R IVISTA
DI FILOSOFIA NEO-SCOLASTICA
R
Pubblicazioni dell’Università Cattolica
Anno CXII • Ottobre-Dicembre 2020
Largo Gemelli 1
20123 Milano
4 Anno CXII
Ottobre-Dicembre 2020
Pubblicazione trimestrale
ISBN: 978-88-343-4494-1
ISSN (carta): 00356247
ISSN (digitale): 18277926
Note e discussioni
Analisi d’opere
The aim of the paper is to address the main meta-metaphysical question i.e. whether is it possi-
ble to do metaphysics and, in the case of an affirmative answer, how should we do it? With such
an aim in mind, we will sketch the broad context in which these meta-metaphysical questions
arose in the philosophical literature (§ 1); then, we will present what we take to be the three
most widespread conceptions of metaphysics that are available in the analytic tradition: the
neo-Quinean (§ 2), metaphysics as the science of possibilities (§ 3) and metaphysics as the study
of the fundamental structures of reality (§ 4). Throughout these paragraphs we will criticize
these positions, before cashing out our proposal (§ 5). Our interpretation seems to be a species
of the recently proposed approach dubbed ‘naturalized metaphysics’; the difference that our
proposal has with similar understanding of metaphysics will be clear in the last section.
© Vita e Pensiero / Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
1. Introduzione
Molti autorevoli filosofi, da Kant a van Fraassen, passando per Carnap e altri
ancora, hanno proclamato a più riprese la morte della metafisica1. Ci sono
*
Università degli Studi di Urbino Carlo Bo. Email: a.corti1@campus.uniurb.it
**
Università degli Studi di Urbino Carlo Bo. Email: vincenzo.fano@uniurb.it
Received: 20.07.2019; Approved: 12.08.2019; First published Online: 03.2020.
1
Cfr. L. Wittgenstein, Tractatus Logico-Philosophicus, §§ 6 e 7, tr. it. di A. Conte, Tratta-
to Logico-Filosofico, Einaudi, Torino, 2009; H. Reichenbach, The Rise of Scientific Philosophy,
University of California Press, Berkeley 1951; tr. it. di D. Parisi e A. Pasquinelli, La nascita del-
la filosofia scientifica, Il Mulino, Bologna 2002; A.J. Ayer, Language, Truth, and Logic, Dover
Publications, New York 1936; tr. it. di G.A. de Toni, Linguaggio, verità e logica, Feltrinelli, Mila-
no 1961; I. Kant, Kritik der reinen Vernunft (1781), tr. it. di P. Chiodi, Critica della ragion pura,
Utet, Torino 1967; B.C. van Fraassen, The Empirical Stance, Yale University Press, New Haven
912 alberto corti - vincenzo fano
almeno due ordini di ragioni per non considerare un tale dato storico come con-
clusivo. In primo luogo, i progetti filosofici portati avanti dai critici della metafi-
sica si sono rivelati, a posteriori, più fallimentari della metafisica stessa: si pensi
ad esempio al neo-positivismo logico o al neo-kantismo, che oggi ricoprono una
porzione esigua della letteratura se comparata a quella occupata dai metafisici.
Tale stato di cose dovrebbe essere quanto meno sufficiente per far sorgere il
sospetto sulle motivazioni che spingevano tali studiosi a criticare la metafisica
del loro tempo. In secondo luogo, le critiche poste in passato alla metafisica non
possono, oggi, essere riproposte acriticamente ai metafisici contemporanei; tale
disciplina è infatti ciclicamente rinata dalle sue ceneri modificandosi, riflettendo
e incorporando le sfide meta-filosofiche dei suoi detrattori.
Crediamo che la situazione contemporanea, per riassumere una storia decisa-
mente più complessa, sembra essere testimone della conclusione di uno di tali
cicli e, apparentemente, dell’inizio di uno nuovo. Il ciclo che si sta concludendo è
quello della metafisica analitica a priori, le cui origini vengono fatte risalire dalla
saggezza comune alla risposta di Quine2 a Carnap3, e la cui rinascita compiuta è
attribuita prevalentemente al lavoro di David Lewis4. Le fondamenta di tale filone
di ricerca sembrano essere state recentemente scosse da numerosi attacchi, tra i
quali quello di Ladyman e Ross è sicuramente il più rappresentativo5. Il fulcro
della loro critica è che la metafisica analitica, portando avanti un’indagine della
natura soprattutto a priori, è sprovvista di buoni criteri per determinare quali sia-
no le reali strutture metafisiche del mondo in cui abitiamo. Se la pars destruens
del loro lavoro consiste in una serrata argomentazione contro il metodo usato dai
metafisici contemporanei, la pars construens è dedicata a mostrare come, se i
metafisici incominciassero le proprie indagini a partire dalle migliori teorie scien-
tifiche di cui disponiamo, allora la metafisica potrebbe effettivamente svolgere
una funzione conoscitiva; Ladyman e Ross battezzano come «naturalizzato» tale
modo di fare metafisica. Queste riflessioni hanno dato luce a un complesso dibat-
tito6, incentrato su quale dovrebbe essere la relazione che unisce la metafisica alle
scienze empiriche; in altri termini, il cuore della discussione sta nella domanda
7
«Metafisica naturalizzata» e «metafisica della scienza» verranno usati, nel presente articolo,
come sinonimi.
8
P. es. tale posizione viene sostenuta in van Fraassen, The Empirical Stance.
9
Tradizionalmente si distingueva tra ontologia come teoria generale delle categorie e metafisica
come teoria delle diverse forme di realtà; p. es. in C. Wolff, Discursus praeliminaris de philosophia
914 alberto corti - vincenzo fano
sia al lavoro una sorta di effetto selettivo: quelli che pensano che le domande
ontologiche siano domande profonde con risposte determinate sono più propensi
all’ontologia rispetto a coloro che credono che tali domande siano superficiali o
manchino di risposte determinate»10. Dal momento che chi pensa che la metafi-
sica sia impossibile raramente dedica il proprio lavoro a spiegare le ragioni di
tale credenza, la letteratura analitica anti-metafisica è piuttosto rara. Pertanto, in
quanto segue, assumeremo che le domande metafisiche (almeno alcune) possa-
no avere una risposta e procederemo come coloro che, come Ladyman e Ross,
seppur critici rispetto alla metafisica contemporanea, credono che ci sia un modo
sensato di intendere tale disciplina11.
in genere (1728), § 73. Nel dibattito contemporaneo invece l’ontologia è una sottospecie della meta-
fisica in senso tradizionale, ovvero quella parte della metafisica che si occupa di esistenza.
10
D.J. Chalmers, Ontological Anti-Realism, in Chalmers - Manley - Wasserman, Metame-
taphysics, pp. 77-129, qui p. 78.
11
L’approccio di Ladyman e Ross viene spesso letto come radicalmente anti-metafisico. In realtà
essi deducono dalla fisica una metafisica strutturalista, quindi questo non si può affermare. Tuttavia,
come vedremo, il nostro approccio è meno fisicalista del loro.
12
In modo particolare per W.V. Quine: cfr. W.V. Quine, From a Logical Point of View, Harvard
University Press, Cambridge (MA) 1953; tr. it. di P. Valore, Da un punto di vista logico, Raffaello
Cortina Editore, Milano 2004 e Id., On Carnap’s Views on Ontology.
13
Se la domanda principale dell’ontologia è «che cosa esiste?», la domanda fondamentale della
meta-ontologia è: «ci sono risposte oggettive a tale domanda?». Pertanto la meta-ontologia è quella
branca della filosofia che si interroga sulla possibilità stessa di fare ontologia.
14
W.V. Quine, On what there is (1948), tr. it di P. Valore, Che cosa c’è, in Id., Da un punto di
vista logico, pp. 13-33, qui p. 29.
15
Ricordiamo che l’analisi di Quine è una critica a Meinong, per cui l’esistenza linguistica-
mente non è un predicato ma un quantificatore. Perciò l’esistenza non è una proprietà ma una pro-
prietà attribuibile solo a qualcosa che ha altre proprietà. Per contro, nell’approccio meinonghiano,
ci sono oggetti che esistono e oggetti che non esistono, cioè l’esistenza è una proprietà direttamen-
te applicabile agli oggetti.
16
Che in logica predicativa del primo ordine si traduce con «∃x(Px)» (dove «P» sta per «essere
un numero primo»), e si legge «esiste almeno un x tale che x è un numero primo».
la metafisica è morta! lunga vita alla metafisica! 915
17
Per un’elaborazione matura del suo pensiero, si veda p. es. W.V. Quine, Grammar, Truth, and
Logic, in S. Kanger - S. Öhman (eds.), Philosophy and Grammar, Reidel Dordrecht 1980, pp. 17-28.
18
H. Price, Metaphysics after Carnap: the Ghost who Walks?, in Chalmers - Manley - Wasser-
man, Metametaphysics, pp. 320-346, qui p. 337.
19
Quine presuppone una sorta di inferenza verso la miglior spiegazione, che giustifichi la cre-
denza che le nostre migliori teorie scientifiche di un dato fenomeno ci dicano (almeno parzialmente)
come siano fatti tali oggetti. In quanto segue, assumeremo la validità di tale inferenza.
20
Per un’introduzione sull’argomento, si veda p. es. M. Colyvan, Indispensability Arguments
in the Philosophy of Mathematics, in E.N. Zalta (ed.), The Stanford Encyclopedia of Philosophy
(Spring 2019 Edition), https://plato.stanford.edu/archives/spr2019/entries/mathphil-indis.
21
Quine, Che cosa c’è, p. 27.
22
J. Schaffer, On What Grounds What, in Chalmers - Manley - Wasserman, Metametaphysics,
pp. 347-383, qui p. 348. Sebbene la citazione riassuma succintamente e precisamente il criterio
neo-quineano, sembra giusto ricordare al lettore che Schaffer non accetta tale tipo di meta-metafisica.
916 alberto corti - vincenzo fano
23
Cfr. Ladyman - Ross, Every Thing Must Go, pp. 17 ss., 81 ss.
24
Come argomentato p. es. da V. Fano - S. Matera, Realismo scientifico e vincolo fenomenologi-
co, in M. Cangiotti (a cura di), Quale realismo?, «Hermeneutica. Annuario di Filosofia e Teologia»,
n.s., Morcelliana, Brescia 2014, pp. 95-108.
25
O del perché la nostra percezione differisce dalla descrizione di x presente nella nostra miglio-
re teoria scientifica. Abbiamo introdotto quest’ultima condizione per rendere precisa l’istanza che
concerne l’importanza della percezione comune in metafisica, senza abbandonare il metodo scien-
tifico, mossa p. es. da L.A. Paul, Metaphysics as Modeling: the Handmaiden’s Tale, «Philosophical
Studies», 160 (2012), 1, pp. 1-29.
26
Schaffer, On What Grounds What, p. 347.
la metafisica è morta! lunga vita alla metafisica! 917
27
Cfr. P. van Inwagen, Being, Existence and Ontological Commitment, in Chalmers - Manley -
Wasserman, Metametaphysics, pp. 472-506.
28
A.C. Varzi, Parole, oggetti, eventi e altri argomenti di metafisica, Carocci, Roma 2001.
29
Si veda p. es. la raccolta F. Correia - B. Schnieder (eds.), Metaphysical Grounding: Under-
standing the Structure of Reality, Cambride University Press, Cambridge 2012.
30
Cfr. G. Rosen, Metaphysical Dependence: Grounding and Reduction, in B. Hale - A.
Hoffmann (eds.), Modality: Metaphysics, Logic, and Epistemology, Oxford University Press,
Oxford 2010, pp. 109-136.
31
Cfr. V. Fano, Physics and Metaphysics, in P. Graziani - L. Guzzardi - M. Sangoi (eds.), Open
Problems in Philosophy of Science, College, London 2013, pp. 186-194.
32
Quello qui riproposto è il famoso argomento della «meta-induzione pessimista» originariamente
918 alberto corti - vincenzo fano
In altri termini, le teorie scientifiche sono la nostra migliore speranza per determi-
nare che cosa esiste, ma, data la limitatezza epistemica insita nello stesso progetto
scientifico, esse possono essere fallibili. La metafisica, come le scienze empiriche,
deve riconoscere allo stesso modo la propria fallibilità33. Spesso tale stato di cose
è stato dimenticato dagli autori contemporanei; in letteratura infatti non è raro
incontrare autori impegnati in tentativi disperati di salvare tesi metafisiche in netta
contrapposizione con la nostra migliore conoscenza scientifica34, rinnegando lo
stesso criterio quineano che implicitamente assumono35. Inoltre non va dimentica-
to che molte teorie scientifiche presentano formulazioni che, pur essendo matema-
ticamente equivalenti, sono ontologicamente differenti36. Per tale ordine di ragioni
non va dimenticato che l’ontologia non è dipendente solo dalla teoria scelta, ma
anche dalla sua formulazione matematica.
Vi è inoltre una terza motivazione per dubitare dell’appiattimento della meta-
fisica sull’ontologia, punto cardine della metafisica neo-quineana: il termine
chiave dell’ontologia, ovvero «esistenza», è un concetto metafisico. Ricondurre
quindi la metafisica all’ontologia sembra invertire indebitamente il ruolo che le
due discipline intessono. Sembra naturale infatti che sia la metafisica assunta a
condizionare il tipo di ontologia abbracciato, e non viceversa; come nota Fine,
«è plausibile che solo facendo metafisica, ovvero determinando come le cose
stanno nella realtà, saremo nella posizione di determinare quale dovrebbe essere
l’ontologia»37. Il termine «esistenza» infatti viene regimentato nella letteratura
analitica in almeno due modi differenti: attraverso il già citato quantificatore
esistenziale del calcolo dei predicati del primo ordine e attraverso un predicato
nelle logiche libere38. Da un lato nel calcolo dei predicati «esistenza» è in un
certo senso un predicato di secondo ordine: esistenza è un predicato di concet-
ti (ovvero predicati di individui). Noi diciamo che un individuo esiste ma in
realtà stiamo dicendo che un certo concetto ha la proprietà di possedere istanze
(almeno una). Nelle logiche libere invece è l’esistenza stessa a essere una pro-
prietà. Credere nell’esistenza di determinate entità quindi presuppone una par-
ticolare nozione metafisica di «esistenza», e non viceversa. Pertanto non si può
fare ontologia senza metafisica. L’appiattimento della metafisica all’ontologia
perciò semplifica oltremodo la relazione tra queste due discipline che, seppur
profondamente legate, sono in ultima analisi diverse nello scopo e nell’oggetto
di indagine. In particolare, sembra che le strutture metafisiche siano condizione
necessaria per determinare che cosa esiste, e non viceversa.
Infine, bisogna ricordare che non è storicamente chiaro quanto Quine stesso
abbia abbracciato un tal modo di fare metafisica. Price ha mostrato che la già citata
diffusa credenza, che vuole la vittoria di Quine su Carnap responsabile della rina-
scita della metafisica, sia frutto di un errore interpretativo. Price argomenta che la
critica di Quine alle distinzioni di Carnap tra sintetico e analitico e tra domande
interne ed esterne a un framework non implica che il primo avrebbe accettato la
metafisica analitica a noi contemporanea39. Molti hanno creduto che le cose stes-
sero in questi termini, a partire da un famoso passo di Quine:
Le domande ontologiche finiscono per essere alla pari delle domande delle scienze natu-
rali. […] Carnap sostiene che le domande ontologiche […] sono domande non sui fatti ma
sulla scelta di uno schema o di un framework conveniente per la scienza; e su questo io
sono d’accordo solo se lo stesso è affermato di ogni ipotesi scientifica40.
Ma, come argomentato da Price, «questa suona come una buona notizia per
l’ontologia, ma in verità non lo è. […] perché se tutti i problemi sono alla fine
pragmatici, allora non può esserci un qualcosa di più-che-pragmatico del tipo
richiesto dalla metafisica»41. Quine, nella lettura di Price, lungi dal rigettare il
neo-positivismo di Carnap per tornare al tipo di metafisica rifiutato dagli empi-
risti logici, «si muove avanti, abbracciando un più esauriente pragmatismo
post-positivista. […] Quine semplicemente lo [Carnap] supera, spingendo avanti
nella stessa direzione»42.
38
Cfr. F. Berto, Existence as a Real Property, Springer, Heidelberg - New York - London 2012
(Synthese Library, 356).
39
Cfr. Price, Metaphysics after Carnap, pp. 320-346.
40
Quine, On Carnap’s Views on Ontology, p. 134.
41
Price, Metaphysics after Carnap, p. 326.
42
Ibi p. 327. Cfr. però N. Deng, What Quine (and Carnap) Might Say about Contemporary
Metaphysics of Time, in F. Janssen-Lauret (ed.), Quine, Structure, and Ontology, Oxford University
Press, Oxford (in stampa).
920 alberto corti - vincenzo fano
43
Cfr. E.J. Lowe, The Possibility of Metaphysics: Substance, Identity, and Time, Clarendon
Press, Oxford 1998; ed. it. a cura di S. Galvan - A. Corradini - C.L. De Florio, La possibilità della
metafisica. Sostanza, identità, tempo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009 e M. Morganti, Combi-
ning Science and Metaphysics, Palgrave-Macmillan, London 2013.
44
Ci sono due tipi di possibilità nomologica: una epistemica e una ontica. La prima ci dice che
cosa è possibile rispetto alle leggi di natura che conosciamo, la seconda rispetto a tutte le leggi
di natura esistenti. Nell’intero articolo quando parleremo di «possibilità nomologica» ci riferiremo
unicamente a quella ontologica, in quanto stiamo discutendo di metafisica e non di epistemologia.
45
Così descritta la possibilità logica è, ovviamente, relativa a un determinato linguaggio forma-
le. Quando si parla di possibilità logica però si intende, solitamente, l’insieme di tutto ciò che è pos-
sibile in ogni possibile linguaggio formale. Questa definizione ha un sapore molto convenzionalista,
ma si può anche sostenere in una prospettiva più platonica che la possibilità logica sia indipendente
dalla sua formalizzazione linguistica (come è per il caso di quella nomologica).
la metafisica è morta! lunga vita alla metafisica! 921
secondo potrebbe essere la domanda «è possibile che gli oggetti concreti siano
estesi nel tempo nello stesso modo in cui lo sono nello spazio?». Configurata in
questo modo, la possibilità metafisica è sicuramente una nozione più ampia di
quella nomologica (ovvero ciò che è nomologicamente impossibile può essere
metafisicamente possibile, ma ciò che è metafisicamente impossibile deve es-
serlo anche nomologicamente) ma più ristretta di quella logica. Se assumiamo
ad esempio che il termine «acqua» sia un designatore rigido, ovvero che il ter-
mine «acqua» si riferisca alla stessa cosa in tutti i mondi possibili, allora è meta-
fisicamente impossibile, ma logicamente possibile, che «acqua» non si riferisca
a H2O. Logicamente possibile perché non vi è nessuna contraddizione logica
nella frase «“acqua” non si riferisce a H2O».
Tuttavia la possibilità di secondo grado è una nozione strettamente connessa
a quella nomologica, che spesso viene determinata proprio sulla base delle leg-
gi scientifiche del mondo attuale. Ad esempio, ne modifichiamo una lasciando le
altre uguali, oppure variamo il valore di una costante universale e proviamo a cal-
colare che cosa succederebbe, ecc. Per contro, la possibilità metafisica a cui si
riferiscono gli autori che stiamo discutendo è quella assoluta, cioè indipendente
dalle leggi di natura.
La concezione della metafisica come scienza del possibile si basa sul concetto
di possibilità metafisica precedentemente tratteggiato: questi filosofi credono che
il loro lavoro consista nell’esplorare che cosa, in questo senso mediano tra possi-
bilità logica e nomologica, potrebbe esistere e quali caratteristiche fondamentali
potrebbe avere. Più che la sua caratterizzazione ontologica, il dibattito sulla pos-
sibilità metafisica si concentra prevalentemente sulla possibilità di averne accesso
epistemico; pertanto, in quanto segue ci concentreremo principalmente su questo
aspetto. Spesso in letteratura si associa alla possibilità metafisica la possibilità di
concepire uno scenario46: se si riesce a pensare a uno stato di cose, come ad esem-
pio un mondo abitato unicamente da due oggetti identici, allora tale stato di cose è
metafisicamente possibile47. L’esperimento mentale però non è l’unica metodolo-
gia propria di questo modo di intendere la metafisica a priori. Al fine di esplorare le
possibilità metafisiche, questi autori utilizzano linguaggi formali. Concretamente,
il loro lavoro consiste nel partire da un concetto generico, come ad esempio quello
di «essere parte di»48 o «essere collocati nella regione x»49, per poi regimentarlo in
un linguaggio formale; muovendo da un insieme di assiomi diversi che regolano
46
Si veda p. es. la raccolta T.S. Gendler - J. Hawthorne (eds.), Conceivability and Possibility,
Clarendon Press, Oxford 2002.
47
Questa posizione è sostenuta p. es. in D.J. Chalmers, The Conscious Mind: In Search of a
Fundamental Theory, Oxford University Press, Oxford 1996; tr. it. di A. Paternoster - C. Meini, La
mente cosciente, McGraw-Hill, Milano 1999.
48
P. Simons, Parts: A Study in Ontology, Oxford University Press, Oxford 1987.
49
J. Parsons, Theories of Location, in D. Zimmerman (ed.), Oxford Studies in Metaphysics.
Volume 3, Oxford University Press, Oxford 2007, pp. 201-233.
922 alberto corti - vincenzo fano
tali nozioni, si possono creare molteplici sistemi in cui lo stesso concetto denota
strutture metafisiche differenti. In questo modo, si può ad esempio esplorare un
mondo possibile in cui, dati due oggetti qualsiasi, essi compongono sempre un
terzo oggetto, oppure un mondo in cui non esistono oggetti compositi, o ancora un
mondo in cui la relazione di composizione può essere indeterminata50. Otteniamo
così che il nostro concetto si riferisce a strutture metafisiche assai diverse tra loro,
ognuna caratterizzata in un sistema differente (ovvero un insieme di assiomi spe-
cifici). L’insieme di tutte queste nozioni stabilite formalmente a priori dovrebbe
rappresentare tutte le strutture metafisiche a cui il concetto potrebbe riferirsi.
Configurata in questo modo, come disciplina puramente a priori, la metafisica
viene intesa da questi autori come concettualmente «più fondamentale» rispet-
to alle altre scienze. Infatti, dal momento in cui i concetti metafisici sarebbero
assunti e utilizzati (ma mai definiti) anche dagli scienziati, le scienze empiriche
si fonderebbero sulle strutture di interesse metafisico: le strutture studiate dai
metafisici sarebbero condizione necessaria per la comprensione dell’oggetto di
studi delle altre scienze. Si prenda ancora come esempio il concetto di «parte»,
il cui sviluppo ha dato vita a una sotto-branca della metafisica chiamata «mereo-
logia»51. Molti scienziati usano il concetto di parte senza aver tematizzato questa
nozione mereologica: ad esempio quando un chimico sostiene che «quell’atomo
è parte di quella molecola» o quando un biologo afferma che «gli arti anteriori
sono parte di quell’animale» o ancora un fisico descrive «due sistemi chiusi ma
non isolati come parti di un sistema fisico più grande»; ma secondo tale modo
a priori di intendere la metafisica, dal momento che quest’ultima indaga il con-
cetto di parte nelle sue condizioni di possibilità metafisica, tale studio precede-
rebbe concettualmente quello delle altre forme di sapere. Pertanto il concetto
mereologico di «parte» sarebbe la base di quanto assunto dagli scienziati: la
relazione di parte e tutto che unisce un certo tipo di entità di interesse scientifico
sarebbe solo una tra quelle metafisicamente possibili; se il compito degli scien-
ziati è quello di determinare in che modo le entità scientifiche possono essere
parte di altre, il compito dei metafisici sarebbe quello di esplorare in generale
i possibili modi in cui un’entità possa dirsi parte di un’altra. Discorso analogo
vale per ogni altra struttura della realtà di interesse metafisico, quale quella di
proprietà, dipendenza ecc. Per questo ordine di ragioni, alcuni autori ritengo-
no che la metafisica così intesa sia epistemologicamente prioritaria rispetto alle
scienze empiriche; tale tesi implicherebbe che la comprensione profonda della
realtà sia quella metafisica e non quella scientifica.
50
Cfr. A.C. Varzi, Mereology, in E.N. Zalta (ed.), The Stanford Encyclopedia of Philosophy
(Spring 2019 Edition), https://plato.stanford.edu/archives/spr2019/entries/mereology.
51
La mereologia introdotta da Leśniewski è un linguaggio formale nato dalla regimentazione
logica delle nozioni di «composizione», «parte» e «tutto». Si vedano i testi citati nelle note 48 e 49.
la metafisica è morta! lunga vita alla metafisica! 923
52
Ladyman - Ross, Every Thing Must Go, pp. 16 ss., 47 ss.
53
Contra quanto sostiene p. es. T. Hofweber, Ambitious, yet Modest, Metaphysics, in Chalmers
- Manley - Wasserman, Metametaphysics, pp. 260-289.
54
Cfr. S. French - K. McKenzie, Rethinking Outside the Toolbox: Reflecting Again on the Rela-
tionship between Metaphysics and Philosophy of Physics, in T. Bigaj - C. Wüthrich (eds.), Meta-
physics in Contemporary Physics, Brill - Rodopi, Leiden - Boston 2015 (Poznan Studies in the Phi-
losophy of Science and Humanities, 104), pp. 25-54.
55
In una prospettiva platonica questo punto di vista potrebbe essere giustificato. Resta aperto il
problema di motivare adeguatamente tale concezione.
924 alberto corti - vincenzo fano
Si potrebbe obiettare che vi sia una sorta di circolarità in tutto ciò: acquisia-
mo informazioni empiricamente e tali informazioni giustificano che cosa potrebbe
esistere o potremmo conoscere. Crediamo però che tale circolarità sia di fatto ine-
liminabile e non, in ultima analisi, dannosa. Per quello che ne sappiamo, l’unica
forma di informazione è quella che acquisiamo a partire dai nostri sensi e non
attraverso l’intuizione a priori o la mera formalizzazione logica. Pertanto, data
l’umana condizione epistemica, non appare esserci alcun fondamento più sicu-
ro per la conoscenza se non quello costruito a partire dai dati empirici56. Sembra
ragionevole infatti sostenere che la nostra esperienza di questi concetti sia almeno
una guida parziale alla regimentazione delle nozioni metafisiche a cui siamo inte-
ressati57. La conoscenza scientifica è incentrata sulla concreta spiegazione di feno-
meni particolari. La metafisica invece nasce come quel bisogno umano di superare
la conoscenza specifica per acquisire una conoscenza più generale e astratta, vale-
vole per tutte le situazioni concrete di un determinato tipo. Dato che la metafisica
nasce da un bisogno umano, concordiamo con Kant che «una certa metafisica c’è
sempre stata e ci sarà sempre nel mondo»58. La messa a punto dei concetti metafi-
sici necessari per questa ricerca è quindi frutto di pulsioni e necessità parzialmente
culturali e parzialmente proprie della natura umana. Ci sembra ragionevole crede-
re quindi che queste regimentazioni non possono essere puramente a priori, come
ritengono alcuni, poiché necessariamente influenzate e condizionate dalla nostra
esperienza. Esse sono il risultato di una negoziazione tra quanto ci viene suggerito
dalle scienze empiriche e la nostra sete di conoscenza.
Ci sembra di poter affermare che tale critica sia abbastanza conclusiva nei
confronti della concezione di metafisica come analisi concettuale svolta unica-
mente a priori59.
La formalizzazione dei concetti usati non sarebbe sufficiente quindi a dir-
ci qualcosa di come la realtà sia fatta o possa essere fatta; piuttosto, l’impie-
go di linguaggi formali fa sorgere il dubbio stesso sulla nozione di possibilità
metafisica. Dal momento che tali linguaggi formali sono sostanzialmente siste-
mi logici, se attraverso questi deduciamo la possibilità metafisica, sembra che
quest’ultima si riduca a quella logica: piuttosto che essere autonoma, la possibi-
lità metafisica perciò non è differente da quella logica.
56
Questo, come argomentato in precedenza, non significa che dobbiamo credere all’esistenza
unicamente di ciò che percepiamo direttamente; piuttosto, tale condizione ci obbliga a considerare
un vincolo fenomenologico nei confronti di quelle entità che, postulate dalle nostre migliori teorie
scientifiche, sono però direttamente non osservabili (cfr. § 2).
57
Cfr. E. Machery, Philosophy Within its Proper Bounds, Oxford University Press, Oxford 2017.
58
Kant, Critica della ragion pura, B XXXI, p. 53.
59
Considerazioni analoghe si possono probabilmente fare con il progetto di analisi dei concetti
a priori proposta da F. Jackson, From Metaphysics to Ethics: A Defence of Conceptual Analysis,
Oxford University Press, Oxford 1998.
la metafisica è morta! lunga vita alla metafisica! 925
60
Cfr. Machery, Philosophy Within its Proper Bounds.
61
Cfr. Chalmers, The Conscious Mind: In Search of a Fundamental Theory.
62
D.C. Dennett, The Unimagined Preposterousness of Zombies, «Journal of Consciousness
Studies», 2 (1995), 4, pp. 322-326.
926 alberto corti - vincenzo fano
63
Quelli concernenti la relatività generale a seconda del modello di spazio-tempo considerato,
quelli concernenti la meccanica quantistica a seconda dell’interpretazione del formalismo assunta.
64
L’argomento esposto nell’ultimo capoverso si basa sull’accesso epistemico che noi abbiamo
rispetto alle possibilità logiche e metafisiche, contrariamente a quanto fatto in precedenza, dove ne
abbiamo parlato in termini assoluti (cfr. supra, nota 46).
la metafisica è morta! lunga vita alla metafisica! 927
65
Cfr. Fine, The Question of Ontology; Schaffer, On What Grounds What; T. Sider, Writing the
Book of the World, Oxford University Press, Oxford 2011.
928 alberto corti - vincenzo fano
66
Cfr. Morganti, Combining Science and Metaphysics.
67
Sebbene non la prenderemo in considerazione, un’ulteriore possibilità è quella di considerare
la metafisica come riflessione su ciò che non è naturale.
68
Cfr. D. Lewis, Humean Supervenience Debugged, «Mind», 103 (1994), 412, pp. 473-490.
69
Cfr. M. Dorato - M. Esfeld, The Metaphysics of Laws: Dispositionalism vs. Primitivism, in
Bigaj - Wütrich, Metaphysics in Contemporary Physics, pp. 403-424.
70
Cfr. V. Fano, Comprendere la scienza, Liguori, Napoli 2005, cap. 3; T. Maudlin, The Metaphy-
sics Within Physics, Oxford University Press, Oxford 2007, p. 15; S. Doplicher, Mondo quantistico
e umanesimo, Carocci, Roma 2018.
la metafisica è morta! lunga vita alla metafisica! 929
ricopre nella vita di tutti i giorni, ci sembra che esso non abbia quasi alcun ruolo
da giocare all’interno della metafisica: il modo in cui è fatto il mondo è indipen-
dente da come la maggioranza di una data società crede che esso sia costituito71.
Un secondo problema concerne invece il primo criterio, ovvero il rapporto tra
questo tipo di metafisica e le scienze empiriche. Esso non consiste ovviamente
nel suo disaccordo con le nostre migliori teorie scientifiche: quasi nessuno, nel-
la letteratura contemporanea, sostiene apertamente che in caso di contraddizione
vada salvata una tesi filosofica piuttosto che una teoria scientifica; il problema
risiede piuttosto nel fatto che chi accetta questo tipo di metafisica si limita a pre-
tendere unicamente una compatibilità con le teorie scientifiche. Ma tale requi-
sito sembra di per sé insufficiente a giustificare, fornendo un terreno sicuro, la
conoscenza metafisica. In primo luogo perché non è chiaro quale sia la fonte
gnoseologica che ci permette a priori di conoscere le verità metafisiche. Questo
perché, come argomentato precedentemente, è misterioso che cosa renda episte-
micamente accessibile una conoscenza che trascenda il nostro accesso empirico
al mondo72. In secondo luogo perché la metafisica è fortemente sottodeterminata
rispetto alle teorie scientifiche: spesso data una teoria scientifica e una struttura
metafisica, quest’ultima può essere declinata in diversi modi compatibili con la
prima; tali tesi metafisiche opposte, pur non contraddicendo la teoria scientifica
in questione, non forniscono nemmeno predizioni differenti empiricamente con-
trollabili. Pertanto appare impossibile scegliere, a parità di condizioni, tra le due
tesi. In altri termini, la compatibilità con le nostre migliori teorie scientifiche
non è sufficiente, se non vogliamo ricorrere unicamente alle virtù super-empi-
riche, a stabilire quale teoria metafisica sia migliore rispetto a quelle possibili.
Infine, da un punto di vista storico (anche restringendo la discussione solo
ai metafisici) il tentativo di stabilire a priori come sia fatta la realtà, non ha mai
raggiunto in nessuna epoca storica un consenso nemmeno parziale. Questo dato
di fatto sembra essere sufficiente per formulare una sorta di «meta-induzione
pessimista»73: il fatto che ogni visione metafisica (proposta da un gruppo o da
un singolo autore) sia stata continuamente rimpiazzata dalle altre, sembra sug-
gerire che non si hanno ragioni per credere che le teorie proposte dai metafisici
71
Si noti bene che il vincolo fenomenologico esposto precedentemente (che le teorie scientifiche
devono avere una spiegazione del perché non percepiamo ciò che esiste secondo dette teorie) è qual-
cosa di diverso rispetto alla coerenza col senso comune. Il vincolo fenomenologico richiede infatti che
la spiegazione del perché la nostra esperienza differisca da una descrizione scientifica ci venga fornita
da teorie scientifiche sulla percezione; inoltre è richiesta una coerenza solo con la nostra immediata
esperienza diretta. Solitamente chi ritiene l’accordo col senso comune un vantaggio per una teoria
metafisica ha qualcosa di più forte in mente: una coerenza non solo con la nostra diretta esperienza ma
anche col modo abituale che abbiamo di parlare e di pensare determinati fenomeni.
72
Cfr. Ladyman - Ross, Every Thing Must Go, pp. 17 ss.
73
Cfr. ibi, pp. 20 ss.; cfr. Kant, Critica della ragion pura, B XIV-XVI, pp. 43-44; B XXXI-
XXXIII, pp. 53-54.
930 alberto corti - vincenzo fano
74
M. Morganti - T. Tahko, Moderately Naturalistic Metaphysics, «Synthese», 194 (2017), 7,
pp. 2557-2580.
75
Si tenga conto che certamente la matematica è una forma peculiare di conoscenza a priori.
Perciò un metafisico a priori potrebbe sostenere un’analogia con la sua disciplina. La matematica
però, al contrario di alcuni modi di concepire la metafisica analitica, non ha la pretesa di descrivere
a priori il mondo concreto; infatti la matematica ci dice qualcosa sul mondo nella misura in cui è
applicata nelle altre scienze empiriche.
76
Morganti - Tahko, Moderately Naturalistic Metaphysics, p. 2662.
77
Ibi, p. 2563.
78
Ibidem.
la metafisica è morta! lunga vita alla metafisica! 931
79
Cfr. Hofweber, Ambitious, yet Modest, Metaphysics; A. Ney, Neo-Positivist Metaphysics,
«Philosophical Studies», 160 (2012), 1, pp. 53-78; J. Wilson, Three Dogmas of Metaphysical Meth-
odology, in M. Haug (ed.), Philosophical Methodology: The Armchair or the Laboratory?, Rout-
ledge, Abingdon - New York 2013, pp. 145-165; M. Esfeld, Metaphysics of Science as Naturalized
Metaphysics, in A. Barberousse - D. Bonnay - M. Cozic (eds.), The Philosophy of Science. A Com-
panion, Oxford University Press, Oxford 2018, pp. 142-170.
932 alberto corti - vincenzo fano
80
Si potrebbe obiettare che tale concezione di metafisica assuma un qualche tipo di realismo
scientifico (ovvero la tesi secondo cui le nostre migliori teorie scientifiche sono descrizioni almeno
approssimativamente vere della realtà). Sebbene questo sia vero, la metafisica naturalizzata non è
l’unica a fare tale assunzione, dal momento che è propria anche della metafisica neo-quineana e della
metafisica come indagine delle strutture ultime della realtà. In ogni caso, dal momento che scopo
dell’articolo è quello di delineare diversi modi di concepire la relazione tra metafisica e scienze
empiriche, un qualche tipo di realismo scientifico è implicito fin dall’inizio.
81
Che la metafisica contemporanea debba ispirarsi alla filosofia naturale moderna è stato soste-
nuto esplicitamente da Esfeld, Metaphysics of Science as Naturalized Metaphysics.
la metafisica è morta! lunga vita alla metafisica! 933
82
Hofweber, Ambitious, yet Modest, Metaphysics, p. 267.
83
Qui non ci riferiamo all’analisi concettuale nel senso di Jackson, quanto alla nozione carna-
piana di esplicazione. Si veda p. es. J. Justus, Carnap on Concept Determination: Methodology for
Philosophy of Science, «European Journal for Philosophy of Science», 2 (2012), 2, pp. 161-179.
84
Cfr. S. French - D. Krause, Identity in Physics: A Historical, Philosophical, and Formal Anal-
ysis, Oxford University Press, Oxford 2006.
934 alberto corti - vincenzo fano
Tale principio è troppo restrittivo: infatti anche all’interno di una singola teoria la
metafisica è in grado di svolgere un lavoro esplicativo, fornendo un’immagine del
mondo più chiara di quella presentata dagli scienziati. In secondo luogo, la critica
che Ladyman e Ross svolgono contro la metafisica analitica contemporanea elimina,
insieme agli aspetti negativi, anche quelli positivi. I due autori ad esempio polemiz-
zano aspramente contro la mereologia87, al punto da far credere che l’intera disci-
plina sia, di per sé, insensata. Hanno parzialmente ragione nel criticare chi crede
fermamente che vi sia una sola vera mereologia88, ovvero un solo insieme di assiomi
che descriva in tutti i casi possibili come le parti siano in relazione ai rispettivi inte-
ri che compongono89. Infatti, come argomentato in precedenza, che vi sia un’uni-
ca relazione di composizione è una tesi non suffragata dalle nostre migliori teorie
scientifiche in quanto queste ultime impiegano evidentemente concetti differenti.
Tuttavia, questo fatto non è sufficiente per considerare l’intero linguaggio formale
85
P. es. anche Morganti e Thako chiamano «moderatamente naturalizzato» il loro approccio alla
metafisica, come si può già desumere dal titolo del loro articolo, Moderately Naturalistic Metaphysics.
86
Ladyman - Ross, Every Thing Must Go, p. 30.
87
Cfr. supra, note 48 e 49.
88
Come già argomentato, pur non essendo in disaccordo, tale ipotesi non è comunque giustifica-
ta dalle nostre migliori teorie scientifiche; pertanto, non vi sono al momento ragioni sufficienti né per
accoglierla né per rigettarla.
89
Al fine di evitare ambiguità, espliciteremo ulteriormente il nostro pensiero: non è sbagliata o
folle l’idea per cui esiste una sola relazione metafisica di «essere parte di»; tuttavia le attuali scienze
empiriche descrivono delle relazioni di appartenenza assai diverse tra loro, perciò non abbiamo suf-
ficienti ragioni di credere (o non) che tale relazione esista.
la metafisica è morta! lunga vita alla metafisica! 935
come inutile. La formalizzazione della relazione di parte può essere utilizzata infatti
per cercare di rappresentare, in modo più chiaro, come è fatto il mondo a partire da
singole teorie scientifiche. In altri termini, il linguaggio formale della mereologia
può aiutarci a esplicitare quella famiglia di concetti di «essere parte di» e a mostrare
come le differenti scienze empiriche utilizzino implicitamente nozioni mereologi-
che diverse. Inoltre, se una certa nozione di «parte» è intrinseca a un dato framework
scientifico e questo framework è soddisfatto in un certo ambito della realtà, abbiamo
buoni motivi per giustificare l’asserzione metafisica che quel dominio di oggetti è
caratterizzata da quella nozione di «parte».
Ad esempio, uno dei punti più dibattuti dalla metafisica analitica contemporanea,
a proposito di mereologia, è il cosiddetto «principio di composizione non-ristretto
(unrestricted composition principle)». Esso afferma che, dati due oggetti qualsiasi,
questi sono sempre parti di un terzo oggetto90. Sebbene discutere della validità di
tale principio, in generale, non abbia basi epistemiche sufficienti, ciò malgrado inda-
garne la valenza all’interno di singole teorie scientifiche è un compito importante
della metafisica. Si prenda in esame il seguente semplice esempio. Consideriamo la
dinamica newtoniana, applicata agli oggetti concreti; una tale teoria risulta sufficien-
te se si è interessati a descrivere l’evoluzione di un insieme di palle da biliardo che
rotolano su un tavolo. In questo modello, decidiamo di assumere che ogni oggetto
della teoria viene rappresentato idealmente sempre e solo da un punto materiale, che
ha simmetria sferica rispetto al suo centro di massa. Ogni entità che nel modello non
è rappresentata da un punto materiale, quindi, non può essere considerata un oggetto
concreto. In questo semplice modello newtoniano è immediato vedere come il prin-
cipio di composizione non ristretto non valga: la somma mereologica di due punti,
infatti, non potendo a sua volta essere un punto materiale, non può essere conside-
rata un oggetto nel nostro modello91. Pertanto, all’interno del modello il principio di
composizione non ristretto non vale92.
Nonostante la banalità dell’esempio, esso è in grado di mettere in luce due
aspetti fondamentali del nostro modo di concepire la metafisica: l’impiego di
modelli formali e l’importanza della località ontologica. Discuteremo ora breve-
mente questi due aspetti significativi per la nostra impostazione.
Punto di partenza delle scienze empiriche è solitamente l’analisi di fenomeni
molto limitati; questi fenomeni vengono modellati formalmente attraverso un pro-
cesso di «idealizzazione»; in poche parole, una situazione reale viene semplificata
90
Questa è una caratterizzazione intuitivamente più chiara ma meno precisa di quella standard: per
ogni condizione F che vale di una certa classe di oggetti, esiste la somma mereologica di quegli oggetti.
91
Si tenga presente che un punto materiale non è puntiforme, ma sufficientemente piccolo che il
suo volume possa essere fisicamente trascurato.
92
I concetti a priori della metafisica e i termini teorici della scienza instaurano rapporti diffe-
renti con i dati sperimentali; questo perché i primi sono esterni alla rete teorica delle scienze. Quale
sia l’effettiva relazione tra le nozioni metafisiche e le teorie scientifiche confermate è un problema
aperto che certo questo semplice esempio non risolve. Vorremmo affrontare tale questione in futuro.
936 alberto corti - vincenzo fano
93
Cfr. T. Williamson, Model-Building in Philosophy, in R. Blackford - D. Broderick (eds.),
Philosophy’s Future, Wiley Online Library, Hoboken 2017.
94
Si pensi p. es. alla tensione che vi è tra meccanica quantistica e relatività. Quello di creare tale
la metafisica è morta! lunga vita alla metafisica! 937
ipotetica teoria del tutto, capace di spiegare ogni fenomeno fisico, quanto alle enor-
mi difficoltà che si incontrano nel far dialogare due teorie diverse che si occupano
però (parzialmente) dei medesimi fenomeni; come esempio si potrebbe considerare
la quasi impossibilità numerica dello spiegare in termini quanto-meccanici com-
plesse reazioni chimiche. Siccome molti aspetti della realtà sfuggono ancora, oggi,
a una visione scientifica unificante, una metafisica che parte dalle nostre migliori
teorie scientifiche non è in grado di scoprire «la vera relazione di parte», «la vera
essenza delle proprietà». Pertanto consapevolezza della metafisica naturalizzata è
che l’analisi di ogni concetto indagato sia sempre limitata e valevole solamente
all’interno del dominio di quella data teoria, ovvero nei confronti di quei fenomeni
su cui tale teoria si applica. La generalizzazione di questa analisi segue tale lavoro
realizzato sulle singole teorie e non lo precede: che la natura presenti strutture omo-
genee è qualcosa che va scoperto e non presupposto.
Allo stesso tempo questo stretto legame con le scienze empiriche impone alla
metafisica naturalizzata di accettare il proprio carattere fallibilista: come vi è
una non trascurabile probabilità che le nostre migliori teorie scientifiche attuali
si scopriranno almeno in parte false in futuro, anche la metafisica oggi giusti-
ficata dovrà probabilmente essere almeno parzialmente rivista. Forti di questa
consapevolezza, i metafisici dovrebbero imparare a non innamorarsi delle pro-
prie tesi per difenderle strenuamente. Lo scopo della ricerca metafisica non è
quello di «vendere» o «comprare» una tesi che salvi il senso comune, le nostre
intuizioni o le nostre preferenze, quanto piuttosto quello di comprendere come è
fatto il mondo. Per far ciò, quindi, la ricerca deve avere sia un saldo punto di par-
tenza, ovvero le migliori teorie che abbiamo del mondo stesso, sia essere priva
di pregiudizi e preferenze basate sull’intuizione. Tale consapevolezza però non
giustifica alcun pessimismo. Come argomentato precedentemente, i metodi del-
la metafisica analitica a priori (ad esempio l’utilizzo dell’intuizione, delle virtù
super-empiriche, ecc.) sono inaffidabili e pertanto non forniscono una guida alla
conoscenza. Tuttavia, tale fallibilità è ben diversa da quella insita nel progetto
scientifico; le scienze empiriche infatti si fondano su un processo incrementale
di conoscenza (si pensi alla metodologia prima tratteggiata per cui si parte da un
modello idealizzato, e quindi almeno in parte falso, e poco alla volta esso viene
reso più realistico), che caratterizza parzialmente la nozione stessa di progresso
scientifico95. Tale fallibilità è quindi parte essenziale di quella metodologia di
cui abbiamo buone ragioni per credere sia la migliore strada per indagare la
visione omogenea del mondo giustificata scientificamente è uno dei compiti, ma non l’unico, come
sostenuto da Ladyman e Ross, della metafisica naturalizzata.
95
Che il progresso scientifico sia cognitivamente incrementale è controverso. Si veda p. es.
L. Laudan, Progress and its Problems: Toward a Theory of Scientific Growth, University of Califor-
nia Press, Berkeley - Los Angeles 1977; tr. it. di E. Riverso, Il progresso scientifico. Prospettive per
una teoria, Armando, Roma 1979.
938 alberto corti - vincenzo fano
96
Fissando un valore del tempo si può sempre trovare l’insieme di punti evento che hanno la
medesima coordinata temporale, al contrario della relatività in cui il piano di simultaneità dipende
dallo stato del sistema di riferimento scelto.
la metafisica è morta! lunga vita alla metafisica! 939
altra attività, portata avanti da esseri umani, essa non può sfuggire a idiosincra-
sie, interessi privati o preferenze personali. Pertanto spesso tale sottodermina-
zione è frutto di analisi effettivamente equivalenti la cui diversità è data dalla
preferenza dei singoli autori nei confronti di determinati concetti piuttosto che
altri; spesso quindi la sottodeterminazione è un fatto prettamente convenziona-
le97. Come scegliere tra due teorie metafisicamente equivalenti è ovviamente un
processo delicato e controverso, ma non privo di risposte98.
Infine, per quanto riguarda la seconda obiezione (che la metafisica naturaliz-
zata così presentata non farebbe altro se non ripetere quanto detto dagli scienzia-
ti) vi sono due ordini di risposte. Innanzitutto va ricordato che l’interesse degli
scienziati è principalmente quello di creare nuovi modelli matematici e di con-
trollarne l’effettiva capacità predittiva. Pertanto spesso gli scienziati non sono
interessati alla domanda «come sarebbe il mondo se tale teoria fosse vera?»,
quanto lo sono alla domanda «quali basi empiriche abbiamo per considerare tale
teoria vera?». Inoltre il fatto che metafisica e scienza non siano sempre separa-
bili nettamente non significa che allora la metafisica consista in una ripetizione
di quello che dicono gli scienziati; piuttosto, tale fatto mostra come il confine tra
scienza e metafisica sia meno netto di quanto solitamente non si voglia credere.
Effettivamente il lavoro di alcuni scienziati si sovrappone a quello dei metafisici
naturalizzati, ma non per questo i secondi devono limitarsi a ripetere quanto
detto dai primi. Piuttosto, la metafisica sarebbe una parte fondamentale della
conoscenza scientifica del mondo e quindi i metafisici dovrebbero attivamente
svolgere un ruolo positivo all’interno delle scienze in collaborazione, e non in
contrapposizione né subordinazione, con gli scienziati. Questo è tanto più vero
proprio in quanto da una medesima formalizzazione di una teoria, sono giustifi-
cabili diverse metafisiche possibili.
Inoltre, la metafisica può essere in tensione anche con le visioni più comuni
fornite dalla scienza empirica. In altri termini la metafisica può proporre modelli
della realtà diversi e formulare esperimenti in grado di confermarli o confutarli
indirettamente. Si pensi ad esempio al teorema di Bell in meccanica quantistica,
che dimostra come, assumendo località e separabilità, non vi possa essere un’in-
terpretazione a variabili nascoste della meccanica quantistica99. In poche parole il
97
Questo fatto non è sufficiente per avvalorare l’ipotesi che siamo noi, attraverso i nostri concetti
a creare il mondo, in quanto la metafisica che noi difendiamo è frutto di un’indagine scientifica del
mondo che si basa, in primis, sulla conferma empirica.
98
J. Benovsky, Meta-Metaphysics. On Metaphysical Equivalence, Primitiveness, and Theory
Choice, Springer, Cham (CH) 2016.
99
Per una presentazione accessibile si veda D.N. Mermin, Is the Moon There When Nobody
Looks? Reality and Quantum Theory, «Physics Today», 38 (1985), 4, pp. 38-47. Per un’introduzione
dettagliata si veda W. Myrvold - M. Genovese - A. Shimony, Bell’s Theorem, in E.N. Zalta (ed.),
The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Spring 2019 Edition), https://plato.stanford.edu/archives/
spr2019/entries/bell-theorem.
940 alberto corti - vincenzo fano
100
P. Suppes - M. Zanotti, On the Determinism of Hidden Variable Theories with Strict Correla-
tion and Conditional Statistical Independence of Observables, in P. Suppes (ed.), Logic and Proba-
bility in Quantum Mechanics, Reidel, Dordrecht 1976, pp. 445-455.
101
Seguendo A. Fine, Do Correlations Need to Be Explained?, in J. T. Cushing - E. McMullin
(eds.), Philosophical Consequences of Quantum Theory, University of Notre Dame Press, Notre
Dame 1989, pp. 175-194.
102
Cfr. J. Earman, A Primer on Determinism, Reidel, Dordrecht 1986, cap. 11.
103
Questa nozione di «revisionismo» è ancora più radicale, e non va confusa con quella pre-
sente in P.F. Strawson, Individuals, Routledge, London - New York 1959; tr. it. di E. Bencivegna,
Individui. Saggio di metafisica descrittiva, Mimesis, Milano - Udine 2008.
la metafisica è morta! lunga vita alla metafisica! 941
6. Conclusione
Nel corso dell’articolo abbiamo presentato quattro modi di intendere la metafisica,
che sono rilevanti e diffusi nella letteratura analitica contemporanea. I primi tre
approcci da noi delineati – la metafisica neo-quineana, la metafisica come scienza
del possibile e la ricerca delle strutture ultime della realtà – sono accomunati dal
metodo, sostanzialmente a priori, di indagare la realtà. A ognuna di queste inter-
pretazioni della metafisica abbiamo dedicato un apposito paragrafo in cui abbia-
mo mostrato i limiti e le problematicità di tali posizioni. Se solitamente chi accetta
le critiche che abbiamo mosso alla metafisica analitica ne conclude che tale disci-
plina andrebbe abbandonata, noi crediamo invece che vi sia un modo positivo di
intendere tale attività. Spinti dall’idea che comprendere le strutture generali della
natura sia un bisogno necessario dell’uomo, e che pertanto «una certa metafisi-
ca c’è sempre stata e ci sarà sempre nel mondo», concordiamo con Kant che «il
primo e più importante compito della filosofia sarà pertanto quello di sottrarre la
metafisica ad ogni influsso dannoso»104.
Nell’ultimo paragrafo abbiamo quindi presentato l’approccio alla metafisica che
sembra imporsi nella letteratura più recente, che va sotto il nome di «metafisica natu-
ralizzata». Abbiamo argomentato che tale approccio alla metafisica non solo può
ereditare i punti di forza della metafisica analitica a priori, ma soprattutto è in grado
di superarne gli aspetti problematici. In particolare, la speranza di tale approccio alla
metafisica consiste nel tentativo di riavvicinare la filosofia alle scienze empiriche;
in questo modo la metafisica potrebbe partecipare allo sforzo unitario, promosso
dalle scienze empiriche, di comprendere il mondo che ci circonda. La metafisica
naturalizzata non si sta imponendo unicamente nella letteratura filosofica, ma sta
riscuotendo interesse anche da parte di alcuni scienziati. Sempre più ricercatori
infatti guardano con interesse alla filosofia, nella speranza che essa possa essere di
aiuto nel chiarificare le proprie teorie105. Crediamo davvero che un mutuo e costan-
te dialogo tra filosofi e scienziati potrebbe portare numerosi benefici a entrambe le
discipline. La speranza quindi è anche quella di colmare un divario comunicativo
che divide la comunità filosofica e quella scientifica106.
104
Kant, Critica della ragion pura, B XXXI, p. 53.
105
Cfr. C. Rovelli, Physics Needs Philosophy. Philosophy Needs Physics, «Foundations of
Physics», 48 (2018), 5, pp. 481-491; M. Pigliucci, Science Needs Philosophy, «The Australian
Humanist», 108 (2012), p. 16.
106
Parte di queste idee sono state presentate al Center for philosophy of science dell’Università
di Pittsburgh, all’Università Cattolica di Milano e al Inter-University Center di Dubrovnick. Ringra-
ziamo tutti coloro che in queste occasioni ci hanno fornito utili commenti. Ringraziamo infine due
anonimi referee per le loro osservazioni e critiche estremamente puntuali.
Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, CXII (2020), 4, pp. 943-967
ISSN: 00356247 (print) - 18277926 (digital)
DOI: 10.26350/001050_000226
The aim of this paper is to investigate some proposals about the possibility of metaphysics. In
particular, we want to focus on the relationships between the justification procedures used in
empirical sciences and in metaphysics. We develop three models of meta-metaphysics, that is
Metaphysics Through Physics, (MTP); Metaphysics Through Physics or Logic, (MTPL); and
Metaphysics Constrained by Physics or Logic, (MCPL) and we argue that the latter is able to
guarantee an autonomous field of enquiry for metaphysics.
1. Introduzione
In filosofia è difficile trovare grandi novità e la riflessione sulla struttura stessa
della metafisica, ovvero sulla sua essenza e sulle sue condizioni di possibilità,
non fa certo eccezione. Fin dall’elaborazione greca, ci si è chiesti quale fosse
il ruolo della metafisica nell’edificio del sapere e, seppure a livello embrionale,
non sono mancate riflessioni critiche sui suoi metodi, nella misura in cui questi
si distanziano da quelli impiegati in altre discipline teoriche. Che la questione
circa il destino della metafisica sia deflagrata con l’età moderna è un’altra nota
non particolarmente nuova, ed è stata proprio la scienza moderna ad innesca-
re questo genere di meta-riflessione: non è certo un caso che la più profonda
disamina classica circa la possibilità della metafisica sia da ascrivere a Kant, al
culmine dell’epoca moderna.
Anche oggi la comunità filosofica continua ad interrogarsi sulla metafisica,
sulla sua legittimità e sui rapporti che intrattiene con altri saperi, sia filosofici
*
Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano. Email: ciro.deflorio@unicatt.it
**
Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano. Email: alessandro.giordani@unicatt.it
Received: 20.05.2020; Approved: 04.06.2020.
944 ciro de florio - alessandro giordani
che generali1. Vi sono tre ragioni (sia concettuali che, potremmo dire, sociologi-
che) che aiutano a spiegare questo fenomeno. In primo luogo, la centralità degli
studi di metafisica nel panorama attuale2. In secondo luogo, una componente
importante delle diverse filosofie della scienza (filosofia della matematica, della
fisica, della biologia, dell’economia e così via) è dedicata allo studio della por-
tata ontologica dei modelli costruiti dalle scienze in questione. Lo si vede chia-
ramente sia nel caso dell’ontologia delle scienze fisiche – e torneremo su questo
punto, dove le questioni fondazionali e interpretative delle teorie più generali
si fondono con problemi di carattere metafisico – sia nel caso di discipline i
cui domini differiscono da quelli delle scienze empiriche (con questo termine
intendiamo le scienze propriamente naturali): si pensi, a titolo esemplificativo,
all’espansione delle ontologie sociali. In terzo luogo, l’attenzione alla meta-
metafisica è animata dalla più ampia riflessione circa la metodologia delle scien-
ze filosofiche in quanto tali: guardiamo al ruolo che svolgono gli esperimenti
mentali (sia in filosofia che nella scienza) o alle caratterizzazioni logiche della
concepibilità e dell’immaginazione che – almeno a partire da Hume – è stata
considerata la strada maestra per accedere al regno della possibilità.
In questo contesto si colloca il bel contributo di Vincenzo Fano e Alberto Corti
su questa Rivista (V. Fano - A. Corti, La metafisica è morta! Lunga vita alla meta-
fisica!) che a sua volta è figlio di un interessante convegno (Fisica e Metafisica,
tenuto il 24 gennaio 2018 presso l’Università Cattolica di Milano). Come ideale
prosecuzione delle molte questioni messe sul tavolo in quelle occasioni, in questo
lavoro tenteremo di argomentare a favore di una concezione della metafisica in gra-
do di mantenere una certa continuità con il sapere scientifico ma senza abdicare a
un dominio proprio di questioni e problemi3. Anticipiamo che il carattere di questo
articolo è fortemente in progress, concepito proprio come contributo a una discus-
sione viva e molto aperta. La struttura del paper è, quindi, la seguente: nel prossi-
mo paragrafo mostreremo due approcci molto generali, e diametralmente opposti,
alla metafisica; passeremo quindi a illustrare due ulteriori modelli di giustificazione
1
È rilevante in tal senso il volume collettaneo curato, ormai un decennio fa, da Chalmers, Man-
ley e Wasserman intitolato Metametaphysics (D. Chalmer - D. Manley - R. Wasserman [eds.],
Metametaphysics: New Essays on the Foundations of Ontology, Oxford University Press, Oxford
2009), a sottolineare l’aspetto meta-teorico dell’indagine. Le introduzioni di Berto e Plebani (F.
Berto - M. Plebani, Ontology and Metaontology: A Contemporary Guide, Bloomsbury Publishing,
London - Oxford - New York 2015) e di Tahko (T.E. Tahko, An Introduction to Metametaphysics,
Cambridge University Press, Cambridge 2015), (molto diverse per impostazione) così come la voce
di quest’ultimo sulla Routledge Encyclopedia of Philosophy (solo per citare alcuni lavori) conferma-
no che non si tratta di un ‘new black’; la riflessione metateorica sulla natura della metafisica ha piena
cittadinanza nel dibattito contemporaneo.
2
L’aggregatore PhilPapers segnala al momento in cui scriviamo oltre 44.000 lavori censiti sotto
la macro-area Metaphysics.
3
E questa è l’occasione giusta per ringraziare Vincenzo e Alberto per aver discusso così a lungo
su questi temi. Vorremmo anche ringraziare Sergio Galvan e Massimo Marassi per averci spronato a
scrivere questo articolo.
alcune ipotesi sulla possibilità della metafisica 945
della metafisica, con particolare enfasi sul tema della fondazione a priori. Infine,
nell’ultima parte, cercheremo di elaborare un modello che, pur presentando conti-
nuità con quelli precedenti, è in grado di rendere conto di alcuni problemi filosofici
genuini che faticano a trovare una collocazione nelle altre prospettive4.
4
Vale il solito disclaimer per cui i nostri intenti non sono né ricostruttivi né esegetici. In altri
termini, non ci interessa sapere se le posizioni effettivamente presentate siano totalmente fedeli al
pensiero di French o di Maudlin o di Aristotele (si parva licet). Lo scopo è argomentativo e le propo-
ste teoriche verranno valutate esclusivamente rispetto alla loro giustificazione.
5
Schaffer non si impegna ovviamente ad affermare che ogni proposta metafisica attualmente
discussa debba in qualche modo rientrare nella sua tassonomia (cfr. J. Schaffer, On What Grounds
What, in Chalmers - Manley - Wasserman, Metametaphysics, pp. 347-383).
946 ciro de florio - alessandro giordani
Il modello quineano prende molto sul serio l’immagine scientifica del mondo,
tanto da non lasciare, di fatto, alcun spazio alla metafisica: questa deriva dalla
scienza. La metafisica è ontologia e l’ontologia è ontologia della scienza.
Non è questa la sede per difendere o criticare l’approccio di Quine. In generale,
infatti, siamo piuttosto scettici sulla possibile efficacia di difese o critiche genera-
li, ovvero di prese di posizioni esterne, che non discutono o che non si confrontano
direttamente con la posizione in gioco, e crediamo, al contrario, che una certa
impostazione metafisica sia da vagliare nella concreta analisi di problemi specifi-
ci, e che solo così si possano ottenere passi in avanti nella conferma o meno di una
certa impostazione generale. Tuttavia, posto questo, ci sono almeno tre rilievi che
possono essere mossi all’impostazione quineana. Vediamoli in ordine.
In primo luogo, l’identificazione di metafisica e ontologia appare problema-
tica. Ci sono strutture metafisiche specifiche la cui analisi non è di pertinenza
dell’ontologia, tantomeno dell’ontologia piatta definita in precedenza. L’esempio
più noto – anche dal punto di vista storico, dal momento che ha impegnato lo stes-
so Quine – è quello della metafisica della modalità. Chiaramente, un sostenitore
della posizione quineana può rispondere e intraprendere una qualche strategia di
definizione della modalità. Si tratta però di una strada complicata, perché alcune
strutture metafisiche fondamentali sembrano resistere a riduzioni senza perdere
sensibilmente la capacità esplicativa. Nel caso specifico della modalità, poi, ci
sono alcuni risultati formali (quindi non negoziabili) che suggeriscono che, nella
sua interezza, la posizione di Quine non è sostenibile.
In secondo luogo, la derivazione dell’ontologia dalla scienza non è un processo
univoco e determinato. Le teorie scientifiche possono essere presentate in maniere
differenti, tutte empiricamente, ma non ontologicamente, equivalenti. L’operazio-
ne di esplicitazione degli impegni ontologici di una teoria è un punto cruciale per
il programma quineano, ma non è un passaggio banale. Il problema fondamentale
in questo senso è se ci possono essere metacriteri che regolano la traduzione delle
teorie e che, a loro volta, non implicano un riferimento a intuizioni metafisiche
precedentemente assunte.
Infine, un punto più generale: la proposta quineana si basa su determinate
assunzioni metafisiche, senza ulteriore discussione. Perché l’univocità dell’esi-
stenza dovrebbe essere una posizione maggiormente credibile rispetto alla plurali-
tà del significato di esistere? Perché, anche ammettendo l’univocità dell’esistenza,
si dovrebbe assumere che non ci sono tipi di esistenza differenti? Inoltre, perché
si dovrebbe ritenere che il ricorso alle teorie scientifiche sia in grado di dipanare
la questione su ciò che fondamentalmente esiste? e a quali teorie scientifiche si
dovrebbe ricorrere? In altri termini, l’impostazione quineana è già basata su una
metafisica di sfondo e come tale andrebbe adeguatamente giustificata. Il problema
alcune ipotesi sulla possibilità della metafisica 947
è che, in base alla stessa metodologia propugnata da questo approccio, sembra che
la giustificazione sia preclusa6.
L’altra metà del cielo è, secondo Schaffer, occupata da un programma che si
ispira più o meno direttamente alla concezione metafisica di Aristotele. Lo pos-
siamo chiamare, per comodità, programma neo-aristotelico, sempre stando attenti
a differenziare quello che è, per l’appunto, un orientamento metateorico generale
dalle specifiche tesi delle varie posizioni che si possono ascrivere ad esso.
Secondo questo orientamento i problemi metafisici non sono tanto problemi che
concernono l’esistenza di determinati tipi di entità, quanto problemi relativi alle
connessioni di dipendenza tra tali tipi di entità: ciò che è in gioco, quindi, non è
l’arredamento del mondo, quanto la struttura relazionale dell’arredo. In base a que-
sta concezione, la realtà non è piatta, come invece sostiene la posizione quineana,
ma esibisce una serie di relazioni che connettono entità collocate a vari livelli di
fondamentalità: relazioni come supervenienza, emergenza, grounding, causazione
metafisica, sono tutte candidate privilegiate per conferire una dimensione ulterio-
re alla composizione del mondo. Si può osservare che, da questo punto di vista, il
significato dell’esistenza non è univoco, essendovi, al contrario, molti modi d’essere
delle cose. Consideriamo ad esempio un classico problema di carattere metafisico,
come l’esistenza o meno di particolari tipi di oggetti astratti, i numeri:
At one point Aristotle does pause to ask if numbers exist, and his answer is a brief and
dismissive yes: ‘‘it is true also to say, without qualification, that the objects of mathematics
exist, and with the character ascribed to them by mathematicians’’ (Metaph. 1077b32–3).
For Aristotle, the serious question about numbers is whether they are transcendent sub-
stances, or grounded in concreta. The question is not whether numbers exist, but how7.
6
Per una presentazione più estesa e una discussione delle distinzioni che è possibile introdurre in
relazione al predicato di esistenza, da un punto di vista quineano, cfr. P. Van Inwagen, Metaphysics,
Westview Press 2015, pp. 291-326.
7
Schaffer, On What Grounds What, p. 348.
948 ciro de florio - alessandro giordani
possibile, o che la metafisica sia una ricerca della struttura della possibilità, contro
una ricerca circa la struttura del mondo attuale. Intendiamo invece dire che l’ambi-
to della metafisica è delimitato in riferimento alla nozione di possibilità metafisica
nel senso che la struttura metafisica fondamentale del mondo attuale può essere
interpretata come la struttura comune a ogni mondo metafisicamente possibile. In
questo senso, argomentare a favore dell’esistenza di un ambito di possibilità meta-
fisica coincide con argomentare a favore dell’esistenza di una struttura metafisica
fondamentale del mondo attuale non riducibile alla struttura fisica fondamentale
del mondo studiato dalle scienze o alla struttura logica fondamentale del nostro
pensiero. Una simile concezione è perciò sufficientemente generale da includere
come specificazioni posizioni molto diverse tra loro, per esempio posizioni che
intendono la metafisica come studio dell’ente in atto, o come studio dell’ente pos-
sibile, o come studio della sostanza, o come studio delle condizioni di possibilità
dell’ente in atto, e così via. In ogni caso, infatti, la metafisica sarà intesa come
studio di una struttura che non è riducibile alla struttura fisica del mondo o alla
struttura logica del pensiero.
