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volume 12, numero 1

febbraio 2014
Rivista ufficiale dell’Associazione Wolfram Kurz (Tübingen)

Ricerca di Logoterapia e Analisi Esistenziale


Frankliana, fondata da Eugenio
Arturo Luna (Bogotà)
Elisabeth Lukas (Vienna)
di senso Fizzotti Efrén Martinez Ortiz (Bogotá)
Harald Mori (Vienna)
La rivista esce tre volte Carlo Nanni (Roma)
l’anno. Direzione scientifica
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L’abbonamento si effettua Domenico Bellantoni (Madrid)
versando € 31,50 (per abbo- info@logoterapiaonline.it Oscar Ricardo Oro (Buenos Aires)
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libri Erickson;
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organizzati dal Centro
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continuativo, salvo regolare Gerónimo Acevedo (Buenos Aires) Mirko Pau
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La repulsa dei numeri non Messico)
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19/12/02.
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Dir. resp. Alessandro Scarpelli © 2013 Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A.
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Ricerca di senso
Analisi esistenziale e logoterapia frankliana – Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

Editoriale

a Approfondimenti
Uscire dalla storia.
L’antideterminismo frankliano e lo storicismo a-finalistico
Simone Budini 297
Dire la verità ai figli.
Insegnare ai giovani a orientarsi
Magda Maddalena Marconi 313
Pedofilia e clero cattolico/3.
Dibattito a partire da Papa Francesco e dal DSM-5
Aureliano Pacciolla 331

e Esperienze
Omeopatia e logoterapia frankliana.
La legge della similitudine
Giovanni De Giorgio 371
A proposito di comunicazione efficace.
Un’esperienza di vita vissuta
Giuseppina Tessitore 379
Tossicodipendenza e senso della vita.
Nuove storie di vita nella «Scuola Filosofica Viktor Frankl»
Arturo Luna Vargas 387

r Recensioni 397
Editoriale Come avrete potuto notare dalla copertina e dal colophon di questo numero,
all’interno di una ri-organizzazione delle diverse funzioni della Rivista, ho
assunto il ruolo di nuovo Direttore di «Ricerca di senso», andando a prose-
guire quell’impegno che, fin qui, ha mirabilmente assicurato il nostro caro
Presidente onorario Eugenio Fizzotti, cui va il nostro affettuoso saluto e
ringraziamento per quanto sempre ha fatto e continua a fare per divulgare
in Italia e nel mondo l’autentico pensiero di Viktor Frankl. Personalmente,
non ho difficoltà a dare il massimo affinché la Rivista continui e cresca nel
solco tracciato proprio dal precedente Direttore, nonché Fondatore della
nostra Rivista, ma rivolgo a tutti, soci ed estimatori, l’invito a vicinanza e
collaborazione, espressa anzitutto attraverso l’abbonamento, che per i soci
avrà un’ulteriore riduzione e farà parte della quota associativa annuale, e
poi anche attraverso contributi significativi e ogni forma di suggerimento
vorrete inviarmi.
Dopo questa dovuta premessa, va considerato che uno degli aspetti che
hanno maggiormente caratterizzato le diverse iniziative associative, tanto
nello scorso 2013 quanto nel primo semestre del 2014, è certamente rap-
presentato dalla nascita del «Gruppo Logo-Umoristi», che si è impegnato
nel e col direttivo di ALÆF in tutta una serie di iniziative orientate a porre
in particolare evidenza, all’interno del pensiero frankliano, il ruolo fonda-
mentale rivestito dalla dinamica dell’umorismo e dell’autoironia, aspetti
che affondano le proprie radici proprio nella basilare capacità umana
dell’autodistanziamento.
In tal senso si è assistito a un vero crescendo di riconoscimento e apprezza-
mento per le diverse proposte: dal convegno annuale tenutosi all’Università
Salesiana a Roma lo scorso 4 maggio 2013, al corso sull’autoironia (So-
ridere di me) iniziato nel mese di novembre e strutturato in sette seminari,
presso la stessa Università; eventi questi che saranno duplicati a Piacenza:
all’uscita del presente numero della Rivista si sarà già tenuto, il 25 novembre,
il Convegno presso l’Università Cattolica di Piacenza che ha raccolto ben
600 partecipazioni, aspetto che ha motivato la proposta anche per Piacenza
di un analogo corso sull’autoironia.
In relazione all’ampio investimento formativo e di riflessione che ALÆF
ha dedicato al tema dell’umorismo e dell’autoironia, il presente numero
di «Ricerca di senso» si presenta come un volume monografico, dedicato
appunto ai contenuti proposti al Convegno di maggio e in riferimento dei
quali i diversi relatori si sono impegnati ad arricchire e sistematizzare i loro
interventi, curando le fonti bibliografiche e l’apparato scientifico; quindi
i vari articoli saranno focalizzati, a partire da diverse angolature, sulla
capacità della persona di autodistanziarsi, oggettivarsi e arrivare finanche
a ridere di sé e di ciò che le accade.

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Accanto a questo positivo dinamismo, va registrato anche un altro impor-
editoriale
tante risultato: l’accreditamento presso il Comitato Nazionale Counsellor
Professionisti (CNCP) della Scuola di Counselling Esistenziale Frankliano,
promossa da ALÆF, che va a dare ragione e forza a una delle principali
intuizioni del Fondatore dell’Analisi esistenziale: l’importanza per la salute
e il benessere individuale di un accompagnamento verso l’assunzione di un
chiaro orientamento esistenziale nella propria vita, aspetto che non neces-
sariamente si accompagna a vissuti manifestatamente psicopatologici e
che può trovare adeguata risposta e soluzione all’interno di una relazione
d’aiuto e di consulenza competente e deontologicamente corretta.
Tali iniziative, assieme ad altre che sono state promosse dai soci in varie
regioni d’Italia — come, ad esempio, a Treviso e a Jesi —, hanno lo scopo di
sempre maggiormente promulgare e testimoniare gli aspetti fondamen-
tali del modello frankliano, a partire dalla sua visione antropologica ed
esistenziale, aperta allo spirituale, una dimensione che sempre più si pone
all’attenzione di molti modelli di psicologia contemporanea, nella riscoperta
di un imprescindibile riferimento assiologico che permetta di sperimentarsi
come fondamentalmente orientati a un senso comprensivo, stabile e capace
di illuminare la scoperta di significati positivi nei diversi eventi della vita,
compresi quelli più drammatici e identificabili come «situazioni limite».
Riteniamo che proprio un coerente orientamento esistenziale, verso un sen-
so per cui valga la pena di impegnare la propria vita, caratterizzandosi come
capace di autodistanziamento e di autotrascendenza, possa rappresentare
una significativa risposta a quella questione morale da più parti sollevata,
quale il reale male che attraversa la nostra società, ferita da una politica
che sembra aver smarrito il senso del servizio ai cittadini, di un’economia
esplicita e sommersa che, assolutizzando l’interesse economico di pochi,
arriva a produrre disagi socio-economici sempre più avvilenti — basti
pensare al dilagare della disoccupazione giovanile e alla difficoltà di dare
soluzioni concrete al fenomeno dell’immigrazione di massa — e gravi danni
ambientali con evidenti implicazioni etico-morali — come, ad esempio,
l’inquinamento che «avvelena» l’intero ecosistema, fino agli eccessi cui si
assiste nella «terra dei fuochi» in Campania e non solo.
Da Frankl, che enfatizza una responsabilità intesa come una realtà emi-
nentemente personale con potenzialità di ampie conseguenze nel sociale,
raccogliamo l’invito a non farci sopraffare dall’avvilimento che, spesso,
causa risvolti e ricadute di indifferentismo e disimpegno che finiscono con
l’aggravare la condizione non solo sociale ma anche personale, individuando
ciascuno il proprio percorso di crescita umana, sociale e politica, nella sco-
perta di un senso verso cui impegnarsi e che possa essere condiviso da molti.
È questo l’augurio che rivolgiamo a ciascuno e, in particolare, ai nostri
lettori all’inizio di questo nuovo anno.

Domenico Bellantoni

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a pprofondimenti

AUTOIRONIA:
MAI DIR(LE) MAI
Ridere di sé per sorridere alla vita

Paola Versari Ridere di sé si pone come una vera e propria ascesi


(Coordinatrice Gruppo Logo-Umoristi che, grazie alla sua caratteristica oggettivante,
ALÆF, Roma) consente di riconoscere e accogliere il limite come
facente parte della vita. In tal modo è possibile
imparare ad allontanarsi, progressivamente, dalla
visione di un io ipertrofico e onnipotente. Questa
liberazione, se pur talvolta solo parziale, favorisce
l’atteggiamento autotrascendente. Ecco perché
l’umorismo, soprattutto nella sua componente
autoironica, è una risorsa per la ricerca di senso, ed
ecco il motivo per il quale è necessario coltivarlo.

Diogene Laerzio racconta che il filosofo stoico Crisippo morì in seguito a una grossa
risata: un asino aveva mangiato i suoi fichi ed egli ordinò alla sua vecchia domestica
di far bere all’asino vino puro; scoppiò poi in una smodata risata e spirò. Secondo
quel burlone di Luciano, il poeta comico Filemone sarebbe morto proprio in questo
modo — ma che importa! Il filosofo Chilone, nel VI secolo, sarebbe deceduto di gioia
in seguito alla vittoria di suo figlio ai Giochi olimpici; stessa disavventura fatale toccò
a Sofocle, troppo felice per aver vinto il concorso di tragedia. Il pittore Zeusi, nel 398
a.C., venne stroncato dall’irresistibile comicità della sua ultima opera: una donna
anziana. (Minois, 2004, pp. 24-25)

Se è dimostrato che è realmente possibile morir dal ridere, è altrettanto


vero il contrario: un’eccessiva seriosità può uccidere. In questo caso tale tipo
di morte, pur lasciando biologicamente in vita un essere umano, ostacola
significativamente quel processo di autotrascendenza (il costituzionale orien-

Edizioni Erickson – Trento Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014 (pp. xx-xx) 7
Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

a tamento dell’uomo a proiettarsi oltre se stesso) che, nell’ottica


frankliana, rappresenta l’unico tracciato da percorrere ai fini
di un’autentica realizzazione esistenziale. Mancare il bersaglio
della realizzazione di significati di vita grazie a tale atteggia-
mento autotrascendente non può che lasciare esanime colui che
non centra questo obiettivo, come si vedrà e si comprenderà
qui di seguito.
Frankl scorge nell’autodistanzamento, capacità sottesa al
ridere autoironico, una caratteristica connotativa umana,
assieme appunto a quella dell’autotrascendenza. Il saper ridere
di sé, l’autoironia, rappresenta certamente la più significativa
e prioritaria forma di applicazione dell’umorismo. Perché è
determinante imparare a ridere di sé nell’ottica frankliana? E
quale ruolo ha l’autoironia come risorsa per la ricerca di senso?

1. Il narcisismo, vero ostacolo all’autotrascendenza


Non si può certo fare a meno di constatare, se mai ce ne
fosse ancora bisogno, come questo tempo storico sia caratteriz-
zato da una forte tendenza a esaltare ogni forma di narcisismo,
veicolato, in maniera sempre più massiccia e dirompente, in
ogni modo e con ogni mezzo. Gli esiti infausti di questo tipo
di cultura lasciano intendere, a chi ne diviene vittima, che
solo attraverso l’autoaffermazione è resa possibile la propria
realizzazione. L’affermazione di sé viene per lo più identificata
con il perseguimento del successo, del potere, del piacere e
con un più generale assecondamento e soddisfacimento dei
propri bisogni (Frankl, 2010, pp. 50 ss.). Ma mentre l’auto-
affermazione, in una cultura narcisista, diviene lo scopo per
raggiungere una presunta autorealizzazione, secondo Frankl
la realizzazione di se stessi non può che essere l’effetto di un
orientamento autotrascendente, di un atteggiamento, cioè,
che preveda la capacità di andare oltre se stessi, di dimenticare
se stessi, trovando all’esterno di sé dei compiti da realizzare:
«solo se l’interesse originario a realizzare un significato viene
frustrato, allora ci si accontenta della potenza o si è preoccupati
a ricercare il piacere» (ibidem, p. 50). In altre parole, questo
significa che un’attenzione narcisisticamente orientata verso
se stessi, ben lungi dal garantire una pienezza esistenziale,
rappresenta proprio l’ostacolo principale all’espressione di un

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Paola Versari – Autoironia: mai dir(le) mai

atteggiamento autotrascendente. Un’ulteriore specificazione al


proposito ci giunge da Bulka (2005, p. 96): a
L’autorealizzazione non viene negata da Frankl. Egli sostiene
che il modo migliore di raggiungerla consiste nell’orientarsi verso il
mondo oggettivo del valore (Maslow, 1966). In termini concreti, mi-
rare all’autorealizzazione porta all’autosconfitta (Friedman, 1976).
Il mondo oggettivo del valore è il modo migliore per raggiungere
questa realizzazione. Si deve prestare attenzione alla realizzazione dei
valori per il bene in sé, e non per il guadagno che ne può derivare,
poiché ciò riduce il valore a uno strumento e una tecnica. Frankl
rifiuta quindi radicalmente l’autoespressione soggettiva.

2. Circolarità tra autotrascendenza e autodistan-


ziamento
Vi è un indubbio rapporto tra la capacità di autotrascendersi
e quella di autodistanziarsi: esse sono strettamente legate tra
di loro. Grazie alla prima, lo si è già accennato, l’individuo è
sempre proteso verso qualcosa che non è se stesso:
In altri termini l’esistenza dipende dalla capacità di trascendere
il proprio io [...] Perciò io capisco il fatto antropologico primordiale
che l’essere umano deve essere sempre indirizzato, deve sempre
puntare su qualcosa o qualcuno diverso da lui stesso, e cioè su un
significato da realizzare o su un altro essere umano da incontrare,
su una causa da servire o su una persona da amare. Soltanto nella
misura in cui si riesce a vivere questa auto-trascendenza dell’esistenza
umana, uno è autenticamente uomo e autenticamente se stesso.
Così l’uomo si realizza, non già preoccupandosi di realizzarsi, ma
dimenticando se stesso e donandosi, trascurando se stesso e con-
centrando verso l’esterno tutti i suoi pensieri [...] Ciò che si chiama
auto-realizzazione è, e deve rimanere, l’effetto preterintenzionale
dell’auto-trascendenza. (Frankl, 1990, pp. 36-37)

Grazie alla seconda caratteristica, invece, egli è capace


di prendere le distanze da sé, di auto-oggettivarsi, arrivan-
do a ridere di sé: «Non dobbiamo dimenticare che il senso
dell’umorismo è esclusivamente umano. In fin dei conti, nessun
animale, tranne l’uomo, è capace di ridere [...]. In virtù dell’au-
todistanziamento, l’uomo è capace di scherzare su se stesso,
di ridere di se stesso, di mettere in ridicolo i propri timori»
(ibidem, p. 122). Per Frankl, l’umorismo è un «vero e proprio
existentiale humanum (alla stregua dell’angoscia per Heidegger o
dell’amore per Binswanger) la cui rilevanza psicoterapeutica sta

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Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

a nel sollecitare l’antagonismo psico-noetico nei confronti delle


condizioni psicofisiche e consentire, così, di “dis-identificarsi”
rispetto ai propri sintomi ritrovando il proprio potere su di sé»
(Bruzzone, 2012, p. 122)
L’indubbia correlazione tra autotrascendenza e autodistan-
ziamento fa sì che vi sia una circolarità di rinforzo positivo fra
queste due caratteristiche: più si è capaci di autotrascendersi,
più si sarà in grado di autodistanziarsi, e maggiore sarà la ca-
pacità di auto-oggettivarsi, più elevato sarà il grado al quale si
perverrà nella capacità di autotrascendersi.
Si può agevolmente comprendere, allora, come la capacità
di autodistanziarsi grazie all’assunzione di un atteggiamento
umoristico nei confronti di se stessi sia un’efficacissima leva
da impiegare per favorire l’autotrascendenza. Atteggiamento
autotrascendente che, lo si ribadisce, è l’unica formula capace
di garantire alla persona un’autentica realizzazione esistenziale.

3. Autodistanziamento sta ad umorismo come


autoironia sta ad umiltà
Se l’autodistanziamento trova la sua più emblematica
espressione nella capacità di saper ridere, l’autoironia, quale
espressione più rappresentativa dell’umorismo, si configura
come espressione di un atteggiamento umile. Che cosa signi-
fica, infatti, non prendersi sul serio, prendersi in giro, burlarsi
di sé, essere autoironici, se non essere umili?
Etimologicamente umiltà e umorismo sono strettamente
collegati, provenendo dalla stessa parola latina humus, terra,
e tutte e tre, umiltà, umorismo e humus-terra, sono collegate
con humanitas. Chi è humi acclinis, chi è «terra-terra», è capace
anche di volare, di essere leggero, di ridere di sé e di sorridere
agli altri, al mondo, alla vita (Monda, 2012, pp. 146-147). È
estremamente rappresentativo il forte legame fra le tre locuzio-
ni. Il ridere di sé è un vera e propria estrinsecazione dell’umiltà.
Antony Burgess sintetizza così il pericolo di sentirsi proprietari
di qualcosa: «essere proprietari di cose è un pericolo; essere
padroni di un impero è la pazzia terminale di prendere le cose
sul serio» (cit. in Monda, 2012, p. 122). Il termine umiltà,
antitetico a quello di narcisismo, viene chiaramente espresso
anche da Stone: «La saggezza deve essere accompagnata dal-

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Paola Versari – Autoironia: mai dir(le) mai

la modestia, forse anche da umiltà: tratti che sono proprio


all’estremità opposta dello spettro narcisistico» (cit. in Ron- a
ningstam, 2001, p. 28). L’umiltà, dunque, vocabolo certamente
un po’ retrò e poco trendy in quest’era capitanata dal narcisismo,
porta in grembo il germe necessario per la realizzazione di una
vita vissuta in pienezza. Ridere di sé è uguale a essere umili
ed essere umili è uguale ad avere una chiara consapevolezza
del proprio valore: cognizione che, finalmente, è in grado di
liberare la persona dalla sua preoccupazione ossessiva di dover/
voler essere onnipotente.

4. L’io ipertrofico e l’io umile: dal prendersi sul


serio al ridere di sé
L’io ipertrofico si prende sul serio. Prendersi sul serio signi-
fica attribuire, arbitrariamente e indebitamente, onnipotenza al
proprio io quando l’io, di onnipotente, non ha proprio nulla.
Il limite, in chi si prende sul serio, non è contemplato, e perciò
viene spesso occultato o negato. E quand’anche ci si accorgesse
di esso, sentimenti profondi di vergogna, di colpa, di senso di
inadeguatezza e bassa stima di sé verrebbero a rappresentare i
vissuti dominanti in chi ne sta facendo esperienza. Prendersi
sul serio vuol dire assumere se stessi secondo la prospettiva
dell’onnipotenza, e, proprio per questo, prendersi sul serio è
tutt’altro che serio. Grün sostiene che ammettere i propri limiti
fa male e richiede umiltà. Umiltà vuol dire avere il coraggio
della verità, il coraggio di discendere nella realtà della nostra
vita e della nostra costituzione psichica (Grün e Robben, 2006,
p. 106).
L’io umile sa ridere di sé, dicevamo. Ridere di se stessi equi-
vale a riconoscere e ad accettare il proprio, inesorabile limite,
qualsiasi sia la sua natura. Riuscire a oggettivarlo consente
anche di sottrargli parte della pericolosità che — consciamente
o meno — gli si attribuisce e che rappresenta una minaccia
per la propria autostima. Riuscire a vedere il proprio limite
non significa affatto negarlo, e nemmeno deresponsabilizzarsi
dinanzi ad esso. Equivale a impegnarsi, quando è consentito,
a superarlo e cambiarlo. O accettarlo, quando questo non sia
possibile. «Umiltà significa anche essere aderenti al terreno:
chi sta piantato sulla terra, riconosce anche i suoi limiti; sa

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Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

a di essere stato preso sulla terra — e perciò limitato nelle sue


possibilità» (ibidem, p. 109).
Inoltre, secondo studi condotti da Avner Ziv, dell’Università
di Tel Aviv, ridere di sé consente di affrontare positivamente il
proprio timore destato dal proprio difetto, allontanare l’aggres-
sività degli altri e conquistare la loro stima. Per l’ascoltatore,
d’altronde, vi è ammirazione per chi riesce a ridere dei propri
difetti (Farnè, 1998, pp. 61 ss).
Ma la peculiarità più significativa dell’autoironia risiede nel
fare esperienza di quella che Frankl definisce la «libertà per».

5. L’autoironia come espressione di una vera libertà


Frankl distingue una libertà da e una libertà per. In che cosa
si differenziano questi due tipi di libertà? Nonostante l’uomo,
nel corso della sua esistenza, sia sempre condizionato da agenti
biologici, psicologici e sociali, egli, secondo lo psichiatra au-
striaco, non ne è mai determinato. In poche parole, la persona
non è mai «libera da» quanto la condiziona. Tuttavia, essa può
essere capace di fare esperienza di una «libertà per» assumere
un atteggiamento dinanzi ai condizionamenti:
L’uomo non è libero da certe condizioni. Ma è libero di prendere
posizione nei confronti di esse. Le condizioni non lo condizionano
del tutto. Dentro certi limiti dipende da lui se soccombe o si arrende
alle condizioni oppure no. Egli può anche superare le condizioni e,
così facendo, aprirsi un varco e penetrare nella dimensione umana.
(Frankl, 1990, p. 48)

Analogamente, Chesterton si esprime in termini molto


simili a quelli del padre della logoterapia: l’uomo che fa
esperienza della vera libertà è l’uomo che si confronta con il
limite imposto. Non c’è vera libertà senza limite (cit. in Ca-
sotto, 2011, pp. 57-58). Si potrebbe dunque affermare che
il limite imposto è il trampolino di lancio della sua libertà:
quella «libertà per» che gli consente, comunque, di realizzare
significativamente i compiti che la vita pone dinanzi: anche
in situazioni di sofferenza. Ecco, allora, come l’autoironia si
situa proprio nel regno di questa «libertà per».
Ridere di sé è una fatica quotidiana, che richiede una ferma
volontà, la volontà di umorismo (Frankl, 2011, p. 83), secondo
la felice espressione frankliana. Ridere e ridere di se stessi è il

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Paola Versari – Autoironia: mai dir(le) mai

libero atteggiamento dell’uomo dinanzi ai limiti imposti: tra


questi anche il suo stesso limite. a
L’autoironia è una forma di umorismo che ha, come spet-
tatore principale, il proprio io:
Il primo e più difficile da attuarsi perché ha come referente solo
l’io: ci si trova dinanzi a se stessi, senza difese, si ride di se stessi, si
intrattiene un dialogo con se stessi. Può essere assimilabile all’iro-
nia socratica. È, questa, un’autoironia pura e purificante. (Minois
2004, p. 172)

Gli anacoreti, eremiti che sin dai primi secoli dopo Cristo
vivevano isolati nel deserto, hanno sviluppato a tal punto la
capacità autoironica che lo stesso padre Rousselot così dichiara:
«Non sarebbe tanto difficile dare una descrizione comica della
vita nel deserto» (cit. in Minois, 2004, p. 172). Di grande
interesse, pertanto, constatare quanto questi padri, attraverso
lo sviluppo di un atteggiamento autoironico, siano in grado
di raggiungere un sano distacco da se stessi:
L’anacoretismo è un terreno privilegiato per sviluppare il senso
dell’umorismo: l’uomo ha solo se stesso, un interlocutore mini-
mo, per cui non deve stare sempre a cercare la battuta a effetto,
brillante, non deve aspettarsi l’ammirazione degli altri; egli pratica
l’umorismo spoglio, puro, ridotto all’essenziale: siamo in presenza
di un’autoderisione isolata, rinchiusa in se stessa. L’umorismo
solitario è l’umorismo assoluto per via della condizione in cui si
trovavano gli anacoreti, distanti da se stessi, senza illusioni, senza
risorse, senza interferenze esterne. Nel confronto lucido con se stessi
si raggiunge il massimo dell’umorismo. L’imbroglio è inutile: non
c’è nessuno da ingannare. Mi prendo in giro in modo autentico
e vero: impietosamente e teneramente rivelo la mia miseria. Mi
accuso e mi scuso contemporaneamente, mi disprezzo e mi amo,
totalmente, ironicamente. Per un istante mi sdoppio in due esseri
contraddittori che si prendono gioco l’uno dell’altro e che, come
particelle di segno opposto, si annientano quando si uniscono per
divenire energia pura all’irriflessiva azione quotidiana. (Ibidem)

Il primo e prioritario atteggiamento umoristico deve essere


inviato, necessariamente, all’indirizzo del proprio io, per l’intu-
ibile ragione che se ci si prende troppo sul serio sarà oltremodo
arduo, per non dire impossibile, sviluppare un orientamento
autotrascendente. La vera autoironia, lo si è visto, nasce come
esperienza innanzitutto solitaria. Ma l’atteggiamento autoiro-
nico, laddove non abbia funzioni negative come l’espressione
di messaggi autolesivi, accattivanti, patetici, arroganti, difensivi
(Forabosco, 2012, pp. 126 ss.), ha anche una funzione sociale

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Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

a di significativo impatto. L’autoironia condivisa, figlia di quel-


la solitaria, favorisce e stimola l’interlocutore ad apprendere
l’atteggiamento dell’autodistanziamento.
Ridere di sé, allora, si pone come una vera e propria ascesi
che, grazie alla sua caratteristica oggettivante, consente di
riconoscere e accogliere il limite come facente parte della vita.
In tal modo è possibile imparare ad allontanarsi, progressiva-
mente, dalla visione di un io ipertrofico e onnipotente. Questa
liberazione, se pur talvolta solo parziale, favorisce l’atteggia-
mento autotrascendente: «Dove non c’è umorismo non c’è
umanità, dove non c’è umorismo — questa libertà che ci si
prende, questo distacco di fronte a noi stessi — c’è il campo
di concentramento» (Ionesco, cit. in Pronzato, 2005, p. 44).
Ecco perché l’autoironia è una risorsa per la ricerca di senso,
ed ecco il motivo per il quale è necessario coltivarla.
Humus, terra, umiltà, umorismo. Solo dalla terra può na-
scere e germogliare ogni humanitas che, nell’ottica frankliana,
è il riferimento ultimo di ogni vera realizzazione di senso.

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Paola Versari – Autoironia: mai dir(le) mai

Bruzzone D. (2012), Viktor Frankl: Fondamenti psicopedagogici


Bibliografia dell’analisi esistenziale, Roma, Carocci Faber.
Bulka R.P. (2005), È la logoterapia un intervento autoritario? Di-
battito tra Rollo May e Viktor E. Frankl (1978). In D. Bruzzone e
E. Fizzotti (a cura di), La sfida del significato: Analisi esistenziale e
Ricerca di senso, Trento, Erickson, pp. 91-101.
Casotto U. (2011), G.K. Chesterton. L’enigma e la chiave, Torino,
Lindau.
Farnè M. (1998), Guarir dal ridere: La psico-biologia della battuta di
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15
a pprofondimenti

Umorismo e
adolescenza
Sono adolescente e non ci trovo niente da ridere!
L’uso dell’umorismo in terapia

Alfredo Altomonte La letteratura sul tema evidenzia l’importanza del


(Psicologo e psicoterapeuta, Roma) ricorso all’umorismo in ambito clinico e ciò si rivela
tanto più opportuno quando si ha a che fare con
soggetti in età adolescenziale. Il contributo pre-
senta una riflessione di carattere teorico pratico,
sottolineando come tale approccio rimandi a quella
capacità esplicitamente umana che Viktor Frankl,
fondatore della Logoterapia e Analisi esistenziale,
definisce con il termine di «autodistanziamento» e
che facilita in ogni persona e in ogni paziente l’og-
gettivazione delle proprie problematiche, alla luce
anche di un proattivo atteggiamento autoironico.

