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www.illibraio.it
Titolo originale:
Like a Thief in Broad Daylight
ISBN 978-88-3331-239-2
Introduzione. Prima le brutte notizie, poi quelle belle... che possono essere
ancora peggiori
Capitolo primo. Lo stato delle cose
Il mondo sottosopra del capitalismo globale
Il capitalismo virtuale e la fine della natura
Di uomini e topi, o verso il capitalismo postumano
Capitolo secondo. Stravaganze del potere
La navigazione di Lenin in territori inesplorati
Elezioni, pressione popolare, inerzia
Benvenuti nella noia di tempi interessanti!
Capitolo terzo. Dall’identità all’universalità
Ciò che Agatha sapeva
Come combattere la malattia di Huntington
L’eterno ritorno della solita lotta di classe
Capitolo quarto. Ernst Lubitsch, sesso e comunicazione indiretta
Dalla comunicazione indiretta a ratatatata
Contro il sesso contrattuale
Cinismo, umorismo e impegno
Un gesto leninista in La La Land e in Black Panther
Conclusione. Per quanto ancora potremo agire globalmente e pensare
localmente?
Note
Come un ladro in pieno giorno
A Jela, con a ---- !
Introduzione
Prima le brutte notizie, poi quelle belle...
che possono essere ancora peggiori
Vediamo qui all’opera una strana negatività: si compra un telefono per ciò
che non si vuole che faccia (non si vuole che ti tenti ad andare su Facebook,
Twitter, eccetera). Si finisce così in un paradosso circolare: prima paghiamo
per tutte le funzioni aggiuntive fornite dagli smartphone, poi paghiamo
ancora di più per comprare un po’ di libertà e liberarci da queste funzioni
aggiuntive. «Rispetto» è una strana parola da usare qui, implica che gli
smartphone in qualche modo ci manchino di rispetto. È fondamentale notare
come non vengano semplicemente eliminati. Nessuno si aspetta da noi che
buttiamo i nostri smartphone: l’«ottuso» Light Phone ci permette di
guadagnare un po’ di respiro, di fuggire dalla presa degli smartphone almeno
temporaneamente, di lasciarceli alle spalle per poter passare un po’ di tempo
esclusivo... in breve, il Light Phone ha un senso solo se la minaccia degli
smartphone continua a intravedersi all’orizzonte; se semplicemente
buttassimo lo smartphone e usassimo solo il Light Phone, non faremmo altro
che regredire al livello tecnologico più basso e dunque tornare alla stupidità.
Tutte queste complicazioni ci portano a ripensare la cosiddetta «teoria del
valore lavoro», cosa che non deve in alcun modo essere letta come
l’affermazione della necessità di rifiutare lo scambio, o il suo ruolo nella
costituzione del valore, in quanto mera apparenza che nasconde il fatto
centrale che il lavoro è l’origine del valore. Se consideriamo il denaro
solamente come una risorsa secondaria, un mezzo pratico che facilita lo
scambio, poi si apre la strada all’illusione, a cui da sinistra hanno ceduto i
seguaci di Ricardo, secondo la quale sarebbe stato possibile sostituire il
denaro con semplici foglietti che riportassero la quantità di lavoro svolto dai
portatori e che davano loro il diritto di avere in cambio la parte
corrispondente del prodotto sociale; come se, per mezzo di questo diretto
«denaro lavoro», si potesse evitare qualunque «feticismo», garantendo che
ciascun lavoratore venisse pagato per il suo «pieno valore». Il punto
dell’analisi di Marx è che questo progetto ignora le determinazioni formali
del denaro che rendono il feticismo un effetto necessario. In altre parole,
quando Marx definisce il valore di scambio come il modo dell’apparenza del
valore, dovremmo mobilitare l’intera portata hegeliana della contrapposizione
tra essenza e apparenza: l’essenza esiste solamente in quanto appare, non pre-
esiste alla sua apparenza. Allo stesso modo, il valore di una merce non è una
sua intrinseca proprietà sostanziale che esiste indipendentemente dalla sua
apparenza nello scambio.
Questo è anche il motivo per cui dovremmo abbandonare il tentativo di
espandere il valore in modo che tutti i tipi di lavoro possano essere
riconosciuti come una fonte di valore; pensiamo all’importante richiesta
femminista degli anni Settanta di legalizzare il lavoro domestico (dal cucinare
al prendersi cura della casa e dei figli) in quanto creatore di valore, o alcune
delle richieste dell’eco-capitalismo contemporaneo di integrare i «liberi doni
della natura» nella produzione di valore (cercando di determinare i costi
dell’acqua, dell’aria, delle foreste e degli altri beni comuni). Tutte queste
proposte non sono «altro che un sofisticato green-washing e una
mercificazione dello spazio a partire dalle quali può essere organizzato un
fiero attacco all’egemonia del modo di produzione capitalista e delle sue (e
nostre) alienate relazioni con la natura»: 14 nel loro tentativo di esser «giusti»
e di eliminare o almeno contrastare lo sfruttamento, questi tentativi
semplicemente rafforzano una mercificazione onnicomprensiva e ancora più
potente. Anche se cercano di essere «giusti» a livello di contenuto (ciò che
conta come valore), falliscono nel problematizzare proprio la forma di
mercificazione: il valore dovrebbe essere considerato in tensione dialettica
con il non-valore, ovvero per affermare ed espandere quegli ambiti che non
sono all’interno della produzione di valore di mercato, come i lavori di casa o
il «libero» lavoro culturale e scientifico, nel loro ruolo fondamentale. La
produzione di valore può prosperare solamente se è incorporata nella sua
negazione immanente, il lavoro creativo che non genera valore di mercato, ed
è per definizione suo parassita. Per cui invece che mercificare le eccezioni e
comprenderle all’interno del processo di valorizzazione, bisognerebbe
lasciarle fuori e distruggere la cornice che le considera di livello inferiore. Il
problema con il capitale fittizio non è che è fuori dalla valorizzazione, ma che
rimane parassitario della finzione della valorizzazione a venire.
Un’ulteriore sfida all’economia di mercato deriva dalla diffusa
virtualizzazione del denaro, che ci spinge a riformulare del tutto i concetti
standard marxisti di «reificazione» e «feticismo delle merci», almeno fintanto
che questo tema si basa ancora sul concetto di feticcio come oggetto solido,
la cui presenza stabile nasconde la sua mediazione sociale. Paradossalmente,
il feticismo raggiunge il suo culmine proprio quando il feticcio stesso viene
«dematerializzato», trasformato in un’entità virtuale, fluida, «immateriale»; il
feticismo del denaro troverà il suo culmine nel passaggio alla forma
elettronica, quando anche le ultime tracce della sua materialità saranno
scomparse. Il denaro elettronico è la terza forma, dopo il denaro «reale», che
incarna direttamente il suo valore (oro, argento), e il denaro cartaceo che,
sebbene sia un «semplice segno» privo di un valore intrinseco, è ancora
legato alla sua esistenza materiale. Ed è solo in questa fase, quando il denaro
diventa un punto di riferimento puramente virtuale, che finalmente assume la
forma di una presenza spettrale e indistruttibile: io ti devo 1.000 dollari, e non
importa quante banconote reali io bruci, ti devo ancora 1.000 dollari; il debito
è iscritto da qualche parte nello spazio virtuale digitale. Ed è solo con questa
assoluta «dematerializzazione» che la famosa vecchia tesi di Marx nel
Manifesto del Partito comunista (nel capitalismo, «tutto ciò che è solido si
scioglie nell’aria») acquisisce un significato molto più letterale di quello che
Marx aveva in mente, ora che non solo la nostra realtà sociale e materiale è
dominata dal movimento spettrale/speculativo del capitale, ma questa realtà
stessa viene progressivamente «spettralizzata» (il «Sé proteiforme» al posto
del vecchio Soggetto identico a sé stesso, la fluidità sfuggente delle sue
esperienze al posto della stabilità degli oggetti posseduti). In breve, quando la
normale relazione tra oggetti solidi e materiali e le idee fluide si rovescia (gli
oggetti vengono progressivamente dissolti in esperienze fluide, mentre le sole
cose stabili sono impegni simbolici virtuali), è solo a questo punto che ciò
che Derrida ha definito l’aspetto spettrale del capitalismo si realizza
pienamente.
In ogni caso, come abbiamo già visto, tale spettralizzazione del feticcio
contiene i germi del suo opposto, della sua auto-negazione: l’inaspettato
ritorno di relazioni dirette di dominio personale. Il capitalismo legittima sé
stesso come il sistema economico che implica e promuove le libertà personali
(come condizione dello scambio di mercato); ma le sue stesse dinamiche
hanno portato a una rinascita della schiavitù. Nonostante la schiavitù si fosse
quasi estinta alla fine del Medioevo, è esplosa nuovamente nelle colonie
europee dall’inizio dell’età moderna fino alla Guerra civile americana. Oggi,
una nuova epoca di schiavitù sta nascendo a fianco della nuova epoca del
capitalismo globale. Anche se non ha più una condizione di legalità, la
schiavitù assume una moltitudine di nuove forme: milioni di lavoratori
immigrati nella penisola saudita, privati dei diritti civili e delle libertà più
basilari; il controllo assoluto su milioni di lavoratori nelle fabbriche asiatiche,
spesso organizzate come campi di concentramento; il massiccio uso della
forza lavoro nello sfruttamento delle risorse naturali in numerosi Stati
dell’Africa centrale (ad esempio il Congo).
Questo rovesciamento del virtuale nel materiale appare nel modo più
feroce possibile nell’imminente fine della natura. Leggendo articoli e
guardando servizi sugli effetti devastanti dell’uragano Irma, mi è venuto in
mente Trisolaris, lo strano pianeta del Problema dei tre corpi, capolavoro
fantascientifico di Liu Cixin. Uno scienziato si ritrova immerso nel gioco di
realtà virtuale «Tre corpi» in cui i giocatori si trovano su un pianeta alieno,
Trisolaris, i cui tre soli sorgono e tramontano a intervalli totalmente
imprevedibili: essi sono a volte lontanissimi e terribilmente freddi, a volte
vicinissimi e caldi in modo devastante, a volte non si vedono per lunghi
periodi. I giocatori possono in qualche modo disidratare sé stessi e il resto
della popolazione per superare le stagioni peggiori, ma la vita è una lotta
costante contro elementi in apparenza imprevedibili. Nonostante questo, i
giocatori lentamente riescono a trovare il modo di costruire delle forme di
civiltà e cercano di prevedere questi strani cicli di caldo e di freddo.
Fenomeni come quello dell’uragano Irma non dimostrano forse che la nostra
Terra si sta gradualmente trasformando in Trisolaris? Uragani devastanti,
carestie e alluvioni, per non citare il riscaldamento globale, non sono forse
tutti fenomeni che ci dicono che siamo davanti a qualcosa che non possiamo
definire altro che «la fine della natura»? «Natura» deve essere intesa, qui, nel
senso tradizionale del ritmo regolare delle stagioni, di un contesto affidabile
della storia umana, qualcosa su cui possiamo fare affidamento con l’idea che
sia sempre al suo posto.
È difficile per un estraneo immaginare cosa voglia dire quando un ampio
territorio densamente popolato scompare sotto l’acqua, e milioni di persone
perdono le coordinate di base del loro universo di riferimento: la terra con i
suoi campi, ma anche con i suoi monumenti culturali, la materia dei loro
sogni, non c’è più, così che, anche se circondata dall’acqua, tali persone sono
in qualche modo pesci fuor d’acqua; come se l’ambiente che per migliaia di
generazioni è stato il fondamento delle loro vite iniziasse a franare. Catastrofi
simili sono accadute, ovviamente, per secoli, alcune addirittura fin dalla
preistoria dell’umanità. Di nuovo oggi c’è che, vivendo noi in un’epoca
«disincantata», post-religiosa, a tali catastrofi non riusciamo più a dare un
senso come parte di un ciclo naturale più ampio o come espressione di una
collera divina. Pensiamo a come, nel 1906, il filosofo americano William
James ha descritto la sua reazione a un terremoto:
Come siamo lontani qui dalla distruzione dei veri e propri fondamenti del
nostro contesto di vita!
Fenomeni come il riscaldamento globale ci rendono consapevoli del fatto
che, nonostante tutta l’universalità delle nostre attività pratiche e teoriche, a
un certo livello di base non siamo altro che una delle tante specie viventi sul
pianeta Terra. La nostra sopravvivenza dipende da alcuni parametri naturali
che diamo per scontati. Il riscaldamento globale ci insegna che la libertà
dell’umanità è possibile solo avendo come contesto un ambiente stabile
(temperatura, composizione dell’aria, acqua a sufficienza e scorte
energetiche, e così via): gli esseri umani possono «fare quello che vogliono»
solo fintanto che rimangono abbastanza marginali, in modo da non turbare
seriamente i parametri della vita sulla Terra. Il limite della nostra libertà, che
diventa palpabile con il riscaldamento globale, è il risultato paradossale
proprio della crescita esponenziale della nostra libertà e del nostro potere,
ovvero della nostra sempre crescente capacità di trasformare la natura che ci
circonda, fino al punto di destabilizzare i fondamenti geologici alla base della
vita. La «natura» dunque diventa letteralmente una categoria socio-storica,
ma non nel senso amato dal giovane Lukács, in cui il contenuto di ciò che per
noi è (o conta per noi come) «natura» è sempre sovradeterminato da una
totalità sociale storicamente specificata che struttura l’orizzonte
trascendentale della nostra comprensione della natura. Piuttosto, diventa una
categoria socio-storica nel senso molto più radicale e letterale (ontico) di
qualcosa che non è solo uno sfondo stabile dell’attività umana, ma è
influenzato da essa nelle sue stesse componenti di base.
Stiamo così entrando in una nuova fase in cui è semplicemente la natura
stessa che evapora nell’aria: la principale conseguenza dei passi da gigante
nell’ambito della biogenetica è la fine della natura. Una volta che conosciamo
le regole della loro costruzione, gli organismi naturali vengono trasformati in
oggetti che possono essere manipolati. La natura, umana e non umana, viene
così «desostanzializzata», privata della sua densità impenetrabile, di ciò che
Heidegger chiamava «terra». Questo ci invita a leggere con occhi nuovi il
titolo freudiano Unbehagen in der Kultur, scontento, disagio nella cultura. Il
titolo viene normalmente tradotto con Il disagio della civiltà, perdendo così
l’occasione di portare sulla scena la contrapposizione di cultura e civiltà: il
disagio è nella cultura, nella sua violenta rottura con la natura, mentre la
civiltà può essere letta esattamente come il tentativo secondario di mettere le
cose insieme, di «civilizzare» il taglio, di reintrodurre l’equilibrio perduto e
un’apparenza di armonia. Con gli ultimi sviluppi, il disagio si sposta dalla
cultura alla natura stessa: la natura non è più «naturale», lo sfondo «denso» e
affidabile delle nostre vite; appare adesso come un meccanismo fragile che,
in ogni momento, può esplodere in senso catastrofico.
La natura è sempre più in disordine, non perché sopraffaccia le nostre
capacità cognitive, ma primariamente perché non siamo capaci di governare
gli effetti del nostro intervento sul suo corso; chissà quali saranno le
conseguenze definitive dell’ingegneria biogenetica o del riscaldamento
globale? La sorpresa viene da noi, riguarda l’opacità del nostro ruolo: il
problema non è qualche mistero cosmico come l’esplosione di una
supernova, siamo noi stessi, la nostra attività collettiva. È ciò che chiamiamo
«antropocene»: una nuova epoca nella vita del nostro pianeta, in cui noi
umani non possiamo più fare affidamento sulla Terra come riserva pronta ad
assorbire le conseguenze della nostra attività produttiva. Dobbiamo
riconoscere che viviamo su un’«astronave Terra» ed essere responsabili e
tenuti a rispondere delle sue condizioni. Proprio nel momento in cui
diventiamo abbastanza potenti da influenzare gli elementi più fondamentali
della nostra esistenza, dobbiamo accettare di essere solo una delle tante
specie animali su un piccolo pianeta. Una volta capito questo, è necessario
relazionarsi al nostro ambiente in modo nuovo: dobbiamo diventare dei
semplici agenti che collaborano con il proprio ambiente, che negoziano
continuamente un livello di stabilità tollerabile, senza alcuna formula a priori
che garantisca la propria sicurezza.
Ma questo significa forse che dobbiamo assumere un atteggiamento di
difesa e andare in cerca di un nuovo limite, un ritorno a (o, piuttosto,
l’invenzione di) un nuovo equilibrio? Questo è quello che il pensiero
ecologico dominante proporrebbe di fare, e lo stesso obiettivo è perseguito
dalla bioetica nei confronti della biotecnologia: la biotecnologia esplora le
nuove possibilità degli interventi genetici (manipolazione genetica,
clonazione, eccetera) mentre la bioetica si sforza di imporre dei limiti morali
su ciò che la biotecnologia ci permette di fare. In quanto tale, la bioetica non
è immanente alla pratica scientifica: interviene in questa pratica da fuori,
imponendo su di essa una morale esterna. Si potrebbe perfino dire che la
bioetica è il tradimento dell’etica interna allo sforzo scientifico, l’etica del
«non compromettere il tuo desiderio scientifico, segui il suo percorso
inesorabilmente». Tali tentativi di porre un limite falliscono perché non
tengono conto del fatto che non esiste un limite oggettivo: stiamo scoprendo
che l’oggetto stesso, la natura, non è stabile. Gli scettici amano sottolineare i
limiti della nostra conoscenza della natura; in ogni caso, questi limiti non
implicano in nessun modo che dovremmo minimizzare la minaccia ecologica.
Al contrario, dovremmo essere ancora più attenti, dal momento che la
situazione è completamente imprevedibile. Le recenti incertezze sul
riscaldamento globale non significano che le cose non siano troppo serie,
piuttosto che sono molto più caotiche di quanto pensassimo, e che i fattori
naturali e sociali sono inestricabilmente collegati.
Possiamo dunque usare il capitalismo stesso contro questa minaccia?
Anche se il capitalismo può facilmente trasformare l’ecologia in un nuovo
campo di investimento e competizione capitalista, la natura stessa del rischio
implicato preclude fondamentalmente una soluzione di mercato: perché? Il
capitalismo funziona soltanto all’interno di specifiche condizioni sociali:
comporta la fiducia nel meccanismo oggettivato dell’«invisibile mano» del
mercato che, come una sorta di astuzia della ragione, garantisce che la
competizione degli egoismi individuali operi per il bene comune. In ogni
caso, siamo nel bel mezzo di un cambiamento radicale: ciò che oggi
intravediamo all’orizzonte è l’inaudita possibilità che un intervento
soggettivo inneschi una catastrofe ecologica, una disastrosa mutazione
biogenetica, un disastro nucleare o social-militare simile. Per la prima volta
nella storia umana, l’atto di un singolo agente socio-politico può alterare e
interrompere il processo storico e addirittura naturale globale.
