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SHIFT

INTERNATIONAL JOURNAL
OF PHILOSOPHICAL STUDIES

1 / 2017

subject

MIMESIS
Shift. International Journal of Philosophical Studies

DIREZIONE SCIENTIFICA / EDITOR IN CHIEF:


Daniela Calabrò (Università degli Studi di Salerno)

COMITATO SCIENTIFICO NAZIONALE / NATIONAL EDITORIAL BOARD:


Adalgiso Amendola (Università di Salerno) | Alfonso Amendola (Università di Salerno) | Laura Bazzicalupo
(Università di Salerno) | Rosaria Caldarone (Università di Palermo) | Maurizio Cambi (Università di Salerno)
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Carolis (Università di Salerno) | Giusi Furnari Luvarà (Università di Messina) | Giuseppe Gembillo (Università
di Messina) | Rino Genovese (Scuola Normale Superiore – Pisa) | Giuseppe Giordano (Università di Messina)
| Dario Giugliano (Accademia di Belle Arti di Napoli) | Sergio Givone (Università di Firenze) | Marco Ivaldo
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(Università Federico II di Napoli) | Sandro Mezzadra (Università di Bologna) | Francesco Miano (Università di
Roma Tor Vergata) | Rosalia Peluso (Università Federico II di Napoli) | Ugo Perone (Università del Piemonte
Orientale) | Stefano Petrucciani (Università di Roma La Sapienza) | Francesco Piro (Università di Salerno) |
Nello Preterossi (Università di Salerno) | Renata Viti Cavaliere (Università Federico II di Napoli) |

COMITATO SCIENTIFICO INTERNAZIONALE / INTERNATIONAL EDITORIAL BOARD:


Renaud Barbaras (Sorbonne – Paris IV) | Valerio Cappozzo (University of Mississippi) | Danielle Cohen-
Levinas (Sorbonne – Paris IV) | James Connelly (University of Hull) | Marc Crépon (ENS –Paris) | Georges
Didi-Huberman (EHESS – Paris) | Alfonso Galindo Hervàs (Universidad de Murcia) | Evelyne Grossman |
(Université Paris VII) | Yvonne Hütter (Universität München) | Rahel Jaeggi (Humboldt Universität Berlin) |
Laurens ten Kate (Universiteit voor Humanistiek – Utrecht) | Jérôme Lebre (Université de Strasbourg) | Boyan
Manchev (Universität der Künste Berlin) | Aichä Messina (Universidad San Diego Portales) | Ginette Michaud
(Université de Montréal) | Jean-Luc Nancy (Université de Strasbourg) | Stefan Nowotny (Goldsmyths College
– University of London) | Anne O’Byrne (Stony Brook University – NY) | Laura Odello (Brown University) |
Frans van Peperstraten (Tilburg University – Netherlands) | Andrea Potestà (Universidad Pontificia Catolica de
Santiago) | Jacques Rancière (Saint-Denis – Paris VIII) | Jacob Rogozinski (Université de Strasbourg) | Aukje
van Rooden (Universiteit van Amsterdam) | Marcia Sá Cavalcante Schuback (Södertörn University) | Olivier
Tonneau (University of Cambridge) | Hent de Vries (Johns Hopkins University – Baltimore) | Erik Wallrup
(Stockholms Universitet) |

COORDINAMENTO SCIENTIFICO EDITORIALE / SCIENTIFIC EDITORIAL STAFF:


Giovanna Callegari | Marianna Esposito | Gian Paolo Faella | Francesco Saverio Festa | Luigi Imperato | Paola
Martino | Valentina Mascia | Rocchina Motta | Luca Scafoglio | Cinzia Soddu | Renato Trombelli | Massimo
Villani | Angelo Maria Vitale

SEGRETERIA DI REDAZIONE / EDITORIAL SECRETARIAT:


c/o Dipartimento di Scienze Umane, Filosofiche e della Formazione - Stanza 3021 - Stecca I piano 3 - Università
degli Studi di Salerno - via Giovanni Paolo II, 84084 Fisciano (SA) Italia
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SHIFT. INTERNATIONAL JOURNAL OF PHILOSOPHICAL STUDIES

1 / 2017

subject

A cura di / Edited by
D. Calabrò, V. Mascia, L. Scafoglio, C. Soddu, R. Trombelli

MIMESIS EDIZIONI
Shift. International Journal of Philosophical Studies pubblica con procedura di double blind peer review.

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La periodicità è semestrale.

Shift. International Journal of Philosophical Studies è pubblicata con il contributo parziale dei fondi FARB
del Dipartimento di Scienze Umane, Filosofiche e della Formazione dell’Università degli Studi di Salerno.

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Registrazione presso il Tribunale di Milano n. 186 del 9 giugno 2017

MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine)


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isbn 9788857544748
issn 2532-9251

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Indice / Contents

Daniela Calabrò
Editoriale/Editorial 11

Jean-Luc Nancy
Prologue: Un sujet furtif 15

SAGGI/ESSAYS

Alfonso Amendola, Vincenzo Del Gaudio


Il soggetto e il medium. Rappresentazione scenica
e modelli mediali nell’ultimo Antonin Artaud 19

Laura Bazzicalupo
Slittamenti del soggetto politico: mille piani 33

Danielle Cohen-Levinas
Socialité et subjectivité. Eros en plusieurs temps chez
Emmanuel Levinas 47

Rino Genovese
L’inevitabilità del soggetto 59

Giuseppe Giordano
Il recupero del soggetto conoscente nel Novecento:
la via della fisica 63

Jérôme Lèbre
Le sujet par-delà les normes 83
FIGURAZIONI/FIGURATIONS

Franco Cipriano
Il soggetto prismatico: tra assenza e orma, materia e corpo 103

STUDI E RICERCHE/STUDIES AND RESEARCHES

Gian Paolo Faella


Segretezza e astrattezza: note sulla costituzione politica
del soggetto moderno 111

Luigi Imperato
Autonomia come relazione. Forme della soggettività morale
nel pensiero di Kant 123

Valentina Mascia
Il «soggetto volontario». La finzione della vita nella riflessione
di Carlo Michelstaedter 133

Luca Scafoglio
Il soggetto e l’organico. Teoria critica e scienze della vita
a partire da Th. W. Adorno 141

ARCHIVI/ARCHIVES

Jean-Luc Nancy
Un sujet? 153

EFFETTI/EFFECTS

Adalgiso Amendola
Populisti e neoliberali, la guerra civile nella governance 191

RECENSIONI/REVIEWS

F. S. Festa, E. Fröschl, T. La Rocca, L. Parente, A. M. Vitale (a cura di)


L’Austria nell’Europa degli anni Trenta, di Giuseppe Schettino 197
M. Ciliberto
Il nuovo Umanesimo, di Renato Trombelli 201

A. Badiou
Il nostro male viene da più lontano. Pensare i massacri
del 13 novembre, di Massimo Villani 205

AUTORI/AUTHORS 209
subject
Editoriale
Shift o del movimento del pensiero

À un moment donné, tout commence à se bouleverser…


Jean-Luc Nancy (4 gennaio 2017)

Perché Shift?

Ho riflettuto molto intorno a questo inizio, ma ho capito sin da subito che


i pensieri erano già in moto, già in marcia, già in azione. Già volti o ri-volti a
qualcosa d’altro; non più ingabbiati dalla decostruzione e dal suo lessico, ma
posti fuori di essa in una sorta di smottamento felice del pensiero. Se la decostru-
zione, da Nietzsche in avanti, è stata il vessillo del pensiero contemporaneo, di
quel ‘nuovo’ pensiero che doveva essere idoneo a cambiare il volto della filosofia
classica, sistematica, tradizionale, se grazie alla decostruzione abbiamo potuto
togliere le fondamenta, le fini, i fini, le potenze, i domini, e quindi siamo riusciti a
far fronte alla deriva nichilista, alla ‘fine del senso’, alla crisi del soggetto, adesso è
necessario procedere verso uno shift del pensiero, affinché ciò che è stato messo
fuori gioco, dis-locato, abbandonato non torni a impadronirsi di esso. Bisogna
ri-trattare il pensiero, non per farlo venir meno, abdicando a qualcosa d’altro, ma
per trattarlo sempre di nuovo; questo è stato, del resto, il monito di Kant. Così
egli infatti scriveva nei suoi appunti postumi e privati: “Non approvo la regola
in virtù della quale, se l’uso della ragion pura ha dimostrato qualcosa, questo ri-
sultato in seguito non dovrebbe più essere revocato in questione, come se si trat-
tasse di un solido assioma”. E concludeva: “non condivido l’opinione secondo la
quale non dovremmo nutrire dubbi una volta che ci siamo convinti di qualcosa.
In filosofia pura questo è impossibile. La nostra mente prova un’avversione natu-
rale per ciò”. Questo significa allora pensare l’impensato, il non detto, il rimosso
di tutti i pensatori; reinterrogarli a partire da una perenne vigilanza – come au-
spicava anche Merleau-Ponty e con lui Hannah Arendt quando affermava che
“dovremmo occuparci di esperienze più che di dottrine”. Proprio siffatte espe-
rienze, in veste di veri e propri “attraversamenti del fuori”, ci consentono oggi di
prendere le distanze da ogni reductio ad unum, da ogni principio di sovranità, da
ogni sedicente stato d’eccezione.
Il progetto teorico su cui si fonda la rivista consiste, propriamente e conseguen-
temente, nella capacità di offrire ai Lettori una diversa modalità di approcciare
i temi cruciali del nostro tempo, “rigiocando” “rimodulando”, “cambiando” –

Shift. International Journal of Philosophical Studies 1/2017


Shift. International Journal of Philosophical Studies

operando uno “shift”, appunto, delle categorie filosofiche su cui l’Occidente si


è fondato. Categorie che ormai non sembrano poter reggere l’urto della nostra
attualità. I concetti di mondo, vita, corpo, soggetto, natura, scienza, tecnica, re-
ligione, etica, politica, economia – che rimbalzano dinanzi a noi con forza ancor
più dirompente che in passato – vanno indagati proprio a partire da questo nuo-
vo paradigma, che sia capace, finalmente, di affrontarli senza remore e paure,
lasciandoci alle spalle “la fine della filosofia” e il “naufragio del senso” e, con
esso, la crisi di ogni metafisica identitaria.
Lo shift – inteso in tutte le sue possibili declinazioni e accezioni: spostamento,
slittamento, rivolgimento, modifica, trasformazione, oltrepassamento, capovol-
gimento, mutazione, rinnovamento, sovversione, ripensamento, deviazione, pas-
saggio, novità, processo – è, in tal senso, il controcanto, la rimessa in discussione
del pensiero, il riconoscimento di quelli che Albert Camus ebbe a definire, nel
1955, i ‘valori erranti’. È ciò che può far da traccia sommersa per l’approfondi-
mento di tutti i temi che verranno sottoposti ai più autorevoli studiosi del nostro
odierno panorama nazionale e internazionale. Ciò al fine di ripensare – come si è
già detto – le categorie e i temi fondamentali della filosofia. Quest’ultima infatti,
come diceva Deleuze, “non ha niente a che fare con l’accettazione, con la realiz-
zazione della condizione umana. Essa deve superarla”. E se deve superarla, allora
Shift vuol dire: liberare linee di fuga, tracciare percorsi in divenire, affrontare il
mare aperto – facendo apparire dal fondo del pensiero il gesto filosofico del Pla-
tone del Simposio, che individuava proprio nell’abbandono della terraferma la
più alta e più vera impresa filosofica: Eros è filosofo perché è il senza casa – aoikos
– dorme a cielo scoperto. Nessuna bussola o mappa. La riflessione filosofica è
fatta di traiettorie, movimenti, slanci, fili intenzionali, curiosità, deposizione dei
logoi, dei ragionamenti. L’editoriale di questo numero non si chiude, ma apre a
esperienze necessariamente fuorvianti, rumori, balbettii, echi di mondo, estasi
minerali, forme viventi sempre divenienti; senza alcuna meta pre-tracciata o già
in essere, alla ricerca di composizioni nuove, che sempre di nuovo rigiocano
all’infinito pezzi o plessi di mondo.
Il paradigma dello Shift ci può aiutare così ad affrontare il peso della storia,
della nostra storia recente e meno recente, il peso delle manovre geopolitiche ai
più sconosciute, a capire la messa al bando di alcune traiettorie o di interi vettori
culturali. Forse, è giunto il tempo di mettere in moto (to shift) qualcosa. Il mo-
vimento del pensiero diventa così un poiein, un ‘fare’ e non un semplice ‘stare’.
Se la filosofia non può più consegnarci una nozione di mondo, né risolvere le
sue contraddizioni, la sua estrema possibilità nell’epoca della sua stessa fine, del
suo venir meno, non può che essere l’apertura di uno spazio di pensiero che sia
assolutamente mobile, dialogicamente com-promesso, transitivamente insorgen-
te. Di pensiero in pensiero, di transito in transito, di movimento in movimento:
il pensiero non si fissa, ma si approssima; è, ancora una volta, zetetico, come lo
pensavano gli antichi, quantico, come lo pensano i fisici teorici di oggi. È pos-
sibile che questo pensiero sia già in cammino, che stia già costruendo un nuovo

12
Editoriale

mondo; non lo sappiamo, né lo sapremo, forse lo faremo e basta, “attraverso lenti


e profondi slanci di desideri d’esistenza”.
Il primo numero della rivista è dedicato al tema monografico del Soggetto.
Lo scopo è quello di intercettare alcuni di quei pensatori che su questo lemma
hanno riflettuto, preferendo arrischiarsi in una riflessione che fa dello Shift, la
modalità in grado di intravederne le aporie, svelarne le ambiguità.
È proprio su tale ambigua valenza del termine Subject che ha insistito qui uno
dei più grandi filosofi esistenti, Jean-Luc Nancy. A lui, sono onorata di porgere
simbolicamente la parola per l’incipit di questo nuovo experiri.