Agevolare lo sviluppo di capacità umoristiche nel paziente è uno dei più superbi
risultati clinici delle analisi più efficaci.
(Poland, 1990)

1. Sono adolescente e non ci trovo niente da ridere! La con-


nessione tra umorismo e adolescenza
Sembra una forzatura ma in realtà è proprio così. Gli adolescenti spesso
non trovano niente di divertente nell’essere in questa fase della loro vita, anzi

Edizioni Erickson – Trento Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014 (pp. xx-xx) 17
Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

a la detestano, la snobbano, la svalutano, la sprecano… Non


è, tuttavia, mia intenzione, in questa sede, approfondire le
tematiche adolescenziali in senso stretto. Semmai, mi piace-
rebbe guardare all’adolescenza attraverso il sorriso piuttosto
che tramite lo sguardo critico e rigido di chi sa che la fascia
evolutiva che corrisponde al nome «adolescenza» è sicuramente
tra le più critiche dell’intero percorso esistenziale della persona.
L’uso dell’umorismo nella psicoterapia con gli adolescenti
solleva diverse obiezioni, oggi meno che in passato, legate
sostanzialmente ai rischi e alle controindicazioni che conse-
guono a un uso superficiale e incauto di battute ironiche e
sarcasmo. Tuttavia, molti autori ritengono che l’umorismo in
età evolutiva costituisca un prezioso strumento di valutazione
del paziente e una tecnica terapeutica in grado di produrre
elaborazioni profonde e di potenziare abilità di mentalizza-
zione proprio in quei pazienti più resistenti al cambiamento
a causa delle caratteristiche cliniche della loro struttura di
personalità. In particolare, l’umorismo è stato utilizzato come
tecnica terapeutica nel trattamento della depressione e distimia,
dell’impulsività, dell’ansia sociale e dei disturbi della condotta
(Andropoli e Aversano, 2011).
Il ragazzo in preda a una crisi adolescenziale è indubbiamen-
te irritabile, suscettibile e scontroso. Eppure, Frankl ci insegna
come, anche dinanzi alle problematiche più complesse che la
vita ci pone dinanzi, noi possiamo scegliere diversamente da
quello che il «destino» sembra riservarci. Nella lettera del 14
settembre 1945 dice così:
Se non avessi questa salda concezione positiva della vita, cosa
sarebbe successo di me in queste settimane [dopo aver anche appre-
so la morte della moglie e della madre] e, prima ancora, nei mesi
trascorsi nei campi di concentramento? Oggi vedo le cose da una
prospettiva più ampia. Vedo sempre più che la vita è infinitamente
significativa, che anche nella sofferenza e perfino nel fallimento c’è
ancora un senso. E l’unica consolazione che mi resta sta nel fatto
che posso dire in tutta coscienza di aver realizzato le possibilità che
mi sono state offerte; anzi, potrei dire che sono stato salvato proprio
passando attraverso le possibilità. (Fizzotti, 2005, p. 328)

Cosa dà senso a questo vivere, al destino che tocca in sorte?


Qual è questo significato da ricercare? Sono, queste, domande
che tornano alla mente come un ritornello in un adolescente
in crisi. Sono, nel contempo, le stesse domande che si è posto
Frankl quando era dinanzi alla prospettiva della morte nei
campi di concentramento.

18
Alfredo Altomonte – Umorismo e adolescenza

Qual è, dunque, questo significato da ricercare? Esso


consiste nell’azione sul mondo, nel formare la propria vita in a
vista dell’unicità propria e altrui, finché questo è possibile.
Quando non è più possibile agire in alcun modo su quello che
è stato, che è o che sarà, allora il destino diventa significativo
se è «sopportato», se l’uomo non subisce passivamente o con
ribellione ciò che gli è dato di vivere, ma sceglie di mettere in
atto i valori di atteggiamento (Frankl, 2001, p. 145). Infatti
«il “come” l’uomo sopporterà una sofferenza inevitabile, rac-
chiude una possibilità di significato dell’esistenza» (Frankl,
1974, p. 74), cioè è possibile ancora per lui camminare verso
l’espressione della propria autenticità e unicità rispettando e
finanche amando quella altrui.
È qui che, in ottica frankliana, l’umorismo diviene strumen-
to indispensabile per creare un distacco dalle situazioni difficili
ponendo gli adolescenti al di sopra delle stesse. Se il ragazzo
in crisi giunge a pensare che la vita non gli appartenga ma lo
attraversi, è proprio in quel momento che si può scorgere come
«ogni smarrimento può divenire il raggiungimento della consa-
pevolezza, mentre ciò che è mio, veramente e unicamente mio,
è il modo con cui vivo la responsabilità sulla vita, sul limite e
sulla consapevolezza di essa» (Frankl, 1974, p. 76). È in questo
momento che si può cogliere l’importanza della capacità di
andare al di là di se stessi concentrandosi su ciò che è salvifico
e funzionale al proprio ben-essere personale: la relazione. Per
fare ciò, l’umorismo è un mezzo imprescindibile e funzionale
al raggiungimento della capacità di auto-distanziarsi per vivere
la relazione io-tu non in un accezione individualistica ma nella
dimensione e nella direzione del «noi» che rende liberi e capaci
di stare con sé e con l’altro in armonia.

2. È funzionale l’uso dell’umorismo in psicoterapia?


Bernet, nel 1982, ha osservato che gli adolescenti depressi o
psicotici raramente reagiscono all’umorismo, ma il loro modo
di non reagire è assai diverso. Un adolescente con un disturbo
psicotico tende a rimanere perplesso o confuso, mentre un
ragazzo distimico o depresso può comprendere l’umorismo e
fare un tentativo di sorridere, per poi tornare rapidamente alla
solita tonalità di umore.

19
Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

a Dal canto suo, Masten (1986) ha riscontrato una relazione


positiva tra la produzione e l’apprezzamento dell’umorismo e
le competenze accademiche e sociali negli adolescenti. Inoltre,
se ben impiegato, l’umorismo può svolgere un’importante
funzione di coping, ovvero l’essere in grado di accedere a una
visione umoristica e ironica delle esperienze avverse può aiutare
un ragazzo a fronteggiare in modo più adattivo le esperienze
di stress emotivo.
L’uso dell’umorismo in psicoterapia, dunque, pur sollevan-
do ancora tante obiezioni, costituisce, come detto sopra, un
importante strumento di valutazione del paziente e una tecnica
terapeutica in grado di produrre delle elaborazioni profonde.
Non a caso, Poland (1990) sostiene come sviluppare capacità
umoristiche nei pazienti costituisca un risultato clinico appar-
tenente ai più qualificati approcci psicoterapeutici.
Appare, dunque, chiaro che l’uso dell’umorismo sia fun-
zionale nella psicoterapia in quanto offre una possibilità di
«leggerezza» all’interno di un percorso che spesso induce il
paziente all’opportunità di fare i conti con i propri oggetti
interni, il che è indubbiamente faticoso. Tale «leggerezza» fa
parte di un momento molto serio. Non c’è ambito più serio
di quello umoristico. Solo chi è molto serio, infatti, riesce a
essere sufficientemente ironico e capace di senso dello humour.
L’«incontro» tra leggerezza e serietà offre l’opportunità allo
psicoterapeuta di usufruire di un «mezzo» unico e originale
nel setting terapeutico.

3. Cosa accade nella pratica clinica?


Nella pratica clinica, il terapeuta che voglia usare l’umori-
smo come strumento diagnostico può chiedere semplicemente
al paziente di raccontare la sua barzelletta preferita, come fosse
un gioco del tipo «Raccontami la tua barzelletta preferita e ti
dirò chi sei». In questo modo, il terapeuta può comprendere
se il ragazzo ha un livello adeguato di consapevolezza sociale
per ricordare una barzelletta; oppure se il ragazzo è disposto a
condividere qualche aspetto personale con lo psicologo.
Una proposta di modalità di stesura del colloquio clinico
con l’adolescente (Bernet, 1982) può prevedere la richiesta di
elencare diversi sentimenti e di raccontare un episodio in cui
il ragazzo si è sentito di provare quella emozione; ad esempio:

20
Alfredo Altomonte – Umorismo e adolescenza

«Raccontami di quella volta in cui ti sei sentito molto triste» e


«Raccontami di una volta in cui ti sei sentito scoraggiato». Il te- a
rapeuta può elencare anche le emozioni a carattere umoristico,
chiedendo il resoconto di qualcosa di strano che gli è accaduto
o di quando ha fatto qualcosa di stupido o di imbarazzante.
L’impiego spontaneo dell’umorismo da parte del paziente
adolescente nel setting terapeutico può essere oggetto di studio
nella stessa maniera di un qualsiasi altro commento o fantasia o
sogno, come per i pazienti adulti (Bernet, 1982). Ad esempio,
un adolescente potrebbe esprimere sentimenti ostili o inaccet-
tabili anche attraverso la scelta della barzelletta.
Orfanidis (1972) ha descritto in modo sistematico l’umo-
rismo emerso spontaneamente nel trattamento di dieci adole-
scenti, concludendo che «l’umorismo è una modalità di con-
dividere i sentimenti di paura e di aggressività, di abbattere le
barriere sociali e di controllare le proprie ansie» (p. 154). Ne è
una dimostrazione efficace la descrizione di un preadolescente,
Kenny, in relazione alla battuta seguente:
C’era una volta un ragazzino che aveva una rana di nome Pipino,
che un giorno morì mentre lui era a scuola. Quando la madre glielo
disse, il ragazzino non rispose nulla, ma nel bel mezzo della notte,
cominciò a gridare: «No! Pipino è morto! Pipino è morto!». Quando
sua madre corse da lui, egli spiegò che in precedenza non era stato
turbato dalla notizia poiché aveva capito che lei intendeva dire:
«Papino è morto».

Chiaramente, la barzelletta manifesta tutta l’ostilità di


Kenny verso suo padre, tanto da avere determinato in lui
il divertimento scaturito nell’assurdo fraintendimento della
notizia iniziale.
Quando un adolescente racconta in terapia una barzelletta,
di solito non è necessario dare immediatamente un’interpre-
tazione. Se ci si avventura subito nell’analisi della battuta, si
rischia di creare una distanza tra il terapeuta e il paziente, che
non si sentirà più libero di accedere all’umorismo in modo
spontaneo. Naturalmente, si tratta di un parere clinico ma, a
volte, una barzelletta è solo una barzelletta! Freud (1960, ed. or.
1905) stesso notò come alcune barzellette sono semplicemente
divertenti e non servono a uno scopo particolare. Invece, altre
barzellette possono essere «tendenziose», con uno scopo che va
al di là dell’essere semplicemente divertente. Freud pensava,
infatti, che le barzellette tendenziose esprimessero ostilità (han-
no uno scopo aggressivo, di ridicolizzare l’altro, o difensivo)

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Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

a oppure oscenità (hanno lo scopo di mettersi in mostra) oppure


cinismo (attaccano le istituzioni morali e religiose).
Tuttavia, l’umorismo può agevolare la riduzione della
resistenza al cambiamento terapeutico. Gardner (1971) ha
riportato diversi casi di utilizzo dell’umorismo come tecnica
di narrazione reciproca. Ha riconosciuto che vi sono molti
aspetti della psicoterapia che sono complicati da affrontare
per gli adolescenti, quali il discutere delle proprie paure o delle
esperienze traumatiche, o l’ammissione delle proprie carenze.
In questi casi, l’umorismo aiuterebbe a motivare il ragazzo al
trattamento e migliorerebbe l’alleanza terapeutica sulla base
delle capacità cliniche del terapeuta che interpreta i significati
delle battute (Andropoli e Aversano, 2011).

4. L’uso dell’umorismo in psicoterapia: estratto di


una seduta
Mi piace riportare qui un estratto di una seduta con un
adolescente che seguo in psicoterapia. Si tratta di Fabio (nome
fittizio) — 16 anni —, un paziente con tratti depressivi reattivi
a un vissuto scolastico disfunzionale. Seguo Fabio da poco
tempo e, durante le prime sedute, appare molto silenzioso
e insicuro. All’interno dell’ottava seduta, quando si è ormai
creata una buona alleanza terapeutica…
F – [...] Lo so, lo so, non faccio altro che stare in silenzio, ma che devo
fa’? Sto male, è inutile…
T – Bene, sento che credi fortemente in te, ottimo! [Gesto del pollice
a indicare: «ok»]…
F – Certo che te sei forte. Te sto a dì che sto male e me prendi anche
in giro…
T – No, voglio solo dirti che apprezzo molto il tuo ottimismo, tutto
qui…
F – (Ride, si sistema i capelli) Sono il solito, eh…
T – Il solito che?
F – Il solito, mi do addosso, come dici te, no?
T –È vero per te?
F – Sì, in verità sì.
T – Cosa senti mentre lo dici?
F – Boh…
T – Che vuol dire «Boh»?
F – Non lo so, non lo so…
T – Attenzione, attenzione, amici, dopo questo raro attimo di verità,
Fabio vuole tornare a dirsene di tutti i colori. È questo che vuoi?

22
Alfredo Altomonte – Umorismo e adolescenza

F – Me stai a sfrugulià eh… Con te non se po’ barà. Ma è proprio


così, spesso me tiro tutto addosso…
T – Cosa senti, dunque?
a
F – Tristezza, tanta tristezza. (Inizia a piangere a dirotto)
Sto in silenzio e proteso verso il paziente per circa un minuto.
F – Me sento svuotato… Però, lo sai che piangere ogni tanto me
fa bene.
T – Piangere significa liberare quello che hai dentro.
F – Sì, che fatica… Ma è anche ‘na figata. Dopo che piango qui,
mi sembra che, se lo faccio più spesso, soffro de meno. Può esse
secondo te?
T – Può esse…
F – Dovrei aprimme di più?
T – Può esse…
F – Allora non sto poi così male? So’ stato bravo oggi a mettemme
in gioco, o no?
T – Può esse…
F – Me stai a prende in giro?
T – Può esse… Scherzi a parte. Fabio, non stai così male. Anzi, stai
bene finché ti lasci la libertà di esprimere quello che senti, quello
che desideri realmente.
F – È vero, è che non sempre ci riesco.
T – Mmh…
F – Oggi ha funzionato e, se in futuro, non dovesse funzionare?
T – Attenzione, amici…
F – Hai ragione, stavo ritornando a darmi addosso. È che a volte
vorrei essere più sicuro, più deciso, ecco.
T – Vuoi dirti qualcosa di autenticamente positivo e vero dopo oggi?
F – Che vor dì? Dove vuoi arrivà?
T – Cosa hai fatto di positivo, oggi, per te?
F – Beh, forse per la prima volta ho tirato veramente tante cose che
avevo dentro…
T – Forse?
F – No, sicuro, guarda qua… Non c’ho più lacrime.
T – Cosa senti?
F – Sento un po’ di gioia. Ma non ti illude, è un po’, mica avemo
finito…
T – Wow, vuoi provare a stare in questa settimana con questo po’
di gioia?
F – Ce provo, magari ci riuscissi…
T – Ok, ci vediamo la prossima settimana allora e vediamo quante
volte ti sarai dato addosso…
F – Certo che sei proprio… Non lo posso dì, per rispetto.
T – A martedì prossimo allora.
F – A martedì prossimo e grazie.
La settimana successiva Fabio ritorna in seduta con il sorriso e dice:
F – Mi dispiace deluderti ma so più le volte in cui so’ stato felice che
non quelle in cui me so’ colpevolizzato…
[...]

23
Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

a Lo stralcio di seduta su riportato mette in luce come una


non sempre impeccabile, nonché non scientificamente «cano-
nica», conduzione terapeutica in linea con l’ottica terapeutica
umoristica e con i principi-base della psicoterapia, possa,
attraverso una salda alleanza terapeutica, aiutare la persona a
guardarsi dentro e a dare nome alle proprie emozioni, mèta
propedeutica per la gestione delle stesse.

5. L’uso dell’umorismo in psicoterapia: punti di


forza prevalenti e rischi maggiori
L’umorismo può svolgere un’importante funzione nella
costruzione del rapporto terapeutico con l’adolescente: pro-
muove l’instaurarsi di un rapporto positivo tra il terapeuta e
il paziente; comunica un senso di reciprocità nella misura in
cui il terapeuta e il paziente condividono le stesse emozioni;
contesta e interrompe le ipotesi disfunzionali che l’adolescente
formula, con la finalità di migliorare l’alleanza terapeutica
(Andropoli e Aversano, 2011).
Shaw (1961) pensa che l’impiego dell’umorismo nell’ac-
coglienza di un adolescente costituisca una buona prassi
finalizzata alla costruzione di un’alleanza terapeutica positiva:
in questa fase, l’umorismo diventa un importante strumento
diagnostico e di valutazione clinica in quanto fornisce delle
informazioni su come procedere con l’intervista.
Gardner (1971) ha riportato diversi casi di utilizzo dell’umo-
rismo come tecnica di narrazione reciproca. Ha riconosciuto
che vi sono molti aspetti della psicoterapia che sono compli-
cati da affrontare per gli adolescenti, quali il discutere delle
proprie paure o delle esperienze traumatiche, o l’ammissione
delle proprie carenze. In questi casi, l’umorismo aiuterebbe a
motivare il ragazzo al trattamento e migliorerebbe l’alleanza
terapeutica sulla base delle capacità cliniche del terapeuta che
interpreta i significati delle battute.
Tuttavia, l’umorismo in terapia può ovviamente risultare
maltrattante se diretto al paziente in modo non corretto, e la
tecnica è stata anche oggetto di critiche (Kubie, 1971). Come
regola generale, un terapeuta non dovrebbe usare l’umorismo
con pazienti con bassa autostima, mentre può essere maggior-
mente indicato con adolescenti con personalità narcisistica o
passivo-aggressiva.

24
Alfredo Altomonte – Umorismo e adolescenza

Un’altra finalità dell’insegnare all’adolescente a costruire o


apprezzare delle barzellette è basata sull’importanza dell’umo- a
rismo nelle relazioni tra pari (Schimel, 1992). Raccontare
barzellette fa parte dell’esperienza adolescenziale e dimostra,
anche agli stessi adolescenti, salute e adeguatezza comporta-
mentale di chi usa le battute nelle conversazioni. Infatti, tra
gli adolescenti anche gli scherzi vengono usati per definire il
carattere dei coetanei che fanno parte di un gruppo, poiché ciò
costituisce un altro elemento dimostrativo della condivisione
di atteggiamenti comuni e della provenienza da una medesima
cultura. Quindi, un ragazzo che presenta delle difficoltà nel
costruire rapporti tra pari, a causa di tratti di ansia sociale e
inibizione, può essere favorito dall’apprendimento di barzellet-
te, da condividere inizialmente con il terapeuta e poi esportare
nelle occasioni sociali.
L’uso di battute e indovinelli costituisce una buona tecnica
anche nella terapia di gruppo con adolescenti (Bernet, 1982).
Gli adolescenti liberi di usare l’umorismo in terapia di gruppo
sono spesso più spontanei, senza rendersi conto che le loro bat-
tute possono rivelare parecchie informazioni
sul loro modo di pensare e sulla loro persona-
lità. Quando si verifica un emergere spontaneo
dell’umorismo nel gruppo, il terapeuta deve
stabilire se la battuta assolve a una funzione
difensiva rispetto agli argomenti trattati o se
può essere utilizzata per facilitare il lavoro del
gruppo. In questo caso, il terapeuta dovrebbe
stabilire alcune regole di base: ad esempio,
permettere a ogni partecipante di esprimersi a
turno in modo umoristico; favorire una rifles-
sione di ognuno sulla battuta umoristica degli
altri al fine di fornire un feedback all’autore
della battuta; spiegare che l’umorismo usato nel gruppo di
terapia non ha lo stesso significato di quello espresso in altri
contesti, così da riflettere sul rischio di apparire provocatori
o offesivi se si risponde in modo umoristico, ad esempio, alla
professoressa in classe.
In generale, considerare l’umorismo come un agente di
cambiamento non significa che semplicemente il terapeuta uti-
lizza battute per essere spiritoso e far ridere il paziente durante
le sedute. Redl e Wineman (1952) hanno sviluppato molte
tecniche per promuovere l’espressione della rabbia nonché il
suo controllo da parte dell’adolescente.

25
Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

a Redl ha chiamato questa tecnica «decontaminazione umo-


ristica»: l’intervento umoristico prevedeva una combinazione
di due fattori, ovvero la dimostrazione all’adolescente dell’in-
vulnerabilità degli adulti mediante l’impiego di una modalità
di comunicazione non offensiva o distruttiva, e la guida alla
rinuncia dell’aggressività mediante la creazione di una de-
viazione cognitiva dalla causa della rabbia, che a quel punto
diventava secondaria.
Un’altra esperienza con preadolescenti depressi (Bernet,
1982) prevedeva l’assegnazione di un compito per casa: im-
parare una barzelletta e portarla in terapia per l’appuntamento
successivo. Lo scopo di questa tecnica non era semplicemente
quello di divertire il paziente, così ponendolo
in una posizione di padronanza cognitiva.
Dialogo La finalità ultima del terapeuta era piuttosto
fruttuoso tra quella di favorire nel ragazzo l’esperienza del
donarsi un benessere emotivo, così da sapere
psicologia e di poter accedere in qualsiasi momento alle
discipline proprie risorse autoconsolatorie.
dfdd L’umorismo viene impiegato con una va-
dkfjdkf lenza seduttiva sul terapeuta e viceversa, con la
finalità di mantenere il paziente lontano dalla
dfjkdfd sofferenza legata all’emergere di ricordi dolo-
rosi; oppure appare una modalità attraverso
cui il paziente svaluta l’operato del terapeuta.
Inoltre, il terapeuta dovrebbe essere sempre consapevole del
suo controtransfert, che può influenzare l’utilizzo dell’umori-
smo con un determinato paziente in un momento particolare.
Inoltre, l’uso dell’umorismo chiaramente deve venire naturale
al terapeuta, che non deve apparire goffo, in quanto l’efficace
gestione delle tecniche umoristiche non può essere appreso
come un’altra qualsiasi tecnica terapeutica. La situazione di
maggiore gravità nell’impiego dell’umorismo si verifica quando
un terapeuta cerca di essere divertente sfruttando stabilmente
il paziente: un terapeuta con caratteristiche sadiche può in-
consapevolmente usare i pazienti come vittime della propria
ostilità, oppure il terapeuta può manipolare narcisisticamente
i pazienti in modo da renderli «spettatori» di un umorismo
sbagliato e non contestuale.
Va da sé che l’utilità di conoscere tali rischi da parte del
terapeuta è quella di legare l’uso delle tecniche umoristiche a
rigidi processi di autoconsapevolezza e autocontrollo (Andro-
poli e Aversano, 2011).

26
Alfredo Altomonte – Umorismo e adolescenza

6. Autodistanziamento e autotrascendenza, punti


cardine del pensiero frankliano ed elementi in
a
comune con l’umorismo
Viktor E. Frankl è stato indubbiamente un umorista di
prima classe. Capace di ideare vignette divertentissime, è stato
sempre pronto alla dimensione dell’ironia e dell’autoironia
(famose in tal senso le sue vignette con annessa autocaricatura).
Nel suo best seller, Uno psicologo nei lager, lo psichiatra austriaco
così si esprime: «Tutti sanno che l’umorismo è in grado, come
poche altre cose nell’esistenza umana, di creare un distacco e di
porre gli uomini al di sopra di una certa situazione» (Frankl,
2003, p. 83).
Più precisamente, secondo Frankl, l’obiettivo di ogni essere
umano è costituito dall’autorealizzazione e dalla pienezza esi-
stenziale, le quali si ottengono invertendo l’ordine dei valori.
Raggiungere tale traguardo rientra in una visione di sé ad ampio
respiro. Nel perseguire la mèta suddetta non bisogna, infatti,
porre uno specchio che faccia da muro dinanzi al mondo ester-
no, ma incominciare a dare uno sguardo agli altri dimenticando
se stessi. Tale proiezione verso gli altri potrebbe sembrare un
obiettivo utopico, ma in realtà Frankl crede profondamente
nelle possibilità di riuscita dell’uomo in questo intento (Fizzotti
e Scarpelli, 2005, p. 29).
L’umorismo, in tal senso, costituisce uno strumento deci-
sivo. Anche dinanzi alla visione più pessimistica della vita, mi
verrebbe da dire che l’umorismo costituisce senza dubbio il più
grande «antibiotico» per condurre la «malattia» — per chi, per
vari motivi, definisce o vive la vita come tale — dell’esistenza.
L’uomo, secondo Frankl (1998, p. 33), può, infatti, au-
todistanziarsi da una situazione e anche da se stesso. In tal
modo, oltre a essere capace di scegliere il suo atteggiamento
nei confronti di se stesso, assume una posizione chiara e ben
definita nei confronti dei suoi condizionamenti e determinismi
somatici e psichici. Ciò che conta non sono le caratteristiche, gli
stimoli e gli istinti del nostro carattere, ma l’atteggiamento che
noi abbiamo nei loro confronti. È proprio questa capacità che
rende l’uomo diverso dall’animale. Avere un atteggiamento nei
confronti dei fenomeni somatici e psichici «implica il sollevarsi
al di sopra del loro livello, e schiudere una nuova dimensione,
quella dei fenomeni noetici: la dimensione noetica, in con-

27
Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

a trapposizione alla dimensione biologica e a quella psicologica.


Questa è la dimensione in cui sono localizzati i fenomeni
esclusivamente umani» (ibidem, p. 33). Con l’espressione «di-
mensione noetica» si indica, in logoterapia, la dimensione dello
spirito (Carelli, 1993, p. 55). L’uomo mortifica la dimensione
noetica nel momento in cui riflette solo su se stesso o rigetta
se stesso, ma anche ogni qual volta fa di se stesso un oggetto,
o crea obiezioni a se stesso e, ancora, quando si mostra con-
scio di se stesso e fa esibizione del suo essere cosciente. Essere
conscio, difatti, consiste nella capacità, da parte dell’uomo, di
innalzarsi al di sopra di se stesso giudicando e valutando i pro-
pri atti in termini morali ed etici. Ci si potrebbe privare della
coscienza della propria umanità, ma in tal modo la coscienza
costituirebbe un’istanza del riduzionismo, ovvero l’approccio
che ignora l’umanità dei fenomeni. Come ci
si accosterebbe all’amore, o alla coscienza, in
Dialogo un’ottica riduzionistica? L’amore e la coscienza
fruttuoso tra sono i fenomeni più umani che esistano e,
psicologia e prendendoli in considerazione, ci si rende
conto di un’altra capacità umana di grande
discipline rilievo: l’autotrascendenza.
dfdd Secondo la concezione di Frankl (2001, p.
dkfjdkf 187), la vita acquista un senso nella misura in
cui ci si apre al mondo e verso qualcosa d’altro
dfjkdfd rispetto a se stessi. Allo stesso modo si può
dire che l’uomo realizza se stesso quando si
dimentica di sé donandosi a un’altra persona
o impegnandosi per una causa esterna a se stesso.
La via per il senso che riempie la nostra esistenza deve,
quindi, passare attraverso gli altri, intesi non come mezzo ma
come mèta. L’uomo diventa se stesso quando si proietta oltre
se stesso e, facendo ciò, si dimentica di sé (ibidem).
Dimenticarsi di sé da parte dell’uomo significa anche, o
forse soprattutto, essere capaci di autoironia, tralasciando
l’immagine o la maschera sociale creatasi in luogo di una
rappresentazione di sé nella propria debolezza, nell’aspetto di
sé che esalta il limite come «quid» imprescindibile e facente
parte di sé. È l’esaltazione del proprio limite molto spesso la
via prima per cogliere i valori fondanti del proprio essere.
Il concetto di autotrascendenza viene semplificato da Frankl
(Fizzotti e Scarpelli, 2005, pp. 31-32) attuando la similitudine
con gli occhi, indicando come essi siano malati allorquando

28
Alfredo Altomonte – Umorismo e adolescenza

dovessero scorgere e vedere qualcosa di se stessi in quanto gli


occhi normali non vedono se stessi. Un altro esempio di Frankl a
è relativo «alle proprietà del boomerang che “ritorna verso
il cacciatore quando ha sbagliato obiettivo non colpendo la
preda”. Ebbene, “allo stesso modo l’uomo si richiude nell’au-
torealizzazione quando naufraga la realizzazione del senso,
quando cioè non è più in grado di trovare un significato che
valga la pena di realizzare”» (ibidem, p. 32).
Il pensiero logoterapeutico sostiene che la rinuncia alla fis-
sità e al non cambiamento permette di accogliere la tensione
verso la realizzazione dei valori (Fizzotti, 2003, pp. 34-35).
Frankl (1998, p. 51) ha voluto distinguere il concetto di causa
da quello di ragione e ha detto che la causa è ciò che produce
l’effetto. Ha precisato che un effetto può essere
determinato dalla ragione o dalla causa; ciò
che cambia è il percorso e quindi la modalità.
Nel caso l’effetto fosse fondato su una ragione
allora la persona ne troverebbe il motivo.
Lukas (1991, p. 25) sostiene che avere
un solo valore verso cui orientarsi o avere un
orientamento piramidale è rischioso. Frankl
(1972, p. 52) propone un modello di uomo
come essere che non è «spinto dall’istinto, ma
[...] attirato dai valori. [...] I valori mi attirano,
non mi spingono. Per la loro realizzazione mi
decido con libertà e responsabilità, mi risolvo
per essi, mi apro al loro mondo; [...] la dinamica dello spiri-
tuale non è fondata sull’istintività, ma sulla tensione ai valori»
(Frankl, 1972, p. 52).
In relazione all’autotrascendenza, Frankl (2001, p. 188)
individua un altro suo aspetto nella ricerca di un senso e nella
proiezione verso di esso. Tale concetto viene definito «volontà
di significato». Anche Maslow (1956, pp. 107-112) identifi-
cava la volontà di significato come la motivazione primaria
sottostante al comportamento umano. È sempre più chiara
nell’uomo la mancanza di senso così come il sentimento di
vuoto, definito «vuoto esistenziale» da Frankl (2001, pp. 188-
189). La spinta di autotrascendenza permette di fronteggiare
tale sentimento di vuoto, in quanto si rivela «modalità con-
creta di un sopra-vivere, cioè di un vivere che supera l’attualità
dell’evento dando spazio globale e progettuale a una “esistenza
nel mondo”, ma anche a una “esistenza per il mondo”, elabo-

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Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

a rando così una dinamica evolutiva che è fatta di certezze nel


presente (impegno) e di significato per il futuro (progetto)»
(Fizzotti, 1992, p. 171#manca in biblio. Forse è Frankl?).
Questa tensione autotrascendente diviene volontà di significato
che costituisce una motivazione in più per l’uomo. Oltre alla
volontà di piacere e alla volontà di potenza, l’uomo può così
trovare il significato della propria relazione con se stesso e con
gli altri e della propria esistenza. In quest’ottica, l’umorismo
squarcia i muri della relazione con sé, dipana ferite spesso
troppo aperte e spiana la strada all’incontro con sé, passo primo
per un proficuo incontro con l’altro.