Jean-Pierre Dupuy fa qui riferimento alla teoria dei sistemi complessi, che
ne rappresenta le due opposte caratteristiche: il loro carattere stabile e robusto
e l’estrema vulnerabilità. Questi sistemi si possono adattare a grandi
disordini, integrarsi e trovare un nuovo equilibrio e una nuova stabilità – fino
a una certa soglia (un «punto di non ritorno»), al di sopra della quale un
piccolo elemento di disturbo può determinare una catastrofe totale e portare
allo stabilirsi di un ordine completamente diverso. Per secoli, l’umanità non
si è dovuta preoccupare dell’impatto sull’ambiente della sua attività
produttiva; la natura era in grado di adattarsi alla deforestazione, all’uso del
carbone e del petrolio, e così via. In ogni caso, non possiamo essere sicuri di
non essere, adesso, in avvicinamento al punto di non ritorno; non possiamo
esserne certi dal momento che tale punto viene percepito chiaramente solo
quando è già troppo tardi, retrospettivamente. O prendiamo seriamente la
minaccia della catastrofe ecologica e decidiamo di fare oggi delle cose che, se
la catastrofe non accade, sembreranno ridicole o non facciamo nulla e
perderemo tutto se, al contrario, la catastrofe accade. Lo scenario peggiore è
quello di scegliere una via di mezzo, di prendere una serie limitata di
contromisure: in questo modo falliremo comunque (ovvero, il problema è che
non esiste una via di mezzo: o la catastrofe ecologica avviene o non avviene).
In una tale situazione, parlare di previsione, prevenzione e controllo del
rischio diventa inutile.
Le lezione più importante che dobbiamo imparare è, dunque, che l’umanità
dovrebbe prepararsi a vivere in un modo più «plastico» e nomade: i
cambiamenti globali o locali nell’ambiente potrebbero avere bisogno di
inaudite trasformazioni sociali su larga scala. Mettiamo che una nuova,
gigantesca eruzione vulcanica renda tutta l’Islanda inabitabile: dove
andrebbero gli islandesi? E a quali condizioni? Verrebbe dato loro un pezzo
di terra o si disperderebbero in tutte le parti del mondo? E se invece la Siberia
del Nord diventasse più ospitale e adatta all’agricoltura, mentre ampie regioni
sub-sahariane diventassero troppo aride per una popolazione numerosa, come
si potrebbe organizzare lo scambio di popolazioni? Quando cose simili sono
accadute in passato, i cambiamenti sociali sono avvenuti in modo spontaneo,
con violenze e devastazioni; tale prospettiva è catastrofica nello scenario
odierno, con le armi di distruzione di massa che abbiamo a disposizione. Una
cosa è certa: la sovranità nazionale dovrà essere radicalmente ridefinita, e
dovranno essere inventati nuovi livelli di cooperazione globale. E che dire
degli immensi cambiamenti nell’economia e nel consumo che saranno
necessari come conseguenza dei nuovi contesti climatici, o della carenza di
fonti idriche ed energetiche? Attraverso quali processi decisionali verranno
portati avanti questi cambiamenti?
E, da ultimo, ma non per importanza, è necessario tenere a mente la strana
coincidenza degli opposti nelle minacce che dobbiamo fronteggiare: i
problemi arrivano dall’esterno «materiale» (la fine della natura, le catastrofi
ambientali) e dall’interno, dalla sfera virtuale «immateriale» (chi controlla lo
spazio digitale che ci controlla? Chi manipola gli hackers?).
Inoltre, si dovrebbe tenere a mente che tali valutazioni non sono mai
onnicomprensive: presuppongono sempre una doppia deroga. Decenni fa, la
rivista Mad pubblicò una serie di variazioni sul tema dei quattro livelli della
gerarchia. Rispetto alla moda, ad esempio, in basso ci sono quelli che vivono
al di fuori della moda e semplicemente non la considerano; poi ci sono quelli
che cercano di seguirla ma rimangono sempre indietro; poi ci sono quelli che
possono permettersi di essere del tutto in sintonia con le ultime tendenze; e,
infine, quelli che stanno al livello più alto che, come quelli al livello più
basso, non si curano di ciò che indossano perché sono loro che fanno la
moda; ciò che decidono di indossare è la moda. Non varrebbe forse la stessa
cosa con il credito sociale? In basso ci sono gli esclusi a cui non importa di
come vengono valutati; poi ci sono quelli che rimangono indietro e cercano
di migliorare le loro valutazioni; poi quelli che raggiungono le valutazioni
migliori; e infine, di nuovo, quelli che, come quelli al livello più basso, non si
curano delle loro valutazioni perché possono avere accesso a tutto (in Cina,
ad esempio, i membri più potenti della nomenklatura di Stato certamente non
si preoccuperebbero delle proprie valutazioni). I gruppi che si trovano al
livello più basso e più alto sono in un certo senso entrambi liberi: non si
preoccupano delle loro valutazioni, e possiamo addirittura dire che quelli al
livello più basso sono più liberi rispetto a quelli al livello più alto che hanno
altre preoccupazioni (riusciranno a mantenere sempre quella posizione?).
Forse quelli che stanno al livello più basso, esclusi come sono dalla
valutazione e orgogliosamente ignorandola, corrispondono ai nuovi proletari
contemporanei i quali sono, come ha detto Marx, liberi in un doppio senso:
quello di non avere possessi sociali, e semplicemente quello dell’essere liberi.
Oggi, coloro che sono al di sopra delle valutazioni, sono ovviamente i
grandi gruppi legati alle agenzie governative; esemplificano la
privatizzazione dei nostri beni comuni. La figura di Elon Musk è qui
emblematica: appartiene allo stessa tipologia di Bill Gates, Jeff Bezos, Mark
Zuckerberg, ecc., tutti miliardari con una «coscienza sociale». Rappresentano
il capitale globale nel suo aspetto più seducente e «progressivo»; in breve, il
più pericoloso. Musk ama mettere in guardia sulle minacce poste dalle nuove
tecnologie alla dignità e alla libertà umane, cosa che, ovviamente, non gli
impedisce di investire nell’avventura di un’interfaccia neurale chiamata
Neuralink, una compagnia che si dedica all’invenzione di dispositivi da
impiantare nel cervello, con lo scopo finale di aiutare gli esseri umani a
fondersi con i software e a tenere il passo con i progressi dell’intelligenza
artificiale. Questi progressi potrebbero migliorare la memoria o permettere di
interfacciarsi in modo più diretto con i dispositivi informatici: «Nel corso del
tempo io credo che vedremo probabilmente una fusione più profonda di
intelligenza biologica e intelligenza digitale». 18 Ogni innovazione
tecnologica viene prima presentata così, sottolineandone i benefici in termini
umanitari e di salute, in modo da renderci ciechi davanti a implicazioni e
conseguenze ben più nefaste: possiamo anche solo immaginare quali nuove
forme di controllo contiene questo cosiddetto «laccio neurale»? È questo il
motivo per cui è assolutamente necessario tenerlo al di fuori del controllo del
capitale privato e del potere statale e renderlo del tutto aperto al pubblico
dibattito. Julian Assange aveva ragione nel suo libro fondamentale e
stranamente ignorato: per capire in che modo le nostre vite oggi vengano
controllate, e in che modo questo controllo venga percepito come una nostra
libertà, dobbiamo concentrarci sull’ambigua relazione esistente fra le aziende
private che controllano i diritti e le agenzie segrete di Stato. 19
Questo è ciò che fa di Assange una vera minaccia per il sistema, e
possiamo solo immaginare le segrete pressioni esercitate di recente dalle
potenze occidentali sull’Ecuador per far sì che questo piccolo Stato desse un
ulteriore giro di vite all’isolamento di Assange rispetto allo spazio pubblico:
non ha più accesso a internet, a molti visitatori non è permesso vederlo... la
lenta morte sociale di una persona che è stata confinata per quasi sei anni in
un appartamento nell’ambasciata ecuadoriana di Londra. Era già accaduto
una volta, per un breve periodo, all’epoca delle elezioni americane, ma allora
era stata una reazione alla pubblicazione da parte di WikiLeaks di documenti
che avrebbero potuto influenzare quelle elezioni, mentre oggi non abbiamo
più nessuna scusa: «l’ingerenza» di Assange nelle relazioni internazionali
consiste solo nell’aver pubblicato su internet le sue opinioni sulla crisi
catalana e sullo scandalo dell’avvelenamento di Skripal’. Perché dunque
adesso un tale provvedimento, e perché se ne è parlato così poco?
Su questa seconda domanda, non basta dire che la gente si è
semplicemente stancata di Assange: un ruolo chiave l’ha rivestito la lunga,
lenta e ben orchestrata campagna di diffamazione che ha toccato il livello più
infimo pochi mesi fa con la diffusione della notizia, non verificata, secondo la
quale gli ecuadoriani volevano sbarazzarsi di lui a causa del suo cattivo odore
e della sporcizia dei suoi vestiti. Nella prima fase di questi attacchi pubblici, i
suoi ex-amici e collaboratori dissero in pubblico che WikiLeaks aveva
iniziato bene ma poi si era impantanato a causa della non oggettività politica
di Assange (la sua ossessione anti-Hillary, i suoi legami sospetti con la
Russia...). A questo è seguita una diffamazione personale più diretta: è
paranoico e arrogante, ossessionato dal potere e dal controllo... Ora abbiamo
raggiunto il livello direttamente corporale degli odori e delle macchie di
sporco.
Assange un paranoico? Quando vivi costantemente in un appartamento
controllato da tutte le parti, vittima di una sorveglianza perenne da parte dei
servizi segreti, chi non lo sarebbe? Megalomane? Quando il capo (ora ex)
della CIA afferma che il tuo arresto è prioritario, non significa almeno che in
qualche modo sei una «grande» minaccia per qualcuno? Comportarsi come il
capo di un’organizzazione di spie? Ma WikiLeaks è un’organizzazione di
spie, anche se al servizio delle persone, per tenerle informate su ciò che
accade dietro le quinte. Assange è forse uno che scappa dalla giustizia, che si
nasconde nell’ambasciata ecuadoriana per evitare un processo? Ma che tipo
di giustizia è quella che minaccia di arrestarlo anche dopo che le accuse sono
cadute?
Arriviamo dunque alla grande questione: perché proprio adesso? Io credo
che un nome basti a spiegare tutto: Cambridge Analytica, un nome che
rappresenta tutto ciò per cui combatte Assange: lo svelamento dei rapporti tra
le grandi aziende private e le agenzie governative. Pensiamo a quanto
ossessivamente si è parlato delle interferenze russe nelle elezioni americane:
ora sappiamo che non erano gli hacker russi (in teoria complici di Assange) a
spingere gli elettori verso Trump ma le nostre stesse agenzie di elaborazione
dati, che avevano unito le loro forze con quelle politiche. Ciò non significa
che la Russia e i suoi alleati fossero innocenti: probabilmente hanno davvero
cercato di influenzare i risultati, esattamente come fanno gli Stati Uniti in
altri paesi (solo che, in quei casi, si chiama «aiutare la democrazia»). Ma
significa anche che il grande lupo cattivo che distorce la nostra democrazia è
proprio qui, non al Cremlino; ed è esattamente quello che non ha fatto che
ripetere Assange.
Ma dove si trova, di preciso, questo grande lupo cattivo? Per cogliere
l’intera portata di questo controllo e questa manipolazione bisognerebbe
andare oltre il legame fra aziende private e partiti politici (come accade nel
caso di Cambridge Analytica) e arrivare alla compenetrazione di compagnie
di elaborazione dati come Google o Facebook e agenzie statali per la
sicurezza. Non dovremmo essere sconvolti dalla Cina, ma piuttosto da noi
stessi, nel momento in cui accettiamo le stesse regole credendo di mantenere
la nostra piena libertà e che i nostri media ci stiano solo aiutando a realizzare
gli obiettivi che ci siamo posti (almeno in Cina le persone sono pienamente
consapevoli di essere controllate). L’immagine generale che sta emergendo,
unita a ciò che sappiamo anche degli ultimi sviluppi della biogenetica, ci
offre una prospettiva adeguata e terrificante delle nuove forme di controllo
sociale che rendono il buon vecchio totalitarismo del ventesimo secolo una
goffa e primitiva macchina di controllo.
Il più grande risultato ottenuto dal nuovo sistema cognitivo-militare è che
l’oppressione diretta e palese non è più necessaria: gli individui si controllano
molto meglio e si «incoraggiano» nella direzione desiderata quando
continuano a sperimentare sé stessi come agenti liberi e autonomi della loro
vita. Ecco un’altra lezione che abbiamo imparato da WikiLeaks: la nostra
non-libertà è più pericolosa quando viene sperimentata come il mezzo vero e
proprio della nostra libertà; cosa ci può essere di più libero dell’incessante
flusso di comunicazioni che permettono a ciascun individuo di diffondere le
proprie opinioni e costituire comunità virtuali a proprio piacimento? È per
questo motivo che è assolutamente necessario tenere la rete digitale al di fuori
del controllo del capitale privato e del potere statale, ovvero renderla
completamente accessibile al dibattito pubblico.
È chiaro adesso perché Assange debba essere messo a tacere proprio
quando il discorso su Cambridge Analytica attraversa tutti i media. Coloro
che stanno ai posti di comando tentano di ridurre il tema a un «cattivo uso»
specifico fatto da alcune aziende private e alcuni partiti politici: ma dov’è lo
Stato stesso, gli apparati parzialmente invisibili del cosiddetto «Stato
profondo»? Chiaro che il Guardian, che ha dedicato ampio spazio allo
«scandalo» di Cambridge Analytica, abbia recentemente pubblicato un
disgustoso attacco ad Assange dipingendolo come un megalomane in fuga
dalla giustizia. Scrivete quello che volete su Cambridge Analytica e Steve
Bannon, ma non fermatevi su ciò che Assange ci stava dicendo: che gli
apparati statali che ora dovrebbero in teoria indagare sullo «scandalo» sono a
loro volta parte del problema.
Assange si è definito una spia delle e per le persone: non spia le persone
per conto di quelli che stanno al potere, ma spia quelli che stanno al potere
per conto delle persone. È per questo motivo che gli unici che adesso lo
possono aiutare davvero siamo noi, le persone. Solo la nostra pressione e una
nostra mobilitazione possono alleviarne le difficoltà. Leggiamo spesso di
come i servizi segreti sovietici non solo abbiano punito i traditori anche dopo
decenni, ma anche di come abbiano combattuto strenuamente per liberarli se
catturati dal nemico. Assange non ha nessuno Stato alle spalle, solo noi, le
persone: facciamo almeno quello che facevano i servizi segreti russi,
combattiamo per lui indipendentemente da quanto tempo ci vorrà!
Il controllo digitale di recente ha preso una piega ancora più infausta. John
Steinbeck ha tratto il titolo della sua famosa novella dalla poesia A un topo di
Robert Burns:
Sono veramente dolente che il dominio dell’uomo
abbia spezzato l’unione sociale della natura
e giustifichi la cattiva opinione
che ti fa sobbalzare
dinanzi a me, tuo povero compagno nato dalla terra
e mortale come Te!
[...]
i migliori piani dei topi e degli uomini
van spesso di traverso
e non ci lascian che dolore e pena
invece della gioia promessa.
Immagina qualcuno che controlla da lontano il tuo cervello, che obbliga l’organo
decisionale centrale del tuo corpo a mandare messaggi ai tuoi muscoli che tu non
hai autorizzato. È un’idea incredibilmente spaventosa, ma gli scienziati sono
riusciti a rendere reale questo incubo da fantascienza, anche se su scala molto
minore, e sono stati addirittura capaci di indurre i soggetti testati a correre, stare
immobili sul posto, o anche perdere del tutto il controllo sui loro arti.
Fortunatamente, la ricerca è fatta a fin di bene... per adesso. Lo sforzo, portato
avanti dal professore di fisica Arnd Pralle, della University at Buffalo College of
Arts and Sciences, si basava su una tecnica chiamata «stimolazione magneto-
termale». Non è esattamente un processo semplice, necessita infatti dell’impianto
di elementi di DNA costruiti appositamente e nanoparticelle che si attaccano a
specifici neuroni; ma una volta che questa procedura minimamente invasiva è
compiuta, il cervello può essere controllato a distanza attraverso un campo
magnetico alternato. Quando vengono applicati questi input magnetici, le particelle
si riscaldano, facendo attivare i neuroni [...] Nonostante sia stata testata solo sui
topi, la ricerca potrebbe avere ampie ricadute nell’ambito delle neuroscienze. Il
Sacro Graal per sognatori come Elon Musk è la possibilità, un giorno, di modificare
i nostri cervelli eliminando i disturbi dell’umore e rendendoci creature più perfette.
Questa ricerca pionieristica potrebbe davvero costituire un importante passo avanti
in quella direzione. 20
La speranza espressa con riserva che questa ricerca sia «fatta a fin di
bene... per adesso» suona come la famosa battuta del medico «prima le belle
notizie, poi quelle brutte». Quando una nuova invenzione come la
digitalizzazione diretta del nostro cervello viene venduta al grande pubblico, i
media di solito ne sottolineano i relativi benefici per la salute e l’opportunità
di riduzione della sofferenza. Neppure il famosissimo piccolo dito di Stephen
Hawking, il collegamento minimo fra il suo cervello e il mondo esterno,
l’unica parte di tutto il suo corpo paralizzato che poteva muovere, sarebbe più
necessario: con una mente attraversata da fili, sarebbe stato in grado di far
muovere la sua sedia a rotelle, ovvero avrebbe potuto usare il suo cervello
come macchina di controllo remoto. Ma, come si dice, chi semina raccoglie:
la digitalizzazione dei nostri cervelli apre la strada a inaudite possibilità di
controllo. Fra parentesi, la notizia che cito non è esattamente nuova: già nel
maggio 2002 si era saputo che gli scienziati della New York University
avevano attaccato al cervello di un ratto un microchip in grado di ricevere
segnali, tanto che si poteva controllare il ratto, decidere la direzione in cui
avrebbe corso grazie a una specie di meccanismo di guida, come le
macchinine telecomandate. Per la prima volta, alla «volontà» di un agente
animale vivente, alle sue decisioni «spontanee» sui movimenti da fare, era
subentrata una macchina esterna. Ovviamente, qui la grande questione
filosofica è: in che modo lo sfortunato ratto «faceva esperienza» del suo
movimento, che veniva in effetti deciso dall’esterno? Ha continuato a
sperimentarlo come qualcosa di spontaneo (ovvero, era del tutto
inconsapevole di essere guidato), o capiva che «c’era qualcosa che non
andava», che una forza esterna stava decidendo i suoi movimenti?
