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R IVISTA
DI FILOSOFIA NEO-SCOLASTICA

IVISTA DI FILOSOFIA NEO-SCOLASTICA


4 Anno CXII
Ottobre-Dicembre 2020

R
Pubblicazioni dell’Università Cattolica
Anno CXII • Ottobre-Dicembre 2020

Largo Gemelli 1
20123 Milano

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R IVISTA
DI FILOSOFIA NEO-SCOLASTICA
A CURA DEL DIPARTIMENTO DI FILOSOFIA DELL’UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE

4 Anno CXII
Ottobre-Dicembre 2020
Pubblicazione trimestrale

Comitato di Direzione / Associated Editors


GIUSEPPE D’ANNA, ROBERTO DIODATO, MASSIMO MARASSI, ALESSIO MUSIO, ALESSANDRA PAPA,
ADRIANO PESSINA, SAVINA RAYNAUD, FRANCO RIVA, DARIO MARCO SACCHI

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© 2020 Vita e Pensiero - Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore


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ISBN: 978-88-343-4494-1
ISSN (carta): 00356247
ISSN (digitale): 18277926

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Registrazione del Tribunale di Milano 22 luglio 1948, n. 243

Copertina: Andrea Musso


Videoimpaginazione: Mattia Luigi Pozzi
Stampa: Litografia Solari, Peschiera Borromeo (Mi)

Finito di stampare nel mese di gennaio 2021

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Sommario

Metaphysica sic et non

Alberto Corti - Vincenzo Fano, La metafisica è morta!


Lunga vita alla metafisica! p.911

Ciro De Florio - Alessandro Giordani, Alcune ipotesi


p.943
sulla possibilità della metafisica

Paolo Pagani, La forma dell’élenchos


p.969

Arte e verità in Heidegger

Félix Duque, L’arte della verità.


Una possibile risposta alla domanda dell’essere p.995

Stefano Esengrini, Origine e verità dell’arte p.1017

Günter Seubold, Am Indifferenzpunkt der Kulturen.


Heideggers ur-sprüngliche Interpretation der ostasiatischen Kunst p.1035

Studi di storia della filosofia

Ivan Adriano Licciardi, Necessità e persuasione in Parmenide p.1051

Marcello Zanatta, Aristotele e la negazione dell’armonia


musicale celeste p.1075

Note e discussioni

Pierpaolo Ascari, Analogia e metafora nella metropoli di Simmel p.1091


910 sommario

Pio Colonnello, Rileggendo Eros e civiltà sessant’anni dopo.


Una breve Wirkungsgeschichte p.1101

Luca Grion, La buona circolarità di fede e ragione e ragione.


In memoria di Paolo Gregoretti p.1113

Silvia Pierosara, Semplificazione e narrazioni complesse


tra empatia e compassione p.1129

Analisi d’opere

A. Ales Bello (a cura di), Edith Stein. Tra passato e presente


p.1155
(C. Carbone)

R. Audi, Valore morale e multiculturalità (S. Biancu) p.1157

G. Catapano - O. Grassi (a cura di), Rappresentazioni della natura


nel Medioevo (G. Mandolino) p.1160

C. De Florio - A. Frigerio, Divine Omniscience and Human Free Will.


p.1163
A Logical and Metaphysical Analysis (D. Anzalone)

J. Derrida, Heidegger. La questione dell’essere e la storia.


Corso dell’ENS-ULM 1964-1965 (L. Azzariti-Fumaroli) p.1167

Duns Scoto, L’essere degli accidenti nell’Eucaristia (M. Mancinelli) p.1169

L. Fleck, Stili di pensiero.


La conoscenza scientifica come creazione sociale (R. Pozzo) p.1171

G. Frege, Logica, pensiero e linguaggio.


I fondamenti dell’aritmetica e altri scritti (E. Paganini) p.1172

L. Urbani Ulivi, The Systemic Turn in Human and Natural Sciences.


A Rock in the Pond (G. Lorini) p.1174

Libri ricevuti p.1179


Elenco referee
p.1181
Sommario generale dell’annata p.1183
Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, CXII (2020), 4, pp. 911-941
ISSN: 00356247 (print) - 18277926 (digital)
DOI: 10.26350/001050_000163

metaphysica sic et non

Alberto Corti* - Vincenzo Fano**


La metafisica è morta! Lunga vita alla metafisica!

Metaphysics is Dead! Long live, Metaphysics!

The aim of the paper is to address the main meta-metaphysical question i.e. whether is it possi-
ble to do metaphysics and, in the case of an affirmative answer, how should we do it? With such
an aim in mind, we will sketch the broad context in which these meta-metaphysical questions
arose in the philosophical literature (§ 1); then, we will present what we take to be the three
most widespread conceptions of metaphysics that are available in the analytic tradition: the
neo-Quinean (§ 2), metaphysics as the science of possibilities (§ 3) and metaphysics as the study
of the fundamental structures of reality (§ 4). Throughout these paragraphs we will criticize
these positions, before cashing out our proposal (§ 5). Our interpretation seems to be a species
of the recently proposed approach dubbed ‘naturalized metaphysics’; the difference that our
proposal has with similar understanding of metaphysics will be clear in the last section.
© Vita e Pensiero / Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore

Keywords: Analytic Philosophy, Meta-Metaphysics, Naturalized Metaphysics, Science and


Philosophy

1. Introduzione

Molti autorevoli filosofi, da Kant a van Fraassen, passando per Carnap e altri
ancora, hanno proclamato a più riprese la morte della metafisica1. Ci sono

*
Università degli Studi di Urbino Carlo Bo. Email: a.corti1@campus.uniurb.it
**
Università degli Studi di Urbino Carlo Bo. Email: vincenzo.fano@uniurb.it
Received: 20.07.2019; Approved: 12.08.2019; First published Online: 03.2020.
1
Cfr. L. Wittgenstein, Tractatus Logico-Philosophicus, §§ 6 e 7, tr. it. di A. Conte, Tratta-
to Logico-Filosofico, Einaudi, Torino, 2009; H. Reichenbach, The Rise of Scientific Philosophy,
University of California Press, Berkeley 1951; tr. it. di D. Parisi e A. Pasquinelli, La nascita del-
la filosofia scientifica, Il Mulino, Bologna 2002; A.J. Ayer, Language, Truth, and Logic, Dover
Publications, New York 1936; tr. it. di G.A. de Toni, Linguaggio, verità e logica, Feltrinelli, Mila-
no 1961; I. Kant, Kritik der reinen Vernunft (1781), tr. it. di P. Chiodi, Critica della ragion pura,
Utet, Torino 1967; B.C. van Fraassen, The Empirical Stance, Yale University Press, New Haven
912 alberto corti - vincenzo fano

almeno due ordini di ragioni per non considerare un tale dato storico come con-
clusivo. In primo luogo, i progetti filosofici portati avanti dai critici della metafi-
sica si sono rivelati, a posteriori, più fallimentari della metafisica stessa: si pensi
ad esempio al neo-positivismo logico o al neo-kantismo, che oggi ricoprono una
porzione esigua della letteratura se comparata a quella occupata dai metafisici.
Tale stato di cose dovrebbe essere quanto meno sufficiente per far sorgere il
sospetto sulle motivazioni che spingevano tali studiosi a criticare la metafisica
del loro tempo. In secondo luogo, le critiche poste in passato alla metafisica non
possono, oggi, essere riproposte acriticamente ai metafisici contemporanei; tale
disciplina è infatti ciclicamente rinata dalle sue ceneri modificandosi, riflettendo
e incorporando le sfide meta-filosofiche dei suoi detrattori.
Crediamo che la situazione contemporanea, per riassumere una storia decisa-
mente più complessa, sembra essere testimone della conclusione di uno di tali
cicli e, apparentemente, dell’inizio di uno nuovo. Il ciclo che si sta concludendo è
quello della metafisica analitica a priori, le cui origini vengono fatte risalire dalla
saggezza comune alla risposta di Quine2 a Carnap3, e la cui rinascita compiuta è
attribuita prevalentemente al lavoro di David Lewis4. Le fondamenta di tale filone
di ricerca sembrano essere state recentemente scosse da numerosi attacchi, tra i
quali quello di Ladyman e Ross è sicuramente il più rappresentativo5. Il fulcro
della loro critica è che la metafisica analitica, portando avanti un’indagine della
natura soprattutto a priori, è sprovvista di buoni criteri per determinare quali sia-
no le reali strutture metafisiche del mondo in cui abitiamo. Se la pars destruens
del loro lavoro consiste in una serrata argomentazione contro il metodo usato dai
metafisici contemporanei, la pars construens è dedicata a mostrare come, se i
metafisici incominciassero le proprie indagini a partire dalle migliori teorie scien-
tifiche di cui disponiamo, allora la metafisica potrebbe effettivamente svolgere
una funzione conoscitiva; Ladyman e Ross battezzano come «naturalizzato» tale
modo di fare metafisica. Queste riflessioni hanno dato luce a un complesso dibat-
tito6, incentrato su quale dovrebbe essere la relazione che unisce la metafisica alle
scienze empiriche; in altri termini, il cuore della discussione sta nella domanda

2002; R. Carnap, Empiricism, Semantics, and Ontology, «Revue Internationale de Philosophie», 4


(1950), 11, pp. 20-40; tr. it. di A. Pasquinelli, Empirismo, semantica e ontologia, in A. Pasquinelli (a
cura di), Il Neoempirismo, Utet, Torino, 1969, pp. 629-652.
2
Cfr. W.V. Quine, On Carnap’s Views on Ontology (1951), in Id., The Ways of Paradox and Other
Essays, Random House, New York 1966, pp. 126-134.
3
Cfr. Carnap, Empirismo, semantica e ontologia.
4
Cfr. D. Lewis, On the Plurality of Worlds, Wiley-Blackwell, Oxford 1986. Senza contare tan-
ti altri autori che hanno contribuito alla rinascita della metafisica analitica nella seconda metà del
Novecento, quali p. es. David Armstrong e Peter Simons.
5
J. Ladyman - D. Ross, Every Thing Must Go: Metaphysics Naturalized, Oxford University
Press, Oxford 2007.
6
Il cui culmine è stato raggiunto con la pubblicazione del volume D.J. Chalmers - D. Manley -
R. Wasserman (eds.), Metametaphysics: New Essays on the Foundations of Ontology, Oxford Uni-
versity Press, Oxford 2009.
la metafisica è morta! lunga vita alla metafisica! 913

«quanto va naturalizzata la metodologia della metafisica, affinché essa possa esse-


re considerata una forma di conoscenza (in modo paragonabile alle discipline che
riteniamo cognitivamente valide)?».
L’obiettivo del presente saggio è quello di articolare e difendere una particola-
re risposta a questo quesito; in quanto segue, illustreremo dapprincipio i tre pos-
sibili modi di intendere la relazione tra scienza e metafisica che si trovano più
comunemente nella letteratura contemporanea: la metafisica neo-quineana, l’idea
che la metafisica sia indipendente dalle scienze e la metafisica come «scienza del
possibile»; tali modi di concepire la metafisica risultano legati tra loro e, in alcuni
autori, assommati in un’unica prospettiva. In quanto segue, ognuna di queste tre
posizioni riceverà un’analisi separata, sia della concezione stessa, sia del supposto
rapporto che dovrebbe vigere al suo interno tra fisica e metafisica. Infine verrà
illustrata quella che sembra essere, da Ladyman e Ross in poi, la concezione di
metafisica, e del suo rapporto con le scienze empiriche, destinata a essere domi-
nante negli anni venturi: la metafisica naturalizzata7. In particolare esporremo la
nostra concezione di metafisica naturalizzata mettendo in luce come essa, pur con-
dividendo dei tratti con gli altri modi di intendere la metafisica, si discosti sostan-
zialmente sia da essi sia dall’interpretazione di Ladyman e Ross.
Prima di cominciare sembra doveroso fornire due precisazioni al lettore.
Innanzitutto va detto che la nostra classificazione non è, volutamente, storiogra-
ficamente accurata. Il nostro obiettivo infatti è quello di presentare quattro modi
assai generali di intendere la metafisica analitica contemporanea; tuttavia, tale rap-
presentazione non è in grado di dare sufficiente contezza del pensiero dei singoli
autori che si muovono ognuno nella propria specificità. Pertanto, l’attribuzione
da parte nostra di un particolare modo di intendere la metafisica a un determinato
autore non deve essere compresa come letterale: tale classificazione non viene
(nella maggior parte dei casi) da un puntuale riferimento ai suoi lavori, quanto
da una nostra lettura degli stessi, che ci fa pensare che egli si avvicini più a quel
modo di intendere la metafisica piuttosto che a un altro.
Bisogna sottolineare infine che la maggior parte dei partecipanti al dibattito
non crede che la metafisica, di per sé, sia impossibile. Chi crede questo solitamen-
te non si interessa a questioni meta-metafisiche (cioè che concernono la domanda
«è possibile fare della metafisica e, in caso di risposta affermativa, come?») ma
si dedica piuttosto a domande che ritiene più meritevoli di risposta8. In effetti
quello che si nota nella letteratura sulla meta-metafisica è una sorta di divisio-
ne a compartimenti stagni, del tipo descritto da Chalmers per quanto riguarda
la fondazione dell’ontologia9: «È naturale supporre che in questa disciplina vi

7
«Metafisica naturalizzata» e «metafisica della scienza» verranno usati, nel presente articolo,
come sinonimi.
8
P. es. tale posizione viene sostenuta in van Fraassen, The Empirical Stance.
9
Tradizionalmente si distingueva tra ontologia come teoria generale delle categorie e metafisica
come teoria delle diverse forme di realtà; p. es. in C. Wolff, Discursus praeliminaris de philosophia
914 alberto corti - vincenzo fano

sia al lavoro una sorta di effetto selettivo: quelli che pensano che le domande
ontologiche siano domande profonde con risposte determinate sono più propensi
all’ontologia rispetto a coloro che credono che tali domande siano superficiali o
manchino di risposte determinate»10. Dal momento che chi pensa che la metafi-
sica sia impossibile raramente dedica il proprio lavoro a spiegare le ragioni di
tale credenza, la letteratura analitica anti-metafisica è piuttosto rara. Pertanto, in
quanto segue, assumeremo che le domande metafisiche (almeno alcune) possa-
no avere una risposta e procederemo come coloro che, come Ladyman e Ross,
seppur critici rispetto alla metafisica contemporanea, credono che ci sia un modo
sensato di intendere tale disciplina11.

2. Metafisica neo-quineana, ovvero l’ancella delle scienze


Solitamente viene fatto risalire a Quine il framework concettuale all’interno del
quale la maggior parte della filosofia analitica contemporanea si riconosce12; in
particolare, viene attribuito a Quine il criterio meta-ontologico13 assunto dalla
maggior parte degli analitici contemporanei, comunemente riassunto nello slo-
gan: «to be is to be the value of a variable»14. Il motto quineano15 si basa sulla
modellazione del concetto di «esistenza» tramite il quantificatore esistenziale
(∃) della logica predicativa classica del primo ordine; questa regimentazione
di «esistenza» ha come risultato che, se vero, un enunciato del tipo «esiste un
numero primo»16, allora dobbiamo altresì ammettere l’esistenza dell’entità su
cui quantifichiamo (nell’esempio i numeri primi). Tale criterio permetterebbe di

in genere (1728), § 73. Nel dibattito contemporaneo invece l’ontologia è una sottospecie della meta-
fisica in senso tradizionale, ovvero quella parte della metafisica che si occupa di esistenza.
10
D.J. Chalmers, Ontological Anti-Realism, in Chalmers - Manley - Wasserman, Metame-
taphysics, pp. 77-129, qui p. 78.
11
L’approccio di Ladyman e Ross viene spesso letto come radicalmente anti-metafisico. In realtà
essi deducono dalla fisica una metafisica strutturalista, quindi questo non si può affermare. Tuttavia,
come vedremo, il nostro approccio è meno fisicalista del loro.
12
In modo particolare per W.V. Quine: cfr. W.V. Quine, From a Logical Point of View, Harvard
University Press, Cambridge (MA) 1953; tr. it. di P. Valore, Da un punto di vista logico, Raffaello
Cortina Editore, Milano 2004 e Id., On Carnap’s Views on Ontology.
13
Se la domanda principale dell’ontologia è «che cosa esiste?», la domanda fondamentale della
meta-ontologia è: «ci sono risposte oggettive a tale domanda?». Pertanto la meta-ontologia è quella
branca della filosofia che si interroga sulla possibilità stessa di fare ontologia.
14
W.V. Quine, On what there is (1948), tr. it di P. Valore, Che cosa c’è, in Id., Da un punto di
vista logico, pp. 13-33, qui p. 29.
15
Ricordiamo che l’analisi di Quine è una critica a Meinong, per cui l’esistenza linguistica-
mente non è un predicato ma un quantificatore. Perciò l’esistenza non è una proprietà ma una pro-
prietà attribuibile solo a qualcosa che ha altre proprietà. Per contro, nell’approccio meinonghiano,
ci sono oggetti che esistono e oggetti che non esistono, cioè l’esistenza è una proprietà direttamen-
te applicabile agli oggetti.
16
Che in logica predicativa del primo ordine si traduce con «∃x(Px)» (dove «P» sta per «essere
un numero primo»), e si legge «esiste almeno un x tale che x è un numero primo».
la metafisica è morta! lunga vita alla metafisica! 915

stabilire di quali entità si possa sensatamente discutere l’esistenza, senza però


fornire un utile strumento per comprendere quale ontologia, tra le possibili,
sia quella vera. Per quanto concerne quest’ultimo compito infatti ci si appella
comunemente a due possibilità, mutuamente non esclusive. La prima consiste
nel rimanere fedeli alla filosofia di Quine stesso17. Siccome «Quine insiste che
la filosofia non è separata dalla scienza – siamo tutti sulla stessa barca alla deri-
va»18, la prima possibilità è quella di impegnarsi ontologicamente solo su tutte
le entità la cui esistenza è indispensabile per le nostre migliori teorie scientifi-
che19. Tale criterio di impegno ontologico compare, ad esempio, come premes-
sa nel cosiddetto «argomento dell’indispensabilità di Quine-Putnam» a favore
dell’esistenza delle entità matematiche20; in quanto premessa dell’argomento, è
ragionevole credere che Quine non solo la accetti, ma che sarebbe stato dispo-
sto ad assumerla come criterio generale di scelta tra diverse ontologie; come
afferma infatti in On What There Is, «una teoria si impegna a riconoscere quelle
e solo quelle entità a cui devono potersi riferire le variabili vincolate perché le
affermazioni della teoria siano vere»21. Riassumendo, per stabilire verso quale
ontologia dobbiamo impegnarci bisogna «trovare il dominio di quantificazione
richiesto affinché un’adatta regimentazione della nostra migliore teoria risulti
vera. Gli elementi del dominio sono le entità postulate dalla migliore teoria, e
fintanto che accettiamo la teoria, queste sono le entità verso le quali siamo impe-
gnati. Questa è l’ontologia. Il resto è ideologia»22.
La seconda possibilità è quella di ricorrere alle cosiddette «virtù super-empiri-
che», ovvero a quei criteri usati dagli scienziati per decidere tra due teorie empirica-
mente equivalenti: semplicità, eleganza, risparmio concettuale, potere esplicativo,
ecc. Sebbene quest’ultima possibilità abbia una sua innegabile valenza pratica, non
è detto che sia una buona guida per fare ontologia, né tanto meno per fare metafisi-
ca. Come argomentato da Ladyman e Ross, le virtù super-empiriche non possono
essere un buon criterio per scoprire quale teoria, tra un insieme di possibili, sia
quella vera, dal momento che non vi è alcuna ragione a priori di pensare che il

17
Per un’elaborazione matura del suo pensiero, si veda p. es. W.V. Quine, Grammar, Truth, and
Logic, in S. Kanger - S. Öhman (eds.), Philosophy and Grammar, Reidel Dordrecht 1980, pp. 17-28.
18
H. Price, Metaphysics after Carnap: the Ghost who Walks?, in Chalmers - Manley - Wasser-
man, Metametaphysics, pp. 320-346, qui p. 337.
19
Quine presuppone una sorta di inferenza verso la miglior spiegazione, che giustifichi la cre-
denza che le nostre migliori teorie scientifiche di un dato fenomeno ci dicano (almeno parzialmente)
come siano fatti tali oggetti. In quanto segue, assumeremo la validità di tale inferenza.
20
Per un’introduzione sull’argomento, si veda p. es. M. Colyvan, Indispensability Arguments
in the Philosophy of Mathematics, in E.N. Zalta (ed.), The Stanford Encyclopedia of Philosophy
(Spring 2019 Edition), https://plato.stanford.edu/archives/spr2019/entries/mathphil-indis.
21
Quine, Che cosa c’è, p. 27.
22
J. Schaffer, On What Grounds What, in Chalmers - Manley - Wasserman, Metametaphysics,
pp. 347-383, qui p. 348. Sebbene la citazione riassuma succintamente e precisamente il criterio
neo-quineano, sembra giusto ricordare al lettore che Schaffer non accetta tale tipo di meta-metafisica.
916 alberto corti - vincenzo fano

mondo sia semplice, elegante e facile da spiegare23. Se scopo dell’ontologia è quel-


lo di stabilire che cosa esista davvero, si può aver ragione di dubitare che tali criteri
super-empirici siano ontologicamente (e metafisicamente) affidabili.
Pur accettando il criterio meta-ontologico quineano, crediamo che, così come
esposto e come viene abbracciato dalla maggior parte dei filosofi, esso presenti
alcune criticità. Ad esempio, non esistono ancora, anche all’interno di una sin-
gola scienza empirica come la fisica o la biologia, teorie complete, capaci di
spiegare ogni fenomeno di cui tale scienza dovrebbe occuparsi; piuttosto, gli
scienziati hanno a disposizione un insieme di teorie complesse e variegate, che
possono risultare in contrasto tra loro. Pertanto, il fatto che una teoria quantifi-
chi su un’entità non è sufficiente per motivarci a credere nella sua esistenza; è
necessario in egual misura che tale entità non confligga con l’esistenza di altre
entità scientifiche verso le quali siamo impegnati. Al criterio quineano va dunque
aggiunta una condizione di compatibilità. Inoltre si pensi a entità non osserva-
bili direttamente postulate dalle nostre migliori teorie scientifiche. Se si accetta
infatti un criterio empirista, per cui tutta l’informazione possibile viene acquisita
tramite i sensi, per impegnarsi all’esistenza di un’entità non osservabile bisogna
avere anche una buona spiegazione scientifica del perché essa non possa esse-
re percepita direttamente dagli esseri umani. In altri termini, appare essenzia-
le aggiungere al criterio quineano una sorta di «vincolo fenomenologico», che
imponga il confronto delle nostre migliori tesi scientifiche con le teorie della
percezione24. Parafrasando quanto detto sino a ora, a noi sembra che un modo
ragionevole di riformulare il dictum quineano sia il seguente.

Dobbiamo impegnarci sull’esistenza di Fx se e solo se l’enunciato «∃xFx»:


a) è derivabile dalle nostre migliori teorie scientifiche;
b) l’esistenza di un x che è F è compatibile con l’esistenza di altre entità su cui le
nostre migliori teorie scientifiche si impegnano;
c) se x è un termine teorico, abbiamo una buona spiegazione scientifica del per-
ché non percepiamo x 25.

La meta-ontologia quineana sopra tratteggiata è così radicata nella letteratura


analitica che un primo, «ora dominante»26, modo di intendere la metafisica, che

23
Cfr. Ladyman - Ross, Every Thing Must Go, pp. 17 ss., 81 ss.
24
Come argomentato p. es. da V. Fano - S. Matera, Realismo scientifico e vincolo fenomenologi-
co, in M. Cangiotti (a cura di), Quale realismo?, «Hermeneutica. Annuario di Filosofia e Teologia»,
n.s., Morcelliana, Brescia 2014, pp. 95-108.
25
O del perché la nostra percezione differisce dalla descrizione di x presente nella nostra miglio-
re teoria scientifica. Abbiamo introdotto quest’ultima condizione per rendere precisa l’istanza che
concerne l’importanza della percezione comune in metafisica, senza abbandonare il metodo scien-
tifico, mossa p. es. da L.A. Paul, Metaphysics as Modeling: the Handmaiden’s Tale, «Philosophical
Studies», 160 (2012), 1, pp. 1-29.
26
Schaffer, On What Grounds What, p. 347.
la metafisica è morta! lunga vita alla metafisica! 917

chiameremo «neo-quineana», consiste proprio nell’appiattire il ruolo della meta-


fisica su quello dell’ontologia. In altri termini il compito della metafisica stessa
consisterebbe nello stabilire unicamente che cosa esiste realmente27. L’idea di tali
filosofi è che lo scopo della metafisica sia quello di mettere a punto una sorta di
«catalogo universale», «un catalogo di tutto ciò che esiste ed è esistito, e anche di
ciò che forse potrà esistere in futuro»28.
Tale definizione di metafisica appare riduttiva per diverse ragioni.
Un primo motivo consiste nel fatto che molti metafisici contemporanei, pur
assumendo una meta-ontologia quineana, pensano che il ruolo della metafisica sia
molto più ampio29. La metafisica infatti non si occupa solo di quali entità esistono,
ma anche delle relazioni e delle strutture di cui tali entità sono parte: i metafisici
si interessano, ad esempio, della relazione che un’entità intesse con le sue parti, di
quale sia la connessione tra enunciati di un linguaggio e verità, e delle condizioni
per le quali un’entità conserva la propria identità nel tempo; infine alcuni autori
credono che la metafisica debba avere anche un ruolo esplicativo, riconducendo
l’esistenza di alcuni enti (o l’accadimento di eventi) a entità (o eventi o relazioni)
più semplici. Secondo tali autori esiste una forma di «spiegazione metafisica»,
completamente sui generis (in quanto non causale e non scientifica) di alcuni fat-
ti30.Il lavoro dei metafisici pertanto non dovrebbe limitarsi a elencare che cosa
esiste, ma consisterebbe anche nel fornire questo tipo di spiegazioni.
Una seconda motivazione per dubitare dell’approccio neo-quineano è ricon-
ducibile al criterio di impegno ontologico sopra menzionato (bisogna impegnarsi
ontologicamente solo su tutte le entità postulate dalle nostre migliori teorie scien-
tifiche). Appare indubitabile credere che quest’ultimo sia infatti una condizione
necessaria per prendere in considerazione l’esistenza di una data entità; crucial-
mente però, esso stesso non è di per sé condizione sufficiente per determinare che
cosa esiste, come abbiamo già evidenziato31.
Inoltre, come dimostrato dalla storia della scienza, le nostre teorie scientifiche
sono in continua evoluzione: l’ontologia delle passate teorie non di rado è stata
in parte sovvertita da teorie successive; questo fatto storico sembrerebbe forni-
re buone ragioni per credere che l’ontologia che possiamo ricavare dalle nostre
migliori teorie scientifiche contemporanee non si preserverà inalterata in futuro32.

27
Cfr. P. van Inwagen, Being, Existence and Ontological Commitment, in Chalmers - Manley -
Wasserman, Metametaphysics, pp. 472-506.
28
A.C. Varzi, Parole, oggetti, eventi e altri argomenti di metafisica, Carocci, Roma 2001.
29
Si veda p. es. la raccolta F. Correia - B. Schnieder (eds.), Metaphysical Grounding: Under-
standing the Structure of Reality, Cambride University Press, Cambridge 2012.
30
Cfr. G. Rosen, Metaphysical Dependence: Grounding and Reduction, in B. Hale - A.
Hoffmann (eds.), Modality: Metaphysics, Logic, and Epistemology, Oxford University Press,
Oxford 2010, pp. 109-136.
31
Cfr. V. Fano, Physics and Metaphysics, in P. Graziani - L. Guzzardi - M. Sangoi (eds.), Open
Problems in Philosophy of Science, College, London 2013, pp. 186-194.
32
Quello qui riproposto è il famoso argomento della «meta-induzione pessimista» originariamente
918 alberto corti - vincenzo fano

In altri termini, le teorie scientifiche sono la nostra migliore speranza per determi-
nare che cosa esiste, ma, data la limitatezza epistemica insita nello stesso progetto
scientifico, esse possono essere fallibili. La metafisica, come le scienze empiriche,
deve riconoscere allo stesso modo la propria fallibilità33. Spesso tale stato di cose
è stato dimenticato dagli autori contemporanei; in letteratura infatti non è raro
incontrare autori impegnati in tentativi disperati di salvare tesi metafisiche in netta
contrapposizione con la nostra migliore conoscenza scientifica34, rinnegando lo
stesso criterio quineano che implicitamente assumono35. Inoltre non va dimentica-
to che molte teorie scientifiche presentano formulazioni che, pur essendo matema-
ticamente equivalenti, sono ontologicamente differenti36. Per tale ordine di ragioni
non va dimenticato che l’ontologia non è dipendente solo dalla teoria scelta, ma
anche dalla sua formulazione matematica.
Vi è inoltre una terza motivazione per dubitare dell’appiattimento della meta-
fisica sull’ontologia, punto cardine della metafisica neo-quineana: il termine
chiave dell’ontologia, ovvero «esistenza», è un concetto metafisico. Ricondurre
quindi la metafisica all’ontologia sembra invertire indebitamente il ruolo che le
due discipline intessono. Sembra naturale infatti che sia la metafisica assunta a
condizionare il tipo di ontologia abbracciato, e non viceversa; come nota Fine,
«è plausibile che solo facendo metafisica, ovvero determinando come le cose
stanno nella realtà, saremo nella posizione di determinare quale dovrebbe essere
l’ontologia»37. Il termine «esistenza» infatti viene regimentato nella letteratura
analitica in almeno due modi differenti: attraverso il già citato quantificatore

formulato in L. Laudan, A Confutation of Convergent Realism, «Philosophy of Science», 48 (1981), 1,


pp. 19-49. Questo argomento contro il realismo scientifico si basa sui cambiamenti di ontologia che si
hanno passando da una vecchia teoria scientifica a una nuova. Dal momento che tale modo di intendere
la metafisica consiste in un appiattimento di quest’ultima sull’ontologia, a noi sembra che l’argomento
di Laudan possa essere utilizzato, in questo caso, anche contro la metafisica. Questo però non significa
che, accettato che la metafisica è fallibile, non ci siano antidoti a tale meta-induzione.
33
Un sostenitore di una metafisica indipendente dalla scienza potrebbe insistere che anche il suo
progetto metafisico è fallibile in quanto, come quello scientifico, ha una ineliminabile componente
storica. E quindi in fondo esso è un programma conoscitivamente valido. Come diremo in seguito, di
fatto, finora nessuna metafisica ha mai ottenuto una condivisione sufficientemente ampia, contraria-
mente invece a quanto accade nelle scienze empiriche e nella matematica.
34
P. es. postulando nuove strutture empiricamente opache o complicando in modo sproposi-
tato la teoria.
35
P. es. alcuni metafisici postulano l’esistenza di un «iper-tempo» (una seconda dimensione tem-
porale), per dare conto di una serie di fenomeni, tra i quali i viaggi nel tempo (per una discussione, si
veda p. es. S. Iaquinto - G. Torrengo, Filosofia del futuro, Raffaello Cortina, Milano 2018). Che il
tempo sia bidimensionale è, per il momento, una tesi non basata sulle attuali migliori teorie scientifi-
che. Dunque, una tesi del genere sarebbe legittima solo se si accetta che la metafisica sia giustificabi-
le indipendentemente dalle scienze empiriche.
36
P. es. la formulazione newtoniana della meccanica classica ha un andamento causale mentre la
formulazione lagrangiana segue un principio di minima azione.
37
K. Fine, The Question of Ontology, in Chalmers - Manley - Wasserman, Metametaphysics,
pp. 157-177, qui p. 172.
la metafisica è morta! lunga vita alla metafisica! 919

esistenziale del calcolo dei predicati del primo ordine e attraverso un predicato
nelle logiche libere38. Da un lato nel calcolo dei predicati «esistenza» è in un
certo senso un predicato di secondo ordine: esistenza è un predicato di concet-
ti (ovvero predicati di individui). Noi diciamo che un individuo esiste ma in
realtà stiamo dicendo che un certo concetto ha la proprietà di possedere istanze
(almeno una). Nelle logiche libere invece è l’esistenza stessa a essere una pro-
prietà. Credere nell’esistenza di determinate entità quindi presuppone una par-
ticolare nozione metafisica di «esistenza», e non viceversa. Pertanto non si può
fare ontologia senza metafisica. L’appiattimento della metafisica all’ontologia
perciò semplifica oltremodo la relazione tra queste due discipline che, seppur
profondamente legate, sono in ultima analisi diverse nello scopo e nell’oggetto
di indagine. In particolare, sembra che le strutture metafisiche siano condizione
necessaria per determinare che cosa esiste, e non viceversa.
Infine, bisogna ricordare che non è storicamente chiaro quanto Quine stesso
abbia abbracciato un tal modo di fare metafisica. Price ha mostrato che la già citata
diffusa credenza, che vuole la vittoria di Quine su Carnap responsabile della rina-
scita della metafisica, sia frutto di un errore interpretativo. Price argomenta che la
critica di Quine alle distinzioni di Carnap tra sintetico e analitico e tra domande
interne ed esterne a un framework non implica che il primo avrebbe accettato la
metafisica analitica a noi contemporanea39. Molti hanno creduto che le cose stes-
sero in questi termini, a partire da un famoso passo di Quine:
Le domande ontologiche finiscono per essere alla pari delle domande delle scienze natu-
rali. […] Carnap sostiene che le domande ontologiche […] sono domande non sui fatti ma
sulla scelta di uno schema o di un framework conveniente per la scienza; e su questo io
sono d’accordo solo se lo stesso è affermato di ogni ipotesi scientifica40.

Ma, come argomentato da Price, «questa suona come una buona notizia per
l’ontologia, ma in verità non lo è. […] perché se tutti i problemi sono alla fine
pragmatici, allora non può esserci un qualcosa di più-che-pragmatico del tipo
richiesto dalla metafisica»41. Quine, nella lettura di Price, lungi dal rigettare il
neo-positivismo di Carnap per tornare al tipo di metafisica rifiutato dagli empi-
risti logici, «si muove avanti, abbracciando un più esauriente pragmatismo
post-positivista. […] Quine semplicemente lo [Carnap] supera, spingendo avanti
nella stessa direzione»42.

38
Cfr. F. Berto, Existence as a Real Property, Springer, Heidelberg - New York - London 2012
(Synthese Library, 356).
39
Cfr. Price, Metaphysics after Carnap, pp. 320-346.
40
Quine, On Carnap’s Views on Ontology, p. 134.
41
Price, Metaphysics after Carnap, p. 326.
42
Ibi p. 327. Cfr. però N. Deng, What Quine (and Carnap) Might Say about Contemporary
Metaphysics of Time, in F. Janssen-Lauret (ed.), Quine, Structure, and Ontology, Oxford University
Press, Oxford (in stampa).
920 alberto corti - vincenzo fano

3. La scienza metafisica, ovvero lo studio del possibile


La prospettiva opposta all’impossibilità della metafisica è quella di coloro che
considerano tale disciplina come indipendente dalle altre branche del sapere;
tale indipendenza, non è solo metodologica, ma concerne anche l’oggetto di
studio della metafisica stessa. La metafisica così intesa avrebbe il compito di
determinare che cosa, a priori, potrebbe esistere, mentre le scienze empiriche
dovrebbero stabilire come sia costituito il mondo attuale43. Ma che cosa signifi-
ca che la metafisica studia che cosa «potrebbe esistere»? Disponiamo infatti di
diversi concetti di possibilità; in particolare, due tipi di possibilità ci sono abba-
stanza familiari: il primo è quello della possibilità nomologica, ovvero di ciò che
potrebbe esistere in accordo con le leggi di natura44. Ad esempio, la Casa Bianca
invece che a Washington potrebbe trovarsi a Dallas; in questo caso la possibilità
è di tipo nomologico, in quanto nessuna legge fisica impedisce che la Casa Bian-
ca sia a Dallas invece che a Washington. Al contrario l’esistenza di una sfera di
una tonnellata di uranio arricchito rappresenta una impossibilità nomologica;
ben prima di realizzare un oggetto di tale peso, l’uranio arricchito decadrebbe
innescando una reazione a catena culminante in una deflagrazione. Il secondo
tipo di possibilità a noi familiare è quello della possibilità logica. Dato un siste-
ma formale (ovvero un linguaggio costituito da segni primitivi e regole sintatti-
che di combinazione e da una relazione di conseguenza) ogni possibile formula
ben formata derivabile rappresenta una possibilità logica45. A metà fra questi due
concetti differenti di possibilità se ne potrebbe collocare un terzo, comunemente
noto in letteratura come possibilità metafisica. Questo terzo tipo di possibilità
può a sua volta essere declinato in due forme diverse. Esso può codificare infatti
sia una «possibilità nomologica di secondo grado», ovvero riguardare che cosa
potrebbe succedere se le leggi di natura fossero diverse da quelle vigenti, sia una
sorta di possibilità «assoluta». Un esempio del primo tipo concerne ciò che suc-
cederebbe in un mondo in cui la legge di gravità newtoniana fosse proporzionale
al cubo della distanza tra due oggetti, invece che al quadrato. Un esempio del

43
Cfr. E.J. Lowe, The Possibility of Metaphysics: Substance, Identity, and Time, Clarendon
Press, Oxford 1998; ed. it. a cura di S. Galvan - A. Corradini - C.L. De Florio, La possibilità della
metafisica. Sostanza, identità, tempo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009 e M. Morganti, Combi-
ning Science and Metaphysics, Palgrave-Macmillan, London 2013.
44
Ci sono due tipi di possibilità nomologica: una epistemica e una ontica. La prima ci dice che
cosa è possibile rispetto alle leggi di natura che conosciamo, la seconda rispetto a tutte le leggi
di natura esistenti. Nell’intero articolo quando parleremo di «possibilità nomologica» ci riferiremo
unicamente a quella ontologica, in quanto stiamo discutendo di metafisica e non di epistemologia.
45
Così descritta la possibilità logica è, ovviamente, relativa a un determinato linguaggio forma-
le. Quando si parla di possibilità logica però si intende, solitamente, l’insieme di tutto ciò che è pos-
sibile in ogni possibile linguaggio formale. Questa definizione ha un sapore molto convenzionalista,
ma si può anche sostenere in una prospettiva più platonica che la possibilità logica sia indipendente
dalla sua formalizzazione linguistica (come è per il caso di quella nomologica).
la metafisica è morta! lunga vita alla metafisica! 921

secondo potrebbe essere la domanda «è possibile che gli oggetti concreti siano
estesi nel tempo nello stesso modo in cui lo sono nello spazio?». Configurata in
questo modo, la possibilità metafisica è sicuramente una nozione più ampia di
quella nomologica (ovvero ciò che è nomologicamente impossibile può essere
metafisicamente possibile, ma ciò che è metafisicamente impossibile deve es-
serlo anche nomologicamente) ma più ristretta di quella logica. Se assumiamo
ad esempio che il termine «acqua» sia un designatore rigido, ovvero che il ter-
mine «acqua» si riferisca alla stessa cosa in tutti i mondi possibili, allora è meta-
fisicamente impossibile, ma logicamente possibile, che «acqua» non si riferisca
a H2O. Logicamente possibile perché non vi è nessuna contraddizione logica
nella frase «“acqua” non si riferisce a H2O».
Tuttavia la possibilità di secondo grado è una nozione strettamente connessa
a quella nomologica, che spesso viene determinata proprio sulla base delle leg-
gi scientifiche del mondo attuale. Ad esempio, ne modifichiamo una lasciando le
altre uguali, oppure variamo il valore di una costante universale e proviamo a cal-
colare che cosa succederebbe, ecc. Per contro, la possibilità metafisica a cui si
riferiscono gli autori che stiamo discutendo è quella assoluta, cioè indipendente
dalle leggi di natura.
La concezione della metafisica come scienza del possibile si basa sul concetto
di possibilità metafisica precedentemente tratteggiato: questi filosofi credono che
il loro lavoro consista nell’esplorare che cosa, in questo senso mediano tra possi-
bilità logica e nomologica, potrebbe esistere e quali caratteristiche fondamentali
potrebbe avere. Più che la sua caratterizzazione ontologica, il dibattito sulla pos-
sibilità metafisica si concentra prevalentemente sulla possibilità di averne accesso
epistemico; pertanto, in quanto segue ci concentreremo principalmente su questo
aspetto. Spesso in letteratura si associa alla possibilità metafisica la possibilità di
concepire uno scenario46: se si riesce a pensare a uno stato di cose, come ad esem-
pio un mondo abitato unicamente da due oggetti identici, allora tale stato di cose è
metafisicamente possibile47. L’esperimento mentale però non è l’unica metodolo-
gia propria di questo modo di intendere la metafisica a priori. Al fine di esplorare le
possibilità metafisiche, questi autori utilizzano linguaggi formali. Concretamente,
il loro lavoro consiste nel partire da un concetto generico, come ad esempio quello
di «essere parte di»48 o «essere collocati nella regione x»49, per poi regimentarlo in
un linguaggio formale; muovendo da un insieme di assiomi diversi che regolano

46
Si veda p. es. la raccolta T.S. Gendler - J. Hawthorne (eds.), Conceivability and Possibility,
Clarendon Press, Oxford 2002.
47
Questa posizione è sostenuta p. es. in D.J. Chalmers, The Conscious Mind: In Search of a
Fundamental Theory, Oxford University Press, Oxford 1996; tr. it. di A. Paternoster - C. Meini, La
mente cosciente, McGraw-Hill, Milano 1999.
48
P. Simons, Parts: A Study in Ontology, Oxford University Press, Oxford 1987.
49
J. Parsons, Theories of Location, in D. Zimmerman (ed.), Oxford Studies in Metaphysics.
Volume 3, Oxford University Press, Oxford 2007, pp. 201-233.
922 alberto corti - vincenzo fano

tali nozioni, si possono creare molteplici sistemi in cui lo stesso concetto denota
strutture metafisiche differenti. In questo modo, si può ad esempio esplorare un
mondo possibile in cui, dati due oggetti qualsiasi, essi compongono sempre un
terzo oggetto, oppure un mondo in cui non esistono oggetti compositi, o ancora un
mondo in cui la relazione di composizione può essere indeterminata50. Otteniamo
così che il nostro concetto si riferisce a strutture metafisiche assai diverse tra loro,
ognuna caratterizzata in un sistema differente (ovvero un insieme di assiomi spe-
cifici). L’insieme di tutte queste nozioni stabilite formalmente a priori dovrebbe
rappresentare tutte le strutture metafisiche a cui il concetto potrebbe riferirsi.
Configurata in questo modo, come disciplina puramente a priori, la metafisica
viene intesa da questi autori come concettualmente «più fondamentale» rispet-
to alle altre scienze. Infatti, dal momento in cui i concetti metafisici sarebbero
assunti e utilizzati (ma mai definiti) anche dagli scienziati, le scienze empiriche
si fonderebbero sulle strutture di interesse metafisico: le strutture studiate dai
metafisici sarebbero condizione necessaria per la comprensione dell’oggetto di
studi delle altre scienze. Si prenda ancora come esempio il concetto di «parte»,
il cui sviluppo ha dato vita a una sotto-branca della metafisica chiamata «mereo-
logia»51. Molti scienziati usano il concetto di parte senza aver tematizzato questa
nozione mereologica: ad esempio quando un chimico sostiene che «quell’atomo
è parte di quella molecola» o quando un biologo afferma che «gli arti anteriori
sono parte di quell’animale» o ancora un fisico descrive «due sistemi chiusi ma
non isolati come parti di un sistema fisico più grande»; ma secondo tale modo
a priori di intendere la metafisica, dal momento che quest’ultima indaga il con-
cetto di parte nelle sue condizioni di possibilità metafisica, tale studio precede-
rebbe concettualmente quello delle altre forme di sapere. Pertanto il concetto
mereologico di «parte» sarebbe la base di quanto assunto dagli scienziati: la
relazione di parte e tutto che unisce un certo tipo di entità di interesse scientifico
sarebbe solo una tra quelle metafisicamente possibili; se il compito degli scien-
ziati è quello di determinare in che modo le entità scientifiche possono essere
parte di altre, il compito dei metafisici sarebbe quello di esplorare in generale
i possibili modi in cui un’entità possa dirsi parte di un’altra. Discorso analogo
vale per ogni altra struttura della realtà di interesse metafisico, quale quella di
proprietà, dipendenza ecc. Per questo ordine di ragioni, alcuni autori ritengo-
no che la metafisica così intesa sia epistemologicamente prioritaria rispetto alle
scienze empiriche; tale tesi implicherebbe che la comprensione profonda della
realtà sia quella metafisica e non quella scientifica.

50
Cfr. A.C. Varzi, Mereology, in E.N. Zalta (ed.), The Stanford Encyclopedia of Philosophy
(Spring 2019 Edition), https://plato.stanford.edu/archives/spr2019/entries/mereology.
51
La mereologia introdotta da Leśniewski è un linguaggio formale nato dalla regimentazione
logica delle nozioni di «composizione», «parte» e «tutto». Si vedano i testi citati nelle note 48 e 49.
la metafisica è morta! lunga vita alla metafisica! 923

Nonostante tale modo di intendere la metafisica fosse fino a qualche tempo


fa molto diffuso nel panorama contemporaneo, vi sono diverse ragioni per esse-
re scettici al riguardo. In primo luogo, si può mettere in dubbio che tali nozio-
ni generalissime abbiano un referente nella realtà; a proposito della mereologia,
ad esempio, Ladyman e Ross hanno argomentato che l’uso da parte degli scien-
ziati del concetto di «parte» e «tutto» varia così tanto, persino all’interno di una
disciplina stessa come la chimica, che non si hanno ragioni di credere che tali usi
possano essere accomunati52. In altri termini, non esiste una relazione di composi-
zione che descriva qualsiasi rapporto esistente tra una parte e il corrispettivo tutto
a cui appartiene; piuttosto, la nozione di «parte» viene utilizzata in modo diverso
anche in teorie differenti afferenti a una stessa scienza empirica. Pertanto, l’idea
che vi sia un’unica relazione di composizione generalissima che leghi le parti ai
corrispettivi interi appare in netto contrasto con la nostra attuale concezione scien-
tifica del mondo. In altri termini, è un fatto che la metafisica utilizzi un linguaggio
«esoterico»53, ovvero usi un proprio linguaggio distinto da quello delle scienze
empiriche54; tuttavia, il fatto che i concetti di interesse metafisico non siano studia-
ti direttamente dalle scienze empiriche non è sufficiente per credere che allora tali
concetti possano essere indagati esclusivamente a priori.
Allo stesso modo, non vi è ragione di credere che il lavoro aprioristico di
regimentare formalmente le nozioni impiegate sia di per sé sufficiente a illu-
strare come sia fatto, o possa essere fatto, il mondo stesso. Non appare infatti
evidente che cosa giustifichi le tesi metafisiche che concernono entità o fatti,
la cui struttura (o proprietà) non può essere determinata empiricamente: senza
un confronto con le scienze empiriche sembra impossibile infatti distillare, dai
modelli formali costruiti dai metafisici, alcuna conoscenza sul mondo concre-
to. Pertanto, non è altresì chiaro che cosa renderebbe vero che tali possibilità
metafisiche siano, di fatto, possibili. Sembra essere problematica infatti l’idea
che si possa determinare a priori quali nozioni metafisiche siano effettivamente
importanti nel nostro mondo (o in parti di esso), o in mondi nomologicamente
possibili. Se accettiamo che solo attraverso una comparazione con i risultati del-
le scienze empiriche possiamo avere accesso a informazioni sul mondo attuale,
analogamente dovremmo abbracciare l’idea che solo tali informazioni possono
fornirci conoscenza dei mondi possibili (non solo logicamente)55.

52
Ladyman - Ross, Every Thing Must Go, pp. 16 ss., 47 ss.
53
Contra quanto sostiene p. es. T. Hofweber, Ambitious, yet Modest, Metaphysics, in Chalmers
- Manley - Wasserman, Metametaphysics, pp. 260-289.
54
Cfr. S. French - K. McKenzie, Rethinking Outside the Toolbox: Reflecting Again on the Rela-
tionship between Metaphysics and Philosophy of Physics, in T. Bigaj - C. Wüthrich (eds.), Meta-
physics in Contemporary Physics, Brill - Rodopi, Leiden - Boston 2015 (Poznan Studies in the Phi-
losophy of Science and Humanities, 104), pp. 25-54.
55
In una prospettiva platonica questo punto di vista potrebbe essere giustificato. Resta aperto il
problema di motivare adeguatamente tale concezione.
924 alberto corti - vincenzo fano

Si potrebbe obiettare che vi sia una sorta di circolarità in tutto ciò: acquisia-
mo informazioni empiricamente e tali informazioni giustificano che cosa potrebbe
esistere o potremmo conoscere. Crediamo però che tale circolarità sia di fatto ine-
liminabile e non, in ultima analisi, dannosa. Per quello che ne sappiamo, l’unica
forma di informazione è quella che acquisiamo a partire dai nostri sensi e non
attraverso l’intuizione a priori o la mera formalizzazione logica. Pertanto, data
l’umana condizione epistemica, non appare esserci alcun fondamento più sicu-
ro per la conoscenza se non quello costruito a partire dai dati empirici56. Sembra
ragionevole infatti sostenere che la nostra esperienza di questi concetti sia almeno
una guida parziale alla regimentazione delle nozioni metafisiche a cui siamo inte-
ressati57. La conoscenza scientifica è incentrata sulla concreta spiegazione di feno-
meni particolari. La metafisica invece nasce come quel bisogno umano di superare
la conoscenza specifica per acquisire una conoscenza più generale e astratta, vale-
vole per tutte le situazioni concrete di un determinato tipo. Dato che la metafisica
nasce da un bisogno umano, concordiamo con Kant che «una certa metafisica c’è
sempre stata e ci sarà sempre nel mondo»58. La messa a punto dei concetti metafi-
sici necessari per questa ricerca è quindi frutto di pulsioni e necessità parzialmente
culturali e parzialmente proprie della natura umana. Ci sembra ragionevole crede-
re quindi che queste regimentazioni non possono essere puramente a priori, come
ritengono alcuni, poiché necessariamente influenzate e condizionate dalla nostra
esperienza. Esse sono il risultato di una negoziazione tra quanto ci viene suggerito
dalle scienze empiriche e la nostra sete di conoscenza.
Ci sembra di poter affermare che tale critica sia abbastanza conclusiva nei
confronti della concezione di metafisica come analisi concettuale svolta unica-
mente a priori59.
La formalizzazione dei concetti usati non sarebbe sufficiente quindi a dir-
ci qualcosa di come la realtà sia fatta o possa essere fatta; piuttosto, l’impie-
go di linguaggi formali fa sorgere il dubbio stesso sulla nozione di possibilità
metafisica. Dal momento che tali linguaggi formali sono sostanzialmente siste-
mi logici, se attraverso questi deduciamo la possibilità metafisica, sembra che
quest’ultima si riduca a quella logica: piuttosto che essere autonoma, la possibi-
lità metafisica perciò non è differente da quella logica.

56
Questo, come argomentato in precedenza, non significa che dobbiamo credere all’esistenza
unicamente di ciò che percepiamo direttamente; piuttosto, tale condizione ci obbliga a considerare
un vincolo fenomenologico nei confronti di quelle entità che, postulate dalle nostre migliori teorie
scientifiche, sono però direttamente non osservabili (cfr. § 2).
57
Cfr. E. Machery, Philosophy Within its Proper Bounds, Oxford University Press, Oxford 2017.
58
Kant, Critica della ragion pura, B XXXI, p. 53.
59
Considerazioni analoghe si possono probabilmente fare con il progetto di analisi dei concetti
a priori proposta da F. Jackson, From Metaphysics to Ethics: A Defence of Conceptual Analysis,
Oxford University Press, Oxford 1998.
la metafisica è morta! lunga vita alla metafisica! 925

Se, invece, «metafisicamente possibile» fosse connesso alla possibilità che le


leggi di natura siano diverse da quelle che vigono nel mondo attuale, allora com-
pito della metafisica così intesa sarebbe quello di comprendere che cosa succede-
rebbe in questi mondi possibili. Ma compresa in questo modo, la differenza con
la possibilità nomologica sembra più sfumata e, ancora una volta, l’indipendenza
della possibilità metafisica sembra dubbia. In altri termini, il concetto di possibi-
lità metafisica è una nozione poco chiara e dal dubbio statuto60: se ci si appoggia a
sistemi formali e all’analisi concettuale, spariscono le differenze con la possibilità
logica; se ci si appoggia al mondo attuale e alle leggi di natura, sfumano le diffe-
renze con la possibilità nomologica.
Ugualmente problematica sembra la tesi per la quale, attraverso l’immagi-
nazione di stati di cose, avremmo un accesso epistemico alla possibilità metafi-
sica. Infatti, sebbene molti esperimenti mentali sembrano intuitivamente chiari,
essi risultano confusi a una più attenta analisi. Si prenda come esempio l’e-
sperimento mentale degli zombie di Chalmers61, secondo il quale è possibile
immaginare che esistano delle entità che, seppur identiche nella composizione
fisica a esseri umani, manchino di percetti fenomenici; in altri termini, esseri
che, seppur indistinguibili per aspetto e comportamento da comuni esseri uma-
ni, sarebbero privi di coscienza fenomenica. Sebbene l’esperimento mentale
sembri abbastanza facile da immaginare (si pensi a una creatura simile a un
robot), ci sono diverse ragioni per credere che le cose non stiano in questi termi-
ni. In primo luogo perché, dal momento che gli zombie e gli esseri umani sono
composti nello stesso modo, non si capisce come sia possibile immaginare che
i secondi abbiano una coscienza fenomenica mentre i primi ne siano sprovvisti:
per quello che sappiamo, non c’è alcuna ragione a priori di credere che com-
posizioni fisiche identiche possano dare luogo a diversità rispetto alla coscien-
za. In secondo luogo, l’argomento non sembra funzionare poiché le condizioni
dell’esperimento mentale sono così lontane dall’esperienza ordinaria che non
sono possibili da immaginare concretamente; Dennett ad esempio argomenta
diffusamente a favore di tale idea, concludendo che necessariamente coloro che
credono di immaginare gli zombie «invariabilmente sottostimano il compito
della concezione (o immaginazione), e finiscono per immaginare qualcosa che
viola la loro stessa definizione»62.
Infine, il concetto di possibilità appare epistemicamente accessibile quando
si tratta di possibilità logica o nomologica; tutto quello che può essere regimen-
tato con un formalismo logico e non è contraddittorio è logicamente possibile
rispetto a quel sistema e, allo stesso tempo, ciò che soddisfa o non viola una

60
Cfr. Machery, Philosophy Within its Proper Bounds.
61
Cfr. Chalmers, The Conscious Mind: In Search of a Fundamental Theory.
62
D.C. Dennett, The Unimagined Preposterousness of Zombies, «Journal of Consciousness
Studies», 2 (1995), 4, pp. 322-326.
926 alberto corti - vincenzo fano

legge di natura è nomologicamente possibile. Meno chiaro invece il criterio per


cui qualcosa potrebbe dirsi o non dirsi metafisicamente possibile. Alcuni hanno
proposto che esistano, oltre alle leggi di natura, delle leggi metafisiche. Sebbene
questa idea abbia una certa popolarità, appaiono comunque incerte le basi episte-
miche per le quali possiamo dire di aver davvero scoperto una legge metafisica.
Pur tenendo conto dell’umana fallibilità, per quanto concerne le leggi di natura
possiamo usufruire, dati empirici alla mano, di una meta-induzione parzialmente
ottimista in favore della loro esistenza. Non appare altrettanto evidente che cosa
dovrebbe giustificare la nostra credenza nelle leggi metafisiche.
Riassumendo, il concetto di possibilità metafisica sembra essere problema-
tico sia da un punto di vista concettuale che epistemico: da una parte non se ne
comprende infatti la concreta autonomia da altre forme di possibilità, dall’altra
non è chiaro come sia possibile raggiungere un accesso e una giustificazione di
tale conoscenza.
Concludiamo la sezione con un dato storico che, sebbene come molti degli
argomenti di questo tipo non sia di per sé conclusivo, appare sufficiente per
gettare un’ultima ombra su tale modo di intendere la metafisica. Interpretata
come scienza del possibile, la metafisica avrebbe il compito di determinare che
cosa potrebbe (o no) esistere. Eppure, nel corso della storia, molteplici fenomeni
considerati metafisicamente impossibili sono stati poi riabilitati dalle scienze
empiriche. Ne sono un esempio gli spazi non-euclidei, i viaggi nel tempo e una
sorta di ‘creatio ex nihilo’ (Big Bang) – possibili per la relatività generale; e la
multi-locazione, l’indeterminismo, l’instanziazione di proprietà indeterminate e
l’esistenza di universi paralleli – possibili per la meccanica quantistica. Il fatto
che abbiamo prove concrete solo di alcuni di questi fenomeni non è sufficiente a
riabilitare la nozione di possibilità metafisica. Tutti questi fenomeni infatti sono
nomologicamente possibili63. Dal momento che la possibilità metafisica dovreb-
be essere più ampia di quella nomologica, qualcosa di metafisicamente impos-
sibile dovrebbe a fortiori esserlo nomologicamente. Ma la storia delle scienze
empiriche ha dimostrato a più riprese che il criterio di impossibilità metafisica
non è affidabile, in quanto sancisce come impossibili a priori quelle che poi si
sono rivelate essere delle genuine possibilità nomologiche. Questo stato di cose
dovrebbe essere sufficiente per dubitare in generale che la possibilità metafisica
sia foriera di un qualche tipo di conoscenza64.

63
Quelli concernenti la relatività generale a seconda del modello di spazio-tempo considerato,
quelli concernenti la meccanica quantistica a seconda dell’interpretazione del formalismo assunta.
64
L’argomento esposto nell’ultimo capoverso si basa sull’accesso epistemico che noi abbiamo
rispetto alle possibilità logiche e metafisiche, contrariamente a quanto fatto in precedenza, dove ne
abbiamo parlato in termini assoluti (cfr. supra, nota 46).
la metafisica è morta! lunga vita alla metafisica! 927

4. Metafisica, ovvero la ricerca delle strutture ultime della realtà


Il terzo modo più comune di concepire la metafisica che si trova in letteratura è
quello secondo cui tale disciplina non sia solo indipendente dalle altre forme del
sapere, ma abbia anche un suo preciso dominio di indagine65. L’idea dei soste-
nitori di questo approccio è che scopo della metafisica sia quello di studiare le
strutture ultime della realtà. La metafisica pertanto sarebbe non solo totalmente
indipendente dalle altre forme del sapere, ma anche ontologicamente più fonda-
mentale di esse: scopo della metafisica sarebbe infatti quello di analizzare quali
siano le strutture più profonde della natura, in virtù delle quali la realtà come noi
la conosciamo (e come studiata dalle scienze empiriche) possa esistere. Questo
modo di intendere la metafisica ha notevoli somiglianze col precedente, al pun-
to che molti autori difficilmente ricadono nettamente in una categoria piuttosto
che l’altra. L’idea che la metafisica si occupi delle strutture ultime della realtà è
accomunata alla metafisica come scienza del possibile (delineata nel paragrafo
precedente) sia dal metodo che concettualmente; anche chi intende la metafisica in
quest’ultimo modo infatti fa affidamento su linguaggi formali, esperimenti menta-
li, analisi concettuale e crede che le nozioni metafisiche siano epistemologicamen-
te e ontologicamente prioritarie rispetto a quelli delle scienze empiriche. Vi è però
una sottile ma sostanziale differenza tra le due prospettive. Chi crede che la meta-
fisica si occupi delle strutture ultime della realtà infatti non è solitamente interes-
sato alle possibilità metafisiche in quanto tali; piuttosto, chi concepisce in questo
modo la metafisica è interessato a comprendere quali siano le strutture metafisiche
del mondo concreto in cui viviamo. Per fare ciò, la formalizzazione delle nozioni
metafisiche è un preliminare, e non certo un punto di arrivo come nella concezione
di metafisica come scienza del possibile. Al fine di scoprire quale struttura meta-
fisica soggiaccia alla nostra realtà, questi autori si basano prevalentemente su due
criteri: la compatibilità con le nostre migliori teorie scientifiche e l’impiego di
virtù super-empiriche. In merito al secondo criterio, l’idea è la seguente: diversi
autori sostengono posizioni differenti argomentando in favore delle proprie teorie
e contro quelle altrui; gli argomenti portati contro le teorie opposte sono solita-
mente esempi di fenomeni di cui tali tesi metafisiche non sono in grado di dare
contezza. Alla luce dei contro-argomenti mossi le possibili alternative sono: (a)
ammettere di non avere risposte, (b) modificare leggermente la propria tesi, o (c)
mostrare che il contro-argomento è invalido. Tale ciclo si ripete finché non si rag-
giunge in letteratura una sorta di consenso verso le teorie che esibiscono mag-
giori virtù super-empiriche (vicinanza con il senso comune, capacità di unificare,
impiego di un minor numero di primitivi, semplicità, ecc.).

65
Cfr. Fine, The Question of Ontology; Schaffer, On What Grounds What; T. Sider, Writing the
Book of the World, Oxford University Press, Oxford 2011.
928 alberto corti - vincenzo fano

L’idea che la metafisica indaghi la struttura fondamentale della realtà potrebbe


in qualche modo suscitare sospetto. Come argomentato ad esempio da Morganti,
la struttura fondamentale della realtà sembra essere anche l’oggetto di studio delle
scienze, particolarmente della fisica66. Pertanto, a fronte di questa definizione, vie-
ne naturale chiedersi come sia possibile che fisica e metafisica raggiungano con-
clusioni così diverse, a fronte del comune oggetto di studio. Inoltre, data l’efficace
predittività della fisica, e quindi della conferma empirica di cui gode, sembra legit-
timo chiedersi perché uno dovrebbe occuparsi di metafisica invece che di fisica;
in altri termini, a fronte di tale modo di intendere la metafisica non è chiaro che
cosa quest’ultima aggiunga alla conoscenza che deriva dalle scienze empiriche.
L’ovvia risposta dei metafisici a tali quesiti è che le strutture di interesse meta-
fisico sono solitamente assunte implicitamente, ma quasi mai analizzate dagli
scienziati stessi. Pertanto, sebbene metafisica e (parte della) fisica moderna con-
dividano l’ambito d’indagine, scopo dei metafisici sarebbe quello di esaminare
quei concetti (quali ad esempio il già menzionato «essere parte di», «emergere da»
ecc.) che sono assunti anche dai fisici67. Ad esempio, è abbastanza diffusa l’idea
che la fisica scopra delle leggi di natura: regole che non si limitano a descrivere,
ma determinano attivamente l’evoluzione nel tempo e la struttura del mondo fisi-
co. Se l’interesse dei fisici è rivolto a scoprire nuove leggi di natura, scopo dei
metafisici sarebbe spiegare che cosa siano queste leggi: queste potrebbero essere
semplici regolarità che noi scopriamo empiricamente68, o proprietà degli oggetti
concreti69 o ancora qualcosa di primitivo e inspiegabile insito nell’universo70.
Sebbene tale concezione della metafisica abbia una sua plausibilità, essa desta
cionondimeno diversi quesiti. Un primo problema di questo modo di intendere
la metafisica consiste nel già criticato impiego delle virtù super-empiriche: seb-
bene esse svolgano un innegabile ruolo pratico, non si comprende perché esse
dovrebbero essere una buona guida verso le strutture ultime della realtà. Inoltre
sembra assai diffusa tra questi autori l’idea che l’accordo col senso comune sia
una delle principali virtù super-empiriche da rispettare. Noi riteniamo invece
che essa non sia così rilevante come solitamente viene creduto. Il cosiddetto
senso comune infatti appare essere storicamente e culturalmente determinato
e costituito, in ultima analisi, da un insieme di pregiudizi dal valore eminen-
temente pragmatico. Pertanto, nonostante l’ineliminabile valore cognitivo che

66
Cfr. Morganti, Combining Science and Metaphysics.
67
Sebbene non la prenderemo in considerazione, un’ulteriore possibilità è quella di considerare
la metafisica come riflessione su ciò che non è naturale.
68
Cfr. D. Lewis, Humean Supervenience Debugged, «Mind», 103 (1994), 412, pp. 473-490.
69
Cfr. M. Dorato - M. Esfeld, The Metaphysics of Laws: Dispositionalism vs. Primitivism, in
Bigaj - Wütrich, Metaphysics in Contemporary Physics, pp. 403-424.
70
Cfr. V. Fano, Comprendere la scienza, Liguori, Napoli 2005, cap. 3; T. Maudlin, The Metaphy-
sics Within Physics, Oxford University Press, Oxford 2007, p. 15; S. Doplicher, Mondo quantistico
e umanesimo, Carocci, Roma 2018.
la metafisica è morta! lunga vita alla metafisica! 929

ricopre nella vita di tutti i giorni, ci sembra che esso non abbia quasi alcun ruolo
da giocare all’interno della metafisica: il modo in cui è fatto il mondo è indipen-
dente da come la maggioranza di una data società crede che esso sia costituito71.
Un secondo problema concerne invece il primo criterio, ovvero il rapporto tra
questo tipo di metafisica e le scienze empiriche. Esso non consiste ovviamente
nel suo disaccordo con le nostre migliori teorie scientifiche: quasi nessuno, nel-
la letteratura contemporanea, sostiene apertamente che in caso di contraddizione
vada salvata una tesi filosofica piuttosto che una teoria scientifica; il problema
risiede piuttosto nel fatto che chi accetta questo tipo di metafisica si limita a pre-
tendere unicamente una compatibilità con le teorie scientifiche. Ma tale requi-
sito sembra di per sé insufficiente a giustificare, fornendo un terreno sicuro, la
conoscenza metafisica. In primo luogo perché non è chiaro quale sia la fonte
gnoseologica che ci permette a priori di conoscere le verità metafisiche. Questo
perché, come argomentato precedentemente, è misterioso che cosa renda episte-
micamente accessibile una conoscenza che trascenda il nostro accesso empirico
al mondo72. In secondo luogo perché la metafisica è fortemente sottodeterminata
rispetto alle teorie scientifiche: spesso data una teoria scientifica e una struttura
metafisica, quest’ultima può essere declinata in diversi modi compatibili con la
prima; tali tesi metafisiche opposte, pur non contraddicendo la teoria scientifica
in questione, non forniscono nemmeno predizioni differenti empiricamente con-
trollabili. Pertanto appare impossibile scegliere, a parità di condizioni, tra le due
tesi. In altri termini, la compatibilità con le nostre migliori teorie scientifiche
non è sufficiente, se non vogliamo ricorrere unicamente alle virtù super-empi-
riche, a stabilire quale teoria metafisica sia migliore rispetto a quelle possibili.
Infine, da un punto di vista storico (anche restringendo la discussione solo
ai metafisici) il tentativo di stabilire a priori come sia fatta la realtà, non ha mai
raggiunto in nessuna epoca storica un consenso nemmeno parziale. Questo dato
di fatto sembra essere sufficiente per formulare una sorta di «meta-induzione
pessimista»73: il fatto che ogni visione metafisica (proposta da un gruppo o da
un singolo autore) sia stata continuamente rimpiazzata dalle altre, sembra sug-
gerire che non si hanno ragioni per credere che le teorie proposte dai metafisici

71
Si noti bene che il vincolo fenomenologico esposto precedentemente (che le teorie scientifiche
devono avere una spiegazione del perché non percepiamo ciò che esiste secondo dette teorie) è qual-
cosa di diverso rispetto alla coerenza col senso comune. Il vincolo fenomenologico richiede infatti che
la spiegazione del perché la nostra esperienza differisca da una descrizione scientifica ci venga fornita
da teorie scientifiche sulla percezione; inoltre è richiesta una coerenza solo con la nostra immediata
esperienza diretta. Solitamente chi ritiene l’accordo col senso comune un vantaggio per una teoria
metafisica ha qualcosa di più forte in mente: una coerenza non solo con la nostra diretta esperienza ma
anche col modo abituale che abbiamo di parlare e di pensare determinati fenomeni.
72
Cfr. Ladyman - Ross, Every Thing Must Go, pp. 17 ss.
73
Cfr. ibi, pp. 20 ss.; cfr. Kant, Critica della ragion pura, B XIV-XVI, pp. 43-44; B XXXI-
XXXIII, pp. 53-54.
930 alberto corti - vincenzo fano

contemporanei forniscano un qualche tipo di conoscenza sicura; tale induzione


pessimista sembra indicare che la metafisica intesa in questo senso, al contrario
delle scienze empiriche e di una metafisica maggiormente connessa a loro, nel
corso della sua storia non abbia ottenuto alcun vero progresso. In altre parole,
il vertiginoso susseguirsi di metafisiche diverse sembra essere indice del fatto
che non vi è un reale aumento di conoscenza metafisica e che pertanto tale disci-
plina, in quanto sprovvista di seri criteri per scegliere tra le diverse teorie, sia
infruttuosa proprio a causa della metodologia scelta.
Recentemente Morganti e Thako hanno difeso un’interpretazione della meta-
fisica analoga a quella presentata74; i due autori infatti hanno argomentato che
metafisica e fisica, pur condividendo l’oggetto di studio (ovvero le strutture ulti-
me della realtà), ne differiscono nei metodi e che le due discipline devono pro-
cedere affiancate per fornire un’adeguata descrizione di come sia fatto il mondo.
Pur accettando l’idea che la metafisica debba procedere di pari passo con le altre
forme del sapere, pensiamo che la loro proposta non fornisca risposte adeguate
alle altre criticità, precedentemente illustrate, di tal modo di intendere la metafi-
sica: non è sufficiente non contraddire le migliori teorie scientifiche per fare della
buona metafisica, in quanto anche la metodologia utilizzata deve essere cambia-
ta; lo studio puramente a priori delle strutture metafisiche, infatti, non ha solide
basi epistemiche su cui appoggiarsi75. In particolare, dissentiamo sul fatto che,
concependo la metafisica come basata sulle nostre migliori teorie scientifiche, e
quindi non come teoria pura a priori, allora «la metafisica apparentemente non
gioca alcun ruolo reale nella nostra indagine della realtà»76; crediamo piuttosto
che molte delle domande significative della metafisica debbano essere questioni
che anche degli scienziati, insoddisfatti del mero risultato empirico delle loro
teorie, si porrebbero. Questo tuttavia non crediamo sia sufficiente per ritenere
che allora tali domande siano scientifiche e non più metafisiche. Per queste ragio-
ni pensiamo che la metafisica non possa essere, come sostenuto dai due auto-
ri, una disciplina «primariamente a priori»77, in quanto le nostre migliori teorie
scientifiche devono essere il punto di partenza, e non solo «l’indiretto “campo di
prova” di ipotesi metafisiche»78. Infine, come sarà più esplicito in quanto segue,

74
M. Morganti - T. Tahko, Moderately Naturalistic Metaphysics, «Synthese», 194 (2017), 7,
pp. 2557-2580.
75
Si tenga conto che certamente la matematica è una forma peculiare di conoscenza a priori.
Perciò un metafisico a priori potrebbe sostenere un’analogia con la sua disciplina. La matematica
però, al contrario di alcuni modi di concepire la metafisica analitica, non ha la pretesa di descrivere
a priori il mondo concreto; infatti la matematica ci dice qualcosa sul mondo nella misura in cui è
applicata nelle altre scienze empiriche.
76
Morganti - Tahko, Moderately Naturalistic Metaphysics, p. 2662.
77
Ibi, p. 2563.
78
Ibidem.
la metafisica è morta! lunga vita alla metafisica! 931

la metafisica non deve aspirare a una generalità superiore a quella scientifica;


piuttosto, essa dovrebbe imparare ad accettare il proprio statuto locale.

5. Metafisica naturalizzata, ovvero un unico progetto per la conoscenza


scientifica del mondo
Solitamente chi accetta le critiche che abbiamo mosso nei paragrafi precedenti ne
conclude che la metafisica sia, nella migliore delle ipotesi, destinata a non avere
alcuna risposta certa; nella peggiore, una disciplina incapace di fornirci alcuna
conoscenza sicura e, quindi, eliminabile. Noi crediamo invece che ci possa essere
un modo costruttivo di intendere questa disciplina: non vi è una netta separazione
tra metafisica e scienze empiriche, in quanto entrambe partecipano a un progetto
unitario per conoscere la realtà79. Questo modo di considerare la metafisica uni-
sce il tentativo di superare i limiti delle interpretazioni presentate nei paragrafi
precedenti (assenza di base empirica per la conoscenza metafisica, disconnes-
sione tra «conoscenze» a priori e mondo attuale, appiattimento della metafisica
sull’ontologia, meta-induzione pessimista contro le teorie metafisiche, ecc.) con
l’idea di salvarne gli aspetti positivi: dell’approccio neo-quineano ereditiamo
l’intero criterio meta-ontologico (con l’aggiunta del vincolo fenomenologico e
della coerenza inter-teorica, cfr. § 2); dell’interpretazione della metafisica come
scienza del possibile accettiamo l’importanza dei sistemi formali, come guida per
ottenere chiarezza terminologica e la possibilità di esaminare in modo preciso le
implicazioni di una data concettualizzazione; dell’idea che la metafisica studi le
strutture ultime della realtà infine accogliamo che metafisica e scienze empiriche
(in particolar modo la fisica) abbiano l’ambizione di indagare, seppur con termi-
nologie diverse, gli stessi fenomeni.
La metafisica così come da noi intesa, che ci sembra accomunabile a ciò che
in letteratura viene chiamata «metafisica naturalizzata», condivide sia l’oggetto
di indagine sia la metodologia con le scienze empiriche; proprio in questo aspetto
essa si distingue dai modi di intendere la metafisica precedentemente esposti. Da
una parte infatti la metafisica ha come obiettivo quello di formulare ipotesi in
grado di spiegare alcuni aspetti della realtà che ci circonda. Dall’altra, essa lavora
parzialmente a priori e parzialmente a posteriori; la parte a posteriori è costituita
dalla raccolta di dati e informazioni dalle nostre migliori teorie scientifiche, men-
tre la parte a priori consiste nella costruzione, a partire da questi dati, di modelli

79
Cfr. Hofweber, Ambitious, yet Modest, Metaphysics; A. Ney, Neo-Positivist Metaphysics,
«Philosophical Studies», 160 (2012), 1, pp. 53-78; J. Wilson, Three Dogmas of Metaphysical Meth-
odology, in M. Haug (ed.), Philosophical Methodology: The Armchair or the Laboratory?, Rout-
ledge, Abingdon - New York 2013, pp. 145-165; M. Esfeld, Metaphysics of Science as Naturalized
Metaphysics, in A. Barberousse - D. Bonnay - M. Cozic (eds.), The Philosophy of Science. A Com-
panion, Oxford University Press, Oxford 2018, pp. 142-170.
932 alberto corti - vincenzo fano

e linguaggi formali80. Sembra ragionevole che il confine tra fisica e metafisica


sia più sfumato di quanto solitamente non si sia soliti supporre: ci sono doman-
de metafisiche di cui non avremo mai una risposta sufficientemente giustifica-
ta, domande di cui potremmo avere in futuro una risposta motivata dalle nostre
migliori teorie scientifiche e infine domande di cui già oggi possiamo accenna-
re una risposta scientificamente fondata. Come ci sono domande «metafisiche»,
nell’accezione dispregiativa usata da Kant, ci sono domande scientifiche di carat-
tere generale che hanno rilevanza metafisica. Un ovvio esempio dell’ultimo tipo
comprende molte questioni della fisica teorica contemporanea, come «che cosa vi
è all’interno dei buchi neri?», o «quali sono le proprietà della materia oscura?».
La vera fonte di discontinuità tra metafisica e scienze empiriche pertanto con-
sisterebbe parzialmente nella terminologia e parzialmente negli obiettivi. Per
quanto concerne l’ultimo punto infatti, scopo delle scienze empiriche è, preva-
lentemente, quello di trovare nuove teorie in grado di dare contezza a un sempre
maggior numero di fenomeni; la costruzione di modelli matematici in grado di
fare previsioni accurate e la possibilità di controllare tali previsioni sono due delle
componenti principali della ricerca scientifica. Scopo della metafisica naturaliz-
zata è invece quello di, partendo dalle migliori teorie scientifiche contemporanee,
cercare di comprendere come deve essere il mondo affinché tali teorie siano (quasi
letteralmente) vere. Pertanto, la metafisica in questo senso segue, e non precede,
le scienze empiriche; e questo è tanto più vero da un punto di vista pratico: al fine
di fare metafisica la conoscenza approfondita delle nostre migliori teorie scientifi-
che deve essere un prerequisito necessario. Non a caso infatti la maggior parte dei
grandi autori della storia della filosofia, si pensi ad esempio ad Aristotele, Cartesio
o Kant, erano protagonisti delle scienze del loro tempo. Ancora una volta, il fat-
to che oggi scienze empiriche e filosofia siano separate, mentre precedentemente
erano considerate un’unica disciplina81, non giustifica la possibilità che la filosofia
possa essere completamente a priori.
Oltre alla parziale discontinuità tra gli scopi da raggiungere, la differenza
principale tra scienze empiriche e metafisica è terminologica, in quanto quest’ul-
tima, avendo come obiettivo quello di fornire una descrizione del mondo a parti-
re dalle teorie scientifiche, è costretta ad analizzare quei termini, quale quello di
«parte», «causa», «individuo», ecc., che gli scienziati generalmente assumono

80
Si potrebbe obiettare che tale concezione di metafisica assuma un qualche tipo di realismo
scientifico (ovvero la tesi secondo cui le nostre migliori teorie scientifiche sono descrizioni almeno
approssimativamente vere della realtà). Sebbene questo sia vero, la metafisica naturalizzata non è
l’unica a fare tale assunzione, dal momento che è propria anche della metafisica neo-quineana e della
metafisica come indagine delle strutture ultime della realtà. In ogni caso, dal momento che scopo
dell’articolo è quello di delineare diversi modi di concepire la relazione tra metafisica e scienze
empiriche, un qualche tipo di realismo scientifico è implicito fin dall’inizio.
81
Che la metafisica contemporanea debba ispirarsi alla filosofia naturale moderna è stato soste-
nuto esplicitamente da Esfeld, Metaphysics of Science as Naturalized Metaphysics.
la metafisica è morta! lunga vita alla metafisica! 933

implicitamente. Pertanto, la metafisica ricorre a un linguaggio che risulta essere


«esoterico»82 rispetto a quello utilizzato dalle scienze empiriche. Questo par-
zialmente spiega perché spesso alcune domande poste dai metafisici possano
apparire, quando sottoposte agli scienziati, oscure.
Questo fatto è sintomatico di una duplice problematicità propria della situa-
zione contemporanea. Da una parte esso mette in luce che troppo pochi filosofi
studiano anche discipline scientifiche; questa situazione crea diversi ostacoli alla
comunicazione con gli scienziati: talvolta ad esempio l’insufficiente conoscen-
za tecnica impedisce ai filosofi di esplicitare le questioni metafisiche attraverso
esempi scientificamente più concreti, di più facile comprensione a chi proviene
da un background scientifico. Tale fenomeno inoltre evidenzia anche la seconda
causa di incomprensione: la formazione professionale ricevuta è così differente
tra filosofi e scienziati che il tentativo di dialogo è spesso minacciato dai troppo
differenti modi di pensare acquisiti. Tale fatto appare tanto più sorprendente se
si considera quanto siano semplici alcuni concetti filosofici, come il primitivo
«essere parte di» della mereologia, se paragonati alla matematica che sorregge
teorie come la relatività generale o l’equazione di diffusione in biologia evoluzio-
nista. Nonostante la semplicità formale, mediamente tali concetti risultano spes-
so abbastanza difficili da maneggiare per gli scienziati. Questo sembra suggerire
che si diventa filosofi mediante una paideia molto diversa da quella presente nel-
le comunità scientifiche: la filosofia mira all’acquisizione profonda di nozioni
molto semplici e alla capacità di applicare tali concetti in ambiti parecchio diver-
si tra loro – la capacità di separare minuziosamente concetti simili, di applicare
lo stesso concetto in situazioni differenti e di argomentare in modo logicamente
rigoroso richiedono un’elevata dose di astrazione, flessibilità mentale e rigore83.
Se l’insegnamento filosofico generalmente mira all’acquisizione di tali compe-
tenze, l’insegnamento scientifico è assai diverso, in quanto concentrato prevalen-
temente sulla soluzione di problemi concreti. A tale stato di cose bisogna anche
aggiungere che molti scienziati trovano irrilevanti alcune domande filosofiche,
in quanto concernenti concetti che, in ambiti scientifici, sono usualmente presi
come primitivi. Ma il fatto che un concetto sia primitivo, cioè dato per assunto
senza una definizione esplicita, non significa certo che esso sia banale o ovvio;
spesso infatti, la situazione è esattamente quella contraria. Si pensi ad esempio
all’intuitiva nozione di «individuo» che, nonostante possa sembrare scontata, è
assai problematica in meccanica quantistica84.

82
Hofweber, Ambitious, yet Modest, Metaphysics, p. 267.
83
Qui non ci riferiamo all’analisi concettuale nel senso di Jackson, quanto alla nozione carna-
piana di esplicazione. Si veda p. es. J. Justus, Carnap on Concept Determination: Methodology for
Philosophy of Science, «European Journal for Philosophy of Science», 2 (2012), 2, pp. 161-179.
84
Cfr. S. French - D. Krause, Identity in Physics: A Historical, Philosophical, and Formal Anal-
ysis, Oxford University Press, Oxford 2006.
934 alberto corti - vincenzo fano

In ogni caso, come argomentato precedentemente, l’utilizzo di un linguaggio


specialistico è discutibile solo nella misura in cui si crede che questo sia sufficien-
te a legittimare le proprie tesi senza un confronto con le scienze empiriche; non
accettando ciò, non vi è nulla di problematico nel fatto che i metafisici utilizzino
una terminologia propria, adeguatamente sviluppata con rigore.
Il nome «metafisica naturalizzata» deriva dall’interpretazione della metafisica
proposto da Ladyman e Ross; tuttavia, vi sono diversi modi di intendere che cosa
significhi «naturalizzata»85. Pur condividendo con i due autori alcune idee su come
debba essere impostato il lavoro metafisico, la nostra proposta si differenzia dalla
loro in due aspetti. Innanzitutto, secondo Ladyman e Ross, l’unico compito della
metafisica sarebbe quella di unire due o più teorie scientifiche. I due autori argo-
mentano che uno dei principi chiave della metafisica naturalizzata è il seguente:
Ogni nuova affermazione metafisica che debba essere presa sul serio deve essere moti-
vata da, e solo da, il servizio che fornirebbe, se vera, nel mostrare come due o più ipotesi
scientifiche insieme spiegano di più della somma di ciò che sarebbe spiegato dalle due ipo-
tesi prese separatamente, dove «ipotesi scientifica» va inteso come un’ipotesi che è presa
seriamente in buona fede dalle contemporanee istituzioni scientifiche86.

Tale principio è troppo restrittivo: infatti anche all’interno di una singola teoria la
metafisica è in grado di svolgere un lavoro esplicativo, fornendo un’immagine del
mondo più chiara di quella presentata dagli scienziati. In secondo luogo, la critica
che Ladyman e Ross svolgono contro la metafisica analitica contemporanea elimina,
insieme agli aspetti negativi, anche quelli positivi. I due autori ad esempio polemiz-
zano aspramente contro la mereologia87, al punto da far credere che l’intera disci-
plina sia, di per sé, insensata. Hanno parzialmente ragione nel criticare chi crede
fermamente che vi sia una sola vera mereologia88, ovvero un solo insieme di assiomi
che descriva in tutti i casi possibili come le parti siano in relazione ai rispettivi inte-
ri che compongono89. Infatti, come argomentato in precedenza, che vi sia un’uni-
ca relazione di composizione è una tesi non suffragata dalle nostre migliori teorie
scientifiche in quanto queste ultime impiegano evidentemente concetti differenti.
Tuttavia, questo fatto non è sufficiente per considerare l’intero linguaggio formale

85
P. es. anche Morganti e Thako chiamano «moderatamente naturalizzato» il loro approccio alla
metafisica, come si può già desumere dal titolo del loro articolo, Moderately Naturalistic Metaphysics.
86
Ladyman - Ross, Every Thing Must Go, p. 30.
87
Cfr. supra, note 48 e 49.
88
Come già argomentato, pur non essendo in disaccordo, tale ipotesi non è comunque giustifica-
ta dalle nostre migliori teorie scientifiche; pertanto, non vi sono al momento ragioni sufficienti né per
accoglierla né per rigettarla.
89
Al fine di evitare ambiguità, espliciteremo ulteriormente il nostro pensiero: non è sbagliata o
folle l’idea per cui esiste una sola relazione metafisica di «essere parte di»; tuttavia le attuali scienze
empiriche descrivono delle relazioni di appartenenza assai diverse tra loro, perciò non abbiamo suf-
ficienti ragioni di credere (o non) che tale relazione esista.
la metafisica è morta! lunga vita alla metafisica! 935

come inutile. La formalizzazione della relazione di parte può essere utilizzata infatti
per cercare di rappresentare, in modo più chiaro, come è fatto il mondo a partire da
singole teorie scientifiche. In altri termini, il linguaggio formale della mereologia
può aiutarci a esplicitare quella famiglia di concetti di «essere parte di» e a mostrare
come le differenti scienze empiriche utilizzino implicitamente nozioni mereologi-
che diverse. Inoltre, se una certa nozione di «parte» è intrinseca a un dato framework
scientifico e questo framework è soddisfatto in un certo ambito della realtà, abbiamo
buoni motivi per giustificare l’asserzione metafisica che quel dominio di oggetti è
caratterizzata da quella nozione di «parte».
Ad esempio, uno dei punti più dibattuti dalla metafisica analitica contemporanea,
a proposito di mereologia, è il cosiddetto «principio di composizione non-ristretto
(unrestricted composition principle)». Esso afferma che, dati due oggetti qualsiasi,
questi sono sempre parti di un terzo oggetto90. Sebbene discutere della validità di
tale principio, in generale, non abbia basi epistemiche sufficienti, ciò malgrado inda-
garne la valenza all’interno di singole teorie scientifiche è un compito importante
della metafisica. Si prenda in esame il seguente semplice esempio. Consideriamo la
dinamica newtoniana, applicata agli oggetti concreti; una tale teoria risulta sufficien-
te se si è interessati a descrivere l’evoluzione di un insieme di palle da biliardo che
rotolano su un tavolo. In questo modello, decidiamo di assumere che ogni oggetto
della teoria viene rappresentato idealmente sempre e solo da un punto materiale, che
ha simmetria sferica rispetto al suo centro di massa. Ogni entità che nel modello non
è rappresentata da un punto materiale, quindi, non può essere considerata un oggetto
concreto. In questo semplice modello newtoniano è immediato vedere come il prin-
cipio di composizione non ristretto non valga: la somma mereologica di due punti,
infatti, non potendo a sua volta essere un punto materiale, non può essere conside-
rata un oggetto nel nostro modello91. Pertanto, all’interno del modello il principio di
composizione non ristretto non vale92.
Nonostante la banalità dell’esempio, esso è in grado di mettere in luce due
aspetti fondamentali del nostro modo di concepire la metafisica: l’impiego di
modelli formali e l’importanza della località ontologica. Discuteremo ora breve-
mente questi due aspetti significativi per la nostra impostazione.
Punto di partenza delle scienze empiriche è solitamente l’analisi di fenomeni
molto limitati; questi fenomeni vengono modellati formalmente attraverso un pro-
cesso di «idealizzazione»; in poche parole, una situazione reale viene semplificata

90
Questa è una caratterizzazione intuitivamente più chiara ma meno precisa di quella standard: per
ogni condizione F che vale di una certa classe di oggetti, esiste la somma mereologica di quegli oggetti.
91
Si tenga presente che un punto materiale non è puntiforme, ma sufficientemente piccolo che il
suo volume possa essere fisicamente trascurato.
92
I concetti a priori della metafisica e i termini teorici della scienza instaurano rapporti diffe-
renti con i dati sperimentali; questo perché i primi sono esterni alla rete teorica delle scienze. Quale
sia l’effettiva relazione tra le nozioni metafisiche e le teorie scientifiche confermate è un problema
aperto che certo questo semplice esempio non risolve. Vorremmo affrontare tale questione in futuro.
936 alberto corti - vincenzo fano

ignorandone deliberatamente alcuni aspetti, al fine di rendere il modello più sem-


plice. Si pensi ad esempio a uno dei primi argomenti trattati in fisica alle scuole
superiori, ovvero il moto di un oggetto su un piano inclinato di cui si trascura l’at-
trito. Il lavoro seguente alla costruzione di un modello molto semplice e altamente
idealizzato consiste nel perturbare tale modello, aggiungendo nuovi caratteri più
fedeli alla realtà (ad esempio provando a tener conto dell’effetto dell’attrito) per
studiare in che modo le predizioni del modello cambiano in virtù di questo nuovo
parametro aggiunto. Anche la metafisica dovrebbe imparare dall’approccio scien-
tifico, abbandonando la sua pretesa di universalità a favore di uno statuto locale:
invece che partire da una generalizzazione molto astratta di un dato concetto, il
primo passo della metafisica naturalizzata dovrebbe essere il come tale concet-
to si comporta nell’insieme di modelli reali di una determinata teoria scientifica.
Tale modalità è spesso indagabile proprio perché le nozioni metafisiche sono sta-
te esplicate formalmente e le teorie scientifiche sono di solito formalmente ben
strutturate. A seguito di una regimentazione di tale concetto, se ne possono desu-
mere le conseguenze metafisiche che devono poi essere confrontate con la strut-
tura logico-matematica della teoria stessa; muovendo da un singolo caso molto
semplice, si arriva poi a uno più complesso e dettagliato cercando di incorporare
in esso sempre più fenomeni. Ad esempio, un conto è considerare la natura meta-
fisica dell’identità nello stato di singoletto in meccanica quantistica, un conto è
considerare casi di entanglement molto più complessi.
Queste famiglie di concetti formali possono essere considerate veri e propri
modelli della metafisica. L’importanza dei modelli formali in metafisica sembra
tanto più grande, in quanto tale metodologia si è già diffusa in modo sostanziale in
altre branche della filosofia, quali l’etica e la filosofia del linguaggio93; l’imporsi
dei modelli in metafisica è necessaria quindi, sia per l’effettivo aiuto nella com-
prensione di una tesi e nella valutazione delle sue conseguenze, sia per mantenere
la metafisica aggiornata con le altre branche della filosofia.
Come fatto notare in precedenza, una medesima teoria scientifica può essere
formulata non solo in modi matematicamente differenti, ma anche con modelli
diversi. Dal momento che le conclusioni metafisiche variano da modello a modello,
e quindi non solo da teoria a teoria, i metafisici naturalizzati devono accettare che le
loro tesi hanno una portata ancor più locale. Sebbene sia molto diffusa l’idea che la
realtà sia unificata e che le strutture che la sorreggono siano uguali in ogni sua parte,
la conoscenza scientifica della realtà di cui disponiamo è però ancora troppo fram-
mentata per giustificare tale unità: oggi abbiamo diverse teorie scientifiche in grado
di spiegare differenti fenomeni, eppure spesso ci manca una «visione di insieme»
che ci permetta di sussumerle in una sola teoria94. Non ci si riferisce qui tanto a una

93
Cfr. T. Williamson, Model-Building in Philosophy, in R. Blackford - D. Broderick (eds.),
Philosophy’s Future, Wiley Online Library, Hoboken 2017.
94
Si pensi p. es. alla tensione che vi è tra meccanica quantistica e relatività. Quello di creare tale
la metafisica è morta! lunga vita alla metafisica! 937

ipotetica teoria del tutto, capace di spiegare ogni fenomeno fisico, quanto alle enor-
mi difficoltà che si incontrano nel far dialogare due teorie diverse che si occupano
però (parzialmente) dei medesimi fenomeni; come esempio si potrebbe considerare
la quasi impossibilità numerica dello spiegare in termini quanto-meccanici com-
plesse reazioni chimiche. Siccome molti aspetti della realtà sfuggono ancora, oggi,
a una visione scientifica unificante, una metafisica che parte dalle nostre migliori
teorie scientifiche non è in grado di scoprire «la vera relazione di parte», «la vera
essenza delle proprietà». Pertanto consapevolezza della metafisica naturalizzata è
che l’analisi di ogni concetto indagato sia sempre limitata e valevole solamente
all’interno del dominio di quella data teoria, ovvero nei confronti di quei fenomeni
su cui tale teoria si applica. La generalizzazione di questa analisi segue tale lavoro
realizzato sulle singole teorie e non lo precede: che la natura presenti strutture omo-
genee è qualcosa che va scoperto e non presupposto.
Allo stesso tempo questo stretto legame con le scienze empiriche impone alla
metafisica naturalizzata di accettare il proprio carattere fallibilista: come vi è
una non trascurabile probabilità che le nostre migliori teorie scientifiche attuali
si scopriranno almeno in parte false in futuro, anche la metafisica oggi giusti-
ficata dovrà probabilmente essere almeno parzialmente rivista. Forti di questa
consapevolezza, i metafisici dovrebbero imparare a non innamorarsi delle pro-
prie tesi per difenderle strenuamente. Lo scopo della ricerca metafisica non è
quello di «vendere» o «comprare» una tesi che salvi il senso comune, le nostre
intuizioni o le nostre preferenze, quanto piuttosto quello di comprendere come è
fatto il mondo. Per far ciò, quindi, la ricerca deve avere sia un saldo punto di par-
tenza, ovvero le migliori teorie che abbiamo del mondo stesso, sia essere priva
di pregiudizi e preferenze basate sull’intuizione. Tale consapevolezza però non
giustifica alcun pessimismo. Come argomentato precedentemente, i metodi del-
la metafisica analitica a priori (ad esempio l’utilizzo dell’intuizione, delle virtù
super-empiriche, ecc.) sono inaffidabili e pertanto non forniscono una guida alla
conoscenza. Tuttavia, tale fallibilità è ben diversa da quella insita nel progetto
scientifico; le scienze empiriche infatti si fondano su un processo incrementale
di conoscenza (si pensi alla metodologia prima tratteggiata per cui si parte da un
modello idealizzato, e quindi almeno in parte falso, e poco alla volta esso viene
reso più realistico), che caratterizza parzialmente la nozione stessa di progresso
scientifico95. Tale fallibilità è quindi parte essenziale di quella metodologia di
cui abbiamo buone ragioni per credere sia la migliore strada per indagare la

visione omogenea del mondo giustificata scientificamente è uno dei compiti, ma non l’unico, come
sostenuto da Ladyman e Ross, della metafisica naturalizzata.
95
Che il progresso scientifico sia cognitivamente incrementale è controverso. Si veda p. es.
L. Laudan, Progress and its Problems: Toward a Theory of Scientific Growth, University of Califor-
nia Press, Berkeley - Los Angeles 1977; tr. it. di E. Riverso, Il progresso scientifico. Prospettive per
una teoria, Armando, Roma 1979.
938 alberto corti - vincenzo fano

realtà. Essendo la nostra migliore possibilità di conoscere la realtà, è razionale


accettarne anche i limiti, per ribadire però quanto già sostenuto: tali limiti non
appaiono sufficienti né per associarne il destino ad altri progetti fallimentari, né
per giustificare un radicale pessimismo nei confronti delle scienze empiriche (e
quindi anche della metafisica naturalizzata).
Prima di concludere, sembra necessario affrontare due possibili obiezioni. La
prima è che anche la metafisica da noi proposta è sottodeterminata rispetto alle
nostre migliori teorie scientifiche: dal momento che vi sono più metafisiche com-
patibili con una data teoria scientifica, se non si vuole ricorrere alle virtù super-em-
piriche, non vi è alcun modo di determinare quale sia la vera metafisica giustificata
da un certo modello; pertanto, così va l’obiezione, non essendo possibile scegliere
tra metafisiche empiricamente equivalenti, non ha senso, in primo luogo, indaga-
re quali siano le conclusioni metafisiche di una determinata teoria scientifica. In
secondo luogo, si può obbiettare che i metafisici naturalizzati si limitano a ripetere
ciò che dicono gli scienziati: parte del compito di una teoria scientifica è quella di
dirci qualcosa del mondo; se questo è lo scopo principale della metafisica natura-
lizzata allora tale lavoro è svolto egregiamente dagli scienziati e non si comprende
quale sia realmente l’aiuto fornito dai metafisici.
Per quanto concerne la prima obiezione, bisogna concedere che la metafisi-
ca sia sottoderminata rispetto alle teorie fisiche. Si prenda in esame il seguente
esempio: all’interno della meccanica classica lo spazio-tempo ammette sempre
un oggettivo piano di simultaneità ben definito96; si considerino ora degli oggetti
della meccanica classica, come per esempio un grave in caduta libera, che occupa
diversi punti dello spazio-tempo. All’interno della meccanica classica tale oggetto
può essere descritto in due modi differenti: il grave può essere rappresentato come
un’entità tridimensionale che occupa a tempi diversi punti dello spazio-tempo dif-
ferenti, oppure si può pensare che il grave sia un oggetto quadri-dimensionale
che occupa una linea del mondo nello spazio-tempo. In quest’ultima prospettiva
la linea del mondo del grave è composta di punti dello spazio-tempo differenti,
il grave è composto di «parti temporali» differenti, ovvero entità tridimensionali
collocate nei singoli punti dello spazio-tempo di cui è composta la linea del mon-
do del grave. La meccanica classica è compatibile con entrambe le visioni e non
vi sono ragioni sostanziali per credere che una descrizione sia più vera dell’altra.
Sebbene sia vero che la metafisica possa essere sottodeterminata, spesso
anche le teorie scientifiche soffrono del medesimo problema: si pensi ad esem-
pio alle diverse interpretazioni della meccanica quantistica o a diversi modelli
evoluzionistici, per i quali non disponiamo ancora dati sufficienti per avvalorar-
ne uno rispetto agli altri. Inoltre essendo la metafisica, come la scienza e ogni

96
Fissando un valore del tempo si può sempre trovare l’insieme di punti evento che hanno la
medesima coordinata temporale, al contrario della relatività in cui il piano di simultaneità dipende
dallo stato del sistema di riferimento scelto.
la metafisica è morta! lunga vita alla metafisica! 939

altra attività, portata avanti da esseri umani, essa non può sfuggire a idiosincra-
sie, interessi privati o preferenze personali. Pertanto spesso tale sottodermina-
zione è frutto di analisi effettivamente equivalenti la cui diversità è data dalla
preferenza dei singoli autori nei confronti di determinati concetti piuttosto che
altri; spesso quindi la sottodeterminazione è un fatto prettamente convenziona-
le97. Come scegliere tra due teorie metafisicamente equivalenti è ovviamente un
processo delicato e controverso, ma non privo di risposte98.
Infine, per quanto riguarda la seconda obiezione (che la metafisica naturaliz-
zata così presentata non farebbe altro se non ripetere quanto detto dagli scienzia-
ti) vi sono due ordini di risposte. Innanzitutto va ricordato che l’interesse degli
scienziati è principalmente quello di creare nuovi modelli matematici e di con-
trollarne l’effettiva capacità predittiva. Pertanto spesso gli scienziati non sono
interessati alla domanda «come sarebbe il mondo se tale teoria fosse vera?»,
quanto lo sono alla domanda «quali basi empiriche abbiamo per considerare tale
teoria vera?». Inoltre il fatto che metafisica e scienza non siano sempre separa-
bili nettamente non significa che allora la metafisica consista in una ripetizione
di quello che dicono gli scienziati; piuttosto, tale fatto mostra come il confine tra
scienza e metafisica sia meno netto di quanto solitamente non si voglia credere.
Effettivamente il lavoro di alcuni scienziati si sovrappone a quello dei metafisici
naturalizzati, ma non per questo i secondi devono limitarsi a ripetere quanto
detto dai primi. Piuttosto, la metafisica sarebbe una parte fondamentale della
conoscenza scientifica del mondo e quindi i metafisici dovrebbero attivamente
svolgere un ruolo positivo all’interno delle scienze in collaborazione, e non in
contrapposizione né subordinazione, con gli scienziati. Questo è tanto più vero
proprio in quanto da una medesima formalizzazione di una teoria, sono giustifi-
cabili diverse metafisiche possibili.
Inoltre, la metafisica può essere in tensione anche con le visioni più comuni
fornite dalla scienza empirica. In altri termini la metafisica può proporre modelli
della realtà diversi e formulare esperimenti in grado di confermarli o confutarli
indirettamente. Si pensi ad esempio al teorema di Bell in meccanica quantistica,
che dimostra come, assumendo località e separabilità, non vi possa essere un’in-
terpretazione a variabili nascoste della meccanica quantistica99. In poche parole il

97
Questo fatto non è sufficiente per avvalorare l’ipotesi che siamo noi, attraverso i nostri concetti
a creare il mondo, in quanto la metafisica che noi difendiamo è frutto di un’indagine scientifica del
mondo che si basa, in primis, sulla conferma empirica.
98
J. Benovsky, Meta-Metaphysics. On Metaphysical Equivalence, Primitiveness, and Theory
Choice, Springer, Cham (CH) 2016.
99
Per una presentazione accessibile si veda D.N. Mermin, Is the Moon There When Nobody
Looks? Reality and Quantum Theory, «Physics Today», 38 (1985), 4, pp. 38-47. Per un’introduzione
dettagliata si veda W. Myrvold - M. Genovese - A. Shimony, Bell’s Theorem, in E.N. Zalta (ed.),
The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Spring 2019 Edition), https://plato.stanford.edu/archives/
spr2019/entries/bell-theorem.
940 alberto corti - vincenzo fano

teorema di Bell mostra come le correlazioni di due particelle in stato intrecciato o


non sono dovute a proprietà determinate che esistono prima di effettuare una misu-
razione o che, se queste proprietà determinate esistono, allora le particelle devono
essere in grado di interagire istantaneamente a distanza. Le diseguaglianze di Bell,
nate da un esperimento mentale proposto da Einstein e poi violate empiricamen-
te, hanno dato vita a un’intensa attività di ricerca volta a cercare di capire come
possa essere fatto il mondo affinché tale contro-intuitivo teorema potesse vale-
re: sono stati proposti pertanto diversi modelli metafisici al fine di poter spiegare
tale fenomeno. In questo dibattito la metafisica ha giocato un ruolo fondamenta-
le proponendo diverse visioni del mondo; prendiamo come esempio la proposta
di Suppes e Zanotti100. Sebbene la visione accettata della diseguaglianza di Bell
sia che la realtà quantistica sia sostanzialmente non-separabile, Suppes e Zanotti
hanno dimostrato matematicamente che, dati due eventi correlati, è ragionevole
chiedere che esista una causa comune a essi solo se le equazioni sono strettamente
deterministiche; i due autori101 hanno proposto che la metafisica soggiacente alla
meccanica quantistica sia, piuttosto che non-separabile, indeterministica. Ora,
dal momento che l’unico processo essenzialmente indeterministico in meccanica
quantistica è la misurazione dello stato di sovrapposizione, che è tutto fuorché un
processo fisicamente chiaro, non si può concludere che la meccanica quantistica
sia davvero indeterministica102. Tuttavia la proposta metafisica di Suppes e Zanotti
meriterebbe ulteriori indagini empiriche. Questo esempio mostra come la metafi-
sica possa essere propositiva rispetto ai modelli scientifici.
Oggi l’analisi della natura fisica degli stati sovrapposti in meccanica quantisti-
ca è al centro della ricerca, poiché tale fenomeno risulta cruciale per lo sviluppo
di alcune applicazioni pratiche; pertanto è verosimile credere che, se tali ricerche
progredissero, avremmo nuove ragioni per credere o rigettare la metafisica propo-
sta dai due autori. Crediamo che tale esempio sia sufficiente per chiarire la nostra
posizione in merito al ruolo che la metafisica può giocare nei confronti delle scien-
ze empiriche: a fronte di teorie scientifiche, i metafisici possono giocare anche un
ruolo revisionista 103, proponendo modelli che, avendo conseguenze empiriche in
senso lato differenti, possono essere controllate indirettamente.

100
P. Suppes - M. Zanotti, On the Determinism of Hidden Variable Theories with Strict Correla-
tion and Conditional Statistical Independence of Observables, in P. Suppes (ed.), Logic and Proba-
bility in Quantum Mechanics, Reidel, Dordrecht 1976, pp. 445-455.
101
Seguendo A. Fine, Do Correlations Need to Be Explained?, in J. T. Cushing - E. McMullin
(eds.), Philosophical Consequences of Quantum Theory, University of Notre Dame Press, Notre
Dame 1989, pp. 175-194.
102
Cfr. J. Earman, A Primer on Determinism, Reidel, Dordrecht 1986, cap. 11.
103
Questa nozione di «revisionismo» è ancora più radicale, e non va confusa con quella pre-
sente in P.F. Strawson, Individuals, Routledge, London - New York 1959; tr. it. di E. Bencivegna,
Individui. Saggio di metafisica descrittiva, Mimesis, Milano - Udine 2008.
la metafisica è morta! lunga vita alla metafisica! 941

6. Conclusione
Nel corso dell’articolo abbiamo presentato quattro modi di intendere la metafisica,
che sono rilevanti e diffusi nella letteratura analitica contemporanea. I primi tre
approcci da noi delineati – la metafisica neo-quineana, la metafisica come scienza
del possibile e la ricerca delle strutture ultime della realtà – sono accomunati dal
metodo, sostanzialmente a priori, di indagare la realtà. A ognuna di queste inter-
pretazioni della metafisica abbiamo dedicato un apposito paragrafo in cui abbia-
mo mostrato i limiti e le problematicità di tali posizioni. Se solitamente chi accetta
le critiche che abbiamo mosso alla metafisica analitica ne conclude che tale disci-
plina andrebbe abbandonata, noi crediamo invece che vi sia un modo positivo di
intendere tale attività. Spinti dall’idea che comprendere le strutture generali della
natura sia un bisogno necessario dell’uomo, e che pertanto «una certa metafisi-
ca c’è sempre stata e ci sarà sempre nel mondo», concordiamo con Kant che «il
primo e più importante compito della filosofia sarà pertanto quello di sottrarre la
metafisica ad ogni influsso dannoso»104.
Nell’ultimo paragrafo abbiamo quindi presentato l’approccio alla metafisica che
sembra imporsi nella letteratura più recente, che va sotto il nome di «metafisica natu-
ralizzata». Abbiamo argomentato che tale approccio alla metafisica non solo può
ereditare i punti di forza della metafisica analitica a priori, ma soprattutto è in grado
di superarne gli aspetti problematici. In particolare, la speranza di tale approccio alla
metafisica consiste nel tentativo di riavvicinare la filosofia alle scienze empiriche;
in questo modo la metafisica potrebbe partecipare allo sforzo unitario, promosso
dalle scienze empiriche, di comprendere il mondo che ci circonda. La metafisica
naturalizzata non si sta imponendo unicamente nella letteratura filosofica, ma sta
riscuotendo interesse anche da parte di alcuni scienziati. Sempre più ricercatori
infatti guardano con interesse alla filosofia, nella speranza che essa possa essere di
aiuto nel chiarificare le proprie teorie105. Crediamo davvero che un mutuo e costan-
te dialogo tra filosofi e scienziati potrebbe portare numerosi benefici a entrambe le
discipline. La speranza quindi è anche quella di colmare un divario comunicativo
che divide la comunità filosofica e quella scientifica106.

104
Kant, Critica della ragion pura, B XXXI, p. 53.
105
Cfr. C. Rovelli, Physics Needs Philosophy. Philosophy Needs Physics, «Foundations of
Physics», 48 (2018), 5, pp. 481-491; M. Pigliucci, Science Needs Philosophy, «The Australian
Humanist», 108 (2012), p. 16.
106
Parte di queste idee sono state presentate al Center for philosophy of science dell’Università
di Pittsburgh, all’Università Cattolica di Milano e al Inter-University Center di Dubrovnick. Ringra-
ziamo tutti coloro che in queste occasioni ci hanno fornito utili commenti. Ringraziamo infine due
anonimi referee per le loro osservazioni e critiche estremamente puntuali.
Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, CXII (2020), 4, pp. 943-967
ISSN: 00356247 (print) - 18277926 (digital)
DOI: 10.26350/001050_000226

Ciro De Florio* - Alessandro Giordani**

Alcune ipotesi sulla possibilità della metafisica

Some Hypotheses on the Possibility of Metaphysics

The aim of this paper is to investigate some proposals about the possibility of metaphysics. In
particular, we want to focus on the relationships between the justification procedures used in
empirical sciences and in metaphysics. We develop three models of meta-metaphysics, that is
Metaphysics Through Physics, (MTP); Metaphysics Through Physics or Logic, (MTPL); and
Metaphysics Constrained by Physics or Logic, (MCPL) and we argue that the latter is able to
guarantee an autonomous field of enquiry for metaphysics.