7. Sono adolescente e ci trovo tanto da ridere


ora… Come la scoperta del ridere possa divenire
«luogo» di senso!
L’uomo è, per Frankl, un essere alla ricerca del senso nel-
la propria vita e, fin quando egli non realizza questo senso
dell’esistenza, non riceverà mai in dono la realizzazione di sé
e delle sue possibilità.
Per adempiere in maniera positiva la ricerca del vero si-
gnificato della propria esistenza, l’uomo deve essere conscio,
ovvero capace di innalzarsi al di sopra di se stesso giudicando
e valutando i propri atti in termini morali ed etici, tramite
l’autodistanziamento. È questo il senso più pieno della capacità
di essere umoristici.
L’essere umano rimanda sempre a qualcosa che è al di fuori
di sé e non a se stesso e solo nella misura in cui si trascende
realizza se stesso. L’uomo realizza veramente e propriamente
se stesso nel momento in cui si dimentica di sé. Altro aspetto
fondamentale dell’autotrascendenza è il concetto relativo alla
volontà di significato, ovvero la ricerca di un senso e la proie-
zione verso di esso.
La persona può passare dall’atteggiamento di patiens a
quello di agens, assumendosi tutte le responsabilità che la vita
comporta per la realizzazione dei valori di fondo personali, in-
dividuando la vita stessa come compito, un compito differente
da persona a persona e relativo all’unicità di ciascuna situazione.
Vi sono diversi tipi di disturbi, alcuni molto gravi e altri
meno. Vi sono situazioni in cui la ricerca di un senso, anzi il

30
Alfredo Altomonte – Umorismo e adolescenza

solo pronunciare la parola «senso» accostandola a una situazio-


ne di sofferenza (più o meno estrema), può sembrare irrisoria, a
ma così non è. Frankl nota come vi siano delle situazioni defi-
nite dalla gente comune «senza via d’uscita» e degli uomini in
fisiologica difficoltà di fronte a tali situazioni e si chiede: «cosa
significa una situazione senza via d’uscita? [...] Ma fintanto che
l’uomo non sarà dotato del dono della profezia, non sarà mai
in grado di giudicare validamente se il suo avvenire racchiuda
o no la possibilità di realizzare dei valori» (Frankl, 2001, p. 94).
I valori, nella visione frankliana, costituiscono quei signi-
ficati universali che caratterizzano le situazioni tipiche che
l’uomo deve affrontare. L’assunzione di questi valori si rivela
come un aiuto in più per la ricerca del significato della propria
vita. L’uomo, a sua volta, riesce a trovare tale
significato tramite la realizzazione dei valori (di
creazione, di esperienza e di atteggiamento),
ma è fondamentale comprendere come l’homo
sapiens possa diventare homo patiens, a benefi-
cio della sua ricerca di significato.
Nell’ottica della logoterapia frankliana il
significato della sofferenza acquisisce un’im-
portanza di rilievo. Per dare senso al dolore
è necessario ricorrere alle risorse dell’homo
patiens riconciliandosi con il dolore come
dimensione inevitabile dell’esistenza, la quale
invita a sostituire i valori dell’avere con quelli
dell’essere e a tramutare il soffrire in occasione per praticare
l’amore più profondo. È attraverso i valori di atteggiamento
che l’homo patiens è in grado di sopportare la propria sofferenza
e di viverla come mezzo di realizzazione del significato della
propria vita.
Dinanzi a una persona che non ha ancora colto il senso
della propria vita è opportuno ricordarle, seguendo il monito
di Goethe (cit. in Frankl, 2001, p. 93), che è importante non
analizzarsi ma agire svolgendo come dovere ciò che ogni giorno
le è chiesto di fare. Inoltre, non prendersi eccessivamente sul
serio è la cosa più seria che si possa fare per vivere la vita anche
attraverso l’affascinante contorno del sorriso e dell’ironia.
La vita intera è un’azione mirante all’obiettivo generale,
ragion per cui, se è ben definita la mèta globale, v’è il senso
della vita ed esso appare ben chiaro (Fizzotti, 2005, p. 52).

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Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

a Il logoterapeuta deve tentare di far sì che il paziente guardi


alla vita come un dono ma allo stesso tempo come un compito
(Fizzotti, 2003, p. 7), attraverso il quale possa gioire del bene
di cui la sua vita può godere, nei confronti della quale, però,
ha la responsabilità — come persona e quindi nel rispetto per
sé e per l’altro dinanzi a sé — di cogliere il senso più intimo ad
essa correlato, da vivere nell’adempimento dei valori principi
del proprio cammino di adolescente, prima, e, successivamente,
di uomo, non perdendo mai di vista la capacità di autoironia
e senso dell’humour.
Una persona indubbiamente molto umoristica è stata
Charlie Chaplin. Proprio il grande comico ci ha lasciato que-
ste parole in eredità che costituiscono, in un certo senso, la
summa di come un adolescente, guardandosi a fondo, possa
cogliere la dimensione per cui solo amandosi si può ritornare
a sorridere e a ridere:
Quando ho cominciato ad amarmi davvero,
mi sono reso conto che la sofferenza e il dolore emozionali
sono solo un avvertimento che mi dice di non vivere contro la mia
verità.
Oggi so che questo si chiama
AUTENTICITÀ.
Quando ho cominciato ad amarmi davvero, ho capito
com’è imbarazzante aver voluto imporre a qualcuno i miei
desideri,
pur sapendo che i tempi non erano maturi e la persona non era
pronta,
anche se quella persona ero io.
Oggi so che questo si chiama
RISPETTO PER SE STESSI.
Quando ho cominciato ad amarmi davvero, ho smesso
di desiderare un’altra vita e mi sono accorto che tutto ciò che mi
circonda è un invito a crescere.
Oggi so che questo si chiama
MATURITÀ.
Quando ho cominciato ad amarmi davvero, ho capito di
trovarmi sempre e in ogni occasione al posto giusto nel momento
giusto e che tutto quello che succede va bene.
Da allora ho potuto stare tranquillo.
Oggi so che questo si chiama
STARE IN PACE CON SE STESSI.
Quando ho cominciato ad amarmi davvero,
ho smesso di privarmi del mio tempo libero
e di concepire progetti grandiosi per il futuro.

32
Alfredo Altomonte – Umorismo e adolescenza

Oggi faccio solo ciò che mi procura gioia e divertimento,


ciò che amo e che mi fa ridere, a modo mio e con i miei ritmi.
Oggi so che questo si chiama
a
SINCERITÀ.
Quando ho cominciato ad amarmi davvero, mi sono liberato
di tutto ciò che non mi faceva del bene: cibi, persone,
cose, situazioni e da tutto ciò che mi tirava verso il basso
allontanandomi da me stesso, all’inizio lo chiamavo «sano
egoismo», ma oggi so che questo è
AMORE DI SÉ.
Quando ho cominciato ad amarmi davvero,
ho smesso di voler avere sempre ragione.
E cosi ho commesso meno errori.
Oggi mi sono reso conto che questo si chiama
SEMPLICITÀ.
Quando ho cominciato ad amarmi davvero,
mi sono rifiutato di vivere nel passato
e di preoccuparmi del mio futuro.
Ora vivo di più nel momento presente, in cui TUTTO
ha un luogo.
È la mia condizione di vita quotidiana e la chiamo
PERFEZIONE.
Quando ho cominciato ad amarmi davvero,
mi sono reso conto che il mio pensiero può
rendermi miserabile e malato.
Ma quando ho chiamato a raccolta le energie del mio cuore,
l’intelletto è diventato un compagno importante.
Oggi a questa unione do il nome di
SAGGEZZA DEL CUORE.
Non dobbiamo continuare a temere i contrasti,
i conflitti e i problemi con noi stessi e con gli altri
perché perfino le stelle, a volte, si scontrano fra loro dando
origine
a nuovi mondi.
Oggi so che QUESTO è LA VITA!

Con queste parole sullo sfondo, mi ritornano alla mente


tanti ragazzi incontrati lungo la mia strada e colgo in modo
sempre più forte come abbia veramente senso per loro scoprire
il lato umoristico delle cose, della vita. Ripenso a Fabio e, anco-
ra una volta, a tanti adolescenti e mi dico in maniera convinta
e decisa che non è poi così difficile e impossibile che ognuno
di loro, con o (anche) senza il nostro aiuto, possa arrivare a
dire e, soprattutto, a sentire profondamente dentro sé queste
parole: «Sono adolescente e ci trovo tanto da ridere ora…!».

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Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

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34
a pprofondimenti

Le grandi risate
dei piccoli
Crescere con umorismo

Antonella Arioli Troppo spesso tendiamo a sottovalutare l’effettiva


(Dottore di ricerca, Università Cattolica umanità dei bambini, comprese le loro capacità che
Piacenza) vengono considerate inesistenti e di là da venire. In
questo articolo, invece, viene evidenziato come il
rispetto per il bambino nasca propria da un’esat-
ta comprensione delle sue risorse ed esigenze. In
particolare, in riferimento al tema del ridere e
sorridere, l’autrice mette in evidenza gli aspetti
evolutivi dell’umorismo infantile, all’interno di una
visione fenomenologico-esistenziale, arrivando a
sottolinearne il valore e la possibilità di promuo-
vere l’umorismo, da parte degli educatori e verso i
soggetti in età evolutiva, fin dalla più tenera età.

1. Dall’«avvertire» al «sentire»: aspetti evolutivi dell’umorismo


infantile
I bambini hanno il senso dell’umorismo? Capiscono le battute che vengono
loro rivolte dagli adulti? Talvolta si ha l’impressione di no. Un gioco di parole,
un’espressione ironica — per quanto sembrino semplici o banali — possono
sortire l’effetto di spiazzare il piccolo interlocutore. Tuttavia, questo non signifi-
ca che i bambini manchino di senso dell’umorismo, come testimoniano «alcune
sagaci battute che, tenere o buffe, ci indirizzano quando meno ce l’aspettiamo»
(Franchini e Maiolo, 2011, p. 9). Piuttosto, occorre riconoscere che il loro

Edizioni Erickson – Trento Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014 (pp. xx-xx) 35
Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

a umorismo differisce sensibilmente da quello adulto poiché,


«come altri aspetti della personalità, il senso dell’umorismo ha
una propria maturazione ed evoluzione» (Gulotta, Forabosco e
Musu, 2001, p. 79). Le maschere di carnevale non fanno ridere
i bambini molto piccoli (anzi, spesso li terrorizzano), così come
alcuni scherzi possono risultare molto divertenti per gli adulti,
ma turbare profondamente un bambino. E, quando questo ac-
cade, non sempre si attribuisce la giusta importanza all’impatto
emotivo che quell’episodio può avere per lui né, tantomeno,
al fatto che egli (credendo veramente che una maschera sia un
viso spaventoso) senta altrettanto veramente l’emozione della
paura. La ragione per la quale il bambino crede per davvero
a ciò che vede è da ricondursi, in modo particolare, allo svi-
luppo cognitivo: nell’infanzia, infatti, le capacità percettive e
intellettive non consentono di comprendere
aspetti complessi del reale, di tener presenti
simultaneamente più situazioni, di andare
oltre l’apparenza, di considerare insomma
l’eventualità che una grottesca maschera di
gomma non sia il viso reale di una persona,
assumendo così in modo acritico e realistico
quanto colpisce la percezione.
L’umorismo infantile, dunque, differisce
da quello adulto in quanto gli stimoli che
fanno presa sul mondo dei piccoli, suscitando
grandi e autentiche risate, possono lasciare
indifferenti gli adolescenti e/o gli adulti.
Forse, come si può facilmente osservare stando con i bambini,
gli aspetti che più solleticano il loro divertimento hanno a che
fare con la comicità: vedere, ad esempio, qualcuno che cade
goffamente perché scivolato sulla classica buccia di banana. Per
quanto possa apparire scontato agli occhi di un adulto, quella
situazione cattura l’attenzione divertita dei bambini perché è
scevra da ambiguità e visibilmente espressa attraverso il canale
della corporeità. L’intelligenza senso-motoria, pre-operatoria e
delle operazioni concrete — riferendoci a J. Piaget e ai neo-pia-
getiani (Miller, 2002, pp. 33-109) — costituisce il prerequisito
necessario affinché sia possibile cogliere gli stimoli umoristici
vistosamente buffi e goffi, perché segnati dall’immediatezza,
dalla semplicità e dalla concretezza. In questa prospettiva l’umo-
rismo, chiamando in causa capacità cognitive più elaborate e
sottili, proprie di un pensiero simbolico, ipotetico e astratto, si

36
Antonella Arioli – Le grandi risate dei piccoli

porrebbe «a un livello secondo» (Gulotta, Forabosco e Musu,


2001, p. 126) rispetto alla comicità. Dal punto di vista evo- a
lutivo, allora, si profila il passaggio dal piano comico a quello
umoristico: da «un sistema di significazione essenzialmente
denotativo, letterale [...] a un sistema peculiarmente conno-
tativo, di significati ulteriori e interpretativi» (ibidem, p. 128).
Tuttavia, ciò non significa che gli aspetti comici passino (o che
debbano esaurirsi) man mano che la competenza umoristica
affiora. Tutt’altro, poiché la vena comica costituisce un aspetto
essenziale della più ampia dimensione umoristica, configu-
randosi come un elemento che, nel mentre si modifica, non
si estingue completamente mai. Se nel mondo dell’infanzia,
infatti, la comicità assume un ruolo rilevante, è innegabile che
anche negli adulti possano sussistere aspetti comici e buffi, che
suscitano ilarità. Allo stesso tempo nei bambini il senso del
comico — pur essendo predominante — non risulta esclusivo,
intrecciandosi via via con elementi umoristici che lasciano
trasparire un modo diverso di rapportarsi alla realtà.
Tali considerazioni richiamano una distinzione proposta
da Luigi Pirandello, secondo la quale mentre il comico è
«un avvertimento del contrario» (Pirandello, 1986, p. 135),
nell’umorismo si passa al «sentimento del contrario» (ibidem).
In questo passaggio (dall’avvertire al sentire) si compie un
processo fondamentale: quello della consapevolezza di sé, dei
propri pensieri, dei propri vissuti emotivi ed esistenziali. Non
si tratta semplicemente di cogliere qualcosa di incongruo, bensì
di riflettere su quanto si è colto, di comprendere il significato
che ha per se stessi quel contenuto. In altre parole, si tratta di
accogliere quanto ha colpito la propria percezione.
Emerge, allora, la natura processuale dell’umorismo, quale
competenza che matura in virtù della maturazione della per-
sonalità e grazie a un lavoro su di sé che consente di «andare
oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro»
(ibidem).

2. La dimensione esistenziale dell’umorismo


In rapporto ai propri significati e valori, il soggetto può
scorgere aspetti sorprendenti e divertenti del reale, perché
percepiti sostanzialmente incongrui rispetto agli schemi di
riferimento abituali. Tale percezione cambia con il passare del

37
Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

a tempo: con la formazione dell’identità, con l’accumularsi del


personale bagaglio esperienziale, con il progressivo «riempire i
granai dei frutti della vita» (Frankl, 1990, p. 40). Ecco perché,
come accennato, le situazioni che fanno ridere a un’età della vita
non paiono più divertenti in un’altra stagione dell’esistenza. Il
sistema valoriale della persona, infatti, si struttura e ri-struttura
senza posa, mutando lo sguardo sulle cose, sugli altri e su di sé.
Un processo, questo, profondamente connesso con la crescita
cognitiva e la formazione emotiva, ovvero con la capacità di
riflettere sulle proprie convinzioni e di comprendere i vissuti
emotivi. Si tratta, in altre parole, di una «disposizione alla
pensosità» (Mortari, 2003, p. 17) che deve essere coltivata a
partire fin dall’infanzia, poiché un autentico sorriso non nasce
dalla superficialità, ma dall’essere sintonizzati
sui contenuti della propria interiorità. Così,
il senso dell’umorismo — e un umorismo
di senso — affiora se posto in relazione alla
parte più profonda della persona: quella dove
sono depositati quei valori non negoziabili
che la guidano nell’esistenza. Allo stesso
modo, emerge l’insensatezza dell’umorismo
quando esso non rispecchia i valori autentici
e, dunque, quando non scaturisce da ciò che
l’individuo realmente è. In questo caso, lungi
dall’essere un veicolo per la crescita, l’umo-
rismo viene sterilmente strumentalizzato per
altri fini, cadendo nell’insignificanza. A questo proposito molto
hanno da insegnare i bambini, giacché è molto raro che essi
ridano con il consapevole intento, ad esempio, di compiacere
qualcuno. Essi ridono se qualcosa o qualcuno li diverte davve-
ro. L’uso non sincero dell’umorismo, esercitato per piaggeria,
non appartiene quindi al mondo dell’infanzia, dove il ridere
e il sorridere scaturiscono da un moto autentico dello spirito.
Così, nel tratteggiare la dimensione esistenziale dell’umo-
rismo, traspare come nello scoppio fragoroso di una risata o
nell’accenno di un sorriso avvenga non solo il «coinvolgimento
di sentimento e riflessione» (Gulotta, Forabosco e Musu, 2001,
p. 126), quanto di sentimento, riflessione e significato. In poche
parole: il grande dono dell’umorismo è quello di mettere in
gioco l’uomo — piccolo o grande che sia — nella totalità delle
sue dimensioni. Nessuna esclusa.

38
Antonella Arioli – Le grandi risate dei piccoli

3. Il valore dell’umorismo per la crescita


a
Dal punto di vista educativo, l’umorismo può costituire uno
strumento prezioso per promuovere, nella persona, lo sviluppo
di potenzialità inaspettate. L’atteggiamento umoristico, infatti,
ben-dispone all’incontro con l’altro e all’apertura verso nuove
esperienze, rendendo così possibile sperimentare originali
prospettive di crescita.
Si tratta di una vera e propria competenza esistenziale, poi-
ché incentiva a scoprire la «possibilità di cambiare la realtà»
(Frankl, 2005a, p. 269): vero motore della continua formazione
di sé. Pertanto l’umorismo da un lato richiede — e dall’altro
alimenta — un lavoro su di sé: sui propri vissuti emotivi, ideali e
convinzioni. E questo già a partire dall’infanzia, quando è bene
coltivare nei bambini la disposizione a prendere consapevolezza
di quanto pensano e sentono, a dare un nome ai propri stati
mentali ed emotivi, a interrogarsi sul significato di quanto li
circonda. La capacità di non lasciarsi scivolare addosso le cose,
infatti, non si improvvisa, ma si affina giorno dopo giorno,
imparando ad ascoltare quanto circonda, a osservare le cose e le
persone, a rallentare il proprio passo, a gustare le esperienze del
quotidiano. L’umorismo, in altri termini, permette a ciascuno
di conoscer-si meglio, comprendendo quali siano i valori ai
quali tiene veramente (e nei confronti dei quali le situazioni
dell’esistenza assumono un significato). Da ciò discende il
carattere soggettivo dell’umorismo che, al pari dei significati,
si configura come prospettico (ibidem, p. 79), essendo legato
all’unicità della persona e all’irripetibilità delle situazioni. In
questo sta «la magnifica diversità dei simili» (Claudel, 2002) e,
forse, è proprio per questo che non sempre è facile ridere delle
stesse cose. Ciò nonostante, quando questo accade si genera
istantaneamente una sintonia di fondo, si crea il contagio di
uno stato d’animo che, nella dimensione del con-essere, incen-
tiva la condivisione, lo scambio, il dialogo. Attraverso la risata
si possono scalfire, insomma, diffidenze e chiusure.
Nondimeno, il valore formativo dell’umorismo sta nel fat-
to che spalanca a nuovi significati, stimola a esplorare mondi
possibili, dando vita a un cruciale processo trasformativo. In
questo quadro, è nuovamente la dimensione esistenziale della
risata ad affiorare: quella che ha a che fare con l’apertura a
punti di vista inediti, con la scoperta di rinnovati compiti, con
l’intravedere tra le maglie dell’ovvio e dello scontato qualcosa

39
Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

a che possa coinvolgere e stupire. Ed emerge, altresì, come la


trovata umoristica che sovverte l’ordine precostituito delle
cose, che esce dagli schemi della consuetudine, abbia come
presupposto essenziale la cura non solo della vita cognitiva
ed emotiva, ma anche della vita spirituale. È possibile, allora,
vedere nell’umorismo sia una finestra sul mondo interiore del
soggetto (dei suoi sentimenti e dei suoi valori), sia una balaustra
dalla quale affacciarsi su mondi possibili.
Da ciò si evince come, in un contesto educativo, ridere
insieme non possa costituire un’attività fine a se stessa: non
finisce tutto lì, ma è a partire da lì che si possono innescare
processi di cambiamento nelle persone. Gli stimoli umoristici
vengono a costituire dei mediatori per stimolare a pensare, a
discutere e ad ampliare gli orizzonti di significato. Un humus
quanto mai fertile, insomma, per seminare i dinamismi della
ricerca di senso.

4. Si può imparare a essere umoristici?


L’umorismo — da quanto detto fin qui — non è qualcosa
che si ha o non si ha, quanto, piuttosto, un processo che si
matura in virtù della continua conoscenza di sé e dell’apertura
a nuovi significati. Due aspetti, questi, che a loro volta pre-
suppongono la volontà di coltivare uno sguardo lieve sul reale:
un vedere che sappia cogliere la realtà nei suoi aspetti meno
scontati, come riescono a fare proprio «gli occhi spalancati»
(Stein, 1998, p. 37) dei bambini.
L’umorismo, allora, si può educare, promuovendo la capacità
di guardare con occhi interessati e attenti ai particolari, desi-
derosi di cogliere la realtà in modo non frettoloso né distratto,
impegnati a filtrare le situazioni secondo angolature diverse
dalle consuete. Uno sguardo obliquo, quello emotivo, che sa
rilevare gli aspetti curiosi e insoliti, magari non convenzionali
e talvolta giudicati addirittura irriverenti. Uno sguardo che
fa leva sul coraggio di andare controcorrente: di osare nuove
interpretazioni, di solcare inedite forme di lettura del reale, di
percorrere sentieri sconosciuti. Non solo, poiché la competenza
umoristica richiede l’allenamento all’arte di ascoltare, poiché
quando ci si sforza di comprendere il punto di vista altrui
— resistendo alla tentazione di giungere frettolosamente alle
conclusioni — l’umorismo vien da sé (Sclavi, 2003).

40
Antonella Arioli – Le grandi risate dei piccoli

Ma coltivare l’umorismo significa, inoltre, incentivare la ca-


pacità di distanziarsi da sé: di vedersi dall’alto, ridimensionando a
le difficoltà, «smorzando con un sorriso le tentazioni dell’enfasi,
del sentimentalismo, della violenza» (Contini, 1988, p. 174),
per cogliere nelle diverse situazioni sfumature originali che la-
sciano trasparire soluzioni e vie inattese. Infatti, «non c’è nulla
come l’umorismo che consenta di cambiare atteggiamento nei
riguardi dei condizionamenti e delle datità umane» (Frankl,
2005a, p. 215). È la facoltà tipicamente umana di ridere che
permette, in un’ottica squisitamente esistenziale, di andare
oltre le condizioni biologiche, psicologiche e relazionali date,
«prendendo-posizione» nei loro confronti. In questa prospettiva
le potenzialità formative dell’umorismo stanno proprio nel
«solleticare», per così dire, la forza di reazione
dello spirito, la «capacità dello spirito nell’uomo
di separarsi, in ogni circostanza e a qualsiasi Dialogo
condizione, dallo psicofisico e di porsi a oppor- fruttuoso tra
tuna distanza da esso» (Frankl, 2005b, p. 40).
Così, si può imparare a essere umoristici se
psicologia e
si promuove e se si trasmette, fin dall’infan- discipline
zia, una «lievità» (Bertin, 1977) del vivere: la dfdd
possibilità di operare un allontanamento dalle dkfjdkf
preoccupazioni, dalla fatalità dei problemi e
dalla gravità delle mancanze per canalizzare
dfjkdfd
efficacemente le energie e la volontà sulle ri-
sorse, su quanto — ancora e nonostante tutto
— si possa fare. L’intendimento, attraverso la presa ironica del
reale, non è affatto quello di negare le difficoltà, quanto quello
di modificare gli atteggiamenti nei confronti delle sfide della
vita, ripristinando uno spirito innocente e un cuore ispirato
(Jankélévitch, 1987): ovvero, un modo-di-stare-al-mondo capace
di stupirsi ed entusiasmarsi (proprio di chi non crede di aver
già visto tutto) e di scardinare l’aridità della routine (proprio
di chi accoglie la sorpresa e l’imprevisto).
A questo proposito, un importante strumento educativo
ci viene offerto dalla prospettiva fenomenologica, e consiste
nell’esercizio dell’epoché: della messa in parentesi, almeno
momentanea, del già visto, del già sentito, del già pensato
che opacizza, spesso in modo subdolo e insidioso, lo sguardo
delle persone.
Così, per promuovere l’arte dell’umorismo non occorre
imparare delle tecniche (prefissate e formulate da altri), ma

41
Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

a coltivare fin dall’infanzia l’interiorità, per scorgere le proprie


e autentiche trovate di spirito. Solo così sarà possibile intessere,
di esperienza in esperienza, un atteggiamento genuinamente
divertito e divertente, fondato su quel sentimento del contrario
che, lungi dall’essere qualcosa che si improvvisa, gradualmente
si compone mediante l’affinamento della coscienza: ossia, della
capacità di intuire e rispondere alle esigenze di significato
nelle concrete situazioni dell’esistere. Ed è proprio questo
che alimenta, in un circolo virtuoso, la personale competenza
umoristica: specchio della propria originalità.

42
Antonella Arioli – Le grandi risate dei piccoli

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43
a pprofondimenti

«Sarà anche
“paradossale”…
ma funziona!»
L’intenzione paradossa in Frankl:
tra autodistanziamento e umorismo1

Domenico Bellantoni Il contributo intende evidenziare il ruolo delle


(Università Salesiana, Roma) strategie paradossali, tanto nella visione di Viktor
E. Frankl, che è stato tra i primi a teorizzarle e
utilizzarle, quanto nel più ampio panorama della
psicoterapia. In tal senso, a partire dalla concreta
pratica clinica, si è voluto offrire una serie di spunti
teorico-pratici sull’applicabilità di tale approccio, in
modo da individuare alcune attenzioni, modalità e
scopi nell’esercizio clinico del «paradosso».

