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EPISTEME
Physis e Sophia nel III millennio

An International Journal
of Science, History and Philosophy

N. 7 - 21 dicembre 2003

Volume II
4

Redazione (bartocci@dipmat.unipg.it)
"Episteme"
c/o Dipartimento di Matematica e Informatica
Università degli Studi
Via Vanvitelli - 06100 Perugia

Direttore Responsabile Euro Roscini (Supplemento semestrale ad: Arte in Foglio, Pubblicazione
registrata presso il Tribunale di Perugia, N. 36/1991)

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ISSN 1593-3482
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EPISTEME
Physis e Sophia nel III millennio/Physis and Sophia in the III millennium

An International Journal of Science, History and Philosophy

N. 7 - 21 dicembre 2003 / 21st Dec. 2003

[La diffusione via Internet di sezioni della rivista può avvenire anche prima della data indicata - Sections of
Episteme can be available in Internet even before the previous date]

Informazioni editoriali/Editorial Policy


Pubblicazioni e informazioni ricevute/Received books, journals and news

1 - Arcangelo Papi: San Francesco, le stimmate e la Sindone - Una possibile antistoria del
cristianesimo (Volume II)
[Un commento di Sabato Scala, con un'ipotesi costruttiva della Sindone a partire dai testi
gnostici] (Volume II)

2 - Sabato Scala: I principi della gnosi nella orientazione delle cattedrali medievali (Volume
II)

3 - Francesco Vitale: L'astronomia nell'antica Pompei e nella Magna Grecia

4 - Alberto Arecchi: Come l'Argentina diventò l'Antartide! - La carta di Piri Re'is, un mito
cartografico che dura da quarant'anni

5 - Emilio Spedicato: On the geography of Eden in Enoch and in Sumerian/Akkadian


sources

6 - Bruno d'Ausser Berrau: Ubinam gentium sumus? - Un Eden ed un popolo o più luoghi
e più genti?

7 - Oktawian Nawrot: What is foetus?

8 - Ezio Albrile: Abissi gnostici

9 - Lino Lista: Il Mistero del Vino di Cana

10 - Umberto Lucia: Dalla cultura matematica una lingua … universale

11 - Alberto Bolognesi: Teoria e osservazione

12 - " " : Foolproof - On All and On Nothing

13 - Emidio Laureti: Dall'impulso nascosto in elettrodinamica classica all'impulso nascosto


nella propulsione non newtoniana
6

Reprints (Volume II)

Jean-Baptiste de Mirabaud: Opinion des Anciens sur le Monde (a cura di Massimo


Cardellini)

Paul Maury: Le secret de Virgile et l'architecture des Bucoliques

Commenti ricevuti/Received Comments

Sante Anfiboli: Una notula sul contenuto iniziatico effettivo dei Misteri Eleusini

Franco Baldini: Postilla a "Una questione relativa alle origini della massoneria" (Episteme,
N. 3)
[Un commento di Bruno d'Ausser Berrau]

Alberto Bolognesi: La cosmologia soppressa

Sabato Scala: Leonardo da Vinci conosceva un testo ritrovato a Qumran?


[Un commento dalla redazione di Episteme]

Strabone: UFO? Ubbia e Fomento Ossessivo

Recensioni/Reviews

Paul Davies: Come costruire una macchina del tempo (Alberto Bolognesi)
[Un commento dalla redazione di Episteme]

Alberto Donati: Principi di metafisica dualistica (Arcangelo Papi)

Margherita Hack, Pippo Battaglia, Walter Ferreri: Origine e Fine dell'Universo (Alberto
Bolognesi)

Antonio Lima-de-Faria: Evoluzione senza selezione - Autoevoluzione di Forma e Funzione

Lucio Russo: Flussi e riflussi - Indagine sull'origine di una teoria scientifica

Il prossimo numero di Episteme...


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San Francesco, le stimmate e la Sindone:


una possibile antistoria del cristianesimo

(Arcangelo Papi)

PARTE PRIMA

I. PREMESSA

I.1. Per un lavoro come questo, sembra necessaria una premessa, al tempo stesso un
avvertimento. Non abbiamo pretese di storicità, e ciò che diremo potrebbe raccordarsi ad una
fiction, trattandosi infatti di una traccia meramente ipotetica. Il rischio della fantastoria è
chiaramente insito nelle trame indiziarie, i cui elementi simul stabunt aut simul cadent. La
nostra "antistoria" (con tutti i limiti che la caratterizzano) vuole essere soltanto la 'narrazione
di una congettura', cioè una specie di suggestivo racconto di possibili oscuri risvolti, e non
certamente un attacco alla fede. Esporremo tutta una serie di indizi (i quali tali restano non
potendo assurgere al rango di prova), che dal medioevo francescano si ricondurrebbero alla
morte di Gesù, attraverso la Sindone, il famoso telo di lino, che rimonterebbe a quasi duemila
anni fa, e che riteniamo perfettamente genuino (malgrado la recente radiodatazione al
carbonio 14, che ne proverebbe secondo la scienza l'origine medievale, e perciò solo, la
sostanziale falsità). Se potessimo applicare un'etichetta, diremmo che si tratta di una trama del
possibile, a costo dell'improbabile. Viene dunque affrontato un argomento assolutamente
aleatorio, sigillato nel mistero, e non potrebbe essere fornita altra garanzia, se non quella di
un'astratta coerenza. Una siffatta impresa si potrebbe paragonare alla ricerca di un 'giallista'
dilettante (che fa, appunto, le cose per "diletto"!), al quale compete, esclusivamente,
un'istanza di ragionevolezza, rispetto all'invisibile e sotterraneo dipanarsi d'incontrollabili
eventi, senza alcuna pretesa di sostituirsi allo storico. Non disponendo di altre garanzie, non
potremo dire, come afferma San Paolo (Tess. 5, 21), "esaminate ogni cosa e tenete ciò che è
buono". Ma alla stregua d'una qualsiasi indagine ricostruttiva, varrà l'avvertimento
dell'"escludi l'improbabile e il probabile verrà fuori da sé". Quindi il lettore è avvertito. Egli
assisterà al dipanarsi di una trama, che gli viene per così dire 'narrata' col solo fascino delle
allusioni e senza l'inoppugnabile crisma della storicità. Non vogliamo infatti incorrere in una
indebita invasione di campo nell'ambito della storiografia ufficiale, ma soltanto profilare gli
estremi di un percorso alternativo.

I.2. In ogni caso forniremo un kit bibliografico di riferimento - si passi l'espressione -


direttamente inserito nel testo, poiché non è questo un articolo scientifico, munito di note,
trattandosi invece d'una ricostruzione che può fungere soltanto da stimolo. Nondimeno ciò
consentirà il controllo di tutte le nostre affermazioni, che attengono ad un percorso singolare
e inconsueto. La falsificazione dei nostri assunti non arrecherebbe alcun danno alla verità, ed
anzi aiuterebbe a sbrogliare il singolare intreccio di elementi che crediamo di aver scorto e
che ci accingiamo ad esporre col corredo di alcune immagini, parte delle quali messeci a
disposizione dall'amico Marco Francalancia (che, va da sé, ringraziamo sentitamente), nipote
del grande pittore del primo Novecento italiano Riccardo Francalancia. Tutto ciò nella
speranza di non annoiare troppo il lettore (malgrado i frequenti incisi che spesse volte
spezzeranno il racconto, facendo perdere per qualche attimo il filo) e soprattutto, di non
gravarlo di improbabili astruserie, fornendogli al contrario, com'è nostra speranza,
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interessanti, per quanto incertissimi, spunti di riflessione, in uno spaccato misterioso nel quale
non ci siamo inventati nulla, trattandosi, se mai, di errate interpretazioni, del che giudicherà il
lettore stesso.

II. LE STIMMATE DI SAN FRANCESCO

II.1. San Francesco - l'Alter Christus secondo la versione agiografica della Legenda Major di
San Bonaventura - fu il primo stimmatizzato della storia. In base alla descrizione di Tommaso
da Celano (che figura nella Vita Prima, III, 95, composta nel 1228-1229, e ritrovata soltanto
nel 1786, dopo l'ordine di distruzione di tutte le precedenti biografie, impartito nel Capitolo
generale di Narbona del 1260), <<le sue mani e i piedi apparvero trafitti nel centro da
chiodi, le cui teste erano visibili nel palmo delle mani e sul dorso del piede, mentre le punte
sporgevano dalla parte opposta. Quei segni poi erano rotondi dalla parte interna delle
mani, e allungati nell'esterna, e formavano quasi un'escrescenza carnosa, come fosse
punta di chiodi ripiegata e ribattuta. Così pure nei piedi erano impressi i segni dei chiodi
sporgenti sul resto della carne. Anche il lato destro era trafitto come da un colpo di lancia,
con ampia cicatrice, e spesso sanguinava, bagnando quel sacro sangue la tonaca e le
mutande>>. Questa descrizione lascia invero molti dubbi, anche perché non si capisce bene
quanti siano stati i chiodi delle ferite, se appunto tre o quattro. Sembrerebbe tre soltanto, con
un solo chiodo per i piedi. Del resto la questione delle stimmate non termina qui, e non si
risolve in questo passo del primo biografo francescano. E' molto più articolata e complessa,
ed è diversamente affacciata nelle varie fonti che si susseguirono dopo il 1228, anno di
canonizzazione da parte di Gregorio IX ed anche della stesura della prima biografia ufficiale
del Santo, direttamente commissionata dal Papa a Tommaso da Celano, che fu, a propria
volta, frate francescano: prese infatti l'abito alla Porziuncola nel 1215, l'anno del famoso
Capitolo delle stuoie, e visse, almeno per un certo periodo, in intimità con San Francesco, il
che lo rende testimone credibilissimo a pena di falsità intenzionale. Importantissima fonte
francescana, Tommaso scrisse (sempre in latino) la Vita Seconda nel 1246-1247, quindi una
terza biografia, e infine il Trattato dei miracoli attribuiti dalla tradizione a San Francesco. La
sconvolgente versione delle stimmate riflette in ogni caso un evento clamoroso, e non può
essere considerata gratuita o addirittura inventata, ad appena due anni di distanza dalla morte
del Santo.

II.2. Alla fine del XII secolo e agli inizi del XIII alcuni mistici si infliggevano
deliberatamente delle ferite sulle tracce di quelle di Gesù. Il primo caso noto di vera
stigmatizzazione fu proprio quello di San Francesco, che tanto colpì il sentimento religioso
dell'epoca, fino a diventare, nei secoli, un dato necessario e scontato della vita del Santo.
Tommaso afferma che nelle sue ferite vi erano delle 'escrescenze carnose', a forma di 'veri
chiodi', anche nei piedi. Molti contemporanei furono tuttavia scettici, e tra questi (secondo le
fonti) il vescovo di Olmuetz, oltre il Papa stesso. Del resto la Chiesa non impone la fede nelle
stimmate, ed in effetti, secondo la Nuova enciclopedia cattolica (1967), non esiste nessun
elenco attendibile di persone stigmatizzate. Secondo la Columbia Encyclopedia, dal tempo di
San Francesco a oggi, circa 240 donne e 60 uomini 'cattolici apostolici romani', avrebbero
ricevuto le stimmate. I medici che studiarono alcuni casi di stigmatizzati, occorsi
nell'Ottocento, il grande secolo del positivismo scientifico, si dichiararono convinti della
"realtà obiettiva" delle stimmate ed anche dell'onestà personale di questi soggetti. Si sa di
stimmate ricevute da asceti musulmani, le cui ferite corrispondevano a quelle subite da
Maometto, quando guidò la lotta di diffusione dell'Islam. Nei casi scientificamente analizzati
le prove puntano tutte in direzione di una spiegazione naturale. L'individuo che ha le
stimmate può essersi inflitto da solo le ferite mentre si trovava in uno stato di estasi religiosa,
per poi non ricordare l'accaduto. Oppure può trattarsi d'un processo fisiologico, propriamente
di origine 'psicosomatica', secondo la versione dovuta alla medicina moderna. Questa
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spiegazione è stata applicata ad uno dei casi più clamorosi del Novecento, quello della tedesca
Theresa Neuman (Konnersreuth, Alto Palatinato). Ma la Neuman non fu sottoposta ad una
accurata visita medica che appunto potesse portare a una valida conclusione. Si è invece
scoperto che il posto in cui appaiono le stimmate è associato alle credenze religiose delle
persone che le presentano. Ed è questo, a nostro giudizio, un dato emergente assai indicativo,
capace di conciliare razionalità e fede, a prescindere dalla verità storica delle stimmate di San
Francesco.

II.3. Non si sa con certezza se Cristo fu ferito, dal famoso colpo di lancia, sul fianco destro o
su quello sinistro, anche se appare più coerente la prima ipotesi. Si può inoltre ritenere che un
solo chiodo abbia trafitto i piedi sovrapposti. Le risultanze archeologiche (1968), e si tratta di
un solo caso (Jehohanan), non sono affatto chiare (cfr. J. Zias e J.H. Charlesworth,
Crocifissione: l'archeologia, Gesù, e i manoscritti del mar Morto, in Gesù e la comunità di
Qumran, Piemme, 1997, pag. 287 ss.). Dopo l'introduzione, nel XVII secolo, del culto del
Sacro Cuore, un numero sempre maggiore di persone mostrò la tendenza ad avere stimmate
sul fianco sinistro, e non sul fianco destro (colpo di lancia, inferto da destra verso sinistra, a
colpire il cuore, provocando repentina la morte, come risulta dalla ferita intercostale emersa
dall'esame ispettivo della Sindone). In un affresco di Giotto, San Francesco, miracolosamente
apparso in sogno al dubbiosissimo Papa che pure lo aveva canonizzato, mostra la sua ferita a
sinistra del costato. In alcuni casi si è addirittura scoperto che le ferite corrispondono a quelle
dell'immagine di Cristo Crocifisso, dinanzi alla quale la persona pregava abitualmente (da
Almanacco universale delle cose più strane e curiose, Mondadori, 1979, pag. 240 ss.). Dei tre
tipi possibili di croce (cioè capitata, commissa e decussata: cfr. Jesus, Torino, 1982, vol. 2,
pag. 616) si riteneva tradizionalmente nel Medioevo, che la croce di Cristo fosse quella
commissa, cioè a forma di Tau. Quest'ultimo dato ci riporta a San Francesco, che venerò
questo simbolo di origini bibliche, con particolarissima e significativa devozione.
L'argomento verrà ripreso in seguito.

II.4. Il caso più clamoroso di stigmatizzazione dei nostri giorni è stato quello di padre Pio,
prima beatificato, e poi fatto santo, da Giovanni Paolo II. Mario Guarino (in Beato
Impostore-Controstoria di padre Pio, ed. Kaos, 1999) ne pone in dubbio la genuina
stigmatizzazione, evidenziando i possibili momenti di una frode. La pensa allo stesso modo il
noto matematico Piergiorgio Odifreddi (cfr. Beato lui, pag. 85, un capitoletto del recente
libro "La Repubblica dei numeri ", 'Sezione Religione', Raffaello Cortina Editore, 2002), che
in questo contesto, non solo si occupa della Sindone (il famoso lenzuolo di lino di metri 4,36
per 1,10 nel quale sarebbe stato avvolto il corpo di Gesù: cfr. op. cit., pag. 75,
Un'impressione negativa), ritenendola un falso mal riuscito, ma tratta anche della figura di
Gesù, a suo giudizio poco assistita da chiari elementi di probatorietà storica (cfr. op. cit., pag.
71 e ss., con riguardo al recente ed accurato lavoro di Peter Partner, Duemila anni di
cristianesimo, Einaudi, 2001, opportunamente richiamato dall'Autore a suffragio di queste
perplessità).
Secondo Odifreddi (op. cit. pag. 11), la Chiesa <<ha non solo avallato, ma orchestrato>> gli
avvenimenti più imbarazzanti dell'anno giubilare: ad es. <<la lettura del terzo segreto di
Fatima (13 maggio 2000) e l'ostensione della Sindone (12 agosto- 22 ottobre)>>. Per cui
<<imputare, all'alba del terzo millennio (nel nuovo secolo dell'iperscienza), la cattiva mira di
un cecchino a un intervento provvidenziale della Madonna di Fatima, e ostinarsi a
considerare un telo apparso nel 1353 e scientificamente datato a quella stessa epoca come
un'impronta miracolosa dell'anno 33, significa rivolgere il proprio messaggio agli uomini di
(molta) buona volontà, ma non a quelli di sia pur mediocre razionalità>>. Una critica del
tutto legittima, peccato che le miracolose 'epifanie del sacro' amino presentarsi proprio nello
stridente e del tutto inconciliabile contrasto tra 'evento' e sua giustificazione 'razionale'.
Quando poi si analizza a fondo la categoria del 'razionale' (alle cui certezze non si può certo
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rinunciare con facilità), non è che emergano conferme sicure della versione parmenidea (fatta
propria da Hegel) che "il razionale è reale" o viceversa. La logica pura conosce, del resto,
sorprendenti paradossi. Ed è stato proprio San Paolo a citare una particolare versione del c.d.
paradosso di Epimenide, il famoso cretese mentitore. Nel 1931 il viennese Goedel dimostrò
l'incompletezza dell'aritmetica, assieme all'impossibilità di dimostrare la non contraddittorietà
di essa, che sembrava invece cosa certissima ed evidente di per sé. Il 'razionale' è solidissima
categoria dell'intelletto, ma il 'sacro' postula di per sé il 'mistero', paradossalmente la
sovversione stessa della 'ragione', anche se la 'fede' non può certamente fondarsi sull'assurdo,
come mostrò, nel Medioevo, la filosofia scolastica, cercando un sostenibile equilibrio tra i
due termini antitetici, dal momento che in passato era stato professato il "credo quia
absurdum est". Le epifanie del sacro sono sconcertanti per eccellenza, ma non per questo
'irrazionali', e cioè sovvertitrici della ragione. La Sindone viola forse la razionalità? Non ci
sembra affatto. E neppure le stimmate, per le quali giunge tuttavia naturale il sospetto di una
truffa. Ma non vogliamo convincere nessuno. Infatti ignoriamo la verità, ed anzi la stiamo
ricercando proprio attraverso il nostro 'banco di prova' di una possibile e plausibile
correlazione tra le stimmate di San Francesco e la Sacra Sindone, nella cui direzione -
documentaristica e di profondi significati religiosi - crediamo possa celarsi uno stupefacente
'mistero', che in qualche modo vorremmo cercare di esporre e tentare di risolvere sul
presupposto di uno stretto collegamento, che risulterebbe comprovato da tutta una serie di
particolari indizi che è nostro intento partecipare al lettore.

II.5. A nostro avviso le stimmate di San Francesco, sicuramente non autoprovocate, erano
reali, e molto probabilmente di origine 'psicosomatica'. C'è tuttavia la possibilità che si sia
potuto trattare di un pia fraus, dovuta, come vedremo, ad un intervento di fra' Elia. L'ipotesi è
stata attentamente presa in considerazione dall'illustre medievalista Chiara Frugoni in un
recente saggio storiografico sull'iconografia francescana, al quale non si mancherà di fare
dovuto riferimento. Ciò non toglie che la vicenda delle stimmate possa avere avuto singolari
risvolti, collegandosi a sorprendenti retroscena che in questo articolo vorremmo snidare
dall'ombra in cui sembrano avvolti. Ci invoglia ad imboccare questo inusuale percorso tutta
una serie di elementi la cui concatenazione ci è sembrata alquanto significativa e per nulla
immaginaria, a partire dalla famosa "benedizione" di San Francesco a fra' Leone, la
"pecorella di Dio", rappresentata da una chartula autografa del Santo, che ancora si conserva
(Fig. 1). In questo singolare documento francescano potrebbe infatti celarsi un mistero.
13

(Fig. 1)

III. LA 'CHARTULA' DI S. FRANCESCO CON LA 'BENEDIZIONE' A FRA' LEONE

III.1. La nostra congettura - collegando le stimmate di San Francesco d'Assisi alla non remota
possibilità che durante la quinta crociata proclamata da Innocenzo III nel 1215, i Templari gli
avessero mostrato la Sindone in loro mani dal 1204 ed oggi conservata a Torino nella
seicentesca cappella del Guarini dedicata a San Giovanni Battista, ma non più esposta alla
pubblica devozione dopo il grande ed inspiegabile incendio scoppiato nella notte tra l'11 e il
12 aprile del 1997 che provocò danni per oltre trenta miliardi di lire di allora (si veda al
riguardo l'ampia documentazione fotografica di L. Vidal e A. Maragoni, Il fuoco e la Sindone
- L'ultimo incendio, Timeo Editore Bologna, 2000) - ovviamente parte dal 'mistero Gesù' e
dalle stesse oscure 'origini del cristianesimo', per arrivare alla famosa chartula del Santo -
recante 'a recto' le Lodi di Dio e 'a verso' una benedizione autografa contrassegnata da un
"Tau", che fu consegnata da San Francesco a fra' Leone, subito dopo l'episodio stigmatico
della Verna (settembre 1224, giorno della festa della Santa Croce e di S. Michele Arcangelo).
Questo straordinario e singolarissimo documento francescano è perfettamente conservato ed è
oggettivamente controllabile. Esso è stato fino ad oggi interpretato in modo nettamente
diverso da quanto invece suggeriamo, pur sempre in stretta connessione col clamoroso
episodio stigmatico della Verna. Infatti nessuno prima d'ora ha mai chiaramente ipotizzato
che questa chartula potesse alludere direttamente alla Sindone, addirittura effigiandola. Forse
alcuni studiosi del francescanesimo (come ad es. il Fortini) potrebbero averci pensato, ma
sarebbe mancato il coraggio storico di seguire fino in fondo questa inopinata traccia.

III.2. Racconta il biografo Tommaso da Celano che <<uno dei compagni del Poverello,
mentre se ne stava sul monte Alvernia, rinchiuso in una cella, desiderava con ardore avere
uno scritto che rimanesse memorabile, perché brevemente annotato dalla mano stessa del
Santo con parole del Signore ... Ed ecco che un giorno il Beato Francesco lo chiama e gli
dice: "Portami carta e inchiostro, perché voglio scrivere le parole del Signore e le lodi a
Lui, che ho meditate nel mio cuore ". E avuto quanto chiedeva scrisse di propria mano le
Lodi di Dio e le parole che desiderava e da ultimo la benedizione del frate, dicendo:" Prendi
questa carta e fa' custodirla diligentemente fino al giorno della tua morte". Subito ogni
tentazione sparisce, al contatto di questa pergamena che viene conservata e opera prodigi>>.
E fra' Leone medesimo scrisse, in testa al foglio, sul verso: <<Due anni prima della sua
morte il Beato Francesco fece una quaresima sul monte Alvernia in onore della Beata
Vergine Maria, madre del Signore, e del Beato Michele Arcangelo, dalla festa
dell'Assunzione di Santa Maria Vergine sino alla festa di San Michele in settembre. E la
mano del Signore scese sopra di lui; dopo la visione e l'allocuzione del Serafico e
l'impressione delle stimmate di Cristo nel suo corpo, compose queste lodi che si trovano
scritte di sua mano nell'altra parte del foglio, ringraziando il Signore per il beneficio
concessogli>>. E verso la metà del foglio, aggiunse: <<Il Beato Francesco scrisse di sua
mano questa benedizione a me frate Leone>>. E in calce: <<In simile modo, cioè di sua
mano, tracciò questo segno, il Thau>>.

III.3. Il Tau, tracciato da San Francesco sulla chartula consegnata a fra' Leone, è
chiaramente un simbolo biblico, ma allo tempo stesso un segno adottato dai Templari, come
del resto, il lacero 'saio marrone' dei suoi poverissimi 'frati' volutamente ripercorreva la forma
stessa della croce commissa, e, come sembra altrettanto plausibile ed evidente, intendendo
alludere al 'primo abito' del converso templare, che era proprio di colore marrone prima
dell'assunzione dell'abito bianco dei cavalieri. In altre parole, si dovrebbe ipotizzare una sorta
di affinità nascosta tra i due Ordini, quello francescano e quello templare, secondo la loro ben
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distinta natura e vocazione. L'ordine francescano ribaltò letteralmente la vocazione militare e


guerriera di quello templare, col motto di "pace e bene" ed un esempio perfettamente pacifico
di preclare virtù evangeliche. Ma questo totale rovesciamento di prospettive non depone
affatto in contrario. Anzi rafforza l'idea della similarità 'in apicibus'. La chartula è conservata
nel tesoro del Sacro Convento di Assisi ed è stata dianzi riprodotta per il controllo dei lettori.
Nessuno ne ha mai messo in dubbio l'autenticità, ma verso il 1895, uno storiografo cattolico,
P. H. Kraus, dichiarò che secondo lui questo documento non era l'originale autentico, bensì
una falsificazione del quattrocento. Lo confutò il protestante Paul Sabatier, allievo del Renan
ed importantissimo biografo del Santo, recando come prova una fotografia della pergamena,
che fu esaminata dai più grandi paleografi di Francia e di Germania, i quali ne attestarono
l'indubbia autenticità. Asseverata l'autenticità di questa 'chartula' proveniente dalla mano
stessa del Santo, ne dobbiamo adesso esaminare il singolarissimo contenuto, che non
mancherà di stupire per la cifra di 'mistero' che l'avvolge, a prescindere dalla conclusioni che
se ne vogliano ricavare.

III.4. Anzitutto la benedizione a fra' Leone è tratta direttamente da un passo biblico del libro
dei Numeri (esattamente 6, 24-26) a proposito del nazireato, di cui costituisce un frammento
opportunamente estratto, che così suona nella traduzione della Bibbia concordata: <<Il
Signore ti benedica e custodisca. Il Signore faccia risplendere il suo volto su di te e ti faccia
la grazia. Il Signore elevi il suo volto su di te e ti conceda la pace>>. Si noti il richiamo al
"volto del Signore" e alla sua "pace", che fu il motivo principale del francescanesimo, e che
sembra riferirsi in questo caso direttamente al Gesù dei Vangeli, e non al Dio biblico. Questa
'benedizione' ha antecedenti illustri. Nel 1980, nel corso di scavi in un cimitero dell'età del
ferro proprio alla periferia di Gerusalemme, a Ketef Hinnom, sono state trovate due lamine
d'argento, utilizzate come amuleti. Questi amuleti recano la stessa benedizione di Numeri 6,
24-26, il passo biblico testè citato. L'identica benedizione che il Sommo sacerdote impartiva
nel Tempio, tenendo entrambe le mani tese, con le dita in una posizione speciale: il quarto e il
quinto dito uniti, separati dal terzo e dal secondo, anch'essi uniti, ma discosti dal pollice (cfr.
K. M. Kenyon, The Bible and Recent Archeology of Ancient Israel, British Museum
Publications, 1987). Il libro dei Numeri è l'esaltazione di Dio, di Mosè e del suo popolo: cioè
dei 'protagonisti' dell'Esodo. Le parole di benedizione di San Francesco, scritte in latino e del
tutto pedisseque rispetto al passo biblico, sono esattamente le seguenti: <<Benedicat tibi
Dominus et custodiat te; ostendat faciem suam tibi et misereatur tui. Convertat vultum
suum ad te et det tibi pacem. Dominus benedicat, frater Leo, te>>. C'è pure una lettera di
Francesco a fra' Leone, anch'essa autografa, conservata nel tesoro dei frati conventuali di
Spoleto. Fra' Leone era molto preoccupato del nuovo spirito che riscontrava nell'Ordine, e ne
aveva parlato a voce con Francesco, il quale, non volendo lasciare nessun dubbio nella mente
della 'pecorella di Dio, gli scrisse questa lettera, che comincia proprio così: <<F. Leo F.
Francisco tuo>>. Nessuno ha saputo spiegare, in modo convincente, questa formula, perché
non è Leone che scrive a Francesco, ma esattamente il contrario. Preferiamo pensare che
Francesco e suoi 'frati' fossero proprio come i primi 'templari'. Essi andavano due a due per le
vie del mondo, ed erano tra loro come gemelli. L'uno si rispecchiava nell'altro, in uno
scambio di identità reciproca. Dunque fra' Leone, pecorella di Dio, era il gemello di San
Francesco, tanto più nel contesto misterioso della Verna. E qui si tratterebbe, in effetti, di
un'altra evocazione o allusione sindonica, accanto al segno del 'Tau' e al disegno di un 'volto
barbuto' dalla cui bocca emerge, appunto, una croce commissa, disegnata in rosso color
sangue dalla stessa mano di San Francesco sulla chartula. Nel sacro lino, lungo oltre quattro
metri, il corpo di Gesù è diviso in due immagini, quella della parte superiore del corpo e
quella impressa di schiena. I 'frati templari', rappresentati in 'coppia', due a due sopra un solo
cavallo, nei sigilli del Tempio, e i 'frati francescani' inviati, due a due, a predicare per le vie
del mondo, sembrano corrispondere ad un medesimo modello, e questo 'modello' alluderebbe
all'immagine bipartita della Sindone, riprendendone chiaramente lo spunto. Ne costituirebbe,
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cioè, un evidentissimo richiamo simbolico e una precisa evocazione, atteso che la Sindone
presenta l'immagine completa dell'intero corpo di Gesù, alludendo alla Sua figura 'regale' e al
Suo 'sommo sacerdozio' impressi nel lino quale sacra 'veste di luce' e immagine 'gemellare
d'immortalità' sia come uomo che come figlio di Dio. Lo stesso tessuto di lino è quello della
'veste' del Sommo sacerdote del Tempio. Quindi la figura di Gesù Cristo è esattamente
identificata dall'immagine della Sindone proprio come "Rex Sacrorum", cioè come Re dei
Giudei (il titolo della condanna a morte) e come Figlio di Dio (secondo la sua
autoproclamazione messianica), discendente, al tempo stesso, sia da David che da Aronne.
Per questa medesima ragione i 'frati' francescani e i 'cavalieri templari' sono anch'essi
rappresentati come perfetti gemelli, nella ideale contiguità tra i due Ordini e pur nelle
rispettive e distinte identità: l'uno armato di spada, e l'altro di pacifica verità e d'inerme
esempio evangelico contro le potenze invisibili del male.

III.5. I Templari conoscevano il segno del Tau e adoperavano, come loro sigillo, anche un
'volto barbuto'. La scoperta di quest'ultimo sigillo templare è stata effettuata nel 1974 presso
l'Archivio di Stato di Wolfenbuettel, in Bassa Sassonia. Ciò proverebbe che l'Ordine templare
conosceva la Sindone, e la venerava in segreto: un dato, questo, che sembra oggi
comunemente ammesso dalla maggior parte degli autori che hanno affrontato sia la storia dei
Templari che quella della Sindone. Tale circostanza riemerge anche nelle confessioni estorte
ai capi templari sottoposti a supplizio dagli scherani di Filippo il Bello. Forse San Francesco
era a conoscenza del medesimo segreto della Sindone e volle parteciparlo a fra' Leone, suo
gemello in Dio, proprio nella circostanza 'teofanica' del tutto straordinaria delle 'stimmate',
ricevute alla Verna, due anni prima della morte, nell'aspro e solitario romitaggio del
Casentino. Francesco vide direttamente la Sindone soltanto quando si recò alle crociate, ma
ne conosceva già l'esistenza (così dobbiamo credere), al momento stesso della sua
conversione. Il Cristo che gli avrebbe parlato nella chiesetta di San Damiano è quello stesso
del Volto della Sindone, di cui qualcuno doveva avergli già fatto cenno in tutto segreto. E
infatti il crocefisso di stile bizantino, che ancora si conserva nella chiesa di Santa Chiara in
Assisi, non poteva appartenere ad una infima e diruta chiesetta agreste, allora in abbandono,
come S. Damiano, bensì al Duomo di San Rufino, e cioè alla preesistente Basilica Ugoniana,
come allora si chiamava. La leggenda del crocefisso che parla a Francesco e gli impone di
riparare la Sua casa, può essere perfettamente letta in questa direzione. Si tratterebbe cioè di
una teofania sindonica, sull'onda di una fortissima emozione, che colse, a un certo momento,
il giovane Francesco, che si era inizialmente rivolto all'esercizio militare con la famosa
spedizione di Puglia, e che subito dopo ebbe un clamoroso ripensamento con un inesplicabile
rifiuto.

III.6. Francesco donava liberamente tutto quello che aveva. Secondo il detto 110 del Vangelo
apocrifo di Tommaso, <<colui che ha trovato il mondo ed è diventato ricco, deve rinunciare
al mondo>>. Francesco era 'uscito' dal suo 'secolo', come egli stesso afferma nel Testamento.
Si era spogliato di tutto, ma non della sua anima purissima. Il dono di questa 'benedizione' a
fra' Leone non è fine a se stesso, bensì profondamente allusivo. Nelle Lodi a Dio trascritte
sulla chartula, Francesco scioglie, da una profondissima unità di cuore e mente, un canto
teologico, anticipatore delle Laudes Creaturarum scritte anch'esse poco prima della sua
morte. Ne ripercorriamo l'attacco: <<Tu sei santo, Signore Dio, tu sei il Figlio degli dèi
(sic!), che solo operi meraviglie. Tu sei forte, tu sei grande. Tu sei altissimo, tu sei
onnipotente...>>. Un Francesco 'eretico'? Neppure per sogno. Piuttosto un Francesco
'misterioso', per certi aspetti ancora indecifrato. E infatti un 'razionalista' non può non
domandarsi, con meraviglia e sorpresa, come abbia fatto un piccolo uomo solo, a muovere
così tanto la storia. Ma quest'uomo era Francesco, animato da una energia sovrumana, che
appare del tutto inspiegabile, se non la si colloca in un preciso contesto esplicativo di fede
assoluta. Alla base della straordinaria ed incrollabile fede di Francesco dopo la conversione,
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potrebbe esservi infatti la vera immagine della Sindone, che in lui accese il fuoco della carità,
deposti i primitivi sogni cavallereschi, e trovata la via della speranza e della verità, nell'intimo
del suo accesissimo spirito di poeta, innamorato della pienezza del creato, che non poteva non
rimandare al 'mistero divino'. In questa chartula appare evidente che San Francesco si
riferisce sempre a Gesù e non a Dio stesso. Qusto assodato aspetto fonda a maggior ragione la
possibilità del riferimento alla Sindone.

III.7. La vicenda miracolosa delle stimmate può tuttavia destare sospetto. E i sospetti ci
furono, già allora, come ci sono oggi. La Verna, uno sperone roccioso e boscoso sul pendio
del monte Penna in provincia di Arezzo, tra Casentino e Montefeltro, gli era stata donata, nel
1213, dal conte Orlando di Chiusi, e vi era stato costruito un eremo. Il prodigio delle
stimmate sarebbe avvenuto in questo luogo impervio e romito, nel 1224, verso il 14
settembre, festa dell'esaltazione della Santa Croce, come nota Bonaventura (Leg. Mag. XIII,
3). A due anni dalla sua morte, Francesco non solo è gravemente ammalato, ma è fortemente
percosso ed esacerbato dalla crisi dell'Ordine, che si era grandemente accentuata con la
'regola riformata' di Onorio III, risalente all'anno precedente (la c.d. regula bullata). In questo
contesto di drammatica di sofferenza, gli sarebbe apparso Gesù Cristo sotto forma di uno
splendente Serafino, segnato dalle cinque piaghe. Ma è qui alla Verna, in una situazione di
aspro ritiro e di lancinante martirio, che Francesco viene, secondo noi, di nuovo assalito
dall'evocazione spirituale dell'immagine sindonica, che segnò gli inizi della sua conversione e
tutta la vita successiva. In un certo senso Francesco fu un autentico miles Christi, e come un
paradossale trobadour, la sua castissima innamorata fu Madonna Povertà. L'Alter Christus in
cui lo si volle identificare è una perfetta immagine della sua testimonianza di vita cristiana,
attorno alla quale sono ruotati gli episodi della sua vita reale e la stessa leggenda agiografica.
Alla Verna questa identificazione col Cristo raggiunge il suo culmine estremo, provando che
la figura di Francesco è di quelle che non lasciano spazio a debolezze o a compromessi. La
sua sequela diviene perfetta consonanza al modello, veste di luce eterna e di morte terrena.

III.8. Quali furono i suoi 'rapporti' con i Templari? I biografi antichi e moderni non
accennano neppure di sfuggita a questa possibilità. Ma il giovane ed ardente Francesco,
armatosi cavaliere per la spedizione di Puglia prima della sua sequela Christi e dell'autentica
milizia di povertà, potrebbe essere stato 'tentato' da una sorta di 'avventura templare',
malamente risoltasi a Spoleto con l'inopinato ritorno ad Assisi, dopo aver sognato, in una
poetica atmosfera da Santo Graal, la gloria sacra dell'Ordine militare, al quale si accostò, poi,
in forma mistica, il movimento esemplare dei suoi 'poveri di Cristo'. Con un rovesciamento
totale di prospettiva, tipico delle grandissime personalità, ecco la rottura del 'voto', già
formulato nel suo intimo, di porsi al seguito dell'armata sacra dei Cavalieri, che si risolve
adesso, metaforicamente, nell'annuncio fatto agli amici di Assisi, per un'ultima festa di
giovinezza, del matrimonio mistico con la donna più bella e pura che ci sia, la castissima
Povertà. Francesco, poeta finissimo, squarciò dunque la sua corazza militare, e ne fece un
abito lacero, di assoluta carità. Come egli conosceva a menadito le canzoni di gesta, divenne
così padrone delle scritture, seguendo 'alla lettera' l'insegnamento evangelico, con una
caparbietà 'sacra' quasi fuori dall'umana misura. Questo sorprendente ed inopinato
rivolgimento del suo animo inquieto, permanentemente alla ricerca della verità, può essergli
derivato da una grande certezza, che d'improvviso gli si sia parata dinnanzi. Un misterioso ed
esperto cavaliere templare, reclutatore di nuovi conversi, potrebbe infatti avergli accennato
alla Sindone, scatenando nel giovane e ricco figlio del mercante, assetato di gloria ma anche
di sublimi certezze morali, la fondamentale domanda di quale "Sovrano" servire: se il Cristo
assoluto dei Vangeli, oppure il potere relativo della storia. La risposta di Francesco fu
sensatamente radicale e moralmente certa, con un voltafaccia febbrile che somiglia ad una
autentica folgorazione.
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IV. "L'AVANTURE"

IV.1. Il mistero di San Francesco non sta dunque nelle stimmate, piuttosto nel suo fortissimo
sentimento di carità e nell'assoluto legame di verità con l'incondizionata testimonianza
evangelica. La sua 'spada' divenne una 'croce viva', e la sua voce di trovatore una 'bocca
divina'. Così lo vide, trasfigurato, fra' Pacifico: e in questa simbolica descrizione, che ci ha
lasciato il Celano nella Vita prima, traspare la testimonianza più autentica del vero Francesco.
Nulla si sa di quel <<conte Gentile>>, di cui parlano le fonti, il capo forse di una di quelle
bande <<nelle quali dobbiamo riconoscere un primo inizio di quelle che dal trecento in poi
saranno truppe mercenarie>> (così Raul Manselli, illustre medievalista nonché grande
storico del francescanesimo). Il Celano parla invece di <<un cavaliere di Assisi che stava
allora organizzando preparativi militari>> per la spedizione in Puglia di Gualtieri III di
Brienne, ricco di nobiltà e povero in quattrini, appartenente al nobilissimo casato feudale
della Champagne, che aveva sposato una delle figlie del re Tancredi di Sicilia, mandate colla
vedova, da Enrico VI, in una prigione tedesca, e di lì sfuggite in Francia. Prematura fu la
morte dell'Imperatore svevo. Dalla Francia, Gualtiero era venuto ad offrirsi a papa Innocenzo
III contro i baroni tedeschi spadroneggianti nelle terre del pupillo Federico Ruggiero (Luigi
Salvatorelli). San Francesco - in netta contrapposizione ai Catari, per i quali Gesù era
immateriale come un angelo - esaltava la croce, ringraziando e lodando Cristo, <<quia per
sanctam crucem redimisti mundum>>. Ma prima della sua conversione, o metanoia
cristiana, era stato tentato dalla gloria cavalleresca e militare. Lo sconosciuto 'reclutatore
militare' in terra d'Umbria, quel Conte Gentile delle 'fonti', poteva essere benissimo un
templare francese, legato a Gualtiero (1165-1205), che del resto era parente di Giovanni I di
Brienne (1148-1237), re di Gerusalemme, poeta e devoto di Francesco, il cui monumento
funebre si trova proprio nella Basilica inferiore di Assisi, appoggiato, coi suoi marmi bianchi,
nell'ombra magica della grande parete d'ingresso, al fondo della pianta a forma di 'Tau' di
questa chiesa straordinaria voluta da fra' Elia appena divenuto generale dell'Ordine
francescano. Del resto, Isabella, figlia di Giovanni di Brienne, era andata in sposa
all'Imperatore Federico II. Talvolta gli elementi della storia si aggrumano tra loro
componendo un quadro straordinario. E' a Spoleto che per Francesco si consuma un evento
fondamentale della sua vita. Colto da un ripensamento, dopo il glorioso sogno (narrato dal
Celano) d'un palazzo d'armi con tutti i suoi soldati, o piuttosto percorso dalla rapida
delusione: <<nuovo David contro il forte armato>> (come <<si addice a Francesco>>,
prosegue il biografo), il figlio del mercante di stoffe (in realtà suo padre, 'Pietro di
Bernardone', era un ebreo convertito, il fiduciario, cioè, del ricco monastero 'cistercense' del
Monte Subasio, ad economia curtense e grande produttore di lane pregiate da esportare poi in
Francia facendo sosta nei vari monasteri d'appoggio in occasione delle grandi fiere della
Champagne: guarda caso la stessa terra 'catara' dove riapparve, nel 1357, la Sindone!), decide,
all'improvviso, che la spedizione in Puglia non fa al caso suo. Egli sente che l'unica 'milizia'
che gli si addice è quella divina. Il suo Dio è un "Dio di pace" (come scrisse Properzio in una
elegia), e non un Dio "re degli eserciti". Ma i 'tre nodi' del saio francescano (tra l'altro di color
'marrone' come quello rivestito dai conversi templari prima dell'assunzione dell'abito 'bianco'
dei cavalieri), quella lacera divisa del nuovo Ordine mistico e pauperistico, fondato da San
Francesco, questa volta ispirato dalla bocca stessa del Crocefisso di San Damiano, che gli
parla con le labbra, o piuttosto agli orecchi, come scrivono, al riguardo, prima Tommaso e
poi San Bonaventura, tradiscono pur sempre l'origine 'militare' del movimento francescano,
corrispondendo, esattamente, ai 'tre voti' della 'regola templare', concepita si dice da San
Bernardo, nel nome stesso della <<povertà, umiltà e castità>>. E' questa la nuova 'divisa'
dell'Ordine di Francesco, coi suoi frati poveri 'cavalieri di Cristo', che però sempre
marceranno appiedati. E perciò la 'firma' apposta da Francesco alla chartula con la
benedizione a fra' Leone, è anch'essa un 'sigillo', o 'stilema templare', avendone ripreso il
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motivo della 'croce', marchiata appunto d'inchiostro rosso vivo, come il sangue di Gesù Cristo
morto sul patibolo per i peccati del mondo.

IV.2. Francesco, nuovo San Martino di Tours, secondo altra visione che lo riguarda in
possibili paragoni per nulla inventati, seguì un afflato di mistica poesia, piuttosto che la sua
incerta natura di cavaliere. E divenne un 'povero di Dio', anziché un 'crociato templare'
armato per la guerra santa e predisposto ad uccidere in nome di Dio. Le ragioni di questa
scelta riposano forse nel 'bacio al lebbroso' incontrato per caso mentre si aggirava a cavallo
per le campagne nei dintorni di Assisi, e s'addentrano nel mondo stesso di Francesco, in cui
s'agitavano, accanto alla 'gloria' (di cui sono piene le sabbie del deserto), le più profonde
istanze di 'verità' umana che possano affacciarsi nell'intimo d'un essere dotato di una verginità
morale profondamente originaria. Francesco fu un vero 'soldato di Cristo', armato della spada
fiammeggiante della 'verità' e innamorato di quell'unica donna, Madonna Povertà, più nuda e
casta della Luna dei "serenissimi plenilunii" d'un magico verso della Divina Commedia, che
in una frase sola allinea ben undici 'i'. Chiara fu il suo eterno fiore, la completezza della
coppia 'umana' finalmente riunita e pacificata da quel tragico 'discidio' del peccato originale.
E' tutto un 'codice di valori' che si deve qui intravedere nel legame 'sacro' d'una profondissima
religiosità fattasi esemplare esperienza di vita e perfetta pratica cristiana.

IV.3. Questa 'leggenda' francescana della 'giovinezza', non ancora ben scavata dagli storici,
potrebbe addirittura riflettere il 'ciclo poetico del Graal', che proprio in quegli anni si era
andato formando in Francia con Chrétien de Troyes, ed anche in Inghilterra con Robert de
Boron e in Germania con Wolfram von Eschenbach, provenendo da origini oscure che forse
riguardano la santificazione di San Galgano da Montesiepi, avvenuta nel 1185, e la storia
stessa della 'spada confitta nella roccia' quale simbolo di pace e di totale rinuncia alla violenza
della guerra. Come mercante, Francesco aveva percorso le contrade 'catare' della Francia
meridionale, ed era certamente a conoscenza di molte canzoni e leggende. Tutto lascia
intendere che la sua scelta si sia potuta nutrire di queste suggestioni e di queste singolari
esperienze, che marchiano già il suo stesso nome acquisito. In realtà egli si chiamava
Giovanni come l'evangelista e il re francese di Gerusalemme. La 'notte di San Giovanni'
coincide simbolicamente col solstizio d'estate ed avvince il cielo stellato. Nell'animo
giovanile di Francesco, denso di canto e di poesia, s'agitavano senz'altro una grande
misericordia e un autentico spirito d'avventura. Francesco, indovinata la sua via, continuò ad
ammirare 'le stelle' nel candore della sua anima e nel profondo della legge morale. La sua
conversione sembra procedere da un autentico afflato panico, nell'assoluta centralità di Dio e
nella mitissima considerazione del creato, ciò costituendo una grande rivoluzione nell'ambito
delle concezioni medievali, essenzialmente rivolte al disprezzo della peccaminosa e spietata
natura. Una tale 'visione' deriva dal superamento del male, dalla totale fusione dell'anima
nell'opera divina, nella fiducia riposta nelle parole di Cristo fattosi "uomo" a salvazione del
mondo. C'è un che di 'alchimistico' in questa metanoia, che ora risplende di certezza e si
riversa, dall'esempio vissuto dell'estrema povertà, nella parola 'mercuriale' (secondo
Macrobio), che poi esprime i significati. Francesco portò a compimento, con sovrumana forza
e bellezza, la sua personale 'avventura', il suo itinerario a Dio, accompagnato da una
immagine di luce che vince la morte, com'è per la Sindone. La sua conformità a Cristo
potrebbe essere derivata da un autentico 'choc' che segnò l'esperienza fallita della sua
giovinezza.

V. SAN FRANCESCO ALLE CROCIATE

V.1. Francesco, dieci anni dopo la conversione, volle recarsi in Terra Santa, dai Crociati,
sicuramente a Damietta, in Egitto, una località costiera del delta del Nilo. Innocenzo III non
aveva rinunziato a conquistare Gerusalemme. Dopo aver sradicato il catarismo in Linguadoca
19

(1209), e aver dato nuovo impulso alla lotta contro i Mori in terra di Spagna, non si
rassegnava al fallimento della quarta crociata. Ne bandì un'altra (nel 1215), con l'obiettivo
esclusivo di liberare i luoghi santi. Morì nel gennaio del 1216, e il successore, Onorio III,
incaricò Giacomo di Vitry (autore di un'importantissima storia della crociata nonché
fondamentale 'testimone' francescano, fatto in seguito cardinale, e che già si era distinto
nell'altra 'crociata' contro gli Albigesi) di portarsi in Oriente, dove venne proclamato 'vescovo
di Acri'. Nel 1217, Giovanni I di Brienne mobilitò l'esercito, cui si aggiunsero i Templari, gli
Ospitalieri e i Teutonici da poco costituiti. Il 'consiglio di guerra' decise d'assediare la fortezza
del monte Tabor fatta costruire dagli Arabi per controllare la Galilea. I crociati non riuscirono
a conquistarla, e il 7 dicembre tolsero l'assedio. Fu allora deciso un attacco al Delta, in
direzione del Cairo. Giovanni di Brienne salpò da Acri il 28 maggio del 1218, toccò l'Egitto,
e risalì il Nilo fino a Damietta. Il sultano del Cairo, Malik al-Kamil, figlio di Malik al-Adil,
oppose una strenua resistenza. Ma il 5 novembre 1219 Damietta cadde grazie alla sagacia di
Giovanni. Intanto il Papa aveva inviato un suo legato, il cardinale Pelagio, che con la sua
inesperienza e una pervicace volontà di predominio creò una grande confusione nell'armata
cristiana, venendo addirittura in insanabile contrasto con Giovanni, che abbandonò
amareggiato l'Egitto. <<Un giorno, questo smargiasso ecclesiastico si trovò ai suoi piedi
Francesco d'Assisi insieme con un suo compagno. Il povero dei poveri, il fratello degli uccelli
e di tutti gli uomini veniva a chiedergli il permesso di andare al Cairo. Follia sublime, voleva
convertire il sultano e predicare agli infedeli. Pelagio rispose: "Non conosco né il tuo cuore né
i tuoi pensieri. Non so se sono buoni o malvagi. Se ci vai, fa' in modo che siano sempre rivolti
a Dio". Francesco insistette. Pelagio gli troncò la parola: "Vacci pure. Ma senza il mio
permesso">>. Al Cairo i due frati vennero scambiati per emissari dei crociati, e furono
presentati al sultano. Malik al-Kamil, che era un letterato e un filosofo, ascoltò benevolmente
Francesco, lo ospitò addirittura per alcuni giorni, dicono le cronache, 'nel suo palazzo'. I
consiglieri gli suggerirono di far decapitare quel frate, ma egli si oppose. Era rimasto colpito
dallo sguardo penetrante di Francesco, dalla sua dolcezza evangelica, dal suo eroismo che
forse era alla ricerca del martirio. Francesco gli aveva detto di non essere venuto come
conquistatore, bensì come pescatore di anime, e che l'unico suo desiderio era la salvezza del
sultano e del suo popolo. Al-Kamil intravide un 'cristianesimo diverso' da quello dei crociati,
una carità di cuore che lo scosse. Era evidente che Francesco non era né una spia né un
nemico, ma che lo amava al punto da supplicarlo di convertirsi. Ne fu commosso, e alla fine
confessò: "mi convertirei volentieri alla tua bella religione, ma non posso: saremmo
massacrati entrambi" (G. Bordonove, Le crociate, Bompiani, 2001, pag. 366-367).

V.2. E' piuttosto dubbio se Francesco arrivò veramente fino al Cairo (dunque vide le
Piramidi?), oppure si arrestò soltanto al campo militare arabo. Ma è sicuro che andò in Terra
Santa, e ci restò un bel periodo. La sua era una missione di pace, e conoscendo la
determinazione di Francesco, la sua volontà d'acciaio, un acciaio più duro di quello di una
lama di spada temperata nell'acqua e nel fuoco, non dobbiamo immaginare un atto di puro
idealismo, bensì la deliberata volontà di un audace progetto, al tempo stesso politico e
religioso. Francesco, armato della sola Fede, era il più coraggioso di tutti combattenti
cristiani, recando la 'parola sacra' d'un Dio universale. Una sola radice condivisa poteva
accomunare i due campi avversi: il Volto del Gesù della Sindone. Il Gesù dei Vangeli, e
quello stesso del Corano. Il comune messaggio di 'pace e bene', che riunisce i popoli della
terra in una sola 'ecumene' e in un'unica civiltà: ieri come oggi, insoluto problema della
convivenza pacifica dei popoli. Francesco sapeva molto bene quel che voleva e ciò che
faceva. La sua missione di pace sovrastava ogni capacità d'ordinaria comprensione da parte
dei fautori della crociata. Tale forza gli proveniva dalla certezza d'una 'prova', poi
trasformata, dalla leggenda, in quella del 'fuoco'. Camminò sul fuoco delle fede, in nome di
Gesù? Francesco conosceva anche il Corano. La presunta ordalia è del tutto immaginaria, ma
riflette senz'altro la fiamma della sua fede in Cristo, l'universalità del messaggio evangelico.
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Nell'immagine del fuoco possiamo cogliere un altro aspetto della Sindone, che in effetti
presenta delle 'ossidazioni' delle fibre superficiali del tessuto, che assomigliano pressappoco
ad una vampa lasciata da un ferro caldo. Questa leggendaria versione dell'aver camminato sul
fuoco, forse nata nello stesso campo militare cristiano e poi ripresa dalle fonti agiografiche
francescane, potrebbe riflettere la spiegazione stessa che i templari si erano dati a proposito
dell'immagine della Sindone, probabilmente formatasi per combustione.

V.3. Secondo Tommaso da Celano (Vita Prima, cap. XX), <<desideroso del martirio>>
Francesco prima cerca di andare <<missionario>> nella Spagna, poi in Siria. Per suo merito,
Dio <<moltiplica i viveri e scampa i naviganti dal naufragio>>. Il primo biografo ne azzecca
poche. Fa partire Francesco da Ancona, e lascia allo stesso tempo intendere la volontà d'un
viaggio in Spagna, molto probabilmente a Santiago di Compostella. Poi parla dell'incontro
col Sultano (forse in una tregua d'armi, tra la fine d'agosto e la fine di settembre del 1219,
secondo le testimonianze di Giacomo da Vitry, Ernoul, e Giordano da Giano). In questi
promiscui accenni del Celano potrebbero nascondersi aspetti remoti, e addirittura un itinerario
sacro di San Francesco a Compostella, sul quale lasciamo riflettere il lettore per le tante
suggestioni dei possibili retroscena. Aggiungiamo soltanto che secondo la leggenda proprio
l'Apostolo Giacomo il Maggiore avrebbe fondato questo famosissimo santuario. La città di
Assisi si trovava sulla direttrice del lunghissimo itinerario dei pellegrini cristiani che
provenivano dal sud, e nel medioevo prefrancescano una sua antica chiesa, S. Giacomo de
muro rupto, fungeva per essi da luogo d'accoglienza e stazione di sosta. Assisi era sulla
direttrice del viaggio mistico a Santiago anche perché ai suoi piedi scorreva la 'via franciosa',
quella stessa che mille anni prima aveva percorso Annibale, scendendo dalle Alpi durante la
campagna d'Italia, dopo la grande vittoria del Lago Trasimeno che lo portò poi nel Piceno
come narra Polibio.

V.4. Non sappiamo come Francesco, che era accompagnato da Pietro Cattani (un nome di
famiglia associato al 'Volto Santo' di Sansepolcro!), sia andato in Terra Santa: con tutta
probabilità si unì ai rinforzi delle città italiane, mandati da Onorio III, e raggiunse frate Elia,
che era stato inviato in Oriente dal capitolo del 1217, e che durante la sua permanenza era
riuscito ad ottenere che entrasse nell'ordine Cesario da Spira, una personalità preminente, un
uomo di cultura universitaria di alto livello. Francesco dovette arrivare a Damietta quando
l'assedio della città era nella sua fase iniziale. Ne parla Giacomo da Vitry, nella sua lettera VI,
<<dando l'impressione del sopraggiungere di qualcuno sconcertante, se non addirittura
importuno>> (Manselli, San Francesco, Bulzoni Editore, 1980, pag. 223 ss.). Giacomo da
Vitry è sorpreso dalle conversioni al francescanesimo di alcuni suoi più stretti collaboratori, e
così scrive: <<Il loro maestro, che fondò quell'ordine, essendo venuto nel nostro esercito
acceso di zelo di fede, non ebbe paura di passare all'esercito dei nemici e, avendo predicato
la parola di Dio ai saraceni per alcuni giorni, non ebbe grandi risultati. Il sultano, però, re
dell'Egitto gli chiese in segreto di domandare in suo nome, al Signore che, divinamente
ispirato, potesse aderire alla religione che maggiormente piacesse a Dio>>. Un'eco precisa
di questa presenza del Santo in campo avverso si troverebbe <<nella biografia di un teologo e
giurista egiziano, Fakhr ad-din al-Farisi, allora vecchissimo, ma assai famoso, in quegli anni,
come "direttore spirituale e consigliere di al-Kamil". In quest'opera egli ricorda la discussione
che, come sapiente arabo, avrebbe avuto con un monaco cristiano, alla presenza appunto del
sovrano>> (Manselli). In Le crociate viste dagli arabi (Torino, 2002, pag. 298), Amin
Maalouf nega, tuttavia, che fonti arabe a sua conoscenza riportino quest'episodio. Il sultano
del Cairo aveva però una mente aperta, attenta ai problemi dello spirito, ed era un abile
politico. Fece delle proposte ai cristiani, disposto a cedere <<non soltanto Gerusalemme, ma
anche il territorio della Palestina ad ovest del Giordano nonché la Vera Croce>> (Maalouf,
op. cit., pag. 247). Da parte sua anche Giovanni di Brienne era disposto ad un accordo. Vi si
oppose l'improvvido e confusionario legato del papa, il cardinale Pelagio. Soltanto nel 1228-
21

29 l'imperatore Federico II di Svevia riuscì ad ottenere la cessione di Gerusalemme con un


abile accordo politico e diplomatico con al-Kamil, che pure sollevò una tempesta
d'indignazione nel mondo arabo. Il Kadì di Nabulus, Shamas al-Din, accompagnò
personalmente l'Imperatore nel Sacro Recinto del Tempio, dove Federico rimase
letteralmente affascinato dalla stupefacente vista delle antiche rovine e delle nuove
costruzioni arabe. Il recinto era contornato da alcuni ingressi a grandi archi trilobati, di
meravigliosa imponenza, che esistono tutt'oggi. Sorprendentemente ritroveremo la
stilizzazione di questi imponenti archi nello 'stemma' d'attribuzione del ciclo degli affreschi
giotteschi dell'ancora indecifrata 'Cappella della Maddalena' nella Basilica inferiore del Santo,
per quanto riferiti dagli storici alla committenza di un certo vescovo Pontano d'Assisi, al
quale si apparenterebbe l'omonimo umanista Giovanni Pontano, anch'esso di origini umbre.
Ma in questo caso potrebbe trattarsi piuttosto d'una sorta di 'copertura' templare, sia in
relazione alla notevolissima spesa che dovette essere sostenuta per l'esecuzione dei tanti
affreschi, tutti di eccezionale qualità, ed anche perché quest'importante ciclo pittorico,
realizzato da Giotto prima del 1307, presenta altri misteri ai quali si accennerà in seguito.
22

(Fig. 2)
(L'incoronazione di Maria Maddalena?! Affresco attribuito a Puccio Capanna.)

V.5. Gerusalemme, che per la prima volta era stata conquistata dai cristiani il 7 giugno 1099
durante la prima crociata, fu perduta per sempre nel 1244. I Templari <<per prima cosa
decisero di proseguire la lotta contro i Mussulmani, senza lasciarsi turbare da tutte le
catastrofi. Dopo la morte del Gran Maestro Guglielmo di Beaujeu, durante la caduta di Acri,
nel 1291, il suo successore, Teobaldo di Gaudin, condusse gli ultimi Templari superstiti a
Cipro>> (M. Bauer, Il mistero dei templari, Newton e Compton, 1999, pag. 126). L'isola di
Cipro divenne quindi l'ultimo avamposto del regno cristiano, prima della persecuzione da
parte di Filippo il Bello (1307), che segnò l'estinzione dell'Ordine. In questi stessi anni
venivano completati i grandi cicli pittorici ed artistici della Basilica di Assisi. Tali
testimonianze artistiche appaiono di massimo rilievo nell'ambito della presente ricerca
indiziaria.

(Fig. 3)

V.6. Anzitutto, un grande vaso di porfido di colore rossobruno (Fig. 3), una sorta di Graal o
Vas sanguinis, che sarebbe stato donato da una fantomatica e mai esistita regina "Eugubea" di
23

Cipro, si trova proprio nella Basilica inferiore, la più antica, a sinistra, dopo pochi metri
appena varcato l'ingresso, appositamente alloggiato e incorniciato al centro di una grande
tomba gotica, o meglio "un'edicola triloba, sorretta da cinque mensole" (cfr. P. M. Della
Porta, E. Genovesi, E. Lunghi, Guida di Assisi, Editrice Minerva, Assisi, 1991, pag. 33)
tuttavia attribuita alla "famiglia fiorentina dei Cerchi" alla quale appunto apparterrebbero "gli
stemmi sulla cassa". Accanto a questo monumento, anch'essa appoggiata alla grande parete
che segna il confine a monte della Basilica, si trova l'altrettanto singolarissima 'tomba' di
Giovanni di Brienne, il re cristiano di Gerusalemme all'epoca di San Francesco (Fig. 4). Tale
monumento scultoreo di meravigliosa e finissima fattura gotica, sembra ancor più misterioso
ed inspiegabile. Ambedue i monumenti, per quanto ancora oggi oscure ne siano la storia e le
origini, appaiono con tutta evidenza tra loro singolarmente riconnessi, sia per la stretta
contiguità spaziale che per gli stessi contenuti allusivi, ed è esattamente questa la traccia
ipotetica da noi seguita con riguardo ai Templari.

(Fig. 4)

V.7. Francesco s'intrattenne in Terra Santa per un lungo periodo, <<almeno tra il 9 maggio
del 1218 ed il 29 agosto del 1219, oltre un anno>> (Manselli). E' perfettamente lecito
domandarsi quali furono i suoi rapporti con i Cavalieri di Cristo, tanto più che Giovanni di
Brienne fu suo devoto. I due citati monumenti funebri, la tomba di Giovanni da Brienne e
quella col grande vaso di porfido, ambedue sicuramente realizzati prima del 1307, si trovano
come detto l'uno accanto all'altro addossati alla grande parete di fondo della Basilica
inferiore, quasi fossero ai piedi della 'buia croce' tracciata dalla pianta stessa, a forma di Tau,
di quella che viene giustamente chiamata Chiesa della Sofferenza, allo stesso modo dei
personaggi sacri del passo del Vangelo di S. Giovanni (19, 25-27), che così suona: <<Vicino
alla croce di Gesù stavano sua madre e la sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria
Maddalena. Gesù dunque vista sua madre e presso di lei il discepolo che amava, disse alla
madre: "Donna, ecco tuo figlio!" Quindi disse al discepolo: "Ecco tua madre!" E da
quell'ora il discepolo la prese in casa sua>>. Colti da questa suggestione, ci vogliamo
inoltrare nell'impervia via delle 'ipotesi' che vi si potrebbero riconnettere.

V.8. La traccia templare fin qui profilata sembra confermata da molteplici elementi che
verranno partitamente presi in esame. Essa risulterebbe altresì collegata all'immagine
sindonica di Cristo, che riteniamo figuri chiaramente stilizzata nella chartula autografa di San
Francesco. Il 'disegno' fatto da San Francesco nella 'chartula' non rappresenta affatto il
Calvario, dove la leggenda colloca Adamo (un Adamo con la barba?), e dove, nuovo e
24

perfetto 'Adamo senza macchia', fu crocifisso Gesù Cristo, che ha restituito l'umanità all'Eden
divino. Esso sembra invece richiamare la Sindone, per quanto questa 'traccia' non sia mai
stata affacciata in precedenza, vuoi per ragioni storiografiche che per mancanza di ipotesi
attendibili. Altri elementi artistici, presenti nella stessa Basilica, rafforzano questa nostra
congettura. Se ne parlerà in seguito, dopo aver affrontato, più da vicino, la 'sospetta vicenda'
delle 'stimmate', che in effetti precederebbe la redazione del documento.

VI. LA VERITA' DELLE STIMMATE

VI.1. Considerato, mezzo secolo dopo la sua morte, dalla 'Legenda Major' di Bonaventura da
Bagnoregio, un Alter Christus (alla quale interpretazione teologica ed apocalittica si uniformò
il ciclo iconografico delle 'Storie di San Francesco', eseguito, sicuramente prima del Trecento,
da Giotto nella Basilica superiore in 28 grandi riquadri - 28, un numero pitagorico 'perfetto' -
recanti ciascuno una didascalia esplicativa; essi costituirono un'autentica rivoluzione nella
storia dell'arte, anche per la straordinaria concezione di affreschi aggettanti da una cortina
centinata verso un immaginario esterno, così sfondando letteralmente le pareti della Chiesa
gotica, aprendosi pienamente all'immaginazione emotiva dei pellegrini e dei tanti visitatori
cristiani di tutta Europa), Francesco sarebbe stato il primo stimmatizzato della storia: nelle
mani, nei piedi e nel costato. Giotto dedica ben tre riquadri alla questione delle stimmate,
compreso l'episodio della constatazione ufficiale delle piaghe. Sulla 'verità' delle stimmate si
nutrono tuttavia seri dubbi, gli stessi che avrebbe avuto, a suo tempo, Papa Gregorio IX
(amico personale del Santo, fu proprio colui che lo canonizzò nel 1228), com'è appunto
narrato dallo stesso San Bonaventura (Miracoli, 2: cfr. Fonti Francescane, 'editio minor',
Editrici Francescane, 1986, pag. 648). Il dubbio sull'autenticità delle stimmate non è certo
leggenda, avendo investito lo stesso Papa.

VI.2. Un eccellente saggio della medievalista Chiara Frugoni - Francesco e l'invenzione delle
stimmate (Einaudi, 1993), sottotitolo Una storia per parole e per immagini fino a
Bonaventura e Giotto (il quale ultimo, in un affresco del ciclo assisiate, rappresenta l'episodio
del 'sogno di Gregorio IX', cui appare in sogno Francesco, mostrandogli la visibilissima ferita
sul lato 'destro' del costato) - si occupa strettamente della sospetta vicenda, giungendo alla
conclusione che molto probabilmente questa sorprendente 'invenzione' si deve soprattutto ad
una 'lettera enciclica' indirizzata da fra' Elia a tutte le Province francescane alcuni giorni dopo
la morte del Santo, avvenuta in Assisi il 3 ottobre 1226. Per quanto l'interessantissimo e
documentatissimo saggio della Frugoni tocchi, con grande competenza e ricchezza, i tanti
intrecciati aspetti inerenti all'agiografia e all'iconografia francescana, compreso l'altrettanto
controverso episodio della famosa 'predica agli uccelli' (sul quale vedi anche il nostro La
facciata profetica del duomo di San Rufino in Assisi in Episteme n. 6), siamo dell'avviso che
le stimmate fossero reali, anche se impresse sulle carni del Santo in modo ingenuo, cioè sul
palmo delle mani e non sui polsi, conformemente all'iconografia medievale di Gesù
crocefisso: il Christus patiens medievale contrapposto al Christus triumphans, al cui ultimo
genere appartengono, rispettivamente, il Volto Santo di Sansepolcro, e quello molto simile del
Duomo di Lucca, con Gesù in croce, completamente rivestito della sua tunica. Tra l'altro, in
quello di Sansepolcro, che rimonta all'VIII secolo, e che è certamente di imprecisata fattura
orientale, la tunica è meravigliosamente allacciata in vita da un nodo misterioso, fisicamente
impossibile a riprodursi. Si potrebbe trattare, infatti, di segni di tipo 'psicosomatico', come
espressamente ritiene lo storico Franco Cardini, nella sua altrettanto splendida biografia
francescana (Francesco d'Assisi, Mondadori, 1991, pag. 244), secondo cui le stimmate
(queste le sue stesse parole) <<dimostrano appunto la forza della fede nel causare effetti fisici
attraverso la via psichica>>. Considerato che Francesco fu il primo ad averle ricevute (ciò
comportando che la sua stimmatizzazione non poteva nascere da un processo - qualunque
esso sia - di imitazione o ripetizione), anche il Manselli ritiene indubbio <<che il Santo
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l'abbia vissuta e considerata un'esperienza soprannaturale>>. Secondo Manselli, ne è


conferma più valida, per quanto ci è dato di comprendere, proprio il fatto <<che (il Santo)
non volle, né allora, né mai, che se ne parlasse, provocando - va detto - in qualcuno, e già nel
Medioevo, il dubbio che potesse trattarsi di una pia fraus, di una mistificazione a scopo
edificante. Ne sarebbe stato responsabile proprio frate Elia, che era, alla morte del Santo,
vicario generale, per affermare l'esaltazione del fondatore ed accrescere l'importanza
dell'Ordine. Ciò spiegherebbe il silenzio dei testimoni veri e validi>>. Ma subito dopo, il
Manselli aggiunge che <<bisogna, invece, ripetere che quel silenzio, che fu mantenuto da
questi testimoni anche quando non c'era necessità di farlo e al di là di esaltazioni postume,
che facevano di Francesco un Alter Christus, significava, per quanto ci sembra, ben altro: è il
rifiuto di raccontare, di diffondere un'esperienza, giudicata unica, irripetibile e personale>>.
Ma la piaga del fianco l'aveva involontariamente sfiorata Rufino. E come narra il Celano, un
frate di Brescia (un nuovo 'Tommaso' arnaldista?) espresse, addirittura, il desiderio di vederle
(quindi se ne parlava già in vita). Le 'stimmate' furono poi constatate "da molti", dopo la
morte.