Keywords: Metametaphysics, Epistemology of Metaphysics, Philosophy of Physics, Philoso-


phy of Logics, Logic and Metaphysics
© 2020 Vita e Pensiero / Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore

1. Introduzione
In filosofia è difficile trovare grandi novità e la riflessione sulla struttura stessa
della metafisica, ovvero sulla sua essenza e sulle sue condizioni di possibilità,
non fa certo eccezione. Fin dall’elaborazione greca, ci si è chiesti quale fosse
il ruolo della metafisica nell’edificio del sapere e, seppure a livello embrionale,
non sono mancate riflessioni critiche sui suoi metodi, nella misura in cui questi
si distanziano da quelli impiegati in altre discipline teoriche. Che la questione
circa il destino della metafisica sia deflagrata con l’età moderna è un’altra nota
non particolarmente nuova, ed è stata proprio la scienza moderna ad innesca-
re questo genere di meta-riflessione: non è certo un caso che la più profonda
disamina classica circa la possibilità della metafisica sia da ascrivere a Kant, al
culmine dell’epoca moderna.
Anche oggi la comunità filosofica continua ad interrogarsi sulla metafisica,
sulla sua legittimità e sui rapporti che intrattiene con altri saperi, sia filosofici

*
Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano. Email: ciro.deflorio@unicatt.it
**
Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano. Email: alessandro.giordani@unicatt.it
Received: 20.05.2020; Approved: 04.06.2020.
944 ciro de florio - alessandro giordani

che generali1. Vi sono tre ragioni (sia concettuali che, potremmo dire, sociologi-
che) che aiutano a spiegare questo fenomeno. In primo luogo, la centralità degli
studi di metafisica nel panorama attuale2. In secondo luogo, una componente
importante delle diverse filosofie della scienza (filosofia della matematica, della
fisica, della biologia, dell’economia e così via) è dedicata allo studio della por-
tata ontologica dei modelli costruiti dalle scienze in questione. Lo si vede chia-
ramente sia nel caso dell’ontologia delle scienze fisiche – e torneremo su questo
punto, dove le questioni fondazionali e interpretative delle teorie più generali
si fondono con problemi di carattere metafisico – sia nel caso di discipline i
cui domini differiscono da quelli delle scienze empiriche (con questo termine
intendiamo le scienze propriamente naturali): si pensi, a titolo esemplificativo,
all’espansione delle ontologie sociali. In terzo luogo, l’attenzione alla meta-
metafisica è animata dalla più ampia riflessione circa la metodologia delle scien-
ze filosofiche in quanto tali: guardiamo al ruolo che svolgono gli esperimenti
mentali (sia in filosofia che nella scienza) o alle caratterizzazioni logiche della
concepibilità e dell’immaginazione che – almeno a partire da Hume – è stata
considerata la strada maestra per accedere al regno della possibilità.
In questo contesto si colloca il bel contributo di Vincenzo Fano e Alberto Corti
su questa Rivista (V. Fano - A. Corti, La metafisica è morta! Lunga vita alla meta-
fisica!) che a sua volta è figlio di un interessante convegno (Fisica e Metafisica,
tenuto il 24 gennaio 2018 presso l’Università Cattolica di Milano). Come ideale
prosecuzione delle molte questioni messe sul tavolo in quelle occasioni, in questo
lavoro tenteremo di argomentare a favore di una concezione della metafisica in gra-
do di mantenere una certa continuità con il sapere scientifico ma senza abdicare a
un dominio proprio di questioni e problemi3. Anticipiamo che il carattere di questo
articolo è fortemente in progress, concepito proprio come contributo a una discus-
sione viva e molto aperta. La struttura del paper è, quindi, la seguente: nel prossi-
mo paragrafo mostreremo due approcci molto generali, e diametralmente opposti,
alla metafisica; passeremo quindi a illustrare due ulteriori modelli di giustificazione

1
È rilevante in tal senso il volume collettaneo curato, ormai un decennio fa, da Chalmers, Man-
ley e Wasserman intitolato Metametaphysics (D. Chalmer - D. Manley - R. Wasserman [eds.],
Metametaphysics: New Essays on the Foundations of Ontology, Oxford University Press, Oxford
2009), a sottolineare l’aspetto meta-teorico dell’indagine. Le introduzioni di Berto e Plebani (F.
Berto - M. Plebani, Ontology and Metaontology: A Contemporary Guide, Bloomsbury Publishing,
London - Oxford - New York 2015) e di Tahko (T.E. Tahko, An Introduction to Metametaphysics,
Cambridge University Press, Cambridge 2015), (molto diverse per impostazione) così come la voce
di quest’ultimo sulla Routledge Encyclopedia of Philosophy (solo per citare alcuni lavori) conferma-
no che non si tratta di un ‘new black’; la riflessione metateorica sulla natura della metafisica ha piena
cittadinanza nel dibattito contemporaneo.
2
L’aggregatore PhilPapers segnala al momento in cui scriviamo oltre 44.000 lavori censiti sotto
la macro-area Metaphysics.
3
E questa è l’occasione giusta per ringraziare Vincenzo e Alberto per aver discusso così a lungo
su questi temi. Vorremmo anche ringraziare Sergio Galvan e Massimo Marassi per averci spronato a
scrivere questo articolo.
alcune ipotesi sulla possibilità della metafisica 945

della metafisica, con particolare enfasi sul tema della fondazione a priori. Infine,
nell’ultima parte, cercheremo di elaborare un modello che, pur presentando conti-
nuità con quelli precedenti, è in grado di rendere conto di alcuni problemi filosofici
genuini che faticano a trovare una collocazione nelle altre prospettive4.

2. Esistenza e struttura: due approcci alla metafisica


In What Grounds What Jonathan Schaffer ha avuto l’indubbio merito di propor-
re un framework di riferimento generale per inquadrare due approcci fondamen-
tali nella ricerca metafisica5. Al di là della sua applicabilità specifica, il lavoro
di Schaffer ci aiuta a preparare il campo per la nostra riflessione. In estrema sin-
tesi, ci sono almeno due grandi approcci alla metafisica che possiamo chiamare
quineano e aristotelico. Ovviamente, all’interno di queste macro-categorie pos-
sono coesistere (e di fatto coesistono) concezioni estremamente differenti, che
restituiscono immagini del mondo spesso incomparabili. Tuttavia, ad avviso di
Schaffer, queste impostazioni condividono alcuni assunti metodologici e conte-
nutistici del tutto generali.
Secondo il paradigma quineano, il problema fondamentale della metafisica
coincide con il problema fondamentale dell’ontologia: che cosa esiste? Il signifi-
cato di esistenza è univoco, non c’è distinzione tra esistenza e essere, non ci sono
modi di esistenza. Schaffer parla di una concezione piatta della metafisica: tutto
ciò che esiste, in altri termini, è alla pari. Se esistono, persone, alberi, librerie,
atomi, particelle elementari, numeri interi, giochi, baci e matrimoni esistono allo
stesso modo. Ma come determinare che cosa esiste? Il criterio di Quine è molto
elegante: la nostra base per identificare come è popolato il mondo è data dalle teo-
rie sul mondo che sono maggiormente giustificate. Dobbiamo quindi prendere in
considerazione queste teorie e studiare il loro impegno ontologico, ovvero il loro
dominio di quantificazione. Se avessimo una teoria fortemente giustificata che ci
parla di unicorni, per il criterio quineano, dovremmo ammettere nell’arredamento
del mondo entità come gli unicorni. Chiaramente, nessuna teoria sugli unicorni
soddisfa i requisiti di giustificazione richiesti dal paradigma quineano. Infatti, tali
requisiti di giustificazione identificano le teorie scientifiche come le fonti migliori
di conoscenza che abbiamo a disposizione, da cui segue che i domini di entità che
ammettiamo sono precisamente i domini delle teorie empiriche.

4
Vale il solito disclaimer per cui i nostri intenti non sono né ricostruttivi né esegetici. In altri
termini, non ci interessa sapere se le posizioni effettivamente presentate siano totalmente fedeli al
pensiero di French o di Maudlin o di Aristotele (si parva licet). Lo scopo è argomentativo e le propo-
ste teoriche verranno valutate esclusivamente rispetto alla loro giustificazione.
5
Schaffer non si impegna ovviamente ad affermare che ogni proposta metafisica attualmente
discussa debba in qualche modo rientrare nella sua tassonomia (cfr. J. Schaffer, On What Grounds
What, in Chalmers - Manley - Wasserman, Metametaphysics, pp. 347-383).
946 ciro de florio - alessandro giordani

Il modello quineano prende molto sul serio l’immagine scientifica del mondo,
tanto da non lasciare, di fatto, alcun spazio alla metafisica: questa deriva dalla
scienza. La metafisica è ontologia e l’ontologia è ontologia della scienza.
Non è questa la sede per difendere o criticare l’approccio di Quine. In generale,
infatti, siamo piuttosto scettici sulla possibile efficacia di difese o critiche genera-
li, ovvero di prese di posizioni esterne, che non discutono o che non si confrontano
direttamente con la posizione in gioco, e crediamo, al contrario, che una certa
impostazione metafisica sia da vagliare nella concreta analisi di problemi specifi-
ci, e che solo così si possano ottenere passi in avanti nella conferma o meno di una
certa impostazione generale. Tuttavia, posto questo, ci sono almeno tre rilievi che
possono essere mossi all’impostazione quineana. Vediamoli in ordine.
In primo luogo, l’identificazione di metafisica e ontologia appare problema-
tica. Ci sono strutture metafisiche specifiche la cui analisi non è di pertinenza
dell’ontologia, tantomeno dell’ontologia piatta definita in precedenza. L’esempio
più noto – anche dal punto di vista storico, dal momento che ha impegnato lo stes-
so Quine – è quello della metafisica della modalità. Chiaramente, un sostenitore
della posizione quineana può rispondere e intraprendere una qualche strategia di
definizione della modalità. Si tratta però di una strada complicata, perché alcune
strutture metafisiche fondamentali sembrano resistere a riduzioni senza perdere
sensibilmente la capacità esplicativa. Nel caso specifico della modalità, poi, ci
sono alcuni risultati formali (quindi non negoziabili) che suggeriscono che, nella
sua interezza, la posizione di Quine non è sostenibile.
In secondo luogo, la derivazione dell’ontologia dalla scienza non è un processo
univoco e determinato. Le teorie scientifiche possono essere presentate in maniere
differenti, tutte empiricamente, ma non ontologicamente, equivalenti. L’operazio-
ne di esplicitazione degli impegni ontologici di una teoria è un punto cruciale per
il programma quineano, ma non è un passaggio banale. Il problema fondamentale
in questo senso è se ci possono essere metacriteri che regolano la traduzione delle
teorie e che, a loro volta, non implicano un riferimento a intuizioni metafisiche
precedentemente assunte.
Infine, un punto più generale: la proposta quineana si basa su determinate
assunzioni metafisiche, senza ulteriore discussione. Perché l’univocità dell’esi-
stenza dovrebbe essere una posizione maggiormente credibile rispetto alla plurali-
tà del significato di esistere? Perché, anche ammettendo l’univocità dell’esistenza,
si dovrebbe assumere che non ci sono tipi di esistenza differenti? Inoltre, perché
si dovrebbe ritenere che il ricorso alle teorie scientifiche sia in grado di dipanare
la questione su ciò che fondamentalmente esiste? e a quali teorie scientifiche si
dovrebbe ricorrere? In altri termini, l’impostazione quineana è già basata su una
metafisica di sfondo e come tale andrebbe adeguatamente giustificata. Il problema
alcune ipotesi sulla possibilità della metafisica 947

è che, in base alla stessa metodologia propugnata da questo approccio, sembra che
la giustificazione sia preclusa6.
L’altra metà del cielo è, secondo Schaffer, occupata da un programma che si
ispira più o meno direttamente alla concezione metafisica di Aristotele. Lo pos-
siamo chiamare, per comodità, programma neo-aristotelico, sempre stando attenti
a differenziare quello che è, per l’appunto, un orientamento metateorico generale
dalle specifiche tesi delle varie posizioni che si possono ascrivere ad esso.
Secondo questo orientamento i problemi metafisici non sono tanto problemi che
concernono l’esistenza di determinati tipi di entità, quanto problemi relativi alle
connessioni di dipendenza tra tali tipi di entità: ciò che è in gioco, quindi, non è
l’arredamento del mondo, quanto la struttura relazionale dell’arredo. In base a que-
sta concezione, la realtà non è piatta, come invece sostiene la posizione quineana,
ma esibisce una serie di relazioni che connettono entità collocate a vari livelli di
fondamentalità: relazioni come supervenienza, emergenza, grounding, causazione
metafisica, sono tutte candidate privilegiate per conferire una dimensione ulterio-
re alla composizione del mondo. Si può osservare che, da questo punto di vista, il
significato dell’esistenza non è univoco, essendovi, al contrario, molti modi d’essere
delle cose. Consideriamo ad esempio un classico problema di carattere metafisico,
come l’esistenza o meno di particolari tipi di oggetti astratti, i numeri:
At one point Aristotle does pause to ask if numbers exist, and his answer is a brief and
dismissive yes: ‘‘it is true also to say, without qualification, that the objects of mathematics
exist, and with the character ascribed to them by mathematicians’’ (Metaph. 1077b32–3).
For Aristotle, the serious question about numbers is whether they are transcendent sub-
stances, or grounded in concreta. The question is not whether numbers exist, but how7.

Il problema veramente interessante, sembra dire Aristotele con le parole di


Schaffer, non è se i numeri esistono (questo è banale se si guarda al lavoro dei
matematici) ma quali sono le modalità della loro esistenza: se sono cioè entità
indipendenti dalle entità concrete, o dal pensiero e dal linguaggio dei matemati-
ci, se sono entità prive di una collocazione spazio-temporale, e così via.
È evidente che il paradigma neo-aristotelico assegna alla metafisica un ruo-
lo decisamente più importante rispetto al ruolo riconosciuto da Quine e dai suoi
seguaci. Secondo Jonathan Lowe, per esempio, il problema fondamentale della
metafisica coincide con il problema di determinare ciò che è possibile, intenden-
do per possibilità qualcosa di diverso dalla possibilità empirica e dalla possibilità
logica. Infatti, la possibilità empirica è un tipo di possibilità relativa: è la possibi-
lità intesa come consistenza con le leggi di una teoria scientifica, o con le leggi del

6
Per una presentazione più estesa e una discussione delle distinzioni che è possibile introdurre in
relazione al predicato di esistenza, da un punto di vista quineano, cfr. P. Van Inwagen, Metaphysics,
Westview Press 2015, pp. 291-326.
7
Schaffer, On What Grounds What, p. 348.
948 ciro de florio - alessandro giordani

mondo empirico. In senso simile, anche la possibilità logica è un tipo di possibilità


relativa: è la possibilità intesa come consistenza con le leggi di un certo sistema di
logica, o con le leggi del pensiero in generale. La possibilità metafisica è invece
una possibilità incondizionata e, sulla base di questa, è possibile limitare l’ambito
della possibilità fisica, come ambito delle leggi che sono metafisicamente possi-
bili, e determinare l’ambito della possibilità logica, come ambito delle leggi del
pensiero di ciò che è metafisicamente possibile.
Come nel caso dell’approccio quineano, non è questa la sede per difendere
o criticare l’approccio neo-aristotelico. Per i scopi di questo lavoro ci sembra,
tuttavia, utile mettere in luce un aspetto che riteniamo cruciale: una differenza
fondamentale tra i due paradigmi riguarda l’accesso epistemico al dominio della
metafisica e la possibilità di giustificazione delle tesi metafisiche. Il quineano
sostiene che il peso epistemico dell’ontologia è da scaricare sulle migliori pro-
cedure di giustificazione a nostra disposizione, identificando queste procedu-
re con quelle caratteristiche della scienza empirica. Il neo-aristotelico sostiene
invece qualche cosa in più: deve infatti ammettere che esistono delle procedure
di giustificazione che, pur non connesse direttamente con le ragioni empiriche,
ci consentono di giungere a proposizioni sufficientemente giustificate. Il domi-
nio della possibilità metafisica, per tornare all’approccio di Lowe, che in que-
sto si allinea con Aristotele, non è preso in considerazione da alcuna scienza in
particolare, essendo, se mai, presupposto dalle singole discipline scientifiche.
La metafisica diventa allora possibile perché riusciamo a formulare delle leggi
circa il dominio delle entità possibili, ossia dei possibili candidati a entità attua-
li. Poiché non coincide con la possibilità fisica o con quella logica, la possibilità
metafisica non è oggetto dell’ontologia della scienza (come vorrebbe invece il
quineano) né è oggetto della logica. Il punto fondamentale sembra essere allora
il seguente: per garantire una certa autonomia all’indagine metafisica in quanto
tale, sono necessari almeno due requisiti:
i. La metafisica deve riferirsi a un ambito di possibilità distinto, almeno in linea di prin-
cipio, dalla possibilità fisica e dalla possibilità logica, o analitica.
ii. La metafisica deve basarsi su procedure di giustificazione in parte differenti rispetto
alle procedure empiriche delle scienze o a quelle a priori della logica.

Nella prossima sezione, prenderemo in considerazione tre approcci alla metafisica


che, a nostro avviso, ci consentono di compiere un passo ulteriore rispetto alla
contrapposizione acquisita tra approccio quineano e approccio neo-aristotelico.
Questi approcci, infatti discutono le interrelazioni tra possibilità metafisica e altri
tipi di possibilità da un lato e giustificazioni a posteriori e a priori dall’altro. Prima
di procedere tuttavia, introduciamo una chiarificazione circa l’idea che l’ambito
della metafisica sia da delimitare in riferimento alla nozione di possibilità metafi-
sica. Assumendo questo non intendiamo sposare la posizione di Lowe, in base alla
quale l’ambito della metafisica coincide con l’ambito dell’ente metafisicamente
alcune ipotesi sulla possibilità della metafisica 949

possibile, o che la metafisica sia una ricerca della struttura della possibilità, contro
una ricerca circa la struttura del mondo attuale. Intendiamo invece dire che l’ambi-
to della metafisica è delimitato in riferimento alla nozione di possibilità metafisica
nel senso che la struttura metafisica fondamentale del mondo attuale può essere
interpretata come la struttura comune a ogni mondo metafisicamente possibile. In
questo senso, argomentare a favore dell’esistenza di un ambito di possibilità meta-
fisica coincide con argomentare a favore dell’esistenza di una struttura metafisica
fondamentale del mondo attuale non riducibile alla struttura fisica fondamentale
del mondo studiato dalle scienze o alla struttura logica fondamentale del nostro
pensiero. Una simile concezione è perciò sufficientemente generale da includere
come specificazioni posizioni molto diverse tra loro, per esempio posizioni che
intendono la metafisica come studio dell’ente in atto, o come studio dell’ente pos-
sibile, o come studio della sostanza, o come studio delle condizioni di possibilità
dell’ente in atto, e così via. In ogni caso, infatti, la metafisica sarà intesa come
studio di una struttura che non è riducibile alla struttura fisica del mondo o alla
struttura logica del pensiero.

3. Tre modelli di giustificazione della metafisica


Il naturalismo filosofico può essere caratterizzato in differenti modi (e ogni
caratterizzazione costituisce a sua volta un mare magnum, in cui, come è noto,
è difficilissimo dipanare gli aspetti ontologici, epistemici, metodologici e così
via). Il livello base del naturalismo, che potremmo chiamare naturalismo 1.0,
è quello che nessuna persona razionale e minimamente dotata di senso critico
mette seriamente in dubbio. A questo livello una posizione è chiamata naturali-
sta se condivide l’idea secondo la quale, nell’indagine del mondo, occorre pren-
dere sul serio l’insieme dei risultati della scienza. In questo senso, per tornare
agli esempi presentati in apertura, non possiamo sviluppare una teoria filosofi-
ca della persona se non prendiamo sul serio i risultati della psicologia e della
sociologia circa la struttura complessa della mente e il modo in cui l’insieme
delle relazioni che una persona intrattiene si sviluppa e influisce sul suo modo
di essere; non possiamo sviluppare una teoria filosofica dei sistemi viventi se
non prendiamo sul serio i risultati della biologia su questi sistemi; non possiamo
sviluppare una teoria filosofica dei numeri se non prendiamo sul serio i risultati
della matematica, e così via.
L’essere naturalisti, a questo livello di base, è certamente proprio di ogni filo-
sofo, come supportato dalla storia stessa della filosofia, che vede grandi filosofi
all’origine di discipline scientifiche attualmente autonome, come la matematica,
la fisica, la biologia, l’economia, per citare alcuni esempi illustri. In questi casi,
non solo i risultati della scienza sono stati presi sul serio dai filosofi, ma sono stati
prodotti precisamente da filosofi. Infatti, essere naturalisti, a questo livello, signi-
fica semplicemente svolgere la propria ricerca in modo tale che le ipotesi avanzate
950 ciro de florio - alessandro giordani

possano essere messe in discussione e criticate all’interno di una discussione


razionale e accettare che, se la ricerca concerne i tratti fondamentali di un dominio
empirico, la discussione critica sia informata dai dati ottenuti su quel dominio da
coloro che lo studiano dal punto di vista di una particolare disciplina scientifica. E
fin qui si capisce perfettamente in che senso questo livello base sia motivo di unio-
ne tra la compagine dei filosofi: chi negherebbe infatti la portata conoscitiva delle
diverse scienze e l’importanza di connettere le visioni del mondo generate dalla
filosofia a questo solido patrimonio di informazioni ben confermate?
Se però ci stacchiamo un poco dall’irenica dichiarazione di intenti collabo-
rativi e proviamo a chiederci come vada inteso questo ‘prendere sul serio la
scienza’ ecco che la complessità dei problemi cresce esponenzialmente, le que-
stioni si specificano e, di conseguenza, le posizioni si diversificano. In particola-
re, il livello estremo del naturalismo, che potremmo chiamare naturalismo 2.0, è
quello che più di una persona razionale e dotata di senso critico potrebbe mette-
re in dubbio. A questo livello una posizione è chiamata naturalista se condivide
l’idea secondo la quale, nell’indagine del mondo, occorre prendere sul serio
esclusivamente l’insieme dei risultati della scienza attuale. In questo senso, non
possiamo sviluppare una teoria filosofica della persona, perché sviluppare una
teoria della persona è proprio esclusivamente della psicologia e della sociolo-
gia; non possiamo sviluppare una teoria filosofica dei sistemi viventi, perché
sviluppare una tale teoria è proprio esclusivamente della biologia; non possiamo
sviluppare una teoria filosofica dei numeri perché sviluppare una tale teoria è
proprio esclusivamente della matematica, e così via.
Tra il livello 1.0 e il livello 2.0 troviamo differenti concezioni interessanti del-
la relazione tra filosofia, in particolare metafisica, e scienze. Ciò che intendiamo
proporre è una terna di concezioni della metafisica che si distaccano dal livello
estremo e si spostano progressivamente verso il livello base, in cui si assicura
un ambito di ricerca specifico e un set proprio di procedure di fondazione per
la metafisica. Presenteremo quindi tre modelli di giustificazione della metafisica,
associati a tre punti di vista su questa disciplina, e cercheremo di mostrare come ci
siano ragioni per sostenere il modello più ambizioso. Chiameremo questi modelli:
1. metafisica attraverso la fisica (Metaphysics Through Physics, MTP);
2. metafisica attraverso la fisica o la logica (Metaphysics Through Physics or Logic,
MTPL);
3. metafisica vincolata dalla fisica e dalla logica (Metaphysics Constrained by Physics
or Logic, MCPL).

In ciò che segue, discuteremo delle relazioni tra le procedure di giustificazione che
possiamo ascrivere alla metafisica e le procedure di giustificazione proprie della
fisica. La scelta è ricaduta sulla fisica per l’ampiezza e la fecondità del dibattito
circa l’ontologia fondamentale del mondo fisico. Inoltre, i modelli che prendere-
mo in considerazione sono stati formulati da filosofi della fisica. Essendo però le
alcune ipotesi sulla possibilità della metafisica 951

nostre considerazioni di portata generale, crediamo che considerazioni analoghe


si possano compiere per altre scienze naturali (come la biologia) e per le scienze
umane (come l’economia).

3.1. Metafisica attraverso la fisica

Abbiamo visto nella sezione precedente che l’accesso a ciò che è metafisicamente
possibile diventa un punto cruciale per definire la nostra idea di metafisica.
Supponiamo infatti che la metafisica sia concepita come un sapere a priori.
Allora un dibattito relativo alla giustificazione di una teoria metafisica assume la
seguente struttura:
i) ci sono evidenze a priori su ciò che è metafisicamente possibile;
ii) ogni teoria metafisica deve essere consistente con le nostre evidenze a priori;
iii) ogni teoria metafisica che non ammette situazioni metafisicamente possibili secondo
le nostre evidenze a priori deve essere rigettata.

L’idea è quella di replicare le procedure di fondazione adottate in riferimento alle


teorie empiriche nel caso delle teorie metafisiche. Così come le teorie empiriche
sono vagliate sulla base di evidenze empiriche, ossia delle osservazioni relati-
ve agli esiti di esperimenti specifici, allo stesso modo le teorie metafisiche sono
vagliate sulla base delle evidenze metafisiche, ossia delle evidenze a priori rela-
tive agli esiti di quelli che possiamo chiamare esperimenti mentali. Il laboratorio
del metafisico è quindi uno spazio concettuale nel quale egli è in grado di poten-
ziare le proprie intuizioni sul mondo, e non è un caso che gli esperimenti men-
tali siano appunto chiamati intuition pumps, ovvero dispositivi teorici in grado
di concentrare e sviluppare la nostra intuizione su concetti fondamentali per la
discussione metafisica. In questa concezione, quindi, il sapere metafisico è giu-
stificato sulla base delle nostre evidenze a priori. Ciò che si assume è che esiste
un dominio metafisico proprio che è accessibile mediante intuizione a priori e che
viene, di fatto, indagato tramite metodologie tipiche dell’attività filosofica: analisi
concettuale, riflessione su esperimenti mentali, riflessione su dati ottenuti a priori.
Ci possiamo però affidare a esperimenti mentali costruiti su dati ottenuti a
priori? Le informazioni che otteniamo in base a questo tipo di dati sono sostan-
ziali? Accrescono la comprensione del mondo in cui esistiamo? La questione
principale legata a questa concezione concerne chiaramente l’esistenza e l’af-
fidabilità delle evidenze a priori: ci sono evidenze a priori e, nel caso ci siano,
sono evidenze intersoggettivamente condivisibili?
Per rendere questo punto meno astratto prendiamo in considerazione alcu-
ni esempi, volutamente schematizzati, di come un dibattito relativo a una tesi
metafisica potrebbe essere condotto e presentiamo il modo in cui è possibile
criticare l’assunzione che esistano evidenze a priori significative dal punto di
vista della metafisica.
952 ciro de florio - alessandro giordani

Esempio 1. Un principio fondamentale, in alcuni sistemi metafisici, è il prin-


cipio di identità degli indiscernibili. In base questo principio, non è possibile che
si diano due entità numericamente distinte che condividono le stesse proprietà
intrinseche o strutturali. Tuttavia, abbiamo intuizioni in base alle quali è possibile
che si diano due sfere con le stesse proprietà intrinseche e strutturali situate in
due punti diversi dello spazio. Abbiamo quindi l’intuizione che queste due entità,
numericamente distinte, siano indiscernibili – assumendo che la posizione spazia-
le sia una proprietà estrinseca. Come queste intuizioni operino, nel concreto, non
è semplice da determinare e, in aggiunta, non è affatto scontato che operino, per
così dire, sempre nello stesso modo per tutti i soggetti, e che quindi siano intersog-
gettivamente condivisibili. Tuttavia, al di là di questi dettagli, si potrebbe conclu-
dere che il principio di identità degli indiscernibili debba essere rigettato.
Perché immaginarci sfere assolutamente identiche? Perché basarci sulla tra-
ballante intuizione secondo cui non sembrano esserci contraddizioni nel postu-
lare siffatte sfere? L’idea è che, in questo caso, l’esempio può essere modificato,
sostituendo le due sfere con due entità attualmente riconosciute come fisicamente
possibili, come due particelle elementari, per esempio due fotoni. Quindi, l’uso
dell’intuizione per costruire un caso di entità indistinguibili, e tuttavia numeri-
camente distinte, ovvero per costruire un contromodello al principio di Leibniz,
è semplicemente inutile, e alla fine possibilmente dannoso, perché nella natura
troviamo esempi di quelle entità, nella struttura fondamentale della realtà fisica.
Esempio 2. Un altro principio importante in alcuni sistemi metafisici è il prin-
cipio di supervenienza rispetto al mosaico spaziotemporale delle proprietà fisiche
intrinseche locali. Secondo questo principio, tutto ciò che esiste è determinato dal
mosaico spaziotemporale: è la configurazione degli elementi fondamentali del-
la realtà che stabilisce la struttura del mondo a livelli più elevati. Anche in questo
caso, analogamente all’esempio 1, qualcuno potrebbe provare ad argomentare con-
tro il principio in gioco. Di nuovo, si tratta di ipotizzare uno scenario concettuale
che dovrebbe essere metafisicamente possibile e, al contempo, negare il principio
di supervenienza. Postuliamo quindi che si diano due sfere omogenee con le stes-
se proprietà fisiche intrinseche locali ma una sola delle quali in moto di rotazio-
ne uniforme. Abbiamo, pertanto, due strutture che condividono lo stesso mosaico
spaziotemporale ma che hanno proprietà di ordine superiore differenti. Pertanto il
principio deve essere rigettato se (ed è una condizione chiaramente impegnativa) le
due sfere in questione sono metafisicamente possibili. Vediamo ora come ragionare
sostituendo l’intuizione a priori con i risultati della scienza naturale: un sostenitore
di questo approccio direbbe che, contrariamente a quanto avveniva nel caso degli
indiscernibili, l’esempio delle due sfere non può essere modificato sostituendo le
due sfere con due entità attualmente riconosciute come fisicamente possibili, perché
non ci sono, qui, nel mondo attuale, sfere omogenee di materia.
La differenza tra i due esempi è chiara: da una parte abbiamo un caso di possi-
bilità metafisica a cui corrisponde un caso di possibilità fisica, cioè quello di entità
alcune ipotesi sulla possibilità della metafisica 953

numericamente distinte che condividono le stesse proprietà intrinseche, dall’altra


no. Nel secondo caso, cioè, l’unica conferma che lo scenario immaginato è meta-
fisicamente possibile è fornita dalla nostra intuizione a priori. A questo punto un
filosofo della fisica come Maudlin commenta:
The problem is simple: we have no reason whatsoever to claim to know that the two sup-
posedly distinct, metaphysically possible situations are, either of them (much less both
of them), metaphysically possible. The first premiss of the argument fails, so the whole
thing can’t get off the ground8.

L’idea alla base della conclusione di Maudlin è semplice: (1) abbiamo forti ragio-
ni empiriche per credere che non esistano cose come sfere perfettamente omoge-
nee, dato che abbiamo forti ragioni empiriche per credere che la teoria atomica
della materia sia una teoria corretta; d’altro canto, (2), la nostra esperienza di
sfere rotanti è esperienza di entità attuali, e quindi – a fortiori – non abbiamo
alcuna esperienza di sfere perfettamente omogenee sia che queste siano rotanti o
non rotanti; ma, (3), l’esempio delle sfere omogenee è cogente solo se si hanno
delle buone ragioni per credere che questi scenari (quello della sfera in rotazione
e quello della sfera in quiete) siano metafisicamente possibili. Maudlin conclude
quindi che non abbiamo ragioni empiriche per credere che l’esempio delle sfere
perfettamente omogenee sia cogente.
Il punto di Maudlin è estremamente interessante per i nostri scopi. Si noti che
ci sono due dimensioni di analisi in gioco. Innanzitutto c’è la distinzione tra pos-
sibilità fisica e possibilità metafisica: Maudlin non nega che vi sia una regione
di possibilità fisica che è inclusa nella possibilità metafisica. Conseguentemente,
Maudlin non nega che certi stati di cose siano metafisicamente possibili (in que-
sto senso, egli non ha una posizione eliminativista nei confronti della possibilità
metafisica). L’altra dimensione importante è però quella epistemica, che riguarda
cioè l’accesso ai regni della possibilità fisica e metafisica. E qui Maudlin dubi-
ta del fatto che sia possibile giustificare sulla base di ragioni non empiriche che
ci siano situazioni metafisicamente possibili differenti da situazioni fisicamente
possibili. Possiamo conoscere possibilità metafisiche attraverso ragioni di carat-
tere empirico, come avviene nel primo esempio. Ovvero, lo scenario di due entità
indistinguibili numericamente distinte è metafisicamente possibile perché abbia-
mo ottime ragioni empiriche per credere che possa essere fisicamente attuato. Se
Maudlin ha ragione, l’unica porta per accedere alla possibilità metafisica passa
attraverso l’analisi della possibilità fisica, grazie a ragioni di tipo empirico. Ma,
come è noto, spesso in metafisica non possiamo aggrapparci alle ragioni empiri-
che, perché ragioniamo su scenari che, quasi per definizione, eccedono l’ambito

8
T. Maudlin, The Metaphysics Within Physics, Oxford University Press, Oxford 2007, p. 185.
954 ciro de florio - alessandro giordani

della possibilità fisica. E in quei casi se non abbiamo ragioni empiriche per crede-
re che alcune situazioni siano metafisicamente possibili, quali ragioni abbiamo?
A questo punto, un sostenitore della distinzione tra possibilità fisica e metafisica
potrebbe argomentare così:
At this point, the metaphysician may try a decisive move. The metaphysician can grant
everything put forward so far: there is no reason to believe, and every reason to disbelieve,
that the situation described in the first premiss is physically possible. But metaphysical
possibility extends more widely than physical possibility. It is metaphysically possible that
physics might have been different from what it is, and that it might allow for complete-
ly homogeneous matter, and that the homogeneous matter it allows for might be correctly
described by continuum mechanics, and that the velocity field might be correctly interpreted
as giving the velocity of a persisting bit of the homogeneous matter. Then the continuum
mechanics will have as models both rotating and non-rotating homogeneous spheres, and
these will allow our argument to go through9.

Tuttavia, la soluzione proposta non evita il problema:


The obvious rejoinder to this move is that it makes metaphysics out to be nothing but the
analysis of fantastical descriptions produced by philosophers, and, not surprisingly, these
fantastical descriptions will have in them whatever features the philosophers decided to
put into them [...] So either we have some serious reason to think that a situation is possi-
ble (such as a demonstration that it is a model of some reasonably plausible physics, or a
plausibility argument that it is a model of actual physics) or we simply think it is possible
because we have produced a description and decided to nominate it a metaphysical possi-
bility. The latter approach simply fails to make any contact with reality, and it is hard to see
why discussion of such cases should be of any interest to ontology10.

L’argomento di Maudlin è chiaro: non c’è garanzia epistemica che le descrizio-


ni fantastiche dei filosofi non siano vuoti vaneggiamenti. Se non abbiamo delle
buone ragioni di carattere empirico per pensare che un certo scenario sia effetti-
vamente possibile, non ci resta che dichiarare (e questa è la strada da intrapren-
dere se seguiamo Maudlin) che ciò che è metafisicamente, ma non fisicamente,
possibile coincide con ciò che è descrivibile in maniera consistente. Quest’ultimo
passaggio è importante perché Maudlin introduce, un po’ rapidamente, il concetto
di possibilità logica. Sebbene la possibilità logica sia implicata dalla possibili-
tà metafisica, non si può assumere che tutto ciò che è logicamente possibile sia
anche metafisicamente possibile, altrimenti la possibilità metafisica coinciderebbe
con la mera consistenza, e si perderebbe la connessione con il mondo attuale. In
altri termini, il fatto di riuscire a rappresentare una situazione in maniera non con-
traddittoria (descrivendo per esempio uno scenario in cui vi sono corpi costituiti

9
Ibi, p. 187.
10
Ibi, pp. 187-188.
alcune ipotesi sulla possibilità della metafisica 955

da una materia perfettamente omogenea) non porta alcuna garanzia circa la loro
possibilità metafisica. Al contrario, per Maudlin, possiamo giustificare le nostre
asserzioni sulla possibilità metafisica, ma solo grazie a ragioni di carattere empi-
rico, derivanti dalle migliori teorie sul mercato. E quindi, le ragioni empiriche ci
consentono di avere un criterio per differenziare posizioni metafisiche giustificate
rispetto a posizione metafisiche ingiustificate.
In conclusione, Maudlin solleva dubbi non circa l’estensione della possibilità
metafisica, che riconosce essere più ampia della possibilità fisica; egli dubita che
la giustificazione del fatto che una certa situazione sia metafisicamente possibile
possa essere prodotta a prescindere da ragioni empiriche. Questo è il modello di
metafisica che abbiamo chiamato MTP e che può essere riassunto come segue.
1. Il dominio complessivo della metafisica è il mondo, così come il dominio delle nostre
migliori teorie scientifiche.
2. L’accesso a questo dominio è basato sulle nostre migliori teorie scientifiche: così
come le teorie empiriche sono esplicative nei confronti dell’esperienza, la metafisica
è esplicativa nei confronti delle teorie.
3. La giustificazione delle teorie metafisiche è basata sulle nostre migliori teorie scienti-
fiche: così come le teorie empiriche sono giustificate dall’accordo con l’esperienza, la
metafisica è giustificata dall’accordo con le teorie.
4. La possibilità metafisica di determinati stati di cose può essere giustificata se basata
sulla possibilità fisica, a sua volta empiricamente giustificata sulla base di modelli
propri di discipline scientifiche.
5. Le asserzioni circa la possibilità metafisica di determinati stati di cose, se non basati
sulla possibilità fisica, sono problematiche perché non adeguatamente giustificate.

Il modello MTP prende quindi molto sul serio la scienza, attribuendo alle ragioni
empiriche l’unico accesso epistemico affidabile per indagare la struttura metafisica.

3.2. Metafisica attraverso la fisica o la logica

C’è un altro modello (oltre a MTP) che si colloca naturalmente in questo spazio
concettuale ed è quello di Steven French11. La metafisica ha, secondo French,
una natura duplice, come la scienza del resto: in parte è costituita da un’indagine
a priori, in parte da un’indagine a posteriori.

11
La posizione è stata sviluppata insieme a Kerry McKenzie. Cfr. S. French - K. McKenzie,
Thinking Outside the Toolbox: Toward a more Productive Engagement between Metaphysics and
Philosophy of Physics, «European Journal of Analytic Philosophy», 8 (2012), 1, pp. 42-59 e, in par-
ticolare, Idd., Rethinking Outside the Toolbox: Reflecting Again on the Relationship between Meta-
physics and Philosophy of Physics, in T. Bigaj - C. Wüthrich (eds), Metaphysics in Contemporary
Physics, Brill, Leiden 2015, pp. 25-54.
956 ciro de florio - alessandro giordani

La parte a priori della metafisica è costituita dalla costruzione di modelli concet-


tuali, tipicamente caratterizzati mediante sistemi logici, in grado di esplicitare rigo-
rosamente concetti che, tradizionalmente, appartengono all’ambito della metafisica.
Ad esempio, le nostre pratiche comunicative e gli schemi inferenziali più
comuni nel ragionamento comune, sono intrisi di nozioni modali come possibilità,
impossibilità, contingenza, necessità e così via. La logica modale, intesa come
un’estensione della logica classica, proposizionale o predicativa, consente una
caratterizzazione matematica precisa di questi concetti e dei vari sensi che assu-
mono nei diversi contesti (un conto è dire che è possibile che Dio esista, un altro
è dire che Alice avrebbe potuto avere un fratello, un altro ancora è dire che Alice
avrebbe potuto rifiutare l’invito a cena, ma che ora non può più tirarsi indietro). Il
lavoro del metafisico, in questi casi, è quello di sviluppare questi sistemi giustifi-
cando le sue asserzioni in un modo del tutto simile a quello adottato, da un lato,
da un matematico, che procede introducendo strutture formali complesse e consi-
stenti, e, dall’altro, da uno scienziato, che applica queste strutture tenendo conto
dei dati a disposizione, in questo caso le intuizioni alla base di pratiche comunica-
tive e inferenziali, per comprendere alcuni fenomeni interessanti.
In questo senso, French analizza i benefici derivanti dall’applicazione dei
risultati della ricerca in metafisica analitica per il programma noto in filosofia del-
la fisica come strutturalismo ontico12.
A proposito di questo programma, possiamo osservare che
Indeed, structuralists seem to have their work cut out just articulating exactly what it
is that these claims mean in the first place. Thus in order to maintain their position,
structuralists have had to say, first, exactly what it is that they mean by the categories of
‘objects’ ‘structure’, and ‘relations’; they have also had to explain precisely what they
understand by words like ‘fundamentality’, ‘priority’, ‘derivativeness’, and ‘symmetry
structure’ in the context of physical ontology13.

In che modo, e su quali basi, è possibile articolare una posizione chiara? La rispo-
sta data da French è semplice:

12
Lo strutturalismo ontico è un programma che sostiene la fondamentalità della struttura,
ossia della parte relazionale di un sistema, rispetto alle entità che sono connesse nel sistema. Cfr.
French - McKenzie, Rethinking Outside the Toolbox, p. 32: «In a nutshell, ontic structuralism is
the view that relational structure is ontologically fundamental. The doctrine proposes that if we
take modern physics – principally, quantum theory and relativity – seriously, then the category of
physical objects must be regarded as a derivative category, in contrast to the category of structure;
or at the very least, that it can no longer be regarded as a category ontologically prior to that of
relations and structure. It contends that the centrality of symmetry considerations in contemporary
physics is a harbinger of deep ontological facts, that the identity conditions for both individuals
and kinds are parasitic on structures in some essential way, and that global nomic concepts must
replace more local, dispositional ones».
13
Ibidem.
alcune ipotesi sulla possibilità della metafisica 957

The short answer to this question is that structuralists began by looking at extant work
in metaphysics, and in our view that was as good a place as any to begin. To give some
concrete examples, to articulate the core claim that structure is ontologically fundamental,
structuralists have found it useful to draw on the work of Kit Fine, and in particular his
work on ontological dependence14.

Questo ci consente di concludere che un’analisi metafisica svolta a priori può


essere estremamente utile per introdurre modelli per le ontologie delle scienze
empiriche e per chiarire i concetti fondamentali impiegati in filosofia della fisica.
La base a posteriori della metafisica è costituita dai risultati delle nostre
migliori teorie scientifiche e, in questo senso, il modello di French è un’estensione
di quello di Maudlin, come attestato dal principio di compatibilità che propone:
The compatibility principle: the constraint that any metaphysical theory invoking enti-
ties x and deployed at some time t should be compatible with at least some independent,
well-supported, overall ‘serious’ scientific theory that directly describes or that is other-
wise relevant to those entities, should such a theory exist at that time15.

Il compito della metafisica è, pertanto, quello di costruire modelli che consentano


di comprendere in profondità i risultati delle nostre migliori teorie scientifiche. Per
fare questo il metafisico può prendere in prestito quei manufatti concettuali costru-
iti dalla parte a priori e applicarli a situazioni concrete. La dinamica che descrive
French per la metafisica è, a ben vedere, perfettamente ricalcata su ciò che avviene
nella fisica tra la componente osservativa e sperimentale e la componente matema-
tica delle teorie. I fisici, come insegna la storia della scienza, impiegano struttu-
re matematiche, concepite magari senza alcuna pretesa di applicabilità, al mondo
empirico, per modellare determinate classi di fenomeni. Si pensi, a titolo esempli-
ficativo, all’impiego degli spazi di Hilbert per caratterizzare lo spazio degli stati
associato a un sistema in meccanica quantistica. Così, analogamente, in metafisica,
prendiamo a prestito concetti di oggetto, parte, necessità formulati nel regno della
logica e li applichiamo per interpretare le strutture di base postulate dalle nostre
migliori teorie scientifiche per costruire un’immagine complessiva del mondo.
In questo contesto la possibilità di fare ricerca in metafisica prescindendo
dall’applicazione empirica è completamente legittima: si tratterà di sviluppare
sistemi logici in grado di caratterizzare concetti metafisici. La legittimazione è
data dal fatto che è ammessa una forma di giustificazione a priori della metafisi-
ca, del tutto simile a quella della presente in matematica. Il compito generale del-
la metafisica è quindi quello di esplicitare come può essere strutturato il mondo
nel caso in cui le nostre migliori teorie scientifiche siano vere. Ecco quindi i punti
fondamentali di questo modello:

14
Ibi, p. 33.
15
Ibi, p. 37.
958 ciro de florio - alessandro giordani

1. il dominio complessivo della metafisica è il mondo, così come il dominio delle


nostre migliori teorie scientifiche, ma ci sono strutture molto generali relative al
modo in cui concepiamo il mondo che oltrepassano il dominio delle nostre migliori
teorie scientifiche.
2. l’accesso a questo dominio è basato sulle nostre migliori teorie scientifiche e sulla
nostra intuizione a priori: così come le teorie empiriche sono esplicative nei confron-
ti dell’esperienza, la metafisica è esplicativa nei confronti delle teorie, e così come
la matematica consente la costruzione di modelli che possono essere applicati per
comprendere le strutture fisiche, la metafisica consente la costruzione di modelli che
possono essere applicati per comprendere le strutture metafisiche.
3. la giustificazione delle teorie metafisiche è basata sulle nostre migliori teorie scien-
tifiche e sulla nostra intuizione a priori: così come le teorie empiriche sono giusti-
ficate dall’accordo con l’esperienza, la metafisica è giustificata dall’accordo con le
teorie, per quanto concerne le ipotesi circa i tratti fondamentali del dominio comune,
ed è giustificata a priori, per quanto concerne le ipotesi alla base della costruzione di
modelli astratti.
4. La possibilità metafisica di determinati stati di cose può essere giustificata se basata
sulla possibilità fisica, a sua volta empiricamente giustificata sulla base di modelli
propri di discipline scientifiche, o sulla possibilità logica, a sua volta giustificata dalle
nostre intuizioni a priori, così come per la matematica.
5. Le asserzioni circa la possibilità metafisica di determinati stati di cose, se non basati
sulla possibilità fisica, sono non problematiche purché adeguatamente giustificate dal
punto di vista logico, così come per la matematica.

L’interesse del modello proposto sta nel fatto che, per la ricerca in metafisica, si
ammette una fonte di giustificazione che non coincide con la giustificazione deri-
vante dai risultati delle teorie fisiche: la giustificazione basata sull’intuizione a pri-
ori. Per questa ragione, abbiamo chiamato questo modello MTPL. In che cosa si
differenzia questo modello dall’impostazione neo-aristotelica che abbiamo preso in
considerazione in precedenza? La differenza sta nel non ammettere, come del resto
fa MTP, che esista una forma di giustificazione a priori squisitamente metafisica,
ossia distinta dalle procedure logico-matematiche. Nell’ultima parte di questo lavo-
ro proveremo a fornire un raffinamento di questa impostazione nella direzione di un
recupero di alcune intuizioni fondamentali dell’approccio neo-aristotelico.

3.3. Metafisica vincolata dalla fisica o dalla logica

In base a quanto detto in precedenza, proveremo ora a delineare un approccio alla


metafisica, modesto ma robusto, che tenga conto dei seguenti desiderata:

i) Vogliamo prendere sul serio l’immagine scientifica del mondo. Chiaramente, come
accennato in precedenza, il problema è capire in che modo intendere questo desidera-
tum. Nel seguito proporremo una sorta di criterio metodologico; in generale, la nostra
alcune ipotesi sulla possibilità della metafisica 959

intuizione è che almeno alcune discussioni di metafisica su domini condivisi dalla scien-
za siano interessanti per la comunità degli scienziati che si occupano di quei domini.
ii) Vogliamo prendere sul serio la complessità delle questioni metafisiche odierne. Ci sem-
bra che una caratterizzazione univoca della metafisica non riesca ad adattarsi alla grande
varietà dei problemi che sono effettivamente discussi. Parafrasando Aristotele, «si può
fare metafisica in molti modi» e, sebbene siano presenti delle somiglianze di famiglia
tra questi approcci, non è scontato che tutti siano da classificare secondo una stessa
caratterizzazione stretta.
iii) Vogliamo prendere sul serio l’autonomia di alcune delle questioni metafisiche odierne.
Ci sembra quindi che la metafisica non sia da concepire come una ricerca che collassa,
sistematicamente, nell’ontologia delle teorie empiriche, da un lato, o nella costruzione
di sistemi logici dall’altro. Questo spazio è stretto, molto più che in passato, ma esiste e
siamo convinti che negarlo sposti l’onere della prova.

In base al punto di vista che sosteniamo, ci sono almeno tre modalità in cui
si può fare metafisica, non necessariamente incompatibili, ma, anzi, integrabili
spesso in modo tale che uno stesso studioso possa passare da una modalità a
un’altra. Inoltre, non abbiamo l’ambizione di pensare che le modalità che pre-
sentiamo siano esaustive, e non abbiamo quindi l’intenzione di precludere la
possibilità di avanzare altri approcci meta-metafisici, a patto che rispettino i vin-
coli che abbiamo esplorato nelle pagine precedenti.

La prima modalità consiste nella chiarificazione sistematica e caratterizzazione


formale dei concetti metafisici classici, ovvero di quei concetti su cui la tradizione
occidentale si è tipicamente soffermata. Che cosa intendiamo con chiarificazione
concettuale e caratterizzazione logica? È la costruzione di un sistema formale che
fornisca una cornice precisa determinata dai principi generali che possono essere
associati a un concetto, ossia gli assiomi che caratterizzano i concetti nella loro
connessione, e che consenta così un confronto rigoroso con altre interpretazioni
imparentate. L’operazione di caratterizzazione non solo può attingere, e ha stori-
camente attinto, a un amplissimo spettro di strumenti messi a disposizione dalla
ricerca logica ma, in maniera ancora più significativa, spesso costruisce tali stru-
menti, che possono poi essere impiegati in ambiti ben lontani dalla metafisica.
Facciamo due esempi che possono aiutarci a chiarire questo punto.
È noto che la tradizione metafisica occidentale ha da sempre discusso sui con-
cetti di necessità e contingenza. A partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso,
Saul Kripke16, sulla scorta delle analisi proposte da Carnap17, fornisce uno stru-

16
Cfr. S.A. Kripke, Semantical Analysis of Modal Logic I Normal Modal Propositional Calculi,
«Mathematical Logic Quarterly», 9 (1963), 5-6, pp. 67-96; Id., A Completeness Theorem in Modal
Logic, «The Journal of Symbolic Logic», 24 (1959), 1, pp. 1-14.
17
Cfr. R. Carnap, Meaning and Necessity: A Study in Semantics and Modal Logic, The Univer-
sity of Chicago Press, Chicago 1947.
960 ciro de florio - alessandro giordani

mento matematico adeguato per immergere queste nozioni in un quadro formale


potente: è l’origine della logica modale. A partire dal lavoro di Kripke, vere e
proprie tradizioni di ricerca hanno sviluppato sistemi modali molto differenti per
interpretare concetti distinti di necessità e allargato la trattazione a concetti caratte-
ristici di altri ambiti fondamentali in filosofia (si pensi al capolavoro di Hintikka18,
dove i sistemi modali sono impiegati per interpretare le nozioni epistemiche fon-
damentali, o alla tradizione della logica deontica, che cattura i concetti di dovere,
divieto, permesso). Non solo: la semantica modale permette estensioni che stu-
diano, per esempio, la metafisica delle essenze, delle potenze, o delle disposizioni.
In logica modale, come prevedibile, si possono fare anche cose più complesse: si
può, per rimanere a casi interessanti dal nostro punto di vista, determinare se due
sistemi che caratterizzano, per esempio, due interpretazioni del concetto di con-
tingenza siano formalmente equivalenti. In alcuni casi, si può concludere che le
nozioni in gioco altro non sono che varianti notazionali, prive di differenze signi-
ficative. In altri, l’essere formalmente equivalenti mostra profonde connessioni tra
punti di vista differenti sullo stesso concetto.
Un altro caso paradigmatico è costituito dalla mereologia, ossia lo studio del-
la relazione di parte e delle connessioni tra parti e interi. Anche in questo caso, la
logica ha consentito l’operazione di assiomatizzazione della nozione di parte, dan-
do origine a sistemi di mereologia differenti. Come è facile intuire, l’aggiunta, o la
modifica, di un assioma ha conseguenze per tutto l’intero sistema e ciò significa che
diversi sistemi di mereologia catturano diversi concetti di parte. La ricerca del meta-
fisico, in questo primo senso, ha una sua autonomia, nel senso che produce teorie
formali la cui validità può essere giudicata a partire dai criteri con cui solitamente si
valutano altre teorie formali (per esempio nei fondamenti della matematica): potere
descrittivo, potere deduttivo, categoricità, completezza rispetto a certe semantiche,
eleganza e così via. Questo approccio logico alla metafisica può però essere anche
il primo passo per applicare questi concetti ad altre questioni metafisiche, connesse
con la scienza empirica. E passiamo così al secondo punto.

La seconda modalità consiste nell’analisi delle strutture fondamentali alla base


della ricerca empirica e della definizione dei sistemi su cui si ricerca. Le teorie
empiriche hanno un dominio di indagine che suscita domande metafisiche legit-
time. Da questo punto di vista, siamo perfettamente in accordo con Maudlin e
French: la metafisica della scienza è un’impresa conoscitiva interessante. Il pro-
blema principale da affrontare, come avevamo anticipato in precedenza, con-
cerne la giustificazione delle tesi metafisiche. Un altro modo, forse più diretto e
chiaro, per porre questo problema è il seguente: può una tesi metafisica essere

18
J. Hintikka, Knowledge and Belief: An Introduction to the Logic of the Two Notions, Cornell
University Press, Ithaca 1962.
alcune ipotesi sulla possibilità della metafisica 961

confutata da un risultato scientifico? Secondo Maudlin, di fatto sì, perché l’ac-


cesso alla possibilità metafisica è garantito dalla nostra conoscenza delle pos-
sibilità fisiche e, nella misura in cui alcune possibilità fisiche vengono escluse
dall’avanzamento della ricerca sul dominio, immediatamente le presunte possi-
bilità metafisiche evaporano.
Ebbene, secondo noi, c’è un senso per cui questa tesi trascura un punto impor-
tante, che noi chiameremo principio della sottodeterminazione strutturale delle
ipotesi metafisiche. Secondo questo principio metodologico, le teorie metafisiche
sono sempre sottodeterminate rispetto all’immagine scientifica del mondo. Tutta-
via, ci sono diversi modi per intendere questa sottodeterminazione.
In un primo senso, una teoria metafisica può essere sottodeterminata rispetto
all’immagine scientifica, nello stesso senso in cui una teoria empirica può esse-
re sottodeterminata rispetto all’osservazione: come è possibile che diverse teorie
empiriche in competizione tra loro siano compatibili con la base osservativa con
cui si confrontano, così è possibile che diverse teorie metafisiche in competizione
tra loro siano compatibili dal punto di vista della descrizione fisica del mondo.
In un secondo senso, una teoria metafisica non solo può, ma deve essere sot-
todeterminata rispetto all’immagine scientifica, perché una teoria di questo tipo
non dice nulla circa gli aspetti del dominio accertabili empiricamente. L’idea che
segue è che una teoria metafisica non può essere confutata da una scoperta scienti-
fica perché, se così fosse, si concluderebbe che non si è in presenza di una genuina
tesi metafisica ma di una teoria spuria che incorpora, assieme ad alcuni aspetti
metafisici, altri aspetti di carattere empirico. In base alla tesi di sottodeterminazio-
ne, per esempio, nessuna metafisica del tempo può essere confermata o disconfer-
mata direttamente dalle teorie fisiche che parlano del tempo.
In un ultimo senso, complementare rispetto al secondo, una teoria metafisica
non solo può, ma deve essere sottodeterminata rispetto all’immagine scientifi-
ca, perché l’immagine scientifica, da sola, non è in grado di confutare una tesi
metafisica: se è vero che le teorie empiriche sono rilevanti nella giustificazione
delle nostre congetture metafisiche, lo sono perché vengono interpretate in una
certa maniera. Se i fisici parlano di interazione causale, per esempio, hanno in
mente un preciso formalismo matematico che caratterizza questo concetto. Tut-
tavia, perché ciò che è descritto come interazione causale in qualche teoria fisica
diventi interessante per un metafisico che si occupa di causalità è necessario che
il concetto fisico di interazione sia interpretato metafisicamente. Un’interpreta-
zione metafisica, in questa fase, avviene certamente sempre a livello ‘inconscio’
e può generare affrettate conclusioni come «la relatività di Einstein ha dimo-
strato che il presente non esiste». Chiunque abbia un minimo di familiarità con
la complessità del dibattito attuale circa questo tema, vede chiaramente che la
relazione tra una teoria così complessa e una questione metafisica così intricata
non può essere liquidata in maniera tanto superficiale. Infatti, di quale teoria
stiamo parlando? della relatività speciale? della relatività generale formulata nel
962 ciro de florio - alessandro giordani

1915? della relatività generale formulata con equazioni che inglobano la costan-
te cosmica? di una soluzione specifica delle equazioni? di un modello cosmolo-
gico basato su una simile soluzione? Inoltre, di quale presente stiamo parlando?
del presente dell’esperienza? del presente determinato da un orologio preciso?
del presente determinato in sistemi di riferimento inerziali? del presente dell’u-
niverso? del presente modellato come punto privilegiato in una varietà differen-
ziale unidimensionale? del presente modellato come ipersuperficie privilegiata
in una varietà differenziale quadridimensionale?
Se prendiamo la sottodeterminazione nei tre sensi indicati, abbiamo certamen-
te un problema per quanto concerne l’idea che una teoria metafisica possa esse-
re confutata da una teoria empirica. Tuttavia, questo significa che la metafisica
impegnata su domini comuni con la scienza può prescindere dai risultati ottenuti
sfruttando le nostre migliori teorie? Crediamo di no: il principio di sottodetermi-
nazione deve essere mitigato da un altro principio metodologico, di segno oppo-
sto, per così dire, che impone il vincolo dell’immagine scientifica del mondo sulle
teorie metafisiche: una teoria metafisica che si accorda meglio con l’immagine
scientifica del mondo è preferibile e più giustificata, perché parte della sua giusti-
ficazione risiede in ultima analisi nell’essere in grado di incorporare e unificare
le informazioni sul mondo empirico che provengono dalla scienza. Se è vero che
l’immagine scientifica non può confutare direttamente una tesi metafisica, è anche
vero sia che una tesi metafisica può consentire lo sviluppo di determinate ipotesi
scientifiche, e risultare quindi proficua per la ricerca empirica, sia che la ricerca
scientifica può portare a proporre modelli di entità fisiche che hanno caratteri-
stiche del tutto inattese rispetto a come le entità sono concepite in metafisica. In
questo modo otteniamo una sottodeterminazione vincolata che innesca una specie
di equilibrio riflessivo tra risultati scientifici, interpretazioni di questi risultati e
ipotesi metafisiche: di volta in volta regoliamo le interpretazioni e le ipotesi in
modo da ottenere un quadro esplicativo sufficiente.
La presente modalità di ricerca metafisica consente una certa autonomia al
metafisico senza isolarlo dalla comunità di ricerca degli scienziati. In termini più
sociologici, la metafisica – quando si occupa di aspetti strutturali di domini studia-
ti dalle scienze – dovrebbe risultare interessante anche per gli scienziati, ovvero
dovrebbe migliorare la loro comprensione del mondo, anche se tale comprensione
si muove su una dimensione differente, o almeno parzialmente differente, rispetto
a quella della pratica scientifica. Infine, sempre in riferimento a questa modalità di
ricerca, notiamo che ci sono alcuni tipi di questioni che, per la loro natura, si col-
locano in una sorta di zona intermedia tra problemi scientifici molto astratti e que-
stioni di carattere metafisico: questioni come «che cos’è un sistema fisico?», «che
cos’è il denaro?», «che cos’è un sistema biologico?», «quali sono, se ci sono, i
tratti che consentono di discriminare ciò che è vivo rispetto a ciò che non è vivo?»,
e così via, sono esempi tipici. In riferimento a questi problemi, non abbiamo alcu-
na resistenza ad ammettere che la distinzione tra metafisica e scienza è sfumata e
alcune ipotesi sulla possibilità della metafisica 963

che, in maniera analoga, la formazione degli studiosi in questi campi sarà gioco-
forza multidisciplinare19. Abbiamo proposto due modalità di ricerca metafisica: la
chiarificazione e caratterizzazione formale dei concetti e la metafisica nei domini
della scienza, intendendo con quest’ultima formulazione lo studio degli aspetti
strutturali dei domini che vengono indagati anche dalle scienze empiriche. I cri-
teri che vegliano sulla giustificazione della metafisica saranno, nel primo caso,
criteri a priori, ereditati dalla ricerca in logica e in matematica; nel secondo, come
abbiamo visto, saranno criteri legati alla situazione di sottodeterminazione vinco-
lata. Le due modalità sono versioni specifiche dei tipi di metafisica riconosciuti da
French. Ci chiediamo: è possibile un terzo tipo di ricerca?

L’ultima modalità consiste nell’analisi delle strutture fondamentali del mondo nel
suo complesso20. La possibilità della metafisica, intesa in questo senso, è cruciale
per la tradizione filosofica così come è stata storicamente sviluppata. Il problema
da affrontare in riferimento a questa modalità è questo: ci sono problemi metafisi-
ci genuini? In altri termini, ci sono problemi che sono radicalmente meta-empirici,
ovvero problemi che necessitano di soluzioni la cui ricerca è totalmente autono-
ma rispetto all’immagine scientifica del mondo? E, in secondo luogo, che tipo
di giustificazione hanno le teorie metafisiche che sono presentate come possibili
soluzioni a questi problemi? La nostra risposta, in breve, è «sì»: esistono problemi
metafisici sensati che trascendono la descrizione scientifica del mondo; inoltre,
come vedremo, per quanto riguarda la questione della giustificazione adotteremo
una posizione di pluralismo epistemico.
Partiamo con un esempio celebre, già brevemente accennato in apertura:
la metafisica degli oggetti astratti e, in particolare, degli oggetti matematici. La
domanda di base in questo caso è: esistono e, in caso di risposta positiva, in che
modo esistono, le entità che sono descritte dalle teorie matematiche? Che tipo di
entità sono? Probabilmente sono astratte, ma in che senso? Domande di questo tipo
sono presenti (in una forma o nell’altra) da Platone a Frege fino alla ricchissima filo-
sofia della matematica contemporanea. Una risposta come quella di Stewart Sha-
piro, di Michael Resnik e di Geoffrey Hellman21 (solo per citarne alcuni) secondo

19
A questo proposito, nell’articolo ci siamo concentrati sui rapporti tra metafisica e teorie fisiche;
ma crediamo che un discorso analogo possa valere anche per l’ontologia del mondo sociale. Pensiamo,
per esempio, a Understanding Institution di Francesco Guala (F. Guala, Understanding Institution:
The Science and Philosophy of Living Together, Princeton University Press, Princeton 2016). In questo
testo viene presentata e difesa una teoria degli oggetti sociali che combina tre importanti teorie circa le
istituzioni intese come equilibri di giochi strategici, come norme regolative e come norme costitutive.
In questo caso la giustificazione di una certa teoria degli oggetti sociali dipende da altri contesti teorici.
20
Tra i molti testi fondamentali nel dibattito contemporaneo, J. Lowe, The Possibility of Meta-
physics, Clarendon Press, Oxford 1998; D. Lewis, On the Plurality of Worlds, Clarendon Press,
Oxford 1986; D. Armstrong, A World of States of Affairs, Cambridge University Press, Cambridge
1997; T. Sider, Writing the Book of the World, Oxford University Press, Oxford 2013.
21
S. Shapiro, Philosophy of Mathematics: Structure and Ontology. Oxford University Press,
964 ciro de florio - alessandro giordani

cui la matematica non parla di oggetti ma di strutture, ovvero di particolari tipi di


entità ‘insature’ è una risposta a un problema metafisico che, secondo noi, ha senso,
anche se è ortogonale rispetto ai problemi e risultati delle scienze empiriche. La
matematica con cui progettiamo i microprocessori – per non riprendere il solito
esempio edile – è la stessa, sia che si pensi che descriva un reame di entità eterne
indipendenti dalla mente umana, sia che la si consideri una teoria letteralmente fal-
sa ma conservativa su ogni teoria nominalisticamente accettabile22. Se la domanda
è sensata, e se ogni domanda sensata può ammettere risposte altrettanto sensate, ci
chiediamo: in che modo può essere concepita la giustificazione di una teoria meta-
fisica circa lo statuto ontologico degli oggetti astratti?
In questa sede non pretendiamo di presentare una soluzione a questo problema,
ma solo di introdurre un’ipotesi basata su una posizione pluralista, che chiariamo
in questo modo: (i) crediamo che la metafisica possa avere una portata esplicativa,
sebbene occorra innanzitutto chiarire qual è l’oggetto della spiegazione in questi
casi; (ii) condividiamo un certo scetticismo nei confronti di una forma primitiva
di intuizione metafisica intesa come fonte di giustificazione particolare, differente
dalle fonti di giustificazione che abbiamo nelle discipline matematiche o empiri-
che; (iii) crediamo che ci sia una forma primitiva di intuizione strutturale, l’intui-
zione a priori che è alla base della giustificazione delle teorie formali, e che ci sia
una forma primitiva di intuizione empirica, l’intuizione a posteriori che è alla base
della giustificazione delle teorie empiriche.
La tesi scettica su una peculiare intuizione metafisica, differente dalle intuizioni
a priori o a posteriori indicate in precedenza, espressa nel punto (ii), dipende dalla
semplice constatazione che non ci sono stati esempi di evidenze metafisiche suffi-
cientemente stabili e intersoggettivamente condivise nel corso del tempo, e non ci
sono al presente criteri, nemmeno abbozzati, per discernere le evidenze metafisiche
dalle fantasie dei visionari. In assenza di questi criteri, evidenze a priori intersog-
gettivamente condivise e sufficientemente informative da fondare ambiti sostanziali
specificamente metafisici non sembrano essere disponibili. Il che, come abbiamo
indicato, non porta necessariamente a uno scetticismo sulla possibilità della meta-
fisica come ricerca autonoma. In sintesi: non c’è un modo di accesso metafisico al
mondo; i modi di accesso sono quelli condivisi con le altre discipline.
La credenza sulla possibilità di un’intuizione strutturale a priori e di un’intu-
izione a posteriori, espressa nel punto (iii), dipende dal fatto che tali intuizioni
orientano effettivamente la ricerca nelle discipline formali ed empiriche. A volte

Oxford 1997; M.D. Resnik, Mathematics as a Science of Patterns, Oxford University Press,
Oxford 1997; G. Hellman, Mathematics without Numbers: Towards a Modal-Structural Interpre-
tation, Clarendon Press, Oxford 1989.
22
Sono queste due posizioni che possono essere rubricate come una forma di platonismo classi-
co (per esempio: K. Gödel, What is Cantor’s Continuum Problem?, «The American Mathematical
Monthly», 54 [1947], 9, pp. 515-525) e di nominalismo forte (H. Field, Science without Numbers: A
Defence of Nominalism, Princeton University Press, Princeton [NJ] 1980).
alcune ipotesi sulla possibilità della metafisica 965

si sente dire che una tesi metafisica può spiegare una certa pratica linguistica, e
che questo potere esplicativo può essere usato per giustificare la tesi. Tuttavia, che
cosa significa spiegare una pratica linguistica? Non crediamo che voglia dire spie-
gare perché un certo gruppo di agenti intraprende quella pratica o perché quella
pratica esiste, ma che voglia dire spiegare perché i modelli impliciti in quella pra-
tica abbiamo successo come modelli interpretativi del mondo. Se le cose stanno in
questo modo, e se la spiegazione del successo di un modello interpretativo dipen-
de dall’identificazione delle condizioni di possibilità della sua applicazione, allora
possiamo avanzare l’ipotesi che una certa intuizione sulle strutture generali che
consentono l’applicazione di un modello sia in gioco ogni volta in cui valutiamo
il successo di alcune teorie rispetto ad altre. Di conseguenza, la portata esplicativa
della teoria viene basata su un’iniziale intuizione circa determinate strutture pre-
senti nel mondo. In questo senso, per fare alcuni esempi, le intuizioni sul fatto che
il mondo sia dinamico, che il tempo abbia una direzione privilegiata, che il passato
sia determinato e il futuro sia aperto, che ci siano delle relazioni di causazione, che
il futuro possa essere in parte determinato dalle nostre azioni, che le nostre azioni
non siano completamente determinate dalle condizioni in cui ci troviamo ad agire,
sono tutte intuizioni su tratti strutturali del mondo e sono fonte di giustificazione
per assumere alcuni fenomeni come «fenomeni da salvare». La portata giustifi-
cativa di tali intuizioni è in relazione al fatto che i fenomeni indicati non possono
essere esclusi dalla costruzione di un’immagine complessiva del mondo, sebbene
possano essere dichiarati, sulla base di teorie che andranno a loro volta giustifi-
cate, come tratti con diverso statuto ontologico: come tratti fondamentali, o non
illusori, o non fondamentali ma non illusori, o non fondamentali e illusori. In ogni
caso, l’analisi metafisica sarà condotta secondo le linee di ogni analisi scientifica:
chiarire i fenomeni da spiegare, dove la chiarificazione è in parte esito di interpre-
tazione, e quindi orientata da teorie da esplicitare, e comprendere i fenomeni sulla
base delle loro condizioni causali, dove la comprensione è esito dell’applicazione
di modelli caratterizzati da strutture consistenti, e quindi ancora orientata da teorie
da rendere il più possibile esplicite e dettagliate. Il successo esplicativo, insieme
al modo specifico di tenere conto dei fenomeni da spiegare, costituirà poi la fonte
principale della giustificazione della teoria introdotta23.

23
In questo senso, pensiamo a tre lavori fondamentali – diversi per la concezione metafisica
e per le tesi sostenute – quali Naming and Necessity di Saul Kripke, On the Plurality of Worlds di
David Lewis e Modal Logic as Metaphysics di Timothy Williamson. In questi lavori gli autori difen-
dono precise ipotesi metafisiche che costituiscono una base naturale dei sistemi di logica che svilup-
pano e che riguardano le modalità di esistenza e identità degli oggetti al massimo grado di generalità.
A titolo esemplificativo, Williamson, sostiene che il dominio degli individui che esistono nei vari
mondi possibili è fisso, e quindi che gli individui esistono necessariamente. Questo perché, secondo
Williamson, la teoria modale che caratterizza questa posizione presenta dei notevoli vantaggi teorici
rispetto alle rivali, vantaggi che possono essere valutati sulla base di alcune intuizioni fondamentali
che abbiamo su alcune strutture legate ai concetti modali.
966 ciro de florio - alessandro giordani

Infine, per tornare al caso da cui siamo partiti, la giustificazione di una teoria
metafisica circa lo statuto ontologico degli oggetti astratti può essere basata su
intuizioni circa le condizioni di possibilità dell’applicazione della matematica e
circa la struttura di un dominio che consente questa applicazione. Più in gene-
rale, e chiarendo ulteriormente in che senso diciamo che l’intuizione metafisica
è da concepire sulla base delle intuizioni a priori e a posteriori, analizziamo
questo ultimo esempio. Il nucleo centrale di alcune delle prove cosmologiche
contemporanee per l’esistenza di una causa prima del mondo è costituito da due
tesi: la prima stabilisce che una certa relazione, la relazione di causazione, ha
determinate caratteristiche, per esempio è irriflessiva, transitiva e fondata; la
seconda stabilisce che ci sono, o appare che ci siano, delle istanze della rela-
zione di causazione all’interno del mondo. La prima premessa è una tesi sulla
struttura di una relazione, la cui consistenza è giustificata a priori, o inferita a
partire da altre premesse giustificate a priori. La seconda premessa è una tesi
circa ciò che esiste nel mondo, la cui correttezza è giustificata a posteriori, o
inferita a partire da altre premesse giustificate a posteriori. Le prove indicate
cercano di connettere le due premesse, mediante precisi argomenti, per ottenere
come conclusione che la relazione che esiste nel mondo ha la struttura della
relazione caratterizzata a priori. Ciò che noi riconosciamo è che sia le intuizioni
a priori a supporto della prima premessa sia le intuizioni a posteriori a supporto
della seconda sono classificabili come intuizioni metafisiche. Ciò su cui invece
siamo scettici è che ci sia una forma primitiva di intuizione metafisica mediante
cui vediamo che alcune relazioni del mondo, che comunemente chiamiamo rela-
zioni causali, hanno la struttura di una relazione irriflessiva, transitiva e fondata.
In questo, la nostra posizione si affianca alla celebre caratterizzazione proposta
da Einstein del rapporto tra matematica e mondo:
Nella misura in cui si riferiscono alla realtà, le proposizioni della matematica non sono
certe e, nella misura in cui sono certe, non si riferiscono alla realtà24.

Tornando a quanto affermato in precedenza, inferiamo, mediante una serie di


considerazioni giustificate a posteriori, che ci sono delle relazioni nel mondo
che non sembrano essere semplici relazioni di successione e costruiamo for-
malmente, ovvero mediante un’indagine a priori tipica della matematica e della
logica, una relazione generale irriflessiva, transitiva e fondata; quindi ipotizzia-
mo che le relazioni presenti nel mondo siano istanze della relazione generale e
cerchiamo di difendere la nostra ipotesi mediante argomenti basati ancora su ciò
che intuiamo, o sulla portata unificativa della nostra ipotesi, o sulla consistenza

24
«Insofern sich die Sätze der Mathematik auf die Wirklichkeit beziehen, sind sie nicht sicher,
und insofern sie sicher sind, beziehen sie sich nicht auf die Wirklichkeit» (A. Einstein, Geometrie
und Erfahrung, Springer, Berlin 1921, p. 4).
alcune ipotesi sulla possibilità della metafisica 967

di questa ipotesi con un ulteriore set di ipotesi, o sui problemi derivanti dall’as-
sumere ipotesi concorrenti, contro chi presenta modelli diversi delle relazioni
che chiamiamo di causazione.

4. Conclusione
In conclusione, non ci sembra che esista una procedura di giustificazione meta-
fisica: tutto dipende dal tipo di entità studiata. È chiaro che un’indagine sui
possibilia (oggetti puramente possibili) o sugli intentionalia (oggetti puramen-
te concepibili) non potrà essere suffragata dall’analisi di sistemi empirici o di
sistemi fisicamente possibili, così come, analogamente, una teoria sull’ontologia
del denaro si avvarrà certamente delle teorie economiche sul denaro e delle teo-
rie generali delle istituzioni. Siamo ovviamente consapevoli che storicamente ci
sono state concezioni di metafisica più ambiziose e che alcune di queste conce-
zioni sono difese anche oggi. Ma anche qui, crediamo che sia necessario discutere
caso per caso. Di sicuro, in base a quanto detto in questo lavoro, ci sono tre punti
che per un metafisico del XXI secolo sono a nostro avviso irrinunciabili: l’impie-
go di sistemi formali, per la metafisica a priori sviluppata dal punto di vista della
prima modalità indicata, la conoscenza approfondita delle teorie delle discipline
che si interrogano sui domini che ci interessano, per la metafisica a posteriori svi-
luppata dal punto di vista della seconda modalità indicata, e l’analisi delle strut-
ture generali che consentono la costruzione di modelli interpretativi del mondo,
per la metafisica sviluppata dal punto di vista dell’ultima modalità indicata (tut-
to questo, nella consapevolezza dell’estrema specializzazione della ricerca). La
metafisica non è morta: al contrario, è viva, perciò muta continuamente.
Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, CXII (2020), 4, pp. 969-994
ISSN: 00356247 (print) - 18277926 (digital)
DOI: 10.26350/001050_000227

Paolo Pagani*

LA FORMA DELL’ÉLENCHOS

The Form of the Elenchus

Elenchus is the argumentative method whereby human thought experiences the transcenden-
tality of being and its aspects. This article seeks to revisit the classic method of argumenta-
tion, known as elenchus, in order to explicitly consider its pragmatic dimensions. Elenchus
is the complete realization of performative contradiction, in which those who intend to deny
transcendental structures simultaneously undermine themselves. Such dynamics is implicat-
ed in both the actual negation of the transcendental structures and the verbal denial of such
structures. The position expressed in this article is subsequently compared with two author-
itative positions: Emanuele Severino and Sergio Galvan. The first – in his more mature
thought – tends to reduce elenchus to a simple case of reductio ad absurdum. The second
establishes a «elenctic calculus» in order to demonstrate that elenchus does not permit a
logical-formal argument. Both, however, do not consider the pragmatic aspect of elenchus –
© 2020 Vita e Pensiero / Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore

and, therefore, its fundamental peculiarity.

Keywords: Elenchus, Transcendentality, Pragmatics, Performative Contradiction, Logical


Calculus

1. Ripensamento di una figura classica


1.1. L’intrascendibilità del pensiero

Élenchos è la forma del trascendentale: la forma che esso assume quando, in


qualche modo, viene negato. Dire che il trascendentale è l’elenctico, è come dire
che è l’intrascendibile; dove l’intrascendibilità implica l’impossibilità del col-
locarsi altrove o a distanza rispetto ad esso. Ciò non toglie, s’intende, che una
distanza sia ricavabile all’interno dell’intrascendibile: come un luogo in cui l’e-
sperimento del trascendere sia progettabile – e superabile –, in modo che così
divenga riconoscibile l’intrascendibilità stessa.

*
Università Ca’ Foscari di Venezia. Email: pagani.p@unive.it
Received: 16.09.2019; Approved: 23.12.2019.
970 paolo pagani

Elenctico, in senso proprio, è l’anankaion: ciò da cui non si evade. Ora, ine-
vadibile è in primo luogo l’essere stesso. Una ulteriorità rispetto ad esso non si
costituisce, se non come un léghein charin logou 1. Analogamente si rivelano ine-
vadibili le dimensioni proprie dell’essere come tale, evadere dalle quali sarebbe
appunto evadere dall’essere stesso. Se non che, l’argomentare che dall’interno
dell’essere progetta l’evasione da esso, e ne constata l’impraticabilità – cioè con-
stata che la heterotes, rispetto all’essere come tale, può darsi solo come tautotes –,
sembra in certo senso capace (problematicamente) della ulteriorità autoescluden-
tesi. Già formulare l’ipotesi della evasione presuppone infatti la previa ipotesi di
un altro, che stia oltre l’essere e che altrimenti si strutturi.
Ora, questa ipotesi ha come contenuto un impossibile. Occorre comunque
registrare questa capacità di esprimere ipotesi dal contenuto impossibile, e tene-
re distinta tale capacità da quella – viceversa improponibile – di concepire il
contenuto di tali ipotesi. Élenchos può anche essere descritto come la constata-
zione della inconcepibilità di certe ipotesi, che pure devono risultare esprimibili
per poter essere escluse2.
L’essere, in quanto propone una heterotes che gli sia relativa, e ne supera l’i-
potetica autonomia, è il pensiero. Il pensiero in quanto pensiero è infatti l’apertu-
ra trascendentale dell’essere che manifesta se stessa in quanto tale, ovvero come
trascendentale; mostrando l’inconcepibilità, non della heterotes, quanto della
ipotesi della sua esteriorità o autonomia. E ogni determinazione del pensiero è
il manifestarsi della interiorità di ogni ente all’essere. Insomma, il pensiero è il
manifestarsi della interiorità della heterotes alla tautotes. Tale interiorità significa
che il trascendentale si rivela come tale, in quanto è in relazione dialettica col
proprio trascendimento (che in esso rientra). Il pensiero in quanto tale è dunque
relazione dialettica, e non strutturazione antinomica: una relazione che trova la
sua espressione sintetica nella coppia essere/non-essere. Dove il non-essere è il
paradigma delle violazioni dell’essere, cioè è l’espressione sintetica del trascen-
dimento impossibile: concepito appunto come impossibile, cioè come incapace di
venire alla luce, incapace di una propria manifestazione.

1
L’espressione è di Aristotele (Metaph. IV, 1009 a 21; testo greco a cura di W.D. Ross).
2
Già Parmenide avvertiva di casi nei quali in ciò che è detto, mancando il riferimento all’essere,
non si trova il pensare (B8, 35-36, D.-K.). Aristotele – riferendosi alle espressioni autocontradditto-
rie – afferma a sua volta che «non sempre si pensa tutto quel che si dice» (Metaph. IV, 1005 b 26-27).
Evidentemente, delle ipotesi autocontraddittorie sono concepibili i contradictoria, nonché l’inten-
zione del parlante di farne una sintesi. Ciò che non è concepibile (afferrabile, nel senso dell’aristo-
telico hypolambanein) è appunto la sintesi progettata. Su questo punto è rilevante quanto osserva
Antonio Rosmini. Egli riconosce, infatti, che la contraddizione in certo senso si dà, ed è pensabile
in modo «implicito», cioè come una «relazione» tra quella «entità» («segno») che è l’enunciazione
di una certa ipotesi (di fatto espressa) e il contenuto della medesima che, se reso esplicito, risulta
impensabile, e quindi impossibile (su questo, si veda A. Rosmini, Teosofia, a cura M.A. Raschini e
P.P. Ottonello, voll. 12-17 dell’Edizione Nazionale e Critica delle Opere di Antonio Rosmini, Città
Nuova, Roma 1998-2002, Libro III, nn. 807 e 815).
la forma dell’élenchos 971

Ora, questo tentativo di andare oltre l’essere, per ritrovare alla fine l’esse-
re – questa dialettica di ‘movimento’ e ‘quiete’ – è proprio ciò che specifica il
pensiero rispetto all’essere: è la dieresi originaria dei due, che vanno appunto
semantizzati diaireticamente, essendo originariamente indiscernibili. Articolan-
do meglio il discorso, si può dire che, se fenomenologicamente non c’è occasio-
ne di distinguere tra l’essere e il pensiero nella loro accezione pura, élenchos è
il luogo della possibile distinzione – che, se supera la indiscernibilità, conferma
la coestensione dei due –, analogamente a come l’autocontraddizione è luogo di
discernimento tra pensiero e linguaggio.
Il pensiero è dunque il luogo del multiforme esperimento elenctico: pensiero
che è l’essere stesso in quanto autotrascendimento in direzione di sé. Ma l’intra-
scendibilità elenctica è apprezzabile da più lati: tanti quante sono le dimensioni
o strutture irrinunciabili dell’essere – dove, ancora una volta, il senso di quella
irrinunciabilità non precede élenchos, ma ne è sostanziato. Tra le dimensioni in
questione trovano sicuramente posto quelle che emergono come strutture seman-
tiche, sintattiche e pragmatiche. Queste emergono quali costanti apofantiche ma,
appunto per questo, devono essere considerate quali costanti ontologiche. L’esse-
re in quanto tale, infatti, si rende noto attraverso l’apofansi; né si ha notizia di un
essere che stia noumenicamente sequestrato al di là dell’orizzonte apofantico. Il
senso dell’apofantico in quanto tale è la manifestazione dell’ontologico. Si tratta
(appunto, elencticamente) di mettere in rilievo ciò senza cui l’apofansi si riduce a
mera espressione ontica.

1.2. Alcune precisazioni

1.2.1. Élenchos non implica il darsi del negativo. Un certo modo di proporre
élenchos lascia invece pensare che il negativo si dia effettivamente, così da
dover essere tenuto a distanza in una opposizione originaria. Del resto, il model-
lo gnostico della realtà prevede che l’originario sia appunto l’opposizione, vitto-
riosa, del positivo al negativo.
1.2.2. Più precisamente, la contraddizione non ha bisogno di attuarsi – sia pure
come semplice struttura eidetica – per essere poi superata. In altre parole, non
occorre concepirla effettivamente, per poterla poi escludere: a che titolo, poi, la
si potrebbe escludere, se la si potesse prima concepire? È sufficiente piuttosto
nominarla e ipotizzarne il concepimento, ovvero concepire la eventualità del suo
costituirsi (anche solo a livello eidetico). Lo statuto di ciò che si candida alla
realizzazione contraddittoria è complesso e ipotetico. Più precisamente, il contra-
dictorium è un dictum (non un factum): un dictum infectum, e non un factum (che
infectum fieri nequeat). È un dictum a proiezione nulla.
1.2.3. Solo la considerazione della pluridimensionalità semiotica riesce a tener
fermo il principiale. Invece, la posizione severiniana – di cui diremo – sembra
972 paolo pagani

tendenzialmente ridurlo alla dimensione locutoria (pur implicando quella illocu-


toria), ridando di essa una anatomia che non sa intercettarne la fisiologia3.
1.2.4. D’altra parte nel «calcolo elenctico», da taluni criticamente prospettato, si
riduce tutto esplicitamente alla monodimensionalità del puramente proposizionale
(próblema), palesando – per altro, ineccepibilmente – l’inefficacia di un élenchos
così ridotto. Ma su questo ritorneremo nelle ultime pagine del nostro testo.
Élenchos è una figura refrattaria a ogni classificazione logica: ha infatti una
inevitabile dimensione sperimentale. Ci chiediamo: la sperimentalità di élenchos
è di tipo meramente fattuale, e quindi controesemplificabile? Non lo si può esclu-
dere apagogicamente. L’immer wieder – l’esigenza di una costante attualizzazione
– fa parte della sua natura. La peculiare necessità che gli pertiene è dunque una
necessità di fatto, non una necessità apagogica. Esso incarna – in tal senso – l’esi-
genza platonica della filosofia come dialogicità in atto.
1.2.5. Ridurre l’élenchos a una particolare modalità della opposizione originaria
tra positivo e negativo significherebbe mutarne la natura. Già è discutibile parlare
di opposizione originaria: originario è infatti il positivo, che non ha da opporsi a
nulla, né al nulla. Il nulla del resto che cos’è, se non una proiezione ontologica
(vuota) della contraddittorietà?
In tal senso, si può dire che la negazione non è originariamente opposizio-
ne. Essa non si colloca simmetricamente, bensì asimmetricamente, rispetto alla
affermazione. Il positivo non è la negazione del toglimento di sé: è piuttosto la
posizione di sé.

3
La posizione dialetheista, invece, tende ad assolutizzare – quanto alla difesa del principio di non
contraddizione (PDNC) – le ragioni dell’illocutorio rispetto alle esigenze del locutorio. I dialethei-
sti affermano che l’élenchos, aristotelicamente inteso, confuta il trivialismo, ma non il dialetheismo
(che pure ammette alcune situazioni contraddittorie come effettive). Se non che, per affermare questo,
occorre proprio esercitare quel PDNC che Aristotele difende tramite élenchos, cioè il PDNC come
principio di significanza, per cui, per tener fermo alcunché – anche lo stesso dialetheismo –, occorre
escludere la posizione che lo nega; e lo stesso vale per tener ferma la distinzione tra il dialetheismo e
il trivialismo. Del resto, una teoria che si accordasse con tutto sarebbe banale: popperianamente non
significante, in quanto non falsificabile. Il dialetheista accetta allora – esplicitamente – qualche clauso-
la del tipo: C(p ∨ q) ∧ ¬Cp → Cq; e un PDNC in versione pragmatica, del tipo: ¬(Cp ∧ ¬Cp) – dove
C è una costante epistemica che sta per ‘credere’. Per il dialetheista, se anche ¬p non negasse p, rimar-
rebbe comunque possibile rigettare p. Si passa così dalla negazione al diniego, esprimibile nei termini
seguenti: «non posso credere p». Ma tutto ciò è asserito (o asseribile) solo all’interno di condizioni
classiche di consistenza: la negazione escludente, che si fonda sulla esperienza primitiva della «incom-
patibilità materiale». Qualcuno ha proposto uno specifico operatore logico tale da indicare il diniego
pratico del dialetheista; e ciò in conformità alla versione pratica dell’élenchos aristotelico (Aristotele,
Metaph. IV, 1008 b 35-1009 a 5): infatti, se considerassimo ogni cosa come equivalente a ogni altra,
non potremmo scegliere: e invece inevitabilmente lo facciamo. Così come non potremmo distinguere
il dialetheismo dal trivialismo, come lo stesso dialetheista invece fa (su questi temi si veda F. Berto,
Teorie dell’assurdo, Carocci, Roma 2006, capp. 1 e 14). Naturalmente, una disamina più diretta e arti-
colata della posizione dialetheista meriterebbe, già di suo, un intervento specifico, che potrà trovare
luogo adeguato in qualche nostro prossimo contributo.
la forma dell’élenchos 973

Ad autonegarsi è invece il tentato toglimento del positivo. Élenchos ha esat-


tamente il senso di indicare questa originaria dissimmetria: del positivo rispetto
al negativo.

1.3. La contraddizione performativa

La prima facies di élenchos è quella della contraddizione performativa, tanto che


le due figure vengono facilmente confuse tra loro. È opportuno, quindi, introdurre
preliminarmente la nozione di contraddizione performativa, per poter poi trattare
competentemente di élenchos.
1.3.1. La pragmatica è la specifica prassi che riguarda il dire. Nel dire, inteso come
prassi, distinguiamo un certo contenuto (un obiectum) che è enunciato da un par-
lante (un agente) in funzione di un fine. Il contenuto, a sua volta, ha una struttura
ilemorfica, dove materia e forma sono, rispettivamente, la dimensione locutoria e
quella illocutoria del dire4.
Il locutorio, poi, ha una interna strutturazione a tre dimensioni: fonetica, fatica,
retica. Infatti, esso è un atto fonetico, ma è anche un fema (cioè una realtà gram-
maticalmente formata secondo le regole di un linguaggio) e un rema (cioè un atto
referenziale, per cui qualcosa viene detto di qualcosa).
Come un puro agire fisico è una astrazione, così anche un puro locutorio (non
illocutoriamente qualificato, cioè un puro próblema) risulta una astrazione. D’al-
tra parte, come una medesima azione fisica può assumere differenti connotazioni
intenzionali a seconda del senso che l’agente vi imprime, così un medesimo con-
tenuto locutorio può assumere differenti flessioni o forme a seconda delle illocu-
zioni di cui viene investito. (E come il contesto pratico, generalmente inteso, può
incidere sul senso complessivo di una azione, lo specifico contesto linguistico può
condizionare il senso di quel che si dice).
Come l’obiectum (praktòn, quid acti) può solo essere confessato dall’agente
(pur rivelandosi indiziariamente all’osservatore), analogamente il senso secondo
cui si dice una certa cosa può solo essere confessato dal parlante (pur rivelandosi
indiziariamente all’interlocutore).
1.3.2. La contraddizione performativa è una specie del genere incongruenza prag-
matica. Più precisamente, essa si configura come violazione, non direttamente
della coerenza tra proposizioni, bensì di qualche condizione essenziale al felice
compimento di un certo genere di atto illocutorio (tipicamente l’asserzione).
Si pensi al caso della professione di scetticismo universalistico: nulla è vero 5.
Questa asserzione, considerata semplicemente nella sua dimensione locutoria,
assorbe se stessa: nulla è vero, compreso che nulla è vero. Se invece viene proiet-

4
Nella nostra prospettazione il locutorio corrisponde – usando il linguaggio di Tommaso –
all’actus secundum genus naturae e l’illocutorio all’actus secumdum genus moris.
5
Diverso da tutto è falso, ed equivalente a tutto è non-vero.
974 paolo pagani

tata sul piano locutorio l’intenzione illocutoria che essa – salvo smentita dell’as-
serente – contiene, si ottiene la struttura contraddittoria seguente: è vero almeno
questo: che nulla è vero (contraddittoria perché pone congiuntamente una propo-
sizione particolare affermativa e la corrispondente universale negativa).
Di fronte all’emergere della contraddizione si può scegliere di evitarla rinuncian-
do alla pretesa di verità (indebolendo cioè l’asserzione o trasformandola in un altro
genere di illocuzione), oppure si può scegliere di accettare la contraddizione stessa.
In che senso si può mancare il felice compimento di un certo atto illocutorio?
Si pensi all’esempio di Strawson: «i figli di Giovanni stanno dormendo (ma Gio-
vanni non ha figli)»: qui la fallace presupposizione (presupposition) che Giovanni
abbia figli è solo introduttiva alla fallace implicazione (implicature) tra l’asser-
zione e l’impegno alla verità che essa comporta, così che l’asserzione non può
compiersi se non autocontraddittoriamente. (L’asserzione è infatti impegno con la
verità dell’asserito; così come la promessa è impegno con l’intenzione di mante-
nere ciò che si è promesso).
Perché la contraddizione performativa sia individuabile occorre che il parlante
eserciti la propria responsabilità illocutoria: cioè che egli sia disposto ad ammettere
in che senso – secondo quale registro illocutorio – egli sta dicendo quel che dice.
1.3.3. Specie del genere contraddizione performativa sono quella occasionale e
quella strutturale.
Contraddizione performativa occasionale è quella che si realizza a patto di cer-
te particolari circostanze pragmatiche contingenti, al variare delle quali l’atto di
discorso potrà anche dismettere il suo carattere contraddittorio.
Sono contraddizioni performative occasionali quelle che, per esserlo, devono
realizzare almeno una tra queste condizioni: (a) devono essere enunciate da par-
ticolari tipi di enuncianti (come quando è Mario Rossi a dire Mario Rossi è inca-
pace di parlare); (b) devono essere rivolte effettivamente a interlocutori presenti
(come quando dico al mio interlocutore presente: io con te non parlo); (c) devo-
no essere enunciate secondo certe modalità pratiche, anziché altre (come quando
qualcuno dice a voce alta: io non sto parlando). Ora, dalla contraddizione per-
formativa occasionale – come, per altro verso, dal paradosso pragmatico – si può
uscire con una semplice strategia pratica.
Contraddizione performativa strutturale si ha quando, a essere violate, sono
condizioni, non contingenti, bensì appunto strutturali dell’atto di discorso: quel-
le che riguardano: vel (a) le particolari forme dell’illocutorio vel (b) l’atto di
discorso in quanto tale.
Per il caso (a) si pensi – come già accennato – alla asserzione, che implica di
suo un certo impegno di verità. Il paradosso di Moore è un caso classico di questo
tipo di contraddizione performativa. Lo si capisce, se lo si esplicita – per proiezio-
ne di implicatura6 – così: asserisco p, ma non credo p; da cui viene un’autoesclu-

6
‘Implicatura’ (implicature) è il termine col quale – nella teoria degli Speech Acts – si indica
la forma dell’élenchos 975

sione per autocontraddittorietà, mediata pragmaticamente dal fatto che l’impegno


con la verità dell’asserito è condizione di senso dell’asserire.
Il caso (b) riguarda invece la violazione di condizioni strutturali dell’atto di
discorso in quanto tale.

1.4. Contraddizione performativa come violazione di condizioni strutturali


dell’atto di discorso

Se la violazione in questione si struttura (essa stessa) come atto di discorso, cioè


come una asserzione negatrice, allora non è difficile ricondurla a un caso specia-
le di contraddizione performativa strutturale: speciale, perché riguardante fattori
trascendentali, e non categoriali, del rapporto tra locutorio e illocutorio. Se invece
la violazione si propone come messa fuori gioco, o negazione effettuale, di qual-
cuno dei fattori trascendentali in questione, essa non può che delinearsi o come
intenzionale autosottrazione all’orizzonte noetico-linguistico (cioè al discorso,
con altri e con sé), o come atto linguistico mancato, cioè come conato di qualcosa
che – compiendosi – negherebbe il proprio intento progettuale.
1.4.1. Prendiamo un caso riguardante la dimensione semantica del discorso: il
caso del carattere determinato del locutorio.
Negarlo esplicitamente, negare cioè la determinatezza del contenuto del
discorso, vuol dire – di fatto – porre un contenuto determinato di discorso, e quin-
di incorrere in una contraddizione performativa strutturale.
Se non che, la consapevolezza di questo esito può indurre il negatore: o alla
scelta del silenzio (esteriore e interiore); oppure all’improponibile esercizio di una
discorsività, la cui determinata intelligibilità semantica sia rinviata all’infinito.
Improponibile perché il contenuto semantico – posto come passibile di qualunque
interpretazione – viene in quel caso a determinarsi come banale nel senso tecnico
dell’espressione.
1.4.2. Prendiamo un altro caso tipico, riguardante questa volta la dimensione sin-
tattica del discorso.
La negazione della consistenza sintattica dell’atto di discorso, se è esplicita-
mente asserita, non potrà che esserlo attraverso una locuzione consistente (ovvero
incontraddittoria), incorrendo così in una contraddizione performativa strutturale.

l’implicazione pragmatica, o implicazione di senso, per distinguerla dalla ‘presupposizione’ e dalla


implicazione analitica o ‘implicitazione’. Un tipico caso di implicatura è quello che riguarda certi
atti illocutori. Ad esempio, ‘promettere’ ha come implicazione di senso impegnarsi a mantenere la
promessa; ‘asserire’ ha come implicazione di senso impegnarsi alla verità di quanto si asserisce.
‘Proiezione’ indica qui l’esplicitazione, sul piano locutorio, di tali implicature: esplicitazione che
può consentire l’emergere di latenti contraddizioni. Senza tali esplicitazioni non si potrebbe parlare
di contraddizioni performative (per un approfondimento di questi temi si rinvia a P. Pagani, Con-
traddizione performativa e ontologia, Franco Angeli, Milano 1999, Parte I).
976 paolo pagani

Se non che, la consapevolezza di questo esito può indurre il negatore, per


rendere effettiva la negazione, o a ridursi alla afasia totale; oppure a porre e
togliere il locutorio (cioè a dire e disdire il medesimo): operazione che, in ogni
caso, smentirebbe nel suo realizzarsi effettivo il progetto che intende raggiun-
gere. Infatti, il contenuto posto e – insieme – tolto (dove la successione è solo
accidentale rispetto al senso dell’operazione, che è di porre-e-simul-togliere)
sarebbe inconfondibilmente opposto al contenuto che fosse invece o semplice-
mente posto o semplicemente tolto.
1.4.3. Prendiamo un altro caso, riguardante questa volta la dimensione pragmati-
ca del discorso: quello della responsabilità illocutoria, che riguarda l’illocuzione
come tale.
In prima battuta, negare la responsabilità illocutoria è possibile solo eserci-
tandola, cioè asserendo che essa non vale, nel senso che in quel che si dice non ci
sarebbe una determinata calibrazione illocutoria. E qui si realizza contraddizione
performativa strutturale: quel che dico ha il senso illocutorio di non averne alcuno
di determinato.
Se non che, l’autentica messa fuori gioco della responsabilità in questione si
prospetta in due possibili modi. Il primo modo è quello di una autosottrazione
al discorso, considerando che dire qualcosa senza assumersene la responsabilità
sarebbe comunque concedere – di fatto – ad altri la possibilità di interpretarlo, e
quindi di collocarlo illocutoriamente. Il secondo modo è il tentativo di porre l’atto
di discorso senza dargli una intelligibilità illocutoria: operazione che in ogni caso
fallirebbe perché, nel momento in cui l’atto fosse compiuto, esso potrebbe comun-
que essere inteso come illocutoriamente qualificato – almeno nel senso della pro-
vocazione o dell’esperimento. La situazione qui è analoga a quella di Gamma, là
dove Aristotele discute con chi si rifiuta di semainein ti.

1.5. Contraddizione performativa ed élenchos

1.5.1. La riconduzione a contraddizione performativa è stata intesa, nell’ormai


non più recente dibattito tra francofortesi e razionalisti critici, come il luogo di una
possibile fondazione ultima (Letzbegründung) del sapere, tale da portare al supe-
ramento del trilemma di Fries.
1.5.2. Ora, la pretesa fondativa della contraddizione performativa – cioè della
reductio a contraddizione performativa della posizione opposta a quella sostenu-
ta – può essere fatta valere solo se la si sfrutta come introduzione all’élenchos.
Più precisamente, la contraddizione performativa strutturale in cui, a essere vio-
late, siano condizioni strutturali dell’atto di discorso in quanto tale, è la situa-
zione in cui incorre chi locutoriamente nega un elemento strutturale dell’atto di
discorso e, illocutoriamente, non può che conformarvisi – almeno, se esplicita
locutoriamente l’illocutorio.
la forma dell’élenchos 977

Tale contraddizione però – a differenza di altre forme di contraddizione – è


solo un punto di equilibrio instabile e di passaggio: o verso un mutamento della
pretesa illocutoria (ad esempio, un suo indebolimento), o verso il riconoscimento
della intrascendibilità degli elementi negati, cioè verso la homologhia di cui parla
Alessandro di Afrodisia nel suo Commento alla Metafisica di Aristotele7. E questa
seconda uscita coincide appunto con élenchos.
Anche in Tommaso d’Aquino emerge che lo specifico elenctico sta nei seguenti
fattori: (a) l’esplicitazione locutoria del contenuto performativo dell’atto che nega
strutture trascendentali; (b) la registrazione di come questo contenuto esplicitato
sia un caso della struttura negata dalla negazione; (c) l’ideale riconciliazione del
negatore con questo obiettivo convenire tra negazione e struttura negata8.
Nel complesso, il senso di élenchos emerge come quello di un ritrovato accor-
do, anziché di una riduzione al silenzio.
1.5.3. È chiaro che, affinché la contraddizione performativa si espliciti – e con
essa si esplicitino gli sviluppi elenctici cui è orientata –, occorre operare una
proiezione locutoria delle intenzioni illocutorie, nelle quali sarà riconoscibile la
presenza della struttura negata. Ora, il rifiuto della proiezione dall’exercitus al
signatus inficerebbe l’atto di discorso come tale.
Qui non è in gioco l’esercizio di particolari tecniche linguistiche. Si tratta piut-
tosto dell’esercizio della responsabilità illocutoria, senza la quale nulla è propria-
mente detto di quel che si dice.
La richiesta della esplicitazione dell’illocutorio è espressa emblematicamente
da Epitteto in un luogo esemplare delle sue Diatribe: «che cosa stai facendo?»
è la richiesta di esplicitazione illocutoria da lui posta al negatore delle evidenze
elementari9.

1.6. Un ripensamento della struttura di élenchos

1.6.1. La pertinenza della teoria degli Speech Acts a élenchos è tale che può con-
sentirci di riformularne la struttura, facendo vedere che: (a) la negazione espli-
citamente locutoria delle costanti apofantiche10 si realizza all’interno di quelle

7
Alessandro di Afrodisia, In Aristotelis Metaphysica commentaria, ed. M. Haiduck, typis et
impensis Georgii Reimeri, Berolini 1891, 298-300. Il termine homologhia significa ‘assenso’, ‘ade-
sione’, ‘riconoscimento’. Nel commento di Alessandro alle pagine aristoteliche di Gamma esso indi-
ca il convenire, almeno di fatto, col «principio fermissimo» da parte del negatore che non voglia
– per paradossale coerenza – incorrere nella aphasia che lo renderebbe «simile a un tronco».
8
Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles, II, 33; testo latino della Editio Leonina.
9
Epitteto, Diatribe, II, 20; testo greco a cura di J. Souilhé.
10
Per ‘costanti apofantiche’ intendiamo le condizioni – semantiche, sintattiche, pragmatiche –
che rendono possibile il costituirsi di quello che Aristotele chiamava logos apophantikós, cioè il
discorso che asserisce alcunché, per il sì o per il no. Quali determinatamente siano le principali tra
queste costanti lo si vedrà nel prosieguo della nostra esposizione.
978 paolo pagani

stesse costanti: essa cioè fa ciò che nega, ovvero performativamente non riesce a
evadere da ciò che locutoriamente rifiuta; (b) il progetto di una negazione effet-
tuale delle costanti apofantiche coincide con l’ipotesi di una illocuzione priva
di contenuto locutorio: una pura intenzione di dire, cui non può corrispondere
niente di effettivamente detto.
1.6.2. Tra le costanti apofantiche che possono essere difese elencticamente vi sono
strutture semantiche, sintattiche, pragmatiche.
Semantiche sono quelle costanti la cui presenza consente all’apofantico di
avere un contenuto effettivo, ovvero determinato, e di essere così una manifesta-
zione ontologica. Sintattiche sono quelle costanti che assicurano la coerenza e
la consistenza del locutorio. Pragmatiche sono quelle costanti che garantiscono
la collocazione del locutorio entro un determinato registro illocutorio e, più in
generale, comunicativo.
1.6.3. Prescindendo dalla materia cui si può applicare e prescindendo dalle tre
esecuzioni che Aristotele ne esibisce in Gamma11, élenchos presenta la seguente
struttura: «togliere è porre» (anairòn logon hypomenei logon)12 – naturalmente,
quando si tenta di togliere strutture principiali.
Ma questa struttura non va fraintesa, quasi fosse il darsi di una contraddizio-
ne, quale si potrebbe ottenere (considerando per semplicità il caso classico della
non-contraddizione) nel modo seguente: se togliere il principio di non contraddi-
zione (PDNC) si indica con ¬q ≡ ¬[¬(p ∧ ¬p)], e se porre il PDNC si indica con
q ≡ ¬(p ∧ ¬p), allora il togliere/porre il PDNC potrebbe essere tradotto in ¬q ∧ q,
quindi nel darsi a sua volta di una contraddizione.
Questa banalizzazione è vietata dalla dissimmetria tra il porre e il togliere
che sono qui specificamente in questione: dissimmetria che è apprezzabile, però,
solo se si assurge a una considerazione non monodimensionale del linguaggio,
quale è quella evidenziata dagli Speech Acts – che di fatto riprendono la dottrina
aristotelica delle lexeis, cioè delle flessioni che vanno a caratterizzare il generico
logos semantikòs.
Più precisamente, nel caso di una negazione esplicitamente formulata (NF), il
togliere è locutorio, mentre il porre è performativo, cioè è il fatto (locutoriamen-
te esplicitabile) che il togliere si costituisce in conformità con la struttura di cui
vorrebbe essere una negazione. Nel caso invece della negazione effettuale (NE),
il togliere è un progetto che, in tanto in quanto trova esecuzione (o anche solo ese-
cuzione espressiva), rientra performativamente nella conformità suddetta, è cioè
equivalente a un certo modo di porre la struttura che si tenta di negare.

11
Per una loro adeguata ricostruzione, rinviamo a Pagani, Contraddizione performativa e onto-
logia, Parte III, cap. I.
12
«Oportet quod qui [eas] negat, [eas] ponat» – dice Tommaso delle strutture principiali (cfr.
Summa contra Gentiles, II, 33).
la forma dell’élenchos 979

Allora si può riconoscere che togliere implica porre, ma porre non implica
togliere. Ovvero, T → P; ma ¬(P → T). Quindi, ¬q → q (ovvero la negazione del
principio, pone il principio); ma non viceversa, cioè: ¬(q → ¬q).

1.7. Approfondimento dell’élenchos in relazione alla strategia negatrice più


radicale (NE)

1.7.1. Il negatore locutorio non può voler dire quello che dice – come negatore –,
perché ciò ha come contenuto un impossibile. E compito dell’élenchos è far apparire
l’impossibile sub specie impossibilitatis: cioè come qualcosa che non si può vole-
re, perché prima ancora non si può pensare. D’altra parte, l’ideale regolativo della
negazione effettuale delle strutture trascendentali – strutture costitutive dell’apofan-
tico in quanto tale – è l’isolamento dell’intenzione rispetto alla esecuzione. Infatti,
se il negatore effettuale riuscisse nel proprio progetto, si sottrarrebbe alla prassi apo-
fantica: a quella discorsiva e, ultimamente, alla prassi tout court.
L’aphasia è il limite teoretico cui la NE tende: essa è così il luogo di una ide-
ale semantizzazione diairetica tra locutorio e illocutorio. Infatti, proporsi di vio-
lare in senso effettuale una costante trascendentale, vuol dire certamente porre
una qualche intenzione (l’intenzione negatrice, che è una forma di illocuzione di
tipo assertorio); ma questa risulterebbe priva di una proiezione locutoria possibile;
mentre ogni proiezione locutoria di quella illocuzione sarebbe, rispetto ad essa,
una controesemplificazione.
Dunque, l’intuizione della NE resta costretta a non esprimersi effettualmente in
modo appropriato, in quanto ogni sua eventuale espressione (anche non semplice-
mente verbale) sarebbe posta in modo conforme alla struttura negata in intenzione.
Ma proprio nell’ipotesi estrema di una intenzione pura – priva di contenuto
locutorio –, l’illocuzione acquista rilievo come un che di distinto e inconfondibile
rispetto alla locuzione (e viceversa); e, d’altra parte, essa si mostra come qualcosa
che, nel suo ipotetico isolamento, non produce alcunché di discorsivo, restando
d’altra parte strutturalmente riferita a un contenuto (la locuzione, appunto). Invece,
la tradizionale teoria degli Speech Acts già dà per acquisita la scansione tra locu-
torio e illocutorio (così da evidenziare anche il prodursi di incongruenze tra essi);
e si limita a una ricognizione esemplificativa dei differenti tipi di illocuzione –
con ciò rifacendosi, ultimamente, al senso comune. In altre parole, i casi-limite
che stiamo considerando hanno il pregio di far emergere una crisi interna al lin-
guaggio, che mette in evidenza l’inconfondibilità tra quanto nel linguaggio viene
esplicitamente enunciato – la locuzione – e l’intenzione espressiva, o illocuzione,
secondo cui la locuzione viene prodotta.
980 paolo pagani

L’aphasia, a sua volta, rientra in una più generale apraxia, cui la NE si espo-
ne13. Pensiamo qui a una semantizzazione più generale: quella tra intenzione ed
esecuzione: semantizzazione tra ciò che ci si ripropone di fare, e ciò che real-
mente si fa nel dar corso al proponimento. Tipicamente, è impossibile agire sen-
za dare un contenuto determinato alla propria azione.
La proiezione poietica della intenzione pratica annunciata dal negatore effet-
tuale è di per sé nulla – corrispondendo all’«automutilazione» (apokoptein) di
cui parlava Epitteto14. La prassi si spezza qui in intenzione esecutiva e pragma
eseguito, dove il secondo mostra un rilievo autonomo, evidenziando la propria
refrattarietà al progetto in questione.
Comunque, una pura intenzione – di dire o, più in generale, di agire – sarebbe
destinata alla latenza, se non fosse traducibile, sia pure per locuzione interiore
all’Io, in un che di posizionalmente espresso e di comunicabile. Il che comporta
che la stessa intenzione negatrice dovrebbe – per interna coerenza, sia pure non
esplicitamente mediata dal principio di non contraddizione – autosopprimersi.
1.7.2. Élenchos è il riconoscimento di un anankaion di tipo non fatalistico: il
riconoscimento di ciò che comunque si sarebbe costretti – anche quando non se
ne fosse persuasi – a onorare per forza15.
1.7.3. Il cuore di élenchos è pragmatico. Infatti, il luogo in cui emerge la possi-
bile obiezione (NF) alla struttura principiale è inevitabilmente il giudizio; e la
obiezione patologica può essere sanata solo dalla homologhia, che la riconduce
alle sue condizioni trascendentali di possibilità. La NE, invece, non può neppu-
re apparire locutoriamente, né praticamente, in quanto, appunto, rinuncia alle
condizioni del proprio apparire; e, persino sul piano illocutorio, il suo apparire
è destinato alla improponibile latenza dell’inesprimibile – pena il convenire con
le strutture da cui essa progetta di evadere.

