. Wallace = straniero. K. viene probabilmente dal Castello e dal
Processo di Kafka.
2. Chiari riferimenti religiosi e gnostici. La tradizione ebraica vede come
prima coppia Lilith e Samuele. Si disse che la loro unione era in qualche
modo pericolosa per il buon funzionamento dell’universo dunque Dio li
separò, impedendo loro di unirsi nuovamente. Se tornassero insieme il buon
funzionamento dell’universo verrebbe di nuovo minacciato. Ora, gli gnostici
pensavano che il Dio dei cristiani fosse in realtà un dio cieco che chiamavano
Samuele. Wallace è cieco, è stato descritto come colui che è ha «un
complesso divino», ha un angelo nero (Luv) ed è ossessionato dalla
riproduzione dei replicanti. Vuole anche che i replicanti sostituiscano gli
umani, conquistino le stelle e «il paradiso in tempesta». Inoltre, Joshi dichiara
che, dal momento che i replicanti si possono riprodurre, allora hanno
un’anima, e la cosa sconvolgerà tutto. (Cosmin Visan, disponibile al sito
http://thephilosophicalsalon.com/blade-runner-2049-a-view-of-post-human-
capitalism/)
Onestamente, non mi sembrano osservazioni particolarmente interessanti.
Se Joshi, il gendarme spietato della segregazione, rappresenta Joshua/Gesù e
l’ordine cristiano, di quale tipo di cristianesimo si tratta? Quello dei
sostenitori della destra alternativa di Trump? Se Deckard e Rachel sono una
coppia che richiama Samuele e Lilith, in che senso la minaccia portata avanti
dalla loro unione può essere paragonata alla minaccia costituita dall’unione di
Deckard e Rachel? E così via.

2. Stravaganze del potere


1. Citato da http://piattaformacomunista.com/lenin_stato_rivoluzione.pdf.
2. Ibid.
3. Ibid.
4. J. Lacan, La terza, in La psicoanalisi, Astrolabio, Roma 1992, p. 37.
5. J.-C. Milner, Back and Forth from Letter to Homophony, inProblemi
International n. 1 (2017), p. 96.
6. Ivi, p. 30.
7. Ivi, pp. 96-97.
8. Si veda www.independent.co.uk/news/….
9. Da http://piattaformacomunista.com/lenin_stato_rivoluzione.pdf
10. J.-C. Milner, Relire la Revolution, Verdier, Lagrasse, 2016, p. 246.
11. Letteralmente, «attenzione al vuoto», dal cartello presente nelle stazioni
della metropolitana londinese per allertare i passeggeri sullo spazio esistente
fra il treno e la banchina. (N.d.T.)
12. J.-C. Milner, The Prince and the Revolutionary, disponibile alla pagina
http://crisiscritique.org/ccmarch/….
13. L.A. de Saint-Just, Rapport sur les factions de l’étranger, in Œuvres
completes, Gallimard, Paris, 2004, p. 695.
14. Per quanto riguarda la relazione fra la Logica di Hegel e il Capitale di
Marx, non dovremmo fare i sentimentali ed essere troppo deferenti rispetto
all’affermazione di Lenin secondo la quale chi non abbia letto la Logica di
Hegel non può comprendere il Capitale: Lenin stesso aveva letto la Logica
ma non l’aveva davvero compresa (il suo limite era la categoria della
Wechselwirkung), inoltre non aveva compreso davvero nemmeno il Capitale.
È bene essere precisi: ciò che Lenin non aveva compreso era la dimensione
«trascendentale» (osiamo pure questo termine) della critica di Marx
all’economia politica, il fatto che la critica dell’economia politica di Marx
non è solo un’analisi critica dell’economia, ma allo stesso tempo anche una
sorta di forma trascendentale che ci permette di definire i contorni di base
dell’intero essere sociale (compresa l’ideologia) nel capitalismo.
15. Milner, The Prince and the Revolutionary, cit.
16. Da www.haujournal.org/index.php/….
17. Y. Varoufakis, Adulti nella stanza, La nave di Teseo, Milano, 2018, p. 3.
18. Milner, The Prince and the Revolutionary, cit.
19. Si veda E. Mandel, Trotsky as Alternative, Verso Books, London, 1995.
20. Si veda french.about.com/od/grammar/a/negation_form_2.htm.
21. K. Karatani, Transcritique. On Kant and Marx, MIT Press, Cambridge,
MA, 2003, p. 183.