In ciò che segue, discuteremo delle relazioni tra le procedure di giustificazione che
possiamo ascrivere alla metafisica e le procedure di giustificazione proprie della
fisica. La scelta è ricaduta sulla fisica per l’ampiezza e la fecondità del dibattito
circa l’ontologia fondamentale del mondo fisico. Inoltre, i modelli che prendere-
mo in considerazione sono stati formulati da filosofi della fisica. Essendo però le
alcune ipotesi sulla possibilità della metafisica 951
Abbiamo visto nella sezione precedente che l’accesso a ciò che è metafisicamente
possibile diventa un punto cruciale per definire la nostra idea di metafisica.
Supponiamo infatti che la metafisica sia concepita come un sapere a priori.
Allora un dibattito relativo alla giustificazione di una teoria metafisica assume la
seguente struttura:
i) ci sono evidenze a priori su ciò che è metafisicamente possibile;
ii) ogni teoria metafisica deve essere consistente con le nostre evidenze a priori;
iii) ogni teoria metafisica che non ammette situazioni metafisicamente possibili secondo
le nostre evidenze a priori deve essere rigettata.
L’idea alla base della conclusione di Maudlin è semplice: (1) abbiamo forti ragio-
ni empiriche per credere che non esistano cose come sfere perfettamente omoge-
nee, dato che abbiamo forti ragioni empiriche per credere che la teoria atomica
della materia sia una teoria corretta; d’altro canto, (2), la nostra esperienza di
sfere rotanti è esperienza di entità attuali, e quindi – a fortiori – non abbiamo
alcuna esperienza di sfere perfettamente omogenee sia che queste siano rotanti o
non rotanti; ma, (3), l’esempio delle sfere omogenee è cogente solo se si hanno
delle buone ragioni per credere che questi scenari (quello della sfera in rotazione
e quello della sfera in quiete) siano metafisicamente possibili. Maudlin conclude
quindi che non abbiamo ragioni empiriche per credere che l’esempio delle sfere
perfettamente omogenee sia cogente.
Il punto di Maudlin è estremamente interessante per i nostri scopi. Si noti che
ci sono due dimensioni di analisi in gioco. Innanzitutto c’è la distinzione tra pos-
sibilità fisica e possibilità metafisica: Maudlin non nega che vi sia una regione
di possibilità fisica che è inclusa nella possibilità metafisica. Conseguentemente,
Maudlin non nega che certi stati di cose siano metafisicamente possibili (in que-
sto senso, egli non ha una posizione eliminativista nei confronti della possibilità
metafisica). L’altra dimensione importante è però quella epistemica, che riguarda
cioè l’accesso ai regni della possibilità fisica e metafisica. E qui Maudlin dubi-
ta del fatto che sia possibile giustificare sulla base di ragioni non empiriche che
ci siano situazioni metafisicamente possibili differenti da situazioni fisicamente
possibili. Possiamo conoscere possibilità metafisiche attraverso ragioni di carat-
tere empirico, come avviene nel primo esempio. Ovvero, lo scenario di due entità
indistinguibili numericamente distinte è metafisicamente possibile perché abbia-
mo ottime ragioni empiriche per credere che possa essere fisicamente attuato. Se
Maudlin ha ragione, l’unica porta per accedere alla possibilità metafisica passa
attraverso l’analisi della possibilità fisica, grazie a ragioni di tipo empirico. Ma,
come è noto, spesso in metafisica non possiamo aggrapparci alle ragioni empiri-
che, perché ragioniamo su scenari che, quasi per definizione, eccedono l’ambito
8
T. Maudlin, The Metaphysics Within Physics, Oxford University Press, Oxford 2007, p. 185.
954 ciro de florio - alessandro giordani
della possibilità fisica. E in quei casi se non abbiamo ragioni empiriche per crede-
re che alcune situazioni siano metafisicamente possibili, quali ragioni abbiamo?
A questo punto, un sostenitore della distinzione tra possibilità fisica e metafisica
potrebbe argomentare così:
At this point, the metaphysician may try a decisive move. The metaphysician can grant
everything put forward so far: there is no reason to believe, and every reason to disbelieve,
that the situation described in the first premiss is physically possible. But metaphysical
possibility extends more widely than physical possibility. It is metaphysically possible that
physics might have been different from what it is, and that it might allow for complete-
ly homogeneous matter, and that the homogeneous matter it allows for might be correctly
described by continuum mechanics, and that the velocity field might be correctly interpreted
as giving the velocity of a persisting bit of the homogeneous matter. Then the continuum
mechanics will have as models both rotating and non-rotating homogeneous spheres, and
these will allow our argument to go through9.
9
Ibi, p. 187.
10
Ibi, pp. 187-188.
alcune ipotesi sulla possibilità della metafisica 955
da una materia perfettamente omogenea) non porta alcuna garanzia circa la loro
possibilità metafisica. Al contrario, per Maudlin, possiamo giustificare le nostre
asserzioni sulla possibilità metafisica, ma solo grazie a ragioni di carattere empi-
rico, derivanti dalle migliori teorie sul mercato. E quindi, le ragioni empiriche ci
consentono di avere un criterio per differenziare posizioni metafisiche giustificate
rispetto a posizione metafisiche ingiustificate.
In conclusione, Maudlin solleva dubbi non circa l’estensione della possibilità
metafisica, che riconosce essere più ampia della possibilità fisica; egli dubita che
la giustificazione del fatto che una certa situazione sia metafisicamente possibile
possa essere prodotta a prescindere da ragioni empiriche. Questo è il modello di
metafisica che abbiamo chiamato MTP e che può essere riassunto come segue.
1. Il dominio complessivo della metafisica è il mondo, così come il dominio delle nostre
migliori teorie scientifiche.
2. L’accesso a questo dominio è basato sulle nostre migliori teorie scientifiche: così
come le teorie empiriche sono esplicative nei confronti dell’esperienza, la metafisica
è esplicativa nei confronti delle teorie.
3. La giustificazione delle teorie metafisiche è basata sulle nostre migliori teorie scienti-
fiche: così come le teorie empiriche sono giustificate dall’accordo con l’esperienza, la
metafisica è giustificata dall’accordo con le teorie.
4. La possibilità metafisica di determinati stati di cose può essere giustificata se basata
sulla possibilità fisica, a sua volta empiricamente giustificata sulla base di modelli
propri di discipline scientifiche.
5. Le asserzioni circa la possibilità metafisica di determinati stati di cose, se non basati
sulla possibilità fisica, sono problematiche perché non adeguatamente giustificate.
Il modello MTP prende quindi molto sul serio la scienza, attribuendo alle ragioni
empiriche l’unico accesso epistemico affidabile per indagare la struttura metafisica.
C’è un altro modello (oltre a MTP) che si colloca naturalmente in questo spazio
concettuale ed è quello di Steven French11. La metafisica ha, secondo French,
una natura duplice, come la scienza del resto: in parte è costituita da un’indagine
a priori, in parte da un’indagine a posteriori.
11
La posizione è stata sviluppata insieme a Kerry McKenzie. Cfr. S. French - K. McKenzie,
Thinking Outside the Toolbox: Toward a more Productive Engagement between Metaphysics and
Philosophy of Physics, «European Journal of Analytic Philosophy», 8 (2012), 1, pp. 42-59 e, in par-
ticolare, Idd., Rethinking Outside the Toolbox: Reflecting Again on the Relationship between Meta-
physics and Philosophy of Physics, in T. Bigaj - C. Wüthrich (eds), Metaphysics in Contemporary
Physics, Brill, Leiden 2015, pp. 25-54.
956 ciro de florio - alessandro giordani
In che modo, e su quali basi, è possibile articolare una posizione chiara? La rispo-
sta data da French è semplice:
12
Lo strutturalismo ontico è un programma che sostiene la fondamentalità della struttura,
ossia della parte relazionale di un sistema, rispetto alle entità che sono connesse nel sistema. Cfr.
French - McKenzie, Rethinking Outside the Toolbox, p. 32: «In a nutshell, ontic structuralism is
the view that relational structure is ontologically fundamental. The doctrine proposes that if we
take modern physics – principally, quantum theory and relativity – seriously, then the category of
physical objects must be regarded as a derivative category, in contrast to the category of structure;
or at the very least, that it can no longer be regarded as a category ontologically prior to that of
relations and structure. It contends that the centrality of symmetry considerations in contemporary
physics is a harbinger of deep ontological facts, that the identity conditions for both individuals
and kinds are parasitic on structures in some essential way, and that global nomic concepts must
replace more local, dispositional ones».
13
Ibidem.
alcune ipotesi sulla possibilità della metafisica 957
The short answer to this question is that structuralists began by looking at extant work
in metaphysics, and in our view that was as good a place as any to begin. To give some
concrete examples, to articulate the core claim that structure is ontologically fundamental,
structuralists have found it useful to draw on the work of Kit Fine, and in particular his
work on ontological dependence14.
14
Ibi, p. 33.
15
Ibi, p. 37.
958 ciro de florio - alessandro giordani
L’interesse del modello proposto sta nel fatto che, per la ricerca in metafisica, si
ammette una fonte di giustificazione che non coincide con la giustificazione deri-
vante dai risultati delle teorie fisiche: la giustificazione basata sull’intuizione a pri-
ori. Per questa ragione, abbiamo chiamato questo modello MTPL. In che cosa si
differenzia questo modello dall’impostazione neo-aristotelica che abbiamo preso in
considerazione in precedenza? La differenza sta nel non ammettere, come del resto
fa MTP, che esista una forma di giustificazione a priori squisitamente metafisica,
ossia distinta dalle procedure logico-matematiche. Nell’ultima parte di questo lavo-
ro proveremo a fornire un raffinamento di questa impostazione nella direzione di un
recupero di alcune intuizioni fondamentali dell’approccio neo-aristotelico.
i) Vogliamo prendere sul serio l’immagine scientifica del mondo. Chiaramente, come
accennato in precedenza, il problema è capire in che modo intendere questo desidera-
tum. Nel seguito proporremo una sorta di criterio metodologico; in generale, la nostra
alcune ipotesi sulla possibilità della metafisica 959
intuizione è che almeno alcune discussioni di metafisica su domini condivisi dalla scien-
za siano interessanti per la comunità degli scienziati che si occupano di quei domini.
ii) Vogliamo prendere sul serio la complessità delle questioni metafisiche odierne. Ci sem-
bra che una caratterizzazione univoca della metafisica non riesca ad adattarsi alla grande
varietà dei problemi che sono effettivamente discussi. Parafrasando Aristotele, «si può
fare metafisica in molti modi» e, sebbene siano presenti delle somiglianze di famiglia
tra questi approcci, non è scontato che tutti siano da classificare secondo una stessa
caratterizzazione stretta.
iii) Vogliamo prendere sul serio l’autonomia di alcune delle questioni metafisiche odierne.
Ci sembra quindi che la metafisica non sia da concepire come una ricerca che collassa,
sistematicamente, nell’ontologia delle teorie empiriche, da un lato, o nella costruzione
di sistemi logici dall’altro. Questo spazio è stretto, molto più che in passato, ma esiste e
siamo convinti che negarlo sposti l’onere della prova.
In base al punto di vista che sosteniamo, ci sono almeno tre modalità in cui
si può fare metafisica, non necessariamente incompatibili, ma, anzi, integrabili
spesso in modo tale che uno stesso studioso possa passare da una modalità a
un’altra. Inoltre, non abbiamo l’ambizione di pensare che le modalità che pre-
sentiamo siano esaustive, e non abbiamo quindi l’intenzione di precludere la
possibilità di avanzare altri approcci meta-metafisici, a patto che rispettino i vin-
coli che abbiamo esplorato nelle pagine precedenti.
16
Cfr. S.A. Kripke, Semantical Analysis of Modal Logic I Normal Modal Propositional Calculi,
«Mathematical Logic Quarterly», 9 (1963), 5-6, pp. 67-96; Id., A Completeness Theorem in Modal
Logic, «The Journal of Symbolic Logic», 24 (1959), 1, pp. 1-14.
17
Cfr. R. Carnap, Meaning and Necessity: A Study in Semantics and Modal Logic, The Univer-
sity of Chicago Press, Chicago 1947.
960 ciro de florio - alessandro giordani
18
J. Hintikka, Knowledge and Belief: An Introduction to the Logic of the Two Notions, Cornell
University Press, Ithaca 1962.
alcune ipotesi sulla possibilità della metafisica 961
1915? della relatività generale formulata con equazioni che inglobano la costan-
te cosmica? di una soluzione specifica delle equazioni? di un modello cosmolo-
gico basato su una simile soluzione? Inoltre, di quale presente stiamo parlando?
del presente dell’esperienza? del presente determinato da un orologio preciso?
del presente determinato in sistemi di riferimento inerziali? del presente dell’u-
niverso? del presente modellato come punto privilegiato in una varietà differen-
ziale unidimensionale? del presente modellato come ipersuperficie privilegiata
in una varietà differenziale quadridimensionale?
Se prendiamo la sottodeterminazione nei tre sensi indicati, abbiamo certamen-
te un problema per quanto concerne l’idea che una teoria metafisica possa esse-
re confutata da una teoria empirica. Tuttavia, questo significa che la metafisica
impegnata su domini comuni con la scienza può prescindere dai risultati ottenuti
sfruttando le nostre migliori teorie? Crediamo di no: il principio di sottodetermi-
nazione deve essere mitigato da un altro principio metodologico, di segno oppo-
sto, per così dire, che impone il vincolo dell’immagine scientifica del mondo sulle
teorie metafisiche: una teoria metafisica che si accorda meglio con l’immagine
scientifica del mondo è preferibile e più giustificata, perché parte della sua giusti-
ficazione risiede in ultima analisi nell’essere in grado di incorporare e unificare
le informazioni sul mondo empirico che provengono dalla scienza. Se è vero che
l’immagine scientifica non può confutare direttamente una tesi metafisica, è anche
vero sia che una tesi metafisica può consentire lo sviluppo di determinate ipotesi
scientifiche, e risultare quindi proficua per la ricerca empirica, sia che la ricerca
scientifica può portare a proporre modelli di entità fisiche che hanno caratteri-
stiche del tutto inattese rispetto a come le entità sono concepite in metafisica. In
questo modo otteniamo una sottodeterminazione vincolata che innesca una specie
di equilibrio riflessivo tra risultati scientifici, interpretazioni di questi risultati e
ipotesi metafisiche: di volta in volta regoliamo le interpretazioni e le ipotesi in
modo da ottenere un quadro esplicativo sufficiente.
La presente modalità di ricerca metafisica consente una certa autonomia al
metafisico senza isolarlo dalla comunità di ricerca degli scienziati. In termini più
sociologici, la metafisica – quando si occupa di aspetti strutturali di domini studia-
ti dalle scienze – dovrebbe risultare interessante anche per gli scienziati, ovvero
dovrebbe migliorare la loro comprensione del mondo, anche se tale comprensione
si muove su una dimensione differente, o almeno parzialmente differente, rispetto
a quella della pratica scientifica. Infine, sempre in riferimento a questa modalità di
ricerca, notiamo che ci sono alcuni tipi di questioni che, per la loro natura, si col-
locano in una sorta di zona intermedia tra problemi scientifici molto astratti e que-
stioni di carattere metafisico: questioni come «che cos’è un sistema fisico?», «che
cos’è il denaro?», «che cos’è un sistema biologico?», «quali sono, se ci sono, i
tratti che consentono di discriminare ciò che è vivo rispetto a ciò che non è vivo?»,
e così via, sono esempi tipici. In riferimento a questi problemi, non abbiamo alcu-
na resistenza ad ammettere che la distinzione tra metafisica e scienza è sfumata e
alcune ipotesi sulla possibilità della metafisica 963
che, in maniera analoga, la formazione degli studiosi in questi campi sarà gioco-
forza multidisciplinare19. Abbiamo proposto due modalità di ricerca metafisica: la
chiarificazione e caratterizzazione formale dei concetti e la metafisica nei domini
della scienza, intendendo con quest’ultima formulazione lo studio degli aspetti
strutturali dei domini che vengono indagati anche dalle scienze empiriche. I cri-
teri che vegliano sulla giustificazione della metafisica saranno, nel primo caso,
criteri a priori, ereditati dalla ricerca in logica e in matematica; nel secondo, come
abbiamo visto, saranno criteri legati alla situazione di sottodeterminazione vinco-
lata. Le due modalità sono versioni specifiche dei tipi di metafisica riconosciuti da
French. Ci chiediamo: è possibile un terzo tipo di ricerca?
L’ultima modalità consiste nell’analisi delle strutture fondamentali del mondo nel
suo complesso20. La possibilità della metafisica, intesa in questo senso, è cruciale
per la tradizione filosofica così come è stata storicamente sviluppata. Il problema
da affrontare in riferimento a questa modalità è questo: ci sono problemi metafisi-
ci genuini? In altri termini, ci sono problemi che sono radicalmente meta-empirici,
ovvero problemi che necessitano di soluzioni la cui ricerca è totalmente autono-
ma rispetto all’immagine scientifica del mondo? E, in secondo luogo, che tipo
di giustificazione hanno le teorie metafisiche che sono presentate come possibili
soluzioni a questi problemi? La nostra risposta, in breve, è «sì»: esistono problemi
metafisici sensati che trascendono la descrizione scientifica del mondo; inoltre,
come vedremo, per quanto riguarda la questione della giustificazione adotteremo
una posizione di pluralismo epistemico.
Partiamo con un esempio celebre, già brevemente accennato in apertura:
la metafisica degli oggetti astratti e, in particolare, degli oggetti matematici. La
domanda di base in questo caso è: esistono e, in caso di risposta positiva, in che
modo esistono, le entità che sono descritte dalle teorie matematiche? Che tipo di
entità sono? Probabilmente sono astratte, ma in che senso? Domande di questo tipo
sono presenti (in una forma o nell’altra) da Platone a Frege fino alla ricchissima filo-
sofia della matematica contemporanea. Una risposta come quella di Stewart Sha-
piro, di Michael Resnik e di Geoffrey Hellman21 (solo per citarne alcuni) secondo
19
A questo proposito, nell’articolo ci siamo concentrati sui rapporti tra metafisica e teorie fisiche;
ma crediamo che un discorso analogo possa valere anche per l’ontologia del mondo sociale. Pensiamo,
per esempio, a Understanding Institution di Francesco Guala (F. Guala, Understanding Institution:
The Science and Philosophy of Living Together, Princeton University Press, Princeton 2016). In questo
testo viene presentata e difesa una teoria degli oggetti sociali che combina tre importanti teorie circa le
istituzioni intese come equilibri di giochi strategici, come norme regolative e come norme costitutive.
In questo caso la giustificazione di una certa teoria degli oggetti sociali dipende da altri contesti teorici.
20
Tra i molti testi fondamentali nel dibattito contemporaneo, J. Lowe, The Possibility of Meta-
physics, Clarendon Press, Oxford 1998; D. Lewis, On the Plurality of Worlds, Clarendon Press,
Oxford 1986; D. Armstrong, A World of States of Affairs, Cambridge University Press, Cambridge
1997; T. Sider, Writing the Book of the World, Oxford University Press, Oxford 2013.
21
S. Shapiro, Philosophy of Mathematics: Structure and Ontology. Oxford University Press,
964 ciro de florio - alessandro giordani
Oxford 1997; M.D. Resnik, Mathematics as a Science of Patterns, Oxford University Press,
Oxford 1997; G. Hellman, Mathematics without Numbers: Towards a Modal-Structural Interpre-
tation, Clarendon Press, Oxford 1989.
22
Sono queste due posizioni che possono essere rubricate come una forma di platonismo classi-
co (per esempio: K. Gödel, What is Cantor’s Continuum Problem?, «The American Mathematical
Monthly», 54 [1947], 9, pp. 515-525) e di nominalismo forte (H. Field, Science without Numbers: A
Defence of Nominalism, Princeton University Press, Princeton [NJ] 1980).
alcune ipotesi sulla possibilità della metafisica 965
si sente dire che una tesi metafisica può spiegare una certa pratica linguistica, e
che questo potere esplicativo può essere usato per giustificare la tesi. Tuttavia, che
cosa significa spiegare una pratica linguistica? Non crediamo che voglia dire spie-
gare perché un certo gruppo di agenti intraprende quella pratica o perché quella
pratica esiste, ma che voglia dire spiegare perché i modelli impliciti in quella pra-
tica abbiamo successo come modelli interpretativi del mondo. Se le cose stanno in
questo modo, e se la spiegazione del successo di un modello interpretativo dipen-
de dall’identificazione delle condizioni di possibilità della sua applicazione, allora
possiamo avanzare l’ipotesi che una certa intuizione sulle strutture generali che
consentono l’applicazione di un modello sia in gioco ogni volta in cui valutiamo
il successo di alcune teorie rispetto ad altre. Di conseguenza, la portata esplicativa
della teoria viene basata su un’iniziale intuizione circa determinate strutture pre-
senti nel mondo. In questo senso, per fare alcuni esempi, le intuizioni sul fatto che
il mondo sia dinamico, che il tempo abbia una direzione privilegiata, che il passato
sia determinato e il futuro sia aperto, che ci siano delle relazioni di causazione, che
il futuro possa essere in parte determinato dalle nostre azioni, che le nostre azioni
non siano completamente determinate dalle condizioni in cui ci troviamo ad agire,
sono tutte intuizioni su tratti strutturali del mondo e sono fonte di giustificazione
per assumere alcuni fenomeni come «fenomeni da salvare». La portata giustifi-
cativa di tali intuizioni è in relazione al fatto che i fenomeni indicati non possono
essere esclusi dalla costruzione di un’immagine complessiva del mondo, sebbene
possano essere dichiarati, sulla base di teorie che andranno a loro volta giustifi-
cate, come tratti con diverso statuto ontologico: come tratti fondamentali, o non
illusori, o non fondamentali ma non illusori, o non fondamentali e illusori. In ogni
caso, l’analisi metafisica sarà condotta secondo le linee di ogni analisi scientifica:
chiarire i fenomeni da spiegare, dove la chiarificazione è in parte esito di interpre-
tazione, e quindi orientata da teorie da esplicitare, e comprendere i fenomeni sulla
base delle loro condizioni causali, dove la comprensione è esito dell’applicazione
di modelli caratterizzati da strutture consistenti, e quindi ancora orientata da teorie
da rendere il più possibile esplicite e dettagliate. Il successo esplicativo, insieme
al modo specifico di tenere conto dei fenomeni da spiegare, costituirà poi la fonte
principale della giustificazione della teoria introdotta23.
23
In questo senso, pensiamo a tre lavori fondamentali – diversi per la concezione metafisica
e per le tesi sostenute – quali Naming and Necessity di Saul Kripke, On the Plurality of Worlds di
David Lewis e Modal Logic as Metaphysics di Timothy Williamson. In questi lavori gli autori difen-
dono precise ipotesi metafisiche che costituiscono una base naturale dei sistemi di logica che svilup-
pano e che riguardano le modalità di esistenza e identità degli oggetti al massimo grado di generalità.
A titolo esemplificativo, Williamson, sostiene che il dominio degli individui che esistono nei vari
mondi possibili è fisso, e quindi che gli individui esistono necessariamente. Questo perché, secondo
Williamson, la teoria modale che caratterizza questa posizione presenta dei notevoli vantaggi teorici
rispetto alle rivali, vantaggi che possono essere valutati sulla base di alcune intuizioni fondamentali
che abbiamo su alcune strutture legate ai concetti modali.
966 ciro de florio - alessandro giordani
Infine, per tornare al caso da cui siamo partiti, la giustificazione di una teoria
metafisica circa lo statuto ontologico degli oggetti astratti può essere basata su
intuizioni circa le condizioni di possibilità dell’applicazione della matematica e
circa la struttura di un dominio che consente questa applicazione. Più in gene-
rale, e chiarendo ulteriormente in che senso diciamo che l’intuizione metafisica
è da concepire sulla base delle intuizioni a priori e a posteriori, analizziamo
questo ultimo esempio. Il nucleo centrale di alcune delle prove cosmologiche
contemporanee per l’esistenza di una causa prima del mondo è costituito da due
tesi: la prima stabilisce che una certa relazione, la relazione di causazione, ha
determinate caratteristiche, per esempio è irriflessiva, transitiva e fondata; la
seconda stabilisce che ci sono, o appare che ci siano, delle istanze della rela-
zione di causazione all’interno del mondo. La prima premessa è una tesi sulla
struttura di una relazione, la cui consistenza è giustificata a priori, o inferita a
partire da altre premesse giustificate a priori. La seconda premessa è una tesi
circa ciò che esiste nel mondo, la cui correttezza è giustificata a posteriori, o
inferita a partire da altre premesse giustificate a posteriori. Le prove indicate
cercano di connettere le due premesse, mediante precisi argomenti, per ottenere
come conclusione che la relazione che esiste nel mondo ha la struttura della
relazione caratterizzata a priori. Ciò che noi riconosciamo è che sia le intuizioni
a priori a supporto della prima premessa sia le intuizioni a posteriori a supporto
della seconda sono classificabili come intuizioni metafisiche. Ciò su cui invece
siamo scettici è che ci sia una forma primitiva di intuizione metafisica mediante
cui vediamo che alcune relazioni del mondo, che comunemente chiamiamo rela-
zioni causali, hanno la struttura di una relazione irriflessiva, transitiva e fondata.
In questo, la nostra posizione si affianca alla celebre caratterizzazione proposta
da Einstein del rapporto tra matematica e mondo:
Nella misura in cui si riferiscono alla realtà, le proposizioni della matematica non sono
certe e, nella misura in cui sono certe, non si riferiscono alla realtà24.
24
«Insofern sich die Sätze der Mathematik auf die Wirklichkeit beziehen, sind sie nicht sicher,
und insofern sie sicher sind, beziehen sie sich nicht auf die Wirklichkeit» (A. Einstein, Geometrie
und Erfahrung, Springer, Berlin 1921, p. 4).
alcune ipotesi sulla possibilità della metafisica 967
di questa ipotesi con un ulteriore set di ipotesi, o sui problemi derivanti dall’as-
sumere ipotesi concorrenti, contro chi presenta modelli diversi delle relazioni
che chiamiamo di causazione.
4. Conclusione
In conclusione, non ci sembra che esista una procedura di giustificazione meta-
fisica: tutto dipende dal tipo di entità studiata. È chiaro che un’indagine sui
possibilia (oggetti puramente possibili) o sugli intentionalia (oggetti puramen-
te concepibili) non potrà essere suffragata dall’analisi di sistemi empirici o di
sistemi fisicamente possibili, così come, analogamente, una teoria sull’ontologia
del denaro si avvarrà certamente delle teorie economiche sul denaro e delle teo-
rie generali delle istituzioni. Siamo ovviamente consapevoli che storicamente ci
sono state concezioni di metafisica più ambiziose e che alcune di queste conce-
zioni sono difese anche oggi. Ma anche qui, crediamo che sia necessario discutere
caso per caso. Di sicuro, in base a quanto detto in questo lavoro, ci sono tre punti
che per un metafisico del XXI secolo sono a nostro avviso irrinunciabili: l’impie-
go di sistemi formali, per la metafisica a priori sviluppata dal punto di vista della
prima modalità indicata, la conoscenza approfondita delle teorie delle discipline
che si interrogano sui domini che ci interessano, per la metafisica a posteriori svi-
luppata dal punto di vista della seconda modalità indicata, e l’analisi delle strut-
ture generali che consentono la costruzione di modelli interpretativi del mondo,
per la metafisica sviluppata dal punto di vista dell’ultima modalità indicata (tut-
to questo, nella consapevolezza dell’estrema specializzazione della ricerca). La
metafisica non è morta: al contrario, è viva, perciò muta continuamente.
Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, CXII (2020), 4, pp. 969-994
ISSN: 00356247 (print) - 18277926 (digital)
DOI: 10.26350/001050_000227
Paolo Pagani*
LA FORMA DELL’ÉLENCHOS
Elenchus is the argumentative method whereby human thought experiences the transcenden-
tality of being and its aspects. This article seeks to revisit the classic method of argumenta-
tion, known as elenchus, in order to explicitly consider its pragmatic dimensions. Elenchus
is the complete realization of performative contradiction, in which those who intend to deny
transcendental structures simultaneously undermine themselves. Such dynamics is implicat-
ed in both the actual negation of the transcendental structures and the verbal denial of such
structures. The position expressed in this article is subsequently compared with two author-
itative positions: Emanuele Severino and Sergio Galvan. The first – in his more mature
thought – tends to reduce elenchus to a simple case of reductio ad absurdum. The second
establishes a «elenctic calculus» in order to demonstrate that elenchus does not permit a
logical-formal argument. Both, however, do not consider the pragmatic aspect of elenchus –
© 2020 Vita e Pensiero / Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
*
Università Ca’ Foscari di Venezia. Email: pagani.p@unive.it
Received: 16.09.2019; Approved: 23.12.2019.
970 paolo pagani
Elenctico, in senso proprio, è l’anankaion: ciò da cui non si evade. Ora, ine-
vadibile è in primo luogo l’essere stesso. Una ulteriorità rispetto ad esso non si
costituisce, se non come un léghein charin logou 1. Analogamente si rivelano ine-
vadibili le dimensioni proprie dell’essere come tale, evadere dalle quali sarebbe
appunto evadere dall’essere stesso. Se non che, l’argomentare che dall’interno
dell’essere progetta l’evasione da esso, e ne constata l’impraticabilità – cioè con-
stata che la heterotes, rispetto all’essere come tale, può darsi solo come tautotes –,
sembra in certo senso capace (problematicamente) della ulteriorità autoescluden-
tesi. Già formulare l’ipotesi della evasione presuppone infatti la previa ipotesi di
un altro, che stia oltre l’essere e che altrimenti si strutturi.
Ora, questa ipotesi ha come contenuto un impossibile. Occorre comunque
registrare questa capacità di esprimere ipotesi dal contenuto impossibile, e tene-
re distinta tale capacità da quella – viceversa improponibile – di concepire il
contenuto di tali ipotesi. Élenchos può anche essere descritto come la constata-
zione della inconcepibilità di certe ipotesi, che pure devono risultare esprimibili
per poter essere escluse2.
L’essere, in quanto propone una heterotes che gli sia relativa, e ne supera l’i-
potetica autonomia, è il pensiero. Il pensiero in quanto pensiero è infatti l’apertu-
ra trascendentale dell’essere che manifesta se stessa in quanto tale, ovvero come
trascendentale; mostrando l’inconcepibilità, non della heterotes, quanto della
ipotesi della sua esteriorità o autonomia. E ogni determinazione del pensiero è
il manifestarsi della interiorità di ogni ente all’essere. Insomma, il pensiero è il
manifestarsi della interiorità della heterotes alla tautotes. Tale interiorità significa
che il trascendentale si rivela come tale, in quanto è in relazione dialettica col
proprio trascendimento (che in esso rientra). Il pensiero in quanto tale è dunque
relazione dialettica, e non strutturazione antinomica: una relazione che trova la
sua espressione sintetica nella coppia essere/non-essere. Dove il non-essere è il
paradigma delle violazioni dell’essere, cioè è l’espressione sintetica del trascen-
dimento impossibile: concepito appunto come impossibile, cioè come incapace di
venire alla luce, incapace di una propria manifestazione.
1
L’espressione è di Aristotele (Metaph. IV, 1009 a 21; testo greco a cura di W.D. Ross).
2
Già Parmenide avvertiva di casi nei quali in ciò che è detto, mancando il riferimento all’essere,
non si trova il pensare (B8, 35-36, D.-K.). Aristotele – riferendosi alle espressioni autocontradditto-
rie – afferma a sua volta che «non sempre si pensa tutto quel che si dice» (Metaph. IV, 1005 b 26-27).
Evidentemente, delle ipotesi autocontraddittorie sono concepibili i contradictoria, nonché l’inten-
zione del parlante di farne una sintesi. Ciò che non è concepibile (afferrabile, nel senso dell’aristo-
telico hypolambanein) è appunto la sintesi progettata. Su questo punto è rilevante quanto osserva
Antonio Rosmini. Egli riconosce, infatti, che la contraddizione in certo senso si dà, ed è pensabile
in modo «implicito», cioè come una «relazione» tra quella «entità» («segno») che è l’enunciazione
di una certa ipotesi (di fatto espressa) e il contenuto della medesima che, se reso esplicito, risulta
impensabile, e quindi impossibile (su questo, si veda A. Rosmini, Teosofia, a cura M.A. Raschini e
P.P. Ottonello, voll. 12-17 dell’Edizione Nazionale e Critica delle Opere di Antonio Rosmini, Città
Nuova, Roma 1998-2002, Libro III, nn. 807 e 815).
la forma dell’élenchos 971
Ora, questo tentativo di andare oltre l’essere, per ritrovare alla fine l’esse-
re – questa dialettica di ‘movimento’ e ‘quiete’ – è proprio ciò che specifica il
pensiero rispetto all’essere: è la dieresi originaria dei due, che vanno appunto
semantizzati diaireticamente, essendo originariamente indiscernibili. Articolan-
do meglio il discorso, si può dire che, se fenomenologicamente non c’è occasio-
ne di distinguere tra l’essere e il pensiero nella loro accezione pura, élenchos è
il luogo della possibile distinzione – che, se supera la indiscernibilità, conferma
la coestensione dei due –, analogamente a come l’autocontraddizione è luogo di
discernimento tra pensiero e linguaggio.
Il pensiero è dunque il luogo del multiforme esperimento elenctico: pensiero
che è l’essere stesso in quanto autotrascendimento in direzione di sé. Ma l’intra-
scendibilità elenctica è apprezzabile da più lati: tanti quante sono le dimensioni
o strutture irrinunciabili dell’essere – dove, ancora una volta, il senso di quella
irrinunciabilità non precede élenchos, ma ne è sostanziato. Tra le dimensioni in
questione trovano sicuramente posto quelle che emergono come strutture seman-
tiche, sintattiche e pragmatiche. Queste emergono quali costanti apofantiche ma,
appunto per questo, devono essere considerate quali costanti ontologiche. L’esse-
re in quanto tale, infatti, si rende noto attraverso l’apofansi; né si ha notizia di un
essere che stia noumenicamente sequestrato al di là dell’orizzonte apofantico. Il
senso dell’apofantico in quanto tale è la manifestazione dell’ontologico. Si tratta
(appunto, elencticamente) di mettere in rilievo ciò senza cui l’apofansi si riduce a
mera espressione ontica.
1.2.1. Élenchos non implica il darsi del negativo. Un certo modo di proporre
élenchos lascia invece pensare che il negativo si dia effettivamente, così da
dover essere tenuto a distanza in una opposizione originaria. Del resto, il model-
lo gnostico della realtà prevede che l’originario sia appunto l’opposizione, vitto-
riosa, del positivo al negativo.
1.2.2. Più precisamente, la contraddizione non ha bisogno di attuarsi – sia pure
come semplice struttura eidetica – per essere poi superata. In altre parole, non
occorre concepirla effettivamente, per poterla poi escludere: a che titolo, poi, la
si potrebbe escludere, se la si potesse prima concepire? È sufficiente piuttosto
nominarla e ipotizzarne il concepimento, ovvero concepire la eventualità del suo
costituirsi (anche solo a livello eidetico). Lo statuto di ciò che si candida alla
realizzazione contraddittoria è complesso e ipotetico. Più precisamente, il contra-
dictorium è un dictum (non un factum): un dictum infectum, e non un factum (che
infectum fieri nequeat). È un dictum a proiezione nulla.
1.2.3. Solo la considerazione della pluridimensionalità semiotica riesce a tener
fermo il principiale. Invece, la posizione severiniana – di cui diremo – sembra
972 paolo pagani
3
La posizione dialetheista, invece, tende ad assolutizzare – quanto alla difesa del principio di non
contraddizione (PDNC) – le ragioni dell’illocutorio rispetto alle esigenze del locutorio. I dialethei-
sti affermano che l’élenchos, aristotelicamente inteso, confuta il trivialismo, ma non il dialetheismo
(che pure ammette alcune situazioni contraddittorie come effettive). Se non che, per affermare questo,
occorre proprio esercitare quel PDNC che Aristotele difende tramite élenchos, cioè il PDNC come
principio di significanza, per cui, per tener fermo alcunché – anche lo stesso dialetheismo –, occorre
escludere la posizione che lo nega; e lo stesso vale per tener ferma la distinzione tra il dialetheismo e
il trivialismo. Del resto, una teoria che si accordasse con tutto sarebbe banale: popperianamente non
significante, in quanto non falsificabile. Il dialetheista accetta allora – esplicitamente – qualche clauso-
la del tipo: C(p ∨ q) ∧ ¬Cp → Cq; e un PDNC in versione pragmatica, del tipo: ¬(Cp ∧ ¬Cp) – dove
C è una costante epistemica che sta per ‘credere’. Per il dialetheista, se anche ¬p non negasse p, rimar-
rebbe comunque possibile rigettare p. Si passa così dalla negazione al diniego, esprimibile nei termini
seguenti: «non posso credere p». Ma tutto ciò è asserito (o asseribile) solo all’interno di condizioni
classiche di consistenza: la negazione escludente, che si fonda sulla esperienza primitiva della «incom-
patibilità materiale». Qualcuno ha proposto uno specifico operatore logico tale da indicare il diniego
pratico del dialetheista; e ciò in conformità alla versione pratica dell’élenchos aristotelico (Aristotele,
Metaph. IV, 1008 b 35-1009 a 5): infatti, se considerassimo ogni cosa come equivalente a ogni altra,
non potremmo scegliere: e invece inevitabilmente lo facciamo. Così come non potremmo distinguere
il dialetheismo dal trivialismo, come lo stesso dialetheista invece fa (su questi temi si veda F. Berto,
Teorie dell’assurdo, Carocci, Roma 2006, capp. 1 e 14). Naturalmente, una disamina più diretta e arti-
colata della posizione dialetheista meriterebbe, già di suo, un intervento specifico, che potrà trovare
luogo adeguato in qualche nostro prossimo contributo.
la forma dell’élenchos 973
4
Nella nostra prospettazione il locutorio corrisponde – usando il linguaggio di Tommaso –
all’actus secundum genus naturae e l’illocutorio all’actus secumdum genus moris.
5
Diverso da tutto è falso, ed equivalente a tutto è non-vero.
974 paolo pagani
tata sul piano locutorio l’intenzione illocutoria che essa – salvo smentita dell’as-
serente – contiene, si ottiene la struttura contraddittoria seguente: è vero almeno
questo: che nulla è vero (contraddittoria perché pone congiuntamente una propo-
sizione particolare affermativa e la corrispondente universale negativa).
Di fronte all’emergere della contraddizione si può scegliere di evitarla rinuncian-
do alla pretesa di verità (indebolendo cioè l’asserzione o trasformandola in un altro
genere di illocuzione), oppure si può scegliere di accettare la contraddizione stessa.
In che senso si può mancare il felice compimento di un certo atto illocutorio?
Si pensi all’esempio di Strawson: «i figli di Giovanni stanno dormendo (ma Gio-
vanni non ha figli)»: qui la fallace presupposizione (presupposition) che Giovanni
abbia figli è solo introduttiva alla fallace implicazione (implicature) tra l’asser-
zione e l’impegno alla verità che essa comporta, così che l’asserzione non può
compiersi se non autocontraddittoriamente. (L’asserzione è infatti impegno con la
verità dell’asserito; così come la promessa è impegno con l’intenzione di mante-
nere ciò che si è promesso).
Perché la contraddizione performativa sia individuabile occorre che il parlante
eserciti la propria responsabilità illocutoria: cioè che egli sia disposto ad ammettere
in che senso – secondo quale registro illocutorio – egli sta dicendo quel che dice.
1.3.3. Specie del genere contraddizione performativa sono quella occasionale e
quella strutturale.
Contraddizione performativa occasionale è quella che si realizza a patto di cer-
te particolari circostanze pragmatiche contingenti, al variare delle quali l’atto di
discorso potrà anche dismettere il suo carattere contraddittorio.
Sono contraddizioni performative occasionali quelle che, per esserlo, devono
realizzare almeno una tra queste condizioni: (a) devono essere enunciate da par-
ticolari tipi di enuncianti (come quando è Mario Rossi a dire Mario Rossi è inca-
pace di parlare); (b) devono essere rivolte effettivamente a interlocutori presenti
(come quando dico al mio interlocutore presente: io con te non parlo); (c) devo-
no essere enunciate secondo certe modalità pratiche, anziché altre (come quando
qualcuno dice a voce alta: io non sto parlando). Ora, dalla contraddizione per-
formativa occasionale – come, per altro verso, dal paradosso pragmatico – si può
uscire con una semplice strategia pratica.
Contraddizione performativa strutturale si ha quando, a essere violate, sono
condizioni, non contingenti, bensì appunto strutturali dell’atto di discorso: quel-
le che riguardano: vel (a) le particolari forme dell’illocutorio vel (b) l’atto di
discorso in quanto tale.
Per il caso (a) si pensi – come già accennato – alla asserzione, che implica di
suo un certo impegno di verità. Il paradosso di Moore è un caso classico di questo
tipo di contraddizione performativa. Lo si capisce, se lo si esplicita – per proiezio-
ne di implicatura6 – così: asserisco p, ma non credo p; da cui viene un’autoesclu-
6
‘Implicatura’ (implicature) è il termine col quale – nella teoria degli Speech Acts – si indica
la forma dell’élenchos 975
1.6.1. La pertinenza della teoria degli Speech Acts a élenchos è tale che può con-
sentirci di riformularne la struttura, facendo vedere che: (a) la negazione espli-
citamente locutoria delle costanti apofantiche10 si realizza all’interno di quelle
7
Alessandro di Afrodisia, In Aristotelis Metaphysica commentaria, ed. M. Haiduck, typis et
impensis Georgii Reimeri, Berolini 1891, 298-300. Il termine homologhia significa ‘assenso’, ‘ade-
sione’, ‘riconoscimento’. Nel commento di Alessandro alle pagine aristoteliche di Gamma esso indi-
ca il convenire, almeno di fatto, col «principio fermissimo» da parte del negatore che non voglia
– per paradossale coerenza – incorrere nella aphasia che lo renderebbe «simile a un tronco».
8
Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles, II, 33; testo latino della Editio Leonina.
9
Epitteto, Diatribe, II, 20; testo greco a cura di J. Souilhé.
10
Per ‘costanti apofantiche’ intendiamo le condizioni – semantiche, sintattiche, pragmatiche –
che rendono possibile il costituirsi di quello che Aristotele chiamava logos apophantikós, cioè il
discorso che asserisce alcunché, per il sì o per il no. Quali determinatamente siano le principali tra
queste costanti lo si vedrà nel prosieguo della nostra esposizione.
978 paolo pagani
stesse costanti: essa cioè fa ciò che nega, ovvero performativamente non riesce a
evadere da ciò che locutoriamente rifiuta; (b) il progetto di una negazione effet-
tuale delle costanti apofantiche coincide con l’ipotesi di una illocuzione priva
di contenuto locutorio: una pura intenzione di dire, cui non può corrispondere
niente di effettivamente detto.
1.6.2. Tra le costanti apofantiche che possono essere difese elencticamente vi sono
strutture semantiche, sintattiche, pragmatiche.
Semantiche sono quelle costanti la cui presenza consente all’apofantico di
avere un contenuto effettivo, ovvero determinato, e di essere così una manifesta-
zione ontologica. Sintattiche sono quelle costanti che assicurano la coerenza e
la consistenza del locutorio. Pragmatiche sono quelle costanti che garantiscono
la collocazione del locutorio entro un determinato registro illocutorio e, più in
generale, comunicativo.
1.6.3. Prescindendo dalla materia cui si può applicare e prescindendo dalle tre
esecuzioni che Aristotele ne esibisce in Gamma11, élenchos presenta la seguente
struttura: «togliere è porre» (anairòn logon hypomenei logon)12 – naturalmente,
quando si tenta di togliere strutture principiali.
Ma questa struttura non va fraintesa, quasi fosse il darsi di una contraddizio-
ne, quale si potrebbe ottenere (considerando per semplicità il caso classico della
non-contraddizione) nel modo seguente: se togliere il principio di non contraddi-
zione (PDNC) si indica con ¬q ≡ ¬[¬(p ∧ ¬p)], e se porre il PDNC si indica con
q ≡ ¬(p ∧ ¬p), allora il togliere/porre il PDNC potrebbe essere tradotto in ¬q ∧ q,
quindi nel darsi a sua volta di una contraddizione.
Questa banalizzazione è vietata dalla dissimmetria tra il porre e il togliere
che sono qui specificamente in questione: dissimmetria che è apprezzabile, però,
solo se si assurge a una considerazione non monodimensionale del linguaggio,
quale è quella evidenziata dagli Speech Acts – che di fatto riprendono la dottrina
aristotelica delle lexeis, cioè delle flessioni che vanno a caratterizzare il generico
logos semantikòs.
Più precisamente, nel caso di una negazione esplicitamente formulata (NF), il
togliere è locutorio, mentre il porre è performativo, cioè è il fatto (locutoriamen-
te esplicitabile) che il togliere si costituisce in conformità con la struttura di cui
vorrebbe essere una negazione. Nel caso invece della negazione effettuale (NE),
il togliere è un progetto che, in tanto in quanto trova esecuzione (o anche solo ese-
cuzione espressiva), rientra performativamente nella conformità suddetta, è cioè
equivalente a un certo modo di porre la struttura che si tenta di negare.
11
Per una loro adeguata ricostruzione, rinviamo a Pagani, Contraddizione performativa e onto-
logia, Parte III, cap. I.
12
«Oportet quod qui [eas] negat, [eas] ponat» – dice Tommaso delle strutture principiali (cfr.
Summa contra Gentiles, II, 33).
la forma dell’élenchos 979
Allora si può riconoscere che togliere implica porre, ma porre non implica
togliere. Ovvero, T → P; ma ¬(P → T). Quindi, ¬q → q (ovvero la negazione del
principio, pone il principio); ma non viceversa, cioè: ¬(q → ¬q).
1.7.1. Il negatore locutorio non può voler dire quello che dice – come negatore –,
perché ciò ha come contenuto un impossibile. E compito dell’élenchos è far apparire
l’impossibile sub specie impossibilitatis: cioè come qualcosa che non si può vole-
re, perché prima ancora non si può pensare. D’altra parte, l’ideale regolativo della
negazione effettuale delle strutture trascendentali – strutture costitutive dell’apofan-
tico in quanto tale – è l’isolamento dell’intenzione rispetto alla esecuzione. Infatti,
se il negatore effettuale riuscisse nel proprio progetto, si sottrarrebbe alla prassi apo-
fantica: a quella discorsiva e, ultimamente, alla prassi tout court.
L’aphasia è il limite teoretico cui la NE tende: essa è così il luogo di una ide-
ale semantizzazione diairetica tra locutorio e illocutorio. Infatti, proporsi di vio-
lare in senso effettuale una costante trascendentale, vuol dire certamente porre
una qualche intenzione (l’intenzione negatrice, che è una forma di illocuzione di
tipo assertorio); ma questa risulterebbe priva di una proiezione locutoria possibile;
mentre ogni proiezione locutoria di quella illocuzione sarebbe, rispetto ad essa,
una controesemplificazione.
Dunque, l’intuizione della NE resta costretta a non esprimersi effettualmente in
modo appropriato, in quanto ogni sua eventuale espressione (anche non semplice-
mente verbale) sarebbe posta in modo conforme alla struttura negata in intenzione.
Ma proprio nell’ipotesi estrema di una intenzione pura – priva di contenuto
locutorio –, l’illocuzione acquista rilievo come un che di distinto e inconfondibile
rispetto alla locuzione (e viceversa); e, d’altra parte, essa si mostra come qualcosa
che, nel suo ipotetico isolamento, non produce alcunché di discorsivo, restando
d’altra parte strutturalmente riferita a un contenuto (la locuzione, appunto). Invece,
la tradizionale teoria degli Speech Acts già dà per acquisita la scansione tra locu-
torio e illocutorio (così da evidenziare anche il prodursi di incongruenze tra essi);
e si limita a una ricognizione esemplificativa dei differenti tipi di illocuzione –
con ciò rifacendosi, ultimamente, al senso comune. In altre parole, i casi-limite
che stiamo considerando hanno il pregio di far emergere una crisi interna al lin-
guaggio, che mette in evidenza l’inconfondibilità tra quanto nel linguaggio viene
esplicitamente enunciato – la locuzione – e l’intenzione espressiva, o illocuzione,
secondo cui la locuzione viene prodotta.
980 paolo pagani
L’aphasia, a sua volta, rientra in una più generale apraxia, cui la NE si espo-
ne13. Pensiamo qui a una semantizzazione più generale: quella tra intenzione ed
esecuzione: semantizzazione tra ciò che ci si ripropone di fare, e ciò che real-
mente si fa nel dar corso al proponimento. Tipicamente, è impossibile agire sen-
za dare un contenuto determinato alla propria azione.
La proiezione poietica della intenzione pratica annunciata dal negatore effet-
tuale è di per sé nulla – corrispondendo all’«automutilazione» (apokoptein) di
cui parlava Epitteto14. La prassi si spezza qui in intenzione esecutiva e pragma
eseguito, dove il secondo mostra un rilievo autonomo, evidenziando la propria
refrattarietà al progetto in questione.
Comunque, una pura intenzione – di dire o, più in generale, di agire – sarebbe
destinata alla latenza, se non fosse traducibile, sia pure per locuzione interiore
all’Io, in un che di posizionalmente espresso e di comunicabile. Il che comporta
che la stessa intenzione negatrice dovrebbe – per interna coerenza, sia pure non
esplicitamente mediata dal principio di non contraddizione – autosopprimersi.
1.7.2. Élenchos è il riconoscimento di un anankaion di tipo non fatalistico: il
riconoscimento di ciò che comunque si sarebbe costretti – anche quando non se
ne fosse persuasi – a onorare per forza15.
1.7.3. Il cuore di élenchos è pragmatico. Infatti, il luogo in cui emerge la possi-
bile obiezione (NF) alla struttura principiale è inevitabilmente il giudizio; e la
obiezione patologica può essere sanata solo dalla homologhia, che la riconduce
alle sue condizioni trascendentali di possibilità. La NE, invece, non può neppu-
re apparire locutoriamente, né praticamente, in quanto, appunto, rinuncia alle
condizioni del proprio apparire; e, persino sul piano illocutorio, il suo apparire
è destinato alla improponibile latenza dell’inesprimibile – pena il convenire con
le strutture da cui essa progetta di evadere.
1.8. Ripresa di NF e NE
1.8.1. La NF fa ciò che nega, e lo fa proprio nell’atto del negare. Qui, all’inverso
di quanto capita nella contraddizione performativa, non si tratta più di rilevare un
contrasto reso interno al piano locutorio, mediante proiezione. Si tratta piuttosto
di rilevare come certe locuzioni esprimano una negazione di cui non sanno dare
attuazione. Il dire qualcosa è già – a prescindere dal contenuto – porre un che
di determinato; e persino dire qualcosa di grammaticamente malformato è porre
onticamente qualcosa che è quello che è, e non è l’altro da sé.
13
Del resto, pragmatico è una specie del genere pratico.
14
Epitteto, Diatribe, II, 20.
15
Come già ricordava Aristotele in Metaph. IV, 1009 a 17-18.
la forma dell’élenchos 981
1.9. Un bilancio
16
Dire sta a determinare, come agire sta a scegliere.
982 paolo pagani
2. Confronti e approfondimenti
2.1. La rivisitazione di élenchos in Emanuele Severino
17
Rinviamo, per questo tema, a P. Pagani, Da Epitteto a Nietzsche, e ritorno, in Id., Studi di filo-
sofia morale, Aracne, Roma 2008.
18
Aristotele, Metaph. IV, 1008 b 11.
19
Ora, il negatore effettuale, in Gamma 1008 b 11, viene detto hómoios ghe phytón (secondo il
Codex Parisinus), oppure hómoios ton pephykoton (secondo il Vindobonensis e il Laurentianus) –
dove pephykota è il plurale del participio perfetto di phyo. Nel suo Commento alla Metafisica Tom-
maso, recepita la prima delle due locuzioni, cita anche la seconda, in questi termini: «Alius textus
habet “ab aptis natis”: et est sensus, quia talis, qui nihil suscipit, nihil differt in hoc quod actu cogitat,
ab illis qui apti nati sunt cogitare et nondum cogitant actu, qui enim apti nati sunt cogitare de aliqua
quaestione, neutram partem asserunt, et similiter nec isti» (cfr. Tommaso d’Aquino, Sententia libri
Metaphysicae, lect. IX; testo latino ed. Marietti).
20
Ci riferiamo a E. Severino, Ritornare a Parmenide (1964), in Id., Essenza del nichilismo,
Adelphi, Milano 1982, cap. 6.
la forma dell’élenchos 983
21
È nota la contestazione rivolta da Severino alla versione del PDNC contenuta nel testo aristo-
telico di De interpretatione, 9 (cfr. Id., Poscritto [1965], in Essenza del nichilismo, pp. 70 ss.).
22
L’autore si esprime su questo tema in G. Bontadini, Per una filosofia neoclassica (1958), in
Conversazioni di metafisica, Vita e Pensiero, Milano 1971, vol. I, p. 293, e vi ritorna più distesamen-
te in Id., Per una teoria del fondamento, in Metafisica e deellenizzazione, Vita e Pensiero, Milano
1975, § 4.
984 paolo pagani
Severino23 gli oppone che ogni istanziazione dell’ontico è comunque una istan-
ziazione del principio – e quindi dell’ontologico. Scrive Severino: «il contraddirsi
non è un non pensar nulla», «la contraddittorietà costituisce infatti la lo stesso
positivo significare del nulla».
A tal proposito, si può osservare che, il fatto che «quando ci si contraddice,
si accende [comunque un] atto di pensiero» – come scrive Severino – non com-
porta che un significato autocontraddittorio sia un autentico significato (qualcosa
di autenticamente pensato); ma vuol dire soltanto che il pensiero che lo pone è
un autentico atto di pensiero. E quando Bontadini distingue tra risultare e risul-
tato, allude proprio alla distinzione tra pensare e pensato, riservando la nullità a
quest’ultimo – nel caso della negazione in oggetto.
La considerazione pragmatica di élenchos può aiutare a chiarire il senso del-
la polemica ora richiamata. Infatti, il carattere nullo della proiezione locutoria
dell’illocuzione negatrice (e la conseguente dieresi semantizzante tra i due fattori)
viene a dire due cose.
(a) Da una parte Bontadini ha ragione, nel senso che l’esito della negazio-
ne – sia di quella formulata che di quella effettuale, anche se Bontadini pensava
soprattutto al contraddirsi effettuale – è una nullità ontologica, ovvero è un nulla
di risultato; ma non è una nullità ontica: non è un nulla di risultare.
(b) Severino, da parte sua, ha ragione quando osserva che al risultare (ontico)
corrisponde un atto di pensiero (una illocuzione). Se non che, il risultare ontico è
reticamente (ovvero, intenzionalmente) nullo: è un ontico che si riferisce a nulla.
Eppure, come ontico (come mero ente) si struttura incontraddittoriamente. Que-
sto ontico è anch’esso istanziazione del principio di non contraddizione; non però
posizione intenzionale di esso. L’atto di pensiero corrispondente è inadeguato,
incongruente rispetto alla obiettiva incontraddittorietà del risultare locutorio.
2.1.3. Come abbiamo visto, già in Ritornare a Parmenide, élenchos viene ricon-
dotto a una struttura fondativa più primitiva. Infatti, Severino osserva – giu-
stamente – che x è inconfondibile con non-x, non perché x è x, ma perché è un
positivo, e quindi rileva che élenchos si struttura in riferimento alla «opposizione
universale del positivo e del negativo»: opposizione che, a sua volta, élenchos
difende inoppugnabilmente. Da qui, Severino conclude – questa volta erronea-
mente – che élenchos è «un momento della opposizione originaria tra essere e non
essere», cioè della «struttura originaria».
In realtà, élenchos rivela che l’opposizione vale in subordinazione alla presen-
za – questa sì originaria – del positivo. Élenchos è la forma che la trascendentalità
assume in relazione alla propria negazione.
Se, dicendo che è un momento della opposizione, si intende dire che anche
élenchos è un certo positivo, non ci sono problemi. Così come è giusto rilevare
23
Severino, Ritornare a Parmenide, pp. 56-58.
la forma dell’élenchos 985
che élenchos non è il fondamento del fondamento (come già implicitamente esclu-
so da Bontadini)24. Si può dire, piuttosto, che il fondamento stesso non può avere
(ricevere) un fondamento – neppure da se stesso, come fundamentum sui –, bensì,
semplicemente, rivela in forma elenctica il suo essere fondamento, quando si tenta
di negarlo in qualche modo e per qualche suo aspetto.
Élenchos è semplicemente l’esperimento da cui risulta che guardare al di fuori
del fondamento è non vedere più nulla; così come fare a meno del fondamento,
è non fare più nulla. Ma l’esperimento non può – come si vede elencticamente –
collocarsi in posizione arretrata rispetto al trascendentale. Esso è piuttosto il luo-
go in cui possono venire in evidenza gli elementi che costituiscono la logica di
quello: il luogo, dunque, di una ontologia elementare, nella quale può venire in
luce il senso non ingenuo della figura stessa dell’evidenza, così come il senso non
ingenuo della trascendentalità.
In sintesi, élenchos in Ritornare a Parmenide è riproposto in termini di nega-
zione della negazione. Il che è giusto, ma solo in tanto in quanto la negazione
elenctica va intesa come mancata esecuzione della intenzione negatrice, e quindi
come inevitabile homologhia con ciò che si intende negare.
2.1.4. In Tautòtes si dà alle stesse parole di Ritornare a Parmenide una conno-
tazione di senso differente: che élenchos sia un momento della opposizione tra
positivo e negativo viene ora a significare che esso è un elemento astratto rispetto
al contenuto della struttura originaria25. Più precisamente: è una individuazione
della identità/opposizione, intesa come universalità astratta; ed è una parte della
identità/opposizione, intesa come universalità concreta. Ovvero, in un primo sen-
so è conforme alla struttura originaria; in un secondo senso è parte della struttura
originaria (come di un tutto).
La conformità alla struttura originaria nella sua universalità astratta si traduce
nella strutturazione identitaria secondo cui vengono rivisitate in Tautòtes le quattro
figure di élenchos già proposte in Ritornare a Parmenide, in obbedienza al criterio
per cui ogni giudizio è predicazione (e, prima ancora, articolazione) di identità.
Mentre, l’esser parte della stessa struttura originaria come di un tutto è motivato
dalla considerazione per cui anche la formulazione verbale dell’élenchos può esse-
re trattata come una particolare forma di giudizio, e dunque tradotta in una predi-
cazione di identità. Vediamo in dettaglio le riformulazioni elenctiche proposte nel
testo del 1995.
Riformulazione di 1a: (a = a) = (a = a)
Riformulazione di 1b: (ab = ab) = (ab = ab)
Riformulazione di 2a: (ab = ba) = (ba = ab)
24
Che per Bontadini non vi sia fondamento ulteriore al principio di non contraddizione è quanto
si evince da Per una teoria del fondamento, § 2.
25
Ci riferiamo a E. Severino, Tautòtes, Adelphi, Milano 1995, capp. XXVI-XXVIII.
986 paolo pagani
26
Ibi, p. 228.
27
Ibi, p. 230.
la forma dell’élenchos 987
28
Ibi, p. 245.
29
Per «contraddizione C» Severino intende la posizione di un contenuto semantico al di fuori
della rete di implicazioni che legano quel contenuto a ogni altro contenuto semantico e che lo deter-
minano nel suo «concreto» significare (cfr. E. Severino, La struttura originaria, Adelphi, Milano
1981, cap. VIII, 9. f).
30
S. Galvan, Le regole della negazione nella logica classica, intuizionistica e minimale, ISU -
Università Cattolica, Milano 1994, p. 78. Tale saggio è stato ripubblicato con integrazioni sotto il
titolo Non contraddizione e terzo escluso. Le regole della negazione nella logica classica, intuizio-
nistica e minimale, Franco Angeli, Milano 1997; l’argomento centrale sull’elenchos è apparso anche
in Id., A Formalization of Elenctic Argumentation, «Erkenntins», XLIII (1995), pp. 111-126.
988 paolo pagani
31
Galvan, Le regole della negazione nella logica classica, intuizionistica e minimale, pp. 78-79.
Più avanti, Galvan afferma – ridiscutendo alcune tesi di Emanuele Severino –, che «è vero che anche
per affermare una contraddizione logica è necessario tener fermi i contenuti della contraddizione in
quanto opposti l’uno all’altro e che, conseguentemente, è necessario condividere a proposito di essi
la legge che il positivo si oppone al negativo, ma questo non esclude che, al contrario, sia posta la
congiunzione dei due opposti e, quindi, la contraddizione. Pensare la contraddizione α ∧ ¬α significa,
per l’appunto, tenere ferma l’opposizione di α con ¬α ma, al contempo, affermare la congiunzione α
∧ ¬α di α con ¬α. Affermare l’impossibilità di tale affermazione del pensiero, ha lo stesso significato
[…] del dire che è impossibile pensare la contraddizione, come se si dicesse che il pensiero che pensa
la contraddizione è un pensiero che si annulla, cioè un non pensiero. È vero che porre α e, al contempo,
¬α significa porre α e, al contempo, togliere α, ma, si noti, togliere α non equivale a non porre α. Se
una persona dà l’ordine di chiudere la porta e un’altra dà l’ordine opposto, è posta la contraddizione tra
“porta chiusa” e “porta aperta”, ma ciò non significa che sia posto e contemporaneamente non posto
dalla stessa persona l’ordine di chiudere la porta. Il secondo individuo può togliere l’ordine del primo,
ma non può fare in modo che il primo ordine non sia posto. Essendo irrilevante il fatto che all’origine
della contraddizione ci siano due soggetti, la situazione creata dai comandi opposti è strutturalmente
identica a quella intenzionata da un pensiero che ha come oggetto la congiunzione di due contenuti
opposti» (ibi, p. 88). Come si vedrà tra poco nel nostro testo, l’effettiva sintesi dei contraddittori è in
realtà impensabile. Quanto alla loro ‘congiunzione’ – cioè al mero costituirsi dell’ipotesi –, è chiaro
che questa è effettiva, e lo è nella misura in cui è attuazione dell’incontraddittorietà del reale (per cui i
contraddittori restano tali, ad esempio): ma, un conto è che si progetti che questa congiunzione esprima
una possibilità ontologica, un altro conto (che però non torna) è che si veda tale possibilità ontologica.
Come sappiamo, Gustavo Bontadini, nel suo scritto Per una teoria del fondamento, distingueva oppor-
tunamente fra il «risultare» e il «risultato», riservando alla contraddizione la nullità di «risultato». Che
la scansione grafica o quella temporale consentano il porsi dei contraddittori uno di fronte all’altro,
anche come ipoteticamente congiunti, non toglie che la loro simultaneità, che è il proprio dell’auto-
contraddizione, sia solo dicibile, e non realmente concepibile – se non, genericamente, come una via
determinata che si affaccia sull’ipotesi nichilistica.
la forma dell’élenchos 989
32
È evidente che qui non ci si riferisce a strutture non-euclidee, quali il quadrato massimale, che
qualche autore ha ritenuto di poter convenzionalmente rappresentare in forma circolare. Si veda al
riguardo G. Frege, Die Grundlagen der Arithmetik, W. Koebner, Breslau 1884, p. 64.
990 paolo pagani
33
Galvan, Le regole della negazione nella logica classica, intuizionistica e minimale, p. 78.
34
«Il monismo – ovvero il presunto sistema di logica corretto – va fondato, eventualmente, in
modo condizionato, su basi esterne alla logica, quali possono essere le sue basi semantiche. Ciò
significa che la questione della correttezza del sistema va posta relativamente, rispetto ad uno spe-
cifico apparato semantico e il problema si converte, conseguentemente, in quello dell’adeguatezza
di tale apparato. Lo stato dell’adeguatezza o meno della semantica dipende, però, in ultima istanza,
dall’ontologia condivisa. Per questo, alla fin fine il problema della fondazione della logica si tra-
sforma in quello della fondazione della ontologia sottostante. Il richiamo a dimensioni esterne alla
logica allo scopo di assicurare a quest’ultima un fondamento – per quanto condizionato –, non è un
fenomeno ristretto all’ambito della fondazione logica. Si tratta, al contrario, di un fenomeno genera-
le, inerente all’intero edificio del sapere, di cui si è divenuti decisamente consapevoli in questi ultimi
decenni, in particolare in conseguenza dei numerosi risultati di limitazione cui è giunta la riflessione
logico-epistemologica contemporanea. Secondo la visione che ne è nata, il sapere ha, per così dire,
una struttura aperta, nel senso che le singole parti di cui esso è costituito non hanno un carattere di
compiutezza in se stesse, ma, al contrario, rimandano a dimensioni teoriche e metateoriche sempre
più vaste e comprensive. Ora tra queste dimensioni esiste – e si rivela sempre più decisiva – anche
la dimensione ontologica, vale a dire quella che tradizionalmente era considerata la dimensione cor-
rispondente al punto di vista dell’intero, la prospettiva, cioè, dalla quale si colgono gli aspetti più
generali e strutturali della realtà» (ibi, p. 89).
35
⊢ ¬(α ∧ ¬α).
la forma dell’élenchos 991
mostrare come essa non funzioni, e come, di conseguenza, cada – a suo avviso
– la possibilità di fondazione del «monismo logico». Il «calcolo e» – come egli lo
chiama – assumerà come regole proprie, quelle che sono riconosciute come «base
comune» nella discussione tra lo «scettico» (S) e l’«opponente dello scettico» (O).
Per comodità pratica, Galvan identifica le regole in questione, con la base comune
(b) dei calcoli «classico», «intuizionistico» e «minimale», cui aggiunge la regola
E∀. La tesi dello scettico – che è la negazione di NC –, viene designata come τ.
Ora, l’autore propone di interpretare la movenza elenctica attraverso quella parti-
colare istanza della «regola di autocontraddizione» (AC):
Xα ⊢ ¬α
X ⊢ ¬α
τ ⊢¬τ
⊢¬ τ
La regola AE è dunque la regola centrale del calcolo elenctico e, condivisa sia dal-
lo scettico S sia dal suo opponente O.
Lo scettico S, però, dovrà anche riconoscere «una minimale condizione di
coerenza; non certamente una condizione basata sul rispetto del principio di non
contraddizione – che lo scettico si propone al contrario di negare –, ma quella
richiesta dall’esigenza per lo scettico (1) di impegnarsi con tutto ciò che è impli-
cato dalla sua tesi – il darsi della contraddizione – e (2) di non accettare niente
che sia incompatibile con essa»37. In particolare, l’affermazione di «tutto ciò che
è condizione necessaria» perché τ rimanga fermo, sarà assunta come regola S1:
τ⊢ α
⊢α
α ⊢¬τ
⊢ ¬α
36
Dove, la cancellazione di X è dovuta al carattere di ‘incondizionato’ proprio di τ.