1.8. Ripresa di NF e NE

1.8.1. La NF fa ciò che nega, e lo fa proprio nell’atto del negare. Qui, all’inverso
di quanto capita nella contraddizione performativa, non si tratta più di rilevare un
contrasto reso interno al piano locutorio, mediante proiezione. Si tratta piuttosto
di rilevare come certe locuzioni esprimano una negazione di cui non sanno dare
attuazione. Il dire qualcosa è già – a prescindere dal contenuto – porre un che
di determinato; e persino dire qualcosa di grammaticamente malformato è porre
onticamente qualcosa che è quello che è, e non è l’altro da sé.

13
Del resto, pragmatico è una specie del genere pratico.
14
Epitteto, Diatribe, II, 20.
15
Come già ricordava Aristotele in Metaph. IV, 1009 a 17-18.
la forma dell’élenchos 981

Ma la NF non è solo un che di ontico; essa è anche un che di ontologico, cioè di


specificamente apofantico, e quindi manifestativo dell’essere. Qui la proiezione è
del locutorio (il genitivo è oggettivo) che, interpretato come performance linguisti-
ca, viene appunto considerato su di un piano performativo, consentendoci di consta-
tare che – su quel piano – esso è omogeneo alle costanti che intenderebbe negare.
1.8.2. Quanto allo scenario della NE, si aprono tre casi.
Il primo è il caso in cui si mettano fuori gioco solo alcune strutture dell’apo-
fantico, nel rispetto delle altre. Questo accade quando si propone, ad esempio,
una formulazione verbale intenzionalmente autocontraddittoria; oppure quando
si differisce all’infinito la responsabilità illocutoria su quel che si dice. In queste
situazioni il dire si costituisce, in qualche modo; ma si riduce a un fare qualun-
que (ontico, anziché ontologico), ovvero a una parvenza di locuzione: a un sem-
plice accostamento di termini, che così risulterebbero significanti solo nel loro
isolamento, e paradossalmente rinvianti, nella loro sintesi, al non essere assolu-
to, come al loro ideale regolativo. Qui verrebbe meno l’atto fatico, coinvolgen-
do con ciò l’atto retico (cioè l’intenzionalità del dire), per cui non si potrebbe
più nemmeno parlare di locuzione.
Il secondo caso è quello di una epoché afasica di tipo pirroniano, che si può
realizzare tramite la collocazione strategica – di quel che si dice – su di un piano
pre-apofantico. Si può dire che qui non si dia neppure più la negazione in oggetto;
e, nella misura in cui essa si realizza come apofansi, lo fa solo vivendo parassita-
riamente delle figure che intende negare.
L’ultimo caso o possibilità è quello del silenzio radicale (anche interiore), cer-
cato in ragione del fatto che qualunque dire fruirebbe del regime trascendentale.
A ben vedere, però, anche la prassi del silenzio fruisce di quel regime: il tacere è
infatti altra cosa dal non tacere16.

1.9. Un bilancio

La violazione del principiale è potente, non sull’ontologico, ma sull’ontico. E, in


particolare, si traduce in una tendenziale automutilazione per il negatore, il quale
si trova – senza per altro riuscire ad attuare l’intenzione specifica della propria
strategia – a ridurre il proprio agire a un mero fare, cioè a un muoversi aprassico,
privo di criterio – e, per questo, almeno potenzialmente autolesionistico.
Nel caso specifico del principio di non contraddizione, il negatore effettuale ridu-
ce il suo dire a un parlare meramente ontico (quello rilevato dal latino pronuntio e
dal greco phthéngomai), non più rivelativo, bensì afasico, nel preciso senso di bana-
lizzato. Così egli si sottrae alla propria capacità di aderire liberamente al trascenden-
tale, tendenzialmente regredendo dalla specie al genere, dal signatus all’exercitus.

16
Dire sta a determinare, come agire sta a scegliere.
982 paolo pagani

Epitteto parla in proposito di una «adesione da schiavi» – anziché da liberi – a


ciò che è principiale17: adesione di cui è paradigma regolativo il vivente vegetativo
(pephykòs)18, ma che non è adeguata all’essere umano. Tommaso al riguardo scri-
ve: «Prima autem principia quae sunt omnium conceptiones communes, probari
non possunt, et ideo eas negant, per hoc in positiones inopinabiles incidentes»19.

2. Confronti e approfondimenti
2.1. La rivisitazione di élenchos in Emanuele Severino

2.1.1. In Ritornare a Parmenide, Emanuele Severino riformula élenchos cercan-


do di rigorizzare la prospettazione aristotelica del Libro Gamma della Metafisi-
ca. Più precisamente, egli intende fare tre cose: (a) considerare élenchos al netto
di impegni sulla intersoggettività; (b) non ricalcare la pluralità delle formula-
zioni che Aristotele ne dà; (c) offrirne una versione in termini esplicitamente
ontologici20. Di tale riformulazione severiniana di élenchos diamo qui di seguito
una nostra esposizione.
Notiamo preliminarmente che Severino non fa distinzione tra NF e NE, ma
sembra comunque considerare in prima istanza la NF.
La prima formulazione essenzializzata di élenchos (F1) che Severino ci offre è
scandita in due momenti.
Primo momento (F1a): la negazione della determinatezza dell’ente è un (che
di) determinato; ovvero, la negazione della identità è una istanziazione della
identità stessa.
Secondo momento (F1b): la negazione della determinatezza dell’ente è (dun-
que) negazione di sé; ovvero, la negazione della identità è negazione di sé – in
quanto è (di fatto) istanziazione della identità.
Ora, il destino di ogni tipo di negazione della determinatezza è di essere sem-
pre l’opposto di ciò che intende essere. Il dire, in cui la negazione consiste, non
rispetta le proprie prescrizioni, e si realizza come una determinatezza. Neppure la

17
Rinviamo, per questo tema, a P. Pagani, Da Epitteto a Nietzsche, e ritorno, in Id., Studi di filo-
sofia morale, Aracne, Roma 2008.
18
Aristotele, Metaph. IV, 1008 b 11.
19
Ora, il negatore effettuale, in Gamma 1008 b 11, viene detto hómoios ghe phytón (secondo il
Codex Parisinus), oppure hómoios ton pephykoton (secondo il Vindobonensis e il Laurentianus) –
dove pephykota è il plurale del participio perfetto di phyo. Nel suo Commento alla Metafisica Tom-
maso, recepita la prima delle due locuzioni, cita anche la seconda, in questi termini: «Alius textus
habet “ab aptis natis”: et est sensus, quia talis, qui nihil suscipit, nihil differt in hoc quod actu cogitat,
ab illis qui apti nati sunt cogitare et nondum cogitant actu, qui enim apti nati sunt cogitare de aliqua
quaestione, neutram partem asserunt, et similiter nec isti» (cfr. Tommaso d’Aquino, Sententia libri
Metaphysicae, lect. IX; testo latino ed. Marietti).
20
Ci riferiamo a E. Severino, Ritornare a Parmenide (1964), in Id., Essenza del nichilismo,
Adelphi, Milano 1982, cap. 6.
la forma dell’élenchos 983

negazione del determinato riesce dunque a costituirsi come indeterminatezza: si


costituisce piuttosto come istanziazione della determinatezza.
Élenchos è la posizione riflessa o esplicita di ciò che nella negazione è solo
esercitato. Se non che, la determinatezza dell’ente è solo un aspetto della – più
radicale – opposizione tra positivo e negativo. La determinatezza, per sé presa,
non assicura la stabilità del positivo21.
Di qui l’esigenza di una seconda formulazione (F2), che è più ampia della pre-
cedente, perché formulata su un referente più radicale: l’opposizione essere-nulla.
Eccola, nei suoi due momenti.
Primo momento (F2a): la negazione della opposizione positivo-negativo è
affermazione della opposizione stessa (nel senso – così intendiamo – che la inclu-
de come sua condizione di senso). Ciò significa che l’identificazione degli opposti
è negazione della opposizione, solo se gli opposti sono saputi come tali. Negare
una opposizione implica infatti riconoscere la non-indifferenza semantica degli
opposti. In caso contrario – cioè, qualora gli opposti non fossero visti come tali –,
la loro identificazione costituirebbe una tautologia, e non certo la negazione di
una opposizione. Del resto, anche chi dice che non c’è niente di male nella con-
traddizione, sa che contraddizione è contrasto di opposti, che implicitamente essa
distingue per poterli opporre. L’unica reale negazione dell’opposizione sarebbe il
«togliersi dalla scena della parola e del pensiero», in quanto ogni negazione ver-
balistica non potrebbe che costituirsi – e fisicamente e semanticamente – in forza
della opposizione che intende negare.
Secondo momento (F2b): la negazione della opposizione è dunque – per le
ragioni dette – negazione di sé, cioè negazione della negazione dell’opposizione.
La ragione per cui Severino introduce la seconda formulazione di élenchos, è
che, limitandosi alla prima, si sarebbe potuto ancora ipotizzare che tutto ciò che
non è la negazione del positivo sia identico al proprio negativo. Nella seconda
formulazione, invece, si mostra che la negazione della determinazione è anche
negazione dell’opposizione tra positivo e negativo: negazione che, per altro, nega
se stessa ponendo di fatto l’opposizione stessa.
2.1.2. Proviamo ora a evidenziare – in termini nostri – quale sia il focus della pole-
mica intervenuta tra Severino e Bontadini riguardo alla natura di élenchos.
Bontadini22 osserva che il pensiero di chi si contraddice, si annulla «come risul-
tato», ma non «come risultare». Ovvero: locutoriamente la contraddizione c’è, ma
la locuzione in cui essa si esprime si esaurisce sul piano ontico.

21
È nota la contestazione rivolta da Severino alla versione del PDNC contenuta nel testo aristo-
telico di De interpretatione, 9 (cfr. Id., Poscritto [1965], in Essenza del nichilismo, pp. 70 ss.).
22
L’autore si esprime su questo tema in G. Bontadini, Per una filosofia neoclassica (1958), in
Conversazioni di metafisica, Vita e Pensiero, Milano 1971, vol. I, p. 293, e vi ritorna più distesamen-
te in Id., Per una teoria del fondamento, in Metafisica e deellenizzazione, Vita e Pensiero, Milano
1975, § 4.
984 paolo pagani

Severino23 gli oppone che ogni istanziazione dell’ontico è comunque una istan-
ziazione del principio – e quindi dell’ontologico. Scrive Severino: «il contraddirsi
non è un non pensar nulla», «la contraddittorietà costituisce infatti la lo stesso
positivo significare del nulla».
A tal proposito, si può osservare che, il fatto che «quando ci si contraddice,
si accende [comunque un] atto di pensiero» – come scrive Severino – non com-
porta che un significato autocontraddittorio sia un autentico significato (qualcosa
di autenticamente pensato); ma vuol dire soltanto che il pensiero che lo pone è
un autentico atto di pensiero. E quando Bontadini distingue tra risultare e risul-
tato, allude proprio alla distinzione tra pensare e pensato, riservando la nullità a
quest’ultimo – nel caso della negazione in oggetto.
La considerazione pragmatica di élenchos può aiutare a chiarire il senso del-
la polemica ora richiamata. Infatti, il carattere nullo della proiezione locutoria
dell’illocuzione negatrice (e la conseguente dieresi semantizzante tra i due fattori)
viene a dire due cose.
(a) Da una parte Bontadini ha ragione, nel senso che l’esito della negazio-
ne – sia di quella formulata che di quella effettuale, anche se Bontadini pensava
soprattutto al contraddirsi effettuale – è una nullità ontologica, ovvero è un nulla
di risultato; ma non è una nullità ontica: non è un nulla di risultare.
(b) Severino, da parte sua, ha ragione quando osserva che al risultare (ontico)
corrisponde un atto di pensiero (una illocuzione). Se non che, il risultare ontico è
reticamente (ovvero, intenzionalmente) nullo: è un ontico che si riferisce a nulla.
Eppure, come ontico (come mero ente) si struttura incontraddittoriamente. Que-
sto ontico è anch’esso istanziazione del principio di non contraddizione; non però
posizione intenzionale di esso. L’atto di pensiero corrispondente è inadeguato,
incongruente rispetto alla obiettiva incontraddittorietà del risultare locutorio.
2.1.3. Come abbiamo visto, già in Ritornare a Parmenide, élenchos viene ricon-
dotto a una struttura fondativa più primitiva. Infatti, Severino osserva – giu-
stamente – che x è inconfondibile con non-x, non perché x è x, ma perché è un
positivo, e quindi rileva che élenchos si struttura in riferimento alla «opposizione
universale del positivo e del negativo»: opposizione che, a sua volta, élenchos
difende inoppugnabilmente. Da qui, Severino conclude – questa volta erronea-
mente – che élenchos è «un momento della opposizione originaria tra essere e non
essere», cioè della «struttura originaria».
In realtà, élenchos rivela che l’opposizione vale in subordinazione alla presen-
za – questa sì originaria – del positivo. Élenchos è la forma che la trascendentalità
assume in relazione alla propria negazione.
Se, dicendo che è un momento della opposizione, si intende dire che anche
élenchos è un certo positivo, non ci sono problemi. Così come è giusto rilevare

23
Severino, Ritornare a Parmenide, pp. 56-58.
la forma dell’élenchos 985

che élenchos non è il fondamento del fondamento (come già implicitamente esclu-
so da Bontadini)24. Si può dire, piuttosto, che il fondamento stesso non può avere
(ricevere) un fondamento – neppure da se stesso, come fundamentum sui –, bensì,
semplicemente, rivela in forma elenctica il suo essere fondamento, quando si tenta
di negarlo in qualche modo e per qualche suo aspetto.
Élenchos è semplicemente l’esperimento da cui risulta che guardare al di fuori
del fondamento è non vedere più nulla; così come fare a meno del fondamento,
è non fare più nulla. Ma l’esperimento non può – come si vede elencticamente –
collocarsi in posizione arretrata rispetto al trascendentale. Esso è piuttosto il luo-
go in cui possono venire in evidenza gli elementi che costituiscono la logica di
quello: il luogo, dunque, di una ontologia elementare, nella quale può venire in
luce il senso non ingenuo della figura stessa dell’evidenza, così come il senso non
ingenuo della trascendentalità.
In sintesi, élenchos in Ritornare a Parmenide è riproposto in termini di nega-
zione della negazione. Il che è giusto, ma solo in tanto in quanto la negazione
elenctica va intesa come mancata esecuzione della intenzione negatrice, e quindi
come inevitabile homologhia con ciò che si intende negare.
2.1.4. In Tautòtes si dà alle stesse parole di Ritornare a Parmenide una conno-
tazione di senso differente: che élenchos sia un momento della opposizione tra
positivo e negativo viene ora a significare che esso è un elemento astratto rispetto
al contenuto della struttura originaria25. Più precisamente: è una individuazione
della identità/opposizione, intesa come universalità astratta; ed è una parte della
identità/opposizione, intesa come universalità concreta. Ovvero, in un primo sen-
so è conforme alla struttura originaria; in un secondo senso è parte della struttura
originaria (come di un tutto).
La conformità alla struttura originaria nella sua universalità astratta si traduce
nella strutturazione identitaria secondo cui vengono rivisitate in Tautòtes le quattro
figure di élenchos già proposte in Ritornare a Parmenide, in obbedienza al criterio
per cui ogni giudizio è predicazione (e, prima ancora, articolazione) di identità.
Mentre, l’esser parte della stessa struttura originaria come di un tutto è motivato
dalla considerazione per cui anche la formulazione verbale dell’élenchos può esse-
re trattata come una particolare forma di giudizio, e dunque tradotta in una predi-
cazione di identità. Vediamo in dettaglio le riformulazioni elenctiche proposte nel
testo del 1995.
Riformulazione di 1a: (a = a) = (a = a)
Riformulazione di 1b: (ab = ab) = (ab = ab)
Riformulazione di 2a: (ab = ba) = (ba = ab)

24
Che per Bontadini non vi sia fondamento ulteriore al principio di non contraddizione è quanto
si evince da Per una teoria del fondamento, § 2.
25
Ci riferiamo a E. Severino, Tautòtes, Adelphi, Milano 1995, capp. XXVI-XXVIII.
986 paolo pagani

Riformulazione di 2b: (ab = ba) = (ba = ab)


Il senso delle precedenti riformulazioni è che, nei primi due casi, ad apparire
non è una determinatezza altra da quella negata; nei secondi due, ad apparire non è
una opposizione altra da quella negata.
A questa sequenza Severino accompagna due affermazioni, solo all’apparenza
equivalenti tra loro: (i) c’è un apparire e un essere della non-verità, per cui essa è
conforme al vero26; (ii) la negazione di p implica necessariamente l’apparire di p 27.
Ora, la (i) è vera, ed esprime il senso stesso di élenchos. Non si può dire lo stesso
di (ii), che sarebbe vera nel caso in cui p fosse semplicemente una falsità, mentre
non vale per la p che è in gioco nel caso di specie, cioè per un’autocontraddizione;
infatti, se questa si strutturasse intelligibilmente (e, dunque, in modo tale da appa-
rire con un suo specifico contenuto), non potrebbe essere esclusa semplicemente
per rilevamento di autocontraddittorietà, ma richiederebbe – per esserlo – altre
considerazioni. (Quali?).
Certo – come enfatizzato in Tautòtes –, élenchos non è il fondamento del fon-
damento; semmai è una certa forma che il fondamento assume all’occasione del
suo essere negato. Ma che cos’è il fondamento? È l’essere come opposto al nulla
oppure è l’essere simpliciter, cioè la presenza?
Ciò che originariamente si dà non è l’opposizione; è la presenza. Non c’è sim-
metria originaria tra essere e non essere. C’è invece dissimmetria; nel senso che
l’ipotesi del nulla è tale da non sapersi costituire né direttamente né indirettamen-
te (cioè attraverso la contraddizione): di questa impotenza del nulla a costituirsi,
élenchos – l’essere nella forma di élenchos – è testimone.
Invece, Severino presenta come originaria l’opposizione, e presenta élenchos
come una declinazione astratta di essa. Qui l’opposizione diventa il fondamento
di élenchos. Solo che la relazione tra astratto e concreto, in quel contesto, è media-
ta dal principio di non contraddizione – che però élenchos, a questo punto, non
sarebbe più in grado di tutelare, dovendone anzi epistemicamente dipendere.
Anche l’ulteriore manovra, che fa vedere che élenchos è una istanziazione del-
la identità – e diversamente non varrebbe, perché verrebbe inteso autocontrad-
dittoriamente come un astratto, posto isolatamente dal suo concreto –, intende
il principio di non contraddizione come qualcosa che vale indipendentemente da
élenchos, e che sta a suo fondamento. Ora, che il principio di non contraddizione
non abbia bisogno di élenchos per valere in sé, è vero; ma che epistemicamente ne
prescinda e lo fondi, no.
La polemica – per altro giusta - di Severino contro la figura del «fondamento
del fondamento» implica per lui una presa di distanza dalla consequentia mira-
bilis di Clavius, per cui p è vera nell’ipotesi che la sua negazione la implichi:

26
Ibi, p. 228.
27
Ibi, p. 230.
la forma dell’élenchos 987

(¬p → p) → p28. A ben vedere, però, la consequentia mirabilis è uno schema


di cui élenchos è perfetto inveramento: ad esempio, il principio di non con-
traddizione mostra d’esser vero in quanto la sua negazione lo implica. Ciò non
significa, però – si pensi al riguardo alla tabella verofunzionale del simbolo
dell’implicazione (→) –, che p (nel nostro caso, il PDNC) debba la sua veri-
tà alla verità dell’implicans: implicans che qui è a sua volta l’implicazione in
parentesi: ¬p → p. E, con ciò, resta evitato il fantasma paventato da Severino.
Il tentativo di Tautòtes – quanto all’élenchos – finisce per essere quello di
ricondurre quest’ultimo a una forma di apagogia, secondo il paradigma della uni-
dimensionalità locutoria. Si finisce per fondare élenchos sul fatto che negarlo è
negare l’identità dell’identico.
Più radicalmente, l’equivoco qui è quello proprio dell’idealismo trascendenta-
le: l’Io è trattato come se fosse il puro apparire; quindi, ciò che in realtà è proprio
dell’Io viene indebitamente proiettato sull’apparire in quanto tale. Invece, l’Io è
ciò cui l’apparire è presente, ma non secondo tutte le sue condizioni (lo stesso
Severino, del resto, lo riconosce parlando di «contraddizione C»29). A ben vedere,
l’originario non ha alcun bisogno di essere difeso; siamo noi che – con élenchos –
ci difendiamo da noi stessi come potenziali negatori di quello e delle sue costanti.
Il problema è che élenchos è una figura che compete all’Io; mentre Severino
ne fa una figura dell’originario, avendo implicitamente – e indebitamente – iden-
tificato l’Io con l’originario apparire dell’originario. L’Io è piuttosto ciò che ha
bisogno di élenchos per riferirsi all’originario.

2.2. Sulla formalizzazione di élenchos in Sergio Galvan

2.2.1. Nell’ambito di un notevolissimo contributo dedicato a Le regole della nega-


zione nella logica classica, intuizionistica e minimale Sergio Galvan contrappone
l’ipotesi di una «autofondazione» e quella di una «eterofondazione» dei principi
logici; dove per eterofondazione deve intendersi «fondazione a partire dal conte-
nuto d’evidenza», e non facente leva «sulle sole regole del discorrere»30.
Secondo Galvan, «il pensiero intenzionante la negazione di un contenuto d’evi-
denza non è perciò stesso un pensiero nullo, il che significa che il pensare è possibile

28
Ibi, p. 245.
29
Per «contraddizione C» Severino intende la posizione di un contenuto semantico al di fuori
della rete di implicazioni che legano quel contenuto a ogni altro contenuto semantico e che lo deter-
minano nel suo «concreto» significare (cfr. E. Severino, La struttura originaria, Adelphi, Milano
1981, cap. VIII, 9. f).
30
S. Galvan, Le regole della negazione nella logica classica, intuizionistica e minimale, ISU -
Università Cattolica, Milano 1994, p. 78. Tale saggio è stato ripubblicato con integrazioni sotto il
titolo Non contraddizione e terzo escluso. Le regole della negazione nella logica classica, intuizio-
nistica e minimale, Franco Angeli, Milano 1997; l’argomento centrale sull’elenchos è apparso anche
in Id., A Formalization of Elenctic Argumentation, «Erkenntins», XLIII (1995), pp. 111-126.
988 paolo pagani

anche senza attenersi, anzi in opposizione, al contenuto d’evidenza in oggetto. È


questa probabilmente» – prosegue l’autore – «la ragione principe della convinzione
assai diffusa anche nel mondo antico che l’argomentazione elenctica sia la forma
d’eccellenza dell’autofondazione. Secondo la pretesa insita in tale forma argomen-
tativa, infatti, la tesi segue alla sua stessa negazione senza il ricorso ad altro che
alle regole essenziali alla istituzione del gioco dialettico tra proponente ed oppo-
nente della tesi stessa. Per questo, il successo dell’argomentazione elenctica impli-
ca necessariamente il raggiungimento dell’obiettivo dell’autofondazione; anzi, a
rigore, gli è equivalente, nel senso che è difficile ipotizzare una forma rigorosa di
autofondazione che non sia anche una fondazione elenctica. E in modo del tutto
corrispondente, il monismo logico classico – nel senso […] di concezione secondo
la quale solo la logica classica è corretta – trova giustificazione rigorosa solo in una
fondazione di tipo elenctico dei principi che caratterizzano tale logica»31.
Abbiamo riportato questa lunga citazione, perché essa pone esplicitamente i pre-
supposti sui quali Galvan imposta la sua successiva analisi. Vorremmo sottolineare,
in particolare, la convinzione secondo cui il pensiero che intenziona la negazione
di una evidenza sarebbe comunque autentico pensiero. Ora, tale convinzione può
essere interpretata nel senso che un pensiero, il cui contenuto fosse il rinnegamento

31
Galvan, Le regole della negazione nella logica classica, intuizionistica e minimale, pp. 78-79.
Più avanti, Galvan afferma – ridiscutendo alcune tesi di Emanuele Severino –, che «è vero che anche
per affermare una contraddizione logica è necessario tener fermi i contenuti della contraddizione in
quanto opposti l’uno all’altro e che, conseguentemente, è necessario condividere a proposito di essi
la legge che il positivo si oppone al negativo, ma questo non esclude che, al contrario, sia posta la
congiunzione dei due opposti e, quindi, la contraddizione. Pensare la contraddizione α ∧ ¬α significa,
per l’appunto, tenere ferma l’opposizione di α con ¬α ma, al contempo, affermare la congiunzione α
∧ ¬α di α con ¬α. Affermare l’impossibilità di tale affermazione del pensiero, ha lo stesso significato
[…] del dire che è impossibile pensare la contraddizione, come se si dicesse che il pensiero che pensa
la contraddizione è un pensiero che si annulla, cioè un non pensiero. È vero che porre α e, al contempo,
¬α significa porre α e, al contempo, togliere α, ma, si noti, togliere α non equivale a non porre α. Se
una persona dà l’ordine di chiudere la porta e un’altra dà l’ordine opposto, è posta la contraddizione tra
“porta chiusa” e “porta aperta”, ma ciò non significa che sia posto e contemporaneamente non posto
dalla stessa persona l’ordine di chiudere la porta. Il secondo individuo può togliere l’ordine del primo,
ma non può fare in modo che il primo ordine non sia posto. Essendo irrilevante il fatto che all’origine
della contraddizione ci siano due soggetti, la situazione creata dai comandi opposti è strutturalmente
identica a quella intenzionata da un pensiero che ha come oggetto la congiunzione di due contenuti
opposti» (ibi, p. 88). Come si vedrà tra poco nel nostro testo, l’effettiva sintesi dei contraddittori è in
realtà impensabile. Quanto alla loro ‘congiunzione’ – cioè al mero costituirsi dell’ipotesi –, è chiaro
che questa è effettiva, e lo è nella misura in cui è attuazione dell’incontraddittorietà del reale (per cui i
contraddittori restano tali, ad esempio): ma, un conto è che si progetti che questa congiunzione esprima
una possibilità ontologica, un altro conto (che però non torna) è che si veda tale possibilità ontologica.
Come sappiamo, Gustavo Bontadini, nel suo scritto Per una teoria del fondamento, distingueva oppor-
tunamente fra il «risultare» e il «risultato», riservando alla contraddizione la nullità di «risultato». Che
la scansione grafica o quella temporale consentano il porsi dei contraddittori uno di fronte all’altro,
anche come ipoteticamente congiunti, non toglie che la loro simultaneità, che è il proprio dell’auto-
contraddizione, sia solo dicibile, e non realmente concepibile – se non, genericamente, come una via
determinata che si affaccia sull’ipotesi nichilistica.
la forma dell’élenchos 989

di una evidenza, sarebbe comunque il reale atto di pensiero di un Io pensante – il che


è ineccepibile. Quel che non riteniamo di poter accettare è che sia autentica mani-
festazione dell’essere l’ipotesi in cui risulti negata, appunto, una struttura dell’es-
sere: e questo, sia nel caso (a) in cui tale struttura sia negata come tale, sia nel caso
(b) in cui essa sia negata attraverso il tentativo di fornirne un controesempio. Nel
caso (a), infatti, la negazione della struttura principiale non potrebbe attuarsi nella
sua intenzionalità propria, ma solo secondo una materialità locutoria, interpretabi-
le comunque come attuazione della struttura stessa – come accade quando si dice
esplicitamente che il PDNC non vale trascendentalmente. Nel caso (b) – che si rea-
lizza, stando all’esempio, quando si cerca di pensare una certa autocontraddizione –,
accade poi che l’intenzionalità propria dell’atto fallisca: infatti, il contenuto dell’atto
è effettivo quanto ai suoi termini astratti (i contradictoria), ma non lo è quanto alla
loro sintesi, se non limitatamente al suo carattere di progettualità determinata. In
altre parole, il tentativo di pensare il classico cerchio quadrato32, corrisponde certo
ai suoi contenuti effettivi – quali il cerchio e il quadrato –, e corrisponde anche al
progetto effettivo di una loro sintesi (progetto che è determinato, tanto da distinguer-
si da quello del sasso di legno): non corrisponde, però, e qui sta il punto, al conte-
nuto progettato. Come atto di pensiero che fallisce l’intenzionalità che lo qualifica,
si può dire che il «pensiero della contraddizione» sia il luogo – come già si diceva –
della dieresi tra pensiero come mera espressione di una linguisticità ontica (la cui
massima ambizione può essere di ordine strategico) e pensiero autentico o logico
(cioè, manifestativo dell’essere).
Un altro aspetto della introduzione di Galvan che merita di essere discusso, è il
concetto stesso di autofondazione. Se il fondamento cui mette capo ogni possibile
fondazione è il trascendentale – l’inevadibile –, ecco che a questo andrà riconosciuta
capacità autofondativa: capacità di cui saranno partecipi tutte le dimensioni struttu-
rali di esso (ivi compresa l’incontradditorietà, che è discussa nel testo di Galvan).
In tal senso è opportuno ancora una volta ribadire che la capacità autofondativa non
può appartenere ad alcun principio, se questo è inteso in chiave logico-formale – cioè
come semplice regola di calcolo. Inteso in tale chiave, infatti, lo stesso PDNC non è
in alcun modo in comunicazione con sé – così da poter in qualche modo introdurre
criticamente se stesso –, se si eccettua la mera possibilità di una autoderivazione,
che risulterebbe tanto tautologica quanto ipotetica. La figura dell’autofondazione,
piuttosto, non può che realizzarsi in ambiente tematicamente ontologico, dove il
PDNC può essere considerato per quel che esso è originariamente e concretamente:
e cioè come l’essere stesso in quanto trascendentalmente coerente con sé. Dunque,

32
È evidente che qui non ci si riferisce a strutture non-euclidee, quali il quadrato massimale, che
qualche autore ha ritenuto di poter convenzionalmente rappresentare in forma circolare. Si veda al
riguardo G. Frege, Die Grundlagen der Arithmetik, W. Koebner, Breslau 1884, p. 64.
990 paolo pagani

l’autentica possibilità autofondativa – o elenctica – coincide con quella che Galvan


chiamerebbe «giustificazione via evidentiae» o «eterofondazione»33.
È del resto lo stesso Galvan a riconoscerlo, quando scrive – poco più avanti –
che «alla fin fine il problema della fondazione della logica si trasforma in quello
della fondazione dell’ontologia sottostante». Si tratterà però anche di riconoscere
che quella ontologica non è «una dimensione esterna alla logica» – tale da darne una
giustificazione «condizionata»34 –, ma piuttosto ne è l’alveo naturale e analogico,
perché la regìa ultima delle strutture trascendentali, non è chiamata – come ci sarà
occasione di ribadire – ad esercitarsi in un senso non rispettoso delle differenze.
Mi pare, anzi, che la contrapposizione tra «monismo» e «pluralismo» logici,
nasca appunto al di fuori della appropriata considerazione dei principi come struttu-
re trascendentali, e perciò analogiche. In particolare, va chiarito che, se quello che
Galvan chiama «monismo logico classico» deve in qualche modo fare affidamento
su élenchos, non mi sembra valga il reciproco. Non mi sembra, cioè, che élenchos
valga solo sullo sfondo di opzioni monistiche. Per essere più precisi, si può dire che
– fatto salvo il riferimento all’orizzonte trascendentale come forma di ogni conte-
nuto di ipotesi – nessun élenchos vieta che si possano riconoscere tutte le specificità
regionali che la ricchezza fenomenologica dell’orizzonte è in grado di abbraccia-
re in sé. L’unica cautela, in proposito, sarà quella di non confondere la specificità
regionale con l’eccezionalità trascendentale: l’omogeneità trascendentale è infatti
l’unica condizione che può garantire il darsi effettivo di ogni specificità.
2.2.2. Sullo sfondo delle considerazioni precedentemente richiamate, Galvan pre-
senta l’ipotesi di una formalizzazione logica di élenchos, applicata alla difesa del-
la regola di non contraddizione (NC) del calcolo proposizionale classico35, per

33
Galvan, Le regole della negazione nella logica classica, intuizionistica e minimale, p. 78.
34
«Il monismo – ovvero il presunto sistema di logica corretto – va fondato, eventualmente, in
modo condizionato, su basi esterne alla logica, quali possono essere le sue basi semantiche. Ciò
significa che la questione della correttezza del sistema va posta relativamente, rispetto ad uno spe-
cifico apparato semantico e il problema si converte, conseguentemente, in quello dell’adeguatezza
di tale apparato. Lo stato dell’adeguatezza o meno della semantica dipende, però, in ultima istanza,
dall’ontologia condivisa. Per questo, alla fin fine il problema della fondazione della logica si tra-
sforma in quello della fondazione della ontologia sottostante. Il richiamo a dimensioni esterne alla
logica allo scopo di assicurare a quest’ultima un fondamento – per quanto condizionato –, non è un
fenomeno ristretto all’ambito della fondazione logica. Si tratta, al contrario, di un fenomeno genera-
le, inerente all’intero edificio del sapere, di cui si è divenuti decisamente consapevoli in questi ultimi
decenni, in particolare in conseguenza dei numerosi risultati di limitazione cui è giunta la riflessione
logico-epistemologica contemporanea. Secondo la visione che ne è nata, il sapere ha, per così dire,
una struttura aperta, nel senso che le singole parti di cui esso è costituito non hanno un carattere di
compiutezza in se stesse, ma, al contrario, rimandano a dimensioni teoriche e metateoriche sempre
più vaste e comprensive. Ora tra queste dimensioni esiste – e si rivela sempre più decisiva – anche
la dimensione ontologica, vale a dire quella che tradizionalmente era considerata la dimensione cor-
rispondente al punto di vista dell’intero, la prospettiva, cioè, dalla quale si colgono gli aspetti più
generali e strutturali della realtà» (ibi, p. 89).
35
⊢ ¬(α ∧ ¬α).
la forma dell’élenchos 991

mostrare come essa non funzioni, e come, di conseguenza, cada – a suo avviso
– la possibilità di fondazione del «monismo logico». Il «calcolo e» – come egli lo
chiama – assumerà come regole proprie, quelle che sono riconosciute come «base
comune» nella discussione tra lo «scettico» (S) e l’«opponente dello scettico» (O).
Per comodità pratica, Galvan identifica le regole in questione, con la base comune
(b) dei calcoli «classico», «intuizionistico» e «minimale», cui aggiunge la regola
E∀. La tesi dello scettico – che è la negazione di NC –, viene designata come τ.
Ora, l’autore propone di interpretare la movenza elenctica attraverso quella parti-
colare istanza della «regola di autocontraddizione» (AC):

Xα ⊢ ¬α
X ⊢ ¬α

che si ottiene ponendo τ al posto di α e lasciando cadere l’insieme delle assunzio-


ni X. Il risultato è la «regola di autocontraddizione elenctica» (AE) seguente36:

τ ⊢¬τ
⊢¬ τ

La regola AE è dunque la regola centrale del calcolo elenctico e, condivisa sia dal-
lo scettico S sia dal suo opponente O.
Lo scettico S, però, dovrà anche riconoscere «una minimale condizione di
coerenza; non certamente una condizione basata sul rispetto del principio di non
contraddizione – che lo scettico si propone al contrario di negare –, ma quella
richiesta dall’esigenza per lo scettico (1) di impegnarsi con tutto ciò che è impli-
cato dalla sua tesi – il darsi della contraddizione – e (2) di non accettare niente
che sia incompatibile con essa»37. In particolare, l’affermazione di «tutto ciò che
è condizione necessaria» perché τ rimanga fermo, sarà assunta come regola S1:

τ⊢ α
⊢α

e la negazione di «tutto ciò che elimina» la posizione di τ sarà assunta come


regola S2:

α ⊢¬τ
⊢ ¬α

S1 e S2 costituiscono dunque le due regole centrali della teoria TS sostenuta dallo


scettico. Galvan fa notare l’importanza di S1, in quanto essa contiene l’afferma-

36
Dove, la cancellazione di X è dovuta al carattere di ‘incondizionato’ proprio di τ.
37
Ibi, pp. 79-82.
992 paolo pagani

zione della contraddizione38. In particolare, poi, S2 è «l’unica regola che nella teo-
ria scettica presiede alla sintassi della negazione»: infatti, a S interessa solo negare
ciò che contraddice τ, e non certo ciò che è autocontraddittorio39. Da S2 è possibile
comunque derivare una versione di NC limitata al caso τ – e cioè ¬(τ ∧¬ τ) –,
nonché la doppia negazione di τ – e cioè ¬¬τ 40. Chiaramente le regole S1 e S2,
caratterizzano la tesi dello scettico S e pertanto non possono essere condivise dal
suo opponente O. In particolare O non può accettare una regola tanto impegnativa
come S2 – dalla quale è derivabile la stessa ¬¬τ. L’opponente O condivide espli-
citamente con lo scettico solo il calcolo e, e in particolare la regola AE. D’altra
parte S non può esimersi dall’accettare AE, perché AE è un caso particolare di S2.
In tale quadro, O dovrebbe riuscire a derivare in e la premessa τ ⊢ ¬ τ, perché,
a questo punto, potrebbe ottenere, attraverso AE, quanto occorre al suo scopo,
ovvero ¬τ 41.
Ora, l’autentico problema elenctico sta proprio qui: nella derivazione della pre-
messa di AE (premessa che chiameremo p). In proposito, Galvan distingue tra (1)
il caso di una formulazione «generale» e (2) quello di una formulazione «locale»
di τ; e anticipa che ottenere p per una formulazione generale di τ non è problema-
tico, mentre risulta impossibile per una formulazione locale.
Nel caso della formulazione scettica generale – ∀α(α ∧ ¬α) –, per derivare p si
può usare questa strategia42:

∀α(α ∧ ¬α) ⊢ ∀α(α ∧ ¬α) per assunzione


∀α(α ∧ ¬ α) ⊢ τ ∧ ¬τ per E∀
τ ⊢ ¬τ per E∧ e def. di τ.

Diverso è il caso della formulazione locale. Infatti, per escludere che la contrad-
dizione valga anche solo per qualche α, «occorrerebbe dimostrare non semplice-
mente che ¬∀α(α ∧ ¬α) ma che ∀α¬(α ∧ ¬α), e per ottenere ciò, è necessario
qualcosa di aggiuntivo rispetto al calcolo e»43. Quello della negazione locale è il
rifugio più semplice per S, il quale potrebbe anche limitarsi ad affermare che tutto

38
«S1, infatti, contiene, innanzitutto, l’affermazione di τ: data la validità di τ ⊢ τ, si ha per S1
anche ⊢ τ. In più, S1 dichiara la determinazione dello scettico a sostenere tutto ciò che è condizione
necessaria della sua tesi. S1 è dunque espressione del rigore consequenziale dello scettico, rispetto
alla tesi sostenuta e alle sue implicazioni. Si noti, tra parentesi, che il ruolo di S1 è ulteriormen-
te ribadito dal fatto che al suo posto si potrebbe porre equivalentemente ⊢ τ come assioma della
contraddizione, a partire dal quale le implicazioni di τ seguirebbero per MP. […] S2 è espressione
dell’esigenza, da parte dello scettico, […] di opporsi a oltranza a tutte le forme di negazione della
sua tesi e quindi di negarle» (ibi, pp. 82-83).
39
In tal senso, S2 non è confondibile con la regola ¬j, la cui accettazione da parte di S sarebbe
impossibile, in quanto attraverso ¬j è possibile la derivazione di NC (ibi, p. 83).
40
Ibidem.
41
Ibi, p. 84.
42
Ibi, pp. 84-85.
43
Ibi, p. 85.
la forma dell’élenchos 993

è contraddittorio, tranne τ; ma, in questo caso, τ non sarebbe la negazione univer-


sale di NC, bensì avrebbe la forma di una particolare contraddizione: α ∧ ¬α. Tut-
tavia, in questo caso, non sarebbe possibile derivare p in e; e, con ciò, non sarebbe
derivabile ¬(α ∧ ¬α), cioè lo stesso NC 44. Infatti, NC non può essere derivato
neppure nel calcolo b+AC, di cui e è un’applicazione45. Dunque, per derivare NC
nel contesto e, occorrerà l’introduzione di qualche regola aggiuntiva46.
Naturalmente, da ciò risulta che e non funziona per la formulazione parti-
colare della negazione di NC; dal che Galvan conclude che «l’argomentazione
elenctica è conclusiva solo rispetto alla formulazione generale della tesi scetti-
ca», e che «una fondazione dal basso, collocata su una base inconcussa, della
logica è impossibile»47.
2.2.3. Il discorso di Galvan si concentra naturalmente sulla possibilità di ottene-
re, all’interno di e, la derivazione di τ ⊢ ¬τ. In effetti, l’argomentazione elenctica
rileva il passaggio dalla posizione della negazione (τ) alla autoesclusione di tale
negazione. Ma rileva anche – a un livello più profondo –, il convenire obiettivo
della negazione con la struttura che essa va a negare: infatti, ad autoescludersi è la
negazione in quanto negazione, e non in quanto posizione della negazione. Parlia-
mo della posizione della negazione – e non semplicemente dell’atto del negare –,
perché, che l’atto del negare la non-contraddizione possa risultare semplicemente
annullato dal successivo atto con cui S è costretto da O a negare quella negazione, è

44
Se fosse derivabile p, cioè τ ⊢ ¬τ – nel caso in cui τ fosse appunto α ∧ ¬α –, allora risultereb-
be derivabile in e esattamente ¬(α ∧ ¬α), cioè lo stesso NC.
45
Spiega Galvan che la non derivabilità di NC all’interno di e, non è solo questione di fatto, ma
può anche essere stabilita a priori, considerando che NC non è derivabile neppure dal calcolo b+AC,
di cui e è soltanto una restrizione (ottenuta per applicazione di AC al caso in questione). E che NC
non sia derivabile nel calcolo b+AC, è qualcosa che Galvan ha dimostrato con un teorema preceden-
te (si veda ibi, pp. 71-74), basato sulla costruzione di un contromodello all’interno di una semantica
di tipo kripkiano, verificante la correttezza di b+AC.
46
Galvan indica in proposito la prima figura della regola di contrapposizione (Ca) oppure lo
pseudo-Scoto. Nel primo caso, si avrà:
α ∧ ¬α ⊢ α ∧ ¬ α per assunzione
α ∧ ¬α ⊢ α per E∧
¬ α ⊢ ¬(α ∧ ¬α) Ca
α ∧ ¬ α ⊢ ¬(α ∧ ¬ α) per RP e ∧I
τ ⊢ ¬τ per def. di τ
Nel secondo caso, si avrà invece:
α ∧¬α ⊢ α ∧ ¬α per assunzione
α ∧ ¬α ⊢ α E∧
α ∧ ¬α ⊢ ¬α E∧
α ∧ ¬α ⊢ ¬(α ∧ ¬α) (¬i)
τ ⊢ ¬τ per def. di τ
(si veda ibi, p. 87).
47
Ibi, pp. 87-88.
994 paolo pagani

qualcosa che va da sé; mentre ciò che più importa rilevare è che la stessa posizione
della negazione, con la struttura sintattica e la intenzionalità semantica (pragmati-
camente condizionata) che esso realizza, è un inveramento delle costanti apofan-
tiche: nella fattispecie, è un inveramento del PDNC, inteso come norma sia della
coerenza sintattica sia della determinatezza semantica e illocutoria.
Che poi la cosiddetta «negazione locale» di NC non risulti logisticamente con-
futabile, è qualcosa che non intacca il senso proprio di élenchos. Infatti, anche la
negazione locale, per proporsi come tale, ha bisogno di osservare di fatto – come
è testimoniato dalle regole S1 e S2 – quella condizione di autocoerenza di cui
NC è espressione formalizzata: anche la negazione locale, infatti, evita di porre la
negazione di sé. Non solo, ma così facendo, essa tutela la propria determinatezza
semantica, e lo fa attraverso una – almeno implicita, ma comunque esplicitabile –
intenzione illocutoria. Come bene illustra Galvan, S1 e S2 vanno infatti tradotte (o
proiettate)48 così: «affermo tutto ciò che è condizione necessaria della mia posi-
zione e nego tutto ciò che la elimina»49. In sintesi, ciò che importa rilevare è che,
porre linguisticamente alcunché, significa porlo secondo la non-contraddizione –
in tutti i sensi che questa assume in riferimento analogico alle diverse dimensioni
del linguaggio. E ciò è quanto basta alla logica di élenchos, nel cui programma
non rientra qualcosa come la derivazione apodittica di NC per tutte le formule di
un linguaggio, ma semplicemente l’evidenziazione che il PDNC è implicazione
inevitabile di ogni costruzione linguistica (e non solo).
Un’ultima osservazione può riguardare l’impianto complessivo di e. Che il
progetto di un simile calcolo fosse inadeguato alla espressione di élenchos, è
qualcosa che era lecito pronosticare già in partenza, rilevando che AC (la cui
regia, nella forma di AE, è fondamentale in e) viene derivata da Galvan attraverso
l’impiego della regola ¬j 50. Ora, è chiaro che ¬j non presuppone epistemicamen-
te – dal punto di vista logico-formale – la validità di NC; ma è anche chiaro che
essa esprime tematicamente la valenza di incompatibilità sintattica che è propria
del PDNC, e alla evidenza di esso fa sicuro riferimento51. In tal modo, una pretesa
formalizzazione logistica di élenchos finisce per prospettarsi come una petitio
principii, in cui si presume di far valere, in questo caso, NC, facendo appello a
regole che vivono già dell’evidenza del PDNC trascendentalmente considerato.

48
Le condizioni di significanza o di coerenza appartengono al piano illocutorio, e vanno dunque
proiettate sul terreno locutorio, perché possano interagire con le regole sintattiche esplicitate nel calcolo.
49
Ibi, p. 82.
50
Ibi, pp. 15-16.
51
Galvan evidenzia (si veda ibi, p. 75) che l’implicazione materiale di NC da parte di ¬j non
è mediata da AC (e quindi, a maggior ragione, da AE), ma ciò che abbiamo messo in questione nel
nostro intervento non sono le derivazioni logico-formali che riguardano i nessi vigenti tra le regole
di derivazione di un certo apparato assiomatico.
Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, CXII (2020), 4, pp. 995-1015
ISSN: 00356247 (print) - 18277926 (digital)
DOI: 10.26350/001050_000228

Arte e verità in Heidegger

Félix Duque*
L’arte della verità
una possibile risposta alla domanda dell’essere

The Art of Truth. A Possible Answer to the Question of Being

In the final stage of metaphysics, understood by Heidegger as the planetary reign of «cyber-
netics» and interpretable today as «digital ontotechnology», was precisely the ambiguous
character of the booming modern technology (like a pharmakón), with its Entbergung
character, that opened the way for him to think that in the implementation of the truth of
being carried out by means of a téchne revolt against its own function of servitude, a his-
torical «world» and the «earth» as the settlement of a people could be polemically joined
together as a rejection of any utilitarian claim of dominion over the «things-as-objets».
This conflict in the work of art can still be particularly helpful in understanding the current
© Vita e Pensiero / Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore

situation and the possible ways out of it.

Keywords: Martin Heidegger, Onto-technology, Art, Truth, Mártys-Witness

Perché Martin Heidegger continua a destare attenzione? Tenendo conto della sua
adesione – esplicita e duratura – oramai ben nota al nazionalsocialismo (per quanto
potrebbe essere considerato un nazionalsocialismo privato, e aspramente critico
nei confronti dell’ideologia «volgare» del movimento a partire dal 1938), perché
si continua a prestare attenzione al suo lavoro, nonostante tutti gli sforzi di Farias,
Faye1 e di molti altri per emarginare la sua figura e i suoi testi da ogni attività – non

*
Universidad Autónoma de Madrid. Email: felix.duque@uam.es
Received: 06.05.2020; Approved: 26.05.2020.
Traduzione di Roberto Colonna.
1
Cfr. V. Farias, Heidegger et le nazisme, Verdier, Lagrasse 1987; tr. it. di M. Marchetti e P. Ama-
ri, Heidegger e il nazismo, Bollati Boringhieri, Torino 1988; E. Faye, Heidegger. L’introduction du
nazisme dans la philosophie. Autour des séminaires inédits de 1933-1945, Albin Michel, Paris 2005;
tr. it. di F. Arra, Heidegger. L’introduzione del nazismo nella filosofia, L’Asino d’oro, Roma 2012.
996 félix duque

solo accademica – come se fossero una piaga? Perché continuano a tenersi con-
gressi per svelare i molteplici e vari aspetti della sua opera sul pensiero meditante
(Besinnung), quando tutti sappiamo dai Quaderni Neri (Schwarze Hefte) che questo
pensatore – che non voleva più essere un filosofo – nutriva sentimenti antisemiti
così schietti e onnicomprensivi da ritenere il Weltjudentum (giudaismo mondiale)
responsabile del trionfo dell’Amerikanismus e dell’espansione planetaria della tec-
nica? Cosa può esserci di straordinario nel suo pensiero da meritare – e, a dispetto di
tutto, di continuare a meritare – così tanta attenzione, pur provenendo essa anche da
settori esterni all’insegnamento e alla ricerca filosofica?
La risposta è semplice. Spiegarlo e dimostrarlo, tuttavia, è un compito molto
difficile. Il pensiero heideggeriano si è posto, con vigore e ostinazione, come
prosecutore – polemico e divergente – di Hegel e di Nietzsche, e come radicaliz-
zazione di entrambi, per smantellare l’intero edificio della filosofia: la metafisi-
ca, denunciata come ontoteologia, porta alla luce gli elementi finali del pensiero
occidentale, responsabile della derivazione di ciò che Sigmund Freud aveva defi-
nito il disagio della civiltà. Del resto, oggi siamo sicuramente disposti, più che ai
suoi tempi, a capire che questo smantellamento o distorsione (Verdrehung) della
metafisica può e deve essere esteso all’onto-tecnologia attuale, trionfo e miseria
delle tecnologie digitali delle informazioni e delle comunicazioni che dirigono e
controllano il nostro mondo.
Argomento di ampio respiro, e che verrà affrontato solo a grandi linee, per
suggerire la possibilità che, già negli anni Trenta del secolo scorso, il pensatore si
sia reso conto che la questione dell’essere non poteva essere sviluppata solo dal
punto di vista di un’ontologia fondamentalmente intesa come analisi esistenzia-
le del Dasein, bensì dovesse trovare una contro-risposta (Ant-Wort) proprio nel
pensiero, mettendo in gioco la verità del suo disvelamento nella donazione stessa
dell’essere dell’ente attraverso l’opera d’arte. Forse anche oggi, ma con maggio-
re radicalismo e sforzo, potrebbe essere l’arte contemporanea ad aver lasciato in
franchigia la possibilità di porre in essere la verità nel e del nostro tempo (e a
volte, e nello stesso rispetto, della sua Unwahrheit e del suo Unwesen), anche se
non mi soffermerò alla spiegazione di questa proposta, avendolo già fatto in altri
luoghi, soprattutto in riferimento alla video-arte2 e all’infografica digitale3.

2
Penso alle opere di Don Graham, Antoni Muntadas e, soprattutto, di Bill Viola. Rinvio a questo
proposito al mio saggio, Videoarte e logica iconoclasta, in A. Bertinetto - G. Garelli (a cura di),
Morte dell’arte e rinascita dell’immagine. Saggi in onore di Federico Vercellone, Aracne, Roma
2017, pp. 97-111. Si vedano anche i miei testi, Il mondo, dall’interno. Ontotecnologia della vita
quotidiana, Mimesis, Milano - Udine 2012; e da una prospettiva critica, Gastrosofia divina. Il cibo
dello Spirito nell’era tecnologica, InSchibboleth, Roma 2018.
3
Si veda L’occhio elettronico, in G. Cantillo - C. Ciancio - A. Trione - F. Vercellone (a cura
di), Ontologie dell’immagine, Aracne, Roma 2012, pp. 197-227. Ho anche affrontato la transizione
qui menzionata dalla metafisica all’ontoaritmologia digitale in Filosofía de la técnica de la natura-
leza, Abada, Madrid 2019, in particolare, nel capitolo IX, Del Dios como señor de lo ente al usuario
como ‘señor’ de Internet, pp. 333-363.
l’arte della verità 997

Cercherò invece di evidenziare, in primo luogo, il quadro generale in cui si


adatterebbe – all’interno della «storia dell’essere» (Seynsgeschichte) – il pas-
saggio dalla metafisica all’onto-tecnologia, per concentrarmi poi sulla proposta
heideggeriana dell’opera d’arte come opera di verità, sia dal punto di vista dell’e-
voluzione del suo pensiero, sia a partire dal carattere aporetico che aveva assunto
la questione dell’essere nella grande opera del 1927.
Per cominciare, non è troppo difficile appurare che, con tratti talvolta distor-
ti e persino grotteschi, il soggettivismo (ora, come umanesimo narcisistico) e il
«fondamentalismo»4 della metafisica moderna, con le sue caratteristiche princi-
pali, identità, formalità spazio-temporale (che rendono possibile l’applicazione
della matematica ai fenomeni), socievolezza libera e illuminata, rappresentatività
e utopia, possono ben applicarsi alla nuova ideologia (e persino alla «religione
laica») della tecnoscienza e delle nuove tecnologie. Ciò conferma che la bigotteria
politicamente corretta con cui vengono verniciate ed edulcorate le possibilità dei
nuovi media continua a impegnarsi nel perpetuare la metafisica della modernità,
con la differenza che oggi si può diffondere la buona notizia (il capitalismo big
tech come religione www) a una allegra pluralità «mesocratica» (sic), prima al
servizio di una piramide gerarchica.
E così, è vero che già pochi credono nell’esistenza di un’unica e vera Identità
(quella di un Dio come ipsum esse), di cui tutto il resto (gli enti) partecipereb-
be in modo insufficiente e graduale. Ma, anche se è stato ammesso da tutti che
«Dio è morto», pochi sono in grado di pensare a un’alternativa alla coppia «iden-
tità/differenza». Al contrario, le opportunità oggi offerte dalla Rete – soprattutto a
partire dalle chat – per cambiare virtualmente e ad libitum l’identità moltiplicano
le strategie di rafforzamento della credenza nell’identità e, indirettamente, la con-
vinzione dell’esistenza di un Soggetto alla base (il «si impersonale», il Man hei-
deggeriano) capace di realizzare volontariamente i cambiamenti e di realizzarsi in
essi, essendo in grado anche di riconoscere in quelle differenze qualcosa di sempre
uguale, ri-presentandosi così caleidoscopicamente come un’unica realtà dispiegata
in molteplici possibilità, nelle sue «proprietà» e nei suoi «possibili». A proposito,
si noti come, in questa forma, l’entità logica «soggetto-e-le-sue-proprietà» sposta
sottilmente l’accento sull’ente economico: il «borghese» come la pluralità indi-
stinta di «x», ciascuna con le sue proprietà (essendo intercambiabili sia tra loro,
sia nella loro inerenza al soggetto). O sull’ente politico: gli «Stati» come un’am-
ministrazione astratta (democratica, parlamentare e capitalista), ciascuno con il
suo territorio nazionale. E, infine, il contemplatore o fruitore dell’opera artistica:

4
Non è un caso che Heidegger nell’ultimo corso tenuto all’Università di Friburgo – come pro-
fessore emerito – chiarirà quei colpi di scena che attraverso il «principio di ragion sufficiente»
finirono per servire da base per l’Informazione ubiquamente regnante (cfr. M. Heidegger, Der Satz
vom Grund [1957], hrsg. von P. Jaeger, in Gesamtasugabe [d’ora in poi GA] I.10, Klostermann,
Frankfurt a.M. 1997, in part. Vortrag, pp. 171-189; tr. it. di G. Gurisatti - F. Volpi, Il principio di
ragione, Adelphi, Milano 1991, pp. 195-218).
998 félix duque

ognuno, rinchiuso nelle sue esperienze (poiché è oramai già noto il de gustibus non
est disputandum). Tutto ciò, certamente, inizia ad essere messo in discussione ai
nostri giorni da un lato con le grandi Technology and Commnication Corporations
(Apple, Microsoft, Google, Amazon, Facebook); dall’altro, con le rivolte populi-
ste, che propagano la salvezza da questa tecnocrazia in cambio dell’obbedienza a
un leader, salvatore della patria. Ma, nonostante tutto, l’ideologia dominante rima-
ne quella della borghesia che accetta il «libero» mercato e si impegna in un mal-
concio Stato democratico di diritto.
L’ambito spazio-temporale celebra allo stesso modo il suo trionfo assoluto pro-
prio quando – e perché – si insiste sul fatto che, con le nuove tecnologie elettroniche
(fondamentalmente, la televisione e internet), il mondo è diventato più piccolo (al
punto che attualmente si adatta allo schermo di un telefono cellulare) e le comuni-
cazioni sono già istantanee, il che ovviamente rafforza i presupposti moderni di uno
spazio isomorfo, in cui il cambiamento di scala non avrebbe importanza (un buon
esempio «estetico» di questa convinzione è nello smisurato ingrandimento del ritrat-
to di Jacqueline a Chicago – il Chicago Picasso –, o in quello della Desocupación de
la esfera di Oteiza, di fronte al Municipio di Bilbao), e di un tempo unidimensionale
e irreversibile: un tempo «contenitore» il cui più grande successo sarebbe il conteni-
mento di tutta la realtà nel tempo reale, ovvero la coincidenza dell’evento, della sua
registrazione, del suo registro e del suo archivio.
D’altra parte, la socievolezza generalizzata si dissemina e si sparge in numero-
se comunità, reali o virtuali, tutte apparentemente compatibili tra loro e adagiate
sulla convinzione umanista di un’ultima, definitiva e onnicomprensiva umanità.
Tale convinzione si esprimerebbe herderianamente attraverso questi gruppi, pro-
muovendo così l’avvento di una coscienza collettiva nel villaggio globale, benché
oggi sia difficile credere in una presunta fine della storia come negli anni Novanta
del secolo scorso. Anche qui l’obiettivo è l’identità, paradossalmente raggiungibi-
le attraverso la proliferazione delle differenze (anche se sarebbe meglio parlare di
«varietà» superficiali), secondo la tanto celebrata glocalizzazione. E, se in un’oc-
casione il Verbo si è fatto Carne, si può ben dire che la tendenza ora si inverte:
tutta la «carne» può essere codificata in linguaggio-macchina e quindi tradotta in
fibra di vetro e chip di silicio. I videogiochi, le protesi elettroniche, e soprattut-
to YouTube e i social network, propagano e intensificano solo questa tendenza a
ridurre la realtà all’ideale di auto-trasparenza e autoreferenzialità.
Un Ideale questo (nel cui Nome viene giudicata e condannata la realtà «car-
nale», un tutto fluido non suscettibile di formalizzazione e di matematizzazione)
che porta immediatamente al tratto distintivo di tutta la metafisica: il paradigma,
il modello o pattern a partire dal quale controllare, classificare e «impacchettare»
solo quelle caratteristiche riconosciute delle cose che ne consentono la manipola-
zione. Tutta l’Informazione è basata su questa costruzione di modelli, che stanno
già arrivando – tanto quanto le simulazioni – non tanto per forgiare una realtà
precedentemente esistente, quanto per generarla, proponendosi poi proprio come
modelli per produrre una realtà a sua immagine e somiglianza. Le ideae verae
l’arte della verità 999

et aeternae (che dimorano nella mente di Dio e finiscono per costituirlo omnitu-
do realitum sive perfectionum), tipiche della tradizione metafisica, costituiscono
a questo proposito un buon antecedente delle simulazioni, descritte e denunciate
accuratamente da Jean Baudrillard.
Né sembra che le nuove tecnologie dell’informazione abbiano alterato il
modello metafisico occidentale della verità, basato sulla rappresentatività e sulla
referenzialità. Piuttosto, hanno corroborato la credenza nella verità per corrispon-
denza o per adattamento (tra segni – mentali o grafici – e cose), cambiando l’ordine
e la gerarchia dei fattori: come appena indicato, ora sono gli antichi simboli (asce-
si a simulacri) quelli che fanno le cose-dispositivo in modo che corrispondano a
loro. I responsabili del trattamento dei dati dettano e decidono quali dovrebbero
essere le caratteristiche per loro appropriate, allo stesso modo in cui le immagini
e i concetti tradizionali limavano e raffinavano la realtà sensibile al punto da pro-
porsi in seguito (essi stessi o le loro copie «segniche») come «modelli» di ciò che
la realtà dovrebbe essere, eliminando il resto. Tra l’altro, questo è il criterio di bel-
lezza tipico della tradizione estetica occidentale, che culmina in Hegel: la statua, il
dipinto o il poema come operazioni di purificazione di una realtà irregolare e poco
«presentabile», per non dire lercia, stilizzazioni della realtà, e allo stesso tempo
stimoli e incitamenti a cambiarla secondo le esigenze ideali dell’arte.
E infine, tutte queste caratteristiche – che, come si può vedere, si corrispon-
dono e si rinviano le une alle altre, fino a formare una solida entità globale, ossia
l’Essere dell’ente – sono proiettate in un orizzonte ultimo di perfezione, in cui
ogni luogo (tópos) finisce per diventare un sito, una tessera del puzzle dell’Uma-
nità riconciliata. Così, l’utopia è più che mai presente ai nostri giorni attraverso
i portavoce di un «mondo migliore» e, a loro volta, attraverso l’informazione e
il regime tecno-scientifico e democratico che la propaga a livello planetario e la
sostiene, se necessario, con la forza delle armi. Armi, a loro volta, tecno-scienti-
ficamente progettate e realizzate, e trasmesse urbi et orbi dai grandi media, che
promuovono idealmente il cambiamento di mentalità, e così all’infinito, come in
un servomeccanismo di retroazione. E, altrimenti, ascoltiamo i nuovi ideologi.
Dall’architettura ci viene promesso che le reti computazionali avranno abbastanza
«potenziale per liberarci dalle strutture gerarchiche, per permetterci l’espressione
individuale e realizzare la definizione ultima della nostra umanità, individuale e
collettiva»5. E dalla psicologia cyberspaziale ci viene ampiamente ribadito quel-
lo che stiamo dimostrando: in campo tecnologico, buona parte della cosiddetta
«postmodernità» porta solo all’estremo le tendenze utopiche insite nella moder-
nità illuminata, e che la «lotta» tra entrambe le «epoche» non era, in definitiva,
che una superficiale «lite familiare». Come segnala anche Sherry Turkle con una

5
M. Pearce, From Urb to Bit, «Architectural Design», 118 (1995), numero monografico dedi-
cato a Architects in Cyberspace, p. 7, https://monoskop.org/images/2/2d/AD_118_Architects_in_
Cyberspace_1996.pdf (data di ultima consultazione 15 aprile 2020).
1000 félix duque

certa ingenuità (per quanto abbia insegnato vent’anni Initiative on Technology and
Self al MIT – o forse proprio per questo) nella sua influente Life on the Screen, «la
classica visione moderna dell’intelligenza informatica ha lasciato il campo a quel-
la romantica postmoderna»6.
Attraverso una feconda analisi retrospettiva, si può invece affermare che la
pars destruens del pensiero di Martin Heidegger si condensa nel magnifico risul-
tato di aver localizzato il culmine della metafisica nell’Information linguistica7 e
nella cibernetica computazionale8, unendo così indissolubilmente la sua ultima
riflessione e l’incipiente tecnologia planetaria. Sarebbe tuttavia errato (un erro-
re favorito da alcuni testi dello stesso Heidegger) credere che in questo modo il
pensatore si abbandoni a una sorta di demonizzazione della tecnica e della società
attuale, che rimpianga nostalgicamente il mondo perduto della Foresta Nera e
l’idilliaca vita di campagna9. Si può dire, al contrario, che le innegabili critiche
all’Amerikanismus e allo stile di vita attuale lanciate dall’ultimo Heidegger derivi-
no dalla consapevolezza che con la fine della filosofia, l’avvento della cibernetica
e della società automatizzata, si stia compiendo un destino: quello del pensiero
occidentale nel suo insieme, di cui lui stesso fa parte (Heidegger sosterrà in segui-
to che non è possibile superare la filosofia ma al massimo risalirla, portando-
sela con sé come una malattia dalla quale non è possibile – per ora – recuperare

6
S. Turkle, Life on the Screen. Identity in the Age of the Internet, Simon and Schuster, New
York 1995, p. 63; tr. it. di B. Parella, La vita sullo schermo. Nuove identità e relazioni sociali nell’e-
poca di Internet, Apogeo, Milano 1997, p. 68.
7
Cfr. M. Heidegger, Überlieferte Sprache und technische Sprache (1962), Erker, St. Gallen
1989, pp. 25-26; tr. it. di C. Esposito, Il linguaggio tramandato e il linguaggio tecnico, ETS, Pisa
1997, pp. 52-53: «Se l’informazione [Information: si potrebbe dire anche l’informatica], nel senso di
un dominio della tecnica che determini tutto quanto, viene ritenuta la forma suprema di linguaggio,
a motivo della sua unicità, della sua sicurezza e della sua velocità nella comunicazione di notizie
e di comandi, da ciò risulterà pure una concezione corrispondente dell’essere umano e della vita
umana. In questo senso leggiamo in Norbert Wiener, uno dei fondatori della cibernetica, e cioè di
quella disciplina della tecnica moderna che si è spinta più lontano di tutte: “Vedere il mondo intero
e impartire degli ordini al mondo intero, è quasi lo stesso che essere dappertutto”» (cfr. N. Wiener,
Mensch und Menschmaschine, Metzner, Frankfurt a.M. 1952, p. 95; tr. it. di D. Persani, Introduzione
alla cibernetica, Bollati Boringhieri, Torino 1953, p. 120).
8
Alla fine, la filosofia si dissolve in diverse scienze autonome, la cui nuova unità è ora affidata
alla cibernetica: «Le scienze sono indotte a presentare quest’accadimento come l’avvento di un
processo di controllo e d’informazione. La nuova scienza che unifica, in un senso nuovo di unità,
tutte le varie scienze si chiama cibernetica» (M. Heidegger, Zur Frage nach der Bestimmung der
Sache des Denkens [1965], Erker, St. Gallen 1984, p. 7; tr. it. di A. Fabris, Filosofia e cibernetica,
ETS, Pisa 1988, p. 31).
9
In ogni caso, i sogni pseudo-romantici di questo tipo si trovano schizzati nei testi di Heidegger
di tutte le epoche, e non possono essere quindi considerati un tentativo di «rifugio» dopo la sconfitta
della Germania nella Seconda Guerra Mondiale. Lo scritto più significativo di questa tipologia di sag-
gi è Schöpferische Landschaft: Warum bleiben wir in der Provinz? del 1933 (in Aus der Erfahrung
des Denkens. 1910-1976, hrsg. von H. Heidegger, in GA I.13, 1983, pp. 9-13; tr. it. di N. Curcio,
Paesaggio creativo: perché restiamo in provincia?, in Dall’esperienza del pensiero. 1910-1976, il
Melangolo, Genova 2011, pp. 12-14). Questo «poetico» testo fu scritto da Heidegger proprio per
giustificare il suo rifiuto ad occupare una cattedra a Berlino, ossia vicino al Potere nazionalsocialista.
l’arte della verità 1001

completamente). Solo in questo modo è possibile stabilire una critica dall’interno,


vale a dire dal riconoscimento – che non smette di essere il suo modo metafisico
– che le potenzialità interne alla filosofia greca si stanno esaurendo, il che pre-
suppone che lui, Heidegger, abbia risalito – facendo un famoso Schrittzurück, un
«passo indietro» – il flusso del tempo dell’Occidente per sondare, nelle fonti del
pensiero metafisico, la possibilità di un altro inizio. D’altronde, se la fine della
metafisica e l’inizio della cibernetica sono lo stesso evento, è perché Heidegger, da
Essere e tempo in poi, ha strettamente legato la filosofia e la tecnica, al punto che
tutto il suo pensiero potrebbe essere interpretato dal punto di vista (non esclusivo
o esaustivo, naturalmente) di una filosofia della tecnica, o meglio (dicendolo in
modo consapevolmente ambiguo), di una filosofia della poíesis, dell’opera (non
meramente dell’operare umano, come se esso fosse un attributo dell’uomo).
Perciò, la vera minaccia in Heidegger non è – non può essere trovata – nella
tecnica stessa, né nella sua estensione planetaria, ma nella sua essenza, vale a dire
nella «imposizione» o Gestell (letteralmente, «montatura, suppellettile o corni-
ce»), che il pensatore definisce rigorosamente in questo modo: «Ge-stell, im-po-
sizione, indica la riunione [das Versammelnde] di quel ri-chiedere [Stellen] che
richiede, cioè pro-voca, l’uomo a disvelare il reale nel modo dell’impiego, come
“fondo”»10. Il «disvelamento» corrisponde in Heidegger al tratto fondamentale
della verità, come «disvelatezza» (Unverborgenheit, in greco alétheia). Pertanto,
non c’è dubbio che la tecnica avvenga come una modalità di verità. Solo che que-
sta è deformata dal momento che la disvelatezza si pone come una richiesta che
converte sia il richiesto che il richiedente (l’uomo) nel «fondo» (Bestände), come
se dicessimo che i prodotti posti su uno scaffale, pronti per essere usati o buttati
via, contrassegnati dalla «data di scadenza», fossero una caricatura del carattere
mortale dell’uomo e della finitudine degli enti intramondani.
Ed è fondamentalmente attraverso questa deformazione – e dalla lettura medi-
tante e rammemorante (Andenken) dei pensatori greci, agli inizi della filosofia –
che ci è possibile, oggi, congetturare in questo modo; quasi come qualcosa che ci
manca, come quella formazione da cui proviene la deformazione, «in quanto»,
come nell’essenza della tecnica, «è la pro-vocazione verso l’im-piegare, l’im-po-
sizione invia in un certo modo del disvelare. L’im-posizione è un invio [Schi-
ckung] del destino come ogni modo di disvelamento. Destino in questo senso è
anche la pro-duzione, la ποίησις »11.
In questo modo, e quasi subito, Heidegger ci rivela ciò che letteralmente gli man-
ca: la poíesis, così come il pensatore interpreta il termine greco (naturalmente for-
zandolo etimologicamente e avvicinandolo al suo correlato, la praxis). Non senza
motivo, la poíesis copre tanto il campo del lavoro (poíeo significa «fare», creare

10
M. Heidegger, Die Frage nach der Technik (1953), in Vorträge und Aufsätze, hrsg. von F.-W.
von Hermann, in GA I.7, 2000, pp. 5-36, qui p. 21; tr. it. di G. Vattimo, La questione della tecnica, in
Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, pp. 5-27, qui p. 15.
11
Ibi, p. 25; tr. it., p. 18.
1002 félix duque

qualcosa fino a quel momento inesistente), quanto quello del dire genuino: il par-
lare del poietés, ossia del «poeta». Tuttavia, il lavoro non cessa di appartenere al
più ampio ambito di applicazione della téchne. Questo termine greco ingloba infatti
sia il saper-fare (know-how) tecnico (e non, senz’altro, la tecnica), in quanto saper
pro-durre, porre-qui-davanti l’utile («cose» a portata di mano con cui fare altre cose
e metterne altre «in vista», rendendole presenti); sia l’arte, in termini di apertura del
mondo, ossia di uno spazio di significatività, di intelligibilità, all’interno del quale
– come un simbolo, nel senso antico di symbállein, di «combinare e raccogliere il
disperso» – hanno il loro posto le cose e l’utile. Ed è questa vicinanza, questa coap-
partenenza originale di téchne e di poíesis, vale a dire di tecnica e arte, che è risultata
fatale, nel senso letterale di «conforme al destino»: il destino stesso dell’Occidente,
secondo Heidegger. Poiché l’arte sarebbe andata progressivamente perdendo il suo
senso originario di «creatore» di mondi per sfigurarsi in una tecnologia che rispon-
de alla necessità di programmare e provocare tutto l’ente al fine di assegnargli con
sicurezza un sito e un luogo, attraverso l’attribuzione dell’identità, di una cornice
spazio-temporale, di una comunità ideale, di paradigmi… e di tutto l’armamentario
metafisico-cibernetico che abbiamo già analizzato.
Heidegger ha saputo sottolineare con precisione questa pericolosa ma rivela-
trice vicinanza di tecnica e arte: «Così domandando, noi attestiamo lo stato di
difficoltà per cui, con tutta la nostra tecnica, non sappiamo ancora cogliere ciò che
costituisce l’essere della tecnica, e con la nostra estetica non custodiamo più ciò
che costituisce l’essere dell’arte. Tuttavia, quanto più interrogativamente conside-
riamo l’essenza della tecnica, tanto più misteriosa diventa l’essenza dell’arte»12.
Manteniamo qui, per il momento, due punti essenziali: il «dar testimonianza» di
una situazione calamitosa, in cui si rivela una penuria, la mancanza di qualcosa di
essenziale, e l’analogia tra tecnica ed estetica, indicando con quest’ultimo termine
il modo sentimentale nel quale, nella modernità, si ha esperienza nell’arte.
Also fragend bezeugen wir, dice Heidegger: domandando in questo modo, atte-
stiamo, diamo testimonianza, diamo fede di qualcosa. Si noti al riguardo la diffe-
renza tra «dare testimonianza» e «dare fede». Il testimone giudica imparzialmente
un evento e ne dà conto e ragione, senza la necessità né di essere né di sentirsi
compromesso con ciò che è successo. D’altra parte, colui che dà fede di qualcosa
(in greco: mártys, il «martire») non solo si sa e vuole esserne coinvolto, anzi, nella
sua testimonianza, il testimone si gioca la sua vita e la sua parola. Il testimone
descrive quello che c’è. Chi dà testimonianza annuncia ciò che manca. Non può
valutare una situazione come quella a cui si accennava, au-dessus de la melée, ma
unirsi ad essa per aprirsi a un possibile cambiamento improvviso dall’interno. Dare
testimonianza non è, ovviamente, fare una confessione passiva, ma un metterci la
faccia, un prendere su di sé una situazione, facendosi carico di essa. Heidegger –

12
Ibi, p. 36; tr. it., p. 27.
l’arte della verità 1003

e con lui i lettori, ai quali si appella e con cui si compromette con quel wir, ossia
«noi» – non è al di fuori da questo Notstand (Not è una necessità estrema, una
penuria, ma significa anche, come Notstand, «stato di eccezione», situazione nella
quale leggi e norme quotidiane restano sospese: momento della crisi). Tuttavia,
chi testimonia una carenza conosce, insieme alla mancanza, cosa manca e cosa
serve; lo intravede, si potrebbe dire, di sbieco, indirettamente. In questo modo il
martire dà allo stesso tempo testimonianza di ciò che «è» e di ciò che «manca».
Tale situazione è la congiuntura della penuria e del suo rimedio («congiuntura»,
Fügung, Gefüge: ciò che accade all’istante, propiziando l’assemblaggio della
situazione e della mancanza; da qui la denominazione heideggeriana Ereignis,
«evento propizio»). Con il martire succede qualcosa di molto paradossale, vale a
dire chi dà testimonianza si trova diviso, lacerato nell’intervallo, nell’istante deci-
sivo che separa il tempo presente (quello della situazione in cui si trova): il tempo
della condanna, e il tempo a venire (quello della restaurazione della mancanza): il
tempo che potrebbe salvarlo, ma senza farlo ancora.
In tal senso, come si vede, l’attitudine di Heidegger come «martire» sembra
più quella propria di un profeta che di un filosofo. Con tuttavia una differen-
za essenziale: il profeta vede, o gli viene detto, quello che deve succedere; può
quindi testimoniarlo perché prima è stato testimone; si limita a ripetere ciò che
– per lui – è già accaduto come qualcosa che – per gli altri – accadrà. Il profeta
è passivamente inserito in un supposto ciclo a tempo pieno (passato della pre-
veggenza, presente della profezia, futuro dell’evento) e, quindi, completamen-
te impantanato in una considerazione metafisica della realtà. Al contrario, dare
testimonianza di ciò che manca (in questo caso, l’uomo fa l’esperienza dell’es-
senza della tecnica e ritorna a custodire quella «essenza», cioè ciò che si dispiega
nell’arte) implica un’azione a favore di qualcosa che, come origine essenzia-
le, è latente – come soffocata – nella situazione di penuria. Dare testimonian-
za è quindi un comportamento, una realizzazione di atti (letteralmente, poíesis)
e persino una disposizione a dare la vita per ciò che manca. Pertanto, si può
concludere che chi veramente testimonia un’origine soffocata, ma che lotta per
schiudersi, è fondamentalmente il poeta: il «poeta», un termine che includereb-
be non solo poeti e artisti, ma anche il pensatore. E in effetti, Heidegger dà per
scontato che nella sua filosofia (della cui mancanza, in quanto riflessione, però
del tempo indigente, Heidegger è pienamente consapevole) «il pensare sia […]
un’opera della mano»13 (Handwerk, di solito «artigianato»). Tre anni prima, nel
1932, Heidegger aveva confidato alla sua amica Elisabeth Blochmann: «Io, di
fronte al lavoro, ho sempre la disposizione di spirito [Stimmung] di chi lavora

13
Id., Der Ursprung des Kunstwerkes (1935/1936) [d’ora in poi ukw], in Holzwege, hrsg. von
F.-W. von Hermann, in GA I.5, 1977, pp. 1-74, qui p. 3; tr. it. a cura di V. Cicero, L’origine dell’opera
d’arte, in Holzwege. Sentieri erranti nella selva, Bompiani, Milano 2002, pp. 5-89, qui p. 7.
1004 félix duque

con martello e scalpello»14. Naturalmente, ciò non significa che Heidegger deb-
ba essere considerato nient’altro che un artista, al posto di essere un pensatore,
ma che artisti, poeti e pensatori (e, egli credeva, durante un accidentato periodo,
negli anni Trenta, anche i «fondatori dello Stato») hanno la stessa Stimmung,
ovvero «stato d’animo» o, meglio, «accordo»; l’essere d’accordo e concordare
con l’origine latente che muove la tua mano e infiamma il tuo pensiero: l’Essere.
Per quanto riguarda l’arte propriamente detta, già sappiamo in che cosa consi-
ste questa disastrosa situazione, vale a dire che non custodiamo (bewahren «pre-
servare qualcosa nella sua verità», Wahrheit) né preserviamo più ciò che si mostra
nella sua essenza (Wesung) e si decanta e si spiega nell’arte15. E sappiamo anche
cosa impedisce questo «recupero» della preservazione dello stato d’animo, vale a
dire la ricezione estetica dell’arte. Cos’è, allora, l’estetica?
Due anni dopo il decisivo saggio sull’origine dell’opera d’arte, Heidegger
tenne la conferenza L’epoca dell’immagine del mondo. Lì sono elencati i cinque
«fenomeni» nei quali si può vedere l’impronta della metafisica nella modernità,
vale a dire la scienza, la tecnica macchinica, l’estetica, la cultura e la de-divi-
nizzazione (Entgötterung, noi diremmo «secolarizzazione»). Sono fenomeni che
racchiudono l’intera esistenza dell’uomo, quindi, in quanto tali, non solo domi-
nano una regione dell’ente (come se si trattasse di specie del genere «modernità»,
divise in frammenti sospesi) ma si riverberano gli uni negli altri, compenetran-
dosi e co-appartenendosi. Questo punto mi sembra di particolare rilevanza. Dun-
que, in relazione all’estetica, Heidegger sottolinea «che l’arte è ricondotta [rückt,
“mettere o posizionare qualcosa in un altro luogo”] nell’orizzonte dell’esteti-
ca»16. Ciò significa che questo orizzonte non si limita a circoscrivere l’arte, ma, al

14
Lettera del 5 ottobre del 1932 in M. Heidegger - E. Blochmann, Briefwechsel (1918-1969),
hrsg. von J.W. Storck, Deutsche Schillergesellschaft, Marbach a.N. 1990, pp. 54-55; tr. it. di R.
Brusotti, Carteggio 1918-1969, Il Melangolo, Genova 1991, p. 93.
15
Si noti che, in questo «non più», scivola un tratto «profetico», nel senso sopra indicato. Heideg-
ger tardò nel superare (se mai lo abbia fatto davvero) quella che potremmo chiamare «grecomania»,
così tipica degli intellettuali tedeschi (contro una certa «romanofobia»). Mentre l’esperienza dell’es-
senza della tecnica è qualcosa di inedito, senza supporto (per cui, per farla, abbiamo bisogno di atti
veramente poetici, «creatori»), Heidegger crede invece che ci fu un tempo (potremmo quasi dire «c’e-
ra una volta») nella polis greca, in cui i sovrani (diciamo Pericle) custodivano l’origine (l’essenza)
dell’opera d’arte (fatta, diciamo, da un Fidia), questa congiunzione del «creatore» (der Schaffende) e
del «preservatore» (der Bewahrende), permettendo all’opera di «realizzarsi», di coagularsi (geschafft
wird) e di mantenere così il popolo unito (senza intervento diretto di quest’ultimo; a quanto pare Hei-
degger trascura l’isegoria e l’isonomia, proprie della democrazia). Si noti che queste considerazioni
sono state scritte negli anni cruciali 1935-36 sia ne L’origine dell’opera d’arte che in Introduzione alla
metafisica (corso estivo del 1935); cfr. Einführung in die Metaphysik (1935), hrsg. von P. Jaeger, in GA
II.40, 1983; tr. it. di G. Masi, Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1968.
16
M. Heidegger, Die Zeit des Weltbildes, in Holzwege, pp. 75-113, qui p. 75; tr. it. di V. Cicero,
L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri erranti nella selva, pp. 91-136, qui p. 91 (mod.; cfr.
tr. it. di P. Chiodi, L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze
1968, pp. 71-101, qui p. 72).
l’arte della verità 1005

contrario, la considerazione estetica che, centrata prima sul processo e sulla valu-
tazione delle opere d’arte, si estende ora al modo soggettivo di sentire e di vivere
(di «vivificare», secondo il neologismo orteghiano di Erlebnis) tutta la realtà, con
cui il fenomeno rigoroso dell’arte – insieme con l’essenza che lascia trasparire
– si diluisce in una estetizzazione globale della realtà. Come dice espressamente
Heidegger in questo contesto, «l’opera d’arte diviene l’oggetto dell’esperienza
vissuta [Gegenstand des Erlebens], e di conseguenza l’arte vale come espressio-
ne della vita dell’uomo»17. In questo caso, la proposizione può essere invertita:
l’intera espressione della vita umana è considerata arte.
Più radicale in questo di Walter Benjamin e della sua denuncia del fascismo
come estetizzazione della politica, Heidegger denuncia nel medesimo periodo
(e dall’interno del Movimento stesso!) la globalizzazione dell’estetica in tutti gli
aspetti della vita, anticipando così l’impianto universale della società dello spet-
tacolo, analizzata da Guy Debord. Se l’opera d’arte è vista come un oggetto (ossia
come qualcosa che viene prima rappresentato e poi valutato da un soggetto, sen-
za il cui «atto di presenza» non ci sarebbero né rappresentazioni né valori), vale
quindi la conversione: con ogni oggetto si può raggiungere l’esperienza vissuta
(Erlebnis) del carattere artistico, in modo che i confini tra la «creazione» (o finzio-
ne) e la presunta «realtà» siano sfumati18.
Heidegger apre così una via per comprendere la tarda modernità, una via che
Debord proseguirà e che Jean Baudrillard porterà al parossismo. In effetti, l’estetica
rende l’opera un oggetto di percezione, di aísthesis: «Del percepire sensibile in sen-
so lato»19. Tuttavia, non si tratta di una sensazione o di una percezione psichicamen-
te neutra, ma di una colorazione sentimentale che influenza l’intera vita dell’uomo,
intesa come espressione e valutazione. Ecco perché la percezione si trasforma in
Erlebnis, in «esperienza vissuta»: tanto per l’artista, che si esprime attraverso l’ope-
ra (come se questo fosse un veicolo di comunicazione, al pari del linguaggio, visto
anche come un semplice mezzo di trasmissione), quanto per lo spettatore, impressio-
nato alla vista di tanta espressività. Ecco perché, come dice in modo lapidario Hei-
degger, Alles ist Erlebnis, «Tutto è Erlebnis». E avvicinandosi significativamente
alla tesi hegeliana sull’arte come ultima cosa (citata in effetti subito dopo), suscita il
sospetto che non sarà esattamente l’Erlebnis l’elemento in cui muore l’arte20. Tutta-
via, una nota a margine aggiunta a mano alla copia dell’edizione Reclam dell’opera

17
Ibidem.
18
Seguendo e radicalizzando l’apoftegma hegeliano sulla fine dell’arte, Arthur Danto ha confermato
ai nostri giorni l’esaurimento dell’arte a causa della sua saturazione onnicomprensiva. Quando qualsiasi
cosa, performance o installazione, può essere considerata artistica se approvata da un critico ed esposta
in una galleria o in un museo, allora tutto è arte e niente lo è (cfr. A. Danto, After the End of Art: Contem-
porary Art and the Pale of History, Princeton University Press, Princeton 1998; tr. it. di N. Poo, Dopo la
fine dell’arte. L’arte contemporanea e il confine della storia, Bruno Mondadori, Milano 2008).
19
ukw p. 66; tr. it., p. 81.
20
Ibidem.
1006 félix duque

(1960) dà adito alla speranza. Tutto dipende da ciò che scrisse allora: «Dal vivere
esperienze [Erlebnis] si giunga nell’Esser-ci [Da-sein], e questo vuol dire: raggiun-
gere un “elemento” totalmente diverso per il “divenire” dell’arte»21.
Facciamo ora attenzione a quella allusione, a prima vista misteriosa, al Da-sein
come «elemento», un tempo, proprio dell’arte. Alla deprimente scoperta della disso-
luzione odierna dell’estetica nell’insulsa mercificazione della bolla cibernetica22 (in
parallelo alla dissoluzione della filosofia nella scienza e all’incontro tecnologico di
essa nella cibernetica), Heidegger non ci è arrivato (o non ci è arrivato solo) attraver-
so un esame storico – e, diciamolo, «sociologico»– del divenire delle arti secondo i
cambiamenti nelle formazioni socio-tecniche della modernità, ma lo ha fatto attra-
verso una meditazione ontostorica del divenire essenziale della metafisica (ossia
del suo destino) e, in parallelo, dell’estetica. Basti pensare che la prima versione de
L’origine dell’opera d’arte (una conferenza tenuta nel 1935) aveva come titolo Il
superamento dell’estetica, e che dal 1936 iniziò a scrivere una serie di testi brevi,
dei frammenti (alla maniera del Nietzsche postumo), che pubblicherà successiva-
mente con il titolo Il superamento della metafisica 23. E quella meditazione è emersa
a sua volta da una profonda revisione dell’analisi esistenziale dell’essere umano (del
Dasein) in Essere e tempo. In questo modo ci stiamo avvicinando a quella misterio-
sa allusione al Da-sein come elemento salvifico dell’arte.
Dove ha luogo il superamento dell’estetica? Nell’Appendice del 1956 a L’o-
rigine dell’opera d’arte sono rese con estrema chiarezza l’impostazione e le
intenzioni di quest’opera. In assoluto, si tratterebbe non solo di una «estetica»,
ma anche di una filosofia dell’arte, come se Heidegger fosse interessato a fonda-
re il significato delle creazioni artistiche e della loro ricezione. L’interesse che lo
ha mosso – afferma – è stato strettamente ontologico: «L’intera trattazione L’o-
rigine dell’opera d’arte si muove scientemente, e tuttavia inespressamente, lun-
go la via della questione dell’essenza dell’essere. La meditazione su che cosa sia
l’arte è interamente e decisivamente determinata solo sulla base della questione
dell’essere»24. E a sua volta, la tesi capitale del saggio recita: «Nell’opera d’arte
si è posta in opera la verità dell’ente. L’arte è il porsi in opera [Sich-ins-Werk-

21
Ibidem, Nota b.
22
Jean Baudrillard finirà per sostenere una tesi (una diagnosi e una condanna del suo tempo)
ancora più deprimente e senza speranza. Quando l’arte si dedica interamente all’oscenità della stra-
tegia commerciale, allora «in un certo senso, questo è peggio del niente, perché non significa nien-
te eppure esiste comunque, dandosi tutte le buone ragioni di esistere. Questa paranoia complice
dell’arte fa sì che non ci sia più un giudizio critico possibile, e solo una spartizione in via amichevo-
le, necessariamente conviviale, della nullità. È questo il complotto dell’arte e la sua scena originaria,
[...] che non può risolversi in alcun universo noto perché dietro alla mistificazione delle immagini
l’arte si è messa al riparo dal pensiero» (J. Baudrillard, Le complot de l’art [1996], Sens&Tonka,
Paris 1997, pp. 24-25; tr. it. di L. Frausin Marino, Il complotto dell’arte, SE, Milano 2013, p. 41).
23
M. Heidegger, Überwindung der Metaphysik (1936-1946), in Vorträge und Aufsätze, pp.
67-98; tr. it. di G. Vattimo, Oltrepassamento della metafisica, in Saggi e discorsi, pp. 45-65.
24
ukw, p. 73; tr. it., p. 88 (mod.; cfr. tr. it. di Chiodi, p. 68).
l’arte della verità 1007

Setzen] della verità»25. Si osservi quindi questa concatenazione regressiva: solo


se viene chiarita la via della verità dell’essere dell’ente sarà possibile spianare
la via che conduce all’essenza dell’essere stesso. E per questo, l’opera d’arte
svolge il ruolo essenziale di mediatore: è la sua posizione essenziale che mette
in chiaro il passaggio (la «svolta» o Kehre) dalla questione filosofica per l’essere
dell’ente (secondo la scrittura tradizionale: das Sein) alla questione del pensiero
meditativo per l’«essere», senza relazione con l’ente. Perché?
Essere e tempo si muove in gran parte nell’ambito della filosofia trascen-
dentale aperta da Kant, al punto che non tradiremmo troppo il sentimento di
Heidegger se interpretassimo l’essere dell’ente – il cui significato l’opera del
1927 pretende di chiarire – come un’etichetta collettiva che non deriva dall’e-
sperienza, ma al contrario che tutta l’esperienza presuppone e che ogni esperien-
za rende possibile e gli dà senso. Quel termine «trascendentale» viene spiegato
a sua volta in due aspetti che si appartengono: l’essere umano in quanto Da-sein
(il «ci» dell’essere, l’apertura in cui l’uomo riconosce se stesso e gli enti, in
virtù della pre-comprensione che possiede dell’essere, e allo stesso tempo l’es-
ser-ci, ossia lo stato di apertura in cui ha avuto luogo quell’apertura) e il mon-
do (Welt)26, inteso come connessione di significatività, orizzonte di senso in cui
l’ente appare concatenato e aperto allo sguardo e all’azione dell’uomo. Ebbene,
il punto di partenza della struttura ontologica dell’essere mondano è posto da
Heidegger nell’utensile (Zeug) o, piuttosto, nella considerazione che l’ente sia,
principalmente, ciò che è a portata di mano (zuhanden), cioè tutto ciò che «vie-
ne incontro nel prendersi cura»27. Lo stesso Heidegger ricorda in questo contesto
che il termine greco per «cose» è tà prágmata. E nel saggio successivo, Dell’es-
senza del fondamento, sottolinea che la struttura dell’utensile «ha il vantaggio di
fare passare all’analisi di questo fenomeno», quello del mondo, «e preparare il
problema trascendentale del mondo»28.

25
ukw, p. 25; tr. it., p. 32 (mod.; cfr. tr. it. di Chiodi, p. 25).
26
Si tenga in considerazione un punto molto importante. Contrariamente alle lingue romanze, in
cui «mondo» ha un significato piuttosto spaziale (il «contenitore» in cui sono tutte le cose), il corri-
spondente termine tedesco è etimologicamente orientato verso il tempo. Infatti, Welt deriva da «Wer-
alt», ossia l’«età – o il tempo – dell’uomo» (letteralmente dell’uomo: wer - vir, in latino). Da qui il
senso – scontato per il tedesco – di Weltgeschichte, non tanto «Storia mondiale» (infatti non è vero che
nessuna Storia sia in grado di comprendere lo sviluppo di tutte le terre, paesi e nazioni; smetterebbe
giustamente di essere una «storia») quanto narrazione ordinata degli sforzi dell’uomo – dell’uomo
occidentale, ovviamente – per rendere l’intera Terra il suo mondo. Si tenga in considerazione questo
significato quando esamineremo il modo – pericoloso – in cui Heidegger affronta il concetto di «mon-
do» rispetto al riconoscimento del popolo tedesco – e del «tedesco» – come popolo storico.
27
M. Heidegger, Sein und Zeit [d’ora in poi suz], hrsg. von F.W. von Hermann, in GA I.2, 1977,
p. 92; tr. it. di P. Chiodi, Essere e tempo, a cura di F. Volpi, Longanesi, Milano 2005, p. 91.
28
Id., Vom Wesen des Grundes (1929), in Wegmarken, hrsg. von F.W. von Hermann in GA I.9,
1976, pp. 123-175, qui p. 155, nota 55; tr. it. di F. Volpi, Dell’essenza del fondamento, in Segnavia,
Adelphi, Milano 1987, pp. 79-131, qui p. 111, nota 55.
1008 félix duque

La preminenza dell’utile o dell’a portata di mano (das Zuhandene) è rafforzata


da Heidegger nel fare di questa struttura l’accesso all’essenza del mondo come
base per la costituzione degli usi: «Il mondo è ciò in base a cui l’utilizzabile è a
portata di mano [aus der her Zuhandenes zuhanden ist]»29. Questa famosa svolta
pragmatica fece quindi cadere dal suo piedistallo ontologico la cosa «presente»
come inizio di tutta la ricerca filosofica (la cosa «in sé» presumibilmente indipen-
dente dall’osservatore, e allo stesso tempo contraddittoriamente considerata come
un «oggetto», cioè Gegenstand: qualcosa che è «di fronte» al soggetto; da notare
anche la stretta somiglianza tra questo pregiudizio della metafisica tradizionale e
quello dell’estetica, secondo cui il «bello» viene misurato in base ai sentimenti
o alle esperienze dello spettatore). Qui, l’«esserci» o Dasein è considerato come
l’ultimo referente di tutta la realtà: quello «a causa del quale» (Um-zu) le cose
esistono o «sono» (ossia sono... utili, o nocive), mentre il teoricamente «presente»
non sarebbe altro che una derivazione per neutralizzazione e un appianamento
«generale» di quella primordiale «preoccupazione circospetta» dell’uomo che si
adatta alle cose utilitaristiche (e utilizzate). E quell’attività indica che l’uomo non
«è» senza aggiunta, ma in ogni momento «deve essere». In tedesco si dice giusta-
mente, come sottolinea Heidegger in una nota a margine della sua copia di Essere
e tempo, «das es zu seyn “hat”»30. Pertanto, «l’essenza di questo ente», dell’uomo,
«consiste nel suo aver-da-essere [Zu-sein]»31. Niente di più logico quindi del fatto
che lo Zu-sein intenda che l’essere-vero è Zuhandenes; qualcosa con cui fare cose,
e non una cosa «maldestra», come se dicessimo «del corpo presente». Un segno
di questa svalutazione del «presente» (dell’antico «ente» senz’altro) è già visibi-
le nel termine tedesco «presente», das Vorhandene, letteralmente «ciò che è alla
mano». Non è quindi strano che Heidegger concluda, decisivamente: «L’utilizza-
bilità [Zuhandenheit] è la determinazione ontologico-categoriale dell’ente così
com’esso è “in sé”»32. Tuttavia, aggiunge Heidegger, non meno certo è che «si
dà» (es gibt) solo «a portata di mano» sulla base di ciò che è «in presenza» (von
Vorhandenem). Come spiegare questo «ciclo»? Perché il fondamento ontologico
di «in presenza» (vale a dire, l’utensile «a portata di mano») necessita a sua volta
dell’utensile «alla mano» come suo fondamento ontico?
Essere e tempo non riesce a dare una risposta del tutto soddisfacente, capace
non tanto di annullare questo circolo, ma di comprenderne la sua necessità. Si noti,
inoltre, che se provassimo a sfuggire da quel cerchio – proprio per la sua tangente
– a forza di ridurre l’uno rispetto all’altro, avremmo alternativamente la concezio-
ne idealistica (il soggetto auto-attivo è quello che dà significato a ciò che è «a por-
tata di mano», e questo, in secondo luogo, lo dà alla cosa «in vista») o materialista

29
suz,
p. 111; tr. it., p. 108 (mod.).
30
suz,
p. 56, nota d; tr. it., p. 60.
31
Ibidem.
32
suz, p. 96; tr. it., p. 95.
l’arte della verità 1009

(la cosa «in vista» è la base dell’utensile strumento «a portata di mano», e questo,
in secondo luogo, dà significato al soggetto: homo faber). Come si può notare, è
un gioco sterile, incapace di uscire dallo schema metafisico «soggetto/oggetto»
o «presenza/rappresentazione». Heidegger, invece, cerca di «entrare» nel circolo
metafisico dell’«ontico/ontologico». E lo fa – potremmo dire – prestando attenzio-
ne alla stessa barra di separazione-connessione («/»). In effetti, se c’è «mondo»
nell’utensile, ossia se è importante, rilevante per il Dasein, ossia se è inserito in
una «connessione di significato», ciò è dovuto al fatto che il «mondo», a sua volta,
determina e indica luogo e funzione a questo o a quell’utensile. Tuttavia, se questo
cerchio funzionasse alla perfezione, senza attriti, ciò che paradossalmente sarebbe
dimenticato, ciò che scomparirebbe sarebbe... il mondo stesso. Per l’uomo, nulla
conterebbe, se non lui – come referente –, la cosa – come segno di riferimento –
e i fattori di mediazione: la mano e la vista. Per inciso, così è come – interpreto
– l’homo kyberneticus della fine della metafisica e dell’estetica vuole vedere le
cose; è un narcisismo infantile, per il quale tutto è uno spettacolo: Only for your
eyes. Solo che le cose (nemmeno quelle che provengono dalla realtà virtuale) non
sono così facili, né sono disposte affinché l’uomo, letteralmente, ci metta mano
e le abbia in presenza, come se volesse passarle in rivista per un possibile uso
ulteriore. È vero che, attraverso la tecnica, l’uomo considera la montagna come
una cava, il fiume come una fonte di energia o il mare come un possibile serbatoio
d’acqua da desalinizzare. Ma non è meno vero che la montagna, il fiume e il mare
oppongono una resistenza a questa loro utilizzazione (del resto, senza quella resi-
stenza, non sarebbero neppure utilizzabili). E, a volte, la resistenza è tale che spez-
za l’essere servizievole della cosa-utile, che cessa di essere, quindi, «alla mano»,
per ritirarsi... dove? Nel suo carattere cupo, scontroso, di cosa senza aggiunte,
inservibile. Solo in questo ritiro, d’altra parte, viene fuori il mondo in quanto tale.
L’orizzonte appare solo quando qualcosa di opaco rompe i riferimenti. Come se
dicessimo, la connessione del significato non è a sua volta significativa! Il princi-
pio che dà ragione all’ente non dà ragione a se stesso!
In Essere e tempo, questa perturbazione, generalizzata, ha portato il Dasein a
sperimentare la «chiara notte dell’angoscia», in cui tutto (incluso l’uomo stesso)
è... nulla, nel senso del senza-senso, per cui il nulla ha un fondamento o una base.
Il Dasein si trova, quindi, nel mezzo della «inospitalità» (Unheimlichkeit) del
mondo in quanto tale. E il suo «essere-nel-mondo» si svela come un «non essere
a casa», come un essere «nel nulla del mondo»33. Queste analisi sono diventate
abbastanza famose. E con ragione. Ma il problema è che esaminano il fenome-
no della caduta del fidato «ambiente-mondo» (Umwelt) solo rispetto al Dasein,
un rispetto, potremmo dire, «umano, troppo umano». Una domanda, dunque,
si impone: qual è la ragione di questo fallimento? Una domanda che si collega

33
Cfr. suz, pp. 366, 454; tr. it., p. 331, 406-407.
1010 félix duque

immediatamente a quella precedente posta: perché ciò che è utile «a portata di


mano» deve necessariamente essere «in vista»? Forse, in questo modo si stempera
la cosalità della cosa in un supporto uniforme, come se fosse, per così dire, un
«palco di una scena teatrale»? In assoluto. Per di più abbiamo appena visto che
solo quando questo «palco» viene meno, il «mondo» viene alla luce come apertu-
ra e disvelamento dell’ente.
E se è così, bisogna riconoscere allora che non è il Dasein (e ancor meno l’uo-
mo-soggetto, auto-compreso quale ultimo referente «a causa del quale» tutte le
cose esistono), bensì l’Essere stesso che deve darci quella possibilità di pertur-
bazione, di rottura, senza la quale non ci sarebbe neanche mondo (né enti intra-
mondani... né l’uomo come «essere-nel-mondo»). A ben vedere, la cosa era da
sempre già in vista come qualcosa di tanto banale che – ovviamente – è passata
inosservata, ossia, perché ci sia verità come dis-occultamento è necessario che, in
essa, «avvenga» ugualmente un occultamento. O per dirla in altro modo, affinché
ci sia un mondo (e le cose in esso, e un uomo come «essere-in») è necessario che
accada... Cosa? Un termine (e persino la cosa stessa, tranne l’indizio sulla nozione
di fallimento del mondo-contesto) manca in Essere e tempo, ed è tuttavia il gran-
de protagonista (questo sì, un po’ oscuro) de L’origine di l’opera d’arte. Si tratta
della «terra» (Erde), in quanto «base» onnicomprensiva di tutta la verità: il léthe
(«dimenticanza», «occultamento») della alétheia («reminiscenza», «disvelamen-
to»). Essa, la terra, è quella che presta all’in vista il carattere irriducibile della
cosa, la durezza ultima, impenetrabile, che si distacca da ogni tecnica e allo stesso
tempo ne incoraggia il continuo sviluppo.
L’origine dell’opera d’arte inizia giustamente dal problema con cui, in qualche
modo, si concludeva Essere e tempo: si esaminano i sensi nei quali la tradizione ha
provato a pensare cosa sia una «cosa», e a cosa si debba la sua ostinata immedia-
tezza. E tutti questi sensi provano a ovviare a quella presenza cupa e silenziosa. La
cosa è vista innanzitutto come un sostrato (un subjectum: ciò che è «al di sotto», la
sub-stantia) su cui incidono accidenti come sue proprietà. E su questa base ontica
è sorta la proposizione tradizionale della logica: «Soggetto/Copula/Predicato». A
proposito, si è già mostrato qui che, in quanto il predicato è quello che offre le
determinazioni (quello che dice «come sono le cose»), la cosa «alla base» sembra
scomparire, convertendosi in un mero supporto per il quale l’unica richiesta è, per
così dire, «stai zitto e non disturbare», cioè che sia affidabile... per poter utilizzare
la cosa secondo le proprietà che essa mostra «in vista» del soggetto e per metterle
a disposizione di questo e collocare le cose pragmaticamente «a portata di mano».
Uno schema questo che, oltre a essere stato psicologicamente interiorizzato (la
cosa, vista come un’unità pensata di dati sensibili), dice la sua verità nella strut-
tura fondamentale di tutta la metafisica: la struttura materia-forma, la quale, non
a caso, costituisce anche «lo schema concettuale di ogni teoria dell’arte e di ogni
l’arte della verità 1011

estetica»34. Ora, se questo è così, la seguente domanda ricade sotto il suo peso:
questo schema è dovuto al carattere «cosale» della cosa? (In altre parole, ha la sua
origine nella metafisica, e in particolare in Aristotele?) O ha origine, al contrario,
nel carattere di «opera» proprio dell’opera d’arte?
Il percorso che Heidegger segue nel saggio sembra mostrare, attraverso lo
svelamento dell’origine dello schema ilemorfico nell’utilità (lo Zuhandenheit di
Essere e tempo) dell’utile o Zeug (è interessante notare come scompaiono qui le
denominazioni che potrebbero «umanizzare» i tratti della «cosa» esaminata, come
«a portata di mano» o «in vista») e sembra anche mostrare che è l’opera che dà
senso all’utile e questo alla cosa, in modo che sarebbe l’arte a dare ragione alla
metafisica, e non viceversa (una proposta di inversione che in precedenza solo
Schelling, nel Sistema dell’idealismo trascendentale del 1800, aveva a suo modo
difeso). Ma sembra solamente. E non, ovviamente, perché la metafisica ritorni al
suo statuto (in queste analisi, il superamento dell’estetica già annuncia chiaramen-
te il superamento della metafisica), ma perché il «cosale» ritorni ad apparire: si
rivolta, letteralmente, all’interno dell’opera d’arte, annunciando così per tutti gli
enti – e non solo per le «opere» – il suo carattere irrinunciabile di caducità e ingan-
no. Che può voler dire tutto ciò?
Se gli utili, le cose prágmata del mondo-contesto, non si rompessero mai,
se si disponessero, docili, a portata di mano dell’uomo, allora il contesto e il
mondo verrebbero semplicemente identificati (e tale è il sogno della modernità,
come abbiamo visto più volte). L’uomo sarebbe il centro della creazione e le
cose le sue «circostanze», come direbbe Ortega y Gasset. Ma allora gli utensili
si convertirebbero in qualcosa di solito e abituale (gewöhnlich: quello con cui
«si abita»), e l’uomo stesso finirebbe per essere assorbito dentro questa univer-
sale struttura di posizione o Gestell, per dirlo con nozioni successive a L’origine
dell’opera d’arte. La cosa scomparirebbe, logora, nella sua usura e disponibili-
tà. Tuttavia, è un dato di fatto che le cose esistano, che siano senza aggiungere
altro, e non siano solo indipendenti dal loro uso, soprattutto perché, alla fine,
eliminano qualsiasi uso (e questo ineffabile «rifiuto» è ciò che si annunciava –
balbettando – nell’idea oscura della cosa come «sostanza», subjectum e fonda-
mento). Però, dove appare quel rifiuto?
La risposta di Heidegger costituisce un geniale colpo di mano (nel senso let-
terale del termine). Questo rifiuto non può apparire nella cosa come «utile» (o
meglio, quando questo si mostra come inutile, viene scartato e sostituito da un
altro), ma nella cosa come «opera» (Werk). Ma cos’è allora un’opera? In primo
luogo, non è qualcosa di semplicemente «prodotto» con un’intenzione (un utile
di utili, diremmo), né certamente un modello, un paradigma (ricordiamoci quello
che abbiamo detto in precedenza) o un pro-gramma a partire dal quale produrre a

34
ukw, p. 12; tr. it., p. 17 [il corsivo è di Heidegger – N.d.T.].
1012 félix duque

catena cose utili (i Bestände della «struttura di posizione»). La cosa, dice Heideg-
ger, ha il carattere di «essere-fatto»: Geschaffensein, dove il participio geschaffen
significa abitualmente «realizzato», portato a buon fine, come quando si dice in
italiano «Ecco. Questa è fatta!»35. Contro ogni teoria romantica, Heidegger difen-
de la fattura dell’opera. Questa deve essere «rilasciata» (entlassen)36 dall’artista
«al suo puro stare-entro-se-stessa [Insichselbststehen]»37. Proprio nella grande
arte, che è l’unica che stiamo trattando qui, l’artista è ridotto a qualcosa di indiffe-
rente di fronte all’opera, quasi un semplice ponte verso l’emergere dell’opera che
si distrugge nel creare (Schaffen). L’artista «creatore» scompare così prima del
poietés capace di far sì che l’opera che si «realizzi», cioè che si ponga-lì-davanti la
verità di un ente. Ma cosa può voler dire «verità»? Con Essere e tempo conoscia-
mo il fattore «positivo» – diremmo – della verità: il disvelamento, la venuta alla
luce delle potenzialità di un ente. Ora, sappiamo che questa via d’uscita implica
la collaborazione dell’uomo come «creatore» (quasi nel senso socratico di «oste-
trico» dell’ente). Tuttavia, ciò che manca è proprio il fatto di porre in evidenza la
nuda esistenza della cosa nella sua verità, ossia il suo rifiuto a essere manipolata
fino a quando non si esaurisce nella sua usura. L’artista mette in evidenza quel
rifiuto, quella cupa resistenza. Mette nella giusta luce paradossalmente il fatto irri-
ducibile del resto, di ciò che si nega a venire alla luce (un tema, tra l’altro, che si
lega alle ossessioni di Baudrillard sulla trasparenza assoluta, l’oscurità «scenica»
e spettacolare di un mondo simulacro, la trasparenza del male)38.
Sotto l’influenza di Hölderlin, Heidegger chiama ora quel residuo «terra». Con
questa strana comparsa, tutto l’abituale scompare. L’ente si ritira, per così dire,
ed emerge, ineffabile, il fatto nudo dell’essere. «Che cosa c’è di più abituale», si
domanda Heidegger, «del fatto che un essente è? Nell’opera, invece, l’inabituale
[das Ungewöhnliche] è appunto questo: che un essente come tale [allusione all’en-
te in quanto ente] è [ist]»39. L’inabituale, l’inquietante e l’inospitale (unheimlich)

35
[In italiano nell’originale spagnolo – N.d.T.] Cfr. ukw, p. 51, tr. it., p. 62. In genere, schaffen è
tradotto come «creare». Solo che in questo modo si corre il rischio di ricadere in una teoria romanti-
cizzante del «genio creativo», che imprime la sua espressione sulle cose. Nulla è più lontano dall’in-
tenzione di Heidegger. Per inciso, l’insistenza nel vedere l’artista o poietés come «creatore» ha conse-
guenze disastrose, portando a un’interpretazione politica forviante di Heidegger.
36
Non credo sia casuale che Heidegger usi qui lo stesso verbo utilizzato da Hegel alla fine
della sua Scienza della Logica per cercare di «spiegare» (se possibile) il «lasciarsi andare» o l’«af-
fidarsi» apertamente del Logico alla Natura, e come Natura. Non sarebbe nemmeno fuori luogo
vedere una struttura analoga qui: anche l’«utile», se elevato a «lavoro» dall’artista, raggiunge un
carattere «cosale», come se fosse qualcosa di naturale nel senso greco del termine, qualcosa che
riposa su se stesso, che si erge dalla sua stessa natura o physis. A questo allude il termine tedesco
usato da Heidegger, Insichselbststehen.
37
ukw, p. 26; tr. it. p. 33.
38
Cfr. J. Baudrillard, La transparence du mal. Essai sur les phénomènes extrêmes, Galilée,
Paris 1990; tr. it. di F. Marsciani, La trasparenza del male. Saggio sui fenomeni estremi, SugarCo,
Milano 2018.
39
ukw, p. 53; tr. it., pp. 64-65.
l’arte della verità 1013

è citato a comparire (difficilmente si può parlare qui di «presenza») dall’artista


nell’opera. Solo lasciando essere alla «terra», è possibile che si abbia «mondo».
Solo dall’occultarsi della realtà ultima, originale, è possibile che le cose si diano a
vedere. Per questo motivo, e come sottolinea un eccellente esegeta di questi passi,
«il concetto di “terra” ne L’origine dell’opera d’arte sembra quindi essere desti-
nato a essere l’antidoto, ossia a svolgere il ruolo di qualcosa di simile alla “pertur-
bazione” universale dell’Essere e del tempo, assumendosi la funzione di lasciar
vedere, cioè di presentare, inter alia, il “mondo”»40.
Si comprende ora la ragione della fascinazione che questo pensiero continua
a esercitare su numerosi artisti contemporanei, in particolare nel campo dell’ar-
chitettura e delle arti plastiche? Indipendentemente dagli accenti «nostalgici» che
l’opera heideggeriana può avere, la verità è che in quest’opera può trovarsi l’idea,
rabbiosamente attuale e decisamente antiestetica, dell’arte come «perturbazione»,
come stásis del significato, tanto nell’ambito linguistico che in quello plastico che
attiene al «materico». È vero che, nel 1935, l’idea del «conflitto» o contesa (Streit)
tra la «ribellione» del mondo (Aufstellen) e il «ri-stabilimento» della terra (Her-
stellen)41 sembra muoversi ancora nell’orizzonte «ellenizzante» del giusto mezzo,
come mostrato nella figuratività ultima che Heidegger allora richiedeva all’arte
(non a caso, le arti plastiche sono chiamate in tedesco bildende Künste, «arti figu-
rative»). Il risultato del conflitto tra la misura (apertura del mondo) e la limitazione
(chiusura della terra) è in effetti il «tratto» (Riss, a proposito, è la stessa radice di
«rima»), a partire dal quale ha senso tutto lo schema o «pianta» (Grundriss), tutto
il «prospetto» (Aufriss) e tutto il «contorno» o «profilo» (Umriss), come se stes-
simo seguendo lo schema – reso popolare dalla Gestaltpsychologie – della figura
sullo sfondo42. Lo stesso Heidegger si affretta a segnalare immediatamente che in
questo caso non è «un tratto nel senso di uno spacco che spalanchi un baratro; la
contesa è piuttosto l’intimità [Innigkeit, è un terminus technicus di Hölderlin] del
coappartenersi dei contendenti».
E tuttavia… tuttavia, solo «l’opera lascia che la terra sia una terra»43. È il
lavoro ciò che fa ritornare i materiali e le loro qualità alla rozzezza della terra,
ciò che «mantiene»44 quest’ultima nell’Apertura di un mondo. E solo per questo
motivo, a causa della terra messa a lavoro per un’opera, che il mondo smette di
essere un «mero raggruppamento di cose», una «cornice immaginaria, supposta
per inglobare la somma delle cose date». Costringendosi a distorcere il linguag-
gio fino a disattivare in essa il vecchio schema «Soggetto/Predicato», Heidegger

40
A. Carrillo Canán, The Concept of «Earth» by Heidegger. History and the «Oblivion of
Being», «A parte rei», 7 (2000), http://serbal.pntic.mec.es/~cmunoz11/carrilloing.htm [data di ulti-
ma consultazione: 15 aprile 2020].
41
ukw, pp. 34-35; tr. it., p. 43 (mod.).
42
ukw, p. 51; tr. it., pp. 61-62 (mod.).
43
ukw, p. 32; tr. it., p. 41.
44
[In italiano nel testo originale spagnolo – N.d.T.].
1014 félix duque

dirà: Welt weltet, «mondo mondeggia»45, ossia ordina, organizza, dà la misura per
l’ente. Ma questa apparentemente serena e gioviale disposizione letteralmente «si
scompone» quando il pensatore esemplifica questa «donazione del mondo». Dice,
in effetti, «mondo è il sempre inoggettuale, il sempre non-ostante al quale sotto-
stiamo finché le rotte di nascita e di morte, benedizione e anatema, ci mantengono
deradicati ed estatici nell’Essere»46. Nell’edizione Reclam del 1960, Heidegger
scrive, invece di «essere», Da-sein. Ricordiamoci, ora, che Heidegger esige dalla
nuova meditazione ontologica sull’arte il «salto all’origine», ossia il passaggio
dall’esperienza estetica al Da-sein.
Non è necessario insistere sulle pericolose risonanze che questa concezione
suppone, scritte, non dimentichiamolo, nel 1935. Successivamente, Heidegger
mitigherà questa rivolta della «terra» all’interno stesso del «mondo». Questa
inquietante e perfino sinistra (unheimlich) caratteristica della «terra», la quale,
naturalmente, non esiste, come pure il mondo, è bensì un movimento di retrazio-
ne, che allo stesso tempo travolge chi lo sperimenta, come se fosse un violento
rifiuto47. Ma, senza perdere del tutto quel carattere di inospitalità (spaesamento, in
italiano48), negli anni Cinquanta sarà trattato più come una ritrattazione salvifica
(una sorta di donazione negativa) a favore dell’ente, dal momento che «terra»
(singulare tantum; si tratta di un modo dell’essere, non qualcosa di sottostante o
occulto) è ciò che impossibilita alla radice che le cose siano «usate» per intero,
«comprese», racchiuse nello «sguardo» dominante del soggetto tecnocognitivo.
Terra è ora una delle direzioni in cui spazia il Geviert o «Quadratura» (non più

45
ukw, p. 30; tr. it., p. 39.
46
ukw, pp. 30-31; tr. it., p. 39.
47
In un’occasione in cui la sua famiglia era partita per Friburgo in modo che potesse lavorare
in tranquillità, Heidegger sentì questo impetuoso assalto quando si alzò dal letto nella sua Hütte
(baita) di Todtnau. Scrisse così a Elfride, confessando che in quel momento «er[a] molto triste», e
che «avev[a] avuto bisogno di un po’ di tempo per sentir[si] di nuovo a casa [Heimlich] nella baita
deserta». E fu il duro lavoro che alla fine lo salvò da quell’acedia, ma solo perché «qualcosa» (quello
che stava cercando) gli venne incontro, anzi si potrebbe dire, lo colpì. «Per me lavorare», scrisse a
sua moglie, «è in realtà il solo modo di creare l’occasione propizia perché vi sia un fluire dentro di
me [dass es mir zuströmt, come se fosse colpito una tromba d’acqua] – e talvolta è davvero un fluire
quasi inquietante [fast unheimliches Zuströmen, si confronti con la sensazione precedente: sentirsi
heimlich nella baita]». Sicuramente questo è un caso esemplare di Grundstimmung dell’angoscia, la
quale implicherebbe allo stesso tempo un sereno abbandono (Gelassenheit) da parte del pensatore,
come corroborato da quanto segue: dopo aver riconosciuto che questa «solitudine [...] non è sempre
facile da sopportare», Heidegger scrive tuttavia che «le cose semplici all’intorno fanno sì [sorgen
für] che il lavoro sia continuo e sicuro, e grande la linea [die grosse Linie]. Ogni mediocrità viene a
cadere [Alles Gewöhnliche fällt ab]» (Lettera a Elfride dell’11 agosto 1936, in G. Heidegger [hrsg.],
Mein liebes Seelchen! Briefe Martin Heideggers an seine Frau Elfride, Anstalt, München 2005, p.
192; tr. it. di P. Massardo e P. Severi, «Anima mia, diletta!» Lettere di Martin Heidegger alla moglie
Elfride. 1915-1970, Il Melangolo, Genova 2007, pp. 177-178, qui p. 177). Su questo tema si veda
anche A. Xolocotzi, Heidegger. Lenguaje y escritura, Fontamara, Mexico 2018 (soprattutto § 7.2,
Estar fuera de lugar y estilo, pp. 118-124).
48
[Il riferimento al termine italiano «spaesamento» è dell’Autore – N.d.T].
l’arte della verità 1015

opposta al «mondo» – e pertanto alla storia e alla sua turbolenza – ma al «cielo»:


l’apertura che concede in ciascuno caso la misura), insieme con la coppia «esseri
divini / esseri mortali»49. In questo modo, l’irto Heidegger procederà a una sorta
di «autocensura» o depurazione di quell’elemento tellurico che sa di barbarie e di
odore di palude (per quanto alpino possa essere). Ma, alla luce delle manifesta-
zioni degli attuali studiosi dell’arte e, soprattutto, di tanti architetti e artisti plasti-
ci (soprattutto nordamericani) che si confessano seguaci del pensatore, non sono
sicuro che questa urbanizzazione sia stata un successo.
Qualcosa rimane, comunque, ostinato, definitivo. Qualcosa che è stato messo
in evidenza dal miglior seguace di Heidegger (critico ed eterodosso, altrimenti
non sarebbe stato il migliore): Jacques Derrida, la cui ombra di terra – già ora,
per sempre, fantasmatica – non ha mai smesso in nessun momento di volteggiare
sopra queste pagine: «I testi di Heidegger continuano a precederci, nascondendo
un futuro di significato che ci assicura che, per secoli a venire, continueranno a
essere letti e riletti»50.