Napoli, 13 giugno 2017 Daniela Calabrò

13
Shift. International Journal of Philosophical Studies

Struttura della rivista


Ogni numero della rivista si divide in sei sezioni interne:

- Saggi/Essays
- Figurazioni/Figurations
- Studi e ricerche/Studies and Researches
- Archivio/Archives
- Effetti/Effects
- Recensioni/Reviews

La rivista avrà una cadenza semestrale e accoglierà contributi in inglese, fran-


cese, spagnolo, portoghese, tedesco e italiano.
I primi cinque numeri di SHIFT declinano – per scelta editoriale – l’acroni-
mo del nome:

Subject 1/2017
Humanity 2/2017
Immanence 1/2018
Freedom 2/2018
Transcendence 1/2019

Alla rivista di filosofia SHIFT. International Journal of Philosophical Studies è


collegata – per la casa editrice Mimesis International – una Collana di studi mo-
nografici e collettanei, intitolata SHIFT/Philosophical Series.

14
Prologue:
Un sujet furtif

Le sujet…. Quel fétiche! la conscience, la maîtrise, le rapport-à-soi, le projet,


l’objet, le rejet, le trajet, le soi, le moi, tout ce qui s’agglutine autour de ce que
Nietzsche nomme «croyance à la grammaire». Je dis «je», et je crois que ce sujet
c’est moi – alors que «moi» n’est qu’une fiction fragile.
Mais on peut avancer un peu plus loin que Nietzsche lorsqu’on sait que «je»
n’est même pas sujet au sens du couple «sujet-prédicat», ce couple qu’accouple
la «copule privée d’esprit» (Hegel) du verbe «être». Non – «je» est un shifter, un
embrayeur, un décaleur qui fait passer d’un régime à un autre, d’une vitesse ou
d’une allure, d’une forme à une autre. De la forme de ce qui est dit ou fait par
quelqu’un, quelconque ou nommé – Socrate parle – à la forme (allure, vitesse,
ton…) de ce qui est dit ou fait par celui qui dit et qui fait, qui fait qu’il dit et qui
que c’est lui qui le fait.
Moi ici qui écris pour vous là-bas – là-bas qui devient ici lorsque vous lisez
tandis que je suis, moi, là-bas, ailleurs, très loin…
Le supposé sujet ne consiste qu’à se supposer. J’écris que j’écris: c’est moi, ici,
Jean-Luc Nancy, ce 24 mars 2017 à 15h34, à Strasbourg… Et je peux aussitôt
écrire: c’est moi Tchouang-Tseu, ce jour de la Fête des Fantômes de l’an mil, etc.
etc. Il n’y a pas de différence, chaque fois il se suppose et se dépose du même
coup. Il ne se pose jamais. Il s’invente, il s’évente.
Tenter de poser et de disposer ce qui ne peut que se supposer, voilà ce dont
s’occupe la littérature. Il n’est de sujet qu’en littérature. Par exemple Achille,
Béatrice, Marcel ou Finnegan. Un sujet est donc un héros: il réussit à passer outre
sa propre inexistence.
Salut!
Jean-Luc Nancy

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Saggi/Essays
Il soggetto e il medium
Rappresentazione scenica e modelli mediali nell’ultimo
Antonin Artaud
Alfonso Amendola e Vincenzo Del Gaudio*

Abstract

This essay – from transdisciplinary studies ranging from aesthetics of theater


to sociology of culture – intends to analyze theater as a metaphorical and social
space. A decentralized space that can be interesting to try to distract some issues
related to the semantic plexus of subjectivity. Eleging the work of the last Anto-
nin Artaud like a radical rethinking of the body (“subject and support”) and as
a prospect of a future media tension.

Keywords: Antonin Artaud, theater, radio, body without organs, medium,


subjectile

Ogni autentica effige ha un’ombra


che costituisce il suo ‘doppio’
(Antonin Artaud)

1. Posizionamento

Il tema della messa in questione del soggetto cartesiano è un tema che percor-
re l’intera storia della filosofia, e più in generale delle scienze umane, del secolo
scorso. Il pensiero del Novecento ha riesaminato la categoria di soggetto, sia
alla luce dei cambiamenti socio-culturali, sia alla luce dei problemi metafisici
che il soggetto cartesiano si porta dietro.1 Non a caso, alcune delle formulazio-
ni teoriche più radicali che ripensano dall’interno il modello di soggetto, nel
secolo scorso, sono di matrice francese, come se, in tale messa in questione del

*
Il saggio è stato pensato e costruito da entrambi gli autori come un corpus unico. Nello specifico
i paragrafi 1, 2 sono scritti da Vincenzo Del Gaudio, mentre i paragrafi 3, 4 sono stati scritti da
Alfonso Amendola.
1
Per una prima panoramica del problema della soggettività in chiave filosofica, nella vastissima
bibliografia disponibile si veda: R. Bonito Oliva, Soggettività, Guida, Napoli 2003; D. Tarizzo, Il
pensiero libero. La filosofia francese dopo lo strutturalismo, Raffaello Cortina, Milano 2003.

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Shift. International Journal of Philosophical Studies

soggetto cartesiano, la filosofia francese si dovesse liberare di un ingombrante


padre. La filosofia, la sociologia e le scienze umane, nel riformulare il proces-
so di soggettivazione, si sono aperte ad una serie di saperi (spesso trasversali)
nell’ambito dei quali però è possibile provare ad isolare, e quindi passare sotto
la lente d’ingrandimento, le pratiche di soggettivazione, le loro linee evolutive ed
i modelli di funzionamento del dispositivo soggettivo. Attraverso una branca di
studi transdisciplinari che vanno dall’estetica del teatro alla sociologia della cul-
tura, dell’immaginario e dei media, questo intervento intende analizzare il teatro
come uno spazio metaforico e sociale da un lato e come una particolare forma
mediale dall’altro. Uno spazio ove diversi saperi dialogano ed in cui i costrutti te-
orici (filosofici e sociologici) trovano una dimensione di lotta e di ripensamento.
Uno spazio decentrato, a nostro avviso, che può essere interessante per provare
a districare alcune questioni relative al plesso semantico della soggettività ed i
movimenti compressivi e decompressivi che ne gestiscono il funzionamento.
D’altronde Michel Foucault aveva chiarito, nel saggio Theatrum philosophicum,
dedicato a Differenza e Ripetizione di Gilles Deleuze, che ripensare il binomio diffe-
renza/ripetizione significa pensare al principio, a partire dal quale il soggetto si costi-
tuisce nell’evento. E lo spazio dentro cui tale costituzione è decisamente più visibile
è il teatro: «È la filosofia non come pensiero, ma come teatro: teatro di mimi dalle
scene multiple, fuggevoli e istantanee dove i gesti, senza vedersi, si fanno segno».2
Foucault intuisce la possibilità di riflettere sul soggetto nella forma del personaggio
teatrale3 e in particolare, dal punto di vista metodologico, prospetta un Theatrum
Philosophicum cioè uno spazio delle “scene multiple” dove riesamina i rapporti di
forza e i dispositivi legati a linee di soggettività multiple e sempre aperte:

È Teatro in cui, sotto la maschera di Socrate, sfolgora improvviso il riso del sofista;
dove i modi di Spinoza intrecciano una gagliardia discentrata mentre la sostanza girerà
attorno ad essi come un folle pianeta; in cui un Fichte storpio annuncia “Io incrinato
≠ Io dissolto”, e Leibniz, giunto al sommo della piramide, intravede nell’oscurità che
la musica celeste è il Pierrot lunare. Nella garitta del Lussemburgo, Duns Scoto infila
la testa nella lunetta circolare; i suoi mustacci imponenti sono quelli di Nietzsche tra-
vestito da Klossowski.4

In questi termini, il teatro diventa spazio di sperimentazione, non soltanto


di nuovi modelli di soggettivazione, ma, piuttosto, di modelli attraverso i quali
ridefinire i rapporti sociali perché tali processi di soggettivazione a teatro sono

2
M. Foucault, Theatrum philosopicum, in «Critique», n. 282, 1970, pp. 885-908; tr. it. di G.
Guglielmi, in G. Deleuze, Differenza e ripetizione, Il Mulino, Bologna 1971, p. XXIV.
3
In questa direzione si vedano, tra gli altri, gli studi di A. Tagliapietra sulla forma del personaggio
e la soggettività in particolare: Gli altri che noi siamo. Per una filosofia del personaggio, in «Giornale
critico di storia delle idee», n. 9, 2013, disponibile all’indirizzo: http://www.giornalecritico.it/
archivio/09/GCSI_09_Tagliapietra.html, e A. Tagliapietra, Postilla sulla filosofia del personaggio
come organo critico per la storia delle idee, n.10, 2014, disponibile all’indirizzo: http://www.
giornalecritico.it/archivio/10/GCSI_10_Tagliapietra.html.
4
M. Foucault, op. cit., p. XXIV.

20
Il soggetto e il medium

sempre pubblici e aperti sul crinale della costituzione di legami sociali. Pensare
il teatro come uno spazio di relazione significa quindi pensare il soggetto nel suo
punto di massima pressione, in uno spazio aperto da sempre socializzato che,
come ha intuito Erving Goffman, può fungere da modello per la comprensione
dei rapporti sociali.5
La nostra analisi intende partire dall’idea di un Theatrum philosophicum6
come spazio sociale nel quale ripensare il dispositivo soggettivante prendendo in
analisi il lavoro dell’ultimo Antonin Artaud (1896-1948), il quale è stato più volte
analizzato da quella corrente del pensiero francese che ha provato a scardinare il
potere egemonico del progetto della soggettività cartesiana. Nell’ultimo periodo
della propria esistenza, negli anni dell’internamento, Artaud sembra ripensare
alla nozione di soggetto e la lega indissolubilmente alla nozione di supporto. At-
traverso l’analisi di tale legame ci proponiamo di ripensare l’ultima fase del pen-
siero artaudiano, a partire dalla relazione tra soggetto e supporto. E da ultimo
– se è vero che l’ultima fase di Artaud sfocia nell’opera radiofonica Pour en finir
avec le jugement de dieu (1947) – riposizionare tale relazione in una prospettiva
mediologica attraverso la quale identificare alcune idee fondamentali dell’autore
francese intorno al concetto di media e, di conseguenza, rintracciare in esse al-
cuni modelli mediali.
Lungi dall’essere semplicemente un autore teatrale, Artaud entra a pieno tito-
lo in quelli che Antonio Attisani definisce inventori di un teatro. Cioè autori la cui
attività non si riduce alla creazione di spettacoli, ma, piuttosto, nella produzione
continua ex novo di un teatro che costantemente infrange le regole del teatro
vigenti in una determinata epoca storica: «ognuno dei loro spettacoli anziché
appartenere ad un genere sembra fondarne uno».7 Nell’ultimo Artaud si esplica
un’idea di soggettività che è alla base della sua invenzione del teatro e che si lega
con il concetto di supporto che ne rappresenta una sorta di orizzonte. Verso
quest’orizzonte la soggettività diventa un punto di decompressione, una valvola
di una complessa pentola a pressione psichica, che determina le formule della
relazione sociale a partire dall’apertura e dalla pressione che l’evento, per sua
natura, impone alle forme statiche del soggetto. Per Artaud la formulazione del
soggetto implica un meccanismo di sudditanza, un principio di subalternità, che
impone forme prestabilite alla caducità e all’imprevedibilità dell’evento.

5
Sono le note analisi di Goffman sul comportamento in pubblico: E. Goffman, The Presentation
of Self in Everyday Life, Doubleday, New York 1959; tr. it. di M. Ciacci, La vita quotidiana come
rappresentazione, Il Mulino, Bologna 1969; E. Goffman, Behavior in Public Places, The Free Press,
New York 1963; tr. it. di F. Ongaro Basaglia, Il comportamento in pubblico, Torino, Einaudi 1971.
6
Importanti, in questa direzione, sono le analisi contenute nel numero 18 della rivista «Culture
teatrali»: M. de Marinis (a cura di), Rappresentazione/Theatrum Philosophicum, in «Culture
teatrali», n. 18, 2008. Cfr. anche le riflessioni di Antonio Attisani sul testo foucaultiano: A. Attisani,
L’invenzione del teatro. Fenomenologie e attori della ricerca, Bulzoni, Roma 2003, in particolare il
secondo capitolo, pp. 78-112.
7
A. Attisani, op. cit., p. 14.