37
Ibi, pp. 79-82.
992 paolo pagani
zione della contraddizione38. In particolare, poi, S2 è «l’unica regola che nella teo-
ria scettica presiede alla sintassi della negazione»: infatti, a S interessa solo negare
ciò che contraddice τ, e non certo ciò che è autocontraddittorio39. Da S2 è possibile
comunque derivare una versione di NC limitata al caso τ – e cioè ¬(τ ∧¬ τ) –,
nonché la doppia negazione di τ – e cioè ¬¬τ 40. Chiaramente le regole S1 e S2,
caratterizzano la tesi dello scettico S e pertanto non possono essere condivise dal
suo opponente O. In particolare O non può accettare una regola tanto impegnativa
come S2 – dalla quale è derivabile la stessa ¬¬τ. L’opponente O condivide espli-
citamente con lo scettico solo il calcolo e, e in particolare la regola AE. D’altra
parte S non può esimersi dall’accettare AE, perché AE è un caso particolare di S2.
In tale quadro, O dovrebbe riuscire a derivare in e la premessa τ ⊢ ¬ τ, perché,
a questo punto, potrebbe ottenere, attraverso AE, quanto occorre al suo scopo,
ovvero ¬τ 41.
Ora, l’autentico problema elenctico sta proprio qui: nella derivazione della pre-
messa di AE (premessa che chiameremo p). In proposito, Galvan distingue tra (1)
il caso di una formulazione «generale» e (2) quello di una formulazione «locale»
di τ; e anticipa che ottenere p per una formulazione generale di τ non è problema-
tico, mentre risulta impossibile per una formulazione locale.
Nel caso della formulazione scettica generale – ∀α(α ∧ ¬α) –, per derivare p si
può usare questa strategia42:
Diverso è il caso della formulazione locale. Infatti, per escludere che la contrad-
dizione valga anche solo per qualche α, «occorrerebbe dimostrare non semplice-
mente che ¬∀α(α ∧ ¬α) ma che ∀α¬(α ∧ ¬α), e per ottenere ciò, è necessario
qualcosa di aggiuntivo rispetto al calcolo e»43. Quello della negazione locale è il
rifugio più semplice per S, il quale potrebbe anche limitarsi ad affermare che tutto
38
«S1, infatti, contiene, innanzitutto, l’affermazione di τ: data la validità di τ ⊢ τ, si ha per S1
anche ⊢ τ. In più, S1 dichiara la determinazione dello scettico a sostenere tutto ciò che è condizione
necessaria della sua tesi. S1 è dunque espressione del rigore consequenziale dello scettico, rispetto
alla tesi sostenuta e alle sue implicazioni. Si noti, tra parentesi, che il ruolo di S1 è ulteriormen-
te ribadito dal fatto che al suo posto si potrebbe porre equivalentemente ⊢ τ come assioma della
contraddizione, a partire dal quale le implicazioni di τ seguirebbero per MP. […] S2 è espressione
dell’esigenza, da parte dello scettico, […] di opporsi a oltranza a tutte le forme di negazione della
sua tesi e quindi di negarle» (ibi, pp. 82-83).
39
In tal senso, S2 non è confondibile con la regola ¬j, la cui accettazione da parte di S sarebbe
impossibile, in quanto attraverso ¬j è possibile la derivazione di NC (ibi, p. 83).
40
Ibidem.
41
Ibi, p. 84.
42
Ibi, pp. 84-85.
43
Ibi, p. 85.
la forma dell’élenchos 993
44
Se fosse derivabile p, cioè τ ⊢ ¬τ – nel caso in cui τ fosse appunto α ∧ ¬α –, allora risultereb-
be derivabile in e esattamente ¬(α ∧ ¬α), cioè lo stesso NC.
45
Spiega Galvan che la non derivabilità di NC all’interno di e, non è solo questione di fatto, ma
può anche essere stabilita a priori, considerando che NC non è derivabile neppure dal calcolo b+AC,
di cui e è soltanto una restrizione (ottenuta per applicazione di AC al caso in questione). E che NC
non sia derivabile nel calcolo b+AC, è qualcosa che Galvan ha dimostrato con un teorema preceden-
te (si veda ibi, pp. 71-74), basato sulla costruzione di un contromodello all’interno di una semantica
di tipo kripkiano, verificante la correttezza di b+AC.
46
Galvan indica in proposito la prima figura della regola di contrapposizione (Ca) oppure lo
pseudo-Scoto. Nel primo caso, si avrà:
α ∧ ¬α ⊢ α ∧ ¬ α per assunzione
α ∧ ¬α ⊢ α per E∧
¬ α ⊢ ¬(α ∧ ¬α) Ca
α ∧ ¬ α ⊢ ¬(α ∧ ¬ α) per RP e ∧I
τ ⊢ ¬τ per def. di τ
Nel secondo caso, si avrà invece:
α ∧¬α ⊢ α ∧ ¬α per assunzione
α ∧ ¬α ⊢ α E∧
α ∧ ¬α ⊢ ¬α E∧
α ∧ ¬α ⊢ ¬(α ∧ ¬α) (¬i)
τ ⊢ ¬τ per def. di τ
(si veda ibi, p. 87).
47
Ibi, pp. 87-88.
994 paolo pagani
qualcosa che va da sé; mentre ciò che più importa rilevare è che la stessa posizione
della negazione, con la struttura sintattica e la intenzionalità semantica (pragmati-
camente condizionata) che esso realizza, è un inveramento delle costanti apofan-
tiche: nella fattispecie, è un inveramento del PDNC, inteso come norma sia della
coerenza sintattica sia della determinatezza semantica e illocutoria.
Che poi la cosiddetta «negazione locale» di NC non risulti logisticamente con-
futabile, è qualcosa che non intacca il senso proprio di élenchos. Infatti, anche la
negazione locale, per proporsi come tale, ha bisogno di osservare di fatto – come
è testimoniato dalle regole S1 e S2 – quella condizione di autocoerenza di cui
NC è espressione formalizzata: anche la negazione locale, infatti, evita di porre la
negazione di sé. Non solo, ma così facendo, essa tutela la propria determinatezza
semantica, e lo fa attraverso una – almeno implicita, ma comunque esplicitabile –
intenzione illocutoria. Come bene illustra Galvan, S1 e S2 vanno infatti tradotte (o
proiettate)48 così: «affermo tutto ciò che è condizione necessaria della mia posi-
zione e nego tutto ciò che la elimina»49. In sintesi, ciò che importa rilevare è che,
porre linguisticamente alcunché, significa porlo secondo la non-contraddizione –
in tutti i sensi che questa assume in riferimento analogico alle diverse dimensioni
del linguaggio. E ciò è quanto basta alla logica di élenchos, nel cui programma
non rientra qualcosa come la derivazione apodittica di NC per tutte le formule di
un linguaggio, ma semplicemente l’evidenziazione che il PDNC è implicazione
inevitabile di ogni costruzione linguistica (e non solo).
Un’ultima osservazione può riguardare l’impianto complessivo di e. Che il
progetto di un simile calcolo fosse inadeguato alla espressione di élenchos, è
qualcosa che era lecito pronosticare già in partenza, rilevando che AC (la cui
regia, nella forma di AE, è fondamentale in e) viene derivata da Galvan attraverso
l’impiego della regola ¬j 50. Ora, è chiaro che ¬j non presuppone epistemicamen-
te – dal punto di vista logico-formale – la validità di NC; ma è anche chiaro che
essa esprime tematicamente la valenza di incompatibilità sintattica che è propria
del PDNC, e alla evidenza di esso fa sicuro riferimento51. In tal modo, una pretesa
formalizzazione logistica di élenchos finisce per prospettarsi come una petitio
principii, in cui si presume di far valere, in questo caso, NC, facendo appello a
regole che vivono già dell’evidenza del PDNC trascendentalmente considerato.
48
Le condizioni di significanza o di coerenza appartengono al piano illocutorio, e vanno dunque
proiettate sul terreno locutorio, perché possano interagire con le regole sintattiche esplicitate nel calcolo.
49
Ibi, p. 82.
50
Ibi, pp. 15-16.
51
Galvan evidenzia (si veda ibi, p. 75) che l’implicazione materiale di NC da parte di ¬j non
è mediata da AC (e quindi, a maggior ragione, da AE), ma ciò che abbiamo messo in questione nel
nostro intervento non sono le derivazioni logico-formali che riguardano i nessi vigenti tra le regole
di derivazione di un certo apparato assiomatico.
Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, CXII (2020), 4, pp. 995-1015
ISSN: 00356247 (print) - 18277926 (digital)
DOI: 10.26350/001050_000228
Félix Duque*
L’arte della verità
una possibile risposta alla domanda dell’essere
In the final stage of metaphysics, understood by Heidegger as the planetary reign of «cyber-
netics» and interpretable today as «digital ontotechnology», was precisely the ambiguous
character of the booming modern technology (like a pharmakón), with its Entbergung
character, that opened the way for him to think that in the implementation of the truth of
being carried out by means of a téchne revolt against its own function of servitude, a his-
torical «world» and the «earth» as the settlement of a people could be polemically joined
together as a rejection of any utilitarian claim of dominion over the «things-as-objets».
This conflict in the work of art can still be particularly helpful in understanding the current
© Vita e Pensiero / Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
Perché Martin Heidegger continua a destare attenzione? Tenendo conto della sua
adesione – esplicita e duratura – oramai ben nota al nazionalsocialismo (per quanto
potrebbe essere considerato un nazionalsocialismo privato, e aspramente critico
nei confronti dell’ideologia «volgare» del movimento a partire dal 1938), perché
si continua a prestare attenzione al suo lavoro, nonostante tutti gli sforzi di Farias,
Faye1 e di molti altri per emarginare la sua figura e i suoi testi da ogni attività – non
*
Universidad Autónoma de Madrid. Email: felix.duque@uam.es
Received: 06.05.2020; Approved: 26.05.2020.
Traduzione di Roberto Colonna.
1
Cfr. V. Farias, Heidegger et le nazisme, Verdier, Lagrasse 1987; tr. it. di M. Marchetti e P. Ama-
ri, Heidegger e il nazismo, Bollati Boringhieri, Torino 1988; E. Faye, Heidegger. L’introduction du
nazisme dans la philosophie. Autour des séminaires inédits de 1933-1945, Albin Michel, Paris 2005;
tr. it. di F. Arra, Heidegger. L’introduzione del nazismo nella filosofia, L’Asino d’oro, Roma 2012.
996 félix duque
solo accademica – come se fossero una piaga? Perché continuano a tenersi con-
gressi per svelare i molteplici e vari aspetti della sua opera sul pensiero meditante
(Besinnung), quando tutti sappiamo dai Quaderni Neri (Schwarze Hefte) che questo
pensatore – che non voleva più essere un filosofo – nutriva sentimenti antisemiti
così schietti e onnicomprensivi da ritenere il Weltjudentum (giudaismo mondiale)
responsabile del trionfo dell’Amerikanismus e dell’espansione planetaria della tec-
nica? Cosa può esserci di straordinario nel suo pensiero da meritare – e, a dispetto di
tutto, di continuare a meritare – così tanta attenzione, pur provenendo essa anche da
settori esterni all’insegnamento e alla ricerca filosofica?
La risposta è semplice. Spiegarlo e dimostrarlo, tuttavia, è un compito molto
difficile. Il pensiero heideggeriano si è posto, con vigore e ostinazione, come
prosecutore – polemico e divergente – di Hegel e di Nietzsche, e come radicaliz-
zazione di entrambi, per smantellare l’intero edificio della filosofia: la metafisi-
ca, denunciata come ontoteologia, porta alla luce gli elementi finali del pensiero
occidentale, responsabile della derivazione di ciò che Sigmund Freud aveva defi-
nito il disagio della civiltà. Del resto, oggi siamo sicuramente disposti, più che ai
suoi tempi, a capire che questo smantellamento o distorsione (Verdrehung) della
metafisica può e deve essere esteso all’onto-tecnologia attuale, trionfo e miseria
delle tecnologie digitali delle informazioni e delle comunicazioni che dirigono e
controllano il nostro mondo.
Argomento di ampio respiro, e che verrà affrontato solo a grandi linee, per
suggerire la possibilità che, già negli anni Trenta del secolo scorso, il pensatore si
sia reso conto che la questione dell’essere non poteva essere sviluppata solo dal
punto di vista di un’ontologia fondamentalmente intesa come analisi esistenzia-
le del Dasein, bensì dovesse trovare una contro-risposta (Ant-Wort) proprio nel
pensiero, mettendo in gioco la verità del suo disvelamento nella donazione stessa
dell’essere dell’ente attraverso l’opera d’arte. Forse anche oggi, ma con maggio-
re radicalismo e sforzo, potrebbe essere l’arte contemporanea ad aver lasciato in
franchigia la possibilità di porre in essere la verità nel e del nostro tempo (e a
volte, e nello stesso rispetto, della sua Unwahrheit e del suo Unwesen), anche se
non mi soffermerò alla spiegazione di questa proposta, avendolo già fatto in altri
luoghi, soprattutto in riferimento alla video-arte2 e all’infografica digitale3.
2
Penso alle opere di Don Graham, Antoni Muntadas e, soprattutto, di Bill Viola. Rinvio a questo
proposito al mio saggio, Videoarte e logica iconoclasta, in A. Bertinetto - G. Garelli (a cura di),
Morte dell’arte e rinascita dell’immagine. Saggi in onore di Federico Vercellone, Aracne, Roma
2017, pp. 97-111. Si vedano anche i miei testi, Il mondo, dall’interno. Ontotecnologia della vita
quotidiana, Mimesis, Milano - Udine 2012; e da una prospettiva critica, Gastrosofia divina. Il cibo
dello Spirito nell’era tecnologica, InSchibboleth, Roma 2018.
3
Si veda L’occhio elettronico, in G. Cantillo - C. Ciancio - A. Trione - F. Vercellone (a cura
di), Ontologie dell’immagine, Aracne, Roma 2012, pp. 197-227. Ho anche affrontato la transizione
qui menzionata dalla metafisica all’ontoaritmologia digitale in Filosofía de la técnica de la natura-
leza, Abada, Madrid 2019, in particolare, nel capitolo IX, Del Dios como señor de lo ente al usuario
como ‘señor’ de Internet, pp. 333-363.
l’arte della verità 997
4
Non è un caso che Heidegger nell’ultimo corso tenuto all’Università di Friburgo – come pro-
fessore emerito – chiarirà quei colpi di scena che attraverso il «principio di ragion sufficiente»
finirono per servire da base per l’Informazione ubiquamente regnante (cfr. M. Heidegger, Der Satz
vom Grund [1957], hrsg. von P. Jaeger, in Gesamtasugabe [d’ora in poi GA] I.10, Klostermann,
Frankfurt a.M. 1997, in part. Vortrag, pp. 171-189; tr. it. di G. Gurisatti - F. Volpi, Il principio di
ragione, Adelphi, Milano 1991, pp. 195-218).
998 félix duque
ognuno, rinchiuso nelle sue esperienze (poiché è oramai già noto il de gustibus non
est disputandum). Tutto ciò, certamente, inizia ad essere messo in discussione ai
nostri giorni da un lato con le grandi Technology and Commnication Corporations
(Apple, Microsoft, Google, Amazon, Facebook); dall’altro, con le rivolte populi-
ste, che propagano la salvezza da questa tecnocrazia in cambio dell’obbedienza a
un leader, salvatore della patria. Ma, nonostante tutto, l’ideologia dominante rima-
ne quella della borghesia che accetta il «libero» mercato e si impegna in un mal-
concio Stato democratico di diritto.
L’ambito spazio-temporale celebra allo stesso modo il suo trionfo assoluto pro-
prio quando – e perché – si insiste sul fatto che, con le nuove tecnologie elettroniche
(fondamentalmente, la televisione e internet), il mondo è diventato più piccolo (al
punto che attualmente si adatta allo schermo di un telefono cellulare) e le comuni-
cazioni sono già istantanee, il che ovviamente rafforza i presupposti moderni di uno
spazio isomorfo, in cui il cambiamento di scala non avrebbe importanza (un buon
esempio «estetico» di questa convinzione è nello smisurato ingrandimento del ritrat-
to di Jacqueline a Chicago – il Chicago Picasso –, o in quello della Desocupación de
la esfera di Oteiza, di fronte al Municipio di Bilbao), e di un tempo unidimensionale
e irreversibile: un tempo «contenitore» il cui più grande successo sarebbe il conteni-
mento di tutta la realtà nel tempo reale, ovvero la coincidenza dell’evento, della sua
registrazione, del suo registro e del suo archivio.
D’altra parte, la socievolezza generalizzata si dissemina e si sparge in numero-
se comunità, reali o virtuali, tutte apparentemente compatibili tra loro e adagiate
sulla convinzione umanista di un’ultima, definitiva e onnicomprensiva umanità.
Tale convinzione si esprimerebbe herderianamente attraverso questi gruppi, pro-
muovendo così l’avvento di una coscienza collettiva nel villaggio globale, benché
oggi sia difficile credere in una presunta fine della storia come negli anni Novanta
del secolo scorso. Anche qui l’obiettivo è l’identità, paradossalmente raggiungibi-
le attraverso la proliferazione delle differenze (anche se sarebbe meglio parlare di
«varietà» superficiali), secondo la tanto celebrata glocalizzazione. E, se in un’oc-
casione il Verbo si è fatto Carne, si può ben dire che la tendenza ora si inverte:
tutta la «carne» può essere codificata in linguaggio-macchina e quindi tradotta in
fibra di vetro e chip di silicio. I videogiochi, le protesi elettroniche, e soprattut-
to YouTube e i social network, propagano e intensificano solo questa tendenza a
ridurre la realtà all’ideale di auto-trasparenza e autoreferenzialità.
Un Ideale questo (nel cui Nome viene giudicata e condannata la realtà «car-
nale», un tutto fluido non suscettibile di formalizzazione e di matematizzazione)
che porta immediatamente al tratto distintivo di tutta la metafisica: il paradigma,
il modello o pattern a partire dal quale controllare, classificare e «impacchettare»
solo quelle caratteristiche riconosciute delle cose che ne consentono la manipola-
zione. Tutta l’Informazione è basata su questa costruzione di modelli, che stanno
già arrivando – tanto quanto le simulazioni – non tanto per forgiare una realtà
precedentemente esistente, quanto per generarla, proponendosi poi proprio come
modelli per produrre una realtà a sua immagine e somiglianza. Le ideae verae
l’arte della verità 999
et aeternae (che dimorano nella mente di Dio e finiscono per costituirlo omnitu-
do realitum sive perfectionum), tipiche della tradizione metafisica, costituiscono
a questo proposito un buon antecedente delle simulazioni, descritte e denunciate
accuratamente da Jean Baudrillard.
Né sembra che le nuove tecnologie dell’informazione abbiano alterato il
modello metafisico occidentale della verità, basato sulla rappresentatività e sulla
referenzialità. Piuttosto, hanno corroborato la credenza nella verità per corrispon-
denza o per adattamento (tra segni – mentali o grafici – e cose), cambiando l’ordine
e la gerarchia dei fattori: come appena indicato, ora sono gli antichi simboli (asce-
si a simulacri) quelli che fanno le cose-dispositivo in modo che corrispondano a
loro. I responsabili del trattamento dei dati dettano e decidono quali dovrebbero
essere le caratteristiche per loro appropriate, allo stesso modo in cui le immagini
e i concetti tradizionali limavano e raffinavano la realtà sensibile al punto da pro-
porsi in seguito (essi stessi o le loro copie «segniche») come «modelli» di ciò che
la realtà dovrebbe essere, eliminando il resto. Tra l’altro, questo è il criterio di bel-
lezza tipico della tradizione estetica occidentale, che culmina in Hegel: la statua, il
dipinto o il poema come operazioni di purificazione di una realtà irregolare e poco
«presentabile», per non dire lercia, stilizzazioni della realtà, e allo stesso tempo
stimoli e incitamenti a cambiarla secondo le esigenze ideali dell’arte.
E infine, tutte queste caratteristiche – che, come si può vedere, si corrispon-
dono e si rinviano le une alle altre, fino a formare una solida entità globale, ossia
l’Essere dell’ente – sono proiettate in un orizzonte ultimo di perfezione, in cui
ogni luogo (tópos) finisce per diventare un sito, una tessera del puzzle dell’Uma-
nità riconciliata. Così, l’utopia è più che mai presente ai nostri giorni attraverso
i portavoce di un «mondo migliore» e, a loro volta, attraverso l’informazione e
il regime tecno-scientifico e democratico che la propaga a livello planetario e la
sostiene, se necessario, con la forza delle armi. Armi, a loro volta, tecno-scienti-
ficamente progettate e realizzate, e trasmesse urbi et orbi dai grandi media, che
promuovono idealmente il cambiamento di mentalità, e così all’infinito, come in
un servomeccanismo di retroazione. E, altrimenti, ascoltiamo i nuovi ideologi.
Dall’architettura ci viene promesso che le reti computazionali avranno abbastanza
«potenziale per liberarci dalle strutture gerarchiche, per permetterci l’espressione
individuale e realizzare la definizione ultima della nostra umanità, individuale e
collettiva»5. E dalla psicologia cyberspaziale ci viene ampiamente ribadito quel-
lo che stiamo dimostrando: in campo tecnologico, buona parte della cosiddetta
«postmodernità» porta solo all’estremo le tendenze utopiche insite nella moder-
nità illuminata, e che la «lotta» tra entrambe le «epoche» non era, in definitiva,
che una superficiale «lite familiare». Come segnala anche Sherry Turkle con una
5
M. Pearce, From Urb to Bit, «Architectural Design», 118 (1995), numero monografico dedi-
cato a Architects in Cyberspace, p. 7, https://monoskop.org/images/2/2d/AD_118_Architects_in_
Cyberspace_1996.pdf (data di ultima consultazione 15 aprile 2020).
1000 félix duque
certa ingenuità (per quanto abbia insegnato vent’anni Initiative on Technology and
Self al MIT – o forse proprio per questo) nella sua influente Life on the Screen, «la
classica visione moderna dell’intelligenza informatica ha lasciato il campo a quel-
la romantica postmoderna»6.
Attraverso una feconda analisi retrospettiva, si può invece affermare che la
pars destruens del pensiero di Martin Heidegger si condensa nel magnifico risul-
tato di aver localizzato il culmine della metafisica nell’Information linguistica7 e
nella cibernetica computazionale8, unendo così indissolubilmente la sua ultima
riflessione e l’incipiente tecnologia planetaria. Sarebbe tuttavia errato (un erro-
re favorito da alcuni testi dello stesso Heidegger) credere che in questo modo il
pensatore si abbandoni a una sorta di demonizzazione della tecnica e della società
attuale, che rimpianga nostalgicamente il mondo perduto della Foresta Nera e
l’idilliaca vita di campagna9. Si può dire, al contrario, che le innegabili critiche
all’Amerikanismus e allo stile di vita attuale lanciate dall’ultimo Heidegger derivi-
no dalla consapevolezza che con la fine della filosofia, l’avvento della cibernetica
e della società automatizzata, si stia compiendo un destino: quello del pensiero
occidentale nel suo insieme, di cui lui stesso fa parte (Heidegger sosterrà in segui-
to che non è possibile superare la filosofia ma al massimo risalirla, portando-
sela con sé come una malattia dalla quale non è possibile – per ora – recuperare
6
S. Turkle, Life on the Screen. Identity in the Age of the Internet, Simon and Schuster, New
York 1995, p. 63; tr. it. di B. Parella, La vita sullo schermo. Nuove identità e relazioni sociali nell’e-
poca di Internet, Apogeo, Milano 1997, p. 68.
7
Cfr. M. Heidegger, Überlieferte Sprache und technische Sprache (1962), Erker, St. Gallen
1989, pp. 25-26; tr. it. di C. Esposito, Il linguaggio tramandato e il linguaggio tecnico, ETS, Pisa
1997, pp. 52-53: «Se l’informazione [Information: si potrebbe dire anche l’informatica], nel senso di
un dominio della tecnica che determini tutto quanto, viene ritenuta la forma suprema di linguaggio,
a motivo della sua unicità, della sua sicurezza e della sua velocità nella comunicazione di notizie
e di comandi, da ciò risulterà pure una concezione corrispondente dell’essere umano e della vita
umana. In questo senso leggiamo in Norbert Wiener, uno dei fondatori della cibernetica, e cioè di
quella disciplina della tecnica moderna che si è spinta più lontano di tutte: “Vedere il mondo intero
e impartire degli ordini al mondo intero, è quasi lo stesso che essere dappertutto”» (cfr. N. Wiener,
Mensch und Menschmaschine, Metzner, Frankfurt a.M. 1952, p. 95; tr. it. di D. Persani, Introduzione
alla cibernetica, Bollati Boringhieri, Torino 1953, p. 120).
8
Alla fine, la filosofia si dissolve in diverse scienze autonome, la cui nuova unità è ora affidata
alla cibernetica: «Le scienze sono indotte a presentare quest’accadimento come l’avvento di un
processo di controllo e d’informazione. La nuova scienza che unifica, in un senso nuovo di unità,
tutte le varie scienze si chiama cibernetica» (M. Heidegger, Zur Frage nach der Bestimmung der
Sache des Denkens [1965], Erker, St. Gallen 1984, p. 7; tr. it. di A. Fabris, Filosofia e cibernetica,
ETS, Pisa 1988, p. 31).
9
In ogni caso, i sogni pseudo-romantici di questo tipo si trovano schizzati nei testi di Heidegger
di tutte le epoche, e non possono essere quindi considerati un tentativo di «rifugio» dopo la sconfitta
della Germania nella Seconda Guerra Mondiale. Lo scritto più significativo di questa tipologia di sag-
gi è Schöpferische Landschaft: Warum bleiben wir in der Provinz? del 1933 (in Aus der Erfahrung
des Denkens. 1910-1976, hrsg. von H. Heidegger, in GA I.13, 1983, pp. 9-13; tr. it. di N. Curcio,
Paesaggio creativo: perché restiamo in provincia?, in Dall’esperienza del pensiero. 1910-1976, il
Melangolo, Genova 2011, pp. 12-14). Questo «poetico» testo fu scritto da Heidegger proprio per
giustificare il suo rifiuto ad occupare una cattedra a Berlino, ossia vicino al Potere nazionalsocialista.
l’arte della verità 1001
10
M. Heidegger, Die Frage nach der Technik (1953), in Vorträge und Aufsätze, hrsg. von F.-W.
von Hermann, in GA I.7, 2000, pp. 5-36, qui p. 21; tr. it. di G. Vattimo, La questione della tecnica, in
Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, pp. 5-27, qui p. 15.
11
Ibi, p. 25; tr. it., p. 18.
1002 félix duque
qualcosa fino a quel momento inesistente), quanto quello del dire genuino: il par-
lare del poietés, ossia del «poeta». Tuttavia, il lavoro non cessa di appartenere al
più ampio ambito di applicazione della téchne. Questo termine greco ingloba infatti
sia il saper-fare (know-how) tecnico (e non, senz’altro, la tecnica), in quanto saper
pro-durre, porre-qui-davanti l’utile («cose» a portata di mano con cui fare altre cose
e metterne altre «in vista», rendendole presenti); sia l’arte, in termini di apertura del
mondo, ossia di uno spazio di significatività, di intelligibilità, all’interno del quale
– come un simbolo, nel senso antico di symbállein, di «combinare e raccogliere il
disperso» – hanno il loro posto le cose e l’utile. Ed è questa vicinanza, questa coap-
partenenza originale di téchne e di poíesis, vale a dire di tecnica e arte, che è risultata
fatale, nel senso letterale di «conforme al destino»: il destino stesso dell’Occidente,
secondo Heidegger. Poiché l’arte sarebbe andata progressivamente perdendo il suo
senso originario di «creatore» di mondi per sfigurarsi in una tecnologia che rispon-
de alla necessità di programmare e provocare tutto l’ente al fine di assegnargli con
sicurezza un sito e un luogo, attraverso l’attribuzione dell’identità, di una cornice
spazio-temporale, di una comunità ideale, di paradigmi… e di tutto l’armamentario
metafisico-cibernetico che abbiamo già analizzato.
Heidegger ha saputo sottolineare con precisione questa pericolosa ma rivela-
trice vicinanza di tecnica e arte: «Così domandando, noi attestiamo lo stato di
difficoltà per cui, con tutta la nostra tecnica, non sappiamo ancora cogliere ciò che
costituisce l’essere della tecnica, e con la nostra estetica non custodiamo più ciò
che costituisce l’essere dell’arte. Tuttavia, quanto più interrogativamente conside-
riamo l’essenza della tecnica, tanto più misteriosa diventa l’essenza dell’arte»12.
Manteniamo qui, per il momento, due punti essenziali: il «dar testimonianza» di
una situazione calamitosa, in cui si rivela una penuria, la mancanza di qualcosa di
essenziale, e l’analogia tra tecnica ed estetica, indicando con quest’ultimo termine
il modo sentimentale nel quale, nella modernità, si ha esperienza nell’arte.
Also fragend bezeugen wir, dice Heidegger: domandando in questo modo, atte-
stiamo, diamo testimonianza, diamo fede di qualcosa. Si noti al riguardo la diffe-
renza tra «dare testimonianza» e «dare fede». Il testimone giudica imparzialmente
un evento e ne dà conto e ragione, senza la necessità né di essere né di sentirsi
compromesso con ciò che è successo. D’altra parte, colui che dà fede di qualcosa
(in greco: mártys, il «martire») non solo si sa e vuole esserne coinvolto, anzi, nella
sua testimonianza, il testimone si gioca la sua vita e la sua parola. Il testimone
descrive quello che c’è. Chi dà testimonianza annuncia ciò che manca. Non può
valutare una situazione come quella a cui si accennava, au-dessus de la melée, ma
unirsi ad essa per aprirsi a un possibile cambiamento improvviso dall’interno. Dare
testimonianza non è, ovviamente, fare una confessione passiva, ma un metterci la
faccia, un prendere su di sé una situazione, facendosi carico di essa. Heidegger –
12
Ibi, p. 36; tr. it., p. 27.
l’arte della verità 1003
e con lui i lettori, ai quali si appella e con cui si compromette con quel wir, ossia
«noi» – non è al di fuori da questo Notstand (Not è una necessità estrema, una
penuria, ma significa anche, come Notstand, «stato di eccezione», situazione nella
quale leggi e norme quotidiane restano sospese: momento della crisi). Tuttavia,
chi testimonia una carenza conosce, insieme alla mancanza, cosa manca e cosa
serve; lo intravede, si potrebbe dire, di sbieco, indirettamente. In questo modo il
martire dà allo stesso tempo testimonianza di ciò che «è» e di ciò che «manca».
Tale situazione è la congiuntura della penuria e del suo rimedio («congiuntura»,
Fügung, Gefüge: ciò che accade all’istante, propiziando l’assemblaggio della
situazione e della mancanza; da qui la denominazione heideggeriana Ereignis,
«evento propizio»). Con il martire succede qualcosa di molto paradossale, vale a
dire chi dà testimonianza si trova diviso, lacerato nell’intervallo, nell’istante deci-
sivo che separa il tempo presente (quello della situazione in cui si trova): il tempo
della condanna, e il tempo a venire (quello della restaurazione della mancanza): il
tempo che potrebbe salvarlo, ma senza farlo ancora.
In tal senso, come si vede, l’attitudine di Heidegger come «martire» sembra
più quella propria di un profeta che di un filosofo. Con tuttavia una differen-
za essenziale: il profeta vede, o gli viene detto, quello che deve succedere; può
quindi testimoniarlo perché prima è stato testimone; si limita a ripetere ciò che
– per lui – è già accaduto come qualcosa che – per gli altri – accadrà. Il profeta
è passivamente inserito in un supposto ciclo a tempo pieno (passato della pre-
veggenza, presente della profezia, futuro dell’evento) e, quindi, completamen-
te impantanato in una considerazione metafisica della realtà. Al contrario, dare
testimonianza di ciò che manca (in questo caso, l’uomo fa l’esperienza dell’es-
senza della tecnica e ritorna a custodire quella «essenza», cioè ciò che si dispiega
nell’arte) implica un’azione a favore di qualcosa che, come origine essenzia-
le, è latente – come soffocata – nella situazione di penuria. Dare testimonian-
za è quindi un comportamento, una realizzazione di atti (letteralmente, poíesis)
e persino una disposizione a dare la vita per ciò che manca. Pertanto, si può
concludere che chi veramente testimonia un’origine soffocata, ma che lotta per
schiudersi, è fondamentalmente il poeta: il «poeta», un termine che includereb-
be non solo poeti e artisti, ma anche il pensatore. E in effetti, Heidegger dà per
scontato che nella sua filosofia (della cui mancanza, in quanto riflessione, però
del tempo indigente, Heidegger è pienamente consapevole) «il pensare sia […]
un’opera della mano»13 (Handwerk, di solito «artigianato»). Tre anni prima, nel
1932, Heidegger aveva confidato alla sua amica Elisabeth Blochmann: «Io, di
fronte al lavoro, ho sempre la disposizione di spirito [Stimmung] di chi lavora
13
Id., Der Ursprung des Kunstwerkes (1935/1936) [d’ora in poi ukw], in Holzwege, hrsg. von
F.-W. von Hermann, in GA I.5, 1977, pp. 1-74, qui p. 3; tr. it. a cura di V. Cicero, L’origine dell’opera
d’arte, in Holzwege. Sentieri erranti nella selva, Bompiani, Milano 2002, pp. 5-89, qui p. 7.
1004 félix duque
con martello e scalpello»14. Naturalmente, ciò non significa che Heidegger deb-
ba essere considerato nient’altro che un artista, al posto di essere un pensatore,
ma che artisti, poeti e pensatori (e, egli credeva, durante un accidentato periodo,
negli anni Trenta, anche i «fondatori dello Stato») hanno la stessa Stimmung,
ovvero «stato d’animo» o, meglio, «accordo»; l’essere d’accordo e concordare
con l’origine latente che muove la tua mano e infiamma il tuo pensiero: l’Essere.
Per quanto riguarda l’arte propriamente detta, già sappiamo in che cosa consi-
ste questa disastrosa situazione, vale a dire che non custodiamo (bewahren «pre-
servare qualcosa nella sua verità», Wahrheit) né preserviamo più ciò che si mostra
nella sua essenza (Wesung) e si decanta e si spiega nell’arte15. E sappiamo anche
cosa impedisce questo «recupero» della preservazione dello stato d’animo, vale a
dire la ricezione estetica dell’arte. Cos’è, allora, l’estetica?
Due anni dopo il decisivo saggio sull’origine dell’opera d’arte, Heidegger
tenne la conferenza L’epoca dell’immagine del mondo. Lì sono elencati i cinque
«fenomeni» nei quali si può vedere l’impronta della metafisica nella modernità,
vale a dire la scienza, la tecnica macchinica, l’estetica, la cultura e la de-divi-
nizzazione (Entgötterung, noi diremmo «secolarizzazione»). Sono fenomeni che
racchiudono l’intera esistenza dell’uomo, quindi, in quanto tali, non solo domi-
nano una regione dell’ente (come se si trattasse di specie del genere «modernità»,
divise in frammenti sospesi) ma si riverberano gli uni negli altri, compenetran-
dosi e co-appartenendosi. Questo punto mi sembra di particolare rilevanza. Dun-
que, in relazione all’estetica, Heidegger sottolinea «che l’arte è ricondotta [rückt,
“mettere o posizionare qualcosa in un altro luogo”] nell’orizzonte dell’esteti-
ca»16. Ciò significa che questo orizzonte non si limita a circoscrivere l’arte, ma, al
14
Lettera del 5 ottobre del 1932 in M. Heidegger - E. Blochmann, Briefwechsel (1918-1969),
hrsg. von J.W. Storck, Deutsche Schillergesellschaft, Marbach a.N. 1990, pp. 54-55; tr. it. di R.
Brusotti, Carteggio 1918-1969, Il Melangolo, Genova 1991, p. 93.
15
Si noti che, in questo «non più», scivola un tratto «profetico», nel senso sopra indicato. Heideg-
ger tardò nel superare (se mai lo abbia fatto davvero) quella che potremmo chiamare «grecomania»,
così tipica degli intellettuali tedeschi (contro una certa «romanofobia»). Mentre l’esperienza dell’es-
senza della tecnica è qualcosa di inedito, senza supporto (per cui, per farla, abbiamo bisogno di atti
veramente poetici, «creatori»), Heidegger crede invece che ci fu un tempo (potremmo quasi dire «c’e-
ra una volta») nella polis greca, in cui i sovrani (diciamo Pericle) custodivano l’origine (l’essenza)
dell’opera d’arte (fatta, diciamo, da un Fidia), questa congiunzione del «creatore» (der Schaffende) e
del «preservatore» (der Bewahrende), permettendo all’opera di «realizzarsi», di coagularsi (geschafft
wird) e di mantenere così il popolo unito (senza intervento diretto di quest’ultimo; a quanto pare Hei-
degger trascura l’isegoria e l’isonomia, proprie della democrazia). Si noti che queste considerazioni
sono state scritte negli anni cruciali 1935-36 sia ne L’origine dell’opera d’arte che in Introduzione alla
metafisica (corso estivo del 1935); cfr. Einführung in die Metaphysik (1935), hrsg. von P. Jaeger, in GA
II.40, 1983; tr. it. di G. Masi, Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1968.
16
M. Heidegger, Die Zeit des Weltbildes, in Holzwege, pp. 75-113, qui p. 75; tr. it. di V. Cicero,
L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri erranti nella selva, pp. 91-136, qui p. 91 (mod.; cfr.
tr. it. di P. Chiodi, L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze
1968, pp. 71-101, qui p. 72).
l’arte della verità 1005
contrario, la considerazione estetica che, centrata prima sul processo e sulla valu-
tazione delle opere d’arte, si estende ora al modo soggettivo di sentire e di vivere
(di «vivificare», secondo il neologismo orteghiano di Erlebnis) tutta la realtà, con
cui il fenomeno rigoroso dell’arte – insieme con l’essenza che lascia trasparire
– si diluisce in una estetizzazione globale della realtà. Come dice espressamente
Heidegger in questo contesto, «l’opera d’arte diviene l’oggetto dell’esperienza
vissuta [Gegenstand des Erlebens], e di conseguenza l’arte vale come espressio-
ne della vita dell’uomo»17. In questo caso, la proposizione può essere invertita:
l’intera espressione della vita umana è considerata arte.
Più radicale in questo di Walter Benjamin e della sua denuncia del fascismo
come estetizzazione della politica, Heidegger denuncia nel medesimo periodo
(e dall’interno del Movimento stesso!) la globalizzazione dell’estetica in tutti gli
aspetti della vita, anticipando così l’impianto universale della società dello spet-
tacolo, analizzata da Guy Debord. Se l’opera d’arte è vista come un oggetto (ossia
come qualcosa che viene prima rappresentato e poi valutato da un soggetto, sen-
za il cui «atto di presenza» non ci sarebbero né rappresentazioni né valori), vale
quindi la conversione: con ogni oggetto si può raggiungere l’esperienza vissuta
(Erlebnis) del carattere artistico, in modo che i confini tra la «creazione» (o finzio-
ne) e la presunta «realtà» siano sfumati18.
Heidegger apre così una via per comprendere la tarda modernità, una via che
Debord proseguirà e che Jean Baudrillard porterà al parossismo. In effetti, l’estetica
rende l’opera un oggetto di percezione, di aísthesis: «Del percepire sensibile in sen-
so lato»19. Tuttavia, non si tratta di una sensazione o di una percezione psichicamen-
te neutra, ma di una colorazione sentimentale che influenza l’intera vita dell’uomo,
intesa come espressione e valutazione. Ecco perché la percezione si trasforma in
Erlebnis, in «esperienza vissuta»: tanto per l’artista, che si esprime attraverso l’ope-
ra (come se questo fosse un veicolo di comunicazione, al pari del linguaggio, visto
anche come un semplice mezzo di trasmissione), quanto per lo spettatore, impressio-
nato alla vista di tanta espressività. Ecco perché, come dice in modo lapidario Hei-
degger, Alles ist Erlebnis, «Tutto è Erlebnis». E avvicinandosi significativamente
alla tesi hegeliana sull’arte come ultima cosa (citata in effetti subito dopo), suscita il
sospetto che non sarà esattamente l’Erlebnis l’elemento in cui muore l’arte20. Tutta-
via, una nota a margine aggiunta a mano alla copia dell’edizione Reclam dell’opera
17
Ibidem.
18
Seguendo e radicalizzando l’apoftegma hegeliano sulla fine dell’arte, Arthur Danto ha confermato
ai nostri giorni l’esaurimento dell’arte a causa della sua saturazione onnicomprensiva. Quando qualsiasi
cosa, performance o installazione, può essere considerata artistica se approvata da un critico ed esposta
in una galleria o in un museo, allora tutto è arte e niente lo è (cfr. A. Danto, After the End of Art: Contem-
porary Art and the Pale of History, Princeton University Press, Princeton 1998; tr. it. di N. Poo, Dopo la
fine dell’arte. L’arte contemporanea e il confine della storia, Bruno Mondadori, Milano 2008).
19
ukw p. 66; tr. it., p. 81.
20
Ibidem.
1006 félix duque
(1960) dà adito alla speranza. Tutto dipende da ciò che scrisse allora: «Dal vivere
esperienze [Erlebnis] si giunga nell’Esser-ci [Da-sein], e questo vuol dire: raggiun-
gere un “elemento” totalmente diverso per il “divenire” dell’arte»21.
Facciamo ora attenzione a quella allusione, a prima vista misteriosa, al Da-sein
come «elemento», un tempo, proprio dell’arte. Alla deprimente scoperta della disso-
luzione odierna dell’estetica nell’insulsa mercificazione della bolla cibernetica22 (in
parallelo alla dissoluzione della filosofia nella scienza e all’incontro tecnologico di
essa nella cibernetica), Heidegger non ci è arrivato (o non ci è arrivato solo) attraver-
so un esame storico – e, diciamolo, «sociologico»– del divenire delle arti secondo i
cambiamenti nelle formazioni socio-tecniche della modernità, ma lo ha fatto attra-
verso una meditazione ontostorica del divenire essenziale della metafisica (ossia
del suo destino) e, in parallelo, dell’estetica. Basti pensare che la prima versione de
L’origine dell’opera d’arte (una conferenza tenuta nel 1935) aveva come titolo Il
superamento dell’estetica, e che dal 1936 iniziò a scrivere una serie di testi brevi,
dei frammenti (alla maniera del Nietzsche postumo), che pubblicherà successiva-
mente con il titolo Il superamento della metafisica 23. E quella meditazione è emersa
a sua volta da una profonda revisione dell’analisi esistenziale dell’essere umano (del
Dasein) in Essere e tempo. In questo modo ci stiamo avvicinando a quella misterio-
sa allusione al Da-sein come elemento salvifico dell’arte.
Dove ha luogo il superamento dell’estetica? Nell’Appendice del 1956 a L’o-
rigine dell’opera d’arte sono rese con estrema chiarezza l’impostazione e le
intenzioni di quest’opera. In assoluto, si tratterebbe non solo di una «estetica»,
ma anche di una filosofia dell’arte, come se Heidegger fosse interessato a fonda-
re il significato delle creazioni artistiche e della loro ricezione. L’interesse che lo
ha mosso – afferma – è stato strettamente ontologico: «L’intera trattazione L’o-
rigine dell’opera d’arte si muove scientemente, e tuttavia inespressamente, lun-
go la via della questione dell’essenza dell’essere. La meditazione su che cosa sia
l’arte è interamente e decisivamente determinata solo sulla base della questione
dell’essere»24. E a sua volta, la tesi capitale del saggio recita: «Nell’opera d’arte
si è posta in opera la verità dell’ente. L’arte è il porsi in opera [Sich-ins-Werk-
21
Ibidem, Nota b.
22
Jean Baudrillard finirà per sostenere una tesi (una diagnosi e una condanna del suo tempo)
ancora più deprimente e senza speranza. Quando l’arte si dedica interamente all’oscenità della stra-
tegia commerciale, allora «in un certo senso, questo è peggio del niente, perché non significa nien-
te eppure esiste comunque, dandosi tutte le buone ragioni di esistere. Questa paranoia complice
dell’arte fa sì che non ci sia più un giudizio critico possibile, e solo una spartizione in via amichevo-
le, necessariamente conviviale, della nullità. È questo il complotto dell’arte e la sua scena originaria,
[...] che non può risolversi in alcun universo noto perché dietro alla mistificazione delle immagini
l’arte si è messa al riparo dal pensiero» (J. Baudrillard, Le complot de l’art [1996], Sens&Tonka,
Paris 1997, pp. 24-25; tr. it. di L. Frausin Marino, Il complotto dell’arte, SE, Milano 2013, p. 41).
23
M. Heidegger, Überwindung der Metaphysik (1936-1946), in Vorträge und Aufsätze, pp.
67-98; tr. it. di G. Vattimo, Oltrepassamento della metafisica, in Saggi e discorsi, pp. 45-65.
24
ukw, p. 73; tr. it., p. 88 (mod.; cfr. tr. it. di Chiodi, p. 68).
l’arte della verità 1007
25
ukw, p. 25; tr. it., p. 32 (mod.; cfr. tr. it. di Chiodi, p. 25).
26
Si tenga in considerazione un punto molto importante. Contrariamente alle lingue romanze, in
cui «mondo» ha un significato piuttosto spaziale (il «contenitore» in cui sono tutte le cose), il corri-
spondente termine tedesco è etimologicamente orientato verso il tempo. Infatti, Welt deriva da «Wer-
alt», ossia l’«età – o il tempo – dell’uomo» (letteralmente dell’uomo: wer - vir, in latino). Da qui il
senso – scontato per il tedesco – di Weltgeschichte, non tanto «Storia mondiale» (infatti non è vero che
nessuna Storia sia in grado di comprendere lo sviluppo di tutte le terre, paesi e nazioni; smetterebbe
giustamente di essere una «storia») quanto narrazione ordinata degli sforzi dell’uomo – dell’uomo
occidentale, ovviamente – per rendere l’intera Terra il suo mondo. Si tenga in considerazione questo
significato quando esamineremo il modo – pericoloso – in cui Heidegger affronta il concetto di «mon-
do» rispetto al riconoscimento del popolo tedesco – e del «tedesco» – come popolo storico.
27
M. Heidegger, Sein und Zeit [d’ora in poi suz], hrsg. von F.W. von Hermann, in GA I.2, 1977,
p. 92; tr. it. di P. Chiodi, Essere e tempo, a cura di F. Volpi, Longanesi, Milano 2005, p. 91.
28
Id., Vom Wesen des Grundes (1929), in Wegmarken, hrsg. von F.W. von Hermann in GA I.9,
1976, pp. 123-175, qui p. 155, nota 55; tr. it. di F. Volpi, Dell’essenza del fondamento, in Segnavia,
Adelphi, Milano 1987, pp. 79-131, qui p. 111, nota 55.
1008 félix duque
29
suz,
p. 111; tr. it., p. 108 (mod.).
30
suz,
p. 56, nota d; tr. it., p. 60.
31
Ibidem.
32
suz, p. 96; tr. it., p. 95.
l’arte della verità 1009
(la cosa «in vista» è la base dell’utensile strumento «a portata di mano», e questo,
in secondo luogo, dà significato al soggetto: homo faber). Come si può notare, è
un gioco sterile, incapace di uscire dallo schema metafisico «soggetto/oggetto»
o «presenza/rappresentazione». Heidegger, invece, cerca di «entrare» nel circolo
metafisico dell’«ontico/ontologico». E lo fa – potremmo dire – prestando attenzio-
ne alla stessa barra di separazione-connessione («/»). In effetti, se c’è «mondo»
nell’utensile, ossia se è importante, rilevante per il Dasein, ossia se è inserito in
una «connessione di significato», ciò è dovuto al fatto che il «mondo», a sua volta,
determina e indica luogo e funzione a questo o a quell’utensile. Tuttavia, se questo
cerchio funzionasse alla perfezione, senza attriti, ciò che paradossalmente sarebbe
dimenticato, ciò che scomparirebbe sarebbe... il mondo stesso. Per l’uomo, nulla
conterebbe, se non lui – come referente –, la cosa – come segno di riferimento –
e i fattori di mediazione: la mano e la vista. Per inciso, così è come – interpreto
– l’homo kyberneticus della fine della metafisica e dell’estetica vuole vedere le
cose; è un narcisismo infantile, per il quale tutto è uno spettacolo: Only for your
eyes. Solo che le cose (nemmeno quelle che provengono dalla realtà virtuale) non
sono così facili, né sono disposte affinché l’uomo, letteralmente, ci metta mano
e le abbia in presenza, come se volesse passarle in rivista per un possibile uso
ulteriore. È vero che, attraverso la tecnica, l’uomo considera la montagna come
una cava, il fiume come una fonte di energia o il mare come un possibile serbatoio
d’acqua da desalinizzare. Ma non è meno vero che la montagna, il fiume e il mare
oppongono una resistenza a questa loro utilizzazione (del resto, senza quella resi-
stenza, non sarebbero neppure utilizzabili). E, a volte, la resistenza è tale che spez-
za l’essere servizievole della cosa-utile, che cessa di essere, quindi, «alla mano»,
per ritirarsi... dove? Nel suo carattere cupo, scontroso, di cosa senza aggiunte,
inservibile. Solo in questo ritiro, d’altra parte, viene fuori il mondo in quanto tale.
L’orizzonte appare solo quando qualcosa di opaco rompe i riferimenti. Come se
dicessimo, la connessione del significato non è a sua volta significativa! Il princi-
pio che dà ragione all’ente non dà ragione a se stesso!
In Essere e tempo, questa perturbazione, generalizzata, ha portato il Dasein a
sperimentare la «chiara notte dell’angoscia», in cui tutto (incluso l’uomo stesso)
è... nulla, nel senso del senza-senso, per cui il nulla ha un fondamento o una base.
Il Dasein si trova, quindi, nel mezzo della «inospitalità» (Unheimlichkeit) del
mondo in quanto tale. E il suo «essere-nel-mondo» si svela come un «non essere
a casa», come un essere «nel nulla del mondo»33. Queste analisi sono diventate
abbastanza famose. E con ragione. Ma il problema è che esaminano il fenome-
no della caduta del fidato «ambiente-mondo» (Umwelt) solo rispetto al Dasein,
un rispetto, potremmo dire, «umano, troppo umano». Una domanda, dunque,
si impone: qual è la ragione di questo fallimento? Una domanda che si collega
33
Cfr. suz, pp. 366, 454; tr. it., p. 331, 406-407.
1010 félix duque
estetica»34. Ora, se questo è così, la seguente domanda ricade sotto il suo peso:
questo schema è dovuto al carattere «cosale» della cosa? (In altre parole, ha la sua
origine nella metafisica, e in particolare in Aristotele?) O ha origine, al contrario,
nel carattere di «opera» proprio dell’opera d’arte?
Il percorso che Heidegger segue nel saggio sembra mostrare, attraverso lo
svelamento dell’origine dello schema ilemorfico nell’utilità (lo Zuhandenheit di
Essere e tempo) dell’utile o Zeug (è interessante notare come scompaiono qui le
denominazioni che potrebbero «umanizzare» i tratti della «cosa» esaminata, come
«a portata di mano» o «in vista») e sembra anche mostrare che è l’opera che dà
senso all’utile e questo alla cosa, in modo che sarebbe l’arte a dare ragione alla
metafisica, e non viceversa (una proposta di inversione che in precedenza solo
Schelling, nel Sistema dell’idealismo trascendentale del 1800, aveva a suo modo
difeso). Ma sembra solamente. E non, ovviamente, perché la metafisica ritorni al
suo statuto (in queste analisi, il superamento dell’estetica già annuncia chiaramen-
te il superamento della metafisica), ma perché il «cosale» ritorni ad apparire: si
rivolta, letteralmente, all’interno dell’opera d’arte, annunciando così per tutti gli
enti – e non solo per le «opere» – il suo carattere irrinunciabile di caducità e ingan-
no. Che può voler dire tutto ciò?
Se gli utili, le cose prágmata del mondo-contesto, non si rompessero mai,
se si disponessero, docili, a portata di mano dell’uomo, allora il contesto e il
mondo verrebbero semplicemente identificati (e tale è il sogno della modernità,
come abbiamo visto più volte). L’uomo sarebbe il centro della creazione e le
cose le sue «circostanze», come direbbe Ortega y Gasset. Ma allora gli utensili
si convertirebbero in qualcosa di solito e abituale (gewöhnlich: quello con cui
«si abita»), e l’uomo stesso finirebbe per essere assorbito dentro questa univer-
sale struttura di posizione o Gestell, per dirlo con nozioni successive a L’origine
dell’opera d’arte. La cosa scomparirebbe, logora, nella sua usura e disponibili-
tà. Tuttavia, è un dato di fatto che le cose esistano, che siano senza aggiungere
altro, e non siano solo indipendenti dal loro uso, soprattutto perché, alla fine,
eliminano qualsiasi uso (e questo ineffabile «rifiuto» è ciò che si annunciava –
balbettando – nell’idea oscura della cosa come «sostanza», subjectum e fonda-
mento). Però, dove appare quel rifiuto?
La risposta di Heidegger costituisce un geniale colpo di mano (nel senso let-
terale del termine). Questo rifiuto non può apparire nella cosa come «utile» (o
meglio, quando questo si mostra come inutile, viene scartato e sostituito da un
altro), ma nella cosa come «opera» (Werk). Ma cos’è allora un’opera? In primo
luogo, non è qualcosa di semplicemente «prodotto» con un’intenzione (un utile
di utili, diremmo), né certamente un modello, un paradigma (ricordiamoci quello
che abbiamo detto in precedenza) o un pro-gramma a partire dal quale produrre a
34
ukw, p. 12; tr. it., p. 17 [il corsivo è di Heidegger – N.d.T.].
1012 félix duque
catena cose utili (i Bestände della «struttura di posizione»). La cosa, dice Heideg-
ger, ha il carattere di «essere-fatto»: Geschaffensein, dove il participio geschaffen
significa abitualmente «realizzato», portato a buon fine, come quando si dice in
italiano «Ecco. Questa è fatta!»35. Contro ogni teoria romantica, Heidegger difen-
de la fattura dell’opera. Questa deve essere «rilasciata» (entlassen)36 dall’artista
«al suo puro stare-entro-se-stessa [Insichselbststehen]»37. Proprio nella grande
arte, che è l’unica che stiamo trattando qui, l’artista è ridotto a qualcosa di indiffe-
rente di fronte all’opera, quasi un semplice ponte verso l’emergere dell’opera che
si distrugge nel creare (Schaffen). L’artista «creatore» scompare così prima del
poietés capace di far sì che l’opera che si «realizzi», cioè che si ponga-lì-davanti la
verità di un ente. Ma cosa può voler dire «verità»? Con Essere e tempo conoscia-
mo il fattore «positivo» – diremmo – della verità: il disvelamento, la venuta alla
luce delle potenzialità di un ente. Ora, sappiamo che questa via d’uscita implica
la collaborazione dell’uomo come «creatore» (quasi nel senso socratico di «oste-
trico» dell’ente). Tuttavia, ciò che manca è proprio il fatto di porre in evidenza la
nuda esistenza della cosa nella sua verità, ossia il suo rifiuto a essere manipolata
fino a quando non si esaurisce nella sua usura. L’artista mette in evidenza quel
rifiuto, quella cupa resistenza. Mette nella giusta luce paradossalmente il fatto irri-
ducibile del resto, di ciò che si nega a venire alla luce (un tema, tra l’altro, che si
lega alle ossessioni di Baudrillard sulla trasparenza assoluta, l’oscurità «scenica»
e spettacolare di un mondo simulacro, la trasparenza del male)38.
Sotto l’influenza di Hölderlin, Heidegger chiama ora quel residuo «terra». Con
questa strana comparsa, tutto l’abituale scompare. L’ente si ritira, per così dire,
ed emerge, ineffabile, il fatto nudo dell’essere. «Che cosa c’è di più abituale», si
domanda Heidegger, «del fatto che un essente è? Nell’opera, invece, l’inabituale
[das Ungewöhnliche] è appunto questo: che un essente come tale [allusione all’en-
te in quanto ente] è [ist]»39. L’inabituale, l’inquietante e l’inospitale (unheimlich)
35
[In italiano nell’originale spagnolo – N.d.T.] Cfr. ukw, p. 51, tr. it., p. 62. In genere, schaffen è
tradotto come «creare». Solo che in questo modo si corre il rischio di ricadere in una teoria romanti-
cizzante del «genio creativo», che imprime la sua espressione sulle cose. Nulla è più lontano dall’in-
tenzione di Heidegger. Per inciso, l’insistenza nel vedere l’artista o poietés come «creatore» ha conse-
guenze disastrose, portando a un’interpretazione politica forviante di Heidegger.
36
Non credo sia casuale che Heidegger usi qui lo stesso verbo utilizzato da Hegel alla fine
della sua Scienza della Logica per cercare di «spiegare» (se possibile) il «lasciarsi andare» o l’«af-
fidarsi» apertamente del Logico alla Natura, e come Natura. Non sarebbe nemmeno fuori luogo
vedere una struttura analoga qui: anche l’«utile», se elevato a «lavoro» dall’artista, raggiunge un
carattere «cosale», come se fosse qualcosa di naturale nel senso greco del termine, qualcosa che
riposa su se stesso, che si erge dalla sua stessa natura o physis. A questo allude il termine tedesco
usato da Heidegger, Insichselbststehen.
37
ukw, p. 26; tr. it. p. 33.
38
Cfr. J. Baudrillard, La transparence du mal. Essai sur les phénomènes extrêmes, Galilée,
Paris 1990; tr. it. di F. Marsciani, La trasparenza del male. Saggio sui fenomeni estremi, SugarCo,
Milano 2018.
39
ukw, p. 53; tr. it., pp. 64-65.
l’arte della verità 1013
40
A. Carrillo Canán, The Concept of «Earth» by Heidegger. History and the «Oblivion of
Being», «A parte rei», 7 (2000), http://serbal.pntic.mec.es/~cmunoz11/carrilloing.htm [data di ulti-
ma consultazione: 15 aprile 2020].
41
ukw, pp. 34-35; tr. it., p. 43 (mod.).
42
ukw, p. 51; tr. it., pp. 61-62 (mod.).
43
ukw, p. 32; tr. it., p. 41.
44
[In italiano nel testo originale spagnolo – N.d.T.].
1014 félix duque
dirà: Welt weltet, «mondo mondeggia»45, ossia ordina, organizza, dà la misura per
l’ente. Ma questa apparentemente serena e gioviale disposizione letteralmente «si
scompone» quando il pensatore esemplifica questa «donazione del mondo». Dice,
in effetti, «mondo è il sempre inoggettuale, il sempre non-ostante al quale sotto-
stiamo finché le rotte di nascita e di morte, benedizione e anatema, ci mantengono
deradicati ed estatici nell’Essere»46. Nell’edizione Reclam del 1960, Heidegger
scrive, invece di «essere», Da-sein. Ricordiamoci, ora, che Heidegger esige dalla
nuova meditazione ontologica sull’arte il «salto all’origine», ossia il passaggio
dall’esperienza estetica al Da-sein.
Non è necessario insistere sulle pericolose risonanze che questa concezione
suppone, scritte, non dimentichiamolo, nel 1935. Successivamente, Heidegger
mitigherà questa rivolta della «terra» all’interno stesso del «mondo». Questa
inquietante e perfino sinistra (unheimlich) caratteristica della «terra», la quale,
naturalmente, non esiste, come pure il mondo, è bensì un movimento di retrazio-
ne, che allo stesso tempo travolge chi lo sperimenta, come se fosse un violento
rifiuto47. Ma, senza perdere del tutto quel carattere di inospitalità (spaesamento, in
italiano48), negli anni Cinquanta sarà trattato più come una ritrattazione salvifica
(una sorta di donazione negativa) a favore dell’ente, dal momento che «terra»
(singulare tantum; si tratta di un modo dell’essere, non qualcosa di sottostante o
occulto) è ciò che impossibilita alla radice che le cose siano «usate» per intero,
«comprese», racchiuse nello «sguardo» dominante del soggetto tecnocognitivo.
Terra è ora una delle direzioni in cui spazia il Geviert o «Quadratura» (non più
45
ukw, p. 30; tr. it., p. 39.
46
ukw, pp. 30-31; tr. it., p. 39.
47
In un’occasione in cui la sua famiglia era partita per Friburgo in modo che potesse lavorare
in tranquillità, Heidegger sentì questo impetuoso assalto quando si alzò dal letto nella sua Hütte
(baita) di Todtnau. Scrisse così a Elfride, confessando che in quel momento «er[a] molto triste», e
che «avev[a] avuto bisogno di un po’ di tempo per sentir[si] di nuovo a casa [Heimlich] nella baita
deserta». E fu il duro lavoro che alla fine lo salvò da quell’acedia, ma solo perché «qualcosa» (quello
che stava cercando) gli venne incontro, anzi si potrebbe dire, lo colpì. «Per me lavorare», scrisse a
sua moglie, «è in realtà il solo modo di creare l’occasione propizia perché vi sia un fluire dentro di
me [dass es mir zuströmt, come se fosse colpito una tromba d’acqua] – e talvolta è davvero un fluire
quasi inquietante [fast unheimliches Zuströmen, si confronti con la sensazione precedente: sentirsi
heimlich nella baita]». Sicuramente questo è un caso esemplare di Grundstimmung dell’angoscia, la
quale implicherebbe allo stesso tempo un sereno abbandono (Gelassenheit) da parte del pensatore,
come corroborato da quanto segue: dopo aver riconosciuto che questa «solitudine [...] non è sempre
facile da sopportare», Heidegger scrive tuttavia che «le cose semplici all’intorno fanno sì [sorgen
für] che il lavoro sia continuo e sicuro, e grande la linea [die grosse Linie]. Ogni mediocrità viene a
cadere [Alles Gewöhnliche fällt ab]» (Lettera a Elfride dell’11 agosto 1936, in G. Heidegger [hrsg.],
Mein liebes Seelchen! Briefe Martin Heideggers an seine Frau Elfride, Anstalt, München 2005, p.
192; tr. it. di P. Massardo e P. Severi, «Anima mia, diletta!» Lettere di Martin Heidegger alla moglie
Elfride. 1915-1970, Il Melangolo, Genova 2007, pp. 177-178, qui p. 177). Su questo tema si veda
anche A. Xolocotzi, Heidegger. Lenguaje y escritura, Fontamara, Mexico 2018 (soprattutto § 7.2,
Estar fuera de lugar y estilo, pp. 118-124).
48
[Il riferimento al termine italiano «spaesamento» è dell’Autore – N.d.T].
l’arte della verità 1015
49
Cfr. soprattutto Das Ding (1950), in Vorträge und Aufsätze, pp. 165-187; tr. it. di G. Vattimo,
La cosa, in Saggi e discorsi, pp. 109-124.
50
J. Derrida - R. Kearney, Dialogue with Jacques Derrida, in R. Kearney, Dialogues with
Contemporary Continental Thinkers, Manchester University Press, Manchester 1984, pp. 105-126,
qui p. 110.
Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, CXII (2020), 4, pp. 1017-1034
ISSN: 00356247 (print) - 18277926 (digital)
DOI: 10.26350/001050_000229
Stefano Esengrini*
In order to clarify the ‘poetic’ nature of man’s dwelling on Earth, we deem it urgent to reconsid-
er the path that led Martin Heidegger to pay attention to the dialogue between art and thought.
However, before allowing art to illuminate in advance the same understanding of the world
thought has, it proves essential to grasp the meaning of the revolution the German thinker made
within the history of philosophy. Thanks to the de-obstruction of modern philosophy, which is
founded on the subject-object relationship, Heidegger makes us overcome the corresponding
interpretation of art in aesthetic terms. Therefore, on the basis of a new foundation of thought,
art is freed from the risk of being confined to the dimension of beauty and becomes a power
capable of giving shape to the truth of the world and of the man who inhabits it.
Keywords: Martin Heidegger, Art and Thought, Dasein, Truth, Openness, Poetry
© 2020 Vita e Pensiero / Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
*
Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano. Email: stefano.esengrini@virgilio.it
Received: 22.08.2020; Approved: 24.09.2020.
1
E. Dickinson, The Complete Poems, J 1577, Faber and Faber, London - Boston 1991, p. 654.
Salvo ove altrimenti indicato, tutte le traduzioni sono da intendere a cura di chi scrive e sono impu-
tabili alla sua sola responsabilità.
1018 stefano esengrini
Per quanto sia necessario dire che la ‘poesia’ (Dichtung) a cui ci riferiamo deve
essere assunta in un senso molto ampio del termine (ben oltre cioè quello di speci-
fico genere letterario), è per noi decisivo realizzare come l’ascolto di quel dialogo
– inaudito dal lato della filosofia – fu reso possibile grazie alla comprensione del
fenomeno dell’essere quale fondamento nascosto dell’intera tradizione metafisica
occidentale e, in questo senso, elemento informatore di quella che viene a ragione
considerata l’opera filosofica ‘di punta’ del XX secolo: Essere e tempo.
Perché cioè l’arte, in anticipo rispetto al pensiero, possa rivelare il mondo
nella sua verità – in questa consapevolezza consisterebbe l’enormità del contri-
buto di Heidegger al chiarimento del compito della filosofia –, diviene ancora
più urgente comprendere l’ordine del rivolgimento da questi apportato all’in-
terno della storia della metafisica. Un rivolgimento che, tra le altre cose, si era
tradotto nella de-ostruzione del campo da quelle determinazioni che riducevano
l’opera d’arte a un oggetto passibile di giudizio (qui un giudizio di gusto) da
parte di un corrispondente soggetto.
In altre parole, già la de-ostruzione della filosofia moderna in quanto metafisica
fondata sul rapporto tra un soggetto e un oggetto – in uno con il superamento della
corrispondente interpretazione dell’arte in termini estetici – permetterà una nuo-
va fondazione del pensiero e libererà al contempo l’arte dalla stretta che la vuole
confinata alla dimensione del bello, quand’essa è una potenza capace di dare una
figura alla verità del mondo e dell’uomo che lo abita2.
Per questo motivo rinunceremo ad analizzare in modo sistematico le opere di
Heidegger espressamente consacrate all’arte (pensiamo, su tutte, all’imprescin-
dibile In cammino verso il linguaggio del 1959), ritenendo prioritario preparare
il nostro sguardo a un avvistamento del suo senso attraverso un primo gruppo di
considerazioni che gravitano intorno al fenomeno dell’oblio dell’essere o, più pre-
cisamente, intorno al superamento della determinazione dell’uomo come «cogito»
(Cartesio), «Io penso» (Kant) o «Io» (Fichte, Schelling), a favore di un suo appro-
fondimento come «Dasein», qui da intendersi in modo ancora iniziale come un
essere presso le cose nella forma della familiarità e dell’aver cura.