49
Cfr. soprattutto Das Ding (1950), in Vorträge und Aufsätze, pp. 165-187; tr. it. di G. Vattimo,
La cosa, in Saggi e discorsi, pp. 109-124.
50
J. Derrida - R. Kearney, Dialogue with Jacques Derrida, in R. Kearney, Dialogues with
Contemporary Continental Thinkers, Manchester University Press, Manchester 1984, pp. 105-126,
qui p. 110.
Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, CXII (2020), 4, pp. 1017-1034
ISSN: 00356247 (print) - 18277926 (digital)
DOI: 10.26350/001050_000229

Stefano Esengrini*

Origine e verità dell’arte

Origin and Truth of Art

In order to clarify the ‘poetic’ nature of man’s dwelling on Earth, we deem it urgent to reconsid-
er the path that led Martin Heidegger to pay attention to the dialogue between art and thought.
However, before allowing art to illuminate in advance the same understanding of the world
thought has, it proves essential to grasp the meaning of the revolution the German thinker made
within the history of philosophy. Thanks to the de-obstruction of modern philosophy, which is
founded on the subject-object relationship, Heidegger makes us overcome the corresponding
interpretation of art in aesthetic terms. Therefore, on the basis of a new foundation of thought,
art is freed from the risk of being confined to the dimension of beauty and becomes a power
capable of giving shape to the truth of the world and of the man who inhabits it.

Keywords: Martin Heidegger, Art and Thought, Dasein, Truth, Openness, Poetry
© 2020 Vita e Pensiero / Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore

Il Mattino spetta a tutti –


Ad alcuni – la Notte –
A una minoranza imperiale –
La luce Aurorale.
Emily Dickinson1

1. Arte, pensiero, Dasein


L’esigenza di venire in chiaro della natura ‘poetica’ del soggiorno dell’uomo
sulla Terra può essere affrontata a livello preliminare risalendo il cammino che
condusse Martin Heidegger ad accorgersi del dialogo che arte e pensiero intrat-
tengono tra loro.

*
Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano. Email: stefano.esengrini@virgilio.it
Received: 22.08.2020; Approved: 24.09.2020.
1
E. Dickinson, The Complete Poems, J 1577, Faber and Faber, London - Boston 1991, p. 654.
Salvo ove altrimenti indicato, tutte le traduzioni sono da intendere a cura di chi scrive e sono impu-
tabili alla sua sola responsabilità.
1018 stefano esengrini

Per quanto sia necessario dire che la ‘poesia’ (Dichtung) a cui ci riferiamo deve
essere assunta in un senso molto ampio del termine (ben oltre cioè quello di speci-
fico genere letterario), è per noi decisivo realizzare come l’ascolto di quel dialogo
– inaudito dal lato della filosofia – fu reso possibile grazie alla comprensione del
fenomeno dell’essere quale fondamento nascosto dell’intera tradizione metafisica
occidentale e, in questo senso, elemento informatore di quella che viene a ragione
considerata l’opera filosofica ‘di punta’ del XX secolo: Essere e tempo.
Perché cioè l’arte, in anticipo rispetto al pensiero, possa rivelare il mondo
nella sua verità – in questa consapevolezza consisterebbe l’enormità del contri-
buto di Heidegger al chiarimento del compito della filosofia –, diviene ancora
più urgente comprendere l’ordine del rivolgimento da questi apportato all’in-
terno della storia della metafisica. Un rivolgimento che, tra le altre cose, si era
tradotto nella de-ostruzione del campo da quelle determinazioni che riducevano
l’opera d’arte a un oggetto passibile di giudizio (qui un giudizio di gusto) da
parte di un corrispondente soggetto.
In altre parole, già la de-ostruzione della filosofia moderna in quanto metafisica
fondata sul rapporto tra un soggetto e un oggetto – in uno con il superamento della
corrispondente interpretazione dell’arte in termini estetici – permetterà una nuo-
va fondazione del pensiero e libererà al contempo l’arte dalla stretta che la vuole
confinata alla dimensione del bello, quand’essa è una potenza capace di dare una
figura alla verità del mondo e dell’uomo che lo abita2.
Per questo motivo rinunceremo ad analizzare in modo sistematico le opere di
Heidegger espressamente consacrate all’arte (pensiamo, su tutte, all’imprescin-
dibile In cammino verso il linguaggio del 1959), ritenendo prioritario preparare
il nostro sguardo a un avvistamento del suo senso attraverso un primo gruppo di
considerazioni che gravitano intorno al fenomeno dell’oblio dell’essere o, più pre-
cisamente, intorno al superamento della determinazione dell’uomo come «cogito»
(Cartesio), «Io penso» (Kant) o «Io» (Fichte, Schelling), a favore di un suo appro-
fondimento come «Dasein», qui da intendersi in modo ancora iniziale come un
essere presso le cose nella forma della familiarità e dell’aver cura.
Diversamente da quanto scriveva Friedrich Schelling nella sua Filosofia
dell’arte, secondo cui «il filosofo è in grado persino di scorgere l’essenza dell’arte
meglio dell’artista stesso»3, chiediamo allora: in che cosa consiste il fenomeno

2
Vista la natura del nostro scritto, che si propone di avviare la riflessione muovendo da un con-
tatto diretto tra la cosa e il lettore, limiteremo l’ambito delle analisi all’estetica moderna e ai suoi
presupposti metafisici. Ci riserviamo di completare questo studio a partire da un confronto con le
posizioni metafisiche di fondo dell’antichità greca (Platone e Aristotele) sullo sfondo della questione
della verità. Quanto a Platone e alla differenza che separa l’arte (mimesis) dalla verità (idea), riman-
diamo il lettore alle pagine che Heidegger dedica nel suo Nietzsche (M. Heidegger, Gesamtsaugabe
6.1, hrsg. von B. Schillbach, Klostermann, Frankfurt a.M. 1996, pp. 173-190) alla «controversia di
lunga data tra filosofia e poesia» discussa in Repubblica (Libro X, 595 a-607 a). A questo stesso pro-
posito si legga J. Luxerois (éd.), Ion et autres textes, Pocket, Paris 2008, pp. 9-31 e 167-221.
3
F.W.J. von Schelling, Filosofia dell’arte, a cura di A. Klein, Fabbri, Milano 2001, p. 24. Scrive
origine e verità dell’arte 1019

dell’essere, perché l’arte, prima ancora del pensiero, possa costituire un sapere
che guida il soggiorno dell’uomo sulla Terra? Che cosa significa propriamente
pensare, ora che il progetto matematico della natura di derivazione galileiano-car-
tesiana scricchiola nelle sue giunture, rendendo forse più percorribile la possibilità
che ciascuno ha di abitare ‘poeticamente’?
Ma chi è l’uomo? Chi siamo noi? E che cos’è e cosa può la ‘poesia’ rispetto al
nostro essere-al-mondo4?

2. Incontro all’arte
2.1. Il “poeta” e la verità

Lasciamo per il momento la parola «Dasein» non tradotta, per evitare di fornirne
un mero calco nella nostra lingua-madre – è questo il caso di una sua resa tanto
ovvia quanto sviante con «Esserci» – e per guadagnare dall’interno (in ascolto
cioè della lingua tedesca) una comprensione genuina del suo senso che sia in gra-
do di immetterci in modo immediato nel bel mezzo di quel laboratorio fenomeno-
logico che è la prima opera capitale di Heidegger.
Detto altrimenti, ci proporremo innanzitutto di acclimatarci al fenomeno
dell’essere come ciò che sta a fondamento delle posizioni assunte da Heidegger
lungo il cammino che lo condusse, a partire dalla prima metà degli anni Trenta, a
interrogarsi esplicitamente sull’arte e sulla sua origine, con una particolarissima
attenzione nei confronti della poesia in quanto arte della parola.
(Forse la parola intrattiene un rapporto privilegiato con l’essere di ciò di cui
parla, nella misura in cui il poter parlare – insieme al poter morire – è già un indi-
zio del genere di apertura al mondo che sostiene da cima a fondo la nostra esisten-
za? Come parla la parola? In che modo essa risponde di questa apertura?)
Una volta che si sia dunque accolta l’ipotesi di un primato della parola, non
dovrebbe sorprendere che la risposta fornita da Heidegger al fallimento del pro-
prio impegno politico in qualità di rettore dell’università di Friburgo tra il 1933
e il 1934 si tradusse in un primo corso di lezioni dedicato a due inni di Friedrich
Hölderlin, Germania e Il Reno.

ancora Schelling: «[Il filosofo] è l’unico in grado di far luce su ciò che d’incomprensibile v’è nell’ar-
te, di riconoscere in essa l’assoluto» (ibidem).
4
Se in queste prime battute la parola ‘poesia’ è comparsa tra virgolette, è stato per evidenziare
l’esistenza di una sua accezione tanto inusuale quanto assolutamente plausibile. L’etimologia di
Dichtung rinvia, infatti, al verbo dichten, un intensivo del latino dicere, dire. Ora, Heidegger non
riserverà al solo poeta questa possibilità di dire, di parlare, per quanto diverso sarà il compito
che affiderà ai poeti e ai pensatori: «Il pensatore dice l’essere, il poeta nomina il salubre». Per un
chiarimento della natura della parola (noetica e poetica) segnaliamo due saggi di François Fédier:
Poetare e pensare, in S. Esengrini (a cura di), Il canto e il pensiero. Martin Heidegger, Bruno
Mondadori, Milano 2020, pp. 15-25; L’incontro di Martin Heidegger e René Char, «Aquinas»,
LX (2017), 1-2, pp. 185-195.
1020 stefano esengrini

In questo senso l’arte, in quanto manifestazione eminente dell’indole ‘poeti-


ca’ dell’uomo, si rivelerebbe come la più radicale via di scampo alla devastazio-
ne del mondo operata dal nazismo e, più ampiamente, da qualsiasi ideologia o
Weltanschauung che pretenda di far quadrare i conti – fosse anche con le miglio-
ri intenzioni – entro un format capace di garantire una volta per tutte e ovunque
la verità (pensiamo all’attuale declinazione del nichilismo della Tecnica proprio
dei totalitarismi in scientismo, atto a pianificare l’esportazione della democrazia
su scala planetaria). Già nel 1944 Georges Bernanos ammoniva:
Un uomo guadagnato alla Tecnica è perduto per la Libertà5.

A questa pretesa eternizzante, in cui tutto sembra essere illuminato a giorno in una
sorta di fissità dogmatica, si contrappone il lungo apprendistato grazie al quale il
‘poeta’ consegue la verità, chiamato com’è a ‘strapparla’ al mondo, a riguadagnar-
la ogni giorno rispetto al suo sottrarsi, per restituirla vibrante nella lotta con il suo
segreto. Nelle parole di Marina Cvetaeva:
Nel caso del poeta – poiché tutto il mondo è sotto chiave e tutto va aperto – ogni volta è
una cosa diversa, ogni poesia è un lucchetto, e sotto quel lucchetto c’è una certa verità,
ogni volta diversa – unica e irripetibile – come il lucchetto stesso6.

2.2. Il Da del Dasein

Consapevoli della straordinaria cautela che deve essere esercitata nell’avvici-


narci al fenomeno dell’arte – a evitare il rischio che questa venga fraintesa come
una semplice fuga dalla realtà o alla stregua di una sua idealizzazione –, pos-
siamo iniziare ad avvertire un che di epifanico (solitamente attribuito in modo
quasi automatico all’esperienza artistico-poetica) anche in fenomeni essenziali
del Dasein quali l’essere-al-mondo, la tonalità dell’esistenza, la comprensione,
la lingua, l’angoscia, la cura.
Così, se ci concentrassimo anche solo sui primi quarantaquattro paragrafi di
Essere e tempo, che non a caso culminano nell’interpretazione della verità alla
luce della questione dell’essere, faremmo esperienza di una de-ostruzione del sog-
getto moderno che favorisce l’adocchiamento della dimensione libera e aperta che
regna intorno all’uomo nel suo prendere stanza nel mondo, nel suo insistere in
esso esponendosi alla vastità di quell’apertura.
Scriveva a questo proposito Jean Beaufret all’interno del primo scritto da que-
sti dedicato nel 1947 a colui che sarebbe poi diventato – per dirla con Heidegger –

5
G. Bernanos, La Francia contro la civiltà degli automi, versione di E. Roselli, Vittorio Gatti,
Brescia 1947, p. 12.
6
M. Cvetaeva, L’arte alla luce della coscienza, in Ead., Il poeta e il tempo, a cura di S. Vitale,
Adelphi, Milano 1993, pp. 73-116, qui p. 102.
origine e verità dell’arte 1021

un «lieber, im Herzen und der Sache des Denkens getreuer Freund», ossia un ami-
co, caro al cuore e fedele a ciò intorno a cui il pensiero insiste:
L’essere, abbiamo detto, è, nel suo fondo, superamento e trasgressione di tutto quel che
non è che essente, ed è dal fondo del suo niente che esso si disasconde come profusione
di senso. Ma dove può aver luogo questo disascondimento? In che modo qualcosa come
l’essere può divenire accessibile in una comprensione? L’errore sarebbe credere che ad
essere in gioco sia qui una sorta di «pieno cielo» con cui potremmo non avere niente a
che fare. Perché, se, fin dal principio, l’uomo non avesse alcun rapporto essenziale con
la natura dell’essere, quando e come sarebbe ammesso a comprenderne il senso? È tutta-
via in quanto uomini che siamo ammessi all’intelligenza dell’essere. Tra gli essenti che
pullulano nel mondo, ve n’è uno, infatti, quello stesso che noi siamo in quanto uomini,
che, visto dal di fuori, non è che un essente come gli altri, ma che, nel suo essere più
intimo, è essenzialmente trasgressione e superamento. Un simile essente, una volta puri-
ficato da tutto quanto è accessorio e ornamentale, si lascia determinare da cima a fondo
come Dasein. Senza dubbio, la parola Dasein appartiene in tedesco al vocabolario filo-
sofico più corrente. Ma Heidegger ci chiede di attribuire a questa parola molto affievolita
dall’uso un vigore del tutto nuovo. Per far questo, ci esorta a far risuonare il vocabolo
Da in tutta l’ampiezza del suo significato, e questo sino al punto di ritrovarvi l’energia
di trascendenza che essa imperiosamente notifica. Da non esprime un’ubicazione in un
ambiente che preesisterebbe come un quadro già dato: là, in opposizione a qui o a più lon-
tano. Da esprime piuttosto quel che si manifesta, quel che sorge in piena evidenza «con
la luminosità e la risolutezza di una folgorazione»,7 ossia l’intervento dirompente, irrom-
pente, esplosivo, inesorabile di quel che abbiamo chiamato «meraviglia dell’essere», la
meraviglia veramente unica: che si dia qualcosa e non niente. Non è, dunque, in non si sa
quali lontananze da cui saremmo separati da spazi infinitamente vuoti, ma nella vicinanza
più prossima, che si produce il passaggio di luce che concerne ciascuno di noi nel proprio
essere, di cui ciascuno di noi è fatto e plasmato, e che ci possiede molto più di quanto noi
non lo si possegga. Se dunque non è una localizzazione oggettiva nel senso del realismo,
il Da non è neppure un intervento soggettivo nel senso dell’idealismo. Perché niente è più
inadeguato al mondo che sorge dias in luminis oras e a quell’uomo che sorge e appare nel
mondo degli stati d’animo della soggettività. Niente è più irriducibile alle filosofie della
coscienza della verità di un simile Phänomen che rifiuta in tutto il suo vigore ogni meta-
fora di chiusura, notificandoci imperiosamente l’evidenza di uno schiudersi8.

2.3. Le tracce dell’Aperto

Prestiamo attenzione a quanto dichiarava Heidegger a Fritz Werner – «Se vuole


comprendere quel che faccio, legga Jean Beaufret» – e affidiamoci una seconda
volta alla prodigiosa capacità pedagogica del filosofo francese, nella speranza che

7
[M. Heidegger,] Was ist Metaphysik?, [Cohen, Bonn 19434], p. 24 [Nota di Jean Beaufret].
8
J. Beaufret, Martin Heidegger et le problème de la vérité, in Id., De l’existentialisme à Heideg-
ger. Introduction aux philosophies de l’existence, Vrin, Paris 2000, pp. 77-99, qui pp. 86-87.
1022 stefano esengrini

la sua singolare capacità di ascolto del dettato heideggeriano permetta anche a noi
di misurarci non infelicemente con un pensiero folgorante per lucidità e radicalità9.
Certo, il lungo passaggio appena citato, pur in assenza di un commento, ci ha
già permesso di saggiare appieno l’autonomia interpretativa subito raggiunta dal
filosofo nei confronti del proprio maestro.
Ma è all’interno di quel che può esser considerato in qualche misura il testa-
mento spirituale di Beaufret – ci riferiamo alle sue ultime conversazioni con
Frédéric de Towarnicki, tradotte in italiano con il titolo di In cammino con Hei-
degger –, è qui che troviamo espresso in poche righe un aneddoto che, pro-
prio perché semplice, ha il merito di rivelarci nitidamente l’abisso che separa la
psyché o anima greca (aristotelica) dal soggetto cartesiano.
È questa la prima traccia di un pensiero – il pensiero del Da-sein – che lascia
avvertire in modo palpabile il tenore della meditazione heideggeriana, in uno con
il destino a cui ciascuno di noi è consegnato in prima persona. Preoccupiamoci
solo di non fraintendere la dizione di «destino» riducendola a un che di fatalistico,
nella misura in cui in essa, al contrario, risuona un appello che reclama l’intera
esistenza di un uomo quadrandola entro le proprie possibilità più essenziali.
Proprio a quest’ordine di pensieri rimanda infatti l’utilizzo del trattino in
Da-sein, a evidenziare che l’essere dell’uomo non consiste nell’occupare uno spa-
zio già dato (essere-qui), ma nel far fronte a…, nell’es-porsi a (verso)…, lascian-
do in tal modo che uno spazio irrompa, si stagli e si offra di essere compaginato
secondo le esigenze di raccoglimento e intensità proprie di un luogo.
Ecco allora fare la sua comparsa un gruppo di soldati – l’aneddoto è raccontato
da Senofonte (Anabasi IV, 7) – che, giunto in cima a un’altura e scorgendo il mare
all’orizzonte, esclama all’unisono, come se il grido fosse strappato di gola a cia-
scuno dei suoi componenti: thalassa, thalassa! – il mare, il mare!
A questo genere di esperienza, fondata su una flagranza che supera ogni sog-
gettivismo in nome della più completa corrispondenza, Beaufret contrappone
la certezza con cui l’uomo moderno, nel suo stare-di-contro al mare ridotto a
oggetto (ob-iectum), si limita ad assicurarsi di trovarsi realmente dinanzi ad
esso sulla base delle sensazioni (uditive, olfattive, tattili) che la sua presenza
all’esterno dell’uomo provoca.
Ora, in quale delle due esperienze, chiede in sintesi Beaufret, l’uomo è più
prossimo alla realtà, alla verità di ciò che è? Che cosa significa qui «verità», e
che cosa essa ha a che fare con il fenomeno dell’essere e con la comprensione
che dell’essere ha l’uomo?

9
F. Fédier, Beaufret, Jean (1907-1982), in P. Arjakovsky - F. Fédier - H. France-Lanord (dir.),
Le Dictionnaire Martin Heidegger: Vocabulaire polyphonique de sa pensée, Les Éditions du Cerf,
Paris 2013, pp. 162-164, qui p. 162.
origine e verità dell’arte 1023

E ancora: a che cosa, se non a un dono, corrisponde l’essere aperto dell’uomo


a ciò che lo sopravanza e che ha il proprio culmine nello schiudersi e nel sostevole
vigere di un’interezza che tutto abbraccia10?

2.4. La flagranza dell’essere

Da eredi della modernità cartesiana quali noi siamo, la risposta fornita dalla nostra
epoca alla prima domanda è univoca: nell’ipotesi che sia vero solo ciò che è certo,
non possiamo non sorridere con Hegel di quel che il filosofo, riferendosi ai Greci e
alla loro concezione di verità, qualificava in termini di «realismo ingenuo».
In questa prospettiva il soggetto cartesiano e la sua capacità di analisi si pre-
senterebbero, nel loro atteggiamento critico (da «giudice», dirà Kant), come l’e-
lemento a cui ricorrere qualora si voglia fuoriuscire dall’illusione secondo cui la
realtà si mostrerebbe per quello che è, «in sé».
Meglio: lo schermo che si frappone tra il soggetto e l’oggetto rende possibile
quella presa di distanza che, tenendo sotto scacco la realtà alla stregua di un ber-
saglio, assicura una conoscenza vera perché accertata mediante la riflessione. In
questa prospettiva, che cosa vi è di più sicuro di un numero ottenuto dalla misura-
zione con cui l’uomo è in grado di ridurre tutto a un (che di) dato?
Tuttavia, l’istantaneità della percezione dei soldati sembra fare riferimento
a una conoscenza o esperienza che precede per rango e nel tempo quanto viene
colto dallo sguardo ego-cogitativo, il quale si limita a squadrare l’oggetto che ha
dinanzi per afferrarlo concettualmente all’interno di una serie di condizioni che ne
assicurano la dominabilità.
Detto altrimenti, la potenza esplicativa garantita dal metodo scientifico sem-
bra oscurare, se non addirittura eliminare alla radice, quell’epifania che supera in
evidenza ogni punto di vista individuale, portando alla luce una dimensione che
si impone e reclama ogni uomo nella forma di una misura a tutti comune. Misura
rispetto alla quale ogni calcolo si rivela essere un fenomeno derivato, tanto fla-
grante è l’essere nel suo irrompere, stanziarsi e assegnare a ciascuna cosa i limiti
entro cui essa può rivelarsi al culmine della propria intensità.
È questo quel che Heidegger chiamerà emblematicamente das freie Offene,
ossia la libera vastità o, ancora, l’insorta ostensione, primo nome di quell’Aperto
che rappresenta il tratto costitutivo dell’essere, la sua verità.
A sostenere questa dimensione, a insistere cioè in essa sopportandone l’irruzio-
ne angosciosa e spaesante sino a trovarvi l’elemento a cui adergere per poter infine
guadagnare se stessi –, a tutto ciò è chiamato d’essenza l’uomo che, nel suo abitare
la prossimità più familiare, sa al contempo inoltrarsi in una lontananza abissale.

10
Cfr. J. Beaufret, In cammino con Heidegger. Conversazioni con Frédéric de Towarnicki, a
cura di S. Esengrini, Marinotti, Milano 2008, pp. 127-128.
1024 stefano esengrini

Ecco tratteggiato il progetto di mondo a cui corrisponde l’interpretazione


dell’uomo in quanto Da-sein e, con essa, il primo colpo d’occhio sulla verità
dell’essere in quanto apertura. È infatti nell’aver da-essere (zu-sein) questo Aper-
to, questo qui-e-là (Da), che si compie la nostra ek-sistenza di mortali, di esseri
che hanno da-morire (zum-Tode sein).

3. Oltre Essere e tempo


3.1. La partecipazione dell’ente all’essere

Ma sarà solo dopo Essere e tempo – opera del resto incompiuta, non a causa
di una qualche insufficienza, ma perché si sarebbe spinta troppo avanti troppo
presto –, sarà dunque dopo Essere e tempo che il fenomeno dell’essere otterrà
un’ulteriore determinazione, capace di far trasparire l’indole recondita del suo
(dell’essere) flagrare.
Più precisamente, è nei Problemi fondamentali della fenomenologia del 1928
che fa la sua comparsa per la prima volta la locuzione di «differenza ontologica»,
con la quale Heidegger si propone di approfondire la comprensione del ‘movi-
mento’ interno all’essere nella sua differenza rispetto all’ente, ossia a un che di
essente, in cui l’essere si sarebbe, per così dire, ‘risolto’ nella semplice presenza
sottomano e/o utilizzabilità.
In questo senso, proprio nel suo distinguersi dall’ente, l’essere sembra caratteriz-
zarsi per una presenza enigmatica che evoca il nulla. A confronto dell’ente l’essere
pare infatti non essere niente, tanto che la sua presenza non risulta esperibile a livello
sensibile, ma, nel suo ritrarsi rispetto a ogni configurazione determinata, chiama in
causa un certo ‘sesto senso’ con cui l’uomo si espone all’essere corrispondendogli ed
eguagliandone, a suo modo, il singolarissimo (perché inappariscente) farsi incontro.
Ora, posto che la prima occorrenza del verbo con cui la lingua greca esprime
l’attività di pensare – noein – significhi fiutare (al punto che il nous o ‘intelletto’
consisterebbe nel porsi al seguito di qualcosa fiutandone la traccia), l’uomo potrà
accedere all’essere non attraverso l’afferramento di un che di essente, ma grazie
alla possibilità di entrare in risonanza con esso avvertendone o presentendone il
misterioso stanziarsi.
Da qui la stupefacente capacità dell’orecchio greco di cogliere il senso della dizio-
ne stessa di «ente» a partire dalla duplicità insita nella forma del participio presente,
che sa indicare nell’essente non un semplice fatto, ma un aver-luogo, un generarsi,
che fuoriesce dal nascondimento per aprirsi e irrompere in vastità e sovrabbondanza.
Per riprendere un’immagine cara a Beaufret, il reciproco appartenersi, in ogni
participio presente, di un aspetto verbale e di uno nominale conferirebbe una singo-
lare motilità o fervore. Un fervore che potrebbe essere espresso attraverso l’imma-
gine del momento che precede il volo di una farfalla, in cui giungiamo a presentire
l’aria che sosterrà il battito delle sue ali, permettendole di levitare.
origine e verità dell’arte 1025

Ora, è a questo stesso genere di preoccupazioni che deve la sua origine, per
esempio, una natura morta in pittura, icona del pensiero dell’«ente-in-essere»,
secondo cui a contare davvero in un dipinto non sono i singoli enti meramente giu-
stapposti, ma il loro rapporto o, nelle parole di Henri Matisse, la loro differenza,
grazie alla quale essi finalmente sono11.
Non è cioè l’atmosfera che avvolge i singoli oggetti la trasposizione a livello
plastico della dimensione dell’essere quale ‘luogo’ non-ontico a cui essi devono la
loro possibilità e lo slancio con cui entrano in presenza? Non è proprio la dif-ferenza
a portare con sé lo stanziarsi di una dimensione che concede a ogni ente di essere se
stesso grazie al suo distinguersi da tutti gli altri?

3.2. Essere significa levità

Aggiungiamo un secondo passo essenziale: l’apporto fornito dalla differenza


ontologica alla comprensione del fenomeno dell’essere consiste nell’approfondi-
mento del senso della sua (dell’essere) apertura. Quest’ultima, infatti, non si esau-
risce nel suo mostrarsi in modo manifesto, ma trova nel ritrarsi dell’essere rispetto
all’ente quella custodia che alimenta silenziosamente ogni nuova apparizione.
Più fondamentale allora dell’oblio dell’essere imputabile a un’insufficienza da
parte dell’uomo troviamo un oblio ‘interno’ all’essere stesso, un oblio cioè che
descriverebbe lo stanziarsi dell’essere quale riserva che prepara e concede di volta
in volta il configurarsi di questo o quel mondo. Entro la campitura tessuta dal gio-
co invisibile di ritraimento e apparizione, l’ente-in-essere non si riduce alla sem-
plice presenza, ma il suo venirci incontro rivela in filigrana un intero mondo che si
manifesta, per dirla con Georges Braque, come «muto fervore»12.
Così lo spazio, altro nome (insieme al tempo) per dire l’essere, non si darebbe
separatamente dagli enti che raccoglie, ma, al pari di un aroma, individua il fuo-
co intorno a cui si raccolgono gli elementi di un mondo – con quella leggerezza
espansiva che scuote la quiete inerme per donare un rinnovato vigore a tutte le
cose, ora rese frementi.
Nel saggio intitolato Dall’essenza della verità del 1930 giungiamo allora a un
primo vertice della meditazione heideggeriana dopo Essere e tempo che non a caso
insiste su un nuovo pensiero della verità – un pensiero che finisce per assumere un
nuovo nome con cui il filosofo reinterpreta il mondo greco cogliendone l’impensato.
Più in particolare, Lichtung – traducendo il greco aletheia, Aperto, a partire
dal ritrarsi dell’essere (a-letheia: dis-ascondimento) – diviene la dizione capace

11
H. Matisse, Écrits et propos sur l’art, Hermann, Paris 2005, pp. 253 e 168. Sia detto per inciso
che la locuzione «ente-in-essere» compare all’interno della conferenza pronunciata da Heidegger
nel 1955 dal titolo Che cos’è la filosofia?. Si legga a questo proposito G. Zaccaria, L’inizio greco
del pensiero, Marinotti, Milano 1999, pp. 391-395.
12
G. Braque, Il muto fervore dello spazio. Conversazioni sull’arte, a cura di S. Esengrini,
Morcelliana, Brescia 2017, p. 5.
1026 stefano esengrini

di nominare la dimensione di verità entro cui il mondo si fa incontro a un uomo


invitandolo a entrare e a prendere parte.
La supposta ‘radura’ con cui si è reso in primissima approssimazione Lichtung
e in cui pertanto consisterebbe la verità dell’essere – nel suo diradarsi, ossia con
il relativo sgombero dell’ente e il conseguente alleggerimento –, non sarebbe che
lo spazio-luogo che tiene in serbo l’amicizia tra tutte le cose, qui colte nell’istante
della loro insorgenza germinativa.
Scrive François Fédier a proposito della necessità di coniare un neologismo in
francese per conservare, nella traduzione di Lichtung, il tratto della leggerezza:
A partire dal 1935 la verità è intesa [da Heidegger] come Lichtung. Questa parola è sta-
ta resa sinora con clairière o éclaircie, radura. Queste traduzioni sono lontane dall’essere
insignificanti. Tuttavia, dal momento che Lichtung, nell’incessante lavoro che ha impegna-
to Heidegger sino alla sua morte, è uno di quei termini che continua ad arricchirsi di riso-
nanze, risulta prudente e assennato ascoltare con attenzione quel che Heidegger giunge a
dire della Lichtung più avanti lungo il proprio cammino di pensiero. Così, per esempio, nel
1964 egli spiega che «La parola tedesca Lichtung è a livello linguistico un calco del francese
“clairière” […] La radura nel bosco è esperita per contrasto rispetto alla foresta fitta […] Il
sostantivo [femminile] Lichtung deriva dal verbo lichten. L’aggettivo licht è la stessa paro-
la di leicht [leggero]. Etwas lichten [levare qualcosa] significa: renderla leggera, liberarla,
aprirla, per es. liberare in un punto la foresta dagli alberi. Questo spazio libero venutosi così
a creare è la Lichtung. Quel che è reso leggero, nel senso di libero e aperto, non ha nulla
in comune, né linguisticamente né quanto all’essenza della cosa, con l’aggettivo licht, che
significa chiaro. Ecco quel che si tratta di non perdere di vista per conservare l’eterogeneità
di Lichtung e di luce». È dunque importante proporre un’altra traduzione francese [e italia-
na], per Lichtung, rispetto a «radura». Non fosse altro che per evidenziare che in ogni caso la
Lichtung, per come viene pensata da Heidegger, è un fenomeno più originario di ogni radura.
Abbiamo un verbo in francese che nomini quel che dice in tedesco il verbo lichten? Senza
dubbio. È alléger, alleggerire. Ma la nostra lingua, che non è meno attenta alle distinzioni
di ogni altra, distingue dal verbo alléger un verbo allégir, assottigliare, snellire, il cui ven-
taglio di senso è particolarmente fine. Mentre alleggerire significa sgravare di una parte di
un fardello, snellire precisa il modo in cui ha luogo l’alleggerimento: in maniera globale, di
modo che il dizionario Bescherelle, per esempio, lo definisce così: «Diminuire in ogni senso
lo spessore, il volume di un corpo». È questo il senso tecnico, in uso nelle Arti e Mestieri.
Non esiste un sostantivo femminile formato a partire dal verbo. Ma il poeta sa utilizzare il
verbo non alleggerendone il senso, ma rendendolo più sottile. Scrive Robert Marteau nel
suo Voyage en Vendée (Hautécriture, Poitiers 1985, p. 7): «Ogni tempio è stato costruito
secondo quest’ordine e, che tu l’assedi dall’esterno o dall’interno, hai davanti la prova che la
materia di cui è costituito è stata snellita così come edificata secondo una modalità vibrato-
ria». La materia di cui è costituito ogni tempio (e «tempio» è il nome proprio dell’opera per
il fatto di contenere l’assolutamente altro rispetto a se stessa, ossia la propria origine) è una
materia snellita. Materia scomposta, scavata, trasmutata in modo da non essere più materia
inerte, ma materia che risuona. Lo spazio in seno al quale cessa ogni afonia, lo spazio libero
e aperto: ecco quel che Heidegger chiama Lichtung. La desinenza di questa parola la rende
attiva. Si è così tentati di ricorrere alla parola allégeance, alleviamento, attestata nel senso
origine e verità dell’arte 1027

di una compensazione della pesantezza. Nel Trésor de la langue française è menzionato il


sostantivo maschile un allégi, con il senso di svuotamento. Perché non coniare il sostantivo
femminile singolare l’allégie per dire, meglio che con allégeance, il libero spazio in seno al
quale tutto ciò che è entra in presenza e fa la sua apparizione a livello di un mondo?13.

3.3. In ascolto del perpetuo

Lo ripetiamo: solo la riproposizione della domanda intorno al senso d’essere avan-


zata sin da Essere e tempo ha saputo riguadagnare una comprensione più intima
del rapporto veritativo che l’uomo intrattiene con il proprio mondo.
In anticipo cioè rispetto a ogni adeguamento dell’intelletto alla realtà si dà
un’apertura (di senso) che tiene in serbo e di volta in volta concede l’incontro
conoscitivo con questo o quell’ente.
Una simile apertura, inizialmente colta da Heidegger a livello temporale in ter-
mini di «istante», indica in direzione di una tempestività che evidenzia tanto l’of-
ferta di una grazia o di un favore inaugurante quanto, più segretamente, lo spazio
di un incontro sgombro da ogni determinatezza per divenire, nel suo essere vuoto,
capace di accogliere e custodire.
Ed è proprio in questo fare spazio che si prepara – attraverso il passaggio dal
Da-sein alla differenza ontologica alla verità come Lichtung – la rivoluzione che
conduce al superamento della filosofia come metafisica a favore dell’insorgere di
un pensiero che si pone in ascolto della voce dell’essere.
Entro questo stesso rovesciamento, in cui l’uomo cioè non si limita più a valu-
tare le cose, ma è all’unisono con esse, si prepara altresì un secondo ascolto, quel-
lo del canto poetico, intonato a sua volta all’elemento del «sacro» (das Heilige) o,
per meglio dire, del salubre (heil) in quanto sfera d’interezza o integrità dischiusa
dal reciproco richiamarsi di terra-cielo e mortali-divini.
Un ascolto, quest’ultimo, che risulta caratterizzato da un’inversione inattesa,
secondo la quale il pensiero, impegnato nell’interpretazione di quel canto che ogni
arte è, cede il passo alla voce di chi crea al fine di non turbare la pace che requia al
fondo di questo o quel componimento, dipinto, brano musicale…
Qui la parola, il colore e il suono non forniscono informazioni, né tantomeno
si limitano a descrivere o spiegare, ma salutano l’avvento del mondo nel suo rac-
colto, segreto, fulgore. Se, infatti, l’essere fosse fuoco, nulla sarebbe più caro alla
fiamma viva della brace che, lungi dal costituirne lo spegnimento, serberebbe in sé

13
F. Fédier, … Voir sous le voile de l’interprétation… (Cézanne et Heidegger), in Id., Regarder
voir, Les Belles Lettres - Archimbaud, Paris 1995, pp. 19-42, qui pp. 33-35. Per un’analisi dei limiti
della traduzione di Lichtung con radura (fr. clairière, éclaircie), si leggano le interpretazioni fornite
da Gino Zaccaria nel già citato Inizio greco del pensiero (pp. 291-338), al termine delle quali viene
proposta una sua resa con «stagliatura», in cui ci sembra risuoni, più che il riferimento alla leggerez-
za, il tratto del nitore.
1028 stefano esengrini

la possibilità di ogni suo futuro avvampare, ora reso ancor più ardente e crepitante
grazie al pensiero della sua negazione.
Ecco farsi largo un mattino del mondo, gravido di promesse, in cui il continuo
rinnovamento altro non è che l’esito della contesa tra i contrari, in cui il possibile
supera ogni effettività, in cui la speranza prevale su ogni fatto bruto. L’irripetibi-
lità di ciò che vince il nulla rivela lo stanziarsi di ciò che è perpetuo nella forma
tenerissima di quel che Braque chiamava un «mormorio di sorgente»14.
Gli rispondeva in eco l’amico René Char:
Fanciulla, salve! Se un giorno si azzardassero a dirti all’orecchio che Clara, il fiume, la tua
confidente, lo specchio del tuo sguardo triste o felice, ha smesso di esistere, non credere a
nulla. Questo allarme sia per te piuttosto un pretesto per recarti una volta ancora da lei e
ricevere la sua effusione. Al ritorno, non aver fretta di abbandonare i campi che irriga. Entra
in ogni casa in cui si lasci percepire la sua presenza. Quando cammini, vaga, qui è possibile.
O sosta un istante sotto l’albero più verde, in prossimità dei giunchi. Presto, non sarai più
sola: una Clara viva, giovane, appassionata, attiva, si farà innanzi e attaccherà discorso con
te. Così è il fiume che racconto. È fatto di molte Clare. Che amano, sognano, attendono, sof-
frono, domandano, sperano, lavorano. Sono belle o pallide, spesso entrambe, solidali con il
destino di ciascuno; avide di vivere. Toccando la tua mano, fanciulla, sento la dolce febbre
dell’acqua che sale. Mi sfiora, mi stringe fuggendo, e scaccia i miei fantasmi15.

4. Dritto all’arte stessa


Grazie a questa impegnativa preparazione siamo forse resi più lucidi nel prestare
ascolto alla voce singolare con cui risuona il canto che ogni arte intona.
Nostro compito diviene ora quello di favorire un accesso diretto all’opera d’arte,
che sappia cioè mettere tra parentesi ogni interpretazione storicizzante o altrimenti
riconducibile alla cosiddetta critica d’arte, nell’ipotesi che entrambi i metodi finisca-
no per ostruire lo sguardo di chi si propone di essere una cosa sola con l’opera.
Perché le minuziose descrizioni dell’aspetto in cui l’opera si presenta o i dati
di vario genere riguardanti la sua fattura non possono venire a capo – pur neces-
sariamente dipendendone – del problema della sua origine, e pertanto non sanno
cogliere il tono che distingue un autore nella sua unicità o originalità. Originalità
che non ha nulla a che vedere con un esercizio virtuosistico delle abilità dell’ar-
tista, risiedendo piuttosto nel grado di prossimità all’origine con cui questi ha
saputo fare fronte all’appello dell’essere.
Sulla scorta allora dell’abisso che separa il pensiero dal sapere scientifico e dopo
aver riconosciuto che la storia e la critica d’arte sono delle scienze positive, non pos-
siamo dimenticare che esse assumono il proprio ambito come un che di dato, di già

14
G. Braque, Le jour et la nuit, Gallimard, Paris 1952, p. 30.
15
R. Char, Bandeaux de «Claire», in Id., Œuvres complètes, «Bibliothèque de la Pléiade»,
Gallimard, Paris 1995, pp. 654-655, qui p. 654.
origine e verità dell’arte 1029

posto (positum). L’opera è pronta così a essere catalogata a partire da un insieme di


fatti (politici, economici, sociali, psicologici) capaci di spiegarne il senso.
Più precisamente, il fatto che l’oggetto d’indagine sia già dato assicura il fun-
zionamento della scienza ad esso addetta, la quale può implementare il proprio
potere predittivo e rendersi sempre più utile ed efficace. La sua industriosità le
permette di conseguire delle prestazioni così elevate da indurla a ridurre i suoi
stessi concetti fondativi a meri strumenti operativi capaci di assicurare una sempre
maggiore dominabilità.
Tuttavia, questa tanto declamata efficienza esplicativa compromette proprio la
possibilità di comprendere il senso e l’origine dell’opera d’arte, qui ridotta alla stre-
gua di un qualunque oggetto. Da qui la consapevolezza dell’insufficienza (non della
falsità) tanto della critica quanto della storia dell’arte, a cui rispondiamo scegliendo
di affidarci alle parole degli stessi artisti, che si rivelano più probanti degli strumenti
oggettivanti di cui fanno mostra, pur nella loro impotenza, entrambe le scienze.
Quest’ultime, infatti, vengono troppo tardi, e dell’enigma che è l’arte hanno
solo un vago sentore, mosse come sono dal bisogno di contabilizzare il contributo
di questo o quell’autore all’interno di questa o quella corrente o scuola. Come a
dire che la scienza non è mossa dall’esigenza di pensare (denken), ma innanzitutto
dall’insistenza di voler spiegare. L’insorgere di uno spazio libero in seguito alla
percezione di un dono da parte di chi ringrazia (danken) s’infrange dinanzi alla
violenza esercitata da chi non abita il mistero perché ambisce a esaurirlo.
Nel dodicesimo libro del suo Poesia e verità così si esprimeva Johann Wolfgang
Goethe in merito all’inaccessibilità dell’essenziale con gli strumenti di cui si avvale
la critica scientifica:
Ero quindi convinto che ciascun uomo è in grado di studiare la vera essenza intima di uno
scritto che ci interessa particolarmente, e soprattutto di considerare in che rapporto esso
sia con l’intimo di noi stessi e fino a qual punto quella forza vitale possa incitare e fecon-
dare la nostra; mentre tutta la parte esteriore, che risulta per noi inefficace o soggiace ad un
dubbio, va lasciata alla critica, la quale, se anche fosse capace di frantumare e spezzettare
il tutto unico, non riuscirebbe tuttavia mai a rapirci quella vera sostanza a cui rimaniamo
fedeli, né a sconcertarci nemmeno per un momento nella fiducia una volta acquisita16.

4.1. Genio e potenza generativa

Nella stessa prospettiva, alla messa tra parentesi del primato assunto dalla storia
o dalla critica d’arte dovrebbe ora fare seguito il superamento della concezione
tipicamente moderna dell’artista in quanto genio. Quest’ultima, infatti, affonda
le proprie radici in quella metafisica della soggettività che abbiamo già mostrato

16
J.W. Goethe, Dalla mia vita. Poesia e verità, tr. it. di A. Cori, 2 voll., Ghibli, Milano 2019,
vol. II, p. 680.
1030 stefano esengrini

determinare in modo insufficiente tanto la natura del rapporto che l’uomo intrat-
tiene con il proprio mondo quanto il tenore della sua stessa attività creatrice.
È proprio per questo motivo che si rivela degna di particolare attenzione la
proposta interpretativa avanzata ancora una volta da Goethe nel corso di una sua
conversazione con Johann Peter Eckermann il 21 marzo 1831 intorno alla dizione
tedesca di Geist, comunemente tradotta in francese con esprit, spirito.
Stando a quanto dice il poeta, esprit sarebbe meglio reso in lingua tedesca da
Witz, ingegno, ragion per cui Geist vedrebbe in génie, genio, il proprio corrispon-
dente fenomenologicamente più adeguato, soprattutto a causa di quel tratto di
«produttività» – genio deriva infatti dal latino geno (rad. GEN), genero, produco
– che permetterebbe di evitare di appiattire il senso più profondo del Geist ridu-
cendolo a qualcosa come un soffio vitale17.
Di più: l’apparente deviazione di ordine lessicale riguardante la nozione di
genio ha l’indubbio merito di costringerci a precisare il senso di una delle paro-
le-guida con cui la tradizione metafisica ha indicato in direzione dell’essenza
di qualcosa (come nel caso dello Zeitgeist o spirito del tempo) e, mediatamente
(attraverso la sua traduzione francese e italiana), dell’indole stessa dell’uomo in
quanto ‘poeta’. In che rapporto stanno infatti tra loro il genio inteso come sorte e
dunque come tempra, e il genio in senso artistico (in tedesco, Genie)?
Detto altrimenti: se con «genio» si intende «l’astro natale che cura la generazio-
ne di un uomo o di un popolo e, nati, li ha in sua tutela», dobbiamo chiederci se qui
abbiamo a che fare con una mera omonimia oppure con una singolare concomitanza
– almeno in francese e in italiano – foriera di nuove prospettive. (Ricordiamo che lo
stesso Kant riteneva probabile che «la parola genio sia stata derivata da genius, che
significa lo spirito proprio di un uomo, quello che gli è stato dato con la nascita, lo
protegge, lo dirige, e dalla cui ispirazione provengono quelle idee originali»18.)
Il fatto vuole, tuttavia, che al genio e all’ispirazione che lo accompagna in
modo del tutto originale nel corso del processo creativo siano consacrate alcune
pagine altamente suggestive delle lezioni di Hegel sulla filosofia dell’arte, in cui
sarebbe appunto la presenza di un apporto fornito dallo spirito a distinguere il bel-
lo naturale dal bello prodotto dall’arte.
Sembra allora lecito chiedersi se la produttività di cui parlava Goethe debba
essere intesa esclusivamente nei termini di una soggettività di cui il genio artistico
costituirebbe la manifestazione più compiuta o, piuttosto, possa essere letta come
indice del rischio assunto dall’uomo in quanto ‘poeta’ di guadagnare o generare
rispetto all’essere un accesso al suo (dell’essere) ritraimento.
Se questo fosse il caso, il bisogno universale dell’arte incarnato dal genio
– prima di identificare «il bisogno razionale che l’uomo elevi alla coscienza

17
Cfr. J.P. Eckermann, Colloqui con il Goethe, tr. it. a cura di G.V. Amoretti, 2 voll., UTET, Tori-
no 1957, Volume secondo, p. 801.
18
I. Kant, Critica del Giudizio, tr. it. di A. Gargiulo, riv. da V. Verra, Laterza, Bari 1989, § 46, p. 167.
origine e verità dell’arte 1031

spirituale il mondo esterno e interno come un oggetto, in cui egli riconosce il


proprio io»19 – costituirebbe il frutto più maturo della capacità generativa con
cui il ‘poeta’ sa risalire a monte di ogni presenza lasciando che essa irrompa
entro uno spazio-e-tempo che uno spirito genuinamente creatore mantiene aper-
to quale località di ogni apparizione.
Diversamente da quanto accade nella metafisica moderna, in cui lo sguardo
ego-cogitativo assume del mondo solo ciò che rientra nel cono visivo gettato su
di esso dal soggetto, finendo di fatto per ridurre il reale a quanto il pensiero è in
grado di concepire, il genio tempratosi al fuoco dell’essere è capace innanzitutto
di fare spazio e di concedere una dimora all’ente nella sua interezza.
Lo stesso si dica altresì del genio dei popoli che abitano il mondo, la cui pro-
duttività risiede in primo luogo nella capacità di avvertire un destino a tutti comu-
ne, a cui fa seguito l’invito rivolto al singolo popolo di corrispondervi divenendo
capace di storia.
Ciò a dire che la produttività in cui risiede la tempra di un uomo, di un popolo o
di un’epoca non si riduce a una volontà di autoaffermazione, ma trae il proprio vigo-
re dal saper corrispondere nel decoro di un’esistenza a una dimensione recondita che
sopravanza in intensità e gloria ogni potenza e performatività. Qual è dunque l’au-
tentico genio del genio artistico? Che cosa ‘produce’ l’arte? Che cosa il pensiero?

4.2. Chi crea, apre

Sciolto da ogni riferimento a un’arbitrarietà spesso confusa con l’autentica


libertà, il genio si distingue per la singolare disponibilità a prestare ascolto a una
voce silenziosa.
Risalendo a questa origine, il genio può così essere all’unisono con essa levan-
do quel Zauberwort o «parola magica», diceva Joseph von Eichendorff, che tutto
sa raccogliere sino a farne risplendere gli elementi costitutivi in un canto corale in
cui è il mondo a risuonare20.
Viene in mente a questo proposito un breve componimento che chiude lo
splendido resoconto redatto da Edward Estlin Cummings di un proprio viaggio
nell’Unione Sovietica di Stalin e intitolato emblematicamente Eimi – [Io] Sono.
È questa l’eco nell’opera del grande Americano di un pensiero che fa fronte
alla devastazione operata da un regime normalizzatore con l’unica parola capace
di ridestare in ognuno un sentimento del proprio esistere e resistere non solo con-
tro, ma soprattutto a favore di qualcosa.
Perché il fatto di essere non si riduce a una semplice constatazione, ma dice
una pienezza e una disinvoltura di cui è nostro compito comprendere il tenore.

19
G.W.F. Hegel, Estetica, tr. it. di N. Merker e N. Vaccaro, a cura di N. Merker, Einaudi, Torino
1997, t. I, Introduzione all’Estetica, III A/1, p. 40.
20
H.W. Petzet, Le chemin de l’étoile, Editions du Grand Est, Paris 2014, p. 76.
1032 stefano esengrini

Scrive il poeta, in un linguaggio che risente ancora del modo in cui la tradizione
metafisica ha inteso l’origine dell’opera d’arte e che pure prelude a una svolta:
Una voce
(Chi:
Ama;
Crea,
Immagina)
APRE21.

Genio è colui che si accorge di una voce sussurrata, figlia del pudore con cui il
poeta canta le tre modalità eminenti in cui si dà la nostra esistenza. Amare, creare
e immaginare, nel loro comparire tra parentesi, preparano in segreto quel che sarà
un’apertura di mondo.
Meglio: sulla base dell’ascolto dell’essere che informa di sé tanto l’amore
quanto la creazione e l’immaginazione, l’uomo diviene capace di restituire la
‘realtà’ delle cose grazie all’invenzione di una parola o di un accordo con cui il
‘poeta’ riguadagna incessantemente come fosse la prima volta – addirittura propo-
nendone una disposizione mai prima esperita – l’intera compagine dei riferimenti
che mantengono tutto in rapporto nella forma di un kosmos o diadema22.
Così, mimando la natura e identificandosi con essa, il genio sa fare della propria
opera un’origine ancor più decisiva, nella misura in cui è la stessa opera ad aprire e
modulare lo spazio-e-tempo da cui essa trae ispirazione e in cui si trova collocata.
La produttività del genio lascia così che si stagli quell’enigma che è l’ope-
ra d’arte, dal momento che tanto la sua provenienza quanto la sua destinazione
non risultano ricavabili dalla natura meramente imitata o copiata. Esse traggono
piuttosto la loro possibilità da una dimensione a cui l’immaginazione accede com-
piendo un salto per il quale viene meno ogni appoggio all’ente.
A quale spazio e a quale tempo rinvia l’opera nel suo sovvertire l’ordine dato e
istituire armonie più arrischiate oppure tanto iniziali da immedesimarsi con il nulla?

4.3. Il reale alla luce del salubre

All’apertura e darsi dell’essere il genio risponde con una seconda apertura, in cui
la creazione e l’immaginazione, sostenute dall’amore e dalla sua capacità di ascol-
to, lasciano che il mondo si compagini a partire dal proprio segreto. Segreto che

21
E.E. Cummings, Eimi, Liveright, New York - London 2007, p. 452.
22
Assumiamo qui l’espressione greca di kosmos nel senso attribuitole da Eraclito nel fram-
mento 30; è ad esso che si riferisce Beaufret nel suo La nascita della filosofia a chiarimento della
differenza tra il piano dell’essente e quello – introvabile – dell’essere (cfr. J. Beaufret, Dialogo
con Heidegger, vol. I, Filosofia greca, tr. it. di M. Corona, a cura di G. Zaccaria, EGEA, Milano
1992, pp. 31-32).
origine e verità dell’arte 1033

solo il ‘poeta’ sa avvertire, restituendolo nelle sue possibilità più nascoste e, per
tale motivo, più essenziali.
Se sapremo allora accorgerci dei limiti della soggettività e del suo dominio,
potremo assistere alla trasfigurazione del genio – non più espressione culminante
dello sguardo ego-cogitativo, ma, al contrario, indole che anticipa nel proprio col-
po d’occhio il non-ente e ad esso dà forma.
Così l’apertura concessa dalla creazione non è un mero ribollire di forze cao-
tiche, ma la prima traccia di una misura che assicura un fervore nella tonalità
dell’accenno, nella forma cioè di un movimento suggerito, che risulta tanto più
intenso perché non si risolve in alcuna azione specifica, serbando in sé integra la
possibilità della trasformazione in quanto tale.
A dire il vero, solo questa seconda apertura porta a fioritura l’essere, poiché
sa risalire al fondamento che «sonnecchia», dirà ancora Eichendorff, in tutte le
cose, facendole risuonare in un canto di tale nitore e intensità da lasciarle appa-
rire in sé compiute.
Mai come in un simile momento un mortale ha potuto avvertire un richiamo
capace di soddisfare quel bisogno di radicamento che sostiene l’esistenza del sin-
golo uomo e di ogni popolo – che dona loro al contempo lo slancio che li fa freme-
re entro lo spazio compreso tra terra e cielo in cui ci troviamo a insistere, sospesi
come siamo tra un abisso che tutto inghiotte e la levità più libera su cui si inscrivo-
no la nostra parabola e, con essa, anche un nuovo inizio.
Lasciamo la parola, in conclusione, a un aneddoto raccontato da Char, in
cui il poeta fa per primo esperienza della nobiltà che domina nascostamente la
realtà più ordinaria. Essa risveglia in colui che si mantiene vigile l’esigenza di
prestare ascolto a quegli esseri incommensurabili che, proprio in quanto abitano
‘poeticamente’, annunciano la gratuità di «“ciò che viene”, di ciò che è iniziale,
inaugurale»23.
Nel loro testimoniare la presenza di un mondo altro, estraneo ai più e sempre
minacciato nella sua fragilità, questi uomini ‘del mattino’ ci soccorrono chiedendo
la nostra disponibilità e prontezza – a rigore, ogni giorno e in ogni istante – ad
aprire, ad accogliere, a lasciar essere.
Maddalena penitente
Ho cenato dal mio amico, il pittore Jean Villeri. Sono le undici passate. Il metrò mi riporta
a casa. Cambio alla stazione di Trocadero. Appesantito da una piacevole stanchezza, ascol-
to distrattamente risuonare il mio passo nel corridoio delle corrispondenze. All’improvvi-
so una giovane donna, che viene in direzione opposta, mi avvicina dopo avermi, credo,
a lungo fissato. Mi rivolge una domanda perlomeno inattesa: «Non avrebbe un foglio di
carta da lettera, Signore?» Alla mia risposta negativa e, forse, davanti alla mia aria diver-
tita, aggiunge: «Le sembra strano?». Rispondo di no, certo, un pensiero come quello o

23
R. Marteau, Le retour des dieux, «Liberté», 10 (1968), 4, pp. 36-41, qui p. 41.
1034 stefano esengrini

un altro… Con un velo di rimpianto dice: «Eppure!». La sua magrezza, il suo pallore e la
luminosità dei suoi occhi sono estremi. Cammina con la disinvoltura, che è anche la mia,
di chi fa un lavoro sbagliato. Cerco invano in questa figura spiacevole qualche bellezza. È
certo che l’ovale del volto, la fronte, lo sguardo soprattutto, devono attirare l’attenzione,
devono turbare. Ma da qui a informarsi! Non penso che a piantarla in asso. Sono arrivato
davanti al treno per Saint-Cloud e salgo rapidamente. Lei si precipita dietro di me. Faccio
qualche passo nella carrozza per allontanarmi e troncare. Senza successo. Alla stazione di
Michel-Ange-Molitor mi affretto a scendere. Ma quel passo leggero mi segue e mi rag-
giunge. Il timbro della voce si è modificato. Un tono di preghiera senza umiltà. Con alcune
parole calme puntualizzo che le cose devono fermarsi lì. Allora dice: «Lei non capisce, no!
Non è quel che crede». L’aria della notte a cui andiamo incontro conferisce della grazia
alla sua sfrontatezza: «Mi vede a proporre un’avventura galante nei corridoi deserti di una
stazione che la gente si affretta ad abbandonare? – Dove abita? – Molto lontano da qui.
Non lo conosce». Mi torna in mente il ricordo della ricerca degli enigmi, al tempo della
mia scoperta della vita e della poesia. Lo scaccio, irritato. «Non sono tentato dall’impossi-
bile come un tempo (mento). Ho visto troppo soffrire… (che indecenza!)». E la sua rispo-
sta: «Credere di nuovo non significa che vi sarà maggiore sofferenza. Rimanga capace di
accogliere. Non si vedrà morire». Sorride: «Com’è umida la notte!». La sento anch’io. La
rue Boileau, di solito provinciale e rassicurante, è bianca dalla brina, ma invano cerco la
traccia delle stelle nel cielo. Osservo di lato la giovane donna: «Come si chiama, piccola
mia? – Maddalena». A dire il vero, il suo nome non mi ha sorpreso. Avevo terminato nel
pomeriggio Madeleine à la veilleuse, ispirato dal quadro di Georges de La Tour, così attua-
le nella sua interrogazione. Questa poesia mi è costata cara. Come non cogliere in questa
passante ostinata la sua verifica? Già in due occasioni, per altre poesie che mi costarono
particolarmente care, mi capitò la stessa avventura. Non ho alcuna difficoltà a convincer-
mene. L’accesso di uno strato profondo di emozione e di visione è propizio all’insorgere
della realtà nella sua pienezza. Non la si raggiunge senza un qualche ringraziamento all’o-
racolo. Non penso sia assurdo affermarlo. Non sono il solo a cui capiti che vengano accor-
date nel profondo rare prove di questo genere. «Maddalena, è stata molto buona e molto
paziente. Proseguiamo insieme, ancora, vuole?». Camminiamo in un’intelligenza d’ombre
perfetta. Ho preso il braccio della giovane donna e provo tutte le similitudini che risveglia
la sensazione della magrezza. Scompaiono quasi subito, lasciando posto solo all’intensa
solitudine e, al contempo, al completo favore che avvertii quando ebbi messo il punto fina-
le alla composizione della mia poesia. È mezzanotte e mezzo. Avenue de Versailles, la luce
pallida del metrò di Javel sembra salire da terra. «Le dico addio, qui». Esito, ma quel corpo
gracile si libera. «Mi abbracci, me ne andrò via felice…». Prendo la sua testa tra le mani
e la bacio sugli occhi e sui capelli. Maddalena si allontana, scompare in fondo ai gradini
della scala del metrò già in attesa di chiudere le sue porte di ferro. Giuro che tutto questo è
vero e mi è capitato, e non fu senza amore, come racconto, quella notte di gennaio. La real-
tà nobile non si sottrae a chi la incontra per stimarla, e non per insultarla o imprigionarla.
È questa l’unica condizione che non siamo sempre sufficientemente puri da soddisfare24.

24
R. Char, Madeleine qui veillait, in Id., Œuvres complètes, pp. 663-665.
Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, CXII (2020), 4, pp. 1035-1050
ISSN: 00356247 (print) - 18277926 (digital)
DOI: 10.26350/001050_000230

Günter Seubold*

Am Indifferenzpunkt der Kulturen


Heideggers ur-sprüngliche Interpretation
der ostasiatischen Kunst

At the Cultures’ Point of Indifference.


Heidegger’s Original (ur-sprüngliche) Interpretation of East-Asian Art

With the intention of destroying Western metaphysics in order to get to its origin, Heidegger
also encounters East Asian art, which is mainly influenced by Zen Buddhism. This art does
not, like Western art, want to represent the essence of a being, but rather to be a way to reach
the nothing that grants everything. Heidegger even goes so far as to cautiously ask the question
whether, with this «granting nothing», one has not arrived at the point of indifference of East
Asian and Western culture, indeed of culture in general. The treatise examines what everything
Heidegger knew about «East Asian art» and whether such an assumption is justified or not. Hei-
© 2020 Vita e Pensiero / Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore

degger’s presumption, according to the author, of being at the point of indifference of cultures is
certainly fascinating and worthy of discussion. But one cannot answer this presumption in any
other way than through Heidegger’s disapproved «aesthetic» analysis of individual works of art.

Keywords: Martin Heidegger, East Asian Art, Zen Buddhism, Ereignis, Cultures’ Point of
Indifference

Heideggers ursprüngliches Denken wollte nicht nur die abendländische Meta-


physik in Form geschriebener Texte hinterfragen, um auf eine tragfähigere Basis
zu gelangen. Er tat dies auch mit Blick auf die abendländische, vor allem neu-
zeitliche Kunst und Kunsttheorie. Er sah hier in Cézanne und Klee, also in zwei
durchaus »modernen« Künstlern, wertvolle Mitstreiter im Feld der Kunst. Seine
Interpretationen oder Interpretationsversuche wollen zeigen, dass es bei Cézanne
und Klee weder um ein Seiendes in seinem Sein geht noch um bloß abstrakte
Malerei, die keinen genuinen Bezug mehr zur gegenständlichen Welt hat1. Es

*
Alanus Hochschule für Kunst und Gesellschaf, Alfter-Bonn. Email: guenter.seubold@alanus.edu
Received: 18.05.2020; Approved: 19.06.2020.
1
Vgl. hierzu wie zum Folgenden insgesamt G. Seubold, Kunst als Enteignis. Heideggers Weg
zu einer nicht mehr metaphysischen Kunst, 2. Aufl., DenkMal, Bonn 2005.
1036 günter seubold

ging ihm bei diesen Interpretationen um die Frage: Wie gelangt der Mensch zu
einem Seins- und damit Weltverständnis? Solche Interpretationsvorhaben ent-
sprangen also weder einer ästhetischen noch einer kunsthistorischen Einstellung,
sondern einer ontologischen.
Und mit genau dieser ontologischen Intention begegnet Heidegger auch der »ost-
asiatischen« Kunst. Das ist ein durchaus berechtigter Interpretationsansatz, auch
wenn er etliche Fragen evoziert. Der Ansatz ist frag-würdig im ursprünglichen Sinn
des Wortes. Das gilt zunächst schon für den Begriff »ostasiatische Kunst«. Es ist
zunächst zu eruieren, was Heidegger unter »ostasiatischer« Kunst versteht, wie weit
oder eng er diesen Begriff fasst, was konkret er an ostasiatischer Kunst gekannt, was
er erfahren hat. Wichtig in diesem Zusammenhang ist auch, dass man sich Heideg-
gers Interpretationsziel vergegenwärtigt (Punkt 1). In Punkt 2 ist darzulegen, dass
Heidegger die Wesensbestimmung ostasiatischer Kunst ex negativo findet: durch
Kritik an und in Absetzung von der abendländischen Kunst. Danach (Punkt 3) wird
dieses von Heidegger erfragte Wesen durch Differenzierung seiner Strukturmomen-
te erörtert. In drei abschließenden Punkten (4, 5, 6) schließlich ist auf die Problema-
tik der Heideggerschen Interpretation einzugehen.

1. Interpretationsziel und Begriffsumfang »ostasiatischer« Kunst


Über den Heideggerschen Interpretationsversuchen ostasiatischer Kunst hängt
das Damoklesschwert der metaphysisch-ästhetischen, also europäischen Begriff-
lichkeit. So wenigstens hat er es selbst empfunden. Und sogar eine Art warnen-
des Beispiel konnte er anführen: die Versuche des japanischen Philosophen Kuki,
der das »Wesen der japanischen Kunst« mit »Hilfe der europäischen Ästhetik« zu
betrachten suche (uzs 86)2.
Kuki stellt – mit dem Begriffspaar »Sinnliches Scheinen–Übersinnliches« – für
Heidegger das Wesen der japanischen Kunst europäisch dar, er denkt gewisserma-
ßen das europäische Wesen der japanischen Kunst. Dies erweckt bei Heidegger den
Verdacht, »dass auf diesem Weg das eigentliche Wesen der ostasiatischen Kunst
verdeckt und in einen ungemäßen Bezirk verschoben« wird (uzs 102). Demnach ist
hier der von Heidegger auch auf anderen Feldern diagnostizierte metaphysisch-wis-
senschaftlich-technische Imperialismus Europas am Werk: jene Übervorteilung der
»Rest-Welt«, die sich so schnell und ohne große Widerstände diesen Imperialis-
mus, wie im Fall Kuki, zur eigenen Sache macht, indem sie den »europäischen
Begriffssystemen […] nachjagt« (uzs 87). Und Heidegger war ehrlich genug, auch
seine in deutscher Sprache geführten Unterredungen mit Kuki davon nicht ganz
auszunehmen: »Die Sprache des Gesprächs zerstörte fortgesetzt die Möglichkeit,
das zu sagen, was besprochen wurde« (uzs 89).

2
M. Heidegger, Unterwegs zur Sprache, Neske, Pfullingen 1975 (fortan uzs).
am indifferenzpunkt der kulturen 1037

Dies will Heidegger nun aber vermeiden: Ziel der Interpretation soll sein, »das
ostasiatische Wesen der japanischen Kunst […] zu erfahren und zu denken« (uzs
101). Damit aber wird sogleich die Frage aufgeworfen, was konkret – vor aller
Wesenserfahrung – Heidegger an einzelnen ostasiatischen Werken erfahren hat.
Denn zweifellos ist, um möglichst rasch beim Wesen selbst sein zu können, das
Wegschieben des »bloß Empirischen« auch eine – vielleicht sogar grundlegende –
imperiale Gebärde.
Denkenswürdigerweise glaubte Heidegger »das Bezaubernde der japanischen
Welt« in einem Produkt europäischer Technik wahrnehmen zu können: dem Kuro-
sawa-Film Rashomon (vgl. uzs 104)3. Diesen Film hat Heidegger selbst erfahren.
Im Gespräch über die Sprache, mit einem Japaner geführt, stellt sich nun aber
heraus, dass dieser Film schon zu stark europäisiert ist, um durch ihn das Eigen-
tümliche der japanischen Kunst erfahren zu können. Was die japanische Welt »sel-
ber ist« (uzs 106), erfahre man dagegen im Nô-Spiel.
Ein solches aber hat Heidegger niemals gesehen, geschweige denn erfahren.
Er kennt, wie er selbst sagt, nur »eine Schrift darüber« (uzs 104, im Original kur-
siv). »Sie müssten«, sagt der Japaner zum Fragenden, d.h. Heidegger zu Heideg-
ger, »solchen Spielen beiwohnen«. Das aber hat er nicht getan.
Neben dem Film Rashomon und dem bloß vorgestellten Nô-Spiel liebte Hei-
degger den Haiku-Dichter Bashô. So ist überliefert4, dass er Bashôs Wegerfah-
rungen Oku no hosomichi sehr geschätzt hat und dass auf seinen ausdrücklichen
Wunsch hin der japanische Philosoph Tsujimura in Freiburg privatissime über
Bashôs Dichtung und Leben referiert hat. Auch der japanische Germanist Tezuka
musste ihm, während eines Gespräches, ein Haiku von Bashô vorlesen, aufschrei-
ben und Wort für Wort erklären5. Heidegger selbst war des Japanischen nicht
mächtig, was ja besonders für alles – grob gesprochen – Lyrische, wie im Falle
Bashôs, ein gravierendes Manko ist.
Außerdem ist bekannt, dass ihn Hakuins Tuschbild Mama-no-tsugihashi so
sehr berührt hat, dass ihm Tsujimura für sein Haus in Freiburg eine Photographie,
wiederum ein Produkt westlicher Technik, besorgen musste. Tuschbild-Origi-
nale hat er bei seinen Bremer und Münchener Besuchen, hier in der Sammlung
Preetorius, gesehen. Bei japanischen und chinesischen Tuschbildern soll ihn vor
allem das Zusammenspiel von Kalligraphie, diese vor allem unter dem Aspekt der
Semantik der Zeichen verstanden, und Bild beschäftigt haben6.

3
Vgl. auch T. Tezuka, Eine Stunde mit Heidegger. Drei Antworten (1955), in H. Buchner (hrsg.),
Japan und Heidegger. Gedenkschrift der Stadt Meßkirch zum hundertsten Geburtstag Martin Hei-
deggers, Thorbecke, Sigmaringen 1989 (fortan juh), S. 173-180, insbes. S. 177.
4
Vgl. juh 265.
5
Vgl. Tezuka, Eine Stunde mit Heidegger, S. 174 u. 179. Übersetzung (mit Original) auch in
R. May, Ex oriente lux: Heideggers Werk unter ostasiatischem Einfluß, Steiner, Wiesbaden 1989,
S. 82-99.
6
Vgl. juh 264.
1038 günter seubold

Nô-Spiel, Bashôs Haiku-Dichtung und (Hakuins) Tuschmalerei sind nun aber


stark vom Geist des Zenbuddhismus geprägt. Und diese Dominanz des Zenbud-
dhismus in Heideggers Beschäftigung mit der ostasiatischen Kunst fällt auch
bei seinen schriftlich überlieferten Erörterungen auf: Sie wird belegt durch das
mit dem Zen-Meister Hisamatsu veranstaltete Kolloquium7, die darauf folgende
Unterredung8, das mit Tezuka geführte – und von diesem aus dem Gedächtnis pro-
tokollierte – Gespräch9 und auch durch die auf dieses Gespräch bezugnehmende
Heidegger-Schrift Aus einem Gespräch von der Sprache (uzs 83-155). Es ist dies
natürlich von erheblicher Wichtigkeit, wenn man Heideggers Berührung mit der
»ostasiatischen« Kunst richtig beurteilen will. Wie die Begegnung Heideggers mit
der ostasiatischen Kultur letztlich eine Begegnung mit dem Zenbuddhismus ist10,
so ist auch seine Interpretation der »ostasiatischen« Kunst eine Interpretation der
zenbuddhistisch inspirierten und bestimmten Kunst11.

2. Die Wesensbestimmung ostasiatischer Kunst durch Absetzung von der


abendländischen
Heidegger will bei seiner Wesensbestimmung ostasiatischer Kunst alle metaphy-
sisch-ästhetische Überformung vermeiden. Und dies sucht er dadurch zu errei-
chen, dass er das genuin Ostasiatische an der ostasiatischen Kunst in ständiger
Absetzung von der abendländischen Kunst bestimmt. Er definiert die ostasiatische
Kunst zunächst ex negativo: Er sagt, was alles sie nicht ist.

7
M. Heidegger - S. Hisamatsu, Die Kunst und das Denken. Protokoll eines Colloquiums am 18.
Mai 1958 (Alfredo Guzzoni), in juh 211-215.
8
S. Hisamatsu - M. Heidegger, Wechselseitige Spiegelung. Aus einem Gespräch mit Martin Hei-
degger (1958), in juh 189-192.
9
Tezuka, Eine Stunde mit Heidegger, S. 173-180.
10
Vgl. hierzu G. Seubold, Rezension v. H. Buchner (hrsg.), Japan und Heidegger, »Heidegger
Studies«, 7 (1991), S. 137-142, sowie »Sobun«, 327 (1991), Tôkyô, S. 23-28. Dass Heidegger
stark von Laotse angezogen wurde und Passagen aus dessen »Tao-Tê-King« sogar zu übersetzen
suchte, widerspricht dieser Behauptung nicht, sondern bestätigt sie: Ist doch der Zenbuddhismus
dem Taoismus wesensverwandt; er steht ihm näher als dem populären »Religionsbuddhismus«.
Auch in den zenbuddhistisch inspirierten Künsten ist taoistischer »Einfluss« leicht nachweisbar.
Vgl. hierzu Id., Rezension v. T. u. T. Izutsu, Die Theorie des Schönen in Japan. Beiträge zur klas-
sischen japanischen Ästhetik, »Schopenhauer-Studien«, 5 (1995), S. 302-305, insbes. S. 304. Zur
Beziehung »Heidegger-Zen« im allgemeinen vgl. H.-P. Hempel, Heidegger und Zen, Athenäum,
Frankfurt a.M. 1987.
11
Damit ist natürlich nicht alle typisch ostasiatische Kunst erfasst, wohl aber deren Hauptstrang.
Es fehlen etwa die typisch »bürgerlichen« Aufführungskünste »Kabuki« und »Bunraku«, die sich
mit zenbuddhistischem Gedankengut nicht mehr adäquat verstehen lassen. Andererseits aber sind
von Heidegger auch keine Äußerungen zu typisch zenbuddhistischen Künsten, wie etwa der »Teeze-
remonie« (cha-dô) oder dem »Blumenstecken« (ka-dô) überliefert. Zur Plazierung und Gewichtung
der Zen-Künste im Gesamt der japanischen Künste vgl. G. Seubold, Inhalt und Umfang des japani-
schen Kunstbegriffs, »Philosophisches Jahrbuch«, 100 (1993), S. 380-398.
am indifferenzpunkt der kulturen 1039

2.a. Darstellung, Bildhaftes, Gegenständliches

So heißt es in dem von Heidegger autorisierten Protokoll Die Kunst und das
Denken: »Die europäische Kunst ist in ihrem Wesen durch den Charakter der
Darstellung gekennzeichnet. Darstellung, Eidos, Sichtbar machen. Das Kunst-
werk, das Gebilde, bringt ins Bild, macht sichtbar. Statt dessen ist in der ostasia-
tischen Welt die Darstellung ein Hindernis, das Bildhafte, das sichtbarmachende
Bild bedeutet eine Hinderung«12.
Der Begriff eidos beseitigt letzte Zweifel, was Heidegger mit »Darstellung«
meint: die metaphysische Orientierung am Seienden als Seienden, wie sie seit
Platon und vor allem Aristoteles mit dem Begriff mimesis auch für das poe-
tisch-ästhetische Denken maßgeblich geworden ist. Dabei darf der an der mimesis
ausgerichtete Begriff »Darstellung« nicht zu eng gefasst werden: »Darstellung«
meint nicht bloße Abschilderung eines schon Vorliegenden, sondern meint in
seiner höchsten und eigentlichen Form das – wie Heidegger sagt – »Sichtbar
machen«, die sich erst durch die Kunst ins Bild setzende Wahrheit des Seienden.
Das Seiende wird durch die Kunst, wie es Aristoteles am Beginn des ästhetischen
Denkens aufs trefflichste dargelegt und Hegel am Ende aufs nachdrücklichste
bestätigt hat, von allem bloß Akzidentellen befreit und ins Wesen gesetzt. Darauf
vor allem nimmt Heidegger mit eidos Bezug13.
Das alles nun soll für die japanisch-ostasiatische Kunst nicht zutreffen. Sie stellt
– im weiteren Sinne verstanden – zwar auch etwas dar und ist etwas Bildhaftes, doch
dieses soll gerade – im Gegensatz zur abendländischen Kunst – nicht das Wesen die-
ser Kunst ausmachen. Die Darstellung, das Bildhafte sei sogar eine »Hinderung«,
das Genuine dieser Kunst zu erfahren. Folgerichtig wird daher an Rashomon (sie-
he oben) das »Massive der Darstellung« als nichtjapanisch kritisiert. Unter diesem
metaphysischen Gesichtspunkt »Bild, Darstellung, Eidos« sind Photographie und
Film – und allen »Photo-« und »Film-Ästhetikern« möchte man dies ans Herz legen
– nichts wesenhaft Neues in der abendländischen Entwicklung, sondern Vollendung
des früh konzipierten eidos-Charakters alles Seienden.
In diesem Zusammenhang fällt dann bei Heidegger auch immer wieder die
Kategorie des »Gegenständlichen«. Im Film werde »die japanische Welt […] in
das Gegenständliche der Photographie eingefangen und eigens gestellt« (uzs 105).
Das aber sei Teil der »Europäisierung der Erde und des Menschen« (uzs 103),
der technischen Überrumpelung und Übervorteilung der Rest-Welt. Werde alle
abendländische Ästhetik und Kunst vom Gegenständlichen getragen, so vollen-
de sich dieses Gegenständliche aber doch erst in der neuzeitlichen »Subjekt-Ob-
jekt-Relation« (uzs 139). Im Horizont dieser Relation sei es gänzlich unmöglich

12
Heidegger - Hisamatsu, Die Kunst und das Denken, S. 212 f.
13
Zum Bildbegriff vgl. auch M. Heidegger, Hölderlins Hymne »Der Ister«, hrsg. von W. Biemel,
in Gesamtausgabe (Klostermann, Frankfurt a.M. 1975 ff.; fortan ga) 53, 1993, S. 17-19.
1040 günter seubold

geworden, das Wesen der ostasiatischen Kunst zu verstehen und zu erörtern; denn
in der ostasiatischen Kunst werde »nichts Gegenständliches« hervorgebracht14.

2.b. Symbolisches, Sinnbildliches

Das grundlegende metaphysisch-ästhetische Modell ist für Heidegger aber zwei-


schichtig: Das sinnlich Wahrnehmbare lässt das Nichtsinnliche, das Übersinnli-
che, Geistige durchscheinen. Das Bild wird dadurch zum Sinn-Bild, das sinnlich
Dargestellte wird zum Symbol – verstanden in einem weiten Sinn. Die dargestellte
Maus meint nicht allein das abgebildete Tier, sondern fungiert zugleich als Mah-
nung an den Betrachter, vor Gier, Geilheit, Völlerei sich zu hüten; der dargestell-
te Blumenstrauß ist Zeichen der Vergänglichkeit, die dargestellte »realistische«
Landschaft meint auch Unschuld und Unverderbtheit.
Auch der symbolische Charakter fehlt nach Heidegger der ostasiatischen
Kunst. Das Bild bringt nicht nur nichts Gegenständliches hervor – »das Bild ist
zugleich kein Symbol, kein Sinnbild«15.
Das ist nun allerdings eine zum Widerspruch geradezu aufreizende Behaup-
tung. Denn zunächst und zumeist gilt gerade die ostasiatische Kunst als die sym-
bolische Kunst schlechthin – gleichviel ob es sich um Theater, Gemälde oder
Gedicht handelt. Selbst Heideggers Gesprächspartner Tezuka schreibt in seinem
Bericht Eine Stunde mit Heidegger, dass die ästhetische Sensibilität der Japaner
dadurch gekennzeichnet sei, dass sie ihren »konkreten Ausgang […] von […] dem
sinnlichen Empfinden« nehme und das »in der sinnlichen Empfindung Erfasste
symbolischen Charakter bekommt«16. Tezuka beschreibt in seinem Bericht das
spezifisch Ostasiatische der ostasiatischen Kunst mit dem metaphysisch-ästheti-
schen Modell aistheton-noeton. Erst Heidegger setzt hier zu einer Differenzie-
rung an, die Tezuka als Zitat überliefert: »Auch die platonischen Ideen sind etwas
Metaphysisches, das durch das sinnliche Empfinden hindurch wahrgenommen
wird. Bei Platon ist beides allerdings in zwei Bereiche getrennt. In Japan scheint
es eher, als ob beide eins wären«17.
Die Wendung »scheint es eher« bringt deutlich genug die Vagheit und Vor-
läufigkeit des Gemeinten zum Ausdruck. Und auch noch die auf den Besuch
Tezukas zurückgehende Schrift Aus einem Gespräch von der Sprache, für die
Heidegger allein verantwortlich zeichnet, hebt hervor, dass die sich in der Sen-
tenz »Ohne Iro (Phänomen, Farbe, Seiendes) kein Kû (Leere, Offenes, Himmel)«
aussprechende typisch japanische Erfahrung genau dem zu entsprechen scheint,
»was die europäische, d.h. metaphysische Lehre von der Kunst sagt« (uzs 102).

14
Vgl. Heidegger - Hisamatsu, Die Kunst und das Denken, S. 213.
15
Ibidem.
16
Tezuka, Eine Stunde mit Heidegger, S. 175.
17
Ibidem.
am indifferenzpunkt der kulturen 1041

Die Destruktion der ästhetischen Behauptung vom »symbolischen Charakter«


ostasiatischer Kunst wird damit zum Prüfstein der Heideggerschen Behauptung,
die ostasiatische Kunst sei das andere zur abendländischen. Und nur wenn diese
Destruktion gelingt, ist auch das Ziel der Heideggerschen Interpretation, das ost-
asiatische, d.h. nicht ästhetische Wesen der ostasiatischen Kunst zu eruieren, nicht
von vornherein sinnlos.

3. Die ostasiatische Kunst als Weg in das gewährende Nichts


Heideggers Lösung des »Symbol-Problems« bei seiner Interpretation der ostasiati-
schen Kunst ist ein Philosophen-Kabinettstück ersten Ranges. Das Problem musste
sich lösen; denn nichts Geringeres stand für Heidegger am Ende auf dem Spiel als
die Rettung des Anliegens einer von ästhetischen Kategorien freien Interpretation.
Denn hätte sich der »Symbol-Verdacht« als zutreffend erwiesen – die Universalität
der metaphysisch-ästhetischen Kategorien wäre damit dargetan und die Heidegger-
sche Suche nach dem anderen der Metaphysik als sinnlos abgetan worden.
Natürlich war Heidegger von vornherein klar, dass man – und dies sogar ohne
größere Mühe – die ostasiatische Kunst mit den europäisch-ästhetischen Kategorien
aufschlüsseln und erklären kann. Denn der Subjekt-Objekt-»Rahmen«, in den »alles
Ästhetische« gehört, »ist so verfänglich, nämlich umgreifend, dass er auch noch jede
anders geartete Erfahrung der Kunst und ihres Wesens einfangen kann« (uzs 140).
Graf Kuki, der europäisierte Japaner, war hier für Heidegger warnendes Beispiel. Er
erläuterte das Grundwort Iki, indem er »vom sinnlichen Scheinen« sprach, »durch
dessen lebhaftes Entzücken Übersinnliches hindurchscheint« (uzs 101). Daher
geht es Heidegger vor allem um die Frage, ob mit der ästhetischen Betrachtung das
Wesen der ostasiatischen Kunst erfasst oder eben nur etwas Richtiges festgestellt ist.
Für die Beantwortung dieser Frage war Heidegger weniger durch grundlegen-
de Kenntnis und Erfahrung der ostasiatischen Kunst als durch das Gewahren der
Grenzen abendländischer Kunst und Ästhetik vorbereitet. Auf diese Frage war
er vorbereitet durch das Denken dessen, was das »Nicht zu allem Seienden« ist:
durch das Denken des Seins – oder eben auch: des Nichts.
Mit diesem Denkweg im Rücken musste er geradezu von zenbuddhistischen
Gedanken und von der zenbuddhistisch bestimmten Kunst angezogen werden.
Er hatte aber auch das Glück des Tüchtigen, dass er von Fachleuten wie Suzuki,
Tezuka, Hisamatsu besucht wurde, die seine Sprache, und nicht allein die deut-
sche, sprachen, mit denen er seine Fragen besprechen konnte.
Vor allem zwei Dokumente sind für seine Interpretation des spezifisch Ost-
asiatischen der ostasiatischen Kunst von Belang: die 1953/54 entstandene Schrift
Aus einem Gespräch von der Sprache und das von Heidegger und Hisamatsu
autorisierte Protokoll eines Colloquiums am 18. Mai 195818. Das eine Zeugnis

18
Vgl. Heidegger - Hisamatsu, Die Kunst und das Denken, S. 211-215.
1042 günter seubold

interpretiert und korrigiert das andere, und sie können es nur, weil sie auf einer
elementaren Ebene einander entsprechen.
Das genuin Ostasiatische der ostasiatischen Kunst ist in der Heideggerschen
Interpretation ein komplexes Geschehen. Um sich dieses Geschehen verständlich
zu machen, ist angeraten – wie dies auch das Protokoll von 1958 nahelegt –, es in
zwei Momente zu unterteilen.

3.a. Durchbruch zum Nichts: Das Bild als Hinderung

Oben schon wurde die etwas merkwürdig anmutende Sentenz zitiert, dass in der
ostasiatischen Kunst das »sichtbarmachende Bild […] eine Hinderung« sei. Die-
ser Satz wird verständlich durch den grundlegenden Zug des Zenbuddhismus, der
auch die Zen-Kunst bestimmt: des »Ledigseins von aller formhaften Gebunden-
heit«, des »Einbruchs in den Ursprung«, verstanden als »Nichts«19. Die seienden
Dinge, zu denen auch das Kunstwerk zählt, drängen sich in den Vordergrund und
verhindern so die Selbst-, d.h. Nichts-Erfahrung des Menschen.
Dieses »Nichts«, auch unter dem Namen »Sein« geführt20, ist ja bekanntlich
einer der Haupttitel des Heideggerschen Denkens. Hinsichtlich der ostasiatischen
Kunst taucht er nun auch unter anderen Namen auf: als »Leere« (uzs 106 ff.), als
»Schweigen« (uzs 152) oder als »Stille« (uzs 105, 141); oder dies Nichts wird –
auf die Bewegung des Schauspielers bezogen – als »Ruhe« (uzs 107) vorgestellt.
Es sieht nun zunächst so aus, als sei mit dieser »Leere« das für Heidegger Typi-
sche der ostasiatischen Kunst gefunden: Nicht das Bild, nicht das Seiend-Artikulier-
te ist das Wesentliche dieser Kunst, sondern das diesem Seienden zugrundeliegende
Unsichtbare und Nichtartikulierte. Aber eben diesem Unartikulierten widersetzt
sich die Kunst dadurch, dass sie nicht schweigen kann, sondern »etwas«, einen Ton,
ein Wort, einen Pinselstrich, von sich gibt, »etwas« als »seiend« setzt. Was also hat
die Kunst mit dieser Leere zu tun, wenn das konkrete Kunstwerk eine »Hinderung«
ist, in diese Leere, in diese Stille, Ruhe und in das Schweigen zu gelangen?
Hier setzt nun das zweite Moment des Kunstgeschehens ein.

3.b. Anlass für die Bewegung zum Nichts: Das Bild als Ent-hinderung

»Solange der Mensch auf dem Weg zum Ursprung sich findet, ist Kunst als Darstel-
lung des Bildhaften für ihn ein Hindernis. Wenn er aber in den Ursprung eingebro-
chen ist, dann ist die Sichtbarmachung des Eidetischen keine Hinderung mehr; sie

19
Darlegung von Hisamatsu; vgl. ibi, S. 212.
20
Wenngleich der Titel »Sein« vom späten Heidegger als ungemäße Bezeichnung der zu den-
kenden Sache verstanden wird, »denn eigentlich gehört dieser Name in das Eigentum der Sprache
der Metaphysik« (uzs 109). »Für uns [scil. Japaner] ist die Leere der höchste Name für das, was Sie
mit dem Wort „Sein“ sagen möchten« (uzs 109).
am indifferenzpunkt der kulturen 1043

ist dann vielmehr das Erscheinen der ursprünglichen Wahrheit selbst« (Hisamatsu)
– »Das Geschriebene, Gezeichnete ist nicht nur Hinderung, sondern Ent-hinderung,
Anlass für die Bewegung des Selbst zum Ursprung« (Heidegger)21.
Im adäquaten Vollzug dieses »hermeneutischen Zirkels« – mit dem Kunstwerk
soll man in den Ursprung einbrechen; doch nur, wenn man bereits im Ursprung
lebt, kann man das Bild als Anlass für die Bewegung zum Ursprung nehmen – soll
das konkrete Kunstwerk ebenso wenig selbstgenügsam für sich stehen, wie das in
diesem Kunstwerk Dargestellte als Wesen des Seienden genommen werden soll.
Das Bild, das auf dem Bild Dargestellte soll vielmehr ein »Anlass« sein, dass der
Betrachter die Bewegung zum Nichts vollzieht22.
Und damit ist die Bedeutung des genuin japanischen Kunstbegriffs »gei-
dô«, »Kunst-Weg«, artikuliert: »Die Kunst ist ein Weg, wie der Mensch in den
Ursprung einbricht« (Hisamatsu)23. Damit dies gelingt, muss die Kunst eine im
Vergleich zur Alltagswelt ausgezeichnete Stellung innehaben. Darüber hinaus
muss dieser Kunst, damit sie dem Negativismus und der totalen Verweigerung
wie der bloßen Darstellung des Seienden entgeht, aber auch selbst eine spezifische
Verfassung eignen. Das Kunstwerk muss spezifische ästhetische Kriterien erfül-
len, damit es ein Weg zum Ursprung sein kann. Und wenn Heidegger am Film
Rashomon das »Massive der Darstellung« rügt, wenn er moniert, dass »die Dar-
stellung vielfach zu realistisch ist« (uzs 104 f.), dann verweist er auf genau diesen
Punkt: Mit dieser »Darstellung« lässt sich eben nicht in den Ursprung einbrechen,
die Darstellung ist nicht »Anlass« für den Gang in den Ursprung – und daher ist
diese Art von Kunst kein »Weg«, sondern steht selbstgenügsam in sich. Sie ist
somit keine Enthinderung, sondern nur Hinderung.
Der Film hat aber auch, abgesehen davon, dass er nach Heidegger als Film
alles in das Gegenständliche der Photographie einfängt und eigens stellt, »ver-
haltene Gebärden» (uzs 104) – und diese sind sozusagen der letzte Abglanz des
genuin japanischen Nô-Spiels in Rashomon.

21
Heidegger - Hisamatsu, Die Kunst und das Denken, S. 213.
22
Anders also als in der modern-abstrakten westlichen Kunst vollzieht sich die Absetzung von
der darstellenden Kunst nicht über die abstrakt negative Verweigerungsgeste – etwa die leere Lein-
wand, das schwarze Bild oder das auf den Sockel gehobene alltägliche Ding. Solcher Gestus wür-
de ja selbst – durch »Darstellung« des »Negativen« – »positiv« werden. – Es ist daher plausibel,
wenn gelegentlich der Erörterung der ostasiatischen Kunst sofort auch die moderne, insbesondere
»abstrakte« abendländische Kunst angesprochen und die Differenz zur ostasiatischen Kunst gesucht
wird (vgl. ibi, S. 214). Zur Beziehung »moderne abendländische Kunst - Zen(-Kunst)« vgl. auch
S.-B. Park, Analyse der mit Zen vergleichbaren Elemente in der modernen Kunst – mit besonderer
Berücksichtigung der Absoluten Kunst, des Informel und des Happenings, Wuppertal 1989 (Phil.
Diss.); C. Kellerer, Der Sprung ins Leere: Objet trouvé - Surrealismus - Zen, Dumont, Köln 1982;
M.H. Müller-Yao, Der Einfluß der chinesischen Kalligraphie auf die westliche informelle Kunst,
Bonn 1985 (Phil. Diss.); M. Tobey, Japanese Traditions and American Art, »College Art Journal«,
XVIII (1958), 1, S. 20-24; J. Poetter, Zen 49. Die ersten Zehn Jahren, Ausstellungskatalog, Staatli-
che Kunsthalle Baden-Baden, Baden-Baden 1986.
23
Heidegger - Hisamatsu, Die Kunst und das Denken, S. 212.
1044 günter seubold

Einzig zum Nô-Spiel liegen – bislang – konkrete Äußerungen Heideggers zur


ostasiatischen Kunst vor. An einer für das Nô-Spiel typisch stilisierten Geste – des
Hebens der Hand auf die Höhe der Augenbrauen als Be-deutung einer erschei-
nenden Gebirgslandschaft24 – legt er den Bezug der konkreten künstlerischen
Äußerung zum Nichts dar. Das Heben der Hand nennt er eine »Gebärde«, deren
Eigentliches darin zu suchen sei, dass sie »in einem selbst unsichtbaren Schau-
en […] sich so gesammelt der Leere entgegenträgt, dass in ihr und durch sie das
Gebirge erscheint« (uzs 108). Die künstlerische Handlung »trägt« sich der Leere
(alias: dem Sein) »entgegen«; die Leere aber »trägt« sich wiederum der Handlung
»zu« (uzs 108) – und in diesem Geschehen von »Entgegentragen und Zutrag« (uzs
108) »erscheint« das Gebirge25.
Daher ist in dieser Kunst die »Leere […] nicht das negative Nichts«, sondern
sie lässt erscheinen und entspringen: »Verstehen wir Leere als Raumbegriff, dann
müssen wir sagen, dass die Leere dieses Raumes gerade das Einräumende ist, das,
was alle Dinge versammelt«26.
Damit löst sich nun auch das für Heidegger maßgebliche und alles entscheiden-
de »Symbol-Problem« der ostasiatischen Kunst. Die »Leere« spielt hierbei die ent-
scheidende Rolle. Und obgleich durch den Bezug auf die Leere das Andersartige der
ostasiatischen Kunst gegenüber der abendländischen – zumindest der gegenständ-
lichen – dargetan ist, so ist damit aber noch nicht der »Symbol-Verdacht« aus der
Welt geschafft. Er drängt sich damit fatalerweise sogar in den Vordergrund.
So schreibt denn auch Tezuka in seinem Gedächtnisprotokoll: »Der vorhin
erwähnte Symbolcharakter der japanischen Kunst geht letztlich darauf, diese Lee-
re zu symbolisieren«27. Das hätte mit Sicherheit Heideggers Widerspruch hervor-
gerufen. Aber auch Hisamatsus Formulierung dieser Beziehung von Leere und
Dargestelltem ist nicht ganz im Heideggerschen Sinne und daher zumindest noch
klärungsbedürftig: »Die Schönheit eines Kunstwerkes im Zen liegt darin, dass das
Formlose an einem irgendwie Bildhaften zur Anwesung kommt. Ohne diese Anwe-
sung des formlosen Selbst am Formhaften ist das Zen-Kunstwerk unmöglich«28.
Das Formlose, die Leere, das Nichts, kommt im Bildhaften nicht irgendwie zur

24
Heidegger sagt nicht, welchem der ca. 200 Nô-Spiele des spielbaren Repertoires er diese Ges-
te entnimmt. Diese Geste taucht in mehreren Stücken auf, so z.B. in dem Stück »Kumasaka«, in
dem der Hauptdarsteller (shite) nach einem Schwerttanz sein Schwert weglegt und die beschriebene
Handbewegung vollzieht. Diese Gebärde kann aber auch mit dem – für die Nô-Gestik äußerst wich-
tigen – Fächer ausgeführt werden.
25
Damit ist auch das unterschiedliche Ziel der Stilisation in Ost und West bezeichnet: Im Westen
soll das »Eigentliche«, das »Wesentliche« des Seienden herausgearbeitet werden – die Stilisation
führt auf das Seiende zurück; im Osten dagegen soll die Stilisation gerade vom Seienden weg- und
auf das alles Seiende gewährende Nichts hinführen.
26
Heidegger - Hisamatsu, Die Kunst und das Denken, S. 213; vgl. auch M. Heidegger, Die
Kunst und der Raum (1969), hrsg. von H. Heidegger, ga 13, 2002, S. 203-210, hier S. 209.
27
Tezuka, Eine Stunde mit Heidegger, S. 176.
28
Heidegger - Hisamatsu, Die Kunst und das Denken, S. 214.
am indifferenzpunkt der kulturen 1045

»Anwesung« oder wird durch dieses gar symbolisiert: Die Leere ist nach Heidegger
vielmehr das Einräumende, dem alles Bildhafte und Artikuliert-Seiende entspringt.
Und damit lässt sich dann auch das Iki nichtsymbolisch, d.h. nichtmetaphy-
sisch interpretieren. Nach Heidegger erläuterte Kuki das Grundwort Iki, indem
er »vom sinnlichen Scheinen« sprach, »durch dessen lebhaftes Entzücken Über-
sinnliches hindurchscheint« (uzs 101). Kuki erläuterte also das Grundwort Iki
durch das metaphysische Modell aistheton-noeton. Heidegger aber führt Iki auf
das gewährende Nichts bzw. die gewährende Stille zurück: »Iki ist das Wehen der
Stille des leuchtenden Entzückens«, sagt der Japaner, und der »Fragende« ver-
deutlicht: »Das Entzücken verstehen Sie dann wörtlich als Entziehen, Hinzücken
– nämlich in die Stille« (uzs 141)29.

