Ha contribuito a costruire una forma mentis contemporanea. Questo testo, per la sua straordinaria
capacità di analisi, può offrire spunti non solo sul nostro tempo, ma anche sulle responsabilità che
noi individui abbiamo sulle condizioni e l’assetto del nostro tempo. L’orizzonte di pensiero entro
cui nasce Dialettica dell’illuminismo è: la Scuola di Francoforte. Questo nome, dato a posteriori,
richiama tutti quegli studiosi raccolti intorno all’Institut für Sozialforschung, una scuola di studi
filosofici, giuridici, economici e politici, che univa il pensiero storicistico-dialettico di Hegel, al
pensiero marxista ed alla psicoanalisi di Freud.
Tale istituto, nei suoi studi sulla società avanzata e capitalistica, non era visto di buon occhio,
poiché indagava le contraddizioni e le crisi del reale. Tant’è che il giorno stesso in cui Hitler fu
nominato Cancelliere del Reich, ovvero il 30-01-1933, l’abitazione di Horkheimer e
dell’economista Pollock venne occupata dalle SA e in marzo l’istituto venne perquisito e chiuso
dalla polizia, reo di aver svolto attività antistatali e in aprile Horkheimer fu espulso dall’università
di Francoforte. Da qui questi studiosi, tedeschi ma di origine ebraica, saranno costretti a muoversi
tra Parigi, Londra e gli Stati Uniti.
Dopo il conflitto l’istituto ritorna in Europa e accoglierà altri studiosi, di cui forse il più eminente,
di questa terza fase, sarà Jurgen Habermas.
Quali sono i nuclei tematici di cui si occupa la Scuola di Francoforte che hanno una ricaduta
all’interno dell’opera di Adorno ed Horkheimer? Prima di tutto, un’analisi dei totalitarismi. I
francofortesi negli anni Trenta, si troveranno difronte ad un evento sconvolgente, cioè la nascita e lo
sviluppo dei fascismi in Europa. Quindi un terreno di indagine era verificare se, la nascita di questi
regimi totalitari, fosse la conseguenza del capitalismo, o se fossero fenomeni totalmente
indipendenti. Conseguente a questo tema sarà il rapporto tra marxismo e psicoanalisi: i francofortesi
tenteranno di stabilire possibili rapporti tra psicoanalisi e teoria critica della società, con l’obiettivo
di studiare i meccanismi psicosociali delle masse, viste da questi pensatori, prone e in totale
venerazione di uomini di potere, studiando le origini della violenza. il terzo nucleo è la critica della
cultura di massa, uno dei capitoli fondamentali di questo testo, dedicato appunto all’industria
culturale.
Il saggio è diviso in cinque capitoli: nel primo viene esposta la tesi principale, l’illuminismo,
spiegato tramite due excursus nei seguenti due capitoli; un quarto capitolo dedicato all’industria
culturale e il quinto sugli elementi dell’antisemitismo, dove si mostra come il razionalismo tenda
all’autodistruzione.
Nel 1942 era stato già stato composto il primo capitolo, il percorso su Odisseo e parte del capitolo
sull’industria culturale, nel 43 venne aggiunto il quinto, nel 44 uscì la versione ciclostilata.
Non è, volutamente, un testo semplice, proprio perché una delle accuse che Adorno e Horkheimer
rivolgevano alla cultura contemporanea era quella di un eccessivo appiattimento. Vuole
intenzionalmente riflettere la complessità del reale che descrive, è paratattico e non sintattico,
frammentario come frammentaria è la realtà. È una scrittura molto affascinante perché riflette con
estremo disincanto e realismo il senso della crisi e della lacerazione, che anche noi contemporanei
spesso proviamo. Anche nei Minima Moralia, meditazione sulla vita offesa Adorno elenca la
minaccia, il condizionamento, la standardizzazione e l’essere votata ad una produttività e
pragmatismo disumani, esposta alle voglie dei vari poteri.