Diversamente da quanto scriveva Friedrich Schelling nella sua Filosofia
dell’arte, secondo cui «il filosofo è in grado persino di scorgere l’essenza dell’arte
meglio dell’artista stesso»3, chiediamo allora: in che cosa consiste il fenomeno
2
Vista la natura del nostro scritto, che si propone di avviare la riflessione muovendo da un con-
tatto diretto tra la cosa e il lettore, limiteremo l’ambito delle analisi all’estetica moderna e ai suoi
presupposti metafisici. Ci riserviamo di completare questo studio a partire da un confronto con le
posizioni metafisiche di fondo dell’antichità greca (Platone e Aristotele) sullo sfondo della questione
della verità. Quanto a Platone e alla differenza che separa l’arte (mimesis) dalla verità (idea), riman-
diamo il lettore alle pagine che Heidegger dedica nel suo Nietzsche (M. Heidegger, Gesamtsaugabe
6.1, hrsg. von B. Schillbach, Klostermann, Frankfurt a.M. 1996, pp. 173-190) alla «controversia di
lunga data tra filosofia e poesia» discussa in Repubblica (Libro X, 595 a-607 a). A questo stesso pro-
posito si legga J. Luxerois (éd.), Ion et autres textes, Pocket, Paris 2008, pp. 9-31 e 167-221.
3
F.W.J. von Schelling, Filosofia dell’arte, a cura di A. Klein, Fabbri, Milano 2001, p. 24. Scrive
origine e verità dell’arte 1019
dell’essere, perché l’arte, prima ancora del pensiero, possa costituire un sapere
che guida il soggiorno dell’uomo sulla Terra? Che cosa significa propriamente
pensare, ora che il progetto matematico della natura di derivazione galileiano-car-
tesiana scricchiola nelle sue giunture, rendendo forse più percorribile la possibilità
che ciascuno ha di abitare ‘poeticamente’?
Ma chi è l’uomo? Chi siamo noi? E che cos’è e cosa può la ‘poesia’ rispetto al
nostro essere-al-mondo4?
2. Incontro all’arte
2.1. Il “poeta” e la verità
Lasciamo per il momento la parola «Dasein» non tradotta, per evitare di fornirne
un mero calco nella nostra lingua-madre – è questo il caso di una sua resa tanto
ovvia quanto sviante con «Esserci» – e per guadagnare dall’interno (in ascolto
cioè della lingua tedesca) una comprensione genuina del suo senso che sia in gra-
do di immetterci in modo immediato nel bel mezzo di quel laboratorio fenomeno-
logico che è la prima opera capitale di Heidegger.
Detto altrimenti, ci proporremo innanzitutto di acclimatarci al fenomeno
dell’essere come ciò che sta a fondamento delle posizioni assunte da Heidegger
lungo il cammino che lo condusse, a partire dalla prima metà degli anni Trenta, a
interrogarsi esplicitamente sull’arte e sulla sua origine, con una particolarissima
attenzione nei confronti della poesia in quanto arte della parola.
(Forse la parola intrattiene un rapporto privilegiato con l’essere di ciò di cui
parla, nella misura in cui il poter parlare – insieme al poter morire – è già un indi-
zio del genere di apertura al mondo che sostiene da cima a fondo la nostra esisten-
za? Come parla la parola? In che modo essa risponde di questa apertura?)
Una volta che si sia dunque accolta l’ipotesi di un primato della parola, non
dovrebbe sorprendere che la risposta fornita da Heidegger al fallimento del pro-
prio impegno politico in qualità di rettore dell’università di Friburgo tra il 1933
e il 1934 si tradusse in un primo corso di lezioni dedicato a due inni di Friedrich
Hölderlin, Germania e Il Reno.
ancora Schelling: «[Il filosofo] è l’unico in grado di far luce su ciò che d’incomprensibile v’è nell’ar-
te, di riconoscere in essa l’assoluto» (ibidem).
4
Se in queste prime battute la parola ‘poesia’ è comparsa tra virgolette, è stato per evidenziare
l’esistenza di una sua accezione tanto inusuale quanto assolutamente plausibile. L’etimologia di
Dichtung rinvia, infatti, al verbo dichten, un intensivo del latino dicere, dire. Ora, Heidegger non
riserverà al solo poeta questa possibilità di dire, di parlare, per quanto diverso sarà il compito
che affiderà ai poeti e ai pensatori: «Il pensatore dice l’essere, il poeta nomina il salubre». Per un
chiarimento della natura della parola (noetica e poetica) segnaliamo due saggi di François Fédier:
Poetare e pensare, in S. Esengrini (a cura di), Il canto e il pensiero. Martin Heidegger, Bruno
Mondadori, Milano 2020, pp. 15-25; L’incontro di Martin Heidegger e René Char, «Aquinas»,
LX (2017), 1-2, pp. 185-195.
1020 stefano esengrini
A questa pretesa eternizzante, in cui tutto sembra essere illuminato a giorno in una
sorta di fissità dogmatica, si contrappone il lungo apprendistato grazie al quale il
‘poeta’ consegue la verità, chiamato com’è a ‘strapparla’ al mondo, a riguadagnar-
la ogni giorno rispetto al suo sottrarsi, per restituirla vibrante nella lotta con il suo
segreto. Nelle parole di Marina Cvetaeva:
Nel caso del poeta – poiché tutto il mondo è sotto chiave e tutto va aperto – ogni volta è
una cosa diversa, ogni poesia è un lucchetto, e sotto quel lucchetto c’è una certa verità,
ogni volta diversa – unica e irripetibile – come il lucchetto stesso6.
5
G. Bernanos, La Francia contro la civiltà degli automi, versione di E. Roselli, Vittorio Gatti,
Brescia 1947, p. 12.
6
M. Cvetaeva, L’arte alla luce della coscienza, in Ead., Il poeta e il tempo, a cura di S. Vitale,
Adelphi, Milano 1993, pp. 73-116, qui p. 102.
origine e verità dell’arte 1021
un «lieber, im Herzen und der Sache des Denkens getreuer Freund», ossia un ami-
co, caro al cuore e fedele a ciò intorno a cui il pensiero insiste:
L’essere, abbiamo detto, è, nel suo fondo, superamento e trasgressione di tutto quel che
non è che essente, ed è dal fondo del suo niente che esso si disasconde come profusione
di senso. Ma dove può aver luogo questo disascondimento? In che modo qualcosa come
l’essere può divenire accessibile in una comprensione? L’errore sarebbe credere che ad
essere in gioco sia qui una sorta di «pieno cielo» con cui potremmo non avere niente a
che fare. Perché, se, fin dal principio, l’uomo non avesse alcun rapporto essenziale con
la natura dell’essere, quando e come sarebbe ammesso a comprenderne il senso? È tutta-
via in quanto uomini che siamo ammessi all’intelligenza dell’essere. Tra gli essenti che
pullulano nel mondo, ve n’è uno, infatti, quello stesso che noi siamo in quanto uomini,
che, visto dal di fuori, non è che un essente come gli altri, ma che, nel suo essere più
intimo, è essenzialmente trasgressione e superamento. Un simile essente, una volta puri-
ficato da tutto quanto è accessorio e ornamentale, si lascia determinare da cima a fondo
come Dasein. Senza dubbio, la parola Dasein appartiene in tedesco al vocabolario filo-
sofico più corrente. Ma Heidegger ci chiede di attribuire a questa parola molto affievolita
dall’uso un vigore del tutto nuovo. Per far questo, ci esorta a far risuonare il vocabolo
Da in tutta l’ampiezza del suo significato, e questo sino al punto di ritrovarvi l’energia
di trascendenza che essa imperiosamente notifica. Da non esprime un’ubicazione in un
ambiente che preesisterebbe come un quadro già dato: là, in opposizione a qui o a più lon-
tano. Da esprime piuttosto quel che si manifesta, quel che sorge in piena evidenza «con
la luminosità e la risolutezza di una folgorazione»,7 ossia l’intervento dirompente, irrom-
pente, esplosivo, inesorabile di quel che abbiamo chiamato «meraviglia dell’essere», la
meraviglia veramente unica: che si dia qualcosa e non niente. Non è, dunque, in non si sa
quali lontananze da cui saremmo separati da spazi infinitamente vuoti, ma nella vicinanza
più prossima, che si produce il passaggio di luce che concerne ciascuno di noi nel proprio
essere, di cui ciascuno di noi è fatto e plasmato, e che ci possiede molto più di quanto noi
non lo si possegga. Se dunque non è una localizzazione oggettiva nel senso del realismo,
il Da non è neppure un intervento soggettivo nel senso dell’idealismo. Perché niente è più
inadeguato al mondo che sorge dias in luminis oras e a quell’uomo che sorge e appare nel
mondo degli stati d’animo della soggettività. Niente è più irriducibile alle filosofie della
coscienza della verità di un simile Phänomen che rifiuta in tutto il suo vigore ogni meta-
fora di chiusura, notificandoci imperiosamente l’evidenza di uno schiudersi8.
7
[M. Heidegger,] Was ist Metaphysik?, [Cohen, Bonn 19434], p. 24 [Nota di Jean Beaufret].
8
J. Beaufret, Martin Heidegger et le problème de la vérité, in Id., De l’existentialisme à Heideg-
ger. Introduction aux philosophies de l’existence, Vrin, Paris 2000, pp. 77-99, qui pp. 86-87.
1022 stefano esengrini
la sua singolare capacità di ascolto del dettato heideggeriano permetta anche a noi
di misurarci non infelicemente con un pensiero folgorante per lucidità e radicalità9.
Certo, il lungo passaggio appena citato, pur in assenza di un commento, ci ha
già permesso di saggiare appieno l’autonomia interpretativa subito raggiunta dal
filosofo nei confronti del proprio maestro.
Ma è all’interno di quel che può esser considerato in qualche misura il testa-
mento spirituale di Beaufret – ci riferiamo alle sue ultime conversazioni con
Frédéric de Towarnicki, tradotte in italiano con il titolo di In cammino con Hei-
degger –, è qui che troviamo espresso in poche righe un aneddoto che, pro-
prio perché semplice, ha il merito di rivelarci nitidamente l’abisso che separa la
psyché o anima greca (aristotelica) dal soggetto cartesiano.
È questa la prima traccia di un pensiero – il pensiero del Da-sein – che lascia
avvertire in modo palpabile il tenore della meditazione heideggeriana, in uno con
il destino a cui ciascuno di noi è consegnato in prima persona. Preoccupiamoci
solo di non fraintendere la dizione di «destino» riducendola a un che di fatalistico,
nella misura in cui in essa, al contrario, risuona un appello che reclama l’intera
esistenza di un uomo quadrandola entro le proprie possibilità più essenziali.
Proprio a quest’ordine di pensieri rimanda infatti l’utilizzo del trattino in
Da-sein, a evidenziare che l’essere dell’uomo non consiste nell’occupare uno spa-
zio già dato (essere-qui), ma nel far fronte a…, nell’es-porsi a (verso)…, lascian-
do in tal modo che uno spazio irrompa, si stagli e si offra di essere compaginato
secondo le esigenze di raccoglimento e intensità proprie di un luogo.
Ecco allora fare la sua comparsa un gruppo di soldati – l’aneddoto è raccontato
da Senofonte (Anabasi IV, 7) – che, giunto in cima a un’altura e scorgendo il mare
all’orizzonte, esclama all’unisono, come se il grido fosse strappato di gola a cia-
scuno dei suoi componenti: thalassa, thalassa! – il mare, il mare!
A questo genere di esperienza, fondata su una flagranza che supera ogni sog-
gettivismo in nome della più completa corrispondenza, Beaufret contrappone
la certezza con cui l’uomo moderno, nel suo stare-di-contro al mare ridotto a
oggetto (ob-iectum), si limita ad assicurarsi di trovarsi realmente dinanzi ad
esso sulla base delle sensazioni (uditive, olfattive, tattili) che la sua presenza
all’esterno dell’uomo provoca.
Ora, in quale delle due esperienze, chiede in sintesi Beaufret, l’uomo è più
prossimo alla realtà, alla verità di ciò che è? Che cosa significa qui «verità», e
che cosa essa ha a che fare con il fenomeno dell’essere e con la comprensione
che dell’essere ha l’uomo?
9
F. Fédier, Beaufret, Jean (1907-1982), in P. Arjakovsky - F. Fédier - H. France-Lanord (dir.),
Le Dictionnaire Martin Heidegger: Vocabulaire polyphonique de sa pensée, Les Éditions du Cerf,
Paris 2013, pp. 162-164, qui p. 162.
origine e verità dell’arte 1023
Da eredi della modernità cartesiana quali noi siamo, la risposta fornita dalla nostra
epoca alla prima domanda è univoca: nell’ipotesi che sia vero solo ciò che è certo,
non possiamo non sorridere con Hegel di quel che il filosofo, riferendosi ai Greci e
alla loro concezione di verità, qualificava in termini di «realismo ingenuo».
In questa prospettiva il soggetto cartesiano e la sua capacità di analisi si pre-
senterebbero, nel loro atteggiamento critico (da «giudice», dirà Kant), come l’e-
lemento a cui ricorrere qualora si voglia fuoriuscire dall’illusione secondo cui la
realtà si mostrerebbe per quello che è, «in sé».
Meglio: lo schermo che si frappone tra il soggetto e l’oggetto rende possibile
quella presa di distanza che, tenendo sotto scacco la realtà alla stregua di un ber-
saglio, assicura una conoscenza vera perché accertata mediante la riflessione. In
questa prospettiva, che cosa vi è di più sicuro di un numero ottenuto dalla misura-
zione con cui l’uomo è in grado di ridurre tutto a un (che di) dato?
Tuttavia, l’istantaneità della percezione dei soldati sembra fare riferimento
a una conoscenza o esperienza che precede per rango e nel tempo quanto viene
colto dallo sguardo ego-cogitativo, il quale si limita a squadrare l’oggetto che ha
dinanzi per afferrarlo concettualmente all’interno di una serie di condizioni che ne
assicurano la dominabilità.
Detto altrimenti, la potenza esplicativa garantita dal metodo scientifico sem-
bra oscurare, se non addirittura eliminare alla radice, quell’epifania che supera in
evidenza ogni punto di vista individuale, portando alla luce una dimensione che
si impone e reclama ogni uomo nella forma di una misura a tutti comune. Misura
rispetto alla quale ogni calcolo si rivela essere un fenomeno derivato, tanto fla-
grante è l’essere nel suo irrompere, stanziarsi e assegnare a ciascuna cosa i limiti
entro cui essa può rivelarsi al culmine della propria intensità.
È questo quel che Heidegger chiamerà emblematicamente das freie Offene,
ossia la libera vastità o, ancora, l’insorta ostensione, primo nome di quell’Aperto
che rappresenta il tratto costitutivo dell’essere, la sua verità.
A sostenere questa dimensione, a insistere cioè in essa sopportandone l’irruzio-
ne angosciosa e spaesante sino a trovarvi l’elemento a cui adergere per poter infine
guadagnare se stessi –, a tutto ciò è chiamato d’essenza l’uomo che, nel suo abitare
la prossimità più familiare, sa al contempo inoltrarsi in una lontananza abissale.
10
Cfr. J. Beaufret, In cammino con Heidegger. Conversazioni con Frédéric de Towarnicki, a
cura di S. Esengrini, Marinotti, Milano 2008, pp. 127-128.
1024 stefano esengrini
Ma sarà solo dopo Essere e tempo – opera del resto incompiuta, non a causa
di una qualche insufficienza, ma perché si sarebbe spinta troppo avanti troppo
presto –, sarà dunque dopo Essere e tempo che il fenomeno dell’essere otterrà
un’ulteriore determinazione, capace di far trasparire l’indole recondita del suo
(dell’essere) flagrare.
Più precisamente, è nei Problemi fondamentali della fenomenologia del 1928
che fa la sua comparsa per la prima volta la locuzione di «differenza ontologica»,
con la quale Heidegger si propone di approfondire la comprensione del ‘movi-
mento’ interno all’essere nella sua differenza rispetto all’ente, ossia a un che di
essente, in cui l’essere si sarebbe, per così dire, ‘risolto’ nella semplice presenza
sottomano e/o utilizzabilità.
In questo senso, proprio nel suo distinguersi dall’ente, l’essere sembra caratteriz-
zarsi per una presenza enigmatica che evoca il nulla. A confronto dell’ente l’essere
pare infatti non essere niente, tanto che la sua presenza non risulta esperibile a livello
sensibile, ma, nel suo ritrarsi rispetto a ogni configurazione determinata, chiama in
causa un certo ‘sesto senso’ con cui l’uomo si espone all’essere corrispondendogli ed
eguagliandone, a suo modo, il singolarissimo (perché inappariscente) farsi incontro.
Ora, posto che la prima occorrenza del verbo con cui la lingua greca esprime
l’attività di pensare – noein – significhi fiutare (al punto che il nous o ‘intelletto’
consisterebbe nel porsi al seguito di qualcosa fiutandone la traccia), l’uomo potrà
accedere all’essere non attraverso l’afferramento di un che di essente, ma grazie
alla possibilità di entrare in risonanza con esso avvertendone o presentendone il
misterioso stanziarsi.
Da qui la stupefacente capacità dell’orecchio greco di cogliere il senso della dizio-
ne stessa di «ente» a partire dalla duplicità insita nella forma del participio presente,
che sa indicare nell’essente non un semplice fatto, ma un aver-luogo, un generarsi,
che fuoriesce dal nascondimento per aprirsi e irrompere in vastità e sovrabbondanza.
Per riprendere un’immagine cara a Beaufret, il reciproco appartenersi, in ogni
participio presente, di un aspetto verbale e di uno nominale conferirebbe una singo-
lare motilità o fervore. Un fervore che potrebbe essere espresso attraverso l’imma-
gine del momento che precede il volo di una farfalla, in cui giungiamo a presentire
l’aria che sosterrà il battito delle sue ali, permettendole di levitare.
origine e verità dell’arte 1025
Ora, è a questo stesso genere di preoccupazioni che deve la sua origine, per
esempio, una natura morta in pittura, icona del pensiero dell’«ente-in-essere»,
secondo cui a contare davvero in un dipinto non sono i singoli enti meramente giu-
stapposti, ma il loro rapporto o, nelle parole di Henri Matisse, la loro differenza,
grazie alla quale essi finalmente sono11.
Non è cioè l’atmosfera che avvolge i singoli oggetti la trasposizione a livello
plastico della dimensione dell’essere quale ‘luogo’ non-ontico a cui essi devono la
loro possibilità e lo slancio con cui entrano in presenza? Non è proprio la dif-ferenza
a portare con sé lo stanziarsi di una dimensione che concede a ogni ente di essere se
stesso grazie al suo distinguersi da tutti gli altri?
11
H. Matisse, Écrits et propos sur l’art, Hermann, Paris 2005, pp. 253 e 168. Sia detto per inciso
che la locuzione «ente-in-essere» compare all’interno della conferenza pronunciata da Heidegger
nel 1955 dal titolo Che cos’è la filosofia?. Si legga a questo proposito G. Zaccaria, L’inizio greco
del pensiero, Marinotti, Milano 1999, pp. 391-395.
12
G. Braque, Il muto fervore dello spazio. Conversazioni sull’arte, a cura di S. Esengrini,
Morcelliana, Brescia 2017, p. 5.
1026 stefano esengrini
13
F. Fédier, … Voir sous le voile de l’interprétation… (Cézanne et Heidegger), in Id., Regarder
voir, Les Belles Lettres - Archimbaud, Paris 1995, pp. 19-42, qui pp. 33-35. Per un’analisi dei limiti
della traduzione di Lichtung con radura (fr. clairière, éclaircie), si leggano le interpretazioni fornite
da Gino Zaccaria nel già citato Inizio greco del pensiero (pp. 291-338), al termine delle quali viene
proposta una sua resa con «stagliatura», in cui ci sembra risuoni, più che il riferimento alla leggerez-
za, il tratto del nitore.
1028 stefano esengrini
la possibilità di ogni suo futuro avvampare, ora reso ancor più ardente e crepitante
grazie al pensiero della sua negazione.
Ecco farsi largo un mattino del mondo, gravido di promesse, in cui il continuo
rinnovamento altro non è che l’esito della contesa tra i contrari, in cui il possibile
supera ogni effettività, in cui la speranza prevale su ogni fatto bruto. L’irripetibi-
lità di ciò che vince il nulla rivela lo stanziarsi di ciò che è perpetuo nella forma
tenerissima di quel che Braque chiamava un «mormorio di sorgente»14.
Gli rispondeva in eco l’amico René Char:
Fanciulla, salve! Se un giorno si azzardassero a dirti all’orecchio che Clara, il fiume, la tua
confidente, lo specchio del tuo sguardo triste o felice, ha smesso di esistere, non credere a
nulla. Questo allarme sia per te piuttosto un pretesto per recarti una volta ancora da lei e
ricevere la sua effusione. Al ritorno, non aver fretta di abbandonare i campi che irriga. Entra
in ogni casa in cui si lasci percepire la sua presenza. Quando cammini, vaga, qui è possibile.
O sosta un istante sotto l’albero più verde, in prossimità dei giunchi. Presto, non sarai più
sola: una Clara viva, giovane, appassionata, attiva, si farà innanzi e attaccherà discorso con
te. Così è il fiume che racconto. È fatto di molte Clare. Che amano, sognano, attendono, sof-
frono, domandano, sperano, lavorano. Sono belle o pallide, spesso entrambe, solidali con il
destino di ciascuno; avide di vivere. Toccando la tua mano, fanciulla, sento la dolce febbre
dell’acqua che sale. Mi sfiora, mi stringe fuggendo, e scaccia i miei fantasmi15.
14
G. Braque, Le jour et la nuit, Gallimard, Paris 1952, p. 30.
15
R. Char, Bandeaux de «Claire», in Id., Œuvres complètes, «Bibliothèque de la Pléiade»,
Gallimard, Paris 1995, pp. 654-655, qui p. 654.
origine e verità dell’arte 1029
Nella stessa prospettiva, alla messa tra parentesi del primato assunto dalla storia
o dalla critica d’arte dovrebbe ora fare seguito il superamento della concezione
tipicamente moderna dell’artista in quanto genio. Quest’ultima, infatti, affonda
le proprie radici in quella metafisica della soggettività che abbiamo già mostrato
16
J.W. Goethe, Dalla mia vita. Poesia e verità, tr. it. di A. Cori, 2 voll., Ghibli, Milano 2019,
vol. II, p. 680.
1030 stefano esengrini
determinare in modo insufficiente tanto la natura del rapporto che l’uomo intrat-
tiene con il proprio mondo quanto il tenore della sua stessa attività creatrice.
È proprio per questo motivo che si rivela degna di particolare attenzione la
proposta interpretativa avanzata ancora una volta da Goethe nel corso di una sua
conversazione con Johann Peter Eckermann il 21 marzo 1831 intorno alla dizione
tedesca di Geist, comunemente tradotta in francese con esprit, spirito.
Stando a quanto dice il poeta, esprit sarebbe meglio reso in lingua tedesca da
Witz, ingegno, ragion per cui Geist vedrebbe in génie, genio, il proprio corrispon-
dente fenomenologicamente più adeguato, soprattutto a causa di quel tratto di
«produttività» – genio deriva infatti dal latino geno (rad. GEN), genero, produco
– che permetterebbe di evitare di appiattire il senso più profondo del Geist ridu-
cendolo a qualcosa come un soffio vitale17.
Di più: l’apparente deviazione di ordine lessicale riguardante la nozione di
genio ha l’indubbio merito di costringerci a precisare il senso di una delle paro-
le-guida con cui la tradizione metafisica ha indicato in direzione dell’essenza
di qualcosa (come nel caso dello Zeitgeist o spirito del tempo) e, mediatamente
(attraverso la sua traduzione francese e italiana), dell’indole stessa dell’uomo in
quanto ‘poeta’. In che rapporto stanno infatti tra loro il genio inteso come sorte e
dunque come tempra, e il genio in senso artistico (in tedesco, Genie)?
Detto altrimenti: se con «genio» si intende «l’astro natale che cura la generazio-
ne di un uomo o di un popolo e, nati, li ha in sua tutela», dobbiamo chiederci se qui
abbiamo a che fare con una mera omonimia oppure con una singolare concomitanza
– almeno in francese e in italiano – foriera di nuove prospettive. (Ricordiamo che lo
stesso Kant riteneva probabile che «la parola genio sia stata derivata da genius, che
significa lo spirito proprio di un uomo, quello che gli è stato dato con la nascita, lo
protegge, lo dirige, e dalla cui ispirazione provengono quelle idee originali»18.)
Il fatto vuole, tuttavia, che al genio e all’ispirazione che lo accompagna in
modo del tutto originale nel corso del processo creativo siano consacrate alcune
pagine altamente suggestive delle lezioni di Hegel sulla filosofia dell’arte, in cui
sarebbe appunto la presenza di un apporto fornito dallo spirito a distinguere il bel-
lo naturale dal bello prodotto dall’arte.
Sembra allora lecito chiedersi se la produttività di cui parlava Goethe debba
essere intesa esclusivamente nei termini di una soggettività di cui il genio artistico
costituirebbe la manifestazione più compiuta o, piuttosto, possa essere letta come
indice del rischio assunto dall’uomo in quanto ‘poeta’ di guadagnare o generare
rispetto all’essere un accesso al suo (dell’essere) ritraimento.
Se questo fosse il caso, il bisogno universale dell’arte incarnato dal genio
– prima di identificare «il bisogno razionale che l’uomo elevi alla coscienza
17
Cfr. J.P. Eckermann, Colloqui con il Goethe, tr. it. a cura di G.V. Amoretti, 2 voll., UTET, Tori-
no 1957, Volume secondo, p. 801.
18
I. Kant, Critica del Giudizio, tr. it. di A. Gargiulo, riv. da V. Verra, Laterza, Bari 1989, § 46, p. 167.
origine e verità dell’arte 1031
19
G.W.F. Hegel, Estetica, tr. it. di N. Merker e N. Vaccaro, a cura di N. Merker, Einaudi, Torino
1997, t. I, Introduzione all’Estetica, III A/1, p. 40.
20
H.W. Petzet, Le chemin de l’étoile, Editions du Grand Est, Paris 2014, p. 76.
1032 stefano esengrini
Scrive il poeta, in un linguaggio che risente ancora del modo in cui la tradizione
metafisica ha inteso l’origine dell’opera d’arte e che pure prelude a una svolta:
Una voce
(Chi:
Ama;
Crea,
Immagina)
APRE21.
Genio è colui che si accorge di una voce sussurrata, figlia del pudore con cui il
poeta canta le tre modalità eminenti in cui si dà la nostra esistenza. Amare, creare
e immaginare, nel loro comparire tra parentesi, preparano in segreto quel che sarà
un’apertura di mondo.
Meglio: sulla base dell’ascolto dell’essere che informa di sé tanto l’amore
quanto la creazione e l’immaginazione, l’uomo diviene capace di restituire la
‘realtà’ delle cose grazie all’invenzione di una parola o di un accordo con cui il
‘poeta’ riguadagna incessantemente come fosse la prima volta – addirittura propo-
nendone una disposizione mai prima esperita – l’intera compagine dei riferimenti
che mantengono tutto in rapporto nella forma di un kosmos o diadema22.
Così, mimando la natura e identificandosi con essa, il genio sa fare della propria
opera un’origine ancor più decisiva, nella misura in cui è la stessa opera ad aprire e
modulare lo spazio-e-tempo da cui essa trae ispirazione e in cui si trova collocata.
La produttività del genio lascia così che si stagli quell’enigma che è l’ope-
ra d’arte, dal momento che tanto la sua provenienza quanto la sua destinazione
non risultano ricavabili dalla natura meramente imitata o copiata. Esse traggono
piuttosto la loro possibilità da una dimensione a cui l’immaginazione accede com-
piendo un salto per il quale viene meno ogni appoggio all’ente.
A quale spazio e a quale tempo rinvia l’opera nel suo sovvertire l’ordine dato e
istituire armonie più arrischiate oppure tanto iniziali da immedesimarsi con il nulla?
All’apertura e darsi dell’essere il genio risponde con una seconda apertura, in cui
la creazione e l’immaginazione, sostenute dall’amore e dalla sua capacità di ascol-
to, lasciano che il mondo si compagini a partire dal proprio segreto. Segreto che
21
E.E. Cummings, Eimi, Liveright, New York - London 2007, p. 452.
22
Assumiamo qui l’espressione greca di kosmos nel senso attribuitole da Eraclito nel fram-
mento 30; è ad esso che si riferisce Beaufret nel suo La nascita della filosofia a chiarimento della
differenza tra il piano dell’essente e quello – introvabile – dell’essere (cfr. J. Beaufret, Dialogo
con Heidegger, vol. I, Filosofia greca, tr. it. di M. Corona, a cura di G. Zaccaria, EGEA, Milano
1992, pp. 31-32).
origine e verità dell’arte 1033
solo il ‘poeta’ sa avvertire, restituendolo nelle sue possibilità più nascoste e, per
tale motivo, più essenziali.
Se sapremo allora accorgerci dei limiti della soggettività e del suo dominio,
potremo assistere alla trasfigurazione del genio – non più espressione culminante
dello sguardo ego-cogitativo, ma, al contrario, indole che anticipa nel proprio col-
po d’occhio il non-ente e ad esso dà forma.
Così l’apertura concessa dalla creazione non è un mero ribollire di forze cao-
tiche, ma la prima traccia di una misura che assicura un fervore nella tonalità
dell’accenno, nella forma cioè di un movimento suggerito, che risulta tanto più
intenso perché non si risolve in alcuna azione specifica, serbando in sé integra la
possibilità della trasformazione in quanto tale.
A dire il vero, solo questa seconda apertura porta a fioritura l’essere, poiché
sa risalire al fondamento che «sonnecchia», dirà ancora Eichendorff, in tutte le
cose, facendole risuonare in un canto di tale nitore e intensità da lasciarle appa-
rire in sé compiute.
Mai come in un simile momento un mortale ha potuto avvertire un richiamo
capace di soddisfare quel bisogno di radicamento che sostiene l’esistenza del sin-
golo uomo e di ogni popolo – che dona loro al contempo lo slancio che li fa freme-
re entro lo spazio compreso tra terra e cielo in cui ci troviamo a insistere, sospesi
come siamo tra un abisso che tutto inghiotte e la levità più libera su cui si inscrivo-
no la nostra parabola e, con essa, anche un nuovo inizio.
Lasciamo la parola, in conclusione, a un aneddoto raccontato da Char, in
cui il poeta fa per primo esperienza della nobiltà che domina nascostamente la
realtà più ordinaria. Essa risveglia in colui che si mantiene vigile l’esigenza di
prestare ascolto a quegli esseri incommensurabili che, proprio in quanto abitano
‘poeticamente’, annunciano la gratuità di «“ciò che viene”, di ciò che è iniziale,
inaugurale»23.
Nel loro testimoniare la presenza di un mondo altro, estraneo ai più e sempre
minacciato nella sua fragilità, questi uomini ‘del mattino’ ci soccorrono chiedendo
la nostra disponibilità e prontezza – a rigore, ogni giorno e in ogni istante – ad
aprire, ad accogliere, a lasciar essere.
Maddalena penitente
Ho cenato dal mio amico, il pittore Jean Villeri. Sono le undici passate. Il metrò mi riporta
a casa. Cambio alla stazione di Trocadero. Appesantito da una piacevole stanchezza, ascol-
to distrattamente risuonare il mio passo nel corridoio delle corrispondenze. All’improvvi-
so una giovane donna, che viene in direzione opposta, mi avvicina dopo avermi, credo,
a lungo fissato. Mi rivolge una domanda perlomeno inattesa: «Non avrebbe un foglio di
carta da lettera, Signore?» Alla mia risposta negativa e, forse, davanti alla mia aria diver-
tita, aggiunge: «Le sembra strano?». Rispondo di no, certo, un pensiero come quello o
23
R. Marteau, Le retour des dieux, «Liberté», 10 (1968), 4, pp. 36-41, qui p. 41.
1034 stefano esengrini
un altro… Con un velo di rimpianto dice: «Eppure!». La sua magrezza, il suo pallore e la
luminosità dei suoi occhi sono estremi. Cammina con la disinvoltura, che è anche la mia,
di chi fa un lavoro sbagliato. Cerco invano in questa figura spiacevole qualche bellezza. È
certo che l’ovale del volto, la fronte, lo sguardo soprattutto, devono attirare l’attenzione,
devono turbare. Ma da qui a informarsi! Non penso che a piantarla in asso. Sono arrivato
davanti al treno per Saint-Cloud e salgo rapidamente. Lei si precipita dietro di me. Faccio
qualche passo nella carrozza per allontanarmi e troncare. Senza successo. Alla stazione di
Michel-Ange-Molitor mi affretto a scendere. Ma quel passo leggero mi segue e mi rag-
giunge. Il timbro della voce si è modificato. Un tono di preghiera senza umiltà. Con alcune
parole calme puntualizzo che le cose devono fermarsi lì. Allora dice: «Lei non capisce, no!
Non è quel che crede». L’aria della notte a cui andiamo incontro conferisce della grazia
alla sua sfrontatezza: «Mi vede a proporre un’avventura galante nei corridoi deserti di una
stazione che la gente si affretta ad abbandonare? – Dove abita? – Molto lontano da qui.
Non lo conosce». Mi torna in mente il ricordo della ricerca degli enigmi, al tempo della
mia scoperta della vita e della poesia. Lo scaccio, irritato. «Non sono tentato dall’impossi-
bile come un tempo (mento). Ho visto troppo soffrire… (che indecenza!)». E la sua rispo-
sta: «Credere di nuovo non significa che vi sarà maggiore sofferenza. Rimanga capace di
accogliere. Non si vedrà morire». Sorride: «Com’è umida la notte!». La sento anch’io. La
rue Boileau, di solito provinciale e rassicurante, è bianca dalla brina, ma invano cerco la
traccia delle stelle nel cielo. Osservo di lato la giovane donna: «Come si chiama, piccola
mia? – Maddalena». A dire il vero, il suo nome non mi ha sorpreso. Avevo terminato nel
pomeriggio Madeleine à la veilleuse, ispirato dal quadro di Georges de La Tour, così attua-
le nella sua interrogazione. Questa poesia mi è costata cara. Come non cogliere in questa
passante ostinata la sua verifica? Già in due occasioni, per altre poesie che mi costarono
particolarmente care, mi capitò la stessa avventura. Non ho alcuna difficoltà a convincer-
mene. L’accesso di uno strato profondo di emozione e di visione è propizio all’insorgere
della realtà nella sua pienezza. Non la si raggiunge senza un qualche ringraziamento all’o-
racolo. Non penso sia assurdo affermarlo. Non sono il solo a cui capiti che vengano accor-
date nel profondo rare prove di questo genere. «Maddalena, è stata molto buona e molto
paziente. Proseguiamo insieme, ancora, vuole?». Camminiamo in un’intelligenza d’ombre
perfetta. Ho preso il braccio della giovane donna e provo tutte le similitudini che risveglia
la sensazione della magrezza. Scompaiono quasi subito, lasciando posto solo all’intensa
solitudine e, al contempo, al completo favore che avvertii quando ebbi messo il punto fina-
le alla composizione della mia poesia. È mezzanotte e mezzo. Avenue de Versailles, la luce
pallida del metrò di Javel sembra salire da terra. «Le dico addio, qui». Esito, ma quel corpo
gracile si libera. «Mi abbracci, me ne andrò via felice…». Prendo la sua testa tra le mani
e la bacio sugli occhi e sui capelli. Maddalena si allontana, scompare in fondo ai gradini
della scala del metrò già in attesa di chiudere le sue porte di ferro. Giuro che tutto questo è
vero e mi è capitato, e non fu senza amore, come racconto, quella notte di gennaio. La real-
tà nobile non si sottrae a chi la incontra per stimarla, e non per insultarla o imprigionarla.
È questa l’unica condizione che non siamo sempre sufficientemente puri da soddisfare24.
24
R. Char, Madeleine qui veillait, in Id., Œuvres complètes, pp. 663-665.
Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, CXII (2020), 4, pp. 1035-1050
ISSN: 00356247 (print) - 18277926 (digital)
DOI: 10.26350/001050_000230
Günter Seubold*
With the intention of destroying Western metaphysics in order to get to its origin, Heidegger
also encounters East Asian art, which is mainly influenced by Zen Buddhism. This art does
not, like Western art, want to represent the essence of a being, but rather to be a way to reach
the nothing that grants everything. Heidegger even goes so far as to cautiously ask the question
whether, with this «granting nothing», one has not arrived at the point of indifference of East
Asian and Western culture, indeed of culture in general. The treatise examines what everything
Heidegger knew about «East Asian art» and whether such an assumption is justified or not. Hei-
© 2020 Vita e Pensiero / Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
degger’s presumption, according to the author, of being at the point of indifference of cultures is
certainly fascinating and worthy of discussion. But one cannot answer this presumption in any
other way than through Heidegger’s disapproved «aesthetic» analysis of individual works of art.
Keywords: Martin Heidegger, East Asian Art, Zen Buddhism, Ereignis, Cultures’ Point of
Indifference
*
Alanus Hochschule für Kunst und Gesellschaf, Alfter-Bonn. Email: guenter.seubold@alanus.edu
Received: 18.05.2020; Approved: 19.06.2020.
1
Vgl. hierzu wie zum Folgenden insgesamt G. Seubold, Kunst als Enteignis. Heideggers Weg
zu einer nicht mehr metaphysischen Kunst, 2. Aufl., DenkMal, Bonn 2005.
1036 günter seubold
ging ihm bei diesen Interpretationen um die Frage: Wie gelangt der Mensch zu
einem Seins- und damit Weltverständnis? Solche Interpretationsvorhaben ent-
sprangen also weder einer ästhetischen noch einer kunsthistorischen Einstellung,
sondern einer ontologischen.
Und mit genau dieser ontologischen Intention begegnet Heidegger auch der »ost-
asiatischen« Kunst. Das ist ein durchaus berechtigter Interpretationsansatz, auch
wenn er etliche Fragen evoziert. Der Ansatz ist frag-würdig im ursprünglichen Sinn
des Wortes. Das gilt zunächst schon für den Begriff »ostasiatische Kunst«. Es ist
zunächst zu eruieren, was Heidegger unter »ostasiatischer« Kunst versteht, wie weit
oder eng er diesen Begriff fasst, was konkret er an ostasiatischer Kunst gekannt, was
er erfahren hat. Wichtig in diesem Zusammenhang ist auch, dass man sich Heideg-
gers Interpretationsziel vergegenwärtigt (Punkt 1). In Punkt 2 ist darzulegen, dass
Heidegger die Wesensbestimmung ostasiatischer Kunst ex negativo findet: durch
Kritik an und in Absetzung von der abendländischen Kunst. Danach (Punkt 3) wird
dieses von Heidegger erfragte Wesen durch Differenzierung seiner Strukturmomen-
te erörtert. In drei abschließenden Punkten (4, 5, 6) schließlich ist auf die Problema-
tik der Heideggerschen Interpretation einzugehen.
2
M. Heidegger, Unterwegs zur Sprache, Neske, Pfullingen 1975 (fortan uzs).
am indifferenzpunkt der kulturen 1037
Dies will Heidegger nun aber vermeiden: Ziel der Interpretation soll sein, »das
ostasiatische Wesen der japanischen Kunst […] zu erfahren und zu denken« (uzs
101). Damit aber wird sogleich die Frage aufgeworfen, was konkret – vor aller
Wesenserfahrung – Heidegger an einzelnen ostasiatischen Werken erfahren hat.
Denn zweifellos ist, um möglichst rasch beim Wesen selbst sein zu können, das
Wegschieben des »bloß Empirischen« auch eine – vielleicht sogar grundlegende –
imperiale Gebärde.
Denkenswürdigerweise glaubte Heidegger »das Bezaubernde der japanischen
Welt« in einem Produkt europäischer Technik wahrnehmen zu können: dem Kuro-
sawa-Film Rashomon (vgl. uzs 104)3. Diesen Film hat Heidegger selbst erfahren.
Im Gespräch über die Sprache, mit einem Japaner geführt, stellt sich nun aber
heraus, dass dieser Film schon zu stark europäisiert ist, um durch ihn das Eigen-
tümliche der japanischen Kunst erfahren zu können. Was die japanische Welt »sel-
ber ist« (uzs 106), erfahre man dagegen im Nô-Spiel.
Ein solches aber hat Heidegger niemals gesehen, geschweige denn erfahren.
Er kennt, wie er selbst sagt, nur »eine Schrift darüber« (uzs 104, im Original kur-
siv). »Sie müssten«, sagt der Japaner zum Fragenden, d.h. Heidegger zu Heideg-
ger, »solchen Spielen beiwohnen«. Das aber hat er nicht getan.
Neben dem Film Rashomon und dem bloß vorgestellten Nô-Spiel liebte Hei-
degger den Haiku-Dichter Bashô. So ist überliefert4, dass er Bashôs Wegerfah-
rungen Oku no hosomichi sehr geschätzt hat und dass auf seinen ausdrücklichen
Wunsch hin der japanische Philosoph Tsujimura in Freiburg privatissime über
Bashôs Dichtung und Leben referiert hat. Auch der japanische Germanist Tezuka
musste ihm, während eines Gespräches, ein Haiku von Bashô vorlesen, aufschrei-
ben und Wort für Wort erklären5. Heidegger selbst war des Japanischen nicht
mächtig, was ja besonders für alles – grob gesprochen – Lyrische, wie im Falle
Bashôs, ein gravierendes Manko ist.
Außerdem ist bekannt, dass ihn Hakuins Tuschbild Mama-no-tsugihashi so
sehr berührt hat, dass ihm Tsujimura für sein Haus in Freiburg eine Photographie,
wiederum ein Produkt westlicher Technik, besorgen musste. Tuschbild-Origi-
nale hat er bei seinen Bremer und Münchener Besuchen, hier in der Sammlung
Preetorius, gesehen. Bei japanischen und chinesischen Tuschbildern soll ihn vor
allem das Zusammenspiel von Kalligraphie, diese vor allem unter dem Aspekt der
Semantik der Zeichen verstanden, und Bild beschäftigt haben6.
3
Vgl. auch T. Tezuka, Eine Stunde mit Heidegger. Drei Antworten (1955), in H. Buchner (hrsg.),
Japan und Heidegger. Gedenkschrift der Stadt Meßkirch zum hundertsten Geburtstag Martin Hei-
deggers, Thorbecke, Sigmaringen 1989 (fortan juh), S. 173-180, insbes. S. 177.
4
Vgl. juh 265.
5
Vgl. Tezuka, Eine Stunde mit Heidegger, S. 174 u. 179. Übersetzung (mit Original) auch in
R. May, Ex oriente lux: Heideggers Werk unter ostasiatischem Einfluß, Steiner, Wiesbaden 1989,
S. 82-99.
6
Vgl. juh 264.
1038 günter seubold
7
M. Heidegger - S. Hisamatsu, Die Kunst und das Denken. Protokoll eines Colloquiums am 18.
Mai 1958 (Alfredo Guzzoni), in juh 211-215.
8
S. Hisamatsu - M. Heidegger, Wechselseitige Spiegelung. Aus einem Gespräch mit Martin Hei-
degger (1958), in juh 189-192.
9
Tezuka, Eine Stunde mit Heidegger, S. 173-180.
10
Vgl. hierzu G. Seubold, Rezension v. H. Buchner (hrsg.), Japan und Heidegger, »Heidegger
Studies«, 7 (1991), S. 137-142, sowie »Sobun«, 327 (1991), Tôkyô, S. 23-28. Dass Heidegger
stark von Laotse angezogen wurde und Passagen aus dessen »Tao-Tê-King« sogar zu übersetzen
suchte, widerspricht dieser Behauptung nicht, sondern bestätigt sie: Ist doch der Zenbuddhismus
dem Taoismus wesensverwandt; er steht ihm näher als dem populären »Religionsbuddhismus«.
Auch in den zenbuddhistisch inspirierten Künsten ist taoistischer »Einfluss« leicht nachweisbar.
Vgl. hierzu Id., Rezension v. T. u. T. Izutsu, Die Theorie des Schönen in Japan. Beiträge zur klas-
sischen japanischen Ästhetik, »Schopenhauer-Studien«, 5 (1995), S. 302-305, insbes. S. 304. Zur
Beziehung »Heidegger-Zen« im allgemeinen vgl. H.-P. Hempel, Heidegger und Zen, Athenäum,
Frankfurt a.M. 1987.
11
Damit ist natürlich nicht alle typisch ostasiatische Kunst erfasst, wohl aber deren Hauptstrang.
Es fehlen etwa die typisch »bürgerlichen« Aufführungskünste »Kabuki« und »Bunraku«, die sich
mit zenbuddhistischem Gedankengut nicht mehr adäquat verstehen lassen. Andererseits aber sind
von Heidegger auch keine Äußerungen zu typisch zenbuddhistischen Künsten, wie etwa der »Teeze-
remonie« (cha-dô) oder dem »Blumenstecken« (ka-dô) überliefert. Zur Plazierung und Gewichtung
der Zen-Künste im Gesamt der japanischen Künste vgl. G. Seubold, Inhalt und Umfang des japani-
schen Kunstbegriffs, »Philosophisches Jahrbuch«, 100 (1993), S. 380-398.
am indifferenzpunkt der kulturen 1039
So heißt es in dem von Heidegger autorisierten Protokoll Die Kunst und das
Denken: »Die europäische Kunst ist in ihrem Wesen durch den Charakter der
Darstellung gekennzeichnet. Darstellung, Eidos, Sichtbar machen. Das Kunst-
werk, das Gebilde, bringt ins Bild, macht sichtbar. Statt dessen ist in der ostasia-
tischen Welt die Darstellung ein Hindernis, das Bildhafte, das sichtbarmachende
Bild bedeutet eine Hinderung«12.
Der Begriff eidos beseitigt letzte Zweifel, was Heidegger mit »Darstellung«
meint: die metaphysische Orientierung am Seienden als Seienden, wie sie seit
Platon und vor allem Aristoteles mit dem Begriff mimesis auch für das poe-
tisch-ästhetische Denken maßgeblich geworden ist. Dabei darf der an der mimesis
ausgerichtete Begriff »Darstellung« nicht zu eng gefasst werden: »Darstellung«
meint nicht bloße Abschilderung eines schon Vorliegenden, sondern meint in
seiner höchsten und eigentlichen Form das – wie Heidegger sagt – »Sichtbar
machen«, die sich erst durch die Kunst ins Bild setzende Wahrheit des Seienden.
Das Seiende wird durch die Kunst, wie es Aristoteles am Beginn des ästhetischen
Denkens aufs trefflichste dargelegt und Hegel am Ende aufs nachdrücklichste
bestätigt hat, von allem bloß Akzidentellen befreit und ins Wesen gesetzt. Darauf
vor allem nimmt Heidegger mit eidos Bezug13.
Das alles nun soll für die japanisch-ostasiatische Kunst nicht zutreffen. Sie stellt
– im weiteren Sinne verstanden – zwar auch etwas dar und ist etwas Bildhaftes, doch
dieses soll gerade – im Gegensatz zur abendländischen Kunst – nicht das Wesen die-
ser Kunst ausmachen. Die Darstellung, das Bildhafte sei sogar eine »Hinderung«,
das Genuine dieser Kunst zu erfahren. Folgerichtig wird daher an Rashomon (sie-
he oben) das »Massive der Darstellung« als nichtjapanisch kritisiert. Unter diesem
metaphysischen Gesichtspunkt »Bild, Darstellung, Eidos« sind Photographie und
Film – und allen »Photo-« und »Film-Ästhetikern« möchte man dies ans Herz legen
– nichts wesenhaft Neues in der abendländischen Entwicklung, sondern Vollendung
des früh konzipierten eidos-Charakters alles Seienden.
In diesem Zusammenhang fällt dann bei Heidegger auch immer wieder die
Kategorie des »Gegenständlichen«. Im Film werde »die japanische Welt […] in
das Gegenständliche der Photographie eingefangen und eigens gestellt« (uzs 105).
Das aber sei Teil der »Europäisierung der Erde und des Menschen« (uzs 103),
der technischen Überrumpelung und Übervorteilung der Rest-Welt. Werde alle
abendländische Ästhetik und Kunst vom Gegenständlichen getragen, so vollen-
de sich dieses Gegenständliche aber doch erst in der neuzeitlichen »Subjekt-Ob-
jekt-Relation« (uzs 139). Im Horizont dieser Relation sei es gänzlich unmöglich
12
Heidegger - Hisamatsu, Die Kunst und das Denken, S. 212 f.
13
Zum Bildbegriff vgl. auch M. Heidegger, Hölderlins Hymne »Der Ister«, hrsg. von W. Biemel,
in Gesamtausgabe (Klostermann, Frankfurt a.M. 1975 ff.; fortan ga) 53, 1993, S. 17-19.
1040 günter seubold
geworden, das Wesen der ostasiatischen Kunst zu verstehen und zu erörtern; denn
in der ostasiatischen Kunst werde »nichts Gegenständliches« hervorgebracht14.
14
Vgl. Heidegger - Hisamatsu, Die Kunst und das Denken, S. 213.
15
Ibidem.
16
Tezuka, Eine Stunde mit Heidegger, S. 175.
17
Ibidem.
am indifferenzpunkt der kulturen 1041
18
Vgl. Heidegger - Hisamatsu, Die Kunst und das Denken, S. 211-215.
1042 günter seubold
interpretiert und korrigiert das andere, und sie können es nur, weil sie auf einer
elementaren Ebene einander entsprechen.
Das genuin Ostasiatische der ostasiatischen Kunst ist in der Heideggerschen
Interpretation ein komplexes Geschehen. Um sich dieses Geschehen verständlich
zu machen, ist angeraten – wie dies auch das Protokoll von 1958 nahelegt –, es in
zwei Momente zu unterteilen.
Oben schon wurde die etwas merkwürdig anmutende Sentenz zitiert, dass in der
ostasiatischen Kunst das »sichtbarmachende Bild […] eine Hinderung« sei. Die-
ser Satz wird verständlich durch den grundlegenden Zug des Zenbuddhismus, der
auch die Zen-Kunst bestimmt: des »Ledigseins von aller formhaften Gebunden-
heit«, des »Einbruchs in den Ursprung«, verstanden als »Nichts«19. Die seienden
Dinge, zu denen auch das Kunstwerk zählt, drängen sich in den Vordergrund und
verhindern so die Selbst-, d.h. Nichts-Erfahrung des Menschen.
Dieses »Nichts«, auch unter dem Namen »Sein« geführt20, ist ja bekanntlich
einer der Haupttitel des Heideggerschen Denkens. Hinsichtlich der ostasiatischen
Kunst taucht er nun auch unter anderen Namen auf: als »Leere« (uzs 106 ff.), als
»Schweigen« (uzs 152) oder als »Stille« (uzs 105, 141); oder dies Nichts wird –
auf die Bewegung des Schauspielers bezogen – als »Ruhe« (uzs 107) vorgestellt.
Es sieht nun zunächst so aus, als sei mit dieser »Leere« das für Heidegger Typi-
sche der ostasiatischen Kunst gefunden: Nicht das Bild, nicht das Seiend-Artikulier-
te ist das Wesentliche dieser Kunst, sondern das diesem Seienden zugrundeliegende
Unsichtbare und Nichtartikulierte. Aber eben diesem Unartikulierten widersetzt
sich die Kunst dadurch, dass sie nicht schweigen kann, sondern »etwas«, einen Ton,
ein Wort, einen Pinselstrich, von sich gibt, »etwas« als »seiend« setzt. Was also hat
die Kunst mit dieser Leere zu tun, wenn das konkrete Kunstwerk eine »Hinderung«
ist, in diese Leere, in diese Stille, Ruhe und in das Schweigen zu gelangen?
Hier setzt nun das zweite Moment des Kunstgeschehens ein.
3.b. Anlass für die Bewegung zum Nichts: Das Bild als Ent-hinderung
»Solange der Mensch auf dem Weg zum Ursprung sich findet, ist Kunst als Darstel-
lung des Bildhaften für ihn ein Hindernis. Wenn er aber in den Ursprung eingebro-
chen ist, dann ist die Sichtbarmachung des Eidetischen keine Hinderung mehr; sie
19
Darlegung von Hisamatsu; vgl. ibi, S. 212.
20
Wenngleich der Titel »Sein« vom späten Heidegger als ungemäße Bezeichnung der zu den-
kenden Sache verstanden wird, »denn eigentlich gehört dieser Name in das Eigentum der Sprache
der Metaphysik« (uzs 109). »Für uns [scil. Japaner] ist die Leere der höchste Name für das, was Sie
mit dem Wort „Sein“ sagen möchten« (uzs 109).
am indifferenzpunkt der kulturen 1043
ist dann vielmehr das Erscheinen der ursprünglichen Wahrheit selbst« (Hisamatsu)
– »Das Geschriebene, Gezeichnete ist nicht nur Hinderung, sondern Ent-hinderung,
Anlass für die Bewegung des Selbst zum Ursprung« (Heidegger)21.
Im adäquaten Vollzug dieses »hermeneutischen Zirkels« – mit dem Kunstwerk
soll man in den Ursprung einbrechen; doch nur, wenn man bereits im Ursprung
lebt, kann man das Bild als Anlass für die Bewegung zum Ursprung nehmen – soll
das konkrete Kunstwerk ebenso wenig selbstgenügsam für sich stehen, wie das in
diesem Kunstwerk Dargestellte als Wesen des Seienden genommen werden soll.
Das Bild, das auf dem Bild Dargestellte soll vielmehr ein »Anlass« sein, dass der
Betrachter die Bewegung zum Nichts vollzieht22.
Und damit ist die Bedeutung des genuin japanischen Kunstbegriffs »gei-
dô«, »Kunst-Weg«, artikuliert: »Die Kunst ist ein Weg, wie der Mensch in den
Ursprung einbricht« (Hisamatsu)23. Damit dies gelingt, muss die Kunst eine im
Vergleich zur Alltagswelt ausgezeichnete Stellung innehaben. Darüber hinaus
muss dieser Kunst, damit sie dem Negativismus und der totalen Verweigerung
wie der bloßen Darstellung des Seienden entgeht, aber auch selbst eine spezifische
Verfassung eignen. Das Kunstwerk muss spezifische ästhetische Kriterien erfül-
len, damit es ein Weg zum Ursprung sein kann. Und wenn Heidegger am Film
Rashomon das »Massive der Darstellung« rügt, wenn er moniert, dass »die Dar-
stellung vielfach zu realistisch ist« (uzs 104 f.), dann verweist er auf genau diesen
Punkt: Mit dieser »Darstellung« lässt sich eben nicht in den Ursprung einbrechen,
die Darstellung ist nicht »Anlass« für den Gang in den Ursprung – und daher ist
diese Art von Kunst kein »Weg«, sondern steht selbstgenügsam in sich. Sie ist
somit keine Enthinderung, sondern nur Hinderung.
Der Film hat aber auch, abgesehen davon, dass er nach Heidegger als Film
alles in das Gegenständliche der Photographie einfängt und eigens stellt, »ver-
haltene Gebärden» (uzs 104) – und diese sind sozusagen der letzte Abglanz des
genuin japanischen Nô-Spiels in Rashomon.
21
Heidegger - Hisamatsu, Die Kunst und das Denken, S. 213.
22
Anders also als in der modern-abstrakten westlichen Kunst vollzieht sich die Absetzung von
der darstellenden Kunst nicht über die abstrakt negative Verweigerungsgeste – etwa die leere Lein-
wand, das schwarze Bild oder das auf den Sockel gehobene alltägliche Ding. Solcher Gestus wür-
de ja selbst – durch »Darstellung« des »Negativen« – »positiv« werden. – Es ist daher plausibel,
wenn gelegentlich der Erörterung der ostasiatischen Kunst sofort auch die moderne, insbesondere
»abstrakte« abendländische Kunst angesprochen und die Differenz zur ostasiatischen Kunst gesucht
wird (vgl. ibi, S. 214). Zur Beziehung »moderne abendländische Kunst - Zen(-Kunst)« vgl. auch
S.-B. Park, Analyse der mit Zen vergleichbaren Elemente in der modernen Kunst – mit besonderer
Berücksichtigung der Absoluten Kunst, des Informel und des Happenings, Wuppertal 1989 (Phil.
Diss.); C. Kellerer, Der Sprung ins Leere: Objet trouvé - Surrealismus - Zen, Dumont, Köln 1982;
M.H. Müller-Yao, Der Einfluß der chinesischen Kalligraphie auf die westliche informelle Kunst,
Bonn 1985 (Phil. Diss.); M. Tobey, Japanese Traditions and American Art, »College Art Journal«,
XVIII (1958), 1, S. 20-24; J. Poetter, Zen 49. Die ersten Zehn Jahren, Ausstellungskatalog, Staatli-
che Kunsthalle Baden-Baden, Baden-Baden 1986.
23
Heidegger - Hisamatsu, Die Kunst und das Denken, S. 212.
1044 günter seubold
24
Heidegger sagt nicht, welchem der ca. 200 Nô-Spiele des spielbaren Repertoires er diese Ges-
te entnimmt. Diese Geste taucht in mehreren Stücken auf, so z.B. in dem Stück »Kumasaka«, in
dem der Hauptdarsteller (shite) nach einem Schwerttanz sein Schwert weglegt und die beschriebene
Handbewegung vollzieht. Diese Gebärde kann aber auch mit dem – für die Nô-Gestik äußerst wich-
tigen – Fächer ausgeführt werden.
25
Damit ist auch das unterschiedliche Ziel der Stilisation in Ost und West bezeichnet: Im Westen
soll das »Eigentliche«, das »Wesentliche« des Seienden herausgearbeitet werden – die Stilisation
führt auf das Seiende zurück; im Osten dagegen soll die Stilisation gerade vom Seienden weg- und
auf das alles Seiende gewährende Nichts hinführen.
26
Heidegger - Hisamatsu, Die Kunst und das Denken, S. 213; vgl. auch M. Heidegger, Die
Kunst und der Raum (1969), hrsg. von H. Heidegger, ga 13, 2002, S. 203-210, hier S. 209.
27
Tezuka, Eine Stunde mit Heidegger, S. 176.
28
Heidegger - Hisamatsu, Die Kunst und das Denken, S. 214.
am indifferenzpunkt der kulturen 1045
»Anwesung« oder wird durch dieses gar symbolisiert: Die Leere ist nach Heidegger
vielmehr das Einräumende, dem alles Bildhafte und Artikuliert-Seiende entspringt.
Und damit lässt sich dann auch das Iki nichtsymbolisch, d.h. nichtmetaphy-
sisch interpretieren. Nach Heidegger erläuterte Kuki das Grundwort Iki, indem
er »vom sinnlichen Scheinen« sprach, »durch dessen lebhaftes Entzücken Über-
sinnliches hindurchscheint« (uzs 101). Kuki erläuterte also das Grundwort Iki
durch das metaphysische Modell aistheton-noeton. Heidegger aber führt Iki auf
das gewährende Nichts bzw. die gewährende Stille zurück: »Iki ist das Wehen der
Stille des leuchtenden Entzückens«, sagt der Japaner, und der »Fragende« ver-
deutlicht: »Das Entzücken verstehen Sie dann wörtlich als Entziehen, Hinzücken
– nämlich in die Stille« (uzs 141)29.
29
Dass Iki zunächst – unzureichend, weil missverständlich – mit »das Anmutende« (uzs
140) übersetzt wird, könnte man als mehr oder weniger dezenten Hinweis auf die von Heidegger
erwähnte Studie Oscar Benls verstehen, in der der grundlegende Begriff des Nô-Spiels, yûgen,
mit »Anmut« übersetzt wird. Vgl. O. Benl, Seami Motokiyo und der Geist des Nô-Schauspiels,
Steiner, Wiesbaden 1953, S. 119.
1046 günter seubold
154), weil hier alles Dargestellte, alles Seiende das aus der Leere Gewährte ist
und kein an sich seiendes Faktum30.
In dieser Hinsicht ist es dann auch weniger verwunderlich, dass der japanische
Begriff Iki, der im Gespräch von der Sprache zunächst so eingeführt wird, dass
mit seiner Hilfe »das Wesentliche der ostasiatischen Kunst und Dichtung« (uzs
89) gesagt werden soll, als »das reine Entzücken der rufenden Stille« (uzs 142)
verstanden wird31 – und zugleich gesagt wird, dass »alles Anwesen seine Herkunft
in der Anmut im Sinne des reinen Entzückens der rufenden Stille« habe (uzs 141,
meine Hervorhebung).
Die Herkunft des Anwesens und des Seins aus dem Nichts und Ereignis zu den-
ken ist das Grundanliegen der Heideggerschen Spätphilosophie, nicht nur seiner
Interpretation der ostasiatischen Kunst: Alles ist aus der Stille gewährt, und alles
kann – auch nach zenbuddhistischer Vorstellung – Anlass sein, in den Ursprung
zu gelangen. Die Differenz der Kunstwerke zu allen übrigen Dingen besteht eben
»nur« darin, dass sie eigens, durch das ihnen Charakteristische, in den Ursprung
einzuführen vermögen.
Natürlich wüsste man von Heidegger gerne, welche (ästhetischen) Kriterien es
denn nun sind, die die ostasiatischen Kunstwerke von den alltäglichen Dingen und
auch von den abendländischen Kunstwerken unterscheiden. Statt dessen aber wird
das Iki auf Koto ba – Sprache – zurückgeführt32. Und Heidegger lässt dann mit der
30
Dieses (metaphysische) »Es ist« darf freilich nicht mit dem »Es ist« der dichterischen Sprache
Trakls, Rimbauds, Rilkes und Benns verwechselt werden, das im Seminar zum Vortrag Zeit und Sein
erörtert wurde. Vgl. M. Heidegger, Zur Sache des Denkens, Niemeyer, Tübingen 1976, S. 42 f.
31
Ob diese Bestimmung etwas trifft am Phänomen des mit Iki Bezeichneten, darf bezweifelt
werden. Iki ist einem anderen kunst- und kultursoziologischen Horizont zuzuordnen als die Kunst,
von der Heidegger spricht (Nô, Haiku, Zen-Malerei), nämlich dem bürgerlichen. Die bürgerliche
Kultur gründet zwar in der zenbuddhistisch inspirierten Kunst der Feudalklasse, setzt sich aber auch
nachdrücklich von dieser ab. Wie den spezifisch bürgerlichen Künsten »Kabuki« und »Bunraku«
eignet auch dem, was man mit Iki bezeichnet, das Charakteristische der bürgerlichen Klasse des
neuzeitlichen Japans, die wirtschaftlich prosperiert, politisch aber ohne Einfluss bleibt und – kom-
pensatorisch – dem Amüsement ergeben ist. Dieses Amüsement ist hier jedoch genuin ostasiatisch
zu verstehen: Es ist gepaart mit Entsagung. Iki, das man nur unzureichend, aber am ehesten noch mit
»chic», »kokett«, »raffiniert« wiedergeben könnte, synthetisiert nach Kuki: Koketterie (bitai, als ver-
absolutierte Möglichkeit), Stolz des Samuraigeistes (ikiji) und buddhistische Entsagung (akirame).
Vgl. hierzu den Artikel Ethik und Ästhetik in H. Hammitzsch (hrsg.), Japan-Handbuch, Steiner,
Stuttgart 1990, Sp. 1263 f.; sowie R. Ohashi, Heidegger und Graf Kuki. Zu Sprache und Kunst in
Japan als Problem der Moderne, in H.-H. Gander (hrsg.), Von Heidegger her. Wirkungen in Philo-
sophie - Kunst - Medizin, Frankfurt a.M. 1991, S. 93-104; und die Übersetzung von E. Schinzinger,
Die Struktur des »Iki« von Kuki Shûzô, Tübingen 1985 (Unveröffentl. Magisterarbeit). Zur Frag-
würdigkeit des Heideggerschen Vorgehens vgl. auch O. Pöggeler, Neue Wege mit Heidegger, Alber,
Freiburg i.B. - München 1992, S. 106 f.
32
Das kann man durchaus auf jene Passage des Kunstwerkaufsatzes beziehen, die darlegt,
dass alle Kunst im »Dichterischen« gründet (vgl. M. Heidegger, Der Ursprung des Kunstwerkes,
Reclam, Stuttgart 1977, S. 82-85), darf es aber doch nur analog hierzu verstehen, da das Heidegger-
sche Denken jetzt ein anderes Stadium erreicht hat und auch Sprache grundlegender versteht.
am indifferenzpunkt der kulturen 1047
Übersetzung von Koto als »das Ereignis der lichtenden Botschaft der Anmut« (uzs
142) keinen Zweifel daran, dass er die Interpretation ostasiatischer Kunst voll und
ganz in seine – vor allem durch die Titel »Lichtung« und »Ereignis« geprägte –
Spätphilosophie integriert33.
Heideggers Erörterungen der ostasiatischen Kunst haben also nicht den Cha-
rakter einer Kunstphilosophie, wollen eine solche aber auch gar nicht sein. Dem
Anspruch nach wollen sie das ostasiatische Wesen dieser Kunst eruieren, d.h. die
Bestimmung dieser Kunst von allen abendländisch-ästhetischen Kategorien frei-
halten. Abgesehen aber davon, dass sich Heidegger allein um die zenbuddhistisch
inspirierte Kunst bemüht, muss er sich den – weitaus gravierenderen – Vorwurf
gefallen lassen, dass er sich nicht um die spezifische Verfasstheit der ostasi-
atischen Kunst kümmert, dass er zu rasch zum Wesen der ostasiatischen Kunst
gelangt – und dieses Wesen sich als »nichts« anderes denn als der grundlegen-
de Gedanke seiner Spätphilosophie erweist. Fällt damit nicht der von Heidegger
erhobene Verdacht der europäischen Übervorteilung der ostasiatischen Welt auf
ihn selbst zurück?
33
Bei der Übersetzung von ba mit »(Blüten-)Blätter« ist Heidegger einer falschen, von seinem
Gesprächspartner Tezuka unterstellten Etymologie gefolgt. Ba meint nicht primär »Blätter«, son-
dern »das Periphere im Sinne einer vom Zentrum entfernten und wertlosen Gegend«. Vgl. hierzu
T. Ogawa, Heideggers Übersetzbarkeit in ostasiatische Sprachen, in D. Papenfuss - O. Pöggeler
(hrsg.), Zur philosophische Aktualität Heideggers, 3 Bde., Klostermann, Frankfurt a.M. 1992, Bd.
III, S. 180-196, insbes S. 193 f.