E, in modo ancora più cruciale, proviamo ad applicare lo stesso
ragionamento a un identico esperimento fatto sugli esseri umani (che, al di là
delle questioni etiche, non dovrebbe essere molto più complicato, dal punto
di vista tecnico, di quello sul ratto). Potremmo sostenere che la categoria
umana di «esperienza» non dovrebbe essere applicata al ratto, ma dovremmo
porci la stessa domanda rispetto a un essere umano. Per cui, di nuovo, io,
essere umano guidato dall’esterno, continuerei a sperimentare i miei
movimenti come qualcosa di spontaneo? Rimarrei del tutto inconsapevole del
fatto che i miei movimenti sono comandati, o capirei che qualcosa non
funziona, che un potere esterno li sta determinando? E in che modo,
esattamente, questa «forza esterna» si manifesterebbe? Come qualcosa dentro
di me, una pulsione interna irrefrenabile, o come una semplice coercizione
esterna? Se io rimango del tutto inconsapevole del fatto che il mio
comportamento «spontaneo» è comandato dall’esterno, possiamo davvero
andare avanti a fingere che la cosa non abbia alcuna conseguenza per il
nostro concetto di libero arbitrio?
Con un po’ di ironia, possiamo già ritrovare, nella nostra realtà politica, un
simile essere umano «comandato»: quando Alexis Tsipras, un sostenitore
delle politiche anti-austerità, dopo aver vinto trionfalmente il referendum
dicendo no alle pressioni finanziarie dell’Unione Europea, ha cambiato
improvvisamente posizione e ha acconsentito a mettere in atto le politiche di
austerità più dure, non è stato forse come se i poteri politico-finanziari di
Bruxelles avessero premuto un bottone e lo avessero trasformato nel loro
giocattolo telecomandato? Molti osservatori hanno notato che, dopo questo
cambiamento, quando Tsipras appare in televisione in compagnia dei grandi
capi europei, c’è qualcosa di strano nel suo comportamento: spesso non fa
altro che stare in piedi e sorridere, come se non fosse pienamente cosciente di
quello che sta facendo. In ogni caso, il quadro è molto più complesso. Il 17
ottobre 2017 Tsipras ha visitato Trump alla Casa bianca e, parlando nel Rose
Garden dopo il loro incontro, ha affermato di essere finalmente pronto a
un’alleanza: «Abbiamo valori comuni. Non dobbiamo dimenticare che il
valore della democrazia e della libertà è nato in Grecia. È uno dei valori che
attraversa la cultura e la tradizione americana. Il presidente adesso porta
avanti quella tradizione». 21 Lo Tsipras che vediamo qui non è il fantoccio di
un’Europa che impone politiche di austerità, intravediamo una sorta di
eccesso personale autentico, e non c’è nessun capitale internazionale che gli
sta facendo pressione. Il suo elogio di Trump è decisamente più soggettivo, e,
dal punto di vista geopolitico, ha un suo senso (gli Stati Uniti, infastiditi dalla
Turchia, puntano di nuovo sulla Grecia), esattamente come la dichiarazione
rilasciata durante la visita in Israele due anni fa secondo la quale
Gerusalemme è la capitale eterna degli ebrei, o il suo manifestare vicinanza
alla Serbia e ad altri paesi ortodossi. Si può anche comprendere che, dopo le
esperienze amare con l’Unione Europea, Tsipras stia cercando supporto da
parte dei paesi anti-europeisti. In ogni caso, niente di tutto ciò può giustificare
in alcun modo la sua posizione: stiamo semplicemente avendo a che fare con
le tragicomiche conseguenze della sua capitolazione al ricatto europeo.
Mentre questa immagine di Tsipras come un giocattolo telecomandato non
è ovviamente altro che uno scherzo politico di gusto piuttosto cattivo,
sorgono qui questioni importanti, di tipo non solo filosofico ma politico:
quando Musk afferma «un giorno noi saremo in grado», chi saranno questi
«noi»? Le grandi aziende, i governi, chiunque abbia del denaro? Una cosa è
certa: scienza e filosofia dovranno unire le forze. Accade di tanto in tanto che
un’idea simile appaia in due campi del sapere diversi, che non comunicano
affatto, prendiamo ad esempio la speculazione «postmoderna» e la scienza
empirica. Cosa che è accaduta negli ultimi decenni con l’idea di un anti-
umanesimo teorico o di un soggetto inumano, che ha avuto un ruolo
importante nel pensiero francese contemporaneo, da Foucault a Lacan fino a
Badiou. Recentemente, le scienze cognitive hanno proposto la loro versione
dell’anti-umanesimo: con la digitalizzazione delle nostre vite e la prospettiva
di un collegamento diretto tra il nostro cervello e un macchinario digitale,
stiamo entrando in una nuova era postumana in cui cambierà la nostra
fondamentale percezione di noi stessi come agenti umani liberi e
responsabili. In questo modo, il postumanesimo non è più una proposta
teorica eccentrica ma una questione che riguarda la nostra vita quotidiana.
Questi due aspetti possono essere uniti in un’unica prospettiva teorica, o sono
condannati a parlare lingue diverse (con la teoria «postmoderna» che critica il
cognitivismo come un ingenuo determinismo naturalista, e i cognitivisti che
liquidano la teoria «postmoderna» come una speculazione inutile che rimane
ancorata allo spazio filosofico tradizionale)? 22 La prima cosa da notare qui è
che l’emergere di agenti postumani e l’epoca dell’antropocene sono le due
facce dello stesso fenomeno: esattamente nel momento in cui l’umanità
diventa il massimo fattore geologico che minaccia l’intero equilibrio della
vita della Terra, inizia anche a perdere le sue caratteristiche di base e si
trasforma in postumanità.
La domanda sottesa a questo problema è: in che modo il capitalismo e la
prospettiva della postumanità sono collegati? Di solito si presuppone che il
capitalismo sia più storico e la nostra umanità, comprese le nostre differenze
sessuali, più di base, perfino astorica; in ogni caso, oggi, ciò a cui stiamo
assistendo non è altro che un tentativo di integrare il passaggio alla
postumanità con il capitalismo. A questo sono rivolti gli sforzi nei nuovi guru
miliardari come Elon Musk: le loro previsioni sul modo in cui il capitalismo
«come lo conosciamo» stia giungendo alla fine fanno riferimento al
capitalismo «umano», e il passaggio di cui parlano è quello dal capitalismo
umano al capitalismo postumano. Blade Runner 2049 parla di questo; eccone
il riassunto (di nuovo, preso senza vergogna da Wikipedia): 23
Anno 2049, i replicanti (umani su cui sono state fatte operazioni di bioingegneria)
sono stati del tutto integrati nella società come servi e schiavi. L’agente K è un
replicante di ultima generazione ed è uno dei nuovi blade runner. Il film comincia
con K che ha l’incarico di rintracciare un vecchio replicante di nome Sapper
Morton, un ex medico militare disertore il quale vive da solo in una fattoria. K lo
rintraccia e, dopo un’estenuante lotta, lo «ritira». In seguito, l’agente trova una
scatola sepolta sotto un albero morto nei pressi dell’abitazione di Sapper. K torna al
suo appartamento dove ad attenderlo c’è Joi, una dolce intelligenza artificiale
olografica comandata da un braccio elettromeccanico, programmata per essere
l’amante ideale. K aggiorna Joi grazie a un emulatore datogli come bonus per il suo
lavoro, rendendola in grado di andare dove desidera. Mentre Joi prova la sua nuova
capacità uscendo fuori dell’abitazione, K viene informato che l’oggetto sepolto è
stato recuperato e aperto, e al suo interno è stato trovato uno scheletro. Gli analisti
del LAPD ricostruiscono che si tratta di una donna morta a seguito di
complicazioni durante un parto cesareo (fatto probabilmente da Sapper per
salvarla), ma K nota qualcosa di strano mentre analizzano le ossa e scoprono incisa
in una di esse un numero di serie: la donna è una replicante nexus. Joshi, il capo di
K, è sconvolta dal ritrovamento, in quanto non si credeva che i nexus fossero
capaci di accoppiarsi e riprodursi, e quindi ordina di eliminare qualsiasi prova del
ritrovamento, intimando a K di trovare e ritirare il figlio replicante, poiché la
notizia potrebbe creare un’instabilità nell’ordine tra umani e replicanti.
K si presenta alla sede della Wallace Industries, dove il personale identifica lo
scheletro ritrovato come quello di Rachel, replicante creata dalla ex Tyrell
Corporation, che ebbe una relazione con il vecchio blade runner Rick Deckard,
scomparso con lei dal 2019. Il fondatore della società, Niander Wallace, crede che i
nexus capaci di riprodursi possano essere il prossimo passo nella sua produzione e
favorire l’espansione delle colonie extramondo, popolate da soli androidi, e quindi
ordina a Luv, la sua replicante tirapiedi, di rubare i resti di Rachel dalla stazione di
polizia e di pedinare K in modo da risalire al figlio replicante. K ritorna alla fattoria
di Sapper e nota, incisa sull’albero morto, la data 6/10/21, che coincide con
l’incisione presente su un cavallino di legno presente in un ricordo che gli è stato
innestato. K si reca nel luogo in cui è ambientato questo ricordo, un orfanotrofio a
San Diego, ritrovando il giocattolo nel posto dove lo aveva nascosto da bambino, e
credendo quindi che l’impianto potrebbe essere un vero ricordo del suo passato,
ipotesi avvalorata anche da Joi.
Tempo prima, K aveva controllato le nascite avvenute nel giugno del 2021,
scoprendo un’anomalia: Rachel ha apparentemente dato alla luce due gemelli che
condividono lo stesso DNA di sesso opposto, e pare che solo il maschio sia ancora
vivo. K si reca quindi dalla dottoressa Ana Stelline, che lavora come creatrice di
ricordi da innestare ai replicanti prodotti dalla Wallace Industries e che, dopo
averlo informato che è illegale innestare ai replicanti memorie vere appartenute agli
umani, gli conferma piangendo che si tratta di un ricordo reale, inducendolo così a
credere di essere lui stesso il figlio della nexus morta. Dopo avere fallito un test
sulla sua natura di replicante, K viene sospeso da Joshi, lasciandole intendere che
ha portato a termine la missione, cioè ritirare il bambino, che è lui stesso. La stessa
Joshi, per compassione, lo lascia andare.
K prosegue l’indagine per conto proprio e fa analizzare il cavallino di legno: in
esso vengono trovate tracce di radioattività, che lo conducono alle rovine post-
apocalittiche di Las Vegas. Qui K ritrova Deckard, che gli rivela di aver alterato le
date di nascita per coprire le loro tracce, venendo costretto a lasciare Rachel con un
gruppo di replicanti rivoluzionari per la sua sicurezza.
Nel frattempo Luv uccide Joshi e rintraccia K. Nello scontro Luv distrugge
sadicamente Joi, lasciando K in fin di vita, e rapisce Deckard. K viene soccorso dal
gruppo rivoluzionario, condotto da Freysa, che lo informa che il vero erede di
Rachel e di Deckard è Stelline, in quanto solo lei poteva essere capace di
impiantare i propri ricordi nella sua mente. Freysa ordina a K di uccidere Deckard
affinché egli non fornisca a Wallace informazioni sul movimento.
È importante che questa parte del film sia ambientata a Las Vegas. Molti
critici vi hanno ritrovato degli echi tarkovskiani, non solo nel ritmo lento ma
anche nel paesaggio, che evoca la Zona di Stalker. Nel primo Blade Runner,
la megalopoli stessa è una Zona, mentre al di fuori c’è una natura verde
intatta (verso la quale Deckard e Rachel fuggono alla fine del film, almeno
nella prima versione che è stata distribuita); in Blade Runner 2049, l’intera
superficie della Terra è una Zona velenosa (la storia si svolge dopo una
catastrofe ecologica), ma esiste una sorta di Zona all’interno della Zona:
l’area attorno a Las Vegas, in cui Deckard si sta nascondendo, il territorio
radioattivo in cui solo i replicanti possono sopravvivere, e in cui le forze della
polizia umana possono intervenire solo per tempi brevi, e con pesanti
protezioni e maschere. Nella Zona di Las Vegas il tempo è bloccato in un
eterno movimento circolare che viene reso perfettamente dall’eterno
ologramma autoreplicantesi dello show di vecchie star (Elvis Presley, ecc.) su
un palco abbandonato. Una cosa che non ha nessun fascino, l’iper-realtà
dell’ologramma, è fratturata e continuamente interrotta; ma ricordiamoci in
ogni caso che qui ci troviamo in una sorta di territorio liberato, o almeno in
un territorio abbandonato dal potere statale in cui ha la sua base anche la
resistenza dei replicanti.
Tornato a Los Angeles, Deckard viene portato davanti a Wallace, il quale
insinua che i sentimenti che Rachel aveva per lui erano stati installati da
Tyrell per verificare se era possibile che una replicante rimanesse incinta.
Quando Deckard si rifiuta di collaborare, Wallace lo fa scortare da Luv in una
zona extramondo per torturarlo ed estorcergli informazioni. K però li
raggiunge, uccide Luv e inscena la morte di Deckard per proteggerlo sia da
Wallace sia dai replicanti. Porta Deckard all’ufficio di Stelline e si lamenta
del fatto che i suoi ricordi più belli appartengano a lei. Deckard entra
cautamente nell’ufficio e si avvicina a Stelline, mentre K muore per le ferite
riportate.
Come è dunque possibile che i due replicanti (Deckard e Rachel) abbiano
costituito una coppia sessuale e procreato un essere umano in modo umano,
vissuto in quanto tale come evento traumatico, celebrato da alcuni come un
miracolo e visto da altri con orrore e come una minaccia? Si tratta di
riproduzione o di sesso, ovvero, di sessualità nella sua specifica forma
umana? Il film si concentra esclusivamente sulla riproduzione, eludendo
ancora la grande questione: la sessualità, privata della sua funzione
riproduttiva, può sopravvivere nell’era postumana?
L’immagine della sessualità rimane quella standard: l’atto sessuale è
mostrato dal punto di vista maschile, così che la donna androide in carne ed
ossa viene ridotta a supporto fisico per la donna olografica di fantasia Joi,
creata per servire l’uomo: «deve sovrapporsi a un corpo reale, per cui oscilla
continuamente fra le due identità, dimostrando che la donna è il vero soggetto
diviso, e l’Altro in carne ed ossa serve solo come veicolo per la fantasia». 24
Joi non è materializzata ma è una fantasia maschile programmata, che si
trasforma da compagna di casa, a casalinga fino all’operatrice del sesso
adattabile ai desideri e alle volontà del suo possessore. La scena di sesso del
film è dunque fin troppo direttamente «lacaniana» (sul filone di film come
Her), e ignora l’autentica eterosessualità in cui il partner non è
semplicemente un supporto che mi permette di mettere in scena le mie
fantasie ma un Altro reale. 25 Il film inoltre non indaga la differenza
potenzialmente antagonistica fra gli stessi androidi, fra gli androidi «di carne
vera» e quelli i cui corpi sono solo delle proiezioni olografiche
tridimensionali: in che modo, nella scena di sesso, la donna androide in carne
ed ossa si relaziona con l’essere ridotta a supporto fisico per la fantasia
maschile? Perché non si oppone e boicotta la cosa?
Il film offre un’intera panoplia di modalità di sfruttamento, compreso
quello di un imprenditore semi-illegale che sfrutta il lavoro minorile
(centinaia di orfani umani) per cercare tra i rifiuti componenti di vecchie
macchine digitali. Da un punto di vista tradizionalmente marxista, si pongono
qui strane questioni: se gli androidi costruiti lavorano, si può parlare ancora
di sfruttamento? Il loro lavoro produce un valore in eccesso rispetto al loro
valore in quanto merci così da poter essere fatto proprio dai loro proprietari
come plusvalore? Ricordiamoci che l’idea di migliorare le capacità umane
per creare lavoratori o soldati postumani perfetti ha una lunga storia nel
ventesimo secolo. Alla fine degli anni Venti, niente meno che Stalin finanziò
il progetto dell’«uomo scimmia» portato avanti dal biologo Il’ja Ivanov (un
seguace di Alexandr Bogdanov, oggetto della critica di Lenin nel suo
Materialismo ed empiriocriticismo): l’idea era che unendo umani e scimmie
si potesse ottenere un perfetto lavoratore e un perfetto soldato, resistente al
dolore, alla stanchezza e alla cattiva alimentazione. Nel suo innato razzismo e
sessismo, Ivanov, ovviamente, cercò di unire maschi umani con femmine di
scimmia; inoltre, gli uomini che utilizzava erano africani del Congo, in base
all’idea che fossero geneticamente più affini alle scimmie: lo Stato sovietico
finanziò una costosa spedizione in quella zona. Quando gli esperimenti
fallirono, Ivanov fu liquidato. Anche i nazisti usavano regolarmente dei
farmaci per migliorare la forma fisica dei loro soldati più scelti, e l’esercito
americano sta facendo adesso degli esperimenti su mutamenti genetici e
farmaci per rendere i soldati super-resilienti (ad esempio, hanno già piloti
pronti a volare e combattere per settantadue ore).
Nell’ambito della finzione, a questo elenco dovremmo aggiungere gli
zombie. I film horror registrano una differenza di classe nell’atteggiamento di
vampiri e zombie: i vampiri sono ben educati, ricercati, aristocratici, vivono
in mezzo alle persone normali, mentre gli zombie sono maldestri, passivi,
sporchi e attaccano dall’esterno, come una primitiva rivolta degli esclusi.
L’equazione fra zombie e classe lavoratrice è stata resa in modo chiaro
nell’Isola degli zombies di Victor Halperin (1932), lungometraggio sui morti
viventi realizzato prima che il Codice Hays, che proibiva riferimenti diretti
alla brutalità dei capitalisti e alle lotte salariali, cominciasse a regolamentare i
film di Hollywood. Nel lungometraggio in questione non ci sono vampiri,
ma, significativamente, il protagonista malvagio, che controlla gli zombie, è
interpretato da Bela Lugosi, diventato famoso un anno prima nei panni di
Dracula. L’isola degli zombies è ambientato in una piantagione di Haiti, il
luogo della più celebre rivolta di schiavi. Lugosi riceve in visita il
proprietario di un’altra piantagione e gli mostra la sua fabbrica di zucchero,
dove i lavoratori sono zombie che, come egli si affretta a spiegare, non si
lagnano per i lunghi turni di lavoro, non pretendono sindacati, non scioperano
e non smettono mai di lavorare. Un film del genere non sarebbe mai stato
possibile dopo l’imposizione del Codice Hays.