Solo il paradosso è capace di abbracciare,


anche se soltanto approssimativamente, la pienezza della vita.
(Jung, 1995, p. 20)

1
Il contributo propone una rielaborazione di un nostro intervento tenuto al Convegno Annuale «Dal
“morir dal ridere” al “ridere per non morire”. L’umorismo come risorsa per l’esistenza», svoltosi a
Roma, il 4 maggio scorso, presso l’Università Pontificia Salesiana e promosso dall’IGLU/Il Gruppo
Logo-Umoristi dell’Associazione di Logoterapia e Analisi Esistenziale Frankliana.

Edizioni Erickson – Trento Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014 (pp. xx-xx) 45
Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

a 1. Dall’umorismo al paradosso
In passato, abbiamo già avuto modo di approcciare il tema
dell’umorismo in Frankl evidenziandolo come una risorsa
specificamente umana, capace di attivare potenzialità resilienti
e di fronteggiamento anche verso situazioni particolarmente
dolorose e drammatiche (Bellantoni, 2010).
In quell’occasione avevamo evidenziato come l’umorismo
fosse espressione diretta della capacità umana di autodistan-
ziamento, risorsa che è anche alla base della tecnica analitico-
esistenziale dell’intenzione paradossa.
In questa sede, intendiamo appunto occuparci dell’uso degli
interventi paradossali in ambito clinico e di promozione del
benessere esistenziale.

1.1. Il paradosso nel panorama della psicologia moderna


Considerando le strategie e le tecniche paradossali nell’am-
bito della psicologia, facciamo riferimento al contesto moderno
di tale disciplina, che si considera inaugurato da Sigmund
Freud (1856-1939). Infatti, non si escludono assolutamente
tutti gli utilizzi che del paradosso sono stati fatti dalle origini
dell’umanità alla nascita della psicoanalisi, semplicemente non
ce ne occuperemo in questa sede.
Inoltre, sottolineiamo, fin da ora, che Frankl non è stato
certo l’unico che, in ambito psicologico, ha colto la valenza
terapeutica del paradosso e delle strategie paradossali. Basti
pensare, ad esempio, a Milton Erickson, che ne fu un cultore
e un utilizzatore convinto, come evidenziato da Dominique
Megglé (1998), già Presidente della Federazione Francofona
d’Ipnosi e Terapie Brevi:
Erikson aveva capito, in altri termini, che il letto di Procuste2
della logica [...] è troppo limitato per contenere la complessità
insondabile dell’essere umano, per cui è sicuramente più funzio-
nale lavorare sulla parte inconscia del paziente, piuttosto che sulla
parte conscia, sollecitandone associazioni, analogie in un groviglio
simbolico che vince i cosiddetti processi razionali, incoraggiando

2
«Nella mitologia greca classica, il brigante Procuste, significativamente “lo stirato-
re”, aggrediva i viandanti e li costringeva in una sorta di letto scavato nella roccia,
stirandoli con l’incudine se troppo corti o amputandoli quando sporgevano dal
letto: ovviamente le vittime alla fine morivano tra atroci torture» (Megglé, 1998,
p. 122; cfr. anche Bellantoni, 2011, p. 194).

46
Domenico Bellantoni – «Sarà anche “paradossale”… ma funziona!»

attraverso un procedimento paradossale le resistenze, per promuo-


vere il cambiamento [...].
Erickson quindi non insegna alcuna teoria al paziente ma entra
a
nel mondo del malato e mira a comunicare direttamente alla sua
mente inconscia secondo il suo linguaggio.
Erickson riprende antiche procedure di guarigione come l’uso
delle metafore: «Esse aiutano a indurre uno stato ipnotico e a
curare il malato. Se, sentendo una storia, il paziente manifesta
improvvisamente i segni di una trance, significa che il terapeuta ha
raggiunto il cuore del problema. La storia, per essere ipnotica, deve
avere rapporti metaforici con il problema in questione, ma soprat-
tutto non deve avere con quello un rapporto razionale evidente,
altrimenti la mente conscia se ne approprierebbe per dissertare. Le
metafore consentono di aggirare le resistenze che il paziente oppone
al cambiamento: sono un modo indiretto di suggerire delle piste di
soluzione all’inconscio».
Anche l’uso di prescrizioni paradossali, di compiti a casa, di
rituali, di corvée… ricorda l’agire di un maestro Zen, di uno scia-
mano oppure di un guaritore. Questi compiti impartiti al cliente,
da una parte impegnano la mente conscia dall’altra evocano un
cambiamento e sono carichi si significati simbolici. (Megglé, 1998,
pp. 122, 125-126)

Dal contesto si comprende il diverso significato che tale cita-


zione assegna al termine «resistenze»: nel primo caso si tratta di
attivare le resistenze del paziente, intese come risorse resilienti
circa il problema; mentre, nel secondo, lo stesso termine, che
rimanda a Erickson stesso, chiama in causa piuttosto i mecca-
nismi che, in senso freudiano, si oppongono al cambiamento
in funzione difensiva.
Un’altra gustosa citazione, riguardo questa volta alla vita
stessa di Milton Erickson, viene offerta da un altro grande cul-
tore della strategia paradossale, utilizzata per lo più nell’ambito
della terapia della famiglia: Jay Haley.
All’età di diciassette anni, nel giugno 1919, dopo aver conseguito
il diploma liceale, [...] fu colpito da una grave forma di poliomielite,
che secondo i medici lo avrebbe portato a morte sicura. Testual-
mente, racconta Erickson, «sentii tre medici, nell’altra stanza dire a
mia madre “Il ragazzo morirà prima di domani mattina”». Milton,
furibondo, considerato che si viveva come un ragazzo normale, dopo
essere rimasto in coma tre giorni, si svegliò e dal quel momento
iniziò la sua avventura verso la guarigione. (Haley, 1976, p. 39)

In pratica, è come se il giovane Milton, ferito nell’orgoglio,


avesse pensato, all’indirizzo dei tre specialisti: «adesso vi faccio
vedere io se campo o no!». A chi di noi non è capitato, in si-
tuazioni anche molto più quotidiane e non così drammatiche,

47
Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

a di vivere simili situazioni di sfida? In realtà, spesso, la strategia


strategico-familiare, inaugurata dalla Scuola di Palo Alto e in-
trodotta in Italia dalla Mara Selvini Palazzoli, ricorreva spesso
proprio a tali sfide paradossali, in cui si «attaccava» il paziente o
il sistema familiare in modo da innescare una reazione, appunto
«paradossale», aggirando le difese patologiche dell’individuo
o della famiglia, in genere ricorrendo a ciò che viene definita
come «prescrizione del sintomo» (Selvini Palazzoli et al., 1975).
Tale tecnica,
è l’intervento basilare di tutti i trattamenti fondati sull’uso terapeu-
tico dei paradossi. Diversamente da quanto avviene in una classica
terapia comportamentista, qui il cliente, invece di essere «punito» se
mantiene il comportamento sintomatico e «premiato» se l’abbando-
na, è invitato a non cambiare. Quindi la prescrizione del sintomo,
invece di spezzare il legame tra comportamento e rinforzo, mina
alla base le motivazioni profonde del comportamento sintomatico:
come ribellarsi, infatti, contro qualcuno che ci ordina di ribellarci
senza incorrere in un paradosso? (Malaspina, 2002, p. 165)

In pratica si tratta di prescrivere, appunto, al paziente pro-


prio ciò che per lui sembrerebbe rappresentare il problema o
comunque ricorrere a interventi di tipo paradossale, del tipo:
«Non c’è nulla da fare: lei non guarirà mai!»; oppure, nel caso
di un disturbo dell’erezione, rivolgendosi alla coppia: «E, mi
raccomando, non pensate neppure, in questa fase, di avere
nessun tipo di rapporto sessuale!». Spesso i pazienti reagivano
anche con rabbia e incredulità a tali raccomandazioni, eppure
tali reazioni spesso finivano con innescare dinamiche che an-
davano a generare proprio ciò che le prescrizioni sembravano
voler intenzionalmente evitare: la guarigione, nel primo caso,
e l’impotenza sessuale, nel secondo (Bellantoni, 2008).
Se una persona vuole influenzare il comportamento di un’altra
persona, ci sono fondamentalmente solo due modi per farlo. Il
primo consiste nel cercare di far sì che l’altro si comporti in modo
diverso. Tale approccio [...] non funziona con i sintomi, perché il
paziente non ha alcun controllo intenzionale su questo comporta-
mento. L’altro approccio consiste nel fare in modo che lui continui
a comportarsi come già fa. (Watzlawick et al., 1967, p. 237)3

In pratica, si andava a de-strutturare il controllo razionale


del soggetto e ad aggirare il suo sistema di meccanismi di
difesa, sconvolgendo gli schemi abituali di risposta e creando

3
La traduzione dall’originale inglese è nostra.

48
Domenico Bellantoni – «Sarà anche “paradossale”… ma funziona!»

l’opportunità per un superamento fondato sull’apertura a


nuove modalità di risposta, che sono inoltre sostenute anche a
dalla rabbia generata dal confronto con il terapeuta, creato
strategicamente proprio da quest’ultimo.

1.2. Viktor Frankl: autodistanziamento e intenzione


paradossa
Abbiamo detto che Viktor Frankl non è stato certo l’unico
a ricorrere all’uso del paradosso in psicoterapia; d’altra parte,
lo psichiatra viennese è stato il primo a introdurre tale strategia
in ambito clinico, come testimonia un testimone attendibile
qual è proprio quel Watzlawick, che è tra i massimi esponenti
della Scuola di Palo Alto.
Già alcuni decenni fa [1929/1939, NdR] Viktor Frankl, con
il concetto dell’intenzione paradossale, ha descritto la tecnica in
molti punti della sua opera [Teoria e terapia della nevrosi, NdR].
(Watzlawick, 1980, p. 98)

In un nostro precedente contributo, già citato in apertura,


abbiamo avuto modo di descrivere ampiamente e nel dettaglio
tanto l’intenzione paradossa (= IP), che è il nome specifico che
Frankl ha assegnato alla tecnica terapeutica da lui escogitata e
introdotta (Frankl, 1975).
Pertanto, se per un approfondimento teorico rimandiamo
quindi a quanto già da noi proposto in precedenza, in questa
sede vogliamo dedicarci più che altro ad alcune esemplificazioni
circa l’applicazione nell’ambito del contesto psicoterapeutico
di tale strategia d’intervento.4
È già stato evidenziato come, sebbene in apparenza l’IP
possa apparire come un intervento limitato al sintomo, tale
tecnica si differenzi notevolmente dalle tecniche di tipo com-
portamentista. Infatti, in questo caso, Frankl mostra proprio
di essere interessato a cosa accade nella black box, nella «sca-
tola nera» rappresentata dalla mente umana, proprio ciò a
cui i behavioristi classico-ortodossi sostenevano di non essere
interessati (Cigoli, 2006, p. 22).
Ogni analista esistenziale, pertanto, in continuità con il
pensiero frankliano, è consapevole che, lungi dal limitarsi a
4
Per ulteriori approfondimenti sull’intenzione paradossa rimandiamo anche a Frankl
(2001, pp. 164-178; 2003); Bellantoni (2011, pp. 150-154); Bulka (2003);
Fizzotti (2002, p. 192) e Gismondi (1990).

49
Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

a una terapia sintomatica, il ricorso all’intezione paradossa ha


lo scopo di attivare la capacità di autodistanziamento della
persona e la sua disposizione all’umorismo e all’autoironia che
rappresentano, accanto alla promozione dell’autotrascendenza,
l’obiettivo proprio dell’approccio frankliano: favorire, da un
lato, la libertà dai modelli introiettati nel passato e, dall’altro,
l’orientamento a un senso, a uno scopo esistenzialmente rile-
vante: un valore, un compito, una persona da amare (Frankl,
2005b, p. 57).
In tal senso, l’IP richiede e sostiene tutta una serie di ulteriori
competenze e risorse:
– La creazione di una salda alleanza terapeutica e una profonda
conoscenza del paziente: per Frankl, infatti, la prima tecnica
resta la «relazione terapeutica» che precede — non solo tem-
poralmente ma anche sostanzialmente — e avvolge qualsiasi
altra strategia e tecnica.
– Il pensiero creativo: in continuità con quanto appena affer-
mato, non è possibile applicare pedissequamente l’IP, come
qualcosa che esuli da quella relazione terapeutica, unica e
irripetibile, che si crea tra quel terapeuta e quel paziente; ciò
necessita nell’analista esistenziale la capacità di ricorrere al
paradosso, avendo chiara la teoria, ma «nventando» la prassi,
nuova e non ripetibile di volta in volta.
– Spostamento dalla sintomatologia ai problemi reali/sottesi:
come detto, sebbene l’apparenza lasci intendere di un’atten-
zione al sintomo, in realtà, aggirando le difese del paziente,
l’IP si rivolge al problema centrale, attraverso dinamismi
di ribaltamento gestaltico figura/sfondo e inducendo la
promozione delle capacità di autodistanziamento e autotra-
scendenza.
– Ristrutturazione dei significati: a conferma di quanto evi-
denziato al punto precedente, l’IP si prefigge di favorire
una messa in discussione degli schemi cognitivo-emotivi del
paziente (significati), innescando destrutturazioni funzionali
e squilibri in circoli disfunzionali verso lo stabilirsi di nuove
modalità di risposta, più adattive e adulte.
Nel prossimo punto provvederemo a offrire alcuni spunti di
riflessione a partire da esempi pratici e dalla breve descrizione
di un caso clinico.

50
Domenico Bellantoni – «Sarà anche “paradossale”… ma funziona!»

2. Il paradosso in azione
a
Come abbiamo evidenziato in precedenza, l’utilizzo delle
strategie paradossali richiede, come e più di ogni altra tecnica,
che il setting relazionale in terapia sia caratterizzato da un posi-
tivo clima umano, da una forte alleanza terapeutica e da quella
che Carkhuff definisce un’adeguata base interscambiabile, cioè
una fase in cui la comprensione dei significati proposti dal
cliente sia adeguata, tanto da poter dire che l’helper è «entrato»
in maniera funzionale nel quadro di riferimento dell’helpee
(Carkhuff, 1990, p. 116).
In tal senso, i brevi stralci che proporremo in seguito
potranno apparire assurdi, in qualche caso irritanti, se non
si cerca di tener presente che vanno collocati all’interno di
«quella» relazione terapeutica e di «quel particolare» momento,
di «quella particolare» seduta: non esistono tecniche che pos-
sano essere applicate in maniera avulsa dal setting terapeutico
e senza considerare l’insostituibile mediazione del terapeuta
(Frankl, 2009, p. 18).

2.1. Brevi esempi di utilizzo dell’umorismo e del para-


dosso in ambito clinico
Nonostante le indicazioni di apertura che precedono questo
capitoletto, vogliamo correre il rischio di presentare alcuni in-
terventi «paradossali», evidenziandone alcune caratteristiche ed
effetti, senza tuttavia, come detto, avere la pretesa di proporre
modalità che possano essere tout court esportate in una qualsiasi
seduta di psicoterapia.
Riportiamo, ad esempio, il caso di una signora di 56 anni,
madre di due figli di 28 e 32. Il secondo è morto in un inci-
dente in moto da circa sei mesi e la cliente si presenta a noi
mostrando di essere in una fase proattiva di elaborazione del
lutto e di non avere richieste particolari per se stessa, dicendosi
piuttosto preoccupata per suo figlio.
Emerge, tuttavia e all’interno di una esperienza di fede assai
significativa, un forte sentimento di rabbia nei confronti di
Dio: «Sono arrabbiata con Dio: gli avevo detto di prendersi
tutto ma di non toccare i miei figli». In effetti, la dimensione
religiosa può essere un’importante risorsa a sostegno di una po-
sitiva elaborazione del lutto e, in quel momento, non facemmo

51
Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

a altro che tener presente questa esternazione della signora (si


vedaCencini, 2003, p. 204).
Il colloquio procedette e fu possibile rassicurare la signora, in
base agli elementi da lei portati, e invitarla, nel caso, a proporre
al figlio superstite un eventuale colloquio conoscitivo, senza
insistere più di tanto laddove il figlio non mostrasse particolare
bisogno di questa risorsa.
A un certo punto, verso la fine del colloquio, riprendemmo
il tema della rabbia verso Dio, ritenendo utile esplorare quel
tipo di stato d’animo, e scegliemmo di farlo con un interven-
to tra il paradosso e la domanda ingenua socratica, modalità
entrambe tipiche del repertorio di un analista esistenziale
(Bellantoni, 2011, pp. 166-167).
Terapeuta: «Signora, riguardo a quella richiesta che aveva fatto a
Dio… Dio, poi, le aveva risposto?».
Paziente: «Dottore, mi rendo conto ora che non avevo fatto un
patto con Dio, ma con me stessa!».

Come spesso accade, l’intervento paradossale crea uno scarto


e permette alla persona di superare uno stallo, a partire da uno
stimolo, per certi versi assurdo, quale può essere quello di una
domanda retorica e, in qualche modo, inaspettata, che tende a
creare nell’altro uno stato di de-strutturazione e l’opportunità
di una ri-strutturazione, secondo una dinamica tipicamente
gestaltica figura-sfondo (ibidem, p. 149).
Un’altra situazione incontrata di recente riguarda il collo-
quio avuto con una donna, che stava affrontando, con grande
coraggio e dignità, la fase terminale della sua vita, a causa di
una malattia oncologica in fase avanzata.
Avemmo questo colloquio a casa della donna, che non
poteva muoversi, su richiesta della figlia. Riportiamo di quello
scambio, che ricordiamo con grande commozione e, insieme,
gratitudine per ciò che quella donna è stata capace di testi-
moniarci.
Paziente: «Non posso permettermi di piangere… Piangere è una
debolezza e io sono una donna forte».
Terapeuta: (sorridendo) «Beh, se piangendo lei teme che gli altri la
giudicheranno debole, non è poi così forte. Una donna
forte piangerebbe se ne avvertisse il bisogno, senza
preoccuparsi di quello che possono pensare gli altri».
Paziente: «Allora… Posso piangere anche se sono forte?».

Ancora oggi ricordiamo con piacere lo sguardo, quasi


riconoscente e un po’ infantile, con cui la donna pronunciò

52
Domenico Bellantoni – «Sarà anche “paradossale”… ma funziona!»

quest’ultima fase. Quella donna era stata educata in maniera


rigida, aveva vissuto la guerra e aveva sempre dovuto crescere a
in fretta e cavarsela da sola. Da queste esperienze, probabil-
mente, aveva desunto la convinzione che non ci fosse tempo
per piangere e che, tra l’altro, non servisse a nulla. Eppure,
in quel momento drammatico della sua vita, ne avvertiva un
gran bisogno, avendone nel contempo una gran paura, paura
di «cadere», di «sbagliare», di «essere debole». Pensammo di
ispirarci alla filosofia del prescrivere ciò di cui il paziente ha
paura, anche se qui ci sarebbero da fare tanti distinguo, occu-
pandoci di «liberare» le emozioni presenti in quella donna, sì
coraggiosa ma in difficoltà quando si trattava di darsi permessi.
Un’ulteriore situazione che riteniamo significativa circa il
nostro tema riguarda una paziente, caratterizzata da una per-
sonalità decisamente dipendente, che la portava a soffocarsi di
sgradevoli impegni e responsabilità gravose a causa della sua
incapacità a dire di «no». Anche in questo caso, riportiamo un
brevissimo stralcio del colloquio terapeutico.
Paziente: «Non so dire di no… Non ci riesco proprio».
Terapeuta: (verso la fine di quella seduta) A un certo punto cominciai
a fare delle richieste alla signora riguardo a un aiuto che
chiedevo per la pulizia del studio, rendendo la richiesta
sempre più insistente e sproporzionata, fino a quando
la cliente sbottò in un…
Paziente: «No, dottore, mi spiace… Non posso proprio!».

A quel punto commentammo l’accaduto e le feci notare


che era sì in grado di dire «no» e si trattava di comprendere
cosa fosse avvenuto con me e cosa, a un certo punto, le avesse
permesso, a livello di pensieri ed emozioni, di opporsi con la
giusta forza a una richiesta ingiusta.
Infine, un ultimo scambio, simpatico e significativo, lo
prendiamo dal film Will Hunting (Genio ribelle), girato nel
1997 dal regista Van Sant, con Robin Williams, nella parte
di uno psicologo (Sean), e Matt Damon (Will). Will a causa
di un’infanzia difficile e di un padre violento e cresciuto, pur
brillantissimo e geniale, con un’estrema sfiducia nelle relazioni
e soprattutto quando si tratta di stare con una ragazza, idealizza
a tal punto la partner ideale da finire difensivamente con il
«fuggire» da tutti i potenziali rappporti di coppia: della serie,
lascio prima di essere lasciato!
Presentiamo lo stralcio del colloquio psicologico che Will
ha con Sean, a proposito di questo tema:

53
Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

a Will: «Sono uscito con una giorni fa».


Sean: «Com’è andata?».
Will: «Molto bene!».
Sean: «E la rivedrai?».
Will: «Non lo so…».
Sean: «E perché?».
Will: «Non l’ho chiamata».
Sean: «Cristo. Tu sei un dilettante (sorridendo)».
Will: «So quello che faccio».
Sean: «Ah, sì?».
Will: «Sì. Non si preoccupi per me. So quello che faccio. Si, ma…
Questa ragazza è bellissima, intelligente, divertente. È diversa
dalle altre con cui sono stato».
Sean: «E allora chiamala, Romeo (ironico)».
Will: «Così mi rendo conto che non è poi tanto intelligente, che mi
rompe i coglioni. Si, insomma, ecco… Questa ragazza, cazzo,
è perfetta ora. Non voglio rovinare questo».
Sean: «Forse tu sei perfetto, ora. Forse è questo che tu non vuoi
rovinare. Questa la chiamerei una “super filosofia”, Will: così
puoi passare tutta la vita senza dover mai conoscere veramen-
te qualcuno… Mia moglie scoreggiava quando era nervosa.
Aveva una serie di meravigliose debolezze. Aveva l’abitudine
di scoreggiare nel sonno (adesso, ridono entrambi). Scusa se ti
racconto questa cosa. Una volta fu talmente forte che svegliò
il cane… Si svegliò e lei: “Sei stato tu?”. “Sì”, non ho avuto il
coraggio».
Will: «Si è svegliata da sola (ridono forte entrambi)?».
Sean: «Sì… (facendosi riflessivo).Will, è morta da due anni e questo
è quanto mi ricordo. Momenti stupendi, sai, piccole cose così.
Però (sospirando), sono queste le cose che più mi mancano.
Le piccole debolezze che conoscevo solo io. Questo la rendeva
mia moglie. Anche lei ne sapeva di belle sul mio conto, cono-
sceva tutti i miei peccatucci. Queste cose la gente le chiama
“imperfezioni”, ma non lo sono; sono la parte essenziale. Poi
dobbiamo scegliere chi fare entrare nel nostro piccolo strano
mondo. Tu non sei perfetto, campione! E ti tolgo dall’incer-
tezza: la ragazza che hai conosciuto non è perfetta neanche
lei. Ma la domanda è se siete perfetti l’uno per l’altra. È questo
che conta, è questo che significa intimità. Puoi sapere tutte
le cose del mondo, ma l’unico modo per scoprire questa qui
è darle una possibilità».

Anche in questo caso, possiamo notare come, a fronte del


timore che Will mostra per il rifiuto causato dall’imperfezione
propria o dell’altro, Sean «prescrive» invece proprio la debolezza
quale collante per una vera intimità, capace di nutrire l’amore
(Frankl, 2005a, p. 99).

54
Domenico Bellantoni – «Sarà anche “paradossale”… ma funziona!»

2.2. Quando la prescrizione è paradossale: il caso Ilaria


Come ultimo spunto e senza avere la pretesa di presentare
a
un caso clinico nella sua interezza — non ci sarebbe qui né
lo spazio né rientrerebbe nella natura di questo contributo —
evidenziamo qui come sia possibile collocare un intervento
paradossale all’interno di un più ampio piano terapeutico.
Ilaria, 40 anni, si presenta a noi per un caso assai complesso
caratterizzato da un disturbo alimentare di tipo anoressico,
unito ad alcune manifestazioni di tipo psicotico.
Ilaria cresce troppo in fretta e nella sua storia di vita, in
realtà, non la si riconosce mai come bambina. A partire dai
tre anni, infatti, è già impegnata a fare da «mammina» alle
sue sorelle e, terminata la scuola elementare, nei servizi in
casa e dalla necessità di apprendere, fin da subito, l’arte di
cucire scarpe. La licenza media, anche se le sarebbe piaciuto
studiare, la prende in qualche modo: ormai, è inserita a tempo
pieno nell’artigianato delle scarpe, chiamata com’è ad aiutare
economicamente la sua famiglia.
La vita di Ilaria si struttura progressivamente intorno all’esi-
genza di adattarsi agli altri significativi, dapprima essendo una
brava bambina e quindi una figlia amorevole e una buona
moglie, ciò che per lei significherà mettere sempre al centro le
esigenze degli altri, piuttosto che le proprie, e assumendo un
atteggiamento fondamentalmente compiacente.
In questo modo, comunque, Ilaria trascorre i suoi primi
circa trent’anni di vita, che la vedono fidanzarsi precocemente
con Giacomo, di qualche anno più grande di lei, che sarebbe
diventato il suo primo uomo e, quindi, suo marito.
L’evento scatenante si verifica, appunto, intorno ai trent’an-
ni.5 Accade che, nonostante Ilaria e Giacomo siano sposati da
ormai sei anni, il figlio non ne voglia sapere di arrivare. Ciò
porta la giovane sposa ad avvertire il disagio di non riuscire a
corrispondere a quelle che avverte come le aspettative del ma-
rito, di diventare padre, e dei suoi genitori, di poter stringere
un nipotino, per non parlare delle varie zie, zii e cuginetti.
Ilaria e Giacomo si rivolgono a un ginecologo che, fatte le
sue valutazioni e senza tener in alcun conto la fede e la pra-
tica religiosa della donna, propone alla coppia una iniezione

5
Riguardo allo schema in base al quale si sviluppano le condotte umane, comprese
quelle patologiche, rimandiamo a Bellantoni (2011, pp. 88-107).

55
Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

a intracitoplasmatica dello spermatozoo (ICSI – Intracytoplasmatic


Sperm Injection). La procedura produrrà quattro embrioni che
purtroppo non attecchiranno.
Solo a quel punto, stressata tanto dal procedimento della
ICSI quanto dal fallimento dello stesso, Ilaria realizza di aver
«abortito» quattro embrioni, di essere responsabile di tale esito e
di aver fatto qualcosa di imperdonabile (continuerà a chiamare
i quattro embrioni «i miei angioletti»).
Inoltre, al risveglio dalla terribile esperienza, collocata in
un letto d’ospedale, Ilaria si ritrova sola e avverte un senso di
profondo risentimento nei confronti del marito e, in qualche
modo, anche dei genitori. In realtà, come si vedrà nel corso
della terapia, tale risentimento non è altro che la rabbia ac-
cumulata dalla dinamica di compiacimento che Ilaria aveva
portata avanti da sempre, più o meno inconsapevolmente.
Tale evento e il significato assegnato ad
esso sprofondano Ilaria nel baratro della ma-
lattia e sull’orlo della follia. Infatti, è da questo
momento che insorgerà, in maniera sottile e
subdola, il disturbo anoressico, che si innesca
su di una personalità dipendente.
Il forte senso di colpa viene progressi-
vamente proiettato al di fuori di sé, fino a
produrre un delirio psicotico, in cui una
donna vestita di nero la opprimerebbe, la
soffocherebbe — dice, infatti, di trovarsela
spesso distesa nel letto o addirittura su di lei,
durante la notte; la vede negli angoli della
casa e dietro le porte —, fino a indurla e a consigliarle di
togliersi la vita. In effetti, un paio di volte, Ilaria si ritroverà
con la lametta ai polsi, riuscendo però a mantenere sempre
quel minimo contatto con la realtà sufficiente a trattenerla dal
commettere tale gesto.
Da allora è stato tutto un susseguirsi di farmaci e psicofar-
maci — dal lassativo, di cui Ilaria diviene dipendente all’interno
della sintomatologia anoressica, ad ansiolitici, anti-depressivi e
neurolettici, somministrati dai vari specialisti che hanno cercato
di contenere e limitare i danni lungo il tormentato percorso
patologico, fino ai medicinali volti a limitare l’osteoporosi pre-
coce conseguenza dell’inadeguata dieta da disturbo alimentare
—, di ricoveri presso ospedali e comunità specializzate, di visite
e consulti medici, ecc.

