2013/2014
Il proposito di questo breve elaborato è di comprendere in cosa consista l’essenza della poesia
secondo Heidegger, avvalendoci principalmente dello scritto Hölderlin e l’essenza della poesia
(1936) del celebre filosofo tedesco. Heidegger individua nella produzione del poeta quelli che egli
definisce cinque detti-guida, che lo accompagnano lungo un percorso ragionato e intenso verso una
consapevolezza spiazzante sulla poesia.
1
Martin Heidegger, La poesia di Hölderlin (1981), trad. it. di Leonardo Amoroso, Milano: Adelphi, 1988, p. 41.
2
Ivi, p. 43.
3
Martin Heidegger, op. cit., pp. 43-44.
1
A una prima lettura, sembriamo trovarci davanti a una sorta di paradosso: come può il
linguaggio, culla della «occupazione più innocente di tutte», essere «il più pericoloso dei beni»? Per
rispondere a questa domanda cruciale, Heidegger ritiene di dover passare da alcune fasi intermedie.
Innanzitutto, leggiamo che il linguaggio è considerato da Hölderlin un bene dell’uomo. Che ruolo
ha allora l’uomo? Heidegger lo colloca prevedibilmente entro l’orizzonte del ‘da-sein’, come
fondamentale testimone di «ciò che egli è»4. Ne deduciamo che la testimonianza dell’uomo è nella
maniera più assoluta costitutiva della sua essenza: l’uomo testimonia in quanto egli è, testimonia il
proprio esserci come fondamento stesso dell’esserci entro cui si inquadra.
Ma ancora seguendo Heidegger, sappiamo che esiste un’altra dimensione costitutiva dell’uomo,
entro la quale l’uomo si muove originariamente: una dimensione decisionale, la dimensione del da-
sein stesso che si identifica nell’essenza medesima dell’essere-uomo. L’uomo si colloca in quella
che può definirsi un’apertura, nella quale e dalla quale vediamo dispiegarsi la suddetta
decisionalità: l’aver da essere alimenta l’essere-uomo come un compito attivo, che costantemente
deve svolgersi e rinnovarsi. Ecco la decisione dell’uomo, in cui si manifesta la sua testimonianza;
un compito cui l’uomo è chiamato dalla sua stessa essenza, dal da-sein cui appartiene e che si
dispiega solo e soltanto a partire da lui in un rapporto di immediatezza definitiva e costitutiva.
L’uomo accoglie il proprio compito e fa propria la decisione. Che cosa accade quando la
decisione si svolge negativamente (inautenticamente)? È proprio qui che si svela il sottile ma
abissale pericolo del linguaggio: il linguaggio è pericoloso «perché esso soltanto crea la possibilità
di un pericolo»5, ci dice Heidegger; è pericoloso come mezzo e non come fine, poiché è soltanto
attraverso il linguaggio che l’uomo può lasciare la propria testimonianza di ente atipico fra gli enti,
testimonianza che accade – evento – come storia. Il pericolo cui il linguaggio ci pone innanzi è
quello della dimenticanza dell’Essere, la possibilità di perdita che accompagna potenzialmente la
decisionalità costitutiva dell’essere-uomo: anche la non decisione, da parte dell’uomo, è frutto
dell’apertura originaria in cui egli sussiste in quanto tale. È la decisione che lo solleva dal decidere
e lo porta ad adattarsi, conformarsi, adagiarsi tra gli enti considerandosi uno di essi, una ‘cosa tra le
cose’ – dimenticando l’essere e sgravandosi dalla responsabilità del proprio compito. (E questa,
come ben sappiamo, non è una decisione moralmente peggiore di quella autentica; differisce da essa
ed è considerabile ‘negativa’ soltanto in termini ontologici.)
Si potrebbe asserire, in realtà, che il pericolo del linguaggio è in qualche maniera duplice: una
prima accezione l’abbiamo vista pocanzi e consiste, riassumendo brevemente, nella cosiddetta
minaccia dell’essere – e dunque nel rischio della dimenticanza dell’Essere. Tuttavia, Heidegger non
tarda a trovare in questo fondamentale bene dell’uomo un pericolo intrinseco, non meno importante
4
Ibidem.
5
Ivi, p. 45.