Con un ulteriore bel rovesciamento della formula standard secondo la
quale l’eroe, che vive (e percepisce sé stesso) come una persona qualunque,
scopre di essere una figura eccezionale con una missione speciale, K in Blade
Runner 2049 pensa di essere la figura speciale che tutti stanno cercando (il
figlio di Deckard e Rachel), ma pian piano capisce che (come tanti altri
replicanti) è solo un replicante qualunque ossessionato da un’illusione di
grandezza, per cui finisce per sacrificarsi per Stelline, la figura davvero
eccezionale. L’enigmatica Stelline qui è fondamentale: è lei la «vera» figlia
(umana) di Deckard e Rachel, il che significa che è la figlia umana dei
replicanti, invertendo in questo modo il processo dei replicanti creati
dall’uomo. Vivendo isolata nel suo mondo (incapace di sopravvivere negli
spazi aperti pieni di piante vere e vita animale), condannata a una sterilità
assoluta (vestiti bianchi in una stanza vuota con muri bianchi), a un contatto
con la vita limitato all’universo virtuale generato dalle macchine digitali,
riveste la posizione ideale di una creatrice di sogni (lavora come
imprenditrice indipendente, che programma falsi ricordi da impiantare nei
replicanti). In quanto tale, Stelline non è in alcun modo un agente sovversivo:
è una freelance che lavora per Wallace con il compito di evitare che i
replicanti si ribellino; in breve, è l’ideologa responsabile della società di
Wallace, che produce sogni e ricordi in massa per la soddisfazione dei
soggetti. Il movimento di resistenza non avrebbe forse tutte le ragioni di
rapirla e metterla a lavorare per loro? Stelline rappresenta l’assenza (o,
piuttosto, l’impossibilità) della relazione sessuale, che sostituisce con una
ricca tappezzeria fantasmatica. È chiaro dunque che la coppia creata alla fine
del film non è la classica coppia sessuale ma l’unione asessuale di padre e
figlia. È per questo motivo che le immagini finali del film sono allo stesso
tempo familiari e strane: K sacrifica sé stesso in un gesto cristologico sulla
neve per creare la coppia padre-figlia.
C’è un potere di redenzione in questa ritrovata unione? O dovremmo
leggerne il significato sullo sfondo del sintomatico silenzio del film sulla
frizione sociale esistente fra gli umani nella società descritta: dove si trovano
le «classi più umili» degli esseri umani? In ogni caso, il film rende bene
l’antagonismo che spacca l’élite dominante stessa all’interno del capitalismo
globale: quella fra lo Stato e i suoi apparati (rappresentati da Joshi) e le
grandi multinazionali (rappresentate da Wallace) che perseguono il progresso
fino al suo esito distruttivo:
Quando la posizione dello Stato politico-legale del LAPD è di potenziale conflitto,
Wallace vede solamente i potenziali produttivi rivoluzionari dei replicanti auto-
riproducentesi che egli spera possano dargli una mano nei suoi affari. La sua
prospettiva è quella del mercato; e vale la pena guardare a queste prospettive
contraddittorie di Joshi e Wallace, poiché sono indicative delle contraddizioni
esistenti in effetti tra la politica e l’economia; o, detta altrimenti, indicano
stranamente l’intersezione tra il meccanismo dello Stato di classe e le tensioni del
modo economico di produzione. 26
A differenza dei replicanti della versione originale, gli ultimi replicanti non si
ribellano mai, anche se non ne viene chiarito il motivo, se non che non sono
programmati per farlo. Il film, in ogni caso, suggerisce una spiegazione: la
differenza fondamentale tra i nuovi e i vecchi replicanti riguarda la relazione con i
loro falsi ricordi. I vecchi replicanti si ribellavano perché credevano che i loro
ricordi fossero veri e dunque potevano vivere l’alienazione dello scoprire che non
lo erano. I nuovi replicanti sanno fin dall’inizio che i loro ricordi sono falsi, dunque
non vengono mai ingannati. Il punto è dunque che il disconoscimento feticistico
dell’ideologia rende i soggetti più schiavi dell’ideologia che non la semplice
ignoranza del suo funzionamento. 29
Man mano che K procede con le sue indagini, incontriamo sempre più indizi di una
società schiavista che ipoteticamente esiste da almeno trent’anni: silos di bambini
lavoratori che smantellano circuiti elettronici abbandonati; spazzini che vivono su
gigantesche discariche di metallo arrugginito; prostitute nelle strade; un «allevatore
di proteine» che conduce una misera esistenza nel fango. Vediamo addirittura a un
certo punto un addetto alle pulizie, forse il primo in assoluto in un film di
fantascienza hollywoodiano. Questo è il nostro mondo, il mondo di oggi. 31
La cosa interessante qui è che il passaggio dalla fase più bassa a quella più
alta del comunismo non si fonda primariamente sullo sviluppo delle forze
produttive al di là della penuria, ma su un cambiamento nella natura umana.
In questo senso il comunismo cinese (nel suo momento più radicale) aveva
ragione: ci può essere un comunismo di povertà se cambiamo la natura
umana, e un socialismo di relativa prosperità («comunismo goulash»).
Quando la situazione si fa più disperata (come nel caso della Russia durante
la guerra civile del 1918-1920), c’è sempre la tentazione millenarista di
vedere in questa miseria assoluta un’occasione unica per passare direttamente
al comunismo; in questo senso va letto il Čevengur di Platonov. Lenin
dunque sembra oscillare fra un riferimento habermasiano alle regole naturali
esterne di un cambiamento sociale e un cambiamento nella natura umana
stessa, l’emergere di un Nuovo Uomo; su cosa si fondano le oscillazioni e le
tensioni di Lenin? Torniamo all’acuta analisi di Milner sugli imbrogli delle
rivoluzioni dell’Europa moderna che culminano nello stalinismo. Il punto di
partenza di Milner è la distanza radicale che separa l’esattezza (la verità dei
fatti, l’accuratezza relativa ad essi) e la verità (alla cui causa siamo votati):
Quando ammettiamo la differenza radicale fra esattezza e verità, ci resta solo una
massima etica: mai contrapporle. Non rendere mai l’inesatto il mezzo privilegiato
degli effetti della verità. Non trasformare mai questi effetti in sottoprodotti della
menzogna. Non rendere mai il Reale uno strumento per la conquista della realtà. E
mi permetterei di aggiungere: non rendere mai la rivoluzione la leva di un potere
assoluto. 10
Macron: Dire che queste persone sono i miei veri nemici e che li combatteremo. Ed
è esattamente quello che è accaduto nel secondo turno delle elezioni presidenziali
francesi. 23
Questa crescente bilancia di mercato negativa dimostra che gli Stati Uniti
sono il predatore non produttivo: negli ultimi decenni, hanno dovuto
risucchiare un miliardo di dollari al giorno dalle altre nazioni per pagare i
propri consumi ed è, in quanto tale, il consumatore keynesiano universale che
fa girare l’economia mondiale. (Fine della discussione per l’ideologia
economica anti-keynesiana che sembra oggi predominante!). Questo afflusso
di denaro, in effetti simile alla decima pagata nella Roma antica (o i doni
sacrificati al Minotauro nell’antica Grecia), si fonda su un meccanismo
economico complesso: ci si «fida» degli Stati Uniti come centro stabile e
sicuro, così che tutti gli altri, dai paesi arabi produttori di petrolio all’Europa
occidentale fino al Giappone, e ora anche la Cina, investono i loro profitti in
eccesso negli Stati Uniti. Dal momento che questa fiducia è soprattutto
ideologica e militare, non economica, il problema per gli Stati Uniti è
giustificare il loro ruolo imperiale: necessitano di uno stato di guerra
permanente, così devono inventarsi la «guerra al terrore», e presentarsi come
il protettore universale di tutti gli altri Stati «normali» (non «canaglia»).
L’intero globo dunque tende a funzionare come una Sparta universale con le
sue tre classi, ora emergenti come il Primo, il Secondo e il Terzo mondo: 1)
gli Stati Uniti come potere militare-politico-ideologico; 2) l’Europa e parti
dell’Asia e dell’America latina come regioni industrial-manifatturiere
(fondamentali qui sono la Germania e il Giappone, a capo delle esportazioni
mondiali, oltre, ovviamente, all’emergente Cina); 3) il resto sottosviluppato,
gli iloti di oggi, coloro che sono «esclusi». In altre parole, il capitalismo
globale ha portato a una nuova tendenza generale verso l’oligarchia,
mascherata da celebrazione della «diversità delle culture»; l’uguaglianza e
l’universalismo stanno sempre più scomparendo come principi politici reali.
Dal 2008 in avanti, questo sistema mondiale neospartano ha cominciato a
crollare. Negli anni di Obama, Paul Bernanke, a capo della Federal Reserve,
ha dato un’altra boccata d’ossigeno a questo sistema: approfittando del fatto
che il dollaro americano è la valuta globale, ha finanziato le importazioni
stampando massicciamente moneta. Trump ha deciso di affrontare il
problema in modo diverso: ignorando il delicato equilibrio del sistema
globale, si è concentrato su elementi che possono essere presentati come
«ingiustizie» per gli Stati Uniti: enormi livelli di importazioni che stanno
riducendo il lavoro in patria, e così via. Ma ciò che lui denuncia come
«ingiustizia» è parte di un sistema di cui gli Stati Uniti hanno approfittato:
essi stavano effettivamente «derubando» il mondo importando merci e
pagandole con i debiti e stampando moneta. E il medesimo gioco del
derubare ovviamente continuerà: Trump non solo ha abbassato le tasse per i
ricchi, ha anche silenziosamente accolto diverse richieste di area democratica
sull’alleviamento della situazione dei poveri, il che significa che il deficit
esploderà... e quando gliene si chiederà conto, Trump probabilmente
risponderà con il vecchio ritornello reaganiano: «Il nostro deficit è grande
abbastanza da camminare con le sue gambe!».
Non ci sorprende dunque che adesso Trump si stia rivolgendo a Kim Jong-
un in modo molto più amichevole rispetto ai suoi grandi alleati europei:
anche qui, gli estremi si incontrano, e dovremmo ricordarci che, da un punto
di vista economico e geopolitico, è l’Europa il vero nemico di Trump. Con la
disintegrazione del sistema che ha dominato il mercato globale dagli anni
Settanta, gli Stati Uniti stanno diventando sempre più l’elemento distruttivo
di questo stesso mercato. Diversamente dal 1945, il mondo non ha bisogno
degli Stati Uniti, sono gli Stati Uniti che hanno bisogno del mondo. A
Singapore si sono dunque incontrati due emarginati: l’emarginato escluso
(Kim) e l’emarginato che sta proprio al centro del nostro mondo. Dal quando
Trump ha manifestato l’intenzione di invitare Kim alla Casa Bianca, sono
perseguitato da un sogno: non quello nobile di Martin Luther King ma uno
molto più strano (e molto più semplice da realizzare). Trump ha rivelato il
suo amore per le parate militari, proponendo di organizzarne una a
Washington, ma agli americani l’idea sembra non piacere. E se dunque il suo
nuovo amico Kim gli potesse dare una mano? E se ricambiasse l’invito e
preparasse uno spettacolo per Trump nel grande stadio di Pyongyang, con
centinaia di migliaia di nordcoreani ben addestrati che sventolano bandiere
colorate a formare gigantesche immagini in movimento di Kim e Trump
sorridenti?
In un mondo in cui le decisioni vengono prese in incontri riservati di
«leader forti» non c’è posto per l’Europa come la conosciamo. Ovviamente,
Trump si sente più a suo agio in compagnia di leader autoritari con cui può
«fare affari», soprattutto se agiscono solo per conto del loro stesso Stato.
«America first» può fare affari con «Cina first» o «Russia first», o il post-
Brexit «Regno Unito first», non con un’Europa unita. L’obiettivo di Trump è
quello di fare affari economici con singoli partner che possano essere ricattati
fino alla sottomissione, per cui è di estrema importanza che l’Europa agisca
come un’unica forza economica e politica. È talmente piena di pericoli questa
nuova situazione, che si apre per l’Europa un’occasione unica: impegnarsi
nella formazione di un nuovo sistema economico globale che non sarà più
dominato dal dollaro americano come valuta globale. Nell’economia globale
è guerra, dunque è tempo di misure estreme. L’Europa dovrebbe essere
consapevole che non si può tornare indietro alle condizioni esistenti prima di
Trump. Per infliggere a Trump il suo giusto castigo è necessario un ordine
mondiale davvero nuovo. Né la Russia né la Cina lo possono creare, sono
all’interno dello stesso gioco di Trump, parlano lo stesso linguaggio
dell’«America (Russia, Cina) first». Lo può fare solo l’Europa, ma è qui che
la reazione dell’Europa e del Canada si rivela insufficiente: invece di
difendere una nuova visione, agiscono come una parte offesa che si lamenta
del fatto che gli Stati Uniti hanno infranto le regole prestabilite. All’incirca
nell’ultimo decennio, l’Europa ha agito sempre più come l’ex leader
dell’OLP Yasser Arafat, del quale si disse che non avesse mai perso
un’occasione di perdere un’occasione. La crisi dei migranti, la Catalogna... È
probabile che l’Europa perderà di nuovo l’occasione. Noi europei
chiaramente non siamo forti abbastanza da respingere l’ordine americano di
boicottare l’Iran. (Come oggi sappiamo, subito dopo che la Merkel annunciò
orgogliosamente che la Germania avrebbe agito come se l’accordo con l’Iran
fosse ancora valido, grandi compagnie tedesche silenziosamente
abbandonarono l’Iran). In tempi come questi, c’è davvero da vergognarsi di
essere europei, nonostante tutte le eroiche affermazioni che si fanno. Ecco
l’orgogliosa reazione francese alla nuova situazione creata dall’abbandono da
parte di Trump dell’accordo nucleare con l’Iran, in cui si legge che la volontà
dell’Europa è quella di affermarsi come un blocco di potere sovrano e di
agire come se il patto fosse ancora valido:
Il governo francese ha detto che l’Europa è pronta a introdurre misure che
annullino l’effetto delle sanzioni imposte da Donald Trump su qualunque azienda
non americana che continui a fare affari con l’Iran. L’avvertimento arrivato dal
ministro delle finanze francese, Bruno Le Maire, suggerisce che la proposta di
Trump di obbligare l’Europa a seguire la politica estera americana riguardo all’Iran
potrebbe portare a un duro contraccolpo da parte delle aziende e dei politici
europei, ed esorta in particolar modo a una politica estera europea più forte e
indipendente. «Dobbiamo lavorare fra di noi in Europa per difendere la nostra
sovranità politica europea», ha detto Le Maire, aggiungendo che l’Europa potrebbe
usare gli stessi strumenti degli Stati Uniti per difendere i propri interessi. Ha
aggiunto: «Vogliamo essere un vassallo che obbedisce e scatta sull’attenti?». 36
Di nuovo, si tratta del motivo per cui tutte le proteste dei dirigenti pubblici
e degli economisti in Europa, Canada e Messico, così come le contromisure
da loro proposte, mancano l’obiettivo: seguono la logica di libero scambio
internazionale dell’OMC, mentre solo una sinistra che si rivolga alle
preoccupazioni di tutti coloro che stanno ai margini può davvero contrastare
Trump.
A un livello profondo e spesso nascosto, i nuovi conservatori americani
percepiscono l’Unione Europea come il nemico. Questa percezione, tenuta
sotto controllo nel discorso politico pubblico, esplode nel suo doppio osceno
sotterraneo, la visione politica fondamentalista dell’estrema destra cristiana,
con la sua paura ossessiva del Nuovo Ordine Mondiale (Obama è
segretamente colluso con le Nazioni unite, le forze internazionali
interverranno negli Stati Uniti per rinchiudere tutti i veri patrioti americani in
campi di concentramento; un paio d’anni fa, si diceva che le truppe
latinoamericane fossero già nelle pianure del Midwest a costruire campi di
concentramento...). Un modo per risolvere questo dilemma è la linea dura dei
cristiani fondamentalisti, articolata nelle opere di Tim LaHaye et consortes. Il
titolo di uno dei romanzi di LaHaye esplicita questa direzione: Il complotto
europeo. I veri nemici degli Stati Uniti non sono i terroristi islamici –
nient’altro che burattini manipolati in gran segreto dai secolaristi europei, e
cioè dalle vere forze dell’anticristo che vogliono indebolire gli USA per
stabilire un Nuovo Ordine Mondiale guidato dalle Nazioni Unite. In un certo
senso, queste considerazioni sono corrette: l’Europa non è solo un altro
blocco geopolitico di potere, ma una visione globale che è in definitiva
incompatibile con gli Stati-nazione. Cosa impedisce dunque all’Europa di
raccogliere le forze e reagire?
Il 18 maggio 2017 ho avuto una conversazione pubblica con Will Self
all’Emmanuel Centre di Londra. Il momento più indimenticabile (almeno per
me) è stato quando Self, mentre concordava con me sul fatto che, se le cose
continuano così, la nostra società è spacciata, e ci attende una catastrofe
inimmaginabile, mi ha rimproverato perché continuo a credere in un qualche
grande atto «rivoluzionario» che trasformerà la tendenza globale e ci
impedirà di scivolare verso la catastrofe. La sua idea è che, con il nostro
modo di vivere attuale, siamo così profondamente immersi nel processo di
autodistruzione (non solo ecologica) che nessuna consapevolezza di quello
che stiamo facendo potrà mai impedirci di farlo. Self poi ha chiesto al
pubblico quanti di loro avessero uno smartphone, ricordando loro che ogni
telefono necessita di columbite-tantalite (il coltan), un prezioso metallo
proveniente dal Congo, dove viene estratto sostanzialmente con un lavoro
schiavista e in modo dannoso per l’ambiente. Cosa possiamo fare allora,
avendo ammesso che siamo tutti corresponsabili e incapaci di intervenire
attivamente? La risposta di Self: niente di che, giusto pagare le tasse (per
permettere allo Stato di mantenere un livello minimo di giustizia e welfare) e
godere delle nostre vite in isolamento, masturbandoci... La mia risposta (che
qui non riesco ad articolare propriamente) è che una tale affermazione cinico-
edonista si addice perfettamente a coloro che sono al potere, che si tratta di
ideologia allo stato puro: qualsiasi contro-atto collettivo viene svalutato in
partenza («Chi sei tu per protestare? Non stai anche tu usando la columbite-
tantalite? Che diritto hai di incolpare le grandi multinazionali?»), dunque
tutto ciò che possiamo fare è rimanere privati cittadini che godono
masochisticamente delle proprie colpe e si ritirano a piaceri privati. Questo
stato delle cose non significa che siamo perduti: piuttosto ci indica la stessa
direzione di Gioele 3,14: «Moltitudini! moltitudini! Nella valle del Giudizio!
Poiché il giorno dell’Eterno è vicino, nella valle del Giudizio». Questi
versetti ci forniscono la prima accurata descrizione del momento in cui una
società si trova davanti a un bivio, davanti a una scelta che può deciderne il
destino. Questa è l’attuale situazione dell’Europa.