56
Domenico Bellantoni – «Sarà anche “paradossale”… ma funziona!»

A più riprese, abbiamo avuto modo di frequentare Ilaria


per la psicoterapia che possiamo dividere in tre fasi distinte: a
– In una prima fase, quella della non-compliance, Ilaria si ri-
volge a noi solo per mettere a tacere le preoccupazioni del
marito e di altri significativi (in primis, il suo parroco). Non
è assolutamente collaborativa e non ha intenzione di mettere
fine all’uso di lassativo, fino a diventarne dipendente. Si
susseguono deliri e allucinazioni ed è forte anche il rischio
di condotte suicidarie. Per tale motivo, in questo periodo,
il nostro obiettivo terapeutico è motivare all’accettazione
della malattia e, conseguentemente, della cura, avendo come
finalità quella di un possibile ricovero che, in questa situazio-
ne, difenda Ilaria da se stessa (alimetazione, dipendenza dal
lassativo, rispetto della terapia farmacologica, contenimento
di eventuali condotte autolesive).
– In una seconda fase, una volta iniziato il periodo del ricovero,
la terapia può essere dedicata, messo il soggetto in sicurezza,
all’analisi esistenziale e alla comprensione della crisi sinto-
matica, verso un progressivo ristabilimento di un adeguato
progetto di vita significativo da un punto di vista personale
e di coppia.
– La terza fase della terapia rappresenta quella che, anche rac-
cogliendo i frutti delle fasi precedenti e i contributi a opera
di altri specialisti che si sono avvicendati accanto a Ilaria,
permette di apparire finalmente risolutiva della problematica
mostrata da Ilaria.
Quest’ultimo periodo, che dura circa un anno e mezz,o si
concentra sull’elaborazione e risoluzione di tre nuclei tematici:
a) la rinuncia a un ruolo sussidiario e la cura di sé; b) l’elabo-
razione di un «lutto» dalla figura materna; c) il superamento
del senso di colpa e il riequilibrio della relazione con il marito.
Riguardo al primo tema, Ilaria fu aiutata a prendere con-
sapevolezza di una sua posizione etero-centrata, non matura
e disfunzionale, che la portava a negare le proprie esigenze in
funzione di un drastico adattamento agli altri. Tale dinamica
l’aveva portata a un punto di rottura e ora si trattava, evitando
l’opposto rischio di una posizione eccessivamente egocentrica,
su cui pure ella andò a posizionarsi per un certo periodo, di
raggiungere un sano equilibrio tra il prendersi cura di sé, per
prendersi cura degli altri. Uno degli effetti più significativi di
quest’ambito sarà la cura che Ilaria porrà nella sua alimenta-

57
Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

a zione, di cui si occuperà personalmente, nel gusto delle cose


e nella riappropriazione del proprio corpo, dedicandosi in
maniera libera e serena a una funzionale e curativa attività
fisica in palestra.
Circa il secondo aspetto, fu dato modo a Ilaria di rilegge-
re la sua storia personale, ricontattando la bambina che era
stata e a cui, probabilmente in assoluta buona fede, era stata
negata la possibilità di vivere l’infanzia: Ilaria aveva cercato
di conquistare l’approvazione di sua mamma, rinunciando a
essere figlia e collocandosi, all’interno di una relazione inversa,
in una posizione genitoriale, in cui era lei a
prendersi cura, fin dalla più tenera età, delle
esigenze non solo delle sorelline, ma anche
di tutta la famiglia nel suo insieme, finendo
con il diventare un punto di riferimento irri-
nunciabile. In questa fase, la madre di Ilaria
è malata, il diabete la porta a non potersi più
prendere cura della figlia che, anzi, ancora una
volta è chiamata a fare da madre alla mamma.
Eppure, non senza passare attraverso le fasi
della rabbia e del rifiuto, Ilaria diviene capace
di darsi il giusto, condividendo le responsabi-
lità con gli altri familiari e non caricandosene
esclusivamente. A culmine di questo secondo ambito, Ilaria,
assieme a Giacomo, sarà capace di elaborare anche il «lutto»
della maternità naturale, disponendosi a percorsi di affido e
non chiudendo la porta alla possibilità di una futura adozione.
In riferimento, infine, al rapporto con il marito, c’è da
sottolineare un significativo punto di svolta all’interno del
percorso terapeutico compiuto da Ilaria, aspetto che riguarda
direttamente il tema del presente articolo. A questo riguardo,
nonostante Ilaria mostrasse una progressiva crescita nella cura
di sé e, in contemporanea, in una più giusta e sana attenzione
verso gli altri, ella continuava a mostrare grande rabbia nei
confronti del marito, reo, in occasione della ICSI, di esserle
stato fisicamente ed emotivamente accanto e ora di non com-
prenderla e, in qualche modo, di non fare mai, a sua detta, la
cosa giusta. Il marito, dal canto suo, sembrava invece mostrare
grande comprensione e dedizione nei confronti della moglie,
uniti al rispetto per le sue esigenze di crescita. La percezione di
Ilaria appariva tanto ingiustificata da farcela ipotizzare come
sintomatica. Più volte, in tal senso, avevamo cercato di aiutare la

58
Domenico Bellantoni – «Sarà anche “paradossale”… ma funziona!»

coppia a migliorare la propria comunicazione e, soprattutto, di


motivare Ilaria a essere chiara e diretta nelle richieste al marito, a
lasciando a questi la responsabilità di risponderle affermativa-
mente o negativamente. Niente da fare: Ilaria continuava, più
o meno consapevolmente, a prendersela con il marito qualsiasi
cosa facesse e a invocare, inadeguatamente, che il marito fosse
capace di una «lettura di mente» («se mi amasse capirebbe»)
che finiva con il lasciarla sempre più delusa e arrabbiata.
A questo punto, in una seduta in cui Ilaria arrivò una volta
di più a lamentarsi del marito, decidemmo di ricorrere a una
strategia paradossale. Pertanto, rivolgendoci a lei, le dicemmo:
«Ilaria, da quando ti conosco, hai sempre evidenziato tale in-
soddisfazione. Abbiamo cercato di prendercene cura, ma la cosa
non ha mai sortito l’effetto sperato. Credo che
a questo punto tu debba prendere seriamente
in considerazione una soluzione radicale: devi Dialogo
lasciare tuo marito!». In qualche modo, aveva- fruttuoso tra
mo prescritto proprio un comportamento che psicologia e
ritenevamo assecondare il sintomo, sperando
che ciò innescasse una reazione funzionale discipline
nella paziente. E fu proprio così! dfdd
Inizialmente, all’interno della seduta, Ilaria dkfjdkf
mostrò di prendere con grande soddisfazione dfjkdfd
questa possibilità. Andò a casa e disse al mari-
to: «Ha detto lo psicologo che ti devo lasciare!».
Il marito, con cui avevamo stabilito negli anni
un buon rapporto e che era sempre stato collaborativo, dovette
pensare che ci avesse dato di volta il cervello. Lo stesso pensò
il parroco, allorquando Ilaria gli riferì la stessa cosa. A questo
punto, però, scattò qualcosa in lei: non avendo più la sensa-
zione di qualcuno che si opponesse alle sue rimostranze circa
il marito — trovandosi, anzi, quasi nella condizione di essere
autorizzata a lasciarlo —, cominciò a provare ansia, a scoprirsi a
pensare che non era ciò che voleva e che amava profondamente
il marito e si sentiva amata da lui.
Nella seduta successiva, lo scenario si ribaltò completamen-
te, permettendo di risignificare i suoi sentimenti come una
proiezione all’esterno di esperienze interne di auto-attacco,
autosvalutazione e inadeguatezza. Da allora, il percorso
terapeutico di Ilaria, cominciò una rapida discesa verso la
remissione di ogni sintomo e lo stabilizzarsi di competenze e
auto-percezioni. Il resto è storia recente.

59
Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

a Oggi Ilaria è guarita; da oltre un anno non mostra più alcun


segno di malattia e le sue condotte sono serene ed efficaci in
relazione ai suoi obiettivi. La sua vita ha assunto uno scopo che
vede un perfetto equilibrio tra cura di sé e premura verso gli
altri. Continua ad andare in palestra, frequenta la formazione
verso la genitorialità affidataria e ha iniziato a progettare un
suo impegno, assieme al marito — con cui ha un rapporto
splendido, di grande intimità e condivisione —, nell’ambito
della sensibilizzazione e la prevenzione ai disturbi alimentari,
nel desiderio di trasformare il dolore passato in qualcosa di
costruttivo e fecondo per sé e per gli altri.

3. Conclusione
Senza alcuna intenzione di esaustività circa il tema dell’in-
tenzione paradossa e, più in generale, delle strategie paradossali
in psicoterapia, per il cui approfondimento rimandiamo ai testi
indicati in bibliografia, abbiamo voluto evidenziare il ruolo
di tale approccio tanto nella visione di Viktor E. Frankl, che
è stato tra i primi a teorizzarlo e utilizzarlo, come abbiamo
avuto modo di evidenziare, quanto nel più ampio panorama
della psicoterapia.
In tal senso, ci siamo limitati, a partire da un nostro in-
tervento al Convegno indicato in apertura, a offrire alcuni
spunti teorico-pratici sull’applicabilità di tali strategie, capaci
di mostrare alcune attenzioni, modalità e scopi nell’esercizio
clinico del «paradosso».

60
Domenico Bellantoni – «Sarà anche “paradossale”… ma funziona!»

Bellantoni D. (2008), La cura dei disturbi sessuali. Per un approccio


Bibliografia analitico-esistenziale frankliano, «Ricerca di Senso», vol. 6, n. 2,
pp. 229-245.
Bellantoni D. (2010), Non sai ridere? Ma allora sei proprio un ani-
male! L’umorismo come risorsa per il benessere esistenziale, «Ricerca
di Senso», vol. 8, n. 2, pp. 155-176.
Bellantoni D. (2011), L’analisi esistenziale di Viktor E. Frankl. 1:
Origini, fondamenti e modello clinico, Roma, LAS.
Bulka R.P. (2003), L’intenzione paradossa e la dereflessione. Un ritorno
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Frankl V.E. (2003), L’intenzione paradossa come tecnica logoterapeuti-
ca. Teoria e pratica, «Ricerca di Senso», vol. 1, n. 2, pp. 211-238.
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psicoterapia riumanizzata, Milano, Mursia, 4ª ed.
Frankl V.E. (2005b), Logoterapia e analisi esistenziale, Brescia, Mor-
celliana, 6ª ed.
Frankl V.E. (2009), Si può insegnare e imparare la psicoterapia? Scritti
sulla logoterapia e analisi esistenziale, Roma, Ma.Gi.
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61
Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

Watzlawick P., Beavin J.P., Helmick J. e Don D. (1967), Pragmatics


Bibliografia
of human communication, New York, NY, W.W. Norton & Co.

62
a pprofondimenti

Adottare l’umorismo
La capacità di ridere come risorsa
nel percorso adottivo

Valentina Gagliardi Il percorso adottivo è un cammino lungo e carat-


(Psicologa-psicoterapeuta, Gruppo terizzato da fasi molto diverse tra loro. Si tratta
Logo-Umoristi ALÆF) di un percorso delicato perché ha come scopo la
creazione di un legame. Nel seguente articolo si
intende sottolineare come alcuni passaggi cruciali
di tale percorso possano essere aiutati, e forse
anche potenziati, grazie all’apporto dell’umorismo,
inteso come la capacità di vedere le cose da diverse
angolature, intrecciato con la visione frankliana e
le risorse resilienti di chi è coinvolto.

Se la vita ha un senso deve essere il senso dell’umorismo.


(L. Ortolani, in Pegoraro, 2011)

Questa frase, sia per il contenuto che per l’autore — padre adottivo, disegna-
tore di fumetti e autore di un divertente libro che racconta l’ingresso in famiglia
delle sue due figlie nate in Colombia (Ortolani, 2011) — può rappresentare
uno speciale condensato del presente articolo, nel quale si intrecciano alcuni
temi: la Logoterapia, intesa come ricerca di senso e significato; l’Umorismo,
inteso come modo diverso di vedere la realtà; la Resilienza, come capacità di
resistere e riassestarsi nelle situazioni critiche e dolorose; l’Adozione, come
percorso speciale per formare una famiglia.
La convinzione che il percorso dell’adozione di un bambino possa essere
aiutato e sostenuto anche dall’umorismo è nata dall’osservazione di esperienze
di vita vissuta, direttamente o indirettamente, nelle quali era possibile cogliere

Edizioni Erickson – Trento Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014 (pp. xx-xx) 63
Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

a come e quanto le famiglie che meglio riuscivano a fronteggiare


le crisi — che ogni adozione comporta — fossero famiglie
particolarmente dotate di senso dell’umorismo. Questa sem-
plice osservazione ha poi trovato riscontro in letture e appro-
fondimenti.
Il percorso adottivo1 è un cammino lungo, dal primo do-
cumento presentato al Tribunale dei minorenni al ritorno a
casa dallo Stato estero possono passare tra i quattro e i sette
anni. Le coppie che iniziano questo percorso devono quindi
attrezzarsi, dotandosi di capacità e strumenti che li supportino
e sostengano lungo questa strada. La mia convinzione è che
l’umorismo possa essere una delle risorse a cui poter attingere
per riuscire a dare senso alle difficoltà che durante questo
lungo percorso possono presentarsi, e riempire di significato
una scelta dal fortissimo impatto esistenziale.
Lo scopo principale dell’adozione è la creazione di un lega-
me, per creare con il bambino e per il bambino una famiglia.
Si tratta di creare una vicinanza al di là del
legame biologico, fondata, creata e riempita
di senso nella relazione con l’altro. Si tratta di
un incontro tra persone che hanno «interessi»
emotivi altissimi affinché vada bene, quindi
dall’apparentemente facile esito; di fatto
richiede molte energie e l’esito non è mai
certo, come in ogni relazione. Per questo si
tratta di un percorso delicato, durante il quale
possono nascere difficoltà e anche per questo
la capacità di usare l’umorismo, di vedere le
cose da più angolature, è una risorsa molto
preziosa per tutti: genitori, figli ma anche
operatori. L’umorismo infatti può entrare a pieno titolo nella
riflessione degli operatori del mondo adottivo e in chi lavora
per la prevenzione del disagio familiare. Se è vero infatti che
aumentare il senso di efficacia di un genitore è tra i migliori
fattori protettivi rispetto alle crisi evolutive, allora anche l’umo-
rismo può e deve entrare nella mente di chi fa prevenzione,
come competenza da promuovere.

1
Nel presente articolo si parlerà di adozione internazionale tuttavia — a esclusione
di alcune fasi specifiche di questo percorso (decreto, ricerca ente, viaggio all’este-
ro, ecc.) —, ogni considerazione può essere intesa valida anche per l’adozione
nazionale.

64
Valentina Gagliardi – Adottare l’umorismo

Dicevamo che l’adozione è la creazione di un legame, e


si tratta di un legame che accoglie, sostiene e protegge. Una a
splendida immagine che rappresenta questo aspetto ce la offre
David Grossman, che in un suo testo — pur non dedicato
all’adozione — racconta la storia di un bambino che durante
un dialogo con la madre «scopre» che nessuno è uguale a lui
e questo non gli fa cogliere la sua unicità, quanto la sua so-
litudine. Poi accade qualcosa che lo aiuta a vedere le cose in
modo diverso, la mamma gli spiega che se si abbracciano non
saranno più soli.
La mamma lo tenne stretto a sé. Sentiva il cuore di Ben che
batteva. Anche Ben sentiva il cuore della mamma e l’abbracciò forte
forte. Adesso non sono solo, pensò mentre l’abbracciava. Vedi, gli
sussurrò la mamma, proprio per questo hanno inventato l’abbraccio.
(Grossman, 2010, pp. 29-30)

Credo che l’abbraccio qui descritto abbia come sinonimo


l’adozione e credo che dica molto bene quanto nella creazione
di un legame sia centrale la capacità di reggere chi è in diffi-
coltà. Questo richiama un altro tema, che è fortemente legato
all’adozione: la resilienza.2 Parlando di adozione è particolar-
mente efficace l’allegoria del nastro di seta, per spiegare limiti
e risorse dei bambini adottati.
Immaginate la vita di un bambino e immaginate poi un nastro
di seta. Immaginate che la vita sia un lungo nastro di seta. Il nastro
può essere solido e intatto, oppure può essere stato tagliato a pez-
zettini e poi rincollato insieme. Per un bambino voluto, che cresce
nel grembo della madre felice e con un padre caloroso e presente,
che è allattato, curato e cullato con tenerezza, e poi va in una scuola
materna dove l’ambiente è caloroso e stimolante, il nastro che rap-
presenta la sua vita sarà senza tagli o strappi. Che possano accadere
degli incidenti o dei piccoli traumi, poco importa, poiché il nastro
rimane resistente, solido e tenace: non indistruttibile, ma certamente
molto difficile da strappare. Pensiamo ora a un bambino non de-
siderato portato in grembo da una madre angosciata e incerta, che
nasce con un parto difficile e che alla nascita pesa molto poco, che
viene subito abbandonato e poi viene affidato a un primo nucleo
di accoglimento, poi a un secondo e a un terzo. E che poi viene
adottato ed è quindi strappato dall’orfanotrofio o alla famiglia che
lo accoglieva temporaneamente. Anche lui avrà il suo nastro, ma

2
Il termine resilienza è stato mutuato dalla fisica per indicare la capacità di riu-
scire, di vivere e svilupparsi positivamente, in maniera socialmente accettabile,
nonostante lo stress o un evento traumatico che generalmente comportano il
grave rischio di un esito negativo.

65
Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

a sarà un nastro strappato più volte. I pezzi se ne stanno sparpagliati


senza ordine apparente. Il bambino concluderà allora di non valere
poi molto; la sua autostima sarà compromessa e la sua fiducia nel
mondo esterno minata. Tutte le spiegazioni razionali per assicurare
il bambino sulle ragioni del suo abbandono non gli impediscono di
sentire di essere stato respinto e trattato ingiustamente. I bambini
che sono stati ripetutamente abbandonati e vengono in seguito
adottati hanno la vita infranta per via delle lacerazioni affettive e
delle carenze fisiologiche. Il compito degli operatori e dei genitori
adottivi è quello di tenere ben presente questo stato di cose. Sarà
necessario aiutarlo a rammendare e rincollare quel nastro nel modo
più solido possibile. E bisognerà che quel nastro sia abbastanza re-
sistente per sopportare il lavoro di rammendo che durerà tutta una
vita. L’infelicità non è il male. Lo diviene quando ci si dimentica
di tenerne conto. Immaginate che straordinaria occasione avete
come genitori adottivi: tutta una vita per trasformare l’infelicità in
felicità e una fragilità potenziale, in forza. (Chicoine, Germain e
Lemieux, 2004, pp. 31-32)

Questa allegoria rappresenta bene il vissuto di molti bam-


bini adottati e offre numerosi spunti di riflessione. Ci dice,
ad esempio, che la resilienza dei bambini adottati è ciò che
consente loro di tollerare gli strappi, i tagli e le ricuciture del
nastro. La resilienza rappresenta la forza che permette al nastro
di non rompersi — quindi una forza nel momento della prova,
del trauma — ma continua anche a caratterizzare l’intero arco
di vita di chi, pur avendo subito traumi, resiste, va avanti, trova
un suo senso e una sua via, nonostante i traumi, qualcuno
dice addirittura grazie ad essi. Il problema quindi sorge non
in presenza del trauma in sé, ma quando lo si nega, non se ne
tiene conto.
Per fare un esempio di questo, a proposito del narrare la
storia del bambino al bambino, è bene avere in mente che se
è vero che l’abbandono fa parte dell’adozione, e se è vero che
l’adozione, in quanto creazione di un legame di amore incon-
dizionato, può riparare al dolore che l’abbandono ha deter-
minato, è anche vero che la ferita rimane, una ferita che il più
delle volte si rimargina ma che, simbolicamente, mantiene la
sua cicatrice. Allora il bambino può e deve essere aiutato a dare
un senso all’abbandono; per fare questo la visione frankliana
della vita e delle risorse che è possibile attivare per affrontare
le crisi della vita ha un altissimo valore formativo e educativo.
Un conto è dire al proprio figlio che è stato abbandonato, ma
che è una cosa passata e non ci deve più pensare perché ora
ha una famiglia che gli vuole bene. Dire questo a volte non

66
Valentina Gagliardi – Adottare l’umorismo

basta. Un altro conto è spiegargli che è vero che l’abbandono


ha fatto parte della tua vita, ma che è altrettanto vero che può a
scegliere se fare di questo una macchia indelebile, che segnerà
in negativo la sua vita, oppure farci i conti e ricostruirsi a
partire da questo fatto. Ed è nella «lettura» della propria storia
che l’apporto frankliano può fare la differenza, nella capacità
di autodistanziarsi.
Ma ora, dopo aver dato una breve scorsa a cosa è l’ado-
zione, cosa comporta, quali risorse richiede e stimola, come
mettiamo insieme tutto ciò con l’umorismo? Grazie ad alcuni
intrecci e punti di contatto interessanti. Ad esempio, partendo
da una significativa distinzione che riguarda l’umorismo e in
qualche modo anche l’appena citata resilienza. È bene non
confondere il ridere di con il ridere con, perché il sarcasmo non
è l’umorismo, ridere con qualcuno, guardare le cose — anche
quelle dolorose — da un’altra angolatura alla ricerca di un
nuovo senso da dare a quell’evento, non è mai svalutante né
è un modo per negare il dolore e la fatica di chi quell’evento
vive o ha vissuto. Così, torniamo al tema della negazione, che
anche nella resilienza è centrale, perché dire che si è riusciti a
resistere a un trauma non vuol dire negare che una ferita sia
rimasta. Quindi dire che umorismo, senso e resilienza sono
temi che si intrecciano non deve portare a pensare che basta
ridere di tutto, anche dei traumi legati all’adozione, per resi-
stere e superare tutto e trovare il senso delle cose. Tutt’altro.
Umorismo, ricerca di senso e resilienza sono legati tra di loro
come fossero i fili che compongono una corda che è più solida
e resistente all’aumentare del numero dei fili e del loro spessore.
Così, se a fronte di un evento che mette alla prova si attivano
più risorse (i fili), allora la capacità di resistere e fare fronte (la
corda) aumenta ed è più solida.
Altro punto in comune è il meccanismo mentale che li
attiva; il processo mentale con cui attiviamo l’umorismo, la
ricerca di un senso nuovo degli eventi dolorosi e la resilienza,
è lo stesso (Cyrulnik e Malaguti, 2005, p. 171):
• sono di fronte a una realtà inaccettabile
• non posso modificarla
• non voglio lasciarmi abbattere da essa
• voglio anche conservare delle forze per un ulteriore cambia-
mento.
Inoltre, è grande il potere che l’umorismo ha nel creare lega-
mi (ibidem, p. 170). Quanti di noi hanno ricordi di momenti

67
Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

a tragici o, in ambito più leggero, anche solo momenti ridicoli


di imbarazzo o vergogna, che sono stati risolti con una grande
risata tra chi era coinvolto. Chi ha esperienza e memoria di
questo ha certamente fatto anche l’esperienza di quanto sia
stata aggregante quella risata, di quanto essere riusciti a ridere
insieme di una difficoltà abbia legato le persone coinvolte. E
questo getta una nuova luce sul potere dell’umorismo unito
alle «necessità» di un percorso adottivo.
La mia proposta è che l’umorismo, inteso come riuscire a
guardare agli eventi, anche dolorosi, con modi di lettura alter-
nativi, possa essere e debba essere una delle strategie da proporre
sia ai genitori che si preparano ad accogliere un bambino adot-
tato, sia al bambino stesso, per aiutarli ad affrontare le realtà
inaccettabili o a rammendare quel nastro, secondo l’allegoria
precedente. E stando ancora a questa allegoria,
ci permette di pensare ai genitori come a dei
tutori di resilienza e in particolare ai genitori
adottivi come a dei custodi di resilienza. Per-
ché, se è vero che i bambini adottati sono dei
campioni di resilienza, allora i genitori adotti-
vi hanno l’onere e l’onore di custodirla questa
resilienza, sostenendola, e quindi in primo
luogo di accoglierla e mantenerla, accogliendo
i loro figli con il loro bagaglio di esperienze,
di sofferenze ma anche — dobbiamo dirlo!
— di risorse, capacità e competenze. E allora
non è un caso se Boris Cyrulnik, esperto di
resilienza, parla in modo esplicito della funzione protettrice
dell’umorismo (Cyrulnik, 2000) o se Louise Michelle Bom-
bèr (2000, pp. 93-94), trattando delle difficoltà scolastiche di
bambini con difficoltà di attaccamento a causa di traumi, dà
un gran valore all’uso dell’umorismo.
Così diviene possibile pensare a un’applicazione diretta
dell’umorismo come risorsa nell’adozione. Ad esempio, nella
fase che precede la scelta di adottare, c’è un passaggio molto
delicato che nella maggioranza delle volte la coppia vive: il
confronto con la propria sterilità. Il passaggio da sterilità a fe-
condità aiuta ed è necessario perché la coppia possa dare senso,
innanzitutto alla non generatività e successivamente alla scelta
di adottare. Si può adottare pensando e continuando a pensare
di essere sterili, ma certamente è rischioso. Il collegamento
tra uso dell’umorismo e riuscita di questo delicato e cruciale

68
Valentina Gagliardi – Adottare l’umorismo

passaggio non è diretto, ma certamente è di sostegno la capa-


cità di operare un sano distanziamento, operazione tipica sia a
dell’umorismo che della logoterapia. Pensare di far stare insieme
dolore e umorismo non vuol dire ridere di ogni cosa, anche del
dolore. Per dare un senso al dolore è inevitabilmente necessario
entrare in contatto con esso, senza manie masochistiche, ma
con onesto senso di realtà. Questo è frutto di un percorso e
in alcune tappe di questo percorso che porta dalla sterilità alla
fecondità fino all’accoglienza del proprio figlio, forse non è
possibile ridere, ma avere un approccio umoristico, un’apertura
a una lettura alternativa della realtà, a una lettura laterale, aiuta.
Nel libro di Ortolani viene usata la vignetta della figura 1
che ben rappresenta la possibilità di autoironia nel rileggere
la propria storia

Fig. 1 L’autoironia nel percorso di adozione (immagine tratta da Ortolani, 2011, p. 145).

Oppure si può adottare la capacità di rileggere gli eventi


con nota umoristica, per alleggerire e dare senso al periodo
dell’attesa, questo è un modo:
Care amiche, cari amici. Voi che avete i vostri figli chissà dove,
rilassatevi. Alla fine vi diranno tutto. Non è che adesso non ve lo
dicono per cattiveria. Non lo sanno nemmeno loro, dove sono.
Sono bambini, si divertono a nascondersi. Per cui va tutto bene.
Basta con quelle facce tristi, quelle tipiche facce da genitori adottivi
che sembra che vi abbiano dato una multa per divieto di sosta, fate
per prenderla dal tergicristallo, pestate una cacca. E avete le scarpe
con il carrarmato. Coraggio! Sorridete! Fate le vostre cose, uscite,
andate al cinema, andate in pizzeria, fate tardi con gli amici, fate
passeggiate romantiche e vivete la vostra vita. Perché prima o poi,

69
Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

a care amiche e cari amici, i vostri figli li troveranno. (Segue suono


di violino come da film dell’orrore!). (Pegoraro, 2011)

O, ancora, si può scegliere l’ironia come risposta, a volte


l’unica, a stravaganti reazioni del mondo esterno alla notizia
che il proprio figlio è adottato (figura 2).

Fig. 2 L’ironia verso gli «altri» nel percorso di adozione (immagine tratta da www.adopted-
thecomic.com).

In chiusura, è bene anche darsi qualche regola di fondo.


L’umorismo non è sempre simpatico: durante la fase dolorosa
non è adeguato ricorrere all’umorismo perché non diventi un
modo per evitare, un meccanismo difensivo che non permette
di sentire le emozioni ed elaborarle. Quindi la valenza positiva
del ridere, dell’umorismo, sta nel ripensare le cose dopo che
sono state elaborate. Certamente, come per ogni allenamento,
una volta che si diventa pratici e quindi esperti, allora si riu-
scirà a farlo anche nel picco, nel momento della grande fatica,
ma a quel punto non sarà più una difesa, quanto piuttosto
una strategia di resilienza, che aiuta a «reggere» nella prova.
L’umorismo —quello sano e funzionale — rafforza la relazione
e si nutre di essa: allora ribadiamo che è bene non ridere mai

70
Valentina Gagliardi – Adottare l’umorismo

di, piuttosto ridere con. Ridere sugli eventi non deve portarci
a ridere delle emozioni che quegli eventi provocano in chi è a
coinvolto, soprattutto quando si tratta di un bambino.
E così, chiarite anche le accortezze da avere nel suo uso,
possiamo dire… adottiamo l’umorismo!