4. Die Interpretation ostasiatischer Kunst im Horizont der Spätphilosophie


Bei dieser Interpretation belässt es Heidegger aber nicht. Allem vorweg gibt hier
zu denken, dass sich seine Äußerungen zum Nô-Spiel in einer Schrift mit dem
Titel Aus einem Gespräch von der Sprache finden, die zudem in dem Sammel-
band Unterwegs zur Sprache veröffentlicht wurde. Doch gibt dies genau den Ort
und Stellenwert wieder, den die ostasiatische Kunst (und nicht nur diese, sondern
ebenso die Kunst Cézannes und Klees) im Denken des späten Heidegger ein-
nimmt. Es geht ihm um das Sein bzw. um die auch mit anderen Worten (Leere,
Nichts, Ereignis…) bezeichnete Sache. Und »nur« in dieser Hinsicht kommt die
ostasiatische Kunst für Heidegger in Betracht.
Mit dieser Kunst und durch diese Kunst versucht Heidegger jenes (in Heideg-
gerscher Terminologie: Jenes) zu erreichen, dass er auch mit der Besinnung auf
Sprache und Technik erreichen will: die Zurücknahme des Seienden und des Seins
in den ermöglichenden »Grund«: das »Ereignis«.
Dafür musste ihm die ostasiatische Kunst, und das kann für ihn auch aus
diesem Grunde nur heißen: die zenbuddhistisch inspirierte Kunst, wie gerufen
erscheinen. Denn selbstverständlich war schon vor Heideggers Interpretation
bekannt, dass in ihr, wie auch aus ihrem theoretischen Selbstverständnis hervor-
ging, der Bezug zum Nichts und die Negation des sich zum Absoluten aufsprei-
zenden »Seienden« konstitutiv ist. In der ostasiatischen Kunst geschieht – dies
nun die Heideggersche Formulierung – »der Abschied von allem „Es ist“« (uzs

29
Dass Iki zunächst – unzureichend, weil missverständlich – mit »das Anmutende« (uzs
140) übersetzt wird, könnte man als mehr oder weniger dezenten Hinweis auf die von Heidegger
erwähnte Studie Oscar Benls verstehen, in der der grundlegende Begriff des Nô-Spiels, yûgen,
mit »Anmut« übersetzt wird. Vgl. O. Benl, Seami Motokiyo und der Geist des Nô-Schauspiels,
Steiner, Wiesbaden 1953, S. 119.
1046 günter seubold

154), weil hier alles Dargestellte, alles Seiende das aus der Leere Gewährte ist
und kein an sich seiendes Faktum30.
In dieser Hinsicht ist es dann auch weniger verwunderlich, dass der japanische
Begriff Iki, der im Gespräch von der Sprache zunächst so eingeführt wird, dass
mit seiner Hilfe »das Wesentliche der ostasiatischen Kunst und Dichtung« (uzs
89) gesagt werden soll, als »das reine Entzücken der rufenden Stille« (uzs 142)
verstanden wird31 – und zugleich gesagt wird, dass »alles Anwesen seine Herkunft
in der Anmut im Sinne des reinen Entzückens der rufenden Stille« habe (uzs 141,
meine Hervorhebung).
Die Herkunft des Anwesens und des Seins aus dem Nichts und Ereignis zu den-
ken ist das Grundanliegen der Heideggerschen Spätphilosophie, nicht nur seiner
Interpretation der ostasiatischen Kunst: Alles ist aus der Stille gewährt, und alles
kann – auch nach zenbuddhistischer Vorstellung – Anlass sein, in den Ursprung
zu gelangen. Die Differenz der Kunstwerke zu allen übrigen Dingen besteht eben
»nur« darin, dass sie eigens, durch das ihnen Charakteristische, in den Ursprung
einzuführen vermögen.
Natürlich wüsste man von Heidegger gerne, welche (ästhetischen) Kriterien es
denn nun sind, die die ostasiatischen Kunstwerke von den alltäglichen Dingen und
auch von den abendländischen Kunstwerken unterscheiden. Statt dessen aber wird
das Iki auf Koto ba – Sprache – zurückgeführt32. Und Heidegger lässt dann mit der

30
Dieses (metaphysische) »Es ist« darf freilich nicht mit dem »Es ist« der dichterischen Sprache
Trakls, Rimbauds, Rilkes und Benns verwechselt werden, das im Seminar zum Vortrag Zeit und Sein
erörtert wurde. Vgl. M. Heidegger, Zur Sache des Denkens, Niemeyer, Tübingen 1976, S. 42 f.
31
Ob diese Bestimmung etwas trifft am Phänomen des mit Iki Bezeichneten, darf bezweifelt
werden. Iki ist einem anderen kunst- und kultursoziologischen Horizont zuzuordnen als die Kunst,
von der Heidegger spricht (Nô, Haiku, Zen-Malerei), nämlich dem bürgerlichen. Die bürgerliche
Kultur gründet zwar in der zenbuddhistisch inspirierten Kunst der Feudalklasse, setzt sich aber auch
nachdrücklich von dieser ab. Wie den spezifisch bürgerlichen Künsten »Kabuki« und »Bunraku«
eignet auch dem, was man mit Iki bezeichnet, das Charakteristische der bürgerlichen Klasse des
neuzeitlichen Japans, die wirtschaftlich prosperiert, politisch aber ohne Einfluss bleibt und – kom-
pensatorisch – dem Amüsement ergeben ist. Dieses Amüsement ist hier jedoch genuin ostasiatisch
zu verstehen: Es ist gepaart mit Entsagung. Iki, das man nur unzureichend, aber am ehesten noch mit
»chic», »kokett«, »raffiniert« wiedergeben könnte, synthetisiert nach Kuki: Koketterie (bitai, als ver-
absolutierte Möglichkeit), Stolz des Samuraigeistes (ikiji) und buddhistische Entsagung (akirame).
Vgl. hierzu den Artikel Ethik und Ästhetik in H. Hammitzsch (hrsg.), Japan-Handbuch, Steiner,
Stuttgart 1990, Sp. 1263 f.; sowie R. Ohashi, Heidegger und Graf Kuki. Zu Sprache und Kunst in
Japan als Problem der Moderne, in H.-H. Gander (hrsg.), Von Heidegger her. Wirkungen in Philo-
sophie - Kunst - Medizin, Frankfurt a.M. 1991, S. 93-104; und die Übersetzung von E. Schinzinger,
Die Struktur des »Iki« von Kuki Shûzô, Tübingen 1985 (Unveröffentl. Magisterarbeit). Zur Frag-
würdigkeit des Heideggerschen Vorgehens vgl. auch O. Pöggeler, Neue Wege mit Heidegger, Alber,
Freiburg i.B. - München 1992, S. 106 f.
32
Das kann man durchaus auf jene Passage des Kunstwerkaufsatzes beziehen, die darlegt,
dass alle Kunst im »Dichterischen« gründet (vgl. M. Heidegger, Der Ursprung des Kunstwerkes,
Reclam, Stuttgart 1977, S. 82-85), darf es aber doch nur analog hierzu verstehen, da das Heidegger-
sche Denken jetzt ein anderes Stadium erreicht hat und auch Sprache grundlegender versteht.
am indifferenzpunkt der kulturen 1047

Übersetzung von Koto als »das Ereignis der lichtenden Botschaft der Anmut« (uzs
142) keinen Zweifel daran, dass er die Interpretation ostasiatischer Kunst voll und
ganz in seine – vor allem durch die Titel »Lichtung« und »Ereignis« geprägte –
Spätphilosophie integriert33.
Heideggers Erörterungen der ostasiatischen Kunst haben also nicht den Cha-
rakter einer Kunstphilosophie, wollen eine solche aber auch gar nicht sein. Dem
Anspruch nach wollen sie das ostasiatische Wesen dieser Kunst eruieren, d.h. die
Bestimmung dieser Kunst von allen abendländisch-ästhetischen Kategorien frei-
halten. Abgesehen aber davon, dass sich Heidegger allein um die zenbuddhistisch
inspirierte Kunst bemüht, muss er sich den – weitaus gravierenderen – Vorwurf
gefallen lassen, dass er sich nicht um die spezifische Verfasstheit der ostasi-
atischen Kunst kümmert, dass er zu rasch zum Wesen der ostasiatischen Kunst
gelangt – und dieses Wesen sich als »nichts« anderes denn als der grundlegen-
de Gedanke seiner Spätphilosophie erweist. Fällt damit nicht der von Heidegger
erhobene Verdacht der europäischen Übervorteilung der ostasiatischen Welt auf
ihn selbst zurück?

5. Das einräumende Nichts (Ereignis): am Indifferenzpunkt der Kulturen?


Die Analogie des Heideggerschen Interpretationsduktus zu der von ihm so ange-
legentlich kritisierten »technischen« Übervorteilung liegt geradezu auf der Hand.
Und doch ist hier alles diffiziler. Dadurch wird die ganze Angelegenheit aber noch
beunruhigender, ja beängstigend: Heidegger glaubt sich nämlich mit dem »Ereig-
nis« und dem »einräumenden Nichts« am Indifferenzpunkt der östlichen und
westlichen Kultur – am Indifferenzpunkt aller Kultur. Genau dort, wo er absolute
Differenz betont, gelangt er – der Philosoph Hegel lässt den Denker Heidegger
nicht los – zur absoluten Identität!
So betont er zunächst (und immer wieder), dass »wir Europäer vermutlich in
einem ganz anderen Haus« als die Ostasiaten wohnen, »zumal für die ostasiati-
schen und die europäischen Völker das Sprachwesen ein durchaus anderes bleibt«
(uzs 90, 113). Und jetzt achte man auf folgende Wendung und Argumentations-
struktur Heideggers (im Gespräch des »Japaners«): »Soweit ich dem, was Sie
sagen, zu folgen vermag, ahne ich eine tiefverborgene Verwandtschaft mit unse-
rem Denken, gerade weil Ihr [scil. Heideggers] Denkweg und seine Sprache so
ganz anders sind« (uzs 136). Folgt man dieser Argumentationsstruktur, so ist bald

33
Bei der Übersetzung von ba mit »(Blüten-)Blätter« ist Heidegger einer falschen, von seinem
Gesprächspartner Tezuka unterstellten Etymologie gefolgt. Ba meint nicht primär »Blätter«, son-
dern »das Periphere im Sinne einer vom Zentrum entfernten und wertlosen Gegend«. Vgl. hierzu
T. Ogawa, Heideggers Übersetzbarkeit in ostasiatische Sprachen, in D. Papenfuss - O. Pöggeler
(hrsg.), Zur philosophische Aktualität Heideggers, 3 Bde., Klostermann, Frankfurt a.M. 1992, Bd.
III, S. 180-196, insbes S. 193 f.
1048 günter seubold

schon kein Halten mehr, auch wenn sich der Durchbruch noch als Versuch und
Vermutung und Zweifel des »Fragenden« (also Heideggers) zu verkleiden und
zurückzunehmen sucht: »Darum sehe ich noch nicht, ob, was ich als Wesen der
Sprache zu denken versuche, auch dem Wesen der ostasiatischen Sprache genügt,
ob am Ende gar, was zugleich der Anfang wäre, ein Wesen der Sprache zur denken-
den Erfahrung gelangen kann, das die Gewähr schenkte, dass europäisch-abend-
ländisches und ostasiatisches Sagen auf eine Weise ins Gespräch kämen, in der
solches singt, das einer einzigen Quelle entströmt« (uzs 93 f.).
Oh doch, er »sieht« und weiß dieses Wesen. Die Übersetzungen von Iki und
Koto im Verlauf des Gesprächs belegen es nur zu deutlich: Der Ursprung der
abendländischen und der Ursprung der ostasiatischen Sprache und Kultur ist ein
und derselbe. Wir schöpfen nach Heidegger aus einer Quelle: dem Ereignis.
Dieser Gedanke ist natürlich nicht von vornherein von der Hand zu weisen.
Er ist faszinierend, ja erregend. Es ist dies aber auch und vor allem ein gefährli-
cher Gedanke, ein Gedanke, der einen erschauern lässt. Er ist gefährlich, weil er
einen Imperialismus im Gefolge haben könnte, der den technischen Imperialis-
mus potenzierte, weil er ihn noch tiefer fundierte, nämlich im Ursprung dessen,
dem, nach Heidegger, auch die Technik sich verdankt – und dabei die Illusion
nährte, den westlichen Imperialismus überwunden zu haben, während er diesen
nur fortführt und verfestigt.
Ist das »Ereignis« tatsächlich der Indifferenzpunkt der östlichen und westli-
chen Kultur, oder erweist sich mit dieser Unterstellung, ja Anmaßung die Hei-
deggersche Interpretation der ostasiatischen Kunst als einer jener »Holzwege«,
die man am besten wieder zurückgeht, um nicht zu viele wertvolle Gewächse zu
zertreten? Hat Heidegger hier »groß geirrt«, weil »groß gedacht«? Wie, nach wel-
chen Kriterien soll man diese Fragen entscheiden? Lassen sich Fragen solcher Art
überhaupt entscheiden?

6. Der »generelle« Gedanke der Heideggerschen Spätphilosophie und die


Unumgänglichkeit der spezifischen Analyse
Die Frage lautet also: Eruiert Heidegger, wie er es intendiert, mit seiner Interpre-
tation tatsächlich das ostasiatische Wesen der ostasiatischen Kunst, oder funktio-
nalisiert und degradiert er diese Kunst zur Exemplifizierung der Kategorien seiner
Spätphilosophie? Und wie anders sollte diese Frage entschieden werden als durch
eine eingehende Interpretation dieser Kunst selbst? Dies aber hat Heidegger nicht
einmal in Ansätzen geleistet. Die wenigen kryptischen Bemerkungen über das
Nô-Spiel (siehe oben) sprechen hier eine deutlich undeutliche Sprache.
Dies alles wäre nicht so gravierend, wenn es nicht auf einem absichtsvollen
Versäumnis Heideggers beruhte. Denn was zunächst wie eine bloße Unterlassung
aussieht, hat bei Heidegger durchaus Methode: Es ist die bewusste und prinzipi-
elle Ablehnung der ästhetischen, stilistischen und kunsthistorischen Analyse der
am indifferenzpunkt der kulturen 1049

Kunstwerke. Und es ist dies der eigentlich kritische und auch alles entscheidende
Punkt der Heideggerschen Interpretation. Durch dieses Manko kann Heidegger,
der angetreten war, das spezifisch Ostasiatische der ostasiatischen Kunst auf-
zuweisen, die ostasiatische Kunst letztlich nicht mehr von der abendländischen
unterscheiden. Denn das ostasiatische Wesen der ostasiatischen Kunst ist für ihn
auch das Wesen der abendländischen Kunst34.
Dabei kann man Heidegger zugeben, dass die ästhetische Analyse das ostasia-
tische Wesen der ostasiatischen Kunst ebenso wenig trifft wie das abendländische
Wesen der abendländischen Kunst. Aber ist man deswegen schon berechtigt, alle
konkreten Kriterien, mag man sie nun »ästhetisch« nennen oder nicht, beiseite zu
schieben, um möglichst rasch zum Wesen vordringen zu können? Das Einklagen
ästhetischer Kriterien meint ja in diesem Zusammenhang nicht das Beugen der
Kunst unter das Joch eines fixen und die Sache verunstaltenden wissenschaftli-
chen Methodenkanons, sondern meint allein das Eingehen auf die Sache, fordert
allein die Einlösung des phänomenologischen Konkretionsgebotes. Nachdem sich
wohl niemand mehr eine Wesensschau als genial-intuitiven Akt vorstellen kann,
ist man kaum anders fähig, zum Wesen zu gelangen, als durch eine explizit durch-
geführte Analyse hindurch 35. Das Wesen muss erscheinen! Dies wenigstens ist
von Hegel zu lernen – und man wird dann immer noch, gegen Hegel, festhalten
können, dass das Wesen damit nicht seines Geheimnischarakters beraubt wird,
sondern dass dieser mit solch einer Analyse nur potenziert werden kann.
Heideggers Aversion gegen dergleichen »ästhetische« Analysen, die Vorstel-
lung, dass mit solch einem Anfang alles verloren sei, dass man mit solch einem
Anfang unmöglich zum »Wesen« vorstoßen könne, ist gänzlich unbegründet, ja
diese Aversion ist für seine Interpretation geradezu verhängnisvoll. Gerade weil er
sich nicht auf die konkrete ästhetische Analyse einlässt und sie mit dem Verdacht
der Übervorteilung strikt ablehnt, bleibt er an allen wichtigen und entscheidenden
Stellen seiner Interpretation naiv-unreflektiert an das Ästhetisch-Technische gebun-
den. Denn festzuhalten ist hier: Es war ein ästhetisch-technisches Produkt, der Film
Rashomon, eines Regisseurs zudem, der auch in Hollywood gelernt hatte, das ihm
den Eindruck des »Bezaubernden« (uzs 104) der japanischen Welt vermittelte. Es

34
So liest man in dem Text Die Kunst und der Raum von 1969, der das Wesen der Plastik als sol-
cher, also undifferenziert nach Ost und West, thematisiert, zentrale Sätze, die auch gelegentlich der
Erörterung der ostasiatischen Kunst hätten geschrieben werden können: »Vermutlich ist jedoch die
Leere […] kein Fehlen, sondern ein Hervorbringen […] Die Leere ist nicht nichts. Sie ist auch kein
Mangel. In der plastischen Verkörperung spielt die Leere in der Weise des suchend-entwerfenden
Stiftens von Orten« (S. 209).
35
Vgl. hierzu K. Tsujimura, Über Yü-chiens Landschaftsbild »In die ferne Bucht kommen Segel-
boote zurück«, in R. Ohashi (hrsg.), Die Philosophie der Kyoto-Schule, Alber, Freiburg i.B. - Mün-
chen 1990, S. 455-469. Tsujimura scheut sich nicht, seine These, das Gemalte sei »Ausdruck des
Nichts« (S. 467), mit ästhetisch-stilistischen Kategorien, wie »Circumspektive« (in Absetzung von
der abendländischen Perspektive), zu belegen. Und man gewinnt hier durchaus nicht den Eindruck,
dies sei eine ästhetische Überformung des ostasiatischen Wesens dieser Malerei!
1050 günter seubold

war ein ästhetisch-technisches Produkt, die Photographie des Hakuin-Gemäldes


mama-no-tsugihashi, das sich Heidegger im eigenen Haus an die Wand gehängt und
dessen Original er nie zu Gesicht bekommen hat. Ist dies nicht eine Art pragmati-
scher Widerspruch? Es ist weiterhin dargelegt worden (siehe oben), dass Heidegger
seine Wesensbestimmung der ostasiatischen Kunst in ständiger Absetzung von den
Bestimmungen abendländischer Kunst und Ästhetik gewinnt – und somit in Abhän-
gigkeit von diesen. Doch damit nicht genug: Der springende und alles entscheiden-
de Punkt seiner Interpretation des Nô-Spiels ist die »geringe Gebärde«, die sich der
Leere entgegenträgt, um so das Gebirge erscheinen zu lassen. Hier wüsste man ger-
ne, warum gerade eine so stilisierte Gebärde das »Erscheinen« ermöglicht und nicht
auch eine anders geartete; man wüsste also gerne mehr über die ästhetischen Krite-
rien dieser Bühnenhandlung. Doch sucht man in diesem Fall vergebens, wie auch
sonst, wenn es bei Heidegger um ästhetische Kriterien geht.
Bei Heideggers Interpretation des Nô-Spiels wird es offenkundig: Nur mit einer
konkreten ästhetischen Analyse lässt sich die Heideggersche Intention einlösen: Die
künstlerische Äußerung, dies gilt in anderer Weise auch für Malerei und Dichtung,
ist bezogen auf die Leere, und diesem Bezug36 verdankt sich das durch die künstleri-
sche Aktion Hervorkommende: das Gebirge, die Landschaft, das Ding. Unter dieser
Voraussetzung »bedarf es nur noch einer geringen Gebärde des Schauspielers, um
Gewaltiges aus einer seltsamen Ruhe erscheinen zu lassen« (uzs 107). Es kommt
hier – dem Phänomen nach – alles auf »das Geringe«, d.h. die Negation alles »Mas-
siven der Darstellung« an. Das »nur noch« der Heideggerschen Wendung ist hier
also nicht in dem Sinne zu verstehen, dass eine geringe Gebärde zwar ausreicht, eine
gewichtige Gebärde aber von Vorteil wäre. Das »Geringe« ist vielmehr konstitutiv
für das Erscheinen aus der Ruhe! Insofern gibt Heidegger – wenn auch in allge-
meinster Form, d.h. unzureichend – ein ästhetisches Kriterium an die Hand, wonach
ein Kunstwerk als »genuin ostasiatisch« beurteilt werden kann37.

36
Diese Beziehung adäquat zu denken bereitet Heidegger immense Schwierigkeiten. Er sagt vor
allem, wie sie nicht zu denken ist. Die größte Gefahr besteht für ihn darin, sich die Beziehung als
»einen nachträglichen Zusammenschluss« vorzustellen (uzs 108). Diese Schwierigkeit taucht auch
an prominenter Stelle, nämlich im 1956 geschriebenen Nachwort zum Kunstwerkaufsatz auf: »In
dem Titel: „Ins-Werk-setzen der Wahrheit“, worin unbestimmt aber bestimmbar bleibt, wer oder
was in welcher Weise „setzt“, verbirgt sich der Bezug von Sein und Menschenwesen, welcher Bezug
schon in dieser Fassung ungemäß gedacht wird« (Heidegger, Der Ursprung des Kunstwerkes, S.
100) Vgl. hierzu auch G. Seubold, Heideggers Analyse der neuzeitlichen Technik, Alber, Freiburg
i.B. - München 1986, insbes. S. 128-132.
37
Zwar bezeichnet Heidegger selbst die metaphysisch-ästhetische Analyse als »in gewisser
Hinsicht unumgänglich«, doch ist »unumgänglich« bei ihm selbst unter dieser Einschränkung nur
negativ gefasst; die ästhetische Vorstellungsweise ist für ihn ein (zunächst noch) notwendiges, leider
nicht hintergehbares Übel: »Denken Sie nur daran, wie unversehens Sie Kukis ästhetische Ausle-
gung des Iki als sachgerechte anerkannten, obzwar sie auf dem europäischen, d.h. metaphysischen
Vorstellen beruht. – Wenn ich Sie recht verstehe, wollen Sie sagen, die metaphysische Vorstellungs-
weise sei in gewisser Hinsicht unumgänglich« (uzs 116).
Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, CXII (2020), 4, pp. 1051-1074
ISSN: 00356247 (print) - 18277926 (digital)
DOI: 10.26350/001050_000160

STUDI DI STORIA DELLA FILOSOFIA

Ivan Adriano Licciardi*

NECESSITÀ E PERSUASIONE IN PARMENIDE

Necessity and Persuasion in Parmenides

In this paper I will inquire the concepts of ἀνάγκη/Ἀνάγκη and πειθώ/Πειθώ in Par-
menides’ lost Περὶ φύσεως. I will focus, in particular, on the fragments of the poem in
which these words recur. I will focus, also, all the fragmets in which recur the substantive
τὸ χρεών and the verb χράω. The aim is to verify if, before Plato’s Timaeus, in which
we have the most important philosophical connection between ἀνάγκη and πειθώ, also
in Parmenides is possible to found a philosophical treatment of these two concepts. I
will try to show that the answer is affirmative. Πειθώ, according to Parmenides, is indis-
solubly tied to Ἀληθείη, therefore to Ἀνάγκη. According to Parmenides, to conclude,
© Vita e Pensiero / Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore

Πειθώ reveals and shows Ἀληθείη.

Keywords: Parmenides, Necessity, Persuasion, Truth

1. Introduzione
Questo studio costituisce la prosecuzione di una mia precedente indagine sul
rapporto tra i concetti di necessità e di persuasione nel Timeo di Platone, a con-
clusione della quale emergeva un concetto di necessità inteso quale proprietà
intrinseca alla materia, per la quale quest’ultima limita e/o resiste all’azione
demiurgica. La materia, in effetti, di per sé priva di fine e di forma, per diventare

*
Università degli Studi di Catania. Mail: licciardiivan@virgilio.it
Received: 05.04.2019; Approved: 04.07.2019; First published online: 02.2020.
Ringrazio la prof. ssa Giovanna R. Giardina e il prof. Gianni Casertano, nonché il referee
anonimo della «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», per aver letto e revisionato il manoscritto del
presente saggio, fornendo preziosi spunti e segnalando gli svarioni ivi presenti. La responsabilità
degli errori e delle imprecisioni presenti in questa stesura finale è, nondimeno, del sottoscritto.
1052 ivan adriano licciardi

sensibile, ossia per costituirsi come fenomeno, necessita di ricevere una determi-
nazione per mezzo dell’attività artigianale del Demiurgo, il quale costituisce la
trasposizione mitica della funzione causale (paradigmatica e, allo stesso tempo,
generativa) delle idee, consistente nel portare a compimento la partecipazione fra
le cose e le idee. La materia quale cieca necessità, tuttavia, è riottosa a ricevere
tale determinazione, sicché interviene un’opera di ‘persuasione’ demiurgica fina-
lizzata a superare la resistenza originaria della materia. Il Demiurgo, pertanto, è
un artigiano la cui attività persuasiva è affine all’attività del vero retore-filosofo
che nel Fedro possiede l’arte psicagogica. Nel Timeo la necessità della materia in
qualche modo si piega alla persuasione demiurgica, che è lo strumento di trasmis-
sione causativa delle idee le quali, in ultima istanza, costituiscono l’essere vero1.
A ritroso di Platone, è nel pensiero del periodo arcaico, e segnatamente in Par-
menide, che troviamo la più significativa, per quanto frammentaria, tematizzazio-
ne dei concetti di ἀνάγκη/Ἀνάγκη e di πειθώ/Πειθώ.
L’obiettivo di questo studio è quello di analizzare le ricorrenze di questi due
termini nel poema parmenideo alla luce dei risultati già acquisiti, e sopra breve-
mente descritti, sul rapporto fra ἀνάγκη e πειθώ nel Timeo di Platone. In altri ter-
mini, si tratta di verificare se anche in Parmenide, come in Platone, in cui ἀνάγκη
e πειθώ possono essere considerati in relazione tra loro ai fini della costituzione
dell’universo, i due concetti vengono posti in reciproca e analoga correlazione. La
risposta, sia detto qui in anticipo, è affermativa.

2. La necessità in Parmenide: lessico e sua interpretazione


Buona parte del lessico della sezione del Περὶ φύσεως riguardante la via
dell’essere ruota, come è noto, attorno al concetto di necessità, che per Parmeni-
de ha valenza logica e, indifferentemente, ontologica. Tutta la rivelazione della
ὁδός dell’essere è caratterizzata, in effetti, da ferrei vincoli logici e, a un tempo,
ontologici. Si tratta di un dato interpretativo comunemente condiviso, se è vero
che una lunga tradizione ha giudicato che Parmenide avrebbe implicitamente
posto le premesse per la fondazione di un modo di pensare che genericamente
potremmo dire dialettico e, forse, per la fissazione di alcuni principi fondamen-
tali della dialettica nel periodo che va da Zenone ad Aristotele (si vd. più avanti,
ad fr. 2). Ecco, di seguito, una veloce rassegna dei luoghi del poema nei quali
ricorre il concetto di necessità.
Il termine ἀνάγκη ricorre 3 volte nel poema, due volte nel fr. 82 e una volta in
10,14. L’indagine lessicale, però, va ampliata. Si devono prendere in considera-
zione, infatti, anche tutte le occorrenze del sostantivo τὸ χρεών («fato, destino,
necessità») e il verbo χράω (in Parmenide troviamo l’uso impersonale, χρή, «è

1
Cfr. Plat., Resp. VI, 508d5; 536d6-7; Sph. 240b3; 261c8.
2
28 B 8,16 e 30 DK. D’ora in poi citerò solo il numero e il verso del frammento.
necessità e persuasione in parmenide 1053

necessario, bisogna, si deve»). Con una morfologia flessionale di volta in volta


differente troviamo, in effetti, il sostantivo femminile ἡ χρεώ (equivalente a ciò
che nel lessico epico è ἡ χρειώ) in 1,51; l’imperfetto indicativo χρῆν (dal verbo
χράω) in 1,55; il participio neutro di χρεώ (forma ionica di χράω), τὸ χρεών,
in 2,11; il presente indicativo χρή in 6,8; il sostantivo τὸ χρέος in 8,9; ancora τὸ
χρεών, in 8,11 e in 8,54; in 8,45 troviamo invece attestata la forma ionica χρεόν.
Iniziamo, dunque, l’esame di queste occorrenze, seguendo l’ordine dei frammenti.
Nel secondo emistichio di 1,51, la Dèa, rivolgendosi a Parmenide, dopo averlo
accolto e aver precisato che non «una sorte maligna» ma, al contrario, «legge e
giustizia» (1,51) lo hanno condotto sulla via che egli sta percorrendo, aggiunge
che «è necessario (χρεώ) che tu tutto apprenda», ossia tanto il cuore che non tre-
ma della ben rotonda verità (Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ, 1,52)3 quanto
le opinioni dei mortali (βροτῶν δόξας, 1,53). Si tratta di un imperativo categori-
co, e precisamente del comando, espresso dalla Dèa, di conoscere l’ἀλήθεια e di
percorrere, nondimeno, tutto il dominio delle esperienze per come queste appaio-
no ai mortali e sebbene non siano dotate di una «certezza vera» (πίστις ἀληθής,
1,53)4. Segue, nei due difficili versi conclusivi del fr. 1 (1,54-55), all’interno dei
quali compare l’infinito χρῆν, la spiegazione di questa necessità di apprendere sia
la verità che le opinioni degli uomini5.
Il testo del proemio del poema di Parmenide ci è giunto in gran parte, come
è noto, tramite Sesto Empirico. Nella costituzione del testo definitivo, tuttavia,
un ruolo non secondario è stato giocato da Simplicio. La citazione del proemio

3
Sul significato, qui, di ἦτορ, cfr. E. Martineau, Le «coeur» de l’ἀλήθεια, «Revue de Philo-
sophie Ancienne», 1 (1968), pp. 33-86; A.P.D. Mourelatos, The Route of Parmenides. A Study of
Word, Image and Argument in the Fragments, Yale University Press, New Haven - London 1970,
pp. 155-158 (il testo è stato successivamente riedito: Id., The Route of Parmenides. Revised and
expanded edition, with a new Introduction, three supplemental Essays, and an Essay by G. Vlastos,
Parmenides Publishing, Las Vegas - Zurich - Athens 2008).
4
Sul fatto che in Parmenide (così come, probabilmente, anche in Empedocle, cfr. W. Jaeger, The
Theology of the Early Greek Philosophers, Clarendon Press, Oxford 1947, pp. 144 e 238, nota 76),
la πίστις esprima un grado epistemologico superiore alla «credenza» (termine con cui viene cor-
rentemente tradotto πίστις quando quest’ultimo viene utilizzato dagli autori del periodo classico) si
rinvia a H. Fränkel, Parmenidesstudien, «Nachrichten von der Gesellschaft der Wissenschaften zu
Göttingen», 30 (1930), pp. 153-192, in particolare p. 162 (successivamente pubblicato in Id., Wege
und Formen frühgriechischen Denkens, München 19551; 19602); W.J. Verdenius, Parmenides. Some
Comments on his Poem, Wolters, Gröningen 1942, p. 49; M. Untersteiner (a cura di), Parmenide.
Testimonianze e frammenti, La Nuova Italia, Firenze 1958 (19672), pp. 126-127. Traducono πίστις
con «certezza» anche G. Reale (a cura di), Parmenide. Poema sulla natura, traduzione di G. Reale,
saggio introduttivo e commentario di L. Ruggiu, Bompiani, Milano 2003 (1a ed. Rusconi, Milano
1991), p. 89 e G. Cerri (a cura di), Parmenide di Elea. Poema sulla natura, introduzione, testo, tra-
duzione e note, BUR, Milano 1999, p. 149 (cfr. anche le pp. 224-225 e 242).
5
Si rimanda a Untersteiner, Parmenide, pp. 126-127; L. R uggiu , Commentario filosofico
al poema di Parmenide «Sulla Natura», in R eale , Parmenide, pp. 153-380, qui pp. 200-209;
C erri , Parmenide, pp. 185-186. Di Ruggiu si veda anche Parmenide, Marsilio Editore, Venezia -
Padova 1974, testo che è stato integralmente ristampato in Id., Parmenide. Nostos. L’essere e gli
enti, edizione rivista e ampliata, Mimesis, Milano - Udine 2014.
1054 ivan adriano licciardi

da parte di Simplicio (citazione che prende avvio a 1,51) coincide, fino a 1,53
(= in Cael. 557,27), con quella parallela di Sesto (adv. Math. VII, 111,7-36)6. I
due versi successivi con i quali Simplicio prosegue la citazione (ἀλλ’ ἔμπης καὶ
ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα / χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα
περῶντα, S impl ., in Cael. 558,1-2) costituiscono un’asserzione intorno alla
necessità (χρῆν) di avere una conoscenza (μαθήσεαι) anche intorno alle parven-
ze (τὰ δοκοῦντα), e sono accolti in DK, come detto, come 1,54-55. Tali versi
non si trovano però in Sesto, il quale prosegue citando dei versi che in DK sareb-
bero stati accolti invece come 7,2-8,2, contenenti il celebre divieto parmenideo di
imboccare la via di ricerca sul non-essere7.
Quanto alla lezione con cui Simplicio, in Cael. 558,2, riporta B 1,55 DK, non
accolgo la congettura di Guthrie, seguito da Perry, Reale e Cerri8 i quali, ai fini
della corretta costituzione del testo, non seguono la lezione πάντα περῶντα, atte-
stata nel codice A (= Mutinensis E III 8) dell’in de Caelo e accolta dall’edito-
re, Heiberg, nonché da Diels e Kranz, ma leggono, con i mss. DEF  9, πάντα περ
ὄντα, cosicché la traduzione di queste ultime tre parole del verso suonerebbe:
«pur tutte essendo» o «restando» (Cerri) nel senso di «permanendo»10.
Per parte mia, mantenendo, invece, la lezione di Heiberg accolta in DK11, inter-
preto i vv. 54-55, che costituiscono un’anticipazione del contenuto della secon-
da parte del poema, quella dedicata all’opinione, nel modo seguente: le cose che
appaiono (τὰ δοκοῦντα)12, delle quali – come viene detto nel v. 53 – non vi è una

6
Le altre fonti che riportano parti del fr. 1 di Parmenide, e cioè D.L., IX 22,8-10 (= 1,51-53 DK),
P lu ., Adv. Col., 1114d10-e1 (= 1,52), P rocl ., in Ti. I 345,15-16 (= 1,52-53) e C lem .A l ., Stromata
V, 9, 59, 6,3-4 (= 1,52-53), a differenza di Sesto e Simplicio, non danno informazioni su ciò che
doveva seguire, nel testo di Parmenide, il v. 53.
7
Sesto e Simplicio, in sostanza, fanno chiudere il proemio in modo diverso, e gli editori moder-
ni hanno optato per la proposta di Simplicio. Per la questione della distribuzione di questi versi si
rimanda a P. Aubenque (sous la dir.), Études sur Parménide, t. I: Le Poème de Parménide, texte,
traduction, essai critique, par D. O’Brien en collaboration avec J. Frère pour la traduction française,
Vrin, Paris 1987, pp. 239-252, e in particolare pp. 239-242.
8
B.M. Perry, Simplicius as a Source for and an Interpreter of Parmenides, Univ. of Washington
Seattle, 1983 (dissertazione di dottorato), p. 399; Reale, Parmenide, pp. 34-40, 88 ss. e 194-209;
Cerri, Parmenide, pp. 149 e 185-186.
9
D = Coislinianus 166; E = Marcianus 491; E2 = Marcianus 491 (correxit Bessario); F =
Marcianus 228.
10
Una posizione a parte occupa invece, in questo dibattito, R. Brague, La vraisemblance du
faux (Parménide, fr. I, 31-32), in P. Aubenque (sous la dir.), Études sur Parménide, t. II: Problèmes
d’interprétation, Vrin, Paris 1987, pp. 56-57, il quale congettura che la lezione da seguire è quella
dei mss. DEF, ma che essa non è πάντα περ ὄντα, bensì πάντ’ ἅπερ ὄντα. Sicché πάντα περ ὄντα
costituirebbe per Brague, in sostanza, un errore di trascrizione.
11
Come fa anche Untersteiner, Parmenide, p. 126 (cfr. ibi, p. 127 per la relativa discussione
in nota).
12
Si tenga presente che nel poema di Parmenide i tre termini della famiglia *δεκ (δόξα,
δοκίμως, δοκοῦντα) non sembrano presentare un’accezione negativa. Del resto, come a suo tempo
ha mostrato G. Redard, Du grec δέκομαι, «je reçois», au sanskrit átka-, «manteau». Sens de la
racine *δεκ, in Aa.Vv., Sprachgeschichte und Wortbedeutung. Festschrift A. Debrunner, Francke,
necessità e persuasione in parmenide 1055

credenza vera, era necessario (χρῆν) che fossero secondo la modalità dell’appa-
renza plausibile (δοκίμως εἶναι); la necessità di questo apparire, si legge nel poe-
ma, è dettata dal fatto che tutte queste cose penetrano attraverso tutto (διὰ παντὸς
πάντα περῶντα), o viceversa che il tutto è compenetrato da ciascuna di esse, al
modo in cui, nella letteratura precedente a Parmenide, ad esempio in Omero, Od.
X, 508, la nave passa attraverso Oceano (δι’ Ὠκεανοῖο περήσῃς,), o nel modo
in cui la lancia aguzza (ὀξὺν ἄκοντα, H om ., Il. XXI, 590) penetra la gambiera
di stagno (κνημὶς κασσιτέροιο, XXI, 592) indossata dai guerrieri per proteggersi
le gambe. Sicché, l’esistere dei molti secondo la modalità dell’apparenza, questo
δοκίμως εἶναι, è raffigurato come un ‘fendere, penetrare’ la Verità che non tre-
ma, ovverosia che non vacilla mai (ἀτρεμής, 1,52, si badi bene, vuol dire anche
«immobile», e in 8,4 viene attribuito a τὸ ἐόν)13.
Da queste prime due occorrenze, come si vede, sembra possibile trarre una
doppia necessità: (1) la necessità di conoscere l’ἀλήθεια e allo stesso tempo di
percorrere il dominio delle esperienze per come queste appaiono ai mortali (χρεὼ
δέ σε πάντα πυθέσθαι, 1,51); (2) la necessità secondo la quale (χρῆν, 1,55) le
cose che appaiono (τὰ δοκοῦντα, 1,54) hanno una loro plausibilità (δοκίμως
εἶναι, 1,55). Questi due modi di intendere la necessità non appaiono slegati tra di
loro, bensì vincolati: è necessario che tu tutto apprenda dal momento che neces-
sariamente anche le cose che appaiono hanno rapporto con la verità. L’imperativo
gnoseologico consegue, pertanto, a una necessità ontologica.
In 2,11 incontriamo la terza occorrenza che ci interessa: si tratta del sostantivo
τὸ χρεών. La Dèa introduce qui l’alternativa fra le sole vie di ricerca pensabili,
«l’una che è e che non è possibile che non sia» (ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ
ἔστι μὴ εἶναι, 2,9), «l’altra che non è e che è necessario che non sia» (ἡ δ’ ὡς
οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι, 2,11), «sentiero14 che, però, a te indico

Bern 1954, pp. 351-362, nel contesto linguistico del periodo arcaico e del VI sec. a.C in particolare,
questi tre termini presentano un valore neutro, non negativo (in opposizione, cioè, a ἐπιστήμη, così
come invece avverrà a partire dal V sec.). In altri termini il verbo δοκεῖν, ancora nel VI sec., presen-
ta un significato assai prossimo a quello di φαίνεσθαι.
13
In Semonide, fr. 7,37 West, ἀτρεμής nel senso di «calmo, immobile» viene detto il mare:
ciò apporta credito all’analogia fra quanto espresso qui da Parmenide, cioè che i molti «fendono»
(περῶντα) la ben rotonda Verità, che dunque da essi è penetrata, e l’immagine del passare attraver-
so l’Oceano di Hom., Od. X, 508. In numerosi altri luoghi, non solo omerici, d’altronde, il verbo
περάω si trova associato a contesti relativi a fiumi, mari e all’elemento liquido in generale: cfr. ibi,
174; VI, 272; XXIV, 118; Hes., Op. 738; Hdt. IV, 115. Brague, La vraisemblance, p. 48, intende il
verbo περάω in questo stesso modo.
14
Prima di Parmenide, in Omero ἀτραπός oltre che significare «sentiero», presenta anche
l’accezione di «scorciatoia» (cfr. Hom., Il. XVII, 743 e XVIII, 565). Inoltre, come sottolinea
Untersteiner, p. 130, il sostantivo ἡ ἀτραπός, derivando dal verbo τραπέω, che significa «pre-
mere, pigiare l’uva» (egli rimanda a Hom., Od. VII, 125, ma cfr. anche Il. XVIII, 565, in cui indica
il sentiero attraversato dai portatori quando vendemmiano), implica l’idea della strada battuta.
Esso può significare, dunque, tanto un sentiero adottato in quanto comoda scorciatoia quanto un
sentiero adottato in quanto già percorso dai molti. Le due accezioni, pur essendo diverse, non
sembrano però fra loro incompatibili. Cfr. anche Cerri, Parmenide, pp. 188-189.
1056 ivan adriano licciardi

essere del tutto inconoscibile (παναπευθέα)» (2,12). La simmetria concettuale e


linguistica fra i versi 9 e 11 è pressoché perfetta. Già Zeller e Mansfeld colsero,
nel fr. 2, la formulazione del principio di non contraddizione15, con la posizione
delle premesse di un sillogismo disgiuntivo (modus tollendo ponens). I due mem-
bri della disgiunzione sono evidentemente i versi 9 e 11; la fondazione della vali-
dità di quanto detto nel primo verso (il quale enuncia una impossibilità) si avrebbe
mediante la determinazione dell’impossibilità espressa nel secondo verso, dove, a
rigore, viene enunciata una necessità negativa, che equivale evidentemente all’im-
possibilità del suo contrario. Questa necessità negativa, che ha natura ontologica,
comporta immediatamente una negatività gnoseologica nel verso 12, a garanzia
della quale si pone la Dèa stessa: l’essere, in quanto tale (o, come dice Parmenide
in 8,29, in quanto autoidentico, ταὐτόν τ’ ἐν ταὐτῶι τε μένον καθ’ ἑαυτό), non
ammette l’esistenza del suo contrario, cioè del non-essere.
La contraddizione fra essere e non-essere si presenta nel fr. 6, nel quale al verso
8 troviamo ancora la necessità, precisamente il presente indicativo χρή. La Dèa
afferma che «è necessario (χρή) dire e pensare l’essere (λέγειν τε νοεῖν τ’ ἐὸν);
l’essere, infatti, è, / il non-essere non è; queste cose ti esorto a considerare» (6,8-
9). Viene qui enunciata, sotto forma di necessità (χρή), la dicibilità e la pensabilità
del solo essere. Al contrario dell’essere, infatti, la non sussistenza del non-essere
ha come conseguenza la negazione della sua pensabilità e dicibilità. In 8,29, come
si è detto poc’anzi, l’essere viene infatti concepito come autoidentico. Nel fr. 3,
peraltro, la Dèa aveva già enunciato l’identità di pensare ed essere (τὸ γὰρ αὐτὸ
νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι), sicché ci troviamo in un contesto teorico in cui «pen-
sare l’essere» non significa porre una scissione fra un pensante e un pensato, un
soggetto conoscente e un oggetto conosciuto, bensì pensare un’identità (τὸ αὐτό),
un processo autoreferenziale (sia qui inteso in senso tecnico, non critico) in cui, da
qualunque punto si prendano le mosse, sia esso il pensare (τὸ νοεῖν), il dire (τὸ
λέγειν) o l’essere (τὸ ἐόν), si viene ricondotti circolarmente («simile a massa di
ben rotonda sfera», εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκωι, viene detto infatti
l’ἐόν in 8,43) sempre al medesimo punto di partenza. In un certo senso, il difficile
fr. 5, che precede l’occorrenza qui in esame, sembra essere in continuità con la
circolarità della dialettica tra pensante e pensato a cui si giunge attraverso l’affer-
mazione dell’autoidentità dell’essere: «indifferente (ξυνόν) è per me / il punto da
cui inizierò (ἄρξωμαι); là, infatti, nuovamente dovrò fare ritorno» (5,2-3).
Immediatamente dopo i versi 8-9 del fr. 6, in cui Parmenide ricorre alla necessità,
si legge il celebre divieto, espresso della Dèa, di percorrere la via del non-essere
(6,10), divieto che è coerente con gli esiti gnoseologici espressi nel fr. 2 (in partico-
lare in 2,12). La Dèa esprime, peraltro, anche un altro divieto, ossia quello di per-
correre un’altra via di ricerca, quella cioè dei mortali a due teste, che vanno errando

15
E. Z eller - R. M ondolfo , Gli Eleati, a cura di G. Reale, La Nuova Italia, Firenze 1967, p.
190; J. M ansfeld , Parmenides Fr. B2,1, «Rheinisches Museum», 109 (1966), p. 95.
necessità e persuasione in parmenide 1057

(6,11-12) nulla sapendo (εἰδότες οὐδὲν), per i quali essere e non-essere vengono
giudicati la stessa cosa (ταὐτόν, 6,15) e non la stessa cosa (κοὐ ταὐτόν, 6,16).
Nel fr. 8 il concetto di necessità ricorre quattro volte: troviamo infatti il sostan-
tivo τὸ χρέος al verso 9, τὸ χρεών ai versi 11 e 54, e infine la forma ionica χρεόν
al verso 45.
In 8,10, dopo aver detto che l’essere non è soggetto a generazione (ἀγένητον,
8,3) e dopo aver escluso che si possa pensare o dire che esso possa avere nascita
(γέννα, 8,6) dal non-essere, in quanto non è possibile dire o pensare che esso non sia
(8,8-9), la Dèa a seguire domanda retoricamente: posto, infatti, che l’essere venga
generato dal non-essere, per quale necessità (χρέος, 8,9) avrebbe dovuto originarsi
in un determinato momento piuttosto che in un altro (8,9-10)? Il ragionamento che
sottende a questa domanda è verosimilmente il seguente: affinché si possa parlare di
nascita dell’essere, occorrerebbe rinvenire una necessità (χρέος) del fatto che tale
nascita avvenga in un determinato momento o in un altro (ὕστερον ἢ πρόσθεν).
In altri termini, per quanto la Dèa non lo dica esplicitamente, l’argomento sembra
presupporre che qualsivoglia generazione avviene necessariamente in una porzione
di tempo16. Non essendo rintracciabile una necessità che dia ragione del fatto che
l’essere sia nato in un momento piuttosto che in un altro, la generazione dell’essere
dal non-essere viene allora concettualmente negata. «Sicché – prosegue la Dèa –
è necessario (χρεών) che l’essere sia in assoluto (πάμπαν) o che non sia affatto
(οὐχί)» (8,11). Ammettere una nascita dell’essere implicherebbe che esso non sia
πάμπαν, ossia «del tutto, completamente, assolutamente». Il requisito richiesto
(χρεών, «è necessario», dice infatti la Dèa) comporta dunque una radicalità nella
concettualizzazione dell’essere che non ammette mezze misure, ovvero che l’essere
possa sorgere o estinguersi in un determinato momento. Se è, è sempre.
La Dèa esige dal suo ipotetico deuteragonista, dunque, che costui, per provare
la sua tesi, non adduca una qualche constatazione fattuale desunta dall’esperienza,
ma una precisa necessità. Detto in altri termini, esige che costui affronti l’ago-
ne sul terreno da lei approntato (o, meglio, sul percorso da lei indicato), ossia
quello dei ferrei vincoli del λόγος, quei vincoli (o catene, ἐν δεσμοῖσιν, 8,31)
attraverso i quali Necessità possente (8,30) tiene ben stretto l’ἐόν nel «limite»
(πεῖραρ, 8,31)17, quelle stesse catene dalle quali Δίκη non lo scioglie (χαλάσασα
πέδηισιν, 8,14), vincolandolo al non nascere, al non perire e all’impossibilità che
nasca qualcosa accanto ad esso18. La necessità logica e quella ontologica, come si
vede, si fondono in un unico punto di vista.
A rinsaldare, del resto, la curvatura prettamente ‘logica’ di questo discorso
troviamo i versi 8,15-18, in cui ricorre per la prima volta nel poema il termine

16
Sulla questione del tempo in Parmenide cfr. L. Ruggiu, Parmenide e il tempo, in Id., Parmenide.
Nostos. L’essere e gli enti, pp. 455-512.
17
Cfr. 8,30-31. Su Ἀνάγκη si dirà più avanti.
18
Cfr. 8,11-15.
1058 ivan adriano licciardi

ἀνάγκη. Dice la Dèa: «la decisione (κρίσις), tuttavia, intorno a queste cose19
consiste in questo: / è o non è; è stato però deciso (κέκριται)20, dunque, come
è necessario (ὥσπερ ἀνάγκη), / che l’una [scil. via] si deve lasciare impensa-
bile e anonima (non è, infatti, / una via vera), mentre l’altra è ed è veritiera». La
scelta fra le due vie non costituisce, pertanto, un che di arbitrario, ma è decreta-
ta secondo necessità (ἀνάγκη). L’accostamento di κρίσις ad ἀνάγκη presenta
forse addirittura, potremmo dire, un che di ossimorico. Una scelta compiuta per
decreto di necessità, infatti, non è a tutti gli effetti una scelta. È un decidersi, a
rigore, per ciò che è stato già deciso (κέκριται). Il fatto che, subito dopo che
in 8,15 è stata evocata κρίσις, troviamo nel verso successivo l’uso del perfetto
κέκριται, immediatamente seguito dalla particella avversativa δέ, può costituire
forse un indizio del fatto che questi due versi propongono una lettura del rapporto
fra κρίσις e ἀνάγκη in termini plausibilmente prossimi a quelli appena illustrati.
Ma torniamo a 8,30, in cui si legge l’espressione κρατερή Ἀνάγκη, «Neces-
sità possente»21. Parmenide sta argomentando, nel contesto di questo verso, sul
fatto che l’essere «non è incompiuto» (οὐκ ἀτελεύτητον, 8,32). Già in 8,4-
6, d’altra parte, la Dèa aveva negato all’essere il predicato dell’incompiutezza,
anche se – a onor del vero – su quest’ultimo dato c’è qualche oscillazione tra le
interpretazioni degli studiosi22. In 8,30-33, si diceva, leggiamo che «Necessità
possente, infatti, / lo tiene nei legami del limite, lo racchiude tutto intorno, /
poiché è stabilito (θέμις) che l’essere non sia senza compimento; / non è, infatti,
manchevole di nulla; non essendo, invece, mancherebbe di tutto»23. In 8,26-30,
la Dèa aveva appena dimostrato che l’essere è «immobile» (ἀκίνητον) e che
«resta ivi saldo» (ἔμπεδον αὖθι μένει)24. Ciò che segue, ovvero 8,30-33, all’in-
terno del quale troviamo la ricorrenza di Ἀνάγκη, contiene, plausibilmente,
l’argomentazione dialettica che dimostra, per via negativa, ciò che è stato appe-
na detto. L’essere è immobile, infatti, perché (οὕνεκεν) non è «incompiuto»
(ἀτελεύτητον), perché «non è manchevole (ἐπιδευές) ‹di nulla›»25. Se fosse
manchevole o bisognoso di qualcosa, infatti, entrerebbe nella spirale del cam-

19
Scil. le cose appena dette, ovvero che l’essere è ingenerato e imperituro.
20
L’impiego, in questi due versi consecutivi, rispettivamente, di κρίσις e di κρίνω riprende
il celebre fr. 7, in cui la Dèa invita il κοῦρος a tralasciare la via dell’abitudine sorta da numerose
esperienze (7,3), e i sensi in generale (cfr. 7,4-5), per giudicare con il λόγος (κρῖναι δὲ λόγωι)
l’argomentazione da lei esposta.
21
Per l’accostamento dell’aggettivo κρατερός ad ἀνάγκη cfr. già Hom., Il. VI, 458; Od. X, 273
(ripreso verbatim in Inni Omerici, in Venerem, 130); Hes., Th. 517; Talete apud Diogene Laerzio,
11 A 1,129-130 DK, il detto: «Necessità è la cosa più forte; infatti domina (κρατεῖ) tutto»; Euripide,
Hel. 514, in cui si legge che «nulla è più forte (ἰσχύειν πλέον) della terribile Necessità».
22
Per lo status quaestionis cfr. C erri , Parmenide, pp. 222-223.
23
Mantengo con Cerri, ibi, pp. 233-235, il μή di 8,33 espunto in DK.
24
Per questa espressione formulare cfr. Hom., Il. XIII, 37, ripreso in modo identico in Od. VIII,
275 (nel v. 274 troviamo δεσμούς, che richiama ἐν δεσμοῖσιν di 8,31).
25
Già Simpl., in Phys. 40,2 interpreta in questo modo la scansione argomentativa di questi versi.
necessità e persuasione in parmenide 1059

biamento e del movimento o, per dirla in altri termini, significherebbe ammet-


tere che l’essere necessita di un qualche riequilibro, il che comporterebbe un
venir meno della sua perfezione26. Inoltre, nell’espressione qui in esame, nella
quale soggetto è la Necessità possente, Parmenide, dopo aver detto che questa
«tiene ‹l’essere› nei legami del limite, lo racchiude tutto intorno», precisa che la
ragione di ciò consiste nel fatto che «è stabilito (θέμις) che l’essere non sia sen-
za compimento». Il termine θέμις ricorre qui per la seconda volta all’interno del
poema. La prima ricorrenza è quella già citata del secondo emistichio di 1,51,
in cui la Dèa, rivolgendosi a Parmenide, lo aveva accolto dicendo che «non una
sorte maligna» (οὔτι σε μοῖρα κακὴ, 1,49) lo ha condotto sulla via che sta per-
correndo, bensì «legge27 e giustizia» (θέμις τε δίκη τε, 1,51). In questo fram-
mento, subito dopo queste parole, la Dèa aggiungeva che «è necessario (χρεώ)
che tu tutto apprenda», e cioè sia la verità sia le opinioni dei mortali. In entrambi
i frammenti dunque, sia nell’1 che nell’8, ἀνάγκη e θέμις si trovano collegati,
sicché l’ambito di ἀνάγκη non coincide affatto con una cieca e irrazionale forza
che si impone arbitrariamente sul corso degli eventi (accezione che, per esem-
pio, non è affatto infrequente nei poemi omerici), ma è strettamente connessa
all’ordine delle cose stabilito dalla legge, dal costume e dall’equità. Tuttavia, in
8,30, così come in 10,14 (passo su cui si riferirà dopo), si legge Ἀνάγκη, e non
ἀνάγκη. In altri termini, nei frammenti 8 e 10 «necessità» è più di un concetto
astratto, è una personificazione divina.
È in questione, qui, quello che Untersteiner ha considerato il passaggio, nella
mentalità greca, dagli Augenblicksgötter, cioè le divinità olimpiche concepite
nella loro immediata concretezza, ai Sondergötter, cioè divinità che esprimo-
no, simultaneamente, concetti (Δαίμων28, Θέμις, Δίκη, Ἀνάγκη, Μοῖρα,

26
Per una ricostruzione in parte simile a quella qui presentata cfr. ibi, 29,8-12 (dove però Parme-
nide non viene esplicitamente nominato) e 30,11-13. Cfr. anche Cerri, Parmenide, p. 232 e Unter-
steiner, Parmenide, p. 149.
27
Qui non si intende la lex positiva, ossia la prescrizione giuridica nel senso tecnico dell’acce-
zione. Θέμις, in Esiodo, è figlia di Urano e Gea (per conseguenza, occupa nella genealogia divina
un ruolo quasi principiale), fu sposa di Zeus dal quale ebbe come figlia, tra le altre, Δίκη (Th. 901,
Pindaro, Ol. XIII, 6), detentrice delle chiavi della porta del giorno e della notte (che nel poema
incontriamo quattro volte, in 1,15; 1,37; 1,51; 8,14) e le Moire (Th. 901), cioè le dèe del destino (e
noi incontriamo Μοῖρα concettualizzata in 1,49 e personificata in 8,37). La connessione tra Μοῖρα
e la sfera del diritto compare oltre che in Omero (Il. IX, 318; Od. XI, 534) e Esiodo (Th. 906 ss.)
anche in Eschilo, Eum. 105. Nei poemi omerici Θέμις rappresenta l’ordine delle cose stabilito dalla
legge, dal costume e dall’equità (e in quest’ultima accezione, credo, venga evocata qui da Parmeni-
de), presiede le assemblee degli uomini e, su comando di Zeus, anche quelle degli Dèi. Θέμις e le
divinità che da lei procedono, pertanto, sono nel poema di Parmenide ben presenti. In Plat., Resp. X,
617c1-2 le Moire vengono definite sorelle di Ἀνάγκη. A partire da Fränkel, Parmenidesstudien, pp.
162-173, è parere ormai diffuso, presso gli studiosi, che Δίκη coincida con Ἀνάγκη e con Μοῖρα.
28
Nell’inno orfico al Δαίμων (inno 73, dove ci si rivolge al dèmone al maschile) – di età
posteriore a Parmenide, risalente forse alla fine del II o all’inizio del III sec. d.C. – vi sono alcune
notevoli tangenze con la Δαίμων del poema di Parmenide: 1) esso è «generatore di tutte le cose»
1060 ivan adriano licciardi

Πειθώ)29. Questo processo di de-personificazione del divino (che in parte è


riscontrabile già in Esiodo, ma che ha la sua acme nel periodo compreso tra
Parmenide e Empedocle) corrisponde plausibilmente, si sostiene spesso, a un
processo di astrazione razionalistica. Nondimeno, per usare le parole di Unter-
steiner, «Parmenide trasporta nel mondo del puro conoscere il polimorfismo
dell’antica dèa pregreca30: essa rimane unità, ma sottoposta a un fecondo pro-
cesso di rifrazione logica»31. In altri termini, il suddetto passaggio esprime una
rinnovata alleanza fra l’umano conoscere e la conoscenza che è propria degli
dèi, perché la Δαίμων illustra a Parmenide una ὁδός che è di verità assoluta,
salda e incontrovertibile. È ancora di là da venire – fondamentalmente a partire
dalla Sofistica – il tempo in cui i Greci cominceranno ad avvertire che gli dèi
olimpi hanno abbandonato gli uomini al loro destino, con tutte le conseguenze
etiche, religiose, gnoseologiche e politiche che questo comportava. Si tornerà
più avanti su Ἀνάγκη, torniamo ora a seguire l’ordine del poema.
Sempre nel fr. 8, e precisamente in 8,44-45, immediatamente dopo i versi nei
quali è presente l’immagine dell’essere quale ben rotonda sfera, si legge la ragio-
ne per la quale l’essere è «a partire dal centro dappertutto uguale (μεσσόθεν
ἰσοπαλὲς πάντηι); infatti, è necessario (χρεόν) che l’essere sia né in qualche
modo più grande né in qualche modo più piccolo, da una parte o da un’altra».
Sono state avanzate varie ipotesi sul significato da dare all’aggettivo ἰσοπαλές.

(παγγενέτης, v. 2), laddove Simpl., in Phys. 34,15-16, alludendo a B 12, in cui Parmenide parla della
divinità che tutto governa (δαίμων ἣ πάντα κυβερνᾶι, 12,10), scrive che essa è «causa efficiente»
(ποιητικὸν αἴτιον, in Phys. 34,13-14, esattamente come in 31,10-11 e in 39,13 in cui, immediata-
mente prima di citare il fr. 12, Simplicio qualifica la Δαίμων come τὸ ποιητικόν) e, soprattutto,
«causa di ogni generazione» (πάσης γενέσεως αἰτίαν, in Phys. 34,14-15); 2) il Δαίμων dell’in-
no presenta una doppia funzione, retributiva («dispensatore di ricchezza», πλουτοδότην, 73,4) e
punitiva allo stesso tempo («e che al contrario raggela la vita dei mortali dalle molte pene», ἔμπαλι
δὲ τρύχοντα βίον θνητῶν πολυμόχθων, 73,4), in modo non troppo dissimile dalla Δίκη parme-
nidea, che in 1,37 viene definita come «colei che punisce severamente» (πολύποινος), e che è una
delle figurazioni della Δαίμων all’interno del poema (ma cfr. anche Anaximand., B 1,4-5 DK); 3) il
Δαίμων dell’inno orfico detiene le chiavi (κληῖδες, 73,6) del dolore e della gioia, esttamente come
Δίκη, in B 1,37, detiene le chiavi (κληῖδας) girevoli della porta del Giorno e della Notte – entrambi
detengono, quindi, le chiavi di un’opposizione. Di queste e probabilmente di altre affinità è rimasta
una certa traccia nella tradizione successiva, se è vero che Menandro retore, nella sua Διαίρεσις
τῶν ἐπιδεικτικῶν, 333,12-15 (nella sezione intitolata ΠΕΡΙ ΤΩΝ ΥΜΝΩΝ ΤΩΝ ΕΙΣ ΤΟΥΣ
ΘΕΟΥΣ), nel III sec. d.C., nel classificare gli inni agli dèi in diversi gruppi, poneva i poemi di Par-
menide e Empedocle accanto ad alcuni tra gli inni orfici all’interno del generale sottogruppo degli
«inni fisici», aventi come oggetto la spiegazione della natura di Apollo o di Zeus [cfr. G. Ricciardelli
(a cura di), Inni Orfici. Arnoldo Mondadori Editore, Milano 20123 (1a ediz. Milano 2000), p. XLVI].
29
Untersteiner, Parmenide, p. LXVII.
30
Untersteiner fa qui riferimento alla Grande Dèa, Potnia mediterranea, preellenica (cfr. P.M.
Schuhl, Essai sur la formation de la pensée grecque, PUF, Paris 1949 (1a ed. Alcan, Paris 1934),
pp. 287 ss., secondo il quale in Parmenide la Δαίμων sarebbe espressione della Potnia, e Ruggiu,
Commentario filosofico, pp. 165-168).
31
Untersteiner, Parmenide, pp. LXVII-LXVIII.
necessità e persuasione in parmenide 1061

Gli interpreti si suddividono, principalmente, in due fronti: (1) coloro i quali


intendono questo essere «dappertutto uguale» in senso dinamico, essendo per
esso attestato il significato, per esempio in Erodoto32, di «uguale nella lotta, pari
in combattimento», sicché l’essere sarebbe da tradursi «dal centro pari a tener
fronte in ogni senso»33, come traduce Guido Calogero, cioè nel senso di «tale che
a partire dal centro avanza in ogni sua parte con uguale energia»34; (2) coloro i
quali, invece, intendono ἰσοπαλές in senso statico, e cioè nel senso di ciò che è
«ugualmente pesante, che presenta ovunque una densità eguale»35. Mi trovo in
parte d’accordo con Untersteiner36 il quale, sulla base di 8,44-45 (versi che costi-
tuiscono l’esplicazione di 8,43-44, cfr. il γάρ), ritiene che sia qui espresso un
superamento della dottrina della condensazione e della rarefazione di Anassime-
ne. L’assunzione di Untersteiner è, invero, piuttosto impegnativa, dal momento
che egli intravvede qui una polemica diretta di Parmenide contro Anassimene.
Per parte mia, ritengo che, pur non essendoci gli estremi testuali per essere sicu-
ri di un riferimento polemico così preciso, resta nondimeno valido il fatto che
anche questo passo conferma che con Parmenide ci troviamo di fronte a un supe-
ramento della concettualità ionica. L’essere non conosce degradazioni o regioni
in cui è presente in modo più o meno consistente, ma è dappertutto omogeneo,
ben equilibrato ed egualmente distribuito. Non sono ammessi strappi, lacerazioni
o differenze, regnando dappertutto una perfetta ἰσονομία37. Ad ogni modo, come
si vede, anche l’affermazione secondo cui l’essere non è né in qualche modo più
grande né in qualche modo più piccolo, da una parte o da un’altra, è vincolata
da una necessità (χρεόν), la quale discende, plausibilmente, da un’altra neces-
sità, cioè quella espressa diverse linee prima, in cui la Dèa ha detto: «sicché, è
necessario che l’essere sia in assoluto o che non sia affatto» (8,11). L’architettura
concettuale del fr. 8, del resto, è notoriamente costruita in modo rigorosissimo.
Sempre nel fr. 8 troviamo, infine, l’ultima occorrenza relativa a χρεών. Si
tratta del v. 8,54, ed è la prima e unica volta in cui la ricorrenza è preceduta da

32
Historiae I 82,19; V 49,41.
33
G. Calogero, Parmenide e la genesi della logica classica, «Annali della Scuola Normale
Superiore di Pisa», S. II, 5 (1936), p. 169.
34
Id., Studi sull’eleatismo, La Nuova Italia, Firenze 19772 (1a ed. Tipografia del Senato, Roma
1932), p. 27. Ha accettato questa interpretazione, tra gli altri, R. Mondolfo, L’infinito nel pensiero
dell’antichità classica, La Nuova Italia, Firenze 1956, pp. 364-366; contra, invece, cfr. G. Casertano,
Parmenide. Il metodo, la scienza, l’esperienza, Guida, Napoli 1978, pp. 195 ss., il quale tuttavia, in due
articoli precedenti, Introduzione ad una nuova lettura di Parmenide, «Annali della Facoltà di Lettere
e Filosofia dell’Università di Napoli», n.s. 1 (1970-1971), pp. 259-265, e Una nuova lettura di Parme-
nide, «Atti dell’Accademia di Scienze Morali e Politiche della Società Nazionale di Scienze, Lettere e
Arti di Napoli» 85 (1974), pp. 379-421, aveva inizialmente accettato la tesi di Calogero.
35
Cfr., per esempio, J. Zafiropulo, L’École éléate. Parménide, Zénon, Mélissos, Les Belles Let-
tres, Paris 1950, p. 113 e n. 172. Si vedano anche le osservazioni di Cerri, Parmenide, pp. 238 ss.
36
Untersteiner, Parmenide, pp. CLXII-CLXIII.
37
Sul rapporto fra queste considerazioni e una possibile interpretazione ‘politica’ dell’ontologia
qui prospettata cfr. Ruggiu, Commentario filosofico, pp. 310 e 373-380.
1062 ivan adriano licciardi

una negazione (si legge, infatti, οὐ χρεών). Non è un caso. Ci troviamo a ridosso
dei versi 50-52, versi che già a partire dalle fonti antiche38 vengono pressoché
unanimemente considerati un intermezzo metodologico che funge da spartiacque
fra la prima e la seconda parte del poema, versi nei quali la Dea afferma: «qui
pongo termine al discorso che si accompagna a certezza e al pensiero / intorno
alla verità; da questo punto le opinioni mortali / devi apprendere, ascoltando l’or-
dine seducente delle mie parole». Pare di capire, a giudizio pressoché unanime
della critica, che la Dea pone qui una chiara cesura fra due parti aventi come
oggetto insegnamenti su cose diverse, ossia il «pensiero intorno a verità» (νόημα
ἀμφὶς ἀληθείης) da un lato, e le «opinioni mortali» (δόξαι βρότειαι) dall’altro
lato. Già nel fr. 1 la Dèa aveva fatto riferimento alle «opinioni dei mortali»; sta-
volta, però, «mortali», cioè caduche, fallaci, umane nel senso deteriore del termi-
ne, cioè precarie, vengono dette le opinioni stesse.
I vv. 8,53-61 sono molto importanti, si diceva, perché in essi vengono posti i
principi che reggono il mondo della δόξα e, in pari tempo, viene enunciato «l’er-
rore dei mortali». Costoro, dopo aver imposto di nominare due forme (μορφαί),
le giudicarono contrarie quanto al loro aspetto (lett. «corpo, struttura», δέμας),
e posero contrassegni (σήματα, da notare la simmetria con 8,2, in cui vengono
introdotti i σήματα dell’essere) in modo separato tra di loro (8,55-56)39. Queste
due μορφαί sono, come è noto, l’«etereo fuoco della fiamma» (8,56) e «notte
oscura» (8,59). Focalizziamo l’incidentale che è presente in 8,54, in cui la Dèa,
dopo aver detto che i mortali hanno imposto di nominare due forme e che le giu-
dicarono contrarie quanto al loro aspetto, aggiunge: «nessuna delle quali ‹era›
necessario (τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν) ‹nominare›, in questo ‹i mortali› hanno
errato». L’errore dei mortali consisterebbe, dunque, nell’aver imposto di nomi-
nare due forme, cosa che però non rispondeva a necessità perché, come ritiene
per esempio anche Gadamer, i mortali non hanno colto che dietro l’apparente
contrarietà delle due μορφαί è sottesa l’unità dell’essere40. Detto diversamente,
accogliendo le parole di Simplicio (ma non per questo accogliendo anche la sua
interpretazione neoplatonica), potremmo dire che Parmenide comprese «per pri-
mo che i due ‹contrari› sono l’essere-uno»41.

38
Cfr., per esempio, Plu., Adv. Col. 1114e10-f1; Phlp., in Phys. 55,28-30 e 110,1-2; Simpl., in
Cael. 558,2-3; in Phys. 30,14-16.
39
Questi contrassegni posti «separatamente» (χωρίς) dai mortali sono, rispettivamente: 1) rela-
tivamente al fuoco, l’esser benigno, molto leggero, a sé medesimo da ogni parte identico e rispetto
all’altro, invece, non identico; 2) relativamente alla notte, l’essere anch’essa per se stessa contraria,
di struttura densa e pesante (cfr. 8,55-59).
40
H.G. Gadamer, Parmenides oder das Diesseits des Seins, «La Parola del Passato», 43 (1988),
pp. 152 ss. e Ruggiu, Commentario filosofico, p. 315.
41
πρότερον ἓν τὸ ὂν δύ’ ἔγνω, Simpl., in Phys. 31,7-8. Su questa scia interpretativa si confronti
anche Cerri, Parmenide, p. 247, in cui, peraltro, viene proposto un fecondo parallelo con Eraclito
(22 B 57 DK).
necessità e persuasione in parmenide 1063

Un ulteriore indizio, peraltro, del fatto che questo ὀνομάζειν due μορφαί
(8,53) costituisca un che di arbitrario viene spiegato efficacemente da Pasquinelli,
il quale osserva che Parmenide usa una serie di verba dicendi: λέγειν, φάσθαι,
φατίζειν, φράζειν e, appunto, ὀνομάζειν. Ora, solamente i primi quattro verbi
vengono utilizzati nella semplice accezione di dire, o di dire cose vere; ὀνομάζειν,
al contrario, qui come probabilmente anche in 9,4, è impiegato nel senso di dare
un nome che risulta arbitrario, non corrispondente a verità42. In 8,53, del resto, si
legge che i mortali «imposero (κατέθεντο) di nominare (ὀνομάζειν) due forme».
In quest’espressione sembra essere presente, in effetti, un che di costrittivo, una
forza, un arbitrio. Non era necessario, dunque, imporre come nome due forme
(μορφαί) e assumere in modo separato (χωρίς) i loro contrassegni (σήματα).
Il che, con tutta evidenza, fa da contraltare al lessico e alla concettualità della
parte del poema avente per oggetto la ὁδός della ἀλήθεια nella quale, come si è
visto, la necessità, logica e ontologica, domina ferrea e inflessibile. Per la prima
volta nel poema, dunque, facciamo esperienza di un’azione non necessaria, che si
discosta apertamente dalla necessità e dalla quale scaturisce un errore; è un’azione
che, non a caso, incontriamo alla fine del fr. 8, allorquando sono appena entrati
in scena i mortali e le loro opinioni. Parmenide, possiamo allora dire, ha pensato
l’essere sia nella sua unità e auto-identità secondo i necessari vincoli imposti dal
λόγος, ciè in quanto τὸ ἐόν, sia nella molteplicità articolata degli enti che lo abi-
tano e delle plausibili, verosimili e accettabili opinioni che i mortali possono avere
su di esso, cioè in quanto κόσμος, senza che però questo implichi che le forme
(μορφαί) e i contrassegni (σήματα) di questo κόσμος plausibile debbano essere
pensati per sé (κατ’ αὐτὸ, cfr. 8,58), separatamente (χωρίς), frantumando dunque
l’unità dell’ἐόν, essendone piuttosto sue «rifrazioni»43. La ‘cesura’ fra la prima e
la seconda parte del poema, oltre che essere chiaramente presente sotto il profilo
metodologico e contenutistico, sembra confermata, dunque, anche sotto il ristret-
tissimo profilo del ‘lessico della necessità’.
Passiamo, adesso, a 10,14, in cui incontriamo l’ultima occorenza di Ἀνάγκη.
Il fr. 9, come è noto, ha per oggetto luce e notte (φάος καὶ νὺξ), ed è in continuità
con la fine del fr. 8. Il fr. 10, invece, era probabilmente l’incipit di una corposa parte
astronomica del poema, purtroppo andata perduta, in cui la Dèa annuncia di voler
esporre la natura dell’etere (10,9) e tutti i contrassegni (σήματα)44 che sono nell’ete-
re (10,9-10); le «opere» (ἔργα, 10,12) «della pura luce splendente del sole» (10,10-
11) e da dove abbiano tratto origine le «opere volubili della luna dall’occhio rotondo

42
Cfr. A. Pasquinelli, I Presocratici, Einaudi, Torino 1958, pp. 404-405; cfr. anche Zeller -
Mondolfo, Gli Eleati, pp. 249-250.
43
L’espressione è di Untersteiner, Parmenide, p. LXVIII.
44
In questo contesto σῆμα (lett.: «contrassegno») sta, plausibilmente per «astro, stella»
(ἄστρον, termine impiegato da Parmenide in 1,26; 10,15; 11,5; 21,3). Hom., Il. XXII, 30, qualifica
come «segno cattivo» (κακὸν δέ τε σῆμα) il «cane di Orione» (κύν’ Ὠρίωνος, XXII, 29), cioè la
stella Sirio, chiamata ἀστήρ in XXII, 26. Cfr. Cerri, Parmenide, pp. 259-260.
1064 ivan adriano licciardi

e la ‹sua› natura» (10,12-13). La Dèa annuncia di voler esporre, poi, anche «donde
sia nato il cielo che tiene tutto intorno» (οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν [μὲν γὰρ]
ἔφυ, 10,13-14)45, e «come Necessità, conducendolo, lo costrinse a far da limite agli
astri (πείρατ’ […] ἄστρων)» (10,14-15). Il cielo, come si vede, svolge da un lato
una funzione onniavvolgente (il cielo lega e vincola gli elementi celesti fra di loro;
ἐπιδέω vuol dire, tra l’altro, anche «fasciare»)46, e dall’altro lato, limitante (il cielo
determina i confini oltre i quali gli astri non possono spingersi nel loro «vagare»,
come per esempio viene detto della luna in 10,12).
Ora, come si è visto in 8,13-15, Δίκη tiene saldamente l’essere entro catene
dalle quali mai esso viene sciolto (χαλάσασα πέδηισιν, 8,14), vincolandolo al
non nascere, al non perire e all’impossibilità che nasca qualcosa accanto ad esso.
A seguire, in 8,30-33, si è visto che la possente Ἀνάγκη mantiene l’essere nei
legami del limite, racchiudendolo tutto intorno, in modo tale che l’essere non sia
senza compimento. Δίκη e Ἀνάγκη costituiscono pertanto, in questi versi del fr.
8, figurazioni di una stessa forza, un concetto o un’entità astratta che in modo
assolutamente vincolante costringe entro certi limiti, ontologici e logici. Alla
luce di quanto si legge nel fr. 10, segue allora che οὐρανός costituisce – sotto il
profilo, potremmo dire, della sua intrinseca δύναμις – il corrispettivo, sul piano
cosmologico, di ciò che Ἀνάγκη è sul piano logico e ontologico. Più precisamen-
te: è Ἀνάγκη a costringere οὐρανός a tenere fermi i confini degli astri e quindi,
a rigore, ne segue che l’aspetto vincolante e contenente sul piano cosmologico
discenderebbe, sotto il profilo causale, dall’aspetto vincolante e contenente che
Ἀνάγκη, nel fr. 8, esibisce sul piano ontologico e logico47. Ἀνάγκη, pertanto,
è presente tanto nella via della ἀλήθεια quanto, con funzione diversa, nella via

45
L’espressione οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα riprende H om ., Od. I, 54, in cui troviamo οὐρανὸν
ἀμφὶς ἔχουσι: Odisseo si trova a Ogigia, dove dimora la ninfa Calipso, figlia di Atlante, il quale
«tiene le grandi colonne che tengono la terra e il cielo divisi (οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχουσι)». Atlan-
te, in questo contesto, funge da pilastro che regge delle immense colonne aventi base sulla terra.
Questa idea di Atlante quale pilastro è presente anche in Eschilo, Prom. 348. Anche in I d ., Th.
517-520, Atlante, «ai confini della terra di fronte alle melodiose Esperidi [scil. nel lontano occiden-
te, o nell’oltretomba, 518]», «per una possente necessità» (κρατερῆς ὑπ› ἀνάγκης, v. 517, che si
trova ripresa in Parmenide, 8,30), «sorregge l’ampio cielo» (οὐρανὸν εὐρὺν ἔχει, v. 517). Sicché
Atlante, sorreggendo il cielo, lo terrebbe separato dalla terra. In Omero, ἀμφίς significa dunque «da
entrambi i lati, dall’una e dall’altra parte». In Parmenide, invece, è οὐρανός a prendere il posto
di Atlante, e l’espressione ἀμφὶς ἔχοντα significa «che tiene intorno», in senso fisico, quindi nel
senso di «ciò che circonda» (περιέχον, così interpretano, per esempio, Untersteiner, Parmenide, p.
CXCIII e C erri , Parmenide, p. 261). E il fatto che tanto Atlante quanto οὐρανός svolgano il loro
ἀμφὶς ἔχειν sotto una «possente necessità», congiuntamente a un’altra circostanza, ossia che Atlan-
te esercita questa opera «ai confini della terra» (πείρασιν ἐν γαίης), mentre οὐρανός, in quanto
corona sferica, fa da limite (πεῖρας) agli astri e a tutto ciò che sta al di sotto di essi, offre ulteriori
addentellati per un confronto testuale fra Esiodo, Th. 517-520, e questi versi di Parmenide. Su questa
concezione di Atlante che sorregge οὐρανός cfr. anche A rist ., Metaph. V 23,19-21.
46
Cfr. Hom., Od. XXI, 391. Come si desume dal fr. 11, il cielo (all’interno del quale si collocano
gli astri e i loro rispettivi movimenti), assieme all’Olimpo, costituisce la parte più esterna del cosmo.
47
Per una lettura non dissimile da quella qui esposta cfr. Cerri, Parmenide, p. 262.
necessità e persuasione in parmenide 1065

della δόξα. Sulle conseguenze ermeneutiche che questo dato comporta, in ordine
all’interpretazione complessiva circa il rapporto fra le due parti del poema, la via
della ἀλήθεια e la via della δόξα, fra logica/ontologia e ‘fisica’, non è dato qui di
discutere in modo approfondito. Mi sembra, tuttavia, che quest’ultimo dato possa
costituire un significativo indizio del fatto che la seconda parte del poema non
contiene affatto un’esposizione sic et simpliciter degli errori dei mortali, bensì la
trasposizione della verità nell’ambito dei fenomeni – o, detto in altri termini, l’e-
sposizione dell’ἀλήθεια considerata, per così dire, nella sua mondità.
Il dato complessivo che emerge dall’analisi dei versi in cui compare la necessi-
tà sembra, in definitiva, il seguente: il rivelarsi di Ἀληθείη sotto forma di Ἀνάγκη
corrisponde al fatto che la verità possiede, in se stessa, un valore di costrizione e di
forza che vincola e produce un legame necessario tra le cose. È una forza di costri-
zione che non si identifica con il cieco arbitrio, ma al contrario con la giustizia
(Δίκη). Ἀληθείη è cogente in quanto è razionale. Sotto questo profilo Parmenide,
pur restando un pensatore arcaico, costituisce tuttavia un importante punto di svol-
ta rispetto ad anteriori forme di concettualizzazione della necessità, in cui questa
compare scissa, se non addirittura contrapposta, all’ordine razionale e morale (si
pensi al già citato passo dell’Elena di Euripide, v. 14, in cui si legge che «nulla è
più forte della terribile Necessità») e, più in generale, all’ordine cosmico (paradig-
matico, per esempio, il v. 12 delle Argonautiche Orfiche, che invero è uno scritto
del V sec. d.C., ma che riflette e rielabora una concettualità arcaica, in cui si legge
che «dapprima ‹vi era› l’implacabile necessità dell’antico Caos», ἀρχαίου μὲν
πρῶτα χάους ἀμέγαρτον ἀνάγκην)48.
La Necessità è cogente, pertanto, in quanto è razionale ma, come vedremo a
seguire, anche in quanto è anche persuasiva.

3. La persuasione in Parmenide: lessico e sua interpretazione


La prima volta in cui, nel poema, si incontra il concetto di persuasione è in
1,39. Le Eliadi49, «adescandola con dolci parole» (τὴν δὴ παρφάμεναι […]

48
Per alcune osservazioni su Ἀνάγκη in Parmenide si rimanda, ancora, a Ruggiu, Commentario
filosofico, p. 186. Per una rapida ricognizione di alcuni aspetti (e significative ricorrenze testuali)
relativi ad Ἀνάγκη nel periodo preparmenideo si veda Ricciardelli, Inni Orfici, p. 244.
49
In Omero non si parla di «Eliadi» in generale, ma vengono menzionate due di loro,
Φαέθουσα e Λαμπετίη, « Lucente» e « Radiante», le quali furono poste da loro padre Ἥλιος
a custodia delle sue mandrie in Sicilia (cfr. Hom., Od. XII, 127-136). Esiodo, fr. 311 Merkel-
bach-West, narra che sette Eliadi, contro il volere del padre e a sua insaputa, consegnarono il
carro del Sole a Fetonte, loro fratello. Costui, inesperto nel condurre il carro, arrecò molti danni
e provocò l’ira di Zeus, che lo fece cadere fulminato alle foci del fiume Eridano. Qui le Eliadi lo
piansero, e per punizione furono trasformate in pioppi e le loro lacrime divennero ambra. Eschilo,
coevo di Parmenide, fece di questo mito l’oggetto di una tragedia, intitolata appunto Le Eliadi,
purtroppo perduta (cfr. frr. 68-73 Nauck). Non è necessario, come giustamente osserva Cerri,
Parmenide, pp. 172-173, supporre che Parmenide derivi meccanicamente dalle fonti suesposte i
1066 ivan adriano licciardi

μαλακοῖσι λόγοισιν, 1,38), «persuasero» (πεῖσαν) Δίκη affinché costei


togliesse la sbarra dal chiavistello delle porte del Giorno e della Notte, «con
prudenza, circospezione» (ἐπιφραδέως). L’espressione τὴν δὴ παρφάμεναι
[…] μαλακοῖσι λόγοισιν (1,38) era probabilmente formulare, se è vero che
ricorre anche in Esiodo, Th. 90 (μαλακοῖσι παραιφάμενοι ἐπέεσσιν), in cui si
fa riferimento alla saggezza dei re, che con le loro parole placano le assemblee
quando devono giudicare su qualche contesa, e nei Poemi Orfici, e precisamente
in Argonautica 1093 (μαλακοῖσι παραιφάμενος ἐπέεσσιν). Il collegamento
testuale più significativo con il testo di Parmenide, probabilmente, è però costi-
tuito dall’inno omerico a Demetra in cui Ermes, su ordine di Zeus, si rivolge
con parole che richiamano da vicino quelle di 1,38 (μαλακοῖσι παραιφάμενοι
ἐπέεσσιν, si legge per la precisione al v. 336 dell’Inno a Demetra, l’espressione
è identica a Th. 90) ad Ade per persuaderlo a lasciare che Persefone torni dal
regno dei morti «alla luce» (ἐς φάος, v. 338) esattamente come verso la luce
(ἐς φάος, in Parmenide l’espressione è identica) le Eliadi, dopo aver lasciato le
dimore della Notte50, conducono Parmenide (cfr. 1,33)51.
Come bisogna intendere il fatto che le Eliadi «persuadono» Δίκη? Forse che
l’ordine inviolabile di Δίκη possa subire una qualche forma di pressione esterna
e, per conseguenza, allentare le strette catene con le quali vincola l’ἐόν alla sua
legge52? Credo che questa ipotesi possa essere ragionevolmente esclusa, sia per
ragioni di generale forma mentis greca nel periodo arcaico53, sia perché que-
sto sarebbe in contrasto con l’architettuta concettuale complessiva del poema,
o perlomeno della parte relativa alla via della verità: si è detto prima, infatti, a
proposito del fr. 8, che Δίκη e Ἀνάγκη (assieme a Θέμις, Μοῖρα, Ἀληθείη,
Πειθώ, Ἀφροδίτη, Θεά) costituiscono figurazioni diverse di una forza, un con-
cetto o un’entità astratta che in modo assolutamente vincolante costringe l’es-
sere entro determinati limiti, ontologici e logici. Δίκη e l’inflessibile Ἀνάγκη,
in particolare nel fr. 8, sembrano fra loro chiaramente legate. È da escludersi
dunque, plausibilmente, il poter concepire (almeno in Parmenide) una Δίκη che

termini della discussione del suo proemio, dato che i miti venivano diffusi da una cultura ancora
prettamente orale, (anche se non è da escludersi una conoscenza diretta). Quel che appare chiaro
è, in Parmenide, un evidente motivo di riscatto delle Eliadi, perché nel mito esse sono associate
all’inganno nei confronti di Ἥλιος, mentre in Parmenide l’impiego delle «dolci parole» (che di
per sé, in linea teorica, non è scisso da una certa funzione ingannatrice) è finalizzato a persuadere
Δίκη ad aprire le porte del Giorno e della Notte, cioè a dar via alla rivelazione.
50
δώματα Νυκτός sarebbe espressione volta a indicare l’abisso dell’Ade. Cfr. H es ., Th. 744, in
cui il poeta di Ascra, riferendosi all’Ade, scrive «di notte oscura la casa terribile» (Νυκτὸς ἐρεμνῆς
οἰκία δεινὰ). Cfr. C erri , Parmenide, p. 173.
51
Cfr. Ruggiu, Commentario filosofico, p. 175, nota 87 e Cerri, Parmenide, p. 178.
52
Cfr. 8,13-14 in cui, nella fattispecie, l’immagine delle catene sta a significare che Δίκη non
concede all’ἐόν né il nascere né il perire.
53
Cfr., ad esempio, in ambito filosofico, Anaximand., B 1,4-5 DK. Su Δίκη nel proemio del poe-
ma parmenideo cfr. Untersteiner, Parmenide, pp. LXXIV-LXXVII.
necessità e persuasione in parmenide 1067

allenti i suoi vincoli. Sembra più plausibile, in realtà, ricondurre questa persua-
sione di Δίκη all’eccezionalità dell’evento che Parmenide sta rievocando, ossia
l’esperienza di una rivelazione straordinaria. La rivelazione della Dèa, infatti,
è un evento di portata eccezionale, riservato a un uomo eccezionale (εἰδότα
φῶτα, 1,26), forse un iniziato54. Del resto, l’analogia formale fra questi versi
del fr. 1 e l’Inno a Demetra poco sopra richiamata riconduce, perlomeno sul pia-
no del simbolismo, a una κατάβασις εἰς Ἅιδου. La discesa nell’Ade, infatti, è
un evento che non è ordinariamente concesso a chi non sia ancora morto. Infatti
vengono ricordate come straordinarie le discese agli inferi di Odisseo nel canto
XI dell’Odissea, di Eracle, di Orfeo e, appunto, di Ermes. Che si tratti di dèi o
di eroi, il minimo comune denominatore è costituito dal fatto che non si tratta di
uomini ordinari, proprio come non-ordinaria è la qualifica che Parmenide attri-
buisce a se stesso nel proemio, cioè un εἰδώς φῶτα. Parmenide, in definitiva,
non sarebbe come gli altri mortali; egli è un sapiente, mentre i mortali posseg-
gono solo opinioni55, e nulla sanno (βροτοὶ εἰδότες οὐδὲν, 6,11)56. Alla luce di
questa chiave interpretativa57, non sembra un caso che, in 1,49, la Dèa avverta
l’esigenza di precisare che Parmenide non è stato condotto su questa ὁδός da
una «sorte maligna» (μοῖρα κακὴ), bensì proprio da θέμις e δίκη (1,51), quella
stessa Δίκη che come si è visto, in 1,37-39, le Eliadi avevano persuaso a togliere
la sbarra dal chiavistello delle porte del Giorno e della Notte. Nel lessico ome-
rico e arcaico in generale, che è anche il lessico di riferimento di Parmenide,
l’espressione μοῖρα κακὴ si trova infatti associata alla discesa agli inferi (cfr.
Hom., Od. XI, 618) e alla morte (cfr. Hom., Il. XIII, 602)58.
C’è da fare, a mio avviso, un’osservazione sul ruolo che Δίκη assume, rispet-
tivamente, nei versi 37-38 e 51 del fr. 1, presentandosi qui una apparente incon-
gruenza consistente in questo: nel primo caso Δίκη viene persuasa con soavi
parole dalle Eliadi ad accogliere Parmenide, mentre nel secondo caso viene detto
che è stata proprio Δίκη a condurre Parmenide sul suo sentiero. Non è presente
però, secondo me, una incongruenza logica nel testo di Parmenide, ma piuttosto

54
W. Burkert, Das Proöimium des Parmenides und die Katabasis des Pythagoras, «Phronesis»,
14 (1969), p. 5, ha sostenuto che l’espressione εἰδώς φῶτα (lett.: «colui che ha visto la luce», quindi
il sapiente) è espressione tecnica della terminologia misterica e designa, appunto, l’iniziato. Cfr.
anche Cerri, Parmenide, p. 170.
55
Cfr. 1,53; 8,51; 8,61.
56
Questa ὁδός, viene precisato nel verso successivo, è lontana dal cammino usualmente battuto
dagli uomini.
57
Cfr. Ruggiu, Commentario filosofico, pp. 169-171 e Cerri, Parmenide, p. 183.
58
In 8,37-38 una Moira vincola l’essere ad essere un intero immobile. L’espressione «non una
sorte maligna» significa allora una sorte buona, una buona Moira, il che va nella direzione della tesi
prima ricordata di Fränkel, secondo cui Δίκη, Ἀνάγκη e Μοῖρα sono modi differenti di designare
un’unica divinità o funzione concettuale. Se vogliamo individuare nel fr. 1 il contraltare simmetrico
a questa μοῖρα κακή, troviamo, in 1,45 (quattro linee prima), che ad accogliere Parmenide vi è una
dèa con animo ben disposto (θεὰ πρόφρων).
1068 ivan adriano licciardi

una circolarità, che vede Δίκη all’inizio del processo, come complemento ogget-
to (cfr. τήν, 1,38) da persuadere affinché possa attuarsi il processo rivelativo e,
simultaneamente, come soggetto che ha condotto Parmenide lungo la ὁδός in cui
riceverà la rivelazione. In mezzo, infine, troviamo un atto di persuasione che non
implica una violazione normativa, ma che conferma, nella sua eccezionalità, pro-
prio le prerogative di θέμις e δίκη, dal momento che la portata eccezionale dell’e-
vento è giustificata, come si è visto, dalla eccezionalità del sapiente che si appresta
a ricevere la rivelazione59. Persuasione e necessità si pongono qui, dunque, non
in antagonismo (come avviene, per esempio, nel processo della costituzione del
cosmo narrato da Platone nel Timeo in cui il Demiurgo persuade la riottosa χώρα,
regno della necessità, ad assumere una forma e un ordinamento razionale somi-
gliante, per quanto possibile, alle idee), bensì come solidali e compartecipi a uno
stesso evento. Vediamo se l’esame delle due rimanenti occorrenze, contenute
entrambe all’interno del fr. 2, conferma questa ipotesi.
Nel fr. 2, si diceva, la Dèa introduce il bivio fra le due sole vie di ricerca pen-
sabili, «l’una che è e che non è possibile non sia» (2,9), «l’altra che non è e che
è necessario non sia» (2,11), in grazia del fatto che l’essere, assunto in quanto
tale, cioè in quanto autoidentico, non può trapassare nel suo contrario, cioè nel
non-essere. Questa seconda opzione costituisce un sentiero «del tutto inconosci-
bile» (παναπευθέα, 2,12).
Ora, immediatamente dopo aver introdotto la prima via di ricerca, cioè la via
dell’essere, la Dèa dice che questa via è «un sentiero di Persuasione» (Πειθοῦς
ἐστι κέλευθος, 2,10)60, «perché si accompagna a Verità» (Ἀληθείηι γὰρ ὀπηδεῖ,
2,10). In 8,15-18, come si è detto, la Dèa – in alcuni versi che concettualmente
sono accostabili al fr. 2 – dirà che «la decisione (κρίσις), tuttavia, intorno a queste
cose61 consiste in questo: / è o non è; è stato però deciso (κέκριται), dunque, come
è necessario (ἀνάγκη), / che l’una si deve lasciare impensabile e anonima (non è,
infatti, / una via vera, (οὐ γὰρ ἀληθής / ἔστιν ὁδός), mentre l’altra è ed è veritie-
ra (ἐτήτυμον)». La ὁδός dell’essere, dunque, è «veritiera» (ἐτήτυμον), mentre
quella del non-essere non è «vera» (ἀληθής). Ma che significa asserire, come fa
la Dèa in questo fr. 2, che a «Verità» (2,10), o alla «Via della Verità» (8,17-18), «si
accompagna» (ὀπηδεῖ) un sentiero di Persuasione?
Un rapido esame di alcune occorrenze del verbo ὀπαδέω nel periodo prece-
dente a Parmenide, in particolare in Omero ed Esiodo, può forse darci qualche

59
Anche a tal proposito, a ben guardare, è presente una circolarità: Parmenide può accedere
oltre la soglia della Porta del Giorno e della Notte in quanto sapiente e, simultaneamente, da questo
accesso riceverà un contenuto di sapienza che la Dèa gli disvelerà nel corso del poema. Il «sapere»,
dunque, sta tanto all’inizio quanto alla fine del processo.
60
Parmenide impiega il sostantivo κέλευθος, oltre che qui, anche in 1,34 e in 6,16.
61
Scil. le cose dette poco prima, e cioè che: 1) l’essere non viene generato né dal non-essere né
dall’essere e 2) che Δίκη non ha concesso all’essere né il nascere né il perire, tenendolo saldamente
nelle catene dalle quali mai esso viene sciolto (cfr. 8,13-15).
necessità e persuasione in parmenide 1069

indicazione in merito. Nel libro II dell’Iliade, ad esempio, incontriamo Euri-


bate di Itaca, araldo (κῆρυξ)62, scudiero e messaggero di Agamennone, che lo
«segue» (ὀπήδει)63; successivamente, nel libro V, troviamo l’arco, cioè l’arma,
che «accompagna» Pandaro, l’abile arciere che aveva ricevuto l’arco in dono
da Apollo64. Nel libro VIII dell’Odissea, poi, incontriamo il valore (ἀρετή) che
accompagna (ὀπηδεῖ) Odisseo65. Ora, nell’ordine, l’araldo, l’arco e il valore
non sono, per usare la posteriore terminologia aristotelica, delle proprietà acci-
dentali di re ed eroi, bensì qualcosa che, in un certo senso, li definiscono e li
rivelano. In Esiodo, in un contesto ideologico votato a conferire il possesso di
un uguale grado di dignità ai poeti e ai re, troviamo che Calliope, l’ultima delle
nove Muse figlie di Zeus menzionate in Th. 77-79, «la più illustre di tutte» (v.
79), «accompagna (ὀπηδεῖ) i re venerati» (v. 80). Qui l’associazione a Calliope
non è incidentale, ma fonda e istituisce un prestigio, un rango e dunque, ancora
una volta, definisce un carattere intrinseco del re (e del poeta). Se le occorren-
ze appena menzionate possono fornire una qualche direzione da intraprendere
nell’interpretazione di 2,10, mi sembra che Parmenide verosimilmente intenda
dire questo: Πειθώ non costituisce un complemento accessorio di Ἀληθείη, ma
qualcosa che vi si associa inscindibilmente, che la caratterizza intrinsecamente,
rivelandola e manifestandola. È qui in questione un modo di concepire il rap-
porto fra verità e persuasione che è, tuttavia, caratteristico del periodo arcaico, e
che subirà, in seguito, degli importanti smottamenti.
Intendo dire: a partire, grosso modo, dal periodo della Sofistica (in particolare
con Gorgia) e della successiva polemica anti-sofistica (Platone e, a diverso titolo,
Aristotele), comincia a farsi strada un concetto di «persuasione» che appare neu-
trale e non intrinsecamente caratterizzato, se non addirittura negativo, come nel
caso dell’Encomio di Elena di Gorgia in cui, come si sa, vengono enumerate una
serie di possibilità e ragioni a partire dalle quali Elena potrebbe plausibilmente
essere stata «persuasa» a lasciare Menelao e Sparta per seguire Paride a Troia.
Sono tutte ragioni, come si sa, che fanno slittare semanticamente il concetto di
«persuasione» verso quello di «plagio»66. A partire da questo fatto, come è altret-
tanto noto, Gorgia costruirà il suo impianto assolutorio ed encomiastico nei con-
fronti di Elena. Platone, a sua volta, sembrerà oscillare fra una concezione negativa

62
Per alcune importanti osservazioni sulla figura del κῆρυξ si veda G. Cerri (a cura di), Omero.
Iliade, BUR, Milano 1999, vol. I, pp. 142-143, in cui viene spiegato che in Omero l’araldo ha fun-
zioni tutt’altro che secondarie, essendo concepito come un ausiliario del potere del re e quasi come
un intermediario tra il re e il popolo.
63
Hom., Il. II, 184.
64
Ibi, V, 216.
65
Hom., Od. VIII, 237. Per le accezioni del verbo ὀπαδέω in Omero cfr. R.J. Cunliffe, A Lexicon
of the Homeric Dialect, Blackie, London 1924, s.v.
66
Cfr. Gorgia (82 B 11,65 DK; 11,74; 11,79; 11,92; 11a,209; 11a,216).
1070 ivan adriano licciardi

(Gorgia, cfr. 463a-466a e 494c-505d) e una positiva (Fedro, 261a7-8 e 271c1067 e,


in un certo senso, Timeo) della persuasione, mentre con Aristotele, nella Retorica,
l’omonima disciplina viene considerata e trattata come lo studio scientifico di ciò
che in ogni argomento è persuasivo, a prescindere dal valore scientifico della tesi
su cui si dibatte (cfr. Rh. I 2, 1355b25-26 e 1355b31-33).
Considerata la questione in questa prospettiva diacronica di più ampio respi-
ro, sembrano allora pienamente perspicue (e condivisibili) le parole di Olof
Gigon, secondo cui il significato di 2,10 è che «solo la verità si lascia dimostrare
in modo persuasivo»68. Questa lettura può essere suffragata da un esame della
struttura del fr. 2, che a una lettura attenta appare perfettamente simmetrica. Si è
detto, infatti, che la via dell’essere è «un sentiero di Persuasione» (2,10), «perché
si accompagna a Verità» (2,10); «l’altra [scil. la via del non-essere] che non è e
che è necessario non sia» (2,11), è un «sentiero che, però, a te indico essere del
tutto inconoscibile» (2,12). Ora, c’è da dire che le fonti del fr. 2 riportate in DK,
ovvero Proclo, Commentario al Timeo (I, 345,18 ss.), e Simplicio, Commentario
alla Fisica (116,25 ss.), non si differenziano dal punto di vista del testo tràdito.
Purtuttavia, è presente in Proclo, in un altro commentario a Platone, nell’in Par-
menidem, una variante molto interessante e significativa ai fini del nostro discor-
so, proprio al v. 12. Mentre Simplicio, e lo stesso Proclo nell’in Timaeum, infatti,
danno παναπευθέα, che significa «del tutto inconoscibile» (è la lezione accolta
in DK e, a seguire, in pressoché tutte le edizioni del testo di Parmenide), Proclo,
in Prm. 1078,5, restituisce παναπειθέα, che significa «del tutto incredibile, del
tutto priva di fiducia, per nulla convincente».
Non si intende entrare nel merito, in questa sede, di una discussione circa la
corretta lezione di 2,1269, ma piuttosto porre in evidenza uno scenario teorico che
conseguirebbe all’adozione della lezione παναπειθέα. Alla luce di questa varian-
te, il v. 12 presenterebbe una perfetta simmetria con il v. 10, nel senso che la via
dell’essere, la quale non è possibile che non sia, è un sentiero di persuasione, ossia
infonde fiducia e adesione razionale, mentre la via del non-essere, la quale è neces-
sario che non sia, è un sentiero70 del tutto privo di fiducia, totalmente incredibile.

67
Cfr. E. Asmis, Psychagogia in Plato’s Phaedrus, «Illinois Classical Studies», 11 (1986), pp.
153-172.
68
O. Gigon, Der Ursprung der griechischen Philosophie von Hesiod bis Parmenides, Benno
Schwabe & Co., Basel 1945, p. 252. Di questo parere è anche Untersteiner, Parmenide, pp. 128-129.
69
Il termine παναπειθέα è un hapax legomenon, e fu accettato come lezione corretta, nel XIX
secolo, da Riaux e Hase. Incerto fra le due lezioni si dichiarò Calogero, Studi sull’eleatismo, p.
17, nota 1, mentre P. Albertelli, Gli Eleati. Testimonianze e frammenti, Laterza, Bari 1939, p. 131,
nota 4 (e, come detto, a partire da lui pressoché tutti gli editori di Parmenide), si è orientato per
παναπευθέα. Cfr. Untersteiner, Parmenide, pp. 129-130.
70
Parmenide impiega a distanza di due linee due termini differenti per designare ciò che noi
intendiamo per «via, sentiero»: la via del non-essere viene qualificata come ἀτραπός che, come si
è detto, implica l’idea della strada battuta dai molti e della comoda scorciatoia. La via dell’essere è
invece qualificata come κέλευθος, che significa anch’esso sentiero, ma in una accezione non carat-
necessità e persuasione in parmenide 1071

Anche l’ultimo passo in esame, 1,52-53, presenta una variante interessante


ai fini di una ricostruzione dei rapporti fra ἀνάγκη e πειθώ. Al v. 53, infatti,
in attribuzione al «cuore che non trema della Verità» (Ἀληθείης […] ἀτρεμὲς
ἦτορ), Teofrasto71, Plutarco72, Sesto Empirico73 e Clemente Alessandrino74 danno
εὐπειθέος in luogo della lezione εὐκυκλέος, che invece è attestata in Diogene
Laerzio75 e Simplicio76, e che è la lezione accolta in DK77. La lezione εὐκυκλέος,
in effetti, ben si accorda con la struttura concettuale del pensiero parmeni-
deo: se, infatti, in 8,43, come si è visto, l’essere viene detto simile a una sfera
(εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκωι), e se essere è verità sono coalescenti,
anche quest’ultima, a sua volta, non potrà che essere «ben rotonda, ben tornita»
(εὐκυκλέος). Mourelatos78, tuttavia, ha optato per la lezione εὐπειθέος, che ha
per lo più il significato di «che si lascia persuadere facilmente, docile, obbedien-
te»79, ma che possiede anche un significato attivo, benché attestato più di rado,
come per esempio, nel III sec. d.C., dal poeta Oppiano di Apamea, ovvero quello
di «persuasivo, che rende docile»80, come per esempio la briglia (o redine) ha la
capacità di rendere più docili (ἐϋπείθεϊ δεσμῷ)81. Nell’accezione più ampia di
«vincolo, catena» noi abbiamo già incontrato il termine δεσμός, in 8,26 e 31, al
plurale, allorquando vincoli sono quelli con cui Necessità trattiene l’essere entro
i legami dell’immobilità e del limite. Pertanto la Verità, che si incontra lungo
la via dell’essere e che intrinsecamente lo caratterizza, è oltre che εὐκυκλέος
anche εὐπειθέος. Quest’ultima variante ha il vantaggio di porre 1,52 in perfetta
simmetria con il verso immediatamente successivo, in cui si legge che Parmenide
deve conoscere, oltre che – come si è detto – il cuore che non trema della verità
persuasiva (εὐπειθέος), anche le opinioni dei mortali (1,52), rispetto alle quali
non c’è una «vera certezza, garanzia» (πίστις ἀληθής, 1,53). La πίστις, infatti,

terizzata (cfr. 6,16) oppure in associazione a un contenuto sapienziale e conoscitivo, cfr. il già citato
1,34, che è una ripresa di Omero, Od. X, 86; cfr. anche Il. III, 406 ed Emp., B 115,54 DK.
71
Phys. Op. fr. 6a Diels.
72
Adv. Col. 1114d10.
73
Adv. Math. VII, 111,35; VII, 114,2.
74
Stromata V, 9, 59, 6,3.
75
Vitae Philosophorum IX 22,9. Cerri, Parmenide, p. 184, pone erroneamente Diogene Laerzio
fra coloro i quali danno la lezione εὐπειθέος.
76
in Cael. 557,26.
77
Esiste, inoltre, la variante εὐφεγγής («splendente, rilucente»), riportata in Proclo, in Ti. I
345,15.
78
Mourelatos, The Route of Parmenides, pp. 155-158.
79
Cfr. per esempio P lat ., Phdr. 2541; Leg. I, 632b7 e IV, 715c2, ma anche il ‘nome parlante’
Εὐπείθης, H om ., Od. I, 383, che è padre di Ἀντίνοος, nome che, a sua volta, significa «di carattere
opposto, contrario, resistente».
80
Intende così questa variante in Parmenide anche Cerri, Parmenide, p. 184, il quale traduce con
«ben convincente».
81
Cynegetica I, 313, su cui cfr. A. Garzya, Sull’autore e il titolo del perduto poema Sull’Aucupio
attribuito ad Oppiano, «Giornale Italiano di Filologia», 10 (1957), pp. 156-160.
1072 ivan adriano licciardi

a prescindere dalla gradazione ‘epistemologica’ che a essa si attribuisce (forte


in Parmenide e nel lessico arcaico, via via più debole da Platone in poi, per non
parlare poi del Cristianesimo, in cui πίστις designa propriamente la «fede» e,
per conseguenza, si situa al polo opposto di ἐπιστήμη/scientia) è il prodotto di
un’opera di persuasione82, e la contrapposizione fra ἀλήθεια e δόξα si caratte-
rizza, pertanto, a partire da un loro rapportarsi diametralmente opposto a πειθώ.
Quest’ultima, infatti, risulta fededegna in quanto «segue» ἀλήθεια; nella δόξα,
invece, che non è accompagnata da πειθώ, non v’è nessuna certezza o garanzia
(πίστις). Sembrerebbe dunque confermata e ulteriormente inverata la posizione
che Gigon ha espresso a proposito di 2,10, secondo cui in Parmenide «solo la
verità si lascia dimostrare in modo persuasivo»83.

4. Epilogo
Dai passi parmenidei citati e discussi appare con una certa chiarezza che, lungo la
via dell’essere, si incontra, oltre che Ἀνάγκη, la quale per certi versi la egemo-
nizza, anche Πειθώ. Quale significato associare a questa ulteriore funzione della
dèa che Parmenide mostra nel poema? Il contenuto di conoscenza esposto dalla
Δαίμων si impone come necessario e, al contempo, come ciò che produce una
fiducia. La necessità è persuasiva e la persuasione, che come visto in 2,10 «segue»
la verità, esprime a sua volta una sua assoluta razionalità, e quindi indirettamente
una sorta di cogenza. Ma come intendere questa forma di cogenza? Prima di Par-
menide, Πειθώ (o, meglio, la funzione della persuasione) si trova spesso connes-
sa ad Afrodite, come ad esempio nell’Inno omerico ad Afrodite, in cui viene detto
che ad Afrodite non è possibile né «persuadere» (οὐ δύναται πεπιθεῖν, H 5,7)
né «sedurre, ingannare» (οὐδ’ ἀπατῆσαι, H 5,7)84 soltanto tre dee (e cioè Atena,
Artemide ed Estia) – in questa eccezione menzionata nell’inno occorre vedere,
dunque, l’affermazione di una regola –, e in cui Afrodite viene considerata alla
stregua di una potenza cosmica che si impone richiedendo assenso e consenso. La
connessione, a sua volta, fra Afrodite e la funzione dell’inganno appare, in chia-
ve personificata, anche nella Teogonia di Esiodo: Afrodite appare come Φιλότης
ed è connessa a «Seduzione, Inganno» (Ἀπάτη). Ἀφροδίτη e Ἀπάτη sono in
effetti accomunate dall’essere entrambe figlie della «Notte» (Νύξ)85. Ora, questa

82
Così intendono, in Parmenide, Verdenius, Parmenides, p. 49 e Ruggiu, Commentario filoso-
fico, p. 188, nota 128.
83
Gigon, Der Ursprung der griechischen Philosophie, p. 252; così anche Untersteiner, Parme-
nide, pp. 128-129.
84
Ma cfr. anche il v. 33, in cui viene ripreso quasi integralmente il v. 7.
85
Cfr. Hes., Th. 224. Πειθώ, del resto, è un altro nome di Afrodite Urania in PDerv. col. XXI, r. 10;
in Sappho, fr. 90 ed Aeschylus, Supp. 1041 Persuasione è figlia di Afrodite. In Hes., Th. 349, Πειθώ è
un’Oceanina; lo stesso Hes., in Op. 73, connette Πειθώ alle arti della seduzione. In Pindarus, Pyth. IX,
39 ss., Πειθώ tiene nascoste le chiavi degli amori. Per queste attestazioni preparmenidee del nesso fra
necessità e persuasione in parmenide 1073

connessione fra Πειθώ e Ἀφροδίτη è, in un certo senso, riscontrabile anche nel


poema di Parmenide. È un dato di fatto che Afrodite sia una delle varie figurazioni
femminili della Dèa che compaiono nel corso del poema, e precisamente nella
parte riguardante le opinioni dei mortali, laddove Afrodite appare legata all’aspet-
to generativo, sollecitando la mescolanza fra le cose (è madre di Ἔρως, cfr. il fr.
13, ma anche il 12) e, in generale, a ciò che suscita desiderio e che seduce (cfr. il
fr. 20). Di più, immediatamente prima di introdurre la sezione relativa alle opi-
nioni dei mortali (quella in cui, come detto, compare Afrodite), la Dèa qualifica
l’ordine delle parole che si appresta a pronunciare (κόσμον ἐμῶν ἐπέων, 8,52)
come ἀπατηλός, che significa tanto «ingannevole» quanto «seducente». Anche in
Parmenide, dunque, così come in Esiodo, non solo Afrodite appare connessa alla
seduzione e alla capacità di produrre un inganno (come, peraltro, anche nell’Inno
omerico ad Afrodite), ma appare coinvolta in un processo generativo che vede, a
monte, Νύξ (in Parmenide assieme a φάος, «luce», 9,4). Sarebbe un errore, tutta-
via, vedere nella forza persuasiva e seducente di Πειθώ qualcosa di negativo, fal-
lace o falso, dal momento che essa, come visto in 2,10, si accompagna a Verità86.
Ma che senso ha associare alla Verità un carattere suadente e persuasivo? Riten-
go che ciò sia connesso all’efficacia operativa della Verità, che in Parmenide va
ben oltre l’accezione di relazione astratta che si instaura fra oggetti. Emblematico,
in tal senso, è ad esempio il caso di Cassandra, ovvero di colei che (dall’Iliade,
passando per l’Agamennone di Eschilo e le Troiane di Euripide, fino a giungere
all’Alessandra di Licofrone tragico) conosce la verità, ma il cui destino tragico
consiste nel non essere creduta. Cassandra, pur sapendo, non è mai persuasiva, e
la verità della quale è depositaria risulta del tutto inefficace87.
Parmenide, in modo arcaico, pensa ancora a Πειθώ nei termini di una forza
efficacemente vincolante sulla base della fiducia e del consenso, in opposizione
alla costrizione operata a partire da una forza bruta, e quindi come a qualcosa di
ancora intrinsecamente positivo. Era di là da venire, ancora, l’avvento della dialet-
tica, il periodo delle dispute sofistiche e dei demagoghi e la connessa disgregazio-
ne sociale e culturale, sia fra le maggiori πόλεις greche (Guerra del Peloponneso)
sia all’interno delle stesse città, come ad esempio ad Atene, allorquando la στάσις
avrebbe minato la coesione interna della città. La comparsa di una accezione di
‘persuasione’ come di qualcosa di neutrale e non intrinsecamente caratterizzata,
se non addirittura negativa, non è forse scissa, allora, dalla frattura storica e cultu-
rale che si sarebbe verificata nel passaggio dal periodo arcaico al periodo classico.