2
del primo, nonché permanente. Il linguaggio è utile a manifestare «tanto la cosa più pura e nascosta
quanto quella più torbida e comune», seguendo le parole heideggeriane, ed anzi «la parola
essenziale, per poter essere intesa e diventare così un patrimonio comune a tutti, deve addirittura
mettersi comune»6.
Cosa ne deduciamo? Se il linguaggio è il mezzo tramite cui sono dette tanto le parole pure
quanto quelle comuni, la difficoltà trasla su un diverso piano rispetto a quello in cui si trovava
prima: consiste ora nel riconoscere ciò che è essenziale da ciò che è un’illusione. Spesso, infatti, le
parole essenziali si manifestano nella loro purezza come qualcosa che è inessenziale, e
diversamente ciò che di primo acchito ci appare essenziale è in realtà qualcosa di comune, ripetuto,
la cosiddetta ‘chiacchiera’. Heidegger lo sostiene chiaramente nei Contributi alla filosofia: «con il
linguaggio abituale, che oggi è sempre più consunto e distorto, non si può dire la verità dell’Essere
[…] si può inventare un nuovo linguaggio per l’Essere? No»7. Sembra categorico, quasi definitivo.
Qual è dunque la soluzione, in questo domandare circolare che coinvolge essere-uomo e
linguaggio in un legame inscindibile?
Heidegger conferisce un’importanza fondamentale al silenzio, non come mancanza di
linguaggio, ma come parte integrante del linguaggio stesso. Forse è il silenzio, allora, quella
«radura del velamento» che ci consente di parlare dell’Essere – proprio tacendone – se, come scrive
Heidegger, «la verità dell’essenziale permanenza dell’Essere […] è la velatezza (il mistero)
dell’evento (l’indugiante diniego) che fa cenno e risuona»8.
Pare che interrogandoci a proposito dell’essenza del linguaggio non possiamo fare a meno di
interrogarci sull’essenza dell’uomo, e viceversa, trovandoci così a un punto in cui ciò che
dovremmo fare è interrogarci riguardo l’uomo come uomo parlante. A partire da tale premessa
possiamo concepire il linguaggio come un bene in senso originario: esso consente che «l’uomo
possa essere in quanto storico»9, gli concede la possibilità di risiedere nell’apertura dell’ente e
svolgere il proprio aver da essere. Nel paragrafo conclusivo dei Contributi, si definisce il
linguaggio, «sia esso pronunciato o taciuto, la prima e più vasta umanizzazione dell’ente»10.
Per districare ulteriormente la matassa dell’essenza del linguaggio, avanziamo insieme a
Heidegger fino al terzo detto-guida di Hölderlin: «Molto ha esperito l’uomo. / Molti celesti ha
nominato / da quando siamo un colloquio / e possiamo ascoltarci l’un l’altro»11.
6
Ibidem.
7
Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (1936-38), trad. it. a cura di Franco Volpi, Milano: Adelphi, 2007, p. 100.
8
Ibidem.
9
Martin Heidegger, La poesia di Hölderlin (1981), ed. cit., p. 46.
10
Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (1936-38), ed. cit., p. 489.
11
Martin Heidegger, La poesia di Hölderlin (1981), ed. cit., p. 47.
3
Gli uomini, scrive Hölderlin, sono un colloquio. Che cos’è un colloquio? È un parlare insieme,
una coesistenza di qualcuno che parla e qualcuno che ascolta. Dunque è qui che risiede
l’essenzialità del linguaggio: nell’essere-uomo come colloquio. Ma si rende necessaria, a questo
punto, una precisazione: il poeta non sostiene semplicemente che noi uomini siamo un colloquio;
egli scrive «da quando siamo un colloquio e possiamo ascoltarci l’un l’altro».
La rilettura di questi versi nodali ci porta a tre considerazioni importanti: la prima è che,
evidentemente, non siamo sempre stati un colloquio; la seconda è che a quanto pare, il cardine del
colloquio non è tanto il parlare, quanto l’ascoltar-ci. Ascoltarci persino come presupposto del
parlare insieme, nonostante sia chiaro che l’ascolto abbia bisogno della parola per la propria
sussistenza. Nondimeno, osserviamo in terzo luogo una certa unità di colloquio. Noi siamo un unico
colloquio. Che cosa significa? «Il colloquio, con la sua unità, sorregge il nostro esserci»12. Nella
parola essenziale, espressa nel colloquio, è manifesta di volta in volta la nostra essenza di
ascoltatori e parlanti.