21
Shift. International Journal of Philosophical Studies

2. Il soggettile: riconoscimento del supporto e pratiche artaudiane di riposizio-


namento della soggettività

Seguendo lo schema a fasi proposto da Umberto Artioli, che per la prima


volta in Italia prova a dare una lettura complessiva dell’opera del grande mar-
sigliese, organizzandola intorno a tre fasi fondamentali: giovanile, metafisica e
materialistica,8 Marco de Marinis mostra come l’ultima fase, quella che per Ar-
tioli deve essere considerata la fase materialistica dello scrittore francese, in realtà
deve essere definita a partire da un nuovo modello teorico che Artaud sta pro-
vando a mettere a punto in quegli anni durante l’internamento nel manicomio di
Rodez.9 De Marinis comprende che quelli che sembrano essere deliri sconnessi,
nascondono una formulazione teorica a tutti gli effetti. Un livello di espressione
che, a partire dalla pratica teatrale, è utile per ricostruire il corpo ed a partire da
esso poter addirittura riformulare un nuovo modello di soggettività:

Alla fine della vita e del suo percorso artistico, Artaud concepisce il Teatro della Cru-
deltà come un grandioso progetto etico-politico di insurrezione fisica: si tratta di tra-
sformare (nuovamente) la scena in un “crogiolo” nel quale l’uomo (non più soltanto
l’attore) possa rifare la propria anatomia, possa ricostruirsi un corpo, rifiutandone la
“differenziazione organica”: un corpo senza organi […] Il 2° teatro della crudeltà,
come teatro del violento rifacimento corporeo.10

Esattamente come nel periodo rappresentato dal corpus di scritti condensati


ne Il teatro e il suo doppio,11Artaud sembra rimandare ad uno spazio nel quale ri-
pensare la soggettività, a partire da una pratica di nuova concezione del corpo. Il
modello artaudiano è un modello di riappropriazione che si basa sulla possibilità
di ripensare, radicalmente, l’autonomia corporea.
Una prima formulazione del 2° Teatro della Crudeltà passa attraverso la prati-
ca del disegno ed in particolare la pratica di costruire disegni nei quali scrivere,
una sorta di geroglifici, come li chiama lo stesso Artaud. In pratica si tratta di
disegni nei quali non è più possibile distinguere il piano della scrittura da quello
della pittura: «dove la pittura si infiamma con la scrittura e la linea e il colore
scambiano le loro forze con le frasi. Per Artaud infatti la pittura si sente quando
la parola si disegna; la pittura s’ascolta come la musica e l’occhio è scosso quanto
l’orecchio».12 Per capire cosa siano questi geroglifici e quali valori essi assumo-

8
U. Artioli, F. Bartoli, Teatro e corpo glorioso, Feltrinelli, Milano 1978. Per una messa in discussione
di tale schema si veda F. Cambria, Corpi all’opera. Teatro e scrittura in Antonin Artaud, Jaca book,
Milano 2001.
9
M. De Marinis, La danza alla rovescia di Artaud. Il secondo teatro della crudeltà (1945-1948), I
quaderni del battello ebbro, Porretta Terme 1999.
10
Ivi, p. 13.
11
A. Artaud, Le Théâtre et son double, Gallimard, Paris 1964; tr. it. di G. Marchi e E. Capriolo, Il
teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 1968.
12
P. Fabbri, Le forze del segno, in «Antonin Artaud», (Catalogo Mostra d’arte contemporanea) 5
Continents Edition, Milano 2005, pp. 12-13.

22
Il soggetto e il medium

no nel cosmo dell’ultimo Artaud, lo stesso autore ci spinge a dover decifrare


innanzitutto il concetto di soggettile (subjectile) perché, per Artaud, il concetto
di soggettile è alla base del lavoro sui geroglifici. Il termine soggettile compare
tre volte nel linguaggio di Artaud – dal ’44 al ’47. Derrida lo accomuna con tutta
una serie di parole o pezzi di parole, che per omofonia si avvicinano al corpus
artaudiano. Ad esempio: soggettivo (subjectif), sottile (subtil), sublime (sublime)
ma anche proiettile (projectile). «Il termine (soggettile), in pittura, indica ciò che
in un certo modo è steso sotto, come una sostanza, un soggetto o un succube».13
Derrida poi distingue due tipi di soggettile, a seconda del fatto di lasciarsi attra-
versare. Quindi il soggettile da un lato è una parola, che sembra intraducibile, e
dall’altro è un supporto, un materiale, è “il corpo unico dell’opera alla nascita”.14
Nella sua ultima comparizione, datata 1947, parlando del disegno L’execration
du Père-Mère, il soggettile diventa un supporto da lacerare, distruggere, da ren-
dere intraducibile: «le figure della pagina inerte non dicevano nulla sotto la mia
mano. Mi si offrivano dei cumuli che non ispiravano il disegno, e che potevo
sondare, tagliare, raschiare, limare, cucire, scucire, mutilare, lacerare, senza che
mai il soggettile da parte di padre, o per parte di madre si lamentasse».15
Ma come può essere reso intraducibile un soggettile? Come può essere lacera-
to? Derrida a questo scopo introduce il concetto di forsennare che assume su di
sé l’onere di lacerare il supporto, non rendendolo più succube. Forsennare, sia
in italiano sia in francese, prende il suo senso da due termini latini: fors e sen, let-
teralmente fuori e senno.16 Quindi per lacerare, non rendere più succube il sog-
gettile, bisogna forsennarlo, portarlo fuori senso, fuori qualsiasi valore segnico.
Il soggettile non è né oggetto né soggetto ma, tramite il proiettile, inteso come un
corpo contundente capace di bucare il soggettile, come può essere la matita per il
foglio, è possibile for-sennare, portare fuori-senno il soggettile stesso, originaria-
mente, sin dalla nascita, succube di Dio. Il segno perde tutta la sua valenza, perde
senso, non deve più nulla a Dio, diventa pittogramma,17 «nel quale la pittura, il
disegno non tollerano la parete di alcuna condivisione di senso».18
Durante questa pratica:

Il soggettile resiste. È necessario che resista. Talvolta resiste troppo, talvolta non resi-
ste abbastanza. È necessario che resista per essere infine trattato di per sé e non come
un supporto o il sottoposto di qualcos’altro, la superficie o il sostrato sottomesso di
una rappresentazione. Quest’ultima deve essere attraversata in direzione del soggetti-

13
J. Derrida, Antonin Artaud. Forcener le subjectile, Schirmer/Mosel Publishers, Munich 1986; tr.
it. di A. Cariolato, Antonin Artaud. Forsennare il soggettile, Abscondita, Milano 2005, p. 15.
14
Ibid.
15
A. Artaud, Lettera a André Rolland de Reneville, in A. Artaud, Supports et supplications, Œuvres
completes, vol. XIV, Gallimard, Paris 1978; tr. it. di J.-P. Manganaro, Succubi e Supplizi, Adelphi,
Milano 2006.
16
J. Derrida, op. cit., p. 20.
17
Ivi, p. 30.
18
Ivi, p. 31.

23
Shift. International Journal of Philosophical Studies

le. Ma viceversa il soggettile schermo o supporto della rappresentazione, deve essere


attraversato dal proiettile.19

Il soggettile resiste all’auto-distruzione, allo scivolamento nell’inorganico.


Questa resistenza per Artaud è la resistenza della soggettività, di un soggetto che
è originariamente succube di Dio, della rappresentazione, e deve essere scardi-
nata, divelta, perché bisogna passare sotto. E se il soggettile continua a resistere
bisogna malmenarlo. Una volta malmenato, la doppia costrizione che ne conse-
guirà – né sottomesso e né insubordinato – lo renderà assolutamente irrappresenta-
bile.20 Il soggettile dunque per Artaud è un supporto a cui viene originariamente
impedita l’espansione,21 a cui un Dio violento ha rubato la voce e imprigionato
nelle strette maglie della rappresentazione. A questo proposito, alla pratica del
disegno e della produzione di geroglifici, Artaud, in quegli anni, affianca una
diversa strategia di azione sul soggettile. Tale strategia si esplica in una serie di
esercizi fisici atti alla riconquista del proprio corpo. Tali esercizi rappresentano
una sorta di training fisico al quale l’autore si sottopone allo scopo di ricostruire
il proprio corpo, allo scopo di una sua riconquista anti-anatomica dall’interno.
Partendo dal respiro (souffle), dalla voce e dal gesto. Il training consiste nello
svolgere complessi esercizi di respirazione e di canto allo scopo di recuperare
il proprio souffle: «Si trattava, più precisamente, di starnuti, fortissime inspira-
zioni ed espirazioni, con il naso e con la bocca, e poi di grida, ritornelli, salmo-
diamenti, cantilene e giravolte ritmiche, che egli eseguiva di continuo, da solo
o in presenza di altri: erano esercizi fisico-vocali propedeutici a una difficile e
dolorosa riconquista del movimento, del gesto e della voce».22 Nella prospettiva
del 2° Teatro della Crudeltà, dunque, la strategia artaudiana si articola su due
livelli. Uno di messa in questione della soggettività attraverso il riconoscimento
della preponderanza del soggettile come supporto a partire dal quale ogni pro-
cesso di soggettivazione ha inizio. E l’altro di riconquista dei supporti e dei corpi
che riscrivono continuamente linee di soggettivazione “inanatomiche”. D’altro
canto è lo stesso De Marinis a legare la pratica del disegno e quella del training
in un’unica strategia di riconoscimento e riconquista in cui da un lato l’autore
comprende la natura del supporto e dall’altro ne mette in questione il processo
di individuazione escogitando pratiche che tale processo mettono in discussione:
«e attività della scrittura e del disegno si aggiungono agli esercizi legati al respi-
ro, rappresentandone insieme lo sviluppo e l’applicazione, basate come sono,
entrambe, su di una forte mobilitazione gestuale e vocale».23 Entrambe queste
pratiche fanno parte di una strategia che per Artaud, negli anni Quaranta, punta
alla riconquista del proprio corpo, inteso come primo soggettile, come primo

19
Ivi, p. 28.
20
Ivi, p. 21.
21
Su questo punto si veda L. Berta, Derrida e Artaud. Decostruzione e teatro della crudeltà, Bulzoni,
Roma 2003.
22
M. De Marinis, op. cit., p. 54.
23
Ivi, p. 64.

24
Il soggetto e il medium

spazio di mediazione a partire dal quale ogni possibile determinazione soggettiva


si costituisce. Lo scopo del lavoro sul respiro, che Artaud elabora a partire dagli
anni Trenta,24 è quello di aprire tale soggettile ad un possibile riposizionamento,
di utilizzare le pratiche del respiro, in forma di proiettile da scagliare contro il
soggettile: «Come magia prendo il mio respiro spesso, e per mezzo del naso,
della bocca, delle mani e dei due piedi lo proietto contro tutto quello che mi può
infastidire».25 In questo senso una riconquista del corpo passa – attraverso una
diversa costruzione anatomica, un corpo senza organi,26 che precede il processo
di soggettivazione – ad una sorta di neutralità di un supporto non più succube.
Le strategie di Artaud aprono ad una corporeità in cui il corpo non è più né
soggetto né oggetto di rappresentazione, in cui tale processo viene scardinato,
forsennato, in vista di un ripensamento anatomico: «l’uomo moderno suppura e
puzza perché la sua anatomia è cattiva, e il sesso mal situato in rapporto al cer-
vello nella quadratura dei due piedi. […] E questa marionetta alta e dinoccolata,
[…] che ci mantiene in stato di guerra contro l’uomo ci imprigionava».27 Tale
ricostruzione mina la macchina antropologica che definisce l’uomo, riscrivendo
dall’interno l’intera corporeità. Il concetto di soggettile non può in nessun caso
essere accomunato al concetto di soggetto né a quello di oggetto, anzi sembra
che al proprio interno questa antinomia non esista in quanto esso sembra funzio-
nare proprio come il fuori che genera quest’antinomia. In questo senso esso vive
in un campo neutro, ma neutro solo rispetto a tale antinomia, fino al momento
in cui successivamente si vanno ad iscrivere, su di esso, istanze che ne determi-
nano il valore ponendo inizio al processo di soggettivazione che crea l’antinomia
soggetto-oggetto. Il soggettile dunque, nel suo essere in-forme o, meglio, essendo
la forma che precede l’in-formarsi, nel campo del proprio dominio, non può am-
mettere la contrapposizione tra soggetto ed oggetto. Il soggettile come supporto
in Artaud è già da sempre determinato, su di esso vige un’espropriazione che
alla nascita ha messo in moto il processo di soggettivazione e dunque ha fatto del
soggettile il soggetto, che a sua volta si oppone ad un oggetto. Le pratiche del
disegno e del respiro sono atte alla messa in questione del processo di soggettiva-
zione/riappropriazione del supporto scardinando il processo di soggettivazione.

24
Per una ricostruzione di tale lavoro a partire dalla nozione di athlétisme affectif, contenuta ne
Il teatro e il suo doppio, oltre al già citato testo di De Marinis, si veda: F. Ruffini, Stanislavskij ed
Artaud sul filo della biografia, in «Prove di drammaturgia», 5, 1997; M. Baraldi, La Qabbalà e
Antonin Artaud, in «Teatro e storia», 10, 1991, pp. 125-153.
25
Utilizziamo qui, invece della traduzione canonica – A. Artaud, Supports et supplications, cit. –,
quella di Marco De Marinis presente in op. cit., p. 55.
26
A. Artaud, Pour en finir avec le jugement de dieu, K Editeur, Paris 1947; tr. it. di M. Dotti, Per
farla finita col giudizio di Dio, Stampa Alternativa, Viterbo 2000. Il concetto di corpo senza organi
è centrale nella filosofia di G. Deleuze e F. Guattari, in particolare all’interno di G. Deleuze, F.
Guattari, L’Anti-Œdipe. Capitalisme et schizophrénie, Edition de Minuit, Paris 1972; tr. it. di A.
Fontana, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino 1975 e G. Deleuze, F. Guattari,
Mille plateaux, Edition de Minuit, Paris 1980; tr. it. di M. Guareschi, Mille piani. Capitalismo e
schizofrenia, Castelvecchi, Roma 2006.
27
A. Artaud, Il teatro e l’anatomia, in M. De Marinis, op. cit., p. 118.

25
Shift. International Journal of Philosophical Studies

Il soggettile, quando entra in collisione con il proiettile e quindi si in-forma, pro-


duce, come scarto, come attacco a se stesso e alla propria neutralità, la macchina
soggettivante e dà vita al processo di soggettivazione che a sua volta produce il
soggetto e l’oggetto. Il soggettivo dunque diventa qualcosa di malato, qualcosa
che viene prodotto a partire da una negatività, da uno scarto, in altri termini il
soggettile si costituisce come il punto non rappresentabile dal quale prendono
vita tutte le rappresentazioni. In questo modo non si possono costruire soggetti
pieni, ma soltanto una popolazione di Eliogabali che, come l’Imperatore-Dio
Siriano, tagliano i ponti con Dio, aprono all’incoerenza, al forsennare. Tagliando
i ponti con la divinità, diventano essi stessi Dio e si riprendono i corpi che questi
gli aveva rubato alla nascita.