Qualunque populista anti-immigrati sarebbe pienamente d’accordo con
questa affermazione: sì, l’identità vera e propria dell’Europa è minacciata
dall’invasione di musulmani e di altre moltitudini di rifugiati. Ma la vera
situazione è esattamente l’opposto: sono gli odierni populisti anti-immigrati
ad essere la vera minaccia al cuore di emancipazione dell’Illuminismo
europeo. Un’Europa in cui sono al potere persone come Marine Le Pen o
Geert Wilders non è più Europa. Per cosa vale dunque la pena combattere in
questa Europa?
La vera novità della Rivoluzione francese sta nella distinzione fra i diritti
dei cittadini e quelli dell’uomo. Bisognerebbe qui respingere il classico
concetto marxista di diritti umani come diritti dei membri della società civile
borghese. Mentre i cittadini sono definiti dall’ordine politico di uno Stato
sovrano, «umano» è ciò che resta di un cittadino quando viene privato della
cittadinanza, mettendolo nella posizione di ciò che in artiglieria si chiama lo
spazio aperto, ridotto a un corpo astratto che parla. È in questo senso che i
diritti umani universali dovrebbero restare il nostro punto di riferimento
quando discutiamo della difficile relazione fra le costrizioni della cittadinanza
e particolari modi di vivere. Senza questa bussola regrediamo inevitabilmente
alla barbarie.
Nella sua lettura della famosa/famigerata differenza fra diritti umani e
diritti del cittadino, Milner respinge il concetto critico marxista di diritti
umani come quelli dei membri della società civile borghese: per Milner, un
cittadino è un membro di una comunità, ne condivide la cultura specifica,
mentre un essere umano è ciò che resta di un cittadino quando viene privato
della cittadinanza. I diritti umani sono diritti «naturali» solo in questo senso
di esternalità rispetto a una particolare cultura; non hanno nulla a che vedere
con la natura esterna, dal momento che si applicano a ciò che resta di un
cittadino dopo che è stato sottratto a una polis specifica. In questo senso, la
loro «natura» è un effetto retroattivo della cultura; si applica a un essere
umano ridotto al livello zero di corpo parlante:
Riusciamo a cogliere un po’ del reale dei diritti del corpo analizzando quello che
accade quando essi vengono negati agli individui. Ogni giorno ci fornisce un nuovo
esempio. Non ho bisogno di pensare alle bombe o ai gas velenosi, penso a Calais:
coloro che sono ammassati lì dal 2000 non hanno nessuna colpa, non sono accusati
di nulla, non hanno infranto la legge in nessun modo; stanno semplicemente lì e lì
vivono; la prova che sono vivi è che qualche volta muoiono. Nessuno sa che lingua
parlino e in ogni caso non li si ascolta. Sappiamo solo che parlano. Sono dunque
ridotti allo stato di corpi parlanti; dall’insediamento a cui sono obbligati essi
rendono letteralmente visibile in modo negativo la realtà dei diritti dell’uomo e
della donna [...] Questi diritti sono palesemente diversi dai diritti di un cittadino dal
momento che i rifugiati sono esattamente non i cittadini di Calais e la maggior
parte di loro non vuole diventarlo. 42
Alla vigilia del colpo di Stato, quando Trockij dichiara [a Dzeržinskij] che le
guardie rosse debbono ignorare l’esistenza del governo di Kerenskij, che non si
tratta di combattere il governo con le mitragliatrici, ma d’impadronirsi dello Stato,
che il Consiglio della Repubblica, i Ministeri, la Duma, non hanno nessuna
importanza, dal punto di vista della tattica insurrezionale, e non debbono costituire
gli obiettivi dell’insurrezione armata, che la chiave dello Stato non è
l’organizzazione burocratica e politica, non è il Palazzo di Tauride, né il Palazzo
Maria, né il Palazzo d’Inverno, ma l’organizzazione tecnica, e cioè le centrali
elettriche, le ferrovie, i telefoni, i telegrafi, il porto, i gazometri, gli acquedotti. 49
Si sta risvegliando la paura... paura di ciò che potrebbe essere. Non tanto per gli
avvenimenti in sé, ma per le motivazioni che potrebbero nascondersi dietro di essi.
Alcune conosciute, altre ignote, ma sentite. E non solo in Inghilterra. Nelle altre
pagine del giornale, trafiletti più scarni: notizie dall’Europa, dall’Asia,
dall’America, da tutto il mondo.
Dirottamenti di aerei.
Rapimenti.
Violenza.
Sommosse.
Odio.
Sta qui l’unica occasione che la vera minaccia della distruzione nucleare (o
ecologica, se è per questo) ci offre: quando diventiamo consapevoli del
pericolo di perdere tutto, automaticamente cadiamo in un’illusione
retroattiva, un cortocircuito tra la realtà e i suoi potenziali nascosti. Quello
che vogliamo salvare non è la realtà del nostro mondo, ma la realtà come
sarebbe potuta essere se non fossimo stati ostacolati dagli antagonismi che
hanno dato vita alla minaccia nucleare. Ecco la nostra vera scelta quando ci
troviamo davanti alla distruzione totale: quella fra un ritrarsi terrorizzati
nell’autoconservazione e l’impegno attivo per il cambiamento che ha scopi
ben più ampi. Se chiamiamo a raccolta le forze per la seconda opzione, allora,
in termini hegeliani, passiamo dall’«universalità astratta» (della negatività
liberata che può portare solo alla distruzione nucleare globale)
all’«universalità concreta» (di un nuovo ordine alternativo in cui tali
catastrofi non saranno più possibili).
Ciò di cui abbiamo bisogno è niente di meno che un nuovo movimento
anti-nucleare globale, una mobilitazione globale che faccia pressione sulle
potenze nucleari e agisca in modo aggressivo, organizzando proteste di
massa, boicottaggi, eccetera. Tale movimento dovrebbe concentrarsi non solo
sulla Corea del Nord ma anche su quelle superpotenze che si assumono il
diritto di monopolizzare le armi nucleari. I riferimenti pubblici all’uso delle
armi nucleari dovrebbero essere trattati come un’offesa criminale, e i capi di
Stato che mostrano apertamente di essere pronti a mettere in pericolo milioni
di vite innocenti per proteggere il loro potere personale dovrebbero essere
trattati come i peggiori criminali.
La politica identitaria raggiunge il suo apice (o, piuttosto, il suo punto più
basso) quando fa riferimento all’esperienza unica di una specifica identità di
gruppo come il fatto definitivo che non può essere dissolto in nessuna
universalità: «Solo chi è donna/lesbica/trans/nero/cinese sa cosa vuol dire
essere donna/lesbica/trans/nero/cinese». Se questo può essere vero a un
livello banale, bisognerebbe comunque negare a tale affermazione qualunque
rilevanza politica e rifarsi senza alcuna vergogna all’antico assioma
illuminista: tutte le culture e le identità possono essere comprese, bisogna
solo fare uno sforzo per coglierle. 18 Il segreto della politica identitaria è che,
in essa, la posizione bianca/maschile/etero rimane uno standard universale,
ognuno la capisce e sa cosa voglia dire, ed è il motivo per cui è il punto cieco
della politica identitaria, l’unica identità che non si può asserire. Prima o poi,
in ogni caso, assisteremo al ritorno del rimosso: l’identità
bianca/maschile/etero irrompe sulla scena e inizia a giocare la stessa carta –
«nessuno ci capisce davvero, bisogna essere bianco/maschio/etero per capire
cosa significa essere bianco/maschio/etero...». Ciò che questi rovesciamenti
dimostrano è che non ci si può liberare dell’universalità così facilmente. La
vecchia, ovvia, osservazione marxista sul fatto che non esiste un’universalità
neutrale, ovvero che ogni universalità che si presenta come neutrale nasconde
e dunque privilegia dei privilegi di fatto, non dovrebbe sedurci al punto da
abbandonare l’universalità in quanto tale; se lo facciamo, cancelliamo il fatto
che la nostra stessa argomentazione contro le false universalità parla dalla
posizione della vera universalità (che ci permette di percepire la posizione dei
non privilegiati come ingiusta). Paradossalmente, l’affermazione dell’identità
bianca/maschile/etero li priverebbe della loro universalità implicita e li
spingerebbe ad accettare la loro particolarità.
Potrebbe sembrare che una tale affermazione facesse direttamente il gioco
dei suprematisti bianchi, ma lo fa davvero? Chiunque sia preoccupato dal
nuovo populismo anti-immigrati dovrebbe fare lo forzo di guardare Europa:
The Last Battle (Tobias Bratt, Svezia, 2017), un documentario in dieci parti
che si può scaricare gratis facilmente. Mostra, per esteso, la versione
neonazista degli ultimi cento anni di storia europea, dominata dai banchieri
ebrei che controllano tutto il nostro sistema finanziario; fin dall’inizio, il
giudaismo si nascondeva dietro al comunismo, e i ricchi ebrei hanno
finanziato direttamente la Rivoluzione d’ottobre per dare un colpo mortale
alla Russia, baluardo del cristianesimo; Hitler era un pacifico patriota tedesco
che, dopo essere stato democraticamente eletto, ha trasformato la Germania
da un paese devastato a una nazione ricca di benessere, con i più alti standard
di vita nel mondo sottraendosi alle banche internazionali controllate dagli
ebrei; l’ebraismo internazionale gli dichiarò guerra, nonostante Hitler
combattesse strenuamente per la pace; dopo il fallimento delle rivoluzioni
comuniste europee del 1920, i capi comunisti capirono che prima bisognava
distruggere le fondamenta morali dell’Occidente (religione, identità etnica,
valori familiari) e quindi fondarono la Scuola di Francoforte, il cui scopo era
quello di denunciare la famiglia e l’autorità come strumenti patologici di
dominazione, e di minare qualunque identità etnica in quanto oppressiva.
Oggi, nelle vesti delle diverse forme di marxismo culturale, i loro sforzi
stanno finalmente mostrando dei risultati; le nostre società sono preda
dell’eterna colpa dei loro presunti peccati, sono aperte all’invasione senza
freni dei migranti, perse nel vuoto individualismo edonista e nella mancanza
di patriottismo. Questa corruzione viene segretamente governata da ebrei
come Soros, e solo una nuova figura come Hitler, che risveglierebbe il nostro
orgoglio patriottico, ci può salvare... Quando ci troviamo davanti a questo
spettacolo, non si può evitare l’impressione che, anche se gli autori sono
andati molto più in là rispetto alla media del nostro populismo razzista, in
Europa vediamo una sorta di «centro assente» della moltitudine dei
movimenti comunitari e populisti che prosperano al momento, il punto-zero
verso il quale tutti tendono e in cui convergerebbero.
Quando, nel criticare questa tendenza, ho affermato che la peggiore
minaccia per l’Europa sono i suoi difensori populisti/razzisti, sono stato
rimproverato per l’ovvia assurdità delle mie parole: in che modo coloro che
vogliono difendere l’Europa possono costituire una minaccia? All’inizio, la
risposta è semplice: l’Europa che questi difensori cercano di salvare
(un’Europa neotribale fatta di identità etniche definite) è la negazione di tutto
ciò che c’è di grande nella tradizione europea. (L’ovvia critica anti-europeista
alla mia affermazione è, chiaramente, che l’Europa, l’agente del dominio
coloniale globale, non ha alcun diritto di offrire i suoi fondamenti ideologici
come arma possibile contro il razzismo). In questo c’è qualche verità, e non
ci sorprende che i più radicali «difensori» dell’Europa guardino con sospetto
al cristianesimo e preferiscano la spiritualità pagana (celtica, nordica). Si può
vedere facilmente dove stia il problema: perfino coloro che ancora aderiscono
a parole all’Europa cristiana invocano uno strano cristianesimo con aspetti
decisamente pagani. Di recente, Orbán ha dichiarato
la fine della «democrazia liberale» in Ungheria, dicendo che ha fallito nel difendere
le libertà e la cultura cristiana sulla scia della crisi dei migranti. Ha promesso che
costruirà una «democrazia cristiana» che sconfigga i dettami europei. «L’era della
democrazia liberale è arrivata alla fine. È inadeguata a proteggere la dignità umana,
inaccettabile nel dare la libertà, non può garantire la sicurezza fisica, e non può più
conservare la cultura cristiana». 19
In quel tempo, mentre Gesù parlava ancora alla folla, ecco sua madre e i suoi
fratelli stavano fuori e cercavano di parlargli. Qualcuno gli disse: «Ecco, tua madre
e i tuoi fratelli stanno fuori e cercano di parlarti». Ed egli, rispondendo a chi gli
parlava, disse: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Poi, tendendo la mano
verso i suoi discepoli, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chiunque fa
la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre».
C’è, tuttavia, un’altra contro-argomentazione di alto livello portata spesso
avanti contro i migranti: il punto non è che, nel loro modo di vivere, sono
diversi da noi, ma che sono loro ad avere dei problemi con la differenza (la
coesistenza di modi diversi di vivere) in quanto tale. Il caso esemplare qui è
quello del politico della destra populista olandese Pim Fortuyn, ucciso
all’inizio del maggio 2002, due settimane prima delle elezioni in cui ci si
aspettava che avrebbe preso un quinto dei voti: un populista di destra le cui
caratteristiche personali e le cui opinioni (quasi tutte) erano a tutti gli effetti
politicamente corrette. Era gay, aveva buone relazioni personali con molti
immigrati, un innato senso dell’ironia... insomma, era un liberale bravo e
tollerante sotto ogni aspetto, tranne che per l’orientamento politico:
avversava gli immigrati fondamentalisti a causa del loro disprezzo per
l’omosessualità, i diritti delle donne, ecc.
La risposta è, ovviamente, che questa argomentazione si basa su una sorta
di meta-razzismo, ovvero su una forma più sottile di razzismo in cui
affermiamo la nostra superiorità sull’Altro proprio affermando che il nostro
Altro, non noi, è razzista... Ma qui ci troviamo davanti a un ulteriore
problema, ancora più fondamentale: affermare l’apertura e la fluidità delle
identità non è sufficiente, ed è l’indeterminatezza che sta portando le persone
verso coloro che sostengono l’identità etnica populista. La grossa questione
dunque è: che tipo di identità è accettabile per un radicale di sinistra?
L’universalismo astratto non funziona, come ha chiarito, fra gli altri, Claude
Lévi-Strauss che, nei saggi raccolti nel secondo volume della sua
Antropologia strutturale, 20 ha ben dimostrato come una forte asserzione
della propria identità etnica e addirittura della propria superiorità rispetto agli
altri non implichi necessariamente il razzismo. Ha dimostrato che molte tribù
che si definiscono «umane» (rispetto ad altre tribù a cui negano questa
qualità), ovvero nel cui linguaggio la parola per «umano» è la stessa per
«appartenente alla nostra tribù», non sono razziste nel senso moderno del
termine. Anche se possono apparire razziste in modo offensivo, guardandoci
meglio la loro posizione è molto più modesta e dovrebbe essere letta come
un’implicita asserzione dell’essere all’interno di uno specifico modo di
vivere: «siamo quello che siamo, e per noi questo è ciò che significa essere
umani; non possiamo uscire dal nostro mondo per giudicare noi e gli altri da
chissà dove, dunque lasciamo che gli altri facciano quello che vogliono». In
breve, la loro affermazione di identità personale non è mediata negativamente
dagli altri sotto forma di invidia.
Per poter mascherare le proprie divisioni, l’identità populista si basa sul
riferimento negativo all’Altro: non esiste nazista senza un ebreo, europeo
senza minaccia dei migranti, ecc. In ogni caso, il politicamente corretto si
fonda anche su un riferimento negativo, parassitario rispetto all’Altro
«scorretto», sessista/razzista; è questo il motivo per cui la soggettività
politicamente corretta è un insieme di eterno senso di colpa (alla ricerca delle
ultime tracce di razzismo o sessismo in sé stessi) e arroganza (in un continuo
rimprovero e giudizio delle colpe degli altri). Il paradosso è dunque che il
problema del fondamentalismo populista non sta nel fatto che è troppo
identitario (contro il quale dobbiamo enfatizzare la fluidità e la contingenza
di ogni identità) ma, al contrario, nel fatto che manca di una vera e propria
identità, che la sua identità si fonda sulla negazione del suo Altro costitutivo.
I cosiddetti fondamentalisti, che siano cristiani o musulmani, sono davvero
fondamentalisti nel senso autentico del termine? Credono davvero? Ciò di cui
mancano è una caratteristica che è facile da discernere in tutti i
fondamentalismi autentici, dai buddhisti tibetani agli amish americani:
l’assenza di risentimento e invidia, la profonda indifferenza nei riguardi del
modo di vivere dei non credenti. Se i cosiddetti fondamentalisti di oggi
credono davvero di aver trovato la loro Verità, perché si devono sentire
minacciati dai non credenti, perché li devono invidiare? Quando un buddhista
incontra un edonista occidentale, difficilmente lo condanna, semplicemente
osserva con benevolenza che la sua ricerca edonista della felicità è
controproducente. Al contrario, gli pseudo-fondamentalisti sono invece molto
infastiditi, intrigati e affascinati dalla vita peccaminosa dei non credenti.
Possiamo ben capire che, nel combattere l’altro peccaminoso, stanno
combattendo la loro stessa tentazione. È per questo che i cosiddetti
fondamentalisti cristiani o musulmani costituiscono una disgrazia per il vero
fondamentalismo.
Ma questo significa forse che dovremmo semplicemente tollerare una
coesistenza pacifica di diversi modi di vivere? Sfortunatamente, non è questa
la soluzione. Dovremmo rimanere fermi nell’approccio propriamente
dialettico: una tale accettazione dell’identità non invalida in nessun modo
l’universalità, la rende semplicemente «concreta» in senso hegeliano. Quando
i suprematisti bianchi dicono «vogliamo per noi soltanto le stesse cose che i
presunti emarginati vogliono per sé – asserire liberamente e sviluppare la
nostra identità, il nostro modo di vivere», non c’è nulla di sbagliato
nell’affermazione in sé. Il problema è che non intendono solo questo ma
molto di più, privilegiando implicitamente il loro modo di vivere a spese
degli altri; in breve, il problema sta nella loro universalità implicita. Ogni
modo di vita implica la sua propria universalità: non riguarda solo sé stesso
ma anche il modo in cui si relaziona agli altri, e le due cose non possono
essere separate. Il multiculturalismo liberale occidentale è diverso, mettiamo,
dalla coesistenza delle religioni e dei gruppi etnici in India; il problema (non
solo) con l’islam è il modo con cui si relaziona alle altre religioni e culture (e
all’ateismo) nei paesi in cui è presente: vengono tollerate in quanto uguali,
possono agire nello spazio pubblico? Quando i liberal occidentali
proibiscono certe pratiche sessuali (non solo) dei musulmani, come i
matrimoni combinati contro la volontà della donna coinvolta, lo Stato ha il
diritto di intervenire o è un’intrusione nel modo di vivere altrui? Il problema
è che la relazione fra i diversi modi di vivere è sempre anche un conflitto di
universalità; non esiste uno spazio neutro universale che ne sia esente.