71
Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

Bibliografia Andreone M. e Cerritelli R. (2012), Una risata vi promuoverà:


Teoria e pratica dell’umorismo per il benessere aziendale e la crescita
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72
a pprofondimenti

Dal Lutto Traumatico


alla Crescita Post
Traumatica nella
prospettiva di Viktor
Frankl1
Maria Luisa De Luca Questo lavoro si propone di evidenziare il contributo
(Università Salesiana, Roma) della Logoterapia Frankliana al fenomeno che oggi
viene chiamato «crescita post traumatica» (PTG – Post
Traumatic Growth) in riferimento a un’area specifica:
il lutto traumatico o prolungato. I concetti elabo-
rati da Viktor Frankl hanno in molti casi anticipato
costrutti contemporanei e tecniche terapeutiche2
senza che questo suo contributo venga spesso rico-
nosciuto. Nel caso della letteratura tanatologica che
si occupa della ricerca di senso nel lutto, il contributo
di Frankl viene invece spesso menzionato; non può
infatti sfuggire l’estrema somiglianza tra i concetti di
resilienza e crescita post traumatica e la frankliana
«forza di resistenza dello spirito» (Bruzzone, 2012;

1
Parte dell’Introduzione, del paragrafo Il costrutto di Lutto Traumatico o Disturbo Correlato a Lutto
Complesso Persistente e le parti relative al costrutto di crescita post-traumatica e ai modelli teorici del
lutto sono ripresi e in parte adattati da De Luca (2010, pp. 294-322). Una versione di questo scritto
è in corso di pubblicazione in Argentina: De Luca M.L. (2013), Del Duelo traumatico al crescimiento
pos traumatico desde la perspectiva de Viktor Frankl. Análisis Existencial y la Logoterapia en la situación
del final de la vida, Editorial San Pablo, Argentina (in stampa).
2
Per un’ampia discussione su questo tema si veda Bellantoni (2011a; 2011b).

Edizioni Erickson – Trento Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014 (pp. xx-xx) 73
Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

a Bellantoni, 2011). Il percorso concettuale che seguirò


sarà così articolato: 1. Il Lutto Traumatico (o Com-
plesso) come area di elezione per la Logoterapia; 2.
La crescita post traumatica alla luce del pensiero di
Frankl; 3. Linee guida per l’intervento.

1. Introduzione
Le tematiche cliniche relative alla morte e al lutto, pur rive-
stendo un posto centrale nella psicoterapia e nella consulenza
psicologica, hanno spesso subito una sorta di negazione o
evitamento, peraltro congruenti con il generale atteggiamento
tanatofobico della cultura occidentale contemporanea. Dob-
biamo a Philippe Ariès (1978; 1980) una penetrante analisi
del fenomeno della progressiva negazione e rifiuto della morte
in Occidente, soprattutto a partire dalle trasformazioni sociali
indotte dall’industrializzazione e dall’urbanizzazione massiccia.
La trasformazione dell’atteggiamento nei confronti della
morte e del lutto è legata, secondo diversi autori, alla minore
importanza attribuita nel corso del ventesimo secolo, partico-
larmente nelle società industrializzate, alla vita dopo la morte e
in generale alla prospettiva religiosa che vede l’uomo immerso
in un ciclo vitale dove la morte e la vita dopo di essa acquisisco-
no senso. Per l’Occidente industrializzato il focus quasi assoluto
è sul benessere individuale e la concezione positivista-empirista
dell’uomo e della realtà ha avuto come logica conseguenza
una visione della morte come «fallimento medico» o come
incidente, piuttosto che come parte inevitabile della condi-
zione umana (Silverman, 2006). Questo è il fenomeno che
Ariès (1980) descrive come «la morte capovolta», cioè espulsa
repentinamente e brutalmente dalla scena sociale e relegata
in luoghi separati, nei quali il moribondo e la sua famiglia ne
vengono espropriati, e che trova la sua logica conclusione nel
tentativo di abolire il lutto. Un pioniere di questa analisi è
stato il sociologo Geoffrey Gorer, che nel 1955 pubblicò il suo
celebre studio La pornografia della morte,3 nel quale evidenzia-
va due fenomeni: da una parte la morte, e specificamente la
morte come processo naturale, e il lutto sono oggi oggetto di

3
Tale studio venne ampliato in Gorer (1965).

74
Maria Luisa De Luca – Dal Lutto Traumatico alla Crescita Post Traumatica nella prospettiva di Viktor Frankl

tabù come lo è stato il sesso in precedenza; dall’altra, proprio


in quanto oggetto proibito, la morte diventa oggi oggetto di a
attenzione ossessiva, in particolare la morte violenta, oggetto
mediatico per eccellenza.4 Le due pornografie, secondo Go-
rer, negano entrambe le emozioni collegate agli eventi di cui
sono oggetto (la morte violenta, il sesso), mentre amplificano
al massimo le sensazioni che ne derivano. Per contrastare la
pornografia della morte Gorer propone di restituire alla morte
naturale la sua centralità e di conseguenza riammettere l’esi-
stenza del dolore e del lutto.
In ambito clinico, invece, concetti di Lutto e Trauma sono
stati da sempre al centro dell’attenzione, sia pure in forme e
accezioni anche molto diverse tra loro (Wil-
liams, 2009) e oggi sono oggetto di discipline
specifiche: da un lato la Psicotraumatologia, Dialogo
disciplina in grande espansione e saldamente fruttuoso tra
collegata all’area di interesse della Psicologia
dell’Emergenza (Giannantonio, 2009; Pie- psicologia e
trantoni e Prati, 2009) che si occupa specifica- discipline
mente del trauma; dall’altro la Tanatologia, che dfdd
si occupa dello studio della morte o, meglio, dkfjdkf
«della vita, inclusa la morte» (DeSpelder e
Strickland, 2005, p. 32) e quindi anche del dfjkdfd
lutto. La letteratura rilevante per i due concetti
e le corrispondenti aree di studio è attualmente
vastissima, come testimoniano il numero di manuali ad esse
dedicate e l’esistenza di riviste specializzate,5 e include un ampio
e innovativo ambito di ricerca.
Non altrettanto vasta ma abbastanza corposa è anche la
letteratura che accomuna i due concetti evidenziandone le aree
di sovrapposizione o intersezione, che è quella che si occupa del
Lutto Traumatico (o Lutto Complicato o Lutto Prolungato),
al quale già nel 1997 è stato dedicato un importante testo, il
primo a occuparsi in modo sistematico della necessaria con-
vergenza tra Traumatologia e Tanatologia nella comprensione
e trattamento del Lutto Traumatico: Death and Trauma: The
Traumatology of Grieving (Figley, Bride e Mazza, 1997). Nell’In-

4
Per uno studio relativo alla medializzazione della morte tramite web, si veda Notte
(2000).
5
Ad esempio: «Journal of Loss and Trauma»; «Omega»; «Death Studies»; «Mortal-
ity»; «Journal of Traumatic Stress».

75
Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

a troduzione a questo testo, Therese Rando evidenzia da una parte


come anche il lutto acuto non complicato sia, di per sé, una
forma di Disturbo da Stress Post-Traumatico, se si analizzano
le manifestazioni e i percorsi di risoluzione; dall’altra elenca
una serie di fattori che rendono qualsiasi morte traumatica
e che da soli o combinati possono generare uno Stress Post
Traumatico di intensità molto superiore a quella riscontrata nel
lutto acuto non-complicato: 1. Morte improvvisa; 2. Violenza,
mutilazione; 3. Evitabilità/Casualità; 4. Perdita di un figlio; 5.
Morti multiple; 6. Incontro con la morte (per minaccia diretta
a sé o secondaria alla morte o mutilazione dell’altro) (Rando,
1997, p. XVII).
Prima di procedere alla definizione di Lutto Traumatico è
importante precisare un aspetto terminologico relativo al lutto
e una definizione del concetto di trauma.
Ciò che nella letteratura inglese6 è espresso da termini
diversi che intendono rappresentare i fenomeni soggettivi,
oggettivi e sociali relativi al lutto, in italiano viene comunque
definito lutto; anche in italiano possiamo utilizzare termini che
permettano di differenziare meglio i diversi aspetti in gioco,
anche se difficilmente ciò è stato fatto finora nella gran parte
delle pubblicazioni specifiche. In italiano e inglese si utilizza
il temine Perdita/Loss per indicare la situazione oggettiva di
aver perso una persona significativa; con la stessa accezione in
inglese si utilizza anche il termine bereavement, che in italiano
corrisponde alla condizione dell’aver subito un lutto; l’aspetto
più specificamente emotivo del lutto in inglese è indicato come
grief, che in italiano più raramente viene reso dai termini cor-
doglio o sofferenza, ma più spesso come «essere a lutto», senza
entrare nella complessità dell’evoluzione storica del concetto di
Trauma e la varietà delle possibili definizioni (Williams, 2009;
Giannantonio, 2009; Liotti e Farina, 2011), va evidenziato che

6
Definizione dei termini inglesi secondo DeSpelder e Strickland (2005, pp. 268-
269), si veda anche Pietrantoni e Prati (2009, pp. 107-108): Bereavement = Lutto,
nel senso di «perdita» (Loss); la situazione oggettiva di aver perso una persona
significativa e il relativo periodo di afflizione successiva; Grief = Dolore, soffer-
enza, afflizione, angoscia; lutto nel senso della reazione primariamente emotiva
alla perdita di una persona amata; Mourning = Lutto, dolore, cordoglio; lutto
nel senso di portare il lutto, essere a lutto, vestirsi a lutto, ecc.; viene usato nello
stesso senso di grief in ambito psicoanalitico anche per indicare il processo che la
persona che ha subito una perdita (bereaved) affronta per integrare l’evento nella
sua vita; indica anche l’espressione sociale del lutto secondo le pratiche culturali
e religiose.

76
Maria Luisa De Luca – Dal Lutto Traumatico alla Crescita Post Traumatica nella prospettiva di Viktor Frankl

nella letteratura sul Lutto Traumatico ci si riferisce solitamente


a una definizione di trauma più ampia di quella utilizzata nel a
DSM-IV-TR e nel DSM-5 per definire l’evento traumatico
all’origine del Disturbo Da Stress Post Traumatico (PTSD):7
certamente il tipo di eventi elencati nel DSM fanno parte della
più ampia tipologia proposta da Rando, ma anche quando la
morte affrontata non rientra in quelle categorie può risultare
traumatica se si privilegia l’aspetto del vissuto soggettivo, come
nella definizione di trauma proposta da Tedeschi e Calhoun:
«Circostanze di vita che sfidano gravemente le risorse delle per-
sone, specialmente i loro modi generali di intendere il mondo
e il proprio posto in esso» (2007, p. 107); sulla stessa linea si
colloca la definizione proposta da Liotti e Farina: «il trauma è
definito come un evento emotivamente non sostenibile per chi
lo subisce» (2011, p. 32).

2. Il lutto traumatico come area di elezione per


la Logoterapia
In questo paragrafo sarà dapprima definito il costrutto di
Lutto Traumatico e sarà descritta la categoria diagnostica per
il Lutto Complicato inserita nel DSM-5; in seguito verrà evi-
denziato come esso costituisca un’area di studio nella quale la
Logoterapia ha un contributo specifico da dare.

2.1. Il costrutto di Lutto Traumatico e il Disturbo Cor-


relato a Lutto Complesso Persistente (DSM-5)
Prima di entrare in merito al costrutto oggetto di riflessione
è utile precisare che si è scelto di parlare di Lutto Traumatico an-
7
Il criterio A per il Disturbo Post-Traumatico da Stress (traduzione non corretta,
presente nel Manuale italiano, dell’inglese Post-Traumatic Stress Disorder) recita:
«La persona è stata esposta a un evento traumatico nel quale erano presenti
entrambe le caratteristiche seguenti: 1. La persona ha vissuto, ha assistito o si è
confrontata con un evento o con eventi che hanno implicato morte, o minaccia
di morte, o gravi lesioni, o una minaccia all’integrità fisica propria o di altri;2.
La risposta della persona comprendeva paura intensa, sentimenti di impotenza,
o di orrore. Nota: nei bambini questo può essere espresso con comportamento
disorganizzato o agitato» (American Psychiatric Association, 2001, p. 502). Nel
DSM-5, pubblicato negli Stati Uniti nel Maggio 2013 e di prossima pubblicazione
in Italia, il criterio A conserva solo la parte 1) sopra indicata e specifica le modalità
dell’esposizione all’evento traumatico (American Psychiatric Association, 2013,
p. 271).

77
Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

a che se in letteratura vengono utilizzate denominazioni diverse,


come vedremo più avanti, per riferirsi allo stesso fenomeno; la
scelta è motivata dal fatto che l’aggettivo Traumatico, piuttosto
che Complicato, Prolungato o Complesso, permette di evidenziare
il legame tra gli studi sul lutto e quelli sul trauma e sottolinea
il legame con gli studi sulla Crescita Post Traumatica.8
Una gran mole di ricerche ha dimostrato che la perdita di
una persona amata può essere seguita, in un non trascurabile
numero di persone, da un disagio clinicamente significativo sia
dal punto di vista fisico sia dal punto di vista
mentale: disturbi d’ansia (incluso, ma non
solo, il Disturbo da Stress Post Traumatico)
e disturbi depressivi tra i più frequenti (Par-
kes, 2007); d’altro canto molti studi hanno
documentato la possibilità che la perdita
porti a miglioramenti nella maturità e nella
forza psicologica di chi la affronta (Neimeyer,
2001). La consapevolezza della possibilità di
esiti tanto diversi ha stimolato la ricerca sui
fattori di rischio, evidenziando quelli che
influenzano l’esito (Stroebe e Schut, 2001;
Lobb et al., 2010) e che forniscono elementi
utili a identificare le persone da indirizzare verso forme di
aiuto e sostegno.
Nel 2006 la rivista «Omega – Journal of Death and Dying»
ha pubblicato un numero speciale dedicato a un simposio sul
Lutto Complicato e incentrato su tre domande-chiave poste
ai principali esperti del campo: 1. C’è un tipo di lutto (grief )
che può essere considerato disturbo mentale? 2. Come va
classificato e differenziato dagli altri disturbi? 3. Quali criteri
diagnostici sono validati dalla ricerca? Nel 2007 anche l’«Euro-
pean Archives of Psychiatry and Clinical Neuroscience» dedica
un numero speciale al tema «Quando il lutto (grief ) diventa
un disturbo», riflettendo sulle stesse questioni.
Parkes (2007) sintetizza i dati e le posizioni teoriche princi-
pali riportati in questo dibattito; rispetto alla prima domanda,
se ci sia un tipo di lutto considerabile come disturbo mentale,
8
La diagnosi di Disturbo Correlato a Lutto Complesso Persistente (traduzione
dell’autore) secondo il DSM-5 prevede la possibilità di specificare se il Disturbo
è «Con lutto traumatico», dovuto cioè a omicidio o suicidio, con persistente pre-
occupazione riguardante la natura della morte e gli ultimi momenti del defunto
(American Psychiatric Association, 2013, p.790).

78
Maria Luisa De Luca – Dal Lutto Traumatico alla Crescita Post Traumatica nella prospettiva di Viktor Frankl

sicuramente i dati disponibili indicano che c’è una minoranza


di persone, attorno a l0% secondo molti studi (Prigerson e a
Vanderwerker, 2006), il cui lutto rimane cronico, implicando
menomazioni clinicamente significative e che in popolazioni
particolari (ad esempio madri che hanno perso un figlio) la
percentuale di soggetti con disagio clinicamente significativo
arriva al 74% (Dyregrov, 2005). Per numerosi studiosi sarebbe
quindi auspicabile definire un disturbo speci-
fico relativo al lutto che lo differenzi dal lutto
«normale» per la sua durata, gravità e per la Dialogo
presenza di sintomi e disabilità (quali, ad esem- fruttuoso tra
pio, le alte incidenze di malattie cardiache,
disturbi d’ansia, depressione e suicidio) ad esso
psicologia e
associate (Parkes, 2007) e che garantisca alle discipline
persone che ne soffrono un adeguato ricono- dfdd
scimento, attenzione clinica, cure e sostegno dkfjdkf
adeguati in modo simile a quanto è avvenuto
dopo il riconoscimento nella nosografia uffi- dfjkdfd
ciale della sindrome da Stress Postraumatico.
È ampiamente condivisa dunque l’afferma-
zione di Tony Walter a commento del simposio pubblicato su
«Omega»: «Sebbene siano in disaccordo sui dettagli, gli altri
partecipanti a questo numero speciale concordano tutti che il
lutto (grief ) patologico esista e che sia possibile differenziare
lutto normale e lutto patologico» (2006, p. 71).
Riguardo alla seconda questione, come il Lutto Traumatico
vada classificato e differenziato dagli altri disturbi, le proposte
storicamente più articolate ed empiricamente meglio fondate
vengono dai due gruppi più importanti che hanno lavorato in
quest’ambito: il gruppo di Horowitz e il gruppo della Priger-
son (Maercker, 2007). I due gruppi di studio hanno lavorato
alla definizione di una sindrome di Lutto Traumatico, diffe-
renziandosi su alcuni aspetti: Horowitz lo ha definito Lutto
Complicato (Complicated Grief Disorder) e lo ha inquadrato
nell’ambito delle Sindromi di Risposta allo Stress (Horowitz,
2006), attualmente non presenti nel DSM, dove a suo parere
andrebbe collocato anche il Disturbo da Stress Postraumatico
che difficilmente può essere visto in modo soddisfacente all’in-
terno dei disturbi d’ansia, dove era collocato nel DSM-IV.9

9
Il DSM-5 ha in parte recepito le critiche rivolte alla collocazione del PTSD tra i
Disturbi d’Ansia e ha creato una sezione denominata Trauma- and Stressor-related
Disorders, all’interno della quale è ora inserito il PTSD.

79
Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

a Prigerson propone invece la denominazione Lutto Prolunga-


to10 (Prolonged Grief Disorder) e, sottolineandone le differenze
dalle sindromi depressive e ansiose (incluso il Disturbo da
Stress Post Traumatico), ne evidenzia una componente legata
all’angoscia traumatica (Traumatic Distress) e una legata all’an-
goscia di separazione (Separation Distress). Propone quindi di
collocarlo, nel DSM-5, all’interno di una nuova categoria di
Disturbi dell’Attaccamento (Prigerson e Vanderwerker, 2006;
Prigerson e Maciejewski, 2006); questo non è avvenuto, come
sarà specificato più avanti.
La terza domanda riguarda i criteri diagnostici finora valida-
ti dalla ricerca; i due gruppi prima menzionati hanno lavorato
per molti anni alla definizione empiricamente fondata di criteri
affidabili allo scopo di proporre una nuova ca-
tegoria diagnostica all’interno del DSM-5. Si
è accennato ad alcune differenze significative
tra i due gruppi di ricerca: non solo il nome
proposto per il disturbo è diverso, ma anche
la collocazione tra i disturbi Postraumatici
o tra quelli dell’Attaccamento. I due gruppi
hanno prodotto anche strumenti di rilevazio-
ne connotati diversamente: l’Impact of Event
Scale di Horowitz e colleghi (1979), anche se
recentemente egli sostiene che i criteri per la
definizione del disturbo siano meglio identi-
ficati attraverso osservazioni più ampie di un
questionario autodescrittivo (Horowitz, 2006); l’Inventory of
Complicated Grief di Prigerson e colleghi (1995), del quale è
stata elaborata anche una forma breve che è stata adattata in
italiano (Chiambretto et al., 2008).
Parkes sottolineava nel 2007 che, pur nelle differenze tra i
due gruppi, era possibile estrarre una serie di criteri empirica-
mente validati sui quali c’era una sostanziale convergenza: 1.
persistente struggimento per la persona perduta; 2. deve essere
trascorso un periodo di sei mesi o più dal lutto; 3. la sindrome
danneggia gravemente la capacità del soggetto di funzionare
nei ruoli e nelle responsabilità lavorative e familiari. Altro
elemento sostanzialmente condiviso era la presenza di criteri
Negli anni scorsi la Prigerson e coll. hanno utilizzato prevalentemente questa
10

denominazione ma non in modo esclusivo: ad esempio in una importante pub-


blicazione del 2002 (Prigerson e Jacobs, 2002) utilizza la denominazione Lutto
Traumatico (Traumatic Grief ).

80
Maria Luisa De Luca – Dal Lutto Traumatico alla Crescita Post Traumatica nella prospettiva di Viktor Frankl

di traumatizzazione quali: persistenza di sentimenti di torpore


emotivo insieme a difficoltà o incapacità di accettare la realtà a
della perdita; frantumazione degli assunti fondamentali con
perdita di direzione e significato della vita.11
Recentemente i due gruppi di studiosi sopra citati hanno
unito le forze in uno studio mirato a proporre con autorevolezza
una definizione convergente ed empiricamente validata della
categoria diagnostica denominata Disturbo da Lutto Prolungato
(Prolonged Grief Disorder) che potesse essere inserita nel DSM-5
e nell’ICD-11 (Prigerson, Horowitz et al., 2009).
Gli autori evidenziavano come il disturbo da loro descritto
rispondesse ai requisiti di inclusione utilizzati nel DSM: si
tratta di una forma di disagio psicologico cli-
nicamente significativo; presenta un gruppo di
sintomi specifici e solo parzialmente sovrappo- Dialogo
nibili a quelli di altri disturbi frequentemente fruttuoso tra
riscontrati in persone che hanno subito lutti
recenti (particolarmente il Disturbo Depressi-
psicologia e
vo maggiore e il Disturbo da Stress Post Trau- discipline
matico); in assenza di altri disturbi descritti nel dfdd
DSM-IV, la presenza dei sintomi del Disturbo dkfjdkf
da Lutto Prolungato predice un disagio sostan-
ziale che verrebbe non identificato dall’attuale
dfjkdfd
sistema diagnostico. Dal punto di vista tem-
porale proponevano un tempo di almeno sei
mesi dalla morte per abbassare il rischio di falsi positivi, come
nei lutti con manifestazioni acute nei primi mesi e un esito non
patologico. Il criterio dello «struggimento» (bisogno, desiderio
intenso o nostalgia della persona defunta) veniva considerato
come obbligatorio in quanto massicciamente presente nel
campione esaminato.
Un limite di questa proposta è che il campione sia costituito
da vedovi con età attorno ai sessanta anni; a questo proposi-
to gli autori evidenziano che, pur ritenendo ben giustificata
quella che ritengono sia la scelta di un «lutto prototipico»,
quale quello della perdita del coniuge in età matura per cause
naturali, e pur avendo adottato misure che rendono i risultati
generalizzabili alla maggior parte delle persone a lutto, resti

11
Come sottolinea Janoff-Bulman (2006) le persone con Lutto Complicato speri-
mentano che il loro mondo di significati, ciò che hanno sempre dato per scontato,
è stato distrutto e loro la vita sembra aver perso significato e direzione.

81
Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

a la necessità di confermare questi risultati su campioni con


caratteristiche diverse.
C’è stato un ampio dibattito, specialmente negli Stati Uni-
ti, sull’opportunità e la reale necessità di inserire una nuova
categoria diagnostica relativa al lutto nel DSM-5; ad esempio,
uno studioso autorevole come Allen Frances ha preso posi-
zione contro questa ipotesi in un suo articolo sul «New York
Times» (cit. in Balk et al., 2010), sottolineando il rischio di
patologizzare eccessivamente un fenomeno naturale come la
sofferenza dopo un lutto. La maggioranza degli studiosi che
si occupano del fenomeno sono invece convinti che questo
rischio vada affrontato con un’altra strategia: informare e for-
mare in modo adeguato sui fenomeni legati al lutto normale
e a quello identificabile come patologico,
distinguendolo da altre patologie con le quali
può essere attualmente confuso, abbasserebbe
il rischio che un quadro clinico quale quello
descritto dal Disturbo da Lutto Prolungato
venga trattato come una forma depressiva o
ansiosa e affrontato prevalentemente a livello
farmacologico, trattamento al quale ha dimo-
strato chiaramente di rispondere ben poco.
Già dall’anno precedente alla pubblica-
zione del DSM-5 la task force (Gintner et al.,
2012) che si occupa delle modifiche ha stabi-
lito, in via definitiva, che la nuova categoria
fosse inserita nella Sezione III, riservata alle categorie proposte
per ulteriori studi, e che fosse denominata: Disturbo Correlato
a Lutto Complesso Persistente (Persistent Complex Bereavement
Related Disorder). Nella tabella 1 vengono riportati i criteri per
il nuovo disturbo, che presentano alcune differenze rispetto
alla proposta congiunta di Horowitz e Prigerson (e rispettivi
collaboratori), fino al 2012 maggiormente accreditata. Holly
Prigerson ha prontamente espresso le proprie perplessità sul
modo in cui la tanto attesa categoria sul Lutto è stata ora
definita (Boelen e Prigerson, 2012); le obiezioni fondamen-
tali riguardano: la scelta di introdurre criteri diagnostici non
validati empiricamente trascurando la possibilità di utilizzare
items provenienti dall’Inventory of Complicated Grief, che è stato
somministrato a più di 20.000 soggetti; l’eccessiva ampiezza
ed eterogeneità dei sintomi.

82
Maria Luisa De Luca – Dal Lutto Traumatico alla Crescita Post Traumatica nella prospettiva di Viktor Frankl

Tabella 1
Criteri diagnostici per il Disturbo Correlato a
a lutto Complesso Persistente
Criteri
Definizione
Proposti
A. L’individuo ha sperimentato la morte di qualcuno con il
quale aveva una relazione intima.
B. Dal momento della morte, almeno uno dei seguenti sinto-
mi è stato sperimentato per la maggior parte dei giorni, a
un livello clinicamente significativo, perdurando per alme-
no 12 mesi dopo la morte nel caso di lutto di adulti e per 6
mesi nel caso di lutto infantile:
1. Desiderio intenso/nostalgia (yearning/longing) per la
persona defunta. Nei bambini piccoli il desiderio inten-
so può essere espresso nel gioco e nel comportamento,
incluso il comportamento di separazione-riunione con i
caregivers o altre figure di attaccamento.
2. Intensa pena (sorrow) e dolore emotivo in risposta alla
morte.
3. Preoccupazione per la persona defunta.
4. Preoccupazione per le circostanze della morte. Nei
bambini questa preoccupazione per la persona defun-
ta può essere espressa attraverso i temi del gioco e del
comportamento e può estendersi alla preoccupazione
per la possibili morte di altre persone vicine a loro.
C. Dal momento della morte, almeno sei dei seguenti sintomi
sono stati sperimentati per la maggior parte dei giorni, a
un livello clinicamente significativo, perdurando per alme-
no 12 mesi dopo la morte nel caso di lutto di adulti e per 6
mesi nel caso di lutto infantile:
Angoscia reattiva alla morte:
  1. Marcata difficoltà ad accettare la morte (Nota: nei
bambini ciò dipende dalla capacità del bambino di
comprendere il significato e la permanenza della mor-
te).
  2. Sentirsi increduli o emotivamente intontiti riguardo
alla perdita. Difficoltà a rievocare ricordi positivi della
persona defunta.
  3. Difficoltà a lasciarsi andare a ricordi positivi del defun-
to.
  4. Amarezza o rabbia in relazione alla perdita.
  5. Valutazione di sé disadattiva in relazione alla persona
defunta o alla morte (ad es.: autobiasimo).