1048 günter seubold
schon kein Halten mehr, auch wenn sich der Durchbruch noch als Versuch und
Vermutung und Zweifel des »Fragenden« (also Heideggers) zu verkleiden und
zurückzunehmen sucht: »Darum sehe ich noch nicht, ob, was ich als Wesen der
Sprache zu denken versuche, auch dem Wesen der ostasiatischen Sprache genügt,
ob am Ende gar, was zugleich der Anfang wäre, ein Wesen der Sprache zur denken-
den Erfahrung gelangen kann, das die Gewähr schenkte, dass europäisch-abend-
ländisches und ostasiatisches Sagen auf eine Weise ins Gespräch kämen, in der
solches singt, das einer einzigen Quelle entströmt« (uzs 93 f.).
Oh doch, er »sieht« und weiß dieses Wesen. Die Übersetzungen von Iki und
Koto im Verlauf des Gesprächs belegen es nur zu deutlich: Der Ursprung der
abendländischen und der Ursprung der ostasiatischen Sprache und Kultur ist ein
und derselbe. Wir schöpfen nach Heidegger aus einer Quelle: dem Ereignis.
Dieser Gedanke ist natürlich nicht von vornherein von der Hand zu weisen.
Er ist faszinierend, ja erregend. Es ist dies aber auch und vor allem ein gefährli-
cher Gedanke, ein Gedanke, der einen erschauern lässt. Er ist gefährlich, weil er
einen Imperialismus im Gefolge haben könnte, der den technischen Imperialis-
mus potenzierte, weil er ihn noch tiefer fundierte, nämlich im Ursprung dessen,
dem, nach Heidegger, auch die Technik sich verdankt – und dabei die Illusion
nährte, den westlichen Imperialismus überwunden zu haben, während er diesen
nur fortführt und verfestigt.
Ist das »Ereignis« tatsächlich der Indifferenzpunkt der östlichen und westli-
chen Kultur, oder erweist sich mit dieser Unterstellung, ja Anmaßung die Hei-
deggersche Interpretation der ostasiatischen Kunst als einer jener »Holzwege«,
die man am besten wieder zurückgeht, um nicht zu viele wertvolle Gewächse zu
zertreten? Hat Heidegger hier »groß geirrt«, weil »groß gedacht«? Wie, nach wel-
chen Kriterien soll man diese Fragen entscheiden? Lassen sich Fragen solcher Art
überhaupt entscheiden?
Kunstwerke. Und es ist dies der eigentlich kritische und auch alles entscheidende
Punkt der Heideggerschen Interpretation. Durch dieses Manko kann Heidegger,
der angetreten war, das spezifisch Ostasiatische der ostasiatischen Kunst auf-
zuweisen, die ostasiatische Kunst letztlich nicht mehr von der abendländischen
unterscheiden. Denn das ostasiatische Wesen der ostasiatischen Kunst ist für ihn
auch das Wesen der abendländischen Kunst34.
Dabei kann man Heidegger zugeben, dass die ästhetische Analyse das ostasia-
tische Wesen der ostasiatischen Kunst ebenso wenig trifft wie das abendländische
Wesen der abendländischen Kunst. Aber ist man deswegen schon berechtigt, alle
konkreten Kriterien, mag man sie nun »ästhetisch« nennen oder nicht, beiseite zu
schieben, um möglichst rasch zum Wesen vordringen zu können? Das Einklagen
ästhetischer Kriterien meint ja in diesem Zusammenhang nicht das Beugen der
Kunst unter das Joch eines fixen und die Sache verunstaltenden wissenschaftli-
chen Methodenkanons, sondern meint allein das Eingehen auf die Sache, fordert
allein die Einlösung des phänomenologischen Konkretionsgebotes. Nachdem sich
wohl niemand mehr eine Wesensschau als genial-intuitiven Akt vorstellen kann,
ist man kaum anders fähig, zum Wesen zu gelangen, als durch eine explizit durch-
geführte Analyse hindurch 35. Das Wesen muss erscheinen! Dies wenigstens ist
von Hegel zu lernen – und man wird dann immer noch, gegen Hegel, festhalten
können, dass das Wesen damit nicht seines Geheimnischarakters beraubt wird,
sondern dass dieser mit solch einer Analyse nur potenziert werden kann.
Heideggers Aversion gegen dergleichen »ästhetische« Analysen, die Vorstel-
lung, dass mit solch einem Anfang alles verloren sei, dass man mit solch einem
Anfang unmöglich zum »Wesen« vorstoßen könne, ist gänzlich unbegründet, ja
diese Aversion ist für seine Interpretation geradezu verhängnisvoll. Gerade weil er
sich nicht auf die konkrete ästhetische Analyse einlässt und sie mit dem Verdacht
der Übervorteilung strikt ablehnt, bleibt er an allen wichtigen und entscheidenden
Stellen seiner Interpretation naiv-unreflektiert an das Ästhetisch-Technische gebun-
den. Denn festzuhalten ist hier: Es war ein ästhetisch-technisches Produkt, der Film
Rashomon, eines Regisseurs zudem, der auch in Hollywood gelernt hatte, das ihm
den Eindruck des »Bezaubernden« (uzs 104) der japanischen Welt vermittelte. Es
34
So liest man in dem Text Die Kunst und der Raum von 1969, der das Wesen der Plastik als sol-
cher, also undifferenziert nach Ost und West, thematisiert, zentrale Sätze, die auch gelegentlich der
Erörterung der ostasiatischen Kunst hätten geschrieben werden können: »Vermutlich ist jedoch die
Leere […] kein Fehlen, sondern ein Hervorbringen […] Die Leere ist nicht nichts. Sie ist auch kein
Mangel. In der plastischen Verkörperung spielt die Leere in der Weise des suchend-entwerfenden
Stiftens von Orten« (S. 209).
35
Vgl. hierzu K. Tsujimura, Über Yü-chiens Landschaftsbild »In die ferne Bucht kommen Segel-
boote zurück«, in R. Ohashi (hrsg.), Die Philosophie der Kyoto-Schule, Alber, Freiburg i.B. - Mün-
chen 1990, S. 455-469. Tsujimura scheut sich nicht, seine These, das Gemalte sei »Ausdruck des
Nichts« (S. 467), mit ästhetisch-stilistischen Kategorien, wie »Circumspektive« (in Absetzung von
der abendländischen Perspektive), zu belegen. Und man gewinnt hier durchaus nicht den Eindruck,
dies sei eine ästhetische Überformung des ostasiatischen Wesens dieser Malerei!
1050 günter seubold
36
Diese Beziehung adäquat zu denken bereitet Heidegger immense Schwierigkeiten. Er sagt vor
allem, wie sie nicht zu denken ist. Die größte Gefahr besteht für ihn darin, sich die Beziehung als
»einen nachträglichen Zusammenschluss« vorzustellen (uzs 108). Diese Schwierigkeit taucht auch
an prominenter Stelle, nämlich im 1956 geschriebenen Nachwort zum Kunstwerkaufsatz auf: »In
dem Titel: „Ins-Werk-setzen der Wahrheit“, worin unbestimmt aber bestimmbar bleibt, wer oder
was in welcher Weise „setzt“, verbirgt sich der Bezug von Sein und Menschenwesen, welcher Bezug
schon in dieser Fassung ungemäß gedacht wird« (Heidegger, Der Ursprung des Kunstwerkes, S.
100) Vgl. hierzu auch G. Seubold, Heideggers Analyse der neuzeitlichen Technik, Alber, Freiburg
i.B. - München 1986, insbes. S. 128-132.
37
Zwar bezeichnet Heidegger selbst die metaphysisch-ästhetische Analyse als »in gewisser
Hinsicht unumgänglich«, doch ist »unumgänglich« bei ihm selbst unter dieser Einschränkung nur
negativ gefasst; die ästhetische Vorstellungsweise ist für ihn ein (zunächst noch) notwendiges, leider
nicht hintergehbares Übel: »Denken Sie nur daran, wie unversehens Sie Kukis ästhetische Ausle-
gung des Iki als sachgerechte anerkannten, obzwar sie auf dem europäischen, d.h. metaphysischen
Vorstellen beruht. – Wenn ich Sie recht verstehe, wollen Sie sagen, die metaphysische Vorstellungs-
weise sei in gewisser Hinsicht unumgänglich« (uzs 116).
Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, CXII (2020), 4, pp. 1051-1074
ISSN: 00356247 (print) - 18277926 (digital)
DOI: 10.26350/001050_000160
In this paper I will inquire the concepts of ἀνάγκη/Ἀνάγκη and πειθώ/Πειθώ in Par-
menides’ lost Περὶ φύσεως. I will focus, in particular, on the fragments of the poem in
which these words recur. I will focus, also, all the fragmets in which recur the substantive
τὸ χρεών and the verb χράω. The aim is to verify if, before Plato’s Timaeus, in which
we have the most important philosophical connection between ἀνάγκη and πειθώ, also
in Parmenides is possible to found a philosophical treatment of these two concepts. I
will try to show that the answer is affirmative. Πειθώ, according to Parmenides, is indis-
solubly tied to Ἀληθείη, therefore to Ἀνάγκη. According to Parmenides, to conclude,
© Vita e Pensiero / Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
1. Introduzione
Questo studio costituisce la prosecuzione di una mia precedente indagine sul
rapporto tra i concetti di necessità e di persuasione nel Timeo di Platone, a con-
clusione della quale emergeva un concetto di necessità inteso quale proprietà
intrinseca alla materia, per la quale quest’ultima limita e/o resiste all’azione
demiurgica. La materia, in effetti, di per sé priva di fine e di forma, per diventare
*
Università degli Studi di Catania. Mail: licciardiivan@virgilio.it
Received: 05.04.2019; Approved: 04.07.2019; First published online: 02.2020.
Ringrazio la prof. ssa Giovanna R. Giardina e il prof. Gianni Casertano, nonché il referee
anonimo della «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», per aver letto e revisionato il manoscritto del
presente saggio, fornendo preziosi spunti e segnalando gli svarioni ivi presenti. La responsabilità
degli errori e delle imprecisioni presenti in questa stesura finale è, nondimeno, del sottoscritto.
1052 ivan adriano licciardi
sensibile, ossia per costituirsi come fenomeno, necessita di ricevere una determi-
nazione per mezzo dell’attività artigianale del Demiurgo, il quale costituisce la
trasposizione mitica della funzione causale (paradigmatica e, allo stesso tempo,
generativa) delle idee, consistente nel portare a compimento la partecipazione fra
le cose e le idee. La materia quale cieca necessità, tuttavia, è riottosa a ricevere
tale determinazione, sicché interviene un’opera di ‘persuasione’ demiurgica fina-
lizzata a superare la resistenza originaria della materia. Il Demiurgo, pertanto, è
un artigiano la cui attività persuasiva è affine all’attività del vero retore-filosofo
che nel Fedro possiede l’arte psicagogica. Nel Timeo la necessità della materia in
qualche modo si piega alla persuasione demiurgica, che è lo strumento di trasmis-
sione causativa delle idee le quali, in ultima istanza, costituiscono l’essere vero1.
A ritroso di Platone, è nel pensiero del periodo arcaico, e segnatamente in Par-
menide, che troviamo la più significativa, per quanto frammentaria, tematizzazio-
ne dei concetti di ἀνάγκη/Ἀνάγκη e di πειθώ/Πειθώ.
L’obiettivo di questo studio è quello di analizzare le ricorrenze di questi due
termini nel poema parmenideo alla luce dei risultati già acquisiti, e sopra breve-
mente descritti, sul rapporto fra ἀνάγκη e πειθώ nel Timeo di Platone. In altri ter-
mini, si tratta di verificare se anche in Parmenide, come in Platone, in cui ἀνάγκη
e πειθώ possono essere considerati in relazione tra loro ai fini della costituzione
dell’universo, i due concetti vengono posti in reciproca e analoga correlazione. La
risposta, sia detto qui in anticipo, è affermativa.
1
Cfr. Plat., Resp. VI, 508d5; 536d6-7; Sph. 240b3; 261c8.
2
28 B 8,16 e 30 DK. D’ora in poi citerò solo il numero e il verso del frammento.
necessità e persuasione in parmenide 1053
3
Sul significato, qui, di ἦτορ, cfr. E. Martineau, Le «coeur» de l’ἀλήθεια, «Revue de Philo-
sophie Ancienne», 1 (1968), pp. 33-86; A.P.D. Mourelatos, The Route of Parmenides. A Study of
Word, Image and Argument in the Fragments, Yale University Press, New Haven - London 1970,
pp. 155-158 (il testo è stato successivamente riedito: Id., The Route of Parmenides. Revised and
expanded edition, with a new Introduction, three supplemental Essays, and an Essay by G. Vlastos,
Parmenides Publishing, Las Vegas - Zurich - Athens 2008).
4
Sul fatto che in Parmenide (così come, probabilmente, anche in Empedocle, cfr. W. Jaeger, The
Theology of the Early Greek Philosophers, Clarendon Press, Oxford 1947, pp. 144 e 238, nota 76),
la πίστις esprima un grado epistemologico superiore alla «credenza» (termine con cui viene cor-
rentemente tradotto πίστις quando quest’ultimo viene utilizzato dagli autori del periodo classico) si
rinvia a H. Fränkel, Parmenidesstudien, «Nachrichten von der Gesellschaft der Wissenschaften zu
Göttingen», 30 (1930), pp. 153-192, in particolare p. 162 (successivamente pubblicato in Id., Wege
und Formen frühgriechischen Denkens, München 19551; 19602); W.J. Verdenius, Parmenides. Some
Comments on his Poem, Wolters, Gröningen 1942, p. 49; M. Untersteiner (a cura di), Parmenide.
Testimonianze e frammenti, La Nuova Italia, Firenze 1958 (19672), pp. 126-127. Traducono πίστις
con «certezza» anche G. Reale (a cura di), Parmenide. Poema sulla natura, traduzione di G. Reale,
saggio introduttivo e commentario di L. Ruggiu, Bompiani, Milano 2003 (1a ed. Rusconi, Milano
1991), p. 89 e G. Cerri (a cura di), Parmenide di Elea. Poema sulla natura, introduzione, testo, tra-
duzione e note, BUR, Milano 1999, p. 149 (cfr. anche le pp. 224-225 e 242).
5
Si rimanda a Untersteiner, Parmenide, pp. 126-127; L. R uggiu , Commentario filosofico
al poema di Parmenide «Sulla Natura», in R eale , Parmenide, pp. 153-380, qui pp. 200-209;
C erri , Parmenide, pp. 185-186. Di Ruggiu si veda anche Parmenide, Marsilio Editore, Venezia -
Padova 1974, testo che è stato integralmente ristampato in Id., Parmenide. Nostos. L’essere e gli
enti, edizione rivista e ampliata, Mimesis, Milano - Udine 2014.
1054 ivan adriano licciardi
da parte di Simplicio (citazione che prende avvio a 1,51) coincide, fino a 1,53
(= in Cael. 557,27), con quella parallela di Sesto (adv. Math. VII, 111,7-36)6. I
due versi successivi con i quali Simplicio prosegue la citazione (ἀλλ’ ἔμπης καὶ
ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα / χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα
περῶντα, S impl ., in Cael. 558,1-2) costituiscono un’asserzione intorno alla
necessità (χρῆν) di avere una conoscenza (μαθήσεαι) anche intorno alle parven-
ze (τὰ δοκοῦντα), e sono accolti in DK, come detto, come 1,54-55. Tali versi
non si trovano però in Sesto, il quale prosegue citando dei versi che in DK sareb-
bero stati accolti invece come 7,2-8,2, contenenti il celebre divieto parmenideo di
imboccare la via di ricerca sul non-essere7.
Quanto alla lezione con cui Simplicio, in Cael. 558,2, riporta B 1,55 DK, non
accolgo la congettura di Guthrie, seguito da Perry, Reale e Cerri8 i quali, ai fini
della corretta costituzione del testo, non seguono la lezione πάντα περῶντα, atte-
stata nel codice A (= Mutinensis E III 8) dell’in de Caelo e accolta dall’edito-
re, Heiberg, nonché da Diels e Kranz, ma leggono, con i mss. DEF 9, πάντα περ
ὄντα, cosicché la traduzione di queste ultime tre parole del verso suonerebbe:
«pur tutte essendo» o «restando» (Cerri) nel senso di «permanendo»10.
Per parte mia, mantenendo, invece, la lezione di Heiberg accolta in DK11, inter-
preto i vv. 54-55, che costituiscono un’anticipazione del contenuto della secon-
da parte del poema, quella dedicata all’opinione, nel modo seguente: le cose che
appaiono (τὰ δοκοῦντα)12, delle quali – come viene detto nel v. 53 – non vi è una
6
Le altre fonti che riportano parti del fr. 1 di Parmenide, e cioè D.L., IX 22,8-10 (= 1,51-53 DK),
P lu ., Adv. Col., 1114d10-e1 (= 1,52), P rocl ., in Ti. I 345,15-16 (= 1,52-53) e C lem .A l ., Stromata
V, 9, 59, 6,3-4 (= 1,52-53), a differenza di Sesto e Simplicio, non danno informazioni su ciò che
doveva seguire, nel testo di Parmenide, il v. 53.
7
Sesto e Simplicio, in sostanza, fanno chiudere il proemio in modo diverso, e gli editori moder-
ni hanno optato per la proposta di Simplicio. Per la questione della distribuzione di questi versi si
rimanda a P. Aubenque (sous la dir.), Études sur Parménide, t. I: Le Poème de Parménide, texte,
traduction, essai critique, par D. O’Brien en collaboration avec J. Frère pour la traduction française,
Vrin, Paris 1987, pp. 239-252, e in particolare pp. 239-242.
8
B.M. Perry, Simplicius as a Source for and an Interpreter of Parmenides, Univ. of Washington
Seattle, 1983 (dissertazione di dottorato), p. 399; Reale, Parmenide, pp. 34-40, 88 ss. e 194-209;
Cerri, Parmenide, pp. 149 e 185-186.
9
D = Coislinianus 166; E = Marcianus 491; E2 = Marcianus 491 (correxit Bessario); F =
Marcianus 228.
10
Una posizione a parte occupa invece, in questo dibattito, R. Brague, La vraisemblance du
faux (Parménide, fr. I, 31-32), in P. Aubenque (sous la dir.), Études sur Parménide, t. II: Problèmes
d’interprétation, Vrin, Paris 1987, pp. 56-57, il quale congettura che la lezione da seguire è quella
dei mss. DEF, ma che essa non è πάντα περ ὄντα, bensì πάντ’ ἅπερ ὄντα. Sicché πάντα περ ὄντα
costituirebbe per Brague, in sostanza, un errore di trascrizione.
11
Come fa anche Untersteiner, Parmenide, p. 126 (cfr. ibi, p. 127 per la relativa discussione
in nota).
12
Si tenga presente che nel poema di Parmenide i tre termini della famiglia *δεκ (δόξα,
δοκίμως, δοκοῦντα) non sembrano presentare un’accezione negativa. Del resto, come a suo tempo
ha mostrato G. Redard, Du grec δέκομαι, «je reçois», au sanskrit átka-, «manteau». Sens de la
racine *δεκ, in Aa.Vv., Sprachgeschichte und Wortbedeutung. Festschrift A. Debrunner, Francke,
necessità e persuasione in parmenide 1055
credenza vera, era necessario (χρῆν) che fossero secondo la modalità dell’appa-
renza plausibile (δοκίμως εἶναι); la necessità di questo apparire, si legge nel poe-
ma, è dettata dal fatto che tutte queste cose penetrano attraverso tutto (διὰ παντὸς
πάντα περῶντα), o viceversa che il tutto è compenetrato da ciascuna di esse, al
modo in cui, nella letteratura precedente a Parmenide, ad esempio in Omero, Od.
X, 508, la nave passa attraverso Oceano (δι’ Ὠκεανοῖο περήσῃς,), o nel modo
in cui la lancia aguzza (ὀξὺν ἄκοντα, H om ., Il. XXI, 590) penetra la gambiera
di stagno (κνημὶς κασσιτέροιο, XXI, 592) indossata dai guerrieri per proteggersi
le gambe. Sicché, l’esistere dei molti secondo la modalità dell’apparenza, questo
δοκίμως εἶναι, è raffigurato come un ‘fendere, penetrare’ la Verità che non tre-
ma, ovverosia che non vacilla mai (ἀτρεμής, 1,52, si badi bene, vuol dire anche
«immobile», e in 8,4 viene attribuito a τὸ ἐόν)13.
Da queste prime due occorrenze, come si vede, sembra possibile trarre una
doppia necessità: (1) la necessità di conoscere l’ἀλήθεια e allo stesso tempo di
percorrere il dominio delle esperienze per come queste appaiono ai mortali (χρεὼ
δέ σε πάντα πυθέσθαι, 1,51); (2) la necessità secondo la quale (χρῆν, 1,55) le
cose che appaiono (τὰ δοκοῦντα, 1,54) hanno una loro plausibilità (δοκίμως
εἶναι, 1,55). Questi due modi di intendere la necessità non appaiono slegati tra di
loro, bensì vincolati: è necessario che tu tutto apprenda dal momento che neces-
sariamente anche le cose che appaiono hanno rapporto con la verità. L’imperativo
gnoseologico consegue, pertanto, a una necessità ontologica.
In 2,11 incontriamo la terza occorrenza che ci interessa: si tratta del sostantivo
τὸ χρεών. La Dèa introduce qui l’alternativa fra le sole vie di ricerca pensabili,
«l’una che è e che non è possibile che non sia» (ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ
ἔστι μὴ εἶναι, 2,9), «l’altra che non è e che è necessario che non sia» (ἡ δ’ ὡς
οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι, 2,11), «sentiero14 che, però, a te indico
Bern 1954, pp. 351-362, nel contesto linguistico del periodo arcaico e del VI sec. a.C in particolare,
questi tre termini presentano un valore neutro, non negativo (in opposizione, cioè, a ἐπιστήμη, così
come invece avverrà a partire dal V sec.). In altri termini il verbo δοκεῖν, ancora nel VI sec., presen-
ta un significato assai prossimo a quello di φαίνεσθαι.
13
In Semonide, fr. 7,37 West, ἀτρεμής nel senso di «calmo, immobile» viene detto il mare:
ciò apporta credito all’analogia fra quanto espresso qui da Parmenide, cioè che i molti «fendono»
(περῶντα) la ben rotonda Verità, che dunque da essi è penetrata, e l’immagine del passare attraver-
so l’Oceano di Hom., Od. X, 508. In numerosi altri luoghi, non solo omerici, d’altronde, il verbo
περάω si trova associato a contesti relativi a fiumi, mari e all’elemento liquido in generale: cfr. ibi,
174; VI, 272; XXIV, 118; Hes., Op. 738; Hdt. IV, 115. Brague, La vraisemblance, p. 48, intende il
verbo περάω in questo stesso modo.
14
Prima di Parmenide, in Omero ἀτραπός oltre che significare «sentiero», presenta anche
l’accezione di «scorciatoia» (cfr. Hom., Il. XVII, 743 e XVIII, 565). Inoltre, come sottolinea
Untersteiner, p. 130, il sostantivo ἡ ἀτραπός, derivando dal verbo τραπέω, che significa «pre-
mere, pigiare l’uva» (egli rimanda a Hom., Od. VII, 125, ma cfr. anche Il. XVIII, 565, in cui indica
il sentiero attraversato dai portatori quando vendemmiano), implica l’idea della strada battuta.
Esso può significare, dunque, tanto un sentiero adottato in quanto comoda scorciatoia quanto un
sentiero adottato in quanto già percorso dai molti. Le due accezioni, pur essendo diverse, non
sembrano però fra loro incompatibili. Cfr. anche Cerri, Parmenide, pp. 188-189.
1056 ivan adriano licciardi
15
E. Z eller - R. M ondolfo , Gli Eleati, a cura di G. Reale, La Nuova Italia, Firenze 1967, p.
190; J. M ansfeld , Parmenides Fr. B2,1, «Rheinisches Museum», 109 (1966), p. 95.
necessità e persuasione in parmenide 1057
(6,11-12) nulla sapendo (εἰδότες οὐδὲν), per i quali essere e non-essere vengono
giudicati la stessa cosa (ταὐτόν, 6,15) e non la stessa cosa (κοὐ ταὐτόν, 6,16).
Nel fr. 8 il concetto di necessità ricorre quattro volte: troviamo infatti il sostan-
tivo τὸ χρέος al verso 9, τὸ χρεών ai versi 11 e 54, e infine la forma ionica χρεόν
al verso 45.
In 8,10, dopo aver detto che l’essere non è soggetto a generazione (ἀγένητον,
8,3) e dopo aver escluso che si possa pensare o dire che esso possa avere nascita
(γέννα, 8,6) dal non-essere, in quanto non è possibile dire o pensare che esso non sia
(8,8-9), la Dèa a seguire domanda retoricamente: posto, infatti, che l’essere venga
generato dal non-essere, per quale necessità (χρέος, 8,9) avrebbe dovuto originarsi
in un determinato momento piuttosto che in un altro (8,9-10)? Il ragionamento che
sottende a questa domanda è verosimilmente il seguente: affinché si possa parlare di
nascita dell’essere, occorrerebbe rinvenire una necessità (χρέος) del fatto che tale
nascita avvenga in un determinato momento o in un altro (ὕστερον ἢ πρόσθεν).
In altri termini, per quanto la Dèa non lo dica esplicitamente, l’argomento sembra
presupporre che qualsivoglia generazione avviene necessariamente in una porzione
di tempo16. Non essendo rintracciabile una necessità che dia ragione del fatto che
l’essere sia nato in un momento piuttosto che in un altro, la generazione dell’essere
dal non-essere viene allora concettualmente negata. «Sicché – prosegue la Dèa –
è necessario (χρεών) che l’essere sia in assoluto (πάμπαν) o che non sia affatto
(οὐχί)» (8,11). Ammettere una nascita dell’essere implicherebbe che esso non sia
πάμπαν, ossia «del tutto, completamente, assolutamente». Il requisito richiesto
(χρεών, «è necessario», dice infatti la Dèa) comporta dunque una radicalità nella
concettualizzazione dell’essere che non ammette mezze misure, ovvero che l’essere
possa sorgere o estinguersi in un determinato momento. Se è, è sempre.
La Dèa esige dal suo ipotetico deuteragonista, dunque, che costui, per provare
la sua tesi, non adduca una qualche constatazione fattuale desunta dall’esperienza,
ma una precisa necessità. Detto in altri termini, esige che costui affronti l’ago-
ne sul terreno da lei approntato (o, meglio, sul percorso da lei indicato), ossia
quello dei ferrei vincoli del λόγος, quei vincoli (o catene, ἐν δεσμοῖσιν, 8,31)
attraverso i quali Necessità possente (8,30) tiene ben stretto l’ἐόν nel «limite»
(πεῖραρ, 8,31)17, quelle stesse catene dalle quali Δίκη non lo scioglie (χαλάσασα
πέδηισιν, 8,14), vincolandolo al non nascere, al non perire e all’impossibilità che
nasca qualcosa accanto ad esso18. La necessità logica e quella ontologica, come si
vede, si fondono in un unico punto di vista.
A rinsaldare, del resto, la curvatura prettamente ‘logica’ di questo discorso
troviamo i versi 8,15-18, in cui ricorre per la prima volta nel poema il termine
16
Sulla questione del tempo in Parmenide cfr. L. Ruggiu, Parmenide e il tempo, in Id., Parmenide.
Nostos. L’essere e gli enti, pp. 455-512.
17
Cfr. 8,30-31. Su Ἀνάγκη si dirà più avanti.
18
Cfr. 8,11-15.
1058 ivan adriano licciardi
ἀνάγκη. Dice la Dèa: «la decisione (κρίσις), tuttavia, intorno a queste cose19
consiste in questo: / è o non è; è stato però deciso (κέκριται)20, dunque, come
è necessario (ὥσπερ ἀνάγκη), / che l’una [scil. via] si deve lasciare impensa-
bile e anonima (non è, infatti, / una via vera), mentre l’altra è ed è veritiera». La
scelta fra le due vie non costituisce, pertanto, un che di arbitrario, ma è decreta-
ta secondo necessità (ἀνάγκη). L’accostamento di κρίσις ad ἀνάγκη presenta
forse addirittura, potremmo dire, un che di ossimorico. Una scelta compiuta per
decreto di necessità, infatti, non è a tutti gli effetti una scelta. È un decidersi, a
rigore, per ciò che è stato già deciso (κέκριται). Il fatto che, subito dopo che
in 8,15 è stata evocata κρίσις, troviamo nel verso successivo l’uso del perfetto
κέκριται, immediatamente seguito dalla particella avversativa δέ, può costituire
forse un indizio del fatto che questi due versi propongono una lettura del rapporto
fra κρίσις e ἀνάγκη in termini plausibilmente prossimi a quelli appena illustrati.
Ma torniamo a 8,30, in cui si legge l’espressione κρατερή Ἀνάγκη, «Neces-
sità possente»21. Parmenide sta argomentando, nel contesto di questo verso, sul
fatto che l’essere «non è incompiuto» (οὐκ ἀτελεύτητον, 8,32). Già in 8,4-
6, d’altra parte, la Dèa aveva negato all’essere il predicato dell’incompiutezza,
anche se – a onor del vero – su quest’ultimo dato c’è qualche oscillazione tra le
interpretazioni degli studiosi22. In 8,30-33, si diceva, leggiamo che «Necessità
possente, infatti, / lo tiene nei legami del limite, lo racchiude tutto intorno, /
poiché è stabilito (θέμις) che l’essere non sia senza compimento; / non è, infatti,
manchevole di nulla; non essendo, invece, mancherebbe di tutto»23. In 8,26-30,
la Dèa aveva appena dimostrato che l’essere è «immobile» (ἀκίνητον) e che
«resta ivi saldo» (ἔμπεδον αὖθι μένει)24. Ciò che segue, ovvero 8,30-33, all’in-
terno del quale troviamo la ricorrenza di Ἀνάγκη, contiene, plausibilmente,
l’argomentazione dialettica che dimostra, per via negativa, ciò che è stato appe-
na detto. L’essere è immobile, infatti, perché (οὕνεκεν) non è «incompiuto»
(ἀτελεύτητον), perché «non è manchevole (ἐπιδευές) ‹di nulla›»25. Se fosse
manchevole o bisognoso di qualcosa, infatti, entrerebbe nella spirale del cam-
19
Scil. le cose appena dette, ovvero che l’essere è ingenerato e imperituro.
20
L’impiego, in questi due versi consecutivi, rispettivamente, di κρίσις e di κρίνω riprende
il celebre fr. 7, in cui la Dèa invita il κοῦρος a tralasciare la via dell’abitudine sorta da numerose
esperienze (7,3), e i sensi in generale (cfr. 7,4-5), per giudicare con il λόγος (κρῖναι δὲ λόγωι)
l’argomentazione da lei esposta.
21
Per l’accostamento dell’aggettivo κρατερός ad ἀνάγκη cfr. già Hom., Il. VI, 458; Od. X, 273
(ripreso verbatim in Inni Omerici, in Venerem, 130); Hes., Th. 517; Talete apud Diogene Laerzio,
11 A 1,129-130 DK, il detto: «Necessità è la cosa più forte; infatti domina (κρατεῖ) tutto»; Euripide,
Hel. 514, in cui si legge che «nulla è più forte (ἰσχύειν πλέον) della terribile Necessità».
22
Per lo status quaestionis cfr. C erri , Parmenide, pp. 222-223.
23
Mantengo con Cerri, ibi, pp. 233-235, il μή di 8,33 espunto in DK.
24
Per questa espressione formulare cfr. Hom., Il. XIII, 37, ripreso in modo identico in Od. VIII,
275 (nel v. 274 troviamo δεσμούς, che richiama ἐν δεσμοῖσιν di 8,31).
25
Già Simpl., in Phys. 40,2 interpreta in questo modo la scansione argomentativa di questi versi.
necessità e persuasione in parmenide 1059
26
Per una ricostruzione in parte simile a quella qui presentata cfr. ibi, 29,8-12 (dove però Parme-
nide non viene esplicitamente nominato) e 30,11-13. Cfr. anche Cerri, Parmenide, p. 232 e Unter-
steiner, Parmenide, p. 149.
27
Qui non si intende la lex positiva, ossia la prescrizione giuridica nel senso tecnico dell’acce-
zione. Θέμις, in Esiodo, è figlia di Urano e Gea (per conseguenza, occupa nella genealogia divina
un ruolo quasi principiale), fu sposa di Zeus dal quale ebbe come figlia, tra le altre, Δίκη (Th. 901,
Pindaro, Ol. XIII, 6), detentrice delle chiavi della porta del giorno e della notte (che nel poema
incontriamo quattro volte, in 1,15; 1,37; 1,51; 8,14) e le Moire (Th. 901), cioè le dèe del destino (e
noi incontriamo Μοῖρα concettualizzata in 1,49 e personificata in 8,37). La connessione tra Μοῖρα
e la sfera del diritto compare oltre che in Omero (Il. IX, 318; Od. XI, 534) e Esiodo (Th. 906 ss.)
anche in Eschilo, Eum. 105. Nei poemi omerici Θέμις rappresenta l’ordine delle cose stabilito dalla
legge, dal costume e dall’equità (e in quest’ultima accezione, credo, venga evocata qui da Parmeni-
de), presiede le assemblee degli uomini e, su comando di Zeus, anche quelle degli Dèi. Θέμις e le
divinità che da lei procedono, pertanto, sono nel poema di Parmenide ben presenti. In Plat., Resp. X,
617c1-2 le Moire vengono definite sorelle di Ἀνάγκη. A partire da Fränkel, Parmenidesstudien, pp.
162-173, è parere ormai diffuso, presso gli studiosi, che Δίκη coincida con Ἀνάγκη e con Μοῖρα.
28
Nell’inno orfico al Δαίμων (inno 73, dove ci si rivolge al dèmone al maschile) – di età
posteriore a Parmenide, risalente forse alla fine del II o all’inizio del III sec. d.C. – vi sono alcune
notevoli tangenze con la Δαίμων del poema di Parmenide: 1) esso è «generatore di tutte le cose»
1060 ivan adriano licciardi
(παγγενέτης, v. 2), laddove Simpl., in Phys. 34,15-16, alludendo a B 12, in cui Parmenide parla della
divinità che tutto governa (δαίμων ἣ πάντα κυβερνᾶι, 12,10), scrive che essa è «causa efficiente»
(ποιητικὸν αἴτιον, in Phys. 34,13-14, esattamente come in 31,10-11 e in 39,13 in cui, immediata-
mente prima di citare il fr. 12, Simplicio qualifica la Δαίμων come τὸ ποιητικόν) e, soprattutto,
«causa di ogni generazione» (πάσης γενέσεως αἰτίαν, in Phys. 34,14-15); 2) il Δαίμων dell’in-
no presenta una doppia funzione, retributiva («dispensatore di ricchezza», πλουτοδότην, 73,4) e
punitiva allo stesso tempo («e che al contrario raggela la vita dei mortali dalle molte pene», ἔμπαλι
δὲ τρύχοντα βίον θνητῶν πολυμόχθων, 73,4), in modo non troppo dissimile dalla Δίκη parme-
nidea, che in 1,37 viene definita come «colei che punisce severamente» (πολύποινος), e che è una
delle figurazioni della Δαίμων all’interno del poema (ma cfr. anche Anaximand., B 1,4-5 DK); 3) il
Δαίμων dell’inno orfico detiene le chiavi (κληῖδες, 73,6) del dolore e della gioia, esttamente come
Δίκη, in B 1,37, detiene le chiavi (κληῖδας) girevoli della porta del Giorno e della Notte – entrambi
detengono, quindi, le chiavi di un’opposizione. Di queste e probabilmente di altre affinità è rimasta
una certa traccia nella tradizione successiva, se è vero che Menandro retore, nella sua Διαίρεσις
τῶν ἐπιδεικτικῶν, 333,12-15 (nella sezione intitolata ΠΕΡΙ ΤΩΝ ΥΜΝΩΝ ΤΩΝ ΕΙΣ ΤΟΥΣ
ΘΕΟΥΣ), nel III sec. d.C., nel classificare gli inni agli dèi in diversi gruppi, poneva i poemi di Par-
menide e Empedocle accanto ad alcuni tra gli inni orfici all’interno del generale sottogruppo degli
«inni fisici», aventi come oggetto la spiegazione della natura di Apollo o di Zeus [cfr. G. Ricciardelli
(a cura di), Inni Orfici. Arnoldo Mondadori Editore, Milano 20123 (1a ediz. Milano 2000), p. XLVI].
29
Untersteiner, Parmenide, p. LXVII.
30
Untersteiner fa qui riferimento alla Grande Dèa, Potnia mediterranea, preellenica (cfr. P.M.
Schuhl, Essai sur la formation de la pensée grecque, PUF, Paris 1949 (1a ed. Alcan, Paris 1934),
pp. 287 ss., secondo il quale in Parmenide la Δαίμων sarebbe espressione della Potnia, e Ruggiu,
Commentario filosofico, pp. 165-168).
31
Untersteiner, Parmenide, pp. LXVII-LXVIII.
necessità e persuasione in parmenide 1061
32
Historiae I 82,19; V 49,41.
33
G. Calogero, Parmenide e la genesi della logica classica, «Annali della Scuola Normale
Superiore di Pisa», S. II, 5 (1936), p. 169.
34
Id., Studi sull’eleatismo, La Nuova Italia, Firenze 19772 (1a ed. Tipografia del Senato, Roma
1932), p. 27. Ha accettato questa interpretazione, tra gli altri, R. Mondolfo, L’infinito nel pensiero
dell’antichità classica, La Nuova Italia, Firenze 1956, pp. 364-366; contra, invece, cfr. G. Casertano,
Parmenide. Il metodo, la scienza, l’esperienza, Guida, Napoli 1978, pp. 195 ss., il quale tuttavia, in due
articoli precedenti, Introduzione ad una nuova lettura di Parmenide, «Annali della Facoltà di Lettere
e Filosofia dell’Università di Napoli», n.s. 1 (1970-1971), pp. 259-265, e Una nuova lettura di Parme-
nide, «Atti dell’Accademia di Scienze Morali e Politiche della Società Nazionale di Scienze, Lettere e
Arti di Napoli» 85 (1974), pp. 379-421, aveva inizialmente accettato la tesi di Calogero.
35
Cfr., per esempio, J. Zafiropulo, L’École éléate. Parménide, Zénon, Mélissos, Les Belles Let-
tres, Paris 1950, p. 113 e n. 172. Si vedano anche le osservazioni di Cerri, Parmenide, pp. 238 ss.
36
Untersteiner, Parmenide, pp. CLXII-CLXIII.
37
Sul rapporto fra queste considerazioni e una possibile interpretazione ‘politica’ dell’ontologia
qui prospettata cfr. Ruggiu, Commentario filosofico, pp. 310 e 373-380.
1062 ivan adriano licciardi
una negazione (si legge, infatti, οὐ χρεών). Non è un caso. Ci troviamo a ridosso
dei versi 50-52, versi che già a partire dalle fonti antiche38 vengono pressoché
unanimemente considerati un intermezzo metodologico che funge da spartiacque
fra la prima e la seconda parte del poema, versi nei quali la Dea afferma: «qui
pongo termine al discorso che si accompagna a certezza e al pensiero / intorno
alla verità; da questo punto le opinioni mortali / devi apprendere, ascoltando l’or-
dine seducente delle mie parole». Pare di capire, a giudizio pressoché unanime
della critica, che la Dea pone qui una chiara cesura fra due parti aventi come
oggetto insegnamenti su cose diverse, ossia il «pensiero intorno a verità» (νόημα
ἀμφὶς ἀληθείης) da un lato, e le «opinioni mortali» (δόξαι βρότειαι) dall’altro
lato. Già nel fr. 1 la Dèa aveva fatto riferimento alle «opinioni dei mortali»; sta-
volta, però, «mortali», cioè caduche, fallaci, umane nel senso deteriore del termi-
ne, cioè precarie, vengono dette le opinioni stesse.
I vv. 8,53-61 sono molto importanti, si diceva, perché in essi vengono posti i
principi che reggono il mondo della δόξα e, in pari tempo, viene enunciato «l’er-
rore dei mortali». Costoro, dopo aver imposto di nominare due forme (μορφαί),
le giudicarono contrarie quanto al loro aspetto (lett. «corpo, struttura», δέμας),
e posero contrassegni (σήματα, da notare la simmetria con 8,2, in cui vengono
introdotti i σήματα dell’essere) in modo separato tra di loro (8,55-56)39. Queste
due μορφαί sono, come è noto, l’«etereo fuoco della fiamma» (8,56) e «notte
oscura» (8,59). Focalizziamo l’incidentale che è presente in 8,54, in cui la Dèa,
dopo aver detto che i mortali hanno imposto di nominare due forme e che le giu-
dicarono contrarie quanto al loro aspetto, aggiunge: «nessuna delle quali ‹era›
necessario (τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν) ‹nominare›, in questo ‹i mortali› hanno
errato». L’errore dei mortali consisterebbe, dunque, nell’aver imposto di nomi-
nare due forme, cosa che però non rispondeva a necessità perché, come ritiene
per esempio anche Gadamer, i mortali non hanno colto che dietro l’apparente
contrarietà delle due μορφαί è sottesa l’unità dell’essere40. Detto diversamente,
accogliendo le parole di Simplicio (ma non per questo accogliendo anche la sua
interpretazione neoplatonica), potremmo dire che Parmenide comprese «per pri-
mo che i due ‹contrari› sono l’essere-uno»41.
38
Cfr., per esempio, Plu., Adv. Col. 1114e10-f1; Phlp., in Phys. 55,28-30 e 110,1-2; Simpl., in
Cael. 558,2-3; in Phys. 30,14-16.
39
Questi contrassegni posti «separatamente» (χωρίς) dai mortali sono, rispettivamente: 1) rela-
tivamente al fuoco, l’esser benigno, molto leggero, a sé medesimo da ogni parte identico e rispetto
all’altro, invece, non identico; 2) relativamente alla notte, l’essere anch’essa per se stessa contraria,
di struttura densa e pesante (cfr. 8,55-59).
40
H.G. Gadamer, Parmenides oder das Diesseits des Seins, «La Parola del Passato», 43 (1988),
pp. 152 ss. e Ruggiu, Commentario filosofico, p. 315.
41
πρότερον ἓν τὸ ὂν δύ’ ἔγνω, Simpl., in Phys. 31,7-8. Su questa scia interpretativa si confronti
anche Cerri, Parmenide, p. 247, in cui, peraltro, viene proposto un fecondo parallelo con Eraclito
(22 B 57 DK).
necessità e persuasione in parmenide 1063
Un ulteriore indizio, peraltro, del fatto che questo ὀνομάζειν due μορφαί
(8,53) costituisca un che di arbitrario viene spiegato efficacemente da Pasquinelli,
il quale osserva che Parmenide usa una serie di verba dicendi: λέγειν, φάσθαι,
φατίζειν, φράζειν e, appunto, ὀνομάζειν. Ora, solamente i primi quattro verbi
vengono utilizzati nella semplice accezione di dire, o di dire cose vere; ὀνομάζειν,
al contrario, qui come probabilmente anche in 9,4, è impiegato nel senso di dare
un nome che risulta arbitrario, non corrispondente a verità42. In 8,53, del resto, si
legge che i mortali «imposero (κατέθεντο) di nominare (ὀνομάζειν) due forme».
In quest’espressione sembra essere presente, in effetti, un che di costrittivo, una
forza, un arbitrio. Non era necessario, dunque, imporre come nome due forme
(μορφαί) e assumere in modo separato (χωρίς) i loro contrassegni (σήματα).
Il che, con tutta evidenza, fa da contraltare al lessico e alla concettualità della
parte del poema avente per oggetto la ὁδός della ἀλήθεια nella quale, come si è
visto, la necessità, logica e ontologica, domina ferrea e inflessibile. Per la prima
volta nel poema, dunque, facciamo esperienza di un’azione non necessaria, che si
discosta apertamente dalla necessità e dalla quale scaturisce un errore; è un’azione
che, non a caso, incontriamo alla fine del fr. 8, allorquando sono appena entrati
in scena i mortali e le loro opinioni. Parmenide, possiamo allora dire, ha pensato
l’essere sia nella sua unità e auto-identità secondo i necessari vincoli imposti dal
λόγος, ciè in quanto τὸ ἐόν, sia nella molteplicità articolata degli enti che lo abi-
tano e delle plausibili, verosimili e accettabili opinioni che i mortali possono avere
su di esso, cioè in quanto κόσμος, senza che però questo implichi che le forme
(μορφαί) e i contrassegni (σήματα) di questo κόσμος plausibile debbano essere
pensati per sé (κατ’ αὐτὸ, cfr. 8,58), separatamente (χωρίς), frantumando dunque
l’unità dell’ἐόν, essendone piuttosto sue «rifrazioni»43. La ‘cesura’ fra la prima e
la seconda parte del poema, oltre che essere chiaramente presente sotto il profilo
metodologico e contenutistico, sembra confermata, dunque, anche sotto il ristret-
tissimo profilo del ‘lessico della necessità’.
Passiamo, adesso, a 10,14, in cui incontriamo l’ultima occorenza di Ἀνάγκη.
Il fr. 9, come è noto, ha per oggetto luce e notte (φάος καὶ νὺξ), ed è in continuità
con la fine del fr. 8. Il fr. 10, invece, era probabilmente l’incipit di una corposa parte
astronomica del poema, purtroppo andata perduta, in cui la Dèa annuncia di voler
esporre la natura dell’etere (10,9) e tutti i contrassegni (σήματα)44 che sono nell’ete-
re (10,9-10); le «opere» (ἔργα, 10,12) «della pura luce splendente del sole» (10,10-
11) e da dove abbiano tratto origine le «opere volubili della luna dall’occhio rotondo
42
Cfr. A. Pasquinelli, I Presocratici, Einaudi, Torino 1958, pp. 404-405; cfr. anche Zeller -
Mondolfo, Gli Eleati, pp. 249-250.
43
L’espressione è di Untersteiner, Parmenide, p. LXVIII.
44
In questo contesto σῆμα (lett.: «contrassegno») sta, plausibilmente per «astro, stella»
(ἄστρον, termine impiegato da Parmenide in 1,26; 10,15; 11,5; 21,3). Hom., Il. XXII, 30, qualifica
come «segno cattivo» (κακὸν δέ τε σῆμα) il «cane di Orione» (κύν’ Ὠρίωνος, XXII, 29), cioè la
stella Sirio, chiamata ἀστήρ in XXII, 26. Cfr. Cerri, Parmenide, pp. 259-260.
1064 ivan adriano licciardi
e la ‹sua› natura» (10,12-13). La Dèa annuncia di voler esporre, poi, anche «donde
sia nato il cielo che tiene tutto intorno» (οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν [μὲν γὰρ]
ἔφυ, 10,13-14)45, e «come Necessità, conducendolo, lo costrinse a far da limite agli
astri (πείρατ’ […] ἄστρων)» (10,14-15). Il cielo, come si vede, svolge da un lato
una funzione onniavvolgente (il cielo lega e vincola gli elementi celesti fra di loro;
ἐπιδέω vuol dire, tra l’altro, anche «fasciare»)46, e dall’altro lato, limitante (il cielo
determina i confini oltre i quali gli astri non possono spingersi nel loro «vagare»,
come per esempio viene detto della luna in 10,12).
Ora, come si è visto in 8,13-15, Δίκη tiene saldamente l’essere entro catene
dalle quali mai esso viene sciolto (χαλάσασα πέδηισιν, 8,14), vincolandolo al
non nascere, al non perire e all’impossibilità che nasca qualcosa accanto ad esso.
A seguire, in 8,30-33, si è visto che la possente Ἀνάγκη mantiene l’essere nei
legami del limite, racchiudendolo tutto intorno, in modo tale che l’essere non sia
senza compimento. Δίκη e Ἀνάγκη costituiscono pertanto, in questi versi del fr.
8, figurazioni di una stessa forza, un concetto o un’entità astratta che in modo
assolutamente vincolante costringe entro certi limiti, ontologici e logici. Alla
luce di quanto si legge nel fr. 10, segue allora che οὐρανός costituisce – sotto il
profilo, potremmo dire, della sua intrinseca δύναμις – il corrispettivo, sul piano
cosmologico, di ciò che Ἀνάγκη è sul piano logico e ontologico. Più precisamen-
te: è Ἀνάγκη a costringere οὐρανός a tenere fermi i confini degli astri e quindi,
a rigore, ne segue che l’aspetto vincolante e contenente sul piano cosmologico
discenderebbe, sotto il profilo causale, dall’aspetto vincolante e contenente che
Ἀνάγκη, nel fr. 8, esibisce sul piano ontologico e logico47. Ἀνάγκη, pertanto,
è presente tanto nella via della ἀλήθεια quanto, con funzione diversa, nella via
45
L’espressione οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα riprende H om ., Od. I, 54, in cui troviamo οὐρανὸν
ἀμφὶς ἔχουσι: Odisseo si trova a Ogigia, dove dimora la ninfa Calipso, figlia di Atlante, il quale
«tiene le grandi colonne che tengono la terra e il cielo divisi (οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχουσι)». Atlan-
te, in questo contesto, funge da pilastro che regge delle immense colonne aventi base sulla terra.
Questa idea di Atlante quale pilastro è presente anche in Eschilo, Prom. 348. Anche in I d ., Th.
517-520, Atlante, «ai confini della terra di fronte alle melodiose Esperidi [scil. nel lontano occiden-
te, o nell’oltretomba, 518]», «per una possente necessità» (κρατερῆς ὑπ› ἀνάγκης, v. 517, che si
trova ripresa in Parmenide, 8,30), «sorregge l’ampio cielo» (οὐρανὸν εὐρὺν ἔχει, v. 517). Sicché
Atlante, sorreggendo il cielo, lo terrebbe separato dalla terra. In Omero, ἀμφίς significa dunque «da
entrambi i lati, dall’una e dall’altra parte». In Parmenide, invece, è οὐρανός a prendere il posto
di Atlante, e l’espressione ἀμφὶς ἔχοντα significa «che tiene intorno», in senso fisico, quindi nel
senso di «ciò che circonda» (περιέχον, così interpretano, per esempio, Untersteiner, Parmenide, p.
CXCIII e C erri , Parmenide, p. 261). E il fatto che tanto Atlante quanto οὐρανός svolgano il loro
ἀμφὶς ἔχειν sotto una «possente necessità», congiuntamente a un’altra circostanza, ossia che Atlan-
te esercita questa opera «ai confini della terra» (πείρασιν ἐν γαίης), mentre οὐρανός, in quanto
corona sferica, fa da limite (πεῖρας) agli astri e a tutto ciò che sta al di sotto di essi, offre ulteriori
addentellati per un confronto testuale fra Esiodo, Th. 517-520, e questi versi di Parmenide. Su questa
concezione di Atlante che sorregge οὐρανός cfr. anche A rist ., Metaph. V 23,19-21.
46
Cfr. Hom., Od. XXI, 391. Come si desume dal fr. 11, il cielo (all’interno del quale si collocano
gli astri e i loro rispettivi movimenti), assieme all’Olimpo, costituisce la parte più esterna del cosmo.
47
Per una lettura non dissimile da quella qui esposta cfr. Cerri, Parmenide, p. 262.
necessità e persuasione in parmenide 1065
della δόξα. Sulle conseguenze ermeneutiche che questo dato comporta, in ordine
all’interpretazione complessiva circa il rapporto fra le due parti del poema, la via
della ἀλήθεια e la via della δόξα, fra logica/ontologia e ‘fisica’, non è dato qui di
discutere in modo approfondito. Mi sembra, tuttavia, che quest’ultimo dato possa
costituire un significativo indizio del fatto che la seconda parte del poema non
contiene affatto un’esposizione sic et simpliciter degli errori dei mortali, bensì la
trasposizione della verità nell’ambito dei fenomeni – o, detto in altri termini, l’e-
sposizione dell’ἀλήθεια considerata, per così dire, nella sua mondità.
Il dato complessivo che emerge dall’analisi dei versi in cui compare la necessi-
tà sembra, in definitiva, il seguente: il rivelarsi di Ἀληθείη sotto forma di Ἀνάγκη
corrisponde al fatto che la verità possiede, in se stessa, un valore di costrizione e di
forza che vincola e produce un legame necessario tra le cose. È una forza di costri-
zione che non si identifica con il cieco arbitrio, ma al contrario con la giustizia
(Δίκη). Ἀληθείη è cogente in quanto è razionale. Sotto questo profilo Parmenide,
pur restando un pensatore arcaico, costituisce tuttavia un importante punto di svol-
ta rispetto ad anteriori forme di concettualizzazione della necessità, in cui questa
compare scissa, se non addirittura contrapposta, all’ordine razionale e morale (si
pensi al già citato passo dell’Elena di Euripide, v. 14, in cui si legge che «nulla è
più forte della terribile Necessità») e, più in generale, all’ordine cosmico (paradig-
matico, per esempio, il v. 12 delle Argonautiche Orfiche, che invero è uno scritto
del V sec. d.C., ma che riflette e rielabora una concettualità arcaica, in cui si legge
che «dapprima ‹vi era› l’implacabile necessità dell’antico Caos», ἀρχαίου μὲν
πρῶτα χάους ἀμέγαρτον ἀνάγκην)48.
La Necessità è cogente, pertanto, in quanto è razionale ma, come vedremo a
seguire, anche in quanto è anche persuasiva.
48
Per alcune osservazioni su Ἀνάγκη in Parmenide si rimanda, ancora, a Ruggiu, Commentario
filosofico, p. 186. Per una rapida ricognizione di alcuni aspetti (e significative ricorrenze testuali)
relativi ad Ἀνάγκη nel periodo preparmenideo si veda Ricciardelli, Inni Orfici, p. 244.
49
In Omero non si parla di «Eliadi» in generale, ma vengono menzionate due di loro,
Φαέθουσα e Λαμπετίη, « Lucente» e « Radiante», le quali furono poste da loro padre Ἥλιος
a custodia delle sue mandrie in Sicilia (cfr. Hom., Od. XII, 127-136). Esiodo, fr. 311 Merkel-
bach-West, narra che sette Eliadi, contro il volere del padre e a sua insaputa, consegnarono il
carro del Sole a Fetonte, loro fratello. Costui, inesperto nel condurre il carro, arrecò molti danni
e provocò l’ira di Zeus, che lo fece cadere fulminato alle foci del fiume Eridano. Qui le Eliadi lo
piansero, e per punizione furono trasformate in pioppi e le loro lacrime divennero ambra. Eschilo,
coevo di Parmenide, fece di questo mito l’oggetto di una tragedia, intitolata appunto Le Eliadi,
purtroppo perduta (cfr. frr. 68-73 Nauck). Non è necessario, come giustamente osserva Cerri,
Parmenide, pp. 172-173, supporre che Parmenide derivi meccanicamente dalle fonti suesposte i
1066 ivan adriano licciardi
termini della discussione del suo proemio, dato che i miti venivano diffusi da una cultura ancora
prettamente orale, (anche se non è da escludersi una conoscenza diretta). Quel che appare chiaro
è, in Parmenide, un evidente motivo di riscatto delle Eliadi, perché nel mito esse sono associate
all’inganno nei confronti di Ἥλιος, mentre in Parmenide l’impiego delle «dolci parole» (che di
per sé, in linea teorica, non è scisso da una certa funzione ingannatrice) è finalizzato a persuadere
Δίκη ad aprire le porte del Giorno e della Notte, cioè a dar via alla rivelazione.
50
δώματα Νυκτός sarebbe espressione volta a indicare l’abisso dell’Ade. Cfr. H es ., Th. 744, in
cui il poeta di Ascra, riferendosi all’Ade, scrive «di notte oscura la casa terribile» (Νυκτὸς ἐρεμνῆς
οἰκία δεινὰ). Cfr. C erri , Parmenide, p. 173.
51
Cfr. Ruggiu, Commentario filosofico, p. 175, nota 87 e Cerri, Parmenide, p. 178.
52
Cfr. 8,13-14 in cui, nella fattispecie, l’immagine delle catene sta a significare che Δίκη non
concede all’ἐόν né il nascere né il perire.
53
Cfr., ad esempio, in ambito filosofico, Anaximand., B 1,4-5 DK. Su Δίκη nel proemio del poe-
ma parmenideo cfr. Untersteiner, Parmenide, pp. LXXIV-LXXVII.
necessità e persuasione in parmenide 1067
allenti i suoi vincoli. Sembra più plausibile, in realtà, ricondurre questa persua-
sione di Δίκη all’eccezionalità dell’evento che Parmenide sta rievocando, ossia
l’esperienza di una rivelazione straordinaria. La rivelazione della Dèa, infatti,
è un evento di portata eccezionale, riservato a un uomo eccezionale (εἰδότα
φῶτα, 1,26), forse un iniziato54. Del resto, l’analogia formale fra questi versi
del fr. 1 e l’Inno a Demetra poco sopra richiamata riconduce, perlomeno sul pia-
no del simbolismo, a una κατάβασις εἰς Ἅιδου. La discesa nell’Ade, infatti, è
un evento che non è ordinariamente concesso a chi non sia ancora morto. Infatti
vengono ricordate come straordinarie le discese agli inferi di Odisseo nel canto
XI dell’Odissea, di Eracle, di Orfeo e, appunto, di Ermes. Che si tratti di dèi o
di eroi, il minimo comune denominatore è costituito dal fatto che non si tratta di
uomini ordinari, proprio come non-ordinaria è la qualifica che Parmenide attri-
buisce a se stesso nel proemio, cioè un εἰδώς φῶτα. Parmenide, in definitiva,
non sarebbe come gli altri mortali; egli è un sapiente, mentre i mortali posseg-
gono solo opinioni55, e nulla sanno (βροτοὶ εἰδότες οὐδὲν, 6,11)56. Alla luce di
questa chiave interpretativa57, non sembra un caso che, in 1,49, la Dèa avverta
l’esigenza di precisare che Parmenide non è stato condotto su questa ὁδός da
una «sorte maligna» (μοῖρα κακὴ), bensì proprio da θέμις e δίκη (1,51), quella
stessa Δίκη che come si è visto, in 1,37-39, le Eliadi avevano persuaso a togliere
la sbarra dal chiavistello delle porte del Giorno e della Notte. Nel lessico ome-
rico e arcaico in generale, che è anche il lessico di riferimento di Parmenide,
l’espressione μοῖρα κακὴ si trova infatti associata alla discesa agli inferi (cfr.
Hom., Od. XI, 618) e alla morte (cfr. Hom., Il. XIII, 602)58.
C’è da fare, a mio avviso, un’osservazione sul ruolo che Δίκη assume, rispet-
tivamente, nei versi 37-38 e 51 del fr. 1, presentandosi qui una apparente incon-
gruenza consistente in questo: nel primo caso Δίκη viene persuasa con soavi
parole dalle Eliadi ad accogliere Parmenide, mentre nel secondo caso viene detto
che è stata proprio Δίκη a condurre Parmenide sul suo sentiero. Non è presente
però, secondo me, una incongruenza logica nel testo di Parmenide, ma piuttosto
54
W. Burkert, Das Proöimium des Parmenides und die Katabasis des Pythagoras, «Phronesis»,
14 (1969), p. 5, ha sostenuto che l’espressione εἰδώς φῶτα (lett.: «colui che ha visto la luce», quindi
il sapiente) è espressione tecnica della terminologia misterica e designa, appunto, l’iniziato. Cfr.
anche Cerri, Parmenide, p. 170.
55
Cfr. 1,53; 8,51; 8,61.
56
Questa ὁδός, viene precisato nel verso successivo, è lontana dal cammino usualmente battuto
dagli uomini.
57
Cfr. Ruggiu, Commentario filosofico, pp. 169-171 e Cerri, Parmenide, p. 183.
58
In 8,37-38 una Moira vincola l’essere ad essere un intero immobile. L’espressione «non una
sorte maligna» significa allora una sorte buona, una buona Moira, il che va nella direzione della tesi
prima ricordata di Fränkel, secondo cui Δίκη, Ἀνάγκη e Μοῖρα sono modi differenti di designare
un’unica divinità o funzione concettuale. Se vogliamo individuare nel fr. 1 il contraltare simmetrico
a questa μοῖρα κακή, troviamo, in 1,45 (quattro linee prima), che ad accogliere Parmenide vi è una
dèa con animo ben disposto (θεὰ πρόφρων).
1068 ivan adriano licciardi
una circolarità, che vede Δίκη all’inizio del processo, come complemento ogget-
to (cfr. τήν, 1,38) da persuadere affinché possa attuarsi il processo rivelativo e,
simultaneamente, come soggetto che ha condotto Parmenide lungo la ὁδός in cui
riceverà la rivelazione. In mezzo, infine, troviamo un atto di persuasione che non
implica una violazione normativa, ma che conferma, nella sua eccezionalità, pro-
prio le prerogative di θέμις e δίκη, dal momento che la portata eccezionale dell’e-
vento è giustificata, come si è visto, dalla eccezionalità del sapiente che si appresta
a ricevere la rivelazione59. Persuasione e necessità si pongono qui, dunque, non
in antagonismo (come avviene, per esempio, nel processo della costituzione del
cosmo narrato da Platone nel Timeo in cui il Demiurgo persuade la riottosa χώρα,
regno della necessità, ad assumere una forma e un ordinamento razionale somi-
gliante, per quanto possibile, alle idee), bensì come solidali e compartecipi a uno
stesso evento. Vediamo se l’esame delle due rimanenti occorrenze, contenute
entrambe all’interno del fr. 2, conferma questa ipotesi.
Nel fr. 2, si diceva, la Dèa introduce il bivio fra le due sole vie di ricerca pen-
sabili, «l’una che è e che non è possibile non sia» (2,9), «l’altra che non è e che
è necessario non sia» (2,11), in grazia del fatto che l’essere, assunto in quanto
tale, cioè in quanto autoidentico, non può trapassare nel suo contrario, cioè nel
non-essere. Questa seconda opzione costituisce un sentiero «del tutto inconosci-
bile» (παναπευθέα, 2,12).
Ora, immediatamente dopo aver introdotto la prima via di ricerca, cioè la via
dell’essere, la Dèa dice che questa via è «un sentiero di Persuasione» (Πειθοῦς
ἐστι κέλευθος, 2,10)60, «perché si accompagna a Verità» (Ἀληθείηι γὰρ ὀπηδεῖ,
2,10). In 8,15-18, come si è detto, la Dèa – in alcuni versi che concettualmente
sono accostabili al fr. 2 – dirà che «la decisione (κρίσις), tuttavia, intorno a queste
cose61 consiste in questo: / è o non è; è stato però deciso (κέκριται), dunque, come
è necessario (ἀνάγκη), / che l’una si deve lasciare impensabile e anonima (non è,
infatti, / una via vera, (οὐ γὰρ ἀληθής / ἔστιν ὁδός), mentre l’altra è ed è veritie-
ra (ἐτήτυμον)». La ὁδός dell’essere, dunque, è «veritiera» (ἐτήτυμον), mentre
quella del non-essere non è «vera» (ἀληθής). Ma che significa asserire, come fa
la Dèa in questo fr. 2, che a «Verità» (2,10), o alla «Via della Verità» (8,17-18), «si
accompagna» (ὀπηδεῖ) un sentiero di Persuasione?
Un rapido esame di alcune occorrenze del verbo ὀπαδέω nel periodo prece-
dente a Parmenide, in particolare in Omero ed Esiodo, può forse darci qualche
59
Anche a tal proposito, a ben guardare, è presente una circolarità: Parmenide può accedere
oltre la soglia della Porta del Giorno e della Notte in quanto sapiente e, simultaneamente, da questo
accesso riceverà un contenuto di sapienza che la Dèa gli disvelerà nel corso del poema. Il «sapere»,
dunque, sta tanto all’inizio quanto alla fine del processo.
60
Parmenide impiega il sostantivo κέλευθος, oltre che qui, anche in 1,34 e in 6,16.
61
Scil. le cose dette poco prima, e cioè che: 1) l’essere non viene generato né dal non-essere né
dall’essere e 2) che Δίκη non ha concesso all’essere né il nascere né il perire, tenendolo saldamente
nelle catene dalle quali mai esso viene sciolto (cfr. 8,13-15).
necessità e persuasione in parmenide 1069
62
Per alcune importanti osservazioni sulla figura del κῆρυξ si veda G. Cerri (a cura di), Omero.
Iliade, BUR, Milano 1999, vol. I, pp. 142-143, in cui viene spiegato che in Omero l’araldo ha fun-
zioni tutt’altro che secondarie, essendo concepito come un ausiliario del potere del re e quasi come
un intermediario tra il re e il popolo.
63
Hom., Il. II, 184.
64
Ibi, V, 216.
65
Hom., Od. VIII, 237. Per le accezioni del verbo ὀπαδέω in Omero cfr. R.J. Cunliffe, A Lexicon
of the Homeric Dialect, Blackie, London 1924, s.v.
66
Cfr. Gorgia (82 B 11,65 DK; 11,74; 11,79; 11,92; 11a,209; 11a,216).
1070 ivan adriano licciardi
67
Cfr. E. Asmis, Psychagogia in Plato’s Phaedrus, «Illinois Classical Studies», 11 (1986), pp.
153-172.
68
O. Gigon, Der Ursprung der griechischen Philosophie von Hesiod bis Parmenides, Benno
Schwabe & Co., Basel 1945, p. 252. Di questo parere è anche Untersteiner, Parmenide, pp. 128-129.
69
Il termine παναπειθέα è un hapax legomenon, e fu accettato come lezione corretta, nel XIX
secolo, da Riaux e Hase. Incerto fra le due lezioni si dichiarò Calogero, Studi sull’eleatismo, p.
17, nota 1, mentre P. Albertelli, Gli Eleati. Testimonianze e frammenti, Laterza, Bari 1939, p. 131,
nota 4 (e, come detto, a partire da lui pressoché tutti gli editori di Parmenide), si è orientato per
παναπευθέα. Cfr. Untersteiner, Parmenide, pp. 129-130.
70
Parmenide impiega a distanza di due linee due termini differenti per designare ciò che noi
intendiamo per «via, sentiero»: la via del non-essere viene qualificata come ἀτραπός che, come si
è detto, implica l’idea della strada battuta dai molti e della comoda scorciatoia. La via dell’essere è
invece qualificata come κέλευθος, che significa anch’esso sentiero, ma in una accezione non carat-
necessità e persuasione in parmenide 1071
terizzata (cfr. 6,16) oppure in associazione a un contenuto sapienziale e conoscitivo, cfr. il già citato
1,34, che è una ripresa di Omero, Od. X, 86; cfr. anche Il. III, 406 ed Emp., B 115,54 DK.
71
Phys. Op. fr. 6a Diels.
72
Adv. Col. 1114d10.
73
Adv. Math. VII, 111,35; VII, 114,2.
74
Stromata V, 9, 59, 6,3.
75
Vitae Philosophorum IX 22,9. Cerri, Parmenide, p. 184, pone erroneamente Diogene Laerzio
fra coloro i quali danno la lezione εὐπειθέος.
76
in Cael. 557,26.
77
Esiste, inoltre, la variante εὐφεγγής («splendente, rilucente»), riportata in Proclo, in Ti. I
345,15.
78
Mourelatos, The Route of Parmenides, pp. 155-158.