Quale problema affronta e come, Dialettica dell’Illuminismo, diviene un punto di svolta nella
riflessione filosofia del 900. Data l’ampiezza di conoscenze di cui disponiamo, i mezzi tecnici a
nostra disposizione, la scienza che padroneggiamo, questo mondo dovrebbe essere un posto
meraviglioso, perfettamente organizzato, rispondente ai bisogni individuali e collettivi, rispettoso
delle risorse, le quali dovrebbero essere ripartite equamente; tuttavia, tutta la scienza, le conoscenze
e i mezzi tecnici, non sembrano proteggere l’umanità, come testimoniano Adorno e Horkheimer, i
quali videro mezzi sempre più raffinati e avanzati per condurre guerre, operare sperequazioni,
distruzioni sistematiche, sconvolgimento degli assetti naturali. Il mondo di cui noi siamo testimoni,
può tranquillamente trasformarsi in uno spettacolo di barbarie, pur essendo all’interno di una società
ipertecnologica, consapevole delle istanze morali che dovrebbero governare tutte le azioni che si
intraprendono. Sappiamo tutto, eppure quel patrimonio di conoscenze non ha trasformato il mondo
in una nuova Arcadia o in un nuovo Eden, neppure cancellano quel sentimento della vita offesa.
Sin dall’inizio del testo veniamo esposti alla tempesta del dubbio che forse la convinzione dei
pensatori moderni, che la scienza sia premessa e condizione di un percorso di progresso ed
emancipazione dai nostri limiti esistenziali, quella stessa fiducia forse è eccessivamente ottimistica.
L’illuminismo, mito del progresso da perseguirsi su basi razionali, forse ha limiti strutturali che ne
determinano la fallacia.
L’analisi da cui partono Adorno ed Horkheimer è molto affascinante, tentano di spiegare quel salto
di ragione, i motivi per i quali la ragione non mantiene le proprie promesse di felicità. Quindi, i
lettori della Dialettica dell’illuminismo sono subito costretti a dubitare della nostra idea di ragione,
in modo da analizzare criticamente la nostra fiducia nella sua infallibilità. Quello che affermano va
contro il giudizio hegeliano, ossia: forse il reale non è razionale, il razionale non è sempre
coincidente, ma talvolta in opposizione con il reale. La formulazione della dialettica negativa vede
qui la sua prima esposizione. In Hegel c’è una sintesi che ricompone i momenti contraddittori della
tesi e dell’antitesi, per adorno e Horkheimer, invece, ci sono solo contraddizioni per le quali non è
possibile trovare nessuna sintesi che giustifichi la loro esistenza e resistenza in quel siffatto modo.
Sul tema della ragione Horkheimer aveva già tenuto delle lezioni presso la Columbia University nel
1944, confluite, poi, in uno dei suoi testi più famosi, Eclissi della Ragione (1947). Qui distingueva
tra una ragione oggettiva e una ragione soggettiva. La prima è la ragione classica, di Platone,
Aristotele, che tiene conto della realtà nel perseguimento dei suoi fini. La ragione soggettiva è,
invece, la ragione del positivismo, quella ragione che non tiene conto del reale e lo piega alla
realizzazione dei propri scopi, una ragione quindi che non bada alla razionalità dei fini, ma
semplicemente è concentrata sui mezzi per perseguire quei fini. La ragione oggettiva, ad esempio, è
quella che si interroga sull’opportunità delle modificazioni genetiche, quella soggettiva ricerca
direttamente gli strumenti per proseguire su quella strada, senza interrogarsi sul senso, sui valori di
tali azioni. È la ragione occidentale, da Bacone ad oggi: Scientia est potentia. La conoscenza della
natura deve servire per piegare le sue forze al nostro dominio. È la ragione della rivoluzione
scientifica, del cogito cartesiano, dei positivisti, dei neopositivisti e dei pragmatisti. È proprio
questa ragione soggettiva, intesa come strumento, a trovarsi al centro della teoria critica della
Dialettica dell’Illuminismo. Opera che ha un inizio memorabile, già indicando una chiave di lettura
dell’analisi che si porterà avanti per tutto il testo, l’incipit del primo capitolo recita: «l’illuminismo,
nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre l’obiettivo di
togliere agli uomini la paura e di renderli padroni, ma la terra interamente illuminata splende
all’insegna di trionfale sventura».