L’unico vero gesto di emancipazione è dunque quello di perseverare nella
ricerca dell’universalità (come ha fatto, ad esempio, Malcom X). E la persona
bianca dovrebbe avere uno sguardo di autocritica rispetto alla propria
posizione, ovviamente, ma senza cadere nel circolo vizioso dell’eterna colpa.
La proibizione di asserire l’identità particolare dell’Uomo Bianco (come
modello di oppressione altrui), anche se si presenta già come un’ammissione
di colpa, gli conferisce comunque una posizione centrale: proprio questo
divieto del diritto di affermare la sua particolare identità lo rende il mezzo
universale-neutrale, il posto a partire dal quale la verità sull’oppressione degli
altri diventa accessibile. Ed è per questo che i bianchi liberal indulgono con
tanta gioia nell’autoflagellazione: il vero scopo della loro attività non è quello
di aiutare gli altri per davvero, ma il Lustgewinn causato dalle loro
autoaccuse, il sentimento della loro superiorità morale rispetto agli altri. Il
problema di questa autonegazione dell’identità bianca non è che va troppo in
là ma anzi che non ci va abbastanza: mentre il suo contenuto enunciato
sembra radicale, la sua posizione di enunciazione rimane quella di
un’universalità privilegiata.
ha ragione a dire che molte delle sfide odierne, come quella del cambiamento
climatico, richiedono una conversazione globale e una consapevolezza trans-
culturale. Ma non tutte le sfide sono globali e in realtà pensare globalmente alle
tradizioni, alle conoscenze, alle battaglie e alle identità delle persone può anche, in
modo non intenzionale, escluderle da una posizione di controllo e di potere. 24
L’umanità universale non sorge dando egual diritti a molteplici culture distinte, in
modo che i popoli vengano riconosciuti come parte dell’umanità indirettamente,
attraverso la mediazione di identità culturali collettive, ma sorge con l’evento
storico che si verifica a un dato punto di rottura. È nelle discontinuità della storia
che i popoli la cui cultura è stata logorata fino al cedimento arrivano a esprimere
un’umanità che va al di là dei limiti culturali. Ed è grazie alla nostra identificazione
appassionata in questa condizione pura, libera e vulnerabile che abbiamo una
chance di comprendere quello che questi popoli dicono. L’umanità comune esiste
malgrado la cultura e le sue differenze. La non-identità di una persona con il
collettivo permette solidarietà sotterranee che hanno la possibilità di rivolgersi al
sentimento morale universale, unica fonte, oggi, di entusiasmo e speranza. 27
Non si può che essere d’accordo con tutti i passaggi di questo brano: come
un «sì» detto sotto pressione equivalga a un «no» eccetera. Ciò che è
problematico è «la presenza entusiastica di un ‘sì, sì, sì’»; è facile
immaginare in quale umiliante posizione questa condizione possa mettere una
donna che, per dirla senza giri di parole (e perché no?), vuole con tutta sé
stessa fare sesso con un uomo; in pratica, deve dire qualcosa che equivale ad
affermare pubblicamente «ti prego, scopami!»... E non ci sono forse modi più
sottili (ma non di meno chiari, senza ambiguità) per fare la stessa cosa?
Inoltre, se si cerca la strada per «una vita sessuale felice», la si cerca invano
per la semplice ragione che non esiste: nel sesso le cose, per ragioni
immanenti, vanno sempre male, e l’unica possibilità di «una vita sessuale
[relativamente] felice» è quella di trovare un modo perché questi fallimenti
operino contro loro stessi. Cercare direttamente «la strada per una vita
sessuale felice» è il modo più sicuro per rovinare le cose, e la scena
immaginaria dei due partner che esclamano entusiasticamente «sì, sì, sì»,
nella vita reale, è quanto di più simile all’inferno.
Le cose si fanno ancora più complesse con il diritto di ritirarsi
dall’interazione sessuale in qualunque momento; si dice raramente quanto
questo diritto apra la strada a nuove modalità di violenza. E se la donna, dopo
aver visto il suo partner nudo con il pene in erezione, cominciasse a prenderlo
in giro e a dirgli di andarsene? E se l’uomo facesse la stessa cosa con lei? È
possibile immaginare una situazione più umiliante? Il caso estremo della
violenza di un tale tirarsi indietro è la dolorosa scena di Cuore selvaggio di
David Lynch in cui Bobby Peru (interpretato da Willem Dafoe) si impone
con violenza a Lula (Laura Dern), intrufolandosi nel suo spazio e
sussurrandole e poi gridando in modo osceno: «Di’ scopami!». Quando, dopo
una pressione estenuata e dolorosa lei esausta pronuncia in maniera appena
percettibile «Scopami!» (nell’ambiguità in cui la coercizione è
inestricabilmente legata a un’eccitazione interiore), lui si allontana e le dice
con un sorriso: «No grazie, non ho tempo oggi, devo andare! Ma se
ricapitasse l’occasione lo farei volentieri». L’effetto è così umiliante su di lei
che, in un certo senso, la violenza simbolica del suo ritirarsi, del rifiuto di
un’offerta che è stata estorta a forza, è peggio che se l’avesse invece accettata
e l’avesse poi davvero scopata. Chiaramente, si può trovare un modo
appropriato per risolvere una tale impasse con le buone maniere e la
sensibilità, cosa che per definizione non può essere stabilita dalla legge. Se si
vuole impedire la violenza e la brutalità aggiungendo nuove clausole al
contratto, si perde di vista la caratteristica centrale dello scambio sessuale,
che è esattamente un delicato equilibrio fra ciò che viene detto e ciò che viene
taciuto. Lo scambio sessuale è pieno di queste eccezioni, in cui una
comprensione silenziosa e il tatto sono l’unico modo di procedere quando si
vogliono fare le cose ma non si vogliono dire esplicitamente, quando la
brutalità emotiva estrema può essere agita sotto forma di gentilezza e quando
la stessa violenza moderata può diventare sessualizzata. Se percorriamo
questa strada fino in fondo, dobbiamo concludere che persino un entusiastico
«sì, sì, sì» può effettivamente mascherare la violenza e il dominio. Monica
Lewinsky di recente ha affermato di
confermare le sue affermazioni del 2014 secondo le quali la loro relazione era
consensuale, ma riflette sugli «ampi differenziali di potere» che esistevano fra i
due. La signora Lewinsky ha affermato che all’epoca «aveva una comprensione
limitata delle conseguenze» e si rammarica quotidianamente per l’accaduto. «La
definizione che dà il dizionario di ‘consenso’? Dare il permesso che qualcosa
accada», ha scritto. «Eppure cosa significava questo ‘qualcosa’ in questo caso, date
le dinamiche di potere, la sua posizione, e la mia età? [...] Era il mio capo. Era
l’uomo più potente del pianeta. Aveva 27 anni più di me, con un’esperienza della
vita ampia abbastanza per sapere meglio di me cosa significava». 6
È vero, ma lei non ha solo dato il consenso, ha preso l’iniziativa del
contatto sessuale, ed era Clinton che aveva «acconsentito» e gli «ampi
differenziali di potere» avevano probabilmente un ruolo centrale nella sua
attrazione verso di lui. E quando afferma che, visto che lui era un uomo più
adulto e con un’esperienza della vita maggiore, avrebbe dovuto «sapere
meglio» di lei e respingere le sue avance, non c’è forse qualcosa di ipocrita in
questo attribuirsi il ruolo di vittima innocente? Non ci troviamo forse qui
davanti all’esatto opposto, forse simmetrico, della prospettiva dei
fondamentalisti islamici che ritengono che un uomo che violenta una donna è
stato segretamente sedotto (provocato) da lei. Tale lettura della violenza
maschile come risultato della provocazione femminile viene spesso riportata
dai media. Nell’autunno del 2006, Sheik Taj Din al-Hilali, una delle figure
religiose più importanti in Australia, ha provocato uno scandalo quando, in
seguito alla carcerazione di un gruppo di musulmani accusati di stupro di
gruppo, ha commentato: «Se prendi della carne e la metti fuori, per strada,
senza prima coprirla, [...] e i gatti vanno lì e se la mangiano [...] di chi è poi la
colpa, dei gatti o della carne scoperta? Il problema è la carne che non viene
coperta». La natura scandalosa del paragone tra la donna non velata e la carne
cruda e non coperta ha distratto da un altro assunto, molto più sorprendente,
che sottolinea il pensiero di al-Hilali: se le donne vengono ritenute
responsabili della condotta sessuale degli uomini, ciò implica allora che gli
uomini siano completamente indifesi se messi di fronte a quelle che
percepiscono come provocazioni sessuali; che proprio non sappiano
resistervi; che siano, insomma, totalmente asserviti ai propri appetiti sessuali.
Diversamente da questa concezione della totale mancanza di responsabilità
dei maschi riguardo alla propria condotta sessuale, l’enfasi sull’erotismo
femminile in Occidente poggia sulla premessa che gli uomini sanno
contenere i propri istinti, che non sono schiavi accecati dalle pulsioni
sessuali.
Questo addossare completamente alla donna la responsabilità dell’atto
sessuale ricorda stranamente la prospettiva della Lewinsky secondo la quale,
nonostante l’iniziativa fosse stata del tutto sua, la responsabilità era
interamente di Clinton. Nello stesso modo in cui, dal punto di vista dei
fondamentalisti musulmani, gli uomini sono vittime innocenti della perfida
seduzione femminile anche quando commettono uno stupro, nel caso della
Lewinsky, la donna è stata una vittima anche se è stata lei a dare inizio
all’affaire. La simmetria fra i due casi è fallace, ovviamente, dal momento
che in entrambi i casi sono gli uomini a essere nella posizione reale di
dominio sociale e politico. In ogni caso, giocare la carta della vittima inerte in
un caso come quello della Lewinsky è uno spettacolo di autoumiliazione che
non aiuta in nessun modo l’emancipazione femminile, e non fa altro che
confermare l’uomo come padrone.
Coloro che ammettono l’esistenza delle cosiddette «zone grigie» (fra i due
estremi dello scambio sessuale, quello reciprocamente desiderato e quello
imposto con un’evidente violenza) di solito perdono la loro posizione
sfumata all’interno dell’interazione sessuale stessa. Soprattutto oggi, nei
nostri tempi politicamente corretti, un processo di seduzione comporta
sempre la mossa rischiosa del «fare il primo passo»; in questo momento
potenzialmente pericoloso ci si espone, si entra nello spazio intimo di un’altra
persona. Il pericolo sta nel fatto che, se il mio passo viene respinto, sembrerà
un atto di molestia politicamente scorretto; dunque c’è un ostacolo da
superare. Qui, in ogni caso, entra in scena una sottile asimmetria: se il mio
passo viene invece accettato, non significa che ho superato con successo
l’ostacolo: il fatto è che, retroattivamente, scopro che quell’ostacolo non c’è
mai stato.
Bisognerebbe inoltre tenere a mente che il dominio patriarcale corrompe
entrambi i poli, o, per citare Arthur Koestler: «Se il potere corrompe, è vero
anche il contrario; la persecuzione corrompe le vittime, sebbene forse in modi
più sottili e tragici». Di conseguenza, bisognerebbe parlare anche della
manipolazione da parte delle donne e della loro brutalità emotiva (in fin dei
conti come risposta disperata al dominio maschile): le donne contrattaccano
in ogni modo possibile. E bisognerebbe anche ammettere che, in molte parti
della nostra società in cui il patriarcato tradizionale è stato ampiamente
indebolito, gli uomini sono comunque sotto pressione, così che la giusta
strategia sarebbe quella di affrontare anche le angosce maschili e lottare per
un patto fra il movimento delle donne per l’emancipazione e le
preoccupazioni maschili. La violenza maschile sulle donne è in larga parte
una reazione di panico al fatto che l’autorità maschile tradizionale si è
indebolita, e parte della battaglia per l’emancipazione dovrebbe essere quella
di dimostrare agli uomini in che modo l’accettare le donne emancipate li
solleva dalle loro angosce e permette loro di vivere vite più soddisfacenti.
In un recente scambio polemico, alcune femministe hanno reagito alle
osservazioni critiche fatte da Germaine Greer al movimento MeToo; 7 la loro
tesi era che, se la posizione della Greer – che le donne si dovessero liberare
sessualmente dal dominio maschile e assumere in prima persona una vita
sessuale attiva senza alcun ricorso alla vittimizzazione – era valida negli anni
del movimento della liberazione sessuale, oggi le cose sono diverse. Ciò che
è accaduto nel frattempo è che l’emancipazione sessuale delle donne (il loro
coinvolgimento nella vita sociale in quanto esseri sessuali attivi, con la piena
libertà di prendere l’iniziativa) è stata essa stessa mercificata: sì, le donne non
vengono più percepite come oggetti passivi del desiderio maschile, ma la loro
sessualità attiva in sé adesso appare agli occhi degli uomini come se fossero
sempre disponibili, sempre pronte a impegnarsi in uno scambio sessuale. In
queste nuove circostanze, dire chiaramente «NO!» non è una semplice
autovittimizzazione, dal momento che implica il rifiuto di questa nuova
forma di soggettivazione sessuale delle donne, della richiesta che le donne
non solo si sottomettano passivamente alla dominazione sessuale maschile
ma che si comportino come se la volessero attivamente.
Se in questa linea di pensiero c’è un forte elemento di verità, dovremmo
comunque aggiungere almeno due osservazioni. Non dobbiamo mai
dimenticare che questa falsa soggettivazione viene sostenuta da una pressione
interiorizzata del Super-io, così che il primo passo che le donne dovrebbero
compiere è quello di liberarsi da questa pressione; come scriveva Marcuse
negli anni Sessanta, la libertà è una condizione di liberazione: per liberare te
stesso, devi prima spezzare le catene interiori dell’ideologia. Secondo, c’è
ancora una grande differenza fra il mostrare una sessualità attiva per
compiacere il desiderio maschile e agire effettivamente come agenti sessuali
autonomi; quest’ultimo non piace ai possibili partner maschili e tende a
sollecitare la loro ansia.
Così torniamo al sesso contrattuale: ciò che lo rende problematico non è
solo la sua forma legale ma anche la sua parzialità nascosta. Ovviamente
privilegia il sesso occasionale, in cui i partner ancora non si conoscono e
vogliono evitare fraintendimenti sulla loro unica notte d’amore. Dobbiamo
indirizzare la nostra attenzione anche verso quella relazione duratura
permeata da forme di violenza e di dominio in modi molto più sottili dello
spettacolare sesso obbligato in stile Weinstein. Per parafrasare di nuovo
Brecht, cos’è il destino di una stella del cinema che, per garantirsi una
carriera, una volta ha fatto sesso sotto ricatto (o è stata direttamente stuprata),
rispetto a una povera casalinga che da anni viene terrorizzata e umiliata dal
marito?
In fin dei conti, non ci sono leggi o contratti che possano aiutare in un caso
come questo, solo una rivoluzione nei costumi; e questo ci riporta alla
procedura fondamentale di Lubitsch, il suo famoso stile indiretto, il suo
palese rifiuto di ritrarre la cosa in sé, che fosse sesso o violenza. È una
tecnica potente: alla fine, significa che la coppia durante il sesso non è mai da
sola, che è sempre implicato un terzo elemento, anche se è solo lo sguardo
immaginario di un testimone. L’esempio più chiaro lo troviamo nel suo
Un’ora d’amore (1932), in cui una donna e un uomo, Mitzi e Andre,
entrambi sposati, si ritrovano casualmente sullo stesso taxi. La loro tresca
prende avvio dal fatto che, a un osservatore immaginario, i due sembrano
amanti, anche se sono solo seduti nello spazio ristretto di una macchina.
Mitzi dice: «Guardaci, lui legge un giornale, lei guarda dal finestrino...
ahahah...». Poi aggiunge in tono più serio: «Prova a spiegarlo a tua moglie!».
Andre non può resistere al potere dell’apparenza; anche se chiaramente è
innamorato di sua moglie, il modo in cui questa scena appare è incriminante e
i suoi effetti non possono essere cancellati. Mitzi qui non sta facendo
riferimento a un’istanza fisicamente presente, nel senso che «se qualcuno ci
vedesse in questo momento, concluderebbe automaticamente che si tratta di
una relazione d’amore». L’istanza che ha in mente è molto più complessa ed
evoca il concetto affrontato fra gli altri da Robert Pfaller: quello di un
osservatore ingenuo che non giudica la situazione a partire dalle vere
intenzioni del soggetto ma esclusivamente in base a come le cose appaiono. 8
Il tema di una fantasticheria decentrata che sostiene un rapporto sessuale
prende una strana piega nel film di Lubitsch L’uomo che ho ucciso (1932),
che viene spesso liquidato come un fallimento, ma che fa emergere questa
caratteristica isolata dal contesto del Lubitsch più maturo; privo di tocco, per
così dire, in ogni modo non ancora parte del tocco alla Lubitsch. Ecco il
riassunto della trama. Tormentato dal ricordo di Walter Holderlin (!), un
soldato che ha ucciso durante la Prima guerra mondiale, il musicista francese
Paul Renard si reca in Germania per trovare la famiglia di Holderlin, usando
come guida l’indirizzo di una lettera trovata sul corpo dell’uomo. Il signor
Holderlin inizialmente si rifiuta di accogliere Paul in casa sua, ma cambia
idea quando la fidanzata di suo figlio, Elsa, lo riconosce come l’uomo che
aveva lasciato dei fiori sulla tomba di Walter. Invece di rivelare il loro vero
legame, Paul racconta agli Holderlin che era un amico di Walter dai tempi del
conservatorio. Nonostante l’ostilità e la disapprovazione dei compaesani, gli
Holderlin prendono in simpatia Paul, il quale si innamora di Elsa; dopo aver
tergiversato per un po’, le racconta la verità sulla morte di Walter. Lei lo
convince a non dire nulla ai genitori di Walter, che lo hanno accolto come un
figlio, e Paul rinuncia a togliersi il peso dalla coscienza per restare con la
famiglia adottiva. Il signor Holderlin gli regala il violino di Walter e, nella
scena finale del film, Paul suona accompagnato da Elsa al pianoforte, sotto lo
sguardo amorevole dei genitori. C’è qualcosa di disturbante in questo film,
una strana oscillazione fra melodramma poetico e osceno umorismo. La
coppia (la giovane donna e l’assassino del suo precedente fidanzato) sono
felici insieme, sotto lo sguardo protettivo dei genitori del fidanzato morto; è
questo sguardo che fornisce la cornice fantastica alla loro relazione, e l’ovvia
domanda è: si comportano davvero come amanti solo per amore dei genitori,
o questo sguardo è una scusa per fare sesso? Si tratta, ovviamente, di una
falsa domanda, perché non importa quale delle due alternative sia vera: anche
se lo sguardo dei genitori fosse solo una scusa per fare sesso, è comunque una
scusa necessaria.