(Fig. 5)

VI.3. Lo storico assisiate Francesco Pennacchi pubblicò, nel 1904, una pergamena notarile, in
cui erano elencati i nomi di coloro che videro le stimmate, suddivisi in tre gruppi (come
riporta la Frugoni): <<quelli che le videro in vita, coloro che le scorsero in vita e in morte, e
coloro che le videro senza specificazione>>. Una prova 'giurata' è già di per sé causa di
sospetto. Ma esiste ancora, in Assisi, la 'confraternita delle stimmate', proprio in via Bernardo
da Quintavalle (il primo compagno di San Francesco), sormontata da una lapide quadrata
(Fig. 5), recante tre chiodi riuniti, col loro vertice rivolto verso il basso, il cui originale
medievale (sostituito dalla bianca copia che oggi si scorge in uno stipite disadorno) sarebbe
stato donato da Arnaldo Fortini (illustre storico del francescanesimo ed anche podestà di
Assisi durante il Ventennio) al suo grande amico Gabriele D'Annunzio. Questa lapide, legata
al Notturno (1921), concepito dal poeta pescarese in un contesto di suggestioni francescane e
di meditazioni sulla morte, peraltro suggerite dal Fortini stesso (che fu poi difensore al
processo di Verona salvando la vita al gerarca Cianetti, Ministro dell'agricoltura, con uno
straordinario cavillo giuridico, come egli stesso narra in Coloro che vinceranno, Foligno,
1945), si trova ancora oggi al Vittoriale, la famosa villa dannunziana acquistata proprio in
quell'anno dagli eredi di Henry Thode, il primo grande storico del francescanesimo che era
morto l'anno prima (1920). Quando si dice, appunto, dei sottili fili che intessono la storia, e
legano tra loro gli eventi in modo singolarissimo! Anche questo un bel mistero.
26

VII. MISTERI FRANCESCANI

VII.1. Se le 'stimmate' di San Francesco fossero state soltanto un'emozionale invenzione


agiografica, dovuta alla figura straordinaria del Santo, in tutto e per tutto conforme a Gesù,
non per questo cadrebbe la nostra traccia. Anzi, come ipotizziamo in queste pagine
certamente con ardita costruzione, se Francesco vide veramente la Sindone, che in segreto gli
avrebbero mostrato i Templari in Terra Santa, proprio per questa ragione sarebbe potuta
sorgere la singolare versione delle piaghe, se pure si fosse trattato di una pia leggenda, e non
certo di una frode. Ma le stimmate di Francesco erano reali, ed egli le nascose con sommo
pudore, riconoscendone il 'mistero'. Il contesto dell'episodio della Verna, proprio nei giorni
della festa di Michele Arcangelo, raccoglie ad unità le 'stimmate' e la 'benedizione' a fra'
Leone. Fra i due fatti, cioè le stimmate ricevute alla Verna e la chartula con la benedizione a
fra' Leone e le Lodi di Dio, ci sarebbe una profonda e diretta relazione. Una pluralità di
elementi sembra, del resto, convergere proprio in questa direzione. Ciò che inquieta e
sorprende è proprio la singolare coincidenza dei correlati significati, a parte i ricami indiziari
che vi si possono costruire sopra. Ma quando le singole tessere di un ipotetico mosaico
tendono a disporsi secondo una certa configurazione, il fatto stesso di questa confluenza ci
dovrà mettere sull'avviso.

VII.2. Il nostro 'puzzle' si compone invero di molti elementi ad incastro. Ma occorre


rimuovere l'adagiata e consueta abitudine a guardare alle rappresentazioni artistiche come a
puri fatti agiografici, sprovvisti di un loro eventualmente remoto significato. La lettura di
questi dati nascosti, eppure evidentissimi all'occhio, potrebbe infatti condurre a molte
sorprese, che senza pretesa di verità vogliamo partecipare al lettore con un evidente carico di
suggestioni. I dati oggettivi da noi presi in considerazione si trovano tutti riuniti nella
straordinaria Basilica di San Francesco in Assisi, compreso quel corno d'avorio che gli
avrebbe donato il sultano d'Egitto, e col quale, secondo la Bibbia, veniva chiamato a raccolta
il popolo di Dio. La nostra 'lettura criptica' si fonda su una molteplicità di dati allusivi, che
fino ad oggi sarebbero stati completamente ignorati, rimanendo perciò avvolti in un velo di
mistero, che qui si tenta di recuperare ad un possibile quadro di 'razionalità' esplicatrice. In
questa stessa direzione è parso muoversi lo stesso Prospero Calzolari nel suo
interessantissimo articolo comparso su Episteme n. 6, al quale volentieri si rinvia, a proposito
della 'presenza federiciana' nella Basilica del Santo ed anche dei significativi retroscena
'alchimistici' di alcuni introdotti componenti dell'Ordine, come in effetti risulta da fonti
plurime e concordanti. Gli elementi sui quali si è appuntata la nostra attenzione sono costituiti
da vari affreschi di grandissimo risalto artistico, e dagli accennati monumenti funebri presenti
nella Basilica. Un possibile paragone potrebbe correre, a questo riguardo, con l'Ultima Cena,
il portentoso affresco di Santa Maria delle Grazie a Milano, eseguito da Leonardo con colori
ad olio che ne hanno fortemente compromesso la conservazione. Alcuni acuti osservatori
hanno infatti colto in questo capolavoro svariati segni nascosti e particolarissime allusioni,
secondo un double entendre. Anzitutto, la scena del grande affresco si dispiegherebbe
all'occhio come le ali di un'aquila, secondo una gigantesca <<M>> (la stessa M che è
presente, evidentissima ed alquanto fuori del comune, nello straordinario crocifisso di
Sansepolcro, oggi sistemato nel Duomo dedicato a San Francesco, anche a ritenere che questa
"emme" dorata voglia rappresentare soltanto una semplice 'stola sacerdotale', come per lo più
si sostiene). L'apostolo che "Gesù amava" (Gv 13, 23) non viene rappresentato da Leonardo
col capo poggiato <<sul suo petto>>, com'è detto nel Vangelo, ma fortemente discosto dal
Cristo, con la testa del tutto piegata a sinistra, lunghi capelli, e un vestito del tutto simile a
quello di Gesù, ma dai colori opposti (blu e rosso), sorprendentemente invertiti. Non si
tratterebbe di San Giovanni, bensì di Maria Maddalena, secondo il Vangelo apocrifo di
Tommaso proprio <<la compagna di Cristo>>. Tutti i caratteri della 'figura' sarebbero
femminili. Nessun altro, a tavola, è abbigliato allo stesso modo. Secondo gli scrittori Baigent,
27

Leigh e Lincoln, Leonardo sarebbe stato uno dei capi dell'ipotetico 'priorato di Sion', sul
quale si fonda, appunto, il singolarissimo intreccio de Il santo Graal (pubblicato in Italia nel
1982). Le leggende antico-medievali della Maddalena sembrano del resto riprese anche in
ambienti catari, come ben chiarisce Sabato Scala, in un assai ben documentato e peraltro
interessantissimo articolo, ugualmente pubblicato su Episteme n. 6. L'affresco dell'Ultima
cena potrebbe in effetti nascondere una singolare filigrana nascosta. E ci sarebbe dell'altro.
<<Una strana mano punta uno stiletto allo stomaco di un discepolo, nel gruppo dell'estremità
di sinistra della tavola, per chi guarda. Non si riesce ad immaginare come la mano possa
appartenere a qualcuno dei commensali>>. <<Guardando meglio questa mirabile opera si
scopre, a destra di chi guarda, un uomo alto e barbuto che si piega a parlare all'ultimo
discepolo e che volta completamente le spalle al Redentore. Tutti riconoscono che il modello
per questo discepolo, San Taddeo o Giuda di Giacomo, è lo stesso Leonardo>> (cfr. L.
Picknett e C. Price, La Rivelazione Templare, Sperling e Kupfer, 1998, pag. 4 ss.). Per i citati
autori, anche altre opere di Leonardo sarebbero caratterizzate da analogo criptico simbolismo,
per esempio allusioni a una nascosta rivalità tra Giovanni Battista e Gesù, emergente da
alcuni significativi dettagli. Ed infatti, molte teorie sono state affacciate dagli studiosi a
proposito di Gesù e del Battista, se legati da un medesimo rapporto, oppure nettamente
distinti e contrapposti da ideologie e predicazioni inconciliabili fra loro. Il Battista era
probabilmente un 'esseno' del Qumran. E sui manoscritti del Qumran, scoperti per caso nel
1947, le sorprese e le diatribe non sembrano affatto sopite.

VII.3. Ma come avrebbe potuto conoscere, Leonardo, certi sconvolgenti particolari, che
emergono soltanto dai Vangeli 'apocrifi' (il termine significa 'segreto' e non 'falso') di
Tommaso e di Maria Maddalena, scoperti soltanto nel 1945, a Nag Hammadi nell'alto Egitto,
tra i resti di un deposito (o genizhà) dismesso di papiri? Sabato Scala si occupa anche di
questi aspetti inerenti a Maria Maddalena e alla diffusione del suo culto nel Medioevo,
riportando tra l'altro alcuni frammenti degli 'apocrifi' (cfr. Luigi Moraldi, I vangeli apocrifi,
Adelphi, 1993, testo e commento), come <<la compagna del salvatore è Maria
Maddalena>>, oppure anche <<Cristo l'amava più di tutti i discepoli e spesso la baciava
sulla bocca>>. In questo contesto, ripreso da Sabato Scala con estrema originalità e peraltro
abbondantemente presente nel citato successo editoriale de Il santo Graal, emergerebbe anche
il "mistero" della "camera nuziale" (vedi l'ulteriore articolo di Scala presente in questo stesso
numero di Episteme), in un intrico 'apocrifo' (però severamente censurato, già in antico, da
sant'Ireneo di Lione nel suo Contro le eresie: cfr. edizione Cantagalli, Siena, 1968), che
sembra fondere, ed anche confondere con Gesù Salvatore, proprio il 'Simon Mago' degli Atti
degli Apostoli, e la Maddalena con <<la sua prima "idea", una certa Elena, che in quel tempo
lo seguiva, una volta prostituta>>, appunto redenta dal galileo Simone di Gitton (educato ad
Alessandria, dove avrebbe appreso le sue "arti magiche") pochi anni dopo il supplizio di Gesù
(cfr. Atti 8, 13-18) e in seguito divenuta sua compagna (come appunto ci fa sapere Eusebio da
Cesarea nella sua Storia ecclesiastica, II,13, cfr. Edizioni Città Nuova, Roma, 2001, pag.
109-110). Dalla sospetta versione di "Gesù mago" (cfr. ad es. Eliphas Levi, Storia della
magia, Orsa Maggiore, 1993, pag. 139 ss.), aveva preso opportunamente le distanze il grande
storico dell'età costantiniana, Eusebio, che ne cita, per contrapposto, diversi altri (ad es.
Teuda, l'Egiziano, Menandro e Cerinto), siano stati essi degli agitatori politici o praticanti
miracoli, o ambedue le cose insieme. Ma la traccia esoterica del 'Gesù Mago' è riemersa, negli
anni ottanta del secolo scorso, con le clamorose scoperte del grande biblista americano
Morton Smith, autore di libri straordinari. C'è dunque qualcosa di nascosto, che malgrado gli
sforzi dei primi apologisti e storici cristiani (da Giustino a Origene, da Origene a Tertulliano,
e da Tertulliano ad Eusebio), non può essere soppresso: il 'sospetto', cioè, che il 'mistero
Gesù' nasconda 'cose umane', ben inteso accanto ai 'disegni divini'. Dinanzi alle pretese
stravaganti di alcuni autori gnostici, i Padri della Chiesa, seguiti dalla maggior parte degli
storici antichi e moderni, hanno negato l'esistenza di un insegnamento 'esoterico' praticato da
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Gesù e proseguito dai suoi discepoli. Ma come fa notare il grande storico delle religioni M.
Eliade, <<questa opinione è contraddetta dai fatti>>. Celso, in un'opera diretta Contro i
cristiani, scritta nel II secolo d.C. e che ci è pervenuta salvaguardata in buonissima sostanza,
attraverso le stesse citazioni testuali fatte da Origine nel suo Contra Celsum più tardo di una-
due generazioni, aveva già affacciato questi ed altri dubbi, dicendosi a diretta conoscenza di
molti 'retroscena'. Le sue accuse ad un cristianesimo dalle due facce (riti simili a quelli
egiziani, pratiche di magia, incerte origini di Gesù, favola della 'resurrezione' ecc.), erano
principalmente rivolte al richiamo ai 'doveri di fedeltà' verso lo Stato romano. Ma alla fine il
cristianesimo divenne Stato, o viceversa, e la questione dell'originale insegnamento di Gesù
passò in secondo piano rispetto alla consistenza della Sua immagine sacra, costruita sulla base
della versione 'teologica' paolina, in netto contrasto rispetto a quella di derivazione 'gnostica'.
Il prolifico Padre della Chiesa Eusebio da Cesarea aveva scritto anche una Vita di Costantino,
smaccato panegirico delle sue 'benemerenze' cristiane. Ma per Eusebio l'Impero romano è
predetto dalle profezie del Vecchio Testamento, e Cristo è il 'logos' della storia. Si potrebbe
dire lo stesso di San Francesco, che in effetti richiuse per sempre, dietro di sé, il 'Medioevo
oscuro', aprendo le porte a un'epoca nuova, per l'Italia e l'Europa cristiane. Religione e
politica sembrano interagire fra loro, e un tale fenomeno non può certamente essere passato in
secondo piano. <<Gli elementi, come il monoteismo e la monarchia universale, la pace
romana e quella cristiana, la provvidenzialità dell'Impero nei rispetti del Cristianesimo, le
profezie che lo riguardano, tutti questi ed altri elementi che, inizialmente esprimevano un
rapporto intimo sì, ma pur sempre esterno, tra Cristianesimo e Impero, a un certo punto
esprimono un rapporto vitale essenziale tra le due potenze. Tutte e due nate nello stesso
tempo, con Cristo ed Augusto, aventi già relazione tra loro, si sono evolute una verso l'altra
fino ad incontrarsi nell'Impero Romano Cristiano. Il Cristianesimo si è lentamente
universalizzato ed ha assunto strutture giuridiche. L'Impero si è cristianizzato. Tutto ciò si
verifica, nel suo ultimo stadio, con Costantino, il primo Imperatore cristiano nel quale Dio
completa ciò che aveva iniziato con Cristo ed Augusto. C'è dunque continuità tra Augusto e
Costantino, tra l'Impero Romano e l'Impero Romano Cristiano. Il regno giudaico che l'Impero
di Augusto aveva ereditato diviene di fatto eredità dell'Impero Romano con Costantino,
quando si verifica l'incontro di questo con l'erede della Sinagoga, la Chiesa>> (R. Farina,
L'Impero e l'imperatore cristiano in Eusebio di Cesarea, Zurigo, 1966, pag. 158). In questo
modo, la 'storia' viene giustificata in base ai 'disegni divini', secondo quanto aveva già
affermato Sant'Agostino, nella Città di Dio. Occorrerebbe, piuttosto, considerare i 'fatti
umani'. Saper leggere cioè quegli 'indizi' che recano con sé una recondita filigrana degli
eventi realmente occorsi. In quest'articolo, come già si diceva, provocatorio ma non blasfemo,
si cercherà di ripercorrere anche il mistero Gesù, che porterebbe appunto alla Sindone: il
sacro lenzuolo di lino, o tangibilissimo mandylion, che, pervenuto ai Templari nel 1204 (dopo
la conquista di Costantinopoli a seguito della quarta crociata che non giunse mai in Terra
Santa, durante la quale morì Federico I di Svevia, il nonno di Federico II), sarebbe
testimonianza concreta di un affascinante ed insoluto 'mistero', che a dire degli agguerriti
studiosi di sindonologia, la scienza ufficiale non avrebbe ancora chiarito.

VII.4. Quanto all'ipotizzato 'mistero francescano-templare', i documenti artistici di cui si è


fatto cenno - presenti sia nella Basilica inferiore che in quella superiore - sembrano in effetti
contenere una grande quantità di allusioni e di sottintesi, tutti riconducibili alla Sindone, ed è
questo il dato più sorprendente che si presenta sotto gli occhi. Essi consistono nei due
stranissimi e fino ad oggi del tutto inspiegati monumenti funebri menzionati in precedenza,
come pure in alcuni affreschi di primaria importanza artistica, che presentano inquietanti
'anomalie', e, secondo noi, probabilissime allusioni criptiche alla Sindone. Anzitutto,
nell'autografo 'templare' a forma di Tau, col quale Francesco siglò la chartula di 'benedizione'
a fra' Leone (questi se la tenne addosso, pelle a pelle, fino alla sua morte, si noti bene: ben
ripiegata in quattro!), si può scorgere, in modo assai singolare, la riproduzione per mano del
29

Santo del 'sacro lenzuolo' in cui fu avvolto il cadavere di Gesù. L'insieme concordante degli
elementi sembra rimandare proprio alla Sindone, che sarebbe arrivata ai Templari dell'Eubea
e di Cipro nell'ultima fase della storia dell'Ordine, prima dell'estinzione da parte di Filippo il
Bello con l'assenso della Chiesa. Un sorprendente e fino ad oggi del tutto insospettato ponte
'sindonico-templare' connetterebbe dunque, all'immagine della Sindone, il 'Volto del Signore'
evocato nella benedizione biblica impartita a fra' Leone, subito dopo la mistica visione del
Serafino: altra straordinaria 'evocazione sindonica' come essa è stata riportata dalle Fonti
francescane. In particolare, questa traccia si sostanzia nel segno del "Tau", siglato da
Francesco stesso, cioè una sorta di 'firma templare' in seno all'Ordine francescano, che
rimonta sì al segno dell'Angelo apposto sulla fronte degli ebrei prigionieri in Egitto poi
liberati da Mosè, ma che al tempo stesso ha pure l'aspetto d'un vero e proprio 'sigillo' dei
Cavalieri del Tempio, che sembra voler direttamente alludere al celato mistero della Sindone.
Lo lascia sospettare proprio quel "Tau" a forma di croce commissa, d'un rosso assai vivo,
emergente dalla 'bocca' del 'volto barbuto', a propria volta adagiato su un grande lenzuolo
rettangolare, ben dispiegato e stilizzato nella sua forma, con le fattezze stesse di un telo di
lino, grande e leggero. E' questa, secondo noi, l'esatta 'riproduzione' per mano di San
Francesco dell'immagine della Sindone, di quella parte cioè recante in evidenza il volto di
Gesù, che in tutto segreto i Templari gli avrebbero mostrato durante il suo soggiorno in Terra
Santa, considerandolo a pieno diritto uno di loro, armato della 'spada santa' della fede e della
'nuda verità evangelica'. In nome di questo 'Volto Santo' della Sindone, Francesco si sarebbe
recato dal sultano con un messaggio di pace, portando con sé la certezza del Cristo, l'agnello
di Dio, morto per i peccati del mondo. Il suo gesto clamoroso non solo troverebbe in questo
modo una spiegazione plausibile, ma sottintendeva senz'altro il desiderio di pace per i luoghi
santi, evidentemente condivisa dagli stessi Templari che detenevano la Sindone e in
particolare da Giovanni di Brienne, comandante supremo dell'esercito crociato. Magister
Rufinus, grande canonista bolognese allievo di Graziano, il benedettino di origini francesi
autore del De Bono Pacis (vedi il nostro articolo in Episteme n. 6), nonché vescovo di Assisi
pressappoco all'epoca della nascita di San Francesco, in estrema vecchiaia era stato forse il
primo (oscuro e dimenticato dalle fonti) 'maestro' del giovane Francesco, che si recava da lui
in camminate solitarie presso l'antichissima abbazia benedettina inerpicata alle falde del
Monte Subasio. Da questo grande vecchio di straordinarie qualità morali ed intellettuali,
Francesco potrebbe aver appreso la dottrina etica della Pace, secondo le stesse parole del
Vangelo. Non una fede, quella cristiana, superiore a tutte le altre, e da imporre con le armi,
come pretendeva Pelagio, bensì un messaggio autenticamente cristiano di salvezza universale,
indirizzato a tutta l'umanità di retta volontà, capace di riscattare la storia dai suoi vizi e dai
suoi mali, le cui nefaste conseguenze si protraggono drammaticamente anche nel tempo
presente, segno evidente d'un malessere metafisico, tale in ogni caso da condurre
all'armageddon biblico, una volta scatenati 'Gog e Magog', se non stiamo esagerando con un
pennello insanguinato le fosche tinte di un terribile scenario che sembra prospettarsi per il
prossimo futuro.

VII.5. La nostra congettura 'sindonica' poggia su molteplici elementi. In realtà la


singolarissima 'firma' di San Francesco è comunemente interpretata come un "Gulgotha" (in
aramaico), Calvario o Teschio, il luogo dove fu crocifisso Gesù, nuovo e perfetto Adamo, e
sul quale Costantino fece edificare, nel 326, dopo il Concilio di Nicea, la basilica del Santo
Sepolcro. Ciò non significa che sia questa l'interpretazione giusta, pur sempre riconnessa a
Gesù. La nostra ipotesi ci condurrà, invece, anche al misterioso Volto Santo di Borgo
Sansepolcro, la città natale di Piero della Francesca, autore dello straordinario ciclo pittorico
della Leggenda della Santa Croce ispirato all'opera di Jacopo da Varazze (quest'ultimo nato
nel 1228, o forse nel 1229, e che, nel 1244, rivestì l'abito domenicano), eseguito nella Chiesa
di San Francesco ad Arezzo, ma anche di quel Luca Pacioli anche lui frate domenicano, il
matematico amico di Leonardo che eseguì le incisioni del De divina proportione. L'Uomo di
30

Leonardo, che figura oggi nella moneta da un euro e che viene rappresentato secondo la
sezione aurea, come fece anche Duerer, sempre sul modello fornito da Vitruvio nel De
architectura, potrebbe essere, addirittura, una medesima rappresentazione (secondo i canoni
rinascimentali), dell'umanità 'ideale' del Cristo della Sindone quale perfetto prototipo, a
prescindere dall'irrilevante dettaglio dalla barba. Ciò che poi colpisce dell'Uomo della
Sindone è la sua statuaria ieraticità, il Volto metafisico e regale d'un "uomo-dio" torturato. Ed
e' perfettamente 'umano' questo Volto sacro: perfettamente presente, e perfettamente assente.
Somiglia all'umana misura dell'eternità. E talvolta sono le tracce più impensate a spianare una
via, ove non si tratti d'abbagli o di miraggi, se non suggestioni soggettive. Ma la molteplicità
degli indizi sembra legittimare una simile ipotesi, senza per questo dover scadere nella
'fantastoria' o in dilettantesche bizzarrie da 'non addetti ai lavori'. La razionalità di questa
congettura riposa sulla stessa oggettività della Sindone che riteniamo genuina. Nel loro
insieme sembra preformarsi un quadro ordinato e coerente, che non andrebbe trascurato,
almeno come traccia.

VIII. IL TAU MISTICO

VIII.1. Sarebbero questi i suggestivi 'miraggi' nei quali ci saremmo imbattuti (a parte la
chartula di cui si è già detto). Nel Trattato dei miracoli, composto da Tommaso da Celano
nel 1252, si legge (3,3) che <<fra le tante lettere, gli era familiare la lettera Tau, con la quale
firmava i biglietti e decorava le pareti delle celle>> ed inoltre (3,15) che <<con tale sigillo
San Francesco firmava le sue lettere, tutte le volte che per necessità o per spirito di carità,
spediva qualche suo scritto>>. Non c'è dubbio che Francesco attribuiva a questo sigillo, o
piuttosto segno manuale, come allora si diceva, un valore speciale, tanto da considerarlo
<<come lo stemma per il nascente Ordine>> (vedi il prezioso saggio di D. Vorreux, Tau
simbolo francescano, Edizioni Messaggero, Padova, 1988, pag. 7). Donde era venuta a
Francesco questa devozione per il Tau? Vorreux ricorda un miracolo postumo del Santo,
riportato sia dal Celano che nell'affascinante Leggenda aurea di Jacopo da Varazze.
Toccando il punto dolente con un bastoncino, che recava su di sé proprio il segno del Tau,
Francesco avrebbe guarito un uomo che aveva completamente perduto l'uso d'una gamba.
Subito l'ascesso sparì e il segno rimase indelebilmente impresso su quella parte. Sembra che i
catari, o neo-manichei, rifiutassero la croce come indegna dell'opera redentrice di Dio, mentre
altri eretici dell'epoca l'adoravano sotto forma di Tau. L'11 novembre 1215, papa Innocenzo
III, nel superbo sermone d'apertura del Concilio, col quale indisse la crociata, evocò il "Tau
biblico" (cfr. Ez. 9,4), aggiungendo: <<Siate i campioni del Tau e della Croce!>>. Vorreux
riporta anche il passo d'un trovatore anglo-normanno della fine del XIII secolo in cui viene
messo in evidenza il significato penitenziale del simbolo del Tau. Del resto gli 'antoniani', o
'frati ospitalieri' di sant'Antonio eremita nel deserto della Tebaide, un ordine fondato in
Francia a Saint-Antoine (Vienne) nel 1095, avevano adottato, come loro simbolo, un Tau. Lo
stesso per i 'valdesi', come mette in luce, proprio Henry Thode, il primo grande studioso del
francescanesimo. Per essi la croce di Cristo aveva forma di Tau (una delle tre forme possibili:
cfr. G. Ricciotti, Vita di Gesù Cristo, par. 597, su cui il corpo di Gesù sarebbe stato fissato,
appunto, "con tre chiodi"). San Girolamo (altro padre del deserto, morto nel 420) sapeva che
l'antico "Tau" ebraico era cruciforme. Sosteneva Pascal (Pensieri, 433) che <<l'antico
testamento è un numero>>. Al Tau la numerologia assegnava il valore '300', col significato di
'salvezza'. Anche Virgilio, prima di San Giovanni, aveva alluso al numero 666, e il nome di
Gesù, secondo la cabala, dava proprio il valore di 888. Il preziosissimo olio di 'nardo' col
quale la Maddalena unse Gesù nella casa di Betania, costava <<più di trecento danari>> (Mc
14,4-5; Gv 12,5). E' facile smarrirsi in questa selva di cifre simboliche, di cui è ricca fonte lo
stesso Vangelo (si pensi soltanto ai "153" pesci del lago di Tiberiade) come pure l'Apocalisse,
proseguendo una 'costante' di origine biblica. Col sigillo del Tau furono infatti segnati sulla
fronte i 144.000 servi di Dio (Ap 7, 2-4: cfr. E. Corsini, Apocalisse di Gesù Cristo, Torino,
31

2002). Costantino (secondo Eusebio) vide il labarum (cioè la croce a forma di Tau) come un
"segno di vittoria" (se non vide, piuttosto, la costellazione del Cigno, alta nei cieli estivi). E
"guarì dalla lebbra" quando fu segnato dal "Tau nel battesimo" (però, a quanto sembra,
ricevuto dall'Imperatore soltanto in punto di morte). Il Tau si ritrova pure nella iconografia
catacombale, e fu usato come decorazione architettonica in San Zenone, a Verona. Vorreux ci
trasporta in un vortice di citazioni e di riferimenti, tutti interessantissimi. Ma sembra evidente
che il Tau possedeva per San Francesco un significato particolare, strettamente legato
all'Ordine di povertà da lui fondato. Una rappresentazione del Tau si dovrebbe poi scorgere
nella stessa pianta della Basilica inferiore di Assisi, per la quale Gregorio IX aveva posto la
prima pietra il 16 luglio del 1228. Ma padre Beda Kleinschimdt (Die Basilika von Assisi,
Berlino,1915), uno grandi studiosi tedeschi della storia del francescanesimo e dell'arte
francescana, nega espressamente questa possibilità. Secondo lui i costruttori della Basilica
non avevano, e non potevano avere, quest'intenzione 'mistica ed allegorica'. Ma questa chiesa
inferiore era, in origine, un luogo buio, appositamente concepito per destare un profondissimo
senso di sofferenza ed un fortissimo sentimento, o 'pathos' di commiserazione. Significava la
morte di Gesù. E questo spiega la presenza stessa dei due singolarissimi monumenti funebri,
cui si è fatto cenno.

VIII.2. Il Tau è anche un importante simbolo templare, come mettono in luce diversi altri
autori (tra i quali A. Demurger, Vita e morte dell'Ordine dei Templari, Garzanti, 1987; G.
Bordonove, La vita quotidiana dei templari nel XIII secolo, Rizzoli, 1989; M. Bauer, Il
mistero dei Templari, Newton e Compton, 1999). In Spagna, sulla strada di Santiago di
Compostella, a Ponferrada, i Templari avevano una commenda ornata di numerosi Tau,
tutt'ora visibili (Vorreux, op. cit., pag. 85). L'affacciata ipotesi del contesto sindonico della
chartula di fra' Leone è quindi tutt'altro che campata in aria. Tutti gli elementi sembrano
convergere in questa direzione. Ed è abbastanza singolare che un frate francescano francese,
certo Jean de Roquetaillade (1310-1366), sostenesse che proprio San Francesco era " il
crociato del Tau, colui che porta il Sigillo"! L'episodio stigmatico della Verna con
l'apparizione miracolosa del Serafino, il contesto della ricorrenza della Santa Croce e di San
Michele Arcangelo, il sigillo del Tau, il particolare stato d'animo di fra' Leone e di Francesco
stesso, le Lodi di Dio e la benedizione estratta dal passo biblico di Numeri col Volto del
Signore, opportunamente evocato da Francesco e presente nel paragrafo del "nazireato",
sembrano convergere, tutti insieme, verso l'immagine della Sindone, sempreché il sacro
lenzuolo fosse effettivamente pervenuto in mani templari, come sembra del resto assai
probabile, e fosse stato, quindi, realmente mostrato a Francesco in Terra Santa, come appunto
possiamo ipotizzare per inferenza logica tutt'altro che arbitraria. La nostra è chiaramente una
traccia indiziaria, che tuttavia si muove abbastanza bene sul suo stesso terreno. Nelle
presunzioni indiziarie c'è sempre un "serpente che si morde la coda", e l'attendibilità logico-
probabilistica delle conclusioni si connette soltanto alla quantità e qualità degli indizi (cfr. al
riguardo U. Bartocci, America: una rotta templare, ed. Della Lisca, 1995, pag. 17, un saggio
rivoluzionario sul mistero di Cristoforo Colombo, di straordinaria qualità e chiarezza).
Affermava infatti il grande storico francese G. Duby: <<Immaginiamo. E' quello che gli
storici debbono sempre fare.>>. Se anche lo storico di professione è costretto talvolta ad
immaginare, questa possibilità diviene per il 'giallista' quasi un obbligo. Egli è costretto a
rimuovere le semplici ed ambigue apparenze riferite ad un quadro contraddittorio e confuso,
avvolto nell'incertezza, ed è forzatamente orientato dalla stessa ragione a cercare 'verità
nascoste' o 'cifre sotterranee' riportandole ad una traccia che possa dirsi coerente e leggibile.
Non sarà la 'verità'in senso assoluto, ma è quanto può presumersi per tale in base alla
coerenza del quadro indiziaro che emergerebbe con plastica evidenza. Con ciò non possiamo
certo pensare di apparentarci al genere degli storici di professione, ma è chiaro che gli indizi
da noi offerti hanno comunque un loro peso.
32

VIII.3. Tornando all'argomento precedentemente affacciato dei simboli, ci sembra che le


stesse 'date' annuali delle ricorrenze cristiane possano riflettere un'occulta cifra astronomica,
misticamente risolta, compresa la data della festa settembrina di San Michele Arcangelo, nella
quale occasione San Francesco avrebbe ricevuto le stimmate (cfr. sull'argomento delle
ricorrenze cristiane A. G. Gilbert, I re pellegrini - Sulle tracce di una tradizione segreta,
Corbaccio, 1998 e Calendario di A. Cattabiani, Rusconi, 1988). A Edessa in Turchia (l'antica
Urfa), c'erano due colonne corinzie, simili alle due grandi colonne del Tempio di
Gerusalemme, entro le quali (Gilbert) si incorniciavano le costellazioni (ad es. Orione, il
Cacciatore, ovvero, il Nimrod biblico, o mito di 'Sansone': rimandiamo in ogni caso agli studi
archeoastronomici del grande Schiaparelli, che fu anche "socio corrispondente" dell'onorata
Accademia Properziana del Subasio di Assisi, fondata a metà del XVI secolo). Tuttavia,
l'ipotesi che nel cielo delle costellazioni, si potessero nascondere simboli e miti religiosi, è
tutt'altro che infondata, come provano anche gli accuratissimi studi dello storico della scienza
Giorgio de Santillana (Il mulino di Amleto; vedi la presentazione che ne fa Massimo
Cardellini in Episteme n. 5) . Ciò potrebbe valere per l'antichità classica e per la Bibbia, come
per lo stesso cristianesimo, così come sembra valere, ad esempio, per la civiltà egiziana e
quella babilonese. Nulla esclude che Gesù sia stato effettivamente assimilato al Sole, durante
la fase di affermazione del cristianesimo nel mondo romano, quale simbolo stesso dell'unico
Dio di Mosè ("de te Altissimu porta significatione", come si leggerà, poi, nel Cantico delle
creature, composto probabilmente nel 1224 a San Damiano, nell'anno stesso delle stimmate),
per esaltarne sia la valenza cosmico-storica, che quella soteriologia. Gesù stesso si
autodefiniva (nel Vangelo di S. Giovanni) come "verità e vita". Proprio come un sole
nascente, Egli camminò sulle acque del lago di Tiberiade. La narrazione evangelica potrebbe
nascondere la cifra simbolica di un mito pienamente giustificata dalla straordinaria valenza
della figura di Cristo.

(Fig. 6)

VIII.4. Ma tornando al nostro discorso, sembra che gli indizi siano molteplici e concordanti,
sicché basterebbe elencarli. Si tratta della chartula di fra' Leone, del sepolcro di Giovanni di
Brienne e del vaso della 'regina di Cipro', già ricordati; delle scene giottesche (presenti nella
misteriosa Cappella della Maddalena) dello 'Sbarco a Marsiglia' (Fig. 6) e del 'Vescovo
Zosimo che porge un mantello a Maria Egiziaca', una doppia identità assunta dalla figura
della Maddalena nel IV secolo d.C.? (Fig. 9); dell'episodio di "San Martino che dona a un
povero la metà del suo mantello", affresco di Simone Martini appartenente al ciclo della
33

Cappella di S. Martino risalente al 1317 (Fig. 8); della già vista (Fig. 2) 'Incoronazione della
bionda Maddalena' (così sembrerebbe) da parte di Gesù, un affresco 'incompiuto', presente,
in gran vista, nell'arcone frontistante della Tribuna di S. Stanislao, che viene invece
comunemente interpretato come una 'Incoronazione della Vergine'; ed infine, dei primi due
affreschi del famosissimo ciclo delle Storie di San Francesco realizzato da Giotto nella
Basilica superiore, i quali rappresentano, rispettivamente, l'Omaggio a Francesco dell'uomo
semplice (ai piedi del Santo viene steso un telo di lino finissimo! - Fig.7), e il Dono del
mantello al povero cavaliere (secondo la dubbia interpretazione corrente, si tratterebbe di
Francesco, il quale da nuovo San Martino, sceso però da cavallo, donerebbe 'tutto' il suo
mantello ad un 'cavaliere povero' (?!) e appiedato - Fig. 10; vedi quanto se ne dirà in seguito,
nella sezione X.7). Si tratta di episodi che si riferiscono, secondo la leggenda, alla giovinezza
laica di Francesco. Il complesso di tutti questi elementi deporrebbe senz'altro in favore di una
presenza templare nella Basilica del Santo e nell'accennata direzione sindonica.

(Fig. 7)

VIII.5. L'affresco del primo riquadro delle Storie, che rappresenta come detto l'omaggio
dell'uomo semplice (la scritta, in caratteri gotici, che accompagna ciascun affresco, in questo
caso così recita: <<Cum vir simplex de Assisio sternuit vestes Beato Francisco fuditque
honores ipsi eunti, super hoc, creditur, eruditus a Deo, asserens omni Franciscum reverentia
dignum, quia esset in proximo magna facturus, et ideo ab omnibus honorandus>>), situa la
scena nel bel mezzo della Piazza grande di Assisi (il forum mercatorum dell'epoca del Santo),
col meraviglioso frontone del <<Tempio>> romano di Minerva in tutta vista, che è 'esastilo',
e che invece viene raffigurato da Giotto come 'pentastilo', quasi a dire con l'eleganza di un
sottile riferimento simbolico al 'pentacolo' di Salomone. Quest'allusione ai Templari appare
abbastanza trasparente, per quanto nessuno ci abbia pensato prima d'ora, dal momento che
sfuggiva la possibile connessione tra il lungo velo, steso ai piedi di Francesco da un
personaggio inusitato, e la Sindone dei Templari. Non si conosce la committenza di questo
importantissimo ciclo pittorico. Tutto è rimasto avvolto nel mistero. Una ragione in più di
sospetto proprio nella direzione da noi suggerita. Il Vasari sosteneva, nelle Vite dei pittori,
che Giotto aveva affrescato buona parte delle due Basiliche, ma non forniva alcun preciso
elemento di riscontro o prova documentale. Nessuna carta di spesa è stata infatti conservata.
Profondo mistero. Ma se i documenti artistici sopra elencati potessero essere 'letti' nella
direzione da noi suggerita, parte del mistero si scioglierebbe, poiché i Templari non solo non
avrebbero tenuto a figurare in qualità di committenti o di finanziatori, ma furono di lì a poco
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perseguitati ed estinti dal re di Francia e dalla stessa Chiesa di Avignone, così scomparendo le
possibili tracce. Tutto ciò spiegherebbe abbastanza bene l'insoluto mistero dell'effettiva
committenza giottesca, che peraltro si connette non solo alla presenza del grande artista in
Assisi ma anche alla datazione delle opere da lui eseguite in tempi diversi, sulla cui vicenda
artistica lo scontro critico, scatenatosi da molti decenni a questa parte, sembra lungi all'aver
trovato sopimento. La monumentale Basilica di San Francesco presenterebbe, dunque, non
solo evidenti 'tracce federiciane', ma sarebbe altresì caratterizzata da una criptica 'presenza
templare', il che sembra un logico corollario dell'assunto principale nell'ambito del quadro
indiziario al quale si è già velocemente accennato, e che però va ripreso con chiarezza.

IX. PRESENZE TEMPLARI

IX.1. A differenza di altre trame - come ad esempio il citato Il santo Graal della triade di
giornalisti e scrittori M. Baigent, R. Leigh e H. Lincoln: un egittologo inglese, un romanziere
americano e un giornalista-psicologo neozelandese coautori de L'eredità messianica ed anche
de Il mistero del mar Morto (quest'ultimo solo Baigent e Leigh: e si tratta di un libro dedicato
ai Rotoli del Qumran, aspramente censurato dal biblista J. H. Charlesworth nel lavoro
collettaneo Gesù e la comunità di Qumran, Piemme, 1997, altresì stroncato da J. A. Soggin in
Manoscritti del mar Morto, Newton-Compton, 1994, pag. 198 ss., con un richiamo alla
durissima recensione di M. Broshi che lo annovera "tra i libri insufficienti e sciocchi", nonché
smentito, per i riferimenti che lo riguardano, dal teologo tedesco Hans Kueng, con una forte
presa di distanza, anche sul piano personale, in Cristianesimo: essenza e storia, Rizzoli, 1999,
pag. 33 ss.), la nostra congettura (pur fuoriuscendo completamente dai canoni ma assumendo
a suo fondamento l'autenticità del misterioso lenzuolo di lino della Sindone) si fonda, invece,
su documenti concreti e tangibili, controllabili da chicchessia, sulla base di un'interpretazione
che proponiamo al lettore senza pretese di verità assoluta, ma con un possibile fondamento.
Ci basta soltanto accennare ad 'ipotesi' mai in precedenza prese in considerazione in quanto
sorprendenti e inusitate. Nel far questo non andremo oltre un esame generale, proprio per non
appesantire ulteriormente il nostro racconto, che tale deve restare, non trattandosi d'un vero e
proprio studio analitico, ma soltanto un profilo sommario d'un percorso del tutto alternativo
all'ufficialità consacrata.

IX.2. Ne Il santo Graal di Baigent ed altri, si sostiene che Gesù non è morto sulla croce, che
si sarebbe invece rifugiato in Francia, che la discendenza avuta da Maria Maddalena abbia
dato origine alla 'dinastia merovingia', e che la Chiesa cattolica sia effettivamente depositaria
di questo "segreto", tanto che Papa Leone X, Giovanni dei Medici, si sarebbe congratulato per
questo "mito di Cristo che ci ha servito così bene". San Paolo (cfr. L'eredità messianica e Il
mistero del mar Morto), oltre che essere il fondatore del cristianesimo greco-romano
contrapposto alla vecchia religione ebrea, sarebbe stato addirittura un <<agente romano>> in
funzione antiebraica, prima del grande scontro della guerra giudaica e della lapidazione di
Giacomo, il 'fratello del Signore' e capo della chiesa di Gerusalemme, avvenuta nel 62 d.C.,
come si ricava dalla narrazione di Giuseppe Flavio e dagli stessi Atti degli Apostoli. Alcuni
elementi di derivazione gnostica (ad esempio l'eresia di Basilide e il Secondo trattato del
Grande Seth affiorato a Nag Hammadi nel 1945) sostanzierebbero questa pista 'gialla'.
Ugualmente alcune circostanze riportate negli Atti degli Apostoli a proposito della morte per
lapidazione di Giacomo ed anche con riguardo all'arresto di San Paolo a Gerusalemme e alla
sua traduzione in carcere a Cesarea da parte del Procuratore Felice e al successivo 'appello'
rivolto all'Imperatore Nerone in qualità di cives romanus, lascerebbero intendere riposti
retroscena, coperti dal più fitto mistero. Nella sua predicazione attraverso le varie sinagoghe
orientali della diaspora, San Paolo si era imbattuto in Lucio Giunio Gallione, proconsole
dell'Acaia, fratello del filosofo romano, tutore di Nerone, Lucio Anneo Seneca (Atti, 18, 12-
17). Da questa circostanza, e dal fatto che San Paolo fu sottoposto a Roma, per un certo
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periodo, agli arresti domiciliari (Atti 28, 16), sarebbe altresì nata la leggenda del famoso
Carteggio con Seneca, sicuramente un falso risalente al IV secolo (sui rapporti tra Seneca e i
cristiani, cfr. P. Grimal, Seneca, Garzanti, 1992, pag. 46 e ss. ; su San Paolo e gli Atti 'di'
Apostoli - questa la traduzione esatta, cfr. i fondamentali, non importa se datati lavori di E.
Renan, Gli Apostoli, 1866, Dall'Oglio 1961; di G. Holzner, L'apostolo Paolo, Morcelliana,
1941; G. Ricciotti, Paolo Apostolo, Atti degli Apostoli e Lettere di San Paolo, due voll.,
Mondadori, 1958 - tra l'altro 'Apostolo' significa 'inviato'). Il cristianesimo divenne "romano"
proprio staccandosi da Gerusalemme. Era un passo necessario, strettamente legato alla
dottrina universale di Gesù, che in seguito sempre di più fu riportata ad affini radici
platoniche, come prova l'opera stessa di Michele Psello, il grande letterato e storico bizantino
dell'undicesimo secolo. Da una certa data in poi (67 d.C.) si perdono completamente le tracce
di San Paolo, il Saulo fariseo proveniente dalla assai popolosa, coltissima e cosmopolita città
di Tarso, onorata da Marco Antonio prima della sconfitta di Azio. Secondo R. H. Eisenman,
un notevole studioso dei rotoli di Qumran 'fuori dal coro' (cfr. James the Just in the Habakkuk
Pesher, Lieden, 1986), Stefano (il protomartire degli Atti) sarebbe una figura "inventata" per
mascherare il fatto dell'aggressione a Giacomo, che avviene molto più tardi, e che è ben
narrata nell'Ipotiposi di Clemente Alessandrino (I, 70). Le origini del cristianesimo restano
avvolte nel più fitto mistero, tutt'altro che schiarito dagli Atti. Eppure il messaggio cristiano
non solo è chiarissimo, ma è oltremodo potente e penetrante. Segno evidente, quanto meno,
della sua profonda appartenenza al senso stesso della storia.

IX.3. La nostra congettura 'sindonico-templare' è indubbiamente assai meno sconvolgente di


quella dei menzionati testi come Il santo Graal, ancorché piuttosto articolata. Essa si collega
alla Sindone quale prova tangibile dell'effettiva morte di Gesù, pur affacciando una singolare
versione della "resurrezione" che chiuderà quest'articolo. Del resto il cristianesimo è, e resta,
un genuino 'messaggio' salvifico universale, strettamente collegato alla straordinaria figura
messianica di Gesù, Re dei Giudei ma anche Sommo Sacerdote, il cui monogramma (Chi-Ro)
assurse a rango mistico anche prima di Costantino. La rapidissima diffusione mediterranea
della dottrina cristiana ed il suo precoce radicamento nel cuore dell'Impero costituirono la
grande rivoluzione religiosa del mondo antico, in qualche modo già preparato a riceverla. Si
trattò di una dottrina già bella e fatta, ben articolata ed organizzata fin dal suo inizio, il che
lascia arguire un'originarietà estrema senza doverla attribuire per forza alle manipolazioni o
rielaborazioni teologiche paoline. Nessuna trama oscura, quindi. Soltanto il mistero della
'resurrezione' e il mistero stesso del realizzarsi di una profezia biblica d'attesa, appunto la
profezia delle "settanta settimane" del profeta Daniele. Le origini del cristianesimo (e
abbiamo attentamente consultato, per sostanziare la nostra opinione, oltre a molti altri
importanti testi di letteratura greco-latino cristiana, anche H. Kueng, Il Cristianesimo; J.G.
Davies, La Chiesa delle origini, Il Saggiatore, 1966; G. Marchesi, Il Vangelo da
Gerusalemme a Roma, Rizzoli, 1991; Nuova storia della Chiesa, diretta dal cardinale Jean
Daniélou, 1, Dalle origini a S. Gregorio Magno, Marietti, 1970; G. Bosio, Iniziazione ai
Padri, Torino, 1969, nonché A.G. Hamman, La vita quotidiana dei primi cristiani, 95-197,
Rizzoli, 1993, in aggiunta ai lavori di E. Renan risalenti alla metà dell'Ottocento e a quelli di
Don Giuseppe Ricciotti risalenti alla metà del Novecento: si dirà, poca cosa nel 'mare
magnum' degli studi neotestamentari, ma crediamo quanto può bastare per fondare
un'opinione) hanno indubbiamente condizionato, in modo decisivo, tutta la storia occidentale,
a partire dall'Impero romano, impregnando altresì, per diretta conseguenza, la storia delle
crociate, le eresie medievali, le vicende templari ed anche la straordinaria ed inspiegabile
'letteratura del Graal', altrettanti fenomeni che sembrano veramente tra loro connessi.

IX.4. Il primo millennio cristiano si trascinò con sé tutte le sue componenti, quelle dominanti
e quelle recessive, le forme canoniche come le eresie. La figura di Cristo fu il punto di rottura
e di ricongiunzione della civiltà occidentale. Una tale chiave di lettura spiegherebbe molte
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cose, anche la novitas stessa del messaggio pauperistico francescano. E poiché del mistero
Gesù possono essere fornite almeno due fondamentali versioni, tra loro apparentemente
antitetiche: quella di Gesù mago e quella di Gesù messia, ecco spiegato l'equivoco, tra
ufficialità ed eresia, che si è drammaticamente protratto, per secoli e secoli, nelle pieghe più
riposte della storia politica e religiosa dell'Occidente cristiano. Il ritorno di Francesco al Gesù
del discorso della montagna fu un risalire alla fonte pura dell'ispirazione salvifica universale
del cristianesimo primitivo, che rompeva l'accerchiamento della storia ed apriva un orizzonte
di profonda verità. Un qualcosa di simile era occorso a Gesù stesso quando Egli si appellò a
"Dio padre" ed al suo "Regno celeste", secondo una coscienza religiosa che può essere fatta
risalire al Dio unico di Mosè del millennio precedente, ciò segnando quelle linee di
continuità, pur nella grande svolta cristiana, le cui conseguenze ancora ci accompagnano. Ma
il destino delle 'grandi idee' è sempre contrastato, è cioè posto "sub signo contradictionis". Si
tratta di un' ambivalenza congenita che sembra perdurare ancora oggi nella dimensione della
'new age' e nei 'movimenti alternativi'. Il Gesù di San Paolo e dei Vangeli canonici, non è il
Gesù degli eretici, degli gnostici o degli scritti 'apocrifi'. Il Gesù del Talmud e del Corano è
un altro Gesù. Gesù è, in ogni caso, una figura storicamente certa, anche se sappiamo poco di
Lui, e come pone in luce il grande studioso e biblista E. P. Sanders, non sappiamo 'chi egli
fosse', ma soltanto ciò che non è stato, e quel che sappiamo si colloca nel segno di una
sostanziale ambiguità, almeno stando alle contraddittorie fonti che più o meno direttamente a
Lui si riferiscono, per quanto il messaggio cristiano, o kèrigma, sia in definitiva di una
chiarezza sublime, ben al di là d'ogni possibilità di equivoco (come appunto riteneva
Bultmann, il più grande biblista del secolo scorso).

IX.5. La predicazione ai 'gentili' segnò una svolta profonda in seno al giudaismo, in un


momento storico che si preannunciava sempre più di scontro mortale con i Romani, appunto i
"kittim" dei 'Rotoli del mar Morto'. A proposito di essi, vogliamo ricordare al lettore che
Santo Mazzarino, uno dei più grandi storici della civiltà romana, se ne occupò nell'Appendice
del suo famoso saggio su L'impero romano (Laterza, Bari, 1973, 3 voll., pag. 855 ss.),
affrontando altresì il problema dell'asserita "sepoltura dell'apostolo Pietro" (pag. 890 ss.),
dopo la presunta grande scoperta (annunciata nel 1965 da parte dell'agguerritissima
archeologa Margherita Guarducci - non nuova a tali clamorose imprese - e che subito sollevò
un'eccezionale ondata di stampa in tutto il mondo) di quella che fu congetturata essere la
tomba del 'primo papa' nei sotterranei del Vaticano. Notiamo poi che il leggendario episodio
del "quo vadis, Domine", occorso secondo la leggenda sulla via Appia e recuperato dalla
grandiosa filmografia americana sulla base della tradizione, e soprattutto dell'omonimo
romanzo di un notissimo scrittore polacco, riflette in realtà il mito di Romolo, presente
pressoché nei medesimi termini nella narrazione di Tito Livio. Per altri interessanti dettagli,
inerenti alla non del tutto certissima presenza a Roma di San Pietro, si rimanda a C. Rendina,
I papi: storia e segreti, Newton, 1993.

IX.6. Il cristianesimo pietrino-paolino si staccò definitivamente da Gerusalemme con


l'assassinio fariseo di Giacomo il Giusto, e dopo l'accordo, raggiunto con grande difficoltà tra
gli opposti schieramenti cristiani, sull'irrilevanza della circoncisione per i pagani convertiti al
nuovo credo. Fu cioè quasi subito un cristianesimo cattolico, destinato a divenire,
nell'immediato futuro, 'apostolico e romano', secondo l'insegnamento 'teologico' della coppia
di apostoli, rapidamente prevalente rispetto alla dottrina gerosolimitana (in questo senso gli
Atti), in quanto destinato all'espansione mediterranea, o meglio 'toto orbe', della figura
salvifica del "Cristo risorto". Ritorneremo su questi aspetti, esaminando a suo luogo la figura
di 'Gesù mago' e quella di 'Gesù messia'. Al momento dobbiamo completare l'esposizione
degli inquietanti 'documenti artistici' presenti nella Basilica di Assisi per poi volgerci alla
letteratura medievale del Graal, in particolare al poeta Robert de Boron, contemporaneo di
San Francesco, che il Santo avrebbe potuto ben conoscere come autore 'graaliano' durante il
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periodo stesso della sua giovinezza ed i suoi probabili viaggi in Francia al seguito del padre
mercante, sui quali le fonti però tacciono, come fatti irrilevanti e addirittura passati sotto
silenzio da Francesco stesso a seguito della conversione e della definitiva uscita dal mondo
("paulum steti, et exivi de saeculo", secondo quanto egli dichiara nel Testamento).

X. GLI INDIZI ALL'INTERNO DELLA BASILICA

X.1. Come ha ben posto in luce Prospero Calzolari nei suoi originali e ben documentati
lavori, la Basilica di San Francesco in Assisi contiene elementi inequivocabili della presenza
federiciana (stanti gli stretti legami, storicamente provati, di fra' Elia, generale dell'Ordine,
con l'Imperatore svevo Federico II, e dovendosi persino annotare un preciso e sorprendente
interesse 'alchimistico' da parte di alcune non trascurabili figure francescane). L'intelligente
traccia federiciana di Calzolari è stata recepita dagli storici dell'arte, che ne hanno fatto
oggetto di recenti ed accurati studi. Accanto a questa pista, sussisterebbe, a nostro avviso,
anche una 'traccia templare', che si manifesterebbe negli accennati documenti artistici presenti
nelle due Chiese, quella inferiore di stile romanico e quella superiore con marcati caratteri
gotici di stile francese. Poiché l'Ordine templare venne estinto nel 1307, gli elementi ai quali
intendiamo riferirci debbono necessariamente risalire ad una datazione precedente, non
importa se più o meno lontana da questo limite. Tanto per stimolare la curiosità del lettore
facciamo presente che il corpo del Santo (ciò che resta del ritrovamento avvenuto nel 1818)
giace oggi ricomposto (in attesa della resurrezione dei morti!) in un'urna di plexiglas (dopo
l'accuratissimo esame necroscopico effettuato nel 1982, in occasione del centenario della
nascita, che ricercò le possibili cause di morte del Santo). Essa è situata in un profondo pozzo
di pietra, al di sotto dell'altar maggiore della Chiesa inferiore, sovrastato dalle quattro
bellissime 'vele' dell'allegoria francescana dell'umiltà, della povertà, dell'obbedienza, e quindi
anche (quarta vela) dell'apocalittica glorificazione del Santo adornato in una ricca veste di
diaspro e d'oro. Vele meravigliosamente affrescate dalla mano di un 'grande maestro', e,
proprio per questa ragione, attribuibili a Giotto, nel qual caso la 'mente ispiratrice' potrebbe
essere stata, addirittura, quella di Dante Alighieri, terziario francescano e 'ghibellin
fuggiasco', amico personale del pittore fiorentino, che senz'altro passò per Assisi almeno un
paio di volte (forse anche nel periodo stesso, probabilmente verso il 1310-1312, in cui il
pittore realizzò il nuovo capolavoro, universalmente riconosciuto per tale dalla critica;
almeno, se fu proprio Giotto ad eseguire pure tale ciclo). In effetti, un 'ritratto di Dante' ed un
'autoritratto di Giotto' si troverebbero riuniti in un affresco di parete, non lontano dalle 'vele',
rappresentati quali semplici 'testimoni' immersi nella la folla dei fedeli di uno dei tanti
miracoli 'post mortem' attribuiti dalla leggenda a San Francesco. Come si vede, i 'misteri
francescani' sono molti e tutti assai eccitanti.

X.2. L'umbratile ed oscura Chiesa inferiore, di stretta concezione romanica e notevolmente


rimaneggiata ai lati con l'apertura successiva di alcune ariose cappelle poi affrescate da Giotto
e da Simone Martini e adornate da bellissime vetrate (la cui realizzazione però alterò
gravemente i primitivi affreschi parietali delle parallele vite di Gesù e di San Francesco),
doveva essere originariamente oscura e immersa nella penombra più fitta, paurosamente buia
e illuminata soltanto dalle poche lampade ad olio pendenti dalla volta, rappresentando il
momento terrestre della crudelissima sofferenza e morte di Gesù (Jacopone da Todi canterà
della "crudel morte di Cristo"), mentre la più ariosa chiesa gotica a questa sovrapposta, cioè
la Basilica superiore, rappresenta al contrario il momento della gloria nella luce della
resurrezione. Ricordiamo che la pianta originaria della Basilica era disegnata a forma di Tau,
così come del tutto simile ad un Tau era il lacero saio che Francesco s'era scelto. Ai piedi di
questa chiesa inferiore, buia e a forma di croce, si trovano i due misteriosi monumenti funebri
'templari', quello col grande vaso di porfido e la tomba gotica di Giovanni da Brienne. Dalle
colonnine gotiche del primo monumento, attribuito chissà perché alla famiglia fiorentina dei
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Cerchi senza alcuna precisa ragione storica e documentaristica, pendono come stalagmiti due
singolarissimi volti: quello di una donna che guarda lontano, e quello di un uomo barbuto, col
capo inclinato. A non più di dieci metri di distanza, si trova, sempre appoggiata al grande
muro di confine e in parte incassata in quest'ultimo, la tomba gotica di Giovanni I di Brienne,
re di Gerusalemme e marito di Maria di Monferrato, condottiero crociato, poeta ed amico
personale di San Francesco, padre della regina Isabella prima moglie di Federico II, il
riconquistatore di Gerusalemme (1229) dopo la quinta crociata. Il vaso di porfido del primo
monumento (Fig. 3) non sembra affatto d'epoca successiva alla fine del Trecento, come alcuni
sostengono, arrivando perfino a proporre datazioni cinquecentesche. La sua fattura è
chiaramente orientale, e la sua originaria appartenenza al monumento, considerato anch'esso
di tipo funebre, non può essere revocata in dubbio, essendo posto centralmente e in piena
evidenza, in uno spazio vuoto, sicché eliminare questo grande vaso magnificamente
incorniciato all'interno dell'edicola gotica attribuita alla famiglia dei Cerchi, significherebbe
svuotare e decostruire il monumento stesso, che tuttavia appare, allo stesso modo, alquanto
criptico e indecifrabile. Il sepolcro di Giovanni I di Brienne (Fig. 4) è ancora più misterioso.
Nessuno è mai venuto a capo della sua totale stranezza, per quanto appaia plausibile che
l'attuale monumento <<sia il risultato di una ricomposizione disordinata ed arbitraria del
materiale plastico originario>> (così l'agguerrito storico dell'arte Pietro Scarpellini, in
Descrizione della Basilica di S. Francesco e di altri santuari di Assisi, commento artistico
alla guida seicentesca di Frà Ludovico di Pietralunga, Edizioni Canova, Treviso, 1982, pag.
188). La situazione sarebbe tuttavia assai confusa. <<Da un monumento a Giovanni da
Brienne che è l'indicazione più antica, si passa ad un sepolcro di una imprecisata imperatrice
di Costantinopoli, ad una misteriosa Eugubea regina di Cipro (il cui nome non ha riscontro
nella storia), infine alla figlia di Giovanni di Brienne, moglie di Federico II (Iolanda od
Isabella), che morì nel 1228>> (o piuttosto nel 1229). Lo sconcerto degli storici dell'arte è
evidente, dal momento che sfugge una plausibile chiave di lettura. La tomba è contornata agli
angoli laterali del basamento. sporgente di circa mezzo metro e quasi ad altezza d'uomo, da
ben otto piccole figure a tutto tondo, inequivocabili immagini di apostoli scolpite nel marmo
(due statuine sono andate purtroppo perdute, ma è del tutto certa la loro originaria presenza),
mentre nel frontespizio del basamento stesso, sono rappresentate le sole "croci di
Gerusalemme" degli stemmi. Mancano, cioè, ben quattro apostoli (compreso San Paolo,
l'apostolo aggiunto, a parte quanto di diverso riportano gli Atti a proposito della sostituzione
di Giuda), che avrebbero dovuto invece figurare tutti insieme, secondo il canonico numero di
'dodici'. Gli otto apostoli presenti nel basamento sarebbero proprio quelli di cui gli Atti non
danno più notizia. Si tratta cioè degli apostoli letteralmente spariti nella prima opera
neotestamentaria (attribuita a Luca precedentemente alla redazione dei Vangeli), poiché gli
Atti degli Apostoli fanno riferimento pressoché esclusivo a Pietro e Paolo. Tuttavia, nel
Vangelo di Marco, otto apostoli dormivano in una grotta la notte del Gethsemani, quando
Gesù fu catturato dal nutrito manipolo di soldati romani che rafforzava le milizie giudee del
Tempio. Le bellissime ed inusitate sculture gotiche del monumento funebre di Giovanni di
Brienne sono di pregevolissima fattura, ma di incertissima mano (anche se sono stati chiamati
in causa dagli storici dell'arte grossi nomi di scultori, compreso quello di Giunta Pisano, con
ipotesi tutto sommato sprovviste di pregio). La datazione comunemente affacciata è quella
della fine del XIII secolo, e comunque prima del 1307. Si deve pensare invece ad un
valentissimo artista francese, sicché questa sorprendente opera scultorea fu soltanto montata
dalla manovalanza locale nel luogo in cui ancora oggi si trova (ben inteso, i singoli pezzi
provenivano dalla bottega francese, e i lavori d'alloggiamento in sito furono direttamente
seguiti dal maestro), sebbene in seguito tutto l'apparto scultoreo fu forse spostato a lato
appena di qualche metro rispetto alla sistemazione originaria, che presumibilmente si situava
sotto un grande arcone ogivale addossato alla parete naturale della chiesa, guardante dal capo
opposto verso la lontana abside. Due bellissimi angeli tirano i capi di una leggerissima tenda,
dietro alla quale si vede per intero il corpo disteso d'un uomo morto (appunto Giovanni di
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Brienne), la cui lunga 'veste' (altra evocazione sindonica) è stata tuttavia riscalpellinata in
malo modo (non si sa perché), scoprendo i piedi già di per sé molto evidenti (così pure nella
Sindone). Uno stranissimo personaggio guantato, che non sembra né uomo né donna, forse
proprio un angelo col suo sorriso giovanile e quasi beffardo, ma non irriverente, siede in una
singolarissima ed allusiva positura, con una gamba accavallata sopra all'altra (non si può fare
a meno di notarlo), accoccolato sopra un grosso leone ruggente. Questo singolarissimo ed
indecifrabile 'angelo' occupa il secondo ripiano, immediatamente sovrapposto al baldacchino
funebre, con accanto, più incassata nell'ombra, una madonna col bambino ritto in piedi, e, tra
le due bellissime sculture, un sepolcro rettangolare in pietra rosso scura, ben sagomato nella
sua spazialità concreta e riposto nell'ombra più fitta (il che evoca, ancor di più, la sepoltura di
Cristo). Si pensa che il monumento si situasse originariamente altrove, e che sia stato in
seguito risistemato alla meglio, appunto dove oggi si trova. Non siamo per nulla di
quest'avviso, anche se non sembra trovare alcuna spiegazione la riscalpellinatura guastatrice
della parte estrema del corpo del morto, adagiato con la sua lunga sopravveste sindonica nel
proprio letto funebre. Il marmo bianco, d'un tipo tutto particolare, è d'un colore quasi
spettrale. E si tratta di un effetto chiaramente voluto, raggiunto con somma maestria
dall'artista esecutore dell'opera. La vista di questo importante monumento suscita una
notevolissima inquietudine ed una forte emozione. Si resta letteralmente affascinati, e allo
stesso tempo alquanto interdetti. Ma se si ripensa a tutte le presenze, angeliche o non, che
nella narrazione dei quattro Evangelisti si mostrano accanto al sepolcro di Cristo, ecco che
l'arcano può trovare spiegazione. La stessa tenda, discostata ai capi opposti dai due angeli con
una movenza leggerissima ed inusitata, piena di mistero riverente ed intrisa d'una pausa
d'accennata meraviglia, suona in questa medesima direzione e sembra contenere, anch'essa,
una sottile ammiccamento, viepiù accentuato dall'ombra in cui il monumento si trova
immerso. Il fascino estetico e i richiami concettuali del costrutto scenografico sembrano
deporre proprio in quest'affascinante direzione che collimerebbe perfettamente con la nostra
traccia. Si tratta d'altra parte di un'atmosfera magica e placatrice, densa di richiami
psicologici, che lascia letteralmente interdetti. Perché questo monumento si trovi nella
Basilica inferiore nessuno degli storici dell'arte sa in effetti spiegarlo, lasciando un chiaro
vuoto interpretativo di non trascurabile momento. Il monumento gotico recante perfettamente
incorniciato il gran vaso di porfido (che sembra sia stato adibito, nel seicento, ad
acquasantiera) e il sepolcro di Giovanni di Brienne appaiono come ai piedi di una croce, quel
Tau mistico rappresentato appunto dalla pianta stessa della Basilica, sepolta com'era, in
origine, nella penombra più fitta. Una tale collocazione ci appare a stretta ragione del tutto
intenzionale e simbolicamente appropriata. Ci sembra del resto evidente anche una certa
commistione di elementi dichiarativi che ha confuso il vaso della "regina di Cipro" (secondo
noi la casa madre dei Templari d'Oriente) con la fantomatica "regina Eugubea", nella quale la
descrizione seicentesca di fra' Ludovico da Pietralunga identificava l'angelo guantato sedente
sopra il leone. In realtà si tratta di due monumenti 'templari' ben separati, ma tra loro
connessi: il primo (quello sormontato dal grande vaso di porfido), che riporta ai Templari
d'Oriente; mentre il secondo (la tomba di Giovanni di Brienne) può essere riferito ai Templari
francesi. Il significato allegorico del duplice monumento templare riposa perciò nel richiamo
del citato passo del Vangelo di S. Giovanni, e, con riguardo a San Francesco "Alter Christus",
il Re Giovanni può essere identificato nel "discepolo amato", mentre i Templari di Cipro,
ultimo avamposto cristiano in Oriente, debbono essere identificati come 'Casa madre', alla
stregua della madre di Gesù o "vas sanguinis". In ogni caso il vaso graaliano di porfido rosso
e le allegorie del monumento funebre di Giovanni di Brienne richiamano altrettante allusioni
sindoniche, di cui peraltro pullula a nostro parere la Chiesa di San Francesco, in un momento
storico in cui l'Ordine templare aveva perduto la sua originaria funzione, restando soltanto un
centro di potere. Il che ben si concilierebbe anche con la forte presenza, che sembrerebbe
assodata, della Casa d'Angiò nella medesima Basilica.
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(Fig. 8)

X.3. Sempre nella Basilica inferiore si trovano gli affreschi giotteschi del ciclo della Cappella
della Maddalena, il detto affresco con l'incoronazione da parte di Gesù della bionda Maria di
Magdala (Fig. 2 - ripetiamo, è assai dubbio che si tratti dell'Incoronazione della Vergine,
come si crede e dice), e nella Cappella di San Martino dovuta a Simone Martini si trova pure
il famoso episodio della 'donazione al povero di "metà" del mantello militare', da cui la
leggenda dell'estate di San Martino (Fig. 8). Si tratta di allegorie che secondo noi contengono
in cifra delle allusioni sindoniche. Il ciclo di Simone Martini è datato al 1312-1315, ma ciò
che conta in questo caso, è soltanto il richiamo alla Vita di Martino di Tours, scritta nel IV
secolo da Sulpicio Severo. Martino è un ufficiale di elevato grado dell'esercito romano, di
fede cristiana. L'episodio del mantello (3,1-5: lo si veda nel testo delle Edizioni Paoline,
1995, traduzione di M. Spinelli e note di E. Giannarelli, pag. 152 ss.) è legato ad una 'visione
notturna' avuta da Martino, di cui riportiamo il passo di Sulpicio Severo: <<Ora, la notte
successiva, dopo essersi addormentato, egli vide il Cristo vestito con la metà del mantello
con cui aveva ricoperto il povero>>. L'evocazione sindonica ci sembra chiarissima. Del resto,
il corpo dell'Uomo della Sindone è diviso in due sul lungo telo di lino, così pure la chartula
di San Francesco, il cui 'verso' reca le Lodi di Dio, mentre il 'recto' porta la benedizione
biblica a fra' Leone. Tutto coincide. Quanto alla presenza cristiana nei 'quadri' dell'esercito
romano, si rimanda alle straordinarie considerazioni di Flavio Barbiero relativa al ruolo della
famiglia sacerdotale nell'esercito romano, che si condividono in pieno. Si tratta di una serrata
tradizione militare che riporterebbe infatti alle origini del mistero cristologico della sepoltura
di Gesù, a partire dall'arresto notturno fino all'esecuzione sul Golgota. La decorazione
pittorica della parete di fondo della Tribuna detta di S. Stanislao (l'arcivescovo di Cracovia
fatto uccidere da re Boreslao e proclamato santo ad Assisi, nel 1253, da papa Innocenzo IV)
consiste nell'Incoronazione della Vergine che sarebbe stata lasciata incompiuta (nel 1337) dal
pittore Puccio Capanna, al quale l'opera viene attribuita (Fig. 2). Solo che qui non si tratta
affatto della Vergine Maria, ma di una vezzosa e bionda Maria Maddalena! L'affresco sembra
aprire uno spiraglio alla cifra occulta. Nei Vangeli i rapporti di Gesù con sua madre sono
piuttosto bruschi (come alle nozze di Cana) e alquanto contrastati. La Madonna compare
soltanto ai piedi della Croce come Mater o Vas sanguinis. La Maddalena è invece presente
nei momenti fondamentali della vita di Cristo, quelli dell'unzione con l'olio di nardo e della
resurrezione, a nulla rilevando che secondo Papa Giovanni Paolo II sarebbe stata proprio la
Madonna la prima persona a vedere Gesù risorto (a prescindere dalle fonti evangeliche che
tacciono).
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X.4. Del tutto straordinario e pieno di mistero è pure il ciclo giottesco della Cappella della
Maddalena, databile a prima del 1307 (probabilmente 1305). Esso sarebbe stato eseguito su
commissione del francescano Teobaldo Pontano da Todi, vescovo di Assisi dal 1296 al 1329,
il cui 'stemma' sarebbe un arco trilobato. Per quanto Giotto realisticamente rappresenti il
ritratto del vescovo devozionalmente genuflesso ai piedi della Maddalena che letteralmente lo
sovrasta con la sua gigantesca figura, il che ci mette già in sospetto, in realtà quanto allo
stemma si tratterebbe della stilizzazione dei grandi archi d'ingresso al recinto del Tempio
andato quasi completamente distrutto durante la guerra giudaica. Le stesse meraviglie e
portentose rovine che nel 1229 caddero sotto lo sguardo ammirato di Federico II. In questo
importantissimo ciclo figurano tra l'altro gli episodi della Resurrezione di Lazzaro, il Noli me
tangere, la Cena in casa di Simone il lebbroso (cioè l'episodio della "casa di Betania" con
Marta e Maria Maddalena che asciuga coi suoi lunghi capelli i piedi di Gesù), e il Viaggio a
Marsiglia della Maddalena (Fig. 6) ovvero il miracolo della principessa ritrovata col suo
neonato in uno scoglio in mezzo al mare come si esprime il Thode (e il bimbo è un negretto!).
Su questo ciclo completamente fuori dell'ordinario, si veda in particolare la descrizione di
Henry Thode, in Francesco d'Assisi, 1906 (ristampa Donzelli Editore, 1993, pag. 221 ss.).
Secondo Thode <<purtroppo manca qualche punto fermo per fissare la data di questi
affreschi, estremamente interessanti, che presentano la Vita di Santa Maria Maddalena, qui
confusa, come nella maggior parte delle opere di quel tempo, con Santa Maria Egiziaca>>.
Chi era Maria Egiziaca? Secondo una leggenda, riferita da Sofronio nel settimo secolo e forse
da lui stesso rimaneggiata, costei nacque in Egitto nel 345 e da giovane condusse una vita
dissoluta. Recatasi, a 29 anni, a Gerusalemme per la festa dell'Esaltazione della Croce, provò
ad entrare in una chiesa, ma una forza invisibile la respinse. Allora si convertì e si ritirò nel
deserto, dove trovò la morte, dopo 48 anni di espiazione, (si afferma) nel 421. Secondo gli
studiosi la leggenda sarebbe una contaminazione di varie altre leggende di anacoreti. Secondo
noi saremmo chiaramente in ambito sindonico, posto che le rispettive identità di Maria di
Magdala e dell'oscura Maria Egiziaca sembrano fondersi e confondersi. Non solo la donna
distesa sullo scoglio in vista del porto di Marsiglia come viene rappresentata nell'affresco
giottesco, stringe a sé un telo scuro, una sorta di prolungamento del suo stesso mantello. Ma
in un riquadro a parte del medesimo ciclo, Maria Egiziaca (alias Maria Maddalena) si trova
inginocchiata in preghiera, girata verso il vescovo Zosimo, in piedi davanti all'altare nell'atto
di dare la comunione alla santa. In un altro riquadro (sopra l'arcone di ingresso) Zosimo dona
invece un mantello rosso (Fig. 9) alla Maddalena (o Maria Egiziaca), che mette la testa fuori
da una grotta (il Sepolcro di Cristo?!). Il Thode descrive l'affresco, da lui chiamato Miracolo
del mercante di Marsiglia, con queste parole: <<Su un mare agitato, un battello, condotto da
due angeli, porta Maria (Maddalena), Marta, Lazzaro e altri due santi nel porto di Marsiglia,
caratterizzato dal faro e da una porta della città. A sinistra, in primo piano, la moglie del
mercante riposa addormentata su un'isola. Un marinaio in barca le si avvicina>>. La
descrizione del Thode attiene ad un giudizio critico di prospettiva pittorica ed ignora il
significato allegorico della scena. Sopra la parete della finestra della cappella si trovano una
donna con un piccolo tamburo in mano e l'iscrizione <<Maria soror Moisy>>. Poi un'altra
santa più vecchia, in una veste che sembra una camicia, con il petto e le braccia libere, i
capelli lunghi. A destra si trova Sant'Elena, con un copricapo a punta, e l'iscrizione: <<Elena
mater>>. Quindi un'altra santa con una palma. Il contesto sindonico ci sembra chiaramente
implicato dall'evocazione della leggenda della Maddalena, a prescindere dall'improbabile
consapevolezza di Giotto, che eseguì l'opera, come oggi si ritiene, verso il 1305. Sfugge poi
al Thode l'estrema singolarità dell'episodio del 'mantello' (o sindone), non si sa bene se porto
all'esterno dalla donna nella grotta, o viceversa da Zosimo a costei. Ci sembra di poter dire
che è proprio la Maddalena a porgere all'esterno la Sindone, con una chiara allusione di
consegna. Con ciò i committenti 'templari' hanno evidentemente inteso richiamare le origini
sacre del mandylion da loro detenuto. La Sindone rappresenta infatti il documento della morte
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di Gesù, cioè il suo sudario impregnato di sangue, e non è al contrario una comoda prova di
resurrezione. Il che giustifica la segretezza della Sindone e il mistero che sempre l'ha
circondata. Allo stesso modo è proprio nell'epoca francescana che acquista sempre più spazio
l'immagine del Cristo morto (ad occhi chiusi), rispetto all'iconografia precedente del Cristo
trionfante (ad occhi aperti).