Se intorno al cadavere di Eliogabalo, morto senza tomba, e sgozzato dalla sua polizia
nelle latrine del proprio palazzo, vi è un’intensa circolazione di sangue e di escremen-
ti, intorno alla sua culla vi è un’intensa circolazione di sperma. Eliogabalo è nato in
un’epoca in cui tutti fornicavano con tutti; né si saprà mai dove e da chi fu realmente
fecondata sua madre.28

Ecco il punto. Caduta la filiazione di Dio, caduta l’egemonia del Dio-rappre-


sentazione, il soggetto non si riconosce più come tale, diventa monco perché
perde il punto che gli dà coerenza interna e sfocia nell’incoerenza. Il processo di
soggettivazione fallisce il suo intento, perde la sua lotta per la vita con il soggetti-
le che, dal canto suo, proclama la vittoria dell’impotenza, come impossibilità del
potere di far presa sui corpi. Una volta scardinato il senso, una volta evirati i mec-
canismi di potere, sconfitti alla stessa lotta che si combatte prima dell’informarsi,
i corpi perdono la propria coerenza e si trasformano da soggetti a meccanismi di
soggettivazione dal processo sempre aperto, in-stabile e in-stabilizzabile. Alberto
Arbasino, in dialogo con l’Eliogabalo artaudiano, non solo lascerà perdere la di-
scendenza paterna ma sgancerà Eliogabalo pure da quella materna, dandogli tre
madri; questo per dimostrare l’impossibilità di qualsiasi filiazione sia materna sia
paterna. Per evidenziare l’impossibilità di qualsiasi soggetto pieno e proclamare
la vittoria di quei soggetti impotenti che tanto interessavano ad Artaud.

Subito dietro la lettiga imperiale viene avanti sbandando una vasta lettiga a quattro
posti in finta malachite di via Margutta e falsi bronzi roccocò di via del Babbuino, pie-
na di kentie e frange e fiocchi e panorami della Val Gardena, è occupata da tre dame
esuberanti […] Parlano continuamente di Quattrocento e di Settecento, di boiseires,
di capitonnè, di Frank Sinatra, del prof Valloni, dell’avv. Carnelutti, e dell’Imperatore,
chiamandolo il “nostro bambolo”. E lui, da parte sua, le chiama indifferentemente
mamma (o, col raffreddore) Babba tutte e tre.29

28
A. Artaud, Héliogabale ou l’anarchiste couronnéi, in Id., Œuvres complètes, vol. 7, Gallimard,
Paris 1970; tr. it. di A. Galvano, Eliogabalo o l’anarchico incoronato, Adelphi, Milano 1991, p. 7.
29
A. Arbasino, Super-Eliogabalo, Einaudi, Torino 1978, p. 32.

26
Il soggetto e il medium

3. Verso un soggettile mediale

A partire dalle formulazioni del 2° Teatro della Crudeltà, negli ultimi anni
della sua vita Artaud continua ossessivamente a riflettere su come recuperare il
proprio corpo. Un corpo espropriato alla nascita dalla violenza di una divinità
bizzosa che tende a dare forme prestabilite a quello che agli occhi dell’autore
francese altro non è che un fluire la cui unica forma è dunque quella del flusso.
La riflessione intorno al soggettile non è soltanto però una riflessione di ordi-
ne riappropriativo. Non ha come unico scopo quello di ricostruire il proprio
corpo in barba all’anatomia. Non vuol essere soltanto una riflessione di ordine
magico-taumaturgica che serve come una sorta di talismano e arma ad un tem-
po. È altresì una riflessione sullo statuto del supporto inteso come materiale sul
quale incidere brandelli di informazioni for-sennate, sulla natura materiale dei
processi in-formativi, intesi come quei processi che producono le forme. In que-
sta prospettiva il soggettile diventa uno spazio materiale sul quale si realizzano
forme e proprio la concretizzazione di tali forme sembra interessare all’autore
francese, in quanto, riappropriarsi delle proprie informazioni (come processi di
stabilizzazione dei flussi identitari), sembra essere al centro della battaglia che il
corpo combatte contro se stesso per la riconquista del supporto. In una forma
chiaramente violenta, oscura e abbozzata, la riflessione dell’ultimo Artaud apre
ad un pensiero sul supporto di ordine mediologico pensato su di un doppio livel-
lo: esteriore e interiore. In un movimento che dall’interno va all’esterno, Artaud
pensa il rapporto con il supporto in una dimensione relazionale del corpo in uno
spazio e dall’esterno all’interno come dimensione con il proprio corpo-medium
e la presa di coscienza delle capacità di quest’ultimo.
D’altro canto, come è stato spesso notato, l’avvento dei media elettronici e del-
la riproducibilità tecnica, ha implicato un primo modello di espropriazione del
corpo, un primo modello attraverso il quale ripensare il rapporto tra corporeità e
la logica del proprium cioè della logica cartesiana del corpo inteso come oggetto
che è posseduto da un soggetto. Lo stesso Artaud, nei suoi anni giovanili, vive il
cinema come uno straordinario ripensare il reale.30 Il suo modello di riferimento
è il cinema dei fratelli Marx dove «l’eccesso di immagini imprevedibili esprime i
paradossi dello spirito […] Il cinema come specchio delle dissonanze dell’anima
e strumento di conoscenza delle verità insondabili. La bellezza del cinema è per
Artaud una bellezza azzardata che nel tempo dovrà scuotere i nervi e pervadere
la sensibilità dello spettatore».31 E in tutto questo trionfo di media il corpo ri-

30
Per quanto riguarda le specifiche riflessioni sul cinema e la produzione creativa per il cinema
(soggetti, lettere, interviste, filmografia) cfr. A. Artaud, Del meraviglioso. Scritti di cinema e sul
cinema, a cura di G. Fofi; tr. it. di M. Bertolini ed E. Fumagalli, Minimum fax, Roma 2001; C.
Pasi, Artaud attore, Bollati Boringhieri, Torino 2000. Interessanti riflessioni sulla sua estetica le
ritroviamo anche in C. Dumoulié, Antonin Artaud, Les contemporains, Paris 1996; tr. it. di M.
Guareschi, Costa & Nolan, Genova 1998.
31
A. Amendola, Frammenti d’immagine. Scene, schermi, video per una sociologia della sperimenta-
zione, Liguori, Napoli 2006, p. 42.

27
Shift. International Journal of Philosophical Studies

nasce. Il corpo rinato cui pensa Artaud (il corpo senza organi) è un corpo in cui
«la lotta contro gli organi è una lotta contro l’organismo, sul quale si esercita il
“giudizio” divino»,32 è un corpo post-organico33 in cui la lotta con gli organi im-
plica una particolare relazione con il proprio statuto di supporto e da ultimo di
medium. Il corpo-medium cui pensa Artaud è un corpo fluido, aperto a continue
riscritture. Come ha compreso Antonio Caronia, il ragionamento intorno al cor-
po-supporto, [è] inteso come un capo di tensione in cui il corpo diventa spazio
mediale, mezzo attraverso il quale riscrivere la propria soggettività pensata fuori
dalla verticalità del potere dell’organicità. Una linea eversiva di comunicazione
che fa del corpo non più un succube della rappresentazione bensì un soggettile
aperto e centrale, in epoca digitale in cui i corpi sono sempre più disseminati del
flusso delle reti, sono sempre più corpi senza organi:

Ci sono voluti più di dieci anni, ma oggi, all’inizio dell’era digitale, Artaud si ripresen-
ta a noi con una nettezza e un’incisività del tutto nuove. È nella dimensione apparente-
mente immateriale e sterilizzata delle reti telematiche che sta nascendo un corpo senza
organi, un corpo in prima istanza virtuale, una sterminata potenzialità capace però di
attualizzarsi e di tradursi in carne, anche se forse una “nuova carne”.34

Caronia sembra vedere in Artaud una sorta di anticipatore del modello di


corpo digitale. Un corpo i cui organi sintetici sono disseminati in diversi media.
Un corpo che è esso stesso un corpo-medium che si pone sempre sul piano di
un’apertura in cui i propri organi sono disseminati in diversi media e ricostruiti
con una strategia che potremmo definire crossmediale. Il supporto diventa uno
spazio di rinegoziazione dell’identità su scala mediale, se per Artaud il corpo sen-
za organi è un punto di partenza attraverso il quale ripensare ad un nuovo mo-
dello di supporto corporeo anti-anatomico che si muove come un supporto tra i
supporti, possiamo anche immaginarlo come un medium in grado di relazionarsi
con l’infosfera digitale. La natura del supporto, del corpo-medium, è una natura
malleabile, implica quel farsi medium con il quale Giovanni Boccia Artieri defi-
nisce una delle pratiche con le quali il corpo si rapporta ai media digitali, ovvero
incorporando le logiche mediali.35 In questo senso è il soggettile stesso a farsi
media, ad incarnare su di esso le logiche mediali. Un corpo fatto di frammenti di
informazioni la cui gerarchia è sempre passibile di un movimento forsennato che
apre a continue ricostruzioni. Possiamo quindi parlare di un soggettile-medium,

32
Ivi, p. 38.
33
T. Macrì, Il corpo post-organico, Costa & Nolan, Genova 2006; A. Caronia, Il corpo virtuale. Dal
corpo robotizzato al corpo disseminato nelle reti, Franco Muzzo editore, Padova 1996.
34
A. Caronia, La battaglia del corpo contro il linguaggio, in «Flesh out», n. 3, gennaio-febbraio
2000, p. 4.
35
Con tale espressione Boccia Artieri intende sia il fare media, cioè appropriarsi di un dispositivo
mediale, sia il diventare media cioè l’aver incorporato da parte dell’individuo distinzioni e funzioni
dei media. Cfr. G. Boccia Artieri, Farsi media. Consumo e media-mondo: tra identità, esperienza
e forme espressive in E. Di Nallo, R. Paltrinieri (a cura di) Cum sum. Prospettive di analisi del
consumo nella società globale, Franco Angeli, Milano 2006.

28
Il soggetto e il medium

in quanto supporto materiale e simbolico. D’altro canto, come ha notato Vanni


Codeluppi, il corpo è da sempre legato ad una doppia natura: una biologica ed
una sociale. I media digitali, con la loro pervasività, impongono un nuovo mo-
dello di corporeità che sembra avvicinarsi all’idea del corpo-medium artaudiano.
Un corpo, appunto, sempre passibile di continui riposizionamenti, colonizzazio-
ni da parte di nuovi dei e forsennamenti: «È inevitabile dunque che gli individui
si sentano di poter manipolare liberamente il loro corpo […] si impone così il
“corpo flusso”, cioè un corpo che si trova in uno stato di variazione permanente
[e che] non ha confini né identità fisse, e tenta di non dover dipendere dalle leggi
della biologia».36

4. Il medium-voce: per farla finita con il giudizio di dio

Abbiamo appurato che il corpo prospettato da Artaud nel 2° Teatro della Cru-
deltà diventa un corpo-medium capace di sfidare le leggi della biologia e dell’a-
natomia per diventare una sorta di spazio in cui ridefinire i contorni degli organi
intesi come frammenti di comunicazione in grado di ricombinarsi. Allo stesso
tempo si definisce l’altra ossessione dell’ultimo Artaud: l’ossessione per il souffle
e in definitiva per la voce rappresenta un modello particolare di pensiero intorno
al medium-voce. L’opera che, anche nell’idea dello stesso Artaud, avrebbe do-
vuto rappresentare il punto d’arrivo nel quale far confluire le scoperte teoriche
e pratiche, che l’autore aveva compiuto attraverso il doloroso lavoro su di sé
a Rodez, è l’opera radiofonica intitolata Pour en finir avec le jugement de dieu,
registrata tra il 22 e il 29 novembre del 1947 e che doveva far parte del ciclo La
voce dei poeti. In Pour en finir avec le jugement de dieu compare per la prima volta
il concetto di “corpo senza organi”, centrale per la comprensione del pensiero
mediologico artaudiano.
Artaud comprende l’esigenza di fare della voce stessa un corpo sonoro nella
doppia accezione che a tale concetto ha dato Pitozzi: «da un lato il suono come
corpo, vale a dire inteso come materia sulla quale è possibile intervenire; dall’al-
tro […] il corpo come suono, espressione, e manifestazione udibile della relazione
che il movimento, la voce e la percezione istituiscono con il suono».37 Artaud
comprende l’esigenza di pensare la voce e il soffio come un corpo sonoro, esso
stesso soggetto alle regole di appropriazione ed espropriazione del soggettile,
del corpo rubato e da riconquistare/ricostruire. In questo spazio teorico l’autore
francese intuisce l’esigenza della registrazione e della riproduzione della voce
come spazio di manipolazione del corpo sonoro; intuisce che, come noterà Jack
Goody38 anni dopo, al binomio oralità/scrittura va opposto un modello che ten-

36
V. Codeluppi, Ipermondo. Dieci chiavi per capire il presente, Laterza, Roma-Bari 2013, p. 87.
37
E. Pitozzi, Dissectio: anatomie del corpo sonoro, in V. Valentini (a cura di), Drammaturgie sonore,
Bulzoni, Roma 2012, p. 285.
38
J. Goody, The interface between the written and the oral, Cambridge University Press, USA 1987;

29
Shift. International Journal of Philosophical Studies

ga conto dell’interrelazione tra testo scritto, parola e registrazione/riproduzione,


intendendo quest’ultimo stato come quello attraverso il quale è possibile interve-
nire e sezionare il corpo della voce, forsennare il supporto, ripensare dall’interno
la sua materia comunicativa. Insomma, questo progetto radiofonico rappresenta
per Artaud la possibilità di condensare in un’opera le ricerche «sulla rigenera-
zione fisica della parola e del linguaggio, in un’osmosi strettissima, e a più livelli,
fra oralità e scrittura, fra rumore, voce, testo e suono».39 E da ultimo relazionarle
con le possibilità date dalle tecniche di riproduzione della voce. Lavorare sulla
voce registrata significa sezionarne il corpo, che lungi dall’essere un corpo morto,
è esso stesso un corpo fluido e riposizionabile. Come ha notato Fabrizio Deriu
la riproducibilità tecnica apre ad una sorta di contraddizione: «da un lato esten-
de la scrittura dal solo linguaggio verbale anche al suono e al movimento; […]
dall’altro lato simultaneamente dischi, film, pellicole, nastri, cassette e oggi i vari
supporti digitali esaltano la natura dinamica e fluida del suono e del movimen-
to». Insomma, nel lavoro su Pour en finir avec le jugement de dieu Artaud sembra
capire che la riproduzione tecnica non agisce soltanto sulla immobilizzazione
delle forme, sulla perdita dell’hic et nunc, per dirla con Benjamin, ma piuttosto
che a partire da essa è possibile pensare a forme dinamiche di ricostruzione del
suono e in definitiva della voce. È il corpo-voce a diventare e a fungere da pro-
iettile, da corpo sonoro forsennato atto alla ricostruzione del medium. A questo
proposito Artaud costella l’intera opera di grida, suoni, rumori e salmodie che
fungono da corpo contundente per forare il soggettile, per reimpossessarsi della
propria voce40 e usarla come protesi per la ricostruzione del corpo.

