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Juan José Sanguineti (2001)

Recensione a

Herbert MARCUSE

L’uomo a una dimensione

Originale: One-dimensional man, Beacon Press, Boston 1964


L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1967

Il libro si presenta come una critica della società tecnologica superindustrializzata,


la quale viene considerata come una società totalitaria, dove la vita delle persone è
completamente determinata e organizzata ai fini del consumo e della tecnologia, senza
possibilità di opporvisi. Lo strumento di oppressione è la tecnologia e l’organizzazione
commerciale e capitalista. Il capitalismo americano si è fatto padrone del mondo e avanza
con brutalità disumanizzante in tutto il mondo, e ormai nemmeno l’Unione Sovietica e la
Cina possono farci niente. Si sta compiendo una gigantesca aggressione contro l’uomo e
soltanto si può aspettare che il sistema scoppi con le sue contraddizioni.

I numeri che seguono corrispondono ai capitoli del libro. Ecco una sintesi:

1. Le prime forme di industrializzazione intendevano liberare l’uomo dalle


necessità vitali, in un orizzonte di libertà. Ma la moderna società industriale avanzata ha
creato un sistema che impone a tutti, in un modo omogeneo, una serie di necessità
artificiali, che cambiano di continuo, davanti alle quali l’individuo resta incatenato. La
sua libertà fittizia è la libertà che si può avere in un supermercato, quella cioè di scegliere
i beni da consumo che vengono offerti. Siamo davanti a una società “a una sola
dimensione”, che riduce l’uomo ad essere una particella in mezzo al mercato e ai beni di
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consumo. Siamo diventati puri strumenti di una produttività all’infinito. Il nostro unico
sogno è quello di avere una vita più confortevole.

2. In questa società non è più possibile ormai alcun cambiamento di fondo, perché
ogni opposizione è assimilata dalla società di mercato e ridotta a merce. L’uomo adesso
non è dominato tanto dalla forza, quanto piuttosto dall’amministrazione e dalla
burocrazia. Le forze sindacali sono addomesticate al sistema. La nuova schiavitù non è,
come prima, essere sottomessi a lavori più duri, ma piuttosto il fatto che adesso tutto il
sistema lavorale è puramente strumentale. L’industrializzazione arriva ai paesi in via di
sviluppo e li sottomette, in quanto li integra in un universo tecnologico, con una violenta
rottura delle loro tradizioni. Nel nuovo “Stato del benessere” ormai non c’è più un vero
tempo libero, perché ogni cosa è incorporata agli usi tecnici, anche il divertimento.
Siccome c’è benessere, soddisfazione nel consumo, ogni prospettiva di cambiamento è
bloccata. Il capitalismo produce così uno stile di vita edonista, soddisfatto, mantenendo
l’illusione di una guerra contro “il nemico” esterno, che è l’Unione Sovietica.
L’importante è che ci sia un nemico, il che favorisce la coesione dello Stato. Ma anche
l’Unione Sovietica opprime. Capitalismo e socialismo opprimono ugualmente l’uomo.

3. Utilizzando categorie di Freud, Marcuse (1898-1979) ritiene che le società


antiche “sublimavano” gli istinti nell’alta cultura, solo che quest’ultima era una
minoranza. Oggi queste antiche culture sono semplicemente un prodotto del mercato.
Adesso tutto è cultura di massa, tutto è diventato banale e non ha più forza per
promuovere veri problemi. Bach è ridotto a musica di fondo di una cucina. Il sesso è
commercializzato. Al posto dell’antica sublimazione, oggi siamo davanti ad una “de-
sublimazione istituzionalizzata”, che gioca con i bassi istinti di sesso e di aggressione,
trasformando l’individuo in un pezzo del grande gioco. L’uomo vive così con una
“coscienza felice”, ma inautentica, e gioca alla guerra, alle bombe atomiche, al sesso,
ecc., in un mondo fatto principalmente di carta e di simboli.

4. La coscienza degli individui della società del benessere è felice, soddisfatta,


crede che tutto stia bene e si compiace nel vedere che lo Stato soddisfa le sue necessità.
Vive in uno stato di conformismo e senza rimorsi. Ci sono guerre nelle periferie, dove si
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uccide e si tortura, mentre nella metropoli tutto è felicità. La società opulenta assorbe
ogni contraddizione. Marcuse rileva specialmente il linguaggio che usa questa società, un
linguaggio da cliché (“libera impresa”, “costruzione socialista”, ecc.), stereotipato,
funzionalista, che impedisce di pensare le cose. Così avviene nelle forme attuali di
neoliberismo e di neoconservatorismo. Ormai non c’è più pensiero con carica ontologica
e universale. I problemi degli operai, ad esempio, si riducono a questioni tecniche che si
risolverebbero facilmente. Critica anche la democrazia elettoralista, nella quale ormai il
gioco è fatto, con presupposti intoccabili, dove c’è soltanto un’apparenza di libertà.