(Fig. 9)

X.5. Secondo noi la committenza del ciclo della Maddalena è chiaramente templare, così
come si deve registrare una netta presenza templare anche nella Basilica superiore. Questa
congettura non è stata mai affacciata in precedenza, eppure non è difficile prenderla in
considerazione proprio guardando il primo affresco nell'ordine stesso del dipanarsi del ciclo
agiografico delle Storie di S. Francesco concepito da Giotto sulla traccia della Legenda
Major di San Bonaventura da Bagnoregio. C'è chi sostiene che questo primo affresco del
ciclo iconografico sia stato tuttavia l'ultimo ad essere eseguito, e c'è anche chi non lo
attribuisce a Giotto. In questo riquadro di rara bellezza Francesco è ritratto nell'atto stesso di
attraversare da sinistra verso destra la Piazza grande di Assisi (forum mercatorum) con la sua
torre accanto al Palazzo del Popolo ancora incompleta (siamo senz'altro prima del 1305, anno
in cui la torre fu certamente terminata, come ricorda un'epigrafe gotica), mentre riceve un
singolare omaggio da parte di un uomo vestito in una foggia piuttosto fuori dall'ordinario, che
appunto gli stende ai piedi, dispiegandolo sul selciato, un grande e finissimo velo trasparente
delle stesse dimensioni della Sindone!, tra lo sguardo letteralmente ammirato di alcune coppie
di altri personaggi, vuoi amici del Santo o ragguardevoli cittadini d' Assisi, o altro ancora
(Fig. 7). L'episodio è tratto dalla Legenda Major (ma figura anche in Celano e nella Leggenda
dei tre compagni), e recita così: <<Un uomo di Assisi, molto semplice, certo per ispirazione
divina, ogni volta che incontrava Francesco per le strade della città, si toglieva il mantello e
lo stendeva ai suoi piedi, proclamando che Francesco era degno di ogni venerazione, perché
di lì a poco avrebbe compiuto grandi cose, per cui sarebbe stato onorato e glorificato da tutti
i cristiani>>. Ecco un bell'esempio di come si coprono opportunamente le remote cifre d'un
mistero destinato a pochi, attraverso un raccontino destinato all'ingenuità popolare come
sempre è avvenuto e sempre avverrà.

X.6. Giotto inserisce nel bel mezzo di questa rappresentazione pittorica, in modo pregnante e
plastico, evidentissimo all'occhio, proprio il Tempio romano della Dea Minerva, che
caratterizza la monumentalità della Piazza grande di Assisi: una chiarissima allusione
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'templare', tanto più che la torre comunale, posta accanto al tempio pagano, non era stata
ancora ultimata a quell'epoca, come ben si vede nell'affresco stesso. Questa torre fu terminata
(expleta) soltanto nel 1305, come riporta un'iscrizione latina in caratteri gotici ancora presente
sul basamento dell'elegantissimo edificio campanario concepito secondo una precisa
scansione di ripiani proprio in base al 'rapporto aureo, che tra l'altro viene ripetuto due volte
per massimizzare l'elegante effetto di leggerezza che architettonicamente ne deriva. Perché
mai Giotto avrebbe dovuto rappresentare Francesco in un contesto inattuale, se non a ragione
del simbolo plastico ed evocativo del 'Tempio'? Ed ecco che il 'velo del mistero' si squarcia in
modo sorprendente, molti secoli dopo, quando nel 1818 fu ritrovato il corpo del Santo
tumulato nel grande pozzo di pietra e calce sotto l'altare maggiore della Chiesa inferiore. Fu
infatti recuperato un anello di corniola con l'effigie di Minerva (Minerva etrusca), la dea della
saggezza! Questo anello era un sigillo sacro, messo al dito della salma proprio da fra' Elia. Un
sigillo templare, che si richiamava, cioè, alla 'sapienza di Salomone', così come il tempio
romano di Minerva, 'pentastilo' nell'affresco grottesco rispetto all'originale che ha sei colonne,
sembra voler alludere al primo Tempio di Gerusalemme ed ai Cavalieri crociati.

(Fig. 10)

X.7. Ciò non bastando, il riquadro successivo del ciclo agiografico rappresenta Francesco che
(a differenza di San Martino) donerebbe tutto il suo mantello ad un "cavaliere povero" (Fig.
10), interpretazione comune collegata in effetti a un episodio riportato dalla Legenda Major:
<<Una volta incontrò un cavaliere, nobile ma povero e mal vestito e, commiserando con
affettuosa pietà la sua miseria, subito si spogliò e fece indossare i suoi vestiti all'altro>>. Più
probabile secondo noi il viceversa, dal momento che il secondo personaggio non appare
affatto malvestito (si veda il contrasto con il povero raffigurato nella Fig. 8); ovvero,
sembrerebbe trattarsi dell'omaggio di un prezioso mantello offerto a Francesco da un
cavaliere sceso appositamente da cavallo per rendere ossequio al Santo: forse qualche
riferimento ai Templari? Comunque, la scena si svolge secondo una eccezionale prospettiva
a forma di croce (sic!), che parte dal centro stesso della testa del Santo che ha tra le mani il
mantello, per irradiarsi lungo le diagonali dell'intera opera: sul lato sinistro, ove è
rappresentato San Francesco sullo sfondo di una vista della città di Assisi; e sul lato destro il
cavaliere, sullo sfondo del monastero benedettino del monte Subasio (al riguardo rimandiamo
al nostro articolo pubblicato su Episteme n. 6 a proposito del Duomo di San Rufino). Tra
l'altro, nell'affresco della Piazza, Francesco incrocia delicatamente le mani verso il basso
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(come per immergersi tutto nel velo che gli viene steso ai piedi: non si può fare a meno di
notarlo) proprio a forma di 'croce'!, cioè nell'esatto modo del Cristo della Sindone, nello
sprofondo della morte. Ancora una volta vogliamo sottolineare uno scambio di identità, una
sorta di 'dualità' che si riconduce all'unità, proprio come la Sindone. Il 'figlio del mercante di
stoffe' esordisce, nelle Storie giottesche, con due pezzi di stoffa: un velo di finissimo in cui
sembra immergersi con passo delicato ed esitante, e un mantello come nell'episodio di San
Martino. A nostro avviso si tratta di chiarissime marchiature sindonico-templari, su di uno
sfondo assai allusivo, ma allo stesso tempo destinato a rimanere sigillato nel segreto. Ce lo
lascia sospettare, in una 'trama gialla', tutto l'insieme degli elementi che si trovano adunati
nella Chiesa, compresa la famosa chartula oggi esposta al pubblico. Ci troviamo in effetti
all'interno di una 'cerchia di simboli', e come ricompresi in un'atmosfera da 'Santo Graal'. Chi
commissionò la produzione di queste straordinarie opere pittoriche destinate all'universo
cristiano, sapeva benissimo a quali realtà nascoste riferirsi, e lo fece con piena coerenza, né in
modo episodico né in una cornice occasionale, bensì secondo un disegno voluto e
perfettamente organizzato per una consegna 'cifrata' alla posterità.

X.8. Per quanto concerne la presenza giottesca in Assisi, ed il notevolissimo problema


dell'attribuzione e della datazione degli importanti capolavori della Basilica, si rinvia al
bellissimo saggio di Luciano Bellosi, La pecora di Giotto (Einaudi, 1985) e agli importanti
lavori (già citati) di Chiara Frugoni e di Pietro Scarpellini. Qui interessa soltanto il 'mistero
francescano', anche se la nostra 'traccia templare' potrebbe ovviamente avere un forte impatto
con l'accennata questione. Appare certamente singolare la coincidenza di riferimenti criptici,
di misteriose allusioni e di trasparenze significative, che sembrano emergere nel loro insieme
dal quadro abbiamo cercato di delineare. Ci sono poi due episodi, riferiti dalle fonti, in cui
Francesco deve prendere addirittura le distanze dai catari (cfr. M. Lambert, I Catari, Piemme,
2001, pag. 236 ss.). Neppure questo argomento ci interessa. Tuttavia i viaggi del giovane
mercante Francesco si svolsero proprio in terra catara, le stesse zone geografiche dei
Templari e delle leggende del Graal. E fu proprio nella piccola Lirey, non lontana da Troyes,
la capitale della Champagne dove si era svolto il Concilio anticataro del 1228 e in passato era
stata redatta la Regola del Tempio, si dice risalente a San Bernardo, che ricomparve
improvvisamente il misteriosissimo lenzuolo, per essere pubblicamente esposto per la prima
volta nel 1355 (secondo quanto si trova scritto nel Memorandum del vescovo di Troyes,
Henri de Poitiers, risalente al 1389). In un filone silenzioso, rimasto interrato per secoli e
secoli, potrebbe nascondersi un 'tesoro' di occultazioni di importanza straordinaria, a
prescindere da quanto stiamo tentando di ricostruire. Ad esempio, la chiesa perugina di San
Bevignate - "il santo misterioso di Perugia", com'è stato definito - risalente al 1256-1262
(che è l'epoca stessa dei 'flagellanti' d'ispirazione gioachimita e pauperistica), è ornata da
singolari affreschi, tra cui l'Ultima cena, la Maddalena, la Crocifissione e molti altri ancora,
che sono stati definiti (dal Demurger) <<uno dei rari esempi di decorazione voluta (e
realizzata?) dai templari>>. Durante le persecuzioni ed i processi ordinati dal re di Francia,
furono mandati a morte alcuni capi templari umbri come Vivolus de comitatu Perusiae, il
quale ammise di aver visto una volta un certo '' capud " che sembrava il 'volto d'un uomo', e
un certo non meglio identificato Petrus Picardi (forse un templare 'francescano'?). Al limite
costoro potrebbero aver avuto a che fare con le supposte committenze della Basilica assisiate.
Il nostro 'puzzle' ricompone isolati frammenti, che appaiono tuttavia singolarmente
contestualizzati. Come si spiegano tali coincidenze? E si ha quasi il sospetto che la leggenda
francescana abbia in qualche modo recuperato alcuni elementi di quella del Graal. Il tratto
comune tra le due leggende potrebbe derivare dalla Sindone come cercheremo di
argomentare.

XI. LE LEGGENDE DEL GRAAL


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XI.1. Gli originari racconti del Graal erano otto storie scritte in un periodo di circa un
trentennio, tra il 1190 e il 1220 (G. Phillips, La ricerca del Santo Graal, Sperling e Kupfer,
1996, pag. 42). La prima di queste, il Perceval ou Le conte du Graal di Chrétien de Troyes,
sarebbe stata scritta verso il 1190, quando Francesco d'Assisi era ancora un bambino. Vi
furono poi continuazioni di questa storia ad opera di autori anonimi. Verso il 1200 comparve
il Joseph d'Arimathie di Robert de Boron, pressappoco coevo dell'anonimo romanzo francese,
noto come il Didcot Perceval. Il Parzival tedesco del poeta epico Wolfram von Eschenbach
sarebbe stato composto verso il 1205. Una versione riveduta e corretta del Didcot Perceval,
intitolata Perlesvaus, e due storie del Graal appartenenti al Vulgate Cycle, furono le ultime
della serie, comparse verso il 1220. Le conte du Graal fu l'ultimo dei cinque romanzi
'arturiani' composti da Chrétienne tra il 1170 e il 1190, rimasto incompiuto alla sua morte.
Nell'introduzione a quest'opera, il poeta francese afferma di aver ricevuto la storia dal suo
patrono, il conte Filippo di Fiandra, sotto forma di un libro donatogli prima che Filippo
partisse per le crociate. Il Graal sarebbe il calice di Cristo utilizzato nell'ultima cena, un 'vas
sanguinis' che si richiama altresì all'amaro calice che non fu risparmiato a Gesù nel supplizio
sulla croce. Qualcuno ha affacciato l'idea che il Vangelo apocrifo di Tommaso, contenente i
'detti segreti' di Gesù ed affiorato soltanto nel 1945 dalle sabbie del deserto egiziano, fosse
addirittura il Graal. Forse il Graal è la Sindone, e i romanzi del Graal servirono a dirottare
altrove questo straordinario segreto templare. Tra i grandi centri letterari nella Francia del XII
secolo figuravano le corti di Aliénor, di Maria di Champagne e di Aelis di Blois. Thomas è il
poeta della corte di Aliénor, Chrétien il poeta della corte di Champagne, e il maggior poeta
della corte di Blois è Gautier d'Arras (A. Viscardi, Le letterature d'oc e d'oil, Sansoni, 1967).
Chrétien è forse il più grande poeta medievale prima di Dante: Erec e Phoenice, Lancillotto e
Perceval sono le immagini 'grandi' che la fantasia di questo poeta ha realizzato per esprimere
i termini essenziali della visione del mondo e della vita umana, raccogliendo una vasta eredità
precedente. Certo che le leggende del Graal si fondano sull'Avventura.

XI.2. L'<<avanture>> è la forma essenziale della vita eroica, la prova volontaria mediante la
quale l'uomo, che sia veramente tale, realizza in pieno il segno della sua umanità. Cristo e
Francesco sono dunque i massimi eroi possibili di questa 'avventura' della perfezione.
Francesco era a quel tempo un giovinetto che sognava la gloria e che poi si diresse, dopo la
crisi, in questa stessa direzione di pienezza, derivante però dalle privazioni. Ed ecco che
l'<<avventura>> di Francesco sembra consumarsi tra supposta gloria templare e vera sequela
Christi nella scelta finale della perfetta conformità evangelica. Anche in Chrétien de Troyes
l'<<avventura>> somiglia ad un doloroso "itinerarium mentis in Deum". L'anima ingenua di
Perceval vaga tra emozioni cavalleresche e il Graal appare soltanto come 'avanture'. Poi,
quando Perceval acquista coscienza che la ricerca del Graal è, in realtà, un'inchiesta di Dio
(così come il Gradale), ecco lo scatto verso una meta superiore, un passaggio verso l'alto. In
realtà Chrétien de Troyes avrebbe composto la sua ultima opera, il Perceval, verso il 1174-
1175, e non verso il 1190. Secondo la testimonianza d'un suo continuatore sarebbe stata
appunto la morte ad impedirgli di condurre a termine questo lavoro. Francesco doveva
conoscere senz'altro Le conte dou Graal. La poesia di Chrétien è la poesia della 'tragica'
condizione umana. Pressappoco negli stessi anni in cui, da Wauchier e da Manessier, il Conte
dou Graal veniva svolto in senso mistico e quasi agiografico, un altro scrittore, Robert de
Boron, riprese il tema del Graal, rifacendosi però alla materia degli Apocrifi, il che è assai
significativo nei riguardi della nostra traccia. Robert de Boron visse nell'Inghilterra dei
Plantageneti alla fine del XII secolo (e si può forse identificare con quel 'Robert de Burun' di
cui è menzione in un documento dell'Essex), ma è senza dubbio francese, nato probabilmente
nella regione orientale dell'Alta-Saona. Il suo romanzo 'graaliano' (oltre 3.500 versi) si
intitola Romans de l'estoire dou Graal. Non si tratta di un'opera di grande poesia, e Robert de
Boron sembra aver apprestato soltanto la materia. Il Gradale è stato dato dal Salvatore a
Giuseppe d'Arimatea, chiuso in carcere a Gerusalemme dagli ebrei. Giuseppe, con la sorella,
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il cognato Bron e un gruppo di proseliti, dopo la distruzione della Città Santa si rifugia
lontano, portando con sé la preziosa reliquia. Tre persone veglieranno sul Graal. Nessun
sacramento sarà celebrato senza che si ricordi Giuseppe. L'altare è il sepolcro, la tovaglia e il
drappo in cui egli ha avvolto il corpo di Gesù. Il Graal è il calice di sangue. Tutti coloro che
vedranno il "santo vaso" saranno alla presenza di Dio. Fonte di questa parte del romanzo è,
con tutta probabilità, la Gemma animae di Onorio di Augsburg (Autun), che fornisce la stessa
interpretazione 'mistica' della Messa. La prima parte si ispira, invece, all'apocrifo Vangelo di
Nicodemo (specialmente la parte nota come Gesta Pilati). La terza parte all'apocrifo che si
intitola: Vindicta Salvatoris (Viscardi, op. cit., pag. 232). Il romanzo si chiude con la
'profezia' della traslazione della santissima reliquia in Occidente. Robert de Boron perviene ad
una precisa definizione del tema del Graal, che invece in Chrétien era stato vagamente
accennato. A Robert de Boron e i segreti del Graal ha dedicato un importante saggio il Prof.
Francesco Zambon (Olschki Editore, Firenze, 1984). L'intelligente Autore analizza la materia
del Graal anche dal punto di vista del retroscena 'apocrifo' e dei significati reconditi a ciò
riconnessi, con uno studio assai approfondito e ricchissimo di spunti. Egli cita, tra l'altro,
l'inno 31 del III libro della Ginza di sinistra (un'opera 'mandea': cfr. pag. 87), ove la salvezza
e il ritorno alla Patria celeste sono rappresentati mediante la liberazione da una prigionia:
<<Vengo incontro alla mia immagine, / e la mia immagine viene incontro a me>>.
Secondo noi anche in questo caso si tratta di un'evidente allusione sindonica, e in questo
passo si nasconderebbe, perciò, uno dei grandi misteri che appartengono alla 'soluzione
indiziaria' che forniremo alla fine, a proposito della fabbricazione della Sindone. Infatti, se la
Sindone (non uno dei suoi tanti surrogati come il Velo di Oviedo e la Veronica di Roma) è il
vero sudario di Gesù, di essa deve pur trapelare qualche antica traccia, non importa se
indiretta o traslata, negli stessi scritti neotestamentari, come anche nelle altre fonti cristiane e
quelle gnostiche. Queste allusioni, più o meno criptiche, ma decifrabili e riportabili a senso,
noi crediamo di averle trovate e nel prosieguo del presente articolo trascriveremo quelle
secondo noi più significative. Ma ciò che altresì colpisce del riportato passo della Ginza, è la
possibilità che esso effettivamente descriva il procedimento chimico-alchimistico col quale
sarebbe stata ottenuta l'impressione fotografica del lenzuolo da parte dei seguaci di Gesù, da
individuarsi come vedremo nella setta dei Terapeuti di Alessandria d'Egitto, presenti a
quell'epoca a Gerusalemme. Tale ulteriore riferimento, assai importante ai nostri fini,
potrebbe essere accolto con altrettanto fondamento indiziario secondo quanto si vedrà in
seguito.
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XII. ALLUSIONI SINDONICHE - IL 'VOLTO SANTO' DI SANSEPOLCRO

XII.1. Abbiamo già riportato il passo della Vita di Martino scritta da Sulpicio Severo, in cui
sorprendentemente sembra annidarsi un'evocazione criptica dell'immagine sindonica, appunto
"divisa in due". Abbiamo altresì menzionato alcuni altri passi, come l'Inno della Perla, che
lasciano sospettare un simile richiamo. Occorre adesso corroborare questi accenni riportando
ulteriori passi. I tanti studiosi sostenitori a spada tratta dell'autenticità della Sindone, non
avrebbero considerato tutte le potenzialità di questo tipo di verifica, lasciandosi invece
trasportare dagli studi ricostruttivi storiografici inaugurati nel 1978 dallo storico inglese Ian
Wilson, che si concentrò soprattutto sulla "pista di Edessa" (in Macedonia) suffragata da
alcuni passi della Storia Ecclesiastica di Eusebio di Cesarea (I, 13-19 e II, 1,7) a proposito
della lettera a Gesù di re Abgar (Abgar V Ukkama, che in siriaco significa "il nero") e da un
altro passo della Storia ecclesiastica di Evagrio di Epifania (un autore del VI secolo), il quale
riferisce che gli "assediati di Edessa" ricorsero alla "santa icona" che Cristo aveva mandato ad
Abgar che era desideroso di vederlo di persona. Secondo quanto scrive Evagrio <<Essi la
portarono nel tunnel, la bagnarono con dell'acqua e ne versarono un po' sulla pira di
legna che immediatamente prese fuoco...>>. Dunque, non importa se in un altro contesto
narrativo, questo passo di Evagrio nasconde un procedimento alchimistico? Risparmiamo al
lettore gli altri particolari dell'evento storico. Ciò che ci ha colpito di questo singolarissimo
passo di Evagrio è l'evocazione, o piuttosto il lontano ricordo del procedimento tecnico che
secondo noi permise la realizzazione della Sindone, agendo sul cadavere di Gesù. Procopio,
che pure narra i medesimi fatti storici riportati da Evagrio, non conosce quest'episodio, così
come, nel Diario di viaggio di Egeria (la parte che resta di quest'opera pervenutaci non
integra) non figura alcun accenno o minimo riferimento all'immagine di Edessa, quando
questa ardente viaggiatrice romana del IV secolo visitò anche quest'ultima città: ma allora,
perché ci andò? (L'opera di Evagrio è stata pubblicata da Città Nuova nel 1998 e il Diario di
Viaggio di Egeria dalle Edizioni Paoline nel 1999). La Sindone, in mano ai seguaci cristiani
che si ritiene si siano rifugiati nella non lontana Pella per scampare alla guerra giudaica,
sarebbe poi giunta a Edessa (qui trasportata, come si sostiene, dai Nazareni, nel 135-136,
proprio da Gerusalemme, dove dunque il telo era stato di nuovo riportato), ed ivi rimase
nascosta per molti secoli, anche nell'epoca costantiniana, per quanto il cristianesimo romano
avesse ormai trionfato: segno evidente che se la Sindone è genuina, essa nasconde il segreto
stesso della morte di Gesù, del tutto sfavorevole alla predicazione della "resurrezione" fisica.
Dopo la costituzione dell'impero arabo sarebbe stata acquistata nel 958 d.C. dall'imperatore
bizantino Costantino VII Porfirogeneto, per essere poi predata, a Costantinopoli, dai Templari
franchi, nell'aprile del 1204, a seguito della quarta crociata che non giunse mai in Terra Santa.
Sarebbe poi finita proprio in Eubea, in Grecia, dove appunto i Templari possedevano secondo
Demurger (op. cit., pag. 212) <<rilevanti beni e una loro importante base>>. Una 'casa
templare', questa, direttamente collegata a Cipro, il cui archivio sarebbe stato distrutto dai
Turchi ottomani nel 1571. Un'attenta e capillare ricostruzione di questi possibili 'passaggi' si
trova ad es. in Sfida alla Sindone di Antonio Lombatti (Pontremoli, 2000), un testo assai
interessante da vari punti di vista, in cui alla fine si conclude per la versione che il lenzuolo di
lino a spina di pesce con tessitura 3/1, sarebbe <<un falso copto>> di epoca medievale, come
del resto provato dalla radiodatazione al carbonio 14 effettuata negli anni Ottanta in ben tre
diversi laboratori scientifici. Secondo noi, la Sindone è invece genuina ed appunto,
costituendo una scomoda prova nei confronti della teologia della 'resurrezione', fu sempre
tenuta nascosta, sia che fosse stata conservata a Gerusalemme fino alla conquista araba, sia
pure dopo le incerte vicende che ne seguirono, fino al suo probabilissimo trasporto a
Costantinopoli, dove la sua presenza sembra chiaramente attestata da più testimonianze,
anche se regnano al riguardo - è bene sottolinearlo - incertezze di vario tipo, soprattutto
inerenti all'esatta identificazione del telo sindonico.
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XII.2. Per molti sindonologi di fama, quali ad es. Pierluigi Baima Bollone (tra i suoi tanti
libri citiamo Sindone e scienza all'inizio del terzo millennio, Libri de La Stampa, 2000, e
Sindone -101 domande e risposte, ed. San Paolo, 2000), Maria Grazia Siliato (Sindone,
Piemme, 1997), oppure F. Barbesino e M. Moroni (Lungo le strade della Sindone, ed. San
Paolo, 2000) e G. Fanti e E. Marinelli (Cento prove sulla sindone, ed. Messaggero,2000: un
lavoro scientifico vero e proprio), la Sindone sarebbe invece autentica, e ciò per tutta una
serie di ragioni, sia di tipo intrinseco che di carattere estrinseco. La validità scientifica dei
risultati 'falsificanti' dovuti alla radiodatazione al carbonio 14 (in realtà più esami eseguiti da
laboratori diversi), è stata messa in seria discussione per tutta una serie di ragioni, che qui
tralasciamo. Paradossalmente, la difficilissima questione dell'autenticità intrinseca della
Sindone non ci interessa affatto, almeno in relazione alla prima parte del presente lavoro.
Francesco potrebbe aver visto benissimo un "falso copto" dell'ottavo secolo, coevo al Volto
Santo di Borgo Sansepolcro, ma certamente non un "falso medievale" risalente a dopo la sua
morte. La genuinità della Sindone ci interessa invece in relazione alla terza parte del presente
articolo, dove concluderemo il nostro racconto esponendo una plausibile versione circa il
procedimento chimico-fisico utilizzato per l'ottenimento dell'immagine di Gesù morto,
letteralmente non fatta da mani d'uomo (un dato significativo), e cioè acheirotipa come
appunto sostiene la tradizione occidentale.

XII.3. Afferma Umberto Eco ne Il pendolo di Foucault, che <<i Templari c'entrano
sempre>>. Runciman, il grande studioso inglese delle crociate, pur non collegando in alcun
modo l'Immagine di Edessa con la Sindone, biasimava severamente quegli storici che ne
avevano trascurato l'importanza a causa delle origini "poco chiare" della stessa, sottolineando
l'importanza che ebbe nella storia ed affermando che <<questo oscuro pezzo di tela ha avuto
un influsso diretto sui destini della Cristianità>> (riportato da T. Humber, La Santa Sindone,
Mursia, 1978, pag. 57). Secondo noi i Templari c'entrano e come. Essi vennero
effettivamente in possesso della Sindone (il c.d. Baphomet), che veniva conservata in una
teca, esattamente ripiegata in quattro (così come fece fra' Leone con la chartula datagli da
San Francesco!), mostrando cioè soltanto il Volto barbuto, che ovviamente tanto colpì San
Francesco, se appunto egli lo vide, come già avevamo accennato in una nota del nostro citato
articolo sulla 'facciata profetica' del duomo di San Rufino. La chartula di San Francesco
trasferì dunque a fra' Leone questo formidabile segreto templare, nel contesto sacro e
miracoloso delle stimmate. La parola Baphomet corrisponderebbe (secondo Baigent, Leigh e
Lincoln) a 'sophia' (se appunto decodificata in base al 'cifrario Atbash': cfr. L'eredità
messianica, pag. 110). Quella "saggezza" recata forse dall'anello del Santo, con l'immagine
della dea Minerva, trovato nella tomba? Molti testi si occupano della Sindone (autentica o
meno), "in mano ai Templari". Secondo Christopher Knight e Robert Lomas (Il secondo
messia, Mondadori, 1998), la Sindone rappresenterebbe le fattezze di Jacques de Molay,
l'ultimo Gran Maestro templare, fatto martirizzare da Filippo il Bello allo stesso modo di
Gesù. Si discute anche sull'altezza di Gesù, che nella Sindone appare fisicamente possente.
L'altezza di Gesù, stando alla Sindone, avrebbe oscillato tra il metro e settanta ed il metro e
ottantasette. A nostro giudizio un'altezza del tutto plausibile. E' storicamente attestato che nel
550 l'imperatore Giustiniano mandò a Gerusalemme degli 'uomini degni di fede' per misurare
l'altezza reale di Gesù (<<mensura longitudinis corporis Christi, quae fuit mensurata a
fidelibus viris in Ierusalem>>), e che il risultato ottenuto fu di "un metro e ottantatre
centimetri". Del resto Gesù aveva una mantello regale senza cuciture, intessuto d'un sol pezzo
(Gv 19, 23: <<la tunica era senza cucitura, tessuta dalla parte superiore tutta d'un
pezzo>>). Su questa "tunica" fu tratto a sorte (oltre che girato un film), mentre gli altri panni
furono spartiti <<in quattro>>. Secondo Eusebio (Storia ecclesiastica, 2, 23), che cita un
passo perduto di Egesippo, <<il rasoio non passò sulla sua testa>> e Gesù <<non portava
vestiti di lana ma di tessuto di lino>>.
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XII.4. Secondo un frammento del Vangelo segreto di Marco citato da Clemente


Alessandrino, Lazzaro dopo essere risorto (cfr. Gv 11, 1-44) si reca da Gesù, col quale si
intrattiene sei giorni <<indossando una veste di lino>>. I sinottici riportano l'episodio
dell'emorroissa, la donna che aveva perdite di sangue che non potevano guarire, e che fu
risanata al semplice tocco del 'mantello' di Gesù (il Cristo se ne accorse perché sentì
all'improvviso uscire da sé <<una potenza>>). C'è poi il sorprendente particolare, narrato dal
solo evangelista Marco (14,51-52), del ragazzo che corse via nudo nell'orto del Getsemani la
sera dell'arresto, ricoperto soltanto di una veste di lino, o meglio <<un lenzuolo>>. La
trasfigurazione di Gesù sul Tabor sembra alludere, peraltro, ad una sorta di bagno di luce.
Negli Atti degli Apostoli (7, 55-56) il martire Stefano vede <<i cieli aperti e il Figlio
dell'uomo che sta in piedi alla destra di Dio>> (coglieremo in seguito il possibile significato
di questa puntualizzazione). Pietro (Atti 10, 9-16) vede <<il cielo aperto e un oggetto strano
che ne discendeva, come una grande tovaglia che per i quattro capi veniva calata a terra>>.
Secondo la nostra 'lettura' si tratterebbe di altrettante allusioni od evocazioni sindoniche. E in
effetti la Sindone non era affatto in mano agli Apostoli della 'predicazione ai gentili' (Pietro e
Paolo), ma in mano ai seguaci di Gesù a Gerusalemme: cioè Giuseppe d'Arimatea e
Nicodemo, gli unici di cui conosciamo il nome attraverso i Vangeli. La Sindone è perciò
autentica, e razionalmente parlando non può essere nient'altro che il risultato veramente
sorprendente ed inatteso della prima 'fotografia chimico-alchimistica' della storia di cui fu
fatto oggetto il cadavere prezioso di Gesù, realizzata a Gerusalemme dai Terapeuti suoi
seguaci, che si trovavano anche nella città sacra e non solo ad Alessandria d'Egitto. Vedremo
al termine di questo articolo perché e con quali modalità fu ottenuta quest'immagine invertita,
ma non otticamente rovesciata, per annerimento delle fibre superficiali del telo di lino, con
una chiara allusione alla veste 'regale e sacerdotale' ad un tempo di Gesù Cristo, Re dei
Giudei e soprattutto vero Messia.

XII.5. Secondo San Paolo (I Cor. 15,14) <<se Cristo non è resuscitato, vana dunque è la
nostra predicazione, vana pure è la nostra fede>>. San Paolo è 'testimone' di Gesù, che gli
apparve come era già apparso agli Apostoli, e quindi (sempre secondo San Paolo) a più di
500 seguaci. Egli si diffonde a lungo sul mistero della "resurrezione". Ma tra gli eretici vi
erano coloro che negavano la resurrezione, come anche la morte. Gli 'gnostici' esaltavano gli
aspetti 'psichici' della dottrina cristiana, distinguendo tra 'carismatici', cioè gli eletti, e coloro
invece ai quali non sono date queste facoltà, con una analogia simile a quella della setta
pitagorica (cfr. M. Scopello, Gli gnostici, ed. Paoline, 1993). Ireneo di Lione ripercorre tutte
queste dottrine eretiche nelle loro varianti più diverse, che addirittura, attraverso i Bogomili,
giunsero dalla Bulgaria, fino al medioevo francescano ed oltre (e si tratta delle 'varianti' dei
Catari, degli Albigesi, dei Patarini lavoratori della lana, ecc.).

XII.6. Nel Vangelo di Marco (16) la scena della 'tomba vuota' è collocata <<allo spuntare del
sole>>. Nel Vangelo di Giovanni (20) la Maddalena dice: <<Hanno portato via il Signore e
non sappiamo dove l'abbiano posto>>. La 'formula' è ripetuta ancora una volta, però al
singolare: <<non so dove l'abbiano posto>>. E' stato fatto notare che si tratterebbe di
espressioni iniziatiche, nelle quali viene ripetuta, parola per parola, la stessa formula del 'rito
misterico di Iside', secondo una precisa cadenza 'ritmata'. In Matteo (28) l'angelo ha l'aspetto
della folgore, con veste bianca come neve. In Luca (24) ci sono <<due uomini>> con
<<vesti splendenti>>. In Giovanni la Maddalena vede <<due angeli biancovestiti, seduti uno
in corrispondenza del capo e l'altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di
Gesù>>(proprio come gli angeli della tomba di Giovanni di Brienne).

XII.7. Il Poimandres di Ermete Trismegisto' è ricompreso nel corpus degli 'scritti gnostici'
(che riscoperto a Firenze nel circolo del Ficino, era già ampiamente noto a Michele Psello e a
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Gemisto Pletone). A Nag Hammadi furono ritrovati papiri di vario genere contenenti
frammenti anche di quest'opera. Nei Papiri della Grecia magica (un gruppo di testi risalente
al IV secolo d.C., all'incirca all'epoca stessa dei codici Sinaiticus e Vaticanus del Nuovo
Testamento), viene menzionato un rito <<per rendere immortale l'uomo per intervento del
dio sole>>. Negli scritti gnostici (cfr. La gnosi e il mondo, testi gnostici a cura di L. Moraldi,
Tea, 1988) c'è un continuo riferimento all'<<Adamo-Luce>>. Nell'Inno della Perla, un
importantissimo testo della gnosi siriaco-egiziana (cfr. H. Jonas, Lo gnosticismo, Torino,
1991, pag 130 ss., il fondamentale saggio di un grande allievo di Bultmann) [Nota della
redazione: se ne può vedere la versione integrale nel commento di Sabato Scala al presente
articolo, in questo stesso numero di Episteme], leggiamo frasi come: <<Mi tolsero il vestito
di gloria>> che <<nel loro amore avevano fatto per me: esso era grande, eppure leggero, in
modo che potessi portarlo da solo>>, <<il manto di porpora che era stato tessuto in modo
che si adattasse perfettamente alla mia persona...>>. <<Quando andrai in Egitto e ne
riporterai l'Unica Perla che giace in mezzo al mare, accerchiata dal serpente sibilante,
indosserai di nuovo il tuo vestito di gloria e il manto sopra di esso>>. E ancora: <<Mentre
ora osservavo il vestito, mi sembrò che diventasse improvvisamente uno specchio-immagine
di me stesso: mi vidi tutto intero in esso ed esso vidi in me, cosicché eravano due separati,
eppure era uno per l'ugualianza della forma…>>. Miglior descrizione della Sindone non si
potrebbe immaginare. Approfondendo la ricerca, si potrebbe andare avanti con molte altre
citazioni simili, altrettanto allusive e inquietanti. Ad es. (nel Vangelo apocrifo secondo gli
Ebrei: cfr. Vangeli Apocrifi, I, a cura di P. G. Bonaccorsi, Libreria Editrice Fiorentina, 1948,
pag. 7) leggiamo che: <<Il Signore poi, data la sindone al servo del sacerdote, se ne andò
da Giacomo e gli apparve>>. Nel Vangelo apocrifo di Pietro, questa è la descrizione della
morte di Gesù: <<E il Signore gridò: "Mia forza, mia forza, tu m'hai abbandonato! " E detto
così, fu pigliato in cielo. E nella stessa ora la cortina del tempio si squarciò in due>>.
Allusioni 'sindoniche' si trovano pure nelle varie narrazioni dell'infanzia di Maria, madre di
Gesù. E nell'Anticristo di Ippolito (I, 4: cfr. Nardini Editore, 1987, a cura di E. Norelli, pag.
71) leggiamo questo passo: <<Perché infatti il Logos di Dio, che era privo di carne, indossò
la santa carne dalla santa Vergine, come uno sposo la sua veste, terminando di tesserla nella
passione sulla croce, così che, contemperando il nostro copro mortale con la sua potenza, e
mescolando il corruttibile con l'incorruttibile e il debole con il forte, salvasse l'uomo che era
andato in perdizione>>. Si tratta dell'immagine di Gesù, Nuovo Adamo, frammista ad
allusioni sindoniche.

XII.8. Gesù fu crocifisso dai Romani come 're dei Giudei'. Gli Ebrei avrebbero potuto
'lapidarlo', o 'appenderlo all'albero', essendo queste le forme prescritte di condanna a morte
per eresia o bestemmia, delle quali non erano stati affatto spogliati per le questioni
esclusivamente religiose, come infatti poi accade negli Atti, nel caso di Stefano e di Giacomo,
uccisi lapidati dai farisei del Sinedrio. L'essere <<appesi all'albero>> evoca il termine
ebraico <<TLH>> (presente sia in Ester, 7,9 come nell'importante frammento Nahum Pesher
della grotta 4 che nella colonna 64 del Rotolo del Tempio), che sta per 'croce' o 'crocifissione
romana'. Ciò che diverrà, a nostro giudizio, il trigramma del <<TAU>>, usato anche da San
Francesco. Il concetto di resurrezione (che corrisponde alla 'morte secunda' del Cantico delle
Creature, ripresa, alla lettera, da un passo dell'Apocalisse) deriva da Daniele (7,13-14) e da
Ezechiele (37,12-4), e affiora anche per gli 'Zeloti' di Giuseppe Flavio (cfr. Guerra Giudaica
VII, IX), proprio nel discorso di Eleazzaro, che li stimola alla resistenza all'ultimo sangue, in
vista dell'immortalità dei giusti.

XII.9. <<Mentre ora osservavo il vestito, mi sembrò che diventasse improvvisamente uno
specchio-immagine di me stesso: mi vidi tutto intero in esso ed esso tutto vidi in me,
cosicché eravamo due separati, eppure ancora uno nella forma e l'immagine del re dei re
era raffigurata dappertutto su di esso>>. Se non è questa la Sindone, descritta in modo
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traslato e criptico in un passo gnostico dell'Inno della Perla, di che mai potrebbe trattarsi? Di
conseguenza la Sindone sarebbe attestata, in modo cifrato e criptico, nei più antichi testi,
siano essi cristiani che eretici. La ricostruzione 'storica' dei suoi vari passaggi è perciò
servente e non principale, rispetto a queste 'citazioni' allusive, di per sé interessantissime ma
anche altamente indicative del mistero sindonico, che è pure riflesso da alcune opere d'arte di
oscurissima origine.

XII.10. Nel Duomo di Sansepolcro si trova il famoso Volto Santo, un crocifisso ligneo più
che a grandezza d'uomo, opera straordinaria e misteriosa, ben più antica dell'analogo 'Volto
Santo' di Lucca, che pure gli somiglia notevolmente. All'infuori della notizia della presunta
donazione del prezioso crocefisso da parte della nobile famiglia dei "Cattani" (sic!: lo stesso
cognome del primo 'vicario' francescano morto nel 1221), in realtà non si sa proprio nulla
delle vicende di quest'opera, e, soprattutto, del perché essa si trovi in questa città dal nome
oltremodo allusivo, e addirittura nel Duomo poi dedicato a San Francesco. La tipologia del
Cristo di Sansepolcro è quella del 'trionfo sulla croce', cioè di "Sacerdos et Rex". Il miglior
studio su quest'opera eccezionale è Il Volto Santo di Sansepolcro ("Un grande capolavoro
rivelato dal restauro", Silvana Editoriale, 1994). Gli accurati studi critici e le evidenze del
recente restauro provano che quest'opera proviene da un ambiente artistico orientale, che
risale sicuramente all'VIII secolo. Gesù è rappresentato vestito sulla croce, con i tratti fisici
del 'Nazireno' (lunga barba e lunghi capelli), gli occhi aperti e il capo proteso in avanti
(quest'ultimo particolare si può riscontare proprio nella Sindone). Una grande ed
evidentissima <<M>> dorata incornicia la veste all'altezza del collo, del petto e delle spalle!,
non importa se ritenuta soltanto una "stola sacerdotale". Un nodo singolarissimo e al tempo
stesso fisicamente 'impossibile', allaccia ai fianchi la veste. A differenza del nodo dell'assai
simile Volto Santo di Lucca, che però risale ad epoca più recente di quello di Sansepolcro,
quest' ultima cintura, in cuoio senza fibbia, che si annoda tramite un'asola passante, e stringe,
col suo nodo, le pieghe della tunica alla vita di Gesù, presenta un nodo a prima vista "vero",
ma in realtà si tratta di un nodo irriproducibile. Il lettore comprenderà tutte le 'stranezze' che
caratterizzano quest'opera a dir poco misteriosa. A nostro avviso si tratta, ancora una volta, di
una riproduzione 'sindonica', straordinariamente allusiva al 'mistero Gesù'.
E le stranezze non finiscono qui. L'Italia medievale ne è percorsa. A titolo di esempio
richiamiamo un caso clamoroso: quello di San Galgano di Montesiepi e dell'omonima chiesa
monumentale, oggi diroccata. Vissuto tra il 1148 e il 1181, dichiarato santo nel 1185, la sua
vicenda leggendaria è altresì legata a quella della "spada nella roccia" che forse addirittura
anticipa la "Matière de Bretagne", cioè il "Galvano" del tedesco Wolfram von Eschenbach
(1210-1220) del Parzival, e il poema incompiuto di Chrétien de Troyes, Perceval le Gallois
ou le Conte di Graal, riportabile a verso il 1190 (vedi M. Moiraghi, L'enigma di San
Galgano, Ancora Editrice, aprile 2003). Da dove provengano tutte queste sconcertanti
'stranezze', da quale 'occulto fondale' aggallino non è dato sapere. Ma una tale 'domanda' ha
pienamente senso e non può essere certamente elusa con una semplice alzata di spalle. A
nostro avviso il filo conduttore di tutti questi misteri è sempre il segreto della Sindone,
riapparsa in occidente con le vicende delle crociate. Ma il mistero della Sindone rinvia
direttamente a quello della figura di Gesù.
52

PARTE SECONDA

XIII. IL MISTERO GESU'

XIII.1. Appartenendo ad una generazione che prese sul serio l'insegnamento delle 'ore di
religione', una certa predilezione per le letture 'cristologiche' non deve sorprendere. Dopo il
liceo continuammo ad appassionarci alla questione neotestamentaria, dal Loisy al Bultmann,
al Guignebert, a Goguel, seguendo i piombi del laico Augusto Guerriero, in realtà un
magistrato in pensione della Corte dei Conti, che con lo pseudonimo di Ricciardetto scriveva
sul settimanale Epoca verso la fine degli anni sessanta. Di quegli articoli, ancora di
freschissima lettura, restano le raccolte (1973 e 1976, Mondadori) Quaesivi et non inveni ed
Inquietum est cor nostrum, che fortemente si incisero nella nostra sensibilità. <<Gesù ha
proclamato la venuta del Regno>>, dichiarò una volta Loisy, con una punta di provocatoria
disperazione, <<e al suo posto è venuta la Chiesa>>. In Italia, salvo qualche eccezione, non
ci fu mai un vero movimento storico-critico a riguardo degli studi cristologici e
neotestamentari. Del resto Loisy non pensò mai di scrivere una 'vita di Gesù', perché era
convinto che questo progetto non fosse realizzabile sulla base del materiale disponibile. Ci
provarono, invece, negli anni trenta, altri studiosi di Storia del cristianesimo alla Sorbona:
Charles Guignebert, e il suo successore Maurice Goguel. In Italia comparve, in quegli anni, la
Vita di Gesù Cristo di Don Giuseppe Ricciotti, un'opera eccellente (ancor oggi ristampata),
per rigore, ampiezza della documentazione, oltreché per forza e vivacità di stile. Un autentico
capolavoro, che segnò, tuttavia, la fine di un'epoca, perché nel 1943 venne emanata l'enciclica
Divino Afflante Spiritu, con la quale gli studiosi cattolici furono incoraggiati a far ricorso
"agli strumenti moderni dell'esegesi", in pratica il metodo della "storia delle forme" di
Bultmann, abbandonando così ogni pretesa di 'ricostruzione storica'. Racconta Ricciardetto, il
quale aveva ripreso, col suo stile agile e scintillante, il dibattito 'laico e razionalista' della
'critica evangelica', che un'edizione della Vita di Gesù Cristo del Ricciotti fece addirittura
compagnia a Mussolini durante la prigionia a Ponza e poi alla Maddalena, subito dopo il 25
luglio del 1943. Il 'Duce degli Italiani' trovò bellissima quest'opera, ma Ricciardetto
giustamente insinua che la cosa non lusingò poi troppo il 'cattolico romano' Don Ricciotti. In
realtà, è proprio nel momento del dolore che appare Dio, poiché Egli abita 'il cielo sopra i
deserti che hanno prosciugato le lacrime'. Il Gesù del deserto, più che un 'esseno' del Qumran,
oppure un seguace di Giovanni Battista, è forse il simbolo stesso di una peregrinazione durata
quarant'anni prima dell'ingresso nella Terra Promessa, alla quale non giunse mai l'egiziano
Mosè. Ma 'Gesù ebreo' proveniva forse dall'Egitto, compiendosi così, un 'eone' dopo, la
scrittura profetica del vero 're degli ebrei', sacerdote e messia, una sorta di 'rex mundi', in
previsione del 'secondo esodo'. La straordinaria dottrina di San Paolo non fa altro che
riallacciarsi all'originario universalismo della missione salvica del Cristo, nuovo Adamo
('figlio dell'uomo'), e 'figlio del Padre' (vero interprete del patto). In questo modo la figura di
Gesù ha percorso duemila anni di storia.

XIII.2. Il mistero Gesù si riaffaccia ad ogni generazione. Percorre i tempi e le mode. Negli
anni cinquanta la ricerca cristologica entrò in una nuova fase, ma non portò a risultati
apprezzabili, malgrado l'impegno di Kaseman, Bornkamm e Robinson, che erano fra gli
studiosi più intelligenti di quella generazione. Una terza fase della ricerca conobbe un rapido
sviluppo dagli anni settanta, e continuò negli anni ottanta, grazie alle opere di Sanders,
Burton, Borg e Crossan. Il 'Jesus Seminar', diretto da Robert Funk, riportò all'attenzione la
ricerca sul 'Gesù storico'. Questa nuova generazione di studiosi (sicuramente anticipata dal
Gesù 'pasoliniano' del 1963, che dopo un iniziale sconcerto da parte della Chiesa finì per
essere accolto come un capolavoro dal momento che non si trattava di una versione
53

tipicamente 'marxista' di Gesù, e cioè a senso unico come già si era tentato di fare in altre
opere), ha avuto la tendenza a presentare Gesù come un maestro di saggezza sovversiva,
portatore di un messaggio dalle profonde conseguenze per la società e gli uomini della sua
epoca. La ricerca storica su Gesù, sul 'che cosa' sia sopravvissuto ai disastri della 'critica delle
forme', ha ancora molto da dire sul modo in cui Gesù svolse il suo ministero e sul possibile
influsso delle sue idee sui contemporanei. Tuttavia l'attuale statuto della ricerca
neotestamentaria si fonda sulla considerazione che Gesù era molto diverso da come fu
descritto nei Vangeli e nel Credo della Chiesa (Didachè) risalente a un secolo dopo. Il Jesus
Seminar è un'associazione di circa cento studiosi provenienti in maggioranza dagli Stati Uniti
e dal Canada, che riunitisi per la prima volta nel 1985, a Berkeley, cercano di stabilire quali
'detti' (loghia) siano attribuibili a Gesù, tentando di ricostruire gli ipsissima verba che
sarebbero stati pronunciati in lingua aramaica, cioè quella lingua parlata in quel tempo in
Galilea. Paradossalmente, <<se i Vangeli sono inattendibili, allora le teorie diventano la
nostra unica guida per la vita di Gesù>>. Ne consegue, come infatti è avvenuto, che tutto e
l'esatto contrario può essere detto su Gesù. <<Se Gesù non fu un esseno, allora fu buddhista o
un precursore del femminismo e un adoratore della dea Sofia, oppure un rivoluzionario
marxista o un uomo di sinistra 'politicamente corretto', che si sarebbe sentito perfettamente a
suo agio nei 'campus' universitari americani>>. (Thiede-D'Ancona, op. cit. pag. 204).

XIII.3. Gesù mago (un Gesù esoterico, non necessariamente 'gnostico') non è una novità
moderna. Anzi è la 'contro-immagine' stessa con la quale il cristianesimo insorgente dovette
confrontarsi da subito, dal 'Simon Mago' degli Atti degli Apostoli, e quindi dei romanzati e
tardi Atti di Pietro. Nelle sue forme estreme, la sfiducia nel Gesù dei vangeli canonici arriva
all'assurdo sovvertimento della sua stessa origine ebraica e dello stesso titulus di condanna a
morte quale Re dei Giudei. I 'docetisti' negavano addirittura che Cristo avesse avuto un corpo
reale o un'esistenza strettamente storica. In una serie di scritti risalenti al 1975 (The Jesus of
the Early Cristians ed anche Did Jesus Exist?), lo scrittore G. A. Wells ha supposto che il
Cristo della storia sia stato inventato dalla Chiesa nel II secolo d.C., ma il presupposto
fondamentale che i Vangeli non sarebbero stati scritti fino al 100 d.C. non sembra oggi più
difendibile. Più di recente H. Detering (Der Gefaelschte Paulus, Duesseldorf, 1995) ha
negato l'autenticità di tutte le lettere paoline, attribuendole all'eretico Marcione vissuto verso
la metà del II secolo d.C. Nel romanzo (1954) intitolato L'ultima tentazione di Cristo (che
venne ripreso da Martin Scorsese nel film scandalo del 1988), lo scrittore greco N.
Kazantzakis (nato a Creta nel 1883 ed insignito del Nobel per la letteratura, autore anche de Il
poverello di Dio, una biografia francescana romanzata pubblicata nel 1956, anno precedente
alla sua morte, nella quale si immagina un rapporto d'amore fra Chiara e Francesco: nel 1924,
K. venne in Assisi, e qui si incontrò con il poeta danese Giovanni Joergensen, col quale ebbe
un confronto sulla figura di San Francesco), descrisse Gesù come una figura "dubbiosa e
tormentata", molto distante dal guaritore carismatico e capo spirituale che emerge dal Nuovo
Testamento. Nel 1948 egli aveva pubblicato Cristo di nuovo in croce, in cui il protagonista, il
giovane e angelico Manoliòs, anticipa la figura del Poverello di Dio, e a quella si ispira. Qui
il contrasto è tra vera fede, vissuta nel profondo, e fede convenzionale e opportunistica. E' un
po' la differenza tra 'religione statica' e 'religione dinamica' del mai dimenticato 'maestro'
Henri Bergson, il filosofo francese dello 'slancio vitale' (ed anche primo autorevole 'critico'
dei presupposti epistemologici e filosofici della 'teoria della relatività' di Einstein).

XIII.4. In un libro più recente (Live from Golgotha, New York, 1992) Gore Vidal ha
immaginato un "pirata informatico" che vuole eliminare i Vangeli dalla memoria umana, con
viaggi nel tempo fino all'epoca delle origini cristiane, e, addirittura, la possibilità che, a
morire sulla croce, fosse stato Didimo Giuda (il 'gemello-gemello' del Cristo), e non Gesù
stesso. Trame di questo tipo erano state inaugurate dai citati Baigent, Leigh e Lincoln. Su
questo medesimo 'genere' si muovono, in modulate filigrane, libri destinati al grande
54

pubblico, come quelli dei già menzionati C. Knight e R. Lomas (La chiave di Hiram e
soprattutto Il secondo messia), di Lynn Picknett e Clive Prince (Turin Shroud: In Whose
Image? ed anche La rivelazione dei Templari), di G. Phillips (Il mistero del sepolcro della
Vergine Maria) e di F. Terhart (I Templari guardiani del Santo Graal). L'italiano Alvaro
Innocenti (vedi Guerre nel tempo nel cielo di Giuda, Firenze Atheneum, 2002, sottotitolo:
Un'altra chiave di lettura dell'ebreo Gesù) ha di recente pubblicato un lavoro assai diffuso,
nel quale viene affrontata la figura di Gesù riferita ad una allegoria di tipo astronomico. Il 25
dicembre non è solo il giorno natale di Gesù (tale data fu fissata nel III secolo, in luogo del 6
gennaio), ma anche quella di molti 'dèi' pagani, come Osiride, Attis, Tammuz, Adone,
Dioniso, e altri ancora. L'egittologo E.A. Wallis Budge aveva notato, alla fine dell'ottocento,
che un'antica preghiera egiziana a Osiride-Amon incominciava con le stesse parole del Padre
nostro: <<Amon, Amon che sei nei cieli…>>, e dunque la preghiera al Padre non proverrebbe
direttamente da Gesù. Sul quotidiano La Repubblica del 30 gennaio 2003 è comparso un
articolo di Pietro Citati sull'enigma che si nasconderebbe nel Padre Nostro. La questione
riguarda 'il pane epiousios', il pane 'quotidiano' del nostro sostentamento, con riguardo alla
parola 'aramaica' effettivamente adoperata da Gesù Cristo in luogo dell'aggettivo 'greco' della
traduzione evangelica (cfr. G. Vermes, op. cit). Ma si dovrebbe piuttosto riflettere
sull'evidente cadenza poetica di questa grande preghiera, che ne rivela un'origine ispirata, e
probabilmente antichissima. Dal calcolo effettuato dal Seminar emergerebbe che soltanto il
venti per cento dei 'detti' contenuti nei Vangeli sarebbe materiale autentico, mentre quasi tutti
quelli del Vangelo 'teologico', e piuttosto tardo, di San Giovanni (scritto verso il 100 d.C.
come prova il 'papiro Rylands'), non lo sarebbero affatto.

XIII.5. Nella prefazione di Pagan Christs, un libro di J.M. Robertson uscito nel 1903 e
ripubblicato di recente, Hector Hawton si poneva la seguente domanda <<Se nessuno afferma
seriamente che Adone, Attis e Osiride siano stati dei personaggi storici, perché allora si fa
un'eccezione per il presunto fondatore del cristianesimo?>>. Nel 1946 Robert Graves aveva
pubblicato King Jesus, un Gesù che sopravvive alla croce. Nel 1916 il romanziere irlandese
G. Moore provocò uno scandalo rappresentando Gesù (The Brook Kerith) come un
sopravvissuto alla crocefissione, curato e riportato in salute da Giuseppe d'Arimatea. Nel
1931 D.H. Lawrence pubblicava il suo ultimo romanzo, L'uomo che non era morto, in cui
Gesù sopravvive e trova la vera redenzione attraverso l'amplesso con Maria Maddalena,
presentata come una sacerdotessa di Iside. Gesù è associato a Osiride, sposo della dea, morto
e risorto. Quando nel Vangelo di San Giovanni Maria Maddalena si reca alla tomba di Gesù,
dice al <<giardiniere>> (in realtà Gesù risorto) che il suo <<Signore>> era stato portato via,
e non sapeva dove fosse. Queste parole suonano, all'apparenza, come se la Maddalena fosse
del tutto inconsapevole. Ma se era veramente una sorta di sacerdotessa di Iside, la 'moglie' di
Gesù e prima 'apostola' - com'è detto negli 'apocrifi', avrebbe invece fatto parte di un 'rituale
iniziatico' vero e proprio. La sua 'litania', ripetuta due volte, sarebbe perciò parte essenziale
del 'mistero' che si sarebbe celebrato in quell'occasione. Quindi Gesù era già destinato
all'immortalità, cioè alla 'resurrezione spirituale'. Ma occorre notare che l'eccezionale
complessità del 'mistero cristiano' della 'resurrezione' non può essere risolta in forme riduttive
e semplicistiche, ricorrendo a parvenze di mero razionalismo, che pretendono di riportare un
aspetto fondamentale del cristianesimo ad una 'cifra esplicativa' tutto sommato banale e
peraltro assai poco attendibile. In realtà la questione merita la massima attenzione anche alla
luce della dottrina paolina della resurrezione della carne. Uno straordinario, lucidissimo ed
avvincente inquadramento della questione della resurrezione di Gesù si trova in Lineamenti di
metafisica dualistica (Morlacchi Editore, 2002, pag. 196 ss. - vedi la recensione che ne
compare in questo stesso numero di Episteme) del Prof. Alberto Donati, giurista e filosofo
dell'Università di Perugia, un libro che il lettore attento dovrebbe cercare assolutamente di
non perdere. Secondo Donati il problema dell'immortalità si pone in termini profondamente
55

diversi a seconda che venga riguardato dal punto di vista della teologia filosofica o dal punto
di vista di quella cristiana (op. cit., pag. 199).

XIII.6. Nel 1965 Hugh J. Schonfield (The Passover Plot) sostenne che Gesù inscenò una
finta crocifissione e che morì sulla croce (il libro vendette oltre tre milioni di copie). Nel
1979 Elaine Pagels attirò l'attenzione mondiale sui Rotoli di Nag Hamadi con The Gnostic
Gospels. Nel 1992 l'australiana Barbara Thiering ha supposto che Gesù (Jesus the Man: A
New Interpretation from the Dead Sea Scrolls) fosse sposato con Maria Maddalena. Gesù
sarebbe stato il Sacerdote empio al quale fanno riferimento i rotoli esseni, e sarebbe stato
crocifisso a Qumran. Viceversa, secondo lo studioso biblico A. Dupont-Sommer, il Maestro
di giustizia dei rotoli del mar Morto sarebbe, sotto molti aspetti, il prototipo esatto di Gesù.
Per l'inglese J. Allegro, importante traduttore del Rotolo di Rame, ma censurato studioso e
biblista fuori dal 'consensus', l'origine del cristianesimno va senz'altro ricercata nei rotoli di
Qumran. Nel 1970 egli scrisse Il fungo sacro e la croce, un libro che gli rovinò letteralmente
la reputazione, nel quale sostenne che Gesù non era mai esistito storicamente, ma era soltanto
un'immagine evocata dalla 'psiche' sotto l'influenza d'una sostanza psicotropica, la psilocibina,
un elemento 'attivo' dei funghi allucinogeni. Il cristianesimo, come tutte le religioni, sarebbe
derivato, secondo Allegro, da una esperienza psichedelica, un rite de passage diffuso da un
'culto orgiastico' che faceva uso di di particolari sostanze naturali. Inutile ripetere che Allegro
ed altri autorevoli studiosi e traduttori dei frammenti del Qumran hanno svolto una critica di
fondo, che non può essere trascurata. Il biblista Gianfranco Ravasi, della cui serietà ed
equilibrio nessuno può dubitare, recensì su Avvenire il libro di Uta Ranke-Heinemann, Così
non sia, come una <<rabbrividente collezione di sciocchezze esegetico-teologiche>>. La
Heinemann fu la prima donna abilitata dalla Chiesa cattolica all'insegnamento della teologia
nelle università. Figlia del Presidente della Repubblica federale tedesca tra il 1969 e il 1974,
si convertì dal protestantesimo al cattolicesimo, a 25 anni, quando conobbe suo marito, che
invece voleva farsi frate domenicano. Allieva di Bultmann, è autrice anche di Eunuchi per il
regno dei cieli (un titolo che si ispira sia a un detto di Gesù, che a un episodio degli Atti).
Secondo la Heinemann <<il vangelo altro non è che un tessuto di favole dannose e di kitsch
di cattivo gusto>>. Il grande Rudolf Bultmann è stato invece il maestro riconosciuto della
critica neotestamentaria moderna. Egli ha negato recisamente la storicità dei vangeli. Secondo
E.P. Sanders (cfr. Jesus and Judaism, 1985) possiamo dire chi Gesù non era, ma è ancora
dificile dire chi fosse. Secondo A. N. Wilson (Jesus, 1992): <<Una della più curiose
caratteristiche degli studi del Nuovo Testamento è il fatto che, sebbene uomini di cultura
abbiano esaminato attentamente documenti per secoli, non sono mai riusciti a stabilire con
certezza assoluta questioni così semplici come e dove i vangeli siano stati scritti, quando sono
stati scritti, ancora meno da chi sono stati scritti>>. Dorothy Sayers (1893-1957), importante
storica inglese della letteratura, più nota al grande pubblico come autrice di romanzi gialli (i
suoi racconti hanno per protagonista Lord Peter Wimsey), scrisse anche alcuni saggi su Gesù,
che rappresentarono il primo tentativo di reazione alle teorie di Bultmann nei riguardi del
Gesù storico, e commedie radiofoniche sul medesimo argomento, che ebbero innumerevoli
repliche (come The Man Bar King del 1943). E.G. Gruber e H. Kersten (The Original Jesus,
1995), dopo aver messo a confronto i 'detti' di Gesù con i testi buddhisti, hanno proposto di
ritrovare le radici dell'insegnamento di Cristo in questa religione orientale, precedente di
qualche secolo. Gesù avrebbe ricevuto un'educazione di questo tipo nella setta contemplativa
dei "Terapeuti", quando si trovava, appunto, ad Alessandria. Gli 'anni oscuri' di Gesù si
sarebbero dunque svolti fuori della Palestina. E su questo ci troviamo d'accordo. Ci sarebbe,
anche, la singolare versione di un Gesù sepolto, addirittura, in Kashmir. <<Gli Ahmadis, un
movimento settario islamico, elaborando un testo oscuro della quarta 'sura' del Corano e una
serie di leggende popolari islamiche e indiane, ritengono che Gesù sia stato crocifisso, ma
non sia morto sulla croce. Deposto ancora vivo, sarebbe stato guarito da un unguento
prodigioso, marhan-i-Isa, la cui formula era stata comunicata per rivelazione ai discepoli.
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Risanato si sarebbe recato a predicare il vangelo alle tribù perdute di Israele in Afghanistan e
nel Kashmir. In quest'ultimo paese sarebbe morto all'età di 120 anni e ancora oggi la sua
tomba può essere visitata a Srinagar>> (schiarimenti e puntualizzazioni dello studioso
torinese Mario Introvigne).

XIII.7. Andreas Faber-Kaiser, un tedesco trasferitosi in Spagna, è infatti l'autore del libro "La
tomba di Gesù a Srinagar? ", apparso in Spagna nel 1976. Si tratta di un appassionato
'ufologo', assai poco credibile, e Gesù è visto in chiave extra-terrestre. Nel 1975 Faber-Kaiser
si sarebbe recato in Kashmir e avrebbe visitato la tomba di Gesù, quella di Maria, e quella di
Mosè. Un altro dei chiodi fissi di questo autore sarebbe la certezza che all'origine della
cultura medio-orientale ci sia nientemeno che la colonizzazione portata in Asia dai 'maya'
messicani. Una prova, secondo lui inconfutabile, starebbe nel fatto che l'ultimo grido in
lingua aramaica di Gesù in croce: <<Elì, Elì, lemà sabactàni?>> (ma i crocifissi possono
parlare ed urlare in questa posizione di pressoché totale soffocamento?), sarebbe stato per
l'appunto pronunciato in lingua maya, e significherebbe non <<Mio Dio, perché mi hai
abbandonato?>>, ma <<Ora affondami nella prealba della tua presenza…. >> (riporto da V.
Messori, op. cit., pag. 187). E' evidente tutta la ben riposta ironia di quest'ultimo autore, a
quale si debbono importanti libri su Gesù, di ottima informazione e chiarezza. Infatti, accanto
alla versione tradizionale, peraltro molto ben documentata, del Gesù cui siamo abituati, si
collocano altre versioni del tutto fuori dai canoni. La nostra sorprendentissima carrellata vuol
esserne soltanto una modesta sintesi.

XIII.8. Le menzioni di Gesù e le allusioni alla sua persona e attività nella Mishna e nel
Talmud sono molto ridotte: complessivamente non più di una decina di passi. Parallelamente,
si nota anche un progressivo deterioramento dell'immagine di Gesù nei documenti giudaici
dei primi secoli cristiani. Le tradizioni che risalgono al periodo più antico - cioè i maestri
'tannaitici' del II secolo - sono più favorevoli rispetto a quelle posteriori - periodo amoraitico,
III-IV secolo - fino a culminare nel pamphlet medievale che va sotto il nome di Storie di
Gesù (a tale scritto alludono Agobardo, vescovo di Lione, nel suo De Judaicis
superstitionibus (anno 826), e Rabano Mauro, vescovo di Mainz, nel suo Contra Judaeos,
composto nell'anno 847 - cfr. R. Fabris, Gesù di Nazareth, Cittadella Editrice, Assisi, 1983,
pag. 357). In quest'ultima opera 'rabbinica', si afferma che Gesù sarebbe nato da Maria,
abbandonata dal marito Johanan, dopo essere stata messa incinta da "Pandera" (un centurione
romano, oppure l'Imperatore Tiberio, che da giovane fu in Giudea? O, forse, soltanto la
storpiatura del greco parthenos, che significa 'ragazza vergine', o che altro ancora?). Fin dalla
giovinezza egli rivela poteri eccezionali, che si trasformano nella capacità di operare miracoli,
quando riesce a carpire nel tempio di Gerusalemme il 'nome segreto di Dio' e apprende le 'arti
magiche' in Egitto. Entrato in conflitto con i saggi di Israele, che ne smascherano il potere,
Gesù viene condannato a morte. Il suo cadavere, deposto nel sepolcro, viene prelevato dal
proprietario del "giardino", e gettato "in un canale d'acqua" (sic!). I discepoli, trovando la
tomba vuota, proclamano la sua resurrezione. Ma vengono smascherati, quando si ritrova il
'cadavere' di Gesù, e, perciò, sono costretti a fuggire e a disperdersi tra i popoli. Questa
versione, con tutte le sue varianti, è una specie di caricatura dei Vangeli, e risente delle stesse
componenti eretiche delle origini del cristianesimo. Tuttavia potrebbe contenere elementi
oscurati ed allusioni criptiche, nel loro equivoco richiamo (ad es. 'il giardino' oppure 'il
canale d'acqua', dati piuttosto significativi).

XIII.9. L'emerito biblista di Princeton, il reverendo J. H. Charlesworth, in un articolo dal


titolo Gesù come "Figlio" e il Maestro di Giustizia come "Giardiniere" (comparso nel lavoro
collettaneo Gesù e la Comunità di Qumaran, Piemme, 1997, pag. 165 ss.), si sofferma, in
particolare, sull'analisi di un inno del rotolo 1QH, attribuito al 'Maestro di giustizia', dove tra
l'altro figurano i seguenti versi: <<…presso la misteriosa sorgente d'acqua / Ed essi fecero
57

germogliare il "virgulto" - il "nsr". Il <<virgulto>> è qui altamente simbolico. Allude a


David, che farà "germogliare" le promesse di Dio. A prescindere dall'analisi di Charlesworth,
il termine ebraico per indicare il 'virgulto' non solo è evocativo del 'nuovo Eden e del nuovo
Adamo', ma sembra, altresì, indicare l'origine semantica della setta nazarena. Siamo
dell'avviso che la benedizione di San Francesco a fra' Leone sia stata tratta intenzionalmente
ed evocativamente dal capitolo 6 di Numeri a proposito del 'nazireato', proprio per
sottolineare la qualità di Gesù in rapporto alla Sindone. Dunque, un Francesco 'teologo'. E
forse Gesù non ebbe nulla a che fare col piccolo villaggio di Nazaret, che probabilmente non
esisteva a quel tempo. I termini Ebionim, Nozrim, Hassidim, Saddiqim… ecc. sembrano
indicare una medesima 'setta'. Nel 1930, su una rivista scientifica francese, fu pubblicata la
lapide <<de marbre envoyeè de Nazareth en 1878>>, recante la scritta greca di un'ordinanza
imperiale, la cui lingua reca, però, imprecisioni tali da aver fatto pensare gli studiosi <<ad
una non brillante traduzione dal latino da parte degli scalpellini>>. Sappiamo pochissimo
sulle origini di Gesù. Tuttavia i grandi maestri ebrei medievali, ad es. Juda Halevi (1085-
1135) e Mosè Maimonide (1135-1204), intravedono un ruolo positivo delle due religioni
monoteiste nate dall'ebraismo: cristianesimo e religione mussulmana. Per costoro Gesù è un
maestro e un profeta ebreo degno di grande stima. Le denigrazioni talmudiche dipendono da
parte presa, e nascondono un Gesù fuoriuscente dal paradigma ebraico di una religione
arroccata su se stessa, e sterilmente congelata sulla pura 'lettera' della fedeltà al patto mosaico
(San Paolo proclamerà la fine dell'età della legge e l'incipit dell'età dell'amore, così come,
secondo il giurista romano Salvio Paolo, <<littera occidit, spiritus autem vivificat>>).