Una seduta ulteriore fu riservata alla registrazione degli effetti sonori. A disposizione
di Artaud erano stati messi vari strumenti musicali: xilofono, tamburi, timpani, gong,
sui quali egli improvvisò la musica con cui accompagnò i suoi salmodiamenti scanditi.
Registrò anche delle grida di diversa intensità e dei passaggi di glossolalie. Dopo varie
prove, venne registrato anche un dialogo in glossolalie fra Roger Blin e lui.41

Attraverso l’utilizzo dei rumori prodotti dal corpo e riprodotti, Artaud confe-
risce alla voce un doppio movimento: da un lato la voce si scorpora, lascia il cor-
po dell’attore per assumere il corpo del supporto che la ospita e che ne permette
la dissezione e dall’altro tale dissezione spinge verso un recupero del corpo disse-

tr. it. di P. Cesaretti, Il suono e i segni. L’interfaccia tra scrittura e oralità, Il Saggiatore, Milano 1989.
39
M. De Marinis, op. cit., p. 238.
40
Per una panoramica degli studi sulla voce relativi alla pratica teatrale nella vasta bibliografia
si veda preliminarmente: V. Valentini (a cura di), Drammaturgie sonore, Bulzoni, Roma 2013; C.
Serra, La voce e lo spazio, Il Saggiatore, Milano 2011; J. Novak, Postopera: Reinventing the voice-
body, Routledge, London-New York 2015.
41
P. Thévenin, curatrice delle opere complete di Artaud e che partecipò come attrice alla
registrazione di Pour en finir avec le jugement de dieu, in una nota ai materiali preparatori per
l’opera ne ricostruisce la genesi. Cfr. A. Artaud, Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1974, p. 236;
la traduzione in italiano è presente in M. De Marinis, op. cit., pp. 237-238.

30
Il soggetto e il medium

minato nel supporto sotto forma di grido e di rumore. Ancora una volta, Artaud
sembra anticipare alcune pratiche proprie della rivoluzione digitale, laddove:

interrogare la nozione di corpo sonoro significa penetrare dentro la materia del suono
e contemporaneamente del corpo. Significa operare all’interno di un limite sottile in
cui la forma del corpo e del suono si dissolvono, lasciando trasparire una trama co-
struita attorno alle diverse intensità che operano al loro interno: parliamo quindi di
una forma molecolarizzata del corpo e del suono che entrano in risonanza reciproca.42

Pur con gli strumenti dell’epoca, che permettono un piccolissimo vaglio di


interventi sul corpo della voce rispetto a quelli digitali, Artaud comprende l’e-
sigenza di pensare alla voce nei termini di un corpo sonoro, nei termini di un
lavoro di ricostruzione e di riappropriazione del corpo. D’altro canto Marshall
McLuhan in Understending media, nell’analizzare lo statuto mediale della parola
parlata, aveva azzardato il paragone tra la voce e la radio:

Se l’orecchio umano può essere paragonato ad una radio ricevente capace di decifrare
le onde elettromagnetiche e di ritradurle in suoni, la voce umana può essere paragonata
ad una radio trasmittente in quanto sa tradurre i suoni in onde elettromagnetiche. Il po-
tere della voce di plasmare aria e spazio in forme verbali è stato forse preceduto dall’e-
spressione meno specialistica di grida, grugniti, gesti e comandi, canzoni o danze.43

In questi termini, in Pour en finir avec le jugement de dieu, l’autore francese


non soltanto sembra comprendere la natura mediale della voce, la sua natura di
supporto, ma altresì comprende che un riposizionamento del medium vocale
passa attraverso una lotta continua al significato e attraverso un recupero del
suono inarticolato, del grido, della canzone e della danza (come le salmodie e
negli esercizi di Rodez) che minano il medium vocale di tutta la sua carica sogget-
tiva. Pour en finir avec le jugement de dieu è un continuo gioco al massacro, in cui
il soggettile viene continuamente lacerato, bucato, distrutto, fatto a pezzi sotto
la carica delle grida e dei grugniti. In uno spazio in cui Artaud muove guerra,
supporto contro supporto, soggettile contro soggettile, nel tentativo di disinne-
scare qualsiasi processo di soggettivazione mediale. In tale guerra sembra vedere
la possibilità di ricostruire il corpo-medium, inteso come corpo sempre aperto a
nuove scosse e nuove aperture, e la voce-medium come la risultante di una batta-
glia che si gioca sulla natura del supporto, non più anatomico e gerarchicamente
rappresentato ma sintetico e polimorfo, sempre sul crinale di un movimento for-
sennato, di una danza alla rovescia che si balla intorno alla natura del supporto.

42
E. Pitozzi, op. cit, p. 286.
43
M. McLuhan, Understanding media: the extensions of man, McGraw-Hill, New York 1964; tr. it.
di E. Capriolo, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano 1967, p. 90.

31
Slittamenti del soggetto politico: mille piani
Laura Bazzicalupo

Abstract

The essay focuses coexistence of old political forms and new realities: the shift
of the traditional political subject and the emergence of an ambiguous neo-insti-
tutionalism buttom-up, financial and political. The frame in which this current
transformation fits is the one of the ontology of immanence and the naturaliza-
tion of human being, which, although self-regulative, is governed by neolibera-
lism through the law of competition and optimization of living. It enhances the
individual and his potentiality, but works through its dissolution in genomic and
informatic algorithms.

Keywords: coexistence, immanence, neoliberal governamentality, neoistitutiona-


lism, algorithms

1. Attualità in mutazione

Se proviamo ad osservare la realtà contemporanea, o, come dice Foucault,


l’ontologia dell’attualità, si impone in modo macroscopico lo sfaldamento dei
soggetti politici tradizionali: sfaldamento non significa scomparsa, che di fatto è
relativamente rara, ma svuotamento e metamorfosi... Slittamento è forse il termi-
ne giusto. Quella strana categoria rappresentazionale che è il soggetto politico,
perno della pensabilità della politica nel moderno, data più volte per defunta,
non è d’altronde facilmente eludibile. La spinta a liberarsene come categoria
metafisica normativa, effetto di volontà di potenza – sostenuta dal decostruzio-
nismo – produce una rischiosa paralisi politica e/o una continua smentita. Il
nome è infatti costitutivo dell’oggetto e ‘funziona’. Possiamo immaginare questo
soggetto politico come una semplice essence operatoire, per usare un’espressione
deleuziana, funzionale a individuare la direttrice delle azioni o delle rivoluzioni,
anche passive, che si intrecciano sulla scena? In questa accezione, sarebbe una
funzione ineludibile anche oggi, per quanto non individui, come nel passato un
soggetto forte (la coppia Stato/individuo), sorgente della decisione e perno del
dispositivo della legittimazione. La grande rappresentazione teologico-politica

Shift. International Journal of Philosophical Studies 1/2017


Shift. International Journal of Philosophical Studies

del soggetto sovrano che unifica e costituisce il popolo incarnando la sua volontà
autonoma e sovraordinata ai poteri sociali, ha subìto uno svuotamento nomina-
listico, a copertura di pratiche e tecniche di governo pluralizzate, eteronome,
di interessi e ideologie sempre meno sintetizzabili, svolgendo una funzione di
organizzazione algebrica dei vettori di potere dominanti. Questo slittamento no-
minalistico, che trascrive la democrazia nella rappresentazione proceduralista e
che trova nel modello aggregativo schumpeteriano la sua forma post-ideologica,
giunge al parossismo nella fase del neoliberalismo maturo che proprio sul model-
lo mercato fa perno. E sembra implodere.
La dura contestazione dei dispositivi di rappresentanza veicola infatti una
delegittimazione della rappresentazione stessa del politico moderno, unitario
e decisionale. Sono gli anni ottanta del secolo scorso: i poteri socio-economici
occupano gli spazi del decision making che erano pubblici e statali, e la politica,
come si usa dire, arretra davanti alla concretezza dei soggetti economici e delle
differenze singolari che rigettano una autorità che le organizzi e le rappresenti,
forti di una legittimazione immanente. Sono i nuovi, plurali, soggetti politici che
del politico rifiutano il nome, di fatto ampliandolo enormemente in senso extrai-
stituzionale.
Un movimento tellurico investe l’attualità:1 da un regime rappresentazionale
che fa perno sul trascendimento valoriale ed etico, ad un regime espressivo-per-
formativo, estesiologico (al di là della estetizzazione e spettacolarizzazione, ma
in connessione con questa) slittano gli indicatori semantici del soggetto politico
verso la pluralizzazione delle forze agenti e verso il nominalismo operazionale,
sullo sfondo di una nuova centralità del vivente-in-quanto-tale, con le sue pul-
sioni all’affermazione e alla soddisfazione e una percezione della vita poco etica-
mente mediata, sensoriale, emotivista. Le parole restano, le aggregazioni restano
ma si moltiplicano soggetti semi o para-politici e di quelli tradizionali astratti si
accentua il carattere strategico, funzionale all’individuazione, parziale e contin-
gente, delle direttrici di potere e delle decisioni. Una coesistenza non organica né
coerente di esperienze e parole, istituzioni, segni e pratiche che non coincidono,
ma di volta in volta cercano un accordo funzionale.
Il proceduralismo – àncora di salvezza della democrazia stressata tra soggetti
politici troppo pieni, totalitari, e la pressione capitalista a destrutturare lo stato
– cerca correttivi e aggiustamenti contraddittori: dai processi deliberativi con le
loro argomentazioni razionali e universali, alla corale enfasi sulla partecipazione,
alla spinta marcata all’esautoramento del parlamento e alla centralità dell’esecu-
tivo.2 Tentativi che sono tutti sotto il segno di un modus, che trasformi le struttu-
re pubbliche in senso conforme alle pratiche dell’economia: o includendo gruppi
e interessi divergenti nel processo deliberativo e/o negoziale o legando la riforma
radicale dell’assetto pubblico e welfarista all’efficienza decisionale dell’esecutivo.
Il soggetto politico non può comunque essere che il trono vuoto, mai definitiva-

1
Intendo con questo termine, il presente che si apre all’azione.
2
Cfr. S. Petrucciani, Democrazia, Einaudi, Torino 2014.

34
Slittamenti del soggetto politico: mille piani

mente occupabile del potere, che trova la sua ragion d’essere proprio nella sua ri-
vedibilità. Allo stesso esito leggero conduce, d’altronde, la radicalità del pensiero
decostruzionista: la indecidibilità dei valori si piega in direzione della procedura
che ne svuota la pretesa ‘oggettiva’: il soggetto politico persiste sotto cancellatura,
nella sua modalità funzionale e pragmatica.3
Si inseriscono almeno parzialmente in questo processo di slittamento modal-
procedurale anche le teorie neo-egemoniche che, a partire dalla decostruzione
antiessenzialista, fondano un soggetto politico, il popolo, barrato costitutiva-
mente in-saturabile, nel quale la contingenza del nome, del significante vuoto si
riverbera sul processo democratico in continua revisione.4 Marcando una logica
egemonica rischiosamente retorico-nichilistica. Questi pensatori post-struttura-
listi e neo-egemonici sanno bene però che la politica, pur essendo discorso, non
è riducibile al linguaggio, o meglio, che il linguaggio elabora (mai esaurendolo)
il reale delle pulsioni del vivente. Il godimento, inteso come passionalità vitale,
desiderio, investimento affettivo – contro il formalismo che lo archivia sotto il
segno dell’arcaico – è sempre ‘fattore politico’.5 Prendono dunque in carico (ed
elaborano) il displacement della politica dalle istituzioni all’aisthesis, al bíos. Ais-
thesis sempre singolarizzata e insieme sempre generica.6 Oggetto e soggetto della
politica stessa: desiderio, voglia di affermazione e sofferenza, bisogno e fatica,
affettività e conflitto, potenza e paura. Bíos costretto però – e i post-strutturalisti
lacaniani lo sanno – a “patire il significante” e a trovare parole: ma parole in-
carnate, espressive, differenziate, quanto più possibili plastiche come il divenire
delle vite.
Soggetti proceduralisti liberal-democratici e soggetti populisti neo-egemonici
rispondono a questa irruzione esigente del vivente, esplosione di potenza viva e
di libertà che dalla fine degli anni Sessanta rompe gli argini dell’autorità e della
forma; in modo diverso, misurano le loro rappresentazioni con le nuove soggetti-
vità sociali, politiche e non-politiche che debordano la dinamica della rappresen-
tazione, scomponendo e riarticolando sia le coordinate economiche, sia i diritti.
E con esse dovrà fare i conti anche l’attuale ritorno alla difesa del territorio.
L’oggi, l’assolutamente contemporaneo, vede infatti la violenta reazione a quel-
lo che Nancy Fraser, dal suo osservatorio americano, definisce come il dominio
del neoliberismo-progressista che ha visto allineate le posizioni del neoliberalismo
economico con le correnti civili, culturali del differenzialismo: entrambi interni

3
L. Bazzicalupo, Il soggetto politico. Morte e trasfigurazione in «Filosofia politica», a. XXVI n. 1,
2012, pp. 9-24.
4
Cfr. C. Mouffe, E. Laclau, Hegemony and socialistic strategy, Verso, London 1985; tr. it. di F.M.
Cacciatore e M. Filippini, Egemonia e strategia socialista. Verso una politica democratica radicale, Il
Melangolo, Genova 2011. S. Žižek, The Ticklish subject, © 2000 Slavoj Žižek; tr. it. di D. Cantone
e L. Chiesa, Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica, Cortina, Milano 2003.
5
S. Žižek, Enjoyment as a political factor, © 2000 Slavoj Žižek; tr. it. di D. Cantone e R. Scheu, Il
godimento come fattore politico, Cortina, Milano 2001.
6
L. Bazzicalupo, Aishtesis e Mimesis. Ripensando la dimensione estetica della politica, Esi, Napoli
2000.