79
Cfr. per esempio P lat ., Phdr. 2541; Leg. I, 632b7 e IV, 715c2, ma anche il ‘nome parlante’
Εὐπείθης, H om ., Od. I, 383, che è padre di Ἀντίνοος, nome che, a sua volta, significa «di carattere
opposto, contrario, resistente».
80
Intende così questa variante in Parmenide anche Cerri, Parmenide, p. 184, il quale traduce con
«ben convincente».
81
Cynegetica I, 313, su cui cfr. A. Garzya, Sull’autore e il titolo del perduto poema Sull’Aucupio
attribuito ad Oppiano, «Giornale Italiano di Filologia», 10 (1957), pp. 156-160.
1072 ivan adriano licciardi
4. Epilogo
Dai passi parmenidei citati e discussi appare con una certa chiarezza che, lungo la
via dell’essere, si incontra, oltre che Ἀνάγκη, la quale per certi versi la egemo-
nizza, anche Πειθώ. Quale significato associare a questa ulteriore funzione della
dèa che Parmenide mostra nel poema? Il contenuto di conoscenza esposto dalla
Δαίμων si impone come necessario e, al contempo, come ciò che produce una
fiducia. La necessità è persuasiva e la persuasione, che come visto in 2,10 «segue»
la verità, esprime a sua volta una sua assoluta razionalità, e quindi indirettamente
una sorta di cogenza. Ma come intendere questa forma di cogenza? Prima di Par-
menide, Πειθώ (o, meglio, la funzione della persuasione) si trova spesso connes-
sa ad Afrodite, come ad esempio nell’Inno omerico ad Afrodite, in cui viene detto
che ad Afrodite non è possibile né «persuadere» (οὐ δύναται πεπιθεῖν, H 5,7)
né «sedurre, ingannare» (οὐδ’ ἀπατῆσαι, H 5,7)84 soltanto tre dee (e cioè Atena,
Artemide ed Estia) – in questa eccezione menzionata nell’inno occorre vedere,
dunque, l’affermazione di una regola –, e in cui Afrodite viene considerata alla
stregua di una potenza cosmica che si impone richiedendo assenso e consenso. La
connessione, a sua volta, fra Afrodite e la funzione dell’inganno appare, in chia-
ve personificata, anche nella Teogonia di Esiodo: Afrodite appare come Φιλότης
ed è connessa a «Seduzione, Inganno» (Ἀπάτη). Ἀφροδίτη e Ἀπάτη sono in
effetti accomunate dall’essere entrambe figlie della «Notte» (Νύξ)85. Ora, questa
82
Così intendono, in Parmenide, Verdenius, Parmenides, p. 49 e Ruggiu, Commentario filoso-
fico, p. 188, nota 128.
83
Gigon, Der Ursprung der griechischen Philosophie, p. 252; così anche Untersteiner, Parme-
nide, pp. 128-129.
84
Ma cfr. anche il v. 33, in cui viene ripreso quasi integralmente il v. 7.
85
Cfr. Hes., Th. 224. Πειθώ, del resto, è un altro nome di Afrodite Urania in PDerv. col. XXI, r. 10;
in Sappho, fr. 90 ed Aeschylus, Supp. 1041 Persuasione è figlia di Afrodite. In Hes., Th. 349, Πειθώ è
un’Oceanina; lo stesso Hes., in Op. 73, connette Πειθώ alle arti della seduzione. In Pindarus, Pyth. IX,
39 ss., Πειθώ tiene nascoste le chiavi degli amori. Per queste attestazioni preparmenidee del nesso fra
necessità e persuasione in parmenide 1073
88
Ho discusso più approfonditamente del rapporto fra necessità e persuasione nel Timeo di Pla-
tone a margine del Seminario di analisi e interpretazione dei testi “Forme, parole e metafore della
physis” (Palermo, 21-22 maggio 2018) organizzato da Franco Giorgianni, presentando una relazione
intitolata Natura, Necessità e Persuasione in Platone, Timeo 47e-48e, in corso di stampa. Si riman-
da, pertanto, a questo saggio di imminente uscita per le necessarie integrazioni alle osservazioni su
Platone presentate qui in modo cursorio.
89
Alludo qui, naturalmente, all’altra grande questione (sganciata da questa) concernente il rap-
porto fra Parmenide e Platone, ossia la questione se l’introduzione da parte di Platone, nel Sofista,
del genere sommo del diverso, ossia del non-essere relativo, costituisca filosoficamente o meno un
parmenicidio (o parricidio). Quanto all’espressione «parricidio mancato», essa riprende il titolo
dell’omonima raccolta di saggi di E. Severino, Il parricidio mancato, Adelphi, Milano 1985.
Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, CXII (2020), 4, pp. 1075-1090
ISSN: 00356247 (print) - 18277926 (digital)
DOI: 10.26350/001050_000231
Marcello Zanatta*
In the first part, we will expose the way in which Aristotle presents Pythagorean theory of
musical harmony of the stars in movement, the logical structure of this exposition and the
indications that lead to believe that he refers to Philolaus. In the second part, we will examine
Aristotle’s two objections against that theory and we will indicate the doctrinal presupposi-
tions on the basis of which it is formulated. In the last part, we will show that such assump-
tions would have allowed Aristotle to formulate other objections, but he limits himself to
those two because they are functional to show the truth of his theory that the stars do not move
by themselves, but just because heavens in which they are set are moving. It is also shown
that a third objection is implicitly formulated in the context of Aristotle’s discourse.
1. Il problema
In De caelo (d’ora in avanti DC) II, 9 Aristotele, nel quadro complessivo della
disamina sulla natura e sulla traslazione (φορά) dei corpi celesti, prende in con-
siderazione anche la dottrina dell’armonia musicale prodotta dai loro movimenti
e la rigetta, operandone la confutazione.
Va affermato fin d’ora che tale confutazione e questo rigetto sono funzionali
alla teoria aristotelica del suddetto genere di corpi, e ne vedremo la ragione, al
cospetto della quale ci si renderà conto che non si tratta di un’aggiunta comple-
mentare e di un arricchimento importante ma non decisivo per la determinazione
della natura di quei corpi, quasi che essa fosse già raggiunta e ora se ne puntua-
lizza un aspetto sì interessante, quale per l’appunto quello di essere o no musi-
cali, ma estraneo alla sua sostanza speculativa. Tutt’al contrario, la reiezione di
quella teoria, divenendo, come vedremo, il momento dialetticamente rilevante
per far valere che i corpi celesti non emettono né possono emettere alcun suono,
è parte integrante della definizione della loro costituzione.
*
Università della Calabria. Email: marcello.zanatta@unical.it
Received: 16.10.2019; Approved: 25.10.2019.
1076 marcello zanatta
1
La storia di questa teoria nell’antichità, nel medioevo e anche nell’età moderna, come risulta
dal fatto di essere stata presa in considerazione dallo stesso Keplero, è ben documentata da Marco
Nicoletta nella sua tesi dottorale, pubblicata poi come volume intitolato Pitagorismo, platonismo e
armonia delle sfere, Editrice Stamen, Roma 2014.
2
In proposito si veda, tra gli altri, A. Barbone, Musica e filosofia nel pitagorismo, La scuola di
Pitagora Editrice, Napoli 2009.
3
Così espressamente in K. Ferguson, La musica di Pitagora, tr. it. di L. Sosio, Liguori, Milano
2009, p. 23. Sul punto si veda anche infra e la testimonianza riportata alla nota 8.
4
In quest’annotazione, che in ogni caso non manca certamente dall’avere una valenza ironica, è
possibile scorgere – a me sembra – un significativo sostegno all’idea che Aristotele ha pensato l’ar-
monia dei corpi celesti come avente rilevanza di un abbellimento estetico, ma nulla di più, e l’ironia
con cui viene proferita consiste proprio nel farne risaltare il contrasto rispetto alla pretesa di essere
una «teoria» astronomica, ossia un discorso di natura speculativa sui cieli e sugli astri. Proprio que-
sto risvolto dell’annotazione di Aristotele mi sorreggeva nel sottolineare che la critica dello Stagirita
della valenza «musicale» dei corpi celesti non può leggersi come rilievo interessante ma marginale
rispetto alla sostanza speculativa di determinarne la natura.
5
Cfr. Platone, Resp. X, 617 b: «Il filo ruotava sulle ginocchia di Ananke. Sui suoi cerchi, in alto,
si muoveva insieme a ciascuno una sirena, che emetteva un’unica nota, con un unico suono; ma tutte
insieme formavano un’armonia».
aristotele e la negazione dell’armonia musicale celeste 1077
6
Basilare, a questo riguardo, la tesi pitagorica riportata da Stobeo, Ecl., I, 21, 7 = Philol. 44 B
6 Diels-Kranz, secondo la quale l’armonia costituisce la «sostanza [ἐστω]» dell’universo, quella
sostanza per la quale l’universo è un κόσμος.
7
«Il pitagorismo – ha scritto magistralmente Giovanni Reale (Storia della filosofia greco-romana,
vol. 1, Orfismo e Presocratici naturalisti, Bompiani, Milano 2004, p. 131) – e le dottrine che esso ha
elaborato fra la fine del VI e l’inizio del IV secolo a.C. vanno viste nella loro unità d’insieme. Chi spez-
za questa unità, rompe anche lo spirito che l’ha creata, ossia quello spirito che ha fatto del pitagorismo
una scuola diversa da tutte le altre».
8
Cfr. Porphirii, Vita Pyth. 30, riportato nel fasc. 1, pp. 16-19 di M. Timpanaro Cardini (a cura
di), Pitagorici. Testimonianze e frammenti, 3 fasc., La Nuova Italia, Firenze 1969 (d’ora in poi cita-
to con la sigla TC seguita dal numero del fascicolo): «Pitagora udiva l’armonia dell’universo, cioè
percepiva l’universale armonia delle sfere e degli astri moventisi con quelle [τῆς καθολικῆς τῶν
σφαιρῶν καὶ τῶν κατ’ αὐτὰς κινουμένων ἀστέρων ἁρμονίας]». E, prosegue Porfirio, dando
così ulteriore attestazione dell’aura sovrumana che circondava Pitagora nella considerazione dei
seguaci, «lo testimonia anche Empedocle, dicendo di lui: “c’era tra essi un uomo di straordinaria
sapienza, che possedeva davvero ricchezza immensa d’ingegno, e validissimo era in opere varie
e sapienti, sì che quando tendeva con ogni potenza la mente, facilmente ciascuna di tutte le cose
vedeva, che son nel corso di dieci, di venti età umane”».
9
Cfr. Giamblico, Vita Pyth. 65-67 (tr. it. di M. Giuangiulio, La vita pitagorica, Rizzoli, Milano
1991, pp. 67 ss.).
10
Cfr. DC II, 13, 293 a 18 (= TC 2, fr. 330, pp. 160-163): «i più dicono che la terra sta al cen-
tro. Il contrario affermano i filosofi italici chiamati Pitagorici; essi dicono che nel mezzo c’è il
fuoco e che la terra è un astro».
1078 marcello zanatta
l’altezza del suono, vale a dire l’acutezza del rumore, non dipendeva dalla forza
con cui venivano battuti i colpi, ma dal peso del martello. Servendosi perciò di un
monocordo, stabilì che le consonanze dei suoni seguivano questi rapporti numerici:
1/2 per l’intervallo d’ottava, 2/3 per la quinta e 3/4 per la quarta11. Usò quindi le pro-
porzioni presenti nel monocordo per calcolare le distanze dei pianeti tra loro rispetto
al centro dell’universo, ponendo perciò che i rapporti erano gli stessi. Così a Saturno
e alle stelle fisse venivano ricondotti i suoni più acuti, mentre al sole era associata la
nota centrale, nella quale si congiungono due tetracordi discendenti, ossia due scale
composte ciascuna da quattro suoni.
Ma si deve certamente a Filolao il perfezionamento di questa dottrina o comun-
que la formulazione di essa in termini teorici più determinati, e ciò grazie alle sue
alte competenze musicali, attestate dalla definizione ulteriore, precisa e raffinata,
che, su base matematica, egli effettuò degli accordi musicali dividendo a sua volta
il «tono», ossia la divisione del rapporto di quinta e di quarta che compongono
l’ottava. Dalla testimonianza di Boezio indicata alla nota 12 e dalla dotta espli-
cazione di essa operata da Timpanaro Cardini, nonché dalla relativa valutazione
critica, risulta che il contributo genuino che può ascriversi a Filolao e sta a fonda-
mento della sua definizione degli accordi musicali, risiede nella determinazione
dell’apotome, del diesis e del comma12. E proprio al modo in cui Filolao definì il
rapporto tra l’accordo delle note e i corpi celesti, è altamente probabile che Aristo-
tele si sia riferito nel presentarlo.
11
A commento della testimonianza di Boezio, Inst. mus. III, 5 p. 276, 15 Friedlein (= TC 2, fr.
26, pp. 180-185), su cui torneremo dicendo di Filolao, così Timpanato Cardini presenta l’importanza
della scoperta di questi accordi e, in particolare, del loro comporsi nell’ottava: «l’osservazione dei
rapporti fissi 2:1, 3:2, 4:3 tra le lunghezze delle corde (o lo spessore dei dischi, o il liquido dei reci-
pienti), donde risultano gli accordi di ottava, quinta e quarta, fu il fondamento su cui <i Pitagorici>
costruirono la loro teoria matematica della musica. Il suono fu per loro un rapporto numerico, una
quantità, e tale si mantenne anche nei seguaci, perché costituiva una prova evidente della corrispon-
denza tra le cose e i numeri» (TC 2, p. 182).
12
TC 2, pp. 182-183: «i rapporti di quarta e di quinta “avevano dimostrato che quanto più piccoli
erano i numeri che li costituivano, tanto più perfetta era la consonanza; così perfettissima tra tutte era
l’ottava, 2 : 1, che comprendendo in sé le altre due (3/2, 4/3 = 12/6 = 2/1), racchiudeva analogamen-
te l’armonia dell’universo. Da tale matematica impostazione derivava come logica conseguenza la
ricerca di tutti i possibili intervalli musicali nell’ambito dell’ottava e la determinazione numerica dei
loro rapporti; si comprende perciò come questo problema fosse e restasse predominante negli studi
musicali della Scuola. Quei primi Pitagorici s’accorsero, forse procedendo per tentativi, che, come
l’ottava si ottiene col prodotto (non con la somma) dei rapporti di quinta e di quarta che la compon-
gono, così, volendo trovare la differenza tra la quinta e la quarta, bisognava dividere il primo rappor-
to per il secondo; e in tal modo trovarono il rapporto di 9/8 (3/2 : 4/3 = 9/8) che chiamarono ‘tono’.
Si posero allora il problema se fosse possibile dividere a sua volta il tono in rapporti consonanti; ed
eccoci così arrivati alla divisione escogitata da Filolao” della quale riferisce Boezio […] Le fonti
intermedie a cui attinse Boezio» nella presentazione del calcolo di Filolao degli ulteriori accordi
musicali «erano già forse esse stesse confuse»; sicché «il giudizio su questo passo di Boezio, dopo
averne messo in evidenza le assurdità, non può essere altro che […] sia genuina di Filolao solo l’idea
della divisione del cubo 27 in apotome, diesis e comma».
aristotele e la negazione dell’armonia musicale celeste 1079
3. La presentazione aristotelica
Prima però di muovere alla critica, Aristotele indica, com’è ovvio, la tesi pitagorica
presentandola nei termini seguenti:
Ad alcuni, infatti, sembra essere necessario che si produca un suono di corpi di tale gran-
dezza che traslano, dal momento che se ne produce uno anche di quelli presso di noi, pur
non avendo né masse simili né traslando con tale velocità. È impossibile che del sole,
della luna e di astri siffatti per numero e grandezza, i quali traslano secondo una traslazio-
ne siffatta per la velocità, non si produca un certo suono, straordinario per la grandezza.
Ipotizzando questi <effetti> e che le velocità a partire dalle distanze abbiano il rapporto
dei <suoni> in accordo, sostengono che il suono degli astri nel loro traslare in circolo si
produce come armonico13 (tr. it. mia).
Nella prima parte del passo, dove si afferma che per alcuni, ossia per i Pitagorici,
la necessità che i corpi celesti, di notevole grandezza, traslando emettono un suo-
no viene dedotta («dal momento che [ἐπεί]», dunque) dal fatto che identicamente
avviene nella traslazione dei corpi terrestri, ben più piccoli, risuona evidente il
riferimento, ancorché elaborato nei termini del tutto propri della presentazione
aristotelica, al fatto che alla base della tesi pitagorica sta il calcolo, attribuito dalla
tradizione a Pitagora, dei rapporti musicali a partire da un dato d’esperienza: il
battere del martello sull’incudine. Non è difficile scorgere che qui Aristotele cali-
bra il riferimento a Pitagora o, più esattamente, a ciò che la tradizione attribuisce
a Pitagora (successivamente, vedremo, il riferimento è a Filolao, e sarà la pars
potior dell’intervento dello Stagirita); ma che al tempo stesso lo calibra inqua-
drandolo entro la definizione epistemologica del ricercare da lui definita, secondo
13
DC II, 9, 290 b 15-23:«δοκεῖ γάρ τισιν ἀναγκαῖον εἶναι τηλικούτων φερομένων
σωμάτων γίγνεσθαι ψόφον, ἐπεὶ καὶ τῶν παρʼ ἡμῖν οὔτε τοὺς ὄγκους ἐχόντων ἴσους οὕτε
τοιούτῳ τάχει φερομένωνʼ ἡλίου δὲ καὶ σελήνης, ἔτι τε τοσούτων τὸ πλῆθος ἄστρων καὶ
τὸ μέγεθος φερομένων τῷ τάχει τοιαύτην φορὰν ἀδύνατον μὴ γίγνεσθαι ψόφον ἀμήχανόν
τινα τὸ μέγεθος. ὑποθέμενοι δὲ ταῦτα καὶ τὰς ταχυτῆτας ἐκ τῶν ἀποστάσεων ἔχειν τοὺς τῶν
συμφωνιῶν λόγους, ἐναρμόνιόν φασι γίγνεσθαι τὴν φωνὴνφερομένων κύκλῳ τῶν ἄστρων»
(testo greco stabilito da P. Moraux, Aristote. Du Ciel, Les Belles Lettres, Paris 1965, dal quale sono
tratte anche le successive citazioni del DC).
1080 marcello zanatta
la quale si conosce procedendo da ciò che è più noto per noi e meno noto per
sé, corrispondente nel caso di specie all’esperienza del diverso suono dei colpi
del martello sull’incudine, verso ciò che è più noto per sé e meno rispetto a noi,
ovvero la scoperta che l’altezza dei suoni dipende dalla grandezza del martello e
la definizione in termini matematici del rapporto tra questi elementi. Ed è signifi-
cativo a questo riguardo che, mentre per Pitagora, secondo il racconto della tradi-
zione, il passaggio dal dato d’esperienza alla scoperta della legge è tra il semplice
battere del martello e i rapporti matematici che ne definiscono il rumore, ma con
una chiara proiezione al rapporto tra le traslazioni dei pianeti e il rapporto armo-
nico dei suoni, Aristotele renda esplicito e testuale il contenuto della proiezione.
Il che è ancor più evidente nella seconda parte del passo – dove pur, come si
diceva e ora ci si appresta a provarlo, il riferimento è piuttosto a Filolao. Giac-
ché in questa seconda parte la grandezza del martello viene assunta, nel pendant
con la proiezione astronomica, come grandezza dei corpi celesti, e specifica-
mente dei pianeti («il sole, la luna e gli astri siffatti»), e, in strutturale relazione
con questa, come grandezza della loro «distanza» dal centro dell’universo, e in
tale esplicitazione dell’iniziale assunto pitagoreo è messa in rapporto con la loro
velocità di traslazione.
Già Simplicio commentando il passaggio aristotelico puntualizzava il nesso
tra la grandezza dei corpi celesti e la grandezza della loro distanza dal centro
dell’universo.
Argomentando dalle distanze le grandezze dei <corpi> comprendenti i quali sono nello
stesso rapporto delle distanze: infatti i <corpi> comprendenti sono sempre più grandi
di quelli compresi, e sono tanto più grandi quante più volte e quanto più da lontano li
comprendono14 (tr. it. mia).
14
Simplicii, In Aristotelis De Caelo Commentaria, ed. I.L. Heiberg, tipys et impensis Georgii
Reimeri, Berolini 1894, 464, 7: «ἐκ τῶν ἀποστάσεων τὰ μεγέθη συλλογισάμενοι ἐν τῷ αὐτῷ
λόγῳ τῶν ἀποστάσεων ὄντα· μείζονα γὰρ ἀεὶ τὰ περιέχοντα τῶν περιεχομένων καὶ τοσούτῳ
μείζονα, ὅσῳ πλησιαίτερον ἢ πορρώτερον περιέχει».
aristotele e la negazione dell’armonia musicale celeste 1081
15
Ibi, 471, 1 (= TC 3, fr. 960, pp. 202-203, di cui si è riportata la traduzione italiana): «ταῦτα οὖν,
φησίν, ἐκ τῶν περὶ ἀστρολογίαν θεωρείσθω· καὶ γὰρ ἐκεῖ περὶ τῆς τάξεως τῶν πλανωμένων
καὶ περὶ μεγεθῶν καὶ ἀποστημάτων ἀποδέδεικται Ἀναξιμάνδρου πρώτου τὸν περὶ μεγεθῶν
καὶ ἀποστημάτων λόγον εὑρηκότος, ὡς Εὔδημος ἱστορεῖ τὴν τῆς θέσεως τάξιν εἰς τοὺς
Πυθαγορείους πρώτους ἀναφέρων».
1082 marcello zanatta
nota 10. Sorge pertanto il problema di come venne calcolata la distanza di ciascun
pianeta dal centro e di chi ne propose il calcolo. E parallelamente, da quale fonte
Aristotele venne a conoscere tale calcolo e con esso, di conseguenza, l’«ordine»
secondo cui nel sistema dei Pitagorici cui fa riferimento si definisce la «posizio-
ne» di ciascun pianeta. Ora, se, quanto al secondo problema, sulla base della più
recente e accreditata storiografia filosofica occorre rispondere indicando «un’ope-
ra scritta, di carattere non dossografico, redatta da un membro della comunità»16,
quanto al primo, l’evidente corrispondenza tra l’ordine dell’universo pitagorico
che vede il fuoco al centro, la terra e l’antiterra girare intorno al fuoco, dopo la
terra la luna, poi il sole, poi i cinque pianeti, infine il cielo delle stelle fisse17, con il
sistema astronomico attribuito a Filolao18, porta a riscontrare in costui l’autore di
tale ordinamento cosmico e, di conseguenza, del calcolo delle distanze dei corpi
celesti dal centro dell’universo. Ovvero a riconoscere che l’autore di quell’opera
scritta si rifece basilarmente a Filolao, di modo che costui, in ultima istanza, è
il Pitagorico alla cui determinazione del sistema cosmologico e, con esso, della
musica dei corpi celesti Aristotele fa riferimento per confutarla.
4. Ancora un’istanza
Concludendo la presentazione di detta dottrina e prima di procedere a confutarla,
lo Stagirita rappresenta ancora un’istanza che attribuisce espressamente ai Pita-
gorici (290 b 25: φασίν, «sostengono»): il fatto cioè che il suono degli astri non
sia udito dagli uomini non è affatto illogico (ἄλογον), come potrebbe sembrare
16
Così per esempio B. Centrone, Introduzione ai Pitagorici, Laterza, Roma - Bari 1996, p.
16, il quale, dopo aver riassunto in questi termini gli esiti degli studi più aggiornati sui Pitagorici:
«Aristotele utilizza per la sua esposizione delle dottrine pitagoriche un’opera scritta di contenuto
non dossografico, redatta da un membro della comunità», mette in evidenza l’importanza che pro-
prio per questo ha la testimonianza aristotelica. «Ciò – scrive appunto lo studioso – rende insostitui-
bile, pur con tutte le limitazioni possibili, il valore storico della sua testimonianza».
17
Sul sistema cosmologico dei Pitagorici rimando, in particolare, agli studi di D.R. Dicks,
Early Greek Philosophy to Aristotle, Cornell University Press, Ithaca - New York 1970, pp. 62-76
e di W. Burkert, Lore and Science in Ancient Pythagoreanism, Cambridge University Press,
Cambridge 1970, pp. 299-368.
18
Ciò è stato ben messo in chiaro da C.A. Huffman, Philolaus of Croton: Pythagorean and
Presocratic. A Commentary on the Fragments and Testimonia with Interpretative Essays, Cam-
bridge University Press, Cambridge 1970, pp. 38-240. Si vedano anche Centrone, Introduzione
ai Pitagorici, p. 131, il quale porta a documentazione della suddetta, «evidente corrispondenza»,
Aet. II, 7, 7 = Philol. 44 A 16 Diels-Kranz (per Filolao il centro dell’universo è il fuoco), Aet III,
11, 2 = Philol. 44 A 17 Diels-Kranz (Filolao afferma che la terra ruota assieme all’antiterra), Aet.
III, 13, 2 = Philol. 44 A 21 Diels-Kranz (per Filolao la terra si muove in circolo). Lungo questa
linea di considerazioni è rilevante anche il contributo di C.H. Kahn, Pythagorean Philosophy
Before Plato, in A.P.D. Mourelatos (ed.), The Pre-Socratics. A Collection of Critical Essays,
Anchor Press, Garden City (NY) 1974, pp. 161-186, il quale dimostra l’esistenza di tratti della
filosofia dei «cosiddetti Pitagorici» che non risalgono a Pitagora.
aristotele e la negazione dell’armonia musicale celeste 1083
Porfirio, nel luogo della sua Vita pitagorica indicato alla nota 8, sintetizza l’istan-
za dicendo che
la qual cosa [scil. l’armonia musicale degli astri] non sentiamo per la limitatezza della
nostra natura [διὰ σμικρότητα φύσεως] (tr. it. mia).
È altamente probabile che nel far riferimento all’assuefazione quale causa della nostra
assenza di percezione della musica astrale, Aristotele riferisca un assunto effettiva-
mente professato dai Pitagorici. Ed è verisimile che esso sia stato asserito, nel quadro
dell’esaltazione di Pitagora come persona dotata di sovrumane capacità, in risposta
all’obiezione che quella pretesa armonia musicale, avvertita dal solo Pitagora, di fatto
nessuno l’ha mai udita. Donde la non verità dell’istanza sul piano dottrinario.
È altamente probabile, invece, che la spiegazione «causale» della non udibilità
della musica celeste, il fatto cioè che il suono è percepito soltanto se è preceduto
da silenzio e, parimenti, il silenzio si avverte soltanto se è preceduto da un suono,
non corrisponda affatto a un asserto dei Pitagorici che Aristotele riferisce, ma sia
Aristotele stesso ad aggiungerlo, per il desiderio – a lui del tutto consono – di
ricercare sempre la causa.
In questa prospettiva esegetica, la sintesi di Porfirio non pare adeguata, giac-
ché non si tratta già di una limitatezza percettiva dell’uomo, bensì di una legge
acustica, di una condizione strutturale del sentire, e dunque dell’attestazione del
carattere «normale» e pienamente adeguato del percepire umano. A meno che Por-
firio, chiamando in causa la limitatezza del sentire umano, non l’abbia addotta in
rapporto alla capacità uditiva di Pitagora. Ma il contesto sembra escluderlo e non
sembra affatto probabile.
19
DC II, 9, 290 b 24-29: «επεὶ δʼ ἄλογον δοκεῖ τὸ μὴ συνακούειν ἡμᾶς τῆς φωνῆς ταύτς, αἴτιον
τούτου φασὶν εἶναι τὸ γιγνομένοις εὐθὺς ὑπάρχεν τὸν ψόφον, ὥστε μὴ διάδηλον εἶναι πρὸς τὴν
ἐναντίαν σιγήν· πρὸς ἄλληλα γὰρ φωνῆς καὶ σιγῆς εἶναι τὴν διάγνωσιν, ὥστε καθάπερ τοῖς
χαλκοτύποις διὰ συνήθειαν οὐθὲν δοκεῖ διαφέρειν, καὶ τοῖς ἀνθρώποις ταὐτὸ συμβαίνειν».
1084 marcello zanatta
Il primo argomento, compreso nelle righe 290 b 31-33, non è soltanto la riproposta
della probabile obiezione rivolta ai Pitagorici, secondo l’ipotesi esegetica che s’è
fatta e che da questo contesto argomentativo trae conferma, ma – a ben vedere –
presenta un aspetto ulteriore, che ne manifesta il carattere prettamente dialettico, e
cioè l’attestarsi come argumentum ad hominem. Ché, ai Pitagorici i quali all’obie-
zione dell’assurdità (290 b 32: ἄτοπον) della loro teoria di una musica astrale che
nessuno percepisce opponevano che tale non-udibilità ha una «causa», ora Aristo-
tele oppone che quella stessa «causa» (290 b 33: τὴν αἰτίαν) è assurda in quanto
con essa si pretende spiegare un fatto in se stesso assurdo: l’asserire l’esistenza di
qualcosa che nessuno sperimenta né ha mai sperimentato. Insomma, la pretesa di
spiegare l’assurdo è un vuoto argomentare, e come tale è essa stessa assurda.
Il secondo e il terzo argomento, ponendo in atto la confutazione, la quale,
com’è noto, è un procedimento dialettico, anzi è il procedimento principe della
20
Mi discosto dalla maggioranza degli interpreti nel considerare tre e non due gli argomenti di Ari-
stotele intesi a rigettare la tesi pitagorica dell’armonia celeste. Così, per esempio, L. Elders, Aristotle’s
Cosmology. A Commentary on the De Caelo, Van Gorcum, Assen 1966, p. 225: «Aristotle advances
two arguments against this view on the Pythagoreans: (a) the fact that we do not hear the noise is
not well accounted for; (b) this noise would shatter stones on the earth, but this effect has never been
observed». Nessuna delle due formulazioni, di cui è certamente da ammirare la perentoria incisività
concettuale, mi sembra però pienamente soddisfacente: non la prima, perché manca di mettere in chia-
ro la probabile ripresa di una altrettanto probabile obiezione rivolta ai Pitagorici, donde il suo carattere
totalmente dialettico, come ci apprestiamo ad argomentare; e neppure la seconda perché manca di met-
tere in chiaro il carattere di confutazione, come vedremo, assunto dall’argomento aristotelico.
21
DC II, 9, 290 b 31 - 291 a 6: «οὐ γὰρ μόνον τὸ μηθὲν ἀκούειν ἄτοπον, περὶ οὖ λύειν
ἐγχειροῦσι τὴν αἰτίαν, ἀλλά καὶ τὸ μηδὲν πάσχειν χωρὶς αἰσθήσεως. οἱ γὰρ ὑπερβάλλοντες
ψόφοι διακναίουσι καὶ τῶν ἀψύχων σωμάτων τοὺς ὄγκους, οἷον ὁ τῆς βροντῆς διίστησι
λίθους καὶτὰ καρτερώτατα τῶν σωμάτων. τοσούτων δὲ φερομένων, καὶ τοῦ ψόφου
διιόντος πρὸς τὸ φερόμενον μέγεθος, πολλαπλάσιον μέγεθος ἀναγκαῖον ἀφικνεῖσθαί τε
δεῦρο καὶ τὴν ἰσχὺν ἀμήχανον εἶναι τῆς βίας. ἀλλʼ εὐλόγως οὕτʼ ἀκούομεν οὕτε πάσχοντα
φαίνεται τὰ σώματα βίαιον οὐδὲν πάθος, διὰ τὸ μὴ ψοφεῖν».
aristotele e la negazione dell’armonia musicale celeste 1085
dialettica, a tal punto da entrare nella sua stessa definizione22, vedono Aristotele
utilizzare a questo scopo presupposti squisitamente fisici, cosicché l’argomentare
φυσικῶς s’intreccia con l’argomentare ἐλεγτικῶς. Nella prima delle due con-
futazioni, infatti, lo Stagirita utilizza una legge del suono da lui stabilita in De
anima (d’ora in poi indicato con la sigla DA) II, 8, 419 b 9-25, e cioè che il suono
si produce quando la percussione di una superficie dura, liscia, uniforme e cava
muove la massa d’aria confinante, essa medesima continua e unitaria, e quando
quest’aria esterna muove quella contenuta nell’orecchio, la quale a sua volta col-
pisce la membrana del timpano. Dunque, le condizioni perché si generi un suono
sono (1) innanzitutto che qualcosa urti contro qualcosa23, (2) il quale non sia come
la lana, bensì una superficie (a) dura e liscia, quale per esempio il bronzo, e (b)
cava, perché queste prerogative permettono (a) all’urto di risuonare e, (b) tramite
le ripiegature, che si producano molti colpi dopo il primo24. (3) È richiesto altresì
il duplice movimento del medio, l’aria, che, messo in moto dall’effetto del colpo,
muova a sua volta l’aria interna all’orecchio, la quale affetta il timpano25. Aristote-
le fa inoltre presente che anche l’aria risuona se colpita fortemente.
Non è difficile avvedersi che, alla luce di queste condizioni e sulla base di esse,
il suono musicale dei corpi celesti così come i Pitagorici lo concepivano e, in par-
ticolare, come Aristotele presenta la loro concezione, non ha titolo per sussistere
e va perciò negato. Non potrebbe sussistere perché, per emettere un suono, i cor-
pi celesti dovrebbero urtare gli uni contro gli atri, cosa che la teoria pitagorica
non prevede affatto; inoltre, dovrebbero essere duri, lisci e cavi, e neppure questo
è compreso in tale teoria, né essi sono siffatti nel quadro di quella aristotelica,
secondo la quale essi sono costituiti di etere, che non ha affatto tali caratteristiche;
ancora: il suono dei corpi celesti, ove mai si producesse urtando gli uni contro gli
22
Cfr. Aristotele, Top. I, 1, 100 a 1-4, dove si dice che la dialettica consiste nel reperimento di
una μέθοδος che guidi il ragionare nelle discussioni, che metta, cioè, in condizione di confutare
e di evitare d’essere a propria volta confutati, asserendo cose da cui si possa dedurre la contrad-
dizione della propria tesi. Analogamente Aristotele dice anche in Soph. El. 34, 183 37 - b 6. Sul
punto mi permetto di rinviare all’Introduzione dell’edizione italiana dell’Organon da me curata,
vol. I, Utet, Torino 1996, pp. 46-47.
23
DA II, 8, 419 b 9-10: «il suono in atto [ὁ κατʼ ἐνέργειαν ψόφος] è sempre di qualcosa con-
tro qualcosa [τινος πρός τι] e si genera sempre in qualcosa. Infatti, ciò che lo produce è un colpo
[πληγή]» (tr. it. di M. Zanatta, Aristotele. L’anima, Aracne, Roma 2008, condotta sul testo greco
stabilito da W.D. Ross, Aristotelis De anima, Clarendon Press, Oxford 1963).
24
DA II, 8, 419 b 14-20: «la lana anche se venga colpita [ἂν πληγῇ] non produce alcun suono;
invece lo producono il bronzo e tutte quelle cose che sono lisce e cave [λεῖα καὶ κοῖλα]: il bronzo
perché è liscio e le cose cave perché con la loro ripiegatura producono molti colpi dopo il primo, dal
momento che ciò che è stato mosso [scil. l’aria] è impossibilitato a uscir fuori. […] deve generarsi un
colpo delle cose solide [στερεῶν πληγή] l’una contro l’altra» (tr. it. di Zanatta, Aristotele, L’anima).
25
DA II, 8, 420 a 3-5: «è atto a produrre suono [ψοφητικὸν] ciò che è atto a muovere dell’aria che
sia una per continuità fino all’udito [τὸ κινητικὸν ἑνὸς ἀέρος συνεχείᾳ μέχρις ἀκοῆς]. All’organo
dell’udito è congenita dell’aria [ἀκοῇ δὲ συμφυὴς ἀήρ]. E per il fatto che <tale organo> è nell’aria,
quando quella esterna è mossa, è mossa quella interna» (tr. it. di Zanatta, Aristotele. L’anima).
1086 marcello zanatta
altri, essendo essi di notevole grandezza, muoverebbe molta aria esterna e questa,
data la sua quantità, muoverebbe quella di ben più ridotta quantità interna all’o-
recchio in modo tale che l’affezione prodotta da quest’ultima al timpano si risol-
verebbe in realtà in una sua rottura, per cui il suono non sarebbe udito. E ancora:
poiché per Aristotele il suono «si ode nell’aria e anche nell’acqua, ancorché di
meno» – pur non essendo «l’aria né l’acqua il fattore principale del suono»26, ma
il colpo (πληγή) di una cosa solida contro un’altra –, il presunto suono dei cieli e
degli astri, ancorché si desse, non si udirebbe nell’etere in cui sarebbe prodotto27;
ma un suono che non si oda là dove si produce è una contraddizione.
Sennonché, come abbiamo letto, Aristotele, che pur nel secondo argomento si
vale delle condizioni del suono da lui teorizzate, come ben si vede dal richiamo,
strutturale nell’argomento stesso, del movimento e dell’urto dell’aria, non rigetta la
teoria della musica astrale facendo valere i motivi su esposti, pur essendo essi del
tutto consoni all’istanza, ma utilizza soltanto l’argomento secondo cui (schematiz-
zando in un sillogismo ipotetico) «se i corpi celesti emettessero suono, la grande
quantità d’aria che muoverebbero, data la loro grandezza, provocherebbe lo spez-
zamento di cose solide e dure come le pietre; ma non si riscontra nessuno spezza-
mento di tali cose; dunque i corpi celesti non emettono suono»28. Ci si chiede allora
perché egli faccia valere soltanto questa condizione della sua teoria sul suono e non
anche le altre per rigettare la teoria pitagorica, e la risposta è che soltanto sulla base
di questa condizione era possibile costruire una «confutazione [ἔλεγχος]», e Ari-
stotele, in tutta evidenza, ha inteso «confutare» detta teoria, per via dell’efficacia
della confutazione, mentre gli altri argomenti non sono «confutazioni», ma soltanto
«dimostrazioni» dell’inesistenza della musica astrale. La confutazione, infatti, è
26
DA II, 8, 419 b 18-19: «ἀκούεται ἐν ἀέρι, κἀν ὕδατι, ἀλλʼ ἧττον, οὐκ ἔστι δὲ ψόφου
κύριος ὁ ἀὴρ οὐδὲ τὸ ὕδωρ».
27
Su questa linea si è espresso Elders, Aristotle’s cosmology, p. 225 il quale scrive: «in this
chapter Aristotle does not elaborate on how the noise of the celestial bodies would have to enter into
the region of the air and there produce its effects». Meno rilevante in ordine alla determinazione
dell’argomento nel suo nucleo speculativo, mi sembra il rilievo poco prima formulato dallo studioso,
il quale, a proposito della capacità del suono di spezzare le cose, chiamata in causa come esempio
da Aristotele, rileva come quest’annotazione e, in generale, la tesi che il suono, se forte, spezza gli
oggetti, presentano una difformità dalla tesi di DA 424 b 11 dove «is not the sound of thunder, but
the air which accompagnes it, which splits the trunks of trees».
28
Con un sillogismo ipotetico anche Tommaso d’Aquino prospetta l’obiezione di Aristotele: «si
corpora caelestia facerent iam magnos sonos, non solum est inconveniens quod nihil eorum audiatur
quod ipsi [scil. i Pitagorici] solvere nituntur [scil. quella che nella presentazione dell’argomento pitago-
rico abbiamo indicato come “aggiunta” e come risposta a una probabile obiezione], sed etiam inconve-
niens est quod corpora inferiora [scil. gli enti del mondo sublunare e, in specie, quelli inanimati] nihil
patiantur ab illis sonis, etiam si eos non sentiant» (S. Thomae Aquinatis, In Aristotelis libros De caelo
et mundo, De generatiopne et corruptiopne, Metereologicorum expositio, cum texto ex recensione leo-
nina, cura et studio P.fr. R.M. Spiazzi, Marietti, Torino 1952, L. II, 1, XIV, 424, p. 211). Dall’esegesi
tomista mi discosto, sia pur parzialmente, per non includere nell’argomento anche «l’aggiunta».
aristotele e la negazione dell’armonia musicale celeste 1087
«il sillogismo della contraddizione»29 o, come pure è definita, «il sillogismo con
contraddizione della conclusione»30, e come ben si vede nella schematizzazione
dell’argomento sopra proposta mercé un sillogismo ipotetico, in esso la conclusio-
ne contraddice la premessa dell’esistenza della musica celeste. Gli altri argomenti
atti a respingere la teoria pitagorica, che pur possono formularsi sulla base delle
condizioni del suono istituite da Aristotele, non sono, come chiaramente si costa-
ta, delle confutazioni, perché non concludono con la contraddizione della tesi, ma
dimostrano l’impossibilità del suo darsi.
29
Aristotele, Soph. El., 6, 168 a 37-38; 9, 170 b 2-3.
30
Ibi, 1, 165 a 2-3.
31
Elders, Aristotle’s cosmology, p. 225.
32
Sull’uso e sulla basilare rilevanza della dialettica nelle indagini dello Stagirita molto è stato
scritto dalla più aggiornata storiografia aristotelica, ma in questa sede basterà richiamare i molti con-
tributi di E. Berti e, tra essi, Le ragioni di Aristotele, Laterza, Roma - Bari 1989.
33
DC II, 9, 291 a 6-9: «ἄμα δʼ ἐστὶ τό τʼ αἴτιον τούτων δῆλον, καὶ μαρτύριον τῶν
εἰρημένων ἡμῖν λόγων, ὡς εἰσὶν ἀληθεῖς· τὸ γὰρ ἀπορηθὲν καὶ ποιῆσαν τοὺς Πυθαγορείους
1088 marcello zanatta
Ciò di cui la rigettata tesi pitagorica della musica celeste fornisce la prova è la verità
innanzitutto della teoria (precedentemente da Aristotele formulata e dimostrata) che
gli astri non si muovono da sé, ma sono mossi dalle sfere dei cieli in cui sono inca-
stonati34; ma anche di altre tesi, come vedremo. La pretesa musica celeste derivava
infatti, per i Pitagorici, dal movimento che gli astri hanno per se stessi. È questo
uno degli scopi che hanno indotto Aristotele a esaminare e rifiutare la tesi pitagori-
ca: quello fondamentale, giacché è quello che Aristotele stesso dichiara, ma non è
l’unico, come vedremo. Tuttavia in questo momento interessa che, nel far presente
l’intendimento dell’indagine condotta e l’efficacia probatoria della reiezione testé
eseguita in ordine all’asseveramento della propria dottrina dei cieli, Aristotele for-
mula implicitamente una terza obiezione alla tesi pitagorica. Che va esaminata.
Questo l’intero passo:
Tutte le cose che trasportano se stesse producono suono e silenzio; invece tutte quelle
che sono vincolate o sussistono in una che trasla, come le parti in una nave, non possono
emettere suono, né lo può la nave stessa se navighi in un fiume. Eppure sarebbe possibile
formulare i medesimi ragionamenti, ossia che vi è un assurdo se l’albero e la prua di una
nave di molta grandezza quando traslano non producono un abbondante suono, o a sua
volta non lo produce la nave muovendosi. Ciò che trasla in una cosa che non trasla emette
suono; invece in una che trasla, una cosa non continua e che non produce un urto è impos-
sibile che emetta suono. Di conseguenza, a questo riguardo si deve dire, come se i corpi
degli astri traslassero in una quantità sia di aria, sia di fuoco sparsa per il tutto, al modo in
cui tutti sostengono, che è necessario che i <corpi> in alto per la loro grandezza producono
un suono, e quando esso ha luogo, e giunge qui e procura fratture. Per cui, se non risulta
che avviene questo, nessuno degli astri né trasla di una traslazione dotata di anima né di
una violenta, come ciò che in futuro deve essere perché la natura lo prevede, dal momento
che, non comportandosi il movimento in questo modo, nessuna delle cose che si trovano
intorno al luogo di qui potrebbe stare in modo simile35 (tr. it. mia).
È subito chiaro che Aristotele costruisce il discorso su una dottrina propria: produ-
cono suono i corpi che hanno un movimento autonomo, invece non ne producono
quelli che si muovono perché si muove ciò in cui sono collocati. La ragione è evi-
dente: tra essi non vi è urto (πληγή), determinazione che, espressamente nominata
nel passo, ha pienezza di senso nel riferimento alla teoria generale del suono di DA
II, 8 di cui si sono indicati i termini basilari e che, come si diceva all’inizio, costitu-
isce l’ambito entro il quale si declina la critica dello Stagirita. Anche l’indicazione
delle cose su una nave le quali non si muovono per sé, ma solo perché trasportate
dalla nave, e quella della nave stessa entro il corso del fiume richiamano immedia-
tamente la situazione della nave di Phys. IV, 4, 212 a 14-20 alla quale Aristotele si
appoggia per illustrate la teoria del luogo. Ma v’è di più: la stessa determinazione
del carattere non autonomo del movimento degli astri in quanto trasportati dai cieli
s’inquadra nella teorizzazione della distinzione tra movimento per sé e movimento
per accidente di Phys. IV, 4, 211 a 17-21, dove per l’appunto si afferma che
È una cosa mossa, da un lato ciò che lo è per sé, in atto, dall’altro ciò che lo è per acciden-
te. <Si muove> per accidente, da un lato ciò che può muoversi per sé, per esempio le parti
del corpo e il chiodo nella nave, dall’altro…36,
con un esempio, quale quello del chiodo, al quale in tutta evidenza si connette l’e-
sempio delle parti della nave del passo del DC qui in esame.
Sulla base di questa distinzione e dalla dimostrata impossibilità che gli astri
emettano suono, Aristotele assevera, dunque, la tesi, previamente raggiunta, che
gli astri non si muovono da sé ma per la traslazione in circolo dei cieli in cui sono
incastonati, con un ragionamento che formalmente si scandisce nel seguente sillo-
gismo in Camestres: ciò che si muove da sé emette suono; ma gli astri non emetto-
no suono; dunque gli astri non si muovono da sé.
Ma, a ben vedere, anche altri due aspetti della dottrina aristotelica dei corpi cele-
sti – entrambi essenziali in ordine alla determinazione della loro natura – risultano
confermati dalla reiezione della pretesa musica astrale. Uno è la dottrina che l’uni-
verso (di volta in volta indicato dallo Stagirita come ὁ κόσμος, τὸ πᾶν, τὸ ὅλον37)
φορὰν οὐθὲν αὐτῶν, ὥσπερ τὸ μέλλον ἔσεσθαι προνοούσης τῆς φύσεως, ὅτι μὴ τοῦτον τὸν
τρόπον ἐχούσης τῆς κινήσεως οὐθὲν ἂν ἦν τῶν περὶ τὸν δεῦρο τόπον ὁμοίως ἔχον».
36
Aristotele, Phys., IV, 4, 211 a 17-21: «ἔστι δὲ κινούμενον τὸ μὲν καθʼ αὐτὸ ἐνεργείᾳ, τὸ
δὲ κατὰ συμβεβηκός· κατὰ συμβεβηκὸς δὲ τὸ μὲν ἐνδεχόμενον κινεῖσθαι καθʼ αὐτό, οἷον τὰ
μόρια τοῦ σώματος καὶ ὁ ἐν τῷ πλοίῳ ἧλος». La traduzione italiana è di M. Zanatta, Aristotele.
Fisica, UTET, Torino 1999.
37
Vi è tuttavia da segnalare la differente prospettiva da cui Aristotele, pur concependo sempre
l’universo come contenente l’insieme degli enti, ne modula, a seconda dei contesti, la determinazio-
ne di «tutto» e di «intero», stante che «tutte quelle cose la cui posizione <delle parti> non produce
una differenza sono dette un tutto [πᾶν], mentre tutte quelle la cui <disposizione delle parti la>
produce <sono dette> un intero [ὅλον]» (Aristotele, Metaph. V, 26, 1024 a 2-3; tr. it. di M. Zanatta,
Aristotele. Metafisica, Rizzoli, Milano 2008).
1090 marcello zanatta
38
Cfr. per esempio 293 a 19: τὸν ὅλον πεπερασμένον, detto del cielo, che, racchiudendo l’uni-
verso, comporta che l’universo stesso sia πεπερασμένον.
Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, CXII (2020), 4, pp. 1091-1099
ISSN: 00356247 (print) - 18277926 (digital)
DOI: 10.26350/001050_000165
NOTE E DISCUSSIONI
Pierpaolo Ascari*
ANALOGIA E METAFORA NELLA METROPOLI DI SIMMEL
The article aims to analyze how analogy and metaphor come into relationship in the essay
on the metropolis by Georg Simmel. The definition of the two tropes has been taken from
Siegfried Kracauer’s notes about Simmel, on the basis of a contrast between the man of
analogies and the man of similitudes that the essay on the metropolis would seem deny.
*
Alma Mater Studiorum - Università di Bologna. Email: pierpaolo.ascari2@unibo.it
Received: 26.02.2020; Approved: 05.03.2020; First published online: 03.2020.
1
S. Kracauer, Georg Simmel. Ein Beitrag zur Deutung des geistigen Lebens unserer Zeit
(1919), in Id., Werke, Bd. 9.2, Frühe Schriften aus Nachlaß, hrsg. von I. Belke, unter Mitarbeit von
S. Biebl, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2004, pp. 152-153; tr. it. di M. G. Amirante Pappalardo e F.
Maione, Georg Simmel, in S. Kracauer, La massa come ornamento, Prismi, Napoli 1982, pp. 37-67.
1092 pierpaolo ascari
2
R. Bodei, «Le manifestazioni della superficie»: filosofia delle forme sociali in Siegfried Kra-
cauer, Presentazione di Kracauer, La massa come ornamento, pp. 7-23, qui p. 21.
analogia e metafora nella metropoli di simmel 1093
meno3. Eppure, la stessa analogia pone in relazione due oggetti che obbedisco-
no alla medesima legge generale (allgemeine Gesetz) della quale rappresentano
un caso specifico e alla padronanza della quale rinvia necessariamente la sco-
perta dell’analogia stessa (als Sonderfall eines Allgemeinen, dessen Erkennt-
nis Vorbedingung der Analogiebildung ist). L’analogia non avrà mai a che fare
con la singolarità delle cose, quindi, perché mette a confronto solo processi che
aderiscono a un medesimo schema (demselben Schema verlaufen) e che nella loro
somiglianza non riflettono un orientamento del soggetto (deren Gleichsinnigkeit
ist jeder subjectiven Willkür entzogen), il quale si limita a scovare e postulare l’esi-
stenza di affinità che il successo dell’accostamento consente poi di attribuire effet-
tivamente ai fenomeni. Ma al di fuori del parallelismo processato da uno specifico
procedimento analogico, le cose non rimangono meno ignote della realtà mutilata
dai concetti. Solo con la similitudine, dunque, un fenomeno provvede a rappresen-
tare concretamente la spiegazione (Erklärung), il significato (Bedeutung), il con-
tenuto (Gehalt) e l’essenza (Wesen) di un altro fenomeno, cioè l’impressione che
suscita in noi e il modo in cui lo concepiamo (unseren Eindruck, unsere Auffassung
von ihr). Ed è così che la stessa analogia, pur differenziandosi dal concetto astratto
come la sperimentazione di una mappa si discosta dal ricorso a una mappatura
già collaudata, non approda mai alla reale esperienza delle cose, perché la loro
completa liberazione si può determinare soltanto nella dimensione espressamente
estetica dell’immagine, della creazione fantastica e dell’impressione soggettiva.
La realtà si mostra solo attraverso un velo (Schleier): prima ancora di attribuire
a Schopenhauer il primato nell’arte delle similitudini, definendolo una natura to-
talmente allegorica (eine Gleichnisnatur durch und durch), Kracauer ne ratifica la
prospettiva epistemologica4. E proprio come Schopenhauer sta alla similitudine,
Simmel è l’uomo delle analogie, vale a dire l’autore che non si lascerebbe attrarre
dai fenomeni nella loro interezza ma si limiterebbe a reperirne i rapporti.
2. Il regime metaforico
La lettura del saggio sulle metropoli e la vita dello spirito (1903), sembra ef-
fettivamente confortare il giudizio di Kracauer. L’analogia interviene già nelle
prime righe, dove la resistenza dell’individuo alle forze storiche della società,
della cultura e della tecnica viene immediatamente interpretata come una ri-
modulazione (Umgestaltung) della lotta che ha opposto l’uomo primitivo alla
natura5. Ora però l’individuo risulta minacciato dal fabbisogno di vista, odorato,
3
Kracauer, Georg Simmel, p. 154.
4
Ibi, p. 156.
5
G. Simmel, Die Großstädte und das Geistesleben (1903), in Id., Gesamtausgabe, Bd. 7,
Aufsätze und Abhandlungen 1901-1908, Bd. 1, hrsg. von R. Kramme, A. Rammstedt und O.
Rammstedt, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1995, pp. 116-126; tr. it. di P. Jedlowski, Le metropoli e la
vita dello spirito, Armando, Roma 2012.
1094 pierpaolo ascari
tatto e udito che gli consentirebbero di rimanere connesso agli stimoli nervosi
della grande città, dove la conseguente tendenza all’intellettualismo e gli effetti
dell’economia monetaria si corrispondono profondamente (stehen im tiefsten
Zusammenhange). Il tipo intellettuale opera sui fenomeni un lavoro di astrazio-
ne che non li rende meno interscambiabili delle merci soggette alla legge del de-
naro (wie in das Geldprinzip), imponendo al rapporto con i propri simili la stes-
sa logica quantitativa che riduce qualunque cosa a dei numeri (wie mit Zahlen) o
a elementi privi di differenze sostanziali (wie mit an sich gleichgültigen Elemen-
ten). Così la vita pratica sembra finalmente corrispondere (entspricht) all’ideale
delle scienze naturali, alla loro tensione verso una realtà interamente misurabile
e calcolabile come quella che viene rappresentata plasticamente dalla diffusio-
ne degli orologi da tasca (wie sie äusserlich durch die allgemeine Verbreitung
der Taschenhuren bewirkt wird). La figura che porterà al culmine questo ripie-
gamento nell’interiorità sarà quella del blasé, la cui indolenza non è altro che
il riflesso soggettivo (der getreue subjective Reflex) dell’indifferenza imposta
alla singolarità degli oggetti dal valore di scambio. E la stessa personalità uma-
na, in questa chiave, sembra sprofondare in un sentimento analogo al processo
di svalutazione che investe tutte le differenze tra le cose (ein Gefühl gleicher
Entwertung). Per quanto riguarda i confini della città in cui ciò avviene, infine,
da un lato oltrepassano la loro immediatezza fisica proprio come un individuo
(wie ein Mensch) che non si riduce mai al proprio corpo, mentre internamente
creano una successione di soglie attraverso le quali l’esperienza può disperdersi
in progressione geometrica (wie in geometrischer Progression).
Non possono esserci davvero dubbi, allora, sull’andamento analogico della
riflessione di Simmel o su quella che Frédéric Vandenberghe ha definito la sua
analisi non sistematica delle relazioni metonimiche6. Ma oltre a concordare con
Kracauer, lo stesso Vandenberghe introduce un correttivo che entra parzialmen-
te in conflitto con lo schema che separa in modo troppo rigido i filosofi dell’ana-
logia dai filosofi della similitudine, sostenendo che le differenti relazioni meto-
nimiche assumerebbero una forma comunque unitaria attraverso la mediazione
soggettiva e l’attitudine del loro scopritore. Il rinvenimento di ogni connessione
segreta, in altri termini, dipende pur sempre dagli oggetti concreti che Simmel
seleziona per penetrare attraverso i loro dettagli nella totalità dei fenomeni7. Il
fatto che Kracauer non abbia considerato questo aspetto, si potrebbe interpretare
come una conferma del primato che anche la sua teoria dei tropi sembra accor-
dare alla passività attiva, un tema che secondo Carlo Ginzburg attraversa tutta
6
F. Vandenberghe, Relativisme, relationnisme, structuralisme, «Simmel Studies», 12 (2002),
1, p. 47.
7
S. Goldblum, Die Kunst der indirekten Argumentation. Georg Simmels Denken in Analogien,
in O. Agard - F. Lartillot (éds.), L’individualisme moderne chez Georg Simmel, L’Harmattan, Paris
2019, pp. 131-149.
analogia e metafora nella metropoli di simmel 1095
8
C. Ginzburg, Particolari, primi piani, microanalisi. In margine a un libro di Siegfried Kracauer,
in Id., Il filo e le tracce. Vero falso finto, Feltrinelli, Milano 2006, p. 231.
9
A. Borsari, Per una morfologia di cose e immagini. Siegfried Kracauer e Georg Simmel, «Iride»,
29 (2016), p. 624.
10
A.M. Zocchi, Georg Simmel: metafore, in C. Corradi - D. Pacelli - A. Santambrogio (a cura
di), Simmel e la cultura moderna. Volume Secondo, Interpretare i fenomeni sociali, Morlacchi,
Perugia 2010, p. 293.
11
Simmel, Die Großstädte und das Geistesleben, pp. 119-120.
1096 pierpaolo ascari
dello sguardo trasferendo il problema delle cause nella forma di vita delle grandi
città (die Form großstädtischen Lebens) che definisce metaforicamente il ter-
reno più nutriente (der nährendste Boden) sul quale può fiorire l’influenza re-
ciproca tra il denaro e l’intellettualismo alla quale si sono attenute le certezze
dell’analogia. Londra, così, può assumere la duplice valenza metaforica della
mente (Verstand) e del portafoglio (Geldbeutel) dell’Inghilterra. Ma lo stesso
problema si ripresenta in rapporto al modo in cui la più stretta relazione tra
la mente e il portafoglio sembra connessa agli altri aspetti dell’esistenza, che
risultano ugualmente caratterizzati dalla calcolabilità e dall’astrazione. Ed è an-
cora la vastità della vita metropolitana (Ausgedehntheiten des großstädtischen
Lebens), che oltre ad alimentare le correlazioni tra i singoli elementi, riceve il
compito non meno metaforico di stendere su di loro il medesimo colore (muß
auch die Inhalte des Lebens färben). Ma più che di un colore, si tratta della
tonalità grigia (grauen Tönung), dell’assenza di colore (Farblosigkeit) o della
scoloritura (Entfärbung) trasversale a tutte le realtà parzialmente illuminate dal
procedimento analogico e dal saggio, la cancellazione delle differenze operata
dalla metropoli in cui tutte le cose nuotano (schwimmen) e anche la vita interiore
si dilata passivamente a ondate (Wellenzügen).
12
M. Maffesoli, G. Simmel: modernité e post-modernité, in O. Rammstedt - P. Waiter (éds.),
G. Simmel et les sciences humaines, Méridiens Klincksieck, Paris 1992, p. 153.
13
J. Remy, La grande ville et la petite ville: tension entre forme de sociabilité et la forme
esthétique, in Id. (éd.), Georg Simmel: ville et modernité, L’Harmattan, Paris 1995, p. 88.
14
G. Simmel, Soziologie. Untersuchungen über die Formen der Vergesellschaftung (1908), in
Id., Gesaumtausgabe, Bd. 11, hrsg. von O. Rammstedt, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1992, p. 530;
tr. it. di G. Giordano, Il povero, Mimesis, Milano 2015, p. 48.
analogia e metafora nella metropoli di simmel 1097
15
Kracauer, Georg Simmel, p. 155.
16
D. Frisby, Frammenti di modernità. Simmel, Kracauer, Benjamin, tr. it. di U. Livini, il Mulino,
Bologna 1992, pp. 83-84.
17
G.W. Leibniz, Principi della filosofia o Monadologia (1714), in Id., Monadologia, a cura di S.
Cariati, Bompiani, Milano 2001, p. 75.
18
Simmel, Die Großstädte und das Geistesleben, p. 130.
19
Id., Philosophische Kultur. Gesammelte Essais (1911), in Id., Gesamtausgabe, Bd. 14,
Hauptprobleme der Philosophie. Philosophische Kultur, hrsg. von R. Kramme und O. Rammstedt,
1098 pierpaolo ascari
che tra lo spazio ideale della rappresentazione e lo spazio reale non si creano
più contatti di quanti non ne intrattengano i suoni e gli odori (wie sich Töne mit
Gerüchen berühren können). Ora l’analogia, a differenza di quanto accadeva
nel saggio sulla metropoli, non coinvolge più le sfere del corpo e dello spazio
al livello dei presupposti, nell’organizzazione prospettica delle relazioni meto-
nimiche, ma in quanto termini della relazione stessa. Quando il vaso viene con-
siderato esclusivamente come prodotto artistico, infatti, si comporta allo stesso
modo (verhält es sich ebenso) dello spazio ideale rispetto allo spazio reale, vale
dire dei suoni rispetto agli odori. A differenza del quadro, però, il vaso e la con-
formazione dell’ansa devono attenersi a una funzione pratica, venir impugnati
e maneggiati, rendendo quindi necessaria una prima classificazione delle inter-
ferenze tra le prerogative della realtà e quelle del giudizio estetico. Nel caso in
cui le prime abbiano la precedenza sulle seconde, dunque, il manico a forma di
lucertola sarà strisciato fino al contenitore per rimarcare la propria appartenenza
a un ordine esterno delle cose, nel caso contrario l’ansa sembra promanare di-
rettamente dal corpo come le braccia dell’uomo (wie die Arme des Menschen) si
distaccano dall’embrione. Probabilmente a causa della loro estrazione dalle forme
elementari della vita, poi, nelle figure della lucertola o dell’embrione non è più
così semplice isolare l’analogia dalla similitudine, ma anche in questo caso il pa-
rallelismo serve a evidenziare un’affinità di ordine funzionale, resa attraverso i
movimenti opposti dell’animale che striscia sull’oggetto per rappresentarne le
modalità d’uso o delle braccia umane che una volta formate dovranno mediare il
rapporto con l’esterno. La promiscuità tra il procedimento analogico e il regime
delle metafore non sfugge allo stesso Simmel, in ogni caso, che sottolinea come
definire becco (Schnabel) l’apertura del vaso significhi mobilitare un’espres-
sione che contiene già in sé il riferimento alle funzioni di una parte organica
al tutto (organische Gliedfunktion). Il principio dell’ansa, allora, speculare ma
analogo a quello del becco, consiste nel risultare coerente al rapporto con l’e-
sterno e alla forma del vaso, ma è ancora un sostrato metaforico quello che con-
sente a Simmel di inserire quel vaso in un sistema di analogie, di considerarlo nel-
la sua specificità di opera d’arte che a differenza del dipinto non è pensata in vista
di un’intangibilità insulare (inselhafte Unberührsamkeit) o di concepirne la presa
come il momento in cui l’opera d’arte si sporge nel mondo (mit ihm ragt sie in
die Welt) per restituirne il flusso (Strömung) attraverso il becco. Ora, dunque, una
volta inserito nella corrente della vita, lo stesso manico è come l’arte di vivere, che
obbedisce a un ordine superiore mentre soddisfa esigenze più pratiche, oppure è
come l’anima, la quale però si comprende soltanto nella metafora del braccio che
un mondo tende verso l’altro (als wäre sie der Arm).
Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1996, pp. 278-286; tr. it. di M. Monaldi, L’ansa del vaso, in Id., Saggi
di cultura filosofica, Guanda, Parma 1985, pp. 101-107.
analogia e metafora nella metropoli di simmel 1099
20
H. Blumenberg, Geld oder Leben. Eine metaphorologische Studie zur Konsistenz der Phi-
losophie Georg Simmels, in H. Böhringer - K. Gründer (hrsg), Ästhetik und Soziologie um die
Jahrhundertwende: Georg Simmel, Klostermann, Frankfurt a.M. 1976, pp. 121-134; tr. it. di A. Bor-
sari, Denaro o vita. Uno studio metaforologico sulla consistenza della filosofia di Georg Simmel,
«aut aut», 257 (1993), pp. 21-34.
21
G. Fitzi, Life and Forms. The sociological Meaning of a Metaphor, «Simmel Studies», 22
(2018), 1, pp. 135-169.
Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, CXII (2020), 4, pp. 1101-1111
ISSN: 00356247 (print) - 18277926 (digital)
DOI: 10.26350/001050_000232
Pio Colonnello*
Nowadays we can reread Eros and Civilization as the fresco or the mirror of the society
and the postwar era, of which Marcuse was a passionate interpreter. But we can read it at
the same time as the proposal of fruitful instances of emancipation, bearing in mind the
relations of the Frankfurter philosopher with the culture of his time, with Psychoanalysis,
Freudism, Marxian inspiration, Utopian Thought. A profile, albeit in broad outline, of the
Wirkungsgeschichte of Eros and civilization – often associated with Marcuse’s other great
work, One-Dimensional Man –, cannot ignore the reference to both Hannah Arendt, another
‘spurious’ student of Martin Heidegger, and to a ‘Theological-political’ movement – which
arose in the same years – known with the name of ‘Liberation Theology’. Furthermore, the
© 2020 Vita e Pensiero / Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
fact that, behind some new theological orientations of the 1960s, in particular behind the
‘Political’ Theology of Johann Baptist Metz and Jürgen Moltmann, some researchers have
identified the influence exercised by Marcuse and the exponents of the Frankfurt School, as
well as by Walter Benjamin.
Keywords: Herbert Marcuse, Eros and Civilization, Liberation Theology, Utopian Thought
Nel riprendere la nota tesi di Walter Benjamin dell’«ora della leggibilità», l’idea
che ogni opera perviene alla sua piena intelligibilità in un determinato momen-
to storico, sono persuaso che oggi siamo in grado di intendere con una mag-
giore penetrazione critica, venute meno le passioni del momento, l’Hauptwerk
marcusiano, Eros e civiltà1.
*
Università della Calabria. Email: pio.colonnello@gmail.com
Received: 08.09.2020; Approved: 23.10.2020.
1
La prima edizione, in lingua inglese, col titolo Eros and Civilization. A Philosophical
Inquiry into Freud, Beacon Press, Boston, è, com’è noto, del 1955. Negli ultimi anni, negli Stati
Uniti, vi è un rinnovato interesse per la figura e l’opera di Herbert Marcuse, come testimonia l’at-
tività della International Herbert Marcuse Society, (https://sites.google.com/site/marcusesociety/
Home), che ha promosso, recentemente, le pubblicazioni di alcuni inediti marcusiani (lezioni,
seminari): Transvaluation of Values and Radical Social Change. Five New Lectures, 1966-1976,
1102 pio colonnello
York University, Toronto (Canada) 2017; Ecology and the Critique of Society Today. Five Selected
Papers for the Current Context, ed. by S. Surak - P.-E. Jansen - C. Reitz, University of California,
Santa Barbara 2019; Herbert Marcuse’s 1974 Paris Lectures at Vincennes University, ed. by P.-E.
Jansen - C. Reitz, Salisbury University, Maryland 2015. Esiste, peraltro, un’edizione italiana delle
Lezioni, tenute da Marcuse a Parigi, che precede l’edizione statunitense: H. Marcuse, Lezioni Pari-
gine, in Id., Marxismo e Nuova sinistra. Scritti e interventi, vol. II, a cura di R. Laudani, Manifesto-
libri, Roma 2007, pp. 199-247.