XIII.10. Gesù l'Ebreo di Geza Vermes (Borla, 1983) è uno dei grandi studi moderni di
reazione alle teorie Bultmann sulla figura 'storica' di Gesù, nel tentativo, piuttosto riuscito, di
rilevarne le singolarità. Chain Cohn, un giurista israeliano, ha invece dedicato al 'Processo e
morte di Gesù' un'illustre ed informata monografia (Einaudi, 2000), che ne rovescia
l'interpretazione tradizionale, cercando altresì di scagionare il popolo di Israele dall'infamente
accusa. Nel caso di Vermes, professore emerito di studi giudaici all'Università di Oxoford, ed
anche di Cohn, illustre giurista israeliano, nonché studioso di storia giudaica e di diritto
romano, si tratta, indubbiamente, di agguerritissimi autori, al di sopra di ogni sospetto di
partigianeria. Oggi si comincia sempre di più a comprendere che il 'mistero Gesù', lungi dal
monopolio strettamente teologico del cattolicesimo professante, è invece ricchissimo di
sfumature e, peraltro, suscettibile di prospettive diverse. Ma alla matrice originaria ebraica si
sovrappone sempre la dimensione 'universale' del messaggio 'cristiano', che non finisce perciò
di stupire. Secondo Martin Buber è ora che anche l'ebraismo prenda in seria considerazione
Gesù. Gesù rappresenta, infatti, l'ebraismo carismatico di santi uomini operatori di miracoli,
come Honi del primo secolo a. C., e il più giovane contemporaneo di Gesù, Hanina ben Dosa,
imitatori di profeti 'biblici' come Elia ed Eliseo. Costoro nutrivano gli affamati, curavano
malattie fisiche e mentali, spesso attribuite le une come le altre a possessione demoniaca.
Giuseppe Flavio descrive Gesù (Ant. Giud., XVIII, 63) come <<un uomo saggio>> e un
<<esecutore di opere sorprendenti>>. Tra il 1922 e il 1928 fu pubblicato (in quattro volumi)
da Hermann Strack e Paul Billerbeck il celebre commentario (Kommentar zum Neuen
Testament aus Talmud und Midrasch) del Nuovo Testamento, alla luce del Talmud e del
Midrash. Secondo Geza Vermes <<la letteratura rabbinica, trattata con giudizio e sensibilità,
può gettare una luce valida e a volte eccezionale sullo studio dei vangeli>>. Gesù dovrebbe
essere restituito al contesto ebraico in cui si trovò ad operare, ma non se ne può ignorare la
figura messianica, così fortemente destinata ad incidere sulla storia universale. Ciò che
propriamente affascina è questo 'mistero', che non si si riesce a risolvere. Ma se la Sindone
fosse genuina (come noi crediamo), e cioè fabbricata a Gerusalemme dai seguaci di Gesù
(come noi ipotizziamo sulla scorta di un principio di razionalità), ecco una 'prova' tangibile
sulla quale si dovrebbe tornare a riflettere con la massima coerenza possibile. E' stata forse
questa la ragione del misterioso incendio distruttivo di Torino? La Sindone è scomoda, e non
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è dunque bastata la 'falsificazione' del manufatto con la radiodatazione al carbonio 14, come
sempre di più sostiene lo stuolo degli agguerriti sindonologi.

XIII.11. L'interesse dell'Islam per Gesù è essenzialmente condizionato sia dai rapporti del
profeta Maometto con i cristiani, sia dai successivi contatti tra i mussulmani e il mondo
cristiano. Maometto conosce Gesù tramite i cristiani della Siria ed alcune altre correnti più o
meno ereticali. Diversi particolari del Corano su Gesù e Maria rivelano l'influsso delle
tradizioni apocrife, testimoniate soprattutto nel Protovangelo di Giacomo e nel Vangelo
arabo dell'Infanzia. Gesù, nei testi coranici, è conosciuto con il nome di Isha (un derivato dal
biblico 'Gesù'?), e come " il figlio di Maria ". La madre di Gesù è venerata e rispettata come
nessun'altra donna. Ma l'idea di una concezione virginale sarebbe nata da un errore di
traduzione (Bultmann). L'originale ebraico del famoso passo di Isaia (7,14): <<La Vergine
concepirà e partorirà un figlio, e tu lo chiamerai Emanuele>>, non diceva 'una vergine'
(bethulah), ma <<una giovane donna>> (halamah). I Settanta sbagliarono e tradussero
'parthenos' (vergine). Da questa parola greca verrebbe 'pandera' o 'pantera' (almeno secondo
Giuseppe Ricciotti). Inverosimile l'ipotesi, sostenuta da un autore australiano, che
l'imperatore Tiberio sarebbe stato il padre di Gesù. Le origini di Gesù ricalcano quelle dei
Vangeli, con diverse amplificazioni, imparentate con i Vangeli apocrifi: l'annuncio
dell'angelo Gabriele, il concepimento per la parola-decreto di Allah e un intervento
fecondante dello Spirito, nascita di Gesù e sua rivelazione prodigiosa fin da piccolo. Il
modello con il quale viene interpretata l'intera attività di Gesù e il suo messaggio, è quello del
"profeta", "inviato" di Allah, ai figli di Israele. I miracoli noti della tradizione evangelica
sono considerati prove del 'profeta Gesù. Il Corano conosce anche il titolo di "messia", 11
volte riservato a Gesù. Ma anche in questo ruolo speciale il "figlio di Maria" non è altro che
l'inviato di Allah (Sura VI, 169). Gesù è "una parola di Allah, una parola di verità". La morte
di Gesù in croce sarebbe stata soltanto apparente, perché in realtà egli è stato assunto in cielo
da Dio. Da qui ritornerà alla fine prima del giudizio che egli conosce e annunzia, per morire e
poi risorgere come ogni altro uomo giusto. Rinaldo Fabris (op. cit. pag. 367), cita la Sura IV,
157-159, un testo oscuro e soggetto a diverse interpretazioni, che sembra riflettere concezioni
'gnostico-docete': <<Pretendono di avere ucciso il messia, Gesù, figlio di Maria, mentre non
l'hanno ucciso né crocifisso, ma ne hanno avuto soltanto l'illusione, e coloro che disputano
intorno a lui dubitano in proposito, senza alcuna certezza e solo andando dietro alle
congetture, e la verità è che non fu ucciso, ma Iddio, potente e sapiente, lo elevò a sé; e non
ci sarà nessuno degli uomini del libro che non creda in lui prima della sua morte, e nel
giorno della risurrezione egli sarà testimone contro di essi>>. In ogni caso la versione
'rabbinica' e quella 'coranica' su Gesù non coincidono affatto, così pure le antiche 'immagini'
di Gesù, desumibili dagli scritti canonici e da quelli apocrifi, oltreché da altre fonti, che
risultano assai discordi e lontane tra loro. Non sorprende che gli storici romani (Tacito,
Svetonio e Plinio il Giovane) disponessero di poche informazioni su Gesù. Invece è strano
che la vita e il ministero di Gesù non siano sviluppati nelle opere di Giuseppe Flavio (38-100
d.C. circa), un giudeo che scrisse testi fondamentali sulle vicende del tempo. Nelle Antichità
giudaiche (la cui stesura risale al 93 d.C.) egli cita altri personaggi dei Vangeli, tra cui
Giovanni Battista e Ponzio Pilato. C'è anche un riferimento a Gesù (il famoso testimonium
flavianum), che sembra frutto di interpolazione, se non di integrale aggiunzione. In questo
breve, ma assai denso ritratto, Gesù viene definito "Cristo". Ma la descrizione di un uomo che
operava miracoli ed era un capo ribelle, ben difficilmente può provenire da mano cristiana. A
parte la collocazione di questo brano nell'opera di Giuseppe Flavio, lo scrittore cristiano
Origene, verso la fine del III secolo, pare ignorasse questo riferimento, mentre esso era noto
ad Eusebio, che scrive oltre un secolo dopo. I brani che parlano, invece, dell'esecuzione di
Giovanni Battista, voluta da Erode Antipa, sono considerati del tutto autentici. La mancanza
di riferimenti a Gesù negli scritti contemporanei non smentisce affatto la sua esistenza, che è
da considerarsi più che certa. Le fonti cristiane sono sostanzialmente attendibili. Solo che esse
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guardano non al Gesù storico, ma al suo aspetto divino, fornendone una interpretazione
'teologica' di chiarissima matrice paolina. Tali 'interpretazioni' (e qui non si intende criticare
quella di San Paolo, ma soltanto metterne in luce la singolarità) dipendono sempre da una
'chiave di lettura', in certi casi addirittura leggendaria. Così, allo stesso modo, un affresco
giottesco del 'ciclo delle storie' rappresenta Francesco davanti al sultano, mentre si accinge
alla 'prova del fuoco' (dovrà infatti camminare sui carboni ardenti), per provare la sua 'vera
fede' come in un'ordalia altomedievale. La leggenda agiografica medievale, in pochissimi
anni dal fatto, alterò l'evento storico, distorcendone gravemente lo stesso significato. Simili
'distorsioni' risultano peraltro assai frequenti in tutte le versioni agiografiche, ma contengono,
al tempo stesso, un nucleo essenziale di verità. C'è dunque una distorsione coranica, così
come c'è una versione cristiana. Crediamo, tuttavia, sulla scorta degli studi più recenti, che il
testimonium flavianum sia, nella sua sostanza, autentico (se non addirittura perfettamente
genuino), e che il grande storico ebreo, passato ai Romani, non ignorasse le origini 'egiziane'
di Gesù, comparso all'improvviso in una angolo della bellicosa e fertile Galilea, a predicare
un messagggio sovvertitore dell'antico patto d'alleanza, ma al tempo stesso una rivoluzione
universale fuori dai confini ristretti di Israele.

XIII.12. Ora che cosa unisce i 27 scritti neotestamentari, così diversi tra loro, e gli autori e le
comunità che stanno dietro di essi? A questo interrogativo Hans Kueng fornisce una sua
risposta <<sorprendentemente semplice>>. E' il nome di un ebreo: Gesù di Nazaret, al quale i
suoi seguaci diedero il più alto titolo onorifico che gli ebrei potessero conferire a un uomo:
Mashiah (ebr.), Meshiah (aram.), Christòs (gr.), che significa: l'Unto o l'Inviato di Dio.
Questa è la figura fondamentale, che tiene insieme tutte le storie e parabole, lettere e
messaggi neotestamentari, ma anche tutte le così diverse comunità sia giudee-cristiane, sia
pagano-cristiane. Con formula biblica abbreviata, si tratta di "Gesù il Cristo". Nessun
'documento segreto' su Gesù, nessuna possibile identificazione col 'Maestro di Giustizia' dei
rotoli del Mar Morto. <<Né Giovanni Battista né lo stesso Gesù né suo fratello Giacomo né
l'apostolo Paolo, stando alle fonti a noi note, hanno avuto a che fare qualcosa con Qumran>>,
sostiene Kueng. Secondo le comuni formule abbreviate di 'fede' che ruotano attorno all'evento
Cristo, "Gesù è il Messia", "Gesù è il Signore", "Gesù è il Figlio di Dio". Già l'ebreo Filone
d'Alessandria, contemporaneo di Gesù, aveva designato come "Dio" e " Figlio di Dio" il
Lógos stoico che avvolge l'intero mondo, subordinandolo però, a motivo del suo rigoroso
monoteismo, al Dio assoluto, come "secondo Dio". Ma quando Kueng deve scendere sul
terreno storico, è costretto ad ammettere che quella famosa definizione di Pietro <<in quanto
roccia, su cui Gesù costruirà la sua chiesa, la quale rivela un carattere linguistico aramaico,
ma stranamente non ha alcun parallelo negli altri Vangeli>>, <<non sia una sentenza del Gesù
terreno, ma una creazione postpasquale della comunità palestinese o di Matteo>>. Che cosa il
Pietro storico credesse o predicasse concretamente non può essere dedotto né dai discorsi
degli Atti degli Apostoli (quasi sicuramente di redazione lucana), né dalle lettere
neotestamentarie di Pietro (non autentiche). Egli divenne sempre più importante ('tipologia
pietrina'), già nel Nuovo testamento. Tenne la direzione della comunità primitiva di
Gerusalemme (una unione di fedeli o kahal ebionita), soltanto assieme alla cerchia dei
Dodici, e, più tardi, nel collegio delle tre 'colonne': Giacomo, fratello di Gesù (forse l'autore
della Lettera agli Ebrei), che occupa il primo posto, poi Pietro e Giovanni (il 'discepolo'
amato da Gesù che morì tardissimo, varcato il secolo, e nei confronti del quale sorse la
leggenda della sua personale attesa della parusia, che però non venne mai).

XIII.13. <<E Roma?>> - si domanda l'agguerrito teologo Hans Kueng. Quella Roma, caput
mundi, in cui Pietro avrebbe addirittura sfidato Simon Mago, scritturato da Nerone per uno
spettacolo, come gustosamente narra il dottissimo Carlo Pascal (1866-1926) nel suo Nerone
(ediz. Ecig, 1994, pag. 121-129). E così risponde: <<Pietro non è stato in quella che allora
era considerata la capitale del mondo, con le note conseguenze storico-ecclesiastiche? Di
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Roma per quanto riguarda Pietro non si dice niente nell'intero Nuovo Testamento. E
soprattutto non vi si parla nemmeno allusivamente di un particolare 'successore' di Pietro
(sempre a Roma)>>. E per quanto non sia risultata esatta l'identificazione del sepolcro di San
Pietro sotto la Basilica vaticana (data invece per certa dalla grande archeologa Margherita
Guarducci, che negli anni cinquanta ne fece la 'scoperta'), <<regna una crescente concordia
circa il fatto che Pietro sia andato a Roma e vi abbia subito il martirio>>, ma secondo Kueng,
<<non c'è alcuna testimonianza sicura del fatto che Pietro abbia mai diretto come capo
supremo o vescovo locale la chiesa di Roma. Stando al Nuovo Testamento, non sappiamo
nulla di una successione di Pietro a Roma>>. Così come non sappiamo nulla di San Paolo,
che sarebbe morto martire nel 67 d.C., alle Acque Salviae. Nella Basilica di S. Francesco in
Assisi queste medesime 'storie' furono affrescate da Cimabue nel transetto della chiesa
superiore. Esse fanno parte della tradizione. In realtà, è in un romanzo storico, gli Atti di
Pietro, composto verso il 180 da un autore sconosciuto, che viene narrato il soggiorno a
Roma, la sua lotta con Simon Mago, i suoi discorsi, l'incontro con Cristo sulla via Appia, da
cui il "quo vadis" (e il romanzo e il film degli anni cinquanta, che ne sono seguiti), e, infine,
la sua morte (cfr. C.P. Thiede e M. D'Ancona, op. cit., pag. 188 ss.) a testa in giù.
Quest'ultimo è un libro dedicato al famoso 'papiro' del Magdalen College di Oxford: tre
minuscoli frammenti, scoperti in Egitto dal Reverendo Charles Bousfield Huleatt, morto nel
grande terremoto di Messina del 1908, che conterrebbero, secondo quanto sarebbe stato
accertato soltanto nel 1994, le più antiche citazioni evangeliche mai scoperte, il passo di
Matteo che descrive l'unzione di Gesù nella casa di Simone il lebbroso a Betania, e quello
relativo al tradimento di Giuda Iscariota, databili, in base a certi elementi probanti, agli anni
immediatamente precedenti alla distruzione del Tempio. Nel 1972 il biblista spagnolo padre
Josè O'Callaghan aveva invece annunciato che il frammento 7Q5 dei manoscritti del Mar
Morto era da identificarsi, con tutta probabilità, nel frammento 6, 52-53 del Vangelo di
Marco. I Vangeli non sarebbero, cioè, così lontani dall'epoca della predicazione di Gesù, per
quanto i tre sinottici dipendano da una 'fonte' comune perduta, scritta in aramaico, che
riportava, probabilmente, una raccolta di 'detti' del Signore, chiamata, appunto, in tedesco,
'Quelle', e a propria volta connessa o dipendente da un 'Urmarkus', la prima 'pericope'
evengelica ad essere stata composta. L'insieme delle varie 'pericopi' originali, sia scritte che
orali, sarebbero state rielaborate dagli Evangelisti, e ciò avrebbe portato ai testi di cui
disponiamo, i cui due codici più antichi, appunto il Sinaitico e il Vaticano, risalgono soltanto
al IV secolo.

XIII.14. La critica storica sta tentando, dall' 'età dei lumi', di riportare a chiarezza l'oscura
'vicenda' cristiana. Malgrado tutti tentativi compiuti, non si riesce ancora oggi ad uscire da un
ginepraio di ipotesi e di possibilità opposte, contraddittorie e inconciliabili. Ci fu un tempo in
cui mettere in dubbio la verità letterale della Bibbia significava sfidare la morte. A parte la
clamorosa vicenda inquisitoria, tutta italiana, romano-tridentina e controriformista, di un
Galileo Galilei (nomen omen?) 'processato' e 'condannato' in nome dell'oscurantismo più truce
poggiato sui logici sofismi di un cardinal Bellarmino, nel 1697 un giovane studente scozzese,
Thomas Aikenhead, fu impiccato a Edimburgo per aver osato ripetere la rivoluzionaria
affermazione di Baruch Spinoza, secondo la quale l'autore del Pentateuco non sarebbe stato
Mosè, ma Esdra, vissuto almeno mille anni dopo. La dottrina dell'<<inenarranza verbale>> fu
ribaltata dall'illuminismo, e gli studiosi cominciarono allora ad esaminare attentamente la
possibilità che nella Scrittura vi potessero essere delle contraddizioni. Uno dei primi a porsi
questa domanda fu Hermann Samuel Reimarus (1694-1768), professore ad Amburgo. Il suo
lavoro pionieristico metteva in dubbio la divinità di Gesù. Quest'opera di oltre 4. 000 pagine
rimase inedita per una comprensibile prudenza nella Germania prussiana. Alcuni estratti, sette
in tutto, furono però pubblicati dal Lessing, tra il 1774 e il 1778, il quale aveva scoperto per
caso il manoscritto dell'illuminato Reimarus nella biblioteca di Wolfenbuettel. Fu
un'esplosione nel campo della ricerca storica su Gesù, sulla base del rilievo fondamentale,
61

affacciato da Reimarus stesso, che in una ricerca storica <<si deve tener distinto ciò che Gesù
nella sua vita ha realmente fatto e insegnato, da quello che gli apostoli hanno narrato nei
propri scritti>>. Si iniziò allora in Germania lo studio 'critico', cristologico e
neotestamentario, che attraverso Eberhard Gottlob Paulus, David Friedrich Strauss, Karl
Hase, F.E.D. Schleiermacher, Ferdinand Baur, Bruno Bauer, K. Lachmann, G. Wilke e molti
altri ancora, giunse fino ad Adolf von Harnack, e, soprattutto, al cattolico Rudolf Bultmann
(1884-1976), cioè al metodo della 'critica formale' o 'storia delle forme', in base al quale i
Vangeli non dovevano essere considerati racconti storici, ma collezioni fortemente stilizzate
di 'forme' tradizionali', sorte nel tempo, evolvendosi dalla vita, dal culto e dalla tradizione
orale delle prime comunità cristiane. Esse proclamavano un kèrygma, cioè una verità
teologica, piuttosto che una serie di reminiscenze storiche. Bultmann, che rifiutava la
definizione di "memorie degli apostoli" applicata nel II sec. d.C. dall'apologista Giustino
Martire ai Vangeli, credeva che gli autori di essi fossero così lontani dal Gesù storico, che essi
avevano potuto ascoltare <<solo il soffio debolissimo della sua voce>>.

XIII.15. Per Johannes Weiss tutta l'opera e la predicazione di Geù consistono nel preparare
l'imminente irruzione del regno di Dio. Questa scia venne ripresa da Albert Schweitzer in due
lavori su Gesù (l'ultimo del 1906), in cui si dichiara non solo superato l'orientamento della
'scuola liberale' (che aveva cercato di precisare il valore delle fonti evangeliche ed il reciproco
rapporto dei sinottici), ma, addirittura, metodologicamente impraticabile. In altre parole, il
tentativo di ricostruire un'immagine storica di Gesù sulla base delle fonti evangeliche e
facendo ricorso alle risorse della psicologia, si è rivelato un'operazione fallimentare. Alfred
Loisy (1857-1940), ordinato sacerdote nel 1879 e chiamato nel 1881, ad appena 24 anni, a
ricoprire la cattedra di filologia ebraica a Parigi, fu uno dei più grandi studiosi francesi
neotestamentari. Una generazione prima, Ernest Renan (1823-1892), membro del Collège de
France e titolare della cattedra di lingue semitiche (autore tra l'altro di una celebre Vita di
Gesù (1863) e di un'opera Gli Apostoli (1866), ancora oggi con successo ristampate), aveva
fondato una celebre scuola, nella quale si era formato proprio il protestante straburghese Paul
Sabatier, il primo famoso biografo moderno del francescanesimo. In Loisy era affiorato, a
seguito dei suoi studi, perseguiti con estremo rigore e rigida logica, un dramma personale, che
era pervenuto, nel 1886, alla catastrofe, con il rigetto di ogni soprannaturalismo religioso. La
lotta 'antimodernista' individuò i suoi bersagli preferiti proprio nell'opera di Loisy. Nel 1907
il Santo Uffizio emanò nei suoi confronti la sentenza di 'scomunica maggiore'. Una cosa non
di meno restava in piedi: la fede nella sua opera di dotto studioso. Insieme a quelli di
Bultmann, i suoi lavori di critica neotestamentaria restano pietre miliari. Una sola scritta egli
volle sulla sua tomba: "prete cattolico". La fede in Cristo passa attraverso il messaggio, sono
le opere che conformano l'uomo alla verità del cuore.

XIII.16. Dalle sabbie di Nag Hammadi emerse, nel 1945, anche il papiro del Vangelo
apocrifo di Tommaso, una raccolta asistematica di 114 'detti' di Gesù, risalente alla fine del I
secolo d.C., che non poco ha stuzzicato l'attenzione degli studiosi. Da non confondere con gli
Atti di Tommaso, altro scritto gnostico più tardo, questo apocrifo sembra effettivamente
ripercorrere una 'pericope' originale. Nella versione di Re Giacomo del Vangelo di Giovanni,
l'apostolo Tommaso viene chiamato "Didymus", cioè 'gemello'. In tutti e quattro i Vangeli, e
negli Atti, si parla del discepolo conosciuto come Tommaso, senza però riconoscergli una
particolare rilevanza. Di lui non si sa praticamente nulla. Solo nel Vangelo di Giovanni,
quando Gesù riceve notizia della malattia di Lazzaro, Tommaso parla, e dice: <<Andiamo
anche noi a morire con lui>> (11, 16). Poi, in un passo sempre di questo Vangelo, Tommaso
mette in dubbio la resurrezione di Gesù. Secondo Esusebio (Storia Ecclesiatica, 3, 1)
l'apostolo Tommaso avrebbe successivamente evangelizzato i Parti (che occupavano l'Iran
attuale). Stando ad un' opera apocrifa risalente al III secolo, apprendiamo invece che morì in
India, trafitto da lance, e che la tomba nella quale era sepolto (a Madras), sarà in seguito
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trovata vuota. Una tradizione similare è rintracciabile presso una setta di cristiani siriani, che
si definiscono "Cristiani di San Tommaso". A quanto essi raccontano, sarebbero stati
convertiti da Tommaso, che poi morì a Mylapore, nei pressi di Madras. Chi era esattamente
Tommaso? Anche il suo nome è in realtà un soprannome: in ebraico significa infatti
'gemello'. Sicché 'Tommaso Didimo' è 'gemello-gemello', due volte. Nell'apocrifo di
Tommaso e negli Atti di Tommaso egli è identificato come 'Giuda Tommaso'. E quando Gesù
(Atti di Tommaso) appare ad un giovane: <<Egli vide il Signore Gesù col sembiante
dell'apostolo Giuda Tommaso. . . Il Signore gli disse: " io sono Giuda che è anche Tommaso,
sono tuo fratello">>. Il professor Helmut Koester della facoltà di teologia di Harvard,
intervistato per la serie televisiva inglese curata da David Rolfe, Jesus: The evidence, del
1984, dichiarò che non si poteva dubitare del fatto che Giuda Tommaso fosse davvero il
fratello gemello di Gesù. Negli Atti di Tommaso è scritto: <<Fratello gemello di Cristo, che
riceve la sue segrete parole>>. In un frammento di un'altra opera apocrifa, Gesù,
avvicinandosi a Simone Pietro e Giuda Tommaso, si rivolge a loro <<in lingua ebraica>>, e
per quanto il testo appaia offuscato nella traduzione dall'originale copto, sembra che Gesù
dica: <<Saluti, mio venerabile guardiano Pietro. Saluti, Tommaso (Gemello), mio secondo
messia>>. Se Gesù, 'messia davidico', avesse dovuto avere un 'gemello sacerdotale' (ad es.
Giovanni Battista, che in effetti lo precede) è questione aperta. Ma Gesù, probabilmente, non
era un esseno, mentre lo era, quasi certamente, il Battista. I rapporti tra Gesù e Giovanni
Battista sono tutt'altro che chiari. A questo punto si profila l'ipotesi di un Gesù, messia
davidico e sacerdotale, al tempo stesso, strettamente collegato alla setta egiziana dei
Terapeuti, sulla quale peraltro si diffonde Filone d'Alessandria, importantissima fonte del
cristianesimo primitivo. La Sindone lascia sospettare questo 'scenario', il cui impianto appare
del tutto razionale. Ci potrebbe essere, in effetti, un retroscena segreto, rimasto volutamente
coperto. In ogni caso la Sindone presenta due immagini, e da tale circostanza potrebbe essere
derivata la versione 'gemellare' di Tommaso. Tuttavia ci sembra di poter asserire che la
doppia immagine sindonica si riferisce propriamente a Gesù, messia davidico e sacerdotale,
cioè alla sua doppia discendenza da David e da Aronne. E dunque la Sindone di lino è
davvero l'abito sacro dell'immortalità di Cristo, rapito nel Regno di Luce del Padre Suo.

XIII.17. A questo punto occorre citare i rivoluzionari lavori di Morton Smith, professore
emerito di storia antica alla Colunbia University, ed oggi indiscusso membro del 'consensus'.
Si tratta di Clement of Alexandria and a Secret Gospel of Mark (Cambridge Mass., 1973) e di
Jesus the Magician (Cambridge-New York, 1987, trad. it. Gesù Mago, Gremese Editore,
1990). La rivista Abstracta, alla quale assiduamente collaborarono il compianto Elémire Zolla
e Alfredo Cattabiani, e che si segnalava in quegli anni anche per l'accentuato interesse nei
confronti del misterioso 'personaggio' della Maddalena, ne aveva pubblicato un'anteprima sul
numero 44 del gennaio 1990, pag. 41-48. Clemente d'Alessandria (nato ad Atene circa il 150
d.C. e morto nel 219 come vescovo di Alessandria d'Egitto, autore di importantissime opere
come gli Stromata e le Ipotiposi), è uno dei fondamentali scrittori cristiani antichi, una fonte
assolutamente preziosa per la ricostruzione delle origini del cristianesimo (cfr. M. Simonetti,
La letteratura cristiana antica greca e latina, Sansoni, 1969). Nel 1973, Morton Smith fece
una scoperta straordinaria. Ritrovò la Lettera a Teodoro di Clemente Alessandrino, nella
quale si dice che nella sua chiesa (verso il 175-200 d.C.) un <<vangelo segreto>> che si
riteneva fosse stato scritto da Marco, veniva <<accuratamente custodito>> e <<letto soltanto
a coloro che vengono iniziati ai grandi misteri>>. Molti studiosi hanno accolto come
autentica questa lettera, nondimeno il contenuto del frammento di vangelo ivi contenuto ha
suscitato tutta una serie di attacchi (si veda, ad es., M. Smith, Due ascesi al cielo: Gesù e
l'autore di 4Q491, in Gesù e la comunità di Qumran, op. cit., pag. 303 ss.). Si tratta, infatti,
di una versione della storia di Lazzaro (cfr. Giovanni, 11, 1-44), scritta in stile marciano, e
che dal punto di vista dell'analisi delle forme, è più primitiva del testo giovanneo
(documentato verso il 100 d.C.), in cui si aggiunge che Gesù e i discepoli si recarono alla casa
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del giovane Lazzaro (il fratello di Marta, se non anche di Maria Maddalena), dopo che egli
era stato risorto, e si intrattennero con lui, per sei giorni, dopo i quali fu lui ad andare da
Gesù, <<indossando soltanto una veste di lino>>, e <<si trattenne con lui quella notte,
perché Gesù gli insegnò il mistero del regno di Dio>>. Il lettore comprenderà l'importanza
della questione. La resurrezione di Lazzaro compare soltanto nel Vangelo di San Giovanni.
Non è riportata dai 'sinottici'. Nel solo Vangelo di Marco (assai stringato e di contenuto
ridotto, considerato, oggi, il primo documento evangelico anche nei riguardi del Matteo
'aramaico' per quanto riferibile all'ambiente romano di San Pietro; Marco, "suo figlio"
spirituale, sarebbe stato peraltro il figlio ebreo, ma stranamente con nome romano, della
donna nella cui casa, al piano superiore, fu celebrata da Gesù, a Gerusalemme, il 14 o 15 di
Nisan, secondo un doppio calendario solare e lunisolare, l'ultima cena, e che restò il luogo di
incontro dei discepoli e seguaci dopo la crocifissione), proprio nel contesto notturno
altamente drammatico del tradimento e dell'arresto di Gesù, figura il particolare, non riportato
dagli altri evangelisti, che: <<un ragazzo, però, lo seguiva, avvolto solo di un panno di lino
sul corpo nudo. Tentarono di afferrarlo, ma egli, laciato cadere il panno di lino, se ne fuggì
via nudo>> (cfr. 14, 43-51). Secondo Padre Ricciotti, quel <<ragazzo>> era proprio
l'evangelista Marco. Conclusione perfettamente logica, ma si sarebbe potuto trattare,
benissimo, anche di Lazzaro, o di altra persona ancora. Stava forse Gesù celebrando, nell'orto
del Gethsemani, un ultimo 'mistero notturno'? Qui tocchiamo da vicino la "resurrezione": sia
pure quella simbolica e spirituale del battesimo (e Gesù battezzava col 'fuoco', un fuoco
'pentecostale', anziché con l'acqua di Giovanni Battista), ma, anche, quella 'fisica' vera e
propria (Marco 12, 18-26), appunto la resurrezione 'dai morti'. Negli Atti degli Apostoli (9,
36-43) c' è pure l'episodio di Pietro che resuscita, a Giaffa, una vedova di nome <<Tabità>>,
<<che significa Gazzella>> (in più parti, gli Atti, molto probabilmente scritti dall'evangelista
Luca, un medico al seguito di San Paolo, sembrano modulare alcune linee che saranno poi
quelle della narrazione evangelica su Gesù, ad es. le guarigioni di storpi e paralitici da parte
degli apostoli Pietro e Giovanni di fronte al Sinedrio, il battesimo di San Paolo, come pure
questa 'resurrezione' operata da Pietro). E' il Gesù dei Vangeli, <<potente in opere e
parole>>, il 'Gesù mago', col suo dito puntato, gli impasti di saliva e fango, il suo terribile e
sovrumano carisma, il Gesù della fede umile e fortissima, che guariva, addirittura, al solo
tocco inconsapevole del suo mantello, o col solo sguardo, che scacciava i demoni, che
esorcizzava i peccati, che aveva mutato il nome dei suoi apostoli, e soprannominato Giacomo
e Giovanni 'Boanergès', cioè figli del tuono, e aveva salvato la figlia di Jairo, quasi <<agli
estremi>>, se non addirittura già morta. Gesù disse in aramaico: <<Telita qumi - Ragazza
sorgi!>>. E lo spirito ritornò nella dodicenne. Il "Tabità, Gazzella", ambientato a Giaffa,
sembra una emulazione di questo racconto evangelico, fermo restando che la redazione degli
Atti e delle Lettere di San Paolo precedono gli attuali Vangeli, e che pertanto l'indirizzo
paolino contrassegnò il cristianesimo in modo pressoché totale, oscurando ogni altra
alternativa possibile.

XIII.18. Ma il professor Smith non si occupa di questo. Egli ha invece messo in luce che
nella Chiesa di Alessandria era certamente venerato, e letto nei <<misteri>> che vi si
celebravano, il riportato passo del Vangelo segreto di Marco, a noi non pervenuto (si trattava,
forse, dell'Urmarkus, già ipotizzato accanto alla fonte 'Quelle'?). La chiave di tutto risiede
nella veste di lino indossata come unico indumento. Secondo Morton Smith, <<questa era una
veste usuale nelle antiche cerimonie religiose, soprattutto in quelle misteriche>>, come
provano le Metamorfosi di Apuleio (cfr. 11,3). E del resto anche Luciano (De morte
Peregrini, 11) classificava il cristianesimo come 'culto misterico', aggiungendo che questo
abito di lino <<era consueto per le visioni magicamente indotte>>: divenne, infatti,
<<l'indumento comune del battesimo cristiano, il mistero di iniziazione della chiesa>> (citato
da M. Smith). Gesù insegnava <<il mistero del regno di Dio>>, ma in antico i misteri
venivano 'dati', e non 'insegnati'. Che Gesù avesse fondato un culto misterico non dovrebbe
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sorprendere. Si trattava di qualcosa che ci si attendeva che uomini dotati di straordinari poteri
religiosi facessero. Tali culti, secondo Diodoro Siculo e gli stessi Papiri della Grecia magica,
erano in genere attribuiti ai grandi uomini del passato, Mosè compreso. Se supponiamo che
Gesù abbia fondato un culto misterico, e che il rito d'iniziazione fosse una qualche sorta di
<<battesimo>> (o d'immersione), dobbiamo ora chiederci: qual era esattamente il mistero
celebrato? Marco 4,11, e il "Marco segreto", dicono che era <<il mistero del regno di Dio>>.
Il mistero, cioè, di come vi si entra. Nei Vangeli, il regno di Dio è richiamato in più modi, tra
loro diversi. Si tratta di un elemento sfuggente, poiché non viene data una precisa risposta alle
domande <<Dov'è il regno?>> e <<Come possiamo entrarvi?>>. Si aprono perciò delle
congetture. Probabilmente, nel battesimo praticato da Gesù (ed è certo che Egli battezzasse),
l'iniziato è posseduto dallo Spirito. Inoltre, di fronte alla questione che i primi cristiani
speravano di entrare nel regno subito dopo la morte, e che, addirittura, alcuni sostenevano di
esservi stati da vivi (da qui la voragine 'gnostica' contro la quale la Chiesa dovette battersi fin
dal principio), sta una quantità di prove secondarie, non probatorie, ma indicative, che tende a
corroborare l'ipotesi che Gesù, durante la sua vita, asserisse d'esser asceso al cielo. Morton
Smith riscontra, nel frammento 4Q491 dei Rotoli del mar Morto, un componimento poetico,
che secondo il Baillet sarebbe invece un cantico dell'Arcangelo Michele, lo scritto cioè di un
qualche 'egoarca' che affermava d'aver fatto esattamente ciò che Gesù poteva aver fatto:
essere entrato nel regno dei cieli, ed esservisi assicurato il possesso d'un seggio, continuando
però a dimorare nel frattempo sulla terra, e proseguirvi la propria opera d'insegnamento.
Sorprendentemente, simili analogie, che il 'giallista' dell'introduzione non può certo
trascurare, si riscontrano anche nella 'leggenda' francescana. Infine, l'aspetto significativo del
'Gesù mago' di Morton Smith è che, sebbene quest'opera sia basata sul confronto tra i Vangeli
e i Papiri della Grecia magica, essa ben si adatta alla figura descritta nel Talmud e nei primi
testi rabbinici, che infatti considerano Gesù come un ebreo convertito a un'altra religione, che
notoriamente praticava la magia egizia, alla quale si sarebbe avvicinato quando si trovava in
Egitto, nei primi anni anni della sua vita. Ancora una volta, ecco una traccia che riconduce
all'Egitto! Il lettore che ne voglia sapere di più scorra l'eccellente studio del professore
americano di letteratura classica Georg Luck, Il magico nella cultura antica (Mursia, 1994:
soprattutto pagg. 26, 27, 28, 54, 160, 164 e 356, dove, tra l'altro, si mostrano le differenze tra
Gesù, Simon mago e Apollonio di Tiana). Ma è singolarmente l'evangelista Matteo, che,
testualmente, afferma che Gesù è "inviato dall'Egitto"! (pur citando, in questo caso, un passo
biblico del genere profetico).

XIII.19. E' opinione comune che gli Esseni di Qumran risalgano a un periodo che va dal 300
al 250 a. C., ma alcuni studiosi accettano l'ipotesi che le loro opere si basino su di
un'esperienza molto più antica. A parere di Ben-Zion Wacholder dell'Hebreww Union
College di Cincinnati, Ezechiele era <<il primo Esseno di Qumran>>. Il Rotolo di Rame
potrebbe invece riferirsi ad un'epoca remota, addirittura risalente a quella mosaica. Del resto
Mosè non era ebreo, e tutto lascia credere che fosse un membro di casta reale dell'antico
Egitto, così come ritiene lo stesso Freud, che a Mosè dedicò uno straordinario saggio.
Secondo l'ingegnere metallurgista Robert Feather, gli Esseni di Qumran erano gli eredi diretti
dei sacerdoti che custodivano l'Arca, i quali, a loro volta, discendevano dai sacerdoti di
Akhenaton (cfr. L'ultimo mistero di Qumran, Piemme, 2000, pag. 195 ss.). Si può quindi
ritenere razionalmente coerente e logicamente possibile che la setta dei Terapeuti di
Alessandria e quella degli Esseni di Qumran (alle quali fa riferimento Filone, preziosissima
fonte contemporanea a Gesù) fossero due rami diversi e distinti di un medesimo movimento
di antiche radici, con punti in comune ma anche rilevanti diversità, che ne facevano due
movimenti ben separati, tra loro autonomi e diversificati. Questa ipotesi darebbe ragione del
mistero di Gesù, delle sue affinità e diversità dalla setta degli Esseni, del fatto che Egli
applica un diverso calendario rispetto a quello giudaico nella celebrazione della Pasqua, e,
soprattutto, della sua formazione culturale iniziatica e sacrale nonché delle sue origini
65

"egiziane", cioè antifarisee e assolutamente non giudaiche. Il chiaro pacifismo di Gesù attiene
ad una visione universale e cosmopolita, e si radicherebbe, quindi, in una sorta di 'secondo
esodo', sulla scorta delle dottrine stesse di Filone (che ne è un singolare interprete, a cavallo
tra culture diverse), le quali erano rivolte non a sette particolari o di stampo ribellista, ma
addirittura all'intero mondo pagano della koinè mediterranea, onde preparare il terreno di
penetrazione della nuova dottrina di pacificazione, che in effetti divenne il cristianesimo del
kèrigma e che Gesù impersonerà, non solo quale Re dei Giudei, un titolo che gli
evdentemente poteva vantare a buona ragione, ma anche come autentico Salvator Mundi, o
Re dei re. C'era infatti, in tutto il mondo Mediterraneo, Roma compresa, un'attesa di tale
intensità, che non si potrebbe spiegare altrimenti. I popoli sanno sempre quand' è vicina una
grande svolta. E' questo il senso stesso della 'civiltà', quando appunto una svolta radicale
viene a maturazione quale nuovo patrimonio spirituale accumunante, che varca ogni barriera,
che erompe, e scavalca, ogni precedente ostacolo storico. Col cristianesimo venne a
maturazione un lievito sprituale che agì nella storia per secoli e secoli, celato nelle cifre del
monoteismo più puro.

XIII.20. Gesù "Mago e Messia": è questo il nostro convincimento. Egli è il Sole che
cammina sulle acque del lago di Tiberiade, è il Salvatore dei Figli emblematizzato
dall'acronimo greco del 'pesce', è l'Aratore del 'quadrato magico di Pompei' (altro
straordinario enigma simbolico che, come mostra Maria Grazia Lopardi nei suoi libri
fortunati su Celestino V e la Chiesa di Collemaggio a L'Aquila, caratterizzò anche il mondo
templare), è il Re dei Giudei che patì sotto Ponzio Pilato, è il Risorto, è il Cristo, è anche
l'Uomo della Sindone e l'Unto del Signore. Ed è soprattutto il Messia della profezia biblica
delle 'sette settimane'. Un Mago come Honi, che faceva piovere (cfr. G. Flavio, Antichità
giudiche, 14, 22-24, mentre Esusebio ci rammenta il miracolo della pioggia, invocata dai
legionari cristiani della Colonna traiana). Non un Hanina ben Dosa, il carismatico galileo, che
venne poi chiamato <<figlio di Dio>>, oppure <<l'Egiziano>> della Guerra giudaica, col
quale fu scambiato a prima vista dai romani proprio San Paolo. Ma una sorta di Maestro di
Giustizia, un 'nazir', il 'virgulto' di David. Non un Giuda di Gamala, non un Eleazaro, né 'il
figlio della stella' come bar Kosba. Ma il Re dei Giudei, il nuovo Mosè, il Lógos di Filone
d'Alesandria. Non Osiride, Mitrha, Tammuz o Adone. Bensì 'Sol Invictus', Figlio dell'Uomo,
e Figlio di Dio. Un individuo speciale, il 'Nuovo Adamo' di un Eden di carità, non tentato dal
serpente. Il figlio più vero e completo d'una storia millenaria, che riuniva Akhenaton, Mosè,
Aronne, David, Salomone, Platone, ed il meglio della civiltà mediterranea, come intesero in
seguito Proclo e il suo emulo più tardo, Michele Psello. Il suo 'tempio' poteva essere rifatto in
tre giorni, nel segno di Giona. Messia regale e sacerdotale al tempo stesso, e non un esseno
del Qumran come Giovanni Battista, ma un poliglotta educato in sapienza arcana in un
misteriosa setta della 'diaspora', che si riportava indietro alle origini stesse dell'antico
monoteismo. E il 'giallista' qui sognerebbe, letteralmente vaneggerebbe, se non avesse in
mano degli 'indizi', che lo costringono a 'riflettere' sulle straordinarie possibilità dei
meccanismi della storia (si veda, ad es., C. Lauricella, Storia del pensiero, Editori Associati
Torino, 1938, vol. II., pag. 3-256, circa la grande svolta che il cristianesimo impresse a tutto
il mondo antico). <<Non sorprende che Alessandria sia stata frequentata dagli ebrei della
Terra Santa, per ragioni commerciali nei periodi di stabilità, come rifugio nei periodi di caos
e di guerra. Stando ai Vangeli, Gesù e la sua famiglia, per sfuggire alla persecuzione di
Erode, cercarono la salvezza in Egitto, dove non sarebbero mancati loro sostenitori
comprensivi, in linea col loro modo di pensare>>. E in effetti, sotto il nome di
<<Therapeutae>>, Filone parla di una setta o enclave giudaica in terra straniera, le cui
posizioni e i cui riti sacri sono quasi assai prossimi a quelli degli Esseni o Zadochiti della
Terra Santa. Identici, in altre parole, a quelli dei seguaci di Gesù. E dopo le maggiori rivolte
della Palestina (quella del 66-74 e quella del 132-5), sappiamo che sostanziosi gruppi di
giudei, militanti sconfitti, fuggirono ad Alessandria (cfr. L'eredità messianica, op. cit., pag.
66

112). In Egitto ritornarono, secoli dopo, i 'Padri del deserto' prima del crollo dell'Impero
d'Occidente. Semplicemente, Gesù era un 'nazareno ebionita'. Ma di chi era figlio 'carnale', se
non era figlio di Dio, concepito dallo Spirito Santo? I 'razionalisti' non possono certamente
sottrarsi a questa domanda, tanto più che esistono 'versioni' plurime e contraddittorie sulla sua
natività, irreconciliabili tra loro.

XIII.21. Giuseppe non era un 'falegname', e neppure un semplice 'carpentiere'. Era un


'costruttore', tornato in Galilea per i grandi lavori urbanistici voluti da Erode Antipa, che era
salito al potere come tetrarca appena diciassettenne (nel 4 a. C., alla morte di Erode I detto il
Grande), e vi si mantenne fino al 40 d.C.. Secondo i Vangeli, Gesù non si recò mai a Sefforis,
vicinissima a Nazareth, che Antipa rafforzò ed abbellì, dandole il nome ufficiale di Tiberiade,
che ricordava l'imperatore romano sotto il cui regno fu messo a morte. Gesù potrebbe essere
stato, addirittura, concepito dalla giovanissima Mariamne alcuni mesi prima della morte del
padre, forse un altro figlio di Erode il Grande, Antipatro, fatto uccidere da colui che sarebbe
stato secondo tale ipotesi il nonno di Gesù, proprio appena prima della morte di questi
(avvenuta come detto nel 4 a.C.). Ed è questa una delle date più probabili per la nascita di
Gesù. Macrobio (Saturnali, II, 4,11) mette in bocca all'Imperatore Augusto (a proposito d'
Erode, il cui nome significa discendente da 'eroi': un idumeo, non di stirpe regia, che si era
impadronito di Israele ed aveva fatto ricostruire il Tempio), la frase che <<meglio>> sarebbe
stato <<essere un porco ('us), piuttosto che suo figlio (uiòs)>>. Dagli apocrifi Protovangelo
di Giacomo e dal Vangelo di Maria, sappiamo, poi, che la 'madre certa' di Gesù era figlia di
un sacerdote del tempio di discendenza davidica, ma anche da Aronne (per parte materna), di
nome Mattia, ed altresì, che era stata allevata proprio "nel tempio di Gerusalemme" (lo
sostengono anche Origene e Clemente Alessandrino). Nel 1956 Joseph Schreiber (The Laws
of the Jews, New York) aveva affacciato proprio questa ipotesi. Mariamne (versione greca di
Maria) poteva essere stata la prima moglie di Antipatro, e la madre 'prescelta' dell'erede del
regno giudaico. Questa traccia (compatibile con la narrazione storica di Giuseppe Flavio),
non solo potrebbe spiegare tutte le incoerenze della 'narrazione' di Matteo, riportandole a
senso, ma darebbe ragione della stessa fuga in Egitto, del particolare ruolo di Giuseppe, degli
stessi 'anni oscuri' di Gesù, e, soprattutto, del titulus della condanna a morte da parte dei
Romani e non da parte degli Ebrei, appunto quale <<Re dei Giudei>>. Del resto, il posto
dove era più logico che la 'moglie di Antipatro' fuggisse, era effettivamente l'Egitto. Infatti
Antifilo, l'intimo amico di Antipatro, che Salomè aveva falsamente implicato nel complotto
contro Erode (cfr. G. Flavio, Antichità giudaiche XVII, 44 ss.), era un "alto ufficiale
egiziano". Secondo Matteo, Gesù proviene espressamente dall'Egitto, come inviato di Dio. Le
vere origini di Gesù, per quanto oscurate da richiami teologici, non sarebbero state quindi
cancellate del tutto. Tale singolare ed affascinante 'versione' presenta qualche problema di
correlazione, pur risultando inserita in un contesto temporale alquanto preciso e determinato.
Ma non è campata in aria, come parrebbe a prima vista. Essa si sostiene, abbastanza bene,
nell'ambito dell'analisi critica e logica dei racconti sulla natività, e sembra trovare un notevole
suffragio nelle stesse narrazioni apocrife dell'infanzia di Maria. E' inoltre in grado di spiegare
perché Gesù inizi la sua predicazione proprio dalla Galilea, muovendo poi verso
Gerusalemme. Su questi temi rifletterà il lettore da sé, verificando l'effettiva compatibilità
dell'ipotesi con la narrazione storica di Giuseppe Flavio, dalla quale non può in effetti
prescindersi.

XIII.22. Qual era l'aspetto fisico di Gesù, che le fonti non trasmettono, e che l'iconografia
catacombale risolse nell'immagine simbolica del Buon Pastore, e che poi si affermò attraverso
il 'volto nazzareno', molto vicino a quello della Sindone e del Volto Santo di Sansepolcro?
Carl Adam dedicò (nel 1939) pagine illustri alla 'fisionomia del Cristo', tentando anche la
ricostruzione dell'aspetto esteriore. Il suo aspetto fisico doveva destare un fascino irresistibile,
se un giorno una donna del popolo si lasciò sfuggire, incontenibile, questo grido di lode:
67

<<Beato il grembo che t'ha portato, e il seno che t'ha nutrito!>> (Luca 11, 27). E' vero che
più tardi Origene, e con lui certi monaci greci ed egiziani, asseriscono che Gesù aveva un
aspetto deforme, decisamente brutto. Ma tale opinione è fondata semplicemente sull'esegesi
dogmatica d'un passo di Isaia, che riguarda il <<Servo di Javhè>>, ove il profeta aveva
predetto che in lui non v'era né decoro né bellezza. A diffondere quest'interpretazione
negativa contribuì decisamente la concezione neoplatonica del periodo ellenistico, che
considerava il corpo, ogni corpo, come indegno d'esistere, e, soprattutto, prigione dell'anima.
L'occhio di Gesù doveva, in modo speciale, suscitare vivissime impressioni (cfr. Marco 3, 5,
34; 5, 32; 8, 33; 10,21, 23, 27). Dai Vangeli si possono immaginare, indirettamente, la sua
vigoria fisica e la sua energia, di molto superiori a quelle dei pur giovani discepoli. La sua
mente è sen'altro di tipo superiore. Il Gesù evangelico è un carattere 'eroico' in sommo grado,
d'una regalità innata. Il suo senso della realtà, provato da molti passi, è accompagnato da una
forte emotività, che lo conduce addirittura ad un "sudor di sangue" la notte dell'arresto. Nelle
discussioni con gli avversari (scribi e farisei), i suoi argomenti, che troncano ogni possibilità
di replica, agiscono come una folgorante demonstratio ad oculos. Gesù possiede una
straordinaria finezza d'osservazione e una finissima psicologia. Sorse, dall'equivoco logico
dell'erronea e rovesciata interpretazione di un passo evangelico (Luca 19,3), dove un uomo
(Zaccheo) cerca di scorgerlo tra la folla, che fosse di bassa statura, un nano barbuto, non più
alto di un metro e trentacinque centimetri. In realtà, dalla sistematica ricombinazione degli
accenni indirettamente fatti dai Vangeli, si ricava con forte possibilità di certezza, un aspetto
fisico ragguardevole e una maestosità che si imponevano da soli. Molte donne lo seguivano e
lo servivano. Non sapremo mai quali fossero i suoi rapporti con Maria Maddalena, originaria
di una località prossima al lago di Tiberiade. E' Maria Maddalena che lo unge di costosissimo
olio di 'nardo', a Betania, la casa di Simone il lebbroso (ed anche di Marta e di Lazzaro:
probailmente un luogo 'esseno'), e che gli asciuga i piedi con i lunghi capelli. Gesù conosceva
il greco e il latino, quanto meno intendeva queste due altre lingue. La Galilea, descritta da
Giuseppe Flavio nella Guerra giudaica, era di fatto una regione ubertosa, a differenza della
Giudea, con una popolazione gagliarda e bellicosa, una terra, cioè, aperta ai traffici ed agli
influssi esterni, col ragguardevole porto di Cesarea. Ma la predicazione di Gesù (durata da un
minimo di qualche mese ed un massimo di due-tre anni) si svolse quasi tutta intorno alle
sponde del lago di Tiberiade, per poi concludersi, drammaticamente, a Gerusalemme (tuttavia
dal Vangelo di Giovanni si ricavano, esattamente, gli elementi opposti). Gesù aveva, a
Gerusalemme, conoscenze importanti ed appoggi notevoli, completamente ignorati dagli
apostoli. Infatti gli furono forniti, da qualcuno che sapeva come fare, i due asini per l'ingresso
trionfale a Gerusalemme, e un sorprendente portatore d'acqua, indicato da Gesù stesso, indica
agli apostoli la casa dell'ultima cena. I suoi seguaci si distinguono in varie categorie, ed
accanto agli ingenui, ma anche agguerriti e bellicosi discepoli (tra i quali militano zeloti e
sicari), Gesù poteva vantare rapporti di tutto rilievo con personaggi autorevoli ed altolocati
come Giuseppe d'Arimatea e Niccodemo, tra l'altro membri del Sinedrio, ed aveva
conoscenze anche nell'ambito della corte di Erode Antipa. Una delle donne del suo seguito
era infatti la moglie del 'tesoriere' del Tetrarca. San Paolo ha uno strano nipote (che appare
per salvarlo e subito scompare) e un altro parente, di nome Erodione, ed egli stesso conosceva
bene Manahem (Atti 13,1), il compagno d'infanzia di Erode (oppure, uno dei capi della rivolta
del 66 d.C., terzo figlio o nipote di Giuda di Gamala, capo della ribellione del 4 a. C.,
avvenuta alla morte di Erode e al tempo della probabile nascita di Gesù). Gesù non veniva dal
nulla, e in tutto e per tutto, la sua immagine fisica sembra coincidere con quella maestosa e
ieratica della Sindone, il che non sfugge affatto alla ordinaria sensibilità, tanto da far ritenere,
in contrario, che l'uomo della Sindone sia un cavaliere templare, eccezionale, come si
presenta, nei suoi tratti somatici di robusto guerriero ovvero di persona fisicamente ben
dotata. Ma Gesù non era un comune ribelle, era invece un autentico re-messia di superiore
statura morale, non un capopopolo qualsiasi.
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XIII.23. <<Il governo romano sapeva che la grande rivolta del 66 era stata alimentata dalla
fede nelle profezie messianiche: è pertanto naturale che, sedata la rivolta, esso intendesse
prevenirne il ripetersi arrestando e ponendo sotto controllo i discendenti della stirpe di David
ai quali le profezie si riferivano>> (vedi Marta Sordi, I Cristiani e l'Impero Romano,
Mondadori, 1990, pag. xxx). Si sa dallo stesso Egesippo (in Eusebio, Storia ecclesiastica, III,
32, 3 ss.) che tale ricerca si verificò ancora sotto Traiano, e condusse all'arresto e alla morte,
per opera <<del consolare Attico>>, di Simeone di Clopa (siamo negli anni tra il 98 e il 117
d.C., la stessa epoca di Plinio il Giovane e del famoso rescritto di Traiano). Tale Clopa,
secondo Eusebio - cfr. in questo caso III, 11-12 - è proprio lo stesso 'innominato' del passo di
Marco 15, 12, e, si comprende bene, quel 'Cleopa' - un nome egiziano? - del passo di Luca
22-18, al quale apparve, per primo, proprio Gesù risorto. <<Ciò che colpisce>> prosegue la
Sordi <<nella notizia relativa all'interrogatorio, posto da Egesippo sotto Domiziano, è che
esso è attribuito all'imperatore personalmente, e sembra avvenuto in Giudea, dove Domiziano
non si recò mai>>. Valutate le varie soluzioni possibili, secondo l'autrice deve trattarsi
proprio di Domiziano (succeduto a Tito nell' 81 e morto nel 96), e non di Traiano,
l'interrogatorio essendo avvenuto verosimilmente a Roma e non in Giudea. Ma ciò che conta
è che qui viene in rilievo la parentela 'davidica' con Gesù, un argomento assai importante,
come abbiamo già visto a proposito di Antipatro e Mariamne. Citiamo ancora la Sordi:
<<l'attribuzione a Vespasiano o a Tito della ricerca dei discendenti di David ricordata da
Egesippo e dell'interrogatorio dei nipoti di Giuda ci permette intanto di concludere che fu nel
corso della guerra giudaica che i Flavi ebbero occasione di conoscere in Giudea la locale
comunità cristiana e di sentir parlare di Cristo e del regno di Dio, proprio come affermava
Sincello. L'atteggiamento di tale comunità, che non aveva partecipato alla rivolta ed aveva
lasciato Gerusalemme per Pella fino dall'inizio di essa (cfr. Eusebio, Historia eccelesiatica
III, 5,3) e il diretto interrogatorio dei due nipoti di Giuda li convinsero che i Cristiani non
erano politicamente pericolosi>>.

XIII.24. Tra questi parenti 'davidici' di Gesù, <<della famiglia>> stessa, vi erano <<i nipoti
di Giuda, detto secondo la carne fratello del Signore>> (cfr. Eusebio, Storia ecclesiastica,
III, 19-20). Ed ecco che un faro viene puntato. Esusebio si riconnette anche al <<martirio di
Giacomo e alla presa di Gerusalemme>> (Storia ecclesiatica III, 11). Ma dunque quanti
'fratelli' aveva Gesù? Poiché anche 'Giacomo' è "fratello di Gesù" (G. Flavio, Antichità
giudaiche, XX, 200); mentre, secondo gli Atti, Giacomo è il capo della Chiesa di
Gerusalemme (ma anche un altro Giacomo, però fratello di Giovanni, compare nel capitolo
12, fatto morire di spada da 'Erode', cioè Giulio Agrippa I, nipote di Erode Antipa, e
discendente dell'idumeo Erode il Grande). Gesù (Mc 6, 3) aveva "fratelli e sorelle" (un dato
assai scomodo: e, si badi bene, non cugini, ma fratelli: non era, cioè, 'figlio unico' della
'coppia' Maria e Giuseppe, morto Antipatro). <<Non è egli il falegname, il figlio di Maria e il
fratello di Giacomo, di Giuseppe, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non sono qui tra
noi?>>. E' questo uno dei passi più controversi del Vangelo. Per quanto concerne 'Giacomo'
fratello di Gesù, si distinguono due persone con lo stesso nome: Giacomo il Maggiore e
Giacomo il Minore. Il primo sarebbe figlio di Zebedeo e di Salome, fratello maggiore di
Giovanni Evangelista. Quanto al secondo, vi è controversia tra gli studiosi, perché il Nuovo
Testamento ne menziona ben quattro, oltre al figlio di Zebedeo, e precisamente: Giacomo di
Alfeo (apostolo), Giacomo "fratello" (cioè, secondo la Chiesa, cugino) di Gesù e figlio di
Clopa, Giacomo capo della chiesa di Gerusalemme, Giacomo cui è apparso Gesù risorto
secondo San Paolo (I Corinzi, 15, 7). Qualcuno ha identificato questi personaggi in un'unica
persona, che sarebbe stata ad un tempo apostolo, cugino di Gesù, e vescovo di Gerusalemme.
Una epistola 'cattolica' sarebbe inoltre da attribuire a Giacomo il Minore. Infine, se si fanno
bene i conti, ci si accorgerà che gli 'apostoli' dei quattro vangeli canonici sono più di dodici,
anche se 'dodici' è il numero prefissato (in analogia all'<<organizzazione>> della setta del
Qumran o ai segni zodiacali?), e tale ne resta il numero negli Atti (Giuda il Sicario, morto nel
69

suo 'Campo del sangue', è stato nel frattempo sostituito da un altro apostolo), con i relativi
'dodici' nomi. Ma Gesù risorto appare agli 'undici', nel Vangelo di Marco; ai 'dodici' secondo
il punto di vista dell' 'apostolo' Paolo, che vi si era aggiunto con la scavallatura di Damasco. Il
totale ammonta perciò a quattordici nomi, oltre Levi, un pubblicano, che seguì Gesù,
nominato da Marco e Luca (vedi Sanders, op. cit.). E gli apostoli avevano doppi nomi
(almeno alcuni di essi), come Simon Pietro, e la coppia di fratelli Giacomo e Giovanni,
chiamati da Gesù, come abbiamo ricordato, con l'appellativo di 'figli del tuono' (Ricciotti, op.
cit., pag. 313). Tutto questo per filtrare la recente notizia, riportata con un certo risalto dagli
organi di stampa (ad es. La Repubblica del 22 ottobre 2002 e Il Sole 24 Ore, pagine culturali,
domenica 27 ottobre), della 'grande scoperta archeologica', fatta a Gerusalemme, di un'urna
funeraria in pietra calcarea, risalente al primo secolo, che reca in aramaico (la lingua parlata
da Gesù, diversa dall'ebraico parlato a Gerusalemme), la seguente iscrizione: <<Giacomo,
figlio di Giuseppe, fratello di Gesù>>. Qualche mese dopo la notizia ufficiale della smentita:
la 'tomba' e la 'scritta' sarebbero un falso, se non un equivoco archeologico! La storia della
'Chiesa primitiva' è ancora piena di inestricabili misteri. Ma questi 'misteri' sembrano
riguardare, in effetti, la stirpe di Gesù, che non era figlio di Giuseppe, e che non negò di
fronte a Ponzio Pilato di essere in qualche modo "re dei Giudei".

XIII.25. Questo 'Gesù', per molti tratti simile agli 'esseni' di Qumran (la cui denominazione
non è stata ancora spiegata e dei quali mai si parla nei documenti neotestamentari), ma per
altri aspetti nettamente diverso, sembra in qualche modo un perfetto 'estraneo' all'ambiente
gerosolimitano, uno cioè proveniente da 'altrove'. Un movimento assai simile all'essenismo si
ha nei Terapeuti (cfr. Eusebio, Storia ecclesiastica, II, 17-18), descritti da Filone
d'Alessandria nel De vita contemplativa. Fra le divergenze più sensibili c'è la presenza di
donne (non di mogli) in mezzo ai 'terapeuti', una maggiore insistenza sulla vita liturgica e
sullo studio. Secondo Filone i due gruppi erano ben distinti. Questi ultimi si collocavano in
una zona ad est di Alessandria (Angelo Penna, Storia del cristianesimo, I, 1972, Assisi, ed.
Cittadella). Non è quindi peregrina l'ipotesi di Gesù come appartenente alla setta dei
Terapeuti, considerata l'improbabilità di un Gesù esseno, come messo bene in evidenza dagli
studi più recenti. Ed anzi, la distinzione, se non contrapposizione, tra Gesù e Giovanni il
Battista, deporrebbe proprio in questa direzione di sétte tra loro affini ma anche diverse,
radicate entro e fuori dai confini di Israele, uniformate ad interpretazioni non coincidenti e
piuttosto sfumate della Bibbia, con riti e prescrizioni specifiche di ciascuna identità religiosa
settaria. Per questa medesima ragione l'ebreo Giuseppe Flavio non si occuperebbe troppo di
Gesù, in quanto non propriamente 'ebreo', ed anzi del tutto estraneo all'ebraismo tipicamente
fariseo. Se il passo di Giuseppe Flavio a riguardo di Gesù non è affatto interpolato (come
potrebbe essere benissimo), la definizione di 'Cristo' è propriamente di tipo regale, a conferma
del 'titulus' di condanna a morte. Il grande storico ebreo ci dice per sottinteso che Gesù era un
legittimo pretendente al regno dei Giudei, per quanto educato in Egitto, e completamente
estraneo al contesto storico-politico gerosolimitano. La verità può essere ricavata soltanto in
via indiziaria dall'analisi complessiva del dati e delle circostanze attingibili.

XIV. Il MISTERO DEL SACRO

XIV.1. Ovviamente non presumiano nessuna 'verità' in quanto ogni possibile verità è in questi
casi forzatamente ipotetica. Il nostro è un largo ventaglio di ipotesi, tutte di per sé assai
incerte ed aleatorie, ma che messe insieme, attraverso il legante fondamentale della Sindone,
possono comporre un quadro secondo noi abbastanza coerente. Si tratta dunque di una 'trama'
che può essere soltanto 'raccontata', senza per questo arrecare violenza al sacro. Del resto
l'importanza del 'fenomeno religioso' è tale che nei precedenti numeri di Episteme sono stati
pubblicati svariati articoli di grande interesse specifico e di grande originalità, come la
presentazione dei lavori di David Donnini (Cristo, una vicenda storica da riscoprire, Bolsena,
70

1994), la recensione dell'interessantissimo libro di Flavio Barbiero La Bibbia senza segreti


(Rusconi, 1988), e il saggio del medesimo autore "La famiglia di Mosè - Un potere occulto
nella storia d'Occidente?", gli studi di Sabato Scala (tra l'altro autore di un acuto lavoro su I
Cristiani del Qumran), gli interventi di Ezio Albrile, di Ludwik Kostro ed altri ancora, oltre,
addirittura, alla presentazione dell'impegnativa opera (in quattro volumi) di Gianni Grana
(cioè L'invenzione di Dio), a riprova di uno straordinario impegno a tutto campo (grazie alla
grandissima sensibilità ed attenzione scientifica del Prof. Bartocci nei confronti degli aspetti
più fondamentali della cultura occidentale).

XIV.2. In occasione della presentazione del libro del giornalista perugino Carlo Giacchè
(Sindone una trama templare, Atanòr, 1992: un'originale ricerca intorno al 'lenzuolo' di
Torino, che sarebbe, secondo l'Autore, arbitrario riferire a Gesù), su Episteme n. 4 comparve
un autorevolissimo intervento dello stesso direttore della rivista, in base al quale si
concludeva, conformemente ai contenuti della pregevole pubblicazione recensita, ma
difformemente dall'ipotesi discussa in queste pagine, che si trattasse tutto sommato di un falso
medievale (come del resto 'scientificamente' provato dalla 'radiodatazione al carbonio 14'),
restando se mai da chiarire <<da chi>> e <<per quale ragione>> sia stata a suo tempo
fabbricata questa singolarissima contraffazione, astrattamente riferibile alla morte e sepoltura
di Gesù secondo le circostanze riportate nei Vangeli. Il matematico Piergiorgio Odifreddi,
collega e amico del Prof. Bartocci, sostiene ugualmente (cfr. La repubblica dei numeri, op.
cit., un testo di grande interesse) che <<l'artefatto>> riguarda un'impronta <<che certo non
può certo essere lasciata da un cadavere>>, soprattutto perché <<le immagini frontale e
dorsale non hanno la stessa lunghezza (differiscono tra loro di 4 centimetri)>>. Molti
elementi lascerebbero dunque supporre la falsità della Sindone. Personalmente non la
pensiamo così, e forniremo una spiegazione al termine di questo lavoro. La differenza di
lunghezze si giustificherebbe, poi, con la posizione leggermente ricurva assunta dal cadavere
di Gesù, e rivelerebbe, sotto questo aspetto, interessanti elementi sulle stesse modalità
esecutive del 'processo chimico' di realizzazione "fotografica" della 'doppia immagine'
sindonica. Lo stesso Volto Santo di Sansepolcro appare stranamente proteso in avanti. La
Sindone costituirebbe, peraltro, l'effettiva 'prova' della 'morte' di Gesù crocifisso, mentre la
'resurrezione', che ovviamente mette in sospetto qualsiasi razionalista, pur non essendo affatto
un'invenzione o un mito apostolico e paolino, sarebbe invece da analizzare in modo
differente, contestualizzandola entro la cornice del 'possibile' umano. In ogni caso si
richiamano, all'attenzione, le bellissime pagine del Prof. Donati (op. cit.), contenenti una
analisi chiarissima e rigorosa del problema 'teologico' della resurrezione dei morti. Da parte
nostra ci rendiamo ben conto dell'azzardo della nostra ipotesi, ed è proprio per questa ragione
che ci siamo arrestati ad una semplice 'narrazione indiziaria', pur elencando e puntalizzando i
diversi e articolati momenti, che inspiegabilmente sembrano coesistere. Indubbiamente la
'storia del sacro' offre un vasto ventaglio di soluzioni interpretative e ricostruttive, poiché non
solo 'fede' e 'ragione' possono marciare su binari diversi, ma anche poiché non esistono verità
'incontrovertibili', almeno nel campo della ricerca neotestamentaria (e forse anche nei riguardi
della Sindone, per quanto oggettivizzata e materializzata in un lenzuolo recante un'immagine
misteriosa). Tuttavia, non possiede alcuna credibilità tutto ciò che contrasti con la ragione, e
non si presenti, dunque, catesianamente in modo "chiaro e distinto". Siamo perciò
perfettamente consapevoli di correre un gran rischio presentando le nostre osservazioni ed
argomentazoni, sicuramente suscettibili di varie censure in un ambito così arduo, complesso e
specialistico.