83
Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

a Criteri
Proposti
Definizione

  6. Eccessivo evitamento di ciò che ricorda la perdita (ad


es.: evitamento di persone, luoghi o situazioni associa-
te alla persona defunta; nei bambini ciò può includere
l’evitamento di pensieri e sentimenti che riguardano la
persona defunta).
Sconvolgimento Sociale/Identitario:
  7. Desiderio di morire per stare con la persona deceduta
  8. Difficoltà a fidarsi degli altri dopo la morte.
  9. Sentirsi soli o staccati dagli altri dopo la morte.
10. Sentire che la vita è senza significato o vuota senza la
persona defunta o credere di non poter più funzionare
senza la persona defunta.
11. Confusione riguardo al proprio ruolo nella vita o un
diminuito senso della propria identità (ad es.: sentire
che una parte di se stessi è morta con il defunto).
12. Difficoltà o riluttanza a perseguire interessi dopo la
perdita o a fare piani per il futuro (ad es.: amicizie, at-
tività).
D. Il disturbo causa disagio clinicamente significativo o impe-
dimento nella vita sociale, lavorativa o in altre importanti
aree del funzionamento.
E. La reazione di lutto (bereavement) è eccessiva o incon-
gruente con le norme culturali, religiose o appropriate
all’età.
Specificare Con Lutto Traumatico: Lutto dovuto a omicidio o suicidio
se: con persistenti e angoscianti preoccupazioni riguardo alla
natura traumatica della morte (spesso in risposta a ele-
menti che ricordano la perdita), inclusi gli ultimi momenti
della vittima, il grado di sofferenza e ferite mutilanti o la
natura malvagia o intenzionale della morte.
(Adattata da: American Psychiatric Association, 2013, pp. 789-790)12

Va notato che anche in questa nuova categoria si menziona-


no aspetti di estremo interesse per la Logoterapia: «sentire che
la vita è senza significato o vuota senza la persona defunta o
credere di non poter più funzionare senza la persona defunta»
(criterio C10, tabella 1) richiama direttamente la perdita di
senso della propria vita come esito di un lutto vissuto come

La traduzione in italiano è a cura dell’autore.


12

84
Maria Luisa De Luca – Dal Lutto Traumatico alla Crescita Post Traumatica nella prospettiva di Viktor Frankl

devastante e non come evento doloroso ma facente parte


dell’orizzonte esistenziale di ogni essere umano; in questa ca- a
tegoria del DSM-5 troviamo descritta una situazione clinica,
che sappiamo poter riguardare almeno il 10% delle persone
che subiscono un lutto, che testimonia della notevole difficoltà
della società contemporanea ad affrontare la morte.

2.2. Il lutto nella prospettiva della Logoterapia


La Logoterapia si colloca agli antipodi del processo di
negazione della morte descritto da Ariès per la sua stessa
essenza; la sua visione dell’uomo include tutte le dimensioni
dell’esperienza umana, inclusa la morte e la radicale «domanda
di senso» che pone: «non è possibile passar sopra la morte, non
prenderla in considerazione: poiché in effetti anche la morte
appartiene alla vita. Né è possibile “superarla”, come si illude
colui che crede di riprodursi nella prole, raggiungendo così
un’immortalità sui generis» (Frankl, 2001, p. 110). Per Frankl
l’unità e la totalità dell’uomo si articolano nelle tre dimensioni,
soma, psiche e spirito e la dimensione spirituale ha un ruolo
centrale (Fizzotti, 2005a; 2005b) in quanto specificamente
umana, come è specificamente umano il bisogno di significato
(Frankl, 1990, pp. 30.124).
Prendendo questa posizione Frankl si differenzia dalla
maggior parte dei modelli che prendono in considerazione
la dimensione spirituale. Tali modelli ritengono che l’uomo
possa sviluppare pienamente la dimensione spirituale, in modo
consapevole e maturo, solo dopo aver affrontato e risolto le
patologie psichiche (ad esempio, i confitti inconsci) (Franta,
1982); fanno quindi riferimento a un modello di tipo gerar-
chico: dopo aver risolto e integrato i livelli somatici e psichici
è possibile sviluppare il livello spirituale.
Nella visione di Frankl invece le tre dimensioni sono sempre
presenti «in parallelo», come in un cilindro13 con al centro l’asse
spirituale-esistenziale, circondato dalle altre due dimensioni
(psichica e corporea); egli sottolinea inoltre come tutte e tre le
dimensioni possano presentarsi a livello conscio, preconscio e
inconscio. Il fatto che esista una dimensione spirituale inconscia
può spiegare secondo Frankl come mai spesso la problematica

13
Vedi la figura con la quale Frankl illustra questo concetto nel volume Dio
nell’incoscio (1990, p. 31).

85
Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

a spirituale o religiosa si manifesti alla fine di una psicoterapia


ben condotta: essa ha «svincolato» questa dimensione che era
latente (Frankl, 1952, pp. 209-210) e spesso rimossa (Frankl,
1990, pp. 57-58).
D’altro canto, differenziandosi dai modelli che ho definito
«gerarchici», la visione di Frankl prevede anche (grazie alla
presenza costante e centrale della dimensione spirituale, come
nell’immagine del cilindro) che essa si manifesti parallelamente
alle comuni tematiche cliniche o addirittura sia il problema
clinico centrale presentato dal paziente: la nevrosi «noogena»
o da assenza o perdita di significato (Frankl, 2001, pp. 41-43).
Un altro modo di vedere la relazione tra la dimensione spiri-
tuale e le altre dimensioni oggetto dell’intervento terapeutico
può essere quella che emerge dall’illustrazione della relazione
tra psicoterapia e religione:14 la psicoterapia tradizionale (a
meno che non si opponga attivamente a questo processo) può
svincolare «per effectum» la dimensione spirituale, mentre per-
segue la guarigione psichica; la logoterapia, invece, mira «per
intentionem» allo sviluppo della dimensione spirituale, intesa
come centro dinamico dell’uomo (motore motivazionale). In
realtà, la Logoterapia mira anche intenzionalmente alla gua-
rigione psichica, ma non è su questo livello che si differenzia
dagli altri approcci.
Fermandoci ancora sulla complessa relazione tra le di-
mensioni tradizionalmente considerate dalla psicoterapia e la
dimensione spirituale, vediamo ancora la posizione di Frankl
(1990) che propone un’integrazione tra «psicologia del pro-
fondo» e «psicologia dell’altezza», differenziando entrambe
dall’ottica tipica delle scienze naturali. Le scienze naturali
escludono ogni tipo di teleologia utilizzando il piano oriz-
zontale (prospettiva naturalista/empirista) nell’osservazione
dei dati clinici.15
Le diverse «psicologie del profondo» si occupano delle
motivazioni legate alle dimensioni somatiche e psichiche (ad

14
Anche in questo caso Frankl utilizza una figura (1990, p. 91) per illustrare questa
relazione.
15
Questo concetto è elegantemente rappresentato da Frankl (1990, p. 133) tramite
una figura nella quale si intersecano un piano orizzontale e uno verticale; sul piano
orizzontale i punti nei quali le curve (poste sul piano verticale) lo attraversano
appaiono come punti slegati (privi di senso). Solo considerando la dimensione
verticale nella sua interezza i punti apparentemente slegati appaiono come curve
(depositarie di «senso»).

86
Maria Luisa De Luca – Dal Lutto Traumatico alla Crescita Post Traumatica nella prospettiva di Viktor Frankl

esempio: Freud, Adler); Frankl considera nel piano verticale


non solo una psicologia del profondo (posta al di sotto del a
piano orizzontale), ma anche una «psicologia dell’altezza»,
che ne è il necessario complemento. Essa, infatti, si occupa
specificamente del bisogno di significato, che Frankl definisce
«il più umano di tutti i bisogni» (1990, p. 124), collocandolo
sul piano verticale, teleologico. Ciò permette di ipotizzare che
i dati clinici osservati sul piano orizzontale e apparentemente
slegati e casuali possano ricevere il loro senso proprio attraverso
l’intersezione con il piano verticale composto da una profondità
e da un’altezza.
A questo proposito risulta interessante il contributo di
Leontiev (2004), intitolato La Psicologia Esistenziale come
risposta alle sfide del 21° secolo. È da questo lavoro che ho ri-
preso la distinzione tra «Psicologia Tradizionale» e «Psicologia
Esistenziale». Nella visione di Leontiev l’uomo
è da considerarsi sia determinato sia autodeter-
minato, in diversi momenti e a diversi livelli. Dialogo
La psicologia tradizionale, considerando in fruttuoso tra
maniera deterministica i livelli somatici, in-
trapsichici e sociali, descrive e prevede l’azione psicologia e
dell’uomo come essere determinato, e questa discipline
visione si rivela adeguata per il 90% dei casi. Vi dfdd
sono però due situazioni, molto presenti nella dkfjdkf
pratica clinica, dove, secondo Leontiev, che
riprende temi classicamente frankliani, questo dfjkdfd
tipo di spiegazione non funziona: nei momenti
di crisi acuta, disastro, morte, quando il mon-
do diventa più instabile e imprevedibile che mai; quando la
persona si presenta non con il classico problema clinico, ma
con l’insoddisfazione rispetto al suo adattamento riuscito, o di
successo, e aspira a qualcosa di più (richiesta di senso). Queste
situazioni sono quelle affrontabili dalla psicologia Esistenziale,
che va oltre alla visione dell’uomo come essere determinato
e lo considera invece autodeterminato. Sono questi «temi di
confine» nella pratica clinica, intesi come aree dove l’avere o
non avere una prospettiva aperta alla dimensione spirituale fa
una differenza significativa e dove si è costretti a toccare questo
confine problematico tra dimensione spirituale e le dimensioni
tradizionalmente incluse nell’ottica delle psicoterapie Natura-
listiche (Slife, 2004); sicuramente è l’area nella quale si colloca
la «triade tragica», sofferenza, colpa e morte, di cui parla Frankl
in modo diretto, e tanti altri in modo indiretto:

87
Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

a Nessuna situazione della vita è realmente priva di significato.


Questo vuol dire che gli stessi elementi che apparentemente sem-
brano segnati dalla negatività, come è il caso della tragica triade
dell’esistenza umana, formata dalla sofferenza, dalla colpa e dalla
morte, possono essere sempre trasformati in una conquista, in
un’autentica prestazione. (Frankl, 1990, p. 113)
Non si scappa: o la vita ha un senso, e allora lo mantiene indi-
pendentemente dal fatto d’essere breve o lunga; oppure non ne ha
alcuno, e allora non ne avrà mai per quanto lunga possa essere e per
quanto possa indefinitamente riprodursi. (Frankl, 2001, p. 111)

La morte dunque è anche «preziosa» per capire il senso della


propria esistenza: l’occasione per l’uomo di incontrare la sua
«volontà di significato». Frankl esprime con chiarezza questo
concetto in un video del 1972: quando l’uomo affronta qual-
cosa di doloroso che non può essere cambiato, lì è più alto il
potenziale di significato. Nella prospettiva della Logoterapia,
dunque, la consapevolezza della morte (propria e altrui) ci
permette di avere una vita che include crescita, responsabilità,
temporalità (Längle, 2004). La finitezza secondo Frankl ci
chiama a un pieno esercizio della libertà e della responsabilità.
Alla luce di questo breve richiamo di concetti caratteristici della
Logoterapia possiamo affermare che i fenomeni clinici relativi
al lutto, alla sua mancata elaborazione, ai suoi possibili esiti
adattivi e disadattivi, sono un campo d’interesse specifico, si
potrebbe dire prototipico, della logoterapia.

3. La crescita post traumatica


È stato verificato statisticamente che la maggioranza delle
persone viene esposta almeno una volta a situazioni minacciose
per la vita o che comunque rientrano nella definizione di «trau-
matiche», anche nella ristretta accezione del DSM-IV; secondo
Bonanno (2004), il 50-60% degli statunitensi è esposto a stress
traumatico anche se solo il 5-10% sviluppa PTSD (Disturbo
da Stress Post Traumatico). Allo stesso modo, è scontato che
andando avanti nel corso della vita tutti siamo esposti alla
perdita di persone importanti, quali le figure di attaccamento
di vario tipo (genitori, parenti, coniuge) e molte ricerche do-
cumentano una quota significativa di esiti patologici in seguito
a un lutto (Balk et al. 2010; Prigerson e Vanderwerker, 2006).

88
Maria Luisa De Luca – Dal Lutto Traumatico alla Crescita Post Traumatica nella prospettiva di Viktor Frankl

La ricerca attuale si sta occupando molto, e in modo in


parte nuovo, degli esiti di queste esperienze: chi subisce lutti a
e traumi reagisce in modo diversificato. George Bonanno
(2004), in un suo studio di grande impatto intitolato Perdita,
Trauma e Resilienza Umana, con il significativo sottotitolo:
«Non avremo sottostimato la capacità umana di crescere dopo
eventi estremamente negativi?», ha riesaminato la letteratura
di ricerca e ha sintetizzato in quattro prototipi i possibili esiti
dell’impatto di lutti e traumi nell’arco dei due anni dopo
l’evento. Essi sono certamente una semplificazione delle in-
finite possibili sfumature individuali. Questi quattro pattern
di rottura del funzionamento normale nel tempo in seguito a
perdita interpersonale o eventi potenzialmente traumatici sono:
1. Cronico: sofferenza acuta (angoscia, pena)16 dalla quale le
persone non riescono a uscire (10-30% dei soggetti); cor-
risponde al Lutto Traumatico o Complesso prima descritto.
2. Recupero (Recovery): sofferenza meno intensa, rispetto al lutto
cronico e per un periodo più breve (15-35% dei soggetti).
3. Ritardato (Delayed): disagio moderato seguito da un pronto
recupero ma attorno alla fine del primo anno si evidenziano
problemi di salute o in altri aspetti della vita (concentrazio-
ne, difficoltà a godere la vita, ecc.) (5-10% dei soggetti).
4. Resilienza: resistenza all’impatto dell’evento (che non vuol
dire assenza di sofferenza) e mantenimento di buon adat-
tamento e funzionalità generale nel tempo (35-55% dei
soggetti).
Il contributo di Bonanno ha stimolato una vivace discus-
sione e un suo lavoro successivo (Bonanno, 2005) sottolinea
che i punti chiave del suo contributo sono: la differenza tra la
traiettoria di Resilienza e quella di Recupero e il dato che la
Resilienza è un esito piuttosto comune (35-55% dei soggetti).
Seguiamo innanzitutto la distinzione di Bonanno tra
Resilienza e Recupero. Per Resilienza si intende la capacità di
mantenere un equilibrio stabile (livelli stabili di funzionamento
fisico e psicologico sano) e non è quindi equivalente ad «assenza
di patologia»; i soggetti resilienti sperimentano perturbazioni
transitorie nel funzionamento normale (diverse settimane di
preoccupazione, sonno agitato e altri sintomi), ma la traiettoria
è stabile; i soggetti resilienti mostrano capacità generativa ed

16
Nell’originale inglese: Distress.

89
Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

a emozioni positive. In uno studio recente si evidenzia come


l’esito più o meno positivo delle traiettorie post-lutto sia
fortemente influenzato dalla capacità di sperimentare anche
emozioni positive e modulare le emozioni in modo congruente
con il contesto (Coifman e Bonanno, 2010). La traiettoria
definita Recupero mostra come il funzionamento normale
temporaneamente lascia spazio a patologia sopra e sottosoglia
(depressione, PTSD, ecc.) per alcuni mesi, ai quali segue un
graduale ritorno ai livelli di funzionamento pre-evento.
Pattern sostanzialmente simili sono stati riscontrati e discus-
si successivamente (Coifman e Bonanno, 2010): la traiettoria
più comune (tra il 35 e il 60% dei soggetti studiati) è quella
definita Resiliente; la traiettoria definita Recupero riguarda
il 15-35% dei soggetti mentre la traiettoria definita Cronica,
come in diversi altri studi prima citati a proposito del Lutto
Traumatico, si attesta attorno al 10-15%.
Il lavoro di Bonanno e colleghi, evidenziando le diverse
traiettorie post-lutto e anche gli esiti non patologici di lutti e
traumi, ha finito con l’intrecciarsi con un altro fondamentale
e recente filone di studi, molto importante per la sua ricaduta
sulla teoria e pratica della psicoterapia, cioè lo studio del fe-
nomeno della «Crescita Post Traumatica»,17 il cui più impor-
tante manuale è uscito appena nel 2006 (Calhoun e Tedeschi,
2006b), anche se il fatto che in seguito all’aver affrontato
circostanze estreme si può crescere fino addirittura a diventare
persone «migliori» di prima, è sempre stato contemplato come
possibile esperienza umana (letteratura, filosofia, mistica, ecc.)
e trova un chiaro precursore nel concetto frankliano di «forza
di resistenza dello spirito». Gli studiosi della Crescita Post
Traumatica riconoscono che:
Alla logoterapia va riconosciuto il merito di aver reso lo spirito
umano e l’innata ricerca del significato un tema all’interno della
psicoterapia. (Zoellner e Maercker, 2006, p. 337)

3.1. Lutto e Crescita Post traumatica


Nello studio delle traiettorie post-lutto ne sta diventando
sempre più importante una, quella della Crescita Post Trau-

Utilizziamo la dicitura Crescita Post Traumatica, indipendentemente dalla forma


17

usata dai diversi autori (Posttraumatica, Postraumatica), tranne che nelle citazioni
letterali, dove viene conservata la forma scelta dall’autore citato.

90
Maria Luisa De Luca – Dal Lutto Traumatico alla Crescita Post Traumatica nella prospettiva di Viktor Frankl

matica, non inclusa nelle quattro traiettorie prototipiche pri-


ma discusse, e che secondo alcuni potrebbe essere «nascosta» a
all’interno di quella resiliente, mentre secondo Tedeschi e
Calhoun (2008) è sicuramente rintracciabile all’interno della
traiettoria denominata Recupero, pur essendone concettual-
mente molto diversa. Tedeschi e Calhoun evidenziano come il
termine Recupero abbia molti connotati negativi (soprattutto
nell’accezione inglese di Recovery, fa pensare all’uscita da una
malattia, accezione non molto rispettosa di un processo di
lutto connotato da sofferenza ma con esito positivo che così
viene associato a una malattia dalla quale si «guarisce»); essi
evidenziano infatti:
Solo alcune persone hanno bisogno di «recuperare» dal lutto e
alcune non ci riescono mai. Ma il lutto cambia la maggior parte
delle persone e il nostro compito sembrerebbe essere quello di capire
la piena misura di questi cambiamenti e come essi si svolgano nel
tempo. (Tedeschi e Calhoun, 2008, p. 29)
Molte persone che sperimentano grandi perdite nella loro vita,
anche quando non sono ritornate agli stati psicologici pre-perdita,
descrivono una componente della loro esperienza che è stata chia-
mata crescita posttraumatica. (2008, p. 31)

Utilizziamo ancora le parole di Tedeschi e Calhoun per una


definizione del concetto di Crescita Post Traumatica:
La trasformazione positiva che le persone possono sperimentare
nel loro affrontare il dolore e altre circostanze di vita altamente
stressanti. (Tedeschi e Calhoun, 1996)

Si potrebbe discutere di quanto questo concetto sia effet-


tivamente diverso dal concetto di Resilienza, quando questo
venga definito in termini molto ampi, quali ad esempio quelli
utilizzati da Malaguti: «Capacità di far fronte, resistere, integrare,
costruire e riuscire a riorganizzare positivamente la propria vita
nonostante l’aver vissuto situazioni difficili che facevano pen-
sare a un esito negativo» (2006, p. 16). Tuttavia la letteratura
sulla resilienza si occupa principalmente del recupero, e quindi
del ritorno o del mantenimento, al livello di funzionamento
pre-evento, Mentre Tedeschi e Calhoun si focalizzano specifi-
camente sulle trasformazioni positive rilevate empiricamente.
Gli eventi traumatici sono intesi in questo contesto in
modo più ampio che nel DSM-IV; come abbiamo già citato
nell’Introduzione, sono circostanze di vita nelle quali le persone
sperimentano una grave sfida alle proprie risorse di fronteg-
giamento, specialmente alla propria concezione del mondo.

91
Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

a La domanda che Tedeschi e Calhoun si sono posti è: in


quali modi le persone possono essere trasformate, fino a una
significativa crescita psicologica, dalla loro «lotta» con il dolore
(grief ) e come ciò avviene?
Dalla ricerca sono emerse dapprima tre dimensioni, ricavate
con metodi qualitativi, confermate poi da cinque dimensioni
empiriche, ricavate dall’analisi fattoriale, della Crescita Post
Traumatica:
– Dimensioni «qualitative»: cambiamenti nella percezione di
sé; cambiamenti nella relazione con gli altri; cambiamenti
nella propria filosofia di vita.
– Dimensioni fattoriali: cambiamenti positivi nella Relazione
con gli Altri (ad es. più intime); nuova comprensione di se
stessi come più forti e più capaci (Forza Personale); maggior
Apprezzamento della Vita; avventurarsi in nuovi aspetti della
vita (Nuove Possibilità); crescita nella dimensione spirituale
o più in generale nell’ambito esistenziale (Cambiamento
Spirituale.
Come avviene questa trasformazione? Secondo gli autori
l’evento critico innesca una serie di adattamenti emotivi e
cognitivi necessari per dare senso alla perdita; Janoff-Bulman
(2006) descrive il cambiamento degli schemi nel trauma e
nella Crescita Post Traumatica: in chi subisce queste esperienze
la propria «teoria del mondo» viene sfidata o distrutta nelle
sue convinzioni fondamentali. Nella situazione traumatica
solitamente il sé viene sperimentato e rappresentato come
minacciato, pieno di orrore, impotente; l’altro viene vissuto
come terrorizzante e pericoloso; il mondo è percepito come
frantumato, malevolo, senza senso. Questa esperienza poten-
zialmente devastante mette in moto la necessità di ripensare
assunzioni e credenze in modo da rendere ancora il mondo
comprensibile e prevedibile.
Altri autori hanno descritto la trasformazione positiva
dopo il trauma in termini narrativi: secondo Neimeyer (2006)
l’evento traumatico rappresenta un’enorme discontinuità nella
propria costruzione autobiografica: c’è un «prima» e un «dopo»;
questa frattura rimette in discussione le proprie assunzioni
con conseguenze negative o anche positive; la rielaborazione
narrativa richiede un’alta qualità di risposta sociale al proprio
lutto/trauma, in tal senso è fondamentale la possibilità di «rac-
contare» che è una forma importante di rielaborazione degli

92
Maria Luisa De Luca – Dal Lutto Traumatico alla Crescita Post Traumatica nella prospettiva di Viktor Frankl

schemi. Questo pone la questione, che qui sarà brevemente


trattata, di cosa si intenda per «elaborazione del lutto», quali a
ne siano le dimensioni e le caratteristiche e in che modo questa
possa favorire la Crescita Post Traumatica.
Dopo avere specificato le dimensioni che caratterizzano la
Crescita Post Traumatica appare ancora più evidente quanto
ampiamente l’opera di Frankl possa essere considerata il più
solido fondamento teorico per questo fenomeno: la radicale
presa di posizione contro i vari determinismi e l’altrettanto
radicale libertà riconosciuta alla persona spirituale sono alla
base, ritengo, non solo della resilienza, come hanno ampia-
mente dimostrato Bruzzone (2012) e Bellantoni (2011), ma
anche della capacità di trascendere il limite anche più estremo
attraverso un processo trasformativo. Nelle parole di Frankl:
La sofferenza può dunque, in prima istanza, essere una presta-
zione. E, purché sia autentica, è anche una crescita. Prendendo su
di me una sofferenza, accettandola in me, cresco e sperimento un
aumento di forza, arrivando a una specie di metabolismo. L’essenza
del metabolismo sta nella trasformazione della materia grezza in
forza. Sul piano umano si tratta della trasformazione di quel mate-
riale grezzo che è il destino: chi soffre non può più formare il suo
destino dall’esterno, ma la sofferenza gli consente di dominare il
destino dall’interno, trasportandolo dal piano della fatticità a quello
dell’esistenzialità [...] Mentre trasporto il fatto a un livello superiore,
pongo anche me stesso e la mia propria esistenza su un gradino
superiore. Questo vuol dire crescere. (Frankl, 1998a, pp. 81-82).

La Logoterapia ci aiuta quindi a comprendere quale tipo


di percorso sia attuato dalle persone che hanno subito un
lutto e che riescono a non solo a recuperare il loro livello di
funzionamento precedente alla perdita, ma che arrivano a
un livello di funzionamento e di percezione di sé «migliore»;
tale comprensione è di fondamentale importanza ai fini della
promozione degli elementi che caratterizzano i lutti con esito
«positivo» e della prevenzione degli esiti patologici quali il Lutto
Traumatico o Complesso.
A questo scopo accenniamo agli aspetti essenziali di due
modelli attuali relativi all’elaborazione del lutto, che ritengo
molto congruenti con il pensiero di Frankl, per poi evidenziare
alcune linee guida per l’intervento intese a favorire esiti positivi
del processo.

93
Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

a 3.2. Cenno ai modelli di elaborazione del lutto: i modelli


tradizionali, il «Legame che Continua» e il «Modello
Duale»18
C’è stata una mole impressionante di studi, soprattutto a
partire dagli anni Ottanta-Novanta, che hanno indagato sul
processo di lutto con l’intento di chiarificare le caratteristiche
dei percorsi di lutto «normale» e «patologico» e approfondire la
comprensione dei processi di risoluzione del lutto attuati dalle
persone ben adattate. La conoscenza dei processi tipici delle
traiettorie adattive o, ancora meglio, del processo di Crescita
Post Traumatica fornisce elementi utili alla consulenza e alla
psicoterapia con le persone che non riescono a risolvere la loro
sofferenza (Klass et al., 1996; Stroebe et al., 2001).
Gli studiosi del processo psicologico del lutto evidenziano
come, oltre al dolore da affrontare e in qualche modo arrivare
a gestire, per le persone coinvolte in tale processo c’è da af-
frontare anche un cambiamento generale connesso alla perdita
delle persone significative. Riportiamo a questo proposito una
citazione di uno dei maggiori studiosi del lutto, Parkes (1996,
p. 90):
Quando qualcuno muore tutto un insieme di convinzioni
sul mondo, che basavano la loro validità sull’altra persona, ven-
gono improvvisamente rimesse in discussione. Modi di pensare
che sono stati costruiti lungo molti anni devono essere rivisti e
modificati, la visione che la persona ha del mondo deve cam-
biare… questo inevitabilmente comporta tempo e impegno.
Sull’esistenza di questo percorso di elaborazione tutti gli
studiosi del lutto sono d’accordo, e anche c’è pieno accordo che
in realtà si tratti di «percorsi», tanti quanti quelli che possiamo
immaginare rappresentati nelle traiettorie prima discusse.
Tuttavia i diversi modelli elaborati nel tempo per spiegare
questi percorsi differiscono tra loro a volte in modo anche estre-
mo; per semplificare richiameremo la distinzione di Hagman
(2001) tra modelli tradizionali (o «standard») e modelli attuali.
Fino a qualche anno fa gli psicologi e gli psicoterapeuti che
si occupano del lutto sia a livello teorico sia nella pratica clinica
facevano riferimento a una teoria dominante che deriva dalla
prima teoria importante sul lutto: quella elaborata da Freud
nel 1917.
Questo paragrafo è una parziale rielaborazione di De Luca (2006) e De Luca
18

(2010).

94
Maria Luisa De Luca – Dal Lutto Traumatico alla Crescita Post Traumatica nella prospettiva di Viktor Frankl

L’idea di base era questa: il processo sano di elaborazione


del lutto si conclude con un distacco dalla persona deceduta e a
con il re-investimento dell’energia libidica che era investita su
quella persona su altri «oggetti». Bisognava quindi aiutare la
persona a realizzare la realtà e la irreversibilità della perdita fino
a far trionfare il «principio di realtà» e investire emotivamente
su altre persone:
A proposito del lutto abbiamo scoperto che è necessario un
certo lasso di tempo affinché l’imperativo dell’esame di realtà possa
imporsi in tutto e per tutto; e che, quando quest’opera è terminata,
l’Io può ridisporre della libido liberatasi dall’oggetto perduto [...] Il
lutto ha uno scopo preciso: la sua funzione è quella di distaccare le
memorie del sopravvissuto e le speranze dal morto. (Freud, 1976,
p. 136, ed. or. 1917)

Anche approcci molto lontani da quello freudiano classico


proponevano qualcosa di sostanzialmente simile: ad esempio
le tecniche gestaltiche per «dare l’addio» definitivo alla persona
scomparsa, chiudere gli «affari in sospeso» esprimendo tutti
i sentimenti positivi e negativi avuti verso la persona e poi
«lasciarla andare» e, come trionfalmente dicevano gli studiosi
statunitensi, «andare avanti con la propria vita» (Goulding e
Goulding, 1983).
Persino Bowlby, il creatore della teoria dell’attaccamento,
che dà un ruolo fondamentale al legame interpersonale, par-
ticolarmente al legame genitore/bambino, in una prima fase
della sua teoria sull’attaccamento e la perdita parlava di uno
«scioglimento del legame» come punto di arrivo del processo
di separazione in generale e lutto in particolare. Bowlby ha
significativamente rivisto questa posizione nel lavoro sull’at-
taccamento e perdita del 1980, dove dice, parlando dei vedovi:
Sembra probabile che per molte vedovi e vedove, proprio per il
fatto che vogliono mantenere i loro sentimenti di attaccamento al
coniuge scomparso, mantengono il loro senso di identità e diventano
capaci di riorganizzare le loro vite in modo significativo. Durante
i mesi e gli anni che seguono egli sarà probabilmente in grado di
riorganizzare la vita daccapo, fortificato forse da un senso costante
che la persona perduta continua ad avere una presenza benevola.
(Bowlby, 1980, p. 243)

Con questo cambiamento di prospettiva Bowlby si differen-


zia dai modelli tradizionali, basati sulla dissoluzione del lega-
me, e si colloca tra i modelli attuali che considerano in modo
completamente diverso il processo di elaborazione del lutto.