Questo ha portato l’illuminismo, non un continuo progresso, ha illuminato la terra di una sventura
di cui Adorno e Horkheimer sono testimoni, e in parte – con tutte le mutazioni del caso – siamo
testimoni noi stessi. Gli autori ci dicono che la ragione illuministica, ha compiuto un’inversione, ha
rovesciato sé stessa. Assistiamo alla realizzazione dell’esatto contrario di ciò che la ragione
illuministica si prefiggeva di realizzare. Il pensiero in continuo progresso ha reso possibile la
carneficina delle due guerre mondiali, i gas chimici di Auschwitz, la creazione di una bomba
atomica, questa può essere la scienza al servizio della potenza. La ragione è un falso mito che va
ridimensionato, non è lo strumento di emancipazione, di libertà e uguaglianza nel quale credevano i
pensatori moderni, ma un servizio di alcuni uomini per il dominio su altri uomini. Questo accade
non solo nel mondo dei totalitarismi, ma anche nelle società capitalistico-industriali, forma, questa,
a sua volta totalitaria. Anche oggi, in un mondo liberalista, capitalista, trionfante sono tutt’altro che
fugate la crisi, l’infelicità, la lacerazione.
La tesi di Adorno e Horkheimer è che il rovesciamento dialettico del progetto illuministico nel suo
contrario, non è casuale. È nella logica dell’illuminismo.
Qualunque progresso sul piano della conoscenza, può essere un regresso sul piano dell’esistenza.
Come già avvertiva in Vita activa Hannah Arendt (1958), la quale diceva che le scienze della
natura, le tecnologie moderne non si limitano più ad osservare i processi naturali, ma intervengono
sui processi materiali, arrivando ad avere conseguenze non preventivabili né controvertibili. Il
concetto di Illuminismo, che apre la lettura di questo testo, viene esemplificato attraverso due
Excursus. Ulisse l’eroe omerico, diviene l’incarnazione dell’uomo borghese. Si fece legare
all’albero maestro per sentire la voce delle sirene, le quali erano, nella mitologia greca, delle
creature mostruose con il volto di donna e il corpo da uccello, dal medioevo in poi, invece,
divennero ragazze bellissime con la coda da pesce. Con la loro straordinaria voce attiravano gli
uomini, i quali, assuefatti, venivano brutalmente uccisi. Ulisse, curioso, si fa legare all’albero
maestro, per evitare il rischio della tentazione, e ascolta il loro canto. Costringe, invece, i suoi
uomini, ad indossare tappi di cera, affinché non udissero il canto e continuassero a remare. Da tutto
questo, Adorno ed Horkheimer, ricavano l’allegoria dell’uomo moderno che non si concede il
piacere, non si abbandona alla bellezza, poiché chiuso in una vita di assoluto pragmatismo e di
produttività. Addirittura, i rematori sono l’incarnazione dell’operaio moderno, aggiogati sotto il
medesimo ritmo della fabbrica. L’impotenza dei lavoratori è la conseguenza logica della società
industriale. Allora, gli autori, introducono il tema dell’industria culturale.
Quello che molto lucidamente mettono in rilevo è che le stesse logiche di oppressione, asservimento
e conformismo che ineriscono e sono costitutive della società capitalistica contemporanea,
investono anche quel campo che sembrerebbe costituire l’antidoto a questo stato di cose: la cultura.
Il concetto di cultura viene revisionato in toto, nell’idea che nella società contemporanea anche la
cultura è oggetto di consumo, merce che si offre ai consumatori da parte di un’industria. La cultura,
che è sempre stata il luogo della libera espressione, del libero pensiero e dell’originalità creativa, in
realtà è semplicemente merce fra le altre merci, i suoi prodotti simili a tutti gli altri prodotti di
consumo: standardizzati, omologati, piegati alle logiche del mercato. La cultura è oggetto di
produzione da parte della società capitalistica nel suo stato avanzato, come ogni altro prodotto
industriale. Allora la critica di Adorno e Horkheimer si rivolge a quell’azzeramento degli spazi in
cui è possibile una riflessione critica e un libero pensiero. È una posizione che offre molti spunti di
riflessione sul contemporaneo, mostra la sua urgenza proprio per la capacità pervasiva dei mezzi di
comunicazione.
Dialettica dell’illuminismo
Capitolo su: L’industria culturale. Quando l’illuminismo diventa mistificazione
«La tesi sociologica che la perdita del sostegno rappresentato dalla religione oggettiva, la
dissoluzione degli ultimi residui della società precapitalistica, la crescente differenziazione tecnica e
sociale e la tendenza allo specialismo abbiano dato luogo a un caos culturale e smentita ogni giorno
dai fatti. La civiltà attuale conferisce a tutti i suoi prodotti un'aria di somiglianza. Il film, la radio e i
settimanali costituiscono, nel loro insieme, un sistema. ogni settore è armonizzato al suo interno e
tutti lo sono fra loro.»