XIV.3. La razionalità greca pervenne con Platone alla teoria filosofica dell'immortalità
dell'anima, già propria degli antichi egiziani, i quali erano piuttosto orientati verso una sorta
di resurrezione del corpo. Atteggiamenti simili si riscontrano nel mondo ebraico, dove alcune
correnti di pensiero (riflesse dalle considerazioni del libro dell'Ecclesiaste) negano ogni
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forma di sopravvivenza, altre ammettono la resurrezione dei corpi, e altre ancora una sorta di
rinascita immateriale 'nella luce'. Una fonte classica precristiana riporta la singolare storia di
un fantasma, che compariva nottetempo in Atene, destando paura e meraviglia. Si riuscì alla
fine a comprendere che il fantasma indicava un certo luogo d'un giardino, dove scavando
furono trovate delle ossa. Poi il fantasma scomparve. Un modo come un altro per riferirsi al
'corpo etereo'. San Paolo precisa più volte le proprie idee sulla resurrezione, che concerne il
corpo, che però corpo non è, pur non trattandosi affatto di un 'ectoplasma', come diremmo
oggi. L'antica dimensione del sacro, che guarda alla 'vita-morte', al culto dei defunti (come
nell'Eneide), alla luce eterna del sole e all'alternarsi dei cicli, si spende, in definitiva, tra le
opposte sponde del <<non omnis moriar>> di oraziana memoria e dell' <<aliquid sunt
manes>> dell'etrusco Properzio. Pur sempre, è la 'speranza ultima dea'. Tale percorso
appartiene spiritualmente alla storia della civiltà. Tanto che nel XVII secolo, agli esordi della
'rivoluzione scientifica' e alle soglie del 'secolo dei lumi', Cartesio e John Dury ebbero tra loro
un'importante confronto, durante il quale si convenne che l'emergere dello 'scetticismo'
costituiva la crisi profonda della loro epoca, e che occorreva, quindi, un modo per affrontarlo
con certezza epistemologica. Come risposta più promettente alla crisi, Cartesio scelse la
matematica, Dury l'interpretazione della 'profezia biblica' (cfr. B.J. Teeter Dobbs, Isaac
Newton - Scienziato e Alchimista, Ed. Mediterranee, 2002, pag. 17). Il 'giansenita' Blaise
Pascal, altra straordinaria e sopraffina 'mente logica' (un genio assoluto, che addirittura,
secondo la testimonianza giurata della sorella, avrebbe subito da poppante una 'fattura' da
parte di una malevola domestica, che fu poi allontanata dalla casa dal nonno di Pascal, che si
era insospettito, tanto che la dissezione anatomica eseguita dopo la morte, pare avesse
evidenziato una stranissima lesione, proprio come un'unghiata oppure una forte compressione
sulla corteccia cerebrale, portata da un dito), si dedicò, per parte sua, alla stesura dei
famosissimi Pensieri, un'opera alla quale guardò con ambivalenza, e tutta una serie di
pentimenti che avrebbero potuto sottrarre alla posterità questo capolavoro di introspezione
religiosa e di analisi dell'essenza del cristianesimo, ripresa in seguito, a rovescio, da Voltaire,
nel Dizionario filosofico, coi veleni della sua formidabile ironia rivoluzionaria e illuminista.
La dimensione del sacro è embricata nel mistero contrapposto di 'ragione' e 'cuore', tra gli
interstizi ed il divisorio dello 'spirito di finezza' e dello 'spirito di geometria'. Il Memorial, un
brevissimo scritto del 23 novembre 1654, che Pascal avrebbe portato, per tutto il resto della
vita, nella fodera del vestito (sic!), contiene espressioni altamente rivelative, come ad es.:
<<Dio d'Abramo, Dio d'Isacco, Dio di Giacobbe, / non dei filosofi e degli scienziati. /
Certezza, certezza. Sentimento, gioia, pace / Dio di Gesù Cristo ... Oblio del mondo e di tutto
fuorché di Dio...>>! Il sentimento religioso è una costante delle civiltà, che prende aspetti
diversi secondo le epoche e le categorie sociali. Tuttavia il cristianesimo, erompente dal
giudaismo biblico, ha sempre mantenuto e conservato la sua origine monoteista, pur
adottando lo schema trinitario nel mistero dell'unico Dio.

XIV.4. Stimmate, bilocazioni, santi che volano (come il Santo da Copertino), miracoli su
miracoli, addirittura arti che ricrescono, guarigioni improvvise, misteriose apparizioni. Su
queste 'epifanie del sacro' rifletteva, con intelligenza, misura e distacco, quel grande
giornalista e scrittore che è stato Vittorio Beonio-Brocchieri (vedi Camminare sul fuoco ed
altre magie, Longanesi, 1974), testimone anche di 'miracoli personali'. Sul genere dei
miracoli si è spinto, in particolare, un saggio di Vittorio Messori (Il Miracolo - Spagna, 1640,
Rizzoli, 1998), un'indagine sul più sconvolgente 'prodigio mariano', quello della 'ricrescita di
una gamba tagliata'. Ma si deve a Georg Luck il più approfondito lavoro sul 'magico nella
cultura antica', e ad es. al giornalista Mario Guarino una "controstoria di padre Pio" (Beato
Impostore: stimmate, furbizie e sospetti, Ed. Kaos, Roma, 1999). Bastano questi pochi
accenni per accostare il problema dei 'miracoli' che alimenta fede e superstizione. E' indubbio
che Gesù guariva, che operava autentici 'miracoli' di vario genere. Il problema è se Lazzaro fu
davvero resuscitato, e se analogo 'miracolo' fu ripetuto poi da San Pietro, come narrano,
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appunto, gli Atti degli Apostoli. I dubbi sono sempre i 'benvenuti annunci' del 'sano esercizio
della ragione'. Ma la dimensione del sacro, ove ben inteso non sia truffaldina, si colloca
sempre 'altrove': anche rispetto alle 'aure miracolistiche', di cui troppo spesso la si ammanta,
assai arbitrariamente. La dimensione del sacro non è, tuttavia, sempre 'truffa' o
'mistificazione'. C'è in essa qualcosa di molto profondo, che sfugge, ma che è ugualmente
presente come arcana filigrana o divinazione di un mondo superiore, alla stregua della stessa
'fisica quantistica', che (in modo alquanto sorprendente e tutto sommato ugualmente
dubitevole, al pari dei miracoli) postula un'interazione acausale tra 'mente e materia',
produttiva di 'eventi' tramite il collasso della 'funzione d'onda'. Cartesio teneva strettamente
separato l'io dal mondo, ma individuava un ponte nella glandola pituitaria. L'Uno del Lógos,
che permea tutta la realtà, è tornato alla ribalta della scienza moderna attraverso l'intelligenza
artificiale e la teoria della complessità. Il mistero sembra rimanere intatto e come Vertumno,
il dio etrusco del mutamento, assume nuova veste nei suoi aggiornamenti scientifici e
cambiamenti di paradigma.

XIV.5. A conforto del lettore legittimamente autorizzato alla coerentissima logica del dubbio,
riportiamo alcune annotazioni, che certamente non lo disturberanno. Scriveva Seneca (morto
nel 65 d.C.) che <<nessuno può essere buono senza Dio>> ("Bonus vero vir sine deo nemo
est", in una delle Lettere a Lucilio) e gli faceva eco Epitteto (morto nel 75 d.C. circa),
osservando che <<la prima cosa da imparare è che c'è un Dio, che la sua conoscenza
pervade l'universo intero e si estende non solo ai nostri atti, ma ai nostri pensieri e
sentimenti>>. Sicché, quando Ponzio Pilato interrogò Gesù, chiedendogli ironicamente e da
scettico romano, aduso alle logiche di potere, cosa fosse la "verità": <<Quid est veritas>>, il
Cristo avrebbe potuto rispondergli, con un perfetto anagramma latino, <<Est vir qui adest>>.
Il processo davanti a Pilato si svolse molto probabilmente nella lingua ufficiale di Roma.
Gesù non solo parlava l'aramaico, la lingua galilea, ma conosceva pure l'ebraico delle
scritture, il latino e il greco (lo si ricava da alcuni chiari indizi evengelici e dalla ricostruzione
storica dell'ambiente 'galileo' dei suoi tempi, assai aperto ai contatti e agli influssi esterni,
anche per via dell'importante porto marittimo di Cesarea). I 'duemila anni trascorsi'
giustificano abbondantemente questa potenziale risposta di Gesù, in realtà risalente ad oscure
fonti medievali. L'autoproclamazione della 'Verità' e della 'Vita' della versione 'teologica' del
più tardo Vangelo di San Giovanni non erano affermazioni gratuite a proposito del Lógos. La
'storia' ne ha difatti riconosciuto tutte le puntuali 'ragioni'. La 'fede' è dunque salva, ed anzi le
troppe, e tra loro inconciliabili, versioni della misteriosa figura di Gesù, conducono alla
conclusione, più che coerente, che non solo il 'messaggio' cristiano possiede una forza
straordinaria, ma che il 'mistero Gesù' resta sostanzialmente ancor oggi intatto, malgrado
l'attenzione critica degli ultimi due-tre secoli, che ha prodotto una enormità di studi e di
pubblicazioni che supera di gran lunga ogni altro argomento (ad es. la biblioteca della Pro
Civitate di Assisi raccoglie oltre 80. 000 volumi a soggetto cristologico ed è in questo
ambiente, più unico che raro, che Vittorio Messori scrisse il famoso Ipotesi su Gesù, che ha
venduto milioni di copie in tutto il mondo). La forza del sacro è dunque impenetrabile,
sigillata com'è nel suo endemico mistero, che non può che essere accettato o rifiutato in
blocco. Tuttavia la 'costante sociologica' del 'sacro' costituisce un solido fondamento di
evidenze che non può essere trascurato.

XIV.6. Un verso d'un lungo salmo penitenziale babilonese suona così: <<Al dio noto o
ignoto, proclamo il mio dolore>>. Viene in mente l'episodio di San Paolo all'Areòpago
ateniese (Atti, 17, 22 ss.), dove si conservava la statua al "dio ignoto". Questa, invece,
l'appassionata invocazione del saggio indiano Sankara (ottavo secolo d.C.): <<O signore, di
tre peccati Ti chiedo perdono: Contemplandoti, ho rivestito di forme Te che non hai forma;
Lodandoti, ho descritto Te che sei ineffabile; E visitando i templi ho ignorato la Tua
onnipresenza>>. Si noti l'intonazione poetica di queste 'verità del sacro', che risuonano dalle
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radici stesse del sentimento più profondo. Allo stesso modo si potrebbe ritenere che il Cantico
delle Creature di San Francesco non sia lontano, nella sua grandissima religiosità mistica e
poetica, dagli inni egiziani al Dio-sole, risalenti all'epoca della grande eresia monoteista di
Amenofi IV-Akhenaton: fatto evidente che la profondità del sentimento religioso permea lo
spirito, e sorprende la stessa 'ragioneì di fronte allo sguardo retrospettivo della storia, che
tanto eccitò Napoleone dinanzi ai 'quaranta secoli' delle Piramidi, in vista delle quali giunse
anche Francesco d'Assisi, poverello di Dio, all'epoca delle crociate.

XIV.7. San Francesco lasciò scritto nel suo Testamento (precedentemente al 'piccolo
testamento' dell'aprile del 1226) queste chiarissime parole: <<Si guardino i frati
dall'accettare le chiese, le abitazioni, e le altre costruzioni fabbricate per loro, se non quali
convengono alla santa povertà, da noi promessa nella regola; e vi abitino sempre come
stranieri e pellegrini>>. Anzitutto l'uomo cristiano è 'pellegrino' sulla terra, dalla cui polvere
deve scuotere i calzari. La sua povertà è la stessa voragine del tempo. Quindi i confini del
sacro non si riducono a spazi angusti o ai beni materiali, così come l'amore recato a Madonna
Povertà richiedeva, in Francesco, una misura di totale estraniazione da ogni cura mondana.
'Chi a stella è fisso non si volge indietro', come scrisse Leonardo. Il cristiano conosce la
caducità, e guarda al ritorno nella braccia eterne di Dio. Ma in onore di San Francesco, frate
Elia elevò una monumentale basilica, una portentosa 'meraviglia' architettonica la cui parte
inferiore sembra emblematizzare il sacrificio della 'morte' di Gesù, e quella superiore la
'resurrezione' nella pienezza della luce.

XIV.8. Verso il 1236 le principali strutture architettoniche della Basilica erano pressoché
ultimate, mentre gli arricchimenti dell'altrettanto formidabile apparato pittorico durarono per
tutto il secolo seguente ed anche oltre, ad opera dei massimi artisti dell'epoca. Quest'opera
monumentale, consacrata al culto nel 1253, presenta diversi 'misteri', e non ha mai finito di
incuriosire ed interessare critici e studiosi dell'arte, che si sono trovati spesse volte in
disaccordo su rilevantissime questioni di datazione ed anche d'attribuzione degli
importantissimi affreschi che l'adornano. Perché escludere 'a priori' che tra i 'finanziatori'
quantomeno della grande opera 'pittorica' ci fossero anche i potenti e ricchissimi Templari,
grandi devoti del Santo? Francesco fu infatti, a suo modo, un templare di Cristo, cioè a dire il
'recto' della sacra immagine della Sindone, ovvero il 'secondo Gesù', di cui egli fu un vero e
perfetto 'gemello' sprituale. La stridente contraddizione tra un Francesco pauper Christi e la
monumentalità sontuosa della Basilica che gli venne innalzata da Fra' Elia, appare
storicamente riscattata dalla necessità della 'memoria', e dalla stessa tumulazione del corpo
Santo in un pozzo di pietra sotto l'altar maggiore della Chiesa inferiore, in attesa della
resurrezione (del resto <<L'Apocalisse e la resurrezione della carne in Cristo, la sottomissione
di quest'ultimo a Dio, ultime icone del polittico neotestamentario, costituiscono la
celebrazione conclusiva dell'abrogazione della Legge, della vittoria del volontarismo
sull'intellettualismo, del caos sull'ordine universale, più comprensivamente, del Dio dei
cristiani sul Dio della Legge>>, come evidenzia in termini generali il Prof. Donati: cfr. op.
cit., pag. 203). A fare compagnia alle spoglie del Santo, c'era, nel sepolcro di pietra in cui
venne tumulato, un rosario con trentatrè grani (quanti i versi del Cantico delle Creature,
quindi delle cantiche di Dante, o degli gli anni di Cristo?), di cui 17 d'ambra. E c'erano, pure,
un anello col sigillo della dea Minerva (la dea etrusco-romana della 'saggezza': un simbolo o
un'allusione templare?), e un certa quantità di piccole monete d'argento (non si sa bene
quante: forse 11, o 26, ecc.), che Francesco aveva pur definito le "mosche del diavolo" (Fig.
11). Forse un tributo a Caronte? Non lo crediamo affatto. Altra deve essere la 'ragione' della
presenza di queste monetine, messe lì, forse, come garanzia di datazione, nei riguardi della
posterità, un altro mistero, nel già fitto 'giallo' francescano. Anche questi aspetti minori,
secondari e marginali, appartengono al sacro, che celandosi sempre, tuttavia non dissimula la
propria ineffabile natura. Il fenomeno religioso ha percorso tutti i tempi e le culture ed è
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ovviamente oggetto di avanzatissimi studi interdisciplinari, non cessando di costituire un


fortissimo 'legante' anche nell'attuale società tecnologica, come starebbe appunto ad indicare
lo stesso verbo latino 'religo', col significato di legare, fissare, annodare ecc. Al di là della
formula politica "religio instrumentum regni", divenuta poi l'oppio dei popoli, la questione
'religiosa', come ben mostrano gli studi antropologici, continua ad essere l'enigma
dell'umanità, nella centralità stessa del problema generale dell'esistenza di Dio e nell'ambito
d'un necessario ancoraggio 'metafisico' del sistema dei valori morali praticabili dall'uomo,
nostante che il biologo Francis Crick (premio Nobel 1962 per la medicina con James Watson
per la scoperta del DNA) sostenga scientificamente parlando che l'anima è soltanto una
questione neuronale, e che quindi illusoria è ogni fede nell'immortalità. Il poeta materialista
Lucrezio, impregnato di atomismo epicureo, ravvisava nella 'religione' ('religio mater
superstitionum' - 'quantum religio potuit suadere malorum') quasi una menomazione
dell'intelletto, per poi professare, tra le righe del De rerum natura (e già nello stesso
meraviglioso 'proemio'), una sensibilità 'religiosa' di autentiche radici cosmiche. Il mondo
antico, soprattutto quello greco degno erede delle grandi civiltà mediterranee precedenti,
aveva elaborato un sistema filosofico 'razionale' che aveva superato l'animismo primitivo,
postulando l'esistenza di un Dio unico, e, con Platone, già ammaestrato in Egitto come
l'ateniese Solone, anche l'immortalità dell'anima. La religiosità moderna possiede le
medesime radici, che risalgono alla dominante 'monoteista', la quale si sarebbe affacciata
proprio nell'antico Egitto, nell'età del ferro, e che, con Mosè, si trasferì poi nel 'popolo eletto'
e nella 'religione' stessa dell'Antico Testamento. Alla religione così intesa, si
accompagnerebbe il duplice aspetto, 'politico-sociale' e 'fisolofico-metafisico', della relazione
dell'uomo con Dio, ed anche dell'uomo coi sui simili. Il valore fondante dei primi due
comandamenti mosaici è stato 'universalizzato' proprio attraverso una serie di elaborazioni ed
astrazioni concettuali, che hanno segnato le tappe di un autentico processo di liberazione
dell'umanità pensante (cfr. H. Kueng, Essenza del Cristianesimo), costruendo storicamente il
fondamento stesso della democrazia. Sicché, nella cultura moderna, laica e razionalista, come
lo fu, a suo tempo, quella olandese, mercantile e scientista del XVII secolo, la concezione
'panteista' del 'Deus sive natura', sciolta dai vincoli dogmatici di una religiosità 'prescrittiva'
per aderire alle scaturigini psicologiche del 'mistero' del sacro, può tornare allo stesso modo
ad esaltare le riflessioni di un Albert Einstein (in Come io Vedo il mondo), tanto che egli
afferma, testualmente, che <<Democrito, Francesco d'Assisi e Spinoza stanno vicini>>.
Questa linea di 'continuità' del sentimento religioso potrebbe essere riportata indietro nel
tempo, tanto da potervi scorgere una serie di fasi progressive, che portarono fino a Cristo, e
da Cristo fino a noi, attraverso un percorso che, sempre di più, si è diretto verso i principi
della responsabilità personale e il concetto di salvezza individuale. Un processso che si è
andato evolvendo nei secoli, proprio nella direzione della centralità dell'io e del problema
divino, e che inevitabilmente si è tradotto in prassi sociale e si è politicizzato storicamente.
Eusebio di Cesarea e lo stesso Sant'Agostino hanno sottolineato questo percorso, che
modernamente, dalle riflessioni religiose del grande Pascal, arriva diritto fino a noi. Si tratta
non solo di una meravigliosa costruzione dello 'spirito', che ha costituito il 'lievito' della storia
corrispondendo alle più profonde istanze umane di 'attribuzione di 'significato', ma anche di
un messaggio di 'speranza', che appunto costituisce la vera 'essenza del cristianesimo', ben
oltre la versione riduttiva di un Feuerbach, alla quale sembra peraltro corrispondere l'indirizzo
storiografico della Scuola della Sorbona capeggiata dal Renan, e che oggi si embrica nella
'storia delle religioni', come provano anche gli studi del grande Mircea Eliade, altro
innamorato di Assisi assieme al suo allievo Ioan Petru Culianu (vedi l'articolo di Albrile
pubblicato in questo stesso numero di Episteme), morto assassinato in America in circostanze
mai chiarite ed autore di studi assai importanti sul 'magico' nel Rinascimento. Ovunque si
guardi, è il 'sacro', nelle sue infinite varianti e contrapposizioni, a popolare la storia. E il
mondo moderno, così legato al contingente e all'illusione tecnologica, non fa altro che
sacralizzare l'individuo, smarrendone il rapporto con Dio e quindi anche l'intima fragilità, la
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cui essenziale considerazione apre direttamente le vie al mistero religioso, che resta senza
risposta.

(Fig. 11)

XIV.9. Il cristianesimo, che alla fine avvinse il mondo romano, potrebbe essere germinato
attraverso un percorso che fatalmente si riporta indietro fino alla civiltà dell'antico Egitto. La
storia dell'Occidente si è spezzata tante volte, ma in realtà, non si è mai frantumata (e questo
lo sapeva già Diodoro Siculo). Lord Gibbon produsse, nel secolo dei lumi, un capolavoro
sulle cause del declino e della caduta dell'Impero romano, ravvisando, tra queste, anche
l'indebolimento cristiano dello Stato romano. Ma il cristianesimo greco-romano degli
'apostoli' Pietro e Paolo finì per conquistare l'impero dei 'kittim', e in questo modo i distruttori
del 'secondo tempio' divennero i veri cristiani per una sorta di singolare paradosso storico.
Babilonia rovesciata fu la cristiana Roma. Si compì, dunque, un 'mistero' nel nome di 'Cristo',
l'Unto di Dio. Illustri storici moderni come Santo Mazzarino e Marta Sordi hanno scritto
pagine straordinarie a proposito di quest'evento prodigioso. <<Ai Cristiani si affacciò sempre
l'ipotesi che la catastrofe fosse veramente il segno, non solo della decadenza, ma senz'altro
della fine del mondo. Nel 386-88, commentando la profezia su Gesù sulla distruzione del
tempio di Gerusalemme e sulla consummatio saeculi, il vescovo di Milano, sant'Ambrogio,
fece un bilancio della tragedia. Da una parte il suo accorgimento politico accentuava la
gravità della insurrectio di Unni contro Alani, di Alani contro Goti, insomma della
migrazione dei popoli; dall'altra, denunziò una crisi morale, che sotto il suo stile si coloriva di
accenti biblici. Parlava, perciò, di nemici esterni e nemici interni, hostes extranei e hostes
domestici. Per uno strano caso, egli si incontrava così con Polibio, il quale aveva pure parlato
(ma su un piano esclusivamente storico) di eventuali "cause esterne" e "cause interne" della
decadenza di Roma>> (S. Mazzarino, La fine del mondo antico, Rizzoli, 1988, pag. 53-54).
Nei cinque secoli che vanno da Cristo al crollo dell'impero d'Occidente, il mondo pagano
conobbe la sua metanoia, e la civiltà occidentale il suo tracollo. Un giudizio su questa
drammatica vicenda storica (al limite destinata a ripetersi ancora) passa dai Vangeli e dal
'secondo esodo' della religione monoteista, divenuta il cristianesimo. Ma si tratta di una
morte-resurrezione della civiltà, che si muove su una linea dialettica, definita dagli stessi
Padri della Chiesa come 'provvidenziale'. La nostra curiosità per questo immane 'giallo' dello
'storia occidentale', che sembra ancora in atto, si rivolge, interrogativamente, al misterioso
'Volto della Sindone', che sembra aver ignorato i secoli nel suo buio sguardo di morte e nella
sua ieraticità sublime. Questo Volto sfida la storia, guarda all'amaro destino della morte,
all'entropia del creato. Il 'Dio dei filosofi e dei matematici' - paradossalmente, per il relativista
Einstein, un Dio che 'non gioca a dadi col mondo', come sarebbe invece in fisica quantistica -
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potrebbe, infatti, non essere il Dio cristiano, ma è pur sempre un Dio necessario. Il
cristianesimo 'paolino' mise alla fede le ali della speranza e della carità, nella proclamata
certezza della resurrezione. La filosofia scolastica ricondusse la fede alle 'categorie' della
razionalità aristotelica. Il 'superlogico' Bertrand Russell espone però con chiarezza le sue
personali e moderne ragioni di scettiscimo, nel saggio Perché non sono cristiano. E
potremmo anche fare rinvio ad un libretto dell'astronomo inglese Fred Hoyle (il teorico della
'panspermia' e dell'universo 'statico' in contrapposto alla teoria del 'big bang'), su L'origine
dell'universo e l'origine della religione (Mondadori, 1998), che ripercorre le antiche 'ragioni'
del materialismo classico molto ben esemplificato da Lucrezio. Preferiamo invece segnalare
al lettore alcune opere di straordinario valore culturale come la Breve storia delle religioni del
Bouquet (uscita in Francia nel 1941 e pubblicata in Italia nel 1972), il Trattato di storia delle
religioni (Boringhieri, 1976) e la Storia delle credenze e delle idee religiose (Sansoni, 1976, 3
voll.) di Mircea Eliade, le esemplari Storia del cristianesimo rispettivamente del superlaico
Panfilo Gentile (1969, Rusconi) e del cattolico Angelo Penna (già citata), nonché i superbi
lavori del censurato teologo tedesco Hans Kueng. Questi 'testi' potrebbero bastare a restituire
al lettore un ampio panorama della storia del sentimento religioso, poiché è di questo che pur
sempre si tratta. Se dovessimo indicare un'opera su 'Gesù' (e il suo 'mistero'), che conservi
intramontati fascino e credibilità storica, non esiteremmo poi a raccomandare la già
menzionata (bellissima ed ancor oggi ristampata) Vita... di Don Giuseppe Ricciotti, il grande
biblista fondatore dell'Enciclopedia Cattolica. A quest'ultimo autentico capolavoro - uscito
nel 1941, ma risalente ad una idea affacciatasi nell'Autore durante la prima guerra mondiale,
quando si trovò, come cappellano militare, gravemente ferito in un ospedaletto da campo:
<<Notte e giorno il vallone rintronava dello schianto delle granate, attorno a me gridavano e
rantolavano moribondi ... pensai che, se fossi sopravvissuto, avrei potuto scrivere una Vita di
Gesù Cristo...>> - fecero seguito, nel 1946, anche gli 'Atti degli apostoli' e le 'Lettere di San
Paolo', due eccellenti opere a completamento dell'analisi neotestamentaria portata avanti in
Italia da questo grande scrittore cattolico. Ma nessuna 'verità' convince fino in fondo, poiché
la verità 'abita nel profondo', e non emerge da questo 'fondo che non appare'.

XV. LA RICERCA DELLA VERITA'

XV.1. "Inquietum est cor nostrum donec requiescat in te". <<Ma se ci si affida alla ragione
bisogna rassegnarsi ad una inquietudine eterna>>, sostiene il 'razionalista' Ricciardetto. Su La
Scienza e i vortici del dubbio, una pregevolissima pubblicazione dell'Università di Perugia
(1999), compare (parte quarta, pag. 397 e segg.) un bellissimo articolo di Piergiorgio
Odifreddi dal titolo La fisica-mente: una chiara allusione a proposito del ruolo
dell'osservatore in fisica quantistica e non soltanto questo, dove si investiga 'la relazione fra
materia e mente', riportando un esemplare ed esaurientissimo 'quadro' sintetico delle varie
'teorie scientifiche' formulate a questo riguardo. Si tocca allora con mano quel 'mistero' che si
nasconde nella 'scienza' stessa, scorgendo soltanto un possibile, ma altrettanto misterioso
spiraglio, che potrebbe forse recare diritto ai 'pensieri di Dio'. Ne Il Vangelo secondo la
scienza (Einaudi, 1999, sottotitolo Le religioni alla prova del nove), Odifreddi si occupa
direttamente del problema scientifico della 'religione', e non quindi, contrariamente a quanto
farebbe supporre il titolo stesso, di 'critica evangelica'. Il problema della 'coscienza' viene
peraltro scientificamente affrontato ne La fisica dell'immortalità del teorico americano Frank
Tripler (un importante lavoro scientifico dal sottotitolo Dio, la cosmologia e la resurrezione
dei morti, Mondadori, 1995), attraverso un'emulazione universale, alla quale si perverrà di
fatto, proprio alla fine dei tempi, e cioè al 'punto Omega' di evocata memoria cristiana. Anche
in questo caso "la luce" tiene un ruolo speciale, che travalica ampiamente l'immagine
simbolica, per fondare gli attuali ritmi di civiltà ipertecnologica. Immersi come siamo in una
sorta di 'mare elettromagnetico', forse ancora tutto da comprendere, quest'emulazione
dell'universo entropico (o fatale errore del Demiurgo, secondo la versione 'gnostica' dalla
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quale sembra derivare la stessa eresia 'catara' mediata dai 'Bogomili' slavi prima della sua
diffusione soprattutto in Francia e in Italia), potrebbe infatti condurre ad una sorta di mondo
perfetto, del tutto analogo al 'mondo delle idee' di Platone. La fisica quantistica,
l'elettromagnetismo, la stessa modernissima teoria dell'informazione, la cosmologia,
l'universo e la mente, sembrano impastarsi nell'intimo mistero della 'coscienza' ed indirizzarsi
verso una antientropica linea evolutiva, già presagita da Theilard de Chardin (su questa
problematica essenziale, che finisce per investire la scienza moderna, nonché la filosofia,
l'etica, la religione e la gnoseologia, vedi ancora il bellissimo lavoro del Prof. Donati, che
affronta questa singolare tematica con rara efficacia). In liguaggio appropriato, si tratterebbe,
cioè, del problema dell'intelligenza artificiale, quell'io al quale Cartesio si appoggiò con
grandissima coerenza filosofica, per fondare il suo sistema al confronto delle 'cose', distinte
ed esterne, del mondo materiale. E che non avesse tutti i torti lo proverebbe, tra l'altro, la
rilevanza del 'principio antropico' nelle moderne teorie cosmologiche. Nel secolo di Cartesio
la sensibilità religiosa di un Pascal completava questa indagine sull'uomo, al confronto del
sommergente universo. Il Dio di Newton intervenne poi a regolare le orbite instabili (una
grande intuizione del 'caos deterministico' che si riaffaccerà con Poincaré e il difficilissimo
'problema dei tre corpi'). Ma in età napoleonica Pierre Simon de Laplace riteneva di poter
fare a meno dell'ipotesi stessa di Dio in nome di un meccanicismo aprioristico, che ignorava
l'enigmatica realtà del microcosmo. Sono questi gli aspetti essenziali di un 'tema' profondo,
che non finirà mai di sorprendere la ragione.

XV.2. Certamente 'inquieto' è il nostro cuore al cospetto del 'mistero divino'. Cuore e ragione,
causalità e indeterminismo somigliano piuttosto alla separazione cartesiana tra mente e
materia, che a ragioni ultime. Ma l'Uno sfugge, e il sistema di Plotino non risolve il grande
problema della 'dualità', che sembra permeare fenomeni ed essenze. La religione cristiana non
propone, certamente, una conoscenza assoluta, e tutto appare molto più correttamente risolto
nella profondità essenziale dei primi due comandamenti mosaici, cioè Dio e il prossimo, che
San Francesco osservò fino in fondo, con tutta la sua anima e tutta la sua mente. In questi due
fondamentali 'obblighi' cristiani sembrano, in effetti, compendiarsi il senso della vita e la
stessa libertà umana, radicando il fondamento della 'morale', la quale non è affatto aliena da
una visione globale del mondo. Per il Cristo dei Vangeli sono sostanzialmente le opere che
salvano l'uomo, anche se è la 'fede' a smuovere i macigni. Gesù, che potrebbe essere stato
addirittura discepolo di Hillel (come San Paolo lo fu di Gamaliele, suo nipote), e che fu anche
un contemporaneo del grande filosofo ebreo Filone d'Alessandria, non era certo un 'fariseo',
una delle principali sétte dell'ebraismo descritte da Giuseppe Flavio alla quale inzialmente
appartenne San Paolo, e nei confronti della quale ('pubblicani e farisei') si dirigevano le
asprisssime critiche ed invettive di Gesù, concordemente riportate dai Vangeli. Egli era
venuto a completare la legge - in qualche modo ad 'universalizzarla' oltre i confini di Israele,
anche se dal contesto evangelico non si ricava, con chiarezza, se la 'buona novella',
sostanzialmente improntata alla mansuetudine, al perdono e all'amore del prossimo, dovesse
riguardare anche i 'gentili', e non soltanto gli 'ebrei' della Palestina. Sembrerebbe proprio così,
dal momento che il 'titolo' di condanna a morte da parte di Pilato fu quello di "Re degli
Ebrei", quindi un perturbatore dello 'status quo', e non un guaritore od operatore di miracoli,
oppure un pacifico predicatore di virtù universali come ad esempio Apollonio di Tiana, una
figura semileggendaria di filosofo neopitagorico, la cui vita (narrata da Filostrato, al tempo di
Settimio Severo, per commissione della consorte imperiale Giulia Domna) si svolse nel primo
secolo d.C.: egli fu cacciato via da Roma per disposizione di Nerone, e in seguito addirittura
paragonato a Cristo, come apprendiamo dalla confutazione fatta da Eusebio di Casarea nella
Storia Ecclesiastica. Il problema che rimane aperto davanti alla storia è proprio quello della
spiegazione, in termini razionali, del successo del cristianesimo. Un enigma che sembra
investire anche la Sindone, e, quanto meno, giungere fino a San Francesco, attraversando il
medioevo dei Templari e delle grandi eresie, come se appunto la storia, ancora una volta,
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avesse riproposto i medesimi temi mille anni dopo. 'Gesù mago' non spiega affatto questo
formidabile evento che si è fatto 'carne e sangue' della Civiltà occidentale, per ben duemila
anni. Intanto, la grande tragedia che ci siamo appena lasciati alle spalle in un secolo
insanguinato da due guerre mondiali, ci si ripresenta nuovamente davanti con un bilancio
negativo e inquietante, in una prospettiva di problemi irrisolti ed anzi accumulati uno addosso
all'altro, segno evidente della radice metafisica del male assoluto, che inficia le tutte le buone
intenzioni. All'ascensione dell'uomo, che oggi aspira alle stelle, si è infatti contrapposta
l'abiezione della storia. Duemila anni di civiltà (compendiabili ne la Saggezza greca e
paradosso cristiano, un gran libro di Charles Moeller, Morcelliana, 1951), che non hanno
però cancellato l'antica ed estrema violenza della guerra (neppure 'una festa crudele', ma
un'autentica abiezione morale, come fossimo ancora al tempo della ferocissima Guerra
Giudaica), ci indicano che "Pan non è morto", diversamente dall'annunzio, messo in bocca da
Plutarco all'egiziano Tamo (Tamus), un marinaio diretto in Italia su di una nave, al quale una
voce divina, dal di là del mare, gridò: <<Tamo, quando raggiungerai Palodi, annuncia a
tutti che il gran dio Pan è morto!>> (cfr. Robert Greaves, I miti greci, Longanesi, 1983, pag.
91, nonché M. Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, op. cit., I, pag. 79 ss., a
proposito del 'Tammuz akkadico' e dell'invettiva biblica del profeta Ezechiele 7,14, contro le
donne di Gerusalemme, che nel VI secolo si 'lamentavano', addirittura presso le porte del
Tempio, invocando proprio Tamo).

XV.3. I "luoghi santi" (cfr. ad es. Il Mistero della tomba di Cristo di M. Biddle, Newton e
Compton, 2000, oppure Il Guardiano del Santo Sepolcro di F. Cardini e S. Stella,
Mondadori, 2000), sono sempre nell'occhio del ciclone, oggi come in passato. In un certo
senso, l'imminente parusia dei 'tempi ultimi' - che caratterizzò il cristianesimo insorgente,
subito dopo la morte sulla croce, e che fu poi dibattuta in alcune lettere di San Paolo e di San
Pietro, dirette alle prime comunità cristiane poiché trascorsi alquanti anni, non sembrava
verificarsi affatto, e che venne ripresa, in seguito, nell'Apocalisse di San Giovanni, in una
minacciosa e fosca attesa 'sine die', coll'inasprirsi delle persecuzioni - ci è ancora vicina, con
l'escatologia drammatica d'un possibile conflitto atomico secondo la terribile profezia
dell'armageddon. Il misterioso Volto della Sindone, le palpebre fortemente appesantite nella
morte, continua ad oscurarsi nel buio, dopo aver resistito, nel suo fragile lino, duemila e più
anni ai terribili guasti del tempo. Al di là dei simboli e delle evocazioni allusive, in qualche
modo una sorta di 'mistero' sembra circondare la 'razionalità' della storia, anche se, per una
mente coerentemente scientifica, i 'fatti' possono essere tranquillamente riportati al loro
prodursi 'causale' senza alcun bisogno di escatologie ultime oppure di provvidenziali disegni
divini che dal male 'presente' estraggano, dinamicamente, la forza di un 'bene' futuro. Tuttavia
le cifre simboliche sembrano appartenere alla foresta delle premonizioni e formare un oscuro
sostrato di atemporalità, secondo la singolare versione di Jung e Pauli, elaborata negli anni
Trenta, a seguito della teoria psicanalitica e della fisica quantistica, segno evidente d'un
particolare clima d'epoca, oppure d'un possibile mistero. E si tratta, in fondo, della stessa
sostanza misterica dell'arte aruspicina etrusca, dell'anima sacra delle antiche 'profezie' ed
anche dei 'poteri carismatici' di cui singolarissime figure della storia umana sembrano dotate
(vedi I grandi Iniziati di Edouard Schurè, al cui novero apparterrebbe anche Gesù Cristo).
Questo sfondo misterico non giunge certamente gradito ai razionalisti della scienza, e noi non
ne vogliamo esseri i paladini. Anzi riteniamo che esista una chiara spiegazione per ogni
fenomeno, anche se siamo perfettamente consapevoli dell'estrema difficoltà che pone la
ricerca della verità causale in ogni settore dello scibile.

XV.4. Gesù, un personaggio realmente esistito, nacque probabilmente poco prima della morte
di Erode il Grande, avvenuta il 4 a. C. Egli venne al mondo cioè alcuni anni prima dell'inizio
dell'era volgare (o cristiana), "colpa" del monaco 'russo' Dionigi il Piccolo, il quale sbagliò i
calcoli nell'occuparsi, nel VI secolo, del nuovo computo del 'calendario liturgico', anche se gli
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resta il marito, sorprendentemente, di aver introdotto nella storia una sorta di "punto zero", a
partire dal quale essa si rinnovava entrando in una nuova fase. La questione 'cronologica', di
per sé difficilissima e assai complessa (comunque ben trattata, nelle sue linee essenziali, ad
esempio da E.P. Sanders, op. cit., pag. 284 ss., Appendice I) riguarda sia la nascita, che la
morte di Gesù. Si tratta anche in questo caso di un 'enigma' storico sotto vari punti di vista,
per nulla schiarito dai Vangeli, i quali anzi sembrano incorrere in gravissimi errori di
datazione (es. Luca, 2, 2), posto che il 'censimento di Quirino' ('quando era governatore della
Siria', e cioè nel 6 d.C.) avvenne svariati anni dopo la morte di Erode. Secondo Luca (3,1),
che potrebbe aver avuto sotto mano gli scritti di Flavio Giuseppe" (si tratta di un punto
controverso), la predicazione di Giovanni Battista iniziò nel <<quindicesimo anno di
Tiberio>>, e Gesù stesso avrebbe iniziato, poco dopo, la sua attività pubblica, anche se
regnano notevoli incertezze circa la durata della sua predicazione, da qualche mese ad un
massimo di tre anni (tre 'pasque', secondo il Vangelo, chiarificatore, ma anche mistico ed
oscuro, di San Giovanni, che dà luogo ad una grande quantità di altri problemi). Tali
'incertezze' riguardano altresì l'anno della morte, che può oscillare in un periodo compreso fra
il 29 e il 33 dell'era volgare, in base a quanto ritiene la maggior parte degli studiosi. Quindi,
Gesù, al momento della sua morte, potrebbe aver avuto un'età ricompresa tra i 34 ed i 39
anni, esattamente la stessa che sembra 'denunciare' la portentosa immagine della Sindone, la
quale peraltro è caratterizzata dalla singolare posizione della braccia incrociate sul pube,
proprio secondo un tipo di sepoltura riscontrato dagli archeologi soltanto nel caso degli
'esseni' del Kirbet Qumran. Queste braccia in croce colpiscono enormenente l'occhio, e sono
fortemente allusive di una compostezza funebre degna d'un uomo di grandissima levatura. Le
stesse braccia incrociate non si può fare a meno di notare nell'affresco giottesco dell'omaggio
del velo, come se appunto Francesco si dirigesse su quel velo trasparente, opportunamente
disteso ai suoi piedi e della stessa grandezza del telo sindonico, come per imprimervisi tutto,
anima e corpo.

XV.5. Piccolo errore a parte, grande l'intuizione di Dionigi il Piccolo, di fissare una nuova
origine comune per il computo degli anni della storia, perché il cristianesimo segnò
veramente un nuovo inizio, e non già la semplice continuazione del tempo precedente. Uno
stacco che non ha, cioè, nulla di aritmetico. Quest'inizio dell'età nuova è infatti riconnesso
alla profezia messianica delle 'sette settimane', che fu poi quella stessa attribuita dai Vangeli
a Gesù, la cui figura sembra emergere dal nulla, mentre si dovrebbe, razionalmente,
sospettare l'esatto contrario, che cioè dietro di Lui ci siano stati impulsi significativi, ed anche
una specifica corrente di pensiero già ben orientata nei riguardi del suo 'messianismo', del
resto riconnesso alle oscure espressioni bibliche di 'figlio dell'Uomo' e 'figlio di Dio', che, con
buona certezza, egli stesso avrebbe adoperato per sé, e che, in ogni caso, gli sono state
chiaramente attribuite dagli evangelisti. Il che non significa affatto distruggere la figura di
Cristo, ma attualizzarla in un contesto storicamente attendibile, secondo quanto sembrano
sottintendere alcuni passi evangelici, come ad es. quello di Matteo (2,15) che citando una
frase di Osea, rammenta che <<Dall'Egitto ho chiamato il mio figlio>>! E se fosse proprio
questa la patria d'origine del "cristianesimo universale", sicché 'civiltà' e 'religione' avrebbero
marciato insieme, angeli e dioscuri dell'Umanità mediterranea? Quest'ipotesi, come meglio
vedremo in conclusione, sembra attenere alle modalità stesse e ai motivi specifici per cui
sarebbe stata 'fabbricata' la Sindone (secondo noi la prima vera 'fotografia chimica' della
storia!), realizzata su finissimo lino sacerdotale, come una veste eterna al tempo stesso regale
ed anche intrisa di luce, nel chiaro segno dell'immortalità. In questo modo il Cristo sarebbe
'fisicamente' risorto nel suo 'mistero messianico', avviandosi veramente alla Luce del Regno,
giunta fino a noi nel racconto dilatato della "resurrezione". Il lettore sbalordirà, ma lo
condurremo alla verifica 'indiziaria' di questa traccia straordinaria, sulla base stessa delle
ipotizzabili procedure realizzative della Sindone, che crediamo di aver individuato almeno in
linea generale. Se infatti si tratta veramente del lenzuolo funebre in cui fu interamente avvolto
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il cadavere di Gesù deposto dalla croce, esso deve dare in qualche modo storica ragione di sé,
a prescindere dalla controversa radiodatazione al carbonio 14 (capace in effetti di escludere in
radice il problema, se non fosse anch'essa tacciabile di fondati sospetti d'inattendibilità quanto
alle modalità tecniche di effettuazione degli esami e dei conteggi, e soprattutto in ordine
all'eventuale presenza di volontà volte ad una 'diminuzione' del ruolo della scomodissima
Sindone quale tangibile 'documento' di morte e non certamente prova di 'resurrezione'). La
figura di Cristo è chiaramente predetta dalle Scritture e i dubbi riguardavano esclusivamente
l'identificazione concreta del vero Messia. Che il Messia delle profezie sia stato veramente
Gesù, lo proverebbe la Sindone se potesse risultare genuina. D'altronde, se così fosse, essa
non è la prova della resurrezione, bensì il documento originale della 'sacralità' della morte di
Cristo.

XVI. IL TEMPIO E LA PROFEZIA DELLE SETTANTA SETTIMANE

XVI.1. Infinite critiche si appuntano sulla 'storicità' della narrazione evangelica, trattandosi
infatti della diffusione di un 'kèrigma', cioè di una teologia vera e propria, e non di una
'biografia' in senso moderno. E' stato giustamente evidenziato che solo due dei quattro
Vangeli (quello di Matteo e di Luca) parlano dell'origine e della nascita di Gesù, risultando
tuttavia in netto contrasto tra loro. Secondo Matteo, Gesù era un aristocratico, se non un
legittimo re, disceso direttamente da David e da Salomone, il re biblico costruttore del 'primo
tempio' (questo, distrutto nel 586 a.C. dal babilonese Nabucodonosor, fu riedificato grazie
alle concessioni del persiano Ciro il Grande nel 538, quando agli Ebrei fu concesso di
affrancarsi dalla schiavitù e di tornare in Palestina, sicché si parla allora di 'secondo tempio';
il nome resta anche per quello che sarebbe in realtà il 'terzo tempio", dal momento che il
secondo pare sia stato addirittura demolito e ricostruito ex novo, con enorme dovizia e
profusione di spese, da Erode il Grande; è questo il tempio che fu successivamente raso al
suolo dai romani di Tito, che aveva quindi ben poco a che fare sia con il 'primo', che con
l'autentico 'secondo': i soldati imperiali abbatterono una costruzione recente!). Secondo Luca,
invece, la famiglia di Gesù, benché proveniente dalla casa di Davide, era un po' meno illustre,
ed è sulla base del racconto di Marco che è nata la leggenda del 'povero falegname'. Insomma
le due genealogie sono così nettamente discordi, che potrebbero riferirsi a persone diverse. Le
discrepanze tra i Vangeli non sono circoscritte soltanto alla genealogia (cfr. Sanders, op. cit.,
pag. 89). Secondo Luca, Gesù, appena nato, ricevette la visita di alcuni pastori. Secondo
Matteo, ricevette l'omaggio di tre re. Secondo Luca, la famiglia di Gesù viveva a Nazareth
(ma questo piccolissimo villaggio non è mai menzionato dalla Bibbia, e si dubita sia esistito a
quei tempi, sicché l'epiteto di 'Gesù Nazareno' andrebbe ricercato altrove). Secondo Matteo, i
genitori di Gesù (si fa per dire) erano piuttosto benestanti e risiedevano a Betlemme, e Gesù
nacque in una 'casa' vera e propria, e non in una 'magiatoia'. Non ci sarebbe assolutamente
modo di correggere i racconti contrastanti e di poterli conciliare tra loro. Queste discrepanze
emergono anche in altri momenti salienti della vita di Gesù (ad es. relativamente alle ultime
parole pronunciate sulla croce, del resto come se un 'crocifisso', inchiodato, e non soltanto
legato o appeso ad un albero, potesse parlare per il poco di vita restante prima di morire
soffocato, malgrado l'impiego di eventuali 'selle' di sostegno come ben potrebbe essere). In
realtà le cose non stanno semplicemente così. Sono molto più complesse e peraltro
difficilissime da ricostruire. I Vangeli hanno mobilitato la stessa archeologia scientifica,
ottenendo certamente molte conferme (cfr. ad es. A. Millard, Archeologia e Vangeli, Ed.
Paoline, 1992). E sono stati versati mari d'inchiostro intorno all'enigma Gesù. Potendo già
bastare, oltre ai titoli già citati, il breve florilegio che segue: Ipotesi su Gesù (il bellissimo
libro di Vittorio Messori uscito nel 1976), l'eccellente biografia di Rinaldo Fabris,
l'interessantissimo Gesù - La Verità Storica di E.P. Sanders (Mondadori, 1999), ed anche
l'ultimo uscito, il Gesù di J. Roloff fresco di tampa (Einaudi, 2002, 127 ottime e chiarissime
paginette). Opere che ci riportano tutte quante al respiro delle 'profezie' bibliche, ma che
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confermano la vecchia impressione, che in tanto mare ciascun autore riesca infine a trovare il
Cristo che stava cercando. Del resto, non esiste solo il 'Gesù' degli scritti canonici: accanto al
diverso Gesù degli scritti apocrifi, ci sarebbe poi anche il Gesù esseno. Dal 1947 furono via
via scoperte le 'undici' grotte del Qumran (si noti il numero delle grotte, che sarebbero in
effetti 'dodici' se ammettiamo che una grotta, come appunto sembra, fu saccheggiata
nell'antichità) con gli straordinari frammenti dei 'rotoli del Mar Morto', non ancora
completamente tradotti e pubblicati. Questa grande scoperta, anziché gettare nuova luce su
Gesù, ne ha infittito paradossalmente il mistero. Gesù non giunse all'improvviso, balzato fuori
dagi strani casi della storia. Ma la sua figura risponde ad un paradigma ben preciso. Egli era
per così dire 'atteso', anche se del tutto straordinaria fu la Sua 'novità', capace di scandalo e
d'immenso amore. Accanto all'attesa delle Scritture, v'era pure un'altra attesa nel mondo
pagano del ritorno dell'età dell'oro, che non si risolve soltanto nella quarta egloga di Virgilio,
che tuttavia ne resta il documento più famoso e forse anche più equivoco.

XVI.2. Virgilio aveva composto, verso il 40 a. C, dopo la pace di Brindisi e in occasione del
consolato del suo protettore Pollione e probabilmente della nascita del figlio Asinio Gallo,
trasformata nel simbolo della nuova età dell'oro che lentamente e sicuramente maturerà sulla
terra, la famosa "IV egloga" (<<. . . il fanciullo che io canto avrà in dono una vita divina e
vedrà gli eroi mescolarsi agli dei, ed esso stesso sarà visto tra loro; e governerà il globo
pacificato dalle virtù di suo padre>>. .), che fu anche interpretata, accanto ad altre possibili
soluzioni, come un'anticipazione della venuta di Gesù Cristo (cfr. Jérome Carcopino, Virgilio
e il mistero della IV egloga, 1930, Edizioni dell'Atlanta, con prefazione di Luca Canali,
2001). Tra i resti della fortezza di Masada, dove terminò, nel sangue del tragico suicidio
collettivo di oltre 900 persone: uomini, donne e fanciulli, nel 74 d.C., l'ultima disperata
resistenza, contro le legioni romane di Tito, degli irriducibili Zeloti di Eleazaro (descrivendo
il terribile evento nei minimi particolari, Giuseppe Flavio li chiama però 'Sicari'), gli
archeologi hanno trovato (sic!) alcuni frammenti dell'Eneide, validissimo indizio d'un altro
possibile 'mistero' (cfr. C.P. Thiede e M. D'Ancona, Testimone oculare di Gesù, Piemme,
1996, pag. 66: si tratta, in effetti, del 'papiro Masada 721a'). Come mai? Una possibile
spiegazione la forniamo qui di seguito, utilizzando le stesse parole di Carcopino, che pure
scriveva molti anni prima di questa clamorosa scoperta archeologica. <<A partire dall'estate
dell'anno 29 a. C., Virgilio prese a leggere all'onnipotente Ottaviano le Georgiche, in cui
consacrava alla religione nascente di una dinastia, la sua antica fede nel muto linguaggio delle
stelle. Il sole, eclissandosi per non illuminare l'assassinio di Cesare, ha attestato la divinità del
defunto dittatore, e chi potrebbe dubitare di una simile testimonianza: <<Solem qui dicere
falsum / Audeat?>> (Georgiche I, 463-464). Quanto ad Ottaviano, suo figlio, il più grande di
tutti i 'cesari' - <<Te maxime Caesar>> (cfr. Georgiche, II, 16), il suo posto sale già nelle
chiare sere d'autunno, verso il posto vacante tra Erigone e le Chele: <<Anne novum tardis
sidus te mensibus addas, Qua locus Erigonem inter Chelasque sequentes Panditur>>
(Georgiche, I, 32-34). Nessuna zona dello Zodiaco poteva essere più adeguata al principe che,
nato la mattina del 23 settembre del 63 a. C. (stesso anno e stesso mese in cui a Pompeo
furono aperte le porte di Gerusalemme dalla maggioranza farisea ed egli riuscì addirittura a
penetrare nel Tempio, con suo grandissimo stupore null'altro vedendo se non "vacuam sedem
et inania arcana" - Tacito, Historiae, 5,9; si veda Paolo Sacchi, Storia del Secondo Tempio,
Torino, 1994, pag. 244), era venuto sulla terra nel momento dell'incerta transizione dal segno
di Erigone, cioè della Vergine, da cui il sole era appena uscito, a quello delle Chele, ossia la
Bilancia, in cui l'astro stava facendo il suo ingresso, sicché <<iam redit et Virgo, redeunt
Saturnia regna>> (ed è questo il più famoso verso, il verso 6, dell'egloga IV!). Venne poi il
tempo in cui l'Impero, curvo sotto il fardello delle sue conquiste mal assimilate, conobbe la
miseria e la sconfitta e - abbandonato dagli dei pagani - li abbandonò a sua volta per
abbracciare la fede di Cristo. La religione di Augusto fa rimpiazzata da quella di Gesù e il
cristianesimo, facendo propria l'esegesi dei sui predecessori, fece cospirare l'egloga per il
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proprio trionfo. I cristiani videro nella ricomparsa dell'età dell'oro una figura del regno del
Salvatore e reclutarono in Virgilio un inconsapevole messaggero delle loro credenze. Si volle
vedere in Maria madre di Dio, la vergine nominata nel poema, la seconda Eva tornata sulla
terra. A partire dal quarto secolo d.C., la traduzione greca di questa egloga attribuita a
Costantino, se ometteva volontariamente il verso 10 (troppo imbarazzante coi suoi nomi
pagani di Lucina ed Apollo), modificava il verso 6 in modo tale da legittimare il significato
inedito che il proselitismo cristiano si sforzava di imprimervi: <<La Vergine sta per giungere,
e porta il re da noi auspicato>>. E cioè, come canta Dante, <<Già era il mondo tutto quanto
pregno / de la vera credenza, seminata / per li messaggi del'eterno regno,/ e la parola tua
sopra toccata / si consonava a nuovi predicanti>> (Purgatorio, XXII, 76 e segg.)>>.

XVI.3. Carcopino sembra cogliere nel segno. Ci fa toccare con mano la grande attesa che
permeava l'intero orbe civile, e non soltanto i Giudei costretti dal dominio imperiale. Segno
evidente che la storia, giunta al compimento di una svolta, stava per partorire nuove realtà. In
questo contesto altamente simbolico e spirituale, non appare certo inverosimile che i
Terapeuti abbiano volutamente immortalato, in una autentica e misteriosa 'Veste di Luce', le
fattezze funerarie di Cristo, celebrandone così il 'rito' della 'resurrezione dai morti', che tanto
affascinò il cristianesimo insorgente. San Paolo nelle sue Lettere che costituiscono, in modo
assoluto, i primi documenti cristiani ben prima dei Vangeli e degli Atti degli Apostoli, mostra
di conoscere l'opera astronomica e poetica di Arato di Soli, che fu poi ripresa da Manilio sotto
Tiberio, pur con dedica ad Augusto. In qualche modo viene il dubbio che Gesù, e i suoi
dodici 'apostoli' (cioè gli 'inviati'), possano al limite modulare il 'sole', che appunto si muove
sullo sfondo del 'dodici segni' dello 'zodiaco' (fascia eclittale degli 'animali'). Ad un tale
'schema' sembra peraltro rispondere la sorprendente presenza del 'bue' e dell' 'asinello' accanto
alla 'magiatoia' (come si vede anche nel primo 'presepe' francescano di Greccio rappresentato
da Giotto nel ciclo assisiate degli affreschi della Basilica Superiore), secondo una tradizione
risalente invero all'VIII secolo, in aggiunta alla descrizione della natività di Luca (2, 6) in
ambiente pastorale, che peraltro non fa alcun cenno alla presenza degli animali tipici del
'presepe'. Matteo parla invece di una 'casa', che non deve però essere minimamente confusa
con un'evocazione o larvata allusione astrologica. Il presepe della tradizione posteriore
richiamerebbe, cioè, i segni zodiacali del Toro e dell'Ariete. Allo stesso livello di allusioni
astronomiche potrebbe essere ricondotto il possibile, per quanto altrettanto improbabile,
accostamento dei 'dodici' apostoli al numero dei 'sette' diaconi di un importante passo degli
Atti (6, 1-7), corrispondente all'altrettanto improbabile analogia coi 'sette corpi planetari', così
come, ad es., Maria Maddalena fu liberata, con un esorcismo di Gesù, da 'sette demoni' e via
dicendo. Secondo queste più o meno improbabili analogie, il Gesù trascorrente sulle acque
del 'Mare di Galilea', per una mentalità 'razionalista', che voglia scorgere dietro 'l'impossibile'
le effettive tracce del mito, potrebbe senz'altro essere assimilato al percorso del sole nascente
dalle acque, e simbolo stesso della Vita. Tali asserzioni, per quanto non possano essere
respinte 'a priori' (anche perché il cristianesimo si affermò, nel mondo romano, proprio
attraverso il simbolo del Sol invictus, lasciando definitive tracce sul nostro calendario: per
cui, ad es., la nascità di Gesù venne fissata il 25 dicembre, spostandola dalla ricorrenza del 6
gennaio, oggi dedicata all'Epifania, ricorrendo cioè ad una data pressoché coincidente col
solstizio invernale: si vedano, in ogni caso, le annotazioni di Alfredo Cattabiani in
Calendario, Rusconi, 1988 e soprattutto in Planetario, Mondadori, 2003), sembrano, tuttavia,
lasciare il tempo che trovano, per quanto non destituite di un certo fondamento, che andrebbe
piuttosto ricercato nell'elaborazone di successive tradizioni. In questo caso i 'simboli'
mascherano una realtà sottostante, e non la rappresentano affatto in se stessa. Che Gesù fosse
assimilabile ad un sole è dato incontroverso, ma non originario del cristianesimo primitivo.
Tertulliano (160-230 d.C, il grande apologeta cristiano che finì per abbracciare il montanismo
più rigoroso), respinge questa identificazione astronomica (cfr. Apologeticum, XVI, 9 ss.), ma
l'adozione del Sole come simbolo della politica religiosa, che dai Severi a Gallieno, a
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Costanzo Cloro e allo stesso Costantino (prima dello scontro militare con Massenzio), aveva
caratterizzato il III secolo sino agli inizi del IV, non era affatto sgradita ai cristiani, che
riconoscendo in Cristo il Sol Justitiae, <<non disdegnavano, nella loro iconografia, il ricorso
a tipi ed immagini solari>> secondo M. Sordi. Si trarrebbe, perciò, di un utilizzo strumentale
dei simboli stessi dell'età dell'oro di Virgilio, del resto assai consoni ai 'figli della luce', come
appunto si autodefinivano, in contrapposto ai 'figli delle tenebre' (oggetto del loro odio
irrimediabile, secondo la 'Regola' I, 10, dei rotoli del mar Morto), gli stessi 'esseni' del
Khirbet Qumran, la cui 'allegoria della luce' potrebbe anche dipendere da una valenza
religiosa di tipo cosmico-astronomico (come, in generale, propende a ritenere il menzionato
de Santillana de Il mulino di Amleto), propriamente assegnabile dalle 'religioni celesti' ai
valori salvifici da queste praticati. Ma non è questa la nostra traccia.

XVI.4. Facciamo invece leva sull'<<attesa>>, ugualmente presente nel mondo pagano, di un
<<salvatore del mondo>>, che sarebbe stato poi impersonato da Gesù Cristo in modo del
tutto opposto alle aspettative 'militari' dell'ebraismo giudaico ribelle ai Romani. Ciò che
interessa non è tanto questo possibile, e molto probabilmente labile collegamento di Gesù col
'sole' (sicuramente una traccia suggestiva), quanto piuttosto il significato profondo dell'attesa,
in cui sembra mantenersi anche il primo cristianesimo nell'allora sinceramente creduta e del
tutto imminente 'parusia', o 'seconda venuta' del Cristo giudice, e quindi anche della
riconnessa salvezza dell'umanità credente, finalmente riscattata dallo scomodissimo e del tutto
scandaloso sacrificio della croce o nuova paradossale alleanza. Si tratta, in realtà, di un
atteggiamento ambivalente, che sembra, via via, trapassare da una fase di terribile 'attesa'
(perfettamente compendiabile nei simboli stessi della della 'morte' e dell' 'oscurità') alla
speranza del 'giorno pieno', cioè a dire la 'resurrezione' e il 'ritorno' di Gesù sulla terra a
completamento della profezia. Il Cristo della masuetudine, simbolizzato dall'agnello
sacrificale del Vangelo di San Giovanni, in Matteo è anche un potente e maestoso sovrano,
che viene appunto a portare <<non la pace, ma una spada>>. Un'affine ambivalenza si
concentrava nel mondo pagano e ne percorreva gli oracoli. Il mondo antico, in Occidente e in
Oriente, era effettivamente nell'attesa della fine d'un ciclo e dell'inizio d'una nuova era, come
traspare, con chiarezza, da Virgilio e dai vaticini stessi. Proprio per questa ragione frammenti
dell'Eneide, recuperati dagli archeologi moderni, giacevano fra le rovine della fortezza di
Masada. Gli Zeloti della guerra giudaica applicavano a loro stessi i presagi pagani, così come
già una volta era caduta Troia, ma il profugo Enea aveva alla fine rifondato quella stessa
civiltà (impersonata dalla dinastia Giulio Claudia), che ora stava dominando il mondo, e che
del resto aveva già conquistato e sottomesso la Grecia degli eroi omerici vincitori di Troia.
Dopo il disastroso e terribile periodo delle guerre civili, la pax augustea stava dando i suoi
frutti. Ma una civiltà molto più raffinata di quella romana, quasi di ispirazione universale,
aveva preceduto l'egemonia di Roma, in tutto il bacino del Mediterraneo. Per una manciata
d'anni, prima delle guerre puniche, e poi della conquista romana della Grecia, Alessandria
d'Egitto era stata la grande capitale mediterranea, faro di civiltà e di progresso scientifico
(quanto all'evolutissima 'civiltà alessandrina', che era sicuramente pervenuta a conquiste
scientifiche sorprendentemente moderne, rimandiamo allo straordinario saggio di Lucio
Russo, La rivoluzione dimenticata, Feltrinelli, 1997, che mette perfettamente a fuoco il livello
di scientificità e di alta tecnologia, allora raggiunto dal mondo antico, anche nel campo della
'chimica'). Alle civiltà in declino, ad es. quella etrusca delle profezie della 'vergine Vegoia' e
di 'Tagete' e quella greco-alessandrina nel mancato avverarsi del sogno, tutto greco, della
koinè mediterranea, si contrapponevano le potenze mercantili e militari di altre civiltà. Alla
fine fu Roma a spuntarla. Ai nostri scopi si presenta, perciò, di grande interesse, nel quadro
storico della conquista romana dell'Egitto e dell'ultima fase dei conflitti interni che
drammaticamente portarono alla ribalta il nuovo modello del potere imperiale, la complessa
figura di Filone d'Alessandria, il grande filosofo ebreo contemporaneo di Gesù (20 a. C. 50
d.C. circa), di netta ispirazione platonica, per quanto strettamente legato al giudaismo e alla
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sua pratica religiosa. Insieme a Giuseppe Flavio e a Plinio il Vecchio egli ci ha tramandato
tutta una serie di informazioni e di notizie fondamentali intorno alla setta degli 'esseni',
sorprendentemente mai menzionata negli scritti neotestamentari tanto che già prima della
scoperta dei 'rotoli del Mar Morto' era stata avanzata la possibilità di un 'Gesù esseno' proprio
a ragione di questo silenzio ed anche per certe singolari coincidenze rituali, la prima delle
quali sarebbe il battesimo d'acqua (per Giovanni) e di 'spirito' per Gesù (se non addirittura di
fuoco). Al momento ci interessa cogliere il possibile fondamento di una 'trama alternativa',
che metta in luce 'nuovi spiragli' durante il declino, quantomeno politico-militare, della civiltà
greco-alessandrina e il conseguente affacciarsi della potenza militare di Roma. Questo
periodo di alcuni secoli, fino alla distruzione del 'Tempio di Erode' nel 70 d.C., è anche il
periodo in cui, con alterne vicende, gli Ebrei della 'Terra Promessa' risentirono, fortemente,
prima dell'influenza greca, e quindi, da Pompeo in poi, di quella romana. Alessandro Magno
strappò la Palestina ai Persiani nel 332 a. C., e per due secoli e mezzo la zona divenne una
provincia greca. Alessandro e la dinastia dei Tolomei furono tolleranti nei confronti del
giudaismo, e la religione ebraica si diffuse allora nella maggior parte dell'Impero greco,
tutt'intorno al Mediterraneo orientale. Nel II secolo vi fu un grande cambiamento, quando
l'impero orientale si separò per formare l'Impero Seleucide governato dalla Siria. Nel 169 a.
C. il re seleucide Antioco IV, temendo la diffusione del giudaismo, decise di ellenizzare i
Giudei. Le pratiche giudaiche furono proibite e le scritture vennero distrutte. Gli Ebrei si
ribellarono nel 167 a. C. con la rivolta di Giuda Maccabeo, figlio del sommo sacerdote.
Venne istituita la dinastia asmonea che, sebbene greca, pose fine alle continue lotte,
convertendosi al giudaismo. Le due maggiori sétte, i Sadducei e i Farisei, accettarono
l'autorità greca, ma una terza setta vi si oppose nettamente, e si trattava degli Esseni. Nel 175
a. C., il sommo sacerdote Onia III fu deposto dal fratello Giasone, il cui nome tradisce la
presenza culturale greca in Gerusalemme. Onia fu assassinato poco dopo, e Giasone dovette
fuggire. Il sommo sacerdozio passava a Menelao, che non era nemmeno della stirpe dei
sommi sacerdoti (stirpe sadocita). Sotto Menelao si ebbe il massimo sforzo per ellenizzare
Gerusalemme, cioè per renderla simile alla grande cultura e al modo di vivere del tempo.
Come fa notare Paolo Sacchi, <<la Torah fu sostituita con la legge di Antiochia>>. Le trame
della storia non possono essere ignorate, e dal loro contesto si ricavano sicuramente profili di
estremo interesse, anche ai presenti fini.

XVI.5. In quei due secoli e più che vanno dal periodo dei Maccabei agli Erodi, potrebbe
essere fermentato (proprio ad Alessandria d'Egitto e in seno alla 'diaspora' venuta a contatto
con la cultura greca) un ebraismo molto diverso da quello 'gerosolimitano', invece duramente
costretto a terribili compromessi politici, che, ricongiungendosi idealmente con l'esodo
mosaico, ripensò la vicenda biblica, e i termini stessi delle antiche profezie, secondo un
modello universale. L'ipotesi, che qui viene affacciata, è che in realtà esistessero due distinte
correnti di "Esseni", pur agganciate alle medesime lontane tradizioni mosaiche, cioè i
Terapeuti 'egiziani' e gli Esseni del 'deserto del mar Morto'. Questa ipotesi conduce, infatti, ad
una spiegazione razionale del 'mistero Gesù', sia un Gesù Messia che un Gesù Mago,
schiarendo altresì quell'altrimenti inspiegabile fenomeno che ricondusse, proprio nella
Tebaide, i Padri cristiani del deserto alcuni secoli dopo, al momento stesso del crollo
dell'Impero d'Occidente, come se si trattasse d'una sorta di forzato ritorno alle origini
'egiziane' del 'monoteismo biblico', in una tragica età di lutti che si preannunciava disastrosa
per la civiltà. Le vere origini del movimento 'messianico' impersonato da Gesù si
collocherebbero perciò ad Alessandria d'Egitto, e Gesù stesso non sarebbe un fenomeno
prodottosi all'interno della Palestina, come si è sempre creduto, ma il derivato di una ben più
ampia visione, che affondava le sue radici nel sincretismo religioso più antico e di cui lo
stesso Platone fu una della voci più rilevanti nell'ambito del mondo pagano. La Sindone
sarebbe stata creata dai 'terapeuti alessandrini' presenti anche a Gerusalemme, in attesa del
trionfo religioso e politico del loro venerato 'messia', predetto dalle scritture, e morto di croce
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per la cieca caparbietà giudaica, che aveva smarrito il rapporto col divino. Essa ha
immortalato le fattezze umane del Cristo, nella certezza della sua 'regalità sacerdotale' di
salvatore di tutti gli uomini, emblematizzata dell'Età dei Pesci. Una sorta di anticipazione, in
chiave sacra, della monarchia universale improntata all'Unico Dio, che tornerà a popolare il
mondo medievale nella contrapposizione politica tra Papato e Impero. E si tratterrebbe altresì
del "Re del Mondo" di René Guénon, e, tanto per intenderci, del "Veltro" dantesco. Il Cristo
della Sindone avrebbe potuto avere benissimo questo recondito significato per i Cavalieri
Templari, costituiti in un ordine militare rimontante a San Bernardo, che partecipava sia dello
spirito cristiano, che del braccio armato del potere.

XVII. REX MUNDI

XVII.1. Scrive Luciano Canfora (Storia della letterattura greca, Laterza, 2001) che <<si
inaugura coi Settanta una costante opera di traduzione in greco - in quell'ecumenico greco
ellenistico - di opere che il mondo ebraico destina ad una circolazione più ampia (sia agli
Ebrei dell'area siro-egizia sia a non Ebrei): un'opera che ha talora precisi fini politici come
sarà il caso, in età flavia, delle opere storiche (Antichità e Guerra giudaica) di Giuseppe
Flavio>>. Naturalmente non si tratta di un puro e semplice lavoro di traduzione, ma anche di
rielaborazione e di arricchimento. Così, ad esempio, è nel corso del processo di formazione
della redazione greca dell'Antico Testamento (la cosiddetta Bibbia dei Settanta), che vengono
a confluire nel 'corpus' alcuni libri che la tradizione ebraica non ritiene canonici, quali
appunto i Maccabei. La leggenda dovuta alla 'Lettera di Aristea a Filocrate' - un amplissimo
scritto che può collocarsi al tempo di Tolomeo Filometore (180-145 a.C.) - vuole che
Tolomeo Filadelfo, consigliato da Demetrio Falereo, desiderando avere nella Biblioteca una
traduzione dei libri sacri ebraici, ottenne che il gran sacerdote Eleazaro gli inviasse "72 dotti
giudei", i quali, segregati nell'isola di Faro, condussero a termine la traduzione in "72 giorni"!
In realtà sembra che il lavoro di traduzione, iniziato nel III secolo a.C., sia durato almeno un
centinaio d'anni (cfr. Raffaele Cantarella, Storia della letteratura greca). Ma questo fatidico
numero <<72>> corrisponde, sorprendentemente, a quello dei membri del Sinedrio che
incolpò Gesù davanti a Pilato, e proprio dal Vangelo di Luca (10,1-16) apprendiamo che
Gesù stesso incaricò <<settantadue seguaci>> (cfr. ad es. Sanders, op. cit., pag. 128) di
precederlo sulla strada verso Gerusalemme, due a due, al completamento del suo ministero. I
'settantadue' ritornarono e riferirono del 'successo' dei loro 'esorcismi' (Lc 10,17). In altre
parole, Gesù inviò a Gerusalemme, prima della Pasqua, i suoi Terapeuti, ben introdotti nel
mistero delle Scritture, ai quali non appartenevano certo gli apostoli, che erano, invece,
soltanto i semplici e indotti operai della vigna, i rappresentanti e al tempo stesso i destinatari
della predicazione universale ai popoli, che ovviamente doveva prendere le mosse da Israele e
dalla Giudea, col superamento dell'ormai sterile giudaismo quale religione ristretta ai
circoncisi.

XVII.2. Il 'Mistero Gesù' è tornato di recente alla ribalta televisiva sui 'Rai 3', in un
trasmissione andata in onda venerdì 13 dicembre 2002 in prima serata, presenti il matematico
Piergiorgio Odifreddi, lo scrittore cattolico Vittorio Messori, il biblista Gianfranco Ravasi, e
Pierluigi Baima Bollone, medico legale torinese e notissimo studioso della Sindone. Abbiamo
già ricordato che tra gli affascinanti libri di Odifreddi figura anche Il Vangelo secondo la
Scienza: la prefazione a questo libro (datata "Torino, 1997 dell'era cristiana"!), reca
allusivamente alla pari dignità delle religioni mondiali, anche le date 5757 dell'era ebraica,
5099 dell'era induista, 2540 dell'era buddhista, 1417 dell'era islamica e 157 dell'era baha'i. In
realtà Odifreddi non si occupa affatto di 'critica neotestamentaria', un argomento che neppure
sfiora, ma soltanto della 'questione religiosa alla luce della scienza'. Raccogliendo una delle
tantissime citazioni di questo straordinario libro ed eccezionale Autore, va ricordato che
secondo Jung (cfr. pag. 15, con riferimento all'opera Psicoterapia e cura d'anime), <<le
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religioni sono sistemi di guarigioni per i mali della psiche, dal che deriva il naturale corollario
che chi è spiritualmente sano non ha bisogno di religioni>>. Obbiettiamo soltanto (cfr. C.
Moeller, op. cit., pag. 147) che Eschilo per primo ha pronunciato "una delle parole più
sublimi sul dolore", poiché <<I mortali sopra tramiti / esso avvia di sapienza>> (Eschilo,
Agamennone). Agamennone, nel pensiero del poeta tragico, è infatti "ammaestrato" dal
dolore. Lo 'scandalo della croce' è dunque lo strumento stesso della 'redenzione dai peccati
del mondo', il che secondo noi non fa una grinza.