22. www.theguardian.com/commentisfree/….
23. Citato da www.spiegel.de/international/….
24. Si veda www.theguardian.com/lm/… – e, essendo il Guardian il
Guardian, subito seguito dal contraccolpo liberale di James Rubin,
www.theguardian.com/us-news/….
25. Si veda www.project-syndicate.org/commentary/….
26. M. Tse-Tung, Opere, Rapporti sociali, Milano, 1991-1994, vol. xvii, p.
201.
27. In inglese «there is no alternative». (N.d.T.)
28. https://visegradpost.com/en/2017/10/25/viktor-orban-designates-
globalization-and-financial-speculators-as-threats-for-identity.
29. Questa critica a Orbán ha innescato una serie di reazioni da parte dei
conservatori che mi hanno accusato di ignorare tutti i problemi causati dai
rifugiati e di ammettere semplicemente il loro libero fluire verso l’Europa,
cosa che porterà alla fine dell’Europa per come la conosciamo. Qui i miei
critici mancano completamente l’obiettivo: sono pienamente cosciente dei
problemi (incompatibilità culturale, ecc.), che è il motivo per cui sono stato
ferocemente attaccato anche dai liberali di sinistra. Io affermo che, mentre
non dovrebbero esistere in questo caso argomenti tabù (bisognerebbe anche
poter chiedere se l’afflusso dei migranti sia parte di un qualche piano
segreto), c’è una bella differenza fra questo e la teoria del complotto razzista
antisemita/anti-islamico. Per parafrasare nuovamente Lacan, anche se si
potesse dimostrare che l’afflusso di migranti fosse parte di un piano oscuro
per destabilizzare l’Europa, questo non giustificherebbe comunque in alcun
modo l’ideologia antisemita/anti-islamica diffusa da Orbán e dai suoi simili
negli altri paesi europei; si tratta di un’ideologia che è sbagliata in sé, è
patologica di per sé, independentemente dall’accuratezza più o meno parziale
dei fatti.
30. D. Wallace-Wells, Uninhabitable Earth, in New York Magazine, 9 luglio
2017. In italiano disponibile online alla pagina
www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=59414.
31. Si veda Billionaire bunkers: How the 1% are preparing for the
apocalypse, disponibile alla pagina http://edition.cnn.com/style/….
32. B. Sanders, The Republican budget is a gift to billionaires: it’s Robin
Hood in reverse, disponibile alla pagina
www.theguardian.com/commentisfree/….
33. J.Peck, disponibile alla pagina www.theguardian.com/commentisfree/….
34. https://foreignpolicy.com/2018/05/21/…/
35. www.tecalibri.info/V/…
36. www.theguardian.com/world/….
37. Si veda www.theguardian.com/commentisfree/….
38. Ibid.
39. Ibid.
40. Ibid.
41. Y. Varoufakis, citato dalla pagina www.theguardian.com/commentisfree/
….
42. Milner, Relire la Revolution, cit., p. 259.
43. Ivi, pp. 260-61.
44. Si veda N. Harding, Leninism, Duke University Press, Durham, 1996, p.
309.
45. Ivi, p. 152.
46. Ivi, p. 87.
47. Citato da http://tomclarkblog.blogspot.com/2010/….
48. Ibid.
49. C. Malaparte, Tecnica del colpo di Stato, in Opere scelte, Mondadori,
Milano, 1997, pp. 218-220.

3. Dall’identità all’universalità
1. R. Barnard, L’arte dell’inganno, Mondadori, Milano, 1979, p. 122
2. Bernard Brščič, George Soros è uno degli uomini più depravati e
pericolosi del nostro tempo, (in sloveno), in Demokracija, 25 agosto 2016, p.
15.
3. A. Zupančič (conversazione privata).
4. Persino la decisione di Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale
dello Stato di Israele risponde perfettamente a questa logica
dell’antisemitismo sionista.