A volte, la vita reale incontra Lubitsch, prendendo le sue trame in modo
tale da spingere le cose un po’ più in là. La situazione di base del suo
Scrivimi fermo posta (1940) è accaduta nella vita reale a Sarajevo (fra tutti i
posti possibili) a metà degli anni Novanta, subito dopo l’assedio della città.
Una giovane coppia di sposi era in crisi, ognuno si era stancato dell’altro,
dunque per dare nuova energia alla rispettiva vita emotiva cominciarono
entrambi a intrattenere delle intense relazioni via e-mail con due sconosciuti,
confidandosi i sogni, eccetera. Dal momento che, in entrambi i casi,
sembrava che avessero trovato il partner ideale, decisero di incontrarsi di
persona. Quando l’incontro avvenne, in un bar, rimasero sbalorditi scoprendo
che avevano flirtato tra di loro per tutto il tempo. E quale fu il risultato di
questa coincidenza? Li portò a scoprire la profonda armonia dei loro sogni
facendoli così rimanere insieme in una comprensione più profonda? Credo
che Lubitsch sarebbe stato propenso a vedere in una tale vicinanza di sogni
un cattivo presagio, e avrebbe immaginato che sarebbero fuggiti l’uno
dall’altra in preda all’orrore...
E, di nuovo, questa comunicazione indiretta è all’opera a ogni livello;
penso che Lubitsch non si sarebbe sorpreso di scoprire che la posizione
sessuale paradigmatica del cinema a luci rosse (e la sua ripresa) è quella di
una donna sdraiata sulla schiena con le gambe aperte all’indietro e le
ginocchia sopra le spalle; la camera è di fronte, e mostra il pene che penetra
la vagina (di solito la faccia dell’uomo è invisibile, è ridotto a uno
strumento), ma quello che vediamo sullo sfondo, fra le cosce, è la faccia della
donna in preda alla gioia dell’orgasmo. Questa minima «riflessività» è
fondamentale: se vedessimo soltanto il primo piano della penetrazione la
scena diventerebbe presto noiosa, perfino disgustosa, più una sorta di
dimostrazione medica; bisogna aggiungere lo sguardo rapito della donna, la
reazione soggettiva rispetto a quello che sta accadendo. Inoltre, questo
sguardo non è diretto al suo partner, ma a noi, gli spettatori, dandoci
conferma del suo piacere; noi spettatori incarniamo chiaramente il ruolo del
grande Altro che deve registrare il godimento della donna. Il culmine della
scena dunque non è la soddisfazione maschile (del suo partner sessuale o
dello spettatore); lo spettatore è ridotto a puro sguardo: è la gratificazione
sensuale della donna (messa in scena per lo sguardo maschile, ovviamente).
L’ironia qui sta proprio nel fatto che nel momento in cui la donna non viene
«reificata» ma resa soggetto la sua umiliazione è ancora peggiore. Questa
elementare scena da cinema a luci rosse rende perfettamente la riflessività
minima che attraversa dall’interno qualunque immediato Uno orgasmico.
E questo è il motivo per cui non è che semplicemente «lo facciamo», ma
dobbiamo fare l’amore. In un bel dialogo di Downsizing di Alexander Payne
(2017), dopo che il protagonista ha fatto sesso con una rifugiata vietnamita, la
donna gli chiede con il suo inglese stentato se per lui questa fosse stata una
scopata per amore, o una scopata di solo sesso, o una scopata per
compassione, e così via, e per tutta risposta l’uomo le chiede perché usasse
una parola così volgare invece del più educato e gentile «fare l’amore». La
donna accoglie il rilievo e continua a parlare di «fare uno scopare» invece di
«scopata» soltanto: «perché hai fatto uno scopare con me?». E, in un certo
senso, ha ragione: forse la definizione di amore è che tu non ti limiti a
scopare il tuo partner, ma fai uno scopare con lui o lei...
Non è questo forse un doppio quasi osceno del potere esecutivo «serio»
concentrato nel Comitato centrale e nel Politburo, una sorta di intellettuale
non organico del movimento, un agente che fa ricorso all’umorismo, agli
scherzi, e all’astuzia della ragione, tenendosi a distanza... una sorta di
analista? Dunque, forse, non potremmo immaginare Lubitsch a capo di
questa Commissione di controllo? L’ovvia controargomentazione sarebbe:
ma la struttura autoritaria del potere bolscevico non impedirebbe a una figura
come quella di Lubitsch di rivestire qualunque ruolo chiave? In risposta,
potremmo citare Hegel quando afferma, nell’Introduzione alla sua
Fenomenologia, che «la misura dell’esame si muta, se ciò di cui dovrebbe
essere misura non regge all’esame; quindi è sotto esame non soltanto il
sapere, ma anche la misura dell’esame stesso». Applicato rudemente al nostro
caso, questo significa che, se Lubitsch non si addice a Lenin, allora abbiamo
bisogno di un nuovo Lenin, un Lenin che tollerasse, addirittura invocasse,
una figura come quella di Lubitsch a capo della sua Commissione di
controllo.
Nei miei lavori precedenti, ho fatto riferimento a una barzelletta diffusa nei
bei tempi andati del «socialismo reale», molto amata dai dissidenti. Siamo
nella Russia del XV secolo, durante l’occupazione dei mongoli, un contadino
e sua moglie camminano per una strada polverosa di campagna. Un soldato
mongolo a cavallo gli si ferma accanto e dice al contadino che sta per
violentare sua moglie. Poi aggiunge: «Ma, dato che c’è tanta polvere a terra,
tu dovresti tenermi i testicoli, così non mi si sporcano!». Dopo che il
mongolo ha finito con la moglie del contadino e se ne va, il contadino
comincia a ridere e a fare salti di gioia. La moglie, sorpresa, gli domanda:
«Ma che fai, salti di gioia dopo che mi hanno violentata brutalmente davanti
a te?». Il contadino le risponde: «L’ho fregato! Ha le palle piene di polvere!».
Questa triste barzelletta racconta le difficoltà dei dissidenti: pensano di
sferrare colpi durissimi alla nomenklatura di partito, mentre la nomenklatura
continua a violentare la gente. E non si può dire la stessa identica cosa di Jon
Stewart e di quanti, come lui, prendono in giro Trump? Non gli stanno forse
impolverando o, nel migliore dei casi, graffiando le palle?
La lezione fondamentale che apprendiamo dalla dialettica è dunque che
l’inutile umorismo soggettivo dovrebbe essere contrastato non dalla seria
analisi «oggettiva», ma dall’umorismo oggettivo di Hegel, che fa emergere le
assurdità insite nella nostra realtà. Non dovremmo avere paura di cogliere
questo aspetto umoristico persino nelle nostre esperienze più terrificanti.
Dopo la première a Berlino nel 2015, Terror di Ferdinand von Schirach è
diventato un successo mondiale, con centinaia di repliche in tutto il mondo,
accompagnate da un dibattito etico senza fine sui media. È un dramma
giuridico, il racconto del processo a carico di Lars Koch, pilota di guerra
tedesco che ha abbattuto un aereo civile che era stato dirottato da un
terrorista; l’aereo si stava dirigendo su uno stadio che conteneva 70.000
persone (era in corso la partita Germania-Inghilterra), e la pragmatica
decisione di Koch, decisione con la quale ha infranto la legge costituzionale,
fu di rinunciare alla vita dei 164 passeggeri piuttosto che permettere al
terrorista di massacrare un numero ben più alto di persone allo stadio. Alla
fine, il pubblico deve votare e giudicare della sua colpevolezza: ogni
spettatore ha un piccolo telecomando con due bottoni, 1 (colpevole) e 2 (non
colpevole), e il pubblico decide il verdetto. Come si può immaginare, il
pubblico, almeno nei teatri occidentali, si schiera dalla parte della non
colpevolezza.
Ci troviamo qui senza dubbio davanti a una genuina antinomia di ragione
morale (per rifarci a Kant): se formuliamo il dilemma in modo così chiaro,
ovviamente c’è una sola soluzione possibile. Qualunque gioco di cifre e
certezze – sul modello di «sono assolutamente certo che uccidendo una
persona ne salverò almeno cinquanta, dunque...» – non è altro che
un’oscenità. Ma la nostra sensazione di pancia che ci sia qualcosa di
profondamente sbagliato e falso nella scelta posta dal dramma è pienamente
giustificata: tale scelta è ideologia allo stato puro, soprattutto a partire da
quello che tralascia pur di presentare un quadro chiaro e semplice. Di fondo,
ci si rivolge a noi in quanto individui, messi davanti a una scelta
difficilissima la cui chiarezza (abbattere l’aereo o meno?) nasconde tutte le
altre questioni di rilievo. Che dire della possibilità di svuotare lo stadio (c’era
tempo a sufficienza), che dire delle cause geopolitiche di tali atti terroristici,
che dire dei nostri interventi militari nei paesi arabi, che dire della nostra
alleanza con l’Arabia Saudita? Abbiamo forse scelto una di queste opzioni, ci
è stata data questa possibilità? Perché sentiamo la pressione della scelta solo
quando ci troviamo davanti alle conseguenze di tutte queste altre scelte
precedenti?
Ma c’è un altro aspetto, più basilare, dello spettacolo, che dovremmo
interrogare. A ben vedere, capiamo che, quando Koch decide di abbattere
l’aereo, non sta facendo realmente una scelta individuale ed esistenziale ma
segue soltanto l’implicita ingiunzione sociale. Le conversazioni con i suoi
superiori dell’esercito chiariscono che loro si aspettano che lui abbatta
l’aereo; e che addirittura gli fanno sottilmente pressione perché lo faccia, ma
non vogliono dirglielo apertamente. La situazione ci richiama di nuovo al
portacenere dell’inizio di questo saggio, in cui una contraddizione tra
proibizione e permesso viene apertamente ipotizzata e dunque cancellata,
trattata come non-esistente; il messaggio è stato: «È proibito, ed ecco come lo
si fa». La situazione di Koch non era forse la stessa? Il messaggio ripetuto dai
suoi superiori era: «È proibito dalla legge... e fallo!».
Così funziona l’esercito. Ricordo un incidente simile avvenuto quando
facevo il militare. Una mattina, la prima lezione era sulla legge militare
internazionale, e fra le altre regole l’ufficiale disse che era proibito sparare ai
paracadutisti quando sono ancora in aria, prima che tocchino il suolo. Per una
fortunata coincidenza, la lezione successiva era sull’uso del fucile, e lo stesso
ufficiale ci insegnava come mirare a un paracadutista in aria (come, mentre lo
puntiamo, dobbiamo tenere conto della velocità della discesa e della
direzione e della forza del vento, e così via). Quando uno dei soldati chiese
conto all’ufficiale della contraddizione fra questa lezione e quello che
avevamo imparato solo un’ora prima, l’ufficiale si limitò a replicare con una
risata cinica: «Come puoi essere così stupido? Non lo sai come va la vita?».
Dovremmo qui osservare che, in caso di guerra nucleare, l’immaginazione
popolare brama uno scenario opposto: quello del singolo ufficiale che,
davanti al preciso comando, si rifiuta di premere il bottone salvando così il
mondo. Pensiamo a uno spaventoso dettaglio sulla crisi missilistica cubana:
solo a posteriori abbiamo saputo quanto siamo stati vicini a una guerra
nucleare durante una contesa navale fra un cacciatorpediniere americano e un
sottomarino sovietico B-59 al largo di Cuba il 27 ottobre 1962. Il
cacciatorpediniere sganciò in profondità delle cariche vicino al sottomarino
per obbligarlo a risalire, non sapendo che possedeva un siluro a testata
nucleare. Vladimir Orlov, un membro della truppa sottomarina, durante la
conferenza tenutasi a L’Avana, disse che il sottomarino sarebbe stato
autorizzato a sparare se tre ufficiali fossero stati d’accordo. Gli ufficiali
cominciarono a discutere animatamente se fosse il caso di affondare la nave.
Due dissero di sì e uno disse di no. «Un ragazzo chiamato Archipov salvò il
mondo» fu l’amaro commento che fecero gli storici dell’incidente. 6 Non
facciamo forse tutti silenziosamente affidamento su un’azione del genere nel
fiero scambio fra Stati Uniti, Corea del Nord e altri, ovvero che, nel momento
decisivo, un singolo individuo trovi la forza di fermare il folle ciclo di
minacce e contro-minacce nucleari?
Sulla falsariga del testo di von Schirach, possiamo immaginare una serie di
alternative: se un missile nord-coreano diretto a Guam va in pezzi, gli Stati
Uniti dovrebbero rispondere? E come? Ma quello che dovremmo sempre
tenere a mente è la follia di tutta la situazione: mentre siamo tutti minacciati
dalla catastrofe ecologica, continuiamo a giocare al gioco
dell’autodistruzione. Le decisioni che i nostri leader stanno prendendo in
considerazione non sono sulla scala di «Quante persone innocenti sono
autorizzato a uccidere per salvarne molte di più?» ma «Quanti milioni di
astanti innocenti sono pronto a uccidere, direttamente e indirettamente, per
contrattaccare il nemico?». Questo è ciò di cui si parla davvero quando si
evocano le conseguenze catastrofiche di un conflitto nucleare: moriranno
milioni e milioni di persone ma, in qualche modo, lo dobbiamo fare lo stesso
e reagire.
Ciò che complica ulteriormente le cose è che, ad ascoltare Kim Jong-un
che parla di un attacco devastante agli Stati Uniti, non possiamo che chiederci
in che modo vede la sua stessa posizione. Parla come se non fosse
consapevole che il suo paese, compreso sé stesso, ne sarebbe distrutto; è
come se stesse giocando a un gioco di fantasia. Sta dunque bluffando, non sta
davvero considerando una guerra nucleare? Se l’assioma di fondo della
Guerra fredda era quello della MAD (Mutual Assured Destruction,
Distruzione mutua assicurata), quello dei giochi nucleari odierni sembra
essere il suo opposto, quello della NUTS (Nuclear Utilization Target
Selection, Selezione del target di utilizzazione nucleare), l’idea che,
attraverso un colpo di precisione chirurgica, possiamo distruggere il
potenziale nucleare del nemico mentre il guscio anti-missile ci protegge da un
contrattacco. Più esattamente, gli Stati Uniti adottano una diversa strategia:
agiscono come se continuassero a credere nella logica della MAD nelle
relazioni con Russia e Cina, mentre sono allo stesso tempo tentati di seguire
la NUTS con l’Iran e la Corea del Nord. Il meccanismo paradossale della
MAD rovescia la logica della «profezia che si autoavvera» in una «intenzione
di autoistupidimento»: il fatto stesso che ogni parte possa essere sicura che,
se decide di sferrare un attacco nucleare sull’altra, l’altra risponderà con una
forza distruttiva, garantisce il fatto che nessuna delle due inizierà la guerra.
La logica della NUTS è, al contrario, che il nemico può essere costretto al
disarmo se sa che possiamo colpirlo senza rischiare un contrattacco. Il fatto
stesso che due strategie direttamente contraddittorie vengano adottate
simultaneamente dalla stessa superpotenza dimostra il carattere fantasmatico
di tutto il ragionamento. L’unica cosa che ci resta da fare in questa situazione
è mobilitare un pubblico internazionale il più vasto possibile per
criminalizzare direttamente ogni discorso sull’uso delle armi nucleari e di
tutte le altre armi di distruzione di massa. I leader e gli Stati che le prendono
anche solo in considerazione dovrebbero essere trattati come paria, come
osceni mostri subumani. Contro di loro, tutto dovrebbe essere permesso, dal
boicottaggio di massa all’umiliazione personale.
L’incombente conflitto militare tra Stati Uniti e Corea del Nord contiene
un doppio pericolo. Anche se entrambe le parti stanno certamente bluffando,
e non pensano davvero a un reale conflitto nucleare, la retorica non funziona
mai solo come retorica e può sempre sfuggire di mano. Inoltre, come hanno
commentato molti osservatori, la cosa strana è che Trump abbia deciso di
occupare una posizione simmetrica rispetto a quella di Kim Jong-un, alzando
la posta in gioco. Questa escalation ricorda sempre di più lo scontro per il
riconoscimento di due soggetti descritto da Hegel, in cui il vincitore è colui
che dimostra di essere pronto a morire piuttosto che a scendere a un
compromesso in nome della vita. Trump dunque, senza rendersene conto, si è
infilato in un gioco che non necessita di un vero superpotere; nel caso di una
nazione piccola e debole come la Corea del Nord, un avvertimento discreto e
fermo sarebbe sufficiente. L’atto altrimenti diventa ridicolo.
Con i primi passi verso una storica distensione fra Corea del Nord e Corea
del Sud dell’inizio del 2018, il tono si è magicamente trasformato in un tono
di reciproco rispetto e collaborazione, e ciò che ci sembra strano è proprio la
facilità di questo cambiamento, come se fossimo parte di uno strano gioco in
cui improvvisi rovesciamenti ci impediscono di prenderlo sul serio. Ma tali
rovesciamenti sono forse possibili anche fra Israele e Iran, fra gli Stati Uniti e
la Russia? Hanno iniziato a circolare delle strane voci su Trump in odore di
Nobel per la pace: lo otterrà? I francesi hanno una bella espressione, Voyons
voir, che possiamo tradurre con «stiamo a vedere». Quattro presidenti
americani hanno vinto il Nobel per la pace: Theodore Roosvelt, Woodrow
Wilson, Jimmy Carter (dopo aver lasciato l’incarico) e Barack Obama, nel
2009, per il suo «straordinario sforzo nel rafforzare la diplomazia
internazionale e la cooperazione fra le persone», spiegazione che è un falso, e
che esprimeva soltanto la speranza che Obama agisse in quel modo per il
futuro.
Per quanto incredibile sia la proposta che a Trump venga dato il premio
Nobel per la pace, dovremmo non di meno reagire in tre modi a una cosa del
genere. Primo, dovremmo ricordare che il grande compromesso che ha
permesso la svolta verso una risoluzione pacifica della crisi coreana è stato
reso possibile non da Trump ma da Kim Jong-un: Kim ha fatto la concessione
fondamentale, dunque il premio andrebbe dato a Kim e a Trump, e il ridicolo
insito in questa idea è ovvio: un premio per la pace per il capo del paese forse
più aggressivo al mondo? Donald e Kim dovrebbero forse essere premiati
solo per aver attuato una svolta e non per aver agito così follemente come
temevamo? Inoltre, come può stare insieme l’iniziativa a sostegno del Nobel
per la pace a Trump con la sua belligerante uscita dal patto con l’Iran? Il fatto
che questa uscita sia stata contestata da tutti gli alleati americani dell’Europa
occidentale apre la strada a un nuovo scenario globale geopolitico: potrebbe
isolare gli Stati Uniti dalla comunità degli Stati che continueranno ad aderire
al patto, riducendo in questo modo gli Stati Uniti a una delle tante potenze
mondiali.