5. In questo capitolo viene criticato il mondo piatto e ad una dimensione, con un


appello ai classici, interpretati però secondo la filosofia di Hegel. I classici vivevano in
mondo “a due dimensioni”, perché gli ideali si potevano contrapporre alla realtà, la quale
non era vista come semplicemente razionale. Davanti a “ciò che è”, il dato, c’era il
“dovere”, “ciò che deve essere”, il che comportava una contraddizione positiva: “tu devi
diventare ciò che potrai essere, e per questo devi distruggere ciò che adesso sei”. La forza
della negazione contraddittoria, il vero spirito rivoluzionario, si è perso totalmente nella
società del benessere. Adesso domina la logica astratta, formale, quando in realtà occorre
usare una logica dialettica, capace di cambiare ciò che è “stabilito”.

6. Oggi la vita si riduce al “vivere e morire tecnologico”. Il tiranno non è ormai un


re, ma la struttura razionale tecnologica. È scomparsa la “forza del negativo” di cui
parlava Hegel. La colpa di questa situazione sta nel dominio assoluto delle scienze
quantitative, le quali hanno eliminato le cause finali e hanno trasformato tutto in una
realtà strumentale, dove il soggetto umano è scomparso. I valori scompaiono perché “non
sono scientifici”. I filosofi della scienza si sono messi al servizio di un mondo “de-
ontologizzato”. Lo scientismo ha istituito il regno dell’a priori tecnologico. È falso
pensare che la tecnica sia neutrale. La tecnologizzazione totale ha finito per ridurre tutto a
qualcosa di neutrale, quindi a neutralizzare i valori, e questo è veramente ideologico, ma
resta nascosto.

7. Un’alleata della filosofia scientista e tecnologista è la filosofia analitica


anglosassone, erede del positivismo classico. L’analisi linguistica, destinata a “far guarire
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dalle confusioni filosofiche” dovute alla lingua, al pari dell’antico neopositivismo è


destinata in realtà a nascondere i problemi essenziali dell’uomo. Il linguaggio metafisico
dei classici portava ad affrontare i veri problemi dell’uomo, e così aveva un valore
sovversivo, poiché spingeva ad opporsi ai fatti. La filosofia analitica riduce il pensiero
all’analisi di frasi come “la scopa sta nell’angolo” (Wittgenstein), mascherando i
problemi profondi degli uomini. In fondo la filosofia empirista e analitica hanno
l’obiettivo nascosto di costringerci ad assimilarci alla società tecnologica. Tutti i
problemi che quelle filosofie studiano sono assolutamente banali. I grandi concetti
universali, come io, coscienza, libertà, spirito, li riducono ad operazioni tecniche.

I vecchi miti (le magie, la stregoneria) oggi sono usati in un senso di


banalizzazione, come un mezzo di pubblicità o di divertimento. La società del benessere
adopera la statistica in un modo spesso manipolato. Le inchieste, i sondaggi, le interviste,
ecc., banalizzano le cose profonde, per adattarle ai cliché della TV, della stampa. Oggi
parliamo dell’amore, ad esempio, con frasi fatte, tipiche dei film di gangsters e della
pubblicità. I filosofi analitici, invece di fare un’analisi profonda di questo linguaggio
stereotipato e falso, si accontentano con studiare delle frasi come “mi gratto”, ecc., ma
davanti alla proposizione “questo è ingiusto” diranno che il concetto di giustizia non è
chiaro.

In definitiva, siamo davanti a un linguaggio stabilito, tipico di un mondo totalitario,


e gli analitici del linguaggio non solo non aiutarono a sviscerarlo, per così svelarne
l’intrinseca ipocrisia, ma hanno addormentato le coscienze con le loro analisi banali,
puramente tecniche. I filosofi analitici studiano realtà mutilate e cadono in controversie
puramente accademiche. Hanno anestetizzato il linguaggio ordinario. Una vera filosofia,
invece, dovrebbe essere negativa nei confronti di ciò che è stabilito, e dovrebbe affrontare
chiaramente le questioni “ideologiche”.