5. Fra parentesi, dal momento che saltuariamente scrivo qualche commento
per il sito Russia Today, sono stato messo nella lista degli «utili idioti» di
Putin da una strana entità chiamata «European Values» che ha lo scopo di
«proteggere le libertà». La vita non cessa mai di sorprenderti: dopo aver non
solo criticato Putin ma anche dopo avergli attribuito il nome di «Putogan»
(fusione di Putin e Erdoğan) e dopo aver ripetutamente e strenuamente difeso
l’anima emancipatoria della tradizione europea, sono diventato ora l’«utile
idiota» di Putin! Bene, l’unica cosa di cui possiamo essere certi è che i tipi di
«European Values» sono degli inutili idioti.
6. Si veda V.I. Lenin, Sul diritto delle nazioni all’autodecisione (1914).
7. M. Washington, alla pagina www.pbs.org/wgbh/….
8. Si veda Khader, Against Trump’s White Supremacy: Embracing the
Enlightenment, Renouncing Anti-Eurocentrism (citato dal manoscritto
inedito).
9. Per una feroce analisi critica del discorso liberale politicamente corretto si
veda R. Eddo-Lodge, Why I’m No Longer Talking to White Men About Race,
Bloomsbury, London, 2017.
10. Khader, Against Trump’s White Supremacy, cit.
11. Da https://cominsitu.wordpress.com/2017/07/05/….
12. Si veda M. L. Ferguson, Neoliberal Feminism as Political Ideology, in
Journal of Political Ideologies, vol. XXII, n. 3 (2017), pp. 221-235.
13. Ibid.
14. Ibid.
15. Sono debitore di questa storia e della sua interpretazione a Alenka
Zupančič.
16. Si veda http://www.identitytheory.com/interview-john-summers-baffler/.
17. Tratto da www.theguardian.com/society/….
18. Questa idea mi è stata suggerita da Mladen Dolar.
19. Tratto da www.theguardian.com/world/….
20. Si veda C. Lévi-Strauss Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano,
1966.
21. W. Lixiong e T. Shakya, The Struggle for Tibet, Verso Books, London,
2009, p. 77.
22. Si veda R. Srinivasan, Whose Global Village? Rethinking How
Technology Shapes Our World, New York University Press, New York,
2017.
23. Ivi, p. 209.
24. Ivi, p. 213.
25. Ivi, p. 224.
26. S. Buck-Morss, Hegel, Haiti, and Universal History, University of
Pittsburgh Press, Pittsburgh, 2009, p. 151.
27. Ivi, p. 133.
28. Ivi, pp. 138-139.

4. Ernst Lubitsch, sesso e comunicazione indiretta


1. Si veda www.theguardian.com/lifeandstyle/….
2. Nella parte seguente, mi baso sull’eccezionale intervento fatto da Yuval
Kremnitzer all’incontro su Lubitsch tenutosi al Kino Babylon di Berlino il 28
gennaio 2017.
3. Devo questa osservazione a Jela Krečič.
4. G. Arriaga, 21 Grams, Faber and Faber, London, 2003, p. 107.
5. Tratto da http://news2read.com/lifestyle/….
6. Tratto da www.bbc.com/news/….
7. Si veda www.theguardian.com/books/…, e www.theguardian.com/books/
….
8. R. Pfaller, Das schmutzige Heilige und die reine Vernunft, Fischer Verlag,
Frankfurt, 2012.
9. Si veda J. Kerman, L’opera come dramma, Einaudi, Torino, 1990.
10. Si veda il paragrafo Lenin che naviga in territori inesplorati nel capitolo
II di questo saggio.
11. M. Lewin, L’ultima battaglia di Lenin, Laterza, Bari, 1969.
12. Ivi, p. 99.
13. Ivi, pp. 147-148.
14. V. Lenin, Meglio meno, ma meglio (1923), disponibile sul sito
www.marxists.org/italiano/….
15. Devo questa riflessione a Jela Krečič.
16. Vicino alle acque dell’Adriatico, i figli e le figlie di Venezia /
strimpellano una nuova melodia sulle loro chitarre / è stata scritta da un
latino, un gondoliere che se ne stava seduto nella sua casa di Brooklyn a
guardare le stelle. / Mandò la sua melodia fino all’Italia attraverso il mare, / e
sappiamo che loro hanno scritto un po’ di parole che si adattassero a quel
pezzo orecchiabile / e l’hanno chiamato il Piccolino. / E così sappiamo
perché / tutti in questa stagione suonano e canticchiano una nuova melodia. /
Vieni al casinò e sentirai che suonano il Piccolino. / Balla col tuo bambino
sulle note dell’orecchiabile Piccolino. / Bevi il tuo bicchiere di vino, e quando
hai mangiato la tua scaloppina / fagli suonare il Piccolino, l’orecchiabile
Piccolino, / e balla sulle note di quella nuova melodia, il Piccolino.