Πειθώ e Ἀφροδίτη si veda Ricciardelli, Inni Orfici, p. 444.


86
Un parallelo paradigmatico in tal senso è costituito dal caso di Aeschylus, Eu. 885 e 970-972,
in cui Atena, rivolgendosi al coro eccitato e rabbioso, chiama in causa Πειθώ quale forza persuasi-
va, il cui sguardo «guida» la voce e le labbra di Atena e possiede una forza placante.
87
Cfr. C. Ramnoux, Études Présocratiques, Klincksieck, Paris 1970, p. 175-176; W.J. Verde-
nius, Notes on the Presocratics, «Mnemosyne», 13 (1947), pp. 271-289; Ruggiu Commentario
filosofico, p. 188.
1074 ivan adriano licciardi

Il ‘reintegro’ della retorica nell’alveo della filosofia operato da Platone (come


psicagogia nel Fedro, come azione persuasiva da parte del Demiurgo nei con-
fronti della χώρα nel Timeo e implicitamente, forse, come persuasione in ambito
dialettico nel Parmenide) coincide, però, solo in parte con un ritorno al punto di
vista di Parmenide. Se nell’Eleate, come si è visto, la Persuasione si accompagna
inscindibilmente alla Verità (e alla Necessità a questa connessa), Platone vede nel-
la necessità soltanto il cieco arbitrio che è destinato a essere soggiogato dall’ordi-
ne, dalla forma e dalla razionalità che scaturiscono dal mondo intelligibile. Se in
Parmenide Verità, Necessità e Persuasione sono rifrazioni dell’ἐόν che in qualche
modo coesistono, in Platone la Necessità (χώρα) si piega alla Verità (le idee) tra-
mite la Persuasione (retorica filosofica e, a un tempo, ordinamento cosmologico).
Se in Parmenide la Persuasione rivela e manifesta la Verità, in Platone è tramite
la Persuasione che la χώρα viene mutuata in mondo sensibile e può, pertanto, in
quanto ha assunto un ordine razionale, rivelarsi e manifestarsi (perché altrimenti
resterebbe oscura, essendo la conoscenza di essa paragonabile allo stato onirico).
La Verità, cioè il cosmo eidetico, però, si rivela e manifesta in quanto è partecipa-
ta dal mondo sensibile, e questa partecipazione, nel Timeo, avviene miticamente
tramite la persuasione demiurgica, ed è grazie ad essa che il sensibile presenta una
traccia di verità. Ne segue, mutatis mutandis, che tanto in Parmenide quanto in
Platone (quantomeno nel Platone del Fedro e del Timeo), la Persuasione è, in un
certo senso, un araldo della Verità (la quale, però, a differenza che in Parmenide,
in Platone non coincide più con la Necessità) e, per certi aspetti, una condizione
affinché essa si manifesti, ora come sedimento nell’anima dell’allievo ora come
traccia sensibile nell’ordinamento cosmico88. Anche sotto il profilo della concet-
tualizzazione filosofica della Persuasione, dunque, è possibile parlare, per certi
versi, proprio come nel caso del Sofista, di un parricidio mancato89.

88
Ho discusso più approfonditamente del rapporto fra necessità e persuasione nel Timeo di Pla-
tone a margine del Seminario di analisi e interpretazione dei testi “Forme, parole e metafore della
physis” (Palermo, 21-22 maggio 2018) organizzato da Franco Giorgianni, presentando una relazione
intitolata Natura, Necessità e Persuasione in Platone, Timeo 47e-48e, in corso di stampa. Si riman-
da, pertanto, a questo saggio di imminente uscita per le necessarie integrazioni alle osservazioni su
Platone presentate qui in modo cursorio.
89
Alludo qui, naturalmente, all’altra grande questione (sganciata da questa) concernente il rap-
porto fra Parmenide e Platone, ossia la questione se l’introduzione da parte di Platone, nel Sofista,
del genere sommo del diverso, ossia del non-essere relativo, costituisca filosoficamente o meno un
parmenicidio (o parricidio). Quanto all’espressione «parricidio mancato», essa riprende il titolo
dell’omonima raccolta di saggi di E. Severino, Il parricidio mancato, Adelphi, Milano 1985.
Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, CXII (2020), 4, pp. 1075-1090
ISSN: 00356247 (print) - 18277926 (digital)
DOI: 10.26350/001050_000231

Marcello Zanatta*

ARISTOTELE E LA NEGAZIONE DELL’ARMONIA MUSICALE CELESTE

Aristotle and the Negation of the Celestial Musical Harmony

In the first part, we will expose the way in which Aristotle presents Pythagorean theory of
musical harmony of the stars in movement, the logical structure of this exposition and the
indications that lead to believe that he refers to Philolaus. In the second part, we will examine
Aristotle’s two objections against that theory and we will indicate the doctrinal presupposi-
tions on the basis of which it is formulated. In the last part, we will show that such assump-
tions would have allowed Aristotle to formulate other objections, but he limits himself to
those two because they are functional to show the truth of his theory that the stars do not move
by themselves, but just because heavens in which they are set are moving. It is also shown
that a third objection is implicitly formulated in the context of Aristotle’s discourse.

Keywords: Aristotle, Pythagoreans, Music, Stars, Heavens


© 2020 Vita e Pensiero / Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore

1. Il problema
In De caelo (d’ora in avanti DC) II, 9 Aristotele, nel quadro complessivo della
disamina sulla natura e sulla traslazione (φορά) dei corpi celesti, prende in con-
siderazione anche la dottrina dell’armonia musicale prodotta dai loro movimenti
e la rigetta, operandone la confutazione.
Va affermato fin d’ora che tale confutazione e questo rigetto sono funzionali
alla teoria aristotelica del suddetto genere di corpi, e ne vedremo la ragione, al
cospetto della quale ci si renderà conto che non si tratta di un’aggiunta comple-
mentare e di un arricchimento importante ma non decisivo per la determinazione
della natura di quei corpi, quasi che essa fosse già raggiunta e ora se ne puntua-
lizza un aspetto sì interessante, quale per l’appunto quello di essere o no musi-
cali, ma estraneo alla sua sostanza speculativa. Tutt’al contrario, la reiezione di
quella teoria, divenendo, come vedremo, il momento dialetticamente rilevante
per far valere che i corpi celesti non emettono né possono emettere alcun suono,
è parte integrante della definizione della loro costituzione.
*
Università della Calabria. Email: marcello.zanatta@unical.it
Received: 16.10.2019; Approved: 25.10.2019.
1076 marcello zanatta

2. La teoria pitagorica della musica celeste


Ma innanzitutto occorre fissare l’attenzione sulla teoria dell’armonia musicale
dei corpi celesti in movimento. Essa attraversa i secoli1 e una lunga e unanime
tradizione ne attribuisce l’origine ai Pitagorici2 e addirittura a Pitagora3. In ogni
caso è ai Pitagorici che Aristotele fa riferimento quando la prende in esame, come
tutti i commentatori, sia antichi che moderni, hanno riconosciuto. Sono infatti i
Pitagorici i pensatori che alla riga 290 b 14-15 lo Stagirita indica come «coloro
che l’asseriscono [ὑπὸ τῶν εἰπόντων]», formulando con essa un discorso che
suona «in modo raffinato ed elegante [κομψῶς καὶ περιττῶς]»4, ma non è vero
(οὐ μὴν οὕτως ἔχει τἀληθές); ancora i Pitagorici sono quegli «alcuni [τισιν]»
ai quali subito dopo, alle righe 290 b 15-16, Aristotele dice che «sembra essere
necessario che si produca un suono di corpi di tale grandezza che traslano [δοκεῖ
ἀναγκαῖον εἶναι τηλικούτων φερομένων σωμάτων γίγνεσθαι ψόφον]»;
e ancora sui Pitagorici Aristotele torna quando alle righe 290 b 22-23 afferma
che «sostengono che il suono degli astri nel loro traslare in circolo si produce
come armonico [ἐναρμόνιόν φασι γίγνεσθαι τὴν φωνὴν φερομένων κύκλῳ
τῶν ἄστρων]». Ed è significativa anche la seguente circostanza: la tesi pitago-
rica dell’armonia musicale dei corpi celesti è ripresa e fatta propria da Platone là
dove, nel mito di Er, descrivendo la forma dell’universo e le orbite dei pianeti,
afferma che su ciascuno è seduta una sirena la quale diffonde un suono che si
unisce a quelli delle altre sirene in un accordo cosmico5. Platone occupa certa-
mente un posto primario nell’argomentare dialettico di Aristotele, ma né alcuno
dei commentatori ha indicato pure in Platone il pensatore contro cui s’indirizza
la disamina dello Stagirita, né in questa si rinviene alcun indizio che conduca a
Platone. Tutti gli indizi rimandano invece ai Pitagorici.

1
La storia di questa teoria nell’antichità, nel medioevo e anche nell’età moderna, come risulta
dal fatto di essere stata presa in considerazione dallo stesso Keplero, è ben documentata da Marco
Nicoletta nella sua tesi dottorale, pubblicata poi come volume intitolato Pitagorismo, platonismo e
armonia delle sfere, Editrice Stamen, Roma 2014.
2
In proposito si veda, tra gli altri, A. Barbone, Musica e filosofia nel pitagorismo, La scuola di
Pitagora Editrice, Napoli 2009.
3
Così espressamente in K. Ferguson, La musica di Pitagora, tr. it. di L. Sosio, Liguori, Milano
2009, p. 23. Sul punto si veda anche infra e la testimonianza riportata alla nota 8.
4
In quest’annotazione, che in ogni caso non manca certamente dall’avere una valenza ironica, è
possibile scorgere – a me sembra – un significativo sostegno all’idea che Aristotele ha pensato l’ar-
monia dei corpi celesti come avente rilevanza di un abbellimento estetico, ma nulla di più, e l’ironia
con cui viene proferita consiste proprio nel farne risaltare il contrasto rispetto alla pretesa di essere
una «teoria» astronomica, ossia un discorso di natura speculativa sui cieli e sugli astri. Proprio que-
sto risvolto dell’annotazione di Aristotele mi sorreggeva nel sottolineare che la critica dello Stagirita
della valenza «musicale» dei corpi celesti non può leggersi come rilievo interessante ma marginale
rispetto alla sostanza speculativa di determinarne la natura.
5
Cfr. Platone, Resp. X, 617 b: «Il filo ruotava sulle ginocchia di Ananke. Sui suoi cerchi, in alto,
si muoveva insieme a ciascuno una sirena, che emetteva un’unica nota, con un unico suono; ma tutte
insieme formavano un’armonia».
aristotele e la negazione dell’armonia musicale celeste 1077

Una seconda considerazione a questo punto s’impone. La musica emessa dai


corpi celesti nei loro movimenti rotatori, espressione dell’armonia che regge l’u-
niverso6, è dottrina comune ai Pitagorici, a tal punto da costituire una sorta di
connotato teorico di questa linea di pensiero, attestantesi al di là delle specifiche
dottrine professate dalla scuole pitagoriche, certamente diverse tra loro, e, per
quanto è possibile ricostruirne storiograficamente il pensiero, dai singoli Pitago-
rici. Essa appartiene cioè al «pitagorismo»7, e certamente a questa filosofia o, se
si preferisce, a questa sapienza si riferisce Aristotele, il cui intendimento non è
certamente quello di informare sul pensiero di questo o quel Pitagorico, bensì di
esaminare, per respingere, una «dottrina» pitagorica.
L’attribuzione a Pitagora dell’origine e della primigenia professione di essa rien-
tra nel quadro della presentazione della sua figura secondo quei tratti di tangenza
al divino di cui i seguaci ammantavano la persona del maestro e del fondatore. In
questi termini ne dà testimonianza Porfirio nella Vita di Pitagora, in cui la capaci-
tà del filosofo di udire la musica delle sfere celesti è ascritta alla sua eccezionalità
sovrumana8. Ma è probabile che, al di fuori dell’aureola agiografica di cui veniva
ammantato Pitagora e separando la dottrina dell’armonia cosmica dall’essere egli in
grado di percepirla, quella dottrina fu effettivamente introdotta da Pitagora. Stando
infatti alla notizia di Giamblico9 e secondo la tradizione pitagorica, egli l’avrebbe
istituita facendo corrispondere le distanze dei pianeti dal centro dell’universo, iden-
tificato nella regione del fuoco10, alle proporzioni presenti nel monocordo, ovvero
calcolando le prime in base alle seconde. Pare che l’intuizione di fondo gli venne
ragionando sul rumore di un martello che batteva sull’incudine e comprendendo che

6
Basilare, a questo riguardo, la tesi pitagorica riportata da Stobeo, Ecl., I, 21, 7 = Philol. 44 B
6 Diels-Kranz, secondo la quale l’armonia costituisce la «sostanza [ἐστω]» dell’universo, quella
sostanza per la quale l’universo è un κόσμος.
7
«Il pitagorismo – ha scritto magistralmente Giovanni Reale (Storia della filosofia greco-romana,
vol. 1, Orfismo e Presocratici naturalisti, Bompiani, Milano 2004, p. 131) – e le dottrine che esso ha
elaborato fra la fine del VI e l’inizio del IV secolo a.C. vanno viste nella loro unità d’insieme. Chi spez-
za questa unità, rompe anche lo spirito che l’ha creata, ossia quello spirito che ha fatto del pitagorismo
una scuola diversa da tutte le altre».
8
Cfr. Porphirii, Vita Pyth. 30, riportato nel fasc. 1, pp. 16-19 di M. Timpanaro Cardini (a cura
di), Pitagorici. Testimonianze e frammenti, 3 fasc., La Nuova Italia, Firenze 1969 (d’ora in poi cita-
to con la sigla TC seguita dal numero del fascicolo): «Pitagora udiva l’armonia dell’universo, cioè
percepiva l’universale armonia delle sfere e degli astri moventisi con quelle [τῆς καθολικῆς τῶν
σφαιρῶν καὶ τῶν κατ’ αὐτὰς κινουμένων ἀστέρων ἁρμονίας]». E, prosegue Porfirio, dando
così ulteriore attestazione dell’aura sovrumana che circondava Pitagora nella considerazione dei
seguaci, «lo testimonia anche Empedocle, dicendo di lui: “c’era tra essi un uomo di straordinaria
sapienza, che possedeva davvero ricchezza immensa d’ingegno, e validissimo era in opere varie
e sapienti, sì che quando tendeva con ogni potenza la mente, facilmente ciascuna di tutte le cose
vedeva, che son nel corso di dieci, di venti età umane”».
9
Cfr. Giamblico, Vita Pyth. 65-67 (tr. it. di M. Giuangiulio, La vita pitagorica, Rizzoli, Milano
1991, pp. 67 ss.).
10
Cfr. DC II, 13, 293 a 18 (= TC 2, fr. 330, pp. 160-163): «i più dicono che la terra sta al cen-
tro. Il contrario affermano i filosofi italici chiamati Pitagorici; essi dicono che nel mezzo c’è il
fuoco e che la terra è un astro».
1078 marcello zanatta

l’altezza del suono, vale a dire l’acutezza del rumore, non dipendeva dalla forza
con cui venivano battuti i colpi, ma dal peso del martello. Servendosi perciò di un
monocordo, stabilì che le consonanze dei suoni seguivano questi rapporti numerici:
1/2 per l’intervallo d’ottava, 2/3 per la quinta e 3/4 per la quarta11. Usò quindi le pro-
porzioni presenti nel monocordo per calcolare le distanze dei pianeti tra loro rispetto
al centro dell’universo, ponendo perciò che i rapporti erano gli stessi. Così a Saturno
e alle stelle fisse venivano ricondotti i suoni più acuti, mentre al sole era associata la
nota centrale, nella quale si congiungono due tetracordi discendenti, ossia due scale
composte ciascuna da quattro suoni.
Ma si deve certamente a Filolao il perfezionamento di questa dottrina o comun-
que la formulazione di essa in termini teorici più determinati, e ciò grazie alle sue
alte competenze musicali, attestate dalla definizione ulteriore, precisa e raffinata,
che, su base matematica, egli effettuò degli accordi musicali dividendo a sua volta
il «tono», ossia la divisione del rapporto di quinta e di quarta che compongono
l’ottava. Dalla testimonianza di Boezio indicata alla nota 12 e dalla dotta espli-
cazione di essa operata da Timpanaro Cardini, nonché dalla relativa valutazione
critica, risulta che il contributo genuino che può ascriversi a Filolao e sta a fonda-
mento della sua definizione degli accordi musicali, risiede nella determinazione
dell’apotome, del diesis e del comma12. E proprio al modo in cui Filolao definì il
rapporto tra l’accordo delle note e i corpi celesti, è altamente probabile che Aristo-
tele si sia riferito nel presentarlo.

11
A commento della testimonianza di Boezio, Inst. mus. III, 5 p. 276, 15 Friedlein (= TC 2, fr.
26, pp. 180-185), su cui torneremo dicendo di Filolao, così Timpanato Cardini presenta l’importanza
della scoperta di questi accordi e, in particolare, del loro comporsi nell’ottava: «l’osservazione dei
rapporti fissi 2:1, 3:2, 4:3 tra le lunghezze delle corde (o lo spessore dei dischi, o il liquido dei reci-
pienti), donde risultano gli accordi di ottava, quinta e quarta, fu il fondamento su cui <i Pitagorici>
costruirono la loro teoria matematica della musica. Il suono fu per loro un rapporto numerico, una
quantità, e tale si mantenne anche nei seguaci, perché costituiva una prova evidente della corrispon-
denza tra le cose e i numeri» (TC 2, p. 182).
12
TC 2, pp. 182-183: «i rapporti di quarta e di quinta “avevano dimostrato che quanto più piccoli
erano i numeri che li costituivano, tanto più perfetta era la consonanza; così perfettissima tra tutte era
l’ottava, 2 : 1, che comprendendo in sé le altre due (3/2, 4/3 = 12/6 = 2/1), racchiudeva analogamen-
te l’armonia dell’universo. Da tale matematica impostazione derivava come logica conseguenza la
ricerca di tutti i possibili intervalli musicali nell’ambito dell’ottava e la determinazione numerica dei
loro rapporti; si comprende perciò come questo problema fosse e restasse predominante negli studi
musicali della Scuola. Quei primi Pitagorici s’accorsero, forse procedendo per tentativi, che, come
l’ottava si ottiene col prodotto (non con la somma) dei rapporti di quinta e di quarta che la compon-
gono, così, volendo trovare la differenza tra la quinta e la quarta, bisognava dividere il primo rappor-
to per il secondo; e in tal modo trovarono il rapporto di 9/8 (3/2 : 4/3 = 9/8) che chiamarono ‘tono’.
Si posero allora il problema se fosse possibile dividere a sua volta il tono in rapporti consonanti; ed
eccoci così arrivati alla divisione escogitata da Filolao” della quale riferisce Boezio […] Le fonti
intermedie a cui attinse Boezio» nella presentazione del calcolo di Filolao degli ulteriori accordi
musicali «erano già forse esse stesse confuse»; sicché «il giudizio su questo passo di Boezio, dopo
averne messo in evidenza le assurdità, non può essere altro che […] sia genuina di Filolao solo l’idea
della divisione del cubo 27 in apotome, diesis e comma».
aristotele e la negazione dell’armonia musicale celeste 1079

In conclusione si può dunque dire che i Pitagorici costruirono la dottrina dell’ar-


monia celeste sulla base della corrispondenza tra il calcolo della distanza dei piane-
ti dal centro dell’universo e quello dei rapporti che, a partire dalla determinazione
dell’ottava, attraverso procedimenti matematici vieppiù raffinati vennero definendo
e perfezionando degli accordi musicali. Il nucleo teorico emergente da questa teoria
è, in ultima analisi, che il rapporto tra le distanze dei pianeti dal centro dell’universo
è identico al rapporto tra le lunghezze delle corde nella definizione degli accordi
musicali. Quest’istanza di base Aristotele sottopone a critica.

3. La presentazione aristotelica
Prima però di muovere alla critica, Aristotele indica, com’è ovvio, la tesi pitagorica
presentandola nei termini seguenti:
Ad alcuni, infatti, sembra essere necessario che si produca un suono di corpi di tale gran-
dezza che traslano, dal momento che se ne produce uno anche di quelli presso di noi, pur
non avendo né masse simili né traslando con tale velocità. È impossibile che del sole,
della luna e di astri siffatti per numero e grandezza, i quali traslano secondo una traslazio-
ne siffatta per la velocità, non si produca un certo suono, straordinario per la grandezza.
Ipotizzando questi <effetti> e che le velocità a partire dalle distanze abbiano il rapporto
dei <suoni> in accordo, sostengono che il suono degli astri nel loro traslare in circolo si
produce come armonico13 (tr. it. mia).

Nella prima parte del passo, dove si afferma che per alcuni, ossia per i Pitagorici,
la necessità che i corpi celesti, di notevole grandezza, traslando emettono un suo-
no viene dedotta («dal momento che [ἐπεί]», dunque) dal fatto che identicamente
avviene nella traslazione dei corpi terrestri, ben più piccoli, risuona evidente il
riferimento, ancorché elaborato nei termini del tutto propri della presentazione
aristotelica, al fatto che alla base della tesi pitagorica sta il calcolo, attribuito dalla
tradizione a Pitagora, dei rapporti musicali a partire da un dato d’esperienza: il
battere del martello sull’incudine. Non è difficile scorgere che qui Aristotele cali-
bra il riferimento a Pitagora o, più esattamente, a ciò che la tradizione attribuisce
a Pitagora (successivamente, vedremo, il riferimento è a Filolao, e sarà la pars
potior dell’intervento dello Stagirita); ma che al tempo stesso lo calibra inqua-
drandolo entro la definizione epistemologica del ricercare da lui definita, secondo

13
DC II, 9, 290 b 15-23:«δοκεῖ γάρ τισιν ἀναγκαῖον εἶναι τηλικούτων φερομένων
σωμάτων γίγνεσθαι ψόφον, ἐπεὶ καὶ τῶν παρʼ ἡμῖν οὔτε τοὺς ὄγκους ἐχόντων ἴσους οὕτε
τοιούτῳ τάχει φερομένωνʼ ἡλίου δὲ καὶ σελήνης, ἔτι τε τοσούτων τὸ πλῆθος ἄστρων καὶ
τὸ μέγεθος φερομένων τῷ τάχει τοιαύτην φορὰν ἀδύνατον μὴ γίγνεσθαι ψόφον ἀμήχανόν
τινα τὸ μέγεθος. ὑποθέμενοι δὲ ταῦτα καὶ τὰς ταχυτῆτας ἐκ τῶν ἀποστάσεων ἔχειν τοὺς τῶν
συμφωνιῶν λόγους, ἐναρμόνιόν φασι γίγνεσθαι τὴν φωνὴνφερομένων κύκλῳ τῶν ἄστρων»
(testo greco stabilito da P. Moraux, Aristote. Du Ciel, Les Belles Lettres, Paris 1965, dal quale sono
tratte anche le successive citazioni del DC).
1080 marcello zanatta

la quale si conosce procedendo da ciò che è più noto per noi e meno noto per
sé, corrispondente nel caso di specie all’esperienza del diverso suono dei colpi
del martello sull’incudine, verso ciò che è più noto per sé e meno rispetto a noi,
ovvero la scoperta che l’altezza dei suoni dipende dalla grandezza del martello e
la definizione in termini matematici del rapporto tra questi elementi. Ed è signifi-
cativo a questo riguardo che, mentre per Pitagora, secondo il racconto della tradi-
zione, il passaggio dal dato d’esperienza alla scoperta della legge è tra il semplice
battere del martello e i rapporti matematici che ne definiscono il rumore, ma con
una chiara proiezione al rapporto tra le traslazioni dei pianeti e il rapporto armo-
nico dei suoni, Aristotele renda esplicito e testuale il contenuto della proiezione.
Il che è ancor più evidente nella seconda parte del passo – dove pur, come si
diceva e ora ci si appresta a provarlo, il riferimento è piuttosto a Filolao. Giac-
ché in questa seconda parte la grandezza del martello viene assunta, nel pendant
con la proiezione astronomica, come grandezza dei corpi celesti, e specifica-
mente dei pianeti («il sole, la luna e gli astri siffatti»), e, in strutturale relazione
con questa, come grandezza della loro «distanza» dal centro dell’universo, e in
tale esplicitazione dell’iniziale assunto pitagoreo è messa in rapporto con la loro
velocità di traslazione.
Già Simplicio commentando il passaggio aristotelico puntualizzava il nesso
tra la grandezza dei corpi celesti e la grandezza della loro distanza dal centro
dell’universo.
Argomentando dalle distanze le grandezze dei <corpi> comprendenti i quali sono nello
stesso rapporto delle distanze: infatti i <corpi> comprendenti sono sempre più grandi
di quelli compresi, e sono tanto più grandi quante più volte e quanto più da lontano li
comprendono14 (tr. it. mia).

Qui i «corpi comprendenti» e i «corpi compresi» sono le sfere celesti, concentri-


che e di diversa grandezza, nelle quali per Aristotele sono incastonati i pianeti.
Anche se, con ogni probabilità, i Pitagorici e in specie Filolao non definivano in
questo modo il rapporto tra i cieli e i pianeti, in questo modo presenta la loro con-
cezione Aristotele, il quale non è interessato fornirne una ricostruzione storica,
ma a valutarne il grado di verità sul piano della fisica celeste, la vera dottrina della
fisica celeste è appunto quella da lui definita. Così i pianeti sono nessi in rapporto
con i cieli, e su questo presupposto s’inquadra il commento di Simplicio. Schema-
tizzando, possiamo pertanto declinare il discorso della seconda parte del passo di
DC precedentemente letto, dove appunto Aristotele presenta la dottrina pitagorica
dell’armonia celeste, con la seguente successione di concetti:

14
Simplicii, In Aristotelis De Caelo Commentaria, ed. I.L. Heiberg, tipys et impensis Georgii
Reimeri, Berolini 1894, 464, 7: «ἐκ τῶν ἀποστάσεων τὰ μεγέθη συλλογισάμενοι ἐν τῷ αὐτῷ
λόγῳ τῶν ἀποστάσεων ὄντα· μείζονα γὰρ ἀεὶ τὰ περιέχοντα τῶν περιεχομένων καὶ τοσούτῳ
μείζονα, ὅσῳ πλησιαίτερον ἢ πορρώτερον περιέχει».
aristotele e la negazione dell’armonia musicale celeste 1081

• dalla distanza (dal centro dell’universo) dipende la grandezza (μέγεθος) di


un cielo [ossia: la grandezza di un cielo è proporzionale alla sua distanza dal
centro dell’universo]
• dalla distanza (e dunque dalla grandezza) del cielo dipende la sua velocità di
traslazione
• dalla velocità di traslazione dipende un certo tipo di suono
• ai diversi tipi di suono corrispondono diversi tipi di note
• queste note si combinano tra loro in un accordo musicale
• dunque, anche i suoni dei cieli formano un accordo
• sussiste pertanto una proporzione tra i suoni dei cieli e le note in accordo,
ovvero gli accordi musicali.
Tuttavia, nella presentazione che nel passo in esame Aristotele fa della teoria pita-
gorica manca, per così dire, un tassello, basilare perché detta teoria risulti comple-
tamente fondata. La grandezza di un cielo dipende dalla sua distanza dal centro
dell’universo: è il punto di partenza dell’intera scansione del discorso. Ma qual è
la distanza del cielo dal centro dell’universo o, più esattamente, come nella teoria
pitagorica veniva determinata? A questa basilare domanda fornisce un’implicita
risposta Simplicio nel commento all’inizio di DC II, 10, 291 a 29-32, dove lo
Stagirita afferma che l’ordine (τάξις) degli astri, secondo il quale «gli uni sono
anteriori [scil. quelli più vicini alla sfera delle stesse fisse], gli altri posteriori [scil.
quelli più distanti da detto cielo]» e dal quale dipende «il modo in cui ciascuno si
muove [ὃν μὲν τρόπον ἕκαστα κινεῖται]», è materia studiata nei trattati di astro-
nomia. Il commentatore così scrive:
Aristotele dice infatti così: «è cosa da studiare nei libri che trattano di astronomia».
Infatti lì si dimostra che riguardo all’ordine degli astri erranti, alle loro grandezze e
distanze Anassimandro per primo trovò i rapporti delle grandezze e delle distanze, come
racconta Eudemo [scil. Eudemo da Rodi] il quale poi attribuisce ai Pitagorici per primi
l’ordine della loro posizione15.

Dunque, se Anassimandro determinò per primo il rapporto tra la grandezza e la


distanza di ogni pianeta rispetto alla grandezza e alla distanza di ogni altro, più
precisamente la grandezza di ciascun pianeta rispetto a quella di ciascun altro in
relazione alla distanza di ciascuno da ciascun altro, i Pitagorici determinarono
invece «l’ordine [τάξις] della posizione [τῆς θέσεως]» di ciascun pianeta, vale a
dire quale era più vicino e quale più distante dal centro dell’universo, fatto coinci-
dere dai Pitagorici col fuoco, come abbiamo letto nella testimonianza riportata alla

15
Ibi, 471, 1 (= TC 3, fr. 960, pp. 202-203, di cui si è riportata la traduzione italiana): «ταῦτα οὖν,
φησίν, ἐκ τῶν περὶ ἀστρολογίαν θεωρείσθω· καὶ γὰρ ἐκεῖ περὶ τῆς τάξεως τῶν πλανωμένων
καὶ περὶ μεγεθῶν καὶ ἀποστημάτων ἀποδέδεικται Ἀναξιμάνδρου πρώτου τὸν περὶ μεγεθῶν
καὶ ἀποστημάτων λόγον εὑρηκότος, ὡς Εὔδημος ἱστορεῖ τὴν τῆς θέσεως τάξιν εἰς τοὺς
Πυθαγορείους πρώτους ἀναφέρων».
1082 marcello zanatta

nota 10. Sorge pertanto il problema di come venne calcolata la distanza di ciascun
pianeta dal centro e di chi ne propose il calcolo. E parallelamente, da quale fonte
Aristotele venne a conoscere tale calcolo e con esso, di conseguenza, l’«ordine»
secondo cui nel sistema dei Pitagorici cui fa riferimento si definisce la «posizio-
ne» di ciascun pianeta. Ora, se, quanto al secondo problema, sulla base della più
recente e accreditata storiografia filosofica occorre rispondere indicando «un’ope-
ra scritta, di carattere non dossografico, redatta da un membro della comunità»16,
quanto al primo, l’evidente corrispondenza tra l’ordine dell’universo pitagorico
che vede il fuoco al centro, la terra e l’antiterra girare intorno al fuoco, dopo la
terra la luna, poi il sole, poi i cinque pianeti, infine il cielo delle stelle fisse17, con il
sistema astronomico attribuito a Filolao18, porta a riscontrare in costui l’autore di
tale ordinamento cosmico e, di conseguenza, del calcolo delle distanze dei corpi
celesti dal centro dell’universo. Ovvero a riconoscere che l’autore di quell’opera
scritta si rifece basilarmente a Filolao, di modo che costui, in ultima istanza, è
il Pitagorico alla cui determinazione del sistema cosmologico e, con esso, della
musica dei corpi celesti Aristotele fa riferimento per confutarla.

4. Ancora un’istanza
Concludendo la presentazione di detta dottrina e prima di procedere a confutarla,
lo Stagirita rappresenta ancora un’istanza che attribuisce espressamente ai Pita-
gorici (290 b 25: φασίν, «sostengono»): il fatto cioè che il suono degli astri non
sia udito dagli uomini non è affatto illogico (ἄλογον), come potrebbe sembrare

16
Così per esempio B. Centrone, Introduzione ai Pitagorici, Laterza, Roma - Bari 1996, p.
16, il quale, dopo aver riassunto in questi termini gli esiti degli studi più aggiornati sui Pitagorici:
«Aristotele utilizza per la sua esposizione delle dottrine pitagoriche un’opera scritta di contenuto
non dossografico, redatta da un membro della comunità», mette in evidenza l’importanza che pro-
prio per questo ha la testimonianza aristotelica. «Ciò – scrive appunto lo studioso – rende insostitui-
bile, pur con tutte le limitazioni possibili, il valore storico della sua testimonianza».
17
Sul sistema cosmologico dei Pitagorici rimando, in particolare, agli studi di D.R. Dicks,
Early Greek Philosophy to Aristotle, Cornell University Press, Ithaca - New York 1970, pp. 62-76
e di W. Burkert, Lore and Science in Ancient Pythagoreanism, Cambridge University Press,
Cambridge 1970, pp. 299-368.
18
Ciò è stato ben messo in chiaro da C.A. Huffman, Philolaus of Croton: Pythagorean and
Presocratic. A Commentary on the Fragments and Testimonia with Interpretative Essays, Cam-
bridge University Press, Cambridge 1970, pp. 38-240. Si vedano anche Centrone, Introduzione
ai Pitagorici, p. 131, il quale porta a documentazione della suddetta, «evidente corrispondenza»,
Aet. II, 7, 7 = Philol. 44 A 16 Diels-Kranz (per Filolao il centro dell’universo è il fuoco), Aet III,
11, 2 = Philol. 44 A 17 Diels-Kranz (Filolao afferma che la terra ruota assieme all’antiterra), Aet.
III, 13, 2 = Philol. 44 A 21 Diels-Kranz (per Filolao la terra si muove in circolo). Lungo questa
linea di considerazioni è rilevante anche il contributo di C.H. Kahn, Pythagorean Philosophy
Before Plato, in A.P.D. Mourelatos (ed.), The Pre-Socratics. A Collection of Critical Essays,
Anchor Press, Garden City (NY) 1974, pp. 161-186, il quale dimostra l’esistenza di tratti della
filosofia dei «cosiddetti Pitagorici» che non risalgono a Pitagora.
aristotele e la negazione dell’armonia musicale celeste 1083

(290 b 24: δοκεῖ), ma ha una precisa causa (αἴτιον), consistente nell’assuefa-


zione (συνέθεια) a esso, che ci è nelle orecchie fin dalla nascita e come tale, non
essendo preceduto da un silenzio che esso col suo irrompere spezzi e dia luogo a
una novità percettiva, non viene percepito, al modo in cui anche il silenzio viene
avvertito perché spezza un suono che lo precede. Così scrive, infatti:
E poiché il fatto che noi non udiamo questo suono sembra illogico, sostengono esiste
una causa di ciò: il fatto che il suono delle cose che vengono all’essere sussiste subito,
per cui non è riconoscibile da tutti in relazione al silenzio contrario. Infatti, il discerni-
mento di suono e silenzio è dell’uno in relazione all’altro, cosicché, come a coloro che
battono il bronzo sembra per via dell’abitudine che niente faccia differenza, anche agli
uomini capita la stessa cosa19 (tr. it. mia).

Porfirio, nel luogo della sua Vita pitagorica indicato alla nota 8, sintetizza l’istan-
za dicendo che
la qual cosa [scil. l’armonia musicale degli astri] non sentiamo per la limitatezza della
nostra natura [διὰ σμικρότητα φύσεως] (tr. it. mia).

È altamente probabile che nel far riferimento all’assuefazione quale causa della nostra
assenza di percezione della musica astrale, Aristotele riferisca un assunto effettiva-
mente professato dai Pitagorici. Ed è verisimile che esso sia stato asserito, nel quadro
dell’esaltazione di Pitagora come persona dotata di sovrumane capacità, in risposta
all’obiezione che quella pretesa armonia musicale, avvertita dal solo Pitagora, di fatto
nessuno l’ha mai udita. Donde la non verità dell’istanza sul piano dottrinario.
È altamente probabile, invece, che la spiegazione «causale» della non udibilità
della musica celeste, il fatto cioè che il suono è percepito soltanto se è preceduto
da silenzio e, parimenti, il silenzio si avverte soltanto se è preceduto da un suono,
non corrisponda affatto a un asserto dei Pitagorici che Aristotele riferisce, ma sia
Aristotele stesso ad aggiungerlo, per il desiderio – a lui del tutto consono – di
ricercare sempre la causa.
In questa prospettiva esegetica, la sintesi di Porfirio non pare adeguata, giac-
ché non si tratta già di una limitatezza percettiva dell’uomo, bensì di una legge
acustica, di una condizione strutturale del sentire, e dunque dell’attestazione del
carattere «normale» e pienamente adeguato del percepire umano. A meno che Por-
firio, chiamando in causa la limitatezza del sentire umano, non l’abbia addotta in
rapporto alla capacità uditiva di Pitagora. Ma il contesto sembra escluderlo e non
sembra affatto probabile.

19
DC II, 9, 290 b 24-29: «επεὶ δʼ ἄλογον δοκεῖ τὸ μὴ συνακούειν ἡμᾶς τῆς φωνῆς ταύτς, αἴτιον
τούτου φασὶν εἶναι τὸ γιγνομένοις εὐθὺς ὑπάρχεν τὸν ψόφον, ὥστε μὴ διάδηλον εἶναι πρὸς τὴν
ἐναντίαν σιγήν· πρὸς ἄλληλα γὰρ φωνῆς καὶ σιγῆς εἶναι τὴν διάγνωσιν, ὥστε καθάπερ τοῖς
χαλκοτύποις διὰ συνήθειαν οὐθὲν δοκεῖ διαφέρειν, καὶ τοῖς ἀνθρώποις ταὐτὸ συμβαίνειν».
1084 marcello zanatta

5. Le prime due obiezioni


Contro la teoria pitagorica della musica celeste Aristotele formula tre argomenti
intesi a rigettarla20. I primi due sono i seguenti:
È assurdo
1) non soltanto il non ascoltare niente di ciò di cui intraprendono a esporre la causa,
2) ma anche il non averne alcun’affezione, indipendentemente dalla sensazione. Ché, i
suoni eccessivi consumano anche le masse dei corpi inanimati, per esempio quello del
tuono divide le pietre e i più forti tra i corpi. E poiché traslano <corpi> di molta grandezza
e il suono transita in rapporto alla grandezza che trasla, è necessario che ne giunga fino qui
uno molte volte tanto e che la forza della sua violenza sia immensa. Ma per il fatto che non
viene emesso nessun suono, ben logicamente né udiamo, né risulta che i corpi patiscano
alcuna affezione violenta21 (tr. it. mia).

Il primo argomento, compreso nelle righe 290 b 31-33, non è soltanto la riproposta
della probabile obiezione rivolta ai Pitagorici, secondo l’ipotesi esegetica che s’è
fatta e che da questo contesto argomentativo trae conferma, ma – a ben vedere –
presenta un aspetto ulteriore, che ne manifesta il carattere prettamente dialettico, e
cioè l’attestarsi come argumentum ad hominem. Ché, ai Pitagorici i quali all’obie-
zione dell’assurdità (290 b 32: ἄτοπον) della loro teoria di una musica astrale che
nessuno percepisce opponevano che tale non-udibilità ha una «causa», ora Aristo-
tele oppone che quella stessa «causa» (290 b 33: τὴν αἰτίαν) è assurda in quanto
con essa si pretende spiegare un fatto in se stesso assurdo: l’asserire l’esistenza di
qualcosa che nessuno sperimenta né ha mai sperimentato. Insomma, la pretesa di
spiegare l’assurdo è un vuoto argomentare, e come tale è essa stessa assurda.
Il secondo e il terzo argomento, ponendo in atto la confutazione, la quale,
com’è noto, è un procedimento dialettico, anzi è il procedimento principe della

20
Mi discosto dalla maggioranza degli interpreti nel considerare tre e non due gli argomenti di Ari-
stotele intesi a rigettare la tesi pitagorica dell’armonia celeste. Così, per esempio, L. Elders, Aristotle’s
Cosmology. A Commentary on the De Caelo, Van Gorcum, Assen 1966, p. 225: «Aristotle advances
two arguments against this view on the Pythagoreans: (a) the fact that we do not hear the noise is
not well accounted for; (b) this noise would shatter stones on the earth, but this effect has never been
observed». Nessuna delle due formulazioni, di cui è certamente da ammirare la perentoria incisività
concettuale, mi sembra però pienamente soddisfacente: non la prima, perché manca di mettere in chia-
ro la probabile ripresa di una altrettanto probabile obiezione rivolta ai Pitagorici, donde il suo carattere
totalmente dialettico, come ci apprestiamo ad argomentare; e neppure la seconda perché manca di met-
tere in chiaro il carattere di confutazione, come vedremo, assunto dall’argomento aristotelico.
21
DC II, 9, 290 b 31 - 291 a 6: «οὐ γὰρ μόνον τὸ μηθὲν ἀκούειν ἄτοπον, περὶ οὖ λύειν
ἐγχειροῦσι τὴν αἰτίαν, ἀλλά καὶ τὸ μηδὲν πάσχειν χωρὶς αἰσθήσεως. οἱ γὰρ ὑπερβάλλοντες
ψόφοι διακναίουσι καὶ τῶν ἀψύχων σωμάτων τοὺς ὄγκους, οἷον ὁ τῆς βροντῆς διίστησι
λίθους καὶτὰ καρτερώτατα τῶν σωμάτων. τοσούτων δὲ φερομένων, καὶ τοῦ ψόφου
διιόντος πρὸς τὸ φερόμενον μέγεθος, πολλαπλάσιον μέγεθος ἀναγκαῖον ἀφικνεῖσθαί τε
δεῦρο καὶ τὴν ἰσχὺν ἀμήχανον εἶναι τῆς βίας. ἀλλʼ εὐλόγως οὕτʼ ἀκούομεν οὕτε πάσχοντα
φαίνεται τὰ σώματα βίαιον οὐδὲν πάθος, διὰ τὸ μὴ ψοφεῖν».
aristotele e la negazione dell’armonia musicale celeste 1085

dialettica, a tal punto da entrare nella sua stessa definizione22, vedono Aristotele
utilizzare a questo scopo presupposti squisitamente fisici, cosicché l’argomentare
φυσικῶς s’intreccia con l’argomentare ἐλεγτικῶς. Nella prima delle due con-
futazioni, infatti, lo Stagirita utilizza una legge del suono da lui stabilita in De
anima (d’ora in poi indicato con la sigla DA) II, 8, 419 b 9-25, e cioè che il suono
si produce quando la percussione di una superficie dura, liscia, uniforme e cava
muove la massa d’aria confinante, essa medesima continua e unitaria, e quando
quest’aria esterna muove quella contenuta nell’orecchio, la quale a sua volta col-
pisce la membrana del timpano. Dunque, le condizioni perché si generi un suono
sono (1) innanzitutto che qualcosa urti contro qualcosa23, (2) il quale non sia come
la lana, bensì una superficie (a) dura e liscia, quale per esempio il bronzo, e (b)
cava, perché queste prerogative permettono (a) all’urto di risuonare e, (b) tramite
le ripiegature, che si producano molti colpi dopo il primo24. (3) È richiesto altresì
il duplice movimento del medio, l’aria, che, messo in moto dall’effetto del colpo,
muova a sua volta l’aria interna all’orecchio, la quale affetta il timpano25. Aristote-
le fa inoltre presente che anche l’aria risuona se colpita fortemente.
Non è difficile avvedersi che, alla luce di queste condizioni e sulla base di esse,
il suono musicale dei corpi celesti così come i Pitagorici lo concepivano e, in par-
ticolare, come Aristotele presenta la loro concezione, non ha titolo per sussistere
e va perciò negato. Non potrebbe sussistere perché, per emettere un suono, i cor-
pi celesti dovrebbero urtare gli uni contro gli atri, cosa che la teoria pitagorica
non prevede affatto; inoltre, dovrebbero essere duri, lisci e cavi, e neppure questo
è compreso in tale teoria, né essi sono siffatti nel quadro di quella aristotelica,
secondo la quale essi sono costituiti di etere, che non ha affatto tali caratteristiche;
ancora: il suono dei corpi celesti, ove mai si producesse urtando gli uni contro gli

22
Cfr. Aristotele, Top. I, 1, 100 a 1-4, dove si dice che la dialettica consiste nel reperimento di
una μέθοδος che guidi il ragionare nelle discussioni, che metta, cioè, in condizione di confutare
e di evitare d’essere a propria volta confutati, asserendo cose da cui si possa dedurre la contrad-
dizione della propria tesi. Analogamente Aristotele dice anche in Soph. El. 34, 183 37 - b 6. Sul
punto mi permetto di rinviare all’Introduzione dell’edizione italiana dell’Organon da me curata,
vol. I, Utet, Torino 1996, pp. 46-47.
23
DA II, 8, 419 b 9-10: «il suono in atto [ὁ κατʼ ἐνέργειαν ψόφος] è sempre di qualcosa con-
tro qualcosa [τινος πρός τι] e si genera sempre in qualcosa. Infatti, ciò che lo produce è un colpo
[πληγή]» (tr. it. di M. Zanatta, Aristotele. L’anima, Aracne, Roma 2008, condotta sul testo greco
stabilito da W.D. Ross, Aristotelis De anima, Clarendon Press, Oxford 1963).
24
DA II, 8, 419 b 14-20: «la lana anche se venga colpita [ἂν πληγῇ] non produce alcun suono;
invece lo producono il bronzo e tutte quelle cose che sono lisce e cave [λεῖα καὶ κοῖλα]: il bronzo
perché è liscio e le cose cave perché con la loro ripiegatura producono molti colpi dopo il primo, dal
momento che ciò che è stato mosso [scil. l’aria] è impossibilitato a uscir fuori. […] deve generarsi un
colpo delle cose solide [στερεῶν πληγή] l’una contro l’altra» (tr. it. di Zanatta, Aristotele, L’anima).
25
DA II, 8, 420 a 3-5: «è atto a produrre suono [ψοφητικὸν] ciò che è atto a muovere dell’aria che
sia una per continuità fino all’udito [τὸ κινητικὸν ἑνὸς ἀέρος συνεχείᾳ μέχρις ἀκοῆς]. All’organo
dell’udito è congenita dell’aria [ἀκοῇ δὲ συμφυὴς ἀήρ]. E per il fatto che <tale organo> è nell’aria,
quando quella esterna è mossa, è mossa quella interna» (tr. it. di Zanatta, Aristotele. L’anima).
1086 marcello zanatta

altri, essendo essi di notevole grandezza, muoverebbe molta aria esterna e questa,
data la sua quantità, muoverebbe quella di ben più ridotta quantità interna all’o-
recchio in modo tale che l’affezione prodotta da quest’ultima al timpano si risol-
verebbe in realtà in una sua rottura, per cui il suono non sarebbe udito. E ancora:
poiché per Aristotele il suono «si ode nell’aria e anche nell’acqua, ancorché di
meno» – pur non essendo «l’aria né l’acqua il fattore principale del suono»26, ma
il colpo (πληγή) di una cosa solida contro un’altra –, il presunto suono dei cieli e
degli astri, ancorché si desse, non si udirebbe nell’etere in cui sarebbe prodotto27;
ma un suono che non si oda là dove si produce è una contraddizione.
Sennonché, come abbiamo letto, Aristotele, che pur nel secondo argomento si
vale delle condizioni del suono da lui teorizzate, come ben si vede dal richiamo,
strutturale nell’argomento stesso, del movimento e dell’urto dell’aria, non rigetta la
teoria della musica astrale facendo valere i motivi su esposti, pur essendo essi del
tutto consoni all’istanza, ma utilizza soltanto l’argomento secondo cui (schematiz-
zando in un sillogismo ipotetico) «se i corpi celesti emettessero suono, la grande
quantità d’aria che muoverebbero, data la loro grandezza, provocherebbe lo spez-
zamento di cose solide e dure come le pietre; ma non si riscontra nessuno spezza-
mento di tali cose; dunque i corpi celesti non emettono suono»28. Ci si chiede allora
perché egli faccia valere soltanto questa condizione della sua teoria sul suono e non
anche le altre per rigettare la teoria pitagorica, e la risposta è che soltanto sulla base
di questa condizione era possibile costruire una «confutazione [ἔλεγχος]», e Ari-
stotele, in tutta evidenza, ha inteso «confutare» detta teoria, per via dell’efficacia
della confutazione, mentre gli altri argomenti non sono «confutazioni», ma soltanto
«dimostrazioni» dell’inesistenza della musica astrale. La confutazione, infatti, è

26
DA II, 8, 419 b 18-19: «ἀκούεται ἐν ἀέρι, κἀν ὕδατι, ἀλλʼ ἧττον, οὐκ ἔστι δὲ ψόφου
κύριος ὁ ἀὴρ οὐδὲ τὸ ὕδωρ».
27
Su questa linea si è espresso Elders, Aristotle’s cosmology, p. 225 il quale scrive: «in this
chapter Aristotle does not elaborate on how the noise of the celestial bodies would have to enter into
the region of the air and there produce its effects». Meno rilevante in ordine alla determinazione
dell’argomento nel suo nucleo speculativo, mi sembra il rilievo poco prima formulato dallo studioso,
il quale, a proposito della capacità del suono di spezzare le cose, chiamata in causa come esempio
da Aristotele, rileva come quest’annotazione e, in generale, la tesi che il suono, se forte, spezza gli
oggetti, presentano una difformità dalla tesi di DA 424 b 11 dove «is not the sound of thunder, but
the air which accompagnes it, which splits the trunks of trees».
28
Con un sillogismo ipotetico anche Tommaso d’Aquino prospetta l’obiezione di Aristotele: «si
corpora caelestia facerent iam magnos sonos, non solum est inconveniens quod nihil eorum audiatur
quod ipsi [scil. i Pitagorici] solvere nituntur [scil. quella che nella presentazione dell’argomento pitago-
rico abbiamo indicato come “aggiunta” e come risposta a una probabile obiezione], sed etiam inconve-
niens est quod corpora inferiora [scil. gli enti del mondo sublunare e, in specie, quelli inanimati] nihil
patiantur ab illis sonis, etiam si eos non sentiant» (S. Thomae Aquinatis, In Aristotelis libros De caelo
et mundo, De generatiopne et corruptiopne, Metereologicorum expositio, cum texto ex recensione leo-
nina, cura et studio P.fr. R.M. Spiazzi, Marietti, Torino 1952, L. II, 1, XIV, 424, p. 211). Dall’esegesi
tomista mi discosto, sia pur parzialmente, per non includere nell’argomento anche «l’aggiunta».
aristotele e la negazione dell’armonia musicale celeste 1087

«il sillogismo della contraddizione»29 o, come pure è definita, «il sillogismo con
contraddizione della conclusione»30, e come ben si vede nella schematizzazione
dell’argomento sopra proposta mercé un sillogismo ipotetico, in esso la conclusio-
ne contraddice la premessa dell’esistenza della musica celeste. Gli altri argomenti
atti a respingere la teoria pitagorica, che pur possono formularsi sulla base delle
condizioni del suono istituite da Aristotele, non sono, come chiaramente si costa-
ta, delle confutazioni, perché non concludono con la contraddizione della tesi, ma
dimostrano l’impossibilità del suo darsi.

6. Le ragioni del rigetto e la terza obiezione


A proposito della seconda obiezione è stato rilevato che «probabilmente» i Pita-
gorici non conoscevano la teoria della rivoluzione delle sfere celesti trasportanti
i pianeti in esse incastonati, come anche prima si è fatto presente. Essa – è stato
ancora rilevato – risale ad Anassimandro, secondo la testimonianza di Aet., II, 16,
5 = A 18 Diels-Kranz, e Aristotele l’avrebbe professata trasferendo sul piano fisico
«i cerchi puramente geometrici di Eudosso e Calippo»31. Senza entrare nel merito
della plausibilità storica di riferire la prima professione di questa teoria al Milesio,
materia non attinente a quest’articolo, per quanto invece e nella misura in cui con
il rilievo s’intende affermare che Aristotele obietta contro i Pitagorici nel quadro
della propria concezione del movimento astrale, non vi è dubbio che la cosa stia
effettivamente così, ma con l’aggiunta che quest’impostazione – la quale è usuale
nelle indagini, peirastiche ed exetastiche e non già storiche o dossografiche, dello
Stagirita sui predecessori, del cui pensiero non intende dare notizia, ma valutare
criticamente la fondatezza al fine di accoglierne quanto è adeguato, corregger-
ne invece e rifiutarne quanto non lo è, secondo il metodo dialettico da lui stesso
teorizzato32 – è del tutto consona con l’intendimento dello Stagirita di verificare
mercé il confronto con essa la propria dottrina sui cieli. Il che è esplicitamente
dichiarato dal filosofo, che a conclusione della seconda obiezione scrive che
contemporaneamente la causa di questi <fatti> è chiara e vi è per noi una testimonianza
dei ragionamenti che si sono esposti, ossia che sono veri. In effetti, ciò che crea difficoltà e
fa sì che i Pitagorici sostengano che ha luogo una sinfonia dei <corpi> che traslano, per noi
costituisce una prova33 (tr. it. mia).

29
Aristotele, Soph. El., 6, 168 a 37-38; 9, 170 b 2-3.
30
Ibi, 1, 165 a 2-3.
31
Elders, Aristotle’s cosmology, p. 225.
32
Sull’uso e sulla basilare rilevanza della dialettica nelle indagini dello Stagirita molto è stato
scritto dalla più aggiornata storiografia aristotelica, ma in questa sede basterà richiamare i molti con-
tributi di E. Berti e, tra essi, Le ragioni di Aristotele, Laterza, Roma - Bari 1989.
33
DC II, 9, 291 a 6-9: «ἄμα δʼ ἐστὶ τό τʼ αἴτιον τούτων δῆλον, καὶ μαρτύριον τῶν
εἰρημένων ἡμῖν λόγων, ὡς εἰσὶν ἀληθεῖς· τὸ γὰρ ἀπορηθὲν καὶ ποιῆσαν τοὺς Πυθαγορείους
1088 marcello zanatta

Ciò di cui la rigettata tesi pitagorica della musica celeste fornisce la prova è la verità
innanzitutto della teoria (precedentemente da Aristotele formulata e dimostrata) che
gli astri non si muovono da sé, ma sono mossi dalle sfere dei cieli in cui sono inca-
stonati34; ma anche di altre tesi, come vedremo. La pretesa musica celeste derivava
infatti, per i Pitagorici, dal movimento che gli astri hanno per se stessi. È questo
uno degli scopi che hanno indotto Aristotele a esaminare e rifiutare la tesi pitagori-
ca: quello fondamentale, giacché è quello che Aristotele stesso dichiara, ma non è
l’unico, come vedremo. Tuttavia in questo momento interessa che, nel far presente
l’intendimento dell’indagine condotta e l’efficacia probatoria della reiezione testé
eseguita in ordine all’asseveramento della propria dottrina dei cieli, Aristotele for-
mula implicitamente una terza obiezione alla tesi pitagorica. Che va esaminata.
Questo l’intero passo:
Tutte le cose che trasportano se stesse producono suono e silenzio; invece tutte quelle
che sono vincolate o sussistono in una che trasla, come le parti in una nave, non possono
emettere suono, né lo può la nave stessa se navighi in un fiume. Eppure sarebbe possibile
formulare i medesimi ragionamenti, ossia che vi è un assurdo se l’albero e la prua di una
nave di molta grandezza quando traslano non producono un abbondante suono, o a sua
volta non lo produce la nave muovendosi. Ciò che trasla in una cosa che non trasla emette
suono; invece in una che trasla, una cosa non continua e che non produce un urto è impos-
sibile che emetta suono. Di conseguenza, a questo riguardo si deve dire, come se i corpi
degli astri traslassero in una quantità sia di aria, sia di fuoco sparsa per il tutto, al modo in
cui tutti sostengono, che è necessario che i <corpi> in alto per la loro grandezza producono
un suono, e quando esso ha luogo, e giunge qui e procura fratture. Per cui, se non risulta
che avviene questo, nessuno degli astri né trasla di una traslazione dotata di anima né di
una violenta, come ciò che in futuro deve essere perché la natura lo prevede, dal momento
che, non comportandosi il movimento in questo modo, nessuna delle cose che si trovano
intorno al luogo di qui potrebbe stare in modo simile35 (tr. it. mia).

φάναι γίγνεσθαι συμφωνίαν τῶν φερομένων ἡμῖν ἐστὶ τεκμήριον».


34
Su di essa si sono soffermati gli studiosi (cfr. per esempio J. Tricot, Aristote. Traité du ciel sui-
vi du traité pseudo-aristotélicienne Du monde, Vrin, Paris 1949, p. 92, nota 3, dove afferma che ciò
cui Aristotele allude sono «l’immobilité des astres et le mouvement des sphères où ils sont fixés»,
anche perché il riferimento a essa salta subito agli occhi nel discorso dello Stagirita; ma non l’unica,
e del resto lo Stagirita stesso parla della verità (ὥς εἰσιν ἀληθείς) «dei ragionamenti che si sono
esposti [τῶν εἰρεμένον […] λόγον]» e non «del ragionamento», cui la reiezione della tesa pitagori-
ca dà testimonianza (μαρτύριον).
35
DC II, 9, 291 a 9-26: «ὅσα μὲν γὰρ αὐτὰ φέρεται, ποιεῖ ψόφον καὶ πληγήν· ὅσα δʼἐν
φερομένῳ ἐνδέδεται ἢ ἐνυπάρχει, καθάπερ ἐν τῷ πλοίῳ τὰ μόρια, οὐχ οἷόν τε ψοφεῖν, οὐδʼ
αὖ τὸ πλοῖον, εἰ φέροιτο ἐν ποταμῷ. καίτοι τοὺς αὐτοὺς λόγους ἂν ἐξείη λέγειν, ὡς ἄτοπον
εἰ μὴ φερόμενος ὁ ἱστὸς καὶ ἡ πρύμνα ποιεῖ ψόφον πολύν τηλικαύτης νεώς, ἢ πάλιν αὐτὸ τὸ
πλοῖον κινούμενον. τὸ δʼ ἐν μὴ φερομένῳ φερόμενον ποιεῖ ψόφον· ἐν φερομένῳ δὲ συνεχὲς
καὶ μὴ ποιοῦντι πληγὴν ἀδύνατον ψοφεῖν. ὥστʼ ἐνταῦθα λεκτέον ὡς εἴπερ ἐφέρετο τὰ
σώματα τούτων εἴτʼ ἐν ἀέρος πλήθει κεχυμένῳ κατὰ τὸ πᾶν εἴτε πυρός, ὥσπερ πάντες φασίν,
ἀναγκαῖον ποιεῖν ὑπερφυᾶ τῷ μεγέθει ψόφον, τούτου δὲ γινομένου καὶ δεῦρʼ ἀφικνεῖσθαι καὶ
διακναίεν. ὥστʼ ἐπείπερ οὐ φαίνεται τοῦτο συμβαῖνον, οὔτʼ ἂν ἔμψυχον οὕτε βίαιον φέροιτο
aristotele e la negazione dell’armonia musicale celeste 1089

È subito chiaro che Aristotele costruisce il discorso su una dottrina propria: produ-
cono suono i corpi che hanno un movimento autonomo, invece non ne producono
quelli che si muovono perché si muove ciò in cui sono collocati. La ragione è evi-
dente: tra essi non vi è urto (πληγή), determinazione che, espressamente nominata
nel passo, ha pienezza di senso nel riferimento alla teoria generale del suono di DA
II, 8 di cui si sono indicati i termini basilari e che, come si diceva all’inizio, costitu-
isce l’ambito entro il quale si declina la critica dello Stagirita. Anche l’indicazione
delle cose su una nave le quali non si muovono per sé, ma solo perché trasportate
dalla nave, e quella della nave stessa entro il corso del fiume richiamano immedia-
tamente la situazione della nave di Phys. IV, 4, 212 a 14-20 alla quale Aristotele si
appoggia per illustrate la teoria del luogo. Ma v’è di più: la stessa determinazione
del carattere non autonomo del movimento degli astri in quanto trasportati dai cieli
s’inquadra nella teorizzazione della distinzione tra movimento per sé e movimento
per accidente di Phys. IV, 4, 211 a 17-21, dove per l’appunto si afferma che
È una cosa mossa, da un lato ciò che lo è per sé, in atto, dall’altro ciò che lo è per acciden-
te. <Si muove> per accidente, da un lato ciò che può muoversi per sé, per esempio le parti
del corpo e il chiodo nella nave, dall’altro…36,

con un esempio, quale quello del chiodo, al quale in tutta evidenza si connette l’e-
sempio delle parti della nave del passo del DC qui in esame.
Sulla base di questa distinzione e dalla dimostrata impossibilità che gli astri
emettano suono, Aristotele assevera, dunque, la tesi, previamente raggiunta, che
gli astri non si muovono da sé ma per la traslazione in circolo dei cieli in cui sono
incastonati, con un ragionamento che formalmente si scandisce nel seguente sillo-
gismo in Camestres: ciò che si muove da sé emette suono; ma gli astri non emetto-
no suono; dunque gli astri non si muovono da sé.
Ma, a ben vedere, anche altri due aspetti della dottrina aristotelica dei corpi cele-
sti – entrambi essenziali in ordine alla determinazione della loro natura – risultano
confermati dalla reiezione della pretesa musica astrale. Uno è la dottrina che l’uni-
verso (di volta in volta indicato dallo Stagirita come ὁ κόσμος, τὸ πᾶν, τὸ ὅλον37)

φορὰν οὐθὲν αὐτῶν, ὥσπερ τὸ μέλλον ἔσεσθαι προνοούσης τῆς φύσεως, ὅτι μὴ τοῦτον τὸν
τρόπον ἐχούσης τῆς κινήσεως οὐθὲν ἂν ἦν τῶν περὶ τὸν δεῦρο τόπον ὁμοίως ἔχον».
36
Aristotele, Phys., IV, 4, 211 a 17-21: «ἔστι δὲ κινούμενον τὸ μὲν καθʼ αὐτὸ ἐνεργείᾳ, τὸ
δὲ κατὰ συμβεβηκός· κατὰ συμβεβηκὸς δὲ τὸ μὲν ἐνδεχόμενον κινεῖσθαι καθʼ αὐτό, οἷον τὰ
μόρια τοῦ σώματος καὶ ὁ ἐν τῷ πλοίῳ ἧλος». La traduzione italiana è di M. Zanatta, Aristotele.
Fisica, UTET, Torino 1999.
37
Vi è tuttavia da segnalare la differente prospettiva da cui Aristotele, pur concependo sempre
l’universo come contenente l’insieme degli enti, ne modula, a seconda dei contesti, la determinazio-
ne di «tutto» e di «intero», stante che «tutte quelle cose la cui posizione <delle parti> non produce
una differenza sono dette un tutto [πᾶν], mentre tutte quelle la cui <disposizione delle parti la>
produce <sono dette> un intero [ὅλον]» (Aristotele, Metaph. V, 26, 1024 a 2-3; tr. it. di M. Zanatta,
Aristotele. Metafisica, Rizzoli, Milano 2008).
1090 marcello zanatta

è finito38. Il che sarebbe indirettamente contraddetto se gli astri producessero un


suono musicale in virtù del fatto d’essere regolati nelle loro traslazioni da quegli
stessi principi che stanno alla base dell’armonia, ossia dai numeri, i quali sono per
l’appunto infiniti. Insomma, l’universo, che è «il tutto», «l’intero», ossia l’insieme
ordinato di corpi la cui natura, comportando che il relativo movimento sia armonico,
è determinata da numeri, i quali sono infiniti, sarebbe esso stesso infinito: proprio
perché il tutto non può che essere regolato dagli stessi principi di cui sono regolati i
corpi il cui insieme lo fa essere un tutto. Cosicché la smentita della pretesa armonia
celeste, comportando che i corpi costituenti il tutto non sono regolati nelle loro tra-
slazioni da principi aperti all’infinito, ha per conseguenza che il tutto stesso non sia
aperto all’infinito, cioè sia finito.
E ancora, risulta confermata la dottrina che i cieli e gli astri sono costituiti di
etere, ossia di un elemento diverso dai quattro di cui sono costituiti gli enti sublu-
nari: diverso, in particolare, dall’aria. La natura eterea dei corpi celesti sarebbe,
infatti, implicitamente smentita se fosse vero che la loro traslazione produce un
suono armonico, stante che il suono si propaga tramite un mezzo, e questo è l’aria.
Ma, come si annunciava, nel complessivo contesto di questo discorso finale,
frammischiato con la conferma di momenti cardinali della teoria aristotelica dei cie-
li, si riscontrano anche i termini di una terza obiezione alla tesi dell’armonia celeste.
Questa tesi ha alla base quella, espressamente professata dai Pitagorici, e da Aristo-
tele stesso attribuita loro, che gli astri si muovono da sé. Si badi, si tratta proprio di
una tesi pitagorica, espressamente professata da costoro, non di un’istanza inferita
da una riflessione sui presupposti e sulle condizioni da cui discende la tesi pitago-
rica dell’armonia celeste. Il che è di fondamentale importanza per escludere che la
terza prova, che ora verrà specificata, possa essere fraintesa come la riformulazione
«in circolo» del precedente sillogismo: quasi che sulla base del procedimento con
cui da due premesse si ricavava la necessità della conclusione, ora da una di quelle
premesse e dalla conclusione si ricava l’altra premessa. Il fatto che il muoversi da
sé degli astri non valga come esito inferito da una riflessione quale quella suddetta,
ma sia una tesi dei Pitagorici e in questa specifica determinatezza venga ora assunta,
esclude alla radice la possibilità di una tale lettura fraintendente.
Ebbene, alla luce di quanto s’è or ora precisato è possibile scorgere che nelle pie-
ghe del discorso aristotelico si delinea anche una prova che, formalizzata, si scandi-
sce secondo il seguente sillogismo ipotetico: se gli astri emettono suono allora non
si muovono da sé; ma non-non si muovono da sé; dunque gli astri non emettono
suono (la negazione del conseguente implica infatti la negazione dell’antecedente).

38
Cfr. per esempio 293 a 19: τὸν ὅλον πεπερασμένον, detto del cielo, che, racchiudendo l’uni-
verso, comporta che l’universo stesso sia πεπερασμένον.
Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, CXII (2020), 4, pp. 1091-1099
ISSN: 00356247 (print) - 18277926 (digital)
DOI: 10.26350/001050_000165

NOTE E DISCUSSIONI

Pierpaolo Ascari*
ANALOGIA E METAFORA NELLA METROPOLI DI SIMMEL

Analogy and Metaphor in Simmel’s Metropolis

The article aims to analyze how analogy and metaphor come into relationship in the essay
on the metropolis by Georg Simmel. The definition of the two tropes has been taken from
Siegfried Kracauer’s notes about Simmel, on the basis of a contrast between the man of
analogies and the man of similitudes that the essay on the metropolis would seem deny.

Keywords: Analogy, Metaphor, Metropolis, Simmel, Kracauer

1. L’uomo delle analogie


© Vita e Pensiero / Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore

Le riflessioni che Siegfried Kracauer dedica alla figura di Georg Simmel


(1919) contengono un breve trattato sulla nozione di analogia che il mio con-
tributo intende riferire al saggio sulle metropoli e la vita dello spirito. Nella
prospettiva di Kracauer, l’analogia entra immediatamente in scena come un
rapporto tra le cose antitetico rispetto a quello istruito dal concetto, il quale
opera nella realtà un lavoro di sforbiciatura destinato a trattenere dei fenomeni
soltanto i ritagli (Wirklichkeitsausschnitten), vale a dire la loro corrisponden-
za a uno scopo1. Il concetto non è che una smorfia, quindi, un ammiccamen-
to del rapporto tra il soggetto e l’oggetto alla reiterazione di corrispondenze
già sperimentate e funzionali che impongono alle cose un difetto di ulteriore
visibilità. Liberare le cose dal concetto significa allora saper cogliere il loro

*
Alma Mater Studiorum - Università di Bologna. Email: pierpaolo.ascari2@unibo.it
Received: 26.02.2020; Approved: 05.03.2020; First published online: 03.2020.
1
S. Kracauer, Georg Simmel. Ein Beitrag zur Deutung des geistigen Lebens unserer Zeit
(1919), in Id., Werke, Bd. 9.2, Frühe Schriften aus Nachlaß, hrsg. von I. Belke, unter Mitarbeit von
S. Biebl, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2004, pp. 152-153; tr. it. di M. G. Amirante Pappalardo e F.
Maione, Georg Simmel, in S. Kracauer, La massa come ornamento, Prismi, Napoli 1982, pp. 37-67.
1092 pierpaolo ascari

carattere statutariamente poliedrico, perché ovunque si ponga lo sguardo pos-


sano rivelare nuove e inesplorate connivenze. Il talento di Simmel consistereb-
be quindi nella straordinaria capacità di dimostrare l’esistenza di queste affinità
(Verwandtschaften) che Kracauer definisce appunto analogie (Analogien). In
altri termini, l’analogia riguarda le proprietà formali o strutturali che rendo-
no due oggetti eventualmente affini, i rapporti di somiglianza (Ähnlichkeit)
che possono sempre intrattenere all’esterno della loro gabbia concettuale e
che emergono dalla programmatica disintegrazione dell’immagine assunta dal
fenomeno in qualità di ritaglio destinato alla soddisfazione di uno scopo. L’a-
nalogia, così, non si limita a coronare il successo dell’osservazione, ma ne ispi-
ra il programma, lo anima in partenza, è la forma inerente o ancora in potenza
che la realtà sta già implicando quando entra in relazione con il soggetto della
conoscenza. E lo stesso concetto, a questo punto, si potrebbe definire un siste-
ma di analogie esauste e strumentali, per quanto Kracauer non espliciti mai lo
slittamento di una definizione nell’altra ma lo lasci eventualmente indovina-
re attraverso la tematizzazione di un ulteriore problema, quello relativo alla
distinzione tra l’analogia e la similitudine (Gleichnis).
Simmel appare infatti un maestro nello scovare delle connessioni che fino-
ra Kracauer ha chiamato indifferentemente analogie, affinità o somiglianze,
utilizzando l’esempio del modo in cui il sistema economico viene paragona-
to all’ordinamento giuridico (wird mit der Rechtsordnung verglichen) come un
sinonimo del medesimo procedimento. Adesso invece si fa strada una precisa-
zione dirimente, perché mentre l’analogia connette due fenomeni che per qual-
che ragione assumono lo stesso comportamento (dasselbe Verhalten aufweisen),
la similitudine crea un’immagine relativa al significato che un determinato feno-
meno assume per noi (für uns hat). Nella tensione tra analogia e similitudine,
così, Kracauer darebbe proprio l’impressione di ricapitolare tutte le influenze
che alla sua formazione filosofica attribuisce Remo Bodei, secondo il quale «da
Simmel ha appreso ad apprezzare la concretezza, ad aprire gli occhi sui più umi-
li e trascurati aspetti del mondo quotidiano, a disprezzare i concetti generali che
non siano il frutto di una serie di passaggi attraverso la specificità dell’oggetto
d’indagine», mentre «dall’espressionismo e dalla tecnica cinematografica e pit-
torica ha imparato […] il montage, la composizione che altera le dimensioni
tradizionali, ritenute “naturali”, del tempo e dello spazio, mostrandoli kantiana-
mente come nostre costruzioni»2.
L’analogia affianca fenomeni emancipati o che vengono in questo modo li-
berati dall’astrattezza del concetto, la similitudine lascia trasparire attraverso un
fenomeno il significato che noi attribuiamo (den wir beimessen) a un altro feno-

2
R. Bodei, «Le manifestazioni della superficie»: filosofia delle forme sociali in Siegfried Kra-
cauer, Presentazione di Kracauer, La massa come ornamento, pp. 7-23, qui p. 21.
analogia e metafora nella metropoli di simmel 1093

meno3. Eppure, la stessa analogia pone in relazione due oggetti che obbedisco-
no alla medesima legge generale (allgemeine Gesetz) della quale rappresentano
un caso specifico e alla padronanza della quale rinvia necessariamente la sco-
perta dell’analogia stessa (als Sonderfall eines Allgemeinen, dessen Erkennt-
nis Vorbedingung der Analogiebildung ist). L’analogia non avrà mai a che fare
con la singolarità delle cose, quindi, perché mette a confronto solo processi che
aderiscono a un medesimo schema (demselben Schema verlaufen) e che nella loro
somiglianza non riflettono un orientamento del soggetto (deren Gleichsinnigkeit
ist jeder subjectiven Willkür entzogen), il quale si limita a scovare e postulare l’esi-
stenza di affinità che il successo dell’accostamento consente poi di attribuire effet-
tivamente ai fenomeni. Ma al di fuori del parallelismo processato da uno specifico
procedimento analogico, le cose non rimangono meno ignote della realtà mutilata
dai concetti. Solo con la similitudine, dunque, un fenomeno provvede a rappresen-
tare concretamente la spiegazione (Erklärung), il significato (Bedeutung), il con-
tenuto (Gehalt) e l’essenza (Wesen) di un altro fenomeno, cioè l’impressione che
suscita in noi e il modo in cui lo concepiamo (unseren Eindruck, unsere Auffassung
von ihr). Ed è così che la stessa analogia, pur differenziandosi dal concetto astratto
come la sperimentazione di una mappa si discosta dal ricorso a una mappatura
già collaudata, non approda mai alla reale esperienza delle cose, perché la loro
completa liberazione si può determinare soltanto nella dimensione espressamente
estetica dell’immagine, della creazione fantastica e dell’impressione soggettiva.
La realtà si mostra solo attraverso un velo (Schleier): prima ancora di attribuire
a Schopenhauer il primato nell’arte delle similitudini, definendolo una natura to-
talmente allegorica (eine Gleichnisnatur durch und durch), Kracauer ne ratifica la
prospettiva epistemologica4. E proprio come Schopenhauer sta alla similitudine,
Simmel è l’uomo delle analogie, vale a dire l’autore che non si lascerebbe attrarre
dai fenomeni nella loro interezza ma si limiterebbe a reperirne i rapporti.

2. Il regime metaforico
La lettura del saggio sulle metropoli e la vita dello spirito (1903), sembra ef-
fettivamente confortare il giudizio di Kracauer. L’analogia interviene già nelle
prime righe, dove la resistenza dell’individuo alle forze storiche della società,
della cultura e della tecnica viene immediatamente interpretata come una ri-
modulazione (Umgestaltung) della lotta che ha opposto l’uomo primitivo alla
natura5. Ora però l’individuo risulta minacciato dal fabbisogno di vista, odorato,

3
Kracauer, Georg Simmel, p. 154.
4
Ibi, p. 156.
5
G. Simmel, Die Großstädte und das Geistesleben (1903), in Id., Gesamtausgabe, Bd. 7,
Aufsätze und Abhandlungen 1901-1908, Bd. 1, hrsg. von R. Kramme, A. Rammstedt und O.
Rammstedt, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1995, pp. 116-126; tr. it. di P. Jedlowski, Le metropoli e la
vita dello spirito, Armando, Roma 2012.
1094 pierpaolo ascari

tatto e udito che gli consentirebbero di rimanere connesso agli stimoli nervosi
della grande città, dove la conseguente tendenza all’intellettualismo e gli effetti
dell’economia monetaria si corrispondono profondamente (stehen im tiefsten
Zusammenhange). Il tipo intellettuale opera sui fenomeni un lavoro di astrazio-
ne che non li rende meno interscambiabili delle merci soggette alla legge del de-
naro (wie in das Geldprinzip), imponendo al rapporto con i propri simili la stes-
sa logica quantitativa che riduce qualunque cosa a dei numeri (wie mit Zahlen) o
a elementi privi di differenze sostanziali (wie mit an sich gleichgültigen Elemen-
ten). Così la vita pratica sembra finalmente corrispondere (entspricht) all’ideale
delle scienze naturali, alla loro tensione verso una realtà interamente misurabile
e calcolabile come quella che viene rappresentata plasticamente dalla diffusio-
ne degli orologi da tasca (wie sie äusserlich durch die allgemeine Verbreitung
der Taschenhuren bewirkt wird). La figura che porterà al culmine questo ripie-
gamento nell’interiorità sarà quella del blasé, la cui indolenza non è altro che
il riflesso soggettivo (der getreue subjective Reflex) dell’indifferenza imposta
alla singolarità degli oggetti dal valore di scambio. E la stessa personalità uma-
na, in questa chiave, sembra sprofondare in un sentimento analogo al processo
di svalutazione che investe tutte le differenze tra le cose (ein Gefühl gleicher
Entwertung). Per quanto riguarda i confini della città in cui ciò avviene, infine,
da un lato oltrepassano la loro immediatezza fisica proprio come un individuo
(wie ein Mensch) che non si riduce mai al proprio corpo, mentre internamente
creano una successione di soglie attraverso le quali l’esperienza può disperdersi
in progressione geometrica (wie in geometrischer Progression).
Non possono esserci davvero dubbi, allora, sull’andamento analogico della
riflessione di Simmel o su quella che Frédéric Vandenberghe ha definito la sua
analisi non sistematica delle relazioni metonimiche6. Ma oltre a concordare con
Kracauer, lo stesso Vandenberghe introduce un correttivo che entra parzialmen-
te in conflitto con lo schema che separa in modo troppo rigido i filosofi dell’ana-
logia dai filosofi della similitudine, sostenendo che le differenti relazioni meto-
nimiche assumerebbero una forma comunque unitaria attraverso la mediazione
soggettiva e l’attitudine del loro scopritore. Il rinvenimento di ogni connessione
segreta, in altri termini, dipende pur sempre dagli oggetti concreti che Simmel
seleziona per penetrare attraverso i loro dettagli nella totalità dei fenomeni7. Il
fatto che Kracauer non abbia considerato questo aspetto, si potrebbe interpretare
come una conferma del primato che anche la sua teoria dei tropi sembra accor-
dare alla passività attiva, un tema che secondo Carlo Ginzburg attraversa tutta

6
F. Vandenberghe, Relativisme, relationnisme, structuralisme, «Simmel Studies», 12 (2002),
1, p. 47.
7
S. Goldblum, Die Kunst der indirekten Argumentation. Georg Simmels Denken in Analogien,
in O. Agard - F. Lartillot (éds.), L’individualisme moderne chez Georg Simmel, L’Harmattan, Paris
2019, pp. 131-149.
analogia e metafora nella metropoli di simmel 1095

la sua riflessione e ci consente di coglierne la coerenza8. Il fotografo e il grande


storico condividerebbero un esilio preliminare, infatti, una perdita di sé che li fa
entrare in comunione con il proprio oggetto: sono stranieri rispetto a un mondo
che possono comprendere soltanto rinunciando a ogni certezza, compresa quel-
la di se stessi. Ma questo auto-estraniamento che impone l’identificazione con
l’oggetto è quello del malinconico, dell’individuo depresso, il quale si perde
finalmente nelle configurazioni della realtà senza determinarle in alcun modo.
L’uomo delle analogie sembra dunque rientrare nella stessa famiglia, ponendosi
in una posizione frontale rispetto alla mediazione soggettiva o all’attitudine che
secondo Vandenberghe e Goldblum non mancherebbe di caratterizzare in ultima
istanza la riflessione di Simmel. Senza forzare troppo i termini del discorso,
allora, mi pare che il saggio sulla metropoli deponga a favore della loro tesi e
che ci consenta di rintracciare questa attitudine nell’utilizzo delle metafore, che
poi sarebbero ciò che rimane delle similitudini nel passaggio in cui Kracauer
ammette che possano fare a meno del come 9. In merito alla ricorrenza di alcu-
ne metafore nell’opera di Simmel, poi, anche se in una prospettiva che corre
il rischio di trascurare la loro effettiva irriducibilità allo statuto dell’analogia,
qualcuno ha opportunamente osservato come il rapporto di somiglianza non si
limiti quasi mai a confermare l’esistente, ma introduce un elemento di novità e
un contributo di ordine cognitivo10.
Da questo punto di vista, più che il ricorso a vere e proprie metafore, ciò
che colpisce del saggio sulla metropoli è il modo in cui il regime metaforico
o le connotazioni veicolate da alcune scelte lessicali entrano in rapporto con
il sistema delle analogie e ne chiariscono la costituzione. È quanto accade in
uno dei paragrafi più critici del saggio, quando a proposito della corrisponden-
za cruciale tra l’intellettualismo e l’economia monetaria, Simmel sembra quasi
costretto a porsi la più metafisica di tutte le domande, quella relativa alle cause
ultime, sconfinando in un campo dal quale l’uomo delle analogie si sarebbe
dovuto tenere alla larga11. La corrispondenza, infatti, gli appare così stretta da
impedirgli di stabilire quale sia il fattore determinante (bestimmende) o l’ordine
causale della relazione, vale a dire se l’intero processo debba rinviare all’azione
originaria dell’intelletto oppure a quella del denaro. Intelletto e denaro condi-
vidono una porzione di significato che il processo analogico ha messo in luce,
quindi, ma il principio sotteso alla vera natura della loro interazione (l’essenza
di Kracauer) rimane oscuro. Ed ecco allora che Simmel risolve questo limite

8
C. Ginzburg, Particolari, primi piani, microanalisi. In margine a un libro di Siegfried Kracauer,
in Id., Il filo e le tracce. Vero falso finto, Feltrinelli, Milano 2006, p. 231.
9
A. Borsari, Per una morfologia di cose e immagini. Siegfried Kracauer e Georg Simmel, «Iride»,
29 (2016), p. 624.
10
A.M. Zocchi, Georg Simmel: metafore, in C. Corradi - D. Pacelli - A. Santambrogio (a cura
di), Simmel e la cultura moderna. Volume Secondo, Interpretare i fenomeni sociali, Morlacchi,
Perugia 2010, p. 293.
11
Simmel, Die Großstädte und das Geistesleben, pp. 119-120.
1096 pierpaolo ascari

dello sguardo trasferendo il problema delle cause nella forma di vita delle grandi
città (die Form großstädtischen Lebens) che definisce metaforicamente il ter-
reno più nutriente (der nährendste Boden) sul quale può fiorire l’influenza re-
ciproca tra il denaro e l’intellettualismo alla quale si sono attenute le certezze
dell’analogia. Londra, così, può assumere la duplice valenza metaforica della
mente (Verstand) e del portafoglio (Geldbeutel) dell’Inghilterra. Ma lo stesso
problema si ripresenta in rapporto al modo in cui la più stretta relazione tra
la mente e il portafoglio sembra connessa agli altri aspetti dell’esistenza, che
risultano ugualmente caratterizzati dalla calcolabilità e dall’astrazione. Ed è an-
cora la vastità della vita metropolitana (Ausgedehntheiten des großstädtischen
Lebens), che oltre ad alimentare le correlazioni tra i singoli elementi, riceve il
compito non meno metaforico di stendere su di loro il medesimo colore (muß
auch die Inhalte des Lebens färben). Ma più che di un colore, si tratta della
tonalità grigia (grauen Tönung), dell’assenza di colore (Farblosigkeit) o della
scoloritura (Entfärbung) trasversale a tutte le realtà parzialmente illuminate dal
procedimento analogico e dal saggio, la cancellazione delle differenze operata
dalla metropoli in cui tutte le cose nuotano (schwimmen) e anche la vita interiore
si dilata passivamente a ondate (Wellenzügen).

3. Le forme elementari della vita


Se l’effetto della grande città si può davvero riassumere nello sradicamento
dell’individuo12, le connotazioni metaforiche del nutrimento, della perdita di in-
tensità cromatica, del nuoto o del galleggiamento sembrano restituire ai rapporti
tra le cose una radice fisica e percettiva che rinvia alle prerogative dello spazio e
del corpo. Ancora una volta, il rapporto con lo spazio è cruciale per comprendere
la prospettiva di Simmel e per misurare la sua distanza da un approccio intellet-
tualista e razionalista13. Ed esattamente in questo modo la metafora risalirebbe
la corrente del movimento storico, che come Simmel sosterrà a proposito della
legge sui poveri del 1834, in Inghilterra, quando l’assistenza venne trasferita
dalle parrocchie alla burocrazia statale, cioè dal problema del povero realmente
situato a quello del concetto generale di povertà, coinvolge tutte le forme sociali
nella tendenza a migrare dalla sensibilità all’astrazione14. Nella sua formulazio-
ne più sintetica, infatti, la classificazione tratteggiata da Kracauer definiva come
analogico il rapporto tra gli oggetti e metaforica la rappresentazione dei rap-

12
M. Maffesoli, G. Simmel: modernité e post-modernité, in O. Rammstedt - P. Waiter (éds.),
G. Simmel et les sciences humaines, Méridiens Klincksieck, Paris 1992, p. 153.
13
J. Remy, La grande ville et la petite ville: tension entre forme de sociabilité et la forme
esthétique, in Id. (éd.), Georg Simmel: ville et modernité, L’Harmattan, Paris 1995, p. 88.
14
G. Simmel, Soziologie. Untersuchungen über die Formen der Vergesellschaftung (1908), in
Id., Gesaumtausgabe, Bd. 11, hrsg. von O. Rammstedt, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1992, p. 530;
tr. it. di G. Giordano, Il povero, Mimesis, Milano 2015, p. 48.
analogia e metafora nella metropoli di simmel 1097

porti tra il soggetto e l’oggetto, mentre ora è di nuovo il radicamento nell’espe-


rienza soggettiva e sensoriale a supportare il lavoro dell’analogia fornendole
un recipiente15. Del resto, come ho cercato di ipotizzare, nella metropoli che
tende a smaterializzare ogni cosa privandola di qualunque peculiarità estranea
ai processi di astrazione, tra il concetto e il procedimento analogico si viene a
creare una zona grigia nella quale entrambi agiscono per conto di un principio
generale. L’ultima analogia di Simmel, in questo senso, rischierebbe di eviden-
ziare le corrispondenze tra il denaro, l’intellettualismo e l’analogia stessa. Se ciò
non accade è proprio grazie alle risorse del regime metaforico, all’affettività e
alla fantasia delle immagini con le quali il soggetto continua a farsi strada nella
struttura monadica del frammento16. Si tratta di un problema nel quale si era
imbattuto lo stesso Leibniz, d’altronde, quando osservava che non essendo mai
privo di ulteriori implicazioni, il dispiegamento della monade si doveva ancora-
re a una sostanza necessaria o a una ragione eminente senza la quale il contenuto
dell’anima, continuamente rinviato da una conoscenza alla conoscenza succes-
siva, non corrisponderebbe mai al contenuto del mondo17. Il paragone andrebbe
sviluppato in modo più analitico, chiaramente, ma qua vorrei limitarmi a sospet-
tare che nelle scelte lessicali di Simmel si sia potuta annidare una necessità non
meno metafisica di quella che doveva spingere Leibniz a identificare l’origo
formarum con l’azione divina. Per attenersi ai termini di Kracauer, infatti, af-
finché due fenomeni rivelino il medesimo comportamento (Verhalten) e non si
irrigidiscano nella smorfia del loro concetto, sembra emergere l’esigenza di un
fondamento che nel saggio sulla metropoli si direbbe fornito dalle connotazioni
metaforiche della grande città, compresa quella dello scenario (Schauplatz) in
cui le smorfie e i comportamenti vengono finalmente sorpresi in una prospetti-
va più organica18. Anche l’uomo delle analogie, in altre parole, non si limita a
rimanere sulla soglia del rapporto tra gli oggetti, ma instaura un legame segreto
e costitutivo con la stessa dimensione estetica nella quale sembrava operare
indisturbato l’uomo delle similitudini.
Può allora valere la pena rileggere le pagine in cui Simmel dichiara di vo-
ler prendere in considerazione non solo un argomento di ordine estetico, ma uno
dei problemi estetici più interessanti, come lo definisce: è il problema dell’ansa
del vaso (1905 e poi 1911), vale a dire di un elemento che deve contempora-
neamente sottostare alle giurisdizioni separate dell’opera d’arte e della realtà19.
Lo stesso non avviene nel caso di un dipinto, per esempio, dove risulta evidente

15
Kracauer, Georg Simmel, p. 155.
16
D. Frisby, Frammenti di modernità. Simmel, Kracauer, Benjamin, tr. it. di U. Livini, il Mulino,
Bologna 1992, pp. 83-84.
17
G.W. Leibniz, Principi della filosofia o Monadologia (1714), in Id., Monadologia, a cura di S.
Cariati, Bompiani, Milano 2001, p. 75.
18
Simmel, Die Großstädte und das Geistesleben, p. 130.
19
Id., Philosophische Kultur. Gesammelte Essais (1911), in Id., Gesamtausgabe, Bd. 14,
Hauptprobleme der Philosophie. Philosophische Kultur, hrsg. von R. Kramme und O. Rammstedt,
1098 pierpaolo ascari

che tra lo spazio ideale della rappresentazione e lo spazio reale non si creano
più contatti di quanti non ne intrattengano i suoni e gli odori (wie sich Töne mit
Gerüchen berühren können). Ora l’analogia, a differenza di quanto accadeva
nel saggio sulla metropoli, non coinvolge più le sfere del corpo e dello spazio
al livello dei presupposti, nell’organizzazione prospettica delle relazioni meto-
nimiche, ma in quanto termini della relazione stessa. Quando il vaso viene con-
siderato esclusivamente come prodotto artistico, infatti, si comporta allo stesso
modo (verhält es sich ebenso) dello spazio ideale rispetto allo spazio reale, vale
dire dei suoni rispetto agli odori. A differenza del quadro, però, il vaso e la con-
formazione dell’ansa devono attenersi a una funzione pratica, venir impugnati
e maneggiati, rendendo quindi necessaria una prima classificazione delle inter-
ferenze tra le prerogative della realtà e quelle del giudizio estetico. Nel caso in
cui le prime abbiano la precedenza sulle seconde, dunque, il manico a forma di
lucertola sarà strisciato fino al contenitore per rimarcare la propria appartenenza
a un ordine esterno delle cose, nel caso contrario l’ansa sembra promanare di-
rettamente dal corpo come le braccia dell’uomo (wie die Arme des Menschen) si
distaccano dall’embrione. Probabilmente a causa della loro estrazione dalle forme
elementari della vita, poi, nelle figure della lucertola o dell’embrione non è più
così semplice isolare l’analogia dalla similitudine, ma anche in questo caso il pa-
rallelismo serve a evidenziare un’affinità di ordine funzionale, resa attraverso i
movimenti opposti dell’animale che striscia sull’oggetto per rappresentarne le
modalità d’uso o delle braccia umane che una volta formate dovranno mediare il
rapporto con l’esterno. La promiscuità tra il procedimento analogico e il regime
delle metafore non sfugge allo stesso Simmel, in ogni caso, che sottolinea come
definire becco (Schnabel) l’apertura del vaso significhi mobilitare un’espres-
sione che contiene già in sé il riferimento alle funzioni di una parte organica
al tutto (organische Gliedfunktion). Il principio dell’ansa, allora, speculare ma
analogo a quello del becco, consiste nel risultare coerente al rapporto con l’e-
sterno e alla forma del vaso, ma è ancora un sostrato metaforico quello che con-
sente a Simmel di inserire quel vaso in un sistema di analogie, di considerarlo nel-
la sua specificità di opera d’arte che a differenza del dipinto non è pensata in vista
di un’intangibilità insulare (inselhafte Unberührsamkeit) o di concepirne la presa
come il momento in cui l’opera d’arte si sporge nel mondo (mit ihm ragt sie in
die Welt) per restituirne il flusso (Strömung) attraverso il becco. Ora, dunque, una
volta inserito nella corrente della vita, lo stesso manico è come l’arte di vivere, che
obbedisce a un ordine superiore mentre soddisfa esigenze più pratiche, oppure è
come l’anima, la quale però si comprende soltanto nella metafora del braccio che
un mondo tende verso l’altro (als wäre sie der Arm).

Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1996, pp. 278-286; tr. it. di M. Monaldi, L’ansa del vaso, in Id., Saggi
di cultura filosofica, Guanda, Parma 1985, pp. 101-107.
analogia e metafora nella metropoli di simmel 1099

Sono sempre cose che traggono nutrimento, nuotano, si sporgono, strisciano o


allungano un braccio quelle tra le quali Simmel rinviene le proprie analogie, gli
elementi di un mondo ancora animato che la metafora sembra deputata a custodi-
re. Al fatto che queste connotazioni non abbiano nulla di cosmetico o di accesso-
rio, si può ricondurre anche la tesi di Hans Blumenberg in base alla quale lo stesso
denaro, in Simmel, vale a dire il tema filosofico al quale le riflessioni sulla metro-
poli rimangono senza dubbio incardinate, andrebbe interpretato come una meta-
fora del concetto di valore nella sua transizione alla filosofia della vita20. Un passo
oltre, commentando l’articolo di Blumenberg, qualcuno si è addirittura spinto a
proporre di interpretare come soluzioni metaforiche anche la vita e le forme21. In
entrambi i casi si tratta di conclusioni che pur confermando implicitamente l’op-
portunità di creare una tensione interna allo schema interpretativo di Kracauer,
esulano dagli obiettivi più circostanziati che si era posta la presente nota. La quale
si potrebbe forse riassumere nella segnalazione di una pista di ricerca relativa alle
modalità in cui l’analisi della gestualità e della morfologia del lavoro concettuale
possa integrarne e renderne più perspicue le articolazioni.

20
H. Blumenberg, Geld oder Leben. Eine metaphorologische Studie zur Konsistenz der Phi-
losophie Georg Simmels, in H. Böhringer - K. Gründer (hrsg), Ästhetik und Soziologie um die
Jahrhundertwende: Georg Simmel, Klostermann, Frankfurt a.M. 1976, pp. 121-134; tr. it. di A. Bor-
sari, Denaro o vita. Uno studio metaforologico sulla consistenza della filosofia di Georg Simmel,
«aut aut», 257 (1993), pp. 21-34.
21
G. Fitzi, Life and Forms. The sociological Meaning of a Metaphor, «Simmel Studies», 22
(2018), 1, pp. 135-169.
Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, CXII (2020), 4, pp. 1101-1111
ISSN: 00356247 (print) - 18277926 (digital)
DOI: 10.26350/001050_000232

Pio Colonnello*

Rileggendo Eros e civiltà sessant’anni dopo


Una breve Wirkungsgeschichte

Rereading Eros and Civilization Sixty Years Later. A Short Wirkungsgeschichte

Nowadays we can reread Eros and Civilization as the fresco or the mirror of the society
and the postwar era, of which Marcuse was a passionate interpreter. But we can read it at
the same time as the proposal of fruitful instances of emancipation, bearing in mind the
relations of the Frankfurter philosopher with the culture of his time, with Psychoanalysis,
Freudism, Marxian inspiration, Utopian Thought. A profile, albeit in broad outline, of the
Wirkungsgeschichte of Eros and civilization – often associated with Marcuse’s other great
work, One-Dimensional Man –, cannot ignore the reference to both Hannah Arendt, another
‘spurious’ student of Martin Heidegger, and to a ‘Theological-political’ movement – which
arose in the same years – known with the name of ‘Liberation Theology’. Furthermore, the
© 2020 Vita e Pensiero / Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore

fact that, behind some new theological orientations of the 1960s, in particular behind the
‘Political’ Theology of Johann Baptist Metz and Jürgen Moltmann, some researchers have
identified the influence exercised by Marcuse and the exponents of the Frankfurt School, as
well as by Walter Benjamin.

Keywords: Herbert Marcuse, Eros and Civilization, Liberation Theology, Utopian Thought

Nel riprendere la nota tesi di Walter Benjamin dell’«ora della leggibilità», l’idea
che ogni opera perviene alla sua piena intelligibilità in un determinato momen-
to storico, sono persuaso che oggi siamo in grado di intendere con una mag-
giore penetrazione critica, venute meno le passioni del momento, l’Hauptwerk
marcusiano, Eros e civiltà1.

*
Università della Calabria. Email: pio.colonnello@gmail.com
Received: 08.09.2020; Approved: 23.10.2020.
1
La prima edizione, in lingua inglese, col titolo Eros and Civilization. A Philosophical
Inquiry into Freud, Beacon Press, Boston, è, com’è noto, del 1955. Negli ultimi anni, negli Stati
Uniti, vi è un rinnovato interesse per la figura e l’opera di Herbert Marcuse, come testimonia l’at-
tività della International Herbert Marcuse Society, (https://sites.google.com/site/marcusesociety/
Home), che ha promosso, recentemente, le pubblicazioni di alcuni inediti marcusiani (lezioni,
seminari): Transvaluation of Values and Radical Social Change. Five New Lectures, 1966-1976,
1102 pio colonnello

Questo volume, unitamente alle opere di Adorno, di Horkheimer e a una serie


di sollecitazioni culturali che venivano d’oltralpe, tra la fine degli anni Cinquanta
e gli anni Sessanta, ha contribuito ad aprire al lettore italiano una regione ricca
di promesse, da esplorare palmo a palmo, capace di rinvigorire un clima cultura-
le in cui si godevano i frutti postumi di una grande stagione intellettuale, quella
dell’idealismo crociano e gentiliano, ma rispetto alla quale non pochi pensatori
e intellettuali avvertivano l’esigenza, come ha osservato Gianfranco Contini, di
«riuscire postcrociani, senza essere anticrociani»2.
Penso, procedendo per ‘lumi sparsi’, tanto ai filosofi che, a quel tempo, si ascri-
vevano nell’alveo della filosofia dell’esistenza, come ad esempio Luigi Pareyson,
o nel movimento fenomenologico, come Enzo Paci, o nell’alveo del razionalismo
critico, come Antonio Banfi, o nell’indirizzo del neo-illuminismo, come Nicola
Abbagnano; quanto all’operazione culturale di coloro che riscoprirono, nell’im-
mediato dopoguerra, il pensiero gramsciano.
È ben noto che nel maggio del 1953, Abbagnano promosse un convegno, invi-
tando un gruppo di studiosi italiani di filosofia i quali, a suo parere, si sarebbero
sforzati «di orientare le loro ricerche fuori dalle tradizionali pregiudiziali di un
necessitarismo metafisico o con rinnovate cautele rispetto a ogni forma di dog-
matismo»3. Un referente polemico della cultura italiana di quegli anni era appun-
to la ‘vetusta’ tradizione metafisica – non di rado accomunata allo spiritualismo o
all’idealismo tout court – che appariva ormai datata, insieme agli esiti retorici di
certa tradizione umanistica nostrana.
Ma questa posizione, negli anni a seguire, divenne una moda, una sorta di
luogo comune, una versione spesso superficiale e non di rado tendenziosa, non
priva di pregiudizi ideologici. In questo contesto, la lettura delle pagine di Mar-
cuse e dei pensatori della Scuola di Francoforte, per non parlare della ricezione
italiana della filosofia dell’esistenza, della fenomenologia e del rinnovato inte-
resse per il pensiero marxiano, prima ancora dell’avvento dello strutturalismo e
del formalismo degli anni Settanta, appariva come un’appassionata conquista,
che alcuni più avvertiti seppero coniugare con la forza della riflessione, l’impe-
gno dell’analisi, la rigorosità del giudizio.
Era l’inizio di un processo di rinnovamento in cui fu coinvolta un’inte-
ra generazione di studiosi, che seppero tuttavia discernere il grano dal loglio

York University, Toronto (Canada) 2017; Ecology and the Critique of Society Today. Five Selected
Papers for the Current Context, ed. by S. Surak - P.-E. Jansen - C. Reitz, University of California,
Santa Barbara 2019; Herbert Marcuse’s 1974 Paris Lectures at Vincennes University, ed. by P.-E.
Jansen - C. Reitz, Salisbury University, Maryland 2015. Esiste, peraltro, un’edizione italiana delle
Lezioni, tenute da Marcuse a Parigi, che precede l’edizione statunitense: H. Marcuse, Lezioni Pari-
gine, in Id., Marxismo e Nuova sinistra. Scritti e interventi, vol. II, a cura di R. Laudani, Manifesto-
libri, Roma 2007, pp. 199-247.
2
G. Contini, L’influenza culturale di Benedetto Croce, Ricciardi, Napoli 1967, p. 7.
3
Cfr. M. Pasini - D. Rolando (a cura di), Il neoilluminismo italiano. Cronache di filosofia (1953-
1962), Il Saggiatore, Milano 1991, p. 9; N. Abbagnano, Scritti neolluministici, UTET, Torino 2017.
rileggendo eros e civiltà sessant’anni dopo 1103

e riconobbero alla fine l’importanza della tradizione di pensiero italiana. Anni


dopo non fu più uno scandalo riconoscere l’influenza e il valore di quella tra-
dizione metafisica, che sembrava, per così dire, ‘seppellita’ sotto le ceneri della
barbarie del ventesimo secolo, dei campi di concentramento e dei totalitarismi.
Ma questa è un’altra storia, che non è qui il caso di ripercorrere. Basti ricordare
la serietà delle pagine della Dialettica negativa, in cui Adorno descrive l’impo-
tenza del pensiero metafisico di fronte all’immane tragedia dell’olocausto: «La
facoltà metafisica è paralizzata perché quel che accadde ha spezzato al pensiero
metafisico speculativo la base della sua compatibilità con l’esperienza»4. Non-
dimeno, le analisi adorniane, sottolineando la problematicità del confronto con
il pensiero metafisico, erano ben altro che un semplice ‘oltrepassamento’ o, in
termini heideggeriani, un’ineludibile Überwindung della stessa metafisica.
Le pagine di Eros e civiltà, insieme a quelle dei pensatori su ricordati, ebbe-
ro una forte influenza anche per il loro valore performativo. La generazione di
giovani, che partecipò agli eventi del maggio francese nel ’68, ma anche molti
altri studenti europei, si richiamava appunto a slogan che potevano essere ascritti,
tra altre fonti, al pensiero marcusiano, primo tra tutti: «L’immaginazione al pote-
re». Un tratto utopistico, indubbiamente controverso, ma che in quel momento di
grande passione civile e politica veniva celebrato in maniera festosa. Appunto la
circostanza che il volume marcusiano contiene «la prima formulazione di quel
“significato rivoluzionario dell’utopia” che ha avuto in seguito una così straordi-
naria e discutibile fortuna»5, come è stato opportunamente rilevato, ha costituito
una delle principali ragioni, o forse la principale, del successo di Eros e civiltà.
Il conciso richiamo ad alcune tesi fondamentali di Eros e civiltà sarà uti-
le soprattutto per seguire la traccia della Wirkungsgeschichte, della storia degli
effetti del volume. Già dagli anni Trenta, rileggendo il tema heideggeriano
dell’Eigentlichkeit alla luce del concetto marxiano di alienazione, dovuta al
modo di produzione capitalistica e alla subordinazione dell’esistenza alle leggi
dell’economia, Marcuse aveva tentato di elaborare un’antropologia che servisse
da base nel garantire un’esistenza priva di alienazione; un’antropologia ripresa
appunto negli anni Cinquanta, nell’intento di dare un «contributo alla filosofia
della psicoanalisi, non alla psicoanalisi stessa»6. Nelle questioni chiave di Eros
e civiltà, la letteratura critica ha spesso scorto la filiazione dialettica dal pen-
siero freudiano, da una parte, e dalla riflessione marxiana, dall’altra. Tuttavia,
a differenza della tesi centrale espressa da Freud in Totem e Tabù e in Il disagio

4
T.W. Adorno, Le meditazioni della metafisica, in Id., Dialettica negativa (1966), tr. it. di P.
Lauro, a cura di S. Petrucciani, Einaudi, Torino 2004, p. 325.
5
G. Jervis, Introduzione, in H. Marcuse, Eros e civiltà, tr. it. di L. Bassi, Einaudi, Torino 1967,
p. 32.
6
Per una ricognizione sulla controversa questione dell’antropologia in Marcuse, si veda S.
Bundschuh, The Theoretical Place of Utopia: Some Remarks on Marcuse’s Dual Anthropology, in
J. Abromeit - W. Cobb (eds.), Herbert Marcuse: A Critical Reader, Routledge, London and New
York 2003, pp. 152-162.
1104 pio colonnello

della civiltà, Marcuse rilevando che Freud aveva identificato il principio della
realtà con una particolare forma storica di repressione, prevalente nella società
borghese, e di avere offerto in definitiva una soluzione puramente psicologica,
affronta la questione della liberazione dal sistema repressivo, riferendosi non
alle proibizioni esercitate dalla civiltà in quanto tale, ma dalla civiltà autoritaria
e classista in cui viviamo: «Il principio della realtà si materializza in un siste-
ma di istituzioni. […] La repressione è un fenomeno storico. L’ asservimento
efficace degli istinti sotto il controllo dei freni repressivi, è imposto non dalla
natura ma dall’uomo. [...] Il motivo per cui la società impone la modificazione
decisiva della struttura degli istinti è quindi “economico”»7. Questo lo induce
a sovrapporre una repressione ‘addizionale’ di origine sociale a quella fonda-
mentale di Freud, e al principio di realtà un principio di prestazione, elabora-
to accentuando marxianamente la connotazione economica della stessa realtà,
dopo aver riletto, intanto, la stessa dialettica marxiana alla luce dell’inconscio,
«poiché la fatica del lavoro alienato significa assenza di soddisfazione, nega-
zione del principio del piacere»8. Del resto, lo stesso Marcuse, nella prefazione
alla prima edizione dell’opera, sottolinea di impiegare «categorie psicologiche,
poiché sono diventate categorie politiche. Le tradizionali linee di demarcazione
tra psicologia da un lato e filosofia politica e sociale dall’altro, sono state rese
antiquate dalla condizione dell’uomo della nostra epoca»9. Di conseguenza, la
liberazione dall’alienazione non può essere più intesa come una mera presa di
possesso degli strumenti della produzione, ma piuttosto come una riconquista
delle attività fantastiche e ludiche; dunque, non come liberazione del lavoro, ma
come liberazione dal lavoro. Di qui la proposta di una nuova mitologia, che si
propone di sostituire a Prometeo, l’eroe della fatica, del lavoro, della produtti-
vità, da sempre inteso come simbolo della società, le figure di Orfeo e di Narci-
so, che rievocano l’esperienza di un mondo non più dominato e controllato ma
liberato, finalmente capace di sciogliere i freni alle forze erotiche: «Nell’Eros
orfico e narcisistico questa tendenza si libera: gli oggetti della natura diventano
liberi di essere ciò che sono, ma per poter essere ciò che sono devono dipendere
dall’atteggiamento erotico: ricevono soltanto in questo il loro telos. […] Il mon-
do della natura è un mondo di oppressione, crudeltà e dolore com’è il mondo
umano; come quest’ultimo, esso aspetta la sua liberazione, questa liberazione è
l’opera di Eros, il canto di Orfeo infrange la pietrificazione»10.
Invece di insistere sulle note tesi di Eros e civiltà, vorrei concentrarmi, per
restare nel tema della Wirkungsgeschichte, su due osservazioni.
In primis: negli anni tra la prima edizione del volume (1955) e la seconda
(1966), al tramonto del freudismo corrispondeva, nella teoria e nella clinica della

7
Marcuse, Eros e civiltà, p. 63.
8
Ibi, p. 88.
9
Ibi, p. 47.
10
Ibi, pp. 188-189.
rileggendo eros e civiltà sessant’anni dopo 1105

psicoanalisi, l’emergere di un nuovo astro, Jacques Lacan, che suscitò forte inte-
resse, ma anche riserve, sugli intellettuali di quella generazione. Un discorso a par-
te meritano tanto il declino della psicoanalisi ortodossa negli Stati Uniti11, quanto
le nuove interpretazioni della base metapsicologica della psicoanalisi che un grup-
po di giovani intellettuali stava elaborando tra la fine degli anni ’50 e i primi anni
’60. Penso, a questo riguardo, a Norman Brown, eccentrica figura di pensatore, di
letterato e di ‘critico della cultura’, che nel volume Life against Death12, ideato tra
il 1953 e il 1956, ma pubblicato nel 1959, sottolineava come la psicoanalisi orto-
dossa non avesse tratto grande profitto dal concetto freudiano di istinto di morte
e come occorresse ripensare e riformulare anche i concetti di sessualità, rimozio-
ne e sublimazione. Mi riferisco a questa singolare figura di pensatore perché egli
attribuiva notevole importanza proprio a Eros e civiltà, «il primo libro, dopo le
sfortunate avventure di Wilhelm Reich, che ridonava la speranza di potere abolire
la rimozione»13. Intanto, in Europa, e segnatamente in Francia, le tesi di Marcuse,
che pure avrebbero avuto notevole eco nel movimento studentesco del ’68, subi-
vano una diversa fortuna, alla luce del ripensamento del freudismo e del nascente
dibattito sulla psicoanalisi lacaniana. Penso a Gilles Deleuze e Félix Guattari, i
quali poco dopo, nello stesso anno del libro simbolo dell’ultima fase del pensiero
di Marcuse, Controrivoluzione e rivolta, pubblicheranno la loro opera più impor-
tante, L’anti-Edipo, dove avrebbero rimarcato la costitutiva ambiguità dell’incon-
scio, il suo carattere propriamente politico, essendo anche produzione di realtà, e
sociale, ragione per cui «non c’è da una parte una produzione sociale di realtà, e
dall’altra una produzione desiderante di fantasma»: «la produzione sociale è uni-
camente la produzione desiderante stessa in condizioni determinate» nel senso
che «il corpo sociale è immediatamente percorso dal desiderio»14. Per altro verso,
Jean Baudrillard, nell’accentuare la correlazione tra inconscio e realtà, avrebbe
preso le distanze tanto da Freud quanto da Lacan, spingendosi fino alla negazione
stessa dell’inconscio, almeno di quello ‘compromesso’ con l’economia, secondo
la teoria psicoanalitica. Nell’impossibilità di discutere, sia pure per grandi linee,

11
Per una ricostruzione storica della fortuna della psicoanalisi freudiana negli Stati Uniti, cfr.
N.J. Hale, Freud and the Americans, vol. II, The Rise and Crisis of Psychoanalysis (1917-1985),
Oxford University Press, Oxford 1995. Di grande interesse è il dibattito, negli anni ’50, «all’interno
dell’American Psychiatric Association dove non mancano feroci attacchi contro la psicoanalisi e il
suo impiego in psichiatria», mentre, per altro verso, «Hospers, Kennedy, Pap e Salmon, sostengono
la psicoanalisi replicando efficacemente alle accuse rivolte contro di essa» (F. Palombi, Il legame
instabile. Attualità del dibattito psicoanalisi-scienza, FrancoAngeli, Milano 2002, pp. 58-59). Nel
1958, nel memorabile secondo convegno annuale dell’Università di New York, il dibattito tra i
principali esponenti dell’epistemologia e della psicoanalisi statunitense inizia a biforcarsi e «la
domanda sulla scientificità della psicoanalisi trova due risposte, una di riformulazione epistemolo-
gica e una d’interpretazione ermeneutica» (ibi, p. 91).
12
N.O. Brown, La vita contro la morte. Il significato psicoanalitico della storia, tr. it. di S.
Besana Giacomoni, Adelphi, Milano 2002.
13
Ibi, p. 15.
14
G. Deleuze - F. Guattari, L’anti-Edipo, tr. it. di A. Fontana, Einaudi, Torino 1975, p. 31.
1106 pio colonnello

le sue proposte teoriche, ritengo opportuno fare cenno almeno a una di esse, che
a me pare un significativo ‘contrassegno’ del milieu culturale di quegli anni: «La
poesia maledetta, l’arte non ufficiale, la scrittura utopica in generale, attribuendo
un contenuto immediato, presente, alla liberazione dell’uomo, dovrebbero esse-
re la parola stessa del comunismo, la sua profezia diretta»15. Emergeva, dunque,
soprattutto in ambito francese, una differente, e forse controversa, declinazione
della relazione tra potere, repressione, immaginazione e inconscio.
La seconda osservazione riguarda la rilettura critica di Eros e civiltà da par-
te dello stesso Marcuse. Infatti, nella Prefazione alla seconda edizione16, egli
osservava come fosse stato mosso inizialmente dalla «convinzione che i risul-
tati raggiunti dalle società industriali avanzate potessero consentire all’uomo
di capovolgere il senso di marcia dell’evoluzione storica, di spezzare il nesso
fatale tra produttività e distruzione, libertà e repressione»17; tuttavia, al tempo
stesso, sottolineava di avere «trascurato o minimizzato il fatto che questi motivi
[…] sono stati notevolmente rinforzati (se non sostituiti) da forme ancora più
efficaci di controllo sociale. Proprio le forze, che hanno messo la società in con-
dizione di risolvere la lotta per l’esistenza, sono servite a reprimere negli indivi-
dui il bisogno di liberarsi»18.
Che cosa era successo nel decennio tra la prima e la seconda edizione di Eros e
civiltà? Si tratta ovviamente di avvenimenti ben noti: le guerriglie nel continente
africano, lo smacco di alcune operazioni della potente politica estera americana19
e, soprattutto, la guerra del Vietnam, senza vincitori né vinti, una guerra violen-
ta, lunghissima, indesiderata da milioni di cittadini americani, tanto da causare
continui disordini sociali e proteste negli stessi Stati Uniti, come dimostravano
peraltro le contestazioni antimilitariste di migliaia di reduci di guerra e degli stu-
denti della Columbia University. Sembrava quasi replicarsi l’interdetto adorniano
nei confronti del pensiero metafisico: cosa ormai potrà salvarci, in cosa potrà mai
consistere la liberazione da nuove, inedite forme di potere repressivo, dopo che i
conati della ragione, teoretica o pratica che sia, sembravano sepolti o dissolti, non
più sotto le ceneri di Auschwitz, ma sotto le terribili combustioni del napalm? Non
a caso, nella Prefazione alla seconda edizione, vi è un icastico riferimento alle
«fotografie che mostrano file di cadaveri seminudi stesi di fronte ai vincitori in
Vietnam, che rassomigliano in tutti i particolari alle fotografie dei cadaveri denu-
triti e mutilati di Auschwitz e Buchenwald. Nulla e nessuno potrà mai cancellare

15
J. Baudrillard, Lo specchio della produzione, tr. it. di S. Blanzina, a cura di M. Ferraris,
Multhipla, Milano 1979, p. 139.
16
La cosiddetta «prefazione politica», pubblicata, per la prima volta, in italiano su «Nuovo
Impegno» 2, (1967), 8, pp. 9-18.
17
Marcuse, Eros e civiltà, p. 33.
18
Ibidem.
19
Si pensi, ad esempio, al fallimento dell’operazione militare, nel 1961, durante l’amministra-
zione Kennedy, diretta a rovesciare il governo di Fidel Castro, nota come: l’invasione della ‘baia dei
Porci’. Un duro colpo alla politica del New Frontier, improntata agli ideali di Peace and Freedom.
rileggendo eros e civiltà sessant’anni dopo 1107

la realtà di questi fatti»20. A tutto ciò si aggiungeva la protesta della popolazione di


colore nelle ricche e turistiche città americane, la segregazione dei ghetti, le lotte
contro i pregiudizi etnici. Come non ricordare, accanto alle manifestazioni pacifi-
che di Martin Luther King, le tante veementi espressioni di protesta, come quelle
promosse dai Black Power o da Malcom X? L’America era certo al culmine di un
periodo di grande sviluppo economico e sembrava quasi di poter garantire, grazie
alle sue istituzioni, la pacificazione dell’ordine mondiale.
A questo riguardo, molto significative sono le osservazioni marcusiane: «Ma la
verità è che questa libertà e questo appagamento stanno trasformando la terra in un
inferno. L’inferno è concentrato tuttora in certi luoghi molto lontani: in Vietnam,
nel Congo, in Sud-Africa e nei ghetti della “società opulenta”: nel Mississippi, in
Alabama e ad Harlem. Questi inferni gettano un fascio di luce sul mondo intero
[…]. Il conflitto tra padrone e schiavo si è socialmente spostato. Esso ora esiste ed
esplode nella rivolta dei paesi sottosviluppati contro l’intollerabile eredità del colo-
nialismo e il suo prolungarsi nel neocolonialismo»21. Ma oltre a ciò, è dato rilevare
una sintomatica pista riflessiva, sviluppata ulteriormente da Marcuse: l’importanza
del ruolo svolto dagli intellettuali e dagli opinion makers come base e slancio per la
preparazione dell’azione politica: «Oggi, il sistematico rifiuto di collaborare degli
scienziati, dei matematici, dei tecnici, degli psicologi industriali e dei raccoglitori
di dati statistici sulla opinione pubblica può bene ottenere quello che uno sciopero,
anche su vasta scala, non può più ottenere, vale a dire l’inizio dell’inversione di
rotta, la preparazione del terreno per l’azione politica. Che l’idea appaia del tutto
utopistica non riduce la responsabilità politica insita nella posizione e nella funzio-
ne dell’intellettuale nella moderna società industriale»22.
Queste riflessioni rimandano a un’altra prospettiva di osservazione, nel propor-
re un controveleno all’oppressione e alla repressione delle libertà individuali, ad
opera della società. Il riferimento, tutt’altro che eccentrico ed estrinseco, riguarda
un peculiare aspetto dell’opera di Hannah Arendt. Non di rado, il rapporto tra i
due pensatori è stato oggetto di indagine della letteratura critica. Richard Volin, ad
esempio, indaga le relazioni implicite nella vicenda intellettuale ed esistenziale di
Marcuse, della Arendt, di Löwith e di Jonas, vale a dire di coloro che, inizialmen-
te, si sono ispirati al pensiero di Heidegger, ma successivamente disillusi dalla
presa di posizione teorica e politica del loro stesso mentore, subirono, per ragioni
razziali, il medesimo destino di esiliati dalla Germania nazionalsocialista23.