2
G. Contini, L’influenza culturale di Benedetto Croce, Ricciardi, Napoli 1967, p. 7.
3
Cfr. M. Pasini - D. Rolando (a cura di), Il neoilluminismo italiano. Cronache di filosofia (1953-
1962), Il Saggiatore, Milano 1991, p. 9; N. Abbagnano, Scritti neolluministici, UTET, Torino 2017.
rileggendo eros e civiltà sessant’anni dopo 1103
4
T.W. Adorno, Le meditazioni della metafisica, in Id., Dialettica negativa (1966), tr. it. di P.
Lauro, a cura di S. Petrucciani, Einaudi, Torino 2004, p. 325.
5
G. Jervis, Introduzione, in H. Marcuse, Eros e civiltà, tr. it. di L. Bassi, Einaudi, Torino 1967,
p. 32.
6
Per una ricognizione sulla controversa questione dell’antropologia in Marcuse, si veda S.
Bundschuh, The Theoretical Place of Utopia: Some Remarks on Marcuse’s Dual Anthropology, in
J. Abromeit - W. Cobb (eds.), Herbert Marcuse: A Critical Reader, Routledge, London and New
York 2003, pp. 152-162.
1104 pio colonnello
della civiltà, Marcuse rilevando che Freud aveva identificato il principio della
realtà con una particolare forma storica di repressione, prevalente nella società
borghese, e di avere offerto in definitiva una soluzione puramente psicologica,
affronta la questione della liberazione dal sistema repressivo, riferendosi non
alle proibizioni esercitate dalla civiltà in quanto tale, ma dalla civiltà autoritaria
e classista in cui viviamo: «Il principio della realtà si materializza in un siste-
ma di istituzioni. […] La repressione è un fenomeno storico. L’ asservimento
efficace degli istinti sotto il controllo dei freni repressivi, è imposto non dalla
natura ma dall’uomo. [...] Il motivo per cui la società impone la modificazione
decisiva della struttura degli istinti è quindi “economico”»7. Questo lo induce
a sovrapporre una repressione ‘addizionale’ di origine sociale a quella fonda-
mentale di Freud, e al principio di realtà un principio di prestazione, elabora-
to accentuando marxianamente la connotazione economica della stessa realtà,
dopo aver riletto, intanto, la stessa dialettica marxiana alla luce dell’inconscio,
«poiché la fatica del lavoro alienato significa assenza di soddisfazione, nega-
zione del principio del piacere»8. Del resto, lo stesso Marcuse, nella prefazione
alla prima edizione dell’opera, sottolinea di impiegare «categorie psicologiche,
poiché sono diventate categorie politiche. Le tradizionali linee di demarcazione
tra psicologia da un lato e filosofia politica e sociale dall’altro, sono state rese
antiquate dalla condizione dell’uomo della nostra epoca»9. Di conseguenza, la
liberazione dall’alienazione non può essere più intesa come una mera presa di
possesso degli strumenti della produzione, ma piuttosto come una riconquista
delle attività fantastiche e ludiche; dunque, non come liberazione del lavoro, ma
come liberazione dal lavoro. Di qui la proposta di una nuova mitologia, che si
propone di sostituire a Prometeo, l’eroe della fatica, del lavoro, della produtti-
vità, da sempre inteso come simbolo della società, le figure di Orfeo e di Narci-
so, che rievocano l’esperienza di un mondo non più dominato e controllato ma
liberato, finalmente capace di sciogliere i freni alle forze erotiche: «Nell’Eros
orfico e narcisistico questa tendenza si libera: gli oggetti della natura diventano
liberi di essere ciò che sono, ma per poter essere ciò che sono devono dipendere
dall’atteggiamento erotico: ricevono soltanto in questo il loro telos. […] Il mon-
do della natura è un mondo di oppressione, crudeltà e dolore com’è il mondo
umano; come quest’ultimo, esso aspetta la sua liberazione, questa liberazione è
l’opera di Eros, il canto di Orfeo infrange la pietrificazione»10.
Invece di insistere sulle note tesi di Eros e civiltà, vorrei concentrarmi, per
restare nel tema della Wirkungsgeschichte, su due osservazioni.
In primis: negli anni tra la prima edizione del volume (1955) e la seconda
(1966), al tramonto del freudismo corrispondeva, nella teoria e nella clinica della
7
Marcuse, Eros e civiltà, p. 63.
8
Ibi, p. 88.
9
Ibi, p. 47.
10
Ibi, pp. 188-189.
rileggendo eros e civiltà sessant’anni dopo 1105
psicoanalisi, l’emergere di un nuovo astro, Jacques Lacan, che suscitò forte inte-
resse, ma anche riserve, sugli intellettuali di quella generazione. Un discorso a par-
te meritano tanto il declino della psicoanalisi ortodossa negli Stati Uniti11, quanto
le nuove interpretazioni della base metapsicologica della psicoanalisi che un grup-
po di giovani intellettuali stava elaborando tra la fine degli anni ’50 e i primi anni
’60. Penso, a questo riguardo, a Norman Brown, eccentrica figura di pensatore, di
letterato e di ‘critico della cultura’, che nel volume Life against Death12, ideato tra
il 1953 e il 1956, ma pubblicato nel 1959, sottolineava come la psicoanalisi orto-
dossa non avesse tratto grande profitto dal concetto freudiano di istinto di morte
e come occorresse ripensare e riformulare anche i concetti di sessualità, rimozio-
ne e sublimazione. Mi riferisco a questa singolare figura di pensatore perché egli
attribuiva notevole importanza proprio a Eros e civiltà, «il primo libro, dopo le
sfortunate avventure di Wilhelm Reich, che ridonava la speranza di potere abolire
la rimozione»13. Intanto, in Europa, e segnatamente in Francia, le tesi di Marcuse,
che pure avrebbero avuto notevole eco nel movimento studentesco del ’68, subi-
vano una diversa fortuna, alla luce del ripensamento del freudismo e del nascente
dibattito sulla psicoanalisi lacaniana. Penso a Gilles Deleuze e Félix Guattari, i
quali poco dopo, nello stesso anno del libro simbolo dell’ultima fase del pensiero
di Marcuse, Controrivoluzione e rivolta, pubblicheranno la loro opera più impor-
tante, L’anti-Edipo, dove avrebbero rimarcato la costitutiva ambiguità dell’incon-
scio, il suo carattere propriamente politico, essendo anche produzione di realtà, e
sociale, ragione per cui «non c’è da una parte una produzione sociale di realtà, e
dall’altra una produzione desiderante di fantasma»: «la produzione sociale è uni-
camente la produzione desiderante stessa in condizioni determinate» nel senso
che «il corpo sociale è immediatamente percorso dal desiderio»14. Per altro verso,
Jean Baudrillard, nell’accentuare la correlazione tra inconscio e realtà, avrebbe
preso le distanze tanto da Freud quanto da Lacan, spingendosi fino alla negazione
stessa dell’inconscio, almeno di quello ‘compromesso’ con l’economia, secondo
la teoria psicoanalitica. Nell’impossibilità di discutere, sia pure per grandi linee,
11
Per una ricostruzione storica della fortuna della psicoanalisi freudiana negli Stati Uniti, cfr.
N.J. Hale, Freud and the Americans, vol. II, The Rise and Crisis of Psychoanalysis (1917-1985),
Oxford University Press, Oxford 1995. Di grande interesse è il dibattito, negli anni ’50, «all’interno
dell’American Psychiatric Association dove non mancano feroci attacchi contro la psicoanalisi e il
suo impiego in psichiatria», mentre, per altro verso, «Hospers, Kennedy, Pap e Salmon, sostengono
la psicoanalisi replicando efficacemente alle accuse rivolte contro di essa» (F. Palombi, Il legame
instabile. Attualità del dibattito psicoanalisi-scienza, FrancoAngeli, Milano 2002, pp. 58-59). Nel
1958, nel memorabile secondo convegno annuale dell’Università di New York, il dibattito tra i
principali esponenti dell’epistemologia e della psicoanalisi statunitense inizia a biforcarsi e «la
domanda sulla scientificità della psicoanalisi trova due risposte, una di riformulazione epistemolo-
gica e una d’interpretazione ermeneutica» (ibi, p. 91).
12
N.O. Brown, La vita contro la morte. Il significato psicoanalitico della storia, tr. it. di S.
Besana Giacomoni, Adelphi, Milano 2002.
13
Ibi, p. 15.
14
G. Deleuze - F. Guattari, L’anti-Edipo, tr. it. di A. Fontana, Einaudi, Torino 1975, p. 31.
1106 pio colonnello
le sue proposte teoriche, ritengo opportuno fare cenno almeno a una di esse, che
a me pare un significativo ‘contrassegno’ del milieu culturale di quegli anni: «La
poesia maledetta, l’arte non ufficiale, la scrittura utopica in generale, attribuendo
un contenuto immediato, presente, alla liberazione dell’uomo, dovrebbero esse-
re la parola stessa del comunismo, la sua profezia diretta»15. Emergeva, dunque,
soprattutto in ambito francese, una differente, e forse controversa, declinazione
della relazione tra potere, repressione, immaginazione e inconscio.
La seconda osservazione riguarda la rilettura critica di Eros e civiltà da par-
te dello stesso Marcuse. Infatti, nella Prefazione alla seconda edizione16, egli
osservava come fosse stato mosso inizialmente dalla «convinzione che i risul-
tati raggiunti dalle società industriali avanzate potessero consentire all’uomo
di capovolgere il senso di marcia dell’evoluzione storica, di spezzare il nesso
fatale tra produttività e distruzione, libertà e repressione»17; tuttavia, al tempo
stesso, sottolineava di avere «trascurato o minimizzato il fatto che questi motivi
[…] sono stati notevolmente rinforzati (se non sostituiti) da forme ancora più
efficaci di controllo sociale. Proprio le forze, che hanno messo la società in con-
dizione di risolvere la lotta per l’esistenza, sono servite a reprimere negli indivi-
dui il bisogno di liberarsi»18.
Che cosa era successo nel decennio tra la prima e la seconda edizione di Eros e
civiltà? Si tratta ovviamente di avvenimenti ben noti: le guerriglie nel continente
africano, lo smacco di alcune operazioni della potente politica estera americana19
e, soprattutto, la guerra del Vietnam, senza vincitori né vinti, una guerra violen-
ta, lunghissima, indesiderata da milioni di cittadini americani, tanto da causare
continui disordini sociali e proteste negli stessi Stati Uniti, come dimostravano
peraltro le contestazioni antimilitariste di migliaia di reduci di guerra e degli stu-
denti della Columbia University. Sembrava quasi replicarsi l’interdetto adorniano
nei confronti del pensiero metafisico: cosa ormai potrà salvarci, in cosa potrà mai
consistere la liberazione da nuove, inedite forme di potere repressivo, dopo che i
conati della ragione, teoretica o pratica che sia, sembravano sepolti o dissolti, non
più sotto le ceneri di Auschwitz, ma sotto le terribili combustioni del napalm? Non
a caso, nella Prefazione alla seconda edizione, vi è un icastico riferimento alle
«fotografie che mostrano file di cadaveri seminudi stesi di fronte ai vincitori in
Vietnam, che rassomigliano in tutti i particolari alle fotografie dei cadaveri denu-
triti e mutilati di Auschwitz e Buchenwald. Nulla e nessuno potrà mai cancellare
15
J. Baudrillard, Lo specchio della produzione, tr. it. di S. Blanzina, a cura di M. Ferraris,
Multhipla, Milano 1979, p. 139.
16
La cosiddetta «prefazione politica», pubblicata, per la prima volta, in italiano su «Nuovo
Impegno» 2, (1967), 8, pp. 9-18.
17
Marcuse, Eros e civiltà, p. 33.
18
Ibidem.
19
Si pensi, ad esempio, al fallimento dell’operazione militare, nel 1961, durante l’amministra-
zione Kennedy, diretta a rovesciare il governo di Fidel Castro, nota come: l’invasione della ‘baia dei
Porci’. Un duro colpo alla politica del New Frontier, improntata agli ideali di Peace and Freedom.
rileggendo eros e civiltà sessant’anni dopo 1107
20
Marcuse, Eros e civiltà, p. 41.
21
Ibi, pp. 35-37.
22
Ibi, p. 45.
23
R. Volin, Heidegger’s Children: Hannah Arendt, Karl Löwith, Hans Jonas, and Herbert
Marcuse, Princeton University Press, Princeton (NJ) 2015. Cfr. anche I. Strazzeri, Da “Eros e
civiltà” a “Eros in agonia”, «Nómadas. Revista Crítica de Ciencias Sociales y Jurídicas», 49
(2016); F. Andolfi, Lavoro e libertà. Marx Marcuse Arendt, Diabasis, Parma 2005.
1108 pio colonnello
24
M. Ribeiro do Vale, A Violência Revolucionária em Hannah Arendt e Herbert Marcuse, Ed.
UNESP, São Paulo 2006; F. Sollazzo, Potere disciplinante e libertà controllata. Esiti morale della
moderna configurazione del potere, «Lo Sguardo», 13 (2013), III, pp. 249-266. Id., Totalitarismo,
democrazia, etica pubblica, Aracne, Roma 2011.
25
C. Holman, Politics as Radical Creation: Herbert Marcuse and Hannah Arendt on Political
Performativity, University of Toronto Press, Toronto 2013.
26
H. Arendt, Civil Disobedience, «New Yorker», 12 Sept. 1970, pp. 70-105; tr. it. di V. Abate-
russo, Disobbedienza civile, Chiarelettere, Milano 2017.
27
Ibi, p. 32.
rileggendo eros e civiltà sessant’anni dopo 1109
28
Ibidem.
29
Ibi, p. 45. Qui interviene l’obbligo del cittadino di ‘fare e mantenere’ promesse. Peraltro,
sappiamo che nella teoria arendtiana la promessa rappresenta una forma di ‘azione’; al pari della
menzogna e del perdono, che sono capaci di trasformare il passato, rendendo nietzscheanamente
il ‘così fu’ in ‘così volli che fosse’, la promessa è «l’unico mezzo di cui dispongono gli uomini
per ordinare il futuro, rendendolo prevedibile e affidabile», e perciò rappresenta la capacità di
«dare inizio a qualcosa di nuovo», testimoniando la nostra capacità di agire, la nostra libertà uma-
na. Il vincolarsi con promesse «serve a gettare nell’oceano dell’incertezza, quale è il futuro per
definizione, isole di sicurezza» (H. Arendt, The Human Condition, University of Chicago Press,
Chicago 1958; tr. it. di S. Finzi, Introduzione di A. Dal Lago, Vita activa. La condizione umana,
Bompiani, Milano 1988, p. 175).
30
Peraltro, gli stessi ‘teologi della liberazione’ riconoscono una comune ispirazione di fondo. Cfr.
G. Gutiérrez, Teologia de la Liberación, Ediciones Sigueme, Salamanca 2005; tr. it. di L. Bianchi -
E. Demarchi, Teologia della liberazione, Queriniana, Brescia 1972, pp. 79-81, 84-85, 282. È appena
il caso di ricordare che la teologia della liberazione, inizialmente, è stata tacciata di essere di aperto
orientamento marxista, in un’epoca in cui la Santa Sede guardava con cautela le aperture ideologiche
e ogni nuovo movimento che sembravano minare la dottrina sociale della Chiesa. Tuttavia non è qui
possibile accennare, sia pure brevemente, alle varie prese di posizione e successive ‘aperture’ alla
teologia della liberazione da parte del magistero della Chiesa. Cfr. E. Dussel, Sobre la historia de la
teología en América Latina, in E. Ruiz Maldonato (ed.), Liberación y Cautiverio. Debates en torno
al método de la teología de la liberación, s.e., México D.F. 1975, pp. 19-68; R. Gibellini, La nuova
frontiera della teologia in America Latina, Queriniana, Brescia 1991.
1110 pio colonnello
31
Cfr. S. Cannistrà, Verso una nuova generazione teologica? Prospettive a partire dalla let-
tura storico-sociologica della teologica cattolica del nostro secolo, «Teresianum», 44 (1993), 1,
pp. 97-134, in part. p. 117.
32
G. Gutiérrez, Prassi di liberazione, teologia e annuncio, «Concilium» 6 (1974), pp. 73-97,
qui pp. 87-88.
33
Dopo le prese di posizione di teologi come Gustavo Gutiérrez o Leonardo Boff (Teologia do
Cativeiro e da Libertação, Editora Vozes, Petrópolis - Rio de Janeiro 2014), anche la filosofia della
liberazione è stata alimentata dalla stessa riflessione teologica, che si presentava come «una riflessione
critica a partire da (desde) e sulla prassi storica alla luce della fede» (Gutiérrez, Teologia della libera-
zione, p. 24). Per i rapporti tra la filosofia della liberazione e il pensiero di Marcuse – tema che costi-
tuirebbe un ulteriore capitolo della sua Wirkungsgeschichte – cfr. N.L. Solís Bello Ortiz - J. Zúñiga -
M.S. Galindo - M.A. González Melchor, La filosofía de la liberación, in E. Dussel - E. Mendieta -
C. Bohórquez (eds.), El pensamiento filosófico latinoamericano del Caribe y “latino” (1300-2000).
Historia, Corrientes, Temas, Filósofos, Siglo Veintiuno Editores, México D.F. 2009, pp. 399-417.
rileggendo eros e civiltà sessant’anni dopo 1111
soddisfatte la carica sessuale e l’aggressività dei loro soggetti […]. Nelle società
supersviluppate di oggi la rivoluzione deve significare il rovesciamento di questa
tendenza: l’eliminazione del supersviluppo e della sua razionalità repressiva»34.
Non era questo, forse, l’intento che ha animato gran parte della riflessione
della teologia della liberazione? Lo stesso Gustavo Gutiérrez, nella sua opera
principale, osserva: «La storia umana d’oggi è animata da una profonda e comu-
ne aspirazione alla liberazione […]. Ne è prova la presa di coscienza di nuove
e sottili forme di oppressione all’interno delle società industriali avanzate che
vengono, spesso, offerte a modello agli attuali popoli sottosviluppati. In esse la
constatazione non si presenta come una protesta contro la povertà, ma piuttosto
contro la ricchezza»35.
Possiamo oggi rileggere Eros e civiltà come l’affresco o lo specchio della
società e dell’epoca del dopoguerra, in cui all’accelerato sviluppo economico e
tecnologico e all’erompere di forti tensioni sociali corrisposero aspirazioni e idea-
li, di cui Marcuse fu appassionato interprete, ma, al tempo stesso, come la propo-
sta di feconde istanze di emancipazione che hanno continuato ad essere presenti,
come un fiume carsico, oltre gli anni Sessanta, nella nostra storia delle idee.
34
Marcuse, Eros e civiltà, pp. 33-34, 39.
35
Gutiérrez, Teologia della liberazione, pp. 78-79. Qualche pagina dopo egli osserva: «Marcuse
analizza il carattere sovrarepressivo della società opulenta. Arriva, così, ad intravedere la possibilità,
negata esplicitamente da Freud, di una società non repressiva. Le sue analisi della società industriale
avanzata, capitalistica o socialista, lo portano a denunciare l’insorgere di una società unidimensiona-
le e oppressiva. Ma per arrivare a questa società non repressiva, bisognerà opporsi ai valori propu-
gnati da una società che nega all’uomo la possibilità di vivere liberamente».
Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, CXII (2020), 4, pp. 1113-1128
ISSN: 00356247 (print) - 18277926 (digital)
DOI: 10.26350/001050_000159
Luca Grion*
La buona circolarità di fede e ragione
In memoria di Paolo Gregoretti
The essay celebrates the work of Paolo Gregoretti, professor of Moral Philosophy at the
University of Trieste, who recently passed away. In particular, this paper discusses the
role of religion in the encounter of faith and reason. Focusing on the main authors whom
Gregoretti discussed in his work, the essay starts with an analysis of the relationship
between philosophy and life. Then the focus shifts to three distinct pairs of concepts:
philosophy and religion, reason and will, truth and faith. In the closing section, the essay
questions the possibilities of arguing a rigorously founded rational theology. The general
objective of this study is to demonstrate that a fertile dialogue between philosophy and
religion is possible. In this dialogue, philosophy opens up and protects a space for religious
experience. Indeed, religious choice stems both from the possibility allowed by philosophy
© Vita e Pensiero / Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
Ad ottobre sarà già trascorso un anno dalla scomparsa di Paolo Gregoretti, filo-
sofo morale lungamente in forze all’ateneo triestino1. Avendo avuto la fortuna di
frequentarlo e di apprenderne la lezione, mi piace l’idea di celebrarne la memo-
ria rilanciando uno dei temi sui quali si è concentrata la sua ricerca, ovvero il
ruolo della religione nell’incontro di ragione e fede. Nel farlo prenderò in esame
*
Università degli Studi di Udine. Email: luca.grion@uniud.it
Received: 19.07.2019; Approved: 05.08.2019; First published online: 01.2020.
1
Paolo Gregoretti (13.01.1943-11.10.2018) è stato professore ordinario di Filosofia morale
all’Università degli Studi di Trieste. Dopo la laurea in Scienze Politiche a Trieste – dove, sotto la
guida del prof. Pier Luigi Zampetti ha discusso una tesi in filosofia del diritto dal titolo Cristianesimo
ed esperienza etico-giuridica nella recentissima dottrina italiana – e dopo un periodo di perfezio-
namento in Germania, ha avviato un rapporto stabile con la Facoltà di Scienze politiche dell’ateneo
1114 luca grion
soprattutto le riflessioni che Gregoretti ha raccolto nel volume dal titolo Sul rap-
porto tra filosofia e religione2, dove il tema viene analizzato nel modo più com-
pleto. A partire dall’analisi di tale studio, intendo quindi mettere in luce i debiti e
le consonanze della riflessione di Gregoretti rispetto a quelli che furono alcuni dei
suoi principali interlocutori. Infine, lungo la stessa traiettoria di pensiero, proverò
a proporre qualche considerazione personale.
1. Filosofia e vita
Prima di affrontare in modo analitico la questione del rapporto tra fede e ragione, mi
sia concesso un breve ricordo personale. La cosa non sembri fuori luogo nel conte-
sto di una riflessione scientifica: l’aneddoto personale dice molto, a mio avviso, tan-
to dell’autore di cui questo saggio si occupa, quanto dello stile con cui egli ha inteso
concepire la propria ricerca, ovvero quale dialogo fertile tra filosofia e vita.
Paolo Gregoretti l’ho conosciuto quasi per caso: all’epoca ero al secondo anno di
Filosofia e cominciavo a nutrire qualche dubbio sulla bontà della mia scelta di stu-
dio. Mentre mi interrogavo sulla distanza tra aspettative e concretezza dell’offerta
formativa, mi capitarono tra le mani i saggi che mio fratello, di alcuni anni più gran-
de di me, aveva affrontato per la preparazione del suo esame di filosofia morale a
Scienze Politiche. Ad essi si aggiungevano poi i testi della sua tesi di laurea, dedica-
ta al pensiero morale di Jacques Maritain. Come spesso capita, il non cercato regala
le sorprese più gradite. Quelle letture, infatti, si rivelarono capaci di riappacificarmi
con la disciplina o, quanto meno, di farmi intuire che potevano esserci vie più fertili
da esplorare: un modo di intendere la filosofia come riflessione sull’intero dell’esse-
re, nel tentativo di coglierne la struttura originaria e il senso ultimo.
giuliano, dove ha trascorso l’intera carriera accademica. I suoi interessi di studio si sono concen-
trati su tre filoni principali: innanzi tutto sulla figura di Franz Brentano (indagata soprattutto sotto
il profilo metodologico), sul personalismo (in particolare Stefanini e Maritain) e sulla metafisica
classica (con particolare attenzione alla proposta teoretica di Gustavo Bontadini). Al centro del-
la sua riflessione filosofica vi è il nesso tra etica e metafisica, nella persuasione che la riflessione
pratica non possa che procedere da una chiara antropologia filosofica e da una riflessione sul posto
che l’uomo occupa nel tutto di cui è parte. Tra i suoi lavori scientifici segnalo: Persona ed essere.
Saggio sul «personalismo» di Luigi Stefanini, Università di Trieste - Litografia Ricci-Triste, Trieste
1983; Il problema della libertà del volere in Franz Brentano, Giuffrè, Milano 1982; L’esperienza:
dalla fenomenologia al senso: contributo allo studio di G. Bontadini, Edizioni Università di Trieste,
Trieste 2000; Ugo Spirito. Filosofo, Giurista, economista e la recezione dell’attualismo a Trieste
(a cura di, con A. Russo), Edizioni Università di Trieste, Trieste, 2000 (da segnalare, all’interno del
volume, il saggio di Gregoretti dal titolo: Filosofia dell’azione e filosofia dell’atto puro. Nota circa
il problema della genesi dell’attualismo, pp. 178-183); Diritti e società. Momenti di riconoscimento
intersoggettivo, Edizioni Università di Trieste, Trieste 2004.
2
P. Gregoretti, Sul rapporto tra filosofia e religione, Edizioni Università di Trieste, Trieste
2000. In questo studio Gregoretti riprende e approfondisce una serie di riflessioni precedentemente
raccolte nel saggio dal titolo La religione nell’incontro di ragione e fede, in Aa.Vv, La questione
dell’incontro di ragione e fede, Piemme, Casale Monferrato 1989, pp. 61-74.
la buona circolarità di fede e ragione 1115
2. L’eredità bontadiniana
La questione di Dio o – se si preferisce, il senso di Dio oggi – è un problema che,
di generazione in generazione, impegna chi, pur aderendo a un orizzonte di fede,
si interroga filosoficamente sulle ragioni del suo credere. Ci sono state stagioni,
in passato, nelle quali tale questione occupava il centro della scena filosofica, ali-
mentando animati dibattiti sulla possibilità, o meno, di una filosofia cristiana4. Ve
ne sono altre, come l’attuale, in cui tale questione sembra destare meno interesse,
forse nella persuasione che l’essenziale sia già stato detto. In filosofia, però, l’in-
teresse di un problema scaturisce dall’inaggirabilità della domanda più che dalla
possibilità di offrire risposte del tutto nuove. Il senso vivo di una tradizione filo-
sofica, del resto, riposa proprio in questa capacità di dialogo tra le generazioni;
un dialogo che non si interrompe, ma si sforza di rispondere alle sfide del tem-
po presente mettendo a frutto gli insegnamenti del passato. Gregoretti, nel suo
riflettere sul rapporto tra fede e ragione, si muove per l’appunto nel contesto di
una tradizione di cui si sente parte e che assume, come riferimento fondamentale,
la lezione di Tommaso d’Aquino e, come interlocutore prossimo, il magistero di
Gustavo Bontadini5; ed è proprio la lezione di quest’ultimo che ritroviamo, in fili-
3
Com’è facilmente intuibile, quell’incontro mi sollecitò a rivedere i miei propositi per il futuro e
oggi, per quanto possibile, cerco di essere all’altezza di quell’esempio.
4
È questo il caso della celebre polemica sulla possibilità o meno di una filosofia cristiana che
infiammò gli anni Trenta del Novecento.
5
«Nell’affrontare il problema [del rapporto tra filosofia e religione] ho seguito l’impostazione e
1116 luca grion
sono ricorso all’impiego della strumentazione concettuale messa a punto dalla “Scuola” di filosofia
dell’Università Cattolica che, dopo F. Olgiati e A. Masnovo, ha trovato nel magistero di G. Bontadi-
ni l’elemento che più la ha caratterizzata e negli sviluppi di E. Severino dei momenti di severa rigo-
rizzazione di alcune posizioni del maestro» (Gregoretti, Sul rapporto tra filosofia e religione, pp.
5-6). Poco dopo Gregoretti, in riferimento ai risultati di quella Scuola, precisa la necessità di «qual-
che ricalibratura e qualche ridiscussione anche su aspetti di non secondaria importanza» (ibidem).
6
Ibi, p. 19.
7
Ibi, p. 20.
8
Unità dell’Esperienza – spesso abbreviata nella formula U.d.E. – è un’espressione tipicamente
bontadiniana e sta a indicare l’orizzonte trascendentale del conoscere quale punto di partenza del
filosofare. Indica l’orizzonte interale dell’apparire, l’intero dell’essere che si dà a conoscere come
contenuto di coscienza, la totalità di tutto ciò che consta. «L’Unità dell’Esperienza» afferma Bonta-
dini «è la totalità delle cose che si pensano, in quanto si pensano (di pensiero concreto, che risolve la
sensazione). […] L’Unità dell’Esperienza è l’Atto gentiliano, l’Io trascendentale, il Logo concreto, il
pensiero puro, il pensiero come criterio di realtà» (G. Bontadini, La critica negativa all’immanenza
[1926], in Id., Studi sull’idealismo [1942], Vita e Pensiero, Milano 1995, p. 59).
9
Quella marxiana è infatti una metafisica immanentista che nega l’esistenza di una dimensione
del reale trascendente la storicità del divenire empirico.
10
Gregoretti, Sul rapporto tra filosofia e religione, p. 22.
la buona circolarità di fede e ragione 1117
Tale debolezza della ragione filosofica, che nella modernità aveva negato la
ragionevolezza della fede religiosa, sembrerebbe dischiudere nuove possibilità
per quest’ultima. Paradossalmente, invece, proprio nel Novecento non mancano
voci autorevoli che, in risposta all’esclusione della fede da parte della ragio-
ne filosofica, hanno ribattuto con l’esclusione della ragione dall’ambito della
fede. È questo il caso dei fideismi con i quali lo stesso Bontadini ha lungamente
dibattuto, denunciando i rischi di una posizione che, per sua stessa scelta, non
è in grado né di mostrare la propria ragionevolezza né di far valere la propria
assolutezza11. Accade così che ogni volta che si pone la fede a fondamento del
sapere si finisce, inevitabilmente, per operare una svalutazione della ragione e
questo, alla fine, si ritorce contro la fede stessa12. Compito dell’oggi – secondo
Gregoretti – è dunque quello di riattivare una circolarità virtuosa tra fede reli-
giosa e filosofia, ovvero «tra il più alto esercizio delle ragione (filosofia) e il più
alto esercizio della volontà (religione)»13.
3. Filosofia e religione
Preliminare a tale opera di raccordo tra filosofia e religione è una loro precisa seman-
tizzazione, quanto meno rispetto al contesto del discorso che stiamo considerando.
Nel suo studio dedicato al rapporto tra filosofia e religione Gregoretti ci offre
precise indicazioni sul modo con il quale i termini filosofia e religione debbo-
no essere intesi. «Per filosofia [infatti] non si intende un qualsiasi sapere riflesso,
ma quel sapere che è in grado di farsi valere incontrovertibilmente e che ha per
oggetto la totalità della realtà. Ossia per filosofia qui si intende, nel solco della
tradizione che risale all’episteme greca, il discorso necessario che investe l’essere
in quanto essere: in altri termini la metafisica»14. Alla luce di tale definizione si
capisce come la verità a cui il sapere filosofico aspira sia da intendersi come pos-
sesso inconfutabile di ciò che non può stare altrimenti.
11
Ciò che Bontadini contestava a questo atteggiamento fideista non era la legittimità di un
diverso accesso alla verità di fede, ma il rifiuto a priori della metafisica; egli guardava infatti alla
fede come a un completamento del discorso metafisico e non come una alternativa a esso. Cfr.
G. Bontadini, La posizione della neoscolastica di fronte allo spiritualismo cristiano (1962), in
Id., Conversazioni di metafisica (1971), tomo II, Vita e Pensiero, Milano 1995, pp. 97-127 e Id.,
Spiritualismo cristiano e metafisica classica, «Giornale critico della filosofia italiana», XXXIV
(1955), 1, pp. 81-96.
12
Cfr. G. Bontadini, Metafisica e deellenizzazione (1975), Vita e Pensiero, Milano 1996, in par-
ticolare cap. 5, pp. 45-102.
13
Gregoretti, Sul rapporto tra filosofia e religione, p. 26.
14
Ibi, p. 15 (corsivo nel testo). Per un approfondimento si veda C. Vigna, Episteme, in V.
Melchiorre (ed.), Pensare l’essere, Marietti, Genova 1989, pp. 29-59, poi ripubblicato con in
titolo Sulla verità stabile, in Id., Il frammento e l’intero. Indagini sul senso dell’essere e sulla
stabilità del sapere, Vita e Pensiero, Milano 2000, pp. 21-55 (ora disponibile nell’edizione edita
da Orthotes, Napoli - Salerno 2015).
1118 luca grion
Per essere nella verità – condizione a cui il sapere filosofico aspira – non basta
dire il vero, ma bisogna saperlo dimostrare tale, ovvero poterne fondare l’incon-
trovertibilità. Tale risultato, però, può essere conseguito solo laddove ciò che
sta secondo necessità (ciò che è oggettivamente incontrovertibile) riesce a esse-
re conosciuto in modo stabile (soggettivamente indubitabile). Quando, cioè, vi
è equazione tra la «forma incontrovertibile e contenuto»15. A detta di Bontadini
infatti «una proposizione, un asserto, un principio è fondato, quando il suo con-
traddittorio è tolto o distrutto. E consideriamo tolto o distrutto il contraddittorio
quando è visto come in se stesso contraddittorio, ovvero lo vediamo contraddetto
dall’esperienza o da un altro asserto già fondato. Con ciò si scorge che fondamen-
to e principio di non contraddizione sono presi come equivalenti»16.
Opportuno, per meglio calibrare la nozione di filosofia qui utilizzata, ricor-
dare che Bontadini parlava del conoscere come dell’automanifestazione dell’es-
sere al pensiero e dell’episteme come possesso della verità quale risultato di un
«ricondurre le affermazioni che si fanno al fondamento originario del sapere,
ossia all’intreccio (originario) dell’immediatezza logica (il notum per se e non
per aliud) e dell’immediatezza fenomenologica, cioè all’intreccio di quelle due
forme dell’immediatezza del sapere in cui insiste necessariamente ogni coscien-
za, solo che si apra come coscienza»17. Il sapere speculativo, inteso come ricon-
duzione all’originario, si struttura pertanto attraverso la mediazione logicamente
necessaria del dato, ovvero mediante quel tipo di dimostrazione che, muovendo da
premesse vere, rende evidente la necessità di giungere a determinate conclusioni
aventi carattere di incontrovertibilità18.
15
Gregoretti, Sul rapporto tra filosofia e religione, p. 16.
16
G. Bontadini, Σωζειν τα φαινομενα, «Rivista di Filosofia Neoscolastica», LVI (1964), 5,
pp. 439-468, ora in Id., Conversazioni di metafisica, tomo II, pp. 136-166, qui p. 162. Sulla stessa
linea il primo Severino: «La verità è certamente il processo o l’atto di giustificazione o fondazione
dell’asserto; è cioè l’asserto nella sua capacità di escludere la propria negazione, e questa capacità
di escludere è il fondarsi o il giustificarsi dell’asserto» (Ε. Severino, Studi di filosofia della prassi
[1962], ediz. ampliata, Adelphi, Milano 1984, p. 101).
17
Gregoretti, Sul rapporto tra filosofia e religione, p. 33. Poco oltre Gregoretti chiarisce che
per immediatezza fenomenologica «deve intendersi l’apparire di ciò che appare, come e quando
appare», mentre immediatezza logica deve intendersi «la forma generale dell’evidenza (del darsi)»
espressa dal principio di non contraddizione. Cfr. C. Vigna, Dio e il silenzio, in A. Molinaro (a cura
di), Chi è Dio?, Herder - Università Lateranense, Roma 1988, § 5-6, pp. 29-59.
18
L’apagogia – ovvero la dimostrazione per assurdo – rappresenta agli occhi di Bontadini la dimo-
strazione tipo in quanto fonda la verità di un asserto sulla confutazione (negazione) del suo contrad-
dittorio. Esemplificativo può risultare il riferimento alla terza prova tomista dell’esistenza di Dio: essa
muove dalla constatazione dell’incapacità del divenire (del contingente) di mostrare la propria ragion
d’essere senza un riferimento ad un fondamento indiveniente e trascendente. In una simile dimostra-
zione si parte dal dato immediato (il darsi del divenire) e si individuano le condizioni necessarie (ben-
ché non immediatamente evidenti) senza le quali il divenire apparirebbe contraddittorio. Non a caso
la metafisica bontadiniana si presenta come una rigorizzazione della dimostrazione di Tommaso. Per
un approfondimento di questo tema si veda P. Pagani, La dimostrazione dialettica secondo Gustavo
Bontadini in C. Vigna (a cura di), Bontadini e la metafisica, Vita e Pensiero, Milano 2007, pp. 105-176.
la buona circolarità di fede e ragione 1119
4. Logos e orexis
Il riferimento a volontà e ragione – o, detto altrimenti, al rapporto tra logos e
orexis – evidenzia ulteriormente il debito che Paolo Gregoretti nutre nei con-
fronti della lezione bontadiniana. Volontà e ragione rappresentano infatti le due
dimensioni essenziali della coscienza umana. Dimensioni che si caratterizzano,
ciascuna, per una specifica grammatica e per una diversa tensione intenzionale.
Su questo è opportuno sostare con calma. «Viviamo sempre» scrive Gregoretti,
«una irrefrenabile tensione alla realtà, alla totalità della realtà, che si esplica su
due piani: il conoscere e il desiderare: tesi verso altra realtà da conoscere e verso
altra realtà da agganciare»20.
Il conoscere, innanzi tutto. Esso vive di evidenza, nutrendosi di verità intesa
come progressiva manifestazione dell’essere21. Il conoscere si caratterizza dunque
per un approccio teoretico/contemplativo alla realtà: l’intentio noetica termina
sull’essere stesso nella forma del pensiero, ovvero nel possesso concettuale (idea-
le) della realtà stessa22. «Quando pensiamo le cose» come osserva anche Carmelo
Vigna «l’intenzionalità trascendentale termina nel saputo, ossia in una realtà onti-
camente ideale»23. Il rapporto conoscitivo non rappresenta, però, l’unica modalità
con cui la coscienza si relaziona all’essere; l’altra grande modalità, anch’essa di
19
Gregoretti, Sul rapporto tra filosofia e religione, p. 18.
20
Id., Comunicazione, segreto e responsabilità, in Id. (a cura di), Frammenti, CEDAM, Padova
1998, p. 47.
21
Riecheggia, in questo, l’etimologia di verità come aletheia.
22
Conoscere, dunque, come l’essere stesso che si offre al pensiero (nei modi e nei limiti in cui ad
esso si offre). A monte di questa affermazione vi è l’affermazione bontadiniana circa il superamento
del dualismo gnoseologico tipico della modernità. Su questi temi mi sia consentito un rimando a
L. Grion, Gustavo Bontadini, University Lateran Press, Città del Vaticano 2012, pp. 92-117.
23
C. Vigna, La verità del desiderio come fondazione della norma morale, in E. Berti (a cura di),
Problemi di etica: fondazione, norme, orientamenti, Gregoriana, Padova 1990, p. 78.
1120 luca grion
24
Se conoscere significa contemplare il dato immediato – o mediato secondo necessità logica –
volere significa invece sporgersi oltre l’orizzonte di ciò che si offre nell’immediatezza, desiderare
ciò che non è dato. Se il conoscere è, originariamente, automanifestazione dell’essere, il volere è
tensione verso qualcosa che non si dà nell’immediatezza del dato.
25
«La coscienza in quanto conosce mira ai significati come ad un fine e l’oggetto è strumentale,
mentre la coscienza in quanto vuole mira all’oggetto e il significato è strumentale: è ciò attraverso cui
la coscienza si dirige verso ciò che è assente» (Gregoretti, Sul rapporto tra filosofia e religione, p. 60).
26
Cfr. Id., Comunicazione, segreto e responsabilità, pp. 47-59.
la buona circolarità di fede e ragione 1121
alla quale, sulla base della sola evidenza (immediata o mediata secondo necessità
logica), non sarebbe mai giunto. Alla fine dell’arco del desiderare si assiste infatti
a un ampliamento dell’orizzonte dell’attualità presente.
Da qui emerge la connessione (circolarità) tra sapere e volere; tra la dimen-
sione contemplativa del conoscere e la dinamicità propria dell’azione. Il sapere
si dimostra così interessato al movimento dell’azione: questa è in grado, di fatto,
di ampliare l’orizzonte dell’apparire, portando all’evidenza delle determinazioni
dell’essere sempre nuove. D’altro canto, anche l’azione pratica nella quale il desi-
derio trova piena espressione risulta interessata al conoscere: essa, infatti, lavora
sulla base delle conoscenze già acquisite dalla ragione, utilizzandone i concetti
come mezzi per l’ottenimento dei suoi fini. Non solo: lo slancio dell’azione pra-
tica trova sostegno nella ragione, la quale si fa garante della ragionevolezza del
desiderio. Scrive Gregoretti: «la volontà, essendo diretta all’incontro con l’ogget-
to inteso attraverso il significato che è presente e non alla verifica della verità del
significato medesimo, può, di per sé, puntare a qualsiasi progetto e le può succe-
dere di proiettarsi anche verso l’impossibile. Ha bisogno perciò del soccorso della
ragione che, sul fondamento di ciò che è già dato (l’originario), le indichi ciò che è
possibile e ciò che è impossibile»27.
27
Ibi, p. 60. Su questo dialogo tra volontà e ragione si innesta, sia detto per inciso, la specificità
dell’esperienza morale. Un contributo importante in termini di chiarificazione epistemologica su questi
temi Gregoretti la riconosce al confronto con la filosofia di Brentano. Si veda, in particolare, P. Grego-
retti, Sul rapporto tra conoscenza etica e metafisica. Riflessioni sulla proposta di Franz Brentano, in
E. Berti (a cura di), Tradizione e attualità della filosofia pratica, Marietti, Genova 1988, pp. 211-225
e Id., Empirismo ed intuizionismo nell’etica di Franz Brentano, in La filosofia nella Mitteleuropa. Atti
del Convegno del 1974, Istituto per gli incontri Culturali Mitteleuropei, Gorizia 1981, pp. 47-52.
1122 luca grion
28
Severino, Studi di filosofia della prassi, p. 137.
29
Su questo punto si veda A. Peratoner, Blaise Pascal. Ragione, rivelazione e fondazione
dell’etica. Il percorso dell’Apologie, 2 voll., Cafoscarina, Venezia 2002, vol. I, parte VI, cap. 2 (in
particolare pp. 466-484).
30
G. Bontadini, Abbozzo di una critica dell’idealismo immanente, in Id., Studi sull’idealismo,
pp. 152-153 (nostro il corsivo). Sulla necessità pratica dell’opzione di fede si esprime anche Carmelo
Vigna: «Il fatto stesso di vivere ci costringe a conferire alla realtà un certo significato, che sporge per-
manentemente e ampiamente sull’immediatezza dell’esperienza» (Vigna, Dio e il silenzio, p. 439). Sul
valore teoretico della fede si veda inoltre Severino, Studi di filosofia della prassi, pp. 95-138.
31
«Il contenuto stesso della fede cristiana è un che di contraddittorio […] cioè di impossibile e
dunque di necessariamente inesistente» (E. Severino, Poscritto, «Rivista di Filosofia Neoscolastica»,
LVII [1965], 5, pp. 559-618, ora in Id., L’essenza del Nichilismo, Adelphi, Milano 1982, p. 73; per
un più ampio approfondimento si veda Id., Destino della necessità, Adelphi, Milano 1980).
32
«La fede non esiste, nel senso che non può esistere; la sua esistenza è un’impossibilità» (Id.,
la buona circolarità di fede e ragione 1123
è la vita stessa che, in quanto fede nel divenire delle cose, viene ricondotta alla
categoria della follia33. A mio avviso occorre invece saper riconoscere l’intreccio
di questi due piani e la conseguente necessità di evitare il doppio pericolo di un
esasperato intellettualismo da un lato (trattare la fede esclusivamente come una
forma di sapere à la Severino) ed il fideismo dall’altro (trattare la fede come una
dimensione essenzialmente irrazionale).
Gli abitatori del tempo, Armando Editore, Roma 1978, p. 145). E questo perché «il dubbio è il
fondamento della fede, ossia […] la fede si fonda sulla propria negazione (ibi, p. 147).
33
Qui, sia detto per inciso, assistiamo alla insuperabile separazione tra filosofia e vita, punto
di massima distanza dal pensiero di Paolo Gregoretti. Per un approfondimento di questi aspetti del
pensiero severiniano rimando a L. Grion, Libertà e destino. Riflessioni sulla filosofia di Emanuele
Severino, in C. Vigna (a cura di), Etiche e politiche della post-modernità, Vita e Pensiero, Milano
2003 pp. 417-479.
34
Siamo nei pressi del vero come trascendentale di cui ci parla Tommaso o, anche, di ciò a cui si
riferisce Agostino nei Soliloqui (II, 5, 8) quando scrive che «il vero è ciò che è».
35
Come insegnava già Aristotele, la verità si predica, propriamente, del giudizio.
1124 luca grion
36
Gregoretti, Sul rapporto tra filosofia e religione, p. 35.
37
Qui il termine fede non è assunto in termini strettamente religiosi, per quanto la religione sia
un particolare modo di aver fede ovvero di ritener per vero (certo) ciò che non è oggetto di sapere
epistemico.
la buona circolarità di fede e ragione 1125
delle due. Chi dubita sta nel problema senza saperne fuoriuscire; che crede, inve-
ce, opta per una delle scelte possibili e, così facendo, forza lo stallo della ragione38.
38
Il problema religioso, chiaramente, rappresenta in questo contesto, un nodo ineludibile. Bonta-
dini si è lungamente impegnato ad una ricostruzione storico critica del pensiero moderno attraverso
la quale dimostrare l’infondatezza del divieto a procedere kantiano nei confronti della metafisica
(cfr. G. Bontadini, Studi di filosofia moderna, Vita e Pensiero, 1996, pp. 283-383). Quest’ultima è, a
suo dire, una possibilità che chiede di essere affrontata con rinnovato coraggio. Rispetto al problema
metafisico – che nei suoi tratti essenziali si configura come domanda circa l’equazione o meno tra
U.d.E. e assoluto – vi possono essere diverse posizioni. Con il termine problematicismo Bontadini
intende la situazione di chi non è in grado, speculativamente, di argomentare in modo incontrover-
tibile quanto all’immanenza o alla trascendenza del fondamento. Tale atteggiamento, che Bontadini
definisce anche come problematicismo situazionale (e nel quale si riconobbe egli stesso nei suoi anni
giovanili), trova in Ugo Spirito la sua icona più rappresentativa. Vi è però chi decide di assumere tale
condizione problematica come un tratto insuperabile dell’esperienza umana, come una condizione
strutturale al conoscere; in questo caso Bontadini parla allora di problematicismo trascendentale.
Ben rappresentativa di secondo approccio al problema metafisico è sicuramente la filosofia di Anto-
nio Banfi. Utili, al fine di un primo inquadramento di tali questioni, due brevi articoli, originaria-
mente pubblicati su «L’Educatore italiano» e poi raccolti da Bontadini nel volume dal titolo Appunti
di filosofia (prima edizione nel 1972, ora disponibile nell’edizione edita da Vita e Pensiero, Milano
1996), dedicati rispettivamente al problematicismo di Banfi e a quello di Spirito (ibi, pp. 178-188). Il
tema della problematicità quale cifra essenziale del filosofare è stato al centro anche della riflessione
di Marino Gentile, capostipite della così detta scuola padovana, col quale Bontadini si è lungamente
confrontato. Cfr. M. Gentile, Trattato di filosofia, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1987, in par-
ticolare pp. 47-60. Infine, anche per l’attenzione che Gregoretti ha dedicato al suo pensiero, merita in
questo contesto un cenno a U. Spirito, Il problematicismo, Sansoni, Firenze 1948.
39
Il dubbio, da un punto di vista esistenziale, rappresenta la situazione nella quale la volontà
riesce a risolvere lo stallo della ragione decidendo di accogliere con fiducia la veridicità di un deter-
minato stato di cose (pur senza averne prova incontrovertibile).
1126 luca grion
8. Ripresa e rilancio
Tornando ora al rapporto tra filosofia e religione, la riflessione sin qui sviluppata ci
consente di comprendere la scacchiera sulla quale Gregoretti fa giocare il rapporto
tra queste due dimensioni fondamentali dell’esperienza umana: alla prima spet-
ta un compito di garanzia rispetto alla ragionevolezza del credere41; alla seconda
compete l’assunzione del rischio che sempre comporta l’adesione fiduciosa a ciò
40
Cfr. L. Grion, Il problema etico nel pensiero di Gianni Vattimo. Considerazioni su forza e
debolezza, tolleranza e carità, in Vigna, Etiche e politiche della post-modernità, pp. 283-301.
41
«E la volontà che opta per la religione si imbarca legittimamente nell’avventura, perché come
si è visto, la ragione la conforta nella ragionevolezza (possibilità) del progetto» (Gregoretti, Sul
rapporto tra filosofia e religione, p. 60).
la buona circolarità di fede e ragione 1127
che, per la ragione, rappresenta una semplice possibilità. Possibilità, si badi bene,
nel caso del credo religioso non riguarda l’esistenza dell’assoluto, né la sua alteri-
tà rispetto alla dimensione empirica ma, per così dire, ‘il volto’ dell’assoluto.
Per quanto sommariamente, provo a chiarire quest’ultima affermazione. La
scelta religiosa, secondo Gregoretti, non riguarda l’assistenza dell’assoluto in
quanto tale, poiché questo è analiticamente implicato dall’esistenza del qualcosa:
«se qualcosa esiste, e qualcosa esiste, la totalità necessariamente esiste. In effetti il
qualcosa è parte o tutto, ma uno dei due deve essere. E sia che si tratti di qualcosa
come parte, o lo si tratti come tutto, l’esistenza del tutto o della totalità è neces-
sariamente posta»42. Qui assoluto e totalità sono assunti come sinonimi, poiché
solo ciò che non ha altro fuori di sé – e fuori dalla totalità non vi è che il nulla – è
sciolto da ogni vincolo (ab-solutum, dunque).
La scommessa religiosa, stante il lavoro eseguito dalla riflessione metafisica, non
riguarda neppure l’affermazione circa l’alterità dell’assoluto rispetto alla totalità
dell’esperienza empirica, poiché la ragione è capace di mostrare la contraddittorietà
che comporta l’assolutizzazione dell’esperienza diveniente (e conseguentemente la
tesi immanentista). Gregoretti, al riguardo, fa esplicito riferimento all’eteronomia
del divenire quale chiave per riconoscere la disequazione tra esperienza empirica e
assoluto, e la conseguente necessità di affermare la trascendenza del fondamento43.
In questo Gregoretti fa sua la rigorizzazione della teologia razionale proposta da
Bontadini44 quale fuoriuscita positiva dal problematicismo metafisico. L’esito a cui
perviene tale inferenza metafisica, tuttavia, prende la forma di una teologia negativa
in base alla quale «tutto ciò che si sa è che la totalità dell’essere non è l’unità ori-
ginaria dell’esperienza e che l’esperienza è altra dalla totalità perché include degli
aspetti decettivi che della totalità non possono esser predicati e che anzi ad essa si
oppongono per opposizione di contraddizione, cioè con la stessa assolutezza con cui
il positivo si oppone al negativo»45. L’assoluto trascendente è sì affermato, ma solo
42
Ibi, p. 36.
43
Qui non possiamo ripercorrere in modo analitico le ragioni che sostengono tale posizione; ciò
che possiamo offrire è la conclusione che Gregoretti fa propria: è perché l’esperienza in sé conside-
rata (ovvero ritenuta autosufficiente, autonoma) risulta contraddittoria che si è tenuti a cercare fuori
di essa il fondamento. È perché il divenire, qualora concepito come realtà originaria, è incapace di
rendere ragione di sé – e quindi fa problema – che siamo forzati ad affermare l’esistenza dell’assolu-
to indiveniente. «Se la totalità fosse diveniente, essendo la totalità dell’essere, ciò che sopraggiunge
verrebbe dal nulla e ciò che si congeda cadrebbe nel nulla» (ibi, p. 44). Su questo aspetto si veda
anche G. Bontadini, La metafisica nella filosofia contemporanea. Dal problematicismo alla meta-
fisica (1952), Vita e Pensiero, Milano 1996, pp. 163-214 (con particolare riferimento al paragrafo
conclusivo, significativamente titolato Principio della metafisica: pp. 211-214).
44
Cfr. Gregoretti, L’esperienza: dalla fenomenologia al senso, pp. 163-173 e Id., Sul rapporto
tra filosofia e religione, pp. 43-49. Prende invece le distanze dell’ultimo Bontadini, laddove quest’ulti-
mo, spingendosi troppo oltre nel suo dialogo con Severino, passa da una metafisica dilemmatica ad
una dialettica antinomica, giungendo ad affermare la contraddittorietà reale del divenire. Su questo
si veda L. Grion, Bontadini vs. Severino, in Vigna, Bontadini e la metafisica, pp. 417-492.
45
Gregoretti, Sul rapporto tra filosofia e religione, p. 45.
1128 luca grion
come totalmente altro rispetto all’esperienza diveniente e descritto solo per ciò che
esso non è46. Un assoluto senza volto, appunto.
Proprio sull’incapacità della speculazione metafisica di dire, in positivo, cosa
l’assoluto sia, si inserisce la scelta religiosa. La religione decide di credere che
l’assoluto abbia un determinato volto o, se si preferisce, che sia possibile rispon-
dere alla domanda che chiede chi Dio sia. Tale teologia negativa è dunque suffi-
ciente a rincuorare la speranza della fede, la quale si accontenta che la possibilità
della religione per l’uomo sia, prima di tutto, una possibilità di Dio47. Così dunque
Gregoretti può icasticamente concludere che «non pare che la filosofia fondi la
religione, si direbbe piuttosto che essa mostra dove la religione si fonda»48.
46
«In fondo» scrive Gregoretti «il culmine ontologico-metafisico, raggiungibile dalla ragione
nel suo esercizio più attento e rigoroso, è una dichiarazione di sapere (veritativamente) di non sape-
re. Cioè che la realtà sporge infinitamente da ciò che, essendo presente, le è possibile manifestare
incontrovertibilmente e che, ciò che sporge, le è dato solo come assente» (Id., La religione nell’in-
contro di ragione e fede, p. 69).
47
Cfr. Id., Sul rapporto tra filosofia e religione, p. 55.
48
Ibi, p. 63.
Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, CXII (2020), 4, pp. 1129-1154
ISSN: 00356247 (print) - 18277926 (digital)
DOI: 10.26350/001050_000161
Silvia Pierosara*
1. Introduzione
Il presente contributo è guidato da un’ipotesi di fondo, secondo cui, per poter
riconoscere, esplicitare e utilizzare le ricadute etiche delle narrazioni collet-
tive entro una prospettiva che ne valorizzi la portata storico-ermeneutica, è
necessario distinguere almeno due differenti tipologie di racconto: l’una sem-
plificante e banalizzante, facile da comprendere e da diffondere, chiaramente
ascrivibile a una soggettività che si considera monolitica, e l’altra che tenta di
restituire la complessità delle storie e delle loro intersezioni, tenendo conto
*
Università degli studi di Macerata. Email: s.pierosara@unimc.it
Received: 12.07.2019; Approved: 10.12.2019; First published online: 01.2020.
1130 silvia pierosara
1
Com’è noto, l’affermazione del paradigma narrativo in etica si può far risalire alla prima
metà degli anni Ottanta del Novecento. Tra gli studi inaugurali si possono annoverare i seguenti:
A. MacIntyre, After Virtue. A Study in Moral Theory, Bloomsbury, New York 1981; tr. it. di M.
D’Avenia, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, Feltrinelli, Milano 1988; P. Ricoeur, Temps et
récit, tome 1, Seuil, Paris 1983; tr. it. di G. Grampa, Tempo e racconto, vol. 1, Jaca Book, Milano
1985; Id., Du texte à l’action. Essais d’herméneutique II, Seuil, Paris 1986; tr. it. di G. Grampa, Dal
testo all’azione. Saggi di ermeneutica, Jaca Book, Milano 1989; Ch. Taylor, Philosophical Papers
II. Human Agency and Language, Cambridge University Press, Cambridge 1985. Per una puntuale
ricostruzione del narrativismo contemporaneo e delle sue implicazioni rispetto alla teoria dell’azio-
ne e all’etica, cfr. F. Cattaneo, Azione e narrazione. Percorsi del narrativismo contemporaneo, Vita
& Pensiero, Milano 2008; Ead., Etica e narrazione. Il contributo del narrativismo contemporaneo,
Vita e Pensiero, Milano 2011.
1132 silvia pierosara
L’ipotesi che guida questo paragrafo è che sia possibile rintracciare narrazioni
buone o cattive proprio sulla base del legame tra forma e contenuto appena evi-
denziato, e che grazie a tale legame sia possibile cogliere la bontà o meno di un
racconto, la sua capacità di modificare credenze, comportamenti e atteggiamenti
personali e collettivi. La riflessione sulla forma della narrazione e sulla sua rile-
vanza in etica non implica dunque alcun formalismo. La narrazione buona sarebbe
la narrazione capace di riconoscere la differenza che la abita, quindi la narrazione
sensibile alla frammentarietà, che non concepisce l’identità come un monolite da
difendere ma piuttosto come apertura, intenzionalità e ricerca di senso. Si può
quindi sostenere che le narrazioni buone sono potenzialmente inclusive, mentre
quelle cattive appaiono perlopiù come chiuse. Inclusività non significa relativi-
smo e indifferenza alle differenze, ma possibilità di dare voce come gesto già da
sempre eticamente orientato. Evidentemente, una narrazione dialogica che con-
templa una pluralità di prospettive sarà maggiormente complessa rispetto a una
narrazione monologica, che favorisce processi di autocomprensione identitari e
insensibili all’alterità. Per tale ragione, la dicotomia tra narrazioni buone e cattive,
sulla quale si sono recentemente soffermati alcuni autori2, può essere associata
a quella tra narrazioni complesse e semplificanti proprio a partire dal legame tra
forma e contenuto che la narratologia evidenzia.
Le narrazioni possono influenzare le attitudini etiche personali e relazionali
proprio in virtù di un legame tra strutture formali e contenuti veicolati. In par-
ticolare, l’ipotesi che si intende qui sostenere è che il dialogismo e la polifonia,
categorie narratologiche, siano capaci di promuovere un decentramento, un’a-
pertura alla pluralità delle voci, un’attenzione al frammento e alla frammenta-
rietà. Una narrazione polifonica e dialogica sarà quindi capace di promuovere
orizzonti relazionali di accoglienza, ospitalità e sensibilità alla vulnerabilità,
espressa perlopiù nelle forme della frammentazione narrativa3. Lungi dall’ab-
bandonare l’idea della coerenza, in questo contributo si cerca di mostrare come
essa non sia un dato immediato, ma sia piuttosto un fine a cui tendere a partire
dalla possibilità di accogliere la frammentarietà. In tal senso, la frammentarietà
apparirà come criterio euristico per rintracciare la vulnerabilità. La narrazione
capace di riconoscere voci differenti sarà potenzialmente anche in grado di pro-
muovere un’etica della solidarietà. Viceversa, una narrazione monologica, inca-
pace di cogliere la diversità e immediatamente coerente promuoverà perlopiù
processi di autoriconoscimento che escludono l’alterità.
2
«Le storie sono cattive quando abbiamo bisogno di comprendere qualcosa spostando la nostra
attenzione su storie differenti narrate da prospettive differenti, ma non possiamo, perché la storia
iniziale ci impedisce di riconoscere tali esigenze e di cercare tali storie alternative. Le storie che ci
invitano alla violenza sono esempi estremi di storie cattive comunemente utilizzate per giustificare
guerra e genocidi» (H. Brody - M. Clark, Narrative Ethics. A Narrative, «The Hastings Center
Report», 44 [2014], 1 Suppl., pp. 7-11, qui p. 9).
3
Quest’idea sarà sviluppata nel terzo paragrafo.
semplicità e narrazioni complesse tra empatia e compassione 1133
4
D. Sheperd, Dialogism, in Aa.Vv., The Living Handbook of Narratology, http://www.lhn.
uni-hamburg.de/node/67.html, consultato in data 15 ottobre 2019.
5
M. Bachtin, Problemy poetiki Dostoevskogo, Sovetskij Pisatel’, Moskva 1963, p. 131; tr. it. di
G. Garritano, Dostoevskij. Poetica e stilistica, Einaudi, Torino 1968, p. 263.
6
Nota Bachtin: «Ci sono eventi che, per principio, non possono svolgersi sul piano di una
coscienza unica e unitaria, ma presuppongono due coscienze che non si fondono, ci sono eventi di
cui un essenziale momento costitutivo è il rapporto di una coscienza con un’altra proprio in quanto
altra, e sono tali tutti gli eventi creativamente produttivi, che portano il nuovo, eventi unici e irre-
versibili» (Id., Avtor i geroj v estetičeskoj dejatel’ nosti [1922-1924], in Id., Estetika slovesnogo
tvorčestva, Iskusstovo, Moskva 1979, pp. 77-78; tr. it. di C. Strada Janovic, L’autore e l’eroe. Teoria
letteraria e scienze umane, Einaudi, Torino 1988, p. 78).
7
Id., K pererabotke knigi o Dostoevskom (1961), in Id., Estetika slovesnogo tvorčestva, p. 318;
tr. it. di C. Strada Janovic, Piano per il rifacimento dell’opera su Dovstoeskij, in Id., L’autore e l’e-
roe, pp. 330-331.
8
V. Tjupa, Narrative Strategies, in Aa.Vv., The Living Handbook of Narratology, https://www.
lhn.uni-hamburg.de/node/119.html, consultato in data 18 ottobre 2019.
9
Ibidem.
1134 silvia pierosara
10
Cfr. J. Pier, Complexity. A Paradigm for Narrative?, in P.K. Hansen - P. Roussin - W. Schmid
(eds.), Emerging Vectors of Narratology, de Gruyter, Berlin 2017, pp. 533-566.
11
In termini narratologici, ai punti di vista corrispondono diversi tipi di focalizzazione.
semplicità e narrazioni complesse tra empatia e compassione 1135
tal modo, anziché riflettere e mediare con l’alterità in vista della propria auto-
comprensione e della costruzione di orizzonti valoriali, si identifica in modo
immediato con la voce prevalente e, in modo altrettanto immediato, accetta
l’orizzonte valoriale di cui sono portatrici, ignorando la possibilità dell’alterità
e il fatto che quella stessa alterità possa essere fonte di obbligazione morale.
Dall’altro lato, le narrazioni della complessità, a partire dalle caratteristiche for-
mali sopra descritte nei termini di dialogismo e polifonia, promuovono processi
di autocomprensione mediati, sia a livello del soggetto sia a livello dei legami
sociali; mediante il decentramento, l’ascolto di voci provenienti da prospettive
differenti, operazioni che comportano un’elaborazione mediata, un processo di
configurazione e, quindi, una riflessione, le narrazioni della complessità pro-
muovono un lavoro di costruzione comune di orizzonti valoriali. Immediatezza
e mediazione potrebbero dunque accompagnare rispettivamente semplificazione
e complessità narrative.
La narrazione semplificante, immediatamente fruibile dal soggetto per ricono-
scersi dal punto di vista morale, proprio in quanto riflette una «dominanza mono-
logica», può essere utilizzata per produrre e consolidare meccanismi di dominio12.
Il potere e la sua riproduzione – che lo trasforma in dominio cristallizzato13 – sono
legati alla narrazione proprio perché, da un lato, le narrazioni collettive sono in
grado di veicolare aspettative e modificare orizzonti valoriali e di senso e, dall’al-
tro lato, la possibilità di raccontare corrisponde alla distribuzione del potere,
specialmente nei contesti in cui si ravvisa l’esigenza di raccontare altrimenti in
riferimento a esperienze di dolore e sofferenza che chiedono di essere ascoltate.
Secondo Sarah Ahmed, tra gli altri, «la differenziazione tra forme di dolore e sof-
ferenza nelle storie che sono raccontate, e tra le storie dette e quelle non dette, è
un meccanismo cruciale per la distribuzione del potere»14. Togliere voce significa
dunque misconoscere il diritto e la capacità di raccontare: la cattiva narrazione,
narrazione che semplifica, in virtù della sua lettura monologica della realtà, può
rendersi strumento dell’«organizzazione dell’odio»15, gestire le emozioni collet-
12
In tal senso, si potrebbe dire che non ogni narrazione prevalente è anche dominante, intendendo
qui per narrazione dominante una narrazione volta a istituire e a consolidare un dominio. La diffusione
e il consolidamento di una narrazione prevalente non implica che tale narrazione sia anche una nar-
razione di dominio. Tale trasformazione si dà quando la narrazione prevalente non tiene conto della
possibilità della differenza, dell’alterità, relegata a una posizione di invisibilità e subalternità.
13
Si utilizza qui questo termine con riferimento alle riflessioni di Ernesto Laclau intorno al proces-
so di conversione dalla metonimia alla metafora implicato nella costruzione dell’egemonia. La meta-
fora, secondo l’autore, essenzializzerebbe legami di significato che hanno un’origine metonimica con-
tingente. La cristallizzazione dei significati potrebbe richiamare l’idea di una narrazione che semplifica
perché non riconosce la possibilità di essere raccontata altrimenti da parte di un’alterità che esclude
dalla possibilità della presa di parola. Mi pare interessante che la duplicità dei racconti possa trova-
re la sua eco anche all’interno di prospettive filosofiche differenti, se non divergenti. Su egemonia,
metonimia e metafora, cfr. E. Laclau, The Rethorical Foundations of Society, Verso, London 2014.
14
S. Ahmed, The Cultural Politics of Emotions, Edinburgh University Press, Edinburgh 2004, p. 33.
15
Ibi, p. 42.
1136 silvia pierosara
16
H. Meretoja, The Ethics of Storytelling. Narrative Hermeneutics, History, and the Possible,
Oxford University Press, Oxford 2018, p. 112.
semplicità e narrazioni complesse tra empatia e compassione 1137
17
Il tema della simpatia e della compassione in Kant è al centro di alcuni importanti studi, tra cui
si possono ricordare A. Wehofsits, Anthropologie und Moral. Affekte, Leidenschaften und Mitgefühl
in Kants Ethik, de Gruyter, Berlin 2016; Ead., Mitgefühl in Kants Ethik. Die Koltivierung emotiona-
ler Dispositionen, «Deutsche Zeitschrift für Philosophie», 65 (2017), 5, pp. 830-850; M.S. Fahmy,
Active Sympathetic Participation. Reconsidering Kant’s Duty of Sympathy, «Kantian Review», 14
(2009), 1, pp. 31-52; P. Guyer, Schopenhauer, Kant and Compassion, «Kantian Review», 17 (2012),
3, pp. 403-429; M. de Lourdes Borges, Kant on Sympathy and Moral Motives, «ethic@», 1 (2002),
2, pp. 183-199; M. Savi, Sentimento di compassione e amicizia nell’etica kantiana, «La società degli
individui», 18 (2003), 3, pp. 57-76.