35
Shift. International Journal of Philosophical Studies

all’ondata individualista e libertaria. Un’alleanza tra le correnti mainstreem «dei


nuovi movimenti sociali (un certo femminismo, l’anti-razzismo, il multiculturali-
smo e diritti LGBTQ) da un lato e settori di business di fascia alta simbolica e basati
sui servizi (Wall Street, Silicon Valley e Hollywood) dall’altro».7 È stato un lungo
predominio, vissuto come privo di alternative, basato sul supporto reciproco delle
forze del capitalismo cognitivo (in particolare quelle della finanziarizzazione che
ha emarginato, a partire dalla stagione clintoniana, l’economia industriale ‘reale’)
e delle forze progressiste concentrate sui soli diritti civili, forze libertarie che spin-
gono verso l’individualismo dei piani di vita e lo scioglimento delle identificazioni
sempre restrittive del sociale: forze della singolarità ad oltranza. Queste ultime,
cariche del fascino di una rivoluzione libertaria e dell’autogoverno delle vite, della
responsabilizzazione delle proprie scelte guidate solo dal desiderio affermativo,
hanno fornito a lungo un marchio carismatico e un supporto ideologico difficil-
mente contestabile alle politiche economiche neoliberali. Le quali, a loro volta,
su questo tipo di soggettivazione singolarizzata hanno fatto leva per smontare il
meccanismo fordista della produzione, la centralità del lavoro e l’egualitarismo
che avevano sostenuto l’ascesa della classe media: più radicalmente smontando
ogni trascendimento rappresentativo del puro gioco di poteri sociali.
Il riferimento a Clinton può essere trasposto in Europa a Blair. Segna il tra-
monto di un soggetto progressista egualitarista, marcato dalla prevalenza dei di-
ritti sociali sulla rappresentazione dei diritti civili – soggetto che aveva aggregato,
sotto il suo nome, il lavoro sindacalizzato, i subalterni delle periferie, le classi
medie urbane più o meno colte e impegnate nel servizio pubblico: il corpo vivo
del welfare state.8 La diffusione dei temi della diversità, del politically correct,
delle pari opportunità, della green economy – temi che sono il core business del-
la filosofia politica normativa anglosassone che li considera il nucleo discorsivo
della giustizia, ma anche temi schiettamente legati al vivente9 – si accorda senza
stridore con lo smantellamento dei sindacati, con gli accordi di libero scambio,
con la de-industrializzazione, con lo scardinamento della democrazia sociale e la
crescente precarietà del lavoro.
È pensabile che il nucleo libidico dell’appartenenza (e della lotta) sociale,
identitaria e spesso sacrificale, si sia dissolto a favore di investimenti libidici sin-
golarizzati e monadici che cercano l’autorealizzazione? Probabilmente sì. Il sen-
timento diffuso è stato quello di una riappropriazione del sé, della propria vita:
libertario e autogestito.
Ma governabile e governato in modo nuovo.
Si è trattato di una complessa e profonda trasformazione del governo delle
vite che si innesta fortemente nella contestuale trasformazione del capitalismo,

7
N. Fraser, facciamosinistra.blogspot.com/2017/02/la-fine-del-neoliberismo-progressista.html,
16/2/2017.
8
Ibid.
9
Cfr. M. Foucault, Pouvoirs et corps, in «Quel corps», 1975, n. 2; tr. it. di G. Procacci e P. Pasquino,
Potere-corpo, in Id., Microfisica del potere, Torino, Einaudi 1977, pp. 137-145.

36
Slittamenti del soggetto politico: mille piani

anche se non si esaurisce in essa. Aveva ragione Marx e hanno ragione, sull’op-
posto fronte, le dottrine neoliberali e monetariste della Public Choice, di Law and
Economics, o del neoistituzionalismo economico: il capitalismo è una forma di
vita. Plasma le soggettivazioni e le governa, anche se i soggetti politici che scelgo-
no di assecondarlo, si ritraggono dall’intervento legislativo diretto, operando ‘a
distanza’, per garantire e rendere obbliganti il modus capitalistico e la sua legge
portante: la concorrenza. In quel ritrarsi dello stato, si è fatta spazio la potenza
autoregolativa delle istituzioni economiche, che attraverso una grammatica giu-
ridica privatistica (che sostituisce quella pubblica che per Weber sanciva l’allean-
za di capitalismo e democrazia)10 opera politicamente con ‘istituzioni informali’,
creando moneta tramite crediti, facendo slittare la legislazione verso contratti
che imitano le formule pubbliche ma sfuggono al pubblico controllo, destituen-
do le corti a favore di arbitrati privati in grado di obbligare gli stati.11 Forgiando
cioè un neocostituzionalismo di tipo economico che depoliticizza gli strumenti
giuridici, pur generando “ordinamenti concreti” cogenti.12 La potestas delle vite
esplode, ma viene regolamentata e catturata come e forse più di sempre.
L’attuale impennata anti-globale e ri-territorializzante è all’inseguimento di
nuove modalità di cattura e governo o si inserisce in quella santa alleanza di pro-
gressismo civile e neoliberismo economico per modificare solo alcune carte del
gioco, non più rispondenti al diffuso sentimento di paura? Possiamo muovere da
questo interrogativo per risalire alla specifica forma di vita capitalista e neolibe-
rale che ha dato luogo alla pluralità di soggetti che oggi sono coinvolti in questa
sfida. Quali soggetti?
Come vedremo, la questione del soggetto politico fa i conti con una dinamica
di soggettivazione/assoggettamento che è impossibile ricondurre alla relazione
tradizionale di economia e politica, perché – attraverso un discorso di verità cen-
trato sulla vita e sulla sua autoregolazione perfettamente intonata al capitalismo
attuale – la governamentalità neoliberale penetra nell’immanenza dei processi
materiali e immateriali che producono il soggetto stesso. La sua razionalità pe-
raltro – e voglio insistere su questo punto, oscurato dal fascino di un racconto
totalizzante di larvata filosofia della storia – è complessa e ambivalente, e implica
strutturalmente il tramonto della reductio ad unum e dunque la coesistenza inco-
erente di linguaggi e logiche eterogenee, tempi e spazi plurali: un campo di forze
attraversato da vettori paralleli, intersecati, giustapposti, che, di volta in volta,
la ratio neoliberale tenta attivamente di funzionalizzare al capitalismo e alle sue
crisi e trasformazioni. Le forze che ha mobilitato e che cerca di governare tro-

10
Cfr. W. Streeck, Gekaufte Zeit: Die vertagte Krise des demokratischen Kapitalimus, Suhrkamp
Verlag, Berlin 2013; tr. it. di B. Anceschi, Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo
democratico, Feltrinelli, Milano 2013.
11
Cfr. M.R. Ferrarese, Promesse mancate. Dove ci ha portato il capitalismo finanziario, Il Mulino,
Bologna 2017, p. 111 ss.
12
Cfr. C. Schmitt, Über die drei Arten des rechtswissenschaftlichen Denkens, Hanseatische
Verlagsanstalt, Hamburg 1934; tr. it. parz., I tre tipi di pensiero giuridico, in Id., Le categorie del
politico, a cura di G. Miglio, P. Schiera, Il Mulino, Bologna 1972, pp. 247-275.

37
Shift. International Journal of Philosophical Studies

vano spazio, piuttosto che in soggetti, in pratiche di soggettivazione che possono


iscriversi tanto negli asimmetrici rapporti di valorizzazione capitalista che nelle
dinamiche divenute mobili della sovranità e della cittadinanza.

2. Il vivente biopolitico: soggetti dissolti in algoritmi

Su quali basi si è dato un nodo così stretto del capitalismo postfordista finan-
ziario e la spinta libertaria e differenzialista?
Il neoliberalismo fornisce non solo la cornice, il frame in cui si inseriscono le
soggettivazioni, ma, più radicalmente, agisce come una antropotecnica: le pro-
duce. La governamentalità che gestisce le vite nel modus economico, va assunta
in tutta la sua ambivalenza: produce autogoverno, empowerment e incremento
della creatività, e, nel rovescio di queste, precarietà, incertezza e diseguaglianza:
soggettivazione e assoggettamento. Le stesse soggettivazioni alternative al modus
dominante si delineano nella sua piega, rendendo problematico lo schema clas-
sico dell’antagonismo.
Sono soggettività – individuali o non – con un profilo identitario non marcato,
non segnato da linee di contrasto evidenti. Manca l’affrontamento della legge
(autorità, interdetto, nome del padre) che, nel meccanismo identitario – dalle fi-
losofie del riconoscimento alla psicoanalisi – generava il desiderio antropogenico
e il processo di Bildung. Nel cuore della macchina umana si è dissolto il limite
strutturante, la negazione costitutiva, chiave della soggettivazione (anche politi-
ca) moderna; l’illimitatezza modale non può dar luogo a rivoluzioni frontali, ma
a ripetizioni/variazioni: e a queste si riduce il blasonato soggetto. Le monadi lei-
bniziane della nuova governamentalità neoliberale non raggiungono la coesione
sociale tramite il limite: trovano invece infiniti luoghi intermedi di aggregazione
e disaggregazione, tra la separazione e la fusione.
Il discorso di verità su cui fa perno questa ontologia iscrive infatti il limite nella
immanenza del vivente.
Levinas già nel 1934, mettendo a fuoco la piega biopolitica della filosofia
dell’hitlerismo, aveva evidenziato come il limite non affetti più il soggetto dall’e-
sterno come legge contro la quale si apre un conflitto per la libertà, ma sia inse-
diato nel cuore stesso del vivente: lo auto-governa.13 L’immanentismo consegna
il vivente alla propria esistenza biologica, al proprio essere qui e ora, sempre già
libero e autonomo. Libero ma incardinato nella propria determinatezza empiri-
ca, legato alla sua radicale mondanità che gli fa incontrare la norma di ottimiz-
zazione al proprio interno, nelle determinazioni con le quali coincide. La libertà
dell’uomo coincide con la pienezza del suo essere corporeo, meglio, con il suo
benessere singolare.

13
E. Levinas, Quelques réflexions sur la philosophie de l’hitlérisme, Payot et Rivages, Paris 1997; tr.
it. di A. Cavalletti e S. Chiodi, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, Quodlibet, Macerata
1996.

38
Slittamenti del soggetto politico: mille piani

L’unica legittimazione proviene dalla immanenza della vita a se stessa: deside-


rio, utile, interesse. Le soggettività emergenti nel contesto biopolitico governa-
mentale si collocano sul piano di immanenza del sociale, non lo trascendono. Il
discorso di verità liberale proclama l’autogoverno dei liberi: solo su uomini liberi
d’altronde si può governare.14
È questo il punto. Il libero vivente umano, il suo corpo auto-governato, i suoi
desideri norma a se stessi, riconoscono la propria regola immanente nella otti-
mizzazione di se stessi, aderendo così, ‘naturalmente’ alla forma di vita capitali-
sta, alla promessa, cioè, di potenziamento: plus di soddisfazione, plus di valore.
In quest’ottica, interessa del vivente solo ciò che è accessibile, migliorabile, mani-
polabile. Così la vita viene oggettivata dalle scienze biologiche e dall’informatica
economica: il corpo è sottoposto ad una scomposizione genomica,15 e il compor-
tamento, le scelte, sono segmentate e ri-aggregate in bit informatici. Per essere
incrementate, arricchite, rese più efficienti.
C’è una politica di verità in questa trasformazione epistemica/tecnologica che
ha investito la vita stessa immettendola nel ciclo produttivo del capitalismo co-
gnitivo e finanziario. La vita immanente a se stessa è anche la vita ingegnerizzata,
pianificabile e ottimizzabile. Gli umori, i desideri, i dolori che soggettivizzano
il vivente, possono essere attivati, potenziati o sopiti. In questo processo sem-
pre più radicale, il riferimento non è più alla normatività dell’ordine naturale,
all’ilomorfismo aristotelico, ma alla doppia tecnologia molecolare (genomica e
algoritmica) che investe il vivente e rende la vita finita-illimitata, scomponendola
e ricomponendola in modo funzionale ad una economia della vita, al rapporto
del valore della vita con la sua capitalizzazione. Senza più mettere a fuoco le
vite concrete: paradossalmente, se pensiamo all’assunto di concretezza e di im-
manenza da cui si muove.16 È, invece, una vita molecolare, de-soggettivizzata,
alloplastica,17 pura articolazione di un flusso di dati organici, di codici informa-
tici che la rendono calcolabile in termini di probabilità statistica e di razionalità
economica.
Perciò, la biopolitica è la chiave per intendere questa rivoluzione delle forme
soggettive, rispetto alle quali, la politica è funzione operativa della funzionalità
economica. Il corpo aderisce, fino alla indistinguibilità, al soggetto, e assume
come ethos normativo, ma sarebbe meglio dire, come investimento e valore, lo

14
Cfr. M. Foucault, Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France 1978-1979, Seuil,
Gallimard 2004; tr. it. di M. Bertani e V. Zini, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France
(1978-1979), Feltrinelli, Milano 2005.
15
“È stato necessario il salto della biologia nella biologia molecolare, oppure che la vita dispersa
si raccogliesse nel codice genetico. È stato necessario che il lavoro disperso si raccogliesse o si
raggruppasse nelle macchine della terza generazione, cibernetiche e informatiche”. Cfr. G.
Deleuze, Foucault, Minuit, Paris 1986; tr. it. di P.A. Rovatti e F. Sossi, Foucault, Feltrinelli, Milano
1987, p. 132.
16
Cfr. P. Rabinow, Artificiality and Enlightenment: From Sociobiology to Biosociality, in Id., Essays
on the Anthropology of Reason, Princeton University Press, Princeton 1996, pp. 91-111.
17
G. Deleuze, F. Guattari, Mille plateaux. Capitalisme et schizophrénie, Minuit, Paris 1990; tr. it. di
G. Passerone, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma 2006, p. 111.