20
Marcuse, Eros e civiltà, p. 41.
21
Ibi, pp. 35-37.
22
Ibi, p. 45.
23
R. Volin, Heidegger’s Children: Hannah Arendt, Karl Löwith, Hans Jonas, and Herbert
Marcuse, Princeton University Press, Princeton (NJ) 2015. Cfr. anche I. Strazzeri, Da “Eros e
civiltà” a “Eros in agonia”, «Nómadas. Revista Crítica de Ciencias Sociales y Jurídicas», 49
(2016); F. Andolfi, Lavoro e libertà. Marx Marcuse Arendt, Diabasis, Parma 2005.
1108 pio colonnello

Nondimeno, la letteratura critica ha elaborato, in genere, due interpretazioni


tra loro piuttosto dissonanti, riguardo al rapporto Marcuse-Arendt. Da una parte,
vi sono coloro che contrappongono le posizioni dei due pensatori riguardo ai
temi della rivoluzione, della repressione, della democrazia, dell’etica pubblica24;
d’altra parte, alcuni interpreti, come Christofer Holman, cercano di conciliare,
in qualche modo, le distinte posizioni del loro pensiero politico, sostenendo che,
mentre le rispettive teorie di Arendt e Marcuse alla fine limitano ciascuna la
portata potenziale della creativa espressione umana, la loro «giustapposizione»
(juxtaposition) – non ancora esplorata – si tradurrebbe in una teoria più comple-
ta dell’esistenza democratica, in grado di affermare in modo univoco le creative
capacità dell’essere umano25.
Da parte mia, pur riconoscendo la sostanziale diversità tra la declinazione dei
temi della rivoluzione, della democrazia e dell’etica pubblica in Marcuse e nella
Arendt, ritengo sia possibile individuare un significativo nesso tra la pista svilup-
pata ulteriormente da Marcuse sull’importanza del ruolo svolto dagli intellettuali
e dagli opinion makers come base e slancio per la preparazione dell’azione poli-
tica e la teoria della «disobbedienza civile»26, che nell’America di quegli stessi
anni andava elaborando Hannah Arendt e che rispondeva, in qualche modo, all’e-
sigenza di orientare l’opinione pubblica, risultando non solo come descrizione di
un modo di reagire non violento al mancato riconoscimento dei diritti propri del
cittadino, ma anche indicazione di un responsabile comportamento politico.
È appena il caso di ricordare che la Arendt descrive la disobbedienza civile
come un fenomeno prettamente americano, del quale sottolinea, da una parte, il
carattere fortemente ‘politico’, il suo muoversi nello spazio pubblico, a differen-
za dell’obiezione di coscienza, atto eminentemente apolitico e soggettivo, mentre
insiste, d’altra parte, sulla distinzione tra la prerogativa della non-violenza, e il
carattere violento della rivoluzione. La disobbedienza civile insorge, ella osserva,
«quando un numero significativo di cittadini si convince che i canali consueti del
cambiamento non funzionano più, che non viene più dato ascolto né seguito alle
loro rimostranze»27. Nondimeno, sintomatici sono gli esempi citati a riguardo, che
fanno da pendant agli esempi menzionati da Marcuse: «si pensi ai sette anni di
guerra mai dichiarata al Vietnam, alla crescente influenza dei servizi segreti sugli
affari pubblici, alle esplicite o sottilmente velate minacce alle libertà garantite dal

24
M. Ribeiro do Vale, A Violência Revolucionária em Hannah Arendt e Herbert Marcuse, Ed.
UNESP, São Paulo 2006; F. Sollazzo, Potere disciplinante e libertà controllata. Esiti morale della
moderna configurazione del potere, «Lo Sguardo», 13 (2013), III, pp. 249-266. Id., Totalitarismo,
democrazia, etica pubblica, Aracne, Roma 2011.
25
C. Holman, Politics as Radical Creation: Herbert Marcuse and Hannah Arendt on Political
Performativity, University of Toronto Press, Toronto 2013.
26
H. Arendt, Civil Disobedience, «New Yorker», 12 Sept. 1970, pp. 70-105; tr. it. di V. Abate-
russo, Disobbedienza civile, Chiarelettere, Milano 2017.
27
Ibi, p. 32.
rileggendo eros e civiltà sessant’anni dopo 1109

Primo emendamento, ai tentativi di privare il Senato dei suoi poteri costituzionali,


a cui ha fatto seguito l’invasione della Cambogia decisa dal presidente nel pieno
disprezzo della Costituzione che prevede che non si possa dichiarare guerra senza
il consenso del Congresso»28. Sintomatica è anche la peculiare attenzione verso
le minoranze di colore, ad esempio al caso dei Freedom Riders, attivisti afroa-
mericani che nel 1961 percorsero a bordo di autobus alcune tratte interstatali nel
Sud degli Stati Uniti per protestare contro la segregazione razziale sui mezzi di
trasporto; una pratica contraria alla legge federale ma diffusa negli Stati meridio-
nali. D’altro canto, di fronte alla dimensione ‘politica’ della disobbedienza civile,
resta pur sempre, a parere della Arendt, il dovere morale del cittadino, «la volontà
di dare e mantenere un impegno affidabile sulla propria condotta futura, che è la
condizione prepolitica per tutte le altre virtù specificamente politiche»29.
Un disegno, sia pure per grandi linee, della Wirkungsgeschichte di Eros e civiltà,
spesso accomunato all’altra grande opera di Marcuse, L’uomo a una dimensione,
non può prescindere dal riferimento a un movimento ‘teologico-politico’, sorto in
quegli stessi anni, conosciuto con il nome di ‘teologia della liberazione’, e non solo
in considerazione della circostanza che alcuni interpreti hanno rilevato, al di là del-
le differenze, il medesimo intento soteriologico, l’analoga dimensione utopica, che
anima il pensiero marcusiano30.
Non va, peraltro, trascurata la circostanza che, dietro alcuni nuovi orien-
tamenti teologici degli anni ’60, in particolare dietro alla teologia politica di
Johann Baptist Metz e a un’opera che rappresentò un nuovo punto di riferimento
nel dibattito teologico, Il Dio crocifisso di Jürgen Moltmann, alcune ricerche

28
Ibidem.
29
Ibi, p. 45. Qui interviene l’obbligo del cittadino di ‘fare e mantenere’ promesse. Peraltro,
sappiamo che nella teoria arendtiana la promessa rappresenta una forma di ‘azione’; al pari della
menzogna e del perdono, che sono capaci di trasformare il passato, rendendo nietzscheanamente
il ‘così fu’ in ‘così volli che fosse’, la promessa è «l’unico mezzo di cui dispongono gli uomini
per ordinare il futuro, rendendolo prevedibile e affidabile», e perciò rappresenta la capacità di
«dare inizio a qualcosa di nuovo», testimoniando la nostra capacità di agire, la nostra libertà uma-
na. Il vincolarsi con promesse «serve a gettare nell’oceano dell’incertezza, quale è il futuro per
definizione, isole di sicurezza» (H. Arendt, The Human Condition, University of Chicago Press,
Chicago 1958; tr. it. di S. Finzi, Introduzione di A. Dal Lago, Vita activa. La condizione umana,
Bompiani, Milano 1988, p. 175).
30
Peraltro, gli stessi ‘teologi della liberazione’ riconoscono una comune ispirazione di fondo. Cfr.
G. Gutiérrez, Teologia de la Liberación, Ediciones Sigueme, Salamanca 2005; tr. it. di L. Bianchi -
E. Demarchi, Teologia della liberazione, Queriniana, Brescia 1972, pp. 79-81, 84-85, 282. È appena
il caso di ricordare che la teologia della liberazione, inizialmente, è stata tacciata di essere di aperto
orientamento marxista, in un’epoca in cui la Santa Sede guardava con cautela le aperture ideologiche
e ogni nuovo movimento che sembravano minare la dottrina sociale della Chiesa. Tuttavia non è qui
possibile accennare, sia pure brevemente, alle varie prese di posizione e successive ‘aperture’ alla
teologia della liberazione da parte del magistero della Chiesa. Cfr. E. Dussel, Sobre la historia de la
teología en América Latina, in E. Ruiz Maldonato (ed.), Liberación y Cautiverio. Debates en torno
al método de la teología de la liberación, s.e., México D.F. 1975, pp. 19-68; R. Gibellini, La nuova
frontiera della teologia in America Latina, Queriniana, Brescia 1991.
1110 pio colonnello

hanno individuato l’influenza esercitata proprio da Marcuse e dagli esponenti


della Scuola di Francoforte, oltre che da Walter Benjamin. L’argomentazione
appare senza dubbio pertinente: la memoria della passione, morte e resurrezione
di Cristo, che contraddirebbe «l’appiattimento sul presente proprio della società
di massa, appare come “sovversiva” e “pericolosa”, poiché pone il cristiano e la
chiesa dalla parte dei perdenti, degli emarginati bisognosi di riscatto»31.
Ma torniamo alla «teologia della liberazione», che in alcuni Paesi dell’Ameri-
ca latina, soprattutto in Brasile, in Messico, negli anni ’50 e ’60, si rese interprete
del grido di dolore che veniva dai più poveri, dai diseredati, dai derelitti, dagli ulti-
mi, dai «dannati della terra», per usare un’espressione di Frantz Fanon, per la loro
emancipazione dal sistema repressivo, soprattutto economico, esercitato dalla
società autoritaria, classista e opulenta. I teologi della liberazione sentivano come
preminente, più che la risposta alla sfida lanciata dall’ateo, dal non-credente, la
risposta al grido lanciato dal ‘non-uomo’, vale a dire da chi «non è riconosciuto
come uomo da parte dell’ordine sociale imperante: il povero, lo sfruttato, colui che
è sistematicamente e legalmente spogliato del suo essere uomo»32. Teologia della
liberazione voleva dire, allora, liberazione, sì, dal peccato, fonte di ogni miseria e
ingiustizia, ma anche liberazione politica, economica, sociale, vale a dire libera-
zione globale, che affrancasse l’uomo dalla schiavitù e dall’oppressione33.
Tuttavia, la questione centrale, che intendo qui richiamare, è un’altra e riguarda
un’opzione di fondo della teologia della liberazione, un’opzione che rivela un’in-
trinseca assonanza con le analisi marcusiane di Eros e civiltà: l’idea della neces-
sità di un’inversione di tendenza; una Kehre dalla civiltà opulenta a una civiltà
in cui viene eliminato il superfluo. Infatti, nella Prefazione alla seconda edizione
di Eros e civiltà, come ricordavo all’inizio, Marcuse osserva: «Proprio le forze
che hanno messo la società in condizione di risolvere la lotta per l’esistenza sono
servite a reprimere negli individui il bisogno di liberarsi […]. Nella società opu-
lenta, le autorità non hanno quasi più bisogno di giustificare il dominio che eser-
citano. Esse provvedono al continuo flusso dei beni; esse provvedono a che siano

31
Cfr. S. Cannistrà, Verso una nuova generazione teologica? Prospettive a partire dalla let-
tura storico-sociologica della teologica cattolica del nostro secolo, «Teresianum», 44 (1993), 1,
pp. 97-134, in part. p. 117.
32
G. Gutiérrez, Prassi di liberazione, teologia e annuncio, «Concilium» 6 (1974), pp. 73-97,
qui pp. 87-88.
33
Dopo le prese di posizione di teologi come Gustavo Gutiérrez o Leonardo Boff (Teologia do
Cativeiro e da Libertação, Editora Vozes, Petrópolis - Rio de Janeiro 2014), anche la filosofia della
liberazione è stata alimentata dalla stessa riflessione teologica, che si presentava come «una riflessione
critica a partire da (desde) e sulla prassi storica alla luce della fede» (Gutiérrez, Teologia della libera-
zione, p. 24). Per i rapporti tra la filosofia della liberazione e il pensiero di Marcuse – tema che costi-
tuirebbe un ulteriore capitolo della sua Wirkungsgeschichte – cfr. N.L. Solís Bello Ortiz - J. Zúñiga -
M.S. Galindo - M.A. González Melchor, La filosofía de la liberación, in E. Dussel - E. Mendieta -
C. Bohórquez (eds.), El pensamiento filosófico latinoamericano del Caribe y “latino” (1300-2000).
Historia, Corrientes, Temas, Filósofos, Siglo Veintiuno Editores, México D.F. 2009, pp. 399-417.
rileggendo eros e civiltà sessant’anni dopo 1111

soddisfatte la carica sessuale e l’aggressività dei loro soggetti […]. Nelle società
supersviluppate di oggi la rivoluzione deve significare il rovesciamento di questa
tendenza: l’eliminazione del supersviluppo e della sua razionalità repressiva»34.
Non era questo, forse, l’intento che ha animato gran parte della riflessione
della teologia della liberazione? Lo stesso Gustavo Gutiérrez, nella sua opera
principale, osserva: «La storia umana d’oggi è animata da una profonda e comu-
ne aspirazione alla liberazione […]. Ne è prova la presa di coscienza di nuove
e sottili forme di oppressione all’interno delle società industriali avanzate che
vengono, spesso, offerte a modello agli attuali popoli sottosviluppati. In esse la
constatazione non si presenta come una protesta contro la povertà, ma piuttosto
contro la ricchezza»35.
Possiamo oggi rileggere Eros e civiltà come l’affresco o lo specchio della
società e dell’epoca del dopoguerra, in cui all’accelerato sviluppo economico e
tecnologico e all’erompere di forti tensioni sociali corrisposero aspirazioni e idea-
li, di cui Marcuse fu appassionato interprete, ma, al tempo stesso, come la propo-
sta di feconde istanze di emancipazione che hanno continuato ad essere presenti,
come un fiume carsico, oltre gli anni Sessanta, nella nostra storia delle idee.

34
Marcuse, Eros e civiltà, pp. 33-34, 39.
35
Gutiérrez, Teologia della liberazione, pp. 78-79. Qualche pagina dopo egli osserva: «Marcuse
analizza il carattere sovrarepressivo della società opulenta. Arriva, così, ad intravedere la possibilità,
negata esplicitamente da Freud, di una società non repressiva. Le sue analisi della società industriale
avanzata, capitalistica o socialista, lo portano a denunciare l’insorgere di una società unidimensiona-
le e oppressiva. Ma per arrivare a questa società non repressiva, bisognerà opporsi ai valori propu-
gnati da una società che nega all’uomo la possibilità di vivere liberamente».
Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, CXII (2020), 4, pp. 1113-1128
ISSN: 00356247 (print) - 18277926 (digital)
DOI: 10.26350/001050_000159

Luca Grion*
La buona circolarità di fede e ragione
In memoria di Paolo Gregoretti

The Good Circularity of Faith and Reason. In Memory of Paolo Gregoretti

The essay celebrates the work of Paolo Gregoretti, professor of Moral Philosophy at the
University of Trieste, who recently passed away. In particular, this paper discusses the
role of religion in the encounter of faith and reason. Focusing on the main authors whom
Gregoretti discussed in his work, the essay starts with an analysis of the relationship
between philosophy and life. Then the focus shifts to three distinct pairs of concepts:
philosophy and religion, reason and will, truth and faith. In the closing section, the essay
questions the possibilities of arguing a rigorously founded rational theology. The general
objective of this study is to demonstrate that a fertile dialogue between philosophy and
religion is possible. In this dialogue, philosophy opens up and protects a space for religious
experience. Indeed, religious choice stems both from the possibility allowed by philosophy
© Vita e Pensiero / Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore

of making meta-empirical inference and from the incapacity of metaphysical speculation to


say, in positive terms, what the absolute is.

Keywords: Faith, Reason, Religion, Ontology, Transcendental

Ad ottobre sarà già trascorso un anno dalla scomparsa di Paolo Gregoretti, filo-
sofo morale lungamente in forze all’ateneo triestino1. Avendo avuto la fortuna di
frequentarlo e di apprenderne la lezione, mi piace l’idea di celebrarne la memo-
ria rilanciando uno dei temi sui quali si è concentrata la sua ricerca, ovvero il
ruolo della religione nell’incontro di ragione e fede. Nel farlo prenderò in esame

*
Università degli Studi di Udine. Email: luca.grion@uniud.it
Received: 19.07.2019; Approved: 05.08.2019; First published online: 01.2020.
1
Paolo Gregoretti (13.01.1943-11.10.2018) è stato professore ordinario di Filosofia morale
all’Università degli Studi di Trieste. Dopo la laurea in Scienze Politiche a Trieste – dove, sotto la
guida del prof. Pier Luigi Zampetti ha discusso una tesi in filosofia del diritto dal titolo Cristianesimo
ed esperienza etico-giuridica nella recentissima dottrina italiana – e dopo un periodo di perfezio-
namento in Germania, ha avviato un rapporto stabile con la Facoltà di Scienze politiche dell’ateneo
1114 luca grion

soprattutto le riflessioni che Gregoretti ha raccolto nel volume dal titolo Sul rap-
porto tra filosofia e religione2, dove il tema viene analizzato nel modo più com-
pleto. A partire dall’analisi di tale studio, intendo quindi mettere in luce i debiti e
le consonanze della riflessione di Gregoretti rispetto a quelli che furono alcuni dei
suoi principali interlocutori. Infine, lungo la stessa traiettoria di pensiero, proverò
a proporre qualche considerazione personale.

1. Filosofia e vita
Prima di affrontare in modo analitico la questione del rapporto tra fede e ragione, mi
sia concesso un breve ricordo personale. La cosa non sembri fuori luogo nel conte-
sto di una riflessione scientifica: l’aneddoto personale dice molto, a mio avviso, tan-
to dell’autore di cui questo saggio si occupa, quanto dello stile con cui egli ha inteso
concepire la propria ricerca, ovvero quale dialogo fertile tra filosofia e vita.
Paolo Gregoretti l’ho conosciuto quasi per caso: all’epoca ero al secondo anno di
Filosofia e cominciavo a nutrire qualche dubbio sulla bontà della mia scelta di stu-
dio. Mentre mi interrogavo sulla distanza tra aspettative e concretezza dell’offerta
formativa, mi capitarono tra le mani i saggi che mio fratello, di alcuni anni più gran-
de di me, aveva affrontato per la preparazione del suo esame di filosofia morale a
Scienze Politiche. Ad essi si aggiungevano poi i testi della sua tesi di laurea, dedica-
ta al pensiero morale di Jacques Maritain. Come spesso capita, il non cercato regala
le sorprese più gradite. Quelle letture, infatti, si rivelarono capaci di riappacificarmi
con la disciplina o, quanto meno, di farmi intuire che potevano esserci vie più fertili
da esplorare: un modo di intendere la filosofia come riflessione sull’intero dell’esse-
re, nel tentativo di coglierne la struttura originaria e il senso ultimo.

giuliano, dove ha trascorso l’intera carriera accademica. I suoi interessi di studio si sono concen-
trati su tre filoni principali: innanzi tutto sulla figura di Franz Brentano (indagata soprattutto sotto
il profilo metodologico), sul personalismo (in particolare Stefanini e Maritain) e sulla metafisica
classica (con particolare attenzione alla proposta teoretica di Gustavo Bontadini). Al centro del-
la sua riflessione filosofica vi è il nesso tra etica e metafisica, nella persuasione che la riflessione
pratica non possa che procedere da una chiara antropologia filosofica e da una riflessione sul posto
che l’uomo occupa nel tutto di cui è parte. Tra i suoi lavori scientifici segnalo: Persona ed essere.
Saggio sul «personalismo» di Luigi Stefanini, Università di Trieste - Litografia Ricci-Triste, Trieste
1983; Il problema della libertà del volere in Franz Brentano, Giuffrè, Milano 1982; L’esperienza:
dalla fenomenologia al senso: contributo allo studio di G. Bontadini, Edizioni Università di Trieste,
Trieste 2000; Ugo Spirito. Filosofo, Giurista, economista e la recezione dell’attualismo a Trieste
(a cura di, con A. Russo), Edizioni Università di Trieste, Trieste, 2000 (da segnalare, all’interno del
volume, il saggio di Gregoretti dal titolo: Filosofia dell’azione e filosofia dell’atto puro. Nota circa
il problema della genesi dell’attualismo, pp. 178-183); Diritti e società. Momenti di riconoscimento
intersoggettivo, Edizioni Università di Trieste, Trieste 2004.
2
P. Gregoretti, Sul rapporto tra filosofia e religione, Edizioni Università di Trieste, Trieste
2000. In questo studio Gregoretti riprende e approfondisce una serie di riflessioni precedentemente
raccolte nel saggio dal titolo La religione nell’incontro di ragione e fede, in Aa.Vv, La questione
dell’incontro di ragione e fede, Piemme, Casale Monferrato 1989, pp. 61-74.
la buona circolarità di fede e ragione 1115

A quel tempo, come accennato, iniziavo ad averne abbastanza dei debolismi


della postmodernità e meditavo di dedicarmi ad altro. Mi ero iscritto a Filosofia
con la speranza di poter capire la vita in modo più profondo, ma in quei primi anni
di studio avevo trovato solo erudizione frammista a un discreto tasso di autorefe-
renzialità. Rimasi quindi colpito da quei testi che parlavano del rapporto tra fede
e ragione, di verità del desiderio, di vita e di ricerca del suo senso. Andai così in
cerca di chi, quei testi, aveva in parte scritto e in parte semplicemente proposto
senza l’ossessione dell’originalità a tutti i costi, ma persuaso che l’ascolto attento
di quanto già detto dai classici e dai loro interpreti più intelligenti debba precede-
re, di molto, le poche parole personali aggiunte ad una riflessione corale.
Dal quell’incontro fortuito ho ricavato non solo un rinnovato gusto per la disci-
plina filosofica e una guida affidabile nella ricerca ma, soprattutto, l’esempio di un
diverso modo di vivere l’esperienza universitaria. Il dono più prezioso che Paolo
Gregoretti ha saputo offrire è stata l’esemplarità del suo essere, con semplicità e
mitezza, un autentico maestro; una di quelle persone che desiderano il bene dei
ragazzi, che credono nel valore del proprio ruolo formativo ed educativo. Prova
concreta di come l’università possa essere luogo di incontro e di crescita e non
solo rifugio per ego ipertrofici e teatro di sterili rivalità3.

2. L’eredità bontadiniana
La questione di Dio o – se si preferisce, il senso di Dio oggi – è un problema che,
di generazione in generazione, impegna chi, pur aderendo a un orizzonte di fede,
si interroga filosoficamente sulle ragioni del suo credere. Ci sono state stagioni,
in passato, nelle quali tale questione occupava il centro della scena filosofica, ali-
mentando animati dibattiti sulla possibilità, o meno, di una filosofia cristiana4. Ve
ne sono altre, come l’attuale, in cui tale questione sembra destare meno interesse,
forse nella persuasione che l’essenziale sia già stato detto. In filosofia, però, l’in-
teresse di un problema scaturisce dall’inaggirabilità della domanda più che dalla
possibilità di offrire risposte del tutto nuove. Il senso vivo di una tradizione filo-
sofica, del resto, riposa proprio in questa capacità di dialogo tra le generazioni;
un dialogo che non si interrompe, ma si sforza di rispondere alle sfide del tem-
po presente mettendo a frutto gli insegnamenti del passato. Gregoretti, nel suo
riflettere sul rapporto tra fede e ragione, si muove per l’appunto nel contesto di
una tradizione di cui si sente parte e che assume, come riferimento fondamentale,
la lezione di Tommaso d’Aquino e, come interlocutore prossimo, il magistero di
Gustavo Bontadini5; ed è proprio la lezione di quest’ultimo che ritroviamo, in fili-

3
Com’è facilmente intuibile, quell’incontro mi sollecitò a rivedere i miei propositi per il futuro e
oggi, per quanto possibile, cerco di essere all’altezza di quell’esempio.
4
È questo il caso della celebre polemica sulla possibilità o meno di una filosofia cristiana che
infiammò gli anni Trenta del Novecento.
5
«Nell’affrontare il problema [del rapporto tra filosofia e religione] ho seguito l’impostazione e
1116 luca grion

grana, ripercorrendo le pagine che Gregoretti dedica allo statuto epistemologico


della religione. In comune, ad esempio, la lettura della modernità intesa come la
stagione nella quale la ragione ha preso congedo dalla religione così come, per
quanto concerne il tempo presente, la persuasione che la negazione moderna della
religione abbia lasciato il posto a un generico disinteresse per la questione religio-
sa, ridotta a mera opzione individuale.
«Nel corso del pensiero moderno» scrive Gregoretti «si assiste inizialmente
al consolidarsi di una tendenza a ridurre la religione ad iniziativa e costruzione
umana»6. Progressivamente si giunge poi ad affermare «l’impossibilità dell’e-
sistenza di un essere che trascenda la totalità del pensiero storicamente incar-
nato»7, il che comporta la negazione della metafisica intesa come sapere stabile
– veritativo in senso forte – del fondamento trascendente l’unità dell’esperienza8.
Marx, in questo contesto, può essere utilmente assunto quale icona di tale rifiuto
della trascendenza operato in nome della ragione9. Di lì a breve, però, la critica a
un sapere stabile sul fondamento trascendente si farà critica del sapere in quanto
tale. Se fino a Hegel, infatti, la filosofia si era «riconosciuta in un sapere incontro-
vertibile che aveva per contenuto l’orizzonte dell’essere in quanto essere, dopo
di lui la forma di questo sapere (la necessità) e il suo contenuto (la totalità) si
sono progressivamente separati, facendo sì che il discorso necessario non abbia
più voluto investire la totalità e il discorso sulla totalità abbia smesso la forma
della necessità»10. Sul tappeto restano così solo interpretazioni permanentemente
esposte alla possibilità di venir smentite, punti di vista soggettivi, narrazioni che
rifiutano aprioristicamente ogni verifica o falsificazione apodittica. Così facendo,
però, la filosofia, intesa come sapere epistemico, rinuncia alla propria vocazione
originaria e si condanna all’afasia.

sono ricorso all’impiego della strumentazione concettuale messa a punto dalla “Scuola” di filosofia
dell’Università Cattolica che, dopo F. Olgiati e A. Masnovo, ha trovato nel magistero di G. Bontadi-
ni l’elemento che più la ha caratterizzata e negli sviluppi di E. Severino dei momenti di severa rigo-
rizzazione di alcune posizioni del maestro» (Gregoretti, Sul rapporto tra filosofia e religione, pp.
5-6). Poco dopo Gregoretti, in riferimento ai risultati di quella Scuola, precisa la necessità di «qual-
che ricalibratura e qualche ridiscussione anche su aspetti di non secondaria importanza» (ibidem).
6
Ibi, p. 19.
7
Ibi, p. 20.
8
Unità dell’Esperienza – spesso abbreviata nella formula U.d.E. – è un’espressione tipicamente
bontadiniana e sta a indicare l’orizzonte trascendentale del conoscere quale punto di partenza del
filosofare. Indica l’orizzonte interale dell’apparire, l’intero dell’essere che si dà a conoscere come
contenuto di coscienza, la totalità di tutto ciò che consta. «L’Unità dell’Esperienza» afferma Bonta-
dini «è la totalità delle cose che si pensano, in quanto si pensano (di pensiero concreto, che risolve la
sensazione). […] L’Unità dell’Esperienza è l’Atto gentiliano, l’Io trascendentale, il Logo concreto, il
pensiero puro, il pensiero come criterio di realtà» (G. Bontadini, La critica negativa all’immanenza
[1926], in Id., Studi sull’idealismo [1942], Vita e Pensiero, Milano 1995, p. 59).
9
Quella marxiana è infatti una metafisica immanentista che nega l’esistenza di una dimensione
del reale trascendente la storicità del divenire empirico.
10
Gregoretti, Sul rapporto tra filosofia e religione, p. 22.
la buona circolarità di fede e ragione 1117

Tale debolezza della ragione filosofica, che nella modernità aveva negato la
ragionevolezza della fede religiosa, sembrerebbe dischiudere nuove possibilità
per quest’ultima. Paradossalmente, invece, proprio nel Novecento non mancano
voci autorevoli che, in risposta all’esclusione della fede da parte della ragio-
ne filosofica, hanno ribattuto con l’esclusione della ragione dall’ambito della
fede. È questo il caso dei fideismi con i quali lo stesso Bontadini ha lungamente
dibattuto, denunciando i rischi di una posizione che, per sua stessa scelta, non
è in grado né di mostrare la propria ragionevolezza né di far valere la propria
assolutezza11. Accade così che ogni volta che si pone la fede a fondamento del
sapere si finisce, inevitabilmente, per operare una svalutazione della ragione e
questo, alla fine, si ritorce contro la fede stessa12. Compito dell’oggi – secondo
Gregoretti – è dunque quello di riattivare una circolarità virtuosa tra fede reli-
giosa e filosofia, ovvero «tra il più alto esercizio delle ragione (filosofia) e il più
alto esercizio della volontà (religione)»13.

3. Filosofia e religione
Preliminare a tale opera di raccordo tra filosofia e religione è una loro precisa seman-
tizzazione, quanto meno rispetto al contesto del discorso che stiamo considerando.
Nel suo studio dedicato al rapporto tra filosofia e religione Gregoretti ci offre
precise indicazioni sul modo con il quale i termini filosofia e religione debbo-
no essere intesi. «Per filosofia [infatti] non si intende un qualsiasi sapere riflesso,
ma quel sapere che è in grado di farsi valere incontrovertibilmente e che ha per
oggetto la totalità della realtà. Ossia per filosofia qui si intende, nel solco della
tradizione che risale all’episteme greca, il discorso necessario che investe l’essere
in quanto essere: in altri termini la metafisica»14. Alla luce di tale definizione si
capisce come la verità a cui il sapere filosofico aspira sia da intendersi come pos-
sesso inconfutabile di ciò che non può stare altrimenti.

11
Ciò che Bontadini contestava a questo atteggiamento fideista non era la legittimità di un
diverso accesso alla verità di fede, ma il rifiuto a priori della metafisica; egli guardava infatti alla
fede come a un completamento del discorso metafisico e non come una alternativa a esso. Cfr.
G. Bontadini, La posizione della neoscolastica di fronte allo spiritualismo cristiano (1962), in
Id., Conversazioni di metafisica (1971), tomo II, Vita e Pensiero, Milano 1995, pp. 97-127 e Id.,
Spiritualismo cristiano e metafisica classica, «Giornale critico della filosofia italiana», XXXIV
(1955), 1, pp. 81-96.
12
Cfr. G. Bontadini, Metafisica e deellenizzazione (1975), Vita e Pensiero, Milano 1996, in par-
ticolare cap. 5, pp. 45-102.
13
Gregoretti, Sul rapporto tra filosofia e religione, p. 26.
14
Ibi, p. 15 (corsivo nel testo). Per un approfondimento si veda C. Vigna, Episteme, in V.
Melchiorre (ed.), Pensare l’essere, Marietti, Genova 1989, pp. 29-59, poi ripubblicato con in
titolo Sulla verità stabile, in Id., Il frammento e l’intero. Indagini sul senso dell’essere e sulla
stabilità del sapere, Vita e Pensiero, Milano 2000, pp. 21-55 (ora disponibile nell’edizione edita
da Orthotes, Napoli - Salerno 2015).
1118 luca grion

Per essere nella verità – condizione a cui il sapere filosofico aspira – non basta
dire il vero, ma bisogna saperlo dimostrare tale, ovvero poterne fondare l’incon-
trovertibilità. Tale risultato, però, può essere conseguito solo laddove ciò che
sta secondo necessità (ciò che è oggettivamente incontrovertibile) riesce a esse-
re conosciuto in modo stabile (soggettivamente indubitabile). Quando, cioè, vi
è equazione tra la «forma incontrovertibile e contenuto»15. A detta di Bontadini
infatti «una proposizione, un asserto, un principio è fondato, quando il suo con-
traddittorio è tolto o distrutto. E consideriamo tolto o distrutto il contraddittorio
quando è visto come in se stesso contraddittorio, ovvero lo vediamo contraddetto
dall’esperienza o da un altro asserto già fondato. Con ciò si scorge che fondamen-
to e principio di non contraddizione sono presi come equivalenti»16.
Opportuno, per meglio calibrare la nozione di filosofia qui utilizzata, ricor-
dare che Bontadini parlava del conoscere come dell’automanifestazione dell’es-
sere al pensiero e dell’episteme come possesso della verità quale risultato di un
«ricondurre le affermazioni che si fanno al fondamento originario del sapere,
ossia all’intreccio (originario) dell’immediatezza logica (il notum per se e non
per aliud) e dell’immediatezza fenomenologica, cioè all’intreccio di quelle due
forme dell’immediatezza del sapere in cui insiste necessariamente ogni coscien-
za, solo che si apra come coscienza»17. Il sapere speculativo, inteso come ricon-
duzione all’originario, si struttura pertanto attraverso la mediazione logicamente
necessaria del dato, ovvero mediante quel tipo di dimostrazione che, muovendo da
premesse vere, rende evidente la necessità di giungere a determinate conclusioni
aventi carattere di incontrovertibilità18.

15
Gregoretti, Sul rapporto tra filosofia e religione, p. 16.
16
G. Bontadini, Σωζειν τα φαινομενα, «Rivista di Filosofia Neoscolastica», LVI (1964), 5,
pp. 439-468, ora in Id., Conversazioni di metafisica, tomo II, pp. 136-166, qui p. 162. Sulla stessa
linea il primo Severino: «La verità è certamente il processo o l’atto di giustificazione o fondazione
dell’asserto; è cioè l’asserto nella sua capacità di escludere la propria negazione, e questa capacità
di escludere è il fondarsi o il giustificarsi dell’asserto» (Ε. Severino, Studi di filosofia della prassi
[1962], ediz. ampliata, Adelphi, Milano 1984, p. 101).
17
Gregoretti, Sul rapporto tra filosofia e religione, p. 33. Poco oltre Gregoretti chiarisce che
per immediatezza fenomenologica «deve intendersi l’apparire di ciò che appare, come e quando
appare», mentre immediatezza logica deve intendersi «la forma generale dell’evidenza (del darsi)»
espressa dal principio di non contraddizione. Cfr. C. Vigna, Dio e il silenzio, in A. Molinaro (a cura
di), Chi è Dio?, Herder - Università Lateranense, Roma 1988, § 5-6, pp. 29-59.
18
L’apagogia – ovvero la dimostrazione per assurdo – rappresenta agli occhi di Bontadini la dimo-
strazione tipo in quanto fonda la verità di un asserto sulla confutazione (negazione) del suo contrad-
dittorio. Esemplificativo può risultare il riferimento alla terza prova tomista dell’esistenza di Dio: essa
muove dalla constatazione dell’incapacità del divenire (del contingente) di mostrare la propria ragion
d’essere senza un riferimento ad un fondamento indiveniente e trascendente. In una simile dimostra-
zione si parte dal dato immediato (il darsi del divenire) e si individuano le condizioni necessarie (ben-
ché non immediatamente evidenti) senza le quali il divenire apparirebbe contraddittorio. Non a caso
la metafisica bontadiniana si presenta come una rigorizzazione della dimostrazione di Tommaso. Per
un approfondimento di questo tema si veda P. Pagani, La dimostrazione dialettica secondo Gustavo
Bontadini in C. Vigna (a cura di), Bontadini e la metafisica, Vita e Pensiero, Milano 2007, pp. 105-176.
la buona circolarità di fede e ragione 1119

Diverso è il caso in cui si ritiene soggettivamente convincente una propo-


sizione che, di per sé, risulta invece controvertibile (il che significa che non è
contraddittorio pensare che le cose, in realtà, possano stare altrimenti). È questo
l’ambito della certezza, ovvero della fede soggettiva in un certo stato di cose;
persuasione di cui la fede religiosa rappresenta una forma particolare. In riferi-
mento a quest’ultima, Gregoretti parla di «una relazione reciproca intercorrente
tra Dio e l’uomo fondata sulla fede, comprensiva dei suoi due aspetti di fides qua
e fides quae creditur»19. La fede religiosa, dunque, rappresenta la convinzione
pratica nella veridicità (nella realtà) di un certo stato di cose relativo al rapporto
tra l’uomo e l’assoluto. La religione presuppone quindi un atto di volontà, la qua-
le decide di credere alla verità dell’annuncio salvifico. Condizione di tale slancio
della volontà è però la possibilità – non impossibilità, non contraddittorietà, in
ultima istanza la ragionevolezza – di ciò in cui si crede.

4. Logos e orexis
Il riferimento a volontà e ragione – o, detto altrimenti, al rapporto tra logos e
orexis – evidenzia ulteriormente il debito che Paolo Gregoretti nutre nei con-
fronti della lezione bontadiniana. Volontà e ragione rappresentano infatti le due
dimensioni essenziali della coscienza umana. Dimensioni che si caratterizzano,
ciascuna, per una specifica grammatica e per una diversa tensione intenzionale.
Su questo è opportuno sostare con calma. «Viviamo sempre» scrive Gregoretti,
«una irrefrenabile tensione alla realtà, alla totalità della realtà, che si esplica su
due piani: il conoscere e il desiderare: tesi verso altra realtà da conoscere e verso
altra realtà da agganciare»20.
Il conoscere, innanzi tutto. Esso vive di evidenza, nutrendosi di verità intesa
come progressiva manifestazione dell’essere21. Il conoscere si caratterizza dunque
per un approccio teoretico/contemplativo alla realtà: l’intentio noetica termina
sull’essere stesso nella forma del pensiero, ovvero nel possesso concettuale (idea-
le) della realtà stessa22. «Quando pensiamo le cose» come osserva anche Carmelo
Vigna «l’intenzionalità trascendentale termina nel saputo, ossia in una realtà onti-
camente ideale»23. Il rapporto conoscitivo non rappresenta, però, l’unica modalità
con cui la coscienza si relaziona all’essere; l’altra grande modalità, anch’essa di

19
Gregoretti, Sul rapporto tra filosofia e religione, p. 18.
20
Id., Comunicazione, segreto e responsabilità, in Id. (a cura di), Frammenti, CEDAM, Padova
1998, p. 47.
21
Riecheggia, in questo, l’etimologia di verità come aletheia.
22
Conoscere, dunque, come l’essere stesso che si offre al pensiero (nei modi e nei limiti in cui ad
esso si offre). A monte di questa affermazione vi è l’affermazione bontadiniana circa il superamento
del dualismo gnoseologico tipico della modernità. Su questi temi mi sia consentito un rimando a
L. Grion, Gustavo Bontadini, University Lateran Press, Città del Vaticano 2012, pp. 92-117.
23
C. Vigna, La verità del desiderio come fondazione della norma morale, in E. Berti (a cura di),
Problemi di etica: fondazione, norme, orientamenti, Gregoriana, Padova 1990, p. 78.
1120 luca grion

portata trascendentale, è quella desiderante, la cui finalità specifica tende al pos-


sesso reale (fruizione) dell’oggetto desiderato. Tanto il sapere quanto il volere
hanno una portata interale (sono coestensivi all’intero dell’essere): così come la
coscienza è intenzionalmente aperta alla conoscenza dell’intero dell’essere (per
quanto possa fruire sempre e solo di una parte di esso), analogamente il desiderio
è formalmente desiderio della totalità (per quanto, anch’esso, possa venir soddi-
sfatto, mai pienamente, solo da frammenti d’essere)24.
Desiderio e volere, inoltre, esprimono un bisogno, denunciano una mancanza
che chiede d’essere colmata. Ora, non appena si inizi a indagare la struttura del
desiderio (la formalità del nostro tendere verso ciò che non è dato e che, pertan-
to, trascende l’orizzonte del conoscere) emerge un problema che sembra mettere
lo stesso desiderio sotto una luce paradossale: desiderare ciò che non è (dato)
non significa forse tendere a ciò che non si conosce? Ma se così fosse il deside-
rio diventerebbe una figura impossibile. Se infatti si desiderasse ciò che non è
(dato), il desiderio sarebbe un desiderio di nulla e dunque un nulla di desiderio.
Come uscirne?
In realtà quando la coscienza sporge oltre l’orizzonte del dato immediato non
lo fa tendendo verso ciò che non è assolutamente, bensì verso ciò che non è in un
determinato modo (mentre è sotto un diverso aspetto). Se pensiamo al nostro desi-
derare concretamente qualcosa, ci accorgiamo di come l’intentio del nostro desi-
derare si rivolga all’idea della cosa come suo referente reale, ma lo fa in quanto
quest’ultima rimanda al suo corrispettivo reale (che, al contrario, non è immedia-
tamente dato). Questo significa che, a differenza di quanto avviene nel conoscere,
quando si desidera si tende al concetto non come fine, ma come mezzo (anticipa-
zione) per giungere, auspicabilmente, all’incontro reale con la realtà25. Desiderare
significa quindi tendere verso ciò che, attualmente, si offre solo come anticipazio-
ne ideale. Uno sporgersi che cerca, tramite l’azione pratica, l’incontro reale con
l’oggetto del proprio desiderio26.
Tale sporgersi scommette sull’esistenza dell’oggetto voluto e, così facendo, si
espone al rischio dello scacco e alla necessità di fare i conti con l’incertezza di ciò
che potrebbe stare altrimenti, vanificando le nostre speranze. Non così il conosce-
re, che, di per sé, vive di evidenze e si arresta di fronte al dubbio e all’incertez-
za. Tuttavia, quando il desiderio raggiunge il suo bene voluto, anche il conoscere
trova soddisfazione, in quanto vede dischiudersi una determinazione dell’essere

24
Se conoscere significa contemplare il dato immediato – o mediato secondo necessità logica –
volere significa invece sporgersi oltre l’orizzonte di ciò che si offre nell’immediatezza, desiderare
ciò che non è dato. Se il conoscere è, originariamente, automanifestazione dell’essere, il volere è
tensione verso qualcosa che non si dà nell’immediatezza del dato.
25
«La coscienza in quanto conosce mira ai significati come ad un fine e l’oggetto è strumentale,
mentre la coscienza in quanto vuole mira all’oggetto e il significato è strumentale: è ciò attraverso cui
la coscienza si dirige verso ciò che è assente» (Gregoretti, Sul rapporto tra filosofia e religione, p. 60).
26
Cfr. Id., Comunicazione, segreto e responsabilità, pp. 47-59.
la buona circolarità di fede e ragione 1121

alla quale, sulla base della sola evidenza (immediata o mediata secondo necessità
logica), non sarebbe mai giunto. Alla fine dell’arco del desiderare si assiste infatti
a un ampliamento dell’orizzonte dell’attualità presente.
Da qui emerge la connessione (circolarità) tra sapere e volere; tra la dimen-
sione contemplativa del conoscere e la dinamicità propria dell’azione. Il sapere
si dimostra così interessato al movimento dell’azione: questa è in grado, di fatto,
di ampliare l’orizzonte dell’apparire, portando all’evidenza delle determinazioni
dell’essere sempre nuove. D’altro canto, anche l’azione pratica nella quale il desi-
derio trova piena espressione risulta interessata al conoscere: essa, infatti, lavora
sulla base delle conoscenze già acquisite dalla ragione, utilizzandone i concetti
come mezzi per l’ottenimento dei suoi fini. Non solo: lo slancio dell’azione pra-
tica trova sostegno nella ragione, la quale si fa garante della ragionevolezza del
desiderio. Scrive Gregoretti: «la volontà, essendo diretta all’incontro con l’ogget-
to inteso attraverso il significato che è presente e non alla verifica della verità del
significato medesimo, può, di per sé, puntare a qualsiasi progetto e le può succe-
dere di proiettarsi anche verso l’impossibile. Ha bisogno perciò del soccorso della
ragione che, sul fondamento di ciò che è già dato (l’originario), le indichi ciò che è
possibile e ciò che è impossibile»27.

5. La verità nella fede


Il quadro concettuale sin qui delineato può, a buon diritto, essere descritto nei
termini di una fede razionale (o ragionevole). La fede, pur non potendo trovare
conforto esaustivo nell’epistéme, procede necessariamente – di necessità pratica –
oltre lo stallo della ragione speculativa. Non può fare altrimenti poiché la vita,
immersa nel fluire del divenire, non può che prendere posizione rispetto alle pos-
sibilità che le si presentano innanzi, scegliendo, con un atto della volontà, tra le
opzioni possibili innanzi alle quali la ragione speculativa resta muta e immobile.
Nel far questo, però, la volontà invita la ragione a seguirla, e la spinge a scommet-
tere anch’essa sul valore della vita. Per parte sua la ragione, assecondando l’aneli-
to esistenziale del desiderio, rischia, senza dubbio. Rischia sapendo che a seguito
di questo suo slancio potrebbe anche ritrovarsi sul baratro del nulla. Rischia, tut-
tavia, sperando che da questo azzardo (azzardo, si è detto, ragionevole, ossia non

27
Ibi, p. 60. Su questo dialogo tra volontà e ragione si innesta, sia detto per inciso, la specificità
dell’esperienza morale. Un contributo importante in termini di chiarificazione epistemologica su questi
temi Gregoretti la riconosce al confronto con la filosofia di Brentano. Si veda, in particolare, P. Grego-
retti, Sul rapporto tra conoscenza etica e metafisica. Riflessioni sulla proposta di Franz Brentano, in
E. Berti (a cura di), Tradizione e attualità della filosofia pratica, Marietti, Genova 1988, pp. 211-225
e Id., Empirismo ed intuizionismo nell’etica di Franz Brentano, in La filosofia nella Mitteleuropa. Atti
del Convegno del 1974, Istituto per gli incontri Culturali Mitteleuropei, Gorizia 1981, pp. 47-52.
1122 luca grion

contraddittorio) possa venirne un guadagno per la ragione stessa, un coglimento


del senso autentico dell’esperienza.
Il giovane Severino, all’epoca ancora fedele al magistero bontadiniano,
afferma nei suoi Studi di filosofia della prassi che: «Quando la verità decide
di aver fede nel paradigma, azzarda, mette a repentaglio qualcosa di sé [...];
ma azzarda per possedersi e realizzarsi compiutamente come verità: per questo
l’imprudenza dell’azzardo non è mai sconsideratezza e sventatezza, ma audacia.
Tutto ciò non significa che l’audacia sia da preferire alla prudenza, ma soltanto
che anche l’audacia, e non solo la prudenza, può convenire alla verità»28. È inte-
ressante notare, a questo proposito, come la struttura argomentativa proposta da
Bontadini – e ripresa dal giovane Severino – ricalchi in modo sorprendentemen-
te fedele quella del pari pascaliano29. Tale scommessa, pur essendo un rischio
per la ragione, non rappresenta affatto un atto sconsiderato: l’uomo, infatti, non
potrebbe agire se non credesse nella sensatezza delle proprie azioni e del mondo
nel quale esse si inseriscono. «La fede, così, sostiene tutto: essa è l’unità della
vita nel suo affermarsi nell’ordine universale. [...] Poiché la fede, in genere, si
realizza anche in tanti atti di vita: anzi in ogni atto. Ogni atto è accompagnato
dalla fede nel suo successo. [...] La fede, come forma universale della vita, è
indistintamente teorica e pratica, principio della realtà (valore) dell’una come
dell’altra, principio, per sé, della spiritualità in genere»30.
Vi è, occorre osservarlo prima di procedere oltre, una inevitabile ambiguità
in ogni discorso dedicato al rapporto tra fede e ragione: da un lato, infatti, la fede
attiene al piano antropologico-esistenziale (in quanto la vita costringe a prendere
posizione rispetto al possibile); dall’altro essa non può evitare quello gnoseolo-
gico-epistemologico (in quanto pretesa di verità). Proprio su queste ambiguità si
giocherà la critica di Severino dopo la sua svolta neoparmenidea; critica che lo
condurrà ad affermarle la follia della fede religiosa al pari di ogni fede nel dive-
nire delle cose31. La fede, secondo Severino, è irrimediabilmente errore e, pertan-
to, attraverso di essa, non si può giungere ad alcuna verità32. Prima ancora, però,

28
Severino, Studi di filosofia della prassi, p. 137.
29
Su questo punto si veda A. Peratoner, Blaise Pascal. Ragione, rivelazione e fondazione
dell’etica. Il percorso dell’Apologie, 2 voll., Cafoscarina, Venezia 2002, vol. I, parte VI, cap. 2 (in
particolare pp. 466-484).
30
G. Bontadini, Abbozzo di una critica dell’idealismo immanente, in Id., Studi sull’idealismo,
pp. 152-153 (nostro il corsivo). Sulla necessità pratica dell’opzione di fede si esprime anche Carmelo
Vigna: «Il fatto stesso di vivere ci costringe a conferire alla realtà un certo significato, che sporge per-
manentemente e ampiamente sull’immediatezza dell’esperienza» (Vigna, Dio e il silenzio, p. 439). Sul
valore teoretico della fede si veda inoltre Severino, Studi di filosofia della prassi, pp. 95-138.
31
«Il contenuto stesso della fede cristiana è un che di contraddittorio […] cioè di impossibile e
dunque di necessariamente inesistente» (E. Severino, Poscritto, «Rivista di Filosofia Neoscolastica»,
LVII [1965], 5, pp. 559-618, ora in Id., L’essenza del Nichilismo, Adelphi, Milano 1982, p. 73; per
un più ampio approfondimento si veda Id., Destino della necessità, Adelphi, Milano 1980).
32
«La fede non esiste, nel senso che non può esistere; la sua esistenza è un’impossibilità» (Id.,
la buona circolarità di fede e ragione 1123

è la vita stessa che, in quanto fede nel divenire delle cose, viene ricondotta alla
categoria della follia33. A mio avviso occorre invece saper riconoscere l’intreccio
di questi due piani e la conseguente necessità di evitare il doppio pericolo di un
esasperato intellettualismo da un lato (trattare la fede esclusivamente come una
forma di sapere à la Severino) ed il fideismo dall’altro (trattare la fede come una
dimensione essenzialmente irrazionale).

6. Certezza del volere e verità del conoscere


Analizzando il rapporto circolare tra il conoscere e il volere è emerso il diverso
rapporto con la verità che contraddistingue queste due dimensioni della natura
umana. Conoscere la verità non è infatti lo stesso che credere nella verità del pro-
prio oggetto desiderato. Cerchiamo quindi di approfondire meglio questi aspetti.
Prima di tutto, bisogna osservare più da vicino il concetto di verità e distinguere
quello che potremmo chiamare il vero ontologico da quello che potremmo, inve-
ce, indicare come la verità del giudizio.
Per vero ontologico intendo la proprietà trascendentale (universale) di ogni
ente. Tutto ciò che è, nei limiti e nei modi in cui è, è detto vero34. La verità ontolo-
gica di un ente è il suo essere, il suo esistere secondo le determinazioni e le carat-
teristiche che gli sono proprie. Banalmente, quando affermo come vero l’essere
della penna sul tavolo, voglio esprimere la realtà del suo esistere e del suo esserci
così determinata (una biro piuttosto che una stilografica, una penna nera piuttosto
che rossa, etc…).
Per verità del giudizio intendo, invece, la conoscenza incontrovertibile del
vero. Quando il sapere filosofico si interroga sul reale non si accontenta di dire il
vero. La filosofia vuole possedere formalmente il vero come contenuto innegabile
(in questo consiste il passaggio dal mito al logo). La verità in senso proprio (epi-
stemico) è infatti una forma di sapere incontrovertibile, necessario in forza della
propria evidenza. Diverso, infatti, è dire una cosa vera senza saperla (o poterla)
dimostrare (e, quindi, senza poter essere certi di dire il vero) dal poter mostrare
l’impossibilità della sua negazione35. «In generale» scrive Gregoretti «il dimo-

Gli abitatori del tempo, Armando Editore, Roma 1978, p. 145). E questo perché «il dubbio è il
fondamento della fede, ossia […] la fede si fonda sulla propria negazione (ibi, p. 147).
33
Qui, sia detto per inciso, assistiamo alla insuperabile separazione tra filosofia e vita, punto
di massima distanza dal pensiero di Paolo Gregoretti. Per un approfondimento di questi aspetti del
pensiero severiniano rimando a L. Grion, Libertà e destino. Riflessioni sulla filosofia di Emanuele
Severino, in C. Vigna (a cura di), Etiche e politiche della post-modernità, Vita e Pensiero, Milano
2003 pp. 417-479.
34
Siamo nei pressi del vero come trascendentale di cui ci parla Tommaso o, anche, di ciò a cui si
riferisce Agostino nei Soliloqui (II, 5, 8) quando scrive che «il vero è ciò che è».
35
Come insegnava già Aristotele, la verità si predica, propriamente, del giudizio.
1124 luca grion

strare speculativo è il ricondurre al fondamento, ossia porre la negazione della


negazione del fondamento»36.
Un esempio può aiutare a cogliere meglio il senso di queste ultime affermazio-
ni: ogni giorno esco di casa per recarmi in ufficio, prendo la macchina e mi diri-
go verso l’università. Questo mio agire si fonda non sulla verità (epistemica), ma
sulla certezza, e non potrebbe essere diversamente. Uscendo al mattino non posso
sapere, incontrovertibilmente, che troverò ancora la macchina nel parcheggio, né
che l’edificio dove ha sede il mio ufficio non sia crollato, come pure che la stra-
da che lo collega a casa mia non sia interrotta, e così via. Una frana, nottetempo,
potrebbe infatti aver reso impraticabile la strada, la macchina potrebbe non partire
o essermi stata rubata, etc… Nell’atto in cui decido di uscire per andare in ufficio
non vedo la verità delle premesse generali che sottendono il mio agire. Nel caso, ad
esempio, della strada non ho né la testimonianza fenomenologica della sua integrità
(poiché di fatto, mentre decido, non posso vedere la strada nell’interezza del suo
percorso), né la testimonianza logica che attesta l’incontraddittorietà della mia con-
vinzione (tant’è che non è impossibile pensare all’eventualità di una frana). Stando
ai dettami della ragione speculativa, la quale muove il mio agire solo nell’ambito
dell’incontraddittorio, sarei dunque costretto all’immobilità. È pertanto la volontà
che mi sollecita all’azione, trattando come vero ciò che per la ragione è soltanto una
possibilità. Del resto, per decidere della realtà/verità di tale possibilità, alla volontà
è sufficiente sapere che, di solito, la strada è sicura, che non ho avuto notizia di frane
o di crolli, che in condizioni normali non ci dovrebbero essere particolari difficoltà
a raggiungere l’ufficio, etc… In altre parole, alla volontà è sufficiente sapere della
ragionevolezza di qualcosa per far sì che tutta la coscienza (ragione compresa) tratti
tale possibilità come un qualcosa di reale (cioè di effettivamente esistente).
Da queste note emerge altresì la distanza che separa la verità epistemica (sape-
re incontrovertibile dell’incontrovertibile) dalla certezza (o fede)37, ovvero da una
forma di sapere che assume di fatto come incontrovertibile ciò che di per sé risul-
ta invece controvertibile: alla base vi è l’atteggiamento esistenziale di colui che,
di fronte alla scelta tra alternative possibili (non contraddittorie), tratta l’opzione
scelta come se fosse una verità epistemica. L’atteggiamento di fede implica quindi
una presa di posizione, un atto di volontà in favore di un’opzione ritenuta – sulla
base di determinate ragioni – vera. Diverso invece l’atteggiamento esistenziale di
chi, posto di fronte a due possibilità ugualmente incontraddittorie, non è in grado
di scegliere sulla base di una verità epistemica. È in dubbio colui che, di fronte alla
scelta, è consapevole della possibilità di incorrere in errore e che, in mancanza di
buone ragioni, non osa muoversi e, nel contempo, non riesce a decidersi per una

36
Gregoretti, Sul rapporto tra filosofia e religione, p. 35.
37
Qui il termine fede non è assunto in termini strettamente religiosi, per quanto la religione sia
un particolare modo di aver fede ovvero di ritener per vero (certo) ciò che non è oggetto di sapere
epistemico.
la buona circolarità di fede e ragione 1125

delle due. Chi dubita sta nel problema senza saperne fuoriuscire; che crede, inve-
ce, opta per una delle scelte possibili e, così facendo, forza lo stallo della ragione38.

7. Una lezione di metodo


Se volessimo trarre un insegnamento dalle brevi considerazioni sin qui svolte
dovremmo senza dubbio volgerci alla lezione che ci viene offerta dallo studio del-
la verità. La verità esalta infatti la grandezza e la miseria dell’uomo.
La grandezza: in quanto espressione della capacità umana di ergersi al di sopra
del divenire del tempo, al di sopra delle contingenze mutevoli. Il sapere epistemi-
co consente infatti all’uomo di superare i limiti della sua temporalità e di gettare
uno sguardo verso la dimensione dell’eterno e del necessario.
La miseria: in quanto alla potenza e alla stabilità qualitativa del vero corrispon-
de la modestia quantitativa delle conoscenze umane capaci di vantare un simile
statuto epistemologico. L’uomo può certamente elevarsi al piano della verità, ma
ciò rappresenta quasi una sorta di fortunata eccezione rispetto alla quotidianità
della sua esistenza. Ritornando alla distinzione tra verità e certezza, potremmo
dire che solo occasionalmente l’uomo abita la verità mentre, normalmente, vive
nella certezza e nella fede (se non, addirittura, nel dubbio)39. Di qui l’invito a fare

38
Il problema religioso, chiaramente, rappresenta in questo contesto, un nodo ineludibile. Bonta-
dini si è lungamente impegnato ad una ricostruzione storico critica del pensiero moderno attraverso
la quale dimostrare l’infondatezza del divieto a procedere kantiano nei confronti della metafisica
(cfr. G. Bontadini, Studi di filosofia moderna, Vita e Pensiero, 1996, pp. 283-383). Quest’ultima è, a
suo dire, una possibilità che chiede di essere affrontata con rinnovato coraggio. Rispetto al problema
metafisico – che nei suoi tratti essenziali si configura come domanda circa l’equazione o meno tra
U.d.E. e assoluto – vi possono essere diverse posizioni. Con il termine problematicismo Bontadini
intende la situazione di chi non è in grado, speculativamente, di argomentare in modo incontrover-
tibile quanto all’immanenza o alla trascendenza del fondamento. Tale atteggiamento, che Bontadini
definisce anche come problematicismo situazionale (e nel quale si riconobbe egli stesso nei suoi anni
giovanili), trova in Ugo Spirito la sua icona più rappresentativa. Vi è però chi decide di assumere tale
condizione problematica come un tratto insuperabile dell’esperienza umana, come una condizione
strutturale al conoscere; in questo caso Bontadini parla allora di problematicismo trascendentale.
Ben rappresentativa di secondo approccio al problema metafisico è sicuramente la filosofia di Anto-
nio Banfi. Utili, al fine di un primo inquadramento di tali questioni, due brevi articoli, originaria-
mente pubblicati su «L’Educatore italiano» e poi raccolti da Bontadini nel volume dal titolo Appunti
di filosofia (prima edizione nel 1972, ora disponibile nell’edizione edita da Vita e Pensiero, Milano
1996), dedicati rispettivamente al problematicismo di Banfi e a quello di Spirito (ibi, pp. 178-188). Il
tema della problematicità quale cifra essenziale del filosofare è stato al centro anche della riflessione
di Marino Gentile, capostipite della così detta scuola padovana, col quale Bontadini si è lungamente
confrontato. Cfr. M. Gentile, Trattato di filosofia, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1987, in par-
ticolare pp. 47-60. Infine, anche per l’attenzione che Gregoretti ha dedicato al suo pensiero, merita in
questo contesto un cenno a U. Spirito, Il problematicismo, Sansoni, Firenze 1948.
39
Il dubbio, da un punto di vista esistenziale, rappresenta la situazione nella quale la volontà
riesce a risolvere lo stallo della ragione decidendo di accogliere con fiducia la veridicità di un deter-
minato stato di cose (pur senza averne prova incontrovertibile).
1126 luca grion

di questa consapevolezza circa la grandezza e la difficoltà della verità quasi un


habitus etico. L’invito che la verità ci rivolge consiste nell’esortazione a maturare
un atteggiamento critico nei confronti del sapere, capace di coniugare la solidità
del metodo al pudore per la verità. È questa una lezione – sia teorica che pratica –
che Gregoretti non si è mai stancato di ripetere.
Bisogna senza dubbio essere consapevoli del valore della verità, della sua
potenzialità liberante (e non certo violenta, come vorrebbe parte della cultura con-
temporanea)40. La verità libera infatti l’uomo dalla contraddizione, rende sicuro il
suo conoscere e retto il suo agire. Nel contempo, però, bisogna anche rispettare la
verità, evitando di voler affermare come formalmente vero ciò di cui non siamo in
grado di mostrare l’assoluta incontrovertibilità.
Pudore per la verità significa allora onorarne il valore anche quando non siamo
in grado di raggiungerla appieno. Significa avere di mira la verità anche quando
il suo guadagno risulta difficile. Come? Chiedendo sempre ragione delle proprie
affermazioni, mettendole alla prova, cercando di saggiare la loro resistenza d’in-
nanzi alle opinioni contrarie. Pudore per la verità non significa certamente dover
rinunciare a sostenere le buone ragioni che sorreggono le nostre convinzioni ma,
semplicemente, mantenere viva in noi la consapevolezza che ciò che affermiamo
(quasi sempre) non è una verità in senso forte. Se vogliamo, essa è, al più, una
verità umana, limitata e contingente.
Rispettare la verità significa, inoltre, cercare di dar vita a un sapere vero-simile
anche quando, come nel caso dell’etica, saremo chiamati a interrogarci su fatti che
non hanno carattere di necessità. Fatti sui quali il giudizio non riesce a costituir-
si come espressione di un sapere incontrovertibile. Anche in questi casi, infatti,
interrogheremo l’esperienza sapendo che non tutte le opinioni sono equivalenti
(contro il relativismo) e cercando di discriminare, alla luce degli insegnamenti del
logos, le ragioni che si riveleranno migliori (maggiormente simili al vero quanto a
stabilità e forza) delle altre.

8. Ripresa e rilancio
Tornando ora al rapporto tra filosofia e religione, la riflessione sin qui sviluppata ci
consente di comprendere la scacchiera sulla quale Gregoretti fa giocare il rapporto
tra queste due dimensioni fondamentali dell’esperienza umana: alla prima spet-
ta un compito di garanzia rispetto alla ragionevolezza del credere41; alla seconda
compete l’assunzione del rischio che sempre comporta l’adesione fiduciosa a ciò

40
Cfr. L. Grion, Il problema etico nel pensiero di Gianni Vattimo. Considerazioni su forza e
debolezza, tolleranza e carità, in Vigna, Etiche e politiche della post-modernità, pp. 283-301.
41
«E la volontà che opta per la religione si imbarca legittimamente nell’avventura, perché come
si è visto, la ragione la conforta nella ragionevolezza (possibilità) del progetto» (Gregoretti, Sul
rapporto tra filosofia e religione, p. 60).
la buona circolarità di fede e ragione 1127

che, per la ragione, rappresenta una semplice possibilità. Possibilità, si badi bene,
nel caso del credo religioso non riguarda l’esistenza dell’assoluto, né la sua alteri-
tà rispetto alla dimensione empirica ma, per così dire, ‘il volto’ dell’assoluto.
Per quanto sommariamente, provo a chiarire quest’ultima affermazione. La
scelta religiosa, secondo Gregoretti, non riguarda l’assistenza dell’assoluto in
quanto tale, poiché questo è analiticamente implicato dall’esistenza del qualcosa:
«se qualcosa esiste, e qualcosa esiste, la totalità necessariamente esiste. In effetti il
qualcosa è parte o tutto, ma uno dei due deve essere. E sia che si tratti di qualcosa
come parte, o lo si tratti come tutto, l’esistenza del tutto o della totalità è neces-
sariamente posta»42. Qui assoluto e totalità sono assunti come sinonimi, poiché
solo ciò che non ha altro fuori di sé – e fuori dalla totalità non vi è che il nulla – è
sciolto da ogni vincolo (ab-solutum, dunque).
La scommessa religiosa, stante il lavoro eseguito dalla riflessione metafisica, non
riguarda neppure l’affermazione circa l’alterità dell’assoluto rispetto alla totalità
dell’esperienza empirica, poiché la ragione è capace di mostrare la contraddittorietà
che comporta l’assolutizzazione dell’esperienza diveniente (e conseguentemente la
tesi immanentista). Gregoretti, al riguardo, fa esplicito riferimento all’eteronomia
del divenire quale chiave per riconoscere la disequazione tra esperienza empirica e
assoluto, e la conseguente necessità di affermare la trascendenza del fondamento43.
In questo Gregoretti fa sua la rigorizzazione della teologia razionale proposta da
Bontadini44 quale fuoriuscita positiva dal problematicismo metafisico. L’esito a cui
perviene tale inferenza metafisica, tuttavia, prende la forma di una teologia negativa
in base alla quale «tutto ciò che si sa è che la totalità dell’essere non è l’unità ori-
ginaria dell’esperienza e che l’esperienza è altra dalla totalità perché include degli
aspetti decettivi che della totalità non possono esser predicati e che anzi ad essa si
oppongono per opposizione di contraddizione, cioè con la stessa assolutezza con cui
il positivo si oppone al negativo»45. L’assoluto trascendente è sì affermato, ma solo

42
Ibi, p. 36.
43
Qui non possiamo ripercorrere in modo analitico le ragioni che sostengono tale posizione; ciò
che possiamo offrire è la conclusione che Gregoretti fa propria: è perché l’esperienza in sé conside-
rata (ovvero ritenuta autosufficiente, autonoma) risulta contraddittoria che si è tenuti a cercare fuori
di essa il fondamento. È perché il divenire, qualora concepito come realtà originaria, è incapace di
rendere ragione di sé – e quindi fa problema – che siamo forzati ad affermare l’esistenza dell’assolu-
to indiveniente. «Se la totalità fosse diveniente, essendo la totalità dell’essere, ciò che sopraggiunge
verrebbe dal nulla e ciò che si congeda cadrebbe nel nulla» (ibi, p. 44). Su questo aspetto si veda
anche G. Bontadini, La metafisica nella filosofia contemporanea. Dal problematicismo alla meta-
fisica (1952), Vita e Pensiero, Milano 1996, pp. 163-214 (con particolare riferimento al paragrafo
conclusivo, significativamente titolato Principio della metafisica: pp. 211-214).
44
Cfr. Gregoretti, L’esperienza: dalla fenomenologia al senso, pp. 163-173 e Id., Sul rapporto
tra filosofia e religione, pp. 43-49. Prende invece le distanze dell’ultimo Bontadini, laddove quest’ulti-
mo, spingendosi troppo oltre nel suo dialogo con Severino, passa da una metafisica dilemmatica ad
una dialettica antinomica, giungendo ad affermare la contraddittorietà reale del divenire. Su questo
si veda L. Grion, Bontadini vs. Severino, in Vigna, Bontadini e la metafisica, pp. 417-492.
45
Gregoretti, Sul rapporto tra filosofia e religione, p. 45.
1128 luca grion

come totalmente altro rispetto all’esperienza diveniente e descritto solo per ciò che
esso non è46. Un assoluto senza volto, appunto.
Proprio sull’incapacità della speculazione metafisica di dire, in positivo, cosa
l’assoluto sia, si inserisce la scelta religiosa. La religione decide di credere che
l’assoluto abbia un determinato volto o, se si preferisce, che sia possibile rispon-
dere alla domanda che chiede chi Dio sia. Tale teologia negativa è dunque suffi-
ciente a rincuorare la speranza della fede, la quale si accontenta che la possibilità
della religione per l’uomo sia, prima di tutto, una possibilità di Dio47. Così dunque
Gregoretti può icasticamente concludere che «non pare che la filosofia fondi la
religione, si direbbe piuttosto che essa mostra dove la religione si fonda»48.

46
«In fondo» scrive Gregoretti «il culmine ontologico-metafisico, raggiungibile dalla ragione
nel suo esercizio più attento e rigoroso, è una dichiarazione di sapere (veritativamente) di non sape-
re. Cioè che la realtà sporge infinitamente da ciò che, essendo presente, le è possibile manifestare
incontrovertibilmente e che, ciò che sporge, le è dato solo come assente» (Id., La religione nell’in-
contro di ragione e fede, p. 69).
47
Cfr. Id., Sul rapporto tra filosofia e religione, p. 55.
48
Ibi, p. 63.
Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, CXII (2020), 4, pp. 1129-1154
ISSN: 00356247 (print) - 18277926 (digital)
DOI: 10.26350/001050_000161

Silvia Pierosara*

Semplificazione e narrazioni complesse


tra empatia e compassione

Simplification and Complex Narratives between Empathy and Compassion

This contribution aims at distinguishing between simplifying narratives and narratives of


complexity and at showing their links with empathy and compassion, in order to make it
easier to use narratives in a constructive, respectful of human vulnerability, and support-
ive direction. Such purpose is reached through three steps, each of them corresponding to
a section. In the first section the distinction between simplifying narratives and narratives
of complexity is pointed out by hypothesizing that simplifying narratives do not grasp
the polyphony and the complexity of history, do not accept diversity and take advan-
tage of immediacy. In the second section the Kantian duty of sympathy and the distinc-
tion between humanitas aesthetica and humanitas practica, respectively immediate and
mediate ways of participating in the others’ feelings, are analyzed and connected with
the two kinds of narratives. In the third section the narratives of complexity are explicitly
© Vita e Pensiero / Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore

linked to an ethics of vulnerability.

Keywords: Narratives of Complexity, Simplifying Narratives, Immediacy, Compassion,


Vulnerability

1. Introduzione
Il presente contributo è guidato da un’ipotesi di fondo, secondo cui, per poter
riconoscere, esplicitare e utilizzare le ricadute etiche delle narrazioni collet-
tive entro una prospettiva che ne valorizzi la portata storico-ermeneutica, è
necessario distinguere almeno due differenti tipologie di racconto: l’una sem-
plificante e banalizzante, facile da comprendere e da diffondere, chiaramente
ascrivibile a una soggettività che si considera monolitica, e l’altra che tenta di
restituire la complessità delle storie e delle loro intersezioni, tenendo conto

*
Università degli studi di Macerata. Email: s.pierosara@unimc.it
Received: 12.07.2019; Approved: 10.12.2019; First published online: 01.2020.
1130 silvia pierosara

della co-autorialità, della pluralità delle prospettive e delle interpretazioni, alla


luce di una comprensione del sé e dei legami permeabile all’alterità.
Alla base di tale ipotesi di lavoro, sottesa alla distinzione tra due tipologie di
narrazione, sta una differenza tra due modalità di percepire il vissuto emotivo
altrui, che presuppone una costellazione concettuale problematica e tutt’altro
che condivisa dalla tradizione filosofica e che, tuttavia, trova in Kant una chiara
formulazione all’insegna della differenza tra immediatezza e mediazione. Spes-
so considerate intercambiabili, i nomi che tali modalità assumono nel dibattito
contemporaneo sono in realtà perlopiù riconducibili a empatia e compassione,
entrambe progressivamente tematizzate dalla riflessione etica; se l’empatia
appare oggi a molti una delle fonti della vita morale, la compassione, cui si guar-
da quantomeno con sospetto, è alternativamente esaltata o ritenuta dannosa per
la costruzione dello spazio pubblico. Alla luce della distinzione tra narrazioni
semplificanti e narrazioni della complessità, questo contributo cerca di proble-
matizzare l’entusiasmo contemporaneo nei confronti dell’empatia come veicolo
quasi naturale del senso morale e fonte dell’obbligazione morale, tentando una
rivalutazione della compassione ai fini della costruzione di un mondo morale
condiviso, capace di orientare l’etica pubblica verso solidarietà e inclusione.
L’idea che prende forma lungo il percorso è la seguente: se per un verso le
narrazioni semplificanti suscitano empatia e si consolidano grazie a essa asso-
lutizzandone i tratti di immediatezza, per altro verso le narrazioni complesse
sono legate alla capacità di orientare la compassione verso la solidarietà in una
dimensione universalistica. La narrazione, in tal senso, può svolgere un ruolo
fondamentale per testimoniare la vulnerabilità umana e per attivare una risposta
etica dinanzi a essa, riconoscendo anzitutto la voce dell’alterità, anche quando
invisibile o espressa in modo frammentario e incoerente rispetto al contesto.
Il testo si articola in tre momenti: nel primo si tematizza la distinzione tra
narrazioni semplificanti e narrazioni della complessità chiarendo anzitutto il
legame tra etica e narrazione e, in secondo luogo, riconoscendo nelle narrazio-
ni della complessità una polifonia essenziale all’interpretazione dialogica degli
orizzonti valoriali del sé; nel secondo, a partire da Kant, si esplora la relazione
tra un sentire immediato e un sentire mediato dell’altro, riconducendo a tale
dicotomia la differenza tra empatia e compassione e cercando, per un verso,
di riprendere alcune critiche all’uso pubblico di tali concetti e, per altro verso,
esplicitandone il legame con la cifra del narrativo; nel terzo momento si tematiz-
za la possibilità di rintracciare nelle narrazioni della complessità uno strumen-
to per rappresentare, riconoscere e interpretare il nesso tra vulnerabilità e vita
morale, attraverso l’analisi dei contributi di Catriona MacKenzie sulla vulnera-
bilità e sulla sua prescrittività.
semplicità e narrazioni complesse tra empatia e compassione 1131

2. Semplificazione o complessità narrativa?


Che ci sia un legame tra etica e narrazione è un dato acquisito nel panorama filosofi-
co contemporaneo, a partire dagli studi inaugurali di Paul Ricoeur, Alasdair MacIn-
tyre, Charles Taylor, fino ai più recenti sviluppi del dibattito1. Le modalità attraverso
cui tale legame si articola, tuttavia, devono essere preliminarmente chiarite. Intanto,
è possibile riconoscere alle narrazioni lo statuto di strumento utile per la riflessione
etica: il loro utilizzo in tal caso è eminentemente teorico e prende in prestito alcune
categorie narratologiche applicandole allo studio e alla valutazione dell’agire uma-
no e dell’ethos. Inoltre, i comportamenti personali e collettivi, definibili in termini
di ethos, così come i processi di autoriconoscimento morale, possono essere influen-
zati dalle narrazioni consolidate o prevalenti: in questo secondo caso il legame tra
etica e narrazione è di natura pratica ed è comunque compito della riflessione etica
coglierne le implicazioni. Il presente contributo si sviluppa entro il secondo ambito
di indagine: muovendo dall’ipotesi per cui le narrazioni prevalenti influenzino la
condotta di vita individuale, si cerca di distinguere tra differenti forme di narrazione,
nella persuasione che tali forme possano contribuire a veicolare particolari contenuti
non moralmente neutrali. A tale scopo, sarà comunque necessario fare riferimento
ad alcune categorie narratologiche.
La forma della narrazione configura i contenuti possibili, che a essa si devono
adeguare come a una cornice di senso. Tale influenza contribuisce a chiarire la rela-
zione tra piano etico, sociale e politico dell’indagine svolta in queste pagine. La
capacità delle narrazioni di veicolare, diffondere e rafforzare valori condivisi, che
influenzano la comprensione di sé e le scelte personali e collettive, non può pre-
scindere dai contesti sociali e politici di riferimento, in quanto questi ultimi posso-
no costituire altrettanti ostacoli o, viceversa, possono farsi promotori di modalità
narrative accoglienti e sensibili alle differenze. In tal senso, tra dimensione etica,
sociale e politica si dà una reciproca influenza: se da un lato la dimensione sociale
e quella politica offrono le coordinate entro cui la dimensione etica può prendere
forma, dall’altro lato quest’ultima può, seppure in modo apparentemente impercet-
tibile, influenzare le relazioni sociali e incidere a livello politico sulle istituzioni,
contribuendo in modo significativo a mutare i contesti e le cornici normative.

1
Com’è noto, l’affermazione del paradigma narrativo in etica si può far risalire alla prima
metà degli anni Ottanta del Novecento. Tra gli studi inaugurali si possono annoverare i seguenti:
A. MacIntyre, After Virtue. A Study in Moral Theory, Bloomsbury, New York 1981; tr. it. di M.
D’Avenia, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, Feltrinelli, Milano 1988; P. Ricoeur, Temps et
récit, tome 1, Seuil, Paris 1983; tr. it. di G. Grampa, Tempo e racconto, vol. 1, Jaca Book, Milano
1985; Id., Du texte à l’action. Essais d’herméneutique II, Seuil, Paris 1986; tr. it. di G. Grampa, Dal
testo all’azione. Saggi di ermeneutica, Jaca Book, Milano 1989; Ch. Taylor, Philosophical Papers
II. Human Agency and Language, Cambridge University Press, Cambridge 1985. Per una puntuale
ricostruzione del narrativismo contemporaneo e delle sue implicazioni rispetto alla teoria dell’azio-
ne e all’etica, cfr. F. Cattaneo, Azione e narrazione. Percorsi del narrativismo contemporaneo, Vita
& Pensiero, Milano 2008; Ead., Etica e narrazione. Il contributo del narrativismo contemporaneo,
Vita e Pensiero, Milano 2011.
1132 silvia pierosara

L’ipotesi che guida questo paragrafo è che sia possibile rintracciare narrazioni
buone o cattive proprio sulla base del legame tra forma e contenuto appena evi-
denziato, e che grazie a tale legame sia possibile cogliere la bontà o meno di un
racconto, la sua capacità di modificare credenze, comportamenti e atteggiamenti
personali e collettivi. La riflessione sulla forma della narrazione e sulla sua rile-
vanza in etica non implica dunque alcun formalismo. La narrazione buona sarebbe
la narrazione capace di riconoscere la differenza che la abita, quindi la narrazione
sensibile alla frammentarietà, che non concepisce l’identità come un monolite da
difendere ma piuttosto come apertura, intenzionalità e ricerca di senso. Si può
quindi sostenere che le narrazioni buone sono potenzialmente inclusive, mentre
quelle cattive appaiono perlopiù come chiuse. Inclusività non significa relativi-
smo e indifferenza alle differenze, ma possibilità di dare voce come gesto già da
sempre eticamente orientato. Evidentemente, una narrazione dialogica che con-
templa una pluralità di prospettive sarà maggiormente complessa rispetto a una
narrazione monologica, che favorisce processi di autocomprensione identitari e
insensibili all’alterità. Per tale ragione, la dicotomia tra narrazioni buone e cattive,
sulla quale si sono recentemente soffermati alcuni autori2, può essere associata
a quella tra narrazioni complesse e semplificanti proprio a partire dal legame tra
forma e contenuto che la narratologia evidenzia.
Le narrazioni possono influenzare le attitudini etiche personali e relazionali
proprio in virtù di un legame tra strutture formali e contenuti veicolati. In par-
ticolare, l’ipotesi che si intende qui sostenere è che il dialogismo e la polifonia,
categorie narratologiche, siano capaci di promuovere un decentramento, un’a-
pertura alla pluralità delle voci, un’attenzione al frammento e alla frammenta-
rietà. Una narrazione polifonica e dialogica sarà quindi capace di promuovere
orizzonti relazionali di accoglienza, ospitalità e sensibilità alla vulnerabilità,
espressa perlopiù nelle forme della frammentazione narrativa3. Lungi dall’ab-
bandonare l’idea della coerenza, in questo contributo si cerca di mostrare come
essa non sia un dato immediato, ma sia piuttosto un fine a cui tendere a partire
dalla possibilità di accogliere la frammentarietà. In tal senso, la frammentarietà
apparirà come criterio euristico per rintracciare la vulnerabilità. La narrazione
capace di riconoscere voci differenti sarà potenzialmente anche in grado di pro-
muovere un’etica della solidarietà. Viceversa, una narrazione monologica, inca-
pace di cogliere la diversità e immediatamente coerente promuoverà perlopiù
processi di autoriconoscimento che escludono l’alterità.

2
«Le storie sono cattive quando abbiamo bisogno di comprendere qualcosa spostando la nostra
attenzione su storie differenti narrate da prospettive differenti, ma non possiamo, perché la storia
iniziale ci impedisce di riconoscere tali esigenze e di cercare tali storie alternative. Le storie che ci
invitano alla violenza sono esempi estremi di storie cattive comunemente utilizzate per giustificare
guerra e genocidi» (H. Brody - M. Clark, Narrative Ethics. A Narrative, «The Hastings Center
Report», 44 [2014], 1 Suppl., pp. 7-11, qui p. 9).
3
Quest’idea sarà sviluppata nel terzo paragrafo.
semplicità e narrazioni complesse tra empatia e compassione 1133

In particolare, l’intrinseco dialogismo che la narratologia, a partire dagli


studi di Bachtin su Dostoevskij, ascrive al romanzo è correntemente defini-
to come «la qualità di un’istanza del discorso che riconosce esplicitamente di
essere definito dalla relazione con altre istanze, sia passate, alle quali risponde,
sia future, le cui risposte anticipa»4. Com’è noto, Bachtin muove dal ricono-
scimento che «nessun membro della comunità verbale trova mai parole della
lingua che siano neutre, immuni dalle aspirazioni e dalle valutazioni altrui, che
non siano abitate dalla voce altrui. No, ognuno riceve la parola attraverso la
voce altrui, e questa parola ne resta colma. Interviene nel suo proprio contesto a
partire da un altro contesto, permeato dalle interpretazioni altrui. Il suo proprio
pensiero trova una parola già abitata»5. La voce propria è già da sempre abitata
dalla voce altrui; in virtù di tale riconoscimento, lo studioso russo rintraccia nel
dialogismo la cifra essenziale delle interazioni umane6. A quest’ultimo la nar-
ratologia, restando nel solco degli studi inaugurali di Bachtin, collega la polifo-
nia, intesa nel senso della capacità del romanzo di restituire la complessità e la
molteplicità delle prospettive narranti.
Il dialogismo si contrappone quindi al monologismo, che, «al limite, nega la
presenza fuori di sé di un’altra coscienza dotata di pari diritti e con pari diritti
responsiva, di un altro io (tu) dotato di pari diritti»7. Tale distinzione indica, dal
punto di vista narratologico, due modalità narrative, riconducibili rispettivamen-
te alla presenza di una sola voce, una sola prospettiva, una sola lingua e, d’altro
canto, alla pluralità delle voci, delle prospettive, delle lingue, il che non esclude,
ma rende evidentemente più complesso, il percorso verso la coerenza, da inten-
dersi come raggiungibile attraverso processi di «concordanza dialogica»8, anzi-
ché di «dominanza monologica»9. Dal punto di vista etico, tale duplice modalità
narrativa si traduce, da un lato, in un’autorappresentazione del sé incapace di
riconoscere l’alterità che lo costituisce e che incontra, e in una conseguente inca-

4
D. Sheperd, Dialogism, in Aa.Vv., The Living Handbook of Narratology, http://www.lhn.
uni-hamburg.de/node/67.html, consultato in data 15 ottobre 2019.
5
M. Bachtin, Problemy poetiki Dostoevskogo, Sovetskij Pisatel’, Moskva 1963, p. 131; tr. it. di
G. Garritano, Dostoevskij. Poetica e stilistica, Einaudi, Torino 1968, p. 263.
6
Nota Bachtin: «Ci sono eventi che, per principio, non possono svolgersi sul piano di una
coscienza unica e unitaria, ma presuppongono due coscienze che non si fondono, ci sono eventi di
cui un essenziale momento costitutivo è il rapporto di una coscienza con un’altra proprio in quanto
altra, e sono tali tutti gli eventi creativamente produttivi, che portano il nuovo, eventi unici e irre-
versibili» (Id., Avtor i geroj v estetičeskoj dejatel’ nosti [1922-1924], in Id., Estetika slovesnogo
tvorčestva, Iskusstovo, Moskva 1979, pp. 77-78; tr. it. di C. Strada Janovic, L’autore e l’eroe. Teoria
letteraria e scienze umane, Einaudi, Torino 1988, p. 78).
7
Id., K pererabotke knigi o Dostoevskom (1961), in Id., Estetika slovesnogo tvorčestva, p. 318;
tr. it. di C. Strada Janovic, Piano per il rifacimento dell’opera su Dovstoeskij, in Id., L’autore e l’e-
roe, pp. 330-331.
8
V. Tjupa, Narrative Strategies, in Aa.Vv., The Living Handbook of Narratology, https://www.
lhn.uni-hamburg.de/node/119.html, consultato in data 18 ottobre 2019.
9
Ibidem.
1134 silvia pierosara

pacità di accogliere, ospitare, costruire orizzonti di solidarietà; dall’altro lato, il


decentramento, con la conseguente rottura del modello monologico all’insegna
del multiprospettivismo, può promuovere un’etica dell’accoglienza, dell’ospita-
lità, proprio a partire dalla possibilità che voci differenti siano rese ascoltabili e
realmente ascoltate. In tal caso, l’autorappresentazione del sé e dei suoi legami
non rinuncia alla possibilità della coerenza ma, anziché interpretarla come già da
sempre data, la declina nel senso di un compito che deve coinvolgere tutti i prota-
gonisti del dialogo, nella modalità del raccontare e dell’essere raccontati.
Le categorie narratologiche delineate fanno perlopiù riferimento alla com-
plessità10 narrativa, declinandola come possibilità interna al racconto di ospita-
re voci, punti di vista11. La possibilità di avere voce, di contribuire alla scrittura
e alla configurazione della narrazione che ci autorappresenta, cogliendo la plu-
ralità, la frammentarietà che può essere indice di sofferenza e vulnerabilità,
implica un esercizio di decentramento, talvolta spiazzante, per cui raccontare
ed essere raccontati non costituiscono meri artifici retorici prospettici, ma si
connotano già da sempre come diretti all’ascolto responsivo e accogliente del
vissuto altrui in termini di sofferenza. Una narrazione aperta alla possibilità di
essere raccontata altrimenti veicola il riconoscimento del diritto altrui a rac-
contare e a essere ascoltato come portatore di una vulnerabilità di cui prendersi
cura. La narrazione monologica, a una sola voce, in primo luogo semplifica i
processi di autoidentificazione perché ne misconosce la tessitura relazionale e,
in secondo luogo, non passa per il confronto con l’alterità, non potendone né
volendone ascoltare la voce.
In tal senso, i racconti possono essere definiti cattivi quando la coerenza si tra-
sforma in esclusione e cecità dinanzi alla frammentarietà, e quando non consento-
no di mutare prospettiva né sono disposti ad accogliere narrazioni differenti, delle
quali non si ravvisa neanche l’esigenza; in questi casi la coerenza si trasforma
in esclusione come incapacità di ascoltare e accogliere storie, anche frammenta-
rie, narrate da prospettive differenti. Le cattive narrazioni possono dunque essere
interpretate come narrazioni semplificanti, laddove semplificazione e banalizza-
zione costituiscono il più visibile risultato di un dialogo mancato tra prospettive
differenti. Tale mancato dialogo semplifica i processi di autoidentificazione e di
autocomprensione etica e, risparmiando al soggetto il confronto con l’alterità, rie-
sce a diffondersi e a consolidarsi in modo immediato.
A partire dalla duplicità delle modalità narrative e dalle sue ricadute etiche,
si può specificare l’ipotesi di partenza nel modo seguente. Da un lato, le narra-
zioni semplificanti, date le loro caratteristiche formali che ne vincolano i con-
tenuti, sono facilmente accessibili e appropriabili da parte del soggetto che, in

10
Cfr. J. Pier, Complexity. A Paradigm for Narrative?, in P.K. Hansen - P. Roussin - W. Schmid
(eds.), Emerging Vectors of Narratology, de Gruyter, Berlin 2017, pp. 533-566.
11
In termini narratologici, ai punti di vista corrispondono diversi tipi di focalizzazione.
semplicità e narrazioni complesse tra empatia e compassione 1135

tal modo, anziché riflettere e mediare con l’alterità in vista della propria auto-
comprensione e della costruzione di orizzonti valoriali, si identifica in modo
immediato con la voce prevalente e, in modo altrettanto immediato, accetta
l’orizzonte valoriale di cui sono portatrici, ignorando la possibilità dell’alterità
e il fatto che quella stessa alterità possa essere fonte di obbligazione morale.
Dall’altro lato, le narrazioni della complessità, a partire dalle caratteristiche for-
mali sopra descritte nei termini di dialogismo e polifonia, promuovono processi
di autocomprensione mediati, sia a livello del soggetto sia a livello dei legami
sociali; mediante il decentramento, l’ascolto di voci provenienti da prospettive
differenti, operazioni che comportano un’elaborazione mediata, un processo di
configurazione e, quindi, una riflessione, le narrazioni della complessità pro-
muovono un lavoro di costruzione comune di orizzonti valoriali. Immediatezza
e mediazione potrebbero dunque accompagnare rispettivamente semplificazione
e complessità narrative.
La narrazione semplificante, immediatamente fruibile dal soggetto per ricono-
scersi dal punto di vista morale, proprio in quanto riflette una «dominanza mono-
logica», può essere utilizzata per produrre e consolidare meccanismi di dominio12.
Il potere e la sua riproduzione – che lo trasforma in dominio cristallizzato13 – sono
legati alla narrazione proprio perché, da un lato, le narrazioni collettive sono in
grado di veicolare aspettative e modificare orizzonti valoriali e di senso e, dall’al-
tro lato, la possibilità di raccontare corrisponde alla distribuzione del potere,
specialmente nei contesti in cui si ravvisa l’esigenza di raccontare altrimenti in
riferimento a esperienze di dolore e sofferenza che chiedono di essere ascoltate.
Secondo Sarah Ahmed, tra gli altri, «la differenziazione tra forme di dolore e sof-
ferenza nelle storie che sono raccontate, e tra le storie dette e quelle non dette, è
un meccanismo cruciale per la distribuzione del potere»14. Togliere voce significa
dunque misconoscere il diritto e la capacità di raccontare: la cattiva narrazione,
narrazione che semplifica, in virtù della sua lettura monologica della realtà, può
rendersi strumento dell’«organizzazione dell’odio»15, gestire le emozioni collet-

12
In tal senso, si potrebbe dire che non ogni narrazione prevalente è anche dominante, intendendo
qui per narrazione dominante una narrazione volta a istituire e a consolidare un dominio. La diffusione
e il consolidamento di una narrazione prevalente non implica che tale narrazione sia anche una nar-
razione di dominio. Tale trasformazione si dà quando la narrazione prevalente non tiene conto della
possibilità della differenza, dell’alterità, relegata a una posizione di invisibilità e subalternità.
13
Si utilizza qui questo termine con riferimento alle riflessioni di Ernesto Laclau intorno al proces-
so di conversione dalla metonimia alla metafora implicato nella costruzione dell’egemonia. La meta-
fora, secondo l’autore, essenzializzerebbe legami di significato che hanno un’origine metonimica con-
tingente. La cristallizzazione dei significati potrebbe richiamare l’idea di una narrazione che semplifica
perché non riconosce la possibilità di essere raccontata altrimenti da parte di un’alterità che esclude
dalla possibilità della presa di parola. Mi pare interessante che la duplicità dei racconti possa trova-
re la sua eco anche all’interno di prospettive filosofiche differenti, se non divergenti. Su egemonia,
metonimia e metafora, cfr. E. Laclau, The Rethorical Foundations of Society, Verso, London 2014.
14
S. Ahmed, The Cultural Politics of Emotions, Edinburgh University Press, Edinburgh 2004, p. 33.
15
Ibi, p. 42.
1136 silvia pierosara

tive plasmandole, canalizzandole, piegandole alla reiterazione del dominio. Le


narrazioni semplificanti evitano quindi il ricorso alla complessità, alla mediazione
della riflessione come apertura a racconti differenti o divergenti e cristallizzano le
distinzioni, veicolano immediatamente emozioni non portate alla riflessione pro-
prio a causa del mancato confronto riflessivo, mediato e dialogico con l’altro, evi-
tando il ‘lavoro del negativo’ inteso come differente.
Recentemente la studiosa Hanna Meretoja, sulla scorta della distinzione narra-
tologica tra monologismo e dialogismo, ha ipotizzato l’esistenza di due tipologie
di pratica narrativa, alle quali ha assegnato rispettivamente i nomi di «pratiche
narrative non sussuntive» e «pratiche narrative sussuntive», differenziabili pro-
prio a partire dal trattamento che ciascuna di esse riserva all’alterità. Le pratiche
narrative sussuntive sono tali in quanto sussumono l’alterità immediatamente
entro categorie interpretative prestabilite, misconoscendo quindi l’unicità della
voce portatrice di una storia e semplificandone il processo identificativo. Tali pra-
tiche tendono a «nascondere la nostra abilità di incontrare altre persone nella loro
unicità e a perpetuare la tendenza a vedere gli individui come rappresentanti dei
gruppi a cui appartengono in riferimento a genere, orientamento sessuale, etnici-
tà, età, classe sociale e così via»16. Le pratiche narrative non sussuntive, invece,
sono tali perché non sussumono l’unicità entro categorie più ampie e considerano
l’identificazione di sé e la costruzione di orizzonti valoriali comuni come un pro-
cesso corale, aperto, implicante l’autoriflessione mediata. Solitamente, infatti, le
narrazioni sussuntive implicano una dicotomia quasi manichea tra ‘noi’ e ‘gli
altri’ che non può non essere associata alla semplificazione banalizzante volta a
rafforzare una cornice di dominio.
Tale duplice declinazione delle pratiche narrative può essere ulteriormente
sviluppata mediante una riflessione supplementare concernente l’immediatez-
za e la mediazione. La diffusione delle narrazioni semplificanti o sussuntive fa
leva su un’identificazione immediata, quasi contagiosa, con gli altri immedia-
tamente riconoscibili come simili; viceversa, la complessità narrativa fa leva
su una riflessione di tipo mediato in cui l’altro è preservato nella sua unicità
ed eventualmente ascoltato nella sua sofferenza mediante il riconoscimento del
suo vissuto e del suo sentire come suo. Le narrazioni semplificanti promuovono
un contagio emotivo immediato; le narrazioni complesse, dal canto loro, sono
capaci di promuovere, in modo mediato, l’attenzione all’unicità dell’altro e
alla sua possibile sofferenza. Il prossimo passaggio, a questo punto, consisterà
nell’approfondire il legame tra narrazioni semplificanti ed empatia da un lato,
narrazioni della complessità e compassione dall’altro lato, indagando in primo
luogo la differenza tra i due sentimenti.

16
H. Meretoja, The Ethics of Storytelling. Narrative Hermeneutics, History, and the Possible,
Oxford University Press, Oxford 2018, p. 112.
semplicità e narrazioni complesse tra empatia e compassione 1137

3. Humanitas aesthetica e humanitas practica


La distinzione tra narrazioni semplificanti e narrazioni sensibili alla complessità
può essere correlata alla distinzione tra un modo immediato e un modo mediato di
partecipare al vissuto affettivo altrui, a partire dal fatto che le narrazioni sempli-
ficanti incentivano una netta distinzione tra ‘noi’ e ‘gli altri’. Per la sua ampiezza
e articolazione interna, il dibattito contemporaneo intorno alla possibilità del sen-
tire l’altro, all’immediatezza e alla quasi-naturalità di tale sentire, è impossibile
da ricostruire in questa sede. Se ne prenderà qui in esame uno snodo rilevante in
quanto rimanda alla distinzione tra narrazioni semplificanti ed escludenti e narra-
zioni della complessità o inclusive, e che permette di comprendere come la parte-
cipazione alla sofferenza altrui possa considerarsi vincolante per l’agire.
Per enucleare tale snodo, può essere utile esaminare la riflessione kantiana
intorno alla compassione e alla simpatia17, riflessione che si articola nel tempo ma
che può essere considerata come emblematica di una distinzione tra sentire imme-
diato e naturale, e dovere di partecipazione alla sofferenza altrui. Per un verso,
le narrazioni semplificanti utilizzano come strumento di propagazione un senti-
re immediato volto all’esclusivo riconoscimento del simile, che non passa per la
riflessione e la distanziazione né contempla alterità e differenza; per altro verso,
le narrazioni della complessità si fondano su una comprensione del reale costruita
dialogicamente, aperta dunque all’alterità e allenata a un sentire capace di rico-
noscere, ospitare e accogliere il vissuto altrui in quanto tale, assumendo dinanzi a
esso un atteggiamento responsivo, che non si identifica con il vissuto altrui ma lo
reinterpreta creativamente riconoscendolo come altro18.

17
Il tema della simpatia e della compassione in Kant è al centro di alcuni importanti studi, tra cui
si possono ricordare A. Wehofsits, Anthropologie und Moral. Affekte, Leidenschaften und Mitgefühl
in Kants Ethik, de Gruyter, Berlin 2016; Ead., Mitgefühl in Kants Ethik. Die Koltivierung emotiona-
ler Dispositionen, «Deutsche Zeitschrift für Philosophie», 65 (2017), 5, pp. 830-850; M.S. Fahmy,
Active Sympathetic Participation. Reconsidering Kant’s Duty of Sympathy, «Kantian Review», 14
(2009), 1, pp. 31-52; P. Guyer, Schopenhauer, Kant and Compassion, «Kantian Review», 17 (2012),
3, pp. 403-429; M. de Lourdes Borges, Kant on Sympathy and Moral Motives, «ethic@», 1 (2002),
2, pp. 183-199; M. Savi, Sentimento di compassione e amicizia nell’etica kantiana, «La società degli
individui», 18 (2003), 3, pp. 57-76.
18
Lo stesso Bachtin, in riferimento alla simpatia, scrive: «Quando siamo in due, dal punto di
vista dell’effettiva produttività dell’evento, è importante non il fatto che oltre a me c’è anche un’al-
tra persona, sostanzialmente uguale (due persone), ma il fatto che egli è un altro per me, e in questo
senso la sua semplice simpatia per la mia vita non è la nostra fusione in un solo essere e non è la ripe-
tizione numerica della mia vita, ma è un sostanziale arricchimento dell’evento, poiché la mia vita è
co-vissuta da lui in una nuova forma, in una nuova categoria di valore, come vita di un altro che, in
termini di valore, è colorata in modo diverso e in modo diverso è recepita e giustificata rispetto alla
sua propria vita. La produttività dell’evento non sta nella fusione di tutti insieme, ma nella tensione
della propria [essotopia] e distinzione, nell’uso del privilegio del proprio posto fuori degli altri»
(Bachtin, Avtor i geroj v estetičeskoj dejatel’ nosti, pp. 78-79; tr. it., p. 80).
1138 silvia pierosara

Analizzando nel dettaglio le due tipologie di sentire attraverso la lente del-


le riflessioni kantiane, emerge che il sentire immediato volto al vissuto emotivo
altrui non è sufficiente a promuovere risposte etiche adeguate, proprio in quanto
non coinvolge la dimensione riflessiva e volontaria della vita morale. Rivolgen-
dosi in maniera indistinta verso ogni tipo di vissuto e non riconoscendo l’alterità,
si potrebbe sostenere che tale sentire immediato favorisce dinamiche di sempli-
ficazione identitaria. Una partecipazione allo stato emotivo altrui di tipo media-
to e riflessivo, di natura volontaria e razionale, tiene invece conto della pluralità
dei punti di vista e diventa un dovere morale perché si fa volontà di condividere
mediante comunicazione il proprio sentire; di conseguenza, può operare in siner-
gia con il dovere di beneficenza, trasformando una mera inclinazione, di per sé
moralmente neutrale, in un obbligo volto a promuovere l’umanità. In questo sen-
so, si può parimenti sostenere che le narrazioni della complessità contribuiscono
a incrementare un tipo di partecipazione non immediata, né spontanea, e, al con-
tempo, sono da essa rese possibili, in quanto proprio tale partecipazione volontaria
e razionale, essendo un dovere e non costituendo un rispecchiamento, può aprire
alla possibilità di comprendere il vissuto, specie se doloroso, del diverso, di colui
che non ho scelto e che non riesco ad assimilare a me.
In particolare, si farà qui riferimento ad alcune indicazioni che Kant offre nella
Fondazione della metafisica dei costumi e nella Metafisica dei Costumi. In questa
seconda opera, tra i doveri che scaturiscono dall’amore, Kant annovera il dove-
re di beneficenza, di gratitudine e di simpatia o partecipazione19. Quest’ultimo è
declinato come un dovere indiretto, che ha una relazione con il dovere indiretto
di coltivare la propria umanità. Il dovere di simpatia o partecipazione non si basa
su un sentimento immediato, ma sulla possibilità di comunicare, su un coinvolgi-
mento attivo, non patologico, rispetto al sentire altrui, ovvero su un’elaborazione
del sentimento tramite comunicazione, razionalizzazione, distanziazione. Proprio
questa è l’humanitas practica che, esattamente come l’amore pratico, può essere
prescritta in quanto scaturisce dalla volontà e non dalla passività del sentire. In
altri termini, l’autore riconosce la possibilità della prescrittività della benevolen-
za fattiva accompagnata da un sentimento di condivisione che può propagarsi in
modo sensibile o essere verbalizzato e razionalizzato. Suggerisce tale legame un
passaggio della Dottrina della virtù:
Condividere la gioia o il dolore (sympathia moralis) rappresenta certamente un sentimen-
to sensibile (che per questo si può chiamare estetico) di piacere e di dispiacere in rapporto
allo stato di contentezza o di sofferenza altrui (compartecipazione, simpatia), sentimento
cui l’uomo è già predisposto per natura. Ma fare ricorso a questo sentimento come mezzo

19
Si utilizza qui il termine partecipazione sulla scorta della traduzione proposta da Fahmy, Active
Sympathetic Participation, p. 33, che dà risalto alla Teilnehmende Empfindung, ritenendola meno
ambigua della Sympathie.
semplicità e narrazioni complesse tra empatia e compassione 1139

attraverso il quale promuovere la benevolenza fattiva e razionale rappresenta anche un


dovere particolare, sebbene soltanto condizionato, che va sotto il nome di umanità (huma-
nitas), dal momento che in questo caso l’uomo non viene considerato soltanto come essere
razionale, ma anche come animale dotato di ragione. Questa umanità, ora, può risiede-
re nella facoltà e nella volontà di comunicare l’un l’altro i propri sentimenti (humanitas
practica), o semplicemente nell’essere emotivamente predisposti per natura a nutrire un
comune sentimento di contentezza o sofferenza (humanitas aesthetica). La prima forma
di umanità è libera e viene perciò chiamata simpatetica (communio sentiendi liberalis) e
si fonda sulla ragione pratica; la seconda non è libera (communio sentiendi illiberalis) e
può essere chiamata trasmissiva (come il calore e le malattie contagiose) o anche simpatia
patologica in quanto si diffonde in modo naturale tra gli uomini che vivono uno accanto
all’altro. Soltanto la prima è obbligatoria20.