18
Lo stesso Bachtin, in riferimento alla simpatia, scrive: «Quando siamo in due, dal punto di
vista dell’effettiva produttività dell’evento, è importante non il fatto che oltre a me c’è anche un’al-
tra persona, sostanzialmente uguale (due persone), ma il fatto che egli è un altro per me, e in questo
senso la sua semplice simpatia per la mia vita non è la nostra fusione in un solo essere e non è la ripe-
tizione numerica della mia vita, ma è un sostanziale arricchimento dell’evento, poiché la mia vita è
co-vissuta da lui in una nuova forma, in una nuova categoria di valore, come vita di un altro che, in
termini di valore, è colorata in modo diverso e in modo diverso è recepita e giustificata rispetto alla
sua propria vita. La produttività dell’evento non sta nella fusione di tutti insieme, ma nella tensione
della propria [essotopia] e distinzione, nell’uso del privilegio del proprio posto fuori degli altri»
(Bachtin, Avtor i geroj v estetičeskoj dejatel’ nosti, pp. 78-79; tr. it., p. 80).
1138 silvia pierosara
19
Si utilizza qui il termine partecipazione sulla scorta della traduzione proposta da Fahmy, Active
Sympathetic Participation, p. 33, che dà risalto alla Teilnehmende Empfindung, ritenendola meno
ambigua della Sympathie.
semplicità e narrazioni complesse tra empatia e compassione 1139
20
I. Kant, Metaphysik der Sitten (1797), in Kant’s Gesammelte Schriften, Preußische Akademie
der Wissenschaften, Reimer, Berlin 1911, Bd. IV, pp. 456-457; tr. it. di G. Landolfi Petrone, Metafi-
sica dei costumi, Bompiani, Milano 2006, pp. 533-535.
1140 silvia pierosara
trario, non viola il recinto della sensibilità, non passa per il linguaggio, non la si
comunica e non è frutto di un processo di deliberazione consapevole e volontario,
diffondendosi e trasmettendosi quasi come una malattia contagiosa:
Di fatto, quando un altro soffre e io mi lascio contagiare dal suo dolore (con l’immagi-
nazione), senza peraltro poterlo aiutare, si finisce col soffrire in due, anche se a sentire
effettivamente (nella natura) il male è uno solo. Ma è tuttavia inammissibile il dovere di
aumentare i mali nel mondo, e di conseguenza non è nemmeno ammissibile fare del bene
per compassione. Oltre tutto si tratterebbe di un tipo di beneficenza offensivo, e in quanto
esprime benevolenza nei riguardi di una persona indegna viene chiamata misericordia. Ma
fra gli uomini che possono vantarsi di essere degni della felicità, la misericordia reciproca
non dovrebbe esistere affatto21.
21
Ibi, p. 457; tr. it., p. 535.
22
Id., Vorlesungen über Moralphilosophie. Moralphilosophie Collins, in Kant’s Gesammelte
Schriften, Bd. XXVII, de Gruyter, Berlin 1974, p. 465; tr. it. di A. Guerra, Lezioni di etica, Laterza,
Roma - Bari 2004, pp. 224-225.
semplicità e narrazioni complesse tra empatia e compassione 1141
23
Id., Grundlegung zur Metaphysik der Sitten (1785), in Kant’s Gesammelte Schriften, Bd. IV, p.
399; tr. it. di F. Gonnelli, Fondazione della metafisica dei costumi, Laterza, Roma - Bari 2009, p. 29.
24
Id., Metaphysik der Sitten, p. 401; tr. it., pp. 417-419.
1142 silvia pierosara
cittadino prova compassione verso altri che vengono oppressi dal principe; il nobile verso
un altro nobile, ma poi egli stesso è duro nei confronti dei contadini25.
25
Id., Bemerkungen (1762-1764), in Kant’s Gesammelte Schriften, Bd. XX, Reimer, Berlin
1942, p. 134, r. 23; tr. it. di K. Tenenbaum, Bemerkungen. Note per un diario filosofico, Meltemi,
Roma 2001, p. 189.
26
Id., Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, pp. 421-422; tr. it., p. 75.
27
Ibi, p. 423; tr. it., pp. 79-81.
semplicità e narrazioni complesse tra empatia e compassione 1143
Non si può volere che l’indifferenza nei confronti della sorte altrui diventi legge,
senza contraddire o danneggiare se stessi: risiede in questa impossibilità di univer-
salizzare l’insensibilità di fronte alla sorte altrui la concomitante necessità di inse-
rire la benevolenza fattiva tra i doveri imperfetti. Si spiega così l’invito, presente
nella Dottrina delle virtù, non soltanto al rispetto del dovere di partecipazione
razionale, ma anche alla cura della simpatia sensibile, che pone l’uomo al ripa-
ro dall’indifferenza. Come è stato opportunamente notato28, anche se in Kant la
simpatia sensibile, estetica è passiva, mentre la simpatia libera è attiva e, di conse-
guenza, solo la seconda costituisce un dovere, l’uomo ha anche il dovere indiretto
di coltivare la simpatia sensibile: «Anche se non è di per sé un dovere condividere
il dolore (e la gioia) con gli altri, è però un dovere partecipare attivamente al loro
destino, e in fin dei conti è dunque un dovere indiretto coltivare in noi sentimenti
naturali (estetici) di compassione e utilizzarli come altrettanti mezzi di comparte-
cipazione in base a principi morali e al relativo sentimento»29.
La coltivazione della simpatia sensibile contribuisce dunque, seppure in modo
indiretto, ad affinare la sensibilità al vissuto altrui, specie se legato alla sofferenza,
lasciando sempre aperto un canale vivente e incarnato, una soglia capace di per-
cepire l’alterità sofferente. Questo non potrà mai diventare il movente dell’agire
morale, ma certamente potrà accompagnare il dovere di partecipazione e quello di
beneficenza o benevolenza attiva. La trasmissività e la contagiosità del sentire il
vissuto dell’altro costituiscono un materiale grezzo su cui le facoltà umane devo-
no, quindi possono, intervenire per finalizzarle alla promozione dei doveri. Se
manca un’educazione del sentire, il contagio può incrementare il male nel mondo
senza poterlo risolvere, può assumere le vesti dell’indifferenza, dell’odio, della
reattività indirizzata solo a chi è percepito come simile.
L’analisi kantiana del sentimento della simpatia è essenziale per almeno due
ragioni che consentono di esplicitare il nesso con le narrazioni semplificanti
e complesse. In primo luogo, Kant identifica la simpatia sensibile o patologica
come un sentimento immediato che si propaga e si trasmette e la simpatia libera o
pratica come frutto di una scelta comunicativa. Tale descrizione permette di asso-
ciare la simpatia patologica alle narrazioni semplificanti; per quanto in Kant tale
disposizione, poiché naturale, sia neutrale dal punto di vista morale, se non indi-
rizzata essa può essere utilizzata per promuovere narrazioni semplificanti, che non
incentivano percorsi di autocomprensione all’insegna del riconoscimento dell’al-
terità, ma si fondano piuttosto sull’univocità, sull’impossibilità di ascoltare le voci
altrui, su una distinzione quasi manichea tra ‘noi’ e ‘gli altri’; d’altra parte, è pos-
sibile associare alle narrazioni della complessità la simpatia pratica, che partecipa
del vissuto altrui mediante comunicazione consapevole, riconoscendo il sentire
dell’altro in quanto altro, dandogli voce e parola. L’immediatezza della simpatia
28
Cfr. Fahmy, Active Sympathetic Participation.
29
Kant, Metaphysik der Sitten, p. 457; tr. it., pp. 535-537.
1144 silvia pierosara
30
Secondo Martha Nussbaum, per esempio, «l’empatia è un’abilità mentale di grande impor-
tanza per la compassione, sebbene di per sé sia fallibile e moralmente neutra» (M.C. Nussbaum,
Upheavels of Thought. The Intelligence of Emotions, Cambridge University Press, Cambridge 2001,
p. 333; tr. it. cit. in P. Costa, Martha Nussbaum. La compassione nei limiti della ragione, «La società
degli individui», 18 [2003], 3, pp. 131-148, qui p. 142). Cfr. anche il recente lavoro di L. Boella,
Empatie. L’esperienza empatica nella società del conflitto, Raffaello Cortina, Milano 2018.
31
A proposito del rapporto tra compassione e distanza, cfr. D. Pagliacci, La compassione tra
prossimità e distanza, in L. Alici (a cura di), Prossimità difficile, Aracne, Roma 2012, pp. 17-40.
32
Cfr. P. Bloom, Against Empathy. The Case for Rational Compassion, Harper & Collins, New York
2016; tr. it. di M. Silenzi, Contro l’empatia. Una difesa della razionalità, Liberilibri, Macerata 2019.
semplicità e narrazioni complesse tra empatia e compassione 1145
33
H. Arendt, On Revolution (1963), Penguin, London 1990, pp. 86-89; tr. it. di M. Magrini,
Sulla rivoluzione, Edizioni di Comunità, Milano 1983, pp. 88-94.
1146 silvia pierosara
34
T.W. Adorno, Minima moralia. Reflektionen aus dem beschädigten Leben (1951), Suhrkamp,
Frankurt a.M. 1976, p. 112; tr. it. di R. Solmi, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, Einaudi,
Torino 1994, p. 97.
35
L’attuale proliferazione di narrativa incentrata sulla ricostruzione della vita privata di alcuni
capi nazisti ha suscitato una vasta riflessione critica intorno alla possibilità e alla moralità dell’empa-
tia nei loro confronti. Un caso emblematico è costituito dal romanzo di J. Littell, Les bienveillantes,
Gallimard, Paris 2006; tr. it. di M. Botto, Le benevole, Einaudi, Torino 2007.
semplicità e narrazioni complesse tra empatia e compassione 1147
36
Secondo Goodin la condizione di vulnerabilità è sempre relazionale, nel senso di relativa al
contesto e agli altri; dalla sua natura relazionale deriva la responsabilità di proteggere i vulnerabi-
li, secondo un approccio consequenzialistico: «Il principio di protezione dei vulnerabili deve esse-
re essenzialmente consequenzialistico nella forma. La sua ingiunzione centrale è di inquadrare le
nostre azioni e scelte in modo da produrre certi tipi di conseguenze, nella fattispecie, quelle che
proteggono gli interessi di coloro che sono particolarmente vulnerabili alle nostre azioni o scelte»
(R.E. Goodin, Protecting the Vulnerable. A Reanalysis of Our Social Responsibilities, The Uni-
versity of Chicago Press, Chicago and London 1985, p. 114). Nel panorama italiano, il concetto di
semplicità e narrazioni complesse tra empatia e compassione 1149
vulnerabilità è stato esaminato in prospettiva bioetica (cfr. L. Alici, Il fragile e il prezioso. Bioeti-
ca in punta di piedi, Morcelliana, Brescia 2016; M. Gensabella, Vulnerabilità e cura. Bioetica ed
esperienza del limite, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008); recentemente, esso è stato affrontato
in chiave etico-politica in M.G. Bernardini - B. Casalini - O. Giolo - L. Re (a cura di), Vulnera-
bilità: etica, politica, diritto, IF Press, Roma 2018 e in chiave multidisciplinare in O. Giolo - B.
Pastore (a cura di), Vulnerabilità. Analisi multidisciplinare di un concetto, Carocci, Roma 2018.
37
C. MacKenzie - J. Poltera, Narrative Integration, Fragmented Selves, and Autonomy,
«Hypathia. A Journal of Feminist Philosophy», 25 (2010), 1, pp. 31-54, p. 47.
38
Ibidem.
39
Ibidem.
1150 silvia pierosara
40
Sulla vulnerabilità relegata all’invisibilità dal contesto e dalle narrazioni dominanti, cfr.
Th. Casadei, La vulnerabilità in prospettiva critica, in Giolo - Pastore, Vulnerabilità, pp. 73-96.
Sulla difficoltà di fornire resoconti divergenti entro narrazioni dominanti che ne impediscono l’e-
mersione, l’articolazione e l’ascolto, cfr. J. Christman, Telling Our Stories in the Master Tongue.
Narrative Selves and Oppressive Circumstance, in C. Cauley (ed.), The Philosophy of Autobio-
graphy, University of Chicago Press, Chicago 2015, pp. 122-140.
41
La distinzione si trova in W.A. Rogers - C. MacKenzie - S. Dodds, Why Bioethics Needs a
Concept of Vulnerability, «International Journal of Feminist Approaches to Bioethics», 5 (2012),
2, pp. 11-38, p. 24. La distinzione fra tre tipologie di vulnerabilità ricorre anche in C. MacKenzie -
W.A. Rogers - S. Dodds, Introduction. What is Vulnerability and Why Does it Matter for Moral
Theory?, in Eadd. (eds.), Vulnerability. New Essays in Ethics and Feminist Philosophy, Oxford Uni-
versity Press, Oxford 2014, pp. 1-29, qui p. 7.
42
Rogers - MacKenzie - Dodds, Why Bioethics Needs a Concept of Vulnerability, p. 24.
43
Ibidem.
44
Ibidem.
45
Ibi, p. 25.
46
Cfr. C. MacKenzie, Vulnerability, Needs and Moral Obligation, in C. Strahele (ed.), Vulnera-
bility, Autonomy and Applied Ethics, Oxford University Press, Oxford 2017, pp. 83-100.
semplicità e narrazioni complesse tra empatia e compassione 1151
Si può notare come la vulnerabilità inerente alla condizione umana sia uni-
versale, riguardi cioè tutti gli esseri umani, mentre la vulnerabilità situazionale
sia legata a un contesto specifico che espone soggetti o gruppi a un incremento
o a un’attualizzazione della vulnerabilità. Entrambe «danno origine a specifiche
obbligazioni morali e politiche: sostenere coloro che sono attualmente vulnera-
bili; e ridurre l’esposizione di alcuni individui, gruppi o popolazioni a evitabili
vulnerabilità attuali, per esempio tramite interventi mirati a compensare specifi-
che vulnerabilità»47. Le misure che si possono adottare per ridurre la sofferenza
derivante dalla vulnerabilità, tuttavia, non sempre centrano l’obiettivo; infatti,
alcune di esse incrementano, anziché diminuire, le vulnerabilità possibili perché
non promuovono l’agency e contribuiscono a rendere i soggetti fragili ancora
più esposti alla sofferenza.
Pertanto, il criterio che deve guidare gli interventi di compensazione o ridu-
zione delle vulnerabilità «deve essere di attivare o ripristinare l’agency di perso-
ne o gruppi vulnerabili, e […] ciò è molto probabile che si raggiunga mediante
interventi che chiamino in causa la loro agency e la loro partecipazione, ovun-
que possibile e nella più ampia misura possibile»48. A partire da tali indicazio-
ni si può esplicitare il legame tra vulnerabilità e narrazioni della complessità. Le
autrici sottolineano che la partecipazione e l’attivazione delle capacità sono criteri
per adottare misure efficaci e non controproducenti rispetto alla vulnerabilità e
alla sofferenza che essa produce. Per poter incentivare agency e partecipazione,
tuttavia, è necessario riconoscere la vulnerabilità, e ciò è possibile in un conte-
sto dialogico e inclusivo in cui i processi di identificazione e autocomprensione
non semplifichino né procedano per stereotipi, ma siano capaci di attenzione alla
singolarità, permettendo l’emersione di voci incoerenti rispetto alla narrazione
prevalente e frammentarie, laddove la frammentarietà può essere indice di vul-
nerabilità. Se non è resa visibile, la vulnerabilità non può essere ridotta; incenti-
vare l’agency significa anche, in quest’ottica, garantire l’accesso alla parola. Se
le misure volte a ridurre la vulnerabilità non operano in tal senso, appoggiandosi
su rappresentazioni semplificanti e stereotipate della vulnerabilità e facendo leva
sull’immediatezza di un sentire piuttosto che sulla mediazione riflessiva, possono
addirittura contribuire ad aggravare le ferite.
A partire da tale riconoscimento, si può sostenere che le narrazioni della com-
plessità sono capaci di dar conto delle tre accezioni di vulnerabilità esposte da
MacKenzie. Quanto alla vulnerabilità inerente, l’autocomprensione di sé come
esposizione interdipendente e incarnata può essere rappresentata in modo fedele
entro narrazioni che presuppongono più voci, che si riconoscono già da sempre in
relazione con un’alterità con cui costruire orizzonti valoriali. Quanto alla vulne-
rabilità situazionale, le narrazioni complesse sono formalmente e strutturalmente
47
Rogers - MacKenzie - Dodds, Why Bioethics Needs a Concept of Vulnerability.
48
Ibidem.
1152 silvia pierosara
5. Conclusione
Il contributo ha preso le mosse da una distinzione tra narrazioni semplificanti e
narrazioni della complessità sulla base di alcune strutture formali che negano o,
viceversa, promuovono il dialogo e il confronto fra prospettive. A partire da tale
differenza e attraverso l’analisi delle loro rispettive caratteristiche formali, si è
rilevato come le prime non siano in grado di riconoscere l’alterità implicata nei
processi di autocomprensione personali e collettivi, offrendo pertanto una lettura
banalizzante, monolitica e quasi manichea delle identità; al contempo, si è potuto
constatare come le narrazioni della complessità, per le loro potenzialità dialogiche
e polifoniche, possano tener conto dell’alterità in quanto tale e includerla dinami-
camente nei processi di autocomprensione. I risvolti etici di tale duplice modalità
narrativa consistono nel fatto che, proprio in quanto strumenti di autocomprensio-
ne, le narrazioni possono essere escludenti o inclusive; possono ignorare oppure
essere responsive rispetto alla possibile vulnerabilità; possono proporre un’idea di
coerenza monologica e già da sempre data oppure, viceversa, interpretare la coe-
renza come un percorso che coinvolge e interpella anche la frammentazione delle
identità vulnerabili.
Si è quindi cercato di collegare tali tipologie narrative con due modalità di
cogliere il vissuto altrui: una immediata, naturale, e l’altra mediata. Se infatti le
narrazioni semplificanti banalizzano i processi di riconoscimento, possono farlo
in virtù di un sistematico misconoscimento dell’alterità a beneficio dell’identità
e della similitudine. Allo stesso modo, le narrazioni della complessità compren-
dono il vissuto altrui in quanto tale, attraverso una riflessione mediata e una ver-
balizzazione del sentire stesso. Tale duplice modalità di cogliere il vissuto altrui è
stata rintracciata nella distinzione kantiana tra humanitas aesthetica e humanitas
practica e ha permesso di trovare una chiave di lettura unitaria rispetto all’odierno
dibattito intorno a empatia e compassione.
Se l’empatia è un sentire l’altro quasi in modo naturale e pre-riflessivo, allo-
ra, proprio in quanto tale, essa è associabile soprattutto alle semplificazioni
narrative: immediatezza e immedesimazione rendono agevole la diffusione e il
rafforzamento di tali narrazioni, che lavorano sulle polarizzazioni banalizzanti,
sulla riproduzione di meccanismi di dominio, sulla cristallizzazione dei rapporti
di forza. Pur essendo un sentimento naturale e indispensabile alla comprensione
1154 silvia pierosara
dell’altro, l’empatia può apparire come ambivalente dal punto di vista morale,
e come tale utilizzabile anche in modo distorto. La compassione, come si è cer-
cato di sostenere, sembra corrispondere meglio alla ricostruzione di forme di
complessità narrativa; pur non prescindendo da alcune critiche a essa, nel pre-
sente contributo si è cercato di evidenziarne la natura ambivalente di sentimento
mediato, che non passa necessariamente per l’immedesimazione ma per il rico-
noscimento dell’umanità che accomuna ciascuno; la «prossimità nella distan-
za», fondamentale per la ricostruzione e l’articolazione di forme di complessità
narrativa, dice di una vicinanza che non si fa mai invadenza, che non ambisce
a catturare l’alterità e che è disposta a negoziare significati e orizzonti valoriali
accogliendo interpretazioni e narrazioni differenti.
Infine, si è cercato di cogliere più in profondità il legame tra vulnerabilità e
narrazioni della complessità, nella persuasione che proprio la compassione, eser-
citabile a partire da ed entro le narrazioni complesse, promuova il riconoscimento
e la cura della vulnerabilità. Dopo aver definito la vulnerabilità a partire dalla tas-
sonomia proposta da studiose come MacKenzie, Rogers e Dodds, si è delineata la
sua connessione con le narrazioni complesse e si è sostenuto come al loro interno
sia possibile riconoscere la vulnerabilità ed esercitare una responsività all’insegna
della riattivazione dell’agency. Immediatezza e mediazione, dunque, appaiono
categorie fruttuose anche per ripensare il riconoscimento e la capacità di accoglie-
re la vulnerabilità. Le narrazioni della complessità, in quanto capaci di mediazio-
ne, possono far fronte alla vulnerabilità esercitando una compassione razionale e
rendendola universalmente vincolante.
Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, CXII (2020), 4, pp. 1155-1177
ISSN: 00356247 (print) - 18277926 (digital)
Analisi d’opere
Angela Ales Bello (a cura di), Edith Stein. Tra passato e presente, Castelvecchi, Roma
2019. Un volume di pp. 315.
Il volume contiene una raccolta di testi elaborati e presentati in diverse occasioni di incon-
tro e confronto sul pensiero e la figura di Edith Stein, realizzate dalla comunità dell’Area
di Ricerca «Edith Stein nella filosofia contemporanea» che Angela Ales Bello ha diretto
presso la Pontificia Università Lateranense di Roma; parecchi fra gli autori dei contributi
sono anche soci del Centro Italiano di Ricerche Fenomenologiche, da lei presieduto.
I saggi sono un compendio del percorso umano, spirituale e filosofico della Fenomeno-
loga. «Pensatrice solitaria», così la definisce Ales Bello, non ha mai considerato la ricerca
© 2020 Vita e Pensiero / Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
esposizione potrebbe essere un’interessante chiave di lettura per ricavare anche una filoso-
fia della storia dalle opere della Stein.
Si soffermano sul tema dei valori in Edith Stein e in Max Scheler Anna Maria Pezzella
(Persona e valori. Una riflessione su Edith Stein) e Daniela Verducci (L’esperienza del
valore in Max Scheler: oltre l’assiologia fenomenologica). Già nella tesi di laurea, Il pro-
blema dell’empatia, la Stein elabora un’antropologia fenomenologica a partire dai valori
in quanto vissuti, perché «il sentire, basato su un vissuto di valore permette alla persona di
costituirsi in quanto tale» (p. 77). La sensibilità nei confronti dei valori ha sede nella pro-
fondità della persona, nel «nucleo», il luogo identitario dell’essere umano. Vivere i valori
consente alla persona di comprendersi in profondità e di capire le persone insieme alle
quali vive. In questa riflessione la Stein segue Scheler e condivide la sua opposizione al
formalismo kantiano: l’unica norma da seguire è la legge dell’amore, una forza universale
che agisce in noi, un dilatarsi delle cose verso la loro immagine originaria, riposta in Dio.
Per approfondire la complessa struttura dell’essere umano, soggetto libero e capace di
atti spirituali, è necessario capire le leggi che vi presiedono. L’analisi che la Stein fa degli
atti spirituali, annota Roberta Lanfredini (Gli atti spirituali della creatività umana: la Stein
fra Husserl e Bergson) può essere avvicinata a quella condotta da Husserl e da Bergson.
La pensatrice rileva nell’essere umano, oltre che un meccanicismo causale che spiega i
suoi comportamenti, una legge fondamentale che è quella della «motivazione», l’elemento
comune e il punto di intersezione delle fenomenologie husserliana e bergsoniana.
La filosofia di Edith Stein si struttura su una molteplicità di percorsi che hanno come
punto di partenza lo studio della persona. Luisa Avitabile (Adolf Reinach, Edith Stein: utopia
e realtà del diritto) prende in esame l’espressione steiniana del diritto incentrato sul concetto
di persona e procede ad un confronto con la fenomenologia del diritto elaborata da Reinach.
La filosofa tedesca ritorna spesso nei suoi scritti sulla antropologia duale dell’esse-
re umano. Francesca Brezzi (Identità femminile: differenza, corporeità e vulnerabilità) e
Angela Ales Bello (Ontologia del femminile) ne mettono a fuoco il pensiero, con passione
e chiarezza, sulla questione femminile. La Brezzi ritiene che l’unica soluzione per supera-
re la crisi dell’identità di genere è la via della medesimezza e dell’individualità, proposta
da Paul Ricœur. Ales Bello propone un’ontologia del femminile che restituisce alla donna
la sua identità e all’essere umano la sua struttura duale.
Dopo la sua conversione al cattolicesimo la Fenomenologa si apre alla filosofia cri-
stiana: è il luogo dove si stabilisce una continuità fra l’esperienza religiosa, la teologia,
e la ricerca affidata all’intelligenza umana. Quasi inevitabile per lei cercare un punto
di intersezione tra la fenomenologia e la filosofia di San Tommaso. Ella rifiuta la teoria
della materia signata come principium individuationis, perché, precisa Rosa Errico (Sul
finito e sull’eterno. Tommaso d’Aquino e Edith Stein), ciò che individualizza e distingue
un individuo non è la quantità di materia, come sembrerebbe sostenere il filosofo dome-
nicano; tuttavia, l’autrice dimostra che si trova nei testi tomasiani anche la «forma»
come principio di individuazione.
La Stein, nella sua opera maggiore, Essere finito e Essere eterno, investiga il rapporto
tra essere umano e Dio, nella sua eternità, per una ricerca approfondita del senso dell’es-
sere e confronta il pensiero tomista con quello fenomenologico. Riccardo Ferri (Sul finito
e sull’eterno: il pensiero di Tommaso d’Aquino nel Commento alle Sentenze) analizza tale
questione, che anche Tommaso affronta nelle sue opere, percorrendo sia la via filosofica
dell’analogia, sia quella teologica della conoscenza di Dio.
Leonardo Messinese (Gustavo Bontadini e la filosofia cristiana) conduce, da profon-
do conoscitore, un confronto esterno sul rapporto filosofia e fede in Gustavo Bontadini,
analisi d’opere 1157
mentre Angela Ales Bello (Dottrina della fede e filosofia in Edith Stein e Hedwig Con-
rad-Martius) approfondisce dottrina della fede e filosofia nella Stein e nella Hedwig Con-
rad-Martius. Interessate entrambe a tutti i campi del sapere, trovano un accordo in ciò
che la comprensione razionale, filosofica o scientifica, consente di cogliere tra l’essere e i
contenuti della Rivelazione.
L’esperienza mistica conclude il percorso esistenziale e filosofico della Stein. Il con-
fronto è con Teresa d’Avila, e Ulrich Dobhan (Due vie, una meta. Paragonando Teresa
d’Avila con Edith Stein) dimostra come le due sante carmelitane abbiano percorso due
strade diverse raggiungendo la stessa meta.
Stimolante è anche il confronto con Gerda Walther su cui torna Angela Ales Bello (Il
senso dell’esperienza mistica: un confronto fra Gerda Walther e Edith Stein). Di nuovo
due itinerari per alcuni versi divergenti, ma che spesso si sovrappongono. Particolare il
metodo di Angela Ales Bello nello studio dell’esperienza mistica: l’autrice utilizza l’ana-
lisi della dimensione hyletica, che riguarda il rapporto fra corpo e psiche e quella noetica,
connessa all’attività intellettuale, come chiave interpretativa del fenomeno della mistica.
Alla fine del percorso si comprende che Edith Stein è una figura di raccordo tra il pas-
sato e il presente. La sua lettura profetica degli eventi, la sua attenzione alla persona e alle
questioni di senso rendono attuale la sua filosofia.
Testo a più voci, questo libro, grazie all’intuito di Angela Ales Bello, fa percepire la
vivacità del dibattito, la vitalità del dialogo. Destinato a docenti, studenti, cultori della
materia, è in grado di coinvolgere e affascinare lettori attenti e interessati alla figura di
Edith Stein, alla sua ricerca della verità e al suo cammino di santità.
Clementina Carbone
Questa è la traduzione italiana, curata da Paola Bernardini, di un volume che Robert Audi
ha pubblicato nel 2007 presso Oxford University Press sotto il titolo Moral Value and
Human Diversity.
Audi non ha bisogno di presentazioni: professore presso il Dipartimento di Filosofia
della Notre Dame University (USA) e presso l’Australian Catholic University, è editor del
Cambridge Dictionary of Philosophy. In passato è stato anche presidente della American
Philosophical Association e della Society of Christian Philosophers.
Il libro ora tradotto in italiano, che il suo Autore definisce «a short non-technical book»,
non è soltanto un libro di etica, come il titolo suggerisce: è anche un libro attraversato da
una tensione etica e civile. È un libro scritto da un accademico che è convinto che, rispetto
alle grandi sfide etiche del nostro tempo, «le università e le altre istituzioni educative»
svolgano «un ruolo chiave» (p. 150). Non è dunque un libro rivolto semplicemente ad altri
accademici, ma si fonda sulla convinzione che il mondo accademico abbia precisi doveri e
precise responsabilità nei confronti dell’umanità intera.
È un libro che definirei umanistico. Prima di spiegare il senso di questa affermazione,
vorrei tuttavia presentarne brevemente il contenuto e l’argomentazione.
Il problema di partenza è così espresso: «Può l’etica offrire delle regole dell’agire
rispettose della dignità intrinseca di ciascuno, favorendo così la risoluzione pacifica dei
conflitti? Questa è la speranza della maggior parte dei filosofi morali. Tuttavia, essi non
vanno tra loro d’accordo e il loro dissenso ha indebolito la fiducia che molti ripongono
nella capacità dell’etica di superare le divisioni» (p. 5).
1158 analisi d’opere
In quarto luogo, per l’apertura universale, senza tuttavia negare la pluralità dei pos-
sibili modi di realizzare questa universalità. Lo sforzo di combinare teorie, tradizioni e
prospettive tradizionalmente antagoniste (virtue ethics e rule ethics, teorie deontologiche
e consequenzialiste…) ha molto della ricerca umanistica di una sintesi universale. In ogni
prospettiva etica può essere rinvenuto qualcosa di vero e di buono. Ma, per essere capaci
di distinguere e discernere cosa è buono e vero, occorre coltivare la propria umanità.
In quinto luogo, perché il libro non sceglie di abbandonare la questione del valore e
di ciò che è bene, limitandosi a ciò che è giusto. Non si rassegna cioè a una concezione
quantitativa dell’etica (che cosa e quanto ci dobbiamo gli uni gli altri), ma prende sul
serio la ricerca qualitativa del valore (il bene). E anche questa è una preoccupazione
tipicamente umanistica.
Infine, perché neanche il parallelo tra etica e scienza ha un intento antiumanistico.
Al contrario: serve ad affermare l’oggettività e la fallibilità di entrambe. In entrambe è
possibile disaccordo perché in entrambe giocano un ruolo la libertà e la creatività: non
sono necessariamente determinate. Il ché significa affermare il lato umanistico dell’etica
e della scienza.
Per tutti questi motivi, ritengo che questo sia un libro profondamente umanistico e di
grande interesse per un ripensamento generale dell’etica, in senso non soltanto tecnico.
Si tratta di un buon punto di partenza rispetto al quale alcune questioni mi pare rimanga-
no tuttavia aperte.
La prima: il libro individua tre fattori fondamentali dell’etica nella felicità, nella giu-
stizia e nella libertà, di modo che gli standard etici dovrebbero ispirarsi al perseguimento
di questi tre beni. Audi spiega accuratamente che cosa si debba intendere per felicità e per
giustizia, ma significativamente non problematizza mai la libertà: la dà per scontata, inten-
dendola come una caratteristica originaria dell’essere umano (libero e razionale secondo
Kant) e come un diritto. Mi chiedo tuttavia se l’etica non dovrebbe considerare anche la
libertà come una parte importante del compimento umano che essa persegue. Nasciamo
capaci di libertà, ma diventiamo realmente liberi nel tempo, grazie alle nostre interazio-
ni umane, agli esempi che riceviamo, alle persone che decidono liberamente di amarci...
Considerare la libertà esclusivamente come una caratteristica originaria dell’essere umano
e come un diritto fondamentale da proteggere corrisponde a una concezione politica della
libertà. «Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti» recita non a caso
la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948. Ma questa comprensione politica
si basa su un’astrazione che deve essere intesa come un ideale regolativo, non come un
dato di fatto. La libertà è certamente un diritto fondamentale da proteggere, ma è anche un
compito e una virtù da coltivare. L’assenza di vincoli esterni è una condizione necessaria
ma non sufficiente affinché la libertà possa realmente svilupparsi. Una prima questione
aperta è dunque quella di una problematizzazione non sufficiente della libertà.
La seconda: sono molto interessanti le considerazioni sulle intenzioni dei nostri atti,
considerazioni che vanno nella direzione di accorciare la distanza tra ciò che è esigibile
e ciò che è invece supererogatorio: «Se nel soddisfare gli obblighi morali compio solo
ciò che è strettamente richiesto, la mia esistenza ne uscirà impoverita e il mio contributo
all’altrui fioritura risulterà molto limitato. Senza dubbio chiunque adempie gli obblighi
morali per le ragioni giuste – secondo quello che i più importanti filosofi della morale
definiscono le giuste intenzioni – sarà meno incline a compierle solo in maniera minima.
Se mantengo le promesse mosso dalla virtù della fedeltà, pongo riparo agli errori a causa
di un genuino senso di rimorso e compio delle buone azioni a motivo della benevolenza,
riuscirò ad agire nel migliore modo possibile e a adempiere, in alcuni casi, atti supraero-
1160 analisi d’opere
gatorii. Anche quando così facendo avrò adempiuto gli obblighi morali in minima parte
(ad esempio saldando il mio debito) non li avrò meramente compiuti. Li avrò infatti
adempiuti con quel tipo di motivazione che mi rende moralmente irreprensibile» (p. 82).
Il concetto potrebbe essere così espresso: il supererogatorio è un ‘massimo’ rispetto al
‘minimo necessario’ che mi è richiesto, e tuttavia è un ‘massimo necessario’ per il com-
pimento della mia e altrui umanità. Se mi limito solo a ciò che è strettamente richiesto ed
esigibile, la mia esistenza ne uscirà impoverita. Se tutto questo è vero – e io credo che lo
sia – mi chiedo se a quella che nel libro è chiamata un’«etica dell’amore» non si dovreb-
be riconoscere un ruolo più importante nella riflessione morale: non solo nell’etica teo-
logica ma anche nell’etica filosofica. Se la realizzazione della nostra umanità dipende
da qualcosa che è aldilà di quanto è strettamente esigibile, non è questo un buon motivo
razionale per riconoscere all’etica dell’amore un posto centrale nella teoria morale? È
quello che ho provato ad argomentare nel mio volume Il massimo necessario. L’etica
alla prova dell’amore (Mimesis, Milano 2020).
La terza: il libro combina varie teorie etiche mostrandone una compatibilità di fondo.
Nei termini di Thomas Kuhn, si potrebbe dunque immaginare che le varie teorie siano
tutte componibili all’interno di uno stesso grande paradigma morale. Dobbiamo dunque
concludere di non aver bisogno di alcuna rivoluzione in etica? Non esistono anomalie che
minaccino il nostro attuale paradigma morale? La ricerca di un accordo oltre ogni inutile
polarizzazione è certamente apprezzabile e finanche auspicabile, affinché la discussione
etica non si converta in dibattito politico. E tuttavia occorre chiedersi se tutto è effettiva-
mente componibile o se non ci sia qualcosa di importante che stiamo escludendo affinché
tutto torni: la questione, appena evocata, dell’amore mi pare un caso emblematico.
La quarta riguarda la traduzione italiana del testo, che è fatta molto bene. E tuttavia la
scelta del titolo non appare felice: la diversità umana a cui si fa riferimento nel titolo origi-
nale dell’opera non indica una differenza di tipo soltanto culturale, come il titolo italiano
lascia invece intendere.
Stefano Biancu
Giovanni Catapano - Onorato Grassi (a cura di), Rappresentazioni della natura nel
Medioevo, sismel - Edizioni del Galluzzo, Firenze 2019 (Micrologus Library 94). Un
volume di pp. 340.
Il volume raccoglie i contributi del XXIII convegno della Società Italiana per lo Studio del
Pensiero Medievale (SISPM), svoltosi a Padova dal 24 al 27 maggio 2017 e organizzato in
collaborazione con il Centro Interdipartimentale di Ricerca di Filosofia Medievale (CIR-
FIM) dell’Università di Padova. La prefazione dei curatori, oltre a contestualizzare il volu-
me nel panorama internazionale degli studi sull’idea medievale di natura, sottolinea come
la sua ricchezza di significati abbia motivato la scelta di contributi appartenenti ad ambiti
disciplinari diversi, per rendere ragione del modo in cui la natura fu concepita, immaginata
e artisticamente rappresentata dagli uomini del medioevo. La prefazione esplicita inoltre
l’intento dei contributi di porre attenzione ai modi medievali della rappresentazione della
natura, al fine di far emergere la coscienza con cui l’età media si rapportò a questo oggetto
polisemico. Conseguentemente, l’ordine degli studi raccolti, così come già quello degli
interventi al convegno padovano, non è diviso per discipline, ma segue grosso modo un
ordine cronologico, che va dall’età patristica all’umanesimo. Le numerose e dense rifles-
sioni presentate dagli autori possono qui soltanto essere brevemente riepilogate.
analisi d’opere 1161
Il volume si apre con tre contributi a tema filosofico e teologico. Alessandro Scafi
(Natura perfetta nell’Eden: un’utopia medievale) mostra come da un’opzione ermeneuti-
ca, l’interpretazione letterale della creazione divina dell’Eden, discenda la strutturazione
della geografia medievale, illustrata dall’autore attraverso la riproduzione di mappe del
mondo medievali; e come la riflessione filosofica, in particolare con Tommaso d’Aquino,
veda nell’Eden il luogo della perduta perfezione naturale umana.
Enrico Moro si sofferma su uno dei testi fondanti per la concezione medievale della natu-
ra nel suo Rappresentazioni della natura nel De genesi ad litteram di Agostino, analizzando
quattro nuclei tematici interconnessi: l’articolazione dell’attività di creatio divina, il rappor-
to fra conditio e administratio delle creature da parte della divinità, il ruolo assegnato all’in-
dagine scientifica della natura, il rapporto fra ordine naturale ed evento sovrannaturale.
Clelia Crialesi (Un approccio matematizzante nell’analisi della realtà naturale:
l’Explanatio in calculo Victorii di Abbone di Fleury) esamina il caso di Abbone di Fleury
(m. 1004), mostrando i suoi rapporti con la tradizione tardoantica e altomedievale legata
alle arti del quadrivio, coniugata con l’indicazione biblica di Sap. 11, 21 (omnia in mensu-
ra et numero et pondere disposuisti), nonché le implicazioni della razionalità matematica
intrinseca al mondo naturale secondo il pensiero di Abbone.
A questi primi contributi, idealmente accomunati dall’attenzione all’atto creatore divi-
no come fondamento della natura e alle sue relazioni con la conoscenza umana della natu-
ra, segue l’indagine di Paola Carusi (Natura, nature. Mizāǧ, trasmutazione alchemica e
filosofia aristotelica), che prosegue la riflessione sulla scienza della natura in ambito ara-
bo: vengono messe in luce le due accezioni salienti della nozione di natura nell’alchimia
araba, quella cosmologica e quella coinvolta nella trasmutazione degli elementi e delle
loro qualità, specialmente attraverso il caso di al-Ṭuġrā’ī (m. 1121), critico di Avicenna.
Il vasto ruolo della natura nella metaforica poetica medievale (latina e romanza) viene
affrontato dallo studio di Valeria Russo (L’espressione dell’anima e la parola del corpo:
su alcuni significati del tópos di matrice naturalistica nella lirica cortese), la quale si
concentra in particolare sulla lirica occitanica e francese, ravvisandovi una significativa
erosione della carica spirituale della descrizione naturalistica ai fini della rappresentazione
della tensione amorosa (un’evoluzione il cui rappresentante più compiuto viene individua-
to in Thibaut di Champagne).
I due articoli seguenti si soffermano sul pensiero di Tommaso d’Aquino. Fabrizio
Amerini (Limiti e significato di «natura»: Tommaso d’Aquino lettore di Aristotele) mette
in luce l’elaborazione della riflessione di Tommaso sulla nozione di natura: debitore del-
la suddivisione di natura nel Contra Eutychen et Nestorium di Boezio nella produzione
giovanile, egli cerca di compenetrarne le indicazioni con quelle di Averroè e di Alberto
Magno nel suo più tardo commento a Metafisica Δ 4.
Andrea Porcarelli (La rappresentazione della natura umana «sulla linea di orizzon-
te» in Tommaso d’Aquino e i suoi riflessi nel personalismo pedagogico del XX secolo)
mostra come un’idea tomista di derivazione neoplatonica, l’immagine dell’uomo ‘oriz-
zonte’ fra dimensione sensibile e sovrasensibile, motivi lo statuto peculiare dell’essere
umano come unico essere educabile: un’idea di cui l’autore illustra la persistenza nella
pedagogia personalista contemporanea.
Altri due contributi esaminano l’interazione fra natura e legge nella teorizzazione giu-
ridica medievale. Riccardo Saccenti (Impressio legis aeternae. La legge naturale nel trat-
tato de legibus di Giovanni de La Rochelle) si rifà alle Quaestiones de legibus attribuite
a Giovanni de La Rochelle (m. 1245), mostrando come quest’opera presenti una suddivi-
sione dell’idea di legge destinata a influire sulla riflessione medievale successiva (essa è
1162 analisi d’opere
ad esempio una fonte della corrispondente discussione nella Summa fratris Alexandri):
fra le ragioni della sua novità vengono segnalate in particolare la derivazione della legge
naturale dalla legge eterna (consistente nella ragione e nella volontà divine) nei termini per
così dire esemplaristi di una impressio, nonché l’articolata riflessione sui rapporti fra legge
naturale e libero arbitrio.
Giovanni Rossi («Iurisconsultus principia iuris […] trahit a principiis naturae»: la
riflessione sulla natura in Alberico da Rosate e Baldo degli Ubaldi) indica come nel caso
di due eminenti giuristi trecenteschi, Alberico da Rosate (m. 1360) e Baldo degli Ubaldi
(m. 1400) – quest’ultimo forte di una peculiare cultura classica –, la natura costituisca il
termine di riferimento che, pur nella sua polisemia difficilmente riducibile, può svolgere
un ruolo creativo e regolatore per la normatività giuridica.
Anche la riflessione sull’arte musicale nel medioevo è rappresentata, grazie ai due con-
tributi di Paola Dessì e di Antonio Lovato. La prima dedica il suo contributo a I madrigali
di Bartolino da Padova: lessico naturalistico e livelli di significazione. Dessì mostra che,
contrariamente all’opinione dominante negli studi musicologici, si può riscontrare anche
nella produzione musicale medievale una sofisticata interazione fra il livello di significa-
zione testuale e quello musicale, illustrata attraverso l’esempio di Bartolino da Padova,
attivo intorno alla metà del Trecento.
Lovato propone una riflessione musicologica intitolata La plenitudo vocis articolata e
letterata nella musica armonica di Marchetto da Padova. Egli mostra come questo com-
positore (vissuto fra XIII e XIV secolo), nel suo Lucidarium in arte musice plane, avvicini
notevolmente la dignità e le funzioni della voce canora a quelle del linguaggio verbale,
sottraendola così in sede teorica al suo ruolo subalterno di mezzo espressivo riservato a
contenuti solamente affettivi o simbolici.
I due articoli seguenti riportano il lettore alla riflessione filosofica sulla natura, stavolta
nell’ambiente delle università del XIV secolo. L’interessante studio di Fabio Zanin (Forme
artificiali e separabilità degli accidenti. Il dibattito su natura e arte a Parigi alla metà del
XIV secolo) riconsidera la cosiddetta «fisica parigina» del XIV secolo, nota sotto il nome di
«scuola di Buridano», restituendone un’immagine meno monolitica rispetto alla vulgata: dai
testi di Oresme (particolarmente problematici), Alberto di Sassonia, Buridano e Marsilio di
Inghen emerge un complesso di soluzioni assai articolate attorno al tema prescelto, il rap-
porto fra natura e arte, legato a doppio filo al problema più generale della separabilità degli
accidenti dalla sostanza. Malgrado infatti diverse tesi comuni – come la considerazione della
forma artificiale alla stregua del frutto di un moto deliberato, l’accidentalità dell’arte come
principio di moto e la continuità fra natura ed arte – emergono al contempo significative
divergenze circa la validità della distinzione fra res naturales e res artificiales.
Il contributo di Chiara Beneduce (La fisiologia del tatto nel XIV secolo: il caso di
Giovanni Buridano) si propone di incominciare a colmare una lacuna negli studi sulla
psicologia e la fisiologia nel XIV secolo. L’autrice si sofferma in particolare sull’analisi
medievale del senso del tatto: una questione che sollevava significative problematiche di
ordine teorico, come ad esempio l’individuazione dell’organo di questo senso e del suo
sensibile proprio. Beneduce illustra l’approccio di Giovanni Buridano a questo tema, sot-
tolineando come egli coniughi psicologia aristotelica e conoscenze mediche, senza temere
di rifiutare le soluzioni armonizzanti dei suoi predecessori.
I due studi seguenti riconducono il lettore al versante storico-artistico delle rappresen-
tazioni medievali della natura. Zuleika Murat (Rappresentare la natura incorrotta: cas-
se reliquiario e corpi santi a Venezia fra XIII e XIV secolo) si sofferma sulle modalità
di ostensione e di accompagnamento figurativo dei corpi incorrotti di santi conservati a
analisi d’opere 1163
Venezia. L’autrice indica come questi elementi legati al culto dei santi corroborassero l’au-
tenticità del corpo, la sua identificazione, la sua efficacia miracolosa e istituissero al tempo
stesso un legame fra la reliquia e il luogo sacro della sua conservazione.
Il contributo congiunto di Chiara Ponchia e Federica Toniolo (Dal margine al centro:
raffigurazioni di natura nei manoscritti miniati tra XIII e XV secolo) segue lo sviluppo del
naturalismo descrittivo nelle miniature di manoscritti medievali fra XIII e XV secolo, esa-
minando in particolare le raffigurazioni di animali e piante: da una rappresentazione ancora
legata a valenze allegorico-morali e alle suggestioni dei bestiari, spesso relegati nei margini
dei codici manoscritti, si può scorgere un’evoluzione verso rappresentazioni più attente alla
riproduzione fedele dell’oggetto naturale e al suo utilizzo pratico (ad esempio in farmacolo-
gia), tali da conquistarsi piena autonomia rappresentativa nella pagina manoscritta.
Iolanda Ventura (Scienza della natura e farmacologia accademica tra XIII e XIV
secolo: un progetto di lavoro) esamina lo studio accademico della farmacologia fra XIII
e XIV secolo. Da un lato, l’autrice offre un tentativo di riesame delle fonti della farma-
cologia accademica medievale, mostrando come, a partire dal Liber canonis di Avicen-
na, altri autori medievali (in particolare Dino del Garbo e Giovanni di Saint-Amand)
sviluppino la riflessione sulle qualitates primariae, secundariae e tertiariae dei medica-
menti semplici. Dall’altro, l’autrice mette in luce l’arricchimento di queste conoscenze
teoriche grazie ai tentativi medievali di classificazione e descrizione delle proprietà tera-
peutiche degli oggetti naturali.
Gli ultimi due contributi del volume sono nuovamente dedicati all’ambito storico-ar-
tistico. Xavier Barral i Altet (La terra, l’acqua, e i loro abitanti: a proposito della rap-
presentazione della natura nell’arte monumentale romanica) sceglie di concentrarsi sui
modi della rappresentazione di due domini del mondo naturale: l’acqua e la terra. Egli
illustra questo tema portando il caso di alcuni mosaici pavimentali romanici, dell’arazzo
di Bayeux (XI secolo) e della descrizione della camera della contessa di Blois contenuta
nel poema di Baudri de Bourgeil (vissuto fra XI e XII secolo). Da queste rappresentazioni
emerge complessivamente una interazione fra descrizione naturalistica, natura fantastica e
richiami biblici (ad esempio alla Genesi) e simbolici, in cui gli elementi naturali talvolta si
richiamano tra loro in maniera speculare.
Remy Simonetti (Ipso ex naturae gremio. La natura come modello nel pensiero e nella
pratica architettonica di Leon Battista Alberti) affronta il tema del rapporto fra concezione
della natura e riflessione architettonica secondo Leon Battista Alberti: la natura, sintesi
ottimale di bellezza armonica e semplice, da un lato, e di funzionalità, dall’altro, costitui-
sce il modello per la realizzazione architettonica e figurativa. Coerentemente, Alberti isti-
tuisce un complesso di analogie fra organismi naturali e strutture architettoniche, e in sede
teorica include fra i compiti dell’architetto lo studio, orientato alla pratica, della regolarità
matematica riscontrabile nella natura, intesa come insieme di leggi.
Le conclusioni di Agostino Paravicini Bagliani forniscono una prima proposta di let-
tura interpretativa dei contributi raccolti, suggerendo alcuni collegamenti tematici ad essi
trasversali e così valorizzandone la scelta multidisciplinare e l’ampio raggio cronologico.
Le tavole di illustrazioni a colori contribuiscono al pregio del volume e, soprattutto,
forniscono un apprezzabile sussidio alla lettura dei vari contributi. La varietà dei temi
affrontati, oltre a rendere questa raccolta utile a specialisti di varie discipline, ben restitui-
sce la multiformità della natura medievale e delle sue rappresentazioni.
Giovanni Mandolino
1164 analisi d’opere
Ciro De Florio - Aldo Frigerio, Divine Omniscience and Human Free Will. A Logical and
Metaphysical Analysis, Palgrave Macmillan, London 2019. Un volume di pp. XV + 268.
Immaginate che qualcuno sia in grado di raccontarvi oggi tutto quello che farete domani e
tutto il resto della vostra vita. Questa persona sa già tutto quello che farete domani e tutto
il resto della vostra vita. Ergo, è già vero che domani farete x. Se è già vero oggi che farete
x domani, allora non potete scegliere di fare altrimenti. Dunque, il libero arbitrio, inteso in
senso libertario come libertà o meno di fare x, non è che illusione. Si tratta di un problema
serio, almeno per chi crede che ci sia effettivamente qualcuno in grado di sapere oggi che
cosa gli uomini faranno domani e per il resto delle loro vite, cioè Dio.
In questa monografia Ciro De Florio e Aldo Frigerio propongono un’analisi di que-
sto problema fornendo ai lettori preziosi strumenti dal punto di vista logico e metafisico,
sviscerandone a fondo i presupposti più impliciti, cosicché si possano trovare il maggior
numero di soluzioni possibili e valutarne anche i costi teoretici.
Dal punto di vista della topologia del tempo, affinché si possa difendere il libero arbi-
trio è fondamentale che il futuro sia aperto, cioè che a partire da un istante t si offra-
no all’agente diverse possibilità di azione tra cui scegliere. Il futuro non è lineare, ma si
dirama in molteplici direzioni. Per quanto riguarda il passato invece supponiamo che sia
chiuso, cioè che vi sia un solo passato che non è più possibile cambiare. Il problema è
dunque se sia possibile affermare che nel passato Dio sapeva che l’agente a avrebbe fatto
x, pur mantenendo che il futuro sia aperto, cioè che a avrebbe potuto fare altrimenti. Dato
che non è possibile cambiare la credenza passata di Dio, allo stesso modo in cui non posso
cambiare un fatto passato, è difficile credere che a avrebbe potuto influire sul suo futuro
decidendo di non compiere l’azione oggetto della prescienza divina.
A partire da una tale impostazione del problema vi sono quattro famiglie di soluzioni
che vengono analizzate dagli autori: (1) le soluzioni estreme; (2) l’occamismo; (3) il moli-
nismo; (4) l’atemporalismo.
Le soluzioni estreme discusse nel capitolo terzo sono quelle negano uno dei due corni
del dilemma: negano il libero arbitrio per salvare la prescienza divina (determinismo teo-
logico) oppure negano la prescienza divina per salvare il libero arbitrio (open theism).
L’occamismo e il molinismo sono accomunati dall’assunto che la conoscenza di Dio
sia temporalmente localizzata e dalla negazione del principio di necessità del passato. Può
essere il caso che il fatto che sia vero ieri che «domani David farà x» dipenda proprio dalla
realizzazione futura di quel fatto. Tuttavia, queste due posizioni presentano importanti dif-
ferenze dal punto di vista dell’armamentario teoretico.
L’occamismo afferma che fra i tanti futuri possibili ve ne sia uno che è aleticamente
privilegiato: si tratta del futuro che avrà effettivamente luogo. Sarà esso a determinare le
credenze passate di Dio. Se il futuro fosse diverso allora lo sarebbero state anche le cre-
denze passate di Dio. Si tratta dunque di un caso di backward causation o almeno di una
certa dipendenza del passato dal futuro, seppur in forma lieve.
Il molinismo invece è caratterizzato dal suo impiego dei cosiddetti «condizionali della
libertà» (CL), cioè da quei fatti riguardanti cosa farebbe liberamente un agente posto in
alcune circostanze (che includono le opzioni tra cui l’agente deve scegliere, le sue moti-
vazioni, i suoi stati fisici e mentali, ecc.). Secondo i molinisti, per ogni agente possibile, e
per ogni set di circostanze, vi è soltanto un CL vero. Prima di creare il mondo, attraverso
la sua «scienza media» Dio conosce tutti i CL e tutte le verità necessarie. Nello spazio di
possibilità lasciato dalle verità necessarie e dai CL Dio sceglie di creare il mondo che più
soddisfa i suoi piani. Se Dio conosce i CL e sa quale mondo ha creato, allora sa già quali
analisi d’opere 1165
azioni libere compiranno gli agenti in futuro. Anche in questo caso viene negato il princi-
pio di necessità del passato dato che le credenze divine passate dipendono da quello che
faranno gli agenti in futuro nel modo in cui abbiamo visto sopra.
Mi pare però che questo punto controverso, cioè la dipendenza delle credenze passate su
fatti futuri non sia così chiaro. Se ho descritto bene l’argomento tale conclusione potrebbe
essere un po’ troppo affrettata. Per affermare la conoscenza di Dio dei futuri contingenti è
sufficiente, mi sembra, affermare che Dio conosca quale mondo ha creato e quali siano i CL,
senza che si debba ammettere una violazione del principio di necessità del passato.
Dal punto di vista metafisico, argomentano De Florio e Frigerio, il problema più
grande di questa soluzione riguarda il fatto che sia difficile capire che cosa renda veri
i CL. Che cosa nel mondo attuale può rendere vera la proposizione che, messo in una
certa circostanza C, l’agente a compirà liberamente x? Non può essere un fatto attual-
mente esistente, dato che tale proposizione è vera a prescindere dall’ottenimento di tale
circostanza.
Gli occamisti invece hanno vita più facile quando si tratta di spiegare che cosa ren-
da vera una proposizione riguardante un’azione libera futura. È sufficiente sposare una
metafisica eternalista di tipo B, secondo cui gli eventi passati, presenti, futuri esistono tutti
allo stesso modo. A rendere vera una proposizione riguardante un’azione libera futura è
proprio quell’azione che esiste tanto quanto un’azione presente. Una tale metafisica del
tempo, secondo cui la realtà temporale non è che un blocco statico in cui nessun tempo è
privilegiato rispetto agli altri, va contro al senso comune che, favorendo l’esistenza di un
tempo privilegiato rispetto agli altri, cioè il presente, considera il tempo come una realtà
dinamica dato che l’esser presente viene attribuito a entità sempre diverse fra loro mentre
il tempo passa – si parla in questo caso di teoria A del tempo.
L’atemporalismo è la tesi secondo cui l’eternità di Dio non è da interpretare in senso
temporale (così come fanno occamismo, molinismo e open theism), cioè come infinità di
tempo, ma come assenza di tempo, come atemporalità. Si tratta della posizione tradizio-
nale riguardo al rapporto fra Dio e il tempo. Si è soliti affermare in letteratura che questa
posizione non è compatibile con la teoria A del tempo, poiché è impossibile che Dio
conosca in modo atemporale e immutabile i fatti tensionali che cambiano continuamente
con il passare del tempo. Ad esempio, non è possibile che Dio sappia sempre quale tem-
po è presente, dato che questo fatto cambia continuamente. Data una teoria A del tempo,
Dio non è onnisciente.
La soluzione atemporalista al problema della prescienza divina, combinata dunque
con l’eternalismo di tipo B descritto sopra, consiste nel negare che la conoscenza di Dio
abbia collocazione temporale, negando quindi che sia prescienza. Ogni istante è presen-
te a Dio allo stesso modo. Quindi Dio vede ogni azione libera a ogni istante allo stesso
modo in cui noi vediamo un’azione libera che viene compiuta nel momento presente
davanti ai nostri occhi. In questo caso non c’è più una forma di backward causation,
ma è necessario affermare una forma di dipendenza delle credenze divine atemporali da
fatti temporali.
Nel capitolo dedicato alla soluzione atemporalista gli autori, analizzando la questione
se sia possibile o meno riconciliare la teoria A del tempo con l’atemporalismo divino,
sostengono che per compiere quest’ultima operazione è necessario accettare una versione
non-standard della teoria A: il frammentalismo di Kit Fine (cfr. Tense and Reality, in Id.,
Modality and Tense. Philosophical Papers, Oxford University Press, Oxford 2005, pp.
261-320). Secondo Fine la realtà è costituita da un’infinità di frammenti corrispondenti ad
ogni istante. Prendendo un qualunque tempo t0 il frammento della realtà corrispondente
1166 analisi d’opere
è quello in cui t0 è presente. Gli istanti precedenti a t0 sono passati e quelli successivi a t0
sono futuri. C’è poi un altro frammento della realtà, quello corrispondente a t1, dove è t1 a
essere presente e gli altri istanti sono futuri o passati. In questo caso Dio sarebbe in grado
di conoscere tutti i fatti tensionali senza che debba mutare in alcun modo. La conoscenza
di Dio coprirebbe tutti i frammenti, tutte le prospettive. Anche in questo caso secondo gli
autori vi sarebbe una dipendenza delle credenze atemporali di Dio da fatti temporali.
La nozione di prospettiva gioca un ruolo importante nella soluzione proposta da De
Florio e Frigerio. Infatti, essi arricchiscono la metafisica frammentalista introducendo la
semantica prospettica, il cui nocciolo è il seguente: la valutazione di una proposizione
dipende sia dal punto in cui viene valutata, sia dalla prospettiva da cui viene valutata (p.
240). Se David compie un’azione libera x a t1, sembra intuitivo poter dire che a t0, dato
l’indeterminismo, non è né vero, né falso che «David farà x a t1». Tuttavia, se consideria-
mo tale azione a t2 sembra pure intuitivo che a t0 era già vero che David avrebbe compiuto
x a t1, perché lo ha effettivamente fatto. Uno scommettitore che ha scommesso con suc-
cesso riguardo all’azione di David direbbe che aveva ragione a t0 (p. 242). La semantica
prospettica permette di modellare questa situazione: a t0, dalla prospettiva t0 non è né vero
né falso che «David farà x a t1»; dalla prospettiva t2, invece, è vero a t0 che «David farà x a
t1». Nonostante questa semantica sia perfettamente compatibile con l’eternalismo di tipo B
in cui le prospettive sono interpretate come indessicali, sembra più naturale leggerla attra-
verso una teoria A del tempo interpretando le prospettive come tratti oggettivi del mondo.
Adottando il frammentalismo, la prospettiva può venire concepita come il presente ogget-
tivo di quel frammento che determina il valore di verità di tutte le proposizioni riguardan-
ti i fatti tensionali contenuti in quel frammento. Così facendo si può affermare che Dio
conosce tutti i fatti tensionali poiché conosce tutte le proposizioni vere in ogni frammento,
sapendo ad esempio che dalla prospettiva di t0, a t0 è indeterminato che «David farà x a t1»
e che è vero dalla prospettiva di t2.
Il sostegno a questa soluzione dal punto di vista metafisico, come ammettono gli stessi
autori, comporta certamente un costo non indifferente. Prendere sul serio il frammentali-
smo significa credere che la realtà, in fin dei conti, sia incoerente. Infatti, fanno parte della
realtà allo stesso modo tanto il frammento in cui è presente il fatto che «David è seduto»
e il frammento in cui è presente fatto che «David è in piedi». Vi è una realtà frammentata
e incoerente. Se è così, è incoerente pure la conoscenza di Dio, che copre, come abbiamo
detto, tutti i frammenti della realtà.
Mi sembra anche importante notare che questa soluzione si discosta dalla visione
classica dal punto di vista teologico. Secondo Agostino, Boezio e Tommaso d’Aquino la
conoscenza atemporale di Dio degli eventi temporali non dipende dagli eventi. È invece
la conoscenza di Dio a essere la causa degli eventi. Un autore che forse non è di questo
avviso è Anselmo se vogliamo credere a Katherin A. Rogers (cfr. Anselmian Eternalism:
The Presence of a Timeless God, «Faith and Philosophy», 24 [2007], 1, pp. 3-27), la quale
afferma che Anselmo, pur di salvare il libero arbitrio, era disposto ad accettare che Dio
potesse imparare (atemporalmente) dalle sue creature ed esserne influenzato: sono le scel-
te degli uomini a causare la conoscenza di Dio di esse.
Il pregio di questo testo non riguarda unicamente l’interessante soluzione originale
proposta da questi due autori, ma anche l’approfondimento molto rigoroso di tutte le altre
soluzioni al problema. In particolare, è lodevole l’impresa di voler integrare tutta la rifles-
sione logica e metafisica sul tempo, tenendo conto anche delle tesi non-standard, come
appunto il frammentalismo. In questo senso la loro monografia rappresenta un gran con-
tributo alla filosofia della religione i cui testi, anche quelli autorevoli, non sono sempre
analisi d’opere 1167
aggiornati. Chiunque voglia scrivere di questo tema, tanto dal punto di vista filosofico che
teologico, dovrà fare i conti con questo testo, rispondendo alle obiezioni degli autori o
approfondendo le loro proposte.
David Anzalone
In un’intervista concessa nel 1967 a Henri Rose, Jacques Derrida aveva riconosciuto che
per la determinazione della différance dovesse soprattutto ammettersi un confronto con
la meditazione heideggeriana; e tuttavia – precisava – nonostante ciò, si sarebbe dovuto
osservare lo «scarto» che la sua riflessione provava a marcare non soltanto rispetto alla
differenza ontico-ontologica espressa in Sein und Zeit, ma pure rispetto a quelle «prese
[prises] metafisiche» che Heidegger avrebbe mantenuto, «in maniera economica e stra-
tegica», nel momento in cui ha tentato di distruggere le risorse sintattiche e lessicali del
linguaggio filosofico.
Ad una distesa analisi del significato e delle implicazioni di tale «distruzione»
(Destruktion), Derrida aveva pochi anni prima, nel 1964-1965, dedicato larga parte del suo
corso all’École Normale Supérieure intitolato Heidegger: la question de l’Être et l’Histoire,
pubblicato in Francia nel 2013 da Thomas Dutoit, versato in inglese nel 2016, con numerose
integrazioni e alcuni emendamenti, ed ora edito in Italia, in un’edizione che ha preso come
riferimento ulteriore rispetto all’originale edizione francese quella apparsa per i tipi della
University of Chicago a cura di Geoffrey Bennington. Si tratta di nove lezioni consegnate
ad un manoscritto di impervia decifrazione, riprodotto per excerpta nel corpo del volume, e
dal quale traspare l’andamento talora dispersivo della scrittura di Derrida, il suo procedere in
larghe volute di frasi che sembrano destinate a perdersi fra i richiami, con il lancinante senso
di un’apertura in tutte le direzioni, ma nondimeno capace di non smarrire il suo proposito. Il
quale è qui – come Derrida stesso afferma – quello di mostrare come al principio di Sein und
Zeit si ponga «una Destruktion della storia dell’ontologia e non dell’ontologia» (p. 43), ed al
contempo di verificare dove si potranno attingere «i concetti, i termini, le forme di concate-
nazione» per poter dare espressione a questo «discorso distruttore» (p. 48).
La interpretazione heideggeriana dell’ontologia, secondo Derrida, deve essere com-
presa come una operazione di metaforizzazione, intendendo la metafora come «il rico-
primento ontico della verità dell’essere» (p. 93), del tutto insuperabile in ragione del fatto
che, se ogni affermazione concernente gli enti presuppone una considerazione dell’essere
dell’ente, è pur vero che ogniqualvolta nella storia del pensiero filosofico occidentale si
sia tentato di definire questo essere, si è invariabilmente ricaduti in un discorso ontico.
La conseguente permanenza della differenza ontico-ontologica, ossia la caratterizzazione
dell’essere come l’origine, la natura o la causa prima degli enti, determinerebbe quindi
la trasposizione del discorso ontologico in termini puramente ontici, ovvero nei modi di
quelle che Derrida definisce «metafore ontiche» (p. 51). Benché sia per la prima volta
ne La différance (1968) che Derrida rivendica espressamente la necessità di aprirsi, per-
correndo fino in fondo il pensiero della verità dell’essere, ad una dif-ferenza non ancora
determinata come differenza fra l’essere e l’ente, già nel Corso del 1964 può riconoscersi
il tentativo di considerare i testi heideggeriani come il primo ambito in cui si pensi l’«es-
senza della metafora» (p. 239) in quanto tale, e quindi si provveda a tradurla, ovvero a
1168 analisi d’opere
«ogni orizzonte del possibile». Sembrerebbe in ciò compiersi il passaggio dal commento
del contenuto filosofico all’interpretazione in senso filosofico che assiduamente Derrida
tende a perseguire con sempre maggiore costanza nel proprio esercizio di delucidazione
del dettato heideggeriano. Seguendo un’annotazione di Heidegger solo di recente pubbli-
cata (Gesamtausgabe, Bd. 96, p. 174), la quale avvicina Hölderlin a Lenin, parrebbe del
resto confortarsi il tentativo promosso da Derrida di trasportare le metafore che costella-
no il pensiero heideggeriano verso quel ‘nuovo inizio’ che, come Heidegger stesso affer-
ma, non deve mai essere semplice ‘capovolgimento’ – Umkehrung –, ma pura irruzione:
‘evento’ (Ereignis), preparato dal poeta e affidato ai venturi, da pensare «al fine di dirlo a
partire ed in vista del suo accadere». Nell’abbordare «l’inaggirabile meditazione heideg-
geriana», la decostruzione promossa da Derrida, riprendendo e svolgendo – attraverso un
parassitismo ermeneutico che pure quando assume un tratto ambiguo, esiguo e elusivo non
è mai incostante o infedele – proprio la forma paradossale di tale «evento rivoluzionario»,
riesce a darne conto nel suo più immediato disseminarsi fuori di sé: in quell’atto testuale
che, quando l’impossibile si fa possibile, «sta alla carta come la cupola ai cieli vuoti».
Luigi Azzariti-Fumaroli