39
Shift. International Journal of Philosophical Studies

sviluppo delle sue potenzialità, il suo interesse e il suo benessere. Certo, l’uma-
nesimo democratico non viene mai meno: ma si concentra su un diritto illimitato
dell’uomo a occuparsi della propria ‘felicità’ e benessere. Questo nuovo mate-
rialismo riceve la sua impronta dalla spinta capitalista alla crescita, al potenzia-
mento del vivente e, proprio per questo, spersonalizza il soggetto nelle sequenze
algoritmiche che segnano un campo di agibilità manipolativa-migliorativa gesti-
bile solo da esperti genetisti o finanziari, a loro volta apprendisti stregoni di un
meccanismo sempre più complesso.18 In quanto tecnica di governo, la biopolitica
neoliberale passa attraverso i corpi di ciascuno e di tutti, scomponendoli e modu-
landoli: profili governabili, a prescindere dalle storie soggettive vere, delle quali
né lo stato governamentalizzato, né il nuovo capitalismo si cura.
Sorprendente dissolvimento dei soggetti individuali, esaltati dalla mitologia
liberale dell’autogoverno: ri-trascritti in una mole enorme di dati che orientano
governo e autogoverno, produzione, dispositivi securitari, strumenti finanziari
per la raccolta dei crediti.
Il governo della vita affonda in una profonda rivoluzione epistemica del prin-
cipio stesso della rappresentazione del soggetto.

3. Soggetto politico multilevel


multilevel:: come effetto di pratiche, come novum
novum,, come
campo di battaglia

La razionalità neoliberale non è semplicemente una forma di politica econo-


mica che si è imposta a livello globale: fa leva certo su teoria e pratica del capi-
talismo cognitivo e finanziario, ma è un metodo di riorganizzazione complessiva
dei rapporti sociali e politici, tutti ricalibrati sulla netta prevalenza del privato sul
pubblico, ma con modalità profondamente eterogenee a seconda dei contesti.
Questa eterogeneità e incoerenza è il marchio della sua natura funzionale, non
identitaria. Se la tecnica di governo biopolitico dissolve il soggetto governato in
aggregati molecolari, a quali soggetti ci riferiamo quando pensiamo l’opera di ri-
organizzazione mobile e in continuo aggiustamento delle tecniche stesse?
Il soggetto attivo non può che essere marcato dal carattere specifico del neoli-
beralismo: la commistione di pubblico e privato, di politico e sociale a vantaggio
del privato e del sociale. Su di essa si ri-organizza lo stesso capitalismo con un
attivismo istituzionale capace di condizionare le vite ben al di là del mercato pro-
priamente detto. È difficile non considerare politica, per quanto si presenti come
privata e tecnocratica, un’attività come quella delle grandi banche di investimen-
to, pur completamente sottratta alla legittimazione democratica, poiché, operan-
do sulla stabilità delle monete o sulla cartolarizzazione del debito, determina le
condizioni di vita di settori enormi della popolazione. D’altra parte, nel mesco-
larsi di politico e sociale, sono vettori attivi di potere anche le precarie aggrega-

18
N. Srnicek, Platform capitalism, Polity Press, Cambridge 2016.

40
Slittamenti del soggetto politico: mille piani

zioni intermedie che si collocano tra la separatezza delle monadi e la fusione della
classe. Sono processi di soggettivazione sociale che premono sul linguaggio giu-
ridico nel quale è codificata la politica ufficiale, per ottenere effetti piuttosto che
riconoscimenti, luoghi costitutivamente instabili e congiunturali, che testimonia-
no il predominio delle pratiche sugli status e le definizioni formali. Accanto e al
di là della non trascurabile persistenza delle istituzioni moderne, tra tutte lo stato
governamentalizzato. Istituzioni con le quali, d’altronde, le stesse aggregazioni
informali negoziano, talvolta conflittualmente talvolta negli interstizi della legali-
tà. Originate come sono da una convergenza situazionale, contingente, rifuggono
a parole d’ordine e a valori universali, ma sono comunque forme.
È in atto un istituzionalismo diffuso, creatore di diritto e di norme che si pre-
sumono spontanee ed auto-regolative, dal basso, bottom-up, inclusive e inde-
terminate, sottratte alla barratura del trascendente: il loro limite è immanente,
emergente dalla combinazione, e dunque mobile: forme di individuazione per
differenziazione, per variazione, per contiguità. Che contrattano con forme rap-
presentative e istituzioni molari. Uno scenario multilevel, complesso, che si river-
bera sul nome del soggetto.
Bisogna comunque essere consapevoli che anche le nuove aggregazioni esi-
gono un riferimento ‘simbolico’, un momento di precario trascendimento – il
trend, il test del mercato, le congiunture finanziarie, la prevalenza in un son-
daggio, ma anche l’obiettivo di un movimento di protesta (un regolamento di
case popolari, un responsabile sindacale...) o di una sperimentazione di gestione
locale e perfino di un flash mobbing – che è vissuto come precaria stabilizzazione
e genera effetti di soggettivazione. Questi punti di stabilità precaria prendono il
posto delle vecchie sintesi politiche. Governano le condotte senza trascenderle,
essendo essi stessi determinati dalla sinergia dei comportamenti e risolvendosi in
essa. Precariamente simboliche, queste pratiche sono in ogni caso impossibili da
universalizzare o modellizzare, immerse come sono in contesti territoriali speci-
fici e non esportabili.
Le nuove soggettivazioni fluttuano attorno a questi punti di aggregazione
piuttosto che lasciarsi organizzare da un qualche soggetto politico egemonico
che richiederebbe un trascendimento sacrificale e unitario e obbligherebbe alla
coerenza con le leggi del diritto: queste ultime incompatibili spesso con la loro
esistenza di fatto, ma duttili abbastanza oggi per piegarsi al loro trattamento.
Senza certezza però. Assistiamo, infatti, a improvvisi irrigidimenti delle strut-
ture dominanti, impennate parossistiche indotte da contingenze emergenziali.
Piuttosto che soggetti strutturati dalla rappresentazione/rappresentanza, queste
soggettività sociali sono esperimenti di autogestione situazionale, locale, dove
coloro che si impegnano dal basso, esauriscono nelle pratiche operative il loro
essere soggetti: non esterni, fuori/contro il sistema, ma infra-governamentali che
‘negoziano’ con altri poteri più tradizionali.
Quando, nella casistica che emerge nelle pieghe della ri-organizzazione dello
stato e del capitale, ci troviamo di fronte a queste pratiche materiali, istitutive
di forme nuove o a mobilitazioni irriducibili alle categorie standardizzate del

41
Shift. International Journal of Philosophical Studies

cittadino o del lavoratore sindacalizzato, possiamo dire che esse fanno di un ag-
gregato sociale, un soggetto politico?
Se rispondiamo affermativamente, ha senso la tesi di Chatterjee relativa ad
una società politica, a processi di soggettivazione dei governati che scompongono
la articolazione classica stato-società civile e trovano attivamente, negli interstizi
della governamentalità, forme di riconoscimento politico di fatto, non mediato
dalla rappresentanza né dal diritto e dalle procedure amministrative. La gover-
namentalità viene coinvolta e aggirata ad un tempo, attraverso azioni negoziali,
che fanno leva proprio su quel concetto di eccezione e di emergenza che è una
delle armi più forti che essa usa per sospendere i diritti o per ampliare le aree di
controllo sicuritario. Lo studioso indiano pensa a subalterni, immigrati, rifugiati
privi di status definito giuridicamente, poveri e espulsi dal sistema, ma le maglie
della governamentalità includono esperienze ‘produttive’ di segno diverso: socie-
tà politica anch’esse?19 Prove, in ogni caso, di una disseminazione della politica
stessa e della sua natura eterogenea.
Prendere atto di questa politicità sociale non dichiarata e non controllabile, ci
costringe a confrontarci con il rapporto della politica con il novum, che è l’assun-
to delle teorie della cosiddetta ‘politica pura’. Per questa tradizione – da Schmitt
ad Arendt, da Tronti a Badiou e ripresa dalle teorie neo-egemoniche – l’indi-
spensabile individuazione di un Soggetto politico, si lega alla costruzione del
novum, effetto del Potere costituente. È necessario (per quanto possa essere raro
e difficile) costruire il Popolo, il Soggetto, capace dell’atto creativo che impone la
forma al sociale. Il novum dunque come Costituzione dal nulla. Si recupera così
del moderno l’azione soggettiva e volontaria, la presa di potere, la rivoluzione, il
cui tempo è l’evento. È una traccia di persistenza del discorso moderno e della
teologia politica: può avere il taglio luciferino dell’evento rivoluzionario, ma an-
che quello populista egemonico o liberaldemocratico. Questo discorso c’è – e ci
sono questi linguaggi.
Ma oggi essi coesistono e sono obbligati a confrontarsi con il modo diverso di
pensare il novum (e dunque l’agire politico) nell’ambito dell’ontologia immanen-
tistica che, come abbiamo visto, scardina il dualismo rappresentativo attraverso
l’immanenza della vita a se stessa.
A questo livello, rilevano più che i soggetti, i processi di soggettivazione.
Nell’ontologia immanentistica non c’è un soggetto pre-dato, ma una tendenza
temporale alla realizzazione ottimale, un tempo/potenza, mobile, diveniente, tra
virtuale e attuale, che esplicita una potenzialità. Di cosa o di chi? non di soggetti
veri e propri ma di aggregazioni individuali o collettive che segnalino l’ecceden-
za del novum, che è ciò che rimane del soggetto stesso. Ma non è dal Soggetto
che deriva il novum; è piuttosto la creazione di novum, l’emergenza di nuovi
prodotti, nuove connessioni, nuove forme di vita, nuove istituzioni a segnalare

19
Cfr. P. Chatterjee, The Politics of the Governed: Popular Politics in Most of the World, Columbia
University Press, New York 2004; tr. it. di M. Bortolini, Oltre la cittadinanza. La politica dei
governati, Booklet, Milano 2006.

42
Slittamenti del soggetto politico: mille piani

un soggetto come effetto delle relazioni produttive e creative. L’eccedenza del


novum non è l’opera romantica di un cervello geniale che crea dal nulla, né l’a-
zione rivoluzionaria di un soggetto/potere costituente. È piuttosto l’insorgenza
preterintenzionale di una cooperazione contingente. Novum, su un piano di im-
manenza, è l’effetto di un operare cooperativo tra singoli e gruppi. La creazione
di qualcosa di nuovo – e dobbiamo pensare che questa creazione riguardi anche
la produzione istituzionale, politica – diventa una potenza di adattamento e va-
riazione e anche sempre una combinazione di forze, all’interno di un cervello
sociale o general intellect.20
Può questo piano essere considerato virtualmente, come immediatamente de-
mocratico? o riflette e amplifica la disuguaglianza di status? È possibile pensare
la condizione democratica come una dimensione virtuale delle pratiche sociali,
un essere dentro essendo altrimenti, muovendosi nelle sgranature del tessuto
governamentale?
Non sembra una cosa facile.
Abbiamo accennato prima al neoistituzionalismo economico delle agenzie fi-
nanziarie. Sappiamo poi che, quando si tratta di prodotti commerciabili, materiali
o immateriali, l’economia di mercato sopravviene sulla co-produzione spontanea
del novum, per selezionare i prodotti che saranno apprezzati dal pubblico e sa-
ranno riprodotti in forma standardizzata. E sappiamo anche che, se da una parte
questa valorizzazione capitalista opera a posteriori sulla creatività della macchina
desiderante sociale, selezionando i prodotti che un pubblico (meglio: un target)
è statisticamente prevedibile che apprezzerà, dall’altra parte non si limiterà a
presupporre la validazione sociale dei prodotti, ma cercherà di organizzarla, go-
vernarla. Anzi, questo management diviene la sua funzione più strategica.
Il lessico del capitalismo postfordista si sovrappone al linguaggio del pensiero
della differenza (creazione, macchine desideranti, produzione e riproduzione)
perché quest’ultimo ha assunto integralmente la trasformazione ontologica in
atto, enfatizzandone oltre misura il portato libertario (e mettendone in ombra il
rovescio governato e la persistenza delle forme). La vita come desiderio e creden-
za circola in flussi di scambio e cooperazione: liberamente. Ma, rispetto ad essi –
in modo non diverso da come Luhmann immagina la funzione organizzazionale-
selettiva del potere – la governamentalità neoliberale, che è un’antropotecnica
delle forme soggettive, funge da relais, filtrando le correnti creative: le ripete, le
imita oppure le dirotta, in modo che siano valorizzate dal capitale che conferi-
sce ad esse valore economico e ‘effetti’ di potere. Il tramonto della costruzione
repressiva/disciplinare delle soggettività ha liberato sì onde di creatività che si
trasmettono orizzontalmente per imitazione, per contagio: ma queste vengono
filtrate nella validazione competitiva del mercato. Negri esalta la potenza dio-

20
Cfr. K. Marx, Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie, Dietz, Berlin 1953; tr. it. di E.
Grillo, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia, Firenze
1968/70, vol. II, pp. 389-411; si tratta del cosiddetto “Frammento delle macchine”; G. Tarde, La
logique sociale, F. Alcan, Paris 1904.