Potremmo pensare che con la specializzazione dei vari saperi siamo difronte ad un caos culturale, in
realtà è esattamente il contrario. Il caos culturale può essere foriero di innovazioni e visioni
originali. L’industria culturale determina l’appiattimento dei prodotti culturali, che sono l’opposto
di uno stato culturale caotico. Tutti i generi culturali rispondo alle stesse logiche e nulla reca il
segno dell’originalità o dell’allontanamento da un gusto consolidato e diffuso, sia che si tratti di
film, radio o televisione, il livello qualitativo più o meno è omogeneo. Si arriva a perdere la
distinzione tra arte bassa e arte alta, proprio perché viene a crearsi un sistema organico, un processo
di cui noi stessi siamo testimoni. Questo fa si che lo stesso concetto di dignità artistica vada
rifunzionalizzato. Chiunque inneggi alla qualità della cultura tradizionale, quando era ancora libertà
e innovazione, viene tacciato di snobismo intellettuale, di elitarismo, mentre i prodotti dell’industria
culturale si vantano di essere fortemente democratici, fruibili dal maggior numero di persone.
Arte, industria, poteri economici, i film e la radio scrivono Adorno ed Horkheimer «non hanno più
bisogno di spacciarsi per arte. La verità che non sono altro che ‘affari’ serve loro da ideologie che
dovrebbe legittimare le porcherie che producono deliberatamente. Si autodefiniscono industrie e
rendendo note le cifre dei redditi dei loro direttori generali, soffocano ogni dubbio possibile circa
la necessità sociale dei loro prodotti.»
La differenza fra prodotti alti e bassi è inesistente. Tutti i prodotti dell’industria culturale si
somigliano, sono facilmente fruibili, la differenziazione è solo formale, quantitativa, non
qualitativa. I due autori come alla fine i prodotti differenziati meccanicamente fra di loro si rivelano
sempre identici. La differenza fra la serie dei tipi della Chrysler è quella della General Motors è, in
definitiva, illusoria e lo sanno anche i bambini che vanno pazzi per queste cose. I pregi e gli
svantaggi discussi dai conoscitori servono solo ad eternare una parvenza di una concorrenza e di
una possibilità di scelta. Le cose non vanno diversamente per le produzioni della Warner Brothers o
della Metro Goldwin Meyer, ma anche fra i tipi più cari e meno cari della collezione di modelli per
la stessa ditta le differenze tendono a ridursi sempre di più. Nelle automobili la differenza nella
cilindrata, nello spazio interno, nelle date in cui sono stati brevettati i vari gadget; nei film la
differenza del numero dei divi, nello sfoggio di mezzi tecnici, manodopera, costumi, decorazioni; la
misura unitaria del valore consiste nella dose di conspicuous production, di investimento, messo in
mostra. Le differenze di valore preventivate dall'industria culturale non hanno nulla a che fare con
differenze oggettive, col significato intrinseco dei prodotti.
I prodotti dell’industria culturale, la cultura di cui noi siamo testimoni, non ha grosse differenze
sostanziali, questa risiede nella forza con cui vengono prodotte certe operazioni culturali, con cui
vengono comunicate, pubblicizzate. Ciò che fa la differenza è il tipo di investimento in quelle
operazioni. L’alibi dell’industria culturale, per rimuovere il concetto di arte, così com'era
tradizionalmente intesa, è che una proposta culturale facile, che in qualche modo sia acquiescente al
gusto consolidato, diffuso, e alle conoscenze di un largo pubblico, offre una possibilità di fruizione
molto più ampia. Quindi è una finta democratizzazione culturale quella che è stata avviata
dall'industria culturale, con la scusa di rendere un pubblico quanto più ampio possibile beneficiario
di certi prodotti culturali. Ciò giustifica il fatto che quei prodotti culturali, lungi dallo stimolare
l'intelligenza dello spettatore; invece, in qualche modo, siano acquiescenti con le conoscenze.