XVII.3. L'attesa pagana di una nuova età dell'oro era una renovatio mundi, miracolosa
resurrezione, o nuova fioritura, del ramo secco e invernale dell'umanità. E' questo il senso di
una medesima attesa, presente in ugual modo sia nel mondo pagano che in quello giudeo. La
qual cosa parebbe inesplicabile, se essa non trovasse, invece, un radicamento nei fattori attivi
della storia. L'insorgente cristianesimo, predicato dagli 'inviati', cioè gli apostoli degli "Atti",
itineranti di città in città, soprattutto Pietro e Paolo attraverso le innumerevoli sinagoghe della
'diaspora' dalle coste mediterranee fino a Roma ('nuova Babilonia' la definì San Pietro, in una
lettera canonica a lui attribuita, ricomprendendo anche i 'gentili', cioè i non circoncisi),
somiglia alquanto ad un 'secondo esodo', se si ripensa, soltanto, alla maledizione del fico, che
sotto la Pasqua ebraica non dava ancora i suoi frutti (Mc. 11, 12-14). Ai predicatori della
Buona Novella si era aggiunto un certo Apollo (o Apollonio), si badi bene, proveniente da
Alessandria, che gli Atti descrivono come "introdotto", ma non a perfetta conoscenza
(s'intende) della 'dottrina paolina' su Gesù Cristo. "Apollo" è la prova stessa delle origini
'egiziane' del movimento cristologico, teso appunto a riformare l'ebraismo e ad esportare nel
mondo pagano il messaggio della 'fratellanza universale'. Il Re dei Giudei è perciò anche il
"Salvatore del mondo", cioè il rinnovatore della Storia. Gesù è dunque il "sommo sacerdote"
di una religione di salvezza, il redentore dal peccato di tutta l'umanità, discendente dalla
creazione divina. E tale si è conservata, nei millenni, la vera sostanza del cristianesimo
'cattolico apostolico romano', a riprova della straordinaria energia del messaggio 'universale'
di Cristo. L'universalismo cristiano, che divenne in seguito 'cattolicesimo romano', proviene,
esattamente, dalla rottura del vecchio schema preclusivo giudaico, isterilito nell'osservanza
'alla lettera' della legge (la questione del 'sabato' riflette perfettamente quest'assurdo
irrigidimento). Esso deriva dall'originaria ed intenzionale propensione diffusiva, raggiunta
con la predicazione di Gesù nel tempo esattamente previsto della 'pienezza'. Si tratterebbe,
cioè, di un indirizzo già in origine caratterizzante la "buona novella", per quanto alcuni passi
evangelici possano far ritenere, al contrario, che il 'messaggio' dovesse riguardare soltanto il
mondo ebraico, e non espandersi 'toto orbe', come invece puntualmente avvenne. L'impronta
della predicazione di Gesù, legata com'è al grande e prioritario significato del discorso della
montagna (che ancora conserva, nelle traduzioni, il ritmo dell'originale scansione poetica in
aramaico) malgrado che i 'sinottici' lo pongano, l'uno (Matteo), sulla "montagna", e l'altro
(Luca), in "pianura" (mentre Marco, tralasciandolo, ne riporta, qua e là, poche sentenze
staccate: cfr. G. Ricciotti, pag. 315 ss.), lascia perfettamente intendere il senso globale del
messaggio, destinato all'umanità tutta e non soltanto agli ebrei del Tempio, che ormai era
divenuto il superato simbolo di una unità, destinata a sciogliersi altrimenti. Individuato, in
questo senso, il vero significato della missione apostolica e del kèrigma evangelico, che in
effetti riguardare, direttamente, i primi due comandamenti mosaici, e, di conseguenza, anche
l'ardita "promessa" del Regno dei Cieli, non è difficile, a questo punto, scorgere nel
cristianesimo insorgente la sua autentica valenza universale, che lo rese così forte ed
accettabile dalle più diverse sensibilità storiche e antropologiche dell'intero bacino
mediterraneo, Roma compresa. Rudolf Bultmann aveva perfettamente inteso questo aspetto,
concludendo per l'inutilità, ed anche l'impossibilità stessa, di una ricostruzione 'storica' della
figura di Gesù. La Sua venuta segnò, infatti, la vera svolta del mondo antico, con la
conseguente 'morte' degli antichi 'dèi sanguinari'. Ma l'oscuro "Pan" non morì del tutto,
malgrado l'esoterismo di Plutarco gran sacerdote delfico.
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XVIII. PAN NON E' MORTO

XVIII.1. Notevolissimo ci è parso a questo riguardo lo studio di Flavio Barbiero (vedi


Episteme n. 5), secondo cui Giuseppe Flavio, il grande storico ebreo e discusso capo militare
fariseo, poi passato ai Romani, favorì, sotto i Flavi suoi protettori, la diffusione del
'cristianesimo', che a Roma era giunto già al tempo di Nerone, e forse anche prima, nell'età
dell'imperatore Claudio, che, infatti, aveva bandito da Roma molti ebrei, per i feroci 'dissidi'
scoppiati tra loro (fra questi profughi 'ebrei' da Roma, andrebbero annoverati Aquila e
Priscilla sua moglie, di cui agli Atti, 18, 1 ss.). L'argomento merita attenzione per varie
ragioni. Una di queste ragioni riguarderebbe l'ebraismo della 'diaspora', che ad Alessandria
d'Egitto, sotto i Tolomei, sembra essersi precocemente discostato da quello di Gerusalemme.
Filone d'Alessandria, il grande filosofo di origine e religione giudaica, mediatore tra
platonismo ed ebraismo, non solo era il fratello di un influentissimo personaggio dell'apparato
statale egiziano molto legato ai Romani, ma egli stesso si era recato a Roma (verso il 39-40
d.C.) per una delicatissima missione politico-diplomatica nei confronti dell'imperatore
Caligola, che tuttavia si risolse in un clamoroso fallimento. Secondo San Gerolamo, Filone
proveniva dalla "casta sacerdotale", e gli elementi biografici contenuti nella sua vasta opera,
soprendentemente pervenuta pressoché integra, lasciano intravvedere un'alternanza di vita
attiva e di momenti comtemplativi, con netta prevalenza di questi ultimi, denotati, tra l'altro,
dal vivo interesse per le prime manifestazioni della vita monastica, quali furono quelle delle
due menzionate comunità ebraiche, rispettivamente denominate dei "Terapeuti" (cfr. De vita
contemplativa) e degli "Esseni" (invece documentata nel Quod omnis probus liber sit e
nell'Apologia pro Judaeis). A questo punto agguerriti investigatori come Padre Brown e il
commissario Maigret comincerebbero probabilmente a sospettare che le radici della 'nuova
alleanza', o meglio del 'secondo esodo', debbano essere ricercate nell'assai complesso,
multifome e variegato mondo alessandrino, ed anche nel 'pensiero' stesso di Filone. Gli anni
oscuri di Gesù (tanto per plagiare il titolo d'un famoso saggio di Raymond Aron) potrebbero
in effetti nascondere una lunga permanenza in Egitto, ben al di là dell'episodio della semplice
'fuga' della 'sacra famiglia', appositamente avvertita da un angelo, come racconta Matteo (cfr.
2, 13-15), il solo evangelista che narri quest'episodio, mentre Luca (cfr. 2, 39-51) si occupa
(in una paradossale concordia discors - concordanza discorde! - che non ha mai cessato di
insospettire la critica evangelica 'razionalista') soltanto della 'vita nascosta a Nàzaret', e del
'ritrovamento di Gesù dodicenne' tra 'i dottori della legge'. La storia è ricca di pieghe oscure,
aperte a tutte le possibilità. Ma qui si tratta del 'messaggio di pace' universale, rivolto a tutti
gli 'uomini di buona volontà' (Lc. 2,14), che stabilirà la "nuova alleanza", per la quale non c'è
più bisogno di un tempio nazionale eretto in pietre superbe, ed invece segno di
contrapposizione e di distacco, ma del superamento 'morale' delle contrapposte identità tra i
popoli. Come abbiamo ricordato, da pochi anni Erode il Grande aveva ricostruito il 'secondo
tempio', e Gesù dichiarava che sarebbe stato capace di edificarne un altro in soli tre giorni! E
così accadde veramente: quel 'nuovo tempio' potrebbe essere la Sindone, occorre
sottolinearlo, "non fatta da mani d'uomo", il "sudario" di Gesù Cristo, re e sommo sacerdote,
risorto nel 'Regno di luce' del suo Padre Celeste. A questa autentica 'immortalità della luce'
mirarono infatti i Terapeuti alessandrini, seguaci di Gesù ed esperti di alchimia, attraverso
quel 'rito' di riproduzione fotografica 'ante litteram' delle fattezze mortali del Cristo, che portò
alla realizzazione della Sindone, poi gelosamente custodita, nell'assoluto segreto, durante
primi secoli cristiani. Lo stesso lenzuolo sacro che fu mostrato a San Francesco dai Templari
che ne erano venuti in possesso nel 1204 con la presa di Costantinopoli e che mantenevano
gelosamente custodito il medesimo segreto. Un'affascinante 'ipotesi', che farebbe da 'trait-
d'union' tra epoche diverse, però legate da un medesimo filo, in questo caso alla trama alterata
di un lungo e sottile pezzo di lino.
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XVIII.2. La contiguità tra Francesco d'Assisi e Gesù è un dato incontroverso, che ha fatto di
San Francesco <<l'Alter Christus>> anche a ragione delle stimmate. Quel Cristo, assisistito
dalle profezie, e parlante, nei Vangeli, con assoluta dottrina. Daniele è l'ultimo libro (scritto
in tre lingue diverse: ebraico, aramaico e greco) dell'Antico Testamento, come Genesi (dove si
trova il vaticinio di Giacobbe) è il primo. Ultimo libro anche in senso profetico, tale è la
ricchezza, e la novità, di preannunci sul futuro. Lo stesso Renan sostenne che <<il libro di
Daniele dà in qualche modo alle speranze messianiche la loro ultima e difinitiva
espressione>>. Ci riferiamo, in questo caso, alla profezia delle 'Settanta Settimane' del
capitolo 9 di Daniele, che inizia così: <<Settanta settimane sono fissate per il tuo popolo e la
città santa per far cessare l'iniquità, per sigillare il peccato, per espiare l'iniquità, per
addurre giustizia eterna, per suggellare visione e profezia e per ungere il Santo dei Santi>>.
Il dato accomunante Francesco d'Assisi al Gesù storico dei Vangeli è ciò che possiamo
chiamare 'essenza del cristianesimo', unico e vero mistero della fede. Si tratta, in realtà, di una
trama evolutiva, di un passaggio storicamente necessitato. Le profezie si spiegano così, e così
esse, di fatto, si realizzarono. Francesco stesso è presagito dal profetismo illuminato di
Gioacchino da Fiore. Nel caso di Gesù, non si tratta di settanta settimane, ma di periodi
settenari. Dunque le 'settanta settimane' sarebbero 490 anni in totale. Partendo dal decreto di
Artaserse (di cui parla un altro libro della Bibbia), emanato nel settimo anno del suo regno, e
cioè nel 458-457 a. C., la fine dei 490 anni sarebbe caduta nel 32-33 d.C.! (Qui non
interessano altre possibilità e neppure altre soluzioni). Ciò che conta, è che Daniele non solo
profetizza un Messia, che sarà soppresso, ma accenna anche al <<popolo di un principe che
verrà e distruggerà la città e il suo santuario>>. Una profezia puntualissima, verificatasi con
la guerra giudaica, che indica anche il tempo preciso della venuta del 'Messia'. E si tratta della
stessa 'Profezia dell'Astro', che avrebbe poi accompagnato l'ultima rivolta ebraica nel 132-135
contro i romani (i 'kittim' del Rotolo della guerra: cfr. Moraldi, op. cit., pag. 271 ss.) da parte
del 'messia militare' Simeone 'bar Kosba'. Tra l'altro, la traslitterazione del nome di
quest'ultimo 'messia' (ufficialmente riconosciuto come tale dai giudei rivoltosi), ha dato luogo
a qualche problema, ed infatti il lettore lo troverà diffusamente citato, in modi diversi, nei
vari testi. A quanto pare (cfr. M. Baigent ed altri, Il Mistero del Mar Morto, op. cit., pag. 34)
il capo dell'ultima rivolta contro i romani era, per i suoi sostenitori, 'bar Kokba', cioè il figlio
della Stella, mentre, per i suoi avversari, era 'bar Kozba', il figlio della Menzogna (notiamo,
tra le righe, che una 'stella' caratterizzò la 'bandiera rossa' del comunismo, e che Stalin, ex
seminarista georgiano, si faceva chiamare compagno 'Koba').

XVIII.3. L'attesa giudaica non aveva trovato placazione alcuna nel pacifismo di Cristo,
mandato a morte col pretesto, peraltro rispondente a verità, di essere il 're dei Giudei'. Lo
scontro politico, sulla fedeltà ai Romani, tra le varie sétte, era feroce. E questo Cristo, legato
al movimento alessandrino e venuto a predicare, da fuori, il sovvertimento sociale, in nome
d'un pacifismo utopistico, apparì, dunque, un perfetto estraneo, tra l'altro un pericoloso
capopolo, di cui sbarazzarsi quanto prima. Ciò faceva comodo sia ai sacerdoti fedeli al
regime, che agli stessi agitatori politici, che, all'estremo opposto, predicavano invece lo
scontro più duro (e che forse, con Giuda Iscariota, tradirono Gesù stesso, al momento del
massimo consenso, constatando che la sua predicazione volgeva a ben altro scopo). C'era
dunque un'attesa nel mondo ebraico, a quanto pare specifica e dettagliata. La 'stella in
Oriente', seguita dai Re Magi secondo Matteo, potrebbe forse essere identificata con la
'congiunzione' Giove-Saturno, osservata da Keplero a Praga, nel dicembre del 1603 (ma
esistono altre possibilità, anche se, come scoprì lo studioso danese Muenter in un
commentario ebraico medievale al libro di Daniele, secondo i dotti giudei la congiunzione
Giove-Saturno, nell'allusiva costellazione dei Pesci, era proprio uno dei 'segni' della nascita
del Messia). Ciò che, invece, più conta, è il fatto che c'era una parallela attesa di "svolta" nel
mondo pagano. In aggiunta a quanto abbiamo già riportato a proposito di Virgilio, Flavio
Giuseppe (Guerra giudaica, 6, 5) sostiene testualmente che <<quello che incitò
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maggiormente (gli ebrei) alla guerra (nella rivolta del 66-70 d.C.) fu (proprio) un'ambigua
profezia, ritrovata ugualmente nelle sacre scritture, secondo cui in quel tempo "uno"
proveniente dal loro paese sarebbe diventato il dominatore del mondo>>. Secondo Marta
Sordi (loc. cit., pag. 48 ss.), la rivolta del 66, quella cioè che precedette l'ultima rivolta
ebraica del 132-135 d.C., e che assistette, nel 70 d.C., alla distruzione, probabilmente
accidentale, del secondo Tempio da parte dell'esercito di Tito, <<era stata in realtà alimentata
dall'interpretazione politica delle grandi profezie messianiche, da Isaia a Michea, da Geremia
ad Ezechiele, secondo le quali il liberatore sarebbe uscito da Sion, sarebbe stato un
discendente di David ed avrebbe dato leggi a tutte le nazioni: a Roma, la profezia che il
dominatore del mondo sarebbe venuto dalla Giudea circolava già al tempo di Nerone
(Svetonio, Vita Neronis, 40, 2), a cui i mathematici avevano preannunziato la destituzione,
ma avevano altresì promesso anche <<il dominio dell'Oriente>>, ed alcuni, esplicitamente,
<<il regno di Gerusalemme>>. Essa acquistò attualità al tempo della rivolta giudaica e dopo
la vittoria: Tacito (Historiae V, 13, 2) parlando della resistenza di Gerusalemme dice che
<<nei più era presente la convinzione che secondo le antiche scritture sacerdotali proprio in
quel tempo l'Oriente avrebbe acquistato vigore e uomini partiti dalla Giudea si sarebbero
impadroniti del potere>>. Ed aggiunge: <<Queste oscure espressioni avevano preannunciato
Tito e Vespasiano>>. Svetonio (cfr. Vita di Vespasiano, 4) conferma la notizia, e la sua
interpretazione suona quasi con le stesse parole: <<Si era diffusa in tutto l'Oriente un'antica
profezia, secondo cui in quel tempo uomini partiti dalla Giudea si sarebbero impadroniti del
potere>>. Questo era stato predetto sull'<<imperatore romano>> (come gli avvenimenti
dimostrarono in seguito). Ma i Giudei, <<interpretando la profezia come riferita a se stessi, si
ribellarono al loro governatore…>>. La profezia dell'età dell'oro, riecheggiata da Virgilio,
maestro di Dante nell'affresco poetico della Comedia, corrisponde esattamente ad una 'buona
novella', così come l'escatologia cristiana dei 'tempi ultimi', resa ancor più drammatica
nell'Apocalisse, guarda all'esatto contrario, cioè alla giustizia vendicatrice di un Cristo
"giudice" al di là dei vivi e dei morti. Un medesimo ambiente culturale, nell'attesa del
rinnovamento, potrebbe aver prodotto tutte queste varianti. E difatti, durante le luttuose
guerre civili dell'ultima età repubblicana <<circolava un gran numero di apocalissi d'origine
orientale>> (come scrive M. Eliade, in Storia delle credenze religiose, vol. II, pag. 363,
Sansoni, 1980). Quelle note con il nome di Oracoli Sibillini annunciavano la prossima caduta
della potenza romana. Quando Cesare passò il Rubicone il neo-pitagorico romano Nigidio
Figulo (e qui va sottolineato il riferimento al 'neopitagorismo romano', sul quale insiste
Carcopino e al quale aderì lo stesso Cicerone, in particolare nel Sogno di Scipione) annunciò
l'inizio di un dramma cosmico-storico, che avrebbe messo fine a Roma e alla stessa specie
umana (vedi Lucano, Farsalia, 639, 642-645). Ma Virgilio - prosegue Eliade - vuole
rassicurare i Romani, e nell'Eneide (I, 255 ss.) Giove, rivolgendosi a Venere, la rassicura di
non voler fissare ai Romani nessun tipo di limitazione spaziale o temporale: <<Ho loro
concesso un impero senza fine>>. Roma potrà estendersi (Eneide, VI, 798) fino alle regioni
che <<si trovano al di là delle vie del sole e dell'anno>>. Si noti il richiamo in questo passo
di Eliade alla 'profezia pitagorica'. Oggi si ammette l'esistenza di un certo collegamento tra
dottrina pitagorica e cristianesimo delle origini, e tra gli studiosi che la pensano così, si
colloca il noto biblista Angelo Penna (op. cit., I, pag. 157), che appunto si rifà a Zeller,
Schuerer, Cumont, Lagrange ecc. Nel Foro romano l'Arco di Tito ci ricorda la presa di
Gerusalemme e la sconfitta ebraica. Varie suppellettili sacre del Tempio furono portate a
Roma dall'esercito vittorioso (la Fig. 12 rappresenta un bassorilievo dell'Arco di trionfo in
oggetto; vi si nota il particolare del candeliere a sette bracci simbolo dell'ebraismo). Di tali
cimeli si è persa la traccia per sempre, ma il 'tempio' universale della nuova alleanza cristiana
fu eretto proprio a Roma, sul Vaticano, segno evidente della 'veridicità profetica' ed anche del
fatto che la necessità storica è una sorta di 'mistero causale'.
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(Fig. 12)

XVIII.4. A chiusura del capitolo intitolato "Il crepuscolo degli dèi" (op. cit., pag. 412),
Mircea Eliade ha un autentico colpo di genio (vedi "L'autobus che si ferma ad Eleusi", con
riguardo all'incendio del santuario, che avvenne, come narra Eunapio, nel 396 d.C., da parte
dei Goti di Alarico, che aveva al seguito "uomini in nero", cioè monaci cristiani). Così Eliade,
grandissimo studioso di storia delle religioni: <<Tuttavia, se ad Eleusi scomparve il rituale
iniziatico, non per questo Demetra abbandonò il luogo della sua teofania più drammatica; è
vero che, nel resto della Grecia, San Demetrio ne aveva preso il posto, divenendo il patrono
dell'agricoltura, ma a Eleusi si parlava - e si parla ancora - di santa Demetra, santa
sconosciuta altrove, e mai canonizzata ... L'episodio più toccante della mitologia 'cristiana' di
Demetra avvenne all'inizio del febbraio 1940 e fu ampiamente riferito e discusso dalla stampa
ateniese: a una fermata dell'autobus Atene-Corinto salì una vecchia <<magra e rinsecchita,
ma con grandi occhi molto vivaci>>; poiché non aveva denaro per pagare il biglietto, il
controllore la fece scendere alla stazione seguente - quella di Eleusi, appunto. Ma il
conducente non riuscì più a mettere in moto l'autobus e, alla fine, i viaggiatori decisero di fare
una colletta per pagare il biglietto della vecchia. Questa risalì sull'autobus, che ora potè
ripartire. Allora la vecchia disse: <<Avreste dovuto farlo subito, ma siete degli egoisti; e già
che sono qui, vi voglio dire ancora una cosa: sarete castigati per il modo in cui vivete; vi
saranno tolte persino l'erba, e l'acqua!>>. <<Non aveva ancora finito la sua minaccia>> -
continua l'autore dell'articolo pubblicato sull'Hestia, riportato da Eliade, <<ed era scomparsa.
. . Nessuno l'aveva vista scendere. E si andò a guardare il blocchetto dei biglietti per
convincersi che era veramente stato staccato un biglietto>>. Pan doveva morire davvero,
stando all'annuncio di Tamo. In realtà, il Dio bizzarro e sanguinario della natura indomata,
continuò, imperterrito, a suonare il suo zufolo irridente. L'ultimo sforzo dell'imperatore
Giuliano l'Apostata per ripristinare gli dèi pagani cadde nel vuoto, ma non per questo Pan
resuscitò, così come non era mai morto davvero. Fu il 'pagano' Costantino a fare del
cristianesimo la religione di Stato (formalmente sancita da Teodosio nel 387), e il di lui
prolifico biografo, Eusebio di Cesarea, scrisse, tra l'altro, una Storia ecclesiastica, opera
fondamentale per la ricostruzione delle oscure origini del cristianesimo insorgente. Nei
riportati passi, Eliade intende sottolineare la molteplicità delle epifanie del sacro, e in ogni
caso allude, in modo evidente, alla sistematica sostituzione dei riti cristiani rispetto a quelli
pagani, attraverso quella singolare stratificazione, per cui il dato reale si mescolò,
ovviamente, a quello leggendario o puramente inventato. Una strada, questa, che conduce
lontano nell'esercizio critico, e che mostra alcune singolari affinità tra cristianesimo e i culti
isiaci, quello del dio Mithra, di Dioniso, di Adone, del Pastore di Ormuz ecc., che si erano
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ampiamenti diffusi, nella società romana, proprio in nell'epoca in cui il cristianesimo si


affacciava oltre i confini della Giudea, come mostrano, del resto, alcune sorprendenti scoperte
archeologiche fatte nelle due città cancellate dall'eruzione del Vesuvio del 79 d.C. : una
probabile croce cristiana venerata in un angolo della sua stanzetta da uno schiavo di Ercolano,
ed il quadrato magico inciso su una colonna della palestra di Pompei, che sembra di tipo
iniziatico e criptico, ancora aperto ad una precisa conclusione (a questo Quadrato magico è
dedicato un singolare libro di Rino Camilleri, Rizzoli, 1999, con prefazione di V. Messori). Il
che ci riporta alla predicazione apostolica e alla diffusione del cristianesimo a Roma, "nuova
Babilonia", con lo straordinario annuncio del "risorto dai morti", avvenuta ben prima
dell'inizio della Guerra Giudaica e della distruzione del grandioso Tempio di Gerusalemme,
di cui resta oggi soltanto il 'muro del pianto' (ma, a proposito della distruzione del Tempio da
parte dei Romani, vedi quanto se ne è detto nella sezione XVI.1; si potrebbe aggiungere che il
famoso 'muro', scomparso tutto quanto ricordava il vero ultimo tempio, la costruzione
alquanto recente di Erode il Grande, non era altro che un muro di sostegno del terrapieno su
cui sorgeva l'edificio, e che continuò a essere utilizzato dall'acquartieramento romano
mantenuto per impedire a chiunque, fino ai tempi di Costantino, di recarsi a venerare i ruderi
che restavano nel 'luogo sacro'). Questo Gesù è per i pagani una sorta di 'dio asino', in un
blasfemo graffito ritrovato sul Palatino, che sembra riportarsi all'Asino d'oro di quel teurgo
mistificatore, grande scrittore e lestofante, di Apuleio. Ma il mistero della 'tomba vuota'
avvinse la religiosità dell'Impero, e in pochi secoli lo conquistò fatalmente al nuovo
significato della storia. La civiltà antica non si ruppe, ed anzi, i suoi fili continuarono a
legarsi nel travaglio delle epoche. Un solo pezzo di stoffa, un sottile lino lungo 4,17 metri e
poco più largo d'un metro, recante due immagini 'negative' e contigue d'un uomo martirizzato
con la crocifissione, sembra connettere tra loro venti secoli di storia umana! Infatti è nel
nome di Cristo che i secoli hanno parlato, narrandoci di questo 'segreto', che persiste, e
continua, ancora, a sfidare la ragione. Il "mistero della tomba vuota" potrebbe infatti
consistere nel segreto stesso della prima fotografia chimica della storia, realizzata a
Gerusalemme dagli alchimisti della setta religiosa dei Terapeuti quasi venti secoli prima di
Daguerre.

PARTE TERZA

XIX. LA TOMBA VUOTA

XIX.1. E' davvero sorprendente che Gesù possa essere stato processato e condannato a morte
in quel così esiguo lasso di tempo che va dal giorno della Pasqua (14 o 15 Nisan, secondo il
computo dei diversi calendari in uso), durante il quale venne celebrata "l'ultima cena"
secondo il rito essendo, fino alla conclusione del periodo dei 'sette giorni' della festa degli
Azzimi, poi divenuta la 'settimana santa'. Gesù aveva detto ai discepoli di andare a
Gerusalemme dove avrebbero incontrato un uomo con una brocca d'acqua. Dovevano
seguirlo, e vedere in quale casa entrava. Al padrone della casa dovevano dire che il
<<maestro>> (sic) avrebbe usato la stanza superiore per la sua cena pasquale. Allora i
discepoli <<prepararono per la Pasqua>> (vedi Mc 14,12-16 e paralleli), nel senso che forse
portarono un agnello che avevano ucciso nel Tempio e avevano messo su uno spiedo ad
arrostire (vedi Sanders, op. cit.). Flavio Giuseppe ci fa sapere che i Giudei arrivavano a
Gerusalemme una settimana prima, ma non dice cosa facevano durante questi giorni (Guerra
Giudaica: 6, 290). Poi gli eventi precipitarono. Gesù viene arrestato di notte, riconosciuto da
Giuda con un bacio sulla guancia (altra cosa poco chiara). Strano assai che Giovanni e Pietro
possano assistere all'immediato processo notturno, subito seguito, addirittura nella casa stessa
del sommo sacerdote. Straordinarie ed inesplicabili le ragioni, e le stesse circostanze
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'evangeliche', del tradimento di Giuda iscariota, appunto il Sicario, e tutto il successivo


contorno dei rapidissimi accadimenti, fino al processo romano, e all'esecuzione della
condanna a morte. In questo brevissimo lasso temporale, dal mercoledì santo (o se si vuole
dal martedì in cui si sarebbe celebrata la pasqua secondo il rito esseno), si passa da un Gesù
vivo tra la folla inneggiante dei fedeli, ai processi, al cadavere deposto, e infine alla
resurrezione. C'è poi quel 'Bar-Abba' (Figlio del Padre) in alternativa a Gesù, e perciò il
mistero di questa doppiezza: o l'uno o l'altro; ma sembrano davvero la medesima persona
(malgrado l'omonimo romanzo del premio Nobel per la letteratura, P.F. Lagerkvist). E non
bastando questo, c'è un Simone di Cirene, di cui gli Atti riportano, sorprendentemente, il
nome dei 'due' figli, dei quali sarebbe stata addirittura ritrovata dagli archeologi la tomba a
Gerusalemme. La leggenda ha poi aggiunto la "Veronica" ('vera-immagine'), e il 'fazzoletto'
col quale venne asciugato il sudore di Gesù, anch'esso donato a re Abgar di Edessa. C'è poi il
pentimento di Pilato, e quant'altro si accompagna a questa pia leggenda assolutrice
dell'avidissimo procuratore romano di origini italiche, compreso il "laghetto di Pilato", sui
monti Sibillini, che ne porta ancora il nome. Ma su un punto i Vangeli hanno certamente
ragione. Pilato rivestiva esattamente la carica indicata. Le fonti cristiane del secondo secolo,
Giustino (cfr. Apologia, I, 35 e 38, nell'edizione Città Nuova, 2001) e Tertulliano (cfr.
Apologeticum V, 2 e XXI, 24 nell'edizione Rizzoli, 1984), accennano ad una <<relazione>>,
inviata a Tiberio da Ponzio Pilato sulla vicenda di Gesù. Eusebio data l'informativa all'anno
34. Questa "relazione" è considerata dagli storici (M. Sordi) del tutto plausibile, e peraltro da
connettere con l'esecuzione del protomartire Stefano, e della conseguente punizione di questo
abuso, consumato dal Sinedrio, da parte dei Romani nell'anno 36-37. Secondo Tertulliano,
Pilato era <<già in sua coscienza cristiano>>. E' decisamente troppo. Ma è storicamente
provato che il cristianesimo era precocemente entrato addirittura nella <<casa di Cesare>>.
Nella Storia della grande Armenia di Mosè di Korene, che scrive nel V secolo, viene riferito,
ancora una volta, lo scambio di lettere tra Gesù (<<la cui fama si era sparsa in tutta la
Siria>>, come riporta il Vangelo) e re Abgar, il toparca di Edessa dal 13 al 50 d.C.
Paradossalmente coloro che ammettono la veridicità della Sindone in realtà sostengono
implicitamente che Gesù non è risorto, per quanto il 'lenzuolo' fu trovato ripiegato, in modo
assai singolare e del tutto fuori dell'ordinario, avvoltolato accanto al sepolcro vuoto. Quel
sudario funebre, trovato accuratamente ripiegato in un certo modo, sarebbe stato appunto la
'Sindone', letteralmente "una veste di lino" usata soltanto da persone facoltose stando a letto
(cfr. Erodoto, Storie, II, 95 ed Eusebio, Storia ecclesiastica, VI, 40,7). Una 'sindone' simile la
indossava, sul corpo nudo, il giovinetto dell'orto del Gethsemani, la notte stessa dell'arresto di
Gesù. Secondo Giuseppe Ricciotti (Vita di Gesù Cristo, op. cit., par. 561), si può supporre
<<che terminata l'ultima cena, egli per simpatia avesse seguito la comitiva di Gesù>> e si
fosse intrattenuto al Gethsemani per qualche tempo <<con gli otto Apostoli>> (quanti quelli
presenti nel monumento funebre di Giovanni di Brienne!) ricoverati nella casupola o grotta, e
che <<dopo un certo tempo, anch'egli si fosse messo a dormire>>. I 'fatti' narrati dagli
evangelisti non possono fornire alcuna spiegazione della formazione dell'immagine della
Sindone, non potendo "aloe e mirra" (molti chilogrammi) spiegare di per sé lo straordinario
fenomeno dell'immagine impressa sulle fibre del tessuto a contatto col cadavere. Del resto, la
'falsificazione' scientifica della Sindone in base alla radiodatazione al carbonio 14 lascerebbe
perfettamente intatto il grande mistero della resurrezione. Una Sindone 'autentica' è invece
paradossalmente scomoda. Essa proverebbe soltanto l'evento morte e non la proclamata
resurrezione. Tra coloro che negano l'autenticità della Sindone, figurano pure il Prof.
Piergiorgio Odifreddi (che prese parte alla trasmissione televisiva sul mistero di Gesù) e il
Prof. Umberto Bartocci, due illustri matematici sulle cui eccezionali capacità logiche non si
può certo discutere. Odifreddi, dal canto suo, fa osservare che sui risultati della 'datazione al
carbonio 14' non possono esservi dubbi, e che si tratta, per di più, di un'impronta, che non può
essere lasciata da un cadavere, in quanto le due immagini, quella frontale e quella dorsale,
differiscono di ben quattro centimetri, ed hanno, tra l'altro, la stessa intensità, oltreché
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presentare alcune altre anomalie che ne compromettono serissimamente l'autenticità.


Abbiamo in precedenza detto che il Prof. Bartocci ha invece avuto modo di esprimersi sulla
Sindone, con la chiarezza che lo contraddistingue, recensendo (cfr. Episteme n. 4, pagg. 329-
33) il libro sulla Sindone del giornalista perugino Carlo Giacchè, il quale sostiene che
l'immagine impressa sul telo sia quella del Gran Maestro templare Guglielmo di Beaujeu
(1273-1291), mentre i già citati C. Knight e R. Lomas (Il secondo messia) sostengono trattarsi
del successore di questi, Jacques de Molay (1294-18 marzo 1314), l'ultimo Grande Maestro
del Tempio prima dell'estinzione dell'Ordine. Le fattezze dell'uomo della Sindone
richiamerebbero direttamente la possanza fisica d'un guerriero templare, ben esercitato nelle
armi, piuttosto che quelle di un 'rabbi', d'un predicatore errante abituato ai digiuni.

XIX.2. Non staremo a ripercorrere la storia della Sindone. E' sufficiente ricordare che sarebbe
pervenuta in mano ai Templari nell'aprile del 1204, secondo la precisa testimonianza del
cronista francese Robert de Clary, il cui manoscritto è conservato nella biblioteca di
Copenaghen, per riapparire poi, quasi due secoli dopo a Lirey, una località non lontana da
Troyes, nella Champagne, dove San Francesco si recava a mercanteggiare con suo padre, e
dove erano sorte le leggende del Graal. Nel 1349, Geoffroy de Charny - già gran cavaliere
templare e marito di Jeanne de Vergy, il cui casato apparteneva a quello di Othon de la
Roche, il predatore della Sindone, conservata a Costantinopoli nel palazzo di Blachernae -
aveva chiesto al papa avignonese Clemente VI <<indulgenze e privilegi>> per la chiesa del
suo feudo di Lirey, annunciando che avrebbe esposto <<quondam figura sive
representationem Sudarii Domini Nostri Jesu Christi>>. Così ricomparve, due secoli dopo,
proprio in terra catara, il telo sindonico, col suo mistero durato fino ai giorni nostri. Questo
lenzuolo miracoloso, che si è salvato, ancora una volta, da un ultimo terribile incendio grazie
all'indomito coraggio dei pompieri di Torino, mostra un Volto straordinario, inquietante al
massimo, con la palpebre fortemente appesantite dalla morte, e una ieraticità sacra,
assolutamente sorprendente anche per gli scettici e i non credenti. Alla Sindone (definita un
"falso copto") ha dedicato un eccellente ed esaustivo lavoro Antonio Lombatti, nel quale
vengono ripercorse tutte le citazioni 'antiche' a proposito del lenzuolo, che, come ad es.
riporta il Venerabile Beda, verso il 750 d.C. era ancora conservato a Gerusalemme come
<<sudarium capitis Domini>>. Ma nessuno, fino ad oggi, ha pensato che certi passi,
contenuti in diversi testi risalenti alle origini del cristianesimo, possano essere letti come
'allusioni criptiche' alla Sindone, e al mistero che la circonda, sempre gelosamente
conservato. L'idea di riportarne un florilegio, a nostro giudizio assai interessante, sarebbe
dunque un'autentica novità, anche se non ci aspettiamo riconoscimenti in questo senso. E si
tratterebbe di una novità tale da fare a meno di tutte le testimonianze di tipo 'storico', in
quanto direttamente riferita all'immagine sindonica, tal quale ci si presenta sotto nostri stessi
occhi. La singolarità delle allegorie sindoniche, dettagliatamente contenute seppure in forma
criptica, ma sempre altamente evocativa, in questi ed altri passi ancora di antichi testi, siano
essi le scritture canoniche che i libri apocrifi, alimenta il fondato sospetto di una pista
consistente, per nulla inventata oppure costruita sull'effetto di una suggestione soggettiva. Ciò
che in effetti sorprende non poco è il coincidente e pressoché identico richiamo alla duplice
immagine impressa nel lino, essendo questa la particolarità assolutamente caratteristica della
Sindone, quale misterioso reperto.

XIX.3. Il Prof. Pierluigi Baima Bollone è dei più illustri sindonologi. I suoi studi ed i suoi
libri risultano senza dubbio avvincentissimi ed altamente informati. Accanto a lui vanno
annoverati tanti altri agguerriti studiosi italiani e stranieri, che in questi ultimi anni hanno
prodotto ricerche e lavori di pregio, soprattutto diretti a contrastare la radiodatazione al
carbonio isotopico 14, che falsificherebbe scientificamente il lenzuolo come contraffazione
medievale ricompresa entro due date di oscillazione limite, che non superano neppure l'età
francescana. Tralasciando ogni richiamo e dettaglio, ciò che ha sempre colpito l'autore del
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presente articolo, è la singolare, perfetta coincidenza dei 'segni' del 'martirio' di Gesù,
desumibili dai Vangeli, con quelli risultanti dall'esame ispettivo della Sindone (famosi, al
riguardo, gli studi di G.B Judica Cordiglia, senza sottrarre nulla a Baima Bollone e agli altri
studiosi italiani e stranieri che si sono occupati di questo importantissimo aspetto). Si può
essere, a buona ragione, scettici quanto si vuole, ma la Sindone possiede un 'fascino tale' da
inquietare fortemente la 'ragione'stessa. Se non è quello il Volto di Gesù, a chi mai può
appartenere quell'espressione regale e sublime, fortemente umana, e allo stesso tempo
'superumana', e, addirittura, 'sovrumana'? Abbiamo accennato a coloro che propendono per
l'immagine di un guerriero, di un templare, e la radiodatazione darebbe loro perfettamente
ragione. Provi però il lettore ad eseguire un semplicissimo esperimento di diffrazione
luminosa attraverso le ciglia, fissando, ad occhi leggermente strizzati, l'immagine del Volto
della Sindone. Con meraviglia vedrà ancor più chiaramente stagliarsi il viso 'umano' di Gesù,
reso più dolce ed attendibile rispetto al 'rigor mortis' da questa possibilità ricostruttiva
dell'onda luminosa. Osserverà quasi un Cristo vivo, ad occhi chiusi, nell'ombra, assorbito nel
mistero della morte, <<chè la secunda nol farà male>> come affermò poeticamente
Francesco d'Assisi, nel Cantico delle Creature, rifacendosi in questo caso all'Apocalisse.
Questo volto addolcito somiglia moltissimo a quello di Gesù secondo l'iconografia edulcorata
delle immagini del Sacro Cuore.

XIX.4. <<Eravamo due separati, eppure ancora uno nella forma. E l'immagine del re dei
re era raffigurata dappertutto su di se stesso>>. E' questo l' <<ADAMO-LUCE>> della
Sindone, in attesa del "punto Omega"? <<Vengo incontro alla mia immagine / e la mia
immagine viene incontro a me>>. Così fu 'fabbricata' la Sindone. Ce lo suggeriscono questi,
ed altri passi ancora, degli antichi scritti cristiani. Nel 1978, il farmacista di Stradella Pietro
Ugolotti, affermò di aver individuato, negli ingrandimenti fotografici di Judica Cordiglia,
fatti nel 1969 e trattati, in quest'ultima occasione con filtri colorati, la scritta <<Nazarenu>>,
proprio sopra l'arcata sopracciliare sinistra. Successivamente il Prof. Aldo Marastoni
dell'Università Cattolica di Milano, sacerdote e importante filologo, affermò di aver letto
"alcune lettere dell'alfabeto quadrato ebraico" al di sopra del sopracciglio destro: un <<tau>>,
una <<wau>> e una <<iod>>, che sarebbero caratteri di fine parola. Si tratterebbe, cioè, di
una scritta tracciata con un pennello in un cappuccio d'infamia o mitra, che sarebbe poi
trapassata al lenzuolo. Al centro della fronte crede di poter leggere <<iber>> al di sopra, e
<<ib>> al di sotto. Egli vede inoltre caratteri latini con base verso il lato lungo del lenzuolo,
paralleli alla metà destra del volto. Qui legge, dal basso in alto, la scritta <<innece>>,
interpretabile come <<in necem>>, vale a dire 'a morte'. Sulle foto di Ugolotti e quelle di
Tamburelli, realizzate con tecnica tridimensionale, Marastoni legge <<Neazare>>, residuo di
'Nazarenus': il dittongo 'ae' rivelerebbe l'incertezza grafica nel rendere la pronuncia semitica.
Egli osserva pure, nel quadrante inferiore sinistro del volto, una <<T>>, in carattere romano
lapidario, con base verso l'interno del lenzuolo. Al proposito non viene avanzata alcuna
ipotesi. Sul negativo delle foto scattate nel 1931 da Giuseppe Enrie (si trattava di "un noto
fotografo torinese, titolare di un grande studio fotografico cittadino, frequentato dalla società
bene dell'epoca, e direttore di una rivista specializzata in fotografia", tra i maggiori estimatori
di Secondo Pia, che fu il primo a fotografare il sacro lenzuolo nel 1898), Marastoni rileva,
poco sopra il ginocchio destro, una scritta a penna in caratteri pregotici (impiegati nell'area
gallica fino all'XI secolo) intorno a due linee a croce, che dai frammenti che apparirebbero,
viene così ricostruita: <<Sanctissime Jesy misere nostri>>. Nel 1983, dall'elaborazione
elettronica delle immagini sindoniche, sarebbe stata rilevata l'impronta d'un filatterio, cioè un
contenitore di passi della Legge, che gli ebrei legavano alla fronte o al braccio sinistro, con
strisce di tessuto o di cuoio anch'esse recanti scritte religiose. Nel 1988 Oswald Scheuermann
avrebbe rilevato sul telo l'impronta di un amuleto con la scritta <<Marà(dak)ran i>>, cioè
<<Signore ricordati di me>>. Il problema dei caratteri ebraici sulla fronte è stato riesaminato
dal medico legale Roberto Messina e dall'esperto di lingue semitiche Carlo Orecchia
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dell'Università di Milano. A loro avviso la scritta 'quadrato ebraica' che vi si leggerebbe:


<<milk hw' hyhwdym>> oppure <<mich dy hyhwdyn>>, in entrambi i casi significherebbe
<<Questo è il Re dei Giudei>>. Ci sono poi le due monetine, del diametro di 1,5 centimetri
e del peso di 1,5 grammi, che chiudono le palpebre di Gesù morto. Sono di Tiberio Cesare (in
greco 'Tiberiou Kaicaros'). Queste monetine romane, con l'immagine di un 'lituo' (messa in
evidenza dai fortissimi ingrandimenti eletronici), furono ritrovate, in antiquariato, proprio da
Ian Wilson e dal Prof. F.L. Filas, un gesuita dell'Università di Chicago. Che si tratti forse di
abbagli, di miraggi della mente, di immaginarie 'macchie di Rorschach'? Trascuriamo pollini
vari, grumi di sangue, esame del lino (in tessitura 'tre su uno'), radiodatazione al carbonio e
quant'altro, rinviando agli accuratissimi testi di Baima Bollone, di G. Fanti ed E. Marinelli,
nonché di A. Lombatti e di M.G. Siliato (siano essi a favore della Sindone, o contro come
Lombatti). Occorre però sottolineare quanto esattissimamente affermato dal Prof. Adalberto
Piazzoli, ordinario di fisica generale all'Università di Pavia. <<L'immagine della Sindone di
Torino non può essere stata provocata da un corpo avvolto, né morto né vivo, né sudato né
spalmato né dipinto, né emanante qualunque forma di un'improbabile radiazione. E ciò per
una semplice ragione di geometria euclidea: l'impronta del volto (limitiamoci a questo) stesa
su un piano apparirebbe deformata, poiché il modello non era piano>> (riportato da Lombatti,
in Sfida alla Sindone, op. cit., pag. 31). Tra i vari tentativi volti a riprodurre la Sindone (tutti
falliti), va segnalato quello del Prof. Nicholas Allen, con la modalità di proiezione
dell'immagine verticale d'un uomo appeso, attraverso lenti di cristallo di rocca già conosciute
in età alessandrina (si noti la costante 'egiziana' della Sindone), fatta passare in camera oscura
dove era stato preparato un telo di lino pretrattato, e cioè spalmato di un sottilissimo strato di
certe sostanze naturali. Il Prof. Alan Mills (cfr. C. Knigth e R. Lomas, op. cit, Appendice 3,
pag. 276-282) ha poi messo in luce la possibilità 'chimica' di zone di impressione più o meno
marcate delle fibre superficiali del lino sindonico, in base al fattore distanza del telo,
perfettamente teso in orizzontale appena sopra al cadavere, ma non a diretto contatto (tranne
la nuca e la punta del naso). L'annerimento micrometrico (per ossidazione) delle fibre
vegetali del lino, dipendendo da minime distanze, è tale da poter essere notato sultanto nel
suo insieme, e ad una distanza non inferiore a circa quattro metri. Il contrasto si sarebbe
attenuato con i secoli, ed era perciò, in origine, molto più marcato ed evidente. Sul telo sono
state trovate tracce di sostanze organiche e minerali. Non siamo degli scienziati, ma ad ipotesi
affini eravamo arrivati anche noi, proprio sulla scorta dei passi già riportati, ed avevamo
abbozzato il seguente scenario: Gesù morto viene prelevato dai alcuni membri della setta dei
Terapeuti presenti a Gerusalemme, alla quale appartenevano Gesù, Nicodemo, Giuseppe di
Arimatea e vari altri. Gesù è il Salvatore del mondo. Possiede poteri eccezionali e una
straordinaria conoscenza delle scritture. E' il Cristo-Messia e al tempo stesso il Re dei Giudei
di discendenza davidica e sacerdotale. E' il vero Messia predetto dalle profezie. I Terapeuti,
nella cui setta era stato educato, lo avevano pienamente riconosciuto come 'maestro' e
'messia', e ne appoggiavano la missione rivoluzionaria di pace, rivolta al mondo intero,
anziché ai soli Giudei. Gesù morto viene letteralmente 'imbalsamato' in una veste simbolica e
sacra di Luce Eterna, del tutto degna del Regno del Padre celeste. Si tratta dello stesso lino
immacolato della veste, regale e sacra ad un tempo, da Re dei Giudei e di Sommo Sacerdote:
ed è appunto il lino della Sindone, che corrisponde, del resto, ai simboli stessi dell'altare
cristiano, con la tovaglia bianca, il calice e la patera. Il cadavere di Cristo, trattato con
sostanze reagenti, venne tenuto in posizione verticale (malgrado le monetine sulle palpebre,
evidentemente incollate, e le braccia incrociate sul pube, evidentemente trattenute), entro una
specie di contenitore o ingabbiatura di legno a tenuta d'aria, sulla quale era stato passato il
telo teso, davanti e di dietro, quasi a stretto contatto del corpo. In un ambiente chiuso e
surriscaldato, la sostanze volatili, spalmate sul corpo di Gesù, ed anche quelle di cui era stata
appositamente impregnata la parte interna del telo, pretrattandone le fibre superficiali,
avevano creato una miscela gassosa omogenea, che si mantenne in sospensione per un certo
tempo entro il contenitore riposto in una grotta o messo al riparo. Poi, all'improvviso, facendo
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passare un fiotto di luce attraverso la trasparenza del lino, ed anche una forte corrente di aria
fredda (si deve immaginare la scena di primissimo mattino, allo spuntare del sole), la miscela
di gas saturi, presente nell'ambiente surriscaldato, ebbe a subire un rapidissimo collasso, sia
per effetto dell'aria fredda, che per quello fotochimico, altrettanto improvviso, della luce,
separandosi in due: una parte ossidante, che reagì col lino pretrattato, e l'altra che ricadde
inerte sul corpo di Gesù. La reazione traformò chimicamente in due sostanze diverse la
medesima miscela gassosa, con un effetto quasi esplosivo, e cioè piuttosto rapido.
L'operazione venne ripetuta due volte di seguito, per impressionare il lino davanti e di dietro.
Gesù tiene la mani incrociate sul pube, nella posizione tipica di un certo tipo di sepoltura, a
quanto pare praticata soltanto dagli Esseni, ma i Terapeuti erano una sétta affine anche se
distinta, con molteplici tratti rituali in comune, seppure caratterizzata da una diversa apertura
ideologica. Il corpo è sostenuto in verticale con qualche accorgimento, e le mani pure,
incrociate verso il basso nel 'rigor mortis'. Le monetine sugli occhi sono mantenute in
posizione da sostanze adesive. La differenza di lunghezza delle due immagini, sottolineata da
Odifreddi, dipende da un certo cedimento verticale del corpo nella ripetizione delle due
operazioni del tutto simili tra loro, ma ovviamente non identiche perché realizzate in momenti
diversi, ripetendo lo stesso procedimento chimico-alchimistico che certamente richiese
qualche giorno di preparazione (i tre giorni di Giona) per essere portato a compimento. Per
questo stesso motivo anche il Volto Santo di Borgo Sansepolcro viene rappresentato
fortemente proteso in avanti. La grande <<M>> che si vede sul petto di quest'opera lignea di
antichissima fattura, sicuramente realizzata in oriente, potrebbe essere benissimo una stola
sacerdotale, con Gesù 'sommo sacerdote'(si intende anche Re degli Ebrei). La posizione
verticale di Gesù non era perfettamente eretta, forse anche perché raccolto nello spasmo e
nella torsione stessa della morte, che l'aveva colto sulla croce. Il cadavere reca tutti i possibili
segni della sua identificazione, e le monetine, come le scritte varie che ancora si possono
leggere nell'immagine sindonica, erano rivolte a trasferirne l'identità nel mistero stesso
dell'impressione luminosa, con la riconsegna a Dio Signore della Luce, nel Regno celeste del
Padre. La luce, filtrando attraverso la trasparenza del lino, è il fattore determinante della
reazione chimica di 'impressione', che ha permesso la esatta riproduzione delle fattezze di
Gesù, invertite in chiaroscuro, mentre non si è avuta nessuna inversione ottica o speculare,
come invece nelle moderne fotografie. E' stato in ragione della distanza (calcolabile in pochi
millimetri di scarto differenziale) che il telo sindonico, reagendo chimicamente, si è
impressionato proprio come una lastra fotografica, impregnandosi anche di sostanze (sangue
compreso) presenti sul cadavere, trasportate sulla stoffa dalla reazione improvvisa. Questo
sangue non si è annerito in quanto la reazione chimica lo ha subito alterato. In questo modo è
stata ottenuta un'immagine 'negativa', che come un calco chiaroscurale, riflette la sottostante
profondità millimetrica, rispetto ai vari punti, più o meno vicini, del corpo, alcuni anche a
contatto col lenzuolo. La luminosità ha seguito una legge di ossidazione-annerimento,
esattamente proporzionale alla distanza. La Sindone è un manufatto acheirotipo, realizzato
cioè senza intervento umano diretto sul pezzo di lino come ad esempio una pittura o altro
ancora. Le modalità d'impressionamento del telo esigono la verticalità della posizione del
corpo in luogo di quella supina che avrebbe ostacolato la formazione dell'immagine
posteriore. Di necessità, la procedura è stata ripetute due volte, nelle medesime condizioni. La
reazione chimica non poteva avvenire che per collasso di una miscela gassosa, cioè per rapida
decomposizione in due diverse sostanze, una delle quali ha reagito con la superficie interna
del telo pretrattato, provocandone l'impressionamento per ossidazione delle fibre superficiali
appena imbevute di un particolare reagente. L'immagine posteriore è stata ottenuta allo stesso
modo, ripetendo la procedura. La zona di contatto tra le due distinte immagini presenta
naturalmente alcuni inconvenienti dovuti allo spessore del capo. Tutte le operazioni si sono
svolte a Gerusalemme, e sicuramente trascorsero molti giorni tra l'arresto di Gesù, i due
distinti processi, e il momento dell'esecuzione. Nel frattempo la comunità dei Terapeuti potè
attrezzarsi per realizzare l'immagine sindonica sul cadavere, alla quale fu effettivamente
97

assegnata la valenza, sacra e misterica, di una simbolica, ma altresì autentica, forma di


resurrezione. Quella resurrezione dai morti alla quale credette, con fede sincera, tutta la più
larga comunità dei seguaci di Gesù, che erano abbastanza all'oscuro del radicamento
iniziatico del suo messianismo. Gli gnostici, più al dentro del mistero Gesù, ne rappresentano
l'aspetto e la versione esoterica, rispetto alla versione (peraltro fedele) della diffusione del suo
universale messaggio di pace, da parte degli apostoli Pietro e Paolo.

XIX.5. I "Terapeuti" avevano acquisito notevoli conoscenze chimiche, che erano state
affinate ad Alessandria d'Egitto, durante l'epoca dell'età alessandrina, nel campo pratico della
tintura di stoffe e della produzione di coloranti. Erano insomma degli 'alchimisti' veri e
propri. Sull'alchimia antica rimandiamo ai testi già citati di L. Russo (pag. 174 ss.) e di G.
Luck (pag. 406 ss.), ormai due classici nel loro genere. Gli ebrei aborrivano invero dalle
rappresentazioni iconografiche, ma nel caso di Gesù si tratta di una volontaria inversione di
tendenza, determinata dall'eccezionalità assoluta della figura Messia, mandato crudelmente a
morte. Tale avversione riapparve nella lotta iconoclasta bizantina, ma fu respinta nella chiesa
d'occidente con la grande e progressiva diffusione delle immagini sacre, secondo lo stesso
costume pagano, che porterà ai grandi mosaici bizantini di Ravenna o alle analoghe opere
artistiche romane. Il mistero della fabbricazione della Sindone non appartenne ovviamente a
coloro che proclamarono l'avvenuta resurrezione dai morti di Gesù, rimanendo invece
ristretto all'interno della sétta degli iniziati, con la quale può essere identificata la primitiva
comunità o chiesa di Gerusalemme, prima dell'avvento di San Paolo. Ma la Sindone fu
sempre custodita e gelosamente preservata, e nessuno com'è evidente, ha potuto sbarazzarsene
o distruggerla in tutti questi secoli. Si è tentato, con la radiodatazione, di falsificarne la
genuinità e la provenienza, ma l'operazione "scientifica" non sembra perfettamente riuscita.
Essa viene infatti contrastata da forti obiezioni di ordine tecnico-scientifico, e, ancora una
volta, appare avversata dall'intrinseca memoria storica e allusiva che si è potuta conservare in
certi scritti, che risalgono quasi all'epoca stessa di Gesù. Secondo noi la prova più
convincente della genuinità della Sindone sta proprio nelle stesse criptiche menzioni
neotestamentarie, e nei richiami, ancora più espliciti, di altri passi degli scritti apocrifi o nelle
citazioni di testi antichi, che vi fanno inequivocabilmente riferimento. Un argomento, questo,
assai solido, mai prima d'ora preso in considerazione, che sembra possedere una valenza
probatoria, a nostro avviso determinante, in quanto del tutto coerente e perfettamente adesivo
al reperto. La gelosa ma attentissima custodia del lenzuolo, che di fatto ne ha permesso la
conservazione nel primo millennio, deriva dalla frattura verificatasi tra le varie componenti in
cui si articolò il cristianesimo primitivo, soprattutto a seguito del successo della predicazione
paolino-pietrina, che faceva benissimo a meno della Sindone, con una completa perdita di
memoria. Ma i veri custodi del lenzuolo sacro, i Terapeuti e le loro diramazioni nelle
vicissitudini secolari (dovute anche allo scontro tra cristiani romani ed eredi del platonismo,
ad Alessandria d'Egitto, nel IV secolo d.C., culminato con l'assassinio di Ipazia), ne curarono
la perfetta conservazione, pur non avendo elevato un vero e proprio culto a quest'immagine,
che rifletteva soltanto la venuta del Cristo.

XIX.6. Vale ora la pena d'osservare che Ruggero Bacone era a conoscenza di alcuni metodi
'chimici' compresa la polvere da sparo, e che diversi francescani si segnalarono proprio per le
loro attività alchimistiche (vedi ad es. P. Marshall, I segreti dell'alchimia, Corbaccio, 2001, e
P. Cortesi, Pietra filosofale, Newton e Compton, 2002 - quest'ultimo testo è stato presentato
nel n. 6 di Episteme). E' altresì nota la stretta relazione tra 'alchimia' e 'cattedrali medievali'
(es. Chartres) secondo lo spirito dei "costruttori" di templi, al cui novero, molto
probabilmente, apparteneva Giuseppe, sposo di Maria, la madre di Gesù. E' tutto un filone
sotterraneo, che finalmente riaffiora col suo profilo indiziario, mai in precedenza preso in
considerazione sotto questo particolare aspetto. E' in effetti la chartula di San Francesco a fra'
Leone, nel contesto stigmatico della Verna, a fondare la possibilità di un percorso del genere,
98

che non può essere facilmente smontato dal punto di vista logico e indiziario, per quanto
appaia piuttosto incredibile, se non addirittura fantasioso. Noi stessi ne siamo rimasti sorpresi,
e tuttavia folgorati dalla semplicissima evidenza che ci si è posta dinanzi, e che la nostra
'ragionevolezza' non riesce ad eliminare per quanto si renda conto dell'azzardo di questa
singolarissima ricostruzione, decisamente fuori dai canoni. Giudicheranno gli agguerriti
lettori di Episteme la debolezza dei nostri argomenti, facendoci cosa grata nel segnalarci le
loro obiezioni. Da parte nostra abbiamo tentato di percorrere una via inusitata, sfidando
l'ufficialità, per incamminarci sugli strettissimi sentieri che non appartenendo all'ortodossia,
sono di difficilissimo transito. Che si debba severamente dubitare delle piste alternative ci
sembra cosa altrettanto ovvia, come anche della certezza di certe 'versioni ufficiali', fatte
passare per assoluta verità. Abbiamo cercato in definitiva di saggiare un banco di prova e
d'accendere una flebilissima candela nell'oscurità d'una immensa cantina, certi soltanto che
due torti non fanno una ragione, così come due punti neri, assommati fra loro, non ne
restituiscono uno bianco. L'aver tentato di percorrere una via completamente nuova, potrà
costuire senz'altro un vano conato e un incredibile azzardo, il cui sterile sforzo colpevolmente
ci si addossa. Ma chi possiede la "verità", a nostra differenza potrà facilmente dimostrarlo.
99

*****

- Il mattino del giorno successivo al sabato, le discepole si recano al sepolcro per


<<imbalsamare>> il corpo di Gesù, ma lo trovano vuoto (Mc 16, 1-8). Poco dopo
apprendono che Pietro e i Dodici, fuggiti in Galilea, vi avevano incontrato Gesù, resuscitato
dalla morte per mano di Dio (1 Cor 15,5). Ma questo è l'inizio d'un'altra storia.

- <<Nonostante i suoi tratti dogmatici ed ecclesiastici estranei, il cristianesimo possiede


ancora elementi essenziali delle spiritualità di Gesù, quali l'accento posto sulla purezza di
intenzioni e di generosità del cuore, esemplarmente rappresentata da un Francesco d'Assisi
che lasciò il mondo per servire i poveri e, ancora nel nostro secolo, da un Albert Schweitzer,
che abbandonò il successo per curare i malati nella sperduta Lambaréné, e da una Madre
Teresa che sino alla fine della vita si è presa cura dei moribondi nelle strade di Calcutta>> (G.
Vermes, La religione di Gesù l'ebreo, Londra 1993, Ed. Cittadella, Assisi, 2002, pag. 265).

- Dopo duemila anni Gesù, l'ebreo sapiente morto sulla croce, è ancora trionfante, qui accanto
a noi, per <<sempre>>, come Egli stesso aveva assicurato. Il suo 'messaggio' ha di fatto
percorso la storia del mondo. Gesù è davvero risorto nel cuore dell'umanità, come già aveva
compreso Renan. Chiedendo scusa ai lettori per gli errori, le omissioni e le imprecisioni in cui
siamo incorsi, possiamo chiudere questo articolo, che è soltanto il povero racconto di una
serie di indizi letti in un certo modo e in una certa direzione, ricordando, in un momento
storico come quello presente, caratterizzato da forti tensioni internazionali, da gravissime
minacce di guerra, nonché da un presagio di catastrofi, la figura di un grande storico del
francescanesimo, l'Avv. Arnaldo Fortini di Assisi, che così si espresse, oltre mezzo secolo fa:
<<Il mondo non avrà pace fino a quando non avrà ritrovato l'Amore di Francesco>>. Per
questa sua profetica frase Arnaldo Fortini fu segnalato per il Premio Nobel per la Pace.
L'amore di Francesco, stimmatizzato alla Verna, fu la continuazione stessa dell'amore di
Cristo. Per questa ragione dovremmo auguralmente aggiungere e ripetere, con Francesco
d'Assisi, il suo motto di <<Pax et Bonum!>> che ne caratterizzò il perfetto esempio di vita
cristiana che egli ci ha testimoniato e offerto nel millennio trascorso. La brillantissima stella
che comparve sopra la grotta della "casa del pane" (Bet-lehem) illuminò gli occhi di tutti gli
uomini di "buona volontà", ma il malefico Pan non è ancora morto.

[Un "sospetto" sensazionalistico best-seller (Michael Drosnin, Codice Genesi, Rizzoli, 2003),
pretendendo di poggiarsi sull'autorità del matematico israeliano, Eliyahu Rips, esperto di teoria dei
gruppi, annuncia che la Bibbia nasconderebbe un codice. Questo 'codice' sarebbe 'esatto', ed in grado
di rivelare il futuro dell'umanità. Nella migliore delle ipotesi l'armageddon sarebbe previsto per il 2006.
Non sappiamo se notizie come queste siano propalate ad arte, poniamo da alcuni 'servizi segreti'
interessati al catastrofismo. Né possiamo credere che la Bibbia nasconda veramente un codice simile,
capace di prevedere eventi a venire, per quanto anche lo stesso Newton nutrisse simili interessi
'esoterici'. Ma l'attuale fase storica è terribilmente critica ed incertissima. Crediamo che soltanto la
piena riscoperta del messaggio francescano potrà arrecare all'umanità una salvifica consapevolezza
del proprio destino.]

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[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 5 di Episteme.]

donatellacina@libero. it
100

Un commento di Sabato Scala,


con un'ipotesi costruttiva della Sindone a partire dai testi gnostici

L'ampio lavoro del Dott. Papi dedicato a una questione tanto importante quale quella delle
origini, e del successivo sviluppo, del cristianesimo, è davvero molto interessante, anche per
la vastità e l'oculatezza della bibliografia, che presenta quanto di meglio si possa chiedere per
una panoramica sulla faccia non ufficiale di una storia che mi pare si stia recentemente
sempre più rivoluzionando, grazie principalmente a una serie di studi di "confine" come
questo (affiancati naturalmente da ricerche più "ufficiali", come quelle, ad esempio, del citato
Jesus Seminar, cui si deve il massimo contributo all'approfondimento dei testi di Nag
Hammadi, ed all'apporto che essi possono dare a una nuova interpretazione della storia delle
origini del cristianesimo).

Ma andiamo alle questioni che ho trovato più interessanti, cominciando dal supposto
"templarismo" di Francesco. Personalmente il livello, il numero e la qualità di analogie e di
indizi che il Papi propone per argomentare la tesi, mi appaiono tali da consentire di andare
ben oltre la prudenza, e modestia, eccessive che l'autore esibisce nel suo lavoro, che non può
rimanere confinato nel mondo fumoso del verosimile, ma ha tutti i titoli per divenire una seria
pista di indagine.

Trovo inoltre assai significativa la sequenza di indizi documentali che il Papi trova a favore
della predatazione della Sindone rispetto all'analisi al C14. In particolare, la citazione
dell'Inno della Perla, stupendamente commentato da un'altra pietra miliare qual è il testo
dello Jonas, potrebbe essere più che un indizio, se non fosse per qualche dubbio che vado
subito a illustrare. Il primo, è inerente una carenza nel testo proposto da Jonas - che non è da
imputarsi ovviamente a sua trascuratezza, bensì alla precoce scomparsa di colui che può, a
ragione, essere ritenuto il massimo studioso delle tematiche gnostiche. Il Jonas ha fatto
davvero un ottimo lavoro, ma il suo testo è abbondantemente superato dagli scritti di Nag
Hammadi, con particolare riferimento al Vangelo di Filippo che, purtroppo, il Jonas non ha
fatto in tempo a leggere e che limita anche la sua capacità di approfondire l'interpretazione
del Vangelo di Verità (testo che, invece, sia pure in extremis, Jonas riesce a visionare e a
commentare proprio nel volume citato da Papi). Il problema è la funzione
dell'<<immagine>>. Sebbene il paragone adottato da Papi sia ineccepibile, e sembri davvero
una perfetta descrizione della Sindone, la funzione dell'immagine è una metafora centrale
nella gnosi, senza la quale lo stesso concetto di gnosi cristiana non ha motivo di essere. Per
capirlo è sufficiente leggere (con estrema attenzione) il Vangelo di Filippo (io l'ho letto nella
traduzione di Moraldi, e consiglio di prescindere dall'introduzione del curatore che svia il
lettore non facendogli cogliere la profondità di questo documento). L'immagine, nella gnosi
ma anche nell'Inno alla Perla, è l'antitesi della materia, è la sostanza immateriale e nascosta
del mondo, che gli arconti (o comunque i generatori di menzogna) cercano di nascondere
all'uomo, soverchiandolo con una serie di controimmagini materiali. Queste deviano la
percezione della sostanza metafisica della realtà, e "pilotano" l'uomo verso il male e gli eletti
lontano dalla Luce. Ovviamente è una descrizione sintetica, carente da svariati punti di vista,
ma l'ho proposta solo per dire che l'immagine è una metafora che difficilmente potrebbe
nascondere un fatto di per sé del tutto marginale, se non addirittura del tutto assente nella
gnosi cristiana, quale la resurrezione, e di conseguenza la Sindone. Il Vangelo di Filippo
critica infatti aspramente il concetto di resurrezione corporea successiva alla morte, e gli
oppone la resurrezione o rinascita dell'Uomo Nuovo attraverso il cammino gnostico di
ricongiunzione al Padre.
101

Insomma, testi profondi (esoterici) come la Perla, o meglio come il Vangelo di Filippo, non
credo avrebbero cripticamente voluto alludere a un oggetto materiale, in fondo poi
inessenziale per la gnosi, come il telo sindonico, celandone il riferimento dietro a un concetto
viceversa assolutamente centrale quale quello della detta "immagine". A meno che,
naturalmente, l'oggetto non rivelasse una metafora di secondo livello molto più importante
della prima apparente chiave di lettura, ovvero, pertinente a un livello di conoscenza
superiore a quello ottenibile con la lettura diretta del testo. Mi spiego. I livelli interpretativi
dei testi gnostici (un po' come la Divina Commedia di Dante), sono 7 (12 secondo altre
interpretazioni), vedi ad esempio la Pistis Sophia. Per passare dall'uno all'altro è necessario
trovare una chiave simbolico-interpretativa in un punto particolare del testo (di solito il
simbolo fondamentale), che indica la base per ricostruire il livello successivo a partire dal
medesimo testo o documento (anche pittorico: vedi il Mosaico di Otranto, e la spiegazione
che se ne tenta in Episteme N. 5). I primi tre livelli sono oggettivi e riconoscibili anche dai
non eletti, i successivi rientrano nella sfera dei misteri, e come tali sono conoscibili solo dagli
eletti, con una analisi soggettiva e sicuramente segreta, vale a dire non divulgabile.

Tornando alla Sindone, se ci si limita a nascondere un oggetto reale, pur dal valore simbolico
che tradizionalmente gli viene affidato (prova della resurrezione, ma per Papi è esattamente il
contrario), dietro l'Inno della Perla, credo che si faccia un passo indietro e non in avanti, che
non è conciliabile con l'evoluzione interpretativa dei livelli successivi di occultamento della
verità nei testi gnostici. Nego, quindi, che possa esserci questo legame? Assolutamente no,
potrebbe esserci, ma allora avrebbe un significato che deve andare necessariamente ben oltre
quello della semplice documentazione materiale dell'avvenuta resurrezione. In altre parole,
l'unico livello successivo alla funzione dell'"immagine" come metafora delle verità nascoste,
non può essere una "prova" della resurrezione, ma deve essere una chiave per percepire le
"immagini" successive. O meglio, se dietro l'Inno alla Perla c'è davvero la Sindone, allora la
sua funzione deve andare ben oltre quella che comunemente le si attribuisce: essa deve essere
una chiave di accesso ai livelli di conoscenza superiore, cioè ai misteri del quarto livello.
Infatti alla lettura semplice e diretta del testo, si aggiunge la lettura metaforica dell'immagine
che apre l'accesso al terzo livello di lettura, che è ancora collocato nel mondo dell'uomo, e
quindi del pensabile. La presenza della Sindone nella Perla si situerebbe nel terzo livello
interpretativo, che prelude al quarto, passando nelle sfere non aperte all'uomo, misteriche.

Secondo il mio parere, il mistero della Sindone potrebbe allora essere, a questo punto, una
possibile chiave di accesso al "mondo dell'immagine", che gli gnostici dicevano dovesse
rimanere celato ai non eletti. La risposta al simbolo sindonico non sarebbe allora di tipo fisico
e materiale, ma necessariamente metafisico e spirituale: una sorta di porta verso una
dimensione superiore che l'eletto, che ha già percorso i primi tre livelli, può aprire per
arrivare al Logos. In tutto il discorso prescindo dalla gnosi templare, che ci porterebbe
lontano, ma che ritengo sia anch'essa intimamente legata a tale contesto (vedi l'articolo che
compare in questo stesso numero di Episteme).