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Shift. International Journal of Philosophical Studies

nisiaca e la fecondità di questo ‘pensiero comune’ o general intellect: forza non


immediatamente economica né appropriativa, poiché non fonda, come il lavoro,
sulla rarità ma esprime, “rendimenti crescenti” puramente affermativi.21 Eppure
di rado essa riesce a sottrarsi alla gestione capitalista immanente ai processi di
soggettivazione, per essere fruita come bene comune. Il principio strategico e
competitivo – che struttura l’immaginario sociale – spinge il novum nell’alveo
della valorizzazione. La creatività si misurerà nella competizione e nello scambio
equivalenziale.
Ma non è sempre così, non dappertutto e non totalmente. Noi possiamo indi-
viduare i punti dove insiste l’assoggettamento attraverso le soggettivazioni che lo
piegano, deviano e resistono.
Se valorizziamo le pratiche innovative di istituzionalismo sociale e politico,
privato o comune, cui prima abbiamo accennato, e le sperimentazioni che – ai
margini del sistema orientato alla privatizzazione, alla competizione e alla dise-
guaglianza – smagliano e ricompongono la categorizzazione moderna del citta-
dino e del soggetto politico; se ne valorizziamo cioè il carattere politico – allora
dovremo sottolineare che proprio il loro tratto particolaristico e specifico, conte-
stuale e limitato, refrattario ad ogni universalizzazione, ci rinvia ad una realtà di
estrema complessità.
Dove persistono e si sovrappongono livelli diversi e non coerenti, che faticosa-
mente la stessa razionalità neoliberale cerca di controllare e piegare. Nulla viene
escluso in questo scenario complesso: se meccanismi informali possono fornire
un profilo identificabile a gruppi di governati e se queste forme coesistono con
le lobby privatistiche e negoziano con esse, se ai bordi del diritto amministrativo
premono esperimenti di autogestione né pubblica né privata di beni comuni,
allora sarà necessario incrociare questa effervescenza istituzionale con la persi-
stenza del livello della rappresentazione più o meno unitaria, più o meno falli-
mentare degli stati. Ciò che oggi avviene nello scacchiere geopolitico globale e
macroregionale testimonia l’attivismo di Stati destinati, piuttosto che al declino,
alla trasformazione indotta via via dalle emergenze mondiali e geopolitiche e
dagli aggiustamenti di un capitalismo in perenne trasformazione. Impossibile la
reductio ad unum: questo è certo. È certo però anche che il livello della rappre-
sentazione collettiva resta portatore di scelte che difficilmente non peseranno su
situazioni locali che dal basso tentano di autogestirsi. Ed è anche il livello dove è
efficace prendere posizione su questioni di ampia ricaduta sociale: dalla legisla-
zione sul lavoro alla organizzazione dell’educazione pubblica.
In questa chiave sembra perdente e soprattutto non realistica (che per il pen-
siero politico è quanto di peggio) la contrapposizione del nuovo post-operaismo
che dissemina il sociale di pratiche politiche di autogestione e ‘la politica pura’
della democrazia radicale. Varrebbe la pena forse considerare foucaultianamente
il soggetto politico come il campo di forze dove si contendono pratiche e vet-

21
M. Hardt, A. Negri, Il lavoro di Dioniso, Manifestolibri, Roma 2001.

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Slittamenti del soggetto politico: mille piani

tori di diverso livello, che operano assoggettando (ma mai senza residuo) e che
affrontano e si confrontano con altre pratiche di soggettivazione o piegano le
stesse pratiche di assoggettamento ad effetti eccedenti rispetto agli obiettivi del
dispositivo concreto.
Il soggetto politico ha oggi un profilo mutante e molte facce possibili. Emerge
dal sovrapporsi o dal combinarsi di linguaggi giuridici in mutazione, di forme
che per quanto svuotate producono effetti, da pratiche di autogestione e di lotta.
La leggibilità di questi nuovi assemblaggi e delle ristrutturazioni in corso rinvia
alla loro economia strategica, se e quanto sarà capace di provocare nuovi modi di
rapportare percezione di sé e pratiche collettive, e di andare al di là del «doppio
legame politico, costituito dalla individualizzazione e dalla totalizzazione simul-
tanee del potere moderno».22 Il soggetto politico? Non Uno e non Tutto.

22
M. Foucault, Le subjet et le pouvoir, in H. Dreyfus, P. Rabinow, Michel Foucault: Beyond
Structuralism and Hermeneutics, The University of Chicago Press, Chicago 1983; tr. it. di D. Benati,
M. Bertani, I. Levrini, La ricerca di Michel Foucault. Analitica della verità e storia del presente,
Ponte alle Grazie, Firenze 1989, p. 244.

45
Socialité et subjectivité
Eros en plusieurs temps chez Emmanuel Levinas
Danielle Cohen-Levinas

Abstract

What does Eros mean several times? We will start with the ideadear to Levinas,
according to which the main part of his research concerns the deformalisation
of time. Consequently, it becomes necessary to question the place of the subject
and the ethical structure of subjectivity since it corresponds to what one might
call a double logic : face-to-face or one-for-another ; and the third world or so-
ciality. It seems to us that the motif of Eros makes it possible to understand how
the subject passes from one logic to the other.

Keywords: Eros, deformalisation, subject, subjectivity, one-for-another, sociality.

Qu’entendons-nous par Eros en plusieurs temps ? Nous partirons de ce qu’écrit


Emmanuel Levinas dans Entre nous. Essais sur le penser-à-l’autre :1 « Mon thème
de recherche essentiel est celui de la déformalisation de la notion de temps ».2
Cette question de la déformalisation du temps ne nous étonnera guère. Elle
constitue depuis De l’existence à l’existant et Le Temps et l’autre le cœur de la
réflexion du rapport à autrui, depuis l’événement de la rencontre, puisque le
temps ne vient au sujet qu’à partir d’un autrui qui ne s’annonce pas. Autrement
dit, déformaliser le temps, c’est s’ouvrir à un événement et à une forme tempo-
relle qui n’est pas le corrélat d’une visée ; c’est faire l’expérience d’un événement
inassimilable que Levinas nomme Visage. Il précise dans Totalité et Infini :

L’absolument Autre, c’est Autrui. Il ne fait pas nombre avec moi. La collectivité où je
dis ‘tu’ ou ‘nous’ n’est pas un pluriel de ‘je’. Moi, toi, ce ne sont pas là individus d’un
concept commun.3

L’affect immémorial – que nous pourrions qualifier de pré-originaire –, celui


qui accompagne l’événement de la rencontre, qui n’a plus rien de commun avec

1
E. Levinas, Entre nous. Essais sur le penser-à-l’autre , ed. Grasset, Paris 1991.
2
Ivi, p. 244.
3
E. Levinas, Totalité et Infini, Essai sur l’extériorité, ed. Martinus Nijhoff, La Haye 1961, p. 9 (Livre
de poche, Collection Biblio essais, p. 28).

Shift. International Journal of Philosophical Studies 1/2017


Shift. International Journal of Philosophical Studies

le mouvement de rassemblement de la conscience et de la temporalité historique,


implique une forme de continuité dans la discontinuité, que Levinas perçoit dans
Totalité et Infini dans le temps de la fécondité même ; dans une temporalité de
la fécondité qui s’oppose en tout point au définitif de l’être et du temps, comme
si Levinas mettait en face à face la figure du destin avec celle de « l’infini illimité
de l’avenir ».4 Levinas ajoute : « Un être capable d’un autre destin est un être
fécond ». Comment comprendre et appréhender l’autre destin dont la condition
de possibilité réside précisément dans une discontinuité temporelle qui substitue
à la question du commencement celle du recommencement ou, plus exactement,
celle de la discontinuité du recommencement5 tourné vers l’avenir ?
Il faut commencer par souligner l’événement fondateur qui chez Levinas fera
de la question d’Eros un motif central. En visant autrui, Eros révèle l’équivocité
même de l’amour et se tient entre deux temporalités dont le sens ne se joue pas
entre un temps et un autre, mais dans une forme de clignotement comparable
au passage du Dit comme « prestation de sens », au Dire comme « signifiance
baillée à l’autre » . La nudité érotique dont il est question dans Totalité et Infini se
situe quant à elle entre « la signifiance du langage et la non-signifiance du lascif ».6
Comme accueil d’autrui, l’amour est donc déjà en soi la manifestation de la struc-
ture éthique de la subjectivité, qui ne se laisse pas réduire ni au Dit, ni à la fixation
d’un objet ou d’une parole. Paradoxe de l’équivocité, à suivre les propos d’Emma-
nuel Levinas, Eros relèverait d’une « phénoménologie de l’eros » que l’on pourrait
reconduire à une détermination de sens et de concept. Or, dans Eros, l’altérité de
l’autre prend sens autrement, de par une modalité d’unique et d’incomparable,
excluant « l’Aimé » d’une synthèse constituant l’ensemble, au point que le moment
érotique tel que Levinas l’envisage dans la quatrième et dernière section de Totalité
et Infini, « Au-delà du visage »,7 à la fois parole et non parole, profanation et non
concupiscence, possession et désappropriation, pourrait bien être, non seulement
un mouvement de retournement de l’intentionnalité, mais un refus et une résis-
tance à l’intentionnalité elle-même. Ainsi, le temps érotique s’interdirait la réduc-
tion de l’Autre au Même, l’addition en ensemble. Il maintiendrait un rapport de
non-in-différence, qui n’est ni un phénomène d’extension du même à l’autre, ni le
présent d’une nudité qui retourne sur le passé après avoir visé un avenir. Le sens
originel d’Eros résiderait dès lors dans l’exposition à autrui, lequel, avant toute
réflexion, « me regarde », non pas comme une projection ou comme présentation
d’un signe, mais comme signification qui signifie par elle-même, pure expression
en deçà de toute Sinngebung. Il s’agit là pour Levinas d’un phénomène premier de
la signification, laquelle est une autre manière de dire et de penser l’extériorité :
« Le phénomène premier de la signification coïncide avec l’extériorité » . Aussi,
la critique de l’intentionnalité telle qu’elle se pose dans l’exposition à autrui ne

4
Ivi, p. 258.
5
Ivi, p. 259.
6
Id., Totalité et Infini, Livre de poche, Collection Biblio essais, cit., p. 291.
7
Ivi, de la p. 279 à la p. 318.

48
Socialité et subjectivité

dispense pas pour autant de s’abstraire de toute signification, mais celle-ci ne vise
ni une personne ni une chose. De même, son mouvement consiste toujours à aller
au-delà, à savoir, « hors de son image plastique » . Le mouvement de cette signi-
fication se rapporte toujours au visage et, par conséquent, elle consiste à aller au-
delà de l’être qui se présenterait « comme identique dans son visage ».8 En Eros,
Autrui serait un prochain que Levinas décrit comme un interlocuteur se situant
au-delà du discours, dont la simultanéité de la jouissance et du désir requiert une
singularité propre à l’érotisme. Toucher et dépasser le discours n’est possible que
parce que cette singularité est « l’équivoque par excellence » . Cette équivocité a
pour vocation d’accomplir une signifiance originelle qui ne relève plus d’une signi-
fication formelle. Logiquement, le Moi est l’autre d’Autrui, et l’altérité est l’Autrui
du Moi. Autrement dit, la multiplicité des termes que forme l’addition du Moi et
d’Autrui demeure formellement soudée et unie. L’ambiguïté de l’amour annule
cette synthèse d’entendement et conserve la dualité dont Levinas dit dans les Car-
nets de captivité qu’elle est essentielle pour lui.

La dualité et le mystère d’autrui – est le fond même de l’amour. La sexualité. Concep-


tion qui permet de dépasser le problème ‘égoïsme – altruisme’. Puisque l’ego ne se
définit pas en dehors de l’amour chez moi. Sexualité constitutive de l’égoïté. Rupture
avec la conception antique de l’amour.9

Un principe génétique est à l’œuvre dans éros dont nous pouvons suivre les
différents tracés depuis les Carnets de captivité jusqu’à Totalité et Infini. La lec-
ture des Carnets de captivité ajoute un élément fondamental à ce remarquable
tracé où sont tour à tour déclinés les différents liés à l’ambiguïté de l’amour.
Caresse, éros et fécondité sont en effet des motifs qui structurent la subjectivité
exposée du sujet, mais dans les Carnets, Levinas décrit ce qui, de la sexualité,
constitue une notion centrale, qui disparaît par la suite, mettant déjà l’accent
sur la non réduction à un principe d’union et d’immanence foncière. La dualité
dont parle Levinas est en opposition à ce qu’il appelle « la conception antique
de l’amour ». Platon est cité comme la référence opposée à son projet philoso-
phique sur l’éros et la question du sexe s’avère ici le paradigme de ce qui dans
Totalité et Infini deviendra ce mouvement sans cesse relancé, conduisant vers la
fécondité, vers un futur dont Levinas dit, reprenant à son compte l’expression
poétique de Paul Valéry,10 qu’il n’est « jamais assez futur » :11

Depuis Platon, amour vient de l’union de Poros et de Pénia. Dans l’amour besoin et
pauvreté. Dans ces conditions on ne comprend pas la notion de sexe. Elle reste notion
physiologique. Chez Platon dans sa théorie de l’amour, elle est d’ailleurs subsidiaire.

8
Ivi, p. 295.
9
E. Levinas, Carnets de captivité et autres inédits, Œuvres I, volume sous la responsabilité de R.
Calin et de C. Chalier, ed. Grasset/Imec, Paris 2009, p. 114.
10
« Profond jadis, jamais assez jadis ».
11
E. Levinas, Totalité et Infini, cit., p. 285.

49
Shift. International Journal of Philosophical Studies

Pourquoi l’image du beau est-elle attrayante dans la femme ? Dans ma théorie de


l’Eros c’est le sexe qui devient la notion centrale. 12

Par conséquent, à suivre les propos de Levinas, si, comme il le souligne dans
les Carnets de captivité, « la dualité et le mystère d’autrui – est le fond même de