17. Fra parentesi, l’egoismo spietato di Mia e Sebastian si palesa
chiaramente in due episodi. Quando Mia è in ritardo all’appuntamento con
Sebastian e lo cerca dentro a un cinema nel mezzo della proiezione, si piazza
davanti allo schermo e lo chiama ad alta voce, noncurante del disturbo che
arreca agli altri. Quando Seb le fa visita a Boulder, parcheggia la macchina
davanti alla casa dei genitori di lei e suona rumorosamente il clacson, senza
preoccuparsi del fatto che questo possa disturbare gli stanchi vicini.
18. Parte di questo testo su La La Land è uscito in italiano sulla rivista
Internazionale, n. 1194, 3 marzo 2017, a cui si è fatto ricorso. (N.d.T.)
19. Nella mia lettura, mi baso su Duane Rouselle,
https://dingpolitik.wordpress.com/2018/…, e Christopher Lebron,
http://bostonreview.net/race/…, e su uno scambio di e-mail con Todd
McGowan.
20. Parafrasata da https://it.wikipedia.org/wiki/Black_Panther_(film).
21. Tralasciamo una semplice ma pertinente domanda: che tipo di paese è
Wakanda, dal punto di vista della struttura politica? Ovviamente una
monarchia in cui il re prende decisioni dopo essersi consultato con la ristretta
cerchia che lo circonda; non c’è nessun meccanismo di consultazione della
volontà popolare. E che dire della sua struttura economica? Il film ignora
completamente questo aspetto: chi controlla la ricchezza (sopran)naturale su
cui si basa la prosperità del paese? Ovviamente, si tratta di nuovo del re e
della sua claque...
22. E questa conclusione ci riporta a Lenin, che era pronto a combattere
ferocemente contro i suoi nemici ma che, una volta finito lo scontro, non
faceva mai confusione fra conflitto politico e animosità personale, e aiutò
persino i suoi nemici sconfitti; questa distanza fu del tutto cancellata da
Stalin, per il quale l’affermazione «il politico è personale» era vera ma nel
senso più diretto e osceno possibile.

Conclusione
1. G.W.F. Hegel, Estetica, Feltrinelli, Milano, 1963, p. 791.
2. G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, Laterza, Roma-Bari,
2009, p. 200.
3. Hegel, Estetica, cit., pp. 801-802.
4. A. Zupančič, Back to the Future of Europe (manoscritto inedito).
5. www.latimes.com/opinion/….
6. D. Rennie, How Soviet sub officer saved world from nuclear conflict, in
Daily Telegraph, 14 ottobre 2002.
7. Tratto da www.independent.co.uk/arts-entertainment/….
8. J. Brent e V. P. Naumov, Stalin’s Last Crime, HarperCollins, New York,
2003, p. 307.
9. Si veda http://abcnews.go.com/International/….
10. A. Badiou, Je vous sais si nombreux..., Fayard, Paris, 2017, pp. 56-57.
11. www.newsweek.com/egypt….
12. www.egypttoday.com/Article/….
13. Si veda www.theguardian.com/news/….
14. Per una descrizione precisa di questa situazione complessa si veda
Laurent de Sutter, Narcocapitalism, Polity Press, Cambridge, 2018.
15. L’intervento di F. Berardi è disponibile sul sito http://blog-
micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/?p=9818.
16. F. Ruda, conversazione privata. Tutte le citazioni non diversamente
specificate in questo capitolo provengono da questa fonte.
17. R. Pippin, Hegel on the Varieties of Social Subjectivity, in German
Idealism Today, a cura di M. Gabriel e A. Moe Rasmussen, De Gruyter,
Boston, 2017, pp. 132-133.
18. S. de Beauvoir, L’America giorno per giorno, Feltrinelli, Milano, 1955,
p. 282.
19. S. Sandford, How to Read Beauvoir, Granta Books, London, 2006, p. 49.
20. www.theguardian.com/world/….
21. Pippin, Hegel on the Varieties of Social Subjectivity, cit., pp. 134-135.
22. Tratto da www.newyorker.com/culture/….
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