Concludo questa prima parte dicendo che quella di Papi possa essere una pista, in prospettiva,
feconda di inattesi sviluppi, e, nella persuasione che possa essere utile per i lettori avere a
disposizione la versione integrale dell'Inno alla Perla (ripeto, documento centrale per la tesi
di Papi, ma che pare. l'autore abbia letto nel libro di Jonas che, come ho notato dalla copia
che posseggo, è stato però tagliato e privato di alcune parti essenziali, quali la descrizione
dettagliata della fattura dell'"abito" gnostico, che il Papi congettura possa essere la Sindone),
lo allego qui integralmente. Credo infatti che solo la lettura diretta del testo completo possa
essere utile per decidere se la descrizione del vestito, assente nel testo di Jonas, richiami
oppure no elementi sindonici, attenuando come ritengo l'effetto della similitudine (ma posso
102

ovviamente sbagliarmi). Per comodità stralcio il solo Inno alla Perla, ma sottolineo anche un
altro episodio emblematico degli Atti apocrifi di Tommaso in cui esso è contenuto: quello
della "camera nuziale" (elemento dal valore altissimo per la gnosi come si osserva anche nel
Vangelo di Filippo). Nella camera nuziale Gesù risorto parla agli sposi figlio del re che ospita
Tommaso, e viene confuso dai due sposi con Tommaso, ma non solo per la somiglianza fisica
tra i due. Questa "confusione" ha un valore simbolico altissimo, che è quello stesso
dell'immagine, e dell'immedesimazione dello gnostico con il Logos-Cristo.

[Il testo è tratto dagli Atti apocrifi di Tommaso che si trovano integralmente nella biblioteca
del mio sito al seguente indirizzo:
http://digilander.libero.it/sabato/documenti/Atti_Tommaso.htm.
L'indice completo è al seguente indirizzo (ci sono svariati documenti, diversi apocrifi, alcuni
documenti qumraniani ed altro ancora):
http://digilander.libero.it/sabato/Sommariodoc.htm.]

Inno della perla dell'apostolo Giuda nel paese degli Indiani

1 Quand'ero un piccolo fanciullo dimoravo nel mio regno, nella casa di mio padre
2 lieto della ricchezza e del fasto dei miei nutritori.
3 Dall'Oriente, nostra casa, i miei genitori mi equipaggiarono e mi mandarono,
4 dalla ricchezza del nostro tesoro attinsero abbondantemente allestendomi un carico
5 grande, ma leggero, ch'io stesso potevo portare:
6 oro di Beth-Ellaye [delle terre di Ellaye] e argento della grande Gazak
7 rubini d'India e agate di Beth-Kashan [delle terre di Kashan],
8 mi provvidero di diamante che può frantumare il ferro.
9 Mi tolsero la veste scintillante che nel loro amore mi avevano fatto
10 e la toga purpurea, misurata e tessuta sulla mia statura.
11 Fecero con me un contratto e lo scrissero nel mio cuore
affinché non fosse dimenticato:
12 "Se tu discenderai in Egitto e porterai la perla
13 che è in mezzo al mare attorno al serpente sibilante,
14 tu indosserai la tua veste scintillante e la tua toga di cui ti allieti
15 e con tuo fratello, il più vicino alla nostra autorità, sarai erede del nostro regno".
[109] 16 Io lasciai l'Oriente e discesi, accompagnato da due custodi,
17 lungo la strada pericolosa e difficile ed io ero molto giovane per percorrerla.
18 Attraversai le frontiere di Maishan punto d'incontro dei commercianti dell'Oriente,
19 raggiunsi la terra di Babel e attraversai le mura di Sarbug,
20 discesi in Egitto e i miei compagni si allontanarono da me.
21 Andai diritto dal serpente e mi fermai presso la sua dimora
22 nell'attesa che si appisolasse e dormisse per portargli via la perla.
23 Allorché fui unico e solo, divenni estraneo alla mia famiglia,
24 vidi laggiù un orientale, uno della mia stirpe, un uomo libero,
25 un giovane gentile e amabile figlio di venditori d'olio;
26 mi si avvicinò, si unì a me, ed io ne feci il mio intimo amico, un collega,
27 con il quale spartire la mia merce.
28 Lo misi in guardia contro gli Egiziani,
contro quanti sono in comunione con l'impuro;
29 indossai le loro vesti affinché non mi avessero in avversione
30 essendo giunto dall'estero per prendere la perla e aizzare il serpente contro di me.
31 Ma in un modo o in un altro essi si accorsero ch'io non ero un loro compatriota,
32 dimorarono con me slealmente e mi diedero a mangiare il loro cibo.
33 Io dimenticai che ero figlio di re, e fui al servizio del loro re.
103

34 Dimenticai la perla per la quale ero stato inviato dai miei genitori
35 e a motivo del peso delle loro oppressioni giacqui in un sonno profondo.
[110] 36 Ma di tutte queste cose che mi accaddero si accorsero i miei genitori ed erano afflitti
per me.
37 Nel nostro regno fu fatto un proclama affinché tutti venissero alla nostra porta
38 re e prìncipi dei Parti e tutti i dignitari dell'Oriente.
39 In mio favore scrissero un piano affinché non fossi lasciato in Egitto.
40 Mi scrissero una lettera ed ogni dignitario la sottoscrisse:
41 "Da tuo padre, re dei re, e da tua madre, signora dell'Oriente,
42 da tuo fratello, nostro secondo, a te nostro figlio, che sei in Egitto, salute!
43 Su, alzati, dal tuo sonno e ascolta le parole della nostra lettera!
44 Ricordati che sei figlio di re! Considera la schiavitù a cui sei sottoposto!
45 Ricordati della perla, per la quale tu fosti inviato in Egitto!
46 Pensa alla tua veste e ricordati della tua magnifica toga
47 che porterai e che ti adornerà. Il tuo nome fu letto nella lista degli eroi
48 e con tuo fratello, nostro viceré, tu sarai nel nostro regno!".
[111] 49 La mia lettera è una lettera che il re ha sigillato con la sua destra
50 per custodirla dai malvagi, dai figli di Babel, e dai selvaggi demoni di Sarbug.
51 Essa volò nelle sembianze di un'aquila, re di tutti gli uccelli,
52 volò e si affiancò a me e divenne tutto un discorso.
53 Alla sua voce e al suono del suo rumore io partii e mi destai dal sonno.
54 La afferrai e la baciai e presi a leggerla:
55 conformi a quanto è segnato in cuor mio erano le parole della mia lettera.
56 Mi ricordai che i miei genitori erano re e la nobiltà dei miei natali affermò la sua natura.
57 Mi ricordai della perla, per la quale ero stato mandato in Egitto,
58 e incominciai a incantare il terribile serpente sibilante.
59 Lo costrinsi a dormire e lo cullai nel suo assopimento pronunciando su di lui il nome di
mio padre
60 e il nome del nostro secondo e quello di mia madre, regina dell'Oriente.
61 Afferrai la perla e mi volsi per ritornare a casa di mio padre.
62 Mi tolsi la loro sordida e immonda veste e la lasciai nel loro paese,
63 e subito ripresi la via del ritorno verso la luce di casa nostra, l'Oriente.
64 La mia lettera, la mia destatrice, trovai davanti a me sul cammino
65 e come essa mi destò con la sua voce così la sua luce mi guidava.
66 Essa che abita nel palazzo con la sua forma irradiò la sua luce davanti a me,
67 con la sua voce e con la sua guida mi spinse ad accelerare il passo,
68 e con il suo amore mi sospinse.
69 Procedendo, passai da Sarbug, lasciai Babel sulla sinistra
70 giunsi alla grande Maishan, porto dei commercianti,
71 posta in riva al mare.
72 L'abito splendido che mi ero tolto e la toga che era avvolta con esso
73 da Ramtha e Rekem i miei genitori mi mandarono
74 per mezzo dei loro tesorieri che per la loro fedeltà potevano godere di una tale fiducia.
[112] 75 Io più non ricordavo il suo modello avendo fin dall'infanzia abbandonato la casa di
mio padre,
76 ma subito, non appena lo ricevetti, mi parve che l'abito fosse diventato uno specchio di me
stesso.
77 L'osservai molto bene e con esso io ricevetti tutto
78 giacché noi due eravamo distinti e tuttavia avevamo un'unica sembianza.
79 Anche i tesorieri, che lo portarono, io vidi allo stesso modo:
80 erano due, ma in un'unica sembianza poiché lo stesso segno del re su di loro era tracciato
81 dalle mani di colui che per mezzo di loro mi restituì la fiducia e la ricchezza,
104

82 la mia veste ricamata, adorna di splendidi colori,


83 di oro e berilli, di rubini e agate,
84 di sardonici dai colori diversi. A casa sua su, in alto, fu abilmente lavorata
85 con fermagli di diamante erano unite tutte le giunture,
86 l'immagine del re dei re era interamente ricamata e dipinta su di essa,
87 e come pietre di zaffiro rilucevano le sue tinte.
[113] 88 Vidi che in tutto il suo essere pulsavano i moti della conoscenza
89 e che si preparava a parlare,
90 udii il suono degli accenti che egli bisbigliava con se stesso:
91 "Io sono colui che è operoso nelle azioni quando mi educavano presso il padre
92 io mi compresi e percepii che la mia statura cresceva in proporzione del suo lavoro".
93 Con i suoi movimenti regali si versò tutto in me
94 e sulle mani dei suoi dispensatori si affrettò affinché lo prendessi.
95 L'amore mi spingeva a correre, ad andargli incontro e accoglierlo,
96 mi protesi in avanti e lo presi. Mi adornai con la bellezza dei suoi colori
97 e mi avvolsi interamente nella mia toga, dalle tinte sgargianti,
98 l'indossai e mi recai su alla porta.
99 Chinai il capo e adorai la maestà del padre mio che mi aveva mandato:
100 io avevo adempiuto i suoi comandamenti ed egli mantenne quanto aveva promesso
101 alla sua porta mi associai con i suoi principi:
102 egli si rallegrò di me e mi accolse ed io fui con lui, nel suo regno,
103 mentre lo lodava la voce di tutti i suoi servi.
104 Promise che anche alla porta del re dei re sarei andato con lui
105 con la mia offerta e con la perla mi sarei, con lui, presentato al nostro re.

Passiamo ora ad altri fondamentali ingredienti del saggio in discussione, prima di tutto la
Maddalena (e la sua "incoronazione"). Si tratta di una questione che mi interessa moltissimo,
che ho fatto oggetto di riflessione in Episteme N. 6. Tale riferimento costituirebbe, dal mio
punto di vista, e se "dimostrato", la prova definitiva dello gnosticismo del Santo, o comunque
dell'ispirazione dei dipinti della Basilica. Comincio subito con il ricordare (vedi articolo
dianzi citato) che, nelle basiliche di Cimitile, le Maddalene sono due: una a mezzo busto
incoronata, l'altra a figura intera, privata del volto, ma che ha tra le mani un oggetto che io ho
identificato essere un rotolo: la Sindone?! Non avevo, però, trovato fino ad oggi una
conferma a questa ipotesi (ed ecco perché l'ho appena sfiorata nel mio scritto), qualche
commentatore che associasse cioè la Sindone alla Maddalena: l'ipotesi avanzata dal Papi
comincia ad essere un primo importante indizio in proposito. Il problema è che, se quella tra
le braccia della Maddalena di Cimitile è la Sindone, e se la leggenda della Maddalena in
Francia ha qualche fondo di realtà, allora la Sindone potrebbe essere arrivata in Francia
prima dei Templari ... ma qui entreremmo nel campo delle mere speculazioni logiche
(peraltro inessenziali ai fini principali del presente discorso), senza riscontri fattuali alla loro
origine, e quindi soprassediamo.

Torniamo al punto. Dato lo sfondo concettuale in cui inquadro certi elementi, non mi
meraviglia affatto che la Maddalena sia associata a rappresentazioni figurative in apparenza
fuori contesto come il Tempio di Minerva; anzi, non vedrei nulla di più adeguato per
descrivere la funzione gnostica della Maddalena come "Porta misterica" per l'accesso al
Logos (è indubbio che lì dove c'è la Maddalena, lì c'è la Sapienza, e l'associazione
Maddalena-Minerva-Sapienza è già di per sé un elemento sufficiente per proporre
un'interpretazione in chiave gnostica). Insomma, la struttura dei dipinti, la posizione e la
sequenza degli archetipi e dei simboli, così come descritte da Papi, fanno ritenere più che
possibile che il ciclo pittorico sia legato alla gnosi (sempre sulla base del Vangelo di Filippo,
105

che rimane, a mio avviso, la sorgente "enciclopedica" primaria per questo genere di
riferimenti iconografici e testuali).

Un altro elemento che trovo fortemente suggestivo nel lavoro di Papi, e a cui credo di aver
dato un contributo inatteso in questo stesso numero di Episteme, è quello concernente
l'Ultima Cena di Leonardo, sicché su esso non mi ripeto.

Una notazione: dalla piantina della Basilica inferiore che trovo nella seguente pagina web,
faccio davvero fatica a vedere la nitida TAU di cui parla Papi:
http://www.greenline.it/uvt/binferior.htm

Un ulteriore aspetto che mi lascia un po' perplesso della ricostruzione offerta dall'autore è,
comunque, la posizione delle Stigmate, che appaiono nei palmi delle mani di Francesco e non
nei polsi come nella Sindone. Non credo che sia un fatto marginale, e che meriterebbe quindi
un tentativo complementare di spiegazione.

Altro elemento che mi lascia alquanto dubbioso, perché ricco di diverse interpretazioni
alternative, è lo sdoppiamento di alcune figure, che può, sì, essere legato anche alla Sindone,
ma potrebbe anche avere radici antiche nel doppio messianesimo qumraniano (accennato dal
Papi nella doppia funzione sacerdotale e politica del Messia), oltre che nel dualismo tipico
qumraniano, poi recepito dalla gnosi: Luce-Tenebre, Verità-Menzogna, Sadoc-Belial, ecc..

Dal testo di Charlesworth Papi stralcia l'interessantissima questione del termine nazareno, che
in realtà è originato, come argomenterò anche in un mio articolo, non dall'antica setta dei
nazareni, ma dal termine naser "virgulto", con nasarei o nazirei da intendersi quindi come
qumraniani del periodo successivo all'avvento messianico.

Interessante è anche la puntata che si effettua sulla questione Ossario di Giacomo (che ho
fatto oggetto di una nota che è stata pubblicata sul numero di gennaio della rivista neonata
Hicarus, ancora troppo giovane per una diffusione seria sul territorio).

Un qualche dubbio mi viene originato dalla questione degli "otto apostoli", che mi pare quella
più criticabile tra quelle proposte. A un certo punto trovo anche scritto: "mentre nel
frontespizio del basamento sono rappresentate le sole 'croci di Gerusalemme'. Mancano cioè
ben quattro apostoli, compreso San Paolo, che avrebbero dovuto invece figurare tutti
insieme". Ciò implicherebbe l'inclusione di Paolo tra i dodici, o almeno la definizione di
Paolo come tredicesimo apostolo (peraltro il nome del mio sito). E' evidente che l'autore è
ben lungi dal commettere un errore così banale (del resto i termini del discorso vengono da
lui successivamente precisati nel testo), ma forse varrebbe la pena di specificare chiaramente
che Paolo non è né il dodicesimo né il tredicesimo apostolo. Egli non fece parte dei dodici ma
intervenne soltanto dopo la morte di Gesù diffondendo una concezione religiosa fondata sul
Gesù risorto, autonominandosi apostolo pur senza conoscere nulla della vita di Gesù (a parte
forse gli ultimissimi momenti), com'è facilmente dimostrabile, ma che tralascio (ci vorrebbe
davvero molto, e posso solo rimandare eventuali interessati a ulteriori approfondimenti della
questione al mio sito). In effetti Paolo non è, a dire il vero, nemmeno il tredicesimo apostolo,
visto che Giuda Iscariota fu sostituito da Mattia, come raccontano gli Atti, e quindi tutt'al più
egli avrebbe potuto essere considerato il quattordicesimo apostolo. Insomma, non avrebbe
avuto senso includere Paolo in un dipinto del genere di quello citato.

Il problema serio, invece, è proprio nel numero degli apostoli e nella replicazione di alcuni
nomi, che Papi non propone. Ci sono due Giacomo, due Giuda (addirittura tre, se includiamo
anche Didimo-Giuda-Tommaso), due Simone, tra i dodici, e ritengo allora che la riduzione ad
106

otto potrebbe essere, ad esempio, vista in questa chiave, ma, ripetiamo, qui ci muoveremmo
nel mero campo delle illazioni. Inoltre, per quanto ne so, sarebbe un caso iconografico
davvero unico, ed è ben strano che nessun artista l'abbia ripreso se si pensa alla fama del
luogo in cui è posto.

Negli Atti qualche informazione la troviamo su Filippo (che battezza un eunuco), su Giacomo
il maggiore, che viene ucciso, su Giovanni e Pietro che parlano in coro (molti discorsi sono
attribuiti a entrambi), su Giacomo il minore, che diviene capo della comunità di
Gerusalemme. Insomma 5 apostoli su 11 sono nominati negli Atti, e di essi qualcosa si sa, per
cui al più di 6 non si sa nulla, stando alla sola documentazione canonica.

Passo a un'ultima osservazione: l'ipotesi dell'esistenza di un doppio gruppo di Esseni. Si tratta


di una congettura tutt'altro che nuova, quasi una certezza, almeno entro certi limiti. Già
Giuseppe Flavio parlava di due gruppi di Esseni, che differivano tra loro per alcuni costumi
quali quello del matrimonio, ma molte delle affermazioni di Flavio se pur vere si sono
dimostrate superficiali. Della presenza (contemporanea) di questi due gruppi ci si convince
secondo me facilmente, comparando il Documento di Damasco con la Regola della Comunità
e con altri testi legali. Appare evidente, ad esempio, che una era una collettività di tipo
monastico, che preferiva ritirarsi in luoghi appartati, in aree desertiche, mentre l'altra
rimaneva fortemente radicata e integrata nel tessuto ebraico, e fin qui si dà ragione a Flavio.
La comparazione sui contenuti però ci porta ben oltre. Il Documento di Damasco, che
sembrerebbe adottato dal gruppo socialmente integrato, propone un legalismo estremo, che va
ben oltre quello che si legge nei testi legali qumraniani (basti pensare che nel Documento
l'uomo caduto nel fosso di sabato si lascia morire, a differenza di quanto avviene nelle Lettere
sulle opere di Giustizia). La variabilità di posizioni legali negli scritti citati è davvero
notevolissima, e l'impressione che si ha, anche sulla base delle datazioni paleografiche, è che
si sia verificata una lenta progressiva riduzione del rigido legalismo, favorita anche dal
costume dell'interpretazione personale obbligatoria delle Sacre Scritture per gli Esseni. Essi
vivevano in gruppi di 10, ed ogni sera a turno uno di loro vegliava leggendo ed interpretando
le Scritture; inoltre i Pesher, o commentari, sono numerosissimi, e propongono sempre
interpretazioni quantomeno azzardate delle Scritture, interpretazioni che trovano sempre
riscontro nella vita reale (vedi, ad esempio, l'adozione di un calendario lunisolare diverso da
quello lunare usato dagli altri Ebrei). Su tali documenti sto preparando un articolo, che sarà
soprattutto incentrato su quello che, a mio avviso, segna una svolta fondamentale nel pensiero
qumraniano: gli Inni.

In ogni caso, e per farla breve, una scissione tra gli Esseni è un fatto, e credo peraltro che non
sia neppure l'unica avvenuta negli anni: gli Inni dimostrano, a mio avviso, una scissione
rovinosa avvenuta intorno al primo secolo dopo Cristo, che portò alla nascita di un ulteriore
gruppo del tutto diverso, fondato proprio dal "principe" della comunità di Qumran, che fu
l'autore degli Inni ... ma questo lo racconterò nell'articolo annunciato. A tale scissione si può
ricollegare, secondo me, la pista dei taumaturghi di Papi, che non è affatto da escludere.
Anzi, ricavando dagli Inni la biografia dell'artefice dell'ultima scissione, si ricava, tra le altre
notizie, quella di un suo esilio in terra d'Egitto. Tutta la sostanza misterico-gnostica, con le
metafore tipiche di questo ambiente, che si trova profusa a piene mani negli Inni, avvalora
d'altro canto l'origine egiziana di questo filone. In tale ambito viene data la giusta attenzione
al testo di Morton Smith, che espone una tesi molto ben argomentata, ma a mio parere non
del tutto convincente, intorno alla possibilità di un Gesù Terapeuta e Mago di scuola egiziana
(interessanti sono in tale libro le analisi dei "papiri magici", in particolare quello di Parigi). Il
Papi dà di questi elementi una bella e sintetica panoramica, sfiorando alcuni punti interessanti
quali la scoperta del Vangelo Segreto anche in chiave qumraniana (vedi il vestito di lino, e
non di lana, che era in uso a Qumran, tanto per fare un esempio).
107

Un'ipotesi costruttiva della Sindone a partire dai testi gnostici

Voglio adesso sottoporre all'attenzione dei lettori un'ipotesi che mi è sovvenuta sulla base
della possibilità di una connessione tra l'"immagine" gnostica e la Sindone, non solo di tipo
filosofico e teologico ma anche materiale e costruttivo. Per essa ho utilizzato, ancora una
volta, il solo Vangelo di Filippo, e ho fatto anche qualche piccolo e veloce esperimento
(bastano non più di 5 minuti) che sembrerebbe confermare almeno una parte delle congetture
formulate.

Partendo dalla ricostruzione di Papi, e dall'eventuale legame tra l'"immagine" gnostica e la


"foto" sindonica, ci si può chiedere se la gnosi, riferendosi all'immagine ed alla sua funzione
metaforica, non potesse anche alludere, quale massima espressione materiale del simbolo,
proprio alla Sindone. Se così fosse è possibile che il testo che parla dell'immagine, e quindi il
Vangelo di Filippo, che già descrive dati di tipo architettonico e quindi materiale (vedi
orientazione degli edifici sacri) non possa, allo stesso modo, descrivere anche la tecnica con
cui è stata creata la Sindone. In altre parole, una lettura di Filippo che andasse al di là della
valenza filosofico-teologica potrebbe cogliere anche qualche indicazione sul procedimento
per produrre una "sindone".

Partiamo dai seguenti elementi:

1) La sindone è una proiezione su un piano (il telo) di una immagine operata attraverso
proiezioni dei singoli punti con linee ortogonali al telo.
2) Le informazioni di proiezione, per mantenere l'effetto tridimensionale, devono contenere
una informazione di distanza per ciascuna linea di proiezione.
3) L'informazione di distanza è data dall'effetto di maggiore o minore "scoloritura" o
invecchiamento della area interessata. Più vicina è l'immagine più accentuata è la scoloritura.
Questo genera l'effetto negativo.
4) L'immagine appare solo da un lato del telo ed interessa pochissimi centesimi di millimetro
della superficie.
5) Allungamento innaturale del corpo.
6) Dissimmetria tra la parte posteriore e quella anteriore del telo.

Premesso ciò andiamo a vedere quali tipi di ingredienti di fabbricazione potrebbero essere
tratti dal Vangelo di Filippo prima di capirne il possibile uso. Il passo che più ci dovrebbe
interessare è il seguente:

66.) L'anima e lo spirito sono entrati nell'esistenza dall'acqua , dal fuoco e dalla luce
[…]. Il fuoco è il crisma, la luce è il fuoco. Io non parlo di questo fuoco, che non ha forma,
ma dell'altro, la cui forma è bianca, che è fatto di luce e di bellezza, e che dà bellezza.

Gli elementi in questo passo sono:

a) Acqua (battesimale): utilizzata immergendo interamente il corpo in acqua, come si legge


anche in:

89) […] Cristo è sceso nell'acqua, al fine di purificare e rendere perfetti coloro che egli ha
reso perfetti nel Suo Nome. Infatti egli ha detto: "È necessario che noi compiamo ogni
giustizia".
108

b) Unzione che è sicuramente olio di oliva, come si legge in questo brano sempre di
Filippo:

92) Ma l'albero della vita è in mezzo al Paradiso, e anche l'ulivo, da cui viene il crisma, grazie
al quale la resurrezione.

c) Luce solare.

Vediamo come gli elementi possono essere stati composti. Se interpretiamo alla lettera passi
come questo:

68) Il Signore ha operato ogni cosa in un mistero: un battesimo e un crisma, un'eucaristia e


una redenzione, e una camera nuziale.

allora il battesimo, vale a dire l'immersione nell'acqua, deve comprendere il crisma (un po'
come nella disposizione delle stanze del Tempio che si legge in Filippo), e quindi deve
prevedere anche un corpo ricoperto di olio. Quindi il corpo, preparato per la sepoltura,
viene dapprima ricoperto di olio con una procedura che si può supporre a
nebulizzazione attraverso mantice, come si deduce indirettamente da brani come il
seguente:

80) L'anima di Adamo è venuta nell'esistenza per mezzo di un soffio. Suo consorte è lo
spirito. Chi glielo ha dato è sua Madre; e con l'anima gli è stato dato uno spirito, al suo posto.
Per questo, quando si è nascosto egli ha pronunciato parole superiori alle Potenze. Esse lo
invidiarono perché erano separate dall'unione spirituale […].

L'anima, infatti, è sostituita dallo Spirito che è il crisma, e quindi l'unzione con olio, da cui si
deduce che l'olio viene apposto con un "soffio" e quindi nebulizzato con un mantice. La
procedura fa in modo che l'olio faccia da collante per gli oggetti leggeri quali fiori, semi, ecc.,
sulla superficie sottostante il corpo, che potrebbe essere una sorta di bara con contorni sigillati
esclusa la parte superiore. A questo punto viene immessa acqua lentamente nella bara,
per evitare che gli oggetti (monete sugli occhi, sangue, fiori, vengano spostati dalla loro
posizione) fino a ricoprire interamente il cadavere.

Fin qui la procedura di preparazione della "camera fotografica". Ora è il momento della
"pellicola fotografica": il telo sindonico, ma come può essere disposto? Sicuramente deve
essere disposto parallelamente al piano di stesura e disteso. L'ipotesi più probabile è che esso
sia disposto teso da una cornice di legno a mo' di telo da ricamo. La cornice quadrata con il
telo teso viene immersa in acqua e si ci prepara alla procedura di "esposizione".

Il problema è, a questo punto, cosa impressiona il telo, che funziona ha la luce e come è
possibile che si impressioni solo una parte superficiale di esso e non entrambi i lati. Per
capirlo torniamo al brano da cui siamo partiti. La prima cosa intuibile è che la diversa
densità dell'olio tenda a farlo risalire verso la superficie con un moto ortogonale al telo
ed alla superficie dell'acqua, in tal modo abbiamo il "raggio" di proiezione che ci
serviva. Per avere una "buona risoluzione" è necessario che la "bolla d'olio" sia
sufficientemente piccola. Ho compiuto al riguardo un semplice esperimento. L'olio su un
oggetto unto ed immerso in acqua non si separa da esso almeno fino a quando non si alza
lentamente la temperatura dell'acqua. Ad una temperatura di 40 gradi circa cominciano a
formarsi delle piccolissime bolle su tutta la superficie irrorata, e queste tendono a salire
incontrando il telo (nel mio caso un foglio sottile di carta assorbente immerso sulla superficie
dell'acqua). Le bolle d'olio, piene d'aria (acqua vaporizzata) risalgono e restano
109

intrappolate sotto la superficie del telo (sostituito con un semplice foglio di carta nel caso
dell'esperimento da me compiuto!), nella posizione corrispondente al punto di risalita.

Fin qui il breve esperimento preliminare. E' da ritenersi che, se non si è in presenza di carta
ma della trama di un telo di lino, le bolle restino, a maggior ragione, localizzate. E'
importante, comunque, non alzare troppo la temperatura che se eccessiva (come ho provato a
verificare) crea l'aggregazione delle bolle in macrobolle controproducenti per i nostri scopi.
Una volta compreso il possibile meccanismo di "proiezione", dobbiamo desumere quale sia il
meccanismo di aggiunta dell'informazione di distanza (tridimensionale) e, soprattutto, a cosa
serva la luce. Come detto il brano afferma che "il crisma è il fuoco", ma come può esserlo, e
perché? Sicuramente l'esposizione a luce solare può determinare quelle condizioni di
temperatura che servono a produrre le bolle, ma da sola non basta di certo. Il primo elemento
da tenere eventualmente presente è la decomposizione del corpo. Il corpo in decomposizione
genera gas che di certo rimane intrappolato nell'olio e ne provoca la risalita. E' chiaro che
per differenza di pressione le bolle più vicine alle superficie salgono su prima e si
intrappolano prima nel telo. Questa differenza di tempo può essere la chiave
dell'informazione tridimensionale. Ma, ora c'è da capire perché il crisma è il fuoco, ovvero
perché l'olio è il fuoco. La bolla che risale piena di gas (metano da decomposizione) è già di
per sé piena di combustibile, ma di certo questo non si infiammerebbe a contatto con l'acqua,
però potrebbe determinare delle microesplosioni delle bolle se sottoposto a sufficiente luce …
ad ogni modo non credo sia questo il meccanismo. La bolla è sferica ed il suo permanere in
una cella della tessitura produce, oltre a un riscaldamento veloce dovuto al gas che è in
esso contenuto, e che si scalda certo prima dell'acqua che è fuori, un riscaldamento
locale maggiore che nelle parti esterne. Ciò, insieme all'effetto "lente" prodotto dalla
luce che si riflette e rifrange sulla superficie della bolla, provoca una bruciatura locale o
meglio un invecchiamento precoce (ingiallimento) del telo, come quello che si osserva
nei panni bianchi stesi al sole e lasciati esposti alla luce per troppo tempo. E' chiaro che il
processo comincia prima per le zone del telo più vicine al corpo (es.: naso o parti in rilievo
del volto e del corpo). Iniziando prima prosegue così per maggior tempo, ed annerisce di più
il tessuto producendo la ricercata informazione di distanza e quindi la base dell'immagine
tridimensionale.

A questo punto, proseguendo la decomposizione del corpo, si otterrà "l'impressionamento"


dell'intero telo solo sulla superficie inferiore ove si bloccano le bolle. Il procedimento termina
con l'estrazione del telo e l'asciugatura, e può essere ripetuto con il corpo capovolto.

Resta il problema dell'allungamento innaturale. Qui si può immaginare che esso venga
prodotto dalla tensione longitudinale differente da quella alle latitudini del telo, a causa della
differente lunghezza delle due parti. Il rettangolo di ogni cella del reticolo della tessitura si
dilaterebbe in lunghezza più che in larghezza. Tale caratteristica verrebbe consolidata infine
dall'asciugatura. L'immagine tridimensionale della Sindone sembra rivelare in verità un
effetto di "bolle", ma può essere solo una impressione:
110

Credo possa essere tutto per cominciare, un'ipotesi che va ovviamente ulteriormente elaborata
e sperimentalmente provata, ma dopo aver visto le dimensioni microscopiche ed il moto delle
bollicine di olio con il mio piccolo esperimento, credo possa trattarsi di una pista interessante.
Sarebbe necessario fare un test con materiale in decomposizione, magari con carne tritata
pressata in una forma.

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[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 6 di Episteme.]

sabato.scala@libero.it
111

I principi della gnosi nella orientazione delle cattedrali medievali

(Una analisi dei rituali gnostici del Battesimo, Unzione e Camera Nuziale,
tra la gnosi del Vangelo di Filippo e gli elementi templari conservatisi nel
30mo grado della massoneria di Rito Scozzese Antico ed Accettato)

(Sabato Scala)

1. Introduzione

Pur nella notevole variabilità degli stili costruttivi, chiese e cattedrali medievali presentano
alcuni tratti caratteristici costanti, che rivelano una valenza simbolica connessa, in maniera
più o meno esplicita, a particolari aspetti teologici.
La tipica forma a croce, le tre navate che compongono il corpo delle cattedrali, la posizione
dell'altare e la forma dell'abside, manifestano scelte costruttive facilmente ed intuitivamente
ricollegabili a precisi elementi del credo cristiano. Esistono, però, anche elementi costruttivi
la cui origine è molto meno chiara e documentata; tra questi rientra, ad esempio, l'uso tipico
delle cattedrali e delle chiese medievali, che prevede la collocazione del loro ingresso ad
Ovest (generalmente a Nord-Ovest). Se è difficile sapere quando si è affermata tale
consuetudine architettonica, è ancor più complesso intuire cosa ha originato una scelta
formale così importante, spesso fortemente vincolante e di complessa realizzazione pratica:
basti pensare alla costruzione di luoghi di culto in un tessuto urbano e viario preesistente.
Il primo elemento cronologico rilevante è costituito dalla constatazione che almeno fino al V-
VI secolo non sembra esistessero rigide regole costruttive. Le chiese che compongono il
complesso basilicale di Cimitile (NA), ad esempio, non rivelano alcuna particolare scelta di
orientazione. Eppure questo complesso, e lo stesso vescovo Paolino a cui esso è legato,
furono un preciso riferimento per la realizzazione dei luoghi di culto cristiano sia in Italia che
in Europa, per alcuni secoli.
In conseguenza di ciò, la datazione del fenomeno della orientazione particolare delle chiese
va collocata successivamente a queste epoche. Certo è peraltro che il costume in oggetto si
consolidò divenendo una regola generale soltanto intorno al X-XII sec., col fiorire dell'arte
gotica medievale attraverso i mirabili lavori realizzati dalle libere muratorie europee.
Vari sono i motivi che vengono addotti per questa particolare scelta, ma quello più diffuso è
solitamente legato al cammino che il credente fa entrando nella chiesa da Ovest e muovendosi
verso Est, punto in cui sorge il sole e da cui proviene la Luce della fede che emana
metaforicamente dall'altare posto in zona absidale.
Ma può essere davvero questo l'unico motivo di una simile orientazione? Se solo si pensa alla
complessità simbolica di quelle mirabili macchine figurative che sono le cattedrali gotiche si
comprende quanto una simile motivazione non regga il confronto.
Altre motivazioni proposte sono in generale connesse alla contro-orientazione delle Chiese
rispetto al Tempio di Gerusalemme che apriva ad Est. Questa contro-orientazione è in linea
con la scelta di separazione netta tra ebraismo e cristianesimo voluta da Paolo di Tarso, che
portò all'isolamento delle correnti giudaico cristiane, dando inizio al vero corso della storia
cristiana. Fu questa rottura che fece uscire l'esperienza cristiana dall'ambito ebraico settario e
la trasformò in una nuova ed originale religione monoteistica, aperta al proselitismo. Simboli
voluti del detto superamento e della separazione dall'ebraismo disseminano tutta la
costruzione teologica cristiana: la scelta della Domenica come giorno da santificare in
112

opposizione al Sabato, il superamento della Vecchia Legge ebraica sostituita con la Nuova
Legge, del Vecchio Patto di Abramo con il Nuovo, ecc.
Ancora una volta, però, le motivazioni appaiono superficiali se comparate con il raffinato
simbolismo delle cattedrali gotiche, specie se si pensa che l'orientazione è la principale e la
più evidente delle scelte operate dai mastri muratori.

2. Lo strano caso della cattedrale di Otranto

Abbiamo già avuto occasione di affrontare le problematiche di interconnessione tra il


simbolismo del mosaico della cattedrale di Otranto e la gnosi del Vangelo di Filippo, testo
gnostico scoperto solo nel 1945 a Nag Hammadi. Dalla nostra analisi è emerso come più che
probabile la approfondita conoscenza di questo testo da parte del monaco Pantaleone, che tra
il 1163 ed il 1165 realizzò l'opera. Come il testo fosse pervenuto nelle sue mani non lo
sappiamo, ma abbiamo avanzato l'ipotesi che questo fosse il frutto delle razzie praticate dai
monaci-guerrieri templari in Terra Santa. A questo punto una domanda è d'obbligo: esistono
prove certe della influenza e presenza templare nella cattedrale di Otranto?
Sotto la navata destra della cattedrale su apre una larga scalinata che porta alla stupenda cripta
inferiore. A sinistra della scala è stata conservata quella che doveva essere la vecchia scala di
ingresso alla cripta che, però, finisce in corrispondenza di una singolare tomba vuota. Essa è
sistemata a sinistra nella parte finale della scala, ed è collocata in un vasto incavo nel muro
che fiancheggia la scalinata. Ciò che rende singolare la tomba è la presenza di croci vermiglie
a coda di rondine chiaramente templari che ornano le quattro pareti interne della tomba. Una
spada tipicamente templare raffigurata vicino una delle croci conferma l'origine di questa
tomba. Nella zona incavata nel muro che ospita la tomba era presente un affresco che
qualcuno, in epoche remote, ha provveduto a scalpellare con tale accanimento e minuziosità
che è, oggi, assolutamente impossibile sapere cosa esso raffigurasse. Tomba vuota e affresco
cancellato ci dimostrano, quindi, che non solo la presenza templare nella cattedrale è un fatto,
ma che questa doveva avere connotati tali da rendere necessaria non solo la profanazione
della tomba ma anche la cancellazione definitiva di un intero affresco. In buona sostanza
riteniamo che sia la tomba che l'affresco mantenessero elementi che erano in qualche modo
connessi alla eresia templare. Escludiamo sicuramente, che l'origine della profanazione sia
stata araba (la chiesa fu usata come granaio dagli Arabi, ma essi non pare avessero intenzione
di danneggiarla tanto che il mosaico uscì indenne da questo inconsueto uso). I mussulmani
infatti non avrebbero conservato, per il loro significato cristiano, le croci vermiglie, le quali
invece sembrano essere state rispettate.
Ma le sorprese della cattedrale non finiscono qui. In una recente visita personale alla
cattedrale ho avuto occasione di conoscere il colto Don Gianfreda, massimo conoscitore
dell'opera e parroco della cattedrale. A lui ho posto una domanda che mi angosciava ormai da
molto tempo: che funzione aveva, o ha ancora oggi, la botola che si vede nella figura
sottostante, proprio lì dove termina l'albero ed inizia la vasta lacuna?
113

La domanda non era, evidentemente, dettata dalla semplice curiosità, ma da un ragionamento


suggeritomi dalla particolare forma dell'albero, simile ad una "Spada", ed alla "Roccia" in cui
essa sembra infissa. Nel Parzival di Wolfram il Graal è una pietra sulla quale sono incisi i
nomi dei cavalieri che avrebbero difeso il segreto del Graal. Solo gli eletti e quindi i cavalieri
predestinati potevano leggere il loro nome sulla pietra. Ebbene, Artù nel mosaico sembra
indicare proprio la botola ed il punto, la roccia, in cui è conficcato l'albero-spada.
Per comprendere cosa potrebbe nascondere la botola è necessaria una brevissima digressione.
Sono ormai molti gli studi sul Templarismo, che tra i molteplici misteri più o meno fondati,
vertenti intorno alla storia dei monaci guerrieri, se ne pongono uno storicamente davvero
sconcertante: poteva una figura scialba, incolta, volubile, come il De Molay, quale egli appare
dai documenti inquisitori e dal poco che si sa della sua storia personale, dirigere con efficacia
un apparato complesso e ramificato come quello templare? Poteva un uomo apparentemente
incolto decidere sui modi e sulla gestione delle attività bancarie ed economiche che ruotavano
intorno alle commende templari, e interessavano tutta l'area del Mediterraneo?
La risposta che si danno oggi studiosi come Jean Markale [I Templari - Custodi di un mistero,
J. Markale, Sperling & Kupfer, Milano, 2000.] è: quasi certamente: no. Doveva esistere un
gruppo ristretto di persone insospettabili, probabilmente intimamente legate ai più alti ranghi
della Chiesa, che manteneva il controllo dell'esercito di monaci guerrieri. Siffatta élite
intellettuale era probabilmente composta da personaggi che ufficialmente non risultavano
essere aderenti all'Ordine, ma coltivavano la matrice gnostica e presiedevano alla
realizzazione del disegno templare.
Don Gianfreda, alla domanda cosa ci fosse sotto la botola, mi ha risposto, come del resto mi
aspettavo, che essa una volta aperta scopriva una piccola scala di legno che portava al luogo
di sepoltura di alcuni vescovi. Peccato che in nessuna parte della chiesa si faccia menzione
dei nomi di costoro, ma se il loro ruolo era quello che abbiamo ipotizzato, allora il
nascondere la cripta ed i nomi dei vescovi rientra perfettamente nello scenario prefigurato
dalla leggenda Graaliana, e nella ipotesi del gruppo di vescovi i quali nascostamente
coordinavano le attività occulte e palesi dei Templari.
114

Ma ritorniamo all'ambiente nascosto in esame. La prima constatazione è relativa alla


orientazione dell'accesso. La presenza della cripta visibile della cattedrale fa sì che l'ingresso
alla cripta nascosta risulti orientato verso Ovest, ma è anche interessante notare che la tomba
vuota templare si trova all'esterno del muro perimetrale di questa cripta nella zona orientata a
Sud. Abbiamo avuto occasione di constatare che queste botole e queste camere sepolcrali
segrete, lungi dall'essere un caso isolato nell'architettura delle chiese medievali, sono, anzi,
una costante. Il dubbio che ci si pone è se esse avessero anche una funzione cerimoniale oltre
che sepolcrale.

3. La cattedrale di Muro Lucano

Nella impossibilità di accedere e di avere notizie precise sulla cripta nascosta della cattedrale
di Otranto, ci spostiamo in quella singolarissima di Muro Lucano che, come vedremo, può
dissipare parte dei nostri dubbi e soddisfare la nostra curiosità. Distrutta dal terremoto del
1980 è stata oggetto di approfondite campagne di scavo che hanno portato a singolarissime
scoperte: prima tra tutte, quella di una cripta segreta destinata alla sepoltura vescovile.
La cattedrale di Muro Lucano, originariamente orientata secondo la classica impostazione
medievale (apertura ad Ovest) fu successivamente ampliata, modificandone l'orientamento
originario Ovest-Est trasformandolo in quello Sud-Nord. Ebbene, sotto una zona interessata
dalla vecchia cattedrale, è stato scoperto, insieme a vari ambienti sepolcrali, un ambiente
voltato a botte completamente sconosciuto, a cui si aveva accesso attraverso una botola
situata nei pressi dell'altare della vecchia chiesa. L'immagine seguente mostra l'esterno degli
scavi:

Mentre quella successiva illustra lo spettacolo straordinario che gli archeologi si sono trovati
di fronte penetrando attraverso la botola: 9 seggi destinati alla inumazione di cadaveri posti a
115

sedere in posizione eretta! (un sistema di canalicoli assicurava la colatura del materiale in
decomposizione).

L'aspetto della sala riteniamo non differisca molto dalla scena che si potrebbe osservare
qualora si penetrasse nella cripta nascosta della cattedrale di Otranto. La prima impressione
che si ha è che questo luogo così diverso da ciò che tradizionalmente intendiamo come luogo
di sepoltura cristiano, abbia anche una sua funzione di tipo cerimoniale: ma a quale tipo di
cerimonia presenziano i vescovi morti che siedono in quello che appare una sorta di macabro
tribunale?

4. Il Vangelo di Filippo e la struttura delle cattedrali gotiche

La nostra tesi è che il Vangelo gnostico di Filippo fornisce una inattesa e completa chiave
interpretativa delle questioni che ci siamo fino ad ora posti. Ai versi 75 e segg. esso recita:

75. Senza luce nessuno può vedersi nell'acqua oppure in uno specchio, ma neppure senza
acqua e senza specchio potrai nuovamente vederti nella luce. Per questo motivo è necessario
battezzare nella luce e nell'acqua, in tutte e due. Ora la luce è l'unzione.
76. A Gerusalemme c'erano tre case che fungevano da luogo di sacrificio: una aperta dal lato
occidentale era detta il <<santo>>; l'altra aperta dal lato meridionale era detta <<il santo
del santo>>; la terza aperta dal lato orientale era detta <<il santo dei santi>>; in questo
luogo penetrava soltanto il sacerdote.
Il battesimo è la casa <<santa>>; l'unzione è il <<santo del santo>>; la camera nuziale è
<<il santo dei santi>>. Il battesimo comprende la resurrezione e la redenzione. La
redenzione ha luogo nella camera nuziale. Ma la camera nuziale è superiore [ad essa] poiché
tu non troverai nulla come essa. [Quanti le sono familiari sono] coloro che pregano nel santo
di Gerusalemme. In Gerusalemme [vi sono alcuni] che pregano [aspettando il Regno dei
Cieli]. Costoro sono detti <<il santo dei santi>>,[poiché prima]che il velo fosse strappato,
[noi non avevamo] altra camera nuziale, ma solo una immagine [della camera nuziale che è]
lassù. È per questo che il velo fu strappato dall'alto al basso, perché era opportuno che
qualcuno andasse dal basso all'alto.
77. Coloro che sono vestiti della luce perfetta non sono visti e quindi non possono essere
trattenuti dalle forze: ci si riveste di questa luce nel mistero, nell'unzione.
116

Andiamo per ordine. E' evidente che le "tre case" di cui si parla nel verso 76 non possono
riferirsi al Tempio di Gerusalemme, in quanto la prima di esse, che sembra contenga le altre
due, presenta una apertura ad Ovest, mentre il Tempio apriva ad Est. Deve, quindi, trattarsi di
edifici adibiti al culto cristiano o meglio giudeo-cristiano: la scelta delle denominazioni e la
presenza ancora folta di cristiani, nella probabile epoca di composizione di questo testo [II
sec. d.c., è questo il periodo che Il Moraldi nel testo [1] indica come più probabile per la
composizione dell'opera.] , non sembrerebbe lasciar dubbi sulla natura di tali edifici.
Il primo di questi che ci sovviene è sicuramente la sinagoga al centro del quartiere esseno di
Gerusalemme [Vedi anche [3].] . Questo edificio, tra le principali scoperte dell'archeologo
Bagil Pixner, è stato rinvenuto lì dove oggi si trova la Tomba di Davide, e dove si pensa ci sia
la sala ove Gesù celebrò l'ultima cena. La sinagoga giudeo-cristiana è invece emersa da alcuni
scavi eseguiti nel 1951 dall'archeologo Jacob Pinkerfeld, il quale mentre ricostruiva la
stratificazione della Tomba di Davide ne ritrovò la struttura ed il pavimento. La zona absidale
(quella che nella sinagoga in questione ospitava un incavo destinato alla Torah) ha un chiaro
orientamento verso Nord diverso da quello tipico delle sinagoghe giudaiche, e chiaramente
indicante non la direzione del Tempio, distrutto all'epoca di costruzione dell'edificio, ma
quella del Golgota, luogo che vide lo svolgersi della Passione di Gesù, e forse ospitò, non
molto distante, la sua tomba. E' questa orientazione che, insieme ad altri elementi (come la
presenza di un monogramma costantiniano nel pavimento), portò Pixner ad associarla alla
prima sinagoga della comunità giudeo-cristiana di Gerusalemme.
A questo, che è già di per sé un elemento rilevante, va aggiunta la scoperta [Vedi [4].], subito
fuori di questo edificio, di una grotta cui si accede attraverso uno stretto passaggio che oggi è
chiuso da un cancello, nel fondo del quale sono state ritrovate una pietra ed alcune oliere.
Sulla pietra una scritta inequivocabile "Per l'olio e per lo Spirito", che indica chiaramente la
funzione di questo piccolo edificio: l'unzione dei fedeli.
L'associazione di questo edificio o casa (si suppone che essa infatti fosse in precedenza la
casa che ospitò l'ultima cena) alla seconda delle tre costruzioni citate dal Vangelo di Filippo
sembra pressoché automatica: infatti, se la nicchia con la Torah nella sinagoga è orientata a
Nord, l'ingresso è inevitabilmente a Sud, e configura la sinagoga come un possibile candidato
al secondo edificio dell'unzione in Filippo.
L'edificio, la sua posizione, la sua orientazione, gli oggetti che vi sono stati trovati, sono tutti
riconducibili alla passione e quindi all'unzione di Cristo. Lo Spirito Santo è, infatti, il
Consolatore che viene lasciato al credente dopo la morte del Cristo.
Ritorniamo, a questo punto, al dubbio da cui eravamo partiti: la configurazione delle
cattedrali e delle chiese medievali.
La frase "Il Battesimo contiene la resurrezione e la redenzione" simbolicamente non può che
richiamare un incapsulamento dell'edificio della unzione, orientato a Sud, e di quello della
Camera Nuziale, orientato ad Ovest, all'interno di quello battesimale orientato ad Est.
In relazione alla terza sala, Filippo afferma:

la terza aperta dal lato orientale era detta <<il santo dei santi>>; in questo luogo penetrava
soltanto il sacerdote.

Quindi si tratta di un luogo il cui ingresso è commisurato ad una sola persona: il sacerdote.
questo spiega la botola, la sua dimensione, il suo orientamento e la sua collocazione sotto
l'altare. La segretezza e la separatezza di questo ambiente è poi indicata nei seguenti versi:

76. Costoro (quelli che possono accedere alla terza camera) sono detti <<il santo dei
santi>>,[poiché prima]che il velo fosse strappato,[noi non avevamo] altra camera nuziale,
ma solo una immagine [della camera nuziale che è] lassù. È per questo che il velo fu
strappato dall'alto al basso, perché era opportuno che qualcuno andasse dal basso all'alto.
117

77. Coloro che sono vestiti della luce perfetta non sono visti e quindi non possono essere
trattenuti dalle forze: ci si riveste di questa luce nel mistero, nell'unzione.

La invisibilità di tali membri eletti, chiaramente sacerdoti di alto rango (leggi vescovi), e la
necessità di rimanere nell'ombra sono, in questo passo, chiaramente espressi. La missione per
la quale essi sono stati predestinati si rivela, probabilmente, solo agli altri eletti, durante
l'unzione che, a questo punto, non può essere il semplice crisma battesimale, ma l'unzione
sacerdotale che si praticava nella seconda camera ancora aperta al pubblico, quella, appunto,
della unzione. Tutto ci ricollega allora al Graal di Wolfram. La pietra che conteneva i nomi
dei Cavalieri che avrebbero difeso il Graal aveva una proprietà particolare, solo i cavalieri
eletti potevano leggervi il loro nome.
A questo punto va applicato un principio gnostico tipico: quello della inversione del
simbolismo. Un principio delineato e motivato da vari brani nel Vangelo di Filippo, tra cui
quelli maggiormente esplicativi recitano:

13. Gli arconti vollero ingannare l'uomo, perché essi videro che egli aveva la stessa origine
di quelli che sono veramente buoni. Essi presero il nome delle cose che sono buone e lo
diedero alle cose che non sono buone, per potere, per mezzo dei nomi, ingannare gli uomini
e legarli alle cose che non sono buone.

E ancora:

11. I nomi che vengono dati alle cose terrestri racchiudono un grande inganno, perché
distolgono i cuori da concetti che sono autentici verso concetti che non sono autentici. Chi
sente la parola "Dio" non intende ciò che è autentico, ma intende ciò che non è autentico.
Così pure per "Padre" e "Figlio" e "Spirito Santo" e "Vita" e "Luce" e "Resurrezione" e
"Chiesa" e tutti gli altri nomi non s'intende ciò che è autentico, ma s'intende ciò che non è
autentico. A meno che non si sia venuti a conoscenza di ciò che è autentico, questi nomi sono
nel mondo per ingannare. Se essi fossero nell'eone, non sarebbero nominati ogni giorno nel
mondo e non sarebbero mescolati tra le cose terrestri. Essi hanno la loro fine nell'eone.

Quindi è più che giustificata la lettura inversa degli aggettivi come buono e cattivo, alto e
basso. Quando, nel Vangelo di Filippo, si leggono gli ordini di importanza dei tre edifici non
si può che dedurre che essi fossero disposti in profondità rispetto alla Chiesa Madre, in ordine
inverso all'"altezza" della loro funzione. In alto era posta, visibile, la cattedrale; la cripta
inferiore era disposta seminascosta e subito sotto il pavimento sotto l'altare con orientazione
ed ingresso a Sud; infine la cripta nascosta destinata alla "camera nuziale" ed al "santo dei
santi", cui potevano avere accesso solo il sommo sacerdote e gli eletti (vescovi eletti), è posta
ancor più sotto rispetto alla cripta della unzione, e il suo accesso è contrassegnato da una
botola sotto l'altare. La sua posizione verticale crediamo fosse ancora inferiore rispetto a
quella della cripta, probabilmente sotto il piano del pavimento di questa, ma al centro della
cattedrale, proprio come nel mosaico di Otranto.
Questa sala non può che essere quella scoperta a Muro Lucano, e quindi ha, come avevamo
supposto, una funzione che va ben oltre quella di semplice luogo di sepoltura: essa è la
"camera nuziale" gnostica del Vangelo di Filippo.
Dal punto di vista archeologico, resterebbero da identificare gli edifici in cui a Gerusalemme,
all'interno del quartiere esseno si eseguivano rispettivamente le cerimonie di battesimo e
quella, invece, che fungeva da camera nuziale. Ovviamente in ordine al ritrovamento di
quest'ultima non ci facciamo troppe illusioni: se unicamente grazie al caso è emerso il "Santo
dei Santi" in una chiesa cristiana a Muro Lucano, e solo dopo un evento sismico come il
terremoto del 1980, figuriamoci se è possibile sperare di trovare qualcosa in un territorio
martoriato come la Palestina, a 1800 anni dalla realizzazione delle opere cui siamo interessati.
118

Siamo già più che fortunati nell'aver ritrovato la sinagoga giudaico cristiana sotto la Tomba di
Davide, ma anche qui il caso (?) ha giocato un ruolo essenziale: infatti gli scavi cominciarono
solo perché i bombardamenti della prima guerra di indipendenza Israeliana del 1948 avevano
coinvolto pure la Tomba di Davide, ed andavano eseguiti urgenti lavori di consolidamento.
Per la chiesa esterna si sa solo che nei pressi della sinagoga giudeo-cristiana, sotto la tomba di
Davide, è stata ritrovata una vasca d'immersione battesimale; ma anche qui può essere solo un
caso, visto che ne sono state ritrovate diverse nel quartiere esseno di Gerusalemme, ed anche
grazie a queste è stato possibile consolidare l'ipotesi della origine essena dello stesso.
In fondo, per i nostri scopi, questo è però un obiettivo che possiamo considerare secondario.
In pratica quella individuata in Filippo è proprio la configurazione che ritroviamo nelle
cattedrali medievali e che, in particolare, troviamo ad Otranto.

5. Il significato dell'orientamento delle cattedrali e delle cerimonie sacramentali secondo


la gnosi del Vangelo di Filippo

Il Battesimo gnostico

Completata, almeno parzialmente, l'analisi oggettiva e storico-archeologica a sostegno della


nostra tesi, ci resta da affrontare il tema più scottante che possiamo così sintetizzare: se il
significato recondito delle orientazioni dei templi cristiani è nella gnosi, che cosa di diverso e
di più si può evincere intorno ad esso?
Cominciamo con una delle due interpretazioni che avevamo già proposto, relativa alla contro-
orientazione delle cattedrali rispetto al Tempio di Gerusalemme. Gli aspetti interessanti sono
essenzialmente due: il primo attiene al principio della negazione dei simboli (intesa come
interpretazione opposta del simbolo, tipica della gnosi), il secondo, invece, attiene alla
possibile preesistenza di questo concetto rispetto alla gnosi stessa.
Relativamente al primo aspetto, la gnosi capovolge il valore dei simboli e quindi non fa
meraviglia che si sia deciso di contro-orientare gli edifici ad essa ispirati rispetto al Tempio di
Gerusalemme ed a quello che esso rappresentava.
Relativamente al secondo aspetto, va considerato che, se quello che abbiamo ipotizzato sulla
sinagoga giudeo-cristiana di Gerusalemme è vero, è allora chiaro che la scelta di orientare la
camera della unzione non verso il Tempio ma verso la nuova speranza, il Golgota, non poteva
che avere il seguente significato simbolico: il Tempio e la Torah, con il sacrificio (in linea
con i principi gnostici ma anche con quelli esseni che precedono il pensiero cristiano) sono
superate, di conseguenza si supera totalmente anche l'orientamento ad essi connesso.
Ma qui non siamo ancora al principio gnostico, semmai siamo pienamente nella
interpretazione di Paolo di Tarso. Se il principio fosse stato questo tutte le cripte delle
cattedrali europee avrebbero avuto l'ingresso a Nord e non a Sud; esse infatti avrebbero
dovuto puntare verso il Golgota, ma da Nord e non da Sud, come accade per la sinagoga
giudeo-cristiana posta sotto la Tomba di Davide. Non che questo non sia vero per alcune
chiese, le quali talora presentano cripte con doppio ingresso sia a Nord che a Sud, indicando
chiaramente una indecisione dei costruttori che dovevano aver perso l'originario riferimento,
una volta scomparsa definitivamente l'eresia gnostica dopo la crociata contro il suo ultimo
baluardo: quello Cataro.
Dicevamo, comunque, che il principio non può essere questo, e quando si ci trova di fronte a
situazioni simili possiamo, a nostro avviso, escludere che l'edificio sacro abbia legami diretti
con il Templarismo e con la radice gnostica che esso rappresentava nei suoi ranghi più elevati
e segreti.
Passiamo, invece, ad analizzare il presupposto gnostico cominciando dalla Chiesa Superiore o
Tempio Battesimale, secondo la gnosi. La spiegazione che attendevamo a motivo della
presenza di una apertura ad Ovest e non ad Est, è solo in apparenza simile a ciò che avevamo
supposto: il cammino del credente verso la luce della fede. In realtà questa visione nasconde
119

la radice profondamente gnostica ed esoterica di tale scelta architettonica, viceversa


chiaramente espressa nel verso 75 di Filippo:

75. Senza luce nessuno può vedersi nell'acqua oppure in uno specchio, ma neppure senza
acqua e senza specchio potrai nuovamente vederti nella luce. Per questo motivo è necessario
battezzare nella luce e nell'acqua, in tutte e due. Ora la luce è l'unzione.

La scelta architettonica di stampo gnostico faceva sì a nostro parere che di fronte all'altare la
luce del mattino, proveniente dalle finestre absidali esposte ad Est, si riflettesse sulla persona,
determinando la formazione di una sua immagine nell'acqua battesimale. L'immersione in
acqua provocava la fusione simbolica tra il credente e tale immagine con una interpretazione
simbolica duplice: rinascita nella immagine, e purificazione (aspetto questo, che ha una
valenza molto meno importante nella gnosi, di quanto non lo sia per il cristianesimo o
l'essenismo). Per comprendere quanto sia dirompente questo approccio e quanto sia
profondamente diverso da quello cristiano, va sicuramente detto che la immagine ha un ruolo
assolutamente centrale nella gnosi, tanto che lo stesso Moraldi sceglie il passo seguente quale
sintesi del suo volumetto sui Vangeli gnostici, tratto, guarda caso, proprio dal Vangelo di
Filippo:

67. La verità non è venuta nel mondo nuda, ma è venuta in simboli ed immagini.

Il brano prosegue spiegando il profondo valore di questa affermazione, ed il suo legame con
il battesimo, e l'unzione.

(La verità) Non la si può afferrare in altra maniera. C'è una rigenerazione e un'immagine di
rigenerazione. Ed è veramente necessario che si sia rigenerati attraverso l'immagine. Che
cos'è la resurrezione? L'immagine deve risorgere per mezzo dell'immagine. Lo sposo e
l'immagine penetrano nella verità attraverso l'immagine. Questa è la restaurazione.

Quindi l'immagine è necessaria per conoscere la Verità e la Verità la si conosce solo se si


diviene l'immagine di se stessi. Questo è ciò che accade nel battesimo e si completa, come
vedremo, con l'unzione. Solo alla fine di questo percorso si perviene alla "restaurazione" nella
camera nuziale, cioè alla ricongiunzione degli Eletti con il Padre, attraverso un percorso
sapienziale autonomo e solitario fatto di meditazione sulle immagini che porta lo gnostico a
"ricordare" la sua origine divina. Anche da questa analisi superficiale si evidenzia la
dirompenza di questa impostazione e la distanza dell'approccio cristiano tradizionale ed in
particolare cattolico. Ma il problema va ben al di là della semplice autonomia e non necessità
di mediazione tra l'uomo e Dio, e da quello inerente la possibilità di pervenire alla conoscenza
divina ed alla ricongiunzione degli Eletti con il Padre. Ridurre solo a ciò la novità della
presente interpretazione gnostica del simbolismo delle cattedrali è quantomeno parziale:
l'essenza del simbolismo in esame è estremamente più profonda.
Il primo passo per comprendere la complessità del concetto battesimale gnostico è la
motivazione che viene addotta, in Filippo, per l'avvento della morte nel mondo:

71. Quando Eva era in Adamo, non esisteva la morte. Ma dopo che essa si fu separata, la
morte è sopravvenuta. Se essa entra di nuovo in lui, e se egli la riprende in se stesso, non
esisterà più la morte.

C'è quindi stata una separazione dell'uomo in se stesso. Egli ha perso una sua parte
componente: è allora che si è dato origine alle nascite e morti. L'uomo uno ed auto generante
e rigenerante, è divenuto separato. Già si avverte nel precedente brano che il valore della
"camera nuziale" va molto al di là di quello che si sarebbe portati a pensare associandolo a
120

mitologici riti orgiastici da sempre attribuiti, ingiustificatamente secondo noi, alla gnosi - che
io chiamerei, per motivi intuibili e per affinità con altri contesti esoterici, "gnosi bianca".
Il concetto è ribadito anche nel seguente passo, che però aggiunge un elemento essenziale, il
motore della ricongiunzione e del superamento dell'errore originario, cioè il Cristo:

78. Se la donna non si fosse separata dall'uomo, non sarebbe morta, con l'uomo. La sua
separazione è stata l'origine della morte. Per questo motivo è venuto il Cristo: per annullare
la separazione che esisteva fin dalle origini e unire di nuovo i due, e per dare la vita a quelli
che erano morti nella separazione e unirli.

Siamo, comunque, ancora a livello simbolico e non abbiamo penetrato il senso di queste
affermazioni. Il passo seguente ci avvicina ancora di più al senso di queste metafore:

80. L'anima di Adamo è venuta nell'esistenza per mezzo di un soffio. Quello è il suo consorte.
Lo Spirito che gli è stato dato è sua Madre; l'anima fu sostituita dallo spirito che gli è stato
dato in sua vece. Quando si unì a lui pronunciò parole incomprensibili alle forze. Esse lo
invidiarono perché erano separate dall'unione spirituale. Tale [divisione] offrì loro
l'occasione [di formarsi un simbolico] letto nuziale affinché [gli uomini si contaminassero in
esso].

E ancora:

83. Adamo è stato fatto da due vergini: lo spirito e la terra vergine. Per questo motivo, Cristo
è stato generato da una vergine: per riparare alla caduta che è avvenuta alle origini.

Rivediamo e commentiamo ora ciò che secondo gli gnostici costituiva la matrice dell'errore
che doveva essere riparato. Adamo è privo di qualcosa che gli apparteneva: la sua anima, o
meglio il suo "animo", visto che Filippo gli attribuisce connotazioni maschili di "compagno".
L'anima fu sostituita con lo Spirito vitale: il soffio, madre di Adamo. La sostanza forte di
questa affermazione è evidente: Adamo era preesistente a colui che lo rigenera attraverso il
soffio. Ma se ciò è vero, l'impasto di creta operato dal Demiurgo non è Adamo, bensì un suo
simulacro. Adamo viene intrappolato in esso quando il Demiurgo "pronunciò parole
incomprensibili alle forze". Stiamo quindi parlando non di un atto creativo ma di una
trasformazione di un essere di per sé divino in un essere umano e fragile. Tale trasformazione
comporta l'esistenza di un Dio malvagio, il Demiurgo appunto, che non crea ma trasforma la
realtà togliendo ad Adamo i suoi vestiti celesti per dagli quelli di fango che non gli
appartengono. L'esistenza del Demiurgo è confermata in Filippo dal seguente brano:

99. Il mondo è stato creato in seguito ad una trasgressione. In effetti colui che l'ha creato
voleva farlo incorruttibile ed immortale, ma egli ha commesso una trasgressione e non ha
soddisfatto la sua speranza. Infatti l'incorruttibilità del mondo non c'è stata e non c'è stata
l'incorruttibilità di colui che ha fatto il mondo. Veramente non c'è incorruttibilità nelle opere,
ma nei figli, e nessuna opera potrà ricevere la incorruttibilità, a meno che diventi figlio. Ma
colui che non ha la possibilità di ricevere, quanto maggiormente non potrà dare!

La divinità dell'uomo e la sua eternità sono inoltre confermate dal brano seguente:

85. Così è nel mondo: gli uomini creano dei e venerano le loro creazioni. Sarebbe
conveniente che gli dei venerassero gli uomini

Ci piace sottolineare, con una breve digressione, che questa preesistenza degli eletti alla
creazione non è un fatto nuovo, nell'ambito dell'ebraismo poi divenuto cristianesimo, ma ha
121

una sua forte radice in una parte dell'essenismo che ritroviamo appieno negli Inni
Qumraniani. Ecco due brani tratti dagli Inni che dimostrano quanto abbiamo anticipato:

Questi sono quelli che tu hai sta[bilito prima dei] secoli per giudicare con loro tutte le opere
prima di crearle insieme con l'esercito dei tuoi spiriti e la congregazione degli [angeli]. Col
V (XIII) [vedi [11].]

Hai purificato lo spirito perverso dal grande peccato, perché possa far parte dei Santi del
cielo. Hai stabilito per l'uomo una sorte eterna insieme agli spirito di conoscenza. Col. XI
(III)

Abbiamo fatto un notevole passo avanti nella comprensione della radice dell'errore, ma non è
ancora sufficientemente chiaro (lo abbiamo solo tratteggiato) il significato della immagine nel
battesimo gnostico.

101. L'acqua viva è una sostanza. È necessario che ci rivestiamo dell'Uomo Vivente. Per
questo, quando uno viene per discendere nell'acqua si leva gli abiti per rivestirsi di quello.

Il precedente brano aggiunge una informazione centrale: l'immersione in acqua battesimale ci


fa spogliare dei vestiti umani per rivestirci del vestito celeste. Ma ritorniamo al vestito di cui
Adamo è stato privato:

24. In questo mondo, quelli che indossano i vestiti (anime) sono superiori ai vestiti (corpo);
nel Regno dei Cieli i vestiti (spirito) sono superiori a quelli che li indossano, per l'acqua ed il
fuoco che purificano tutto il luogo.

Nel battesimo ci si sveste simbolicamente del vestito reale, ma anche di quello metaforico che
è il corpo, per rivestirsi del vestito dell'Uomo Vero e Vivente. Ma che cos'è questo vestito
celeste, come è composto? Ecco la risposta di Filippo:

106. Non solamente l'uomo perfetto non potrà essere colto, ma non potrà nemmeno essere
visto. Perché se egli è visto sarà colto. In nessun'altra maniera qualcuno potrà ottenere per
se stesso questa grazia, a meno che non si rivesta della Luce perfetta e non diventi egli stesso
Luce perfetta. Quando l'avrà rivestita, egli andrà nella Luce. Tale è la Luce perfetta.

Il vestito è luce, l'uomo si deve rivestire di esso e quindi di luce, divenendo Luce Perfetta egli
stesso. A questo punto gli elementi del puzzle battesimale gnostico sono ricomposti: manca
solo la funzione di correzione che cercavamo e che rende il Cristo essenziale per questo
processo. Ecco come Filippo dipana anche questo mistero:

81. Gesù ha rivelato sulle rive del Giordano la pienezza del Regno dei Cieli che esisteva
prima del Tutto. Poi egli fu rigenerato. Poi fu adottato come figlio. Poi fu unto. Poi fu
redento. Poi ha redento.

82. Se è possibile riferire un mistero: il Padre del Tutto si è unito alla Vergine che è discesa e
quel giorno un fuoco lo ha illuminato. Esso ha rivelato la grande camera nuziale. Per questo
il suo corpo, che è venuto nell'esistenza in quel giorno, è venuto dalla camera nuziale, come
quello che è stato generato dallo Sposo e dalla Sposa. Così, grazie a questi, Gesù ha
ristabilito il Tutto in essa. Ed è inevitabile che ogni discepolo entri nella sua Quiete.

La prima cosa che si evince è la assoluta centralità del battesimo nel Giordano per la gnosi. E'
chiaro che per gli gnostici ciò che era avvenuto prima del battesimo non aveva valore, e se
122

Marco, che gnostico di sicuro non era, ignorava il battesimo ma anche la funzione di esso
(che invece emerge in tutta la sua importanza solo nel Vangelo di Matteo), come non credere
alla Patristica quando afferma che fu Matteo il primo Vangelo? E che la copia che ne
abbiamo è sostanzialmente identica alla versione ebraica primitiva, eccezion fatta per la
presenza di una genealogia e della narrazione dell'infanzia assenti nell'originale? Ma questa è,
ovviamente, altra storia, che però ci serve per sottolineare quanto ci sia da fare e da rifare
nell'ambito della storia cristiana alla luce delle testimonianze di Hag Hammadi.
Ritorniamo comunque alla nostra analisi del pensiero gnostico e della funzione della
immagine che equivale a quella del vestito, ed alla funzione correttiva della venuta di Gesù
nella gnosi. Gesù ripara un "errore": entrando nel Giordano fa sì che la sua componente
femminile, lo Spirito, che aveva avuto come ogni uomo in sostituzione della sua anima, si
unisse sul metaforico letto nuziale con quella maschile: il Padre. In questo modo e in quello
stesso giorno è nato l'essere perfetto: l'anima è stata concepita dall'unione e ha sostituito lo
Spirito, generando l'Uomo Vivente e l'Uomo Nuovo, l'unico che, secondo Filippo, è in grado
a sua volta di generare altri Uomini Viventi.
Filippo ci ha spiegato ciò che poteva lasciando volutamente vari punti oscuri come, ad
esempio, il perché l'immagine riflessa in uno specchio sia l'emblema massimo della veste che
è nei cieli. Cerchiamo di capire, ora, come avveniva il rito battesimale. E' probabile che non
si svolgesse con l'aspersione ma con l'immersione completa del corpo nudo in acqua, quindi
era simile ma non uguale a quello cristiano cattolico. In particolare l'unzione con olio
riteniamo non fosse praticata durante il battesimo, ove la Luce ricopriva già questo compito,
ma solo durante il rito della unzione. Comunque, il valore simbolico altissimo della cerimonia
ed il suo contenuto esoterico erano, di certo, volutamente occultati. A confermarci questo alto
valore esoterico ecco ancora un brano di Filippo:

25. Ciò che è manifesto, lo è grazie a ciò che è manifesto; ciò che è nascosto, grazie a ciò che
è nascosto. Ma vi sono certe cose nascoste che lo sono grazie a cose manifeste. C'è un'acqua
nell'acqua ed un fuoco nel crisma.