Il testo muove dal riconoscimento del carattere sensibile dell’istanza di condivi-


sione della gioia e del dolore. La simpatia morale è un sentimento a cui l’uomo è
predisposto per natura, che riflette dunque un’antropologia della ‘doppia cittadi-
nanza’, molto utile per promuovere la benevolenza concreta nei confronti degli
altri. Certo, data la sua origine sensibile, essa non è che un dovere particolare
e condizionato. Una volta definiti i tratti essenziali della simpatia nei termini di
umanità, Kant ne distingue due tipologie: un primo ambito semantico descrive
la simpatia come volontà di comunicarsi reciprocamente i propri sentimenti, che
presuppone l’ascolto reciproco e la trasfigurazione del sentire in simboli e paro-
le; un secondo ambito resta invece ancorato alla sensibilità tout court, al di qua
della presa di parola, definibile come predisposizione naturale e trasmissiva. La
prima forma di umanità è libera e si fonda sulla ragione pratica; la seconda non è
libera ma patologica. Coltivare ed educare la seconda, tuttavia, può essere utile
per rafforzare la prima che, sola, rientra tra i doveri, e per incentivare il rispetto
del dovere di beneficenza.
Infatti, Kant sembra suggerire che, se non coltivato, il secondo tipo di umanità,
immediata, contagiosa e trasmissiva, perché legata esclusivamente alla sensibili-
tà, e per questo incapace di fondare un dovere morale, non fa che moltiplicare il
dolore nel mondo senza poterlo concretamente alleviare. Per questo, Kant prose-
gue la sua disamina escludendo la possibilità che sentire il dolore dell’altro possa
essere elevato a dovere, poiché si tratterebbe di ammettere come dovere anche
l’incremento dei mali nel mondo, dal momento che aumenterebbero i soggetti sof-
ferenti. Attualizzando il testo kantiano, si potrebbe accostare alla distinzione tra
humanitas practica e humanitas aesthetica la differenziazione tra compassione
ed empatia. L’una può essere finalizzata all’agire morale, è libera, ovvero frutto
di una scelta consapevole di condivisione, e può essere prescritta; l’altra, al con-

20
I. Kant, Metaphysik der Sitten (1797), in Kant’s Gesammelte Schriften, Preußische Akademie
der Wissenschaften, Reimer, Berlin 1911, Bd. IV, pp. 456-457; tr. it. di G. Landolfi Petrone, Metafi-
sica dei costumi, Bompiani, Milano 2006, pp. 533-535.
1140 silvia pierosara

trario, non viola il recinto della sensibilità, non passa per il linguaggio, non la si
comunica e non è frutto di un processo di deliberazione consapevole e volontario,
diffondendosi e trasmettendosi quasi come una malattia contagiosa:
Di fatto, quando un altro soffre e io mi lascio contagiare dal suo dolore (con l’immagi-
nazione), senza peraltro poterlo aiutare, si finisce col soffrire in due, anche se a sentire
effettivamente (nella natura) il male è uno solo. Ma è tuttavia inammissibile il dovere di
aumentare i mali nel mondo, e di conseguenza non è nemmeno ammissibile fare del bene
per compassione. Oltre tutto si tratterebbe di un tipo di beneficenza offensivo, e in quanto
esprime benevolenza nei riguardi di una persona indegna viene chiamata misericordia. Ma
fra gli uomini che possono vantarsi di essere degni della felicità, la misericordia reciproca
non dovrebbe esistere affatto21.

L’humanitas aesthetica, se non coltivata e posta sotto il rigido controllo della


ragione, può addirittura essere nociva per la vita morale, dal momento che mol-
tiplica in modo indistinto il male e promuove un bene fatto per compassione:
entrambi i sentimenti sono ciechi, inconsapevoli e non predisposti a riconoscere le
soggettività coinvolte in quanto soggettività capaci di vita morale e reciprocamen-
te impegnate. Il bene non si può fare per compassione, ma soltanto per dovere.
Per poter cogliere pienamente la natura vincolante dell’humanitas, è necessa-
rio esplorare la riflessione kantiana per come si dispiega nel tempo su due versanti
complementari: il dovere di beneficenza e il dovere di partecipazione. Esaminia-
mo prima il dovere di beneficenza. La beneficenza può essere prescritta perché
non si fonda su un sentimento, ovvero non assume il sentimento dell’amore del
prossimo come movente, ma si fonda piuttosto sulla scelta volontaria e razionale
di promuovere il bene (anche morale) dell’altro, anche nei casi in cui io non ami,
anzi detesti, la persona oggetto della mia beneficenza. A fondamento di tale possi-
bilità sta un’interpretazione dei doveri di benevolenza che affonda le proprie radici
nella distinzione, già presente nelle Lezioni di etica, tra amore come benevolenza
e amore come piacere: «Si distinguono due forme d’amore, come benevolenza
[Wohlwollen] e come piacere [Wohlgefallen]. L’una consiste nell’aspirazione e
nella tendenza a promuovere la felicità altrui; l’altra corrisponde alla soddisfazio-
ne che noi proviamo nell’apprezzare le perfezioni altrui […] La benevolenza di
natura morale non consiste semplicemente nel voler bene, ma nell’ambire che la
persona amata ne sia degna […] perciò l’amore fondato sulla benevolenza verso il
prossimo può essere richiesto ad ognuno»22.
La distinzione ritorna nella Fondazione, in cui Kant sottolinea che «l’amore
come inclinazione non può essere comandato, ma fare il bene per dovere, quando

21
Ibi, p. 457; tr. it., p. 535.
22
Id., Vorlesungen über Moralphilosophie. Moralphilosophie Collins, in Kant’s Gesammelte
Schriften, Bd. XXVII, de Gruyter, Berlin 1974, p. 465; tr. it. di A. Guerra, Lezioni di etica, Laterza,
Roma - Bari 2004, pp. 224-225.
semplicità e narrazioni complesse tra empatia e compassione 1141

nessuna inclinazione spinge a ciò, anzi quando vi resista un’avversione naturale


e incontenibile, è amore pratico e non patologico, che risiede nella volontà e non
nella tendenza della sensibilità, in principi dell’azione e non in svenevole parteci-
pazione; e il primo solo può essere comandato»23. Anche nella Metafisica ricorre
la differenziazione tra i due tipi di amore, dei quali solo uno dà luogo a un dove-
re, fatta salva una precisazione: «L’amore è materia che rientra nella sensibilità
d’animo e non nella volontà. Io non posso amare perché voglio, e ancor meno
perché devo (cioè non posso essere costretto ad amare). Ragion per cui risulta
insensato un dovere di amare. La benevolenza (amor benevolentiae) può d’altron-
de, implicando un fare, essere assoggettata a una legge di dovere. Spesso però si
chiama amore (sebbene in modo decisamente improprio) anche una benevolenza
disinteressata nei riguardi del prossimo»24. Esiste una forma di amore che può
essere prescritta e che è vincolante: essa muove dalla distanza critica e razionale
che mi impegna anche nei confronti di chi è diverso da me, di chi mi è ignoto.
Esaminiamo ora il dovere di partecipazione e comunicazione. Nel distingue-
re tra humanitas aesthetica e humanitas practica, Kant sostiene che esistono
due modalità di partecipare al vissuto altrui: la prima è spontanea e non costitu-
isce né un dovere né un merito, poiché ci è data naturalmente in dotazione ma,
si potrebbe dire, è cieca; la seconda è caratterizzata dalla volontà di condividere
i propri sentimenti e di stabilire una compartecipazione che poggia quantomeno
sulla mediazione comunicativa. Il dovere di umanità consiste nel fare ricorso al
sentimento di condivisione per promuovere la benevolenza fattiva. Dunque, è
dovere dell’uomo coltivare e affinare il proprio sentire attraverso la riflessione
e la mediazione, allo scopo di promuovere la benevolenza fattiva o beneficen-
za. Se la simpatia patologica è trasmissiva, spontanea e contagiosa ed è inutile,
quando non dannosa, alla promozione del bene morale, la simpatia libera, che
scaturisce dalla ragione pratica ed è comunicabile e dunque riflessiva, va incre-
mentata perché, oltre a essere un dovere in sé, può contribuire a incrementare e
promuovere il rispetto del dovere di beneficenza.
Alla distinzione tra simpatia patologica e libera si potrebbe legare un brano
delle Bemerkungen in cui Kant sottolinea quanto la compassione sia diretta ai
simili e indifferente nei confronti dei diversi:
La benevolenza è un’inclinazione tranquilla, che ci fa guardare alla felicità altrui come a
un oggetto del nostro piacere e anche come a un movente delle nostre azioni. La compas-
sione è un moto della benevolenza nei confronti di chi ha bisogno, per cui immaginiamo
che faremmo tutto ciò che è in nostro potere per aiutarlo. È quindi in gran parte una chi-
mera, dato che il più delle volte la cosa non è né in nostro potere né nella nostra volontà. Il

23
Id., Grundlegung zur Metaphysik der Sitten (1785), in Kant’s Gesammelte Schriften, Bd. IV, p.
399; tr. it. di F. Gonnelli, Fondazione della metafisica dei costumi, Laterza, Roma - Bari 2009, p. 29.
24
Id., Metaphysik der Sitten, p. 401; tr. it., pp. 417-419.
1142 silvia pierosara

cittadino prova compassione verso altri che vengono oppressi dal principe; il nobile verso
un altro nobile, ma poi egli stesso è duro nei confronti dei contadini25.

La compassione delle Bemerkungen potrebbe corrispondere alla humanitas


aesthetica della Dottrina delle virtù. Infatti, il sentire immediato può non essere
capace di distinzione e procede per somiglianza, pertanto è difficile poterlo indi-
rizzare a chi è percepito come diverso; nonostante l’oscillazione terminologica, si
può cogliere in Kant l’idea che il sentire immediato dell’altro, non passando per
la riflessione e la mediazione, non riconosce l’altro in quanto tale; d’altro can-
to, la simpatia libera, humanitas practica, traducendosi in segni comunicabili e
comprensibili, è capace di cogliere e accogliere la diversità e può contribuire a
promuovere il dovere di beneficenza anche nei confronti di chi è percepito come
diverso proprio perché capace di riconoscere tale diversità. Il dovere di parteci-
pazione e il dovere di beneficenza non si limitano ad agire nei confronti di chi
è considerato simile, ma sono prescrittivi nei confronti di tutti. Immediatezza e
mediazione possono costituire dunque un discrimine per distinguere simpatia
patologica e simpatia libera, tra humanitas aesthetica e humanitas practica.
Nella Fondazione della metafisica dei costumi, Kant scrive: «Ora vogliamo
enumerare alcuni doveri, secondo la loro abituale partizione in doveri verso se
stessi e doveri verso gli altri, in doveri perfetti e doveri imperfetti»26. L’esempio di
dovere imperfetto verso gli altri è descritto da Kant nei termini seguenti:
Infine un quarto, al quale tutto va bene, mentre vede che altri (che egli potrebbe ben aiutare)
devono lottare contro grandi disagi, pensa: cosa me ne importa? Che ognuno sia felice quan-
to vuole il cielo, o quanto può rendersi da sé; non gli toglierò nulla, né mai lo invidierò; ma
non ho voglia di aggiungere qualcosa al suo benessere o al suo stato di bisogno! Ora, se un
tale modo di pensare diventasse una legge universale della natura, il genere umano potrebbe
certo sussistere, e senza dubbio ancor meglio che quando tutti blaterano di compartecipazio-
ne e benevolenza, anzi all’occasione si affannano persino a metterle in pratica, mentre poi, se
solo possono, ingannano, vendono il diritto degli uomini o gli arrecano offesa in altro modo.
Ma anche se è possibile che una legge universale della natura potesse sussistere secondo
una tale massima, è tuttavia impossibile volere che un tale principio valga come legge della
natura. Infatti una volontà che si decidesse per questo principio contraddirebbe se stessa, in
quanto potrebbero pur darsi vari casi nei quali costui abbia bisogno dell’amore e della com-
partecipazione di altri, e nei quali, con una tale legge della natura sorta dalla propria volontà,
si priverebbe di ogni speranza dell’aiuto che egli si augura27.

25
Id., Bemerkungen (1762-1764), in Kant’s Gesammelte Schriften, Bd. XX, Reimer, Berlin
1942, p. 134, r. 23; tr. it. di K. Tenenbaum, Bemerkungen. Note per un diario filosofico, Meltemi,
Roma 2001, p. 189.
26
Id., Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, pp. 421-422; tr. it., p. 75.
27
Ibi, p. 423; tr. it., pp. 79-81.
semplicità e narrazioni complesse tra empatia e compassione 1143

Non si può volere che l’indifferenza nei confronti della sorte altrui diventi legge,
senza contraddire o danneggiare se stessi: risiede in questa impossibilità di univer-
salizzare l’insensibilità di fronte alla sorte altrui la concomitante necessità di inse-
rire la benevolenza fattiva tra i doveri imperfetti. Si spiega così l’invito, presente
nella Dottrina delle virtù, non soltanto al rispetto del dovere di partecipazione
razionale, ma anche alla cura della simpatia sensibile, che pone l’uomo al ripa-
ro dall’indifferenza. Come è stato opportunamente notato28, anche se in Kant la
simpatia sensibile, estetica è passiva, mentre la simpatia libera è attiva e, di conse-
guenza, solo la seconda costituisce un dovere, l’uomo ha anche il dovere indiretto
di coltivare la simpatia sensibile: «Anche se non è di per sé un dovere condividere
il dolore (e la gioia) con gli altri, è però un dovere partecipare attivamente al loro
destino, e in fin dei conti è dunque un dovere indiretto coltivare in noi sentimenti
naturali (estetici) di compassione e utilizzarli come altrettanti mezzi di comparte-
cipazione in base a principi morali e al relativo sentimento»29.
La coltivazione della simpatia sensibile contribuisce dunque, seppure in modo
indiretto, ad affinare la sensibilità al vissuto altrui, specie se legato alla sofferenza,
lasciando sempre aperto un canale vivente e incarnato, una soglia capace di per-
cepire l’alterità sofferente. Questo non potrà mai diventare il movente dell’agire
morale, ma certamente potrà accompagnare il dovere di partecipazione e quello di
beneficenza o benevolenza attiva. La trasmissività e la contagiosità del sentire il
vissuto dell’altro costituiscono un materiale grezzo su cui le facoltà umane devo-
no, quindi possono, intervenire per finalizzarle alla promozione dei doveri. Se
manca un’educazione del sentire, il contagio può incrementare il male nel mondo
senza poterlo risolvere, può assumere le vesti dell’indifferenza, dell’odio, della
reattività indirizzata solo a chi è percepito come simile.
L’analisi kantiana del sentimento della simpatia è essenziale per almeno due
ragioni che consentono di esplicitare il nesso con le narrazioni semplificanti
e complesse. In primo luogo, Kant identifica la simpatia sensibile o patologica
come un sentimento immediato che si propaga e si trasmette e la simpatia libera o
pratica come frutto di una scelta comunicativa. Tale descrizione permette di asso-
ciare la simpatia patologica alle narrazioni semplificanti; per quanto in Kant tale
disposizione, poiché naturale, sia neutrale dal punto di vista morale, se non indi-
rizzata essa può essere utilizzata per promuovere narrazioni semplificanti, che non
incentivano percorsi di autocomprensione all’insegna del riconoscimento dell’al-
terità, ma si fondano piuttosto sull’univocità, sull’impossibilità di ascoltare le voci
altrui, su una distinzione quasi manichea tra ‘noi’ e ‘gli altri’; d’altra parte, è pos-
sibile associare alle narrazioni della complessità la simpatia pratica, che partecipa
del vissuto altrui mediante comunicazione consapevole, riconoscendo il sentire
dell’altro in quanto altro, dandogli voce e parola. L’immediatezza della simpatia

28
Cfr. Fahmy, Active Sympathetic Participation.
29
Kant, Metaphysik der Sitten, p. 457; tr. it., pp. 535-537.
1144 silvia pierosara

patologica rinuncia alla complessità, ignora l’altro, non è riflessiva, è contagiosa e


non può essere un dovere; la mediazione del dovere di partecipazione o simpatia
pratica rifugge la semplificazione come confusione indistinta, tiene conto dell’al-
tro, è riflessiva ed è un dovere.
In secondo luogo, l’invito kantiano ad aver cura della simpatia sensibile
mediante la sua coltivazione può essere interpretato come monito a sviluppa-
re una sensibilità e una responsività nei confronti della sofferenza altrui, com-
prensibile, visibile e ascoltabile soltanto entro narrazioni della complessità che
riconoscono e fanno spazio all’altro; senza la pretesa di rivivere in modo iden-
tico il suo vissuto tramite immedesimazione, ma facendosi carico di un lavoro
interpretativo e responsivo di comunicazione e incontro, in vista di orizzonti di
autocomprensione morale inclusivi.
Il dibattito contemporaneo intorno al sentire l’altro che, come si è anticipato,
non è possibile ricostruire in questa sede, può comunque trovare nella polarità tra
immediatezza e mediazione una chiave interpretativa unificante e utile per orien-
tarsi entro una complessa stratificazione di problemi e significati. Intanto, tale
polarità potrebbe contribuire a chiarire le diverse semantiche utilizzate per indica-
re il sentire il vissuto altrui. Oggi si fa comunemente riferimento all’empatia e alla
compassione, che hanno progressivamente sostituito il lessico della simpatia. Esse
sono talvolta utilizzate come sinonimi, più spesso distinte sulla base del ricono-
scimento di una naturalità dell’empatia e di una sua concomitante insufficienza a
fondare la vita morale30, rispetto alla natura mediata della compassione, possibile
solo a partire dal riconoscimento di una distanza tra il sé e l’altro.
Dunque, molti degli autori che partecipano al dibattito sottolineano la neces-
sità di elaborare i vissuti empatici all’insegna della distanziazione riflessiva, che
invece caratterizzerebbe la compassione. Secondo altri, il vissuto empatico di
per sé non sarebbe sufficiente a fondare un’etica e, in alcuni casi, non sarebbe
neanche auspicabile, in quanto estensione del vissuto dell’io e non autentico
sentire un vissuto riconosciuto come altrui31. All’immediatezza si può perlopiù
ricondurre la naturalità dell’empatia, mentre alla mediazione riflessiva di un
sentire capace di riconoscere l’altro in quanto altro si può associare la compas-
sione, che in certi casi viene anche definita razionale32. Il dovere kantiano di

30
Secondo Martha Nussbaum, per esempio, «l’empatia è un’abilità mentale di grande impor-
tanza per la compassione, sebbene di per sé sia fallibile e moralmente neutra» (M.C. Nussbaum,
Upheavels of Thought. The Intelligence of Emotions, Cambridge University Press, Cambridge 2001,
p. 333; tr. it. cit. in P. Costa, Martha Nussbaum. La compassione nei limiti della ragione, «La società
degli individui», 18 [2003], 3, pp. 131-148, qui p. 142). Cfr. anche il recente lavoro di L. Boella,
Empatie. L’esperienza empatica nella società del conflitto, Raffaello Cortina, Milano 2018.
31
A proposito del rapporto tra compassione e distanza, cfr. D. Pagliacci, La compassione tra
prossimità e distanza, in L. Alici (a cura di), Prossimità difficile, Aracne, Roma 2012, pp. 17-40.
32
Cfr. P. Bloom, Against Empathy. The Case for Rational Compassion, Harper & Collins, New York
2016; tr. it. di M. Silenzi, Contro l’empatia. Una difesa della razionalità, Liberilibri, Macerata 2019.
semplicità e narrazioni complesse tra empatia e compassione 1145

beneficenza o benevolenza attiva e il dovere di compartecipazione, che si attua


perlopiù mediante l’idea dell’humanitas practica, entrambi mediati e capaci di
distanziazione critica nei confronti dell’altro, trovano una ideale prosecuzio-
ne nell’odierna idea di compassione, mentre l’immediata e spontanea simpatia
patologica è avvicinabile all’empatia.
Tra le voci contemporanee, un riferimento in linea con le indicazioni kantia-
ne può essere rintracciato rispettivamente in Hannah Arendt, nonostante l’appa-
rente lontananza semantica, e in Adorno. Secondo Arendt, «la pietà può essere
la perversione della compassione, ma la sua alternativa è la solidarietà»33. L’au-
trice sottolinea come la compassione – che Arendt utilizza in un’accezione vici-
na all’empatia – non è da scartare tout court, ma bisogna diffidare del suo ‘uso
pubblico’. Infatti, la declinazione esclusiva della compassione come retorica del
dolore muove la pietà, non la solidarietà, e, ben più profondamente, scardina la
possibilità di leggere l’umano alla luce del suo essere capace di agire e di comin-
ciare. Stando alla lettura arendtiana della compassione, quest’ultima appare forie-
ra di violenza nella misura in cui fa leva sull’immediatezza del sentire e rinnega
le pratiche deliberative. Tali critiche, in realtà, potrebbero valere probabilmente
per alcune odierne interpretazioni dell’empatia e costituire il punto di partenza per
una reinterpretazione della valenza etica e pubblica della compassione.
Muovendo dalle indicazioni di Hannah Arendt, infatti, si può sostenere che
la compassione, troppo naturale per fondare la vita politica lontana dal sentire e
vicina al deliberare, può valere in ambito etico solo se trasfigurata nella solida-
rietà. Il discrimine tra pietà e solidarietà, quindi, consiste nella trasformazione
della compassione in qualcosa d’altro, nel distacco che corrisponde all’istituzio-
ne spassionata di comunità di orizzonti di autocomprensione. L’elemento filo-
soficamente pregnante nell’analisi arendtiana consiste proprio nell’aver colto,
pur in prospettiva critica, l’efficacia euristica della riflessività potenzialmente
presente nella compassione. La compassione è passibile di razionalizzazione,
accordo sui valori, distacco necessario per un agire etico e pubblico volto all’in-
cremento della solidarietà. L’elemento riflessivo non comporta l’esclusione di
un con-sentire ma è accompagnato da esso: si potrebbe sostenere che il dovere
kantiano di benevolenza attiva e compartecipazione trova nella solidarietà la sua
traduzione arendtiana.
Il riferimento ad Adorno può contribuire a tematizzare ulteriormente la polarità
tra immediatezza e mediazione come chiave interpretativa per decifrare la lettera-
tura sul vissuto altrui. Scrive Adorno: «Lo sguardo lungo e contemplativo, a cui
solo si dischiudono gli uomini e le cose, è sempre quello in cui l’impulso verso
l’oggetto è spezzato, riflesso. La contemplazione senza violenza, da cui viene tut-
ta la felicità della verità, impone all’osservatore di non incorporarsi nell’oggetto:

33
H. Arendt, On Revolution (1963), Penguin, London 1990, pp. 86-89; tr. it. di M. Magrini,
Sulla rivoluzione, Edizioni di Comunità, Milano 1983, pp. 88-94.
1146 silvia pierosara

prossimità nella distanza»34. Non si può aderire in modo immediato al racconto


semplificante del dolore gridato ed esibito, ma è necessario, piuttosto, proprio per
rappresentare e raccontare, coltivare una prossimità discreta, che lasci spazio e
tempo alle dinamiche dell’articolazione narrativa.
Nel brano riportato Adorno fa propria la critica all’empatia come forma di
violenza nei confronti dell’alterità irriducibile dell’altro, come oggettivazione e
appropriazione, coniugandola con la questione della rappresentazione, traducibile
nei termini della narrazione: la felicità della verità emerge soltanto nel processo
di distanziazione contemplativa, capace di cogliere la complessità senza lasciar-
si travolgere dall’immedesimazione appropriante e fonte di violenza. Osservare
significa dunque comprendere la necessità di lasciare tempi e spazi alla pluralità
delle voci che concorrono a lasciar emergere la verità. Se raccontare è una forma
del rappresentare, si può sostenere che un racconto semplificante implica un’ade-
sione immediata all’oggetto raccontato; al contrario, un racconto che restituisce la
complessità apre alla possibilità di una distanza contemplante, di una prossimità
silenziosa e riflessiva, che non rinunci alla comunicazione del sentire ma che lo
interpreti come un compito slegato dall’immediatezza.
Il linguaggio dell’empatia sembra rinviare alle semantiche dell’immediatezza
e dell’immedesimazione: entrambe fanno buon gioco alle narrazioni semplificanti
e, stando al monito adorniano, non solo sono insufficienti a fondare una morale
ma corrono il rischio di desertificare l’alterità mediante un’immediata assimila-
zione all’identità. L’empatia appare come un sentire naturale, quasi biologico, che
permette di percepire l’altro come simile e rende immediatamente visibile il vis-
suto emotivo altrui. Di per sé, l’empatia non implica alcun giudizio di valore, né
distanza critica e riflessiva; piuttosto, si tratta di un fenomeno pre-razionale, di
un dato emotivo utilizzabile per qualsiasi tipo di fine. Lo dimostrerebbe il fatto
che si può giungere a provare empatia anche nei confronti di chi non ne prova, di
chi sembra esserne stato immune35. Sull’empatia non si può fondare una morale,
poiché a essa manca ogni riferimento alla riflessività, alla consapevolezza e a ogni
tipo di distinzione tra bene e male, giustizia e ingiustizia, derivante da un lavoro
di autocomprensione che muove dal riconoscimento delle prospettive differenti.
Non si può fondare alcuna morale dell’obbligazione neanche sul contagio
emotivo: esso talvolta appare addirittura pernicioso per la morale perché, oltre
a essere cieco, può, come si è ricordato, contribuire addirittura a incrementare il
male nel mondo. Si può, di fronte al sentimento naturale della simpatia, operare

34
T.W. Adorno, Minima moralia. Reflektionen aus dem beschädigten Leben (1951), Suhrkamp,
Frankurt a.M. 1976, p. 112; tr. it. di R. Solmi, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, Einaudi,
Torino 1994, p. 97.
35
L’attuale proliferazione di narrativa incentrata sulla ricostruzione della vita privata di alcuni
capi nazisti ha suscitato una vasta riflessione critica intorno alla possibilità e alla moralità dell’empa-
tia nei loro confronti. Un caso emblematico è costituito dal romanzo di J. Littell, Les bienveillantes,
Gallimard, Paris 2006; tr. it. di M. Botto, Le benevole, Einaudi, Torino 2007.
semplicità e narrazioni complesse tra empatia e compassione 1147

nel senso di una coltivazione, di un indirizzamento volto a rimuovere gli ostacoli


legati all’invidia e all’indifferenza e a volgere la simpatia verso la promozione
della dignità umana.
A partire dalla riflessione kantiana e dalla sua attualizzazione, si può riprendere
il nesso tra simpatia patologica e narrazioni semplificanti da un lato e simpatia
libera e narrazioni della complessità dall’altro. Proprio il richiamo alla possibilità
di razionalizzare la simpatia – o sentimento di una comune umanità –, mediante
la comunicazione del proprio sentire a un interlocutore capace di ascolto, rende
agevole tale passaggio. La natura trasmissiva della simpatia patologica, da un lato,
può alimentare la diffusione di narrazioni semplificanti in virtù dell’immediatez-
za e dell’immedesimazione neutrali; la natura riflessiva e mediata della simpatia
libera, pur anfibolica, rende possibile costruire narrazioni della complessità, svi-
luppare legami di solidarietà a partire dalla ricostruzione della verità, che non è
mai immediata e univoca, ma che si nutre della «prossimità nella distanza».
Per poter chiarificare ulteriormente il legame analogico tra narrazioni sempli-
ficanti e narrazioni della complessità da un lato e, dall’altro lato, tra empatia e
compassione, si potrebbe sostenere che il pericolo di un’enfasi eccessiva posta
sull’empatia come unica fonte della morale è duplice: il primo consiste nella sua
naturalizzazione, che, anziché ricomporre la frattura tra necessità e libertà, la
accentua a totale beneficio della prima, spossessando l’umanità del compito di tro-
vare senso al suo essere naturale; il secondo consiste invece nella desertificazione
dell’alterità inglobata nelle sensazioni dell’io. Entrambi i pericoli elencati fanno il
gioco delle narrazioni semplificanti, che rinunciano alla fatica della significazio-
ne e negano la differenza. Il sentimento della compassione, dal canto suo, evita
tali pericoli sia perché si rivela capace di riconoscere la naturalità cogliendone le
valenze simboliche, sia perché nella distanza apre alla possibilità dell’articolazio-
ne e della significazione, ospitando narrazioni della complessità che non tradisca-
no l’orizzonte simbolico-riflessivo dell’umano.
Attraverso un esame della polarità tra immediatezza e mediazione che carat-
terizza la percezione del vissuto altrui in Kant, si è potuto comprendere come la
simpatia patologica, definibile nei termini contemporanei dell’empatia, possa
concorrere alla diffusione di narrazioni semplificanti che propugnano una inter-
pretazione riduttiva del sé e del suo orizzonte valoriale; la simpatia libera o prati-
ca, traducibile nei termini contemporanei di compassione o solidarietà, intrattiene
con le narrazioni complesse un legame significativo: essa si sviluppa entro una
trama narrativa dialogica che tiene presente ed è capace di ascoltare l’alterità, spe-
cie se sofferente, e, d’altra parte, contribuisce a promuovere il riconoscimento e
la responsività nei confronti del dolore, anche quando quest’ultimo è espresso in
modo frammentario. La capacità delle narrazioni complesse di cogliere la vulne-
rabilità e di risponderne si attualizza in virtù della simpatia libera, ovvero della
compassione. Nel prossimo paragrafo si espliciterà quindi il legame tra narrazioni
della complessità e vulnerabilità.
1148 silvia pierosara

4. Vulnerabilità e narrazioni della complessità


L’intento di questo paragrafo è quello di mostrare come il legame tra le narrazioni
della complessità e la compassione (nel senso kantiano di humanitas practica) sia
decisivo per sviluppare un’etica della vulnerabilità. Le narrazioni della comples-
sità si caratterizzano per una forma elettivamente inclusiva, che assume la coeren-
za come compito; d’altra parte, si è mostrato come la compassione, intesa come
simpatia pratica, costituisca un’attitudine a comunicarsi reciprocamente i vissuti
emotivi senza il pericolo fusionale, senza che immediatezza e immedesimazione
cancellino la possibilità dell’alterità; da un lato, la compassione appare funzionale
alle narrazioni della complessità, dall’altro lato queste ultime sembrano promuo-
verla. Dal punto di vista dell’orizzonte valoriale implicato nelle narrazioni della
complessità, si può sostenere che esse, grazie alla promozione della compassione,
sono capaci di cogliere voci differenti, modalità di autocomprensione non neces-
sariamente coerenti rispetto al contesto e di accoglierle in modo responsivo.
Proprio tale capacità di accogliere e riconoscere la diversità, anche quando
incoerente e frammentaria rispetto alle narrazioni prevalenti, rappresenta la con-
dizione di visibilità della vulnerabilità. L’invito kantiano ad allenare la capacità
di sentire il vissuto altrui e di alleviarlo sembra trovare spazio entro un contesto
narrativo che rifugge l’immediatezza dell’autocomprensione e coglie anche l’in-
coerenza dei racconti come un indizio di vulnerabilità. Nella trattazione emer-
gerà come le narrazioni della complessità riconoscano la fondamentalità della
coerenza e la interpretino come compito, senza demonizzare l’incoerenza che,
al contrario, leggono come segnale di una frammentazione causata dalla vul-
nerabilità. Una buona narrazione riconosce la frammentazione, risponde a essa
prendendosene cura; una cattiva narrazione non riconosce la frammentazione e
impone una coerenza escludente.
Per poter esplicitare il legame tra narrazioni della complessità, compassione
e vulnerabilità, è necessario chiarire in via preliminare il significato e il valore
di obbligazione morale di quest’ultima. Molte autorevoli voci nel panorama con-
temporaneo sono intervenute nel dibattito intorno alla vulnerabilità, soprattutto a
partire dal lavoro inaugurale di Robert Goodin che, tra i primi, ne riconosce e ne
tematizza, mediante un approccio relazionale e consequenzialista, la natura obbli-
gante dal punto di vista morale36. In questa sede, tuttavia, anziché ricostruire l’am-

36
Secondo Goodin la condizione di vulnerabilità è sempre relazionale, nel senso di relativa al
contesto e agli altri; dalla sua natura relazionale deriva la responsabilità di proteggere i vulnerabi-
li, secondo un approccio consequenzialistico: «Il principio di protezione dei vulnerabili deve esse-
re essenzialmente consequenzialistico nella forma. La sua ingiunzione centrale è di inquadrare le
nostre azioni e scelte in modo da produrre certi tipi di conseguenze, nella fattispecie, quelle che
proteggono gli interessi di coloro che sono particolarmente vulnerabili alle nostre azioni o scelte»
(R.E. Goodin, Protecting the Vulnerable. A Reanalysis of Our Social Responsibilities, The Uni-
versity of Chicago Press, Chicago and London 1985, p. 114). Nel panorama italiano, il concetto di
semplicità e narrazioni complesse tra empatia e compassione 1149

pio dibattito sulle ricadute etiche della vulnerabilità, si approfondisce la proposta


di Catriona MacKenzie, per almeno due ragioni: in primo luogo, l’autrice ha indi-
viduato ed esplicitato un legame tra vulnerabilità e capacità di raccontarsi in modo
coerente, rendendo così plausibile l’ipotesi dell’esistenza di narrazioni capaci di
riconoscere la vulnerabilità; in secondo luogo, insieme ad altre autrici, MacKen-
zie ha proposto una convincente tassonomia della vulnerabilità e ha cercato a più
riprese di chiarire in che modo essa costituisca una fonte delle obbligazioni mora-
li. Il dichiarato pluralismo della sua prospettiva, volto a evitare al contempo l’ap-
piattimento della vulnerabilità a condizione umana universale e la resa di fronte a
una contestualizzazione difficilmente generalizzabile e su cui altrettanto difficil-
mente si può intervenire, rende infine possibile un’integrazione tra universalismo
e sensibilità al contesto.
La narrazione frammentaria di sé è spesso indice di vulnerabilità: MacKen-
zie e Poltera sostengono infatti che insistere sulla coerenza come dato di par-
tenza per la narrazione del sé significa dare per scontato che il sé attuale sia
«un’unità internamente coerente, senza notare che il conflitto interiore, l’autoe-
straniazione, la distanza affettiva dai legami d’attaccamento possono caratteriz-
zare l’esperienza di sé sincronica e non soltanto diacronica»37. Se è necessario
«abbandonare l’idea che una narrazione di sé debba essere un’unità coerente
senza soluzione di continuità»38, è altrettanto necessario che, «per condurre una
vita realizzata, in quanto agenti abbiamo bisogno di trovare modi per integrare
narrativamente i differenti frammenti del sé, sia dal punto di vista sincronico
che diacronico»39. Le narrazioni buone permettono l’emersione di tale fram-
mentazione come indice di vulnerabilità e, in modo eticamente responsivo, se ne
fanno carico, guardando alla coerenza come a un ideale regolativo e prendendo
parte al processo interpretativo del sé sofferente.
Alle narrazioni della complessità si può quindi attribuire la capacità di essere
sensibili alle differenze e alla vulnerabilità, a partire dalla loro dimensione rifles-
siva, che può incrementare a sua volta la capacità di compartecipazione al vissuto
di sofferenza altrui. Una narrazione complessa riesce a riconoscere la frammen-
tarietà e la vulnerabilità che la causa, prevedendo la possibilità che quest’ultima
emerga e abbia voce. La frammentarietà come incapacità di interpretare se stessi

vulnerabilità è stato esaminato in prospettiva bioetica (cfr. L. Alici, Il fragile e il prezioso. Bioeti-
ca in punta di piedi, Morcelliana, Brescia 2016; M. Gensabella, Vulnerabilità e cura. Bioetica ed
esperienza del limite, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008); recentemente, esso è stato affrontato
in chiave etico-politica in M.G. Bernardini - B. Casalini - O. Giolo - L. Re (a cura di), Vulnera-
bilità: etica, politica, diritto, IF Press, Roma 2018 e in chiave multidisciplinare in O. Giolo - B.
Pastore (a cura di), Vulnerabilità. Analisi multidisciplinare di un concetto, Carocci, Roma 2018.
37
C. MacKenzie - J. Poltera, Narrative Integration, Fragmented Selves, and Autonomy,
«Hypathia. A Journal of Feminist Philosophy», 25 (2010), 1, pp. 31-54, p. 47.
38
Ibidem.
39
Ibidem.
1150 silvia pierosara

in modo coerente funge quindi da criterio euristico perché la vulnerabilità possa


diventare visibile e costituire una fonte dell’obbligazione morale. In tal senso, a
differenza delle narrazioni semplificanti, che risultano cieche alla differenza e si
diffondono senza un autentico lavoro morale, ma soltanto a partire da un senti-
re empatico dell’identico, le narrazioni della complessità esercitano la humanitas
practica, sentire mediato che percepisce la differenza ed è capace di comunicar-
la e ospitarla narrativamente. Senza il dialogismo e la polifonia come metodo e
come forma, le narrazioni prevalenti non sarebbero in grado di cogliere la fram-
mentazione delle esistenze di soggetti marginali, invisibili40.
Rogers, MacKenzie e Dodds hanno ipotizzato una tassonomia della vulnera-
bilità ripresa in numerosi testi dalla stessa MacKenzie. La vulnerabilità può esse-
re classificata in base alle sue fonti: essa può definirsi «inerente», «situazionale»
o «patogenica»41. La prima si riferisce a «quelle fonti di vulnerabilità che sono
inerenti alla condizione umana che hanno origine dalla corporeità, dall’essere
bisognosi, dalla nostra dipendenza da altri, dalla nostra natura sociale e affettiva»42.
La seconda consiste nella «vulnerabilità situazionale, termine con cui indichiamo
una vulnerabilità specifica di un contesto, e che è causata o esacerbata dalla situa-
zione personale, sociale, politica, economica o ambientale di una persona o di
un gruppo sociale»43. Entrambe le vulnerabilità possono essere «disposizionali»
oppure «circostanziali»44, possono cioè restare latenti oppure essere attualizzate.
Infine, il terzo tipo di vulnerabilità emerge nel modo seguente: «contrariamente
alle risposte alla vulnerabilità che supportano l’agency, alcune risposte possono
inasprire le vulnerabilità esistenti o generarne altre. Ci riferiamo a queste come a
vulnerabilità patogeniche»45. In tutti i casi, la vulnerabilità è fonte di obbligazione
morale in quanto espone il soggetto alla possibilità di non riuscire a provvedere da
solo a soddisfare i propri bisogni essenziali46.

40
Sulla vulnerabilità relegata all’invisibilità dal contesto e dalle narrazioni dominanti, cfr.
Th. Casadei, La vulnerabilità in prospettiva critica, in Giolo - Pastore, Vulnerabilità, pp. 73-96.
Sulla difficoltà di fornire resoconti divergenti entro narrazioni dominanti che ne impediscono l’e-
mersione, l’articolazione e l’ascolto, cfr. J. Christman, Telling Our Stories in the Master Tongue.
Narrative Selves and Oppressive Circumstance, in C. Cauley (ed.), The Philosophy of Autobio-
graphy, University of Chicago Press, Chicago 2015, pp. 122-140.
41
La distinzione si trova in W.A. Rogers - C. MacKenzie - S. Dodds, Why Bioethics Needs a
Concept of Vulnerability, «International Journal of Feminist Approaches to Bioethics», 5 (2012),
2, pp. 11-38, p. 24. La distinzione fra tre tipologie di vulnerabilità ricorre anche in C. MacKenzie -
W.A. Rogers - S. Dodds, Introduction. What is Vulnerability and Why Does it Matter for Moral
Theory?, in Eadd. (eds.), Vulnerability. New Essays in Ethics and Feminist Philosophy, Oxford Uni-
versity Press, Oxford 2014, pp. 1-29, qui p. 7.
42
Rogers - MacKenzie - Dodds, Why Bioethics Needs a Concept of Vulnerability, p. 24.
43
Ibidem.
44
Ibidem.
45
Ibi, p. 25.
46
Cfr. C. MacKenzie, Vulnerability, Needs and Moral Obligation, in C. Strahele (ed.), Vulnera-
bility, Autonomy and Applied Ethics, Oxford University Press, Oxford 2017, pp. 83-100.
semplicità e narrazioni complesse tra empatia e compassione 1151

Si può notare come la vulnerabilità inerente alla condizione umana sia uni-
versale, riguardi cioè tutti gli esseri umani, mentre la vulnerabilità situazionale
sia legata a un contesto specifico che espone soggetti o gruppi a un incremento
o a un’attualizzazione della vulnerabilità. Entrambe «danno origine a specifiche
obbligazioni morali e politiche: sostenere coloro che sono attualmente vulnera-
bili; e ridurre l’esposizione di alcuni individui, gruppi o popolazioni a evitabili
vulnerabilità attuali, per esempio tramite interventi mirati a compensare specifi-
che vulnerabilità»47. Le misure che si possono adottare per ridurre la sofferenza
derivante dalla vulnerabilità, tuttavia, non sempre centrano l’obiettivo; infatti,
alcune di esse incrementano, anziché diminuire, le vulnerabilità possibili perché
non promuovono l’agency e contribuiscono a rendere i soggetti fragili ancora
più esposti alla sofferenza.
Pertanto, il criterio che deve guidare gli interventi di compensazione o ridu-
zione delle vulnerabilità «deve essere di attivare o ripristinare l’agency di perso-
ne o gruppi vulnerabili, e […] ciò è molto probabile che si raggiunga mediante
interventi che chiamino in causa la loro agency e la loro partecipazione, ovun-
que possibile e nella più ampia misura possibile»48. A partire da tali indicazio-
ni si può esplicitare il legame tra vulnerabilità e narrazioni della complessità. Le
autrici sottolineano che la partecipazione e l’attivazione delle capacità sono criteri
per adottare misure efficaci e non controproducenti rispetto alla vulnerabilità e
alla sofferenza che essa produce. Per poter incentivare agency e partecipazione,
tuttavia, è necessario riconoscere la vulnerabilità, e ciò è possibile in un conte-
sto dialogico e inclusivo in cui i processi di identificazione e autocomprensione
non semplifichino né procedano per stereotipi, ma siano capaci di attenzione alla
singolarità, permettendo l’emersione di voci incoerenti rispetto alla narrazione
prevalente e frammentarie, laddove la frammentarietà può essere indice di vul-
nerabilità. Se non è resa visibile, la vulnerabilità non può essere ridotta; incenti-
vare l’agency significa anche, in quest’ottica, garantire l’accesso alla parola. Se
le misure volte a ridurre la vulnerabilità non operano in tal senso, appoggiandosi
su rappresentazioni semplificanti e stereotipate della vulnerabilità e facendo leva
sull’immediatezza di un sentire piuttosto che sulla mediazione riflessiva, possono
addirittura contribuire ad aggravare le ferite.
A partire da tale riconoscimento, si può sostenere che le narrazioni della com-
plessità sono capaci di dar conto delle tre accezioni di vulnerabilità esposte da
MacKenzie. Quanto alla vulnerabilità inerente, l’autocomprensione di sé come
esposizione interdipendente e incarnata può essere rappresentata in modo fedele
entro narrazioni che presuppongono più voci, che si riconoscono già da sempre in
relazione con un’alterità con cui costruire orizzonti valoriali. Quanto alla vulne-
rabilità situazionale, le narrazioni complesse sono formalmente e strutturalmente

47
Rogers - MacKenzie - Dodds, Why Bioethics Needs a Concept of Vulnerability.
48
Ibidem.
1152 silvia pierosara

accoglienti e capaci di prestarle attenzione, mettersi in ascolto in modo responsi-


vo. Quanto alla vulnerabilità patogenica, infine, essa può essere evitata all’interno
delle narrazioni della complessità e, al contrario, incentivata da narrazioni sempli-
ficanti, che rischiano, attraverso la stereotipizzazione, di incrementare la possibili-
tà di essere feriti e di azzerare la possibilità di prendere la parola.
Sensibilità e capacità di risposta etica di fronte alla vulnerabilità, come si è
visto, vanno di pari passo con la capacità di riconoscere la frammentarietà all’in-
terno di narrazioni coerenti. Infatti, la frammentazione dell’esperienza esistenzia-
le e dei resoconti del sé può essere indice di vulnerabilità e richiede un sentire
mediato che si può ricondurre alla compassione, alla simpatia di natura pratica e
riflessiva. Riprendendo una suggestione kantiana, la coscienza della vulnerabilità
e la compassione che l’accompagna non devono paralizzare l’azione e moltipli-
care il dolore, ma esplicare il loro versante pratico, ovvero mirare a un agire che
riduca le sofferenze realmente esperite in termini di vulnerabilità.
La vulnerabilità è una condizione che soltanto le narrazioni della complessità
possono restituire e riconoscere come dato originario e inaggirabile: averne cura
significa rispettare la tessitura relazionale del sé, renderne possibile la rappresen-
tazione narrativa, la riscrittura e l’interpretazione che reclama l’incontro con altre
narrazioni, nella direzione della promozione della dignità, della riduzione solidale
della sofferenza. A fondamento della connessione tra vulnerabilità e narrazioni
della complessità sta il riconoscimento dell’identità personale, in quanto esposta e
fragile, inserita in una rete di legami, di storie che costituiscono il sé e che vanno
interpretate. Per tale ragione, i racconti semplificanti, immediati e contagiosi, che
distinguono troppo agevolmente tra amico e nemico e assegnano troppo facilmen-
te le vulnerabilità ai gruppi senza un adeguato riconoscimento dell’unicità di cia-
scuna storia, non riflettono la complessità del processo identificativo che riguarda
ogni sé vulnerabile e interdipendente.
Se l’empatia si prova verso la vulnerabilità del simile o serve per ‘assimilare’
l’altro, sovente tale sentimento, se non articolato, può incrementare e incoraggiare
la paura del diverso; d’altra parte, la compassione come attenzione e compren-
sione della vulnerabilità altra e di altri può esercitarsi anche dinanzi alla diversità
come «prossimità nella distanza», e si tratta di un sentire mediato capace di svilup-
pare riflessivamente interpretazioni di sé e degli altri aperte all’interdipendenza e
rispettose di essa. Per poter comprendere e interpretare la vulnerabilità come cifra
inaggirabile dell’umano, le narrazioni identificanti devono poter essere comples-
se, riscrivibili, aperte alla diversità che si rintraccia interiormente ed esteriormente
in relazione al sé e capaci di ascoltare le voci dei singoli soggetti vulnerabili.
La compassione si trasfigura dunque nella cura mediata della vulnerabilità,
nel rispetto delle narrazioni individuali e collettive nel loro costituirsi, nel tem-
po necessario affinché l’articolazione dei significati risponda alla necessità della
fusione di orizzonti e ne sia all’altezza. Il richiamo alla solidarietà nei confronti
delle storie individuali e collettive e nei confronti della loro apertura al futuro
semplicità e narrazioni complesse tra empatia e compassione 1153

dice di un farsi carico della vulnerabilità e trasformarlo nella cura e attenzione ai


processi di articolazione e restituzione narrativa della complessità, e nella costru-
zione di spazi reali e simbolici di ospitalità narrativa. Se non ogni sofferenza
causata dalla vulnerabilità corrisponde a un’effettiva ingiustizia subita, probabil-
mente l’articolazione di significati e piani di vita e la loro integrazione narrativa
possono contribuire a chiarificarne le reciproche implicazioni e a indirizzare la
compassione nel senso dell’agency.

5. Conclusione
Il contributo ha preso le mosse da una distinzione tra narrazioni semplificanti e
narrazioni della complessità sulla base di alcune strutture formali che negano o,
viceversa, promuovono il dialogo e il confronto fra prospettive. A partire da tale
differenza e attraverso l’analisi delle loro rispettive caratteristiche formali, si è
rilevato come le prime non siano in grado di riconoscere l’alterità implicata nei
processi di autocomprensione personali e collettivi, offrendo pertanto una lettura
banalizzante, monolitica e quasi manichea delle identità; al contempo, si è potuto
constatare come le narrazioni della complessità, per le loro potenzialità dialogiche
e polifoniche, possano tener conto dell’alterità in quanto tale e includerla dinami-
camente nei processi di autocomprensione. I risvolti etici di tale duplice modalità
narrativa consistono nel fatto che, proprio in quanto strumenti di autocomprensio-
ne, le narrazioni possono essere escludenti o inclusive; possono ignorare oppure
essere responsive rispetto alla possibile vulnerabilità; possono proporre un’idea di
coerenza monologica e già da sempre data oppure, viceversa, interpretare la coe-
renza come un percorso che coinvolge e interpella anche la frammentazione delle
identità vulnerabili.
Si è quindi cercato di collegare tali tipologie narrative con due modalità di
cogliere il vissuto altrui: una immediata, naturale, e l’altra mediata. Se infatti le
narrazioni semplificanti banalizzano i processi di riconoscimento, possono farlo
in virtù di un sistematico misconoscimento dell’alterità a beneficio dell’identità
e della similitudine. Allo stesso modo, le narrazioni della complessità compren-
dono il vissuto altrui in quanto tale, attraverso una riflessione mediata e una ver-
balizzazione del sentire stesso. Tale duplice modalità di cogliere il vissuto altrui è
stata rintracciata nella distinzione kantiana tra humanitas aesthetica e humanitas
practica e ha permesso di trovare una chiave di lettura unitaria rispetto all’odierno
dibattito intorno a empatia e compassione.
Se l’empatia è un sentire l’altro quasi in modo naturale e pre-riflessivo, allo-
ra, proprio in quanto tale, essa è associabile soprattutto alle semplificazioni
narrative: immediatezza e immedesimazione rendono agevole la diffusione e il
rafforzamento di tali narrazioni, che lavorano sulle polarizzazioni banalizzanti,
sulla riproduzione di meccanismi di dominio, sulla cristallizzazione dei rapporti
di forza. Pur essendo un sentimento naturale e indispensabile alla comprensione
1154 silvia pierosara

dell’altro, l’empatia può apparire come ambivalente dal punto di vista morale,
e come tale utilizzabile anche in modo distorto. La compassione, come si è cer-
cato di sostenere, sembra corrispondere meglio alla ricostruzione di forme di
complessità narrativa; pur non prescindendo da alcune critiche a essa, nel pre-
sente contributo si è cercato di evidenziarne la natura ambivalente di sentimento
mediato, che non passa necessariamente per l’immedesimazione ma per il rico-
noscimento dell’umanità che accomuna ciascuno; la «prossimità nella distan-
za», fondamentale per la ricostruzione e l’articolazione di forme di complessità
narrativa, dice di una vicinanza che non si fa mai invadenza, che non ambisce
a catturare l’alterità e che è disposta a negoziare significati e orizzonti valoriali
accogliendo interpretazioni e narrazioni differenti.
Infine, si è cercato di cogliere più in profondità il legame tra vulnerabilità e
narrazioni della complessità, nella persuasione che proprio la compassione, eser-
citabile a partire da ed entro le narrazioni complesse, promuova il riconoscimento
e la cura della vulnerabilità. Dopo aver definito la vulnerabilità a partire dalla tas-
sonomia proposta da studiose come MacKenzie, Rogers e Dodds, si è delineata la
sua connessione con le narrazioni complesse e si è sostenuto come al loro interno
sia possibile riconoscere la vulnerabilità ed esercitare una responsività all’insegna
della riattivazione dell’agency. Immediatezza e mediazione, dunque, appaiono
categorie fruttuose anche per ripensare il riconoscimento e la capacità di accoglie-
re la vulnerabilità. Le narrazioni della complessità, in quanto capaci di mediazio-
ne, possono far fronte alla vulnerabilità esercitando una compassione razionale e
rendendola universalmente vincolante.
Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, CXII (2020), 4, pp. 1155-1177
ISSN: 00356247 (print) - 18277926 (digital)

Analisi d’opere

Angela Ales Bello (a cura di), Edith Stein. Tra passato e presente, Castelvecchi, Roma
2019. Un volume di pp. 315.

Il volume contiene una raccolta di testi elaborati e presentati in diverse occasioni di incon-
tro e confronto sul pensiero e la figura di Edith Stein, realizzate dalla comunità dell’Area
di Ricerca «Edith Stein nella filosofia contemporanea» che Angela Ales Bello ha diretto
presso la Pontificia Università Lateranense di Roma; parecchi fra gli autori dei contributi
sono anche soci del Centro Italiano di Ricerche Fenomenologiche, da lei presieduto.
I saggi sono un compendio del percorso umano, spirituale e filosofico della Fenomeno-
loga. «Pensatrice solitaria», così la definisce Ales Bello, non ha mai considerato la ricerca
© 2020 Vita e Pensiero / Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore

filosofica un fatto individuale, e il presente volume ne offre prove convincenti.


La lettura suscita interesse e ammirazione per la sensibilità, il realismo e l’atteggia-
mento critico con cui Edith Stein legge tutti i fenomeni, compresi gli eventi storici, e tra-
scina il lettore in un percorso dialettico che dalla prassi quotidiana conduce alle alte vette
del pensiero contemplativo.
Philippe Chenaux (All’inferno senza ritorno: l’Europa al tempo di Edith Stein) situa
la Pensatrice nell’Europa durante l’inferno della prima guerra mondiale. Il riferimento
immediato è alla sua lettera «indiscutibilmente profetica» a Pio XI e alla corrispondenza
con l’amico Roman Ingarden, scritti che rivelano la capacità di guardare oltre i nazionali-
smi, l’attaccamento all’Europa, al suo popolo, con il sacrificio della vita.
Joachim Feldes (Autenticità e solidarietà per la salute dell’Europa) richiama l’atten-
zione del lettore sulla passione politica della Stein, fondata su due principi: l’autenticità e
la solidarietà. Essi esigono un grande impegno formativo: fare emergere l’autenticità del
giovane richiede che l’insegnante si basi sulla propria originalità. La formazione all’auten-
ticità e alla solidarietà conduce alla comunione d’amore con Dio e con gli uomini e svilup-
pa nell’individuo la corrispondenza con l’immagine originale, quale Dio l’ha concepita.
Edith Stein è attenta anche alla storia, ma questo non è un tema specifico della sua
ricerca, mentre il suo maestro, Husserl aveva riflettuto su ciò che è possibile definire stori-
co. Nicoletta Ghigi (Il concetto di storia e le sue significatività in alcuni scritti husserliani
degli anni Trenta) offre a tal proposito un’analisi singolare, partendo dalla distinzione di
Geschichte, gli avvenimenti storici, e Historie, gli avvenimenti narrati e interpretati: la sua
1156 analisi d’opere

esposizione potrebbe essere un’interessante chiave di lettura per ricavare anche una filoso-
fia della storia dalle opere della Stein.
Si soffermano sul tema dei valori in Edith Stein e in Max Scheler Anna Maria Pezzella
(Persona e valori. Una riflessione su Edith Stein) e Daniela Verducci (L’esperienza del
valore in Max Scheler: oltre l’assiologia fenomenologica). Già nella tesi di laurea, Il pro-
blema dell’empatia, la Stein elabora un’antropologia fenomenologica a partire dai valori
in quanto vissuti, perché «il sentire, basato su un vissuto di valore permette alla persona di
costituirsi in quanto tale» (p. 77). La sensibilità nei confronti dei valori ha sede nella pro-
fondità della persona, nel «nucleo», il luogo identitario dell’essere umano. Vivere i valori
consente alla persona di comprendersi in profondità e di capire le persone insieme alle
quali vive. In questa riflessione la Stein segue Scheler e condivide la sua opposizione al
formalismo kantiano: l’unica norma da seguire è la legge dell’amore, una forza universale
che agisce in noi, un dilatarsi delle cose verso la loro immagine originaria, riposta in Dio.
Per approfondire la complessa struttura dell’essere umano, soggetto libero e capace di
atti spirituali, è necessario capire le leggi che vi presiedono. L’analisi che la Stein fa degli
atti spirituali, annota Roberta Lanfredini (Gli atti spirituali della creatività umana: la Stein
fra Husserl e Bergson) può essere avvicinata a quella condotta da Husserl e da Bergson.
La pensatrice rileva nell’essere umano, oltre che un meccanicismo causale che spiega i
suoi comportamenti, una legge fondamentale che è quella della «motivazione», l’elemento
comune e il punto di intersezione delle fenomenologie husserliana e bergsoniana.
La filosofia di Edith Stein si struttura su una molteplicità di percorsi che hanno come
punto di partenza lo studio della persona. Luisa Avitabile (Adolf Reinach, Edith Stein: utopia
e realtà del diritto) prende in esame l’espressione steiniana del diritto incentrato sul concetto
di persona e procede ad un confronto con la fenomenologia del diritto elaborata da Reinach.
La filosofa tedesca ritorna spesso nei suoi scritti sulla antropologia duale dell’esse-
re umano. Francesca Brezzi (Identità femminile: differenza, corporeità e vulnerabilità) e
Angela Ales Bello (Ontologia del femminile) ne mettono a fuoco il pensiero, con passione
e chiarezza, sulla questione femminile. La Brezzi ritiene che l’unica soluzione per supera-
re la crisi dell’identità di genere è la via della medesimezza e dell’individualità, proposta
da Paul Ricœur. Ales Bello propone un’ontologia del femminile che restituisce alla donna
la sua identità e all’essere umano la sua struttura duale.
Dopo la sua conversione al cattolicesimo la Fenomenologa si apre alla filosofia cri-
stiana: è il luogo dove si stabilisce una continuità fra l’esperienza religiosa, la teologia,
e la ricerca affidata all’intelligenza umana. Quasi inevitabile per lei cercare un punto
di intersezione tra la fenomenologia e la filosofia di San Tommaso. Ella rifiuta la teoria
della materia signata come principium individuationis, perché, precisa Rosa Errico (Sul
finito e sull’eterno. Tommaso d’Aquino e Edith Stein), ciò che individualizza e distingue
un individuo non è la quantità di materia, come sembrerebbe sostenere il filosofo dome-
nicano; tuttavia, l’autrice dimostra che si trova nei testi tomasiani anche la «forma»
come principio di individuazione.
La Stein, nella sua opera maggiore, Essere finito e Essere eterno, investiga il rapporto
tra essere umano e Dio, nella sua eternità, per una ricerca approfondita del senso dell’es-
sere e confronta il pensiero tomista con quello fenomenologico. Riccardo Ferri (Sul finito
e sull’eterno: il pensiero di Tommaso d’Aquino nel Commento alle Sentenze) analizza tale
questione, che anche Tommaso affronta nelle sue opere, percorrendo sia la via filosofica
dell’analogia, sia quella teologica della conoscenza di Dio.
Leonardo Messinese (Gustavo Bontadini e la filosofia cristiana) conduce, da profon-
do conoscitore, un confronto esterno sul rapporto filosofia e fede in Gustavo Bontadini,
analisi d’opere 1157

mentre Angela Ales Bello (Dottrina della fede e filosofia in Edith Stein e Hedwig Con-
rad-Martius) approfondisce dottrina della fede e filosofia nella Stein e nella Hedwig Con-
rad-Martius. Interessate entrambe a tutti i campi del sapere, trovano un accordo in ciò
che la comprensione razionale, filosofica o scientifica, consente di cogliere tra l’essere e i
contenuti della Rivelazione.
L’esperienza mistica conclude il percorso esistenziale e filosofico della Stein. Il con-
fronto è con Teresa d’Avila, e Ulrich Dobhan (Due vie, una meta. Paragonando Teresa
d’Avila con Edith Stein) dimostra come le due sante carmelitane abbiano percorso due
strade diverse raggiungendo la stessa meta.
Stimolante è anche il confronto con Gerda Walther su cui torna Angela Ales Bello (Il
senso dell’esperienza mistica: un confronto fra Gerda Walther e Edith Stein). Di nuovo
due itinerari per alcuni versi divergenti, ma che spesso si sovrappongono. Particolare il
metodo di Angela Ales Bello nello studio dell’esperienza mistica: l’autrice utilizza l’ana-
lisi della dimensione hyletica, che riguarda il rapporto fra corpo e psiche e quella noetica,
connessa all’attività intellettuale, come chiave interpretativa del fenomeno della mistica.
Alla fine del percorso si comprende che Edith Stein è una figura di raccordo tra il pas-
sato e il presente. La sua lettura profetica degli eventi, la sua attenzione alla persona e alle
questioni di senso rendono attuale la sua filosofia.
Testo a più voci, questo libro, grazie all’intuito di Angela Ales Bello, fa percepire la
vivacità del dibattito, la vitalità del dialogo. Destinato a docenti, studenti, cultori della
materia, è in grado di coinvolgere e affascinare lettori attenti e interessati alla figura di
Edith Stein, alla sua ricerca della verità e al suo cammino di santità.
Clementina Carbone

Robert Audi, Valore morale e multiculturalità, a cura di P. Bernardini, Prefazione di M.


De Caro, Rubbettino, Soveria Mannelli 2019. Un volume di pp. 171.

Questa è la traduzione italiana, curata da Paola Bernardini, di un volume che Robert Audi
ha pubblicato nel 2007 presso Oxford University Press sotto il titolo Moral Value and
Human Diversity.
Audi non ha bisogno di presentazioni: professore presso il Dipartimento di Filosofia
della Notre Dame University (USA) e presso l’Australian Catholic University, è editor del
Cambridge Dictionary of Philosophy. In passato è stato anche presidente della American
Philosophical Association e della Society of Christian Philosophers.
Il libro ora tradotto in italiano, che il suo Autore definisce «a short non-technical book»,
non è soltanto un libro di etica, come il titolo suggerisce: è anche un libro attraversato da
una tensione etica e civile. È un libro scritto da un accademico che è convinto che, rispetto
alle grandi sfide etiche del nostro tempo, «le università e le altre istituzioni educative»
svolgano «un ruolo chiave» (p. 150). Non è dunque un libro rivolto semplicemente ad altri
accademici, ma si fonda sulla convinzione che il mondo accademico abbia precisi doveri e
precise responsabilità nei confronti dell’umanità intera.
È un libro che definirei umanistico. Prima di spiegare il senso di questa affermazione,
vorrei tuttavia presentarne brevemente il contenuto e l’argomentazione.
Il problema di partenza è così espresso: «Può l’etica offrire delle regole dell’agire
rispettose della dignità intrinseca di ciascuno, favorendo così la risoluzione pacifica dei
conflitti? Questa è la speranza della maggior parte dei filosofi morali. Tuttavia, essi non
vanno tra loro d’accordo e il loro dissenso ha indebolito la fiducia che molti ripongono
nella capacità dell’etica di superare le divisioni» (p. 5).
1158 analisi d’opere

La soluzione proposta è la seguente: «Un approccio che trovo promettente è integrare


alcuni elementi di queste tre concezioni etiche − l’etica delle virtù, la morale kantiana e
l’utilitarismo − che sono storicamente tra le più influenti. A prima vista, vi sono almeno
tre elementi concettualmente indipendenti che una buona teoria etica dovrebbe tenere in
considerazione: la felicità o benessere concepito come piacere e [riduzione del] dolore
o sofferenza; la giustizia in senso lato, intesa come trattamento equo; e la libertà. Que-
sti elementi sono tutti inclusi nella lista dei doveri fondamentali di Ross. […]. Secondo
quest’ultimo modello – chiamiamolo universalismo pluralista – il nostro principio morale
più ampio richiederebbe l’ottimizzazione della felicità, per quanto possibile senza creare
ingiustizie, né mettere a repentaglio la libertà, inclusa la nostra. E questo principio va
interiorizzato fino al punto da diventare parte integrante del nostro agire e alimentare così
facendo la virtù morale. Ciascun valore diviene, pertanto, un criterio di condotta. Gli attori
morali più esperti svilupperanno la capacità di giudicare quale di questi valori ottemperare
(o, per lo meno, la capacità di raggiungere una decisione) quando i valori sembrano porta-
re in direzioni diverse» (p. 29).
Al problema di un disaccordo tra i filosofi morali – disaccordo che mina la fiducia nelle
possibilità dell’etica di creare consenso nelle nostre società – Audi risponde dunque con la
proposta di un universalismo pluralista, risultato della combinazione dei migliori elementi
delle tre (o quattro) maggiori prospettive etiche della filosofia occidentale: ne emergereb-
be un’etica quale ricerca della felicità (esito della combinazione tra etica delle virtù e utili-
tarismo) nel rispetto della giustizia e della libertà (secondo l’istanza kantiana).
La possibilità di tale universalismo pluralista è basata, per un verso, sulla fiducia che
gli esseri umani abbiano in comune più di quanto non li divida e, per altro verso, su alcune
convinzioni fondamentali, che sintetizzerei così: ciò che è comune alle varie tradizioni eti-
che è maggiore di quanto potremmo pensare; in ciascuna tradizione etica è possibile trova-
re risorse per una vita buona (della quale non esiste una formula unica); a differenza della
scienza, l’etica non è un sapere di tipo quantitativo e tuttavia, come la scienza, è oggettiva,
fallibile, non assoluta e flessibile rispetto alle circostanze (tanto nella scienza quanto in eti-
ca il disaccordo è dunque possibile e non deve sorprendere); pluralismo non significa rela-
tivismo radicale (ovvero l’impossibilità di giungere ad affermazioni oggettive): significa
che non possiamo ignorare le circostanze e che esiste una pluralità di possibili vite buone.
Perché dunque questo sarebbe un libro umanistico? Innanzitutto, perché – come dice-
vo – è attraversato da una tensione etica e civile, esattamente come lo è stata la filosofia
italiana dell’età umanistica: una filosofia che rifiutava di usare un linguaggio esoterico,
riservato ai tecnici della filosofia, e che voleva contribuire a costruire umanità e civiltà.
Così come questo libro fa.
In secondo luogo, per il riconoscimento che l’umanità e la civiltà non sono dei sempli-
ci dati di fatto, ma costituiscono un compito, di cui l’etica non può non farsi carico. Certo,
l’etica deve regolare i rapporti umani, ma non può semplicemente ignorare il compito di
diventare autenticamente umani. Questa fu una delle grandi intuizioni dell’umanesimo ita-
liano: l’umanità è un compito per sé stessa. E tale compimento umano è precisamente uno
dei compiti che questo libro riconosce all’etica.
In terzo luogo, per il riconoscimento del ruolo primario dell’educazione morale, della
formazione di una sensibilità morale, degli esempi morali: la capacità umana di apprezzare
ciò che veramente vale – i valori – necessita di essere educata, formata, affinata. Necessita
di una Bildung, ovvero di una formazione non soltanto intellettuale. Tale preoccupazione
per l’educazione e lo sviluppo di capacità realmente umane è tipicamente umanistica.
analisi d’opere 1159

In quarto luogo, per l’apertura universale, senza tuttavia negare la pluralità dei pos-
sibili modi di realizzare questa universalità. Lo sforzo di combinare teorie, tradizioni e
prospettive tradizionalmente antagoniste (virtue ethics e rule ethics, teorie deontologiche
e consequenzialiste…) ha molto della ricerca umanistica di una sintesi universale. In ogni
prospettiva etica può essere rinvenuto qualcosa di vero e di buono. Ma, per essere capaci
di distinguere e discernere cosa è buono e vero, occorre coltivare la propria umanità.
In quinto luogo, perché il libro non sceglie di abbandonare la questione del valore e
di ciò che è bene, limitandosi a ciò che è giusto. Non si rassegna cioè a una concezione
quantitativa dell’etica (che cosa e quanto ci dobbiamo gli uni gli altri), ma prende sul
serio la ricerca qualitativa del valore (il bene). E anche questa è una preoccupazione
tipicamente umanistica.
Infine, perché neanche il parallelo tra etica e scienza ha un intento antiumanistico.
Al contrario: serve ad affermare l’oggettività e la fallibilità di entrambe. In entrambe è
possibile disaccordo perché in entrambe giocano un ruolo la libertà e la creatività: non
sono necessariamente determinate. Il ché significa affermare il lato umanistico dell’etica
e della scienza.
Per tutti questi motivi, ritengo che questo sia un libro profondamente umanistico e di
grande interesse per un ripensamento generale dell’etica, in senso non soltanto tecnico.
Si tratta di un buon punto di partenza rispetto al quale alcune questioni mi pare rimanga-
no tuttavia aperte.
La prima: il libro individua tre fattori fondamentali dell’etica nella felicità, nella giu-
stizia e nella libertà, di modo che gli standard etici dovrebbero ispirarsi al perseguimento
di questi tre beni. Audi spiega accuratamente che cosa si debba intendere per felicità e per
giustizia, ma significativamente non problematizza mai la libertà: la dà per scontata, inten-
dendola come una caratteristica originaria dell’essere umano (libero e razionale secondo
Kant) e come un diritto. Mi chiedo tuttavia se l’etica non dovrebbe considerare anche la
libertà come una parte importante del compimento umano che essa persegue. Nasciamo
capaci di libertà, ma diventiamo realmente liberi nel tempo, grazie alle nostre interazio-
ni umane, agli esempi che riceviamo, alle persone che decidono liberamente di amarci...
Considerare la libertà esclusivamente come una caratteristica originaria dell’essere umano
e come un diritto fondamentale da proteggere corrisponde a una concezione politica della
libertà. «Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti» recita non a caso
la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948. Ma questa comprensione politica
si basa su un’astrazione che deve essere intesa come un ideale regolativo, non come un
dato di fatto. La libertà è certamente un diritto fondamentale da proteggere, ma è anche un
compito e una virtù da coltivare. L’assenza di vincoli esterni è una condizione necessaria
ma non sufficiente affinché la libertà possa realmente svilupparsi. Una prima questione
aperta è dunque quella di una problematizzazione non sufficiente della libertà.
La seconda: sono molto interessanti le considerazioni sulle intenzioni dei nostri atti,
considerazioni che vanno nella direzione di accorciare la distanza tra ciò che è esigibile
e ciò che è invece supererogatorio: «Se nel soddisfare gli obblighi morali compio solo
ciò che è strettamente richiesto, la mia esistenza ne uscirà impoverita e il mio contributo
all’altrui fioritura risulterà molto limitato. Senza dubbio chiunque adempie gli obblighi
morali per le ragioni giuste – secondo quello che i più importanti filosofi della morale
definiscono le giuste intenzioni – sarà meno incline a compierle solo in maniera minima.
Se mantengo le promesse mosso dalla virtù della fedeltà, pongo riparo agli errori a causa
di un genuino senso di rimorso e compio delle buone azioni a motivo della benevolenza,
riuscirò ad agire nel migliore modo possibile e a adempiere, in alcuni casi, atti supraero-
1160 analisi d’opere

gatorii. Anche quando così facendo avrò adempiuto gli obblighi morali in minima parte
(ad esempio saldando il mio debito) non li avrò meramente compiuti. Li avrò infatti
adempiuti con quel tipo di motivazione che mi rende moralmente irreprensibile» (p. 82).
Il concetto potrebbe essere così espresso: il supererogatorio è un ‘massimo’ rispetto al
‘minimo necessario’ che mi è richiesto, e tuttavia è un ‘massimo necessario’ per il com-
pimento della mia e altrui umanità. Se mi limito solo a ciò che è strettamente richiesto ed
esigibile, la mia esistenza ne uscirà impoverita. Se tutto questo è vero – e io credo che lo
sia – mi chiedo se a quella che nel libro è chiamata un’«etica dell’amore» non si dovreb-
be riconoscere un ruolo più importante nella riflessione morale: non solo nell’etica teo-
logica ma anche nell’etica filosofica. Se la realizzazione della nostra umanità dipende
da qualcosa che è aldilà di quanto è strettamente esigibile, non è questo un buon motivo
razionale per riconoscere all’etica dell’amore un posto centrale nella teoria morale? È
quello che ho provato ad argomentare nel mio volume Il massimo necessario. L’etica
alla prova dell’amore (Mimesis, Milano 2020).
La terza: il libro combina varie teorie etiche mostrandone una compatibilità di fondo.
Nei termini di Thomas Kuhn, si potrebbe dunque immaginare che le varie teorie siano
tutte componibili all’interno di uno stesso grande paradigma morale. Dobbiamo dunque
concludere di non aver bisogno di alcuna rivoluzione in etica? Non esistono anomalie che
minaccino il nostro attuale paradigma morale? La ricerca di un accordo oltre ogni inutile
polarizzazione è certamente apprezzabile e finanche auspicabile, affinché la discussione
etica non si converta in dibattito politico. E tuttavia occorre chiedersi se tutto è effettiva-
mente componibile o se non ci sia qualcosa di importante che stiamo escludendo affinché
tutto torni: la questione, appena evocata, dell’amore mi pare un caso emblematico.
La quarta riguarda la traduzione italiana del testo, che è fatta molto bene. E tuttavia la
scelta del titolo non appare felice: la diversità umana a cui si fa riferimento nel titolo origi-
nale dell’opera non indica una differenza di tipo soltanto culturale, come il titolo italiano
lascia invece intendere.
Stefano Biancu

Giovanni Catapano - Onorato Grassi (a cura di), Rappresentazioni della natura nel
Medioevo, sismel - Edizioni del Galluzzo, Firenze 2019 (Micrologus Library 94). Un
volume di pp. 340.

Il volume raccoglie i contributi del XXIII convegno della Società Italiana per lo Studio del
Pensiero Medievale (SISPM), svoltosi a Padova dal 24 al 27 maggio 2017 e organizzato in
collaborazione con il Centro Interdipartimentale di Ricerca di Filosofia Medievale (CIR-
FIM) dell’Università di Padova. La prefazione dei curatori, oltre a contestualizzare il volu-
me nel panorama internazionale degli studi sull’idea medievale di natura, sottolinea come
la sua ricchezza di significati abbia motivato la scelta di contributi appartenenti ad ambiti
disciplinari diversi, per rendere ragione del modo in cui la natura fu concepita, immaginata
e artisticamente rappresentata dagli uomini del medioevo. La prefazione esplicita inoltre
l’intento dei contributi di porre attenzione ai modi medievali della rappresentazione della
natura, al fine di far emergere la coscienza con cui l’età media si rapportò a questo oggetto
polisemico. Conseguentemente, l’ordine degli studi raccolti, così come già quello degli
interventi al convegno padovano, non è diviso per discipline, ma segue grosso modo un
ordine cronologico, che va dall’età patristica all’umanesimo. Le numerose e dense rifles-
sioni presentate dagli autori possono qui soltanto essere brevemente riepilogate.
analisi d’opere 1161

Il volume si apre con tre contributi a tema filosofico e teologico. Alessandro Scafi
(Natura perfetta nell’Eden: un’utopia medievale) mostra come da un’opzione ermeneuti-
ca, l’interpretazione letterale della creazione divina dell’Eden, discenda la strutturazione
della geografia medievale, illustrata dall’autore attraverso la riproduzione di mappe del
mondo medievali; e come la riflessione filosofica, in particolare con Tommaso d’Aquino,
veda nell’Eden il luogo della perduta perfezione naturale umana.
Enrico Moro si sofferma su uno dei testi fondanti per la concezione medievale della natu-
ra nel suo Rappresentazioni della natura nel De genesi ad litteram di Agostino, analizzando
quattro nuclei tematici interconnessi: l’articolazione dell’attività di creatio divina, il rappor-
to fra conditio e administratio delle creature da parte della divinità, il ruolo assegnato all’in-
dagine scientifica della natura, il rapporto fra ordine naturale ed evento sovrannaturale.
Clelia Crialesi (Un approccio matematizzante nell’analisi della realtà naturale:
l’Explanatio in calculo Victorii di Abbone di Fleury) esamina il caso di Abbone di Fleury
(m. 1004), mostrando i suoi rapporti con la tradizione tardoantica e altomedievale legata
alle arti del quadrivio, coniugata con l’indicazione biblica di Sap. 11, 21 (omnia in mensu-
ra et numero et pondere disposuisti), nonché le implicazioni della razionalità matematica
intrinseca al mondo naturale secondo il pensiero di Abbone.
A questi primi contributi, idealmente accomunati dall’attenzione all’atto creatore divi-
no come fondamento della natura e alle sue relazioni con la conoscenza umana della natu-
ra, segue l’indagine di Paola Carusi (Natura, nature. Mizāǧ, trasmutazione alchemica e
filosofia aristotelica), che prosegue la riflessione sulla scienza della natura in ambito ara-
bo: vengono messe in luce le due accezioni salienti della nozione di natura nell’alchimia
araba, quella cosmologica e quella coinvolta nella trasmutazione degli elementi e delle
loro qualità, specialmente attraverso il caso di al-Ṭuġrā’ī (m. 1121), critico di Avicenna.
Il vasto ruolo della natura nella metaforica poetica medievale (latina e romanza) viene
affrontato dallo studio di Valeria Russo (L’espressione dell’anima e la parola del corpo:
su alcuni significati del tópos di matrice naturalistica nella lirica cortese), la quale si
concentra in particolare sulla lirica occitanica e francese, ravvisandovi una significativa
erosione della carica spirituale della descrizione naturalistica ai fini della rappresentazione
della tensione amorosa (un’evoluzione il cui rappresentante più compiuto viene individua-
to in Thibaut di Champagne).
I due articoli seguenti si soffermano sul pensiero di Tommaso d’Aquino. Fabrizio
Amerini (Limiti e significato di «natura»: Tommaso d’Aquino lettore di Aristotele) mette
in luce l’elaborazione della riflessione di Tommaso sulla nozione di natura: debitore del-
la suddivisione di natura nel Contra Eutychen et Nestorium di Boezio nella produzione
giovanile, egli cerca di compenetrarne le indicazioni con quelle di Averroè e di Alberto
Magno nel suo più tardo commento a Metafisica Δ 4.
Andrea Porcarelli (La rappresentazione della natura umana «sulla linea di orizzon-
te» in Tommaso d’Aquino e i suoi riflessi nel personalismo pedagogico del XX secolo)
mostra come un’idea tomista di derivazione neoplatonica, l’immagine dell’uomo ‘oriz-
zonte’ fra dimensione sensibile e sovrasensibile, motivi lo statuto peculiare dell’essere
umano come unico essere educabile: un’idea di cui l’autore illustra la persistenza nella
pedagogia personalista contemporanea.
Altri due contributi esaminano l’interazione fra natura e legge nella teorizzazione giu-
ridica medievale. Riccardo Saccenti (Impressio legis aeternae. La legge naturale nel trat-
tato de legibus di Giovanni de La Rochelle) si rifà alle Quaestiones de legibus attribuite
a Giovanni de La Rochelle (m. 1245), mostrando come quest’opera presenti una suddivi-
sione dell’idea di legge destinata a influire sulla riflessione medievale successiva (essa è
1162 analisi d’opere

ad esempio una fonte della corrispondente discussione nella Summa fratris Alexandri):
fra le ragioni della sua novità vengono segnalate in particolare la derivazione della legge
naturale dalla legge eterna (consistente nella ragione e nella volontà divine) nei termini per
così dire esemplaristi di una impressio, nonché l’articolata riflessione sui rapporti fra legge
naturale e libero arbitrio.
Giovanni Rossi («Iurisconsultus principia iuris […] trahit a principiis naturae»: la
riflessione sulla natura in Alberico da Rosate e Baldo degli Ubaldi) indica come nel caso
di due eminenti giuristi trecenteschi, Alberico da Rosate (m. 1360) e Baldo degli Ubaldi
(m. 1400) – quest’ultimo forte di una peculiare cultura classica –, la natura costituisca il
termine di riferimento che, pur nella sua polisemia difficilmente riducibile, può svolgere
un ruolo creativo e regolatore per la normatività giuridica.
Anche la riflessione sull’arte musicale nel medioevo è rappresentata, grazie ai due con-
tributi di Paola Dessì e di Antonio Lovato. La prima dedica il suo contributo a I madrigali
di Bartolino da Padova: lessico naturalistico e livelli di significazione. Dessì mostra che,
contrariamente all’opinione dominante negli studi musicologici, si può riscontrare anche
nella produzione musicale medievale una sofisticata interazione fra il livello di significa-
zione testuale e quello musicale, illustrata attraverso l’esempio di Bartolino da Padova,
attivo intorno alla metà del Trecento.
Lovato propone una riflessione musicologica intitolata La plenitudo vocis articolata e
letterata nella musica armonica di Marchetto da Padova. Egli mostra come questo com-
positore (vissuto fra XIII e XIV secolo), nel suo Lucidarium in arte musice plane, avvicini
notevolmente la dignità e le funzioni della voce canora a quelle del linguaggio verbale,
sottraendola così in sede teorica al suo ruolo subalterno di mezzo espressivo riservato a
contenuti solamente affettivi o simbolici.
I due articoli seguenti riportano il lettore alla riflessione filosofica sulla natura, stavolta
nell’ambiente delle università del XIV secolo. L’interessante studio di Fabio Zanin (Forme
artificiali e separabilità degli accidenti. Il dibattito su natura e arte a Parigi alla metà del
XIV secolo) riconsidera la cosiddetta «fisica parigina» del XIV secolo, nota sotto il nome di
«scuola di Buridano», restituendone un’immagine meno monolitica rispetto alla vulgata: dai
testi di Oresme (particolarmente problematici), Alberto di Sassonia, Buridano e Marsilio di
Inghen emerge un complesso di soluzioni assai articolate attorno al tema prescelto, il rap-
porto fra natura e arte, legato a doppio filo al problema più generale della separabilità degli
accidenti dalla sostanza. Malgrado infatti diverse tesi comuni – come la considerazione della
forma artificiale alla stregua del frutto di un moto deliberato, l’accidentalità dell’arte come
principio di moto e la continuità fra natura ed arte – emergono al contempo significative
divergenze circa la validità della distinzione fra res naturales e res artificiales.
Il contributo di Chiara Beneduce (La fisiologia del tatto nel XIV secolo: il caso di
Giovanni Buridano) si propone di incominciare a colmare una lacuna negli studi sulla
psicologia e la fisiologia nel XIV secolo. L’autrice si sofferma in particolare sull’analisi
medievale del senso del tatto: una questione che sollevava significative problematiche di
ordine teorico, come ad esempio l’individuazione dell’organo di questo senso e del suo
sensibile proprio. Beneduce illustra l’approccio di Giovanni Buridano a questo tema, sot-
tolineando come egli coniughi psicologia aristotelica e conoscenze mediche, senza temere
di rifiutare le soluzioni armonizzanti dei suoi predecessori.
I due studi seguenti riconducono il lettore al versante storico-artistico delle rappresen-
tazioni medievali della natura. Zuleika Murat (Rappresentare la natura incorrotta: cas-
se reliquiario e corpi santi a Venezia fra XIII e XIV secolo) si sofferma sulle modalità
di ostensione e di accompagnamento figurativo dei corpi incorrotti di santi conservati a
analisi d’opere 1163

Venezia. L’autrice indica come questi elementi legati al culto dei santi corroborassero l’au-
tenticità del corpo, la sua identificazione, la sua efficacia miracolosa e istituissero al tempo
stesso un legame fra la reliquia e il luogo sacro della sua conservazione.
Il contributo congiunto di Chiara Ponchia e Federica Toniolo (Dal margine al centro:
raffigurazioni di natura nei manoscritti miniati tra XIII e XV secolo) segue lo sviluppo del
naturalismo descrittivo nelle miniature di manoscritti medievali fra XIII e XV secolo, esa-
minando in particolare le raffigurazioni di animali e piante: da una rappresentazione ancora
legata a valenze allegorico-morali e alle suggestioni dei bestiari, spesso relegati nei margini
dei codici manoscritti, si può scorgere un’evoluzione verso rappresentazioni più attente alla
riproduzione fedele dell’oggetto naturale e al suo utilizzo pratico (ad esempio in farmacolo-
gia), tali da conquistarsi piena autonomia rappresentativa nella pagina manoscritta.
Iolanda Ventura (Scienza della natura e farmacologia accademica tra XIII e XIV
secolo: un progetto di lavoro) esamina lo studio accademico della farmacologia fra XIII
e XIV secolo. Da un lato, l’autrice offre un tentativo di riesame delle fonti della farma-
cologia accademica medievale, mostrando come, a partire dal Liber canonis di Avicen-
na, altri autori medievali (in particolare Dino del Garbo e Giovanni di Saint-Amand)
sviluppino la riflessione sulle qualitates primariae, secundariae e tertiariae dei medica-
menti semplici. Dall’altro, l’autrice mette in luce l’arricchimento di queste conoscenze
teoriche grazie ai tentativi medievali di classificazione e descrizione delle proprietà tera-
peutiche degli oggetti naturali.
Gli ultimi due contributi del volume sono nuovamente dedicati all’ambito storico-ar-
tistico. Xavier Barral i Altet (La terra, l’acqua, e i loro abitanti: a proposito della rap-
presentazione della natura nell’arte monumentale romanica) sceglie di concentrarsi sui
modi della rappresentazione di due domini del mondo naturale: l’acqua e la terra. Egli
illustra questo tema portando il caso di alcuni mosaici pavimentali romanici, dell’arazzo
di Bayeux (XI secolo) e della descrizione della camera della contessa di Blois contenuta
nel poema di Baudri de Bourgeil (vissuto fra XI e XII secolo). Da queste rappresentazioni
emerge complessivamente una interazione fra descrizione naturalistica, natura fantastica e
richiami biblici (ad esempio alla Genesi) e simbolici, in cui gli elementi naturali talvolta si
richiamano tra loro in maniera speculare.
Remy Simonetti (Ipso ex naturae gremio. La natura come modello nel pensiero e nella
pratica architettonica di Leon Battista Alberti) affronta il tema del rapporto fra concezione
della natura e riflessione architettonica secondo Leon Battista Alberti: la natura, sintesi
ottimale di bellezza armonica e semplice, da un lato, e di funzionalità, dall’altro, costitui-
sce il modello per la realizzazione architettonica e figurativa. Coerentemente, Alberti isti-
tuisce un complesso di analogie fra organismi naturali e strutture architettoniche, e in sede
teorica include fra i compiti dell’architetto lo studio, orientato alla pratica, della regolarità
matematica riscontrabile nella natura, intesa come insieme di leggi.
Le conclusioni di Agostino Paravicini Bagliani forniscono una prima proposta di let-
tura interpretativa dei contributi raccolti, suggerendo alcuni collegamenti tematici ad essi
trasversali e così valorizzandone la scelta multidisciplinare e l’ampio raggio cronologico.
Le tavole di illustrazioni a colori contribuiscono al pregio del volume e, soprattutto,
forniscono un apprezzabile sussidio alla lettura dei vari contributi. La varietà dei temi
affrontati, oltre a rendere questa raccolta utile a specialisti di varie discipline, ben restitui-
sce la multiformità della natura medievale e delle sue rappresentazioni.
Giovanni Mandolino
1164 analisi d’opere

Ciro De Florio - Aldo Frigerio, Divine Omniscience and Human Free Will. A Logical and
Metaphysical Analysis, Palgrave Macmillan, London 2019. Un volume di pp. XV + 268.

Immaginate che qualcuno sia in grado di raccontarvi oggi tutto quello che farete domani e
tutto il resto della vostra vita. Questa persona sa già tutto quello che farete domani e tutto
il resto della vostra vita. Ergo, è già vero che domani farete x. Se è già vero oggi che farete
x domani, allora non potete scegliere di fare altrimenti. Dunque, il libero arbitrio, inteso in
senso libertario come libertà o meno di fare x, non è che illusione. Si tratta di un problema
serio, almeno per chi crede che ci sia effettivamente qualcuno in grado di sapere oggi che
cosa gli uomini faranno domani e per il resto delle loro vite, cioè Dio.
In questa monografia Ciro De Florio e Aldo Frigerio propongono un’analisi di que-
sto problema fornendo ai lettori preziosi strumenti dal punto di vista logico e metafisico,
sviscerandone a fondo i presupposti più impliciti, cosicché si possano trovare il maggior
numero di soluzioni possibili e valutarne anche i costi teoretici.
Dal punto di vista della topologia del tempo, affinché si possa difendere il libero arbi-
trio è fondamentale che il futuro sia aperto, cioè che a partire da un istante t si offra-
no all’agente diverse possibilità di azione tra cui scegliere. Il futuro non è lineare, ma si
dirama in molteplici direzioni. Per quanto riguarda il passato invece supponiamo che sia
chiuso, cioè che vi sia un solo passato che non è più possibile cambiare. Il problema è
dunque se sia possibile affermare che nel passato Dio sapeva che l’agente a avrebbe fatto
x, pur mantenendo che il futuro sia aperto, cioè che a avrebbe potuto fare altrimenti. Dato
che non è possibile cambiare la credenza passata di Dio, allo stesso modo in cui non posso
cambiare un fatto passato, è difficile credere che a avrebbe potuto influire sul suo futuro
decidendo di non compiere l’azione oggetto della prescienza divina.
A partire da una tale impostazione del problema vi sono quattro famiglie di soluzioni
che vengono analizzate dagli autori: (1) le soluzioni estreme; (2) l’occamismo; (3) il moli-
nismo; (4) l’atemporalismo.
Le soluzioni estreme discusse nel capitolo terzo sono quelle negano uno dei due corni
del dilemma: negano il libero arbitrio per salvare la prescienza divina (determinismo teo-
logico) oppure negano la prescienza divina per salvare il libero arbitrio (open theism).
L’occamismo e il molinismo sono accomunati dall’assunto che la conoscenza di Dio
sia temporalmente localizzata e dalla negazione del principio di necessità del passato. Può
essere il caso che il fatto che sia vero ieri che «domani David farà x» dipenda proprio dalla
realizzazione futura di quel fatto. Tuttavia, queste due posizioni presentano importanti dif-
ferenze dal punto di vista dell’armamentario teoretico.
L’occamismo afferma che fra i tanti futuri possibili ve ne sia uno che è aleticamente
privilegiato: si tratta del futuro che avrà effettivamente luogo. Sarà esso a determinare le
credenze passate di Dio. Se il futuro fosse diverso allora lo sarebbero state anche le cre-
denze passate di Dio. Si tratta dunque di un caso di backward causation o almeno di una
certa dipendenza del passato dal futuro, seppur in forma lieve.
Il molinismo invece è caratterizzato dal suo impiego dei cosiddetti «condizionali della
libertà» (CL), cioè da quei fatti riguardanti cosa farebbe liberamente un agente posto in
alcune circostanze (che includono le opzioni tra cui l’agente deve scegliere, le sue moti-
vazioni, i suoi stati fisici e mentali, ecc.). Secondo i molinisti, per ogni agente possibile, e
per ogni set di circostanze, vi è soltanto un CL vero. Prima di creare il mondo, attraverso
la sua «scienza media» Dio conosce tutti i CL e tutte le verità necessarie. Nello spazio di
possibilità lasciato dalle verità necessarie e dai CL Dio sceglie di creare il mondo che più
soddisfa i suoi piani. Se Dio conosce i CL e sa quale mondo ha creato, allora sa già quali
analisi d’opere 1165

azioni libere compiranno gli agenti in futuro. Anche in questo caso viene negato il princi-
pio di necessità del passato dato che le credenze divine passate dipendono da quello che
faranno gli agenti in futuro nel modo in cui abbiamo visto sopra.
Mi pare però che questo punto controverso, cioè la dipendenza delle credenze passate su
fatti futuri non sia così chiaro. Se ho descritto bene l’argomento tale conclusione potrebbe
essere un po’ troppo affrettata. Per affermare la conoscenza di Dio dei futuri contingenti è
sufficiente, mi sembra, affermare che Dio conosca quale mondo ha creato e quali siano i CL,
senza che si debba ammettere una violazione del principio di necessità del passato.
Dal punto di vista metafisico, argomentano De Florio e Frigerio, il problema più
grande di questa soluzione riguarda il fatto che sia difficile capire che cosa renda veri
i CL. Che cosa nel mondo attuale può rendere vera la proposizione che, messo in una
certa circostanza C, l’agente a compirà liberamente x? Non può essere un fatto attual-
mente esistente, dato che tale proposizione è vera a prescindere dall’ottenimento di tale
circostanza.
Gli occamisti invece hanno vita più facile quando si tratta di spiegare che cosa ren-
da vera una proposizione riguardante un’azione libera futura. È sufficiente sposare una
metafisica eternalista di tipo B, secondo cui gli eventi passati, presenti, futuri esistono tutti
allo stesso modo. A rendere vera una proposizione riguardante un’azione libera futura è
proprio quell’azione che esiste tanto quanto un’azione presente. Una tale metafisica del
tempo, secondo cui la realtà temporale non è che un blocco statico in cui nessun tempo è
privilegiato rispetto agli altri, va contro al senso comune che, favorendo l’esistenza di un
tempo privilegiato rispetto agli altri, cioè il presente, considera il tempo come una realtà
dinamica dato che l’esser presente viene attribuito a entità sempre diverse fra loro mentre
il tempo passa – si parla in questo caso di teoria A del tempo.
L’atemporalismo è la tesi secondo cui l’eternità di Dio non è da interpretare in senso
temporale (così come fanno occamismo, molinismo e open theism), cioè come infinità di
tempo, ma come assenza di tempo, come atemporalità. Si tratta della posizione tradizio-
nale riguardo al rapporto fra Dio e il tempo. Si è soliti affermare in letteratura che questa
posizione non è compatibile con la teoria A del tempo, poiché è impossibile che Dio
conosca in modo atemporale e immutabile i fatti tensionali che cambiano continuamente
con il passare del tempo. Ad esempio, non è possibile che Dio sappia sempre quale tem-
po è presente, dato che questo fatto cambia continuamente. Data una teoria A del tempo,
Dio non è onnisciente.
La soluzione atemporalista al problema della prescienza divina, combinata dunque
con l’eternalismo di tipo B descritto sopra, consiste nel negare che la conoscenza di Dio
abbia collocazione temporale, negando quindi che sia prescienza. Ogni istante è presen-
te a Dio allo stesso modo. Quindi Dio vede ogni azione libera a ogni istante allo stesso
modo in cui noi vediamo un’azione libera che viene compiuta nel momento presente
davanti ai nostri occhi. In questo caso non c’è più una forma di backward causation,
ma è necessario affermare una forma di dipendenza delle credenze divine atemporali da
fatti temporali.
Nel capitolo dedicato alla soluzione atemporalista gli autori, analizzando la questione
se sia possibile o meno riconciliare la teoria A del tempo con l’atemporalismo divino,
sostengono che per compiere quest’ultima operazione è necessario accettare una versione
non-standard della teoria A: il frammentalismo di Kit Fine (cfr. Tense and Reality, in Id.,
Modality and Tense. Philosophical Papers, Oxford University Press, Oxford 2005, pp.
261-320). Secondo Fine la realtà è costituita da un’infinità di frammenti corrispondenti ad
ogni istante. Prendendo un qualunque tempo t0 il frammento della realtà corrispondente
1166 analisi d’opere

è quello in cui t0 è presente. Gli istanti precedenti a t0 sono passati e quelli successivi a t0
sono futuri. C’è poi un altro frammento della realtà, quello corrispondente a t1, dove è t1 a
essere presente e gli altri istanti sono futuri o passati. In questo caso Dio sarebbe in grado
di conoscere tutti i fatti tensionali senza che debba mutare in alcun modo. La conoscenza
di Dio coprirebbe tutti i frammenti, tutte le prospettive. Anche in questo caso secondo gli
autori vi sarebbe una dipendenza delle credenze atemporali di Dio da fatti temporali.
La nozione di prospettiva gioca un ruolo importante nella soluzione proposta da De
Florio e Frigerio. Infatti, essi arricchiscono la metafisica frammentalista introducendo la
semantica prospettica, il cui nocciolo è il seguente: la valutazione di una proposizione
dipende sia dal punto in cui viene valutata, sia dalla prospettiva da cui viene valutata (p.
240). Se David compie un’azione libera x a t1, sembra intuitivo poter dire che a t0, dato
l’indeterminismo, non è né vero, né falso che «David farà x a t1». Tuttavia, se consideria-
mo tale azione a t2 sembra pure intuitivo che a t0 era già vero che David avrebbe compiuto
x a t1, perché lo ha effettivamente fatto. Uno scommettitore che ha scommesso con suc-
cesso riguardo all’azione di David direbbe che aveva ragione a t0 (p. 242). La semantica
prospettica permette di modellare questa situazione: a t0, dalla prospettiva t0 non è né vero
né falso che «David farà x a t1»; dalla prospettiva t2, invece, è vero a t0 che «David farà x a
t1». Nonostante questa semantica sia perfettamente compatibile con l’eternalismo di tipo B
in cui le prospettive sono interpretate come indessicali, sembra più naturale leggerla attra-
verso una teoria A del tempo interpretando le prospettive come tratti oggettivi del mondo.
Adottando il frammentalismo, la prospettiva può venire concepita come il presente ogget-
tivo di quel frammento che determina il valore di verità di tutte le proposizioni riguardan-
ti i fatti tensionali contenuti in quel frammento. Così facendo si può affermare che Dio
conosce tutti i fatti tensionali poiché conosce tutte le proposizioni vere in ogni frammento,
sapendo ad esempio che dalla prospettiva di t0, a t0 è indeterminato che «David farà x a t1»
e che è vero dalla prospettiva di t2.
Il sostegno a questa soluzione dal punto di vista metafisico, come ammettono gli stessi
autori, comporta certamente un costo non indifferente. Prendere sul serio il frammentali-
smo significa credere che la realtà, in fin dei conti, sia incoerente. Infatti, fanno parte della
realtà allo stesso modo tanto il frammento in cui è presente il fatto che «David è seduto»
e il frammento in cui è presente fatto che «David è in piedi». Vi è una realtà frammentata
e incoerente. Se è così, è incoerente pure la conoscenza di Dio, che copre, come abbiamo
detto, tutti i frammenti della realtà.
Mi sembra anche importante notare che questa soluzione si discosta dalla visione
classica dal punto di vista teologico. Secondo Agostino, Boezio e Tommaso d’Aquino la
conoscenza atemporale di Dio degli eventi temporali non dipende dagli eventi. È invece
la conoscenza di Dio a essere la causa degli eventi. Un autore che forse non è di questo
avviso è Anselmo se vogliamo credere a Katherin A. Rogers (cfr. Anselmian Eternalism:
The Presence of a Timeless God, «Faith and Philosophy», 24 [2007], 1, pp. 3-27), la quale
afferma che Anselmo, pur di salvare il libero arbitrio, era disposto ad accettare che Dio
potesse imparare (atemporalmente) dalle sue creature ed esserne influenzato: sono le scel-
te degli uomini a causare la conoscenza di Dio di esse.
Il pregio di questo testo non riguarda unicamente l’interessante soluzione originale
proposta da questi due autori, ma anche l’approfondimento molto rigoroso di tutte le altre
soluzioni al problema. In particolare, è lodevole l’impresa di voler integrare tutta la rifles-
sione logica e metafisica sul tempo, tenendo conto anche delle tesi non-standard, come
appunto il frammentalismo. In questo senso la loro monografia rappresenta un gran con-
tributo alla filosofia della religione i cui testi, anche quelli autorevoli, non sono sempre
analisi d’opere 1167

aggiornati. Chiunque voglia scrivere di questo tema, tanto dal punto di vista filosofico che
teologico, dovrà fare i conti con questo testo, rispondendo alle obiezioni degli autori o
approfondendo le loro proposte.
David Anzalone

Jacques Derrida, Heidegger. La questione dell’essere e la storia. Corso dell’ENS-ULM


1964-1965, tr. it. di R. Frauenfelder, ed. it. a cura di G. Dalmasso e S. Facioni, Jaca
Book, Milano 2019. Un volume di pp. 284.

In un’intervista concessa nel 1967 a Henri Rose, Jacques Derrida aveva riconosciuto che
per la determinazione della différance dovesse soprattutto ammettersi un confronto con
la meditazione heideggeriana; e tuttavia – precisava – nonostante ciò, si sarebbe dovuto
osservare lo «scarto» che la sua riflessione provava a marcare non soltanto rispetto alla
differenza ontico-ontologica espressa in Sein und Zeit, ma pure rispetto a quelle «prese
[prises] metafisiche» che Heidegger avrebbe mantenuto, «in maniera economica e stra-
tegica», nel momento in cui ha tentato di distruggere le risorse sintattiche e lessicali del
linguaggio filosofico.
Ad una distesa analisi del significato e delle implicazioni di tale «distruzione»
(Destruktion), Derrida aveva pochi anni prima, nel 1964-1965, dedicato larga parte del suo
corso all’École Normale Supérieure intitolato Heidegger: la question de l’Être et l’Histoire,
pubblicato in Francia nel 2013 da Thomas Dutoit, versato in inglese nel 2016, con numerose
integrazioni e alcuni emendamenti, ed ora edito in Italia, in un’edizione che ha preso come
riferimento ulteriore rispetto all’originale edizione francese quella apparsa per i tipi della
University of Chicago a cura di Geoffrey Bennington. Si tratta di nove lezioni consegnate
ad un manoscritto di impervia decifrazione, riprodotto per excerpta nel corpo del volume, e
dal quale traspare l’andamento talora dispersivo della scrittura di Derrida, il suo procedere in
larghe volute di frasi che sembrano destinate a perdersi fra i richiami, con il lancinante senso
di un’apertura in tutte le direzioni, ma nondimeno capace di non smarrire il suo proposito. Il
quale è qui – come Derrida stesso afferma – quello di mostrare come al principio di Sein und
Zeit si ponga «una Destruktion della storia dell’ontologia e non dell’ontologia» (p. 43), ed al
contempo di verificare dove si potranno attingere «i concetti, i termini, le forme di concate-
nazione» per poter dare espressione a questo «discorso distruttore» (p. 48).
La interpretazione heideggeriana dell’ontologia, secondo Derrida, deve essere com-
presa come una operazione di metaforizzazione, intendendo la metafora come «il rico-
primento ontico della verità dell’essere» (p. 93), del tutto insuperabile in ragione del fatto
che, se ogni affermazione concernente gli enti presuppone una considerazione dell’essere
dell’ente, è pur vero che ogniqualvolta nella storia del pensiero filosofico occidentale si
sia tentato di definire questo essere, si è invariabilmente ricaduti in un discorso ontico.
La conseguente permanenza della differenza ontico-ontologica, ossia la caratterizzazione
dell’essere come l’origine, la natura o la causa prima degli enti, determinerebbe quindi
la trasposizione del discorso ontologico in termini puramente ontici, ovvero nei modi di
quelle che Derrida definisce «metafore ontiche» (p. 51). Benché sia per la prima volta
ne La différance (1968) che Derrida rivendica espressamente la necessità di aprirsi, per-
correndo fino in fondo il pensiero della verità dell’essere, ad una dif-ferenza non ancora
determinata come differenza fra l’essere e l’ente, già nel Corso del 1964 può riconoscersi
il tentativo di considerare i testi heideggeriani come il primo ambito in cui si pensi l’«es-
senza della metafora» (p. 239) in quanto tale, e quindi si provveda a tradurla, ovvero a
1168 analisi d’opere

decostruirla, individuando la catena dei cambiamenti che la connotano, le modificazioni


dei diversi contenuti semantici che vi si addensano.
Volendo considerare la storia del pensiero come null’altro che la storia di alcune meta-
fore ovvero delle loro diverse intonazioni, il lavoro filosofico che Heidegger inaugurereb-
be sarebbe – per Derrida – quello proprio di una riduzione in senso fenomenologico delle
diverse metafore che hanno costellato l’esperienza dell’essere, e che possono raccogliersi
sotto il generale motivo dell’affermazione di una forma della Presenza, nella quale si rias-
sumerebbe ogni auto-rappresentazione dell’accadere in forza delle categorie della scienza
e della tecnica (p. 183). La dimensione istoriale alla quale fa riferimento il titolo del Corso
non può d’altra parte trascurare il ‘salto’ che, in Heidegger, segna il passaggio dalla Histo-
rie, dalla ‘scienza storica’, alla Geschichte, quale accadere dell’essere. Nella riflessione
heideggeriana quest’ultima conferisce effettiva realtà alla Historie, perché la sua essenza
non è historisch, ma geschichtlich. La Geschichte infatti – nota Derrida – non è al di fuori
della Historie, ma rappresenta piuttosto un altro modo di abitarla. Il ‘salto’ dalla Historie
alla Geschichte non è un movimento di storicizzazione della storia, bensì l’origine dello
storicizzarsi, la radice dell’accadere. In tal senso – osserverà Derrida tornando a leggere
Sein und Zeit alcuni anni dopo – in Heidegger vi è la richiesta di un’archia che rende la sua
riflessione equiparabile ad un pensiero esplicativo del mito delle origini, coerentemente con
un’adesione ad un orizzonte metafisico che non si lascia oltrepassare.
Il concetto chiave di différance comincia così, districandosi fra le pieghe del dettato
heideggeriano, a dispiegarsi in quell’Entstellung, in quella ‘deformazione’, che sarà negli
anni seguenti posta a servizio della neutralizzazione della negatività produttiva propria
della pre-apertura della differenza ontico-ontologico come di ogni entità differenziata,
sebbene Derrida parrebbe farvi ricorso non soltanto per frangere il legame con il presente
assoluto come modo del tempo, ma pure per “spostare altrove” la scena della rappresen-
tazione ermeneutica, onde fare luogo, al posto del filosofo che si inebria della ripetizione
dell’essere, al marrano che vuole l’indefinita espansione dell’essere, accettando di abitar-
la, ma senza mai identificarsi con la metafora che vuole che il pensiero lavori alla costru-
zione della casa dell’essere. L’Entstellung – secondo un’indicazione di Freud che si legge
in Der Mann Moses und die monotheistische Religion (1939) – non dovrebbe d’altra parte
significare soltanto «modificare nella forma, ma anche portare in un altro luogo», ed è
specialmente in questa ultima accezione che – ha sostenuto Peter Sloterdijk – essa informa
la différance messa a tema da Derrida. Lungo l’intera sua lettura di Heidegger, Derrida
non a caso sottolinea (pp. 30 ss. e 62 ss.) le affinità che accomunerebbero l’autore di Sein
und Zeit ad una certa dialettica di matrice hegeliana. Ma il non volere «in fondo uscire da
Hegel» (p. 242) significherebbe esporre la metaforicità che innerva il pensiero heidegge-
riano ad un movimento indefinito, così da sottrarlo a quello ‘spirito del cominciamento’
nel quale si compendierebbe l’operazione ‘essenziale’ della metafisica. «Dunque, non si
tratta di sostituire una metafora all’altra – scrive Derrida – ma di pensare il movimento in
quanto tale» (pp. 238-239), quel medesimo movimento che coincide con l’orizzonte della
dialettica, come assenza di origine semplice.
Anche contrapponendosi alle resistenze imposte dall’elaborata cinetica filosofica
approntata da Heidegger, ed alla quale la recente pubblicazione degli Schwarze Hefte ha
apportato ulteriori precisazioni, Derrida si prova ad allestirne la tragicizzazione, quale
dischiusura – si legge in Force et signification (1963) – «alla differenza fra Dioniso e
Apollo»: alla differenza che non è che la «formazione di una forma» irriducibile ad un
sistema omogeneo e perciò destinata ad un’estensione esorbitante, «rivoluzionaria», ecce-
dendo essa, quale «unico evento davvero degno di questo nome», ogni orizzonte possibile,
analisi d’opere 1169

«ogni orizzonte del possibile». Sembrerebbe in ciò compiersi il passaggio dal commento
del contenuto filosofico all’interpretazione in senso filosofico che assiduamente Derrida
tende a perseguire con sempre maggiore costanza nel proprio esercizio di delucidazione
del dettato heideggeriano. Seguendo un’annotazione di Heidegger solo di recente pubbli-
cata (Gesamtausgabe, Bd. 96, p. 174), la quale avvicina Hölderlin a Lenin, parrebbe del
resto confortarsi il tentativo promosso da Derrida di trasportare le metafore che costella-
no il pensiero heideggeriano verso quel ‘nuovo inizio’ che, come Heidegger stesso affer-
ma, non deve mai essere semplice ‘capovolgimento’ – Umkehrung –, ma pura irruzione:
‘evento’ (Ereignis), preparato dal poeta e affidato ai venturi, da pensare «al fine di dirlo a
partire ed in vista del suo accadere». Nell’abbordare «l’inaggirabile meditazione heideg-
geriana», la decostruzione promossa da Derrida, riprendendo e svolgendo – attraverso un
parassitismo ermeneutico che pure quando assume un tratto ambiguo, esiguo e elusivo non
è mai incostante o infedele – proprio la forma paradossale di tale «evento rivoluzionario»,
riesce a darne conto nel suo più immediato disseminarsi fuori di sé: in quell’atto testuale
che, quando l’impossibile si fa possibile, «sta alla carta come la cupola ai cieli vuoti».
Luigi Azzariti-Fumaroli

Duns Scoto, L’essere degli accidenti nell’Eucarestia, a cura di D. Riserbato, Giunti -


Bompiani, Firenze - Milano 2019. Un volume di pp. 256.

L’edizione curata da Davide Riserbato de L’essere degli accidenti nell’Eucarestia di Duns


Scoto è corredata da un’introduzione, una notizia biografica e una nota editoriale; il testo
proposto è costituito dalle questioni 1-2 della pars prima della distinzione 12 del IV Libro
dell’Ordinatio, appartenente al cosiddetto Trattato sul sacramento dell’Eucarestia (che
occupa le distinzioni 8-13), di cui si offre la traduzione italiana a fronte; gli apparati consi-
stono nelle note al testo, una raccolta di parole-chiave e una bibliografia.
Cornice teoretica e storica all’interno della quale nasce e si sviluppa la proposta del
Dottor Sottile sullo statuto ontologico degli accidenti nell’Eucarestia è il celebre prologus
dell’Ordinatio, in cui egli mostra il contesto paradigmatico