In ogni caso, la scomoda verità (per i liberal di sinistra) è che, lungi
dall’essere solo il folle e bellicoso leader americano, Trump non sembra poi
così male se messo a confronto con Hillary Clinton. Quando il Guardian le
ha chiesto se credesse davvero che la Clinton sarebbe stata più pericolosa di
Trump, Susan Sarandon ha risposto:
Penso che lei fosse davvero, davvero pericolosa. Saremmo già in guerra se fosse
diventata presidente. Non sarebbe stato più semplice. Pensiamo a quello che è
successo durante l’era Obama e di cui non ci siamo accorti. Lei avrebbe fatto le
stesse cose, in modo disonesto. Ha deportato molte più persone di quante non ne
siano state deportate ora. Come abbia potuto ottenere il Nobel per la Pace proprio
non lo capisco. 7
Si nota subito come Trump, che vuole avviare la sua battaglia agli oppiacei
proibendo le medicine più pericolose, è un marxista molto volgare, simile a
quei comunisti duri e puri (come Enver Hoxha o i Khmer Rossi) che
cercarono di indebolire la religione semplicemente dichiarandola fuori legge.
La posizione di Marx è molto più sottile: invece di combattere direttamente la
religione, lo scopo dei comunisti è quello di cambiare la situazione sociale di
sfruttamento e dominio che dà origine prima di tutto al bisogno di religione.
Marx non di meno rimane troppo ingenuo, non solo nella sua idea di
religione, ma anche rispetto alle diverse forme che l’oppio dei popoli riveste.
È vero che l’islam radicale è un caso esemplare di religione come oppio dei
popoli: un falso confronto con la modernità capitalista che permette ai
musulmani di immergersi nel loro sogno ideologico, mentre i loro paesi sono
devastati dagli effetti del capitalismo globale; e vale esattamente la stessa
cosa per il fondamentalismo cristiano. Nel gennaio 2018, si è saputo che in
Egitto i legislatori
stanno seriamente considerando di far approvare una legge che renderebbe illegale
l’ateismo. La blasfemia in Egitto è già illegale, e le persone vengono
frequentemente arrestate per aver insultato o diffamato la religione grazie alle
rigide leggi del paese. La nuova proposta renderebbe illegale non credere in Dio,
anche senza parlarne. 11
L’individuo sorride solitaria monade che cammina nello spazio urbano in continua
tenera interazione con le foto, i twitters, i giochi che provengono dal piccolo
schermo. Ma la monade solitaria è un’interfaccia levigata del flusso connettivo.
La Corea del Sud ha il tasso di suicidi più alto al mondo. Lì, il suicidio è la causa di
morte più comune per i minori di 40 anni. È interessante notare che il tasso di
suicidi in Corea del Sud è raddoppiato nell’ultimo decennio [...] nello spazio di due
generazioni, la condizione dei cittadini è sicuramente migliorata dal punto di vista
del reddito, della nutrizione, della libertà e della possibilità di viaggiare all’estero.
Il prezzo di questo miglioramento è stato però la desertificazione della vita
quotidiana, l’iper-accelerazione dei ritmi, l’estrema individualizzazione delle
esistenze e la precarietà del lavoro, che significa anche concorrenza sfrenata [...]
l’intensificazione del ritmo di lavoro, la desertificazione del paesaggio e la
virtualizzazione della vita emotiva stanno convergendo per creare un livello di
solitudine e disperazione a cui è difficile opporsi consapevolmente. 15
L’osservazione che fa qui Ruda è molto sottile: non è solo che, se sono
lasciato da solo nella caverna, anche senza catene, preferisco rimanere lì, così
che un padrone mi deve forzare a uscire; devo offrirmi volontariamente per
essere forzato a uscire, allo stesso modo in cui, quando un soggetto inizia un
percorso di psicoanalisi, lo deve fare volendolo fare, accettando
volontariamente lo psicoanalista come proprio padrone (anche se in un modo
molto specifico):
Proprio a questo punto sorge un problema nel riferirsi al padrone in termini
psicoanalitici: significa forse che coloro che necessitano di un padrone sono –
sempre – nella posizione dell’analizzando? Se, politicamente, un tale padrone è
necessario per diventare ciò che si è (per usare la formula nietzschiana), e questo
può essere strutturalmente collegato alla liberazione del prigioniero dalla caverna
(obbligarlo dopo avergli tolto le catene e lui ancora non vuole andar via), il
problema è come tenere insieme questo con l’idea che l’analizzando debba essere
costitutivamente un volontario (e non semplicemente uno schiavo o un garante).
Dunque, in breve, deve esserci una dialettica di padrone e volontario: una dialettica
perché il padrone in qualche modo costituisce i volontari in quanto tali (li libera da
una posizione che precedentemente sembrava non discutibile), così che poi
diventano seguaci volontari dell’ingiunzione del padrone, per cui il padrone in fin
dei conti diventa superfluo – ma forse solo per un certo periodo di tempo; dopo
bisogna ripetere lo stesso processo (non si riesce mai ad abbandonare del tutto la
caverna, tanto che bisogna re-incontrare costantemente il padrone, e le angosce che
questo comporta, ovvero, l’intervento del padrone è necessario se le cose si
bloccano di nuovo, o diventano mortalmente abitudinarie).
I due livelli di volontariato (che sono allo stesso tempo due livelli di
servitù volontaria) sono diversi, non solo rispetto al contesto della servitù (ai
meccanismi di mercato, a una causa di emancipazione); è la forma in sé che è
diversa. Nella servitù al capitalismo noi semplicemente ci sentiamo liberi,
mentre nell’autentica liberazione accettiamo una servitù volontaria nella
forma del servire una Causa e non solo noi stessi. Nell’odierno, cinico
funzionamento del capitalismo, io so benissimo quello che sto facendo e
continuo a farlo, l’aspetto liberatorio della mia conoscenza è sospeso, mentre
nell’autentica dialettica di liberazione la consapevolezza che ho della mia
situazione è già il primo passo verso la liberazione. Nel capitalismo sono reso
schiavo esattamente quando «mi sento libero»: questo sentimento è la forma
stessa della mia servitù, mentre in un processo emancipatorio sono libero
quando «mi sento come uno schiavo», ovvero il sentimento di essere uno
schiavo è già testimonianza del fatto che, al cuore della mia soggettività, sono
libero; solo quando la mia posizione di enunciazione è quella di un soggetto
libero posso sperimentare la mia schiavitù come un abominio. Abbiamo
dunque qui due versioni del rovesciamento del nastro di Möbius: se seguiamo
la libertà capitalista fino alla fine, si trasforma in una vera e propria forma di
servitù, e se vogliamo spezzare la servitù volontaria capitalista la nostra
affermazione di libertà di nuovo deve assumere la forma del suo opposto, del
servire volontariamente una Causa.
Se Marx ha definito i diritti umani borghesi quelli di «liberté-égalité-
fraternité e Bentham», la versione proletaria e propriamente di sinistra
dovrebbe essere «libertà-uguaglianza-fraternità e... terrore», il terrore di
essere strappati dalla compiacenza della vita borghese e dalle sue battaglie
egoistiche, il terrore come pressione per elevare noi stessi verso
un’emancipazione universale. Bentham o il terrore: questa, forse, è la nostra
scelta definitiva. Ma perché il terrore è necessario? Perché oggi le nostre
catene nella caverna non sono quelle dell’ideologia tradizionale. Robert
Pippin di recente ha sottolineato questo spostamento:
La complessità della nostra situazione ha creato un qualcosa senza precedenti di cui
solo la filosofia [di Hegel], con la sua capacità di spiegare il ruolo «positivo» del
negativo, e la realtà dell’agenzia di gruppo e della soggettività collettiva, può dare
conto. La vita nelle società moderne sembra avere creato il bisogno di stati
doxastici collettivi straordinariamente dissociati, una ripetizione dei vari personaggi
del dramma dell’autoinganno narrato nella Fenomenologia. In questo contesto noi
crediamo sinceramente di essere devoti a princìpi e massime fondamentali ai quali
non siamo realmente devoti, dato quello che facciamo [...] I princìpi possono essere
riconosciuti e noti coscientemente e sinceramente ma, essendo i princìpi che sono,
non possono essere integrati in una forma di vita vivibile e coerente. Le condizioni
sociali per l’autoinganno in questo tipo di contesto possono aiutare a dimostrare
che il problema non viene adeguatamente descritto come quello in cui molti
individui in effetti cadono nell’autoinganno. L’analisi non è di tipo morale, non è
focalizzata sugli individui. Deve essere intesa come parte del Geist storico. 17
In ogni caso, il fatto che nelle nostre «anonime società di massa» l’assenza
di Sittlichkeit sia «un’assenza percepita, non solo un’assenza indeterminata»
non preclude in nessun modo la possibilità che la Sittlichkeit operi qui come
un sogno retroattivo che nasconde il fatto che la sua stessa realtà implichi una
dissonanza. Inoltre, i passaggi citati di Williams che descrive gli attori politici
come i personaggi di una soap opera, anche se ben scritti, portano davvero al
risultato che promettono? Descrivono davvero una nuova forma di corruzione
morale? Il fatto che «i politici, i media, e il pubblico sono complici nel
fingere che vengano prese in considerazione delle realtà importanti, che il
mondo odierno venga adeguatamente analizzato» non è forse la caratteristica
di ogni ideologia nel suo reale funzionamento? In ogni ideologia, la chiara
divisione fra chi inganna e chi viene ingannato è sfumata, dal momento che
l’ingannato è complice dell’illusione e addirittura vuole essere ingannato.
Quello che sta accadendo oggi non è esattamente lo stesso, ma una forma
qualitativamente nuova di dissonanza: una dissonanza ammessa apertamente,
e per questa ragione trattata come irrilevante. Il paradosso è dunque che,
oggi, c’è in un certo senso meno inganno rispetto al modo in cui funzionava
l’ideologia nel passato: nessuno viene realmente ingannato.
In altre parole, non è che prima della nostra attuale epoca prendessimo le
regole e le proibizioni seriamente mentre oggi le violiamo apertamente.
Quello che è cambiato sono le regole che regolano le apparenze, ovvero ciò
che può apparire nello spazio pubblico. Mettiamo a confronto la vita sessuale
di due presidenti americani, Kennedy e Trump. Come oggi sappiamo,
Kennedy ebbe numerose relazioni, ma la stampa e la televisione lo
ignoravano; al contrario, ogni passo (vecchio e nuovo) di Trump viene
seguito dai media, per non dire del fatto che lo stesso Trump parla
pubblicamente in un modo così osceno che sulla bocca di Kennedy non
sarebbe nemmeno immaginabile. La distanza che separa lo spazio pubblico
dignitoso e il suo rovescio osceno viene ora sempre più trasposta nello spazio
pubblico, con conseguenze ambigue: incoerenze e violazioni delle regole
pubbliche vengono accettate apertamente o almeno ignorate ma, allo stesso
tempo, siamo sempre più consapevoli di queste stesse incoerenze.
A questo punto arriviamo al massimo dell’ironia: per come funziona oggi,
l’ideologia appare come il suo esatto opposto, come una critica radicale delle
utopie ideologiche. L’ideologia predominante oggi non è la visione positiva
di un qualche futuro utopico ma una cinica rassegnazione, un’accettazione
del «mondo per come è», accompagnata dall’avvertimento che se lo
vogliamo cambiare troppo, ne conseguirà solo l’orrore totalitario. Qualunque
immaginazione di un mondo diverso viene liquidata come ideologia. Alain
Badiou l’ha espresso in modo splendido e preciso: oggi la funzione principale
della censura ideologica non è quella di frantumare la vera resistenza (è
infatti il compito dell’apparato statale repressivo), ma di frantumare la
speranza, di denunciare immediatamente qualunque progetto critico come
qualcosa che apre una strada il cui esito non può essere altro che il gulag, o
qualcosa di simile. Aveva esattamente questo in mente Tony Blair quando ha
chiesto di recente: «È possibile definire una politica che sia quello che
chiamerei post-ideologica?». 22
Per poter comprendere il modo in cui funziona l’ideologia nella maniera
più tradizionale, la famosa espressione «Devi proprio essere stupido per non
vederlo!» dovrebbe essere ribaltata in «Devi proprio essere stupido per
vederlo!»: ma cosa? L’elemento ideologico supplementare che fornisce
significato a una situazione confusa. Nell’antisemitismo, ad esempio, dovevi
essere stupido quanto bastava per vedere «l’Ebreo» come agente segreto che
teneva segretamente le fila e controllava la vita sociale. Oggi, in ogni caso, il
cinico e predominante funzionamento dell’ideologia stessa afferma: «Devi
proprio essere stupido per vederla»: cosa? La speranza di un cambiamento
radicale.
Note
Introduzione
1. A. Badiou, La vera vita. Appello alla corruzione dei giovani, Ponte alle
Grazie, Milano, 2016.
2. G. Glider, in J.L. Casti, Would-Be Worlds, John Wiley & Sons, New
York, 1997, p. 215.
3. P. Sloterdijk, Regole per il parco umano, in Non siamo ancora stati
salvati, Bompiani, Milano, 2004, pp. 239-266.
4. P. Trawny, Freedom to Fall. Heidegger’s Anarchy, Polity Press,
Cambridge, 2015, p. 98.
5. M. Heidegger, Note II, in Quaderni neri 1942-1948, citato in Trawny,
Freedom to Fall, cit., p. 60.
6. Quanto veniamo manipolati dai media si coglie facilmente dalle lacune
nel modo in cui i media riportano gli eventi. Ad esempio, il conflitto
nell’Ucraina orientale è stato per alcuni mesi trattato come una minaccia alla
pace del mondo per poi, semplicemente, scomparire (almeno dalle prime
pagine); è stato silenziosamente rinormalizzato. Quando l’Ucraina ha fatto
richiesta all’Occidente di più armi di difesa, allora è saltato fuori di nuovo, e
abbiamo scoperto che i combattimenti erano sempre andati avanti senza
sosta.
7. Il saggio in italiano è stato pubblicato da Selene nel 2007 con il titolo Le
verità nomadi. (N.d.T.)
3. Dall’identità all’universalità
1. R. Barnard, L’arte dell’inganno, Mondadori, Milano, 1979, p. 122
2. Bernard Brščič, George Soros è uno degli uomini più depravati e
pericolosi del nostro tempo, (in sloveno), in Demokracija, 25 agosto 2016, p.
15.
3. A. Zupančič (conversazione privata).
4. Persino la decisione di Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale
dello Stato di Israele risponde perfettamente a questa logica
dell’antisemitismo sionista.
5. Fra parentesi, dal momento che saltuariamente scrivo qualche commento
per il sito Russia Today, sono stato messo nella lista degli «utili idioti» di
Putin da una strana entità chiamata «European Values» che ha lo scopo di
«proteggere le libertà». La vita non cessa mai di sorprenderti: dopo aver non
solo criticato Putin ma anche dopo avergli attribuito il nome di «Putogan»
(fusione di Putin e Erdoğan) e dopo aver ripetutamente e strenuamente difeso
l’anima emancipatoria della tradizione europea, sono diventato ora l’«utile
idiota» di Putin! Bene, l’unica cosa di cui possiamo essere certi è che i tipi di
«European Values» sono degli inutili idioti.
6. Si veda V.I. Lenin, Sul diritto delle nazioni all’autodecisione (1914).
7. M. Washington, alla pagina www.pbs.org/wgbh/….
8. Si veda Khader, Against Trump’s White Supremacy: Embracing the
Enlightenment, Renouncing Anti-Eurocentrism (citato dal manoscritto
inedito).
9. Per una feroce analisi critica del discorso liberale politicamente corretto si
veda R. Eddo-Lodge, Why I’m No Longer Talking to White Men About Race,
Bloomsbury, London, 2017.
10. Khader, Against Trump’s White Supremacy, cit.
11. Da https://cominsitu.wordpress.com/2017/07/05/….
12. Si veda M. L. Ferguson, Neoliberal Feminism as Political Ideology, in
Journal of Political Ideologies, vol. XXII, n. 3 (2017), pp. 221-235.
13. Ibid.
14. Ibid.
15. Sono debitore di questa storia e della sua interpretazione a Alenka
Zupančič.
16. Si veda http://www.identitytheory.com/interview-john-summers-baffler/.
17. Tratto da www.theguardian.com/society/….
18. Questa idea mi è stata suggerita da Mladen Dolar.
19. Tratto da www.theguardian.com/world/….
20. Si veda C. Lévi-Strauss Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano,
1966.
21. W. Lixiong e T. Shakya, The Struggle for Tibet, Verso Books, London,
2009, p. 77.
22. Si veda R. Srinivasan, Whose Global Village? Rethinking How
Technology Shapes Our World, New York University Press, New York,
2017.
23. Ivi, p. 209.
24. Ivi, p. 213.
25. Ivi, p. 224.
26. S. Buck-Morss, Hegel, Haiti, and Universal History, University of
Pittsburgh Press, Pittsburgh, 2009, p. 151.
27. Ivi, p. 133.
28. Ivi, pp. 138-139.
Conclusione
1. G.W.F. Hegel, Estetica, Feltrinelli, Milano, 1963, p. 791.
2. G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, Laterza, Roma-Bari,
2009, p. 200.
3. Hegel, Estetica, cit., pp. 801-802.
4. A. Zupančič, Back to the Future of Europe (manoscritto inedito).
5. www.latimes.com/opinion/….
6. D. Rennie, How Soviet sub officer saved world from nuclear conflict, in
Daily Telegraph, 14 ottobre 2002.
7. Tratto da www.independent.co.uk/arts-entertainment/….
8. J. Brent e V. P. Naumov, Stalin’s Last Crime, HarperCollins, New York,
2003, p. 307.
9. Si veda http://abcnews.go.com/International/….
10. A. Badiou, Je vous sais si nombreux..., Fayard, Paris, 2017, pp. 56-57.
11. www.newsweek.com/egypt….
12. www.egypttoday.com/Article/….
13. Si veda www.theguardian.com/news/….
14. Per una descrizione precisa di questa situazione complessa si veda
Laurent de Sutter, Narcocapitalism, Polity Press, Cambridge, 2018.
15. L’intervento di F. Berardi è disponibile sul sito http://blog-
micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/?p=9818.
16. F. Ruda, conversazione privata. Tutte le citazioni non diversamente
specificate in questo capitolo provengono da questa fonte.
17. R. Pippin, Hegel on the Varieties of Social Subjectivity, in German
Idealism Today, a cura di M. Gabriel e A. Moe Rasmussen, De Gruyter,
Boston, 2017, pp. 132-133.
18. S. de Beauvoir, L’America giorno per giorno, Feltrinelli, Milano, 1955,
p. 282.
19. S. Sandford, How to Read Beauvoir, Granta Books, London, 2006, p. 49.
20. www.theguardian.com/world/….
21. Pippin, Hegel on the Varieties of Social Subjectivity, cit., pp. 134-135.
22. Tratto da www.newyorker.com/culture/….
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