Quindi il battesimo rivela cose nascoste attraverso cose manifeste, in fondo è ciò che abbiamo
appena ipotizzato avvenisse per gli gnostici (vescovi templari del gruppo ristretto e nascosto
di comando), i quali praticavano riti cristiani leggendoci però significati non rivelati e non
rivelabili. Così, l'acqua dell'altro Regno è nell'acqua di questo regno. Ciò non può che
significare che nell'acqua gli gnostici riconoscono una proprietà particolare che non è terrena.
Attraverso le funzioni che l'acqua svolge quaggiù possiamo comprendere la funzione che
l'acqua ha lassù. Se questa interpretazione è corretta si capisce il valore esoterico posseduto
dall'acqua, e allora si comprende che l'immagine riflessa in essa potesse essere, per gli
gnostici, una sorta di ponte tra due mondi, che ci consente di riconoscere la nostra "vera"
immagine, vale a dire il nostro io reale. Raggiungere quell'Io e rinascere è lo scopo del
battesimo.
Ma può solo l'acqua svolgere questo ruolo? A giudicare dal brano che riproponiamo, no:

75. Senza luce nessuno può vedersi nell'acqua oppure in uno specchio, ma neppure senza
acqua e senza specchio potrai nuovamente vederti nella luce. Per questo motivo è necessario
battezzare nella luce e nell'acqua, in tutte e due. Ora la luce è l'unzione.

La luce sostituisce l'unzione, ma la luce è il vestito, come abbiamo visto, e quindi la luce
colpisce l'uomo e si riflette nell'acqua componendo metaforicamente l'Uomo Vivente, o
meglio l'immagine dell'Uomo Vivente. Il battesimo consente l'immersione nell'Uomo Vivente
e quindi lo spogliarsi del vestito corrotto per rivestirsi di quello eterno. Come la figura
nell'acqua è incorporea e ci mostra l'immagine dell'Uomo Vivente, così quella riflessa del
vestito, che è la sostanza dell'Uomo Vivente nell'altro Regno, è incorporea. Essa, come
123

l'immagine nell'acqua, è luce. Ci si potrebbe spingere ancora oltre osservando, ad esempio,


come il principio di capovolgimento orizzontale della immagine riflessa che inverte
l'immagine reale dell'Uomo, simboleggi quel principio interpretativo tipicamente gnostico
della inversione del senso dei simboli: ciò che appare bianco è nero, e ciò che è appare a
destra è in realtà a sinistra. Questo, però, è un rito aperto a tutti che serve a riconoscere gli
eletti. Infatti non tutti escono da questo rito rivestiti del loro vestito di luce.

59. ) Se qualcuno scende nell'acqua e ne esce fuori senza aver ricevuto nulla e dice: "Io sono
cristiano", egli si è appropriato il nome; ma se egli riceve lo Spirito Santo, ha il dono del
nome. Chi ha avuto il dono, non ne è più privato; ma chi se l'è appropriato, gli viene tolto.

L'Unzione gnostica

Passiamo ora ad analizzare il rito dell'unzione che si compiva nell'edificio aperto a Sud, e che
nelle cattedrali medievali corrisponde alla cripta visibile. Cominciamo dall'elemento base
necessario per l'unzione. Scrive Filippo:

91. L'apostolo Filippo ha detto: " Giuseppe il falegname ha piantato un giardino, perché
aveva bisogno di legna per il suo mestiere. È lui che ha costruito la Croce con gli alberi che
ha piantato. Il suo seme è stato Gesù, la Croce la sua pianta.

92. Ma l'albero della vita è in mezzo al Paradiso. Tuttavia è dall'ulivo che si estrae il crisma,
grazie al quale si ha la resurrezione.

Quindi l'olio di oliva è, come potevamo immaginare, l'elemento base per la unzione. Filippo
precisa inoltre la funzione della resurrezione che avviene a mezzo della unzione con il
seguente brano che riportiamo nella sua interezza:

67. La verità non è venuta nel mondo nuda, ma è venuta in simboli ed immagini. Esso non la
riceverà in altra maniera. C'è una rigenerazione e un'immagine di rigenerazione. Ed è
veramente necessario che si sia rigenerati attraverso l'immagine. Che cos'è la resurrezione?
E la immagine è necessario che risorga attraverso l'immagine e la camera nuziale;
l'immagine attraverso l'immagine, è necessario che si entri nella Verità, che è la
restaurazione.
Questo è inevitabile per coloro che non soltanto ricevono il nome del Padre e del Figlio e
dello Spirito Santo, ma che li hanno ottenuti proprio per sé. Se uno non li ottiene proprio per
sé, anche il nome gli sarà tolto. Ora questi si ottengono con l'unzione aromatica della
potenza della Croce, che gli apostoli hanno chiamato la destra e la sinistra. Infatti costui non
è più un cristiano, ma un Cristo.

La rigenerazione, quindi, non può avvenire se non attraverso l'immagine. La funzione di


fusione tra l'uomo e la sua immagine è, quindi, quella di garantire simbolicamente che l'uomo
divenuto immagine di se stesso, poiché ha indossato il suo vestito celeste ed è rinato, possa
passare alle fasi successive della evoluzione gnostica, la prima delle quali corrisponde
appunto, "all'unzione aromatica della pienezza della potenza della Croce". Nella pratica, come
si evince dal brano, l'unzione gnostica viene accompagnata dal pronunciamento e quindi
dall'ottenimento "per sé" del nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insieme al
frutto della Croce: il crisma dell'unzione. E' spiegata, quindi, la sequenza non casuale della
narrazione dei versi 91 e 92 già visti. Giuseppe il falegname pianta una pianta di ulivo che
diviene la croce o meglio l'albero cui è appeso il Cristo (la crocifissione nelle scritture
ebraiche era chiamata appunto "l'apprendimento all'albero"). Il frutto di quell'albero è il
crisma sintesi della unione con il Tutto e della unione delle tre figure divine Padre, Figlio e
124

Spirito Santo. Da quest'ultima osservazione si comprende la funzione del pronunciamento


della formula trinitaria. Fondamentale è, poi, notare che il risultato della unzione, del
ricevimento dei tre nomi è che colui che con il battesimo aveva ricevuto solo il nome di
Cristiano, con l'unzione diviene "un Cristo".
Qui siamo al punto più significativo ed emblematico della gnosi: ciascuno, con l'unzione, non
è più se stesso, ma diviene identico a Cristo. Il brano che segue, spiega in maniera più precisa
i concetti ora esposti:

44. Non è possibile che uno veda qualcuna delle realtà autentiche, a meno che non diventi
come esse. La Verità non è come per l'uomo nel mondo: egli vede il sole, ma non è il sole, e
vede il cielo e la terra e tutte le altre cose, ma non sono per nulla quelli autentici.
Ma tu hai visto qualcuna delle cose del Luogo e sei divenuto di quelle. Tu hai visto lo Spirito
e sei diventato Spirito. Tu hai visto Cristo e sei diventato Cristo. Tu hai visto il Padre e
diventerai il Padre. Per questo, ora, tu vedi ogni cosa e non vedi te stesso. Ma vedrai te
stesso in quel Luogo, e diventerai quello che vedi.

Il brano compendia le tre fasi di crescita spirituale per lo gnostico, che passano attraverso il
battesimo, l'unzione e la camera nuziale; inoltre, ribadisce e chiarifica la funzione della
immagine e la necessità di identificarsi con essa come momento essenziale per cogliere la
verità. Durante ogni passaggio, da quello battesimale che ci mostra la nostra vera immagine e
ci porta alla rinascita ricongiungendoci ad essa, fino all'unzione ove avviene la resurrezione
(prima della morte, punto sul quale ritorneremo tra breve), attraverso il Crisma frutto della
Croce e l'ottenimento dei tre nomi, fino alla camera nuziale che discuteremo tra breve, l'uomo
passa attraverso l'identificazione con le tre figure della Trinità: lo Spirito, con il battesimo, il
Cristo, con l'unzione, il Padre, con la camera nuziale, pervenendo al contatto completo col
divino in una totale immedesimazione ed autoidentificazione con il divino. Lo gnostico,
attraverso i sacramenti impartiti durante precisi momenti della vita, arriva alla rigenerazione e
ricostruzione di sé, quindi diviene egli stesso il Padre, il Cristo, lo Spirito. Si vede così quanto
la sostanza dei sacramenti gnostici, da cui pure tanto attinge la tradizione cristiana ortodossa
(basti pensare che se la datazione al II sec. proposta da Moraldi è corretta, questo testo non
può che riflettere i principi dai quali poi nacquero, fortemente ridimensionati, i sacramenti
cristiani) disti da quella cristiana e presenti una teologia molto più evoluta, complessa e
completa, ben al di la delle più ardite elaborazioni teologiche del cristianesimo Paolino.
Ma approfondiamo un tema fortemente ambiguo, su cui la gnosi del Vangelo di Filippo batte
con forza: la necessità che la resurrezione avvenga prima della morte e non dopo:

21. Coloro che dicono che il Signore prima è morto e poi è risuscitato, si sbagliano, perché
egli prima è risuscitato e poi è morto. Se uno non consegue prima la resurrezione non
morirà, perché "come è vero che Dio vive" egli sarà già morto.

Il brano presenta un elemento che da solo mette in crisi l'essenza stessa dell'essere cristiano
secondo S. Paolo: la resurrezione. In pratica la resurrezione gnostica non segue la morte del
Cristo, ma la precede. E' chiaro che con il termine morte, gli gnostici fanno riferimento alla
morte corporea, mentre con il termine resurrezione essi si riferiscono al ricongiungimento con
il Padre ed alla restaurazione dell'Uomo Vivente nel suo corpo celeste. Se, però, la
resurrezione del Cristo precede la sua morte, vuol dire che egli morì davvero, e che il suo
corpo non risorse "realmente" dai morti? Per comprenderlo dobbiamo analizzare il tema della
resurrezione secondo il Vangelo di Filippo. Sotto l'aspetto specifico della resurrezione nei
corpi esso è affrontato approfonditamente da vari brani come il seguente:

23. Vi sono certuni che hanno paura di risuscitare nudi. Per questo essi vogliono risuscitare
nella carne, e non sanno che quelli che portano la carne, proprio essi sono nudi. Quelli che
125

spogliano se stessi fino ad essere nudi, non sono nudi. Né carne né sangue possono ereditare
il Regno di Dio. Qual è quello che non erediterà? Il corpo che noi abbiamo. Qual è invece
quello che erediterà? Quello di Gesù e il suo sangue. È per questo che egli ha detto: "Chi
non mangerà la mia carne (Logos) e non berrà il mio sangue non ha la vita in se stesso". E
cosa sono queste cose? La sua carne è il Logos e il suo sangue è lo Spirito Santo (anima).
Chi ha ricevuto queste cose ha cibo, bevanda e vestito. Io, poi, biasimo anche gli altri, quelli
che dicono che non si risusciterà. Infatti ambedue sono in errore. Tu dici che la carne non
risusciterà: dimmi allora che cosa risusciterà, affinché noi possiamo renderti onore. Tu dici
che lo Spirito è dentro la carne, che c'è pure questa luce dentro la carne. Ma è il Logos,
quest'altro che è nella carne! In questa carne (Logos) in cui Tutto esiste, bisogna dunque
risuscitare.

Il pensiero gnostico si dimostra, quindi, ancora una volta estremamente sottile. Non si può
risorgere nella carne perché questa carne è corruzione. Una resurrezione dell'uomo in questa
carne, quindi, non ha senso, Ciò che può risorgere è la nuova carne: il Logos di Cristo il cui
circola il suo sangue, lo Spirito Santo. Il Logos lo si riceve in vita attraverso la maturazione
gnostica del Cristo e se lo si riceve si resusciterà in quella carne. Nella sostanza, quindi, il
corpo materiale è destinato al deperimento. Tutto ciò però è vero per l'uomo, mentre per il
Cristo non può essere così: egli è il Logos ed è dotato di un corpo perfetto, come testimonia
anche il seguente brano:

72. " Mio Dio, mio Dio! Perché, o Signore, mi hai abbandonato?" Egli ha detto queste
parole sulla croce, perché essa [Egli] ha separato dal Luogo la sua anima, che era stata
generata dallo Spirito Santo, per opera di Dio.
Il Signore si è levato dai morti ed è divenuto come era prima. Ma il suo corpo era perfetto:
aveva bensì una carne, ma questa carne è una carne autentica, mentre la nostra carne non è
autentica, ma noi possediamo un'immagine di quella autentica.

Prima della morte, Gesù ha quel momento di smarrimento fondamentale perché fosse aperto
il canale tra il mondo dei Morti e quello dei Vivi. Lo smarrimento lo porta ad una temporanea
separazione dalla sua anima ed alla dimenticanza della sua origine regale. Scende nelle sfere
inferiori ma, come il principe dell'Inno alla Perla che troviamo negli Atti di Tommaso, ritrova
se stesso e vince la morte aprendo la strada al ricongiungimento degli eletti con Dio
simboleggiato dallo squarcio del velo: "dall'alto verso il basso perché qualcuno dal basso
andasse verso l'alto". Questo brano, quindi, risponde alla domanda che ci eravamo posti.
Gesù risorge dai morti riprendendosi il corpo perfetto e riacquistando la "memoria"
temporaneamente persa nell'ambito di un progetto di restaurazione per l'uomo perché si
aprisse quel canale di salvezza che prima mancava: ecco perché proprio "Gesù = Salvezza" è
il nome nascosto secondo Filippo.
Il problema che, però, ci si deve porre è il seguente: tra il battesimo e l'unzione, lo gnostico
doveva percorrere un cammino particolare? Era, cioè, necessaria una preparazione specifica
per giungere all'unzione?

105. A tutti quanti posseggono il Tutto, non necessariamente tutti conoscono se stessi? E in
verità, quelli che non conoscono se stessi non gioiranno di ciò che essi posseggono, ma quelli
che sono pervenuti alla conoscenza di se stessi ne gioiranno.

Il Tutto lo si riceve con l'Unzione e, quindi, l'unzione era, quasi certamente, preceduta da un
periodo di alcuni anni durante il quale lo gnostico iniziava una attenta e minuziosa autoanalisi
che alcuni hanno, probabilmente in maniera corretta, identificato come un processo fondato
su presupposti non dissimili da quelli della moderna psicoanalisi. [In [5] Mario Guarracino, ad
esempio, ha proposto una singolare e coinvolgente interpretazione di tutti i passi del
126

Vangelo gnostico di Tommaso in chiave psicoanalitica.] In effetti sembra proprio questa la


più probabile chiave di lettura di brani come il seguente:

123. Finché le loro passioni sono nascoste, rimangono e sono vive; se vengono manifestate,
muoiono, secondo l'esempio dell'uomo che è manifesto: finché le viscere dell'uomo sono
nascoste, l'uomo vive; se le viscere appaiono e vengono fuori di lui, l'uomo morirà. Così pure
è l'albero: finché la sua radice è nascosta, esso fiorisce e cresce; se la radice appare, l'albero
secca. Così è per ogni prodotto che è nel mondo, non soltanto per quello che è manifesto, ma
anche per quello che è nascosto. Infatti, fintanto che la radice dell'errore è nascosta, esso è
forte, ma quando è riconosciuta, esso si dissolve. Questo è il motivo per cui il Logos ha detto:
"Già la scure è posta alla radice degli alberi". Essa non sfronderà soltanto "ciò che è
sfrondato germoglia di nuovo" ma la scure taglia profondamente finché svelle la radice. E
Gesù ha divelto la radice di tutto il luogo; gli altri invece solo in parte. Quanto a noi,
ciascuno scavi profondamente fino alla radice dell'errore, che è dentro di lui e lo divelga dal
suo cuore fino alla radice. Ed esso invero sarà divelto, quando noi lo riconosceremo. Che se
noi siamo ignoranti a suo riguardo, esso affonda in noi le radici e produce i suoi frutti nei
nostri cuori. Esso domina su di noi, e noi siamo suoi schiavi. Ci tiene prigionieri, cosicché
noi facciamo ciò che non vogliamo, e ciò che vogliamo non lo facciamo. Esso è potente
perché noi non lo conosciamo, e finché esiste, esso lavora. L'ignoranza è per noi la madre
dell'errore. L'ignoranza è al servizio della morte: ciò che viene dall'ignoranza né è esistito,
né esiste, né esisterà. Invece coloro che sono nella verità saranno perfetti quando tutta la
verità si manifesterà.

Quindi l'autoanalisi è destinata alla scoperta di se stessi ed alla scoperta della radice
dell'errore e delle passioni. Una volta scoperto il proprio "lato oscuro" si può ricevere ed
apprezzare il Tutto che si ottiene con l'unzione.

La Camera Nuziale

Passiamo, ora, all'analisi del più segreto e riservato, ma anche del più misterioso dei riti
gnostici: quello della Camera Nuziale. Abbiamo già fatto cenno al fatto che tale rito non può
e non deve essere visto o correlato a riti orgiastici o comunque sessuali, il Vangelo di Filippo
espone in maniera chiara la distanza che c'è tra questa "camera nuziale" e l'atto sessuale, salvo
che questo non venga correlato all'altissimo ruolo metaforico e rituale di riunione dell'uomo
con la sua componente femminile e con la generazione della immagine di quella un Uomo
Perfetto e celeste che è obiettivo primario dello gnostico. Ma ritorniamo al rito della camera
nuziale.

125. Ma la camera nuziale è nascosta. Essa è il Santo dei Santi. Adesso la cortina tiene
celato in che modo Dio governa la creazione, ma quando la cortina si strapperà e ciò che è
all'interno verrà rivelato, allora quest'edificio sarà lasciato deserto, o piuttosto, sarà
distrutto. Ma la divinità non fuggirà interamente da questi luoghi dentro il Santo dei Santi,
perché essa non potrà unirsi alla Luce senza mescolanze e al Pleroma senza difetti, ma starà
sotto le ali della Croce e sotto le sue braccia. Questa sarà per essi l'arca di salvezza, quando
il diluvio delle acque li investirà. Se vi saranno di quelli della tribù del sacerdozio, essi
potranno entrare all'interno della cortina con il Sommo Sacerdote.

Qui l'associazione della camera nuziale alla cripta nascosta delle cattedrali è più che mai
evidente. La camera nuziale è, innanzitutto, nascosta e, come sapevamo, costituisce il Santo
dei Santi, ma è interessante notare che essa viene segnalata "sotto le ali della croce e sotto le
sue braccia", in pratica in corrispondenza dell'abside, tenendo conto della classica forma
cruciforme delle cattedrali. La parte che, a nostro avviso, appare più interessante, è
127

l'associazione dell'Arca che era contenuta nel Santo dei Santi, e che conteneva le Tavole della
Legge, con l'Arca di Noè che salva dal Diluvio. Questa associazione, che ha il gusto di una
provocazione intellettuale, in realtà è spiegata implicitamente nel momento in cui Filippo
spiega che nel Santo dei Santi e quindi nella Camera Nuziale, dietro il velo che si strappa, si
rivela il "modo in cui Dio governa la creazione": il segreto della creazione è, quindi, il segreto
che si nasconde nella camera nuziale. Se l'uomo conosce il segreto della creazione e gli
strumenti attraverso cui Dio governa il mondo avrà la conoscenza per salvarsi dal secondo
diluvio: l'Arca dell'alleanza diviene anche l'Arca di Noè. Chi entra nella camera nuziale è il
Sommo Sacerdote, o comunque qualcuno che è di stirpe sacerdotale. Nella gnosi,
ovviamente, la stirpe sacerdotale è nascosta e non è connessa ad una particolare famiglia
(come avveniva in ambito ebraico), bensì è riconducibile a una elezione che è sconosciuta a
tutti fino a quando non si manifesti prima nel battesimo gnostico e poi nella unzione. E'
chiaro, però, che chi entra nella camera nuziale è già passato attraverso il battesimo gnostico e
poi attraverso l'unzione, rivelandosi come eletto solo a coloro che potevano vederlo: altri
eletti. Il brano di Filippo prosegue affermando:

Per questo motivo la cortina non si è strappata soltanto in alto, altrimenti sarebbe stata
aperta soltanto per quelli in alto, né si è strappata soltanto in basso, altrimenti sarebbe stata
aperta soltanto a quelli in basso. Ma si è strappata dall'alto in basso. Le cose in alto si sono
manifestate a noi che siamo in basso, affinché potessimo entrare nel segreto della Verità.

Il motivo dello strappo nel velo e della sua direzione è sottolineato da Filippo che ci spiega
come, con la morte del Cristo e con lo strappo nel velo, a quelli destinati alla camera nuziale
viene dato accesso al Regno dei Cieli ed alla verità. Ma chi entrava nella camera nuziale? Che
tipo di rito vi si svolgeva? E possibile desumere qualcosa su di esso sempre attraverso il
Vangelo di Filippo?

126. Tutti coloro che entreranno nella camera nuziale accenderanno la luce; non come si
accende nei matrimoni (di quaggiù) che avvengono di notte. Il fuoco brucia soltanto la notte,
poi si spegne. Ma i misteri di questo matrimonio si compiono di giorno e di notte. Quel
giorno e quella luce non tramontano.

L'accensione della luce potrebbe essere riconnessa alla funzione della nicchia che si nota nella
sala del tribunale dei vescovi morti, nella cattedrale di Muro Lucano. Vediamo, però, cosa si
compiva nella "camera nuziale" e come ciò esattamente avveniva. Abbiamo detto che la
"camera nuziale" è quel luogo nascosto ove si compie l'ultima parte del cammino gnostico,
quello che porta alla ricongiunzione ed autoidentificazione con il Padre, che porta alla
conoscenza del mistero che consente a Dio di governare il mondo. Ma quale procedura porta
a ciò? Il seguente passo sempre tratto da Filippo ci offre qualche elemento di riflessione a
conferma di questa funzione della camera nascosta.

69. Egli ha detto: "Mio Padre che è nel segreto" ha detto: "Entra nella tua camera e chiudi
la porta su di te e prega tuo Padre che è nel segreto" cioè che è nell'interno di tutti loro.
Ora, ciò che è nell'interno di tutte le cose è il Pleroma. Oltre esso non c'è nulla che gli sia
interno. Questo è quello che è detto: "ciò che è al di sopra di loro".

Quindi il momento in cui si entra nella "camera nuziale" è un momento particolare di


meditazione forse estremamente lunga, un momento di riposo che consente al matrimonio
mistico dello gnostico che incontra il Pleroma, di dare frutto e quindi figli.

86. Per la verità, le opere dell'uomo provengono dalla sua potenza e per questo sono
chiamate "potenze". Sue opere sono anche i suoi figli, che provengono dal Riposo. In
128

conseguenza di questo, la sua potenza risiede nelle opere, mentre il Riposo si manifesta nei
suoi figli. E tu troverai che questo procede fino all'immagine, che compie le sue opere
secondo la propria potenza, ma nel riposo crea i suoi figli.

L'imboccatura stretta, la sua posizione sotto l'altare, e ciò che abbiamo detto in merito alla
segretezza di questa camera ed al fatto che fosse riservata solo a una classe sacerdotale molto
ristretta e selezionata, confermerebbe l'ipotesi che essa fosse dedicata ad una sola persona,
anche se il seguente brano lascia aperto uno spiraglio alla presenza di altri eletti di stirpe
sacerdotale:

122. Se un matrimonio è allo scoperto, diventa impudicizia, e la sposa, non solamente


quando riceve il seme di un altro uomo, ma anche quando lascia la sua camera da letto ed è
veduta, si comporta impudicamente. Ella può soltanto rivelarsi a suo padre e a sua madre e
all'amico dello sposo e ai figli della camera nuziale. A costoro è permesso entrare tutti i
giorni nella camera nuziale, ma gli altri non possono desiderare che di udire la sua voce e
godere del suo profumo e possono desiderare di nutrirsi delle briciole che cadono dalla
mensa, come i cani. Gli sposi e le spose appartengono alla camera nuziale. Nessuno può
vedere lo sposo con la sposa, a meno che non lo divenga.

Quindi coloro che sono stati in qualche modo generati da un matrimonio simile (altri
sacerdoti eletti), possono avere accesso alla camera nuziale in quanto imparentati con la
Verità che è figlia della unione tra l'immagine ed il Pleroma, e quindi dalla riscoperta del
Padre che è in noi. E' in questa camera che vengono generati i figli, e ciò fa chiaramente
divenire questa camera un luogo di iniziazione, come è ben espresso anche dal seguente
brano:

121. Chi ha ricevuto la creazione è una creatura, chi ha ricevuto la generazione è un


generato. Chi crea non può generare. Chi genera ha il potere di creare. In verità si dice:
“Chi crea, genera”. Ma il suo prodotto è una creatura. Per questo motivo le opere non sono
figli, ma loro immagini. Chi crea, lavora visibilmente ed è egli stesso visibile. Chi genera,
lavora nel segreto, ed è egli stesso nascosto. Il generato non è come l'immagine. Chi crea,
crea apertamente, ma chi genera, genera figli nel segreto.

6. Il 30mo grado della Massoneria di Rito Scozzese Antico ed Accettato e la Camera


Nuziale nel Vangelo di Filippo

A questo punto vogliamo sottoporre al lettore una serie di sbalorditivi paralleli tra il rito che
abbiamo desunto dal Vangelo di Filippo, e che si svolgeva a nostro avviso all'interno delle
camere nascoste sotto gli altari delle chiese medievali, e quello di iniziazione del 30mo grado
della massoneria di Rito Scozzese Antico ed Accettato. Il 30mo grado del R.S.A.A., sebbene
non sia l'ultimo grado della massoneria di questo rito visto che ad esso seguono altri 3 gradi
amministrativi, è sicuramente quello più pregno di carattere esoterico e di alti significati
filosofici e morali, ed il più alto che il massone possa raggiungere sul cammino della
elevazione nella gnosi. Le similitudini e gli elementi particolari che emergono da queste
analogie sono secondo noi mutuamente esplicativi, e consentono di colmare, sia per l'uno che
per l'altro rito, l'insieme di significati profondi ed esoterici che si celano dietro tali riti di
iniziazione.
Cominciamo con il dire che il rito in esame è, per dichiarazione esplicita di tutte le parti del
dialogo tra l'iniziando ed il Gran Maestro, per la presenza numerosa di simboli tratti
dall'ultima e disastrosa fine del gruppo di monaci-guerrieri, di matrice chiaramente ed
inscindibilmente templare. [Vedi [6], uno stupendo volume sui gradi del R.S.A.A., nel quale
si condivide e illustra la presente interpretazione. L'autore approfondisce le problematiche e
129

la radice storica di questo che è il più "templare", gnostico e significativo tra i riti massonici.]
Secondo la leggenda esposta anche durante il rito di iniziazione (che si svolge nell'atrio del
Tempio che andremo a descrivere tra breve), una parte dei Cavalieri templari, sfuggiti alla
cattura ed alla inquisizione, si rifugiò e confluì, dopo il 1314, in seno alle Logge Muratorie in
Scozia (ma, probabilmente, non solo lì), grazie anche alla compiacenza di re Robert I Bruce,
riconoscente per l'apporto che i Cavalieri gli avevano offerto durante la guerra contro gli
Inglesi. L'intero rito del 30mo grado ruota intorno a tali eventi, e culmina con la
commemorazione della uccisione del De Molay, ultimo dei Grandi Maestri, ad opera degli
inquisitori di Clemente V, papa avignonese pedina del re francese Filippo il Bello. Tre teschi,
uno con la tiara, l'altro con la corona, e l'ultimo con la corona di alloro, ricordano, appunto,
papa Clemente V, il re Filippo il Bello e l'emblema dei Templari trucidati in nome della lotta
alla loro presunta eresia. Per la verità i teschi sembrano anche ricordare la maledizione che il
De Molay lanciò sui suoi aguzzini e che avrebbe dovuto portarli alla morte entro un anno
dalla sua (cosa che puntualmente avvenne). A giudicare dai contenuti del rito e da quello che
diremo, l'accusa di eresia, ma tutti i sospetti e le ipotesi che abbiamo avanzato sia in questo
sia nei precedenti lavori ([7], [8], [9], [10]), sembrano avere molto più che un fondamento, e
hanno lasciato precisi indizi in tutti i simboli e nel rituale in discussione. Il primo riferimento
esplicito è nel nome del Tempio in cui si svolge il rito: Tempio dei Cavalieri Kadosh, questi
ultimi sono coloro che accompagnano l'iniziando al rito stesso. Come afferma Bonvicini, la
leggenda vuole che i Cavalieri Kadosh ("Santi") fossero proprio il gruppo di Templari che si
dedicava a studi teologici, associabile a quel gruppo nascosto di comando che racchiudeva la
matrice gnostica ed eretica dell'Ordine, e che aveva formulato la sua Regola Segreta, mai
trovata e confluita, forse, proprio nel rito in oggetto. Il secondo riferimento al gruppo
nascosto è ancor più esplicito, ed è nelle parole pronunciate dal Gran Maestro che espongono
la funzione ed il ruolo che il menzionato gruppo di cavalieri ebbe sia prima che dopo la
disfatta. Ecco le parole di una parte del rito ad essi dedicata:

"Dalla Creazione del collegio dei Kadosh, del quale voi aspirate di penetrare i segreti, dal
contatto con le scuole più vicine alla culla delle tradizioni cristiane (leggi gnostiche), più
imbevute della cultura antica e più avanzate sulla via della gnosi, essi avevano appreso cose
delle quali vollero assicurare la trasmissione formando il Consiglio dei Kadosh che pretese di
dare ai vecchi simboli una interpretazione complementare e finale."

La sintesi che andiamo a proporre in breve mostrerà chiaramente gli elementi del rito che
sono analoghi, sia come simbologia che come significato, a quelli desunti dal Vangelo
gnostico di Filippo, un testo che, a questo punto, riteniamo abbia costituito un bagaglio
centrale nella gnosi templare, poi trasferitasi nelle Logge Muratorie in cui i monaci-guerrieri
confluirono:

Il Tempio

Il Tempio, definito "Areopago dei Cavalieri Kadosh", è suddiviso in quattro parti.

A. Il Vestibolo adornato con paramenti neri ed una lampada triangolare, presenta una Botola
che attraverso una scala porta alla porta dell'atrio sotterraneo. Inutile dire che è esattamente
ciò che accade con la camera nascosta nella cattedrale di Otranto sotto il mosaico e dietro alla
cripta visibile.

B. L'Atrio ornato con paramenti bianchi, dotato di scanni per i Cavalieri Kadosh, una urna
con fiamma ad alcol, un lume, l'Ara con il Vangelo di Giovanni aperto al Prologo e
sormontato da una spada. Il Vangelo di Giovanni apre con il più gnostico dei passi
130

neotestamentari "In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio … in lui
era la luce degli uomini … e il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi".

C. L'Anti-Sala ha paramenti azzurri con volta celeste. Illuminata con 3 lumi a candele gialle
poste a triangolo, contiene due colonne che sostengono un velo rosso (Tenda Rossa) con
dipinta una croce templare nera o gialla. Il velo evoca chiaramente il Velo del Tempio di
Salomone, che nascondeva la vista del "Santo dei santi" e dell'Arca. Abbiamo notato che il
velo ritorna insistente in Filippo, e che la sua rottura è una metafora del canale aperto dall'alto
al basso per consentire ad alcuni (gli eletti) di salire dal basso verso l'alto.

D. La Sala del Consiglio ha paramenti rossi, illuminata con 9 luci (tanti quanti sono i posti
riservati ai vescovi nel Consiglio dei Morti rinvenuto nella cripta nascosta di Muro Lucano)
facenti parte di un candelabro a 9 bracci con candele gialle. Esso si trova sull'Ara dove è
ancora situato il Vangelo di Giovanni, aperto alla citata pagina del Prologo e sormontato da
una spada.

Quest'ultimo luogo presenta vari elementi simbolici che hanno un elevato valore metaforico.
Esso possiede una finestra illuminata che simboleggia l'accesso alla piazza ove avvenne il
supplizio di De Molay. Questa finestra ricorda la nicchia che, a nostro avviso, era destina ad
ospitare la lampada portata dall'adepto gnostico (vedi Vangelo di Filippo) che si nota nella
sala nascosta sotto la cattedrale di Muro Lucano. La parole chiave pronunciate durante la
cerimonia sono <<Redenzione del Tutto>> e <<Comprensione del Tutto>>. Questi termini
richiamano il possesso del Tutto e la conoscenza del Tutto che si ricevevano nella camera
nuziale gnostica, e che sono chiamati proprio con questi nomi nel Vangelo di Filippo. A
richiamare il principio gnostico della conoscenza, nella sala campeggia un quadro con il
Serpente Gnostico arrotolato. La coda parte da un cerchio centrale diviso in bianco e nero,
che riprende il dualismo gnostico (ed i colori dei simboli templari) e rimanda all'origine nel
motore dell'eterno equilibrio tra Caos ed Ordine. Il serpente è avvolto in sei spire, una per
ogni giorno della creazione e, come l'arca nella camera nuziale, simboleggia il segreto stesso
della creazione: il primo cerchio rappresenta la creazione del sole, aria, pianeti; il secondo
dell'acqua e delle montagne; il terzo dei pesci e degli animali anfibi; il quarto degli animali
terrestri; il quinto dell'uomo primitivo; il sesto illustra le costruzioni umane, l'uomo moderno,
le associazioni, le fasi del progresso. Le fauci aperte del serpente proiettano i raggi verso
l'infinito. [Vedi interpretazione di Bonvicini in [6].]
La creazione ed il modo in cui Dio presiede al mondo e lo governa, secondo il Vangelo di
Filippo, è ciò che è fornito come conoscenza nella camera nuziale: il serpente gnostico è la
sintesi di questo premio che si ottiene come risultato nella "Camera Nuziale" o "Sala del
Consiglio" del 30mo grado del R.S.A.A.. Alla cerimonia partecipano il Presidente o Gran
Maestro, il Priore ed il Precettore. Scrive il Bonvicini:

Tradizione del pensiero: Comunque recepita dalla massoneria, che esalta il metodo della
gnosi interiore, che ripudia ogni preconcetto dogmatico nella Libera Ricerca della Verità e
nella concezione della divinità, che è "Realtà Assoluta", come il "Logos" - così si legge nel
rituale del 30mo grado, non modificabile in una Immagine Idolatra o in un "Dio Esclusivo",
costretto nell'ambito di qualsiasi Chiesa sacerdotale che amministra i "Sacramenti" di un
rapporto Uomo-Divinità, o che perori l'ottenimento di Grazie da parte della Divinità a favore
del Fedele postulante ai fini della sua salvezza.

Elemento centrale del rito è l'abbattimento delle colonne e quindi la scopertura del velo che
nasconde il Santo dei Santi. L'abbattimento ha un valore particolare poiché, come afferma il
Bonvicini, il "Logos non può essere raccolto tra le Colonne di un Tempio", perché è
"Assoluto" e nel contempo è ciò "che di migliore alberga nell'uomo". Sul velo campeggia la
131

Croce Templare. In analogia al rito iniziatico, che costò, insieme ad altre pratiche strane,
l'accusa di eresia, il massone è invitato a strappare il velo e a calpestare la croce templare e
con essa tutti i simboli massonici cui il massone aveva fino ad allora creduto. Come spiega il
Bonvicini, ciò costituisce un atto di liberazione massima del pensiero e della ricerca gnostica
da ogni tipo di condizionamento, sia pure quello massone (o templare per gli allora Cavalieri
Kadosh). Nulla deve occultare o arginare la ricerca della verità e nessuna ideologia o idea,
che non sia stata meditata provata e realmente creduta valida, può fermare la ricerca
autonoma e solitaria del massone giunto al massimo grado della iniziazione. Il suo compito è
dimostrare la propria capacità di calpestare anche gli stessi simboli massonici che aveva tanto
amato, se ciò a cui si sacrifica è la libertà di pensiero. E' chiaro che la componente
illuministica, che permea il principio di libertà massonica, ha fortemente influenzato e
marcato il significato di questo rito, ma è anche evidente che esso, come lo stesso principio
dell'autonomia di pensiero, della evoluzione personale e solitaria nella gnosi, è frutto di una
matrice templare che è a sua volta la sintesi della migliore esposizione del pensiero gnostico:
quella del Vangelo di Filippo.
A confermare questo obiettivo di conoscenza e gli strumenti che si devono possedere per
conquistare il Tutto, interviene il simbolo più carico di significato nell'ambito del 30mo grado
del R.S.A.A.: la scala a sette gradini ascendenti e sette discendenti che vengono
simbolicamente fatti percorrere all'iniziando. Sulla scala sono scritte le parole:

nella parte ascendente:

1. Giustizia e Devozione
2. Purezza e Bontà
3. Dolcezza
4. Fermezza e Fede
5. Gran Lavoro
6. Fardello e Fatica
7. Intelligenza, Prudenza, Restituzione, Amore per la Divinità (in cima alla
scala);

nella parte occidentale discendente sono ricordate invece le scienze:

1. Amore per l'Umanità e Grammatica


2. Retorica
3. Logica
4. Aritmetica
5. Geometria
6. Musica
7. Astronomia.

Il parallelismo tra la conoscenza del mondo ed i suoi meccanismi ed elementi, e la


conoscenza dell'Uomo Vero e le forze che lo muovono, è ad esempio espresso in maniera
analoga in questo brano di Filippo:

115. La coltivazione dei campi è costituita da quattro elementi: si porta nel granaio ciò che
proviene dall'acqua e dalla terra e dall'aria e dalla luce. Il culto di Dio è pure costituito da
quattro elementi: la fede e la speranza e l'amore e la gnosi. La nostra terra è la fede, in cui
abbiamo radice, l'acqua è la speranza, da cui siamo nutriti, l'aria è l'amore, da cui siamo
fatti crescere, e la luce è la gnosi, da cui veniamo maturati.
132

Il moto verso l'alto dei principi morali e verso il basso delle scienze umane, sicuramente
influenzato fortemente da contaminazioni illuministiche, ha comunque una profonda radice
gnostica che ritroviamo anche in Filippo: si trova nella Croce Templare raffigurata sul velo
appoggiato alle due colonne del Tempio massonico, quello stesso velo che in Filippo si
squarcia dall'alto in basso per consentire agli eletti di salire dal basso in altro. La Croce con il
suo ramo lungo verticale simboleggia il percorso dell'uomo che aspira alla "liberazione":
esso, come nel mosaico di Otranto, è costituito dall'albero (o ulivo) gnostico di Filippo, ponte
tra cielo e terra. Il braccio verticale rappresenta invece la sintesi del Crisma, il Tutto e, come
afferma Filippo:

67. Ora questi si ottengono con il crisma della pienezza della potenza della Croce, che gli
apostoli hanno chiamato la destra e la sinistra.

La Croce, quindi, è il Tutto nel braccio orizzontale, ovvero tutto ciò che è conoscibile nel
mondo materiale, ma è anche lo "strappo" nel velo che, apertosi dall'alto al basso, conduce
l'uomo dal basso all'alto. La coda di rondine della croce templare ha quindi un significato
assai chiaro, secondo il nostro punto di vista, indicando l'apertura prodottasi nel velo del
Tempio. Vale a dire, essa è simbolo del percorso che rende possibile, nella "camera nuziale",
la ricongiunzione dello gnostico al Padre, ultimo passaggio dei riti di iniziazione, dopo il
battesimo e l'unzione. Il braccio orizzontale completa l'effetto di fusione della destra con la
sinistra attraverso uno strappo (l'apertura a coda di rondine) che connette la sinistra alla
destra.

Bibliografia

[1] I Vangeli gnostici, a cura di Luigi Moraldi, Adelphi, Milano, 1984; 1999.

[2] Le lettere - Paolino da Nola, a cura di Giovanni Santaniello, LER (Libreria Editrice
Redenzione), Napoli, 1992.

[3] L'ultima Cena degli Esseni, Mario Canciani, Mediterranee, Roma, 1995.

[4] The Messianic Seal of the Jerusalem Church, Reuven E. Schmalz, Olim Publications,
Tiberias, Israel
(http://www.christianity.com/partner/Article_Display_Page/
1,1183,PTID4859%7CCHID5%7CCIID120157,00.html).

[5] Il Vangelo di Tommaso Apostolo, commentato da Mario Guarracino, Filelfo, Firenze,


1986.

[6] I Gradi della Massoneria di Rito Scozzese Antico ed Accettato, Eugenio Bonvicini,
Bastogi, Foggia, 1996.

[7] "Il Mosaico di Otranto - L'ultimo oltraggio di un monaco gnostico?", Sabato Scala,
Episteme n. 5, 2002.

[8] "La leggenda dei Merovingi nella Corona del mosaico di Otranto", Sabato Scala, Episteme
n. 5, 2002.

[9] "Il culto gnostico della Maddalena", Sabato Scala, Episteme n. 6, 2002.
133

[10] "La gnosi nel mosaico di Otranto", Sabato Scala, Hera Magazine, nn. 36 e 37, 2002 e
2003.

[11] Testi di Qumran, F. G. Martinez, a cura di Corrado Marone, Paideia, Brescia, 2003.

-----

[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 6 di Episteme.]

sabato.scala@libero.it

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Nota della redazione - Da Bruno d'Ausser Berrau riceviamo una parte delle Istruzioni per il
30° del R.S.A.A., e le riportiamo qui a beneficio dei lettori:
<<Domanda. Donde i Cav. K. trassero le loro dottrine?
Risposta. Dall'Oriente, ove, se dobbiamo prestare fede alla Tradizione del nostro Ordine, essi
avevano trovato la vera versione della Buona Novella [i.e. Vangelo].
D. Dove si costituì, da principio, il Collegio dei Ca. K.?
R. In seno all'Ordine Templare.
D. Che cosa avvenne di tale Collegio dopo la soppressione dell'Ordine?
R. Si ricostituì tra i Templari sfuggiti alla proscrizione e poi trovò un rifugio in seno alla
Massoneria.
D. Quale scopo persegue?
R. Riprendere la ricostruzione del Terzo Tempio e vendicare le sofferenze dei martiri.>>
134
135

REPRINTS
136
137

Invito alla conoscenza


della letteratura clandestina dell'età dei Lumi

Opinion des Anciens sur le Monde

(a cura di Massimo Cardellini)

Episteme presenta all'attenzione dei lettori nella rubrica Reprints un samizdat dell'Età dei
Lumi (ricordiamo che samizdat è termine russo, che significa sostanzialmente "edizione senza
editore"), un interessante scritto settecentesco appartenuto a quel vasto filone di opposizione
culturale sia all'establishment politico e religioso, sia alle concezioni religiose allora comuni,
concernente quindi questioni legate spesso direttamente o indirettamente alla religione, anche
se la veste in cui si presentavano i vari contributi poteva riguardare più generalmente
questioni scientifiche, morali, politiche, letterarie, storiche.

Il testo in questione, il cui titolo esteso è: Recueil de Pièces diverses sur les Opinions des
Anciens Philosophes, è conosciuto più brevemente come Opinions des anciens philosophes
sur le monde1 (o ancora più brevemente come è riportato in premessa), ed il suo autore,
contrariamente a buona parte dei numerosi manoscritti conosciuti di solito provenienti da
mano rimasta ignota, è sin dal Settecento stato individuato in Mirabaud 2. Il testo che abbiamo
intenzione di segnalare è contenuto in elenco nella pagina iniziale di Testi elettronici
clandestini del Settecento:

http://www.vc.unipmn.it/~mori/e-texts/index_it.htm ,

server dell'Università di Torino-Vercelli curato con competenza dal professor Gianluca Mori.
A tale studioso si deve tra l'altro una pregevole opera di divulgazione su Pierre Bayle edita
nel 1996 dalla casa editrice Laterza. Il Prof. Mori è anche curatore all'interno del sito stesso di
molti importanti testi della letteratura clandestina, quali il Le Philosophe di César Chesneau
Du Marsais; il Traité des trois imposteurs di autore ignoto; il Jordanus Brunus redivivus,
anch'esso di autore ignoto; il Traité de la liberté di Bernard de Fontanelle, più noto
estensivamente come Traité de la liberté de l'âme; i Sentiments des philosophes sur la nature
de l'âme di Benoit de Maillet (al curatore si deve proprio la proposta di attribuzione a de
Maillet di questo scritto, come si può apprendere da un saggio contenuto nel numero 4 di La
Lettre Clandestine, repribile al seguente indirizzo elettronico:
http://lancelot.univ-paris12.fr/lc4-2a.htm); la Origine des êtres et espèces di Henri de
Boulainviller; le Réflexions sur l'existence de l'âme et de Dieu, anch'esse di autore ignoto.

E' possibile trovare il saggio in questione in fondo alla pagina contenente gli indici dei testi
clandestini raccolti nel sito. Per accedere ad esso è sufficiente cliccare sull'indirizzo riportato
che dirige il navigatore verso il sito del Centre d'Histoire des Systèmes de Pensée Moderne
[CHSPM] della facoltà di Filosofia dell'Università di Parigi 1:

http://www-philo.univ-paris1.fr/CHSPM/opinions.htm .

Un po' più in basso, quasi verso fondo pagina degli indici, il lettore troverà l'indicazione:

http://lancelot.univ-paris12.fr/lc-som.htm ,
138

che gli permetterà di accedere ai primi sette numeri della rivista La lettre clandestine, cioè
alle sette prime annate 1992-1998. In tali fascicoli potrà trovare numerosi saggi di
approfondimento ed informazioni che gli permetteranno di avere una più ampia prospettiva
della tematica.

(Copertina del numero 5 di La Lettre Clandestine, la rivista di studi dei testi clandestini
dell'Età dei Lumi nata nel 1992 in occasione della ottantesimo anno in cui Gustave Lanson, lo
studioso pioniere del settore, scrisse per la Revue d'histoire littéraire de la France il celebre
saggio in cui sollecitava i ricercatori della letteratura razionalistica a ricercare i numerosi
lavori scritti prima del 1750 ritenuti all'epoca blasfemi.)

Raccomandiamo inoltre la seguente indicazione:

http://www.vc.unipmn.it/~mori/e-texts/bibclan.htm ,

dove è possibile trovare una ricca bibliografia sulla letteratura clandestina messa a punto da
Alain Mothu.

Invece per un dettagliato commento curato da Antony McKenna sulla letteratura clandestina
raccomandiamo vivamente:

http://www.vc.unipmn.it/~mori/e-texts/McK_bilan.htm .

Interessante anche l'editoriale del comitato di redazione di La Lettre Clandestine contenuto


nel numero 1: Connaître et faire connaître la littérature philosophique clandestine de l'âge
classique:

http://lancelot.univ-paris12.fr/lc1-e.htm .

Per quanto attiene più direttamente al nostro testo, segnaliamo una breve ma interessante nota
di Alain Mothu intitolata L'Édition de 1751 des Opinions des Anciens al seguente indirizzo
elettronico:

http://lancelot.univ-paris12.fr/lc3-5l.htm .
139

All'interno di questo breve articolo si possono trovare ben tre rimandi ad altrettanti documenti
d'epoca, e cioè il resoconto di Raynal apparso sulla Correspondance Littéraire dell'8 marzo
1751, e due lettere a Padre Berthier entrambe apparse in Mémoire de Trévoux, la potente
rivista dei Gesuiti francesi edita sin dal 1701 per contrastare lo spirito dell'epoca,
rispettivamente la prima nel mese di maggio del 1751, la seconda nel luglio del medesimo
anno. In esse sia il primo sia il secondo lavoro di Mirabaud, e cioè La nature de l'Âme
humaine, et son immortalité, ossia la seconda parte di Opinions des Anciens Philosophes sur
le Monde, vengono stroncati senza mezzi termini, perché ritenuti blasfemi e contenenti
inesattezze scientifiche, vale a dire opinioni contrarie alla tradizione biblica mosaica.

Per il resoconto di Raynal si veda:

http://lancelot.univ-paris12.fr/lc3-5l1.htm .

Per la prima lettera a Padre Berthier:

http://lancelot.univ-paris12.fr/lc3-5l2.htm ,

per la seconda lettera a Padre Berthier:

http://lancelot.univ-paris12.fr/lc3-5l3.htm .

(Frontespizio di una delle più celebri raccolte di testi clandestini,


Nouvelles libertés de Penser, del 1743, in cui furono riediti ben cinque
dei testi più radicali dell'intera letteratura clandestina dell'Età dei Lumi.
Tre di questi, curati dal professor Gianluca Mori, e precisamente Traité de la liberté;
Sentiments des philosophes sur la nature de l'âme; Réflexions sur l'existence de l'âme et de
Dieu; si possono consultare in Testi elettronici clandestini del Settecento.)

La letteratura clandestina rappresenta un argomento di tale interesse storico che siamo sicuri i
lettori di Episteme non potranno non apprezzare e valutare positivamente il nostro invito a
conoscerla, o in caso di conoscenza superficiale ad approfondirla. Un primo passo in questa
direzione può la nostra presente segnalazione di uno scritto particolarmente significativo. In
fondo, in un certo senso, mutati tempi e circostanze, Episteme è anch'essa in un certo senso
un degno esempio di "clandestinità" letteraria di natura scientifica e storico-sociale, ed una
140

certa empatia non potrà non scaturire dal prendere conoscenza di questi testi che in fondo
possiamo considerare nostri lontani progenitori.

Erede del razionalismo umanistico e rinascimentale, la letteratura clandestina si costituisce sin


dalla metà del XVI secolo a seguito dei profondi mutamenti storici e ideologici provocati
prevalentemente dalla Riforma protestante, evento alla base della fine dell'unità del
cristianesimo occidentale, fino allora unito con a capo la figura del papa. L'evento portò come
è noto ad un periodo di lunghe e devastanti guerre civili all'interno di un medesimo stato, e tra
stati professanti confessioni diverse. Questa nuova centralità dell'ideale religioso inteso come
verità erose velocemente la libertà di espressione e la grande tolleranza che nei secoli
precedenti avevano favorito la nascita dell'Umanesimo, e il conseguente progresso della
cultura in generale. Ora, anche a ragione dell'esigenza di ortodossia da parte delle diverse
confessioni in lotta, tanto attraverso le armi quanto anche attraverso le idee, il clima di
tolleranza viene praticamente ridotto a zero, fenomeno che induce lo spirito di ricerca critico
che non vuole saperne di ridursi al silenzio ad affidarsi alla diffusione clandestina del proprio
pensiero, attraverso opere molto spesso edite sotto forma anonima per sfuggire alle inevitabili
persecuzioni in caso di denuncia.

I libertini, cioè i liberi pensatori impegnati in critiche demolitrici di ogni forma di


conformismo e di ogni dogmatismo in campo etico e religioso, si rifanno filosoficamente a
quelle concezioni antiche che lo stesso Rinascimento aveva poco valorizzato, preferendolo
sopra tutti Platone o Aristotele. Ora invece l'atomismo di Democrito e l'edonismo epicureo, il
dubbio scettico unitamente al naturalismo rinascimentale e al materialismo di Hobbes,
insieme al positivo apprezzamento della scienza galileiana, costituiscono l'armamentario del
libertino, da cui egli trae gli strumenti per esercitare il suo diritto alla libera ricerca.

Va ricordato che l'origine aristocratico o tutt'al più alto borghese dei principali esponenti del
movimento fa sì che il libertinismo professi una doppia morale nei confronti delle autorità
politiche e religiose, a cui proclama obbedienza pubblicamente (tra l'altro, bisogna tener
conto della circostanza che molto spesso la maggior parte dei suoi membri direttamente o
indirettamente sono al servizio dello stato), ma che invece critica nella sua produzione
letteraria "occulta" sino a giungere agli esiti più estremi. L'autorità ecclesiastica e monarchica
viene poi talvolta ritenuta necessaria allo scopo di creare ordine sociale, attraverso il controllo
delle masse con la superstizione o la minaccia di dure pene. Si tratta quindi di un movimento
intellettuale in sé indubbiamente aristocratico, anche se i suoi prodotti teorici sono
indiscutibilmente critici se non rivoluzionari, in quanto indirizzano le proprie argomentazioni
a colpire la convenzionalità di usi e costumi e la falsità degli ambienti sociali alti, per non
dire delle contestazioni radicali a un certo tipo di tradizione religiosa.

Gli esiti dei contributi del libertinismo sono molto disparati risentendo e della personalità dei
singoli ricercatori e dell'epoca in cui essi elaborarono le loro ricerche, la storiografia non di
meno ha da tempo individuato almeno tre generazioni per così dire di libertini. La prima
risente molto ancora del naturalismo rinascimentale ed è diretta alla critica delle convenzioni
e fondata sull'epicureismo con chiari intendi anticristiani; in questa fase le principali figure
sono individuate in Giulio Cesare Vanini e Théophile de Viau. La seconda generazione è
quella del libertinismo detto erudito, che ha tra i suoi maggiori nomi quelli di François de La
Mothe Le Vayer e Gabriel Naudé; i suoi membri, scettici ad oltranza, sono accomunati
dall'indifferenza nei confronti del sociale, mostrando di preferire la difesa della propria libertà
intellettuale, ed occupandosi delle più diverse tematiche con spirito critico. I libertini della
terza generazione, di cui fanno parte Saint-Evremond e Bernard de Fontenelle, si evolveranno
lentamente verso la critica all'assolutismo di Luigi XIV, ed in atteggiamenti teorici
estremamente critici, tanto da potersi parlare già di un preilluminismo: celebri al proposito i
141

lavori di Cyrano de Bergerac che segnano una ripresa del naturalismo. E' inoltre in questo
periodo che vedranno la luce la maggior parte dei manoscritti clandestini di impronta atea,
anticlericale ed antiassolutistica destinati a circolare in Francia sino ai primi decenni del
Settecento, di cui quello ora presentato in Episteme è un eccellente esempio, anche se si
presenta piuttosto moderato in materia di critica religiosa, e mostra di essere aperto alla
ricerca in modo libero da dogmi di qualsiasi natura.

Per concludere la nostra brevissima panoramica della letteratura clandestina di stampo


libertino, potremmo fare nostra la considerazione di Margaret C. Jacob, autrice del pregevole
Massoneria illuminata3, a proposito della reale portata dei più notevoli contributi storici del
passato sull'Illuminismo, che vengono rimproverati sostanzialmente di aver esaminato con
grande precisione soltanto gli edifici più elevati "ignorando però i numerosi architetti,
capimastri e artigiani che contribuirono alla loro creazione in quanto testi e in seguito, nelle
nuove enclave sociali, li corredarono di svariati e precisi significati".

Giudizio che trova un'eco precisa presso il già segnalato link a McKenna intitolato: Les
manuscrits philosophiques clandestins de l'Age classique: bilan et perspectives des
recherches, lì dove egli significativamente afferma che: "la littérature philosophique
clandestine pose des questions aux spécialistes de la philosophie et de l'histoire des idées, de
l'histoire de la religion, de l'apologétique et de la littérature, comme aussi de l'imprimerie, de
la censure et de la diffusion des textes. La découverte progressive des fonds de clandestina
s'est accompagné d'un approfondissement des études dans le domaine de l'histoire des idées.
On ne peut plus se satisfaire de l'image traditionnelle de la philosophie à l'Age classique,
réduite à quelques textes prestigieux: la littérature clandestine nous oblige à lire entre les
lignes et à découvrir le véritable contexte intellectuel qui donne leur sens aux démarches des
grands philosophes" (sottolineatura nostra).

Vorrei ora attirare l'attenzione molto brevemente sulla struttura ed i contenuti di questo
saggio organizzato in sei capitoli, ognuno dei quali si occupa da una particolare angolazione
di questioni che gli antichi si erano poste circa alcuni aspetti concernenti il mondo, concetto
che deve essere inteso sia in senso ristretto come pianeta Terra, sia in un senso più ampio,
cioè come cosmo di cui la Terra non è che una parte che condivide la sorte del tutto.

L'opera nella sua globalità risulta estremamente frammentata, e presenta una ricorsività a
volte esasperante dovuta alla ripetitività degli autori e delle opere a cui lo scrivente si rifà, ma
a parte questo difetto di impostazione, scelto molto probabilmente per non risultare
confusionario nel trattare in breve di così numerose tematiche che avrebbero a dir il vero
potuto essere il tema di altrettanti brevi saggi, egli ha scelto così di trattare di sei argomenti
diversi anche se interconnessi, e di citare ogni volta le fonti a cui attingeva le sue
informazioni, le quali per ovvi motivi sono nell'arco di tutti e sei i capitoli quasi sempre le
medesime.

Nel primo capitolo, Idee che gli Antichi si sono formate sul Mondo, troviamo un'ampia
rassegna delle concezioni degli autori dell'antichità sul sistema cosmologico globalmente
concepito, geocentrico o eliocentrico, e problemi relativi al movimento dei pianeti, del Sole,
o delle stelle fisse, nonché sulla sua unicità o pluralità e sulla sua infinità o limitatezza a
quanto ci è dato vedere di esso. In questo capitolo vengono illustrate soprattutto le opinioni
attribuite alle più antiche culture degli Egizi, Fenici, Caldei, Siriani, unitamente a quelle dei
primi filosofi greci che si sono occupati nei loro sistemi di cosmologia, in modo da
evidenziare quali fossero le più antiche concezioni storicamente note e poterle paragonarle
poi con quelle più tarde dell'età ellenistica greche e romane ma soprattutto ebraiche 4, cioè con
il libro della Genesi.
142

Il secondo capitolo, Opinioni degli Antichi sull'origine del Mondo, si occupa prevalentemente
delle contrapposte concezioni sull'eternità o meno del mondo, e di come esso si sia formato
da sé oppure sia stato creato da un essere intelligente. Molto interessante la trattazione del
cosiddetto anno periodico o grande anno, e la considerazione del mito della fenice come
simbolo del rinnovamento del mondo, anche se purtroppo la pista della decifrazione del mito
come sapere codificato a base cosmologica ed ermetica sembra essere del tutto estranea al
nostro autore5.

Il terzo capitolo, Opinioni degli Antichi sulla fine del Mondo, è molto interessante ed è
ovviamente in strettissima correlazione con il precedente in cui erano state riportate le varie
concezioni sulla nascita del mondo. In esso vengono riportate varie ipotesi sulla durata del
mondo e le modalità attraverso cui esso dovrebbe estinguersi. Significativa la tesi della fine
del mondo in un rogo globale che riecheggia la conoscenza arcaica di eventi catastrofici che
hanno portato a distruzione numerose volte grandi civiltà del passato, di cui la storia
alternativa ha cominciato ad occuparsi intensamente negli ultimi dieci anni, a partire dagli
studi di Graham Hancock e numerosi altri autori.

Il quarto capitolo, Quel che gli Antichi hanno pensato sulla Terra, trova il suo centro di
interesse principale nella constatazione della conoscenza sin dalle più antiche età dell'umanità
della nozione della sfericità della Terra, che viene attribuita agli Egizi, ai Caldei, ai Libici tra
i primi, ed a tutti gli altri popoli antichi. Vengono poi riportate considerazioni sulla divisione
del nostro pianeta in zone climatiche specifiche comprese tra i due poli, e sull'Oceano che
circonda le terre abitate e le più remote contrade conosciute dagli antichi.

Il quinto capitolo, Delle rivoluzioni alle quali gli Antichi hanno creduto la Terra soggetta,
presenta nozioni interessantissime tratte dagli autori antichi soprattutto greci e romani sulle
metamorfosi avvenute sul nostro pianeta, del tipo terre emergenti dal mare o mari
sommergenti la terraferma, o anche mutazioni climatiche che hanno reso fertili contrade
desertiche e viceversa. È in questo capitolo che viene trattato il mito del diluvio universale

Il sesto capitolo, Degli abitanti della Terra, è il più lungo di tutti, e rappresenta la parte
etnografica del saggio, essendo le precedenti di natura prevalentemente cosmologica,
geografica, climatologica e geomorfologica, come abbiamo sommariamente descritto.
Basandosi prevalentemente su poche ma importanti opere dell'antichità, quali Le storie di
Erodoto, le Antichità romane di Dionigi di Alicarnasso, la Biblioteca storica di Diodoro
Siculo, e Il Periplo della Grecia di Pausania, Mirabaud evidenzia come tutti i movimenti di
popoli noti attraverso la storia antica testimonino dell'esistenza di popoli indigeni nei territori
raggiunti dalle migrazioni di etnie note, per affermare infine che il mondo è sempre stato
popolato in ogni dove da gente di razze diverse. Soprattutto degnissimo di alta considerazione
appare lo spazio che Mirabaud assegna alle incessanti migrazioni Pelasgiche, vero buco nero
della più profonda storia antica su cui sarebbe ora di effettuare delle fondamentali rettifiche,
dopo che numerosi studi degli ultimi decenni hanno consegnato studi innovativi a dir poco
rivoluzionari. E su ciò mi prefiggo personalmente di ritornare presto.

Comunque sia, lo scopo polemico è rivolto verso la concezione ebraico-cristiana contenuta in


Genesi, secondo cui il racconto biblico della creazione di Adamo corrisponderebbe a quella
del primo uomo sulla Terra. Mirabaud non esita però a sostenere che "gli Ebrei ed i Cristiani
di buon senso spiegano l'intera Genesi in modo allegorico, sostenendo in particolar modo a
proposito della formazione dell'uomo che sotto il nome di Adamo, e cioè rosso, che era il
colore naturale della terra, erano compresi generalmente tutti gli uomini che Dio aveva
formato con questa terra in tutti i diversi paesi del Mondo […]. Il senso letterale tuttavia
143

diventando in seguito quello a cui i Cristiani si sono unicamente rapportati, si è fatto una
specie di scrupolo di ricorrere all'allegoria per spiegare dei fatti che sono non di meno
inspiegabile senza il suo ricorso, si è preferito smentire tutte le storie antiche che rinunciare
alla servitù della Terra e uomini di scienza hanno abusato della loro erudizione per provare
attraverso delle congetture o evidentemente false o per lo meno sempre frivole o puerili che
tutti gli uomini erano discesi da Adamo e dei figli di Noè."

La traccia mitologica è, come già detto, nota a Mirabaud, ma egli non la usa affatto ai fini
dell'indagine storica, preferendo purtroppo ricorrervi en passant. Un vero peccato se si pensa
ai risultati conseguibili attraverso una comparazione della mitologia di varie culture, sicché
spetterà ad altri nomi di conseguire risultati degni di nota in questo fondamentale settore della
ricerca. Ricordiamo soprattutto, sebbene con intenti diversissimi l'uno dall'altro, Dom Pernety
con le sue celebri opere Dictionnaire Mytho-Hermétique del 1758 e Fables égyptiennes et
grecques del 1786; Charles de Brosses, con Du culte des dieux fétiches ou parallèle de
l'ancienne réligion de l'Egypte avec la réligion actuelle de Nigritie del 1760, ma ancor più
rilevante la figura di Charles François Dupuis, con il celeberrimo e grandissimo L'origine de
tous les cultes, del 1795.

Ma anche su tali tematiche ci riserviamo di tornare in altra occasione, in cui riprendere i fili
di quanto già esposto nel nostro saggio su Il mulino d'Amleto di Giorgio de Santillana (vedi
Episteme N. 5), ma pure in questa presentazione del breve saggio di Mirabaud, nell'intento di
attualizzare la mentalità arcaica e gli angoli volutamente lasciati in ombra della primordiale
storia umana.

(Frontespizio dell'edizione del 1700 di Histoire de Calejava di Claude Gilbert;


quasi del tutto distrutta dalla censura, uno dei pochi esemplari superstiti
è presente presso la Biblioteca Nazionale di Parigi.
Quest'opera costituisce uno dei massimi esemplari della letteratura politico-utopistica
del tardo Seicento, cioè della fase storica contraddistinta
dal consolidamento dell'istituto assolutistico.)
144

(Frontespizio del Traité des trois imposteurs dell'edizione del 1777di autore ignoto,
edito per la prima volta nel 1719 come L'Esprit de Spinosa. Si tratta indubbiamente
del più celebre dei testi libertini, in cui si sostiene la nota tesi della religione come
instrumentum regni, il cui scopo fondamentale non sarebbe altro quindi che ingannare le
masse ad unico beneficio del potere. I tre impostori si riferisce alle figure di Mosè, Gesù e
Maometto accomunati come propagatori di falsità a danno della ragione e dei più. Ritenuto a
lungo opera di Henry de Boulainvilliers (1658-1722), di recente è stato attribuito dalla
Prof.ssa Silvia Berti invece a Jan Vroesen, consigliere della corte di Brabante a l'Aia.)

NOTE

Con il sottotitolo Le Monde, son origine et son antiquité. Première partie. L'indicazione di
parte prima si riferiva al fatto che un secondo opuscolo avrebbe trattato di un argomento
sempre attinente a concezioni elaborate nell'età antica, ma questa volta riguardante non le
scienze naturali bensì quelle morali, e precisamente dell'immortalità dell'anima. Tale seconda
parte, infatti, intitolata De l'Ame et de son immortalité. Seconde partie, presentava la stessa
forma grafica della prima. Una prefazione posta all'inizio di Le Monde... sanciva inoltre
l'unità editoriale dei due testi, rimarcando così che essi provenivano da un unico autore. Una
versione originaria del saggio era però apparsa già nel 1740 in Dissertations mêlées sur divers
sujets importants et curieux (Dissertazioni varie su alcuni argomenti importanti e curiosi),
stampati ad Amsterdam da Jean Fréderic Bernard. Le opinioni sull'anima, già presentate nel
1743 in Nouvelles libertés de penser, vennero poi ripubblicate nel 1751.
2
Jean-Baptiste de Mirabaud. Nacque a Parigi nel 1675, intraprese la carriera militare per
poi diventare precettore delle due figlie della duchessa di Orléans. Fu amico di La Fontaine,
tradusse ottimamente la Gerusalemme liberata e l'Orlando furioso, stimate imprese letterarie
che gli meritarono il posto all'Accademia di Francia il 22 agosto del 1726. Nel 1742 fu
nominato segretario perpetuo dell'Accademia, incarico che rassegnò nel 1755. Morì il 24
giugno del 1760. Va ricordato anche che Mirabaud ha scritto una terza Opinions..., nota come
Opinions des Anciens sur les Juifs. Le prime due Opinions, composte non oltre il 1722,
furono considerate sin dal XVIII secolo come opere di Mirabaud, che fu in relazione con
Boulainvilliers e anche amico dell'abate Jean-Baptiste Le Mascrier, ritenuto il responsabile
dell'edizione del 1751 (forse assistito da Du Marsais), oltre che l'autore della Prefazione e del
Saggio sulla Cronologia. Oggi si attribuisce la stampa di quest'ultima edizione al libraio
parigino David il giovane, il quale depose una richiesta di permesso tacito a questo proposito
nell'ottobre del 1750, che gli venne però ovviamente respinta. L'opera fu malgrado ciò edita.
Una "seconda edizione, corretta con cura" apparve a Londra nel 1778.
145

3
Margaret C. Jacob, Massoneria illuminata. Politica e culture nell'Europa del Settecento,
Einaudi, 1995, trad. it. di Living the Enlightenment. Freemasonry and Politics in Eighteenth-
Century Europe, Oxford University Press, 1991.
4
Il nostro autore infatti appare preso quasi da un comprensibile furore iconoclastico nei
confronti del popolo ebraico, e cioè nei confronti della Genesi, in quanto in questo modo
intende colpire indirettamente un bersaglio tanto disprezzato quanto temuto ancora nell'era
dei Lumi, in cui il Tribunale della Santa Inquisizione, seppure in modo più moderato rispetto
al XVII secolo (essendo molto mutati i tempi e l'opinione pubblica colta), non mancava di
continuare a colpire coloro che si mostravano troppo arditi in ipotesi critiche sulla religione,
che potessero porre in difficoltà sia l'istituzione teocratica rispondente al nome di Chiesa
cattolica, sia i suoi difensori più alacri, soprattutto quei militanti organici più fanatici raccolti
nella Compagnia di Gesù. I poteri statuali europei, fiancheggiati dagli esponenti di maggior
spicco dello strato intellettuale illuministico, riusciranno poi (soprattutto dopo l'esperienza
delle reducciones del Paraguay, vissute come un'ingerenza da parte della Chiesa nei confronti
della politica imperialista delle grandi potenze mediterranee del regno del Portogallo e di
quello della Spagna) a porre fuorilegge sino alla fine dell'età napoleonica il potentissimo
ordine.
5
Resta comunque il fatto che Mirabaud sembra concedere, almeno in questo passo, un
minimo di razionalità anche se di tipo poetico al mito, e ciò anche se può sembrare poco lo
differenzia enormemente da molti pensatori razionalisti quali ad esempio Fontenelle, che in
due sue celebri opere concernenti l'antichità, e cioè Histoire des Oracles del 1687, e Origin
des fables del 1724, si limita prevalentemente alla polemica culturale di stampo squisitamente
illuministico, con il suo condannare la superstizione religiosa nell'intento di colpire la Chiesa.
Più ancora che Fontenelle menzioniamo Charles de Brosses, che in Del culto degli dei feticci
del 1760 assume un atteggiamento marcatamente razzistico nell'intento di demolire il grande
credito avuto dall'antico Egitto sia presso gli antichi greci e romani sia presso i cultori di
storia antica.

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[Una presentazione dell'autore di questo commento si trova nel numero 5 di


Episteme]

a.abdiel@libero.it
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Le secret de Virgile et l'architecture des Bucoliques

(Paul Maury)

[In attesa di riuscire a produrre una versione virtuale di questo interessante


saggio, che dovrebbe apparire nel prossimo numero della rivista assieme a un
commento di Bruno d'Ausser Berrau, presentiamo nella versione a stampa di
Episteme N. 7, II volume, le sole fotocopie delle pagine pubblicate su Lettres
d'Humanité, Tome III, Société d'édition "Les Belles Lettres", Paris, 1944, pp.
71-147.]

(Il logo di Lettres d'Humanité,


pubblicazione dell'Association Guillaume Budé)
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Il prossimo numero di Episteme...

Nel prossimo, speriamo sempre interessante, fascicolo della rivista (che sarà
probabilmente aperto in rete alquanto presto, diciamo intorno alle prime
settimane di marzo 2004) ci occuperemo tra l'altro di:

- Apologia della modernità (Franco Baldini)

- L'Arduo, un esperimento italiano di una "rivista di scienza - filosofia e storia",


1921-1923 (a cura di Umberto Bartocci)

- De Mysteriis - Iniziazione virtuale ed iniziazione effettiva (Bruno d'Ausser


Berrau)

- Il Disco di Festo - Un calcolatore vecchio di 4000 anni (Rosario Vieni)

- Kurt Godel : un relativista incompleto (Luca Umena)

- I paradossi di Zenone sul movimento e il dualismo spazio-tempo (Umberto


Bartocci)

- Le secret de Virgile et l'architecture des Bucoliques (un articolo di Paul Maury


riproposto e commentato da Bruno d'Ausser Berrau)
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