95
Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

a In anni recenti alcuni studiosi hanno scoperto con sorpresa


che le persone normali, con un’elaborazione soddisfacente del
lutto, mantenevano una forma di legame con la persona perdu-
ta e che questo mantenimento è spesso positivo per la ripresa
di una vita significativa. Questo cambiamento di prospettiva
è molto importante e pieno di conseguenze riguardo a quello
che noi psicologi pensiamo di dover fare per aiutare le persone
in lutto: è molto diverso pensare che bisogna arrivare al punto
in cui la persona a lutto interrompa il legame con chi non
c’è più o che un buon punto di arrivo sia una qualche forma
di mantenimento di questo legame, sia pure trasformato. Il
punto fondamentale che i modelli attuali contestano a quelli
tradizionali è che il «disinvestimento», o scioglimento del le-
game, sia la meta dell’elaborazione del lutto (Klass, Silverman
e Nickman, 1996).
Può essere interessante notare come una delle espressioni
più chiare che convalidano questa nuova comprensione del
lutto provenga proprio da Freud: negli scritti nei quali parla
dei propri lutti contraddice nettamente ciò che ha sostenuto a
livello teorico. Ad esempio, in una lettera che scrive a Ludwig
Binswanger, che aveva appena perso un figlio, si esprime così,
riferendosi alla perdita della propria figlia, avvenuta nove anni
prima:
Sebbene sappiamo che dopo una tale perdita lo stato acuto di
lutto si attenuerà, sappiamo anche che rimarremo inconsolabili e che
non troveremo mai un sostituto. Non importa cosa possa riempire il
vuoto, anche se fosse riempito completamente, nondimeno rimarrà
qualcos’altro. Ed è proprio così che deve essere. È il solo modo per
perpetuare quell’amore che non vogliamo abbandonare. (Freud,
cit. in Klass, Silverman e Nickman, 1996, p. 6)

Dennis Klass è uno degli studiosi maggiormente rappresen-


tativi dei nuovi modelli; egli, con altri collaboratori, ha curato
nel 1996 un testo fondamentale: I legami che continuano (Con-
tinuing Bonds). In uno studio successivo (Klass & Walter, 2001)
ha identificato quattro modalità definite «non patologiche»
di mantenimento del legame con le persone scomparse che si
possono comunemente riscontrare nella cultura occidentale
attuale:19 a) «Sentire la presenza» della persona scomparsa; b)
È importante tenere presente che vi sono molti esempi di forme di mantenimento
19

del legame in altre culture e nella cultura occidentale stessa in epoche diverse,
incluse le forme proposte dalla tradizione cattolica (Ariès, 1980; Klass, Silverman
e Nickman, 1996).

96
Maria Luisa De Luca – Dal Lutto Traumatico alla Crescita Post Traumatica nella prospettiva di Viktor Frankl

Parlare con la persona scomparsa; c) Vivere lo scomparso come


guida morale; d) Parlare della persona scomparsa. Illustriamo a
brevemente le caratteristiche di queste quattro forme di legame.
a) «Sentire la presenza» della persona scomparsa. Molte per-
sone riferiscono questa sensazione senza che essa sia etichet-
tabile come patologica o allucinatoria, e dagli studi condotti
risulta un fenomeno sperimentato da persone normali, in
stato di veglia; risulta anche che il 75% circa di queste persone
non hanno mai parlato di questa esperienza con nessuno. La
maggioranza delle persone studiate parla dell’esperienza come
confortante, che tende a diminuire con il tempo, ma sono stati
riportati moltissimi esempi di persone decedute «sentite» in
un ruolo di conforto anche decenni dopo la loro scomparsa
da soggetti ben adattati.
Gli studiosi della teoria dell’attaccamento (Bowlby, Par-
kes) hanno applicato al lutto gli stadi di risposta alla perdita
che sono stati osservati nei bambini piccoli
separati dalle madri per lungo tempo (ad
es. ospedalizzazione senza visite). Gli stadi Dialogo
che si riscontrano solitamente (anche se non fruttuoso tra
sempre in questo ordine e a volte sovrap-
ponendosi l’uno all’altro) sono: 1. Torpore:
psicologia e
calma apparente risultante dalla soppressione discipline
delle emozioni dolorose o anche di aspetti dfdd
della realtà; 2. Struggimento, ricerca, collera: dkfjdkf
irrequietezza, girovagare, come sperando che
la persona perduta appaia di nuovo; collera
dfjkdfd
rivolta a chiunque, incluso il morto, possa
essere visto come responsabile della perdita;
3. e 4. Disorganizzazione, disperazione e riorganizzazione: le
aspettative, i rituali e abitudini di vita vengono stravolti dalla
perdita e vissuti come una disorganizzazione anche interiore, la
disperazione è la conseguenza dello stravolgimento del mondo
interno ed esterno e il suo superamento è legato al ripristino
di attaccamenti sicuri (Holmes, 1994)
Il «sentire la presenza» è stato interpretato dai teorici dell’at-
taccamento come un’equivalente del comportamento di ricerca,
ma questo parallelismo è stato contestato da altri studiosi, in
quanto questo senso di presenza non parte dal vivente, non
corrisponde al comportamento di ricerca finalizzato, e non
è insolito che si manifesti anche molti anni dopo la perdita,
quando la persona ha raggiunto un buon adattamento.

97
Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

a b) Parlare con la persona scomparsa. La relazione tra due per-


sone viventi si esplica attraverso il contatto fisico e attraverso
la conversazione quotidiana; infatti, oltre al senso di presenza
viene comunemente riscontrata la presenza di una conversazi-
one con la persona scomparsa e sulla persona scomparsa (ad
esempio alcune persone parlano alla foto del proprio caro;
anche in molti film si vedono conversazioni con la foto o con
la foto sulla lapide al cimitero). In queste conversazioni si
condividono pensieri, sentimenti, preoccupazioni o si informa
la persona scomparsa di eventi nuovi avvenuti in famiglia.
c) Vivere lo scomparso come guida morale. In culture come
quella giapponese gli antenati svolgono chiaramente questo
ruolo di guida morale, ma anche in studi condotti su studenti
universitari americani si è riscontrata questa forma di risoluzi-
one del lutto con lo sviluppo di una rappresentazione interna
della persona scomparsa che svolge quattro funzioni:
– Modello di ruolo. Ad esempio: «Lo ricordo come un padre
ideale, qualcuno che vorrei imitare quando sarò genitore».
– Guida in situazioni specifiche. Ad esempio: «Quando devo
prendere decisioni importanti mi chiedo: “Cosa farebbe lei?
Lei è sempre nei miei pensieri e cerco di costruire la mia vita
nel modo che lei avrebbe voluto”».
– Chiarificazione dei valori. Adottare una posizione morale
identificata con quella dello scomparso: «Pensando a lui (un
fratello con disabilità mentale) mi rende più grato del fatto
che sono vivo. Ha reso me e la mia famiglia più attenti e
sensibili verso tutte le persone non privilegiate».
– Formazione di memorie. Ciò avviene attraverso l’identificare
la persona scomparsa come una parte importante della bio-
grafia del vivente e ricevere conforto da questo processo. Ad
esempio, nei gruppi di autoaiuto tra genitori che hanno perso
i figli, molto diffusi negli USA, la rappresentazione interna
del bambino perduto fornisce norme comportamentali che
mettono il genitore in contatto con le parti migliori di sé. In
questi casi il coordinatore del gruppo può chiedere al genitore
che conduce l’incontro: «Quale ruolo ha il tuo bambino
nella tua decisione di condurre questo incontro oggi?». La
madre risponde che sua figlia era nota come persona sempre
disponibile ad aiutare gli amici in difficoltà. Quindi essere
la conduttrice di quel gruppo per genitori in lutto era il suo
modo per continuare a essere il tipo di persona che la figlia
era.

98
Maria Luisa De Luca – Dal Lutto Traumatico alla Crescita Post Traumatica nella prospettiva di Viktor Frankl

d) Parlare della persona scomparsa. Uno dei modi più im-


portanti attraverso cui lo scomparso può diventare una parte a
importante della propria biografia è il parlare con gli altri della
persona che non c’è più. Questo può essere particolarmente
importante per alcuni tipi di relazione. Ad esempio, un padre
passò molto tempo a parlare con gli amici del figlio dicianno-
venne per completare la comprensione della personalità e della
vita di suo figlio raccogliendo i tasselli mancanti. C’è spesso
l’esigenza di raccogliere dati per scrivere gli ultimi capitoli della
vita della persona a cui si è legati. Ad esempio parlare con i
medici e gli infermieri per sapere come sono stati gli ultimi
minuti o ore di vita. Ricostruire una narrazione della vita
della persona scomparsa può essere una tappa fondamentale
per elaborare poi la narrazione della propria vita e del ruolo
che in essa ha avuto la persona scomparsa. Nella cultura rurale
c’erano molte opportunità di svolgere questo tipo di conver-
sazioni; la perdita era vissuta meno come fatto individuale o
limitato alla famiglia e più come perdita di un membro della
comunità allargata. Oggi nelle città diventa difficile, sia per il
contesto culturale «tanatofobico» descritto da Ariès (1980), sia
perché la vita urbana attuale si svolge a compartimenti stagni:
i colleghi non conoscono i familiari, il gruppo sportivo non
conosce gli altri amici, ecc.
Queste sono quindi alcune forme di elaborazione del lutto
riconosciute oggi come adattive e che non prevedono che si
debba tagliare il legame con le persone scomparse, ma che
anzi tale legame possa svolgere un ruolo importante per dare
un nuovo, e spesso più profondo significato alla propria vita.
A questo punto può essere illuminante tornare al pensiero di
Frankl che ha descritto il fenomeno del «legame che continua»
nella sua essenza:
Il lutto per una persona che abbiamo amata e che abbiamo
persa in un certo senso ne continua la vita [...]. L’oggetto del nostro
affetto — che obiettivamente nel tempo empirico è andato perduto
— viene conservato in noi, perché nel nostro tempo interiore il lutto
lo rende presente. (Frankl, 1982, pp. 142-143) #manca
I cervelli non si sgelano ancora, i compagni tacciono: il mio
spirito è preso ancora dall’immagine della persona amata. Io parlo
con lei, lei parla con me. In quell’attimo mi turba un pensiero: non
so affatto se mia moglie vive! E capisco una cosa — l’ho imparata
in questo momento: l’amore non si riferisce affatto all’esistenza
corporea di una persona, ma intende con profondità straordinaria

99
Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

a l’essere spirituale della creatura umana: il suo «essere così» (come


dicono i filosofi). Sono del tutto fuori causa la sua «esistenza», il suo
essere-qui-con-me, perfino la sua vita fisica, il suo essere-in-vita. Se la
persona amata sia viva o no, io lo ignoro [...] ma in questo momento
ciò non ha alcuna importanza. Che la persona amata sia viva o no,
non ho quasi bisogno di saperlo: tutto questo non riguarda il mio
amore, il mio pensiero amoroso, la contemplazione amorosa della
sua immagine spirituale. Se avessi saputo che mia moglie era morta,
credo che questa consapevolezza non m’avrebbe affatto turbato: avrei
continuato nell’amorosa contemplazione, i miei dialoghi spirituali
sarebbero stati ugualmente intensi, m’avrebbero dato la stessa pie-
nezza. In quell’attimo scoprii la verità di quelle parole del Cantico
dei cantici: «Mettimi come sigillo sopra il tuo cuore [...]. Poiché
forte come la morte è l’amore» (VIII, 6). (Frankl, 1998b, pp. 75-76)

La continuità del legame con l’altro, la consapevolezza della


vita (propria e altrui) come compito da realizzare al di là della
morte fisica fanno da sfondo a diversi casi clinici presentati da
Frankl nei suoi scritti e ritengo che un’analisi maggiormente
approfondita porterebbe alla luce non solo la congruenza tra
la prospettiva della Logoterapia e il modello del «Legame che
Continua», ma anche una sua organica anticipazione nell’opera
di Frankl.
L’ultimo modello al quale accenniamo è il «Modello Duale».
Prendere in considerazione le varie forme di mantenimento
del legame presuppone un modo di guardare al processo di
lutto che prescinde dal modello per stadi, ormai diffuso anche
a livello popolare. Soprattutto i modelli tradizionali hanno
cercato di identificare una sequenza di stadi di elaborazione
del lutto, applicando ad esso stadi identificati in ambiti solo
in parte sovrapponibili, come quelli di risposta alla separazio-
ne da parte del bambino piccolo (Bowlby, 1980) menzionati
precedentemente, o quelli attraversati nel processo del morire
(Kubler-Ross, 1976). I modelli attuali preferiscono parlare
di percorsi individuali e riscontrano una tale variabilità che
ritengono di scarsa utilità il fare riferimento a una sequenza
standard.
Nei modelli attuali si dà dunque minore importanza agli
stadi, alle fasi o ai compiti del lutto, ma si cerca di studiare
quali sono i percorsi che permettono un buon «fronteggiamen-
to» (coping) della perdita. Uno dei modelli più interessanti è
quello elaborato da Margaret Stroebe e coll. (Stroebe e Shut,
2001; Stroebe et al., 2001), denominato «Modello Duale».
Esso vuole fornire una cornice teorica utile alla comprensione

100
Maria Luisa De Luca – Dal Lutto Traumatico alla Crescita Post Traumatica nella prospettiva di Viktor Frankl

del processo di adattamento alla perdita. In sintesi, la persona


in lutto si impegna in un processo di coping nel quale entrano a
due elementi fondamentali:
1. «Orientamento alla perdita»: concentrazione sugli aspetti
della perdita (piangere per la perdita, struggimento per la
persona perduta, fissare le sue fotografie).
2. «Orientamento alla ricostruzione»: concentrazione sugli
stressor secondari conseguenti al lutto; ad esempio, gestire i
compiti lasciati in sospeso dalla persona scomparsa, affron-
tare gli aspetti concreti per riorganizzare la vita, sviluppare
nuove identità (vedovo, orfano).
Entrambi sono fonti di stress e sono associati con disagio e
ansia; sono coinvolti nel processo di coping in quantità variabili
a seconda degli individui e delle culture. Il processo di coping è
dinamico e presenta un meccanismo regolatorio di «oscillazio-
ne»: la persona in lutto passerà alternativamente tra il coping
orientato alla perdita e il coping orientato alla ricostruzione; a
volte affronterà gli aspetti legati alla perdita e a volte li eviterà
(idem per la ricostruzione).
L’oscillazione tra i due tipi di stressor è necessaria per il
coping adattivo. La persona alternerà atteggiamenti orientati
alla perdita, atteggiamenti orientati alla ricostruzione e anche
atteggiamenti di non-fronteggiamento (ad esempio il distrarsi
completamente, fare cose completamente scollegate) a seconda
delle sue risorse interne ed esterne.20
La letteratura attuale sul lutto descrive tra le risorse interne
la spiritualità, o comunque la presenza di una fede religiosa,
e tra le risorse esterne l’appartenenza a una comunità con la
quale condividere la perdita e dalla quale ricevere sostegno al
fine di completare il processo di coping con l’elaborazione di
un significato che renda accettabile la perdita. Un importante
testo curato da Neimeyer (2001), intitolato Ricostruzione del
significato e l’esperienza della perdita, raccoglie molti contributi
che permettono di creare un ponte tra i modelli attuali del lutto
brevemente discussi e il processo di Crescita Post Traumatica;
viene citato anche Frankl, come esempio di un modello che
assegna alla ricerca del significato idiosincratico della perdita
un ruolo centrale nell’elaborazione del lutto. La prospettiva
20
Gli autori elaborano ulteriormente il modello in modo da focalizzare gli aspetti
positivi di questo complesso processo e quelli che possono dare adito a processi
di tipo patologico (Stroebe e Schut, 2001; Stroebe et al., 2001).

101
Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

a frankliana, infatti, in linea con il «Modello Duale», traccia


un percorso unico e irripetibile per ogni individuo, piuttosto
che «tappe» o contenuti predefiniti: per Frankl ognuno deve
trovare il senso della morte che sta elaborando e derivarne i
propri «compiti» unici; in linea con la visione di Frankl e dei
contributi di Neimeyer il modello considera il lutto come un
«processo nel quale idiosincraticamente ci sforziamo di rico-
struire un mondo di significato e di recuperare coerenza nella
narrazione delle nostre vite» (Stroebe e Schut, 2001, p. 69).
È anche importante ricordare brevemente altre variabili che
intervengono nel mediare il tipo di traiettoria che l’individuo
che elabora un lutto potrà seguire.
Molti studi hanno evidenziato il ruolo protettivo dell’attac-
camento sicuro (Mikulincer e Shaver, 2007; De Luca, 2003)
nel fronteggiamento efficace di eventi potenzialmente trauma-
tici. Le persone resilienti sono anche caratterizzate da ciò che
è stato definito Hardiness (Robustezza), che
consiste di tre dimensioni: l’essere impegnati
nel trovare uno scopo significativo nella vita;
la convinzione di poter influenzare l’ambiente
che ci circonda e il risultato finale degli eventi;
la convinzione di poter imparare e crescere sia
dalle esperienze positive sia da quelle negative.
Attraverso la presenza di queste caratteristi-
che, i resilienti riescono ad abbassare l’impatto
degli eventi stressanti e sono capaci di utiliz-
zare un coping attivo e il sostegno sociale. Le
persone con attaccamento sicuro sono infatti
in grado di avvicinarsi e utilizzare il contatto
e il sostegno sociale anche di fronte a minacce di morte o al
pensiero della morte, sono in grado (Mikulicer e Shaver, 2007)
di trasformare la minaccia della morte in occasione di crescita
e di aiuto verso gli altri; diventano quindi opportunità per
stabilire solidi legami di appoggio reciproco.
L’attaccamento sicuro allora diventa «strumento per trascen-
dere se stessi», un elemento essenziale alla base della Crescita
Post Traumatica.
Molte ricerche hanno dimostrato come invece persone con
attaccamento insicuro abbiano notevoli difficoltà nel fronteg-
giamento di lutti e traumi inclusa la malattia grave. Un’im-
portante rassegna della ricerca svolta negli ultimi decenni sulla
crescita post-traumatica dopo il cancro (Stanton et al., 2006)

102
Maria Luisa De Luca – Dal Lutto Traumatico alla Crescita Post Traumatica nella prospettiva di Viktor Frankl

documenta una prevalenza sovrapponibile alla percentuale


di popolazione con attaccamento sicuro. Numerose ricerche a
su adolescenti e adulti sopravvissuti al cancro nell’infanzia
riportano dati relativi a crescita post-traumatica che vanno
dal 60 al 95%.
Concludendo questa breve presentazione dei modelli di
elaborazione del lutto, possiamo evidenziare come dal Modello
Duale sappiamo che, in modo che ritengo perfettamente con-
gruente con la prospettiva frankliana, le persone in lutto hanno
bisogno di «fare la spola» in modo del tutto idiosincratico tra
«perdita» e «ricostruzione» e che dal «Legame che Continua»
sappiamo che la meta del lavoro non è separarsi dalla persona
perduta ma ristrutturare in nuove forme il legame.
Possiamo dunque evidenziare come nel processo di Crescita
Post Traumatica in seguito a lutto sia importante accettare che
coesistono crescita, sofferenza, trasformazione positiva e dolore.
Quest’ultimo, come ben esplicitato dalla Logoterapia, può anzi
essere il «motore» della crescita (come mostra la traiettoria del
Recupero):
L’uomo ha diritto a soffrire il suo proprio dolore. Il presupposto ne-
cessario è che tale dolore sia effettivamente «suo proprio» e, quindi,
vada sopportato esistenzialmente e con senso. (Frankl, 1998a, p. 25)
La lotta per la vita ci tiene in «tensione», poiché il senso della
vita stessa dipende dalla possibilità di adempiere i compiti che ci
vengono richiesti [...] La sofferenza procura quindi una tensione
fruttuosa, quasi rivoluzionaria, in quanto fa percepire all’uomo ciò
che come tale non dovrebbe essere. (Frankl, 1982, pp. 142-143)

Adottare questa prospettiva implica abbandonare visioni


lineari o stadiali del lutto, l’idea che «crescita» sia uguale a «più
felicità» (Tedeschi e Calhoun, 2007) e tenere presenti le risorse
esistenti nell’individuo (ad esempio l’attaccamento sicuro) e
nell’ambiente relazionale che possono favorire o ostacolare il
complesso processo di rielaborazione della perdita preceden-
temente descritto.

4. Alcune linee guida per l’intervento


Dalla breve carrellata sui due modelli di elaborazione del
lutto maggiormente studiati nella letteratura recente, il «Mo-
dello Duale» e il «Legame che continua», abbiamo evidenziato

103
Ricerca di senso Vol. 12, n. 1, febbraio 2014

a elementi importanti che caratterizzano il processo di normale


elaborazione della perdita. Le persone dotate di buone risorse
e fattori protettivi sono in grado di attraversare il processo di
lutto con un grado di disagio non invalidante.
Altre persone, dotate di minori risorse interne e inter-
personali, rappresentano la popolazione a rischio per lo svi-
luppo di una forma di risposta di Lutto Traumatico che può
comprometterne gravemente la salute fisica e mentale, come
abbiamo visto discutendo della nuova categoria denominata
Lutto Complesso.
Accogliendo la traiettoria idiosincratica tra lavoro sulla
perdita e lavoro sulla ricostruzione (Stroebe et al., 2001), il
consulente o il terapeuta che accompagna la persona in lutto
crea le condizioni più favorevoli al processo di mantenimento,
ristrutturazione e ricollocazione del legame con il defunto che
la persona desidera e che ha le maggiori possibilità di essere
adattivo e corrispondere al proprio «compito» personale di
dare senso alla perdita subita (Klass e Walter,
2001; Frankl, 1998a). Una meta ancora più
ambiziosa è quella di favorire l’esito, definito
Crescita Post Traumatica, nel quale la persona
che subisce un lutto riesce ad arricchire le
proprie risorse interne ed esterne e la propria
complessità attraverso la sofferenza, facen-
done il motore della propria trasformazione
positiva (Frankl, 1998a).
Per poter realizzare questi obiettivi, Cal-
houn e Tedeschi (2006a) sostengono che
chi lavora con persone in lutto debba porsi
nel ruolo di essere un «expert companion»
(accompagnatore esperto), ponendosi come facilitatore della
Crescita Post Traumatica più che come un leader ed essendo
disponibile ad accogliere il proprio processo di cambiamento
che può facilmente avviarsi nell’incontro con una persona che
affronta un trauma. È anche importante che in qualità di «ac-
compagnatore» non si aspetti che si verifichi necessariamente
una Crescita Post Traumatica, ma sia in grado di accogliere e
accompagnare, appunto, il percorso individuale possibile nel
caso specifico.
Egli dovrebbe, tenendo presenti elementi presenti nel
Modello Duale: rispettare l’orizzonte culturale del cliente
utilizzandone le risorse; contenere il grande disagio emotivo;

104
Maria Luisa De Luca – Dal Lutto Traumatico alla Crescita Post Traumatica nella prospettiva di Viktor Frankl

aiutare a rivedere quali scopi lasciare andare e rielaborare una


nuova narrazione della propria vita; tollerare il lento processo a
di revisione del mondo di convinzioni (assumptive world);
costruire una nuova versione di sé e della vita che sia «acco-
modata» alla perdita; affrontare le difficoltà di riadattamento
che ne conseguono.
Gli atteggiamenti caratterizzanti di questa forma di sostegno
«esperto» e che possono favorire la Crescita Post Traumatica
sono (Tedeschi e Calhoun, 2007):
– dare un messaggio di fiducia nella capacità del cliente di
trovare la strada nel «viaggio individuale» del lutto; come
specificato dai modelli del lutto contemporanei, non esisto-
no fasi o tappe sequenziali, e la persona accompagnata deve
sentirsi validata nella propria esperienza e da questo può
riuscire a costruire un senso di forza personale nonostante
il dolore;
– modellare e nutrire lo sviluppo di relazioni più intime con
gli altri attraverso l’ascolto non giudicante, l’esplorazione
dei sentimenti, la costruzione di fiducia che permetta di
esplorare anche le emozioni più dolorose;
– essere aperti alle domande di senso, alle questioni spirituali,
ai dilemmi esistenziali senza pregiudizi o «soluzioni» pronte,
in modo da favorire la crescita spirituale personale;
– aiutare ad accettare e favorire le trasformazioni positive in
un lento processo nel quale viene valorizzata la sofferenza e
la possibilità che da essa emergano anche nuove possibilità
e una nuova capacità di apprezzare la vita.
L’«accompagnatore esperto», tenendo conto di quanto è
emerso dagli studi sul «Legame che continua», dovrebbe anche
aiutare a riconoscere che i cambiamenti positivi che nel tempo
seguono la perdita possono essere visti come un modo per
onorare la persona amata; portare avanti un nuovo progetto
che si era sognato o condiviso è contemporaneamente un
modo di mantenere e far evolvere il legame con la persona cara
e anche intraprendere nuove attività, esplorare nuovi ambiti
e raggiungere nuove mete. In questo modo la persona che sta
affrontando il suo lutto può rendersi conto che il ricordo non
è sterile, ma diventa parte della crescita in forme inaspettate.
Questo orientamento all’intervento, o meglio all’accompa-
gnamento ad attraversare il dolore apprezzandone la forza
trasformativa, trova, ancora una volta, piena espressione nelle
parole di Frankl:

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a Tra i compiti dell’attività clinica c’è indubbiamente anche quello


di liberare dalle sofferenze. Tuttavia non va liberato un individuo
dalle sue infermità a rischio di abbandonarlo in balìa di se stesso.
Eppure, a questo si giunge volendo risparmiare qualsiasi situazione
spiacevole, combattendo incondizionatamente ogni sofferenza,
inclusa quella che cela un tormento esistenziale colmo di senso.
(Frankl, 1998a, p. 25)

5. Conclusione
Il costrutto di Lutto Traumatico riveste un grande valore
clinico, in quanto permette di differenziare traiettorie di ela-
borazione del lutto sane e adattive da traiettorie patologiche
potenzialmente in grado di danneggiare gravemente la salute
mentale e fisica di chi le sperimenta. Sarà probabilmente utile
disporre di una specifica categoria diagnostica nel DSM-5 e
nell’IDC-11, quale quella che è stata denominata Disturbo
Correlato a Lutto Complesso Persistente, al fine di differenziare
il quadro clinico di un lutto cronico da un Disturbo Depres-
sivo Maggiore o da un Disturbo da Stress Post Traumatico.
Disporre di questo costrutto aiuterà i clinici a identificare con
maggiore chiarezza e in modo più tempestivo le traiettorie ad
alto rischio. La Logoterapia fornisce una cornice teorica che
permette di comprendere la profondità del disorientamento
che può cogliere le persone che per la prima volta, davanti alla
perdita, affrontano una domanda di senso, orientando il clinico
verso una lettura non meccanicistica del quadro sintomatico.
La conoscenza del concetto di Crescita Post Traumatica è
utile a dare nuove prospettive alle mete che è possibile raggiun-
gere lavorando con persone che soffrono per una perdita signi-
ficativa: i modelli contemporanei del lutto, il «Modello Duale»
e il modello del «Legame che continua», offrono indicazioni
importanti sui processi e le modalità che caratterizzano il lutto
normale e possono essere utilizzati per favorire esiti adattivi e
il processo di crescita personale, soprattutto se integrati con i
concetti e i processi terapeutici che Frankl ha profeticamente
descritto nell’intero arco della sua vita di psichiatra e uomo
terapeutico.

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