8. Continuando la critica contro la filosofia analitica, Marcuse difende in questo


capitolo il valore degli universali, come “nazione”, “uomo”, “libertà”, “bellezza”, ecc. Ne
dà però un’interpretazione dialettica, ancorata alla filosofia di Hegel. Questi universali
riflettono uno stato della coscienza che comprende un ideale, ad esempio, la bellezza, e
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così nega nel mondo dei fatti ciò che sembra bello e non lo è. I particolari realizzano gli
universali, ma al contempo li negano. I veri universali sono concetti molto ampi, con una
portata storica, che così permettono che l’uomo sviluppi le sue grandi battaglie.
L’orizzonte che Marcuse prospetta quindi è la lotta radicale contro la società stabilita.

9. Il compito odierno, secondo Marcuse, è quello di capire quanto di negativo è


contenuto nella società moderna e di criticarlo radicalmente (ad esempio, viaggio in una
bellissima automobile, ma dipendo dall’impresa che me l’ha data). Oggi, più di mai,
dobbiamo fomentare le contraddizioni. Abbiamo bisogno di una nuova tecnologia, che
non sarà certo un tipo di tecnologia più raffinata di quella attuale, ma dovrà sorgere dopo
la distruzione catastrofica dell’attuale tecnologia disumana.

La nuova tecnologia dovrebbe raggiungere un equilibrio tra le necessità e la libertà


umana. Occorre introdurre cause finali nel lavoro e lavorare soltanto in funzione delle
vere necessità. Tale tecnologia dovrebbe servire a tutti e non soltanto ad alcuni. L’uomo
nel futuro dovrebbe ridurre il suo potere di controllo, allo scopo di padroneggiare la
natura in un modo non oppressivo. Abbiamo bisogno di una “ragione non tecnologica”, la
quale sarebbe “organo della vita buona”. Bisognerebbe atteggiarsi alla natura in un modo
più estetico, meno utilitaristico. Le nuove tecnologie dovrebbero dare libero spazio alle
facoltà umane. Bisognerebbe “ridefinire” le necessità umane (ad esempio, se la pubblicità
scompare, la gente potrebbe pensare per proprio conto più facilmente). Occorre ridurre
drasticamente la popolazione futura, perché non si può vivere bene in una società di
massa, dove non c’è spazio per meditare e per isolarsi.

10. Nel capitolo conclusivo, Marcuse sostiene che oggi l’immaginazione umana è
schiavizzata dalla tecnica e dalla propaganda, per cui è come mutilata dalla nostra attuale
“società delle immagini”. In una sorta di chiamata generica alla rivoluzione, incoraggia la
gente a ribellarsi, a negare, a criticare, senza che comunque importi dove ci
incamminiamo, se non lo sappiamo di preciso. Siamo dominati dagli amministratori e
l’unica soluzione è il rifiuto totale. I canali democratici non servono perché non sono
autentici. Gli sventurati, gli esclusi, i poveri, i disoccupati, i paria, dovrebbero associarsi
in una critica totale e radicale. Eppure la teoria critica sociale non promette niente e non
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offre dei rimedi concreti. Il libro finisce così: “La teoria critica della società non possiede
concetti che possano colmare la lacuna tra il presente ed il suo futuro; non avendo
promesse da fare né successi da mostrare, essa rimane negativa. In questo modo essa
vuole mantenersi fedele a coloro che, senza speranza, hanno dato e danno la loro vita per
il Grande Rifiuto” (p. 265).

Commenti

La critica sociale così come è impostata da Marcuse in quest’opera oggi ci fa


sorridere un po’, perché ci ricorda l’ambiente della contestazione globale del 1968, in cui
questo filosofo ebbe un indubbio protagonismo. Al contempo ci lascia alquanto
pensierosi, poiché tanti aspetti individuati in questa critica non solo non sono scomparsi,
ma si sono accentuati molto di più, dopo la scomparsa del blocco dei paesi socialisti e il
maggiore predominio del capitalismo e delle filosofie politiche neoliberali. Marcuse
scrive questo libro quando ancora non era noto l’avvento della società informatica. È
innegabile, tuttavia, che la rivoluzione informatica ha contribuito ancor di più alla
tecnologizzazione dell’uomo così fortemente criticata da Marcuse in queste pagine.