Quindi non producono uno sviluppo nel gusto e nelle problematiche che possono volta volta
affrontarsi nel pubblico, ma semplicemente si adeguano a uno stato di cose già esistenti. Se
l'industria culturale sembra detenere il governo dei prodotti culturali di cui noi disponiamo, di cui
dispone la società di massa, a sua volta l'industria culturale è prona ai dettami e ai voleri di altri
poteri, che sono i poteri ovviamente economici. Quindi se la tendenza sociale oggettiva delle aree in
cui viviamo si incarna nelle tenebrose intenzioni soggettive dei direttori generali, si tratta, in origine
e in prima istanza, di quelli dei settori più potenti dell'industria: acciaio, petrolio, elettricità e
chimica. Sono questi i poteri alla base della proposta culturale dei nostri tempi. Il monopolio
culturale rispetto a questi è debole e impotente. Se i grandi poteri economici orientano e in qualche
modo controllano l'industria culturale, la quale a sua volta, controlla i prodotti culturali, è chiaro che
i prodotti devono avere un effetto economico di ritorno. Lo stesso concetto di cultura viene
considerato come bisognoso di una rivisitazione, di una riconsiderazione, perché si inneggia alla
cultura come lo strumento che rende liberi. Adorno e Horkheimer si chiedono cosa si intende
quando si parla di cultura.
«La barbarie estetica attuale realizza effettivamente la minaccia che incombe sulle creazioni
spirituali fin dal giorno in cui sono state raccolte e neutralizzate come cultura. Parlare di cultura è
sempre stato contro la cultura, il denominatore comune ‘cultura’ contiene già virtualmente la presa
di possesso, l'incasellamento, la classificazione, che assume la cultura nel regno
dell'amministrazione. Solo la sussunzione industrializzata, radicale e conseguente, è pienamente
adeguata a questo concetto di cultura. Subordinando lo stesso modo tutti i rami della produzione
intellettuale all'unico scopo di otturare i sensi degli uomini, essa realizza sarcasticamente l'idea della
cultura organica, che i filosofi della personalità opponevano alla massificazione»
Quella stessa cultura organica, che doveva servire a liberare e rendere criticamente consapevoli gli
individui, diventa il suo contrario: strumento di massificazione e di omologazione inconsapevole.
Per l’industria culturale, esattamente come per l’industria commerciale, l’individuo diventa un puro
dato statistico, un tipo, non un soggetto. L’uomo è un target commerciale e, in questo, l’industria
culturale, mostra tutta la sua potenza e capacità di offrire a tutti ciò che chiedono.
Chiunque pensi che la barbarie estetica attuale dipenda da un mancato controllo sui suoi prodotti si
sbaglia, perché i prodotti delle industrie culturali sono estremamente controllati. Ovviamente i
criteri per i quali i prodotti vengono approvati e proposti alla fruizione del pubblico, e quindi
vengono presentati come cultura, rispondono a dettarmi ben diversi da quelli che orientavano la
critica tradizionale.
Il principio di libertà sembra essere negato dai controlli severi dell’industria culturale. Che parte ha
l’artista in tutto ciò? Nel momento in cui siamo testimoni degli eventi che passano come contro-
cultura, come rivoluzionari, trasgressivi, in realtà sono già inseriti all’interno del sistema Industria,
l’artista è sceso a patti e fintamente alza la voce. Se il ribelle fa vendere, può esprimere la sua rabbia
contro il sistema.
«Una volta registrato nella sua differenza dell'apparato dell'industria culturale, l'artista fa già
parte di essa come informatore agrario del capitalismo. La rivolta di chi tiene conto della realtà e
sa adeguarsi ad essa, diventa l'etichetta di chi ha una nuova idea da suggerire all'industria. La
sfera pubblica della società attuale non lascia diventare percepibile alcuna accusa nel cui timbro,
le persone fine d’orecchio, non siano in grado di riconoscere il potente, all'insegna e sotto la
protezione del quale, il protagonista della rivolta è disposto a riconciliarsi con loro. Quanto più
abissale diventa il distacco fra il coro e il vertice è più certo che, su quest'ultimo ci sarà posto per
chiunque sappia manifestare la propria superiorità con una originalità sapientemente organizzata.
Così anche nell'industria culturale sopravvive la tendenza del liberalismo a lasciare via libera alle
persone capaci che accettano i principi del sistema».