Ma ritorniamo per un attimo alla prima considerazione, e chiediamoci ancora: da quando,
effettivamente, siamo un colloquio? Da quando siamo storicamente. Abbiamo osservato infatti
come sia conveniente analizzare l’essenza dell’uomo come uomo-parlante (potremmo dire anche, a
posteriori, uomo-ascoltante), poiché senza il linguaggio l’uomo non potrebbe portare a termine il
proprio compito di testimonianza di sé come ‘ente storico’. Possiamo dedurne che l’essere un
colloquio e l’essere storicamente coincidono, si appartengono – «sono il medesimo»13. Il colloquio,
come autentico accadere del linguaggio, è possibile infatti soltanto alla luce di qualcosa che
persiste, stabile, poiché solo a partire da una tale stabilità – scrive Heidegger – l’uomo può esporsi
al mutevole; è mutevole soltanto ciò che persiste.
Ma chi ci conduce al colloquio? Chi è che permette agli uomini di divenire un colloquio?
Heidegger introduce in questo frangente gli dèi. La presenza degli dèi è contemporanea
all’accadimento del linguaggio come colloquio, e dunque all’apparire del mondo come da-sein
(fermo restando il fondamento dell’uomo nel linguaggio, e viceversa). Gli dèi sono i primi a essere
nominati, ma il nostro nominarli è legato e conseguente al loro richiamo: «la parola che nomina gli
dèi è sempre una risposta a questo richiamo»14. Ritorniamo così al momento della decisione in cui,
di volta in volta e costitutivamente, si trova l’uomo in quanto essere-uomo, e dunque in quanto da-
sein. Noi siamo un colloquio da quando gli dèi ci chiamano al colloquio; da quando esiste il
linguaggio come evento fondante dell’essere-uomo.
12
Ibidem.
13
Ivi, p. 48.
14
Ivi, p. 48-49.
4
Continuando a seguire il filo di Heidegger, chiediamoci ora: come ha inizio questo colloquio cui
gli dèi ci conducono? Chi dà vita al nominare gli dèi, cogliendo qualcosa di stabile nel tempo e
fissandolo come parola essenziale nel colloquio nascente?
Ci accostiamo così al quarto detto-guida di Hölderlin: «ma ciò che resta, lo istituiscono i
poeti»15.
E con questo quarto punto cruciale, ritorniamo al tema iniziale: l’essenza della poesia. Attraverso la
parola, con la poesia, i poeti istituiscono – cosa? Ciò che resta, ovvero ciò che è stabile. Ma come
può, si chiede Heidegger, essere istituito ciò che è già stabile? Deve esserlo, deve essere «strappato
alla confusione»16, poiché come abbiamo visto è proprio ciò che è stabile a sostenere, nell’apertura,
l’insieme degli enti. Come può l’ente apparire senza che l’Essere sia dischiuso? E l’Essere si
dischiude, sfuggente, solo congiuntamente all’essere stabile e persistente di ciò che è stabile e
persistente.
È il poeta a nominare gli dèi, in primis, e non è un banale nominare rappresentativo,
nozionistico. È un dire la parola essenziale, che permette all’ente, nominandolo, di essere ciò che è:
di essere ente. «La poesia è istituzione in parola dell’Essere»17, scrive Heidegger; attraverso la sua
parola – che ora non ci sembra più così innocua – il poeta nomina le cose con nomi oscuri, si fa
portatore della fondamentale dialettica di velamento e svelamento propria dell’Essere, lasciando che
quest’Essere emerga dalla poesia stessa e istituendolo in maniera poetica, nella dimensione che
conosce ed entro cui liberamente crea, inventa, decide. E quando in origine nomina gli dèi, dando
fondamento alla confusione tramite l’istituzione di ciò che resta, il poeta conduce allo stesso
fondamento anche il da-sein come uomo: «il dire del poeta è istituzione […] nel senso della
fondazione dell’esserci umano sul suo fondamento»18, scrive infatti Heidegger.
È questa, dunque, l’essenza della poesia: l’istituzione in parola dell’Essere. E tramite di essa
veniamo al quinto ed ultimo detto-guida di Hölderlin: «Pieno di merito, ma poeticamente abita /
l’uomo su questa terra»19.
Nonostante ciò che l’uomo ha costruito e continua a costruire sia degno di merito, poiché
ottenuto lavorando e faticando, l’essenza del suo abitare sulla terra è «poetica» nel suo fondamento.
Ciò significa che la fatica e il merito umani non hanno alcuna rilevanza per l’essenza dell’abitare
dell’uomo sulla terra. Cosa intendiamo, dunque, per «abitare poeticamente»? È un replicato
richiamo all’essenza dell’uomo come da-sein: l’essenza dell’uomo consiste, scrive Heidegger, nello
15
Ibidem.
16
Ibidem.
17
Ivi, p. 50.
18
Ibidem.
19
Ivi, p. 51.
5
«stare alla presenza degli dèi ed essere toccati dalla vicinanza essenziale delle cose»20, e ben lungi
dall’essere un merito umano si dispiega invece, puramente, come dono.
Possiamo dunque affermare che la poesia non è affatto una semplice espressione, meramente
circoscrivibile nell’ambito artistico della produzione umana. Essa è, come abbiamo visto, il
fondamento dell’essere-uomo storicamente fondato, «è il linguaggio originario di un popolo
storico»21. E giunti a questo punto, non sarebbe saggio sottovalutare le implicazioni di una tale
affermazione.
Ricapitolando, infatti, troviamo che il colloquio come accadere autentico del linguaggio è il
fondamento dell’essere-uomo, e al contempo sappiamo che è la poesia il linguaggio originario, in
quanto istituisce l’Essere. Come può una posizione così cruciale per l’essenza stessa dell’uomo
conciliarsi con il primo detto-guida di Hölderlin, secondo cui la poesia non è altro che
un’occupazione innocente, anzi, la «più innocente di tutte»?
Heidegger continua la propria ricerca nella poesia hölderliniana: «Ma a noi compete sotto le
tempeste del dio, / o poeti, stare a capo nudo, / afferrare dal padre il raggio stesso con la mano / e
porgere al popolo, velato / nella canzone, il dono divino»22.
Sembra davvero lontano, questo esser poeti, dal risultare come un’occupazione innocente.
Definirlo tale non è forse dunque una maniera per proteggere se stessi e coloro che si amano
(Hölderlin definisce infatti innocente la poesia in una lettera alla madre)? Forse, in altre parole,
evidenziare quest’apparenza innocua della poesia e proporla pubblicamente come sua essenza
diventa, per il poeta, l’unica maniera per sopravvivere all’arduo, fondamentale compito cui è
destinato: raccogliere l’uomo sul fondamento del proprio esserci23. Sembra una soluzione
plausibile. L’aspetto giocoso e inoffensivo della poesia cela qualcosa di davvero pericoloso. In essa,
l’uomo pericolosamente si avvicina all’Essere, a una «quiete infinita in cui tutte le energie e tutti i
riferimenti sono in movimento»24. La parvenza onirica che suscita in noi la poesia è invece la realtà,
e ciò che ci troviamo innanzi, tangibile e concreto, ciò che crediamo di conoscere, non è altro che
illusione.
Ma se «ogni istituzione resta libero dono», e persino Hölderlin – quasi in una specie di
esortazione a sé e a chi, come lui, ha in sé il destino del poeta – esclama «siano liberi come rondini i
poeti»25, la poesia rimane salda nella propria essenza, anche grazie alla sua maschera di gioco, e
20
Ibidem.
21
Ivi, p. 52.
22
Ivi, p. 53.
23
Cfr. ivi, p. 54.
24
Ibidem.
25
Ibidem.
6
non perde la propria libertà. Ma non si tratta di una libertà svincolata e totale, «capricciosa»: è una
suprema necessità, fondata nel ricevere dagli dèi e nel donare agli uomini.
Ecco svelarsi l’abbagliante profondità delle parole di Heidegger, quando definisce Hölderlin
«poeta del poeta»26. La sua è una poesia che si proietta verso i venturi, poiché vede in se stessa quel
destino essenziale che è proprio di tutti i poeti.
26
Ivi, p. 56.