La condanna marcusiana della società è giusta in tanti aspetti, e lo stesso si può dire
delle sue osservazioni critiche rivolte alla filosofia della scienza, al positivismo, allo
scientismo e alla filosofia analitica. Anzi alcuni elementi di tale critica, oggi ampiamente
noti, sono stati utilizzati dai filosofi, in contesti diversi dal pensiero marcusiano, ad
esempio per rivalutare la cultura e la filosofia classica, per augurarsi il ritorno ad
Aristotele e a San Tommaso, nonché per suscitare una maggiore adesione alla moralità,
alla religione e ai valori umani. È vero che la società attuale, se non si possiedono certi
valori, tende facilmente a ridurre l’uomo a merce, ad un frammento dell’ingranaggio
economico, senza che ci sia spazio per un’attività che si collochi all’infuori del gioco
economico.

Tuttavia, la visione critica marcusiana è molto unilaterale ed esagerata. È


ragionevole, ad esempio, che per affrontare le difficoltà che trovano i lavoratori in
un’azienda si cerchino soluzioni concrete ed oggettive. Questo atteggiamento, per
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Marcuse, significherebbe invece patteggiare col sistema, lasciarvisi inghiottire. L’unica


via di uscita sarebbe l’opposizione totale, un’uscita che in fondo è sterile e inattuabile.

Il difetto di fondo della critica di Marcuse è che, anche se talvolta si riferisce alla
filosofia classica in un tono nostalgico e comprensivo, in definitiva l’impostazione appare
come una nuova versione della dialettica hegeliana, nella quale predomina la negazione e
la contraddizione.

Questo spiega perché la sua critica sia purtroppo da ritenere inutile, anche se fosse
realizzato seriamente l’intento di operare una distruzione completa della società attuale,
come difatti è accaduto in movimenti di pensiero, specialmente ideologici, antioccidentali
o di critica radicalizzata, fino ad arrivare al terrorismo (il che comunque non è la pretesa
di quest’opera).

L’atteggiamento di fondo marcusiano non è però sempre del tutto coerente, dal
momento che nella parte conclusiva si fanno avanti certe proposte concrete che non sono
distruttive, come ad esempio quella di lavorare soltanto in funzione delle necessità vitali,
senza sprechi, con cura e riguardo della natura. Sono però proposte alquanto generiche, e
dato che egli stesso ne vede la poca efficacia, finiscono per favorire l’atteggiamento di
negazione totale dello “stabilito”, senza una proposta positiva.

L’orizzonte delle condanne e dei richiami non è purtroppo né fortemente morale né


religioso, ma piuttosto umanistico, con un tono estetico, talvolta edonico, e, si può
pensare, utopico. È chiaro che Marcuse desidererebbe arrivare ad una situazione ideale di
un mondo più piccolo, meno popolato, dove ci fosse il tempo per dedicarsi all’arte, alla
poesia, basato su una certa antropologia freudiana, con il soddisfacimento degli istinti
vitali, in un modo però elegante, senza la banalizzazione commerciale.

Sembra, in definitiva, di trovarci davanti a una reinterpretazione combinata di


Hegel, Marx e Freud (lavoro alienante, repressione degli istinti, forza della negazione) in
sintonia con le critiche della scuola sociologica di Francoforte alla razionalità strumentale
della società moderna, già denunciata in altri tempi da Max Weber. Marcuse, però, non
avverte che, quando egli sostiene la necessità di ridurre drasticamente la popolazione,
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senza volerlo contribuisce ancora alla scomparsa degli antichi valori morali, che egli vede
comunque con nostalgia, offrendo così un nuovo sostegno alla società di cui si lamenta.

Alcune delle critiche di quest’opera sono giuste e potrebbero essere utilizzate in


altri contesti. Così come si presentano in questo libro rimangono alquanto semplici (pur
esprimendosi in un linguaggio complicato) e non servono, a mio avviso, per un’analisi
efficace dei mali della società moderna, anche perché non puntano a rimedi profondi, ad
esempio di natura etica e sapienziale. Così, la sua critica alla filosofia analitica, anche se
potrebbe risultare simpatica agli avversari di tale filosofia, in realtà manifesta
un’incomprensione di fondo di tale corrente filosofica, di cui qui viene presentata
piuttosto una caricatura. Ci sono autori, sia di destra che di sinistra, che hanno esercitato
questo tipo di critiche della società moderna occidentale, in un modo altrettanto
semplificato, il che può facilmente accattivare persone giovani ad appassionate. Ma solo
in una prospettiva metafisica e antropologica profonda ed equilibrata si possono superare
le contraddizioni del nostro mondo contemporaneo e proporre soluzioni viabili e che non
portino a nuove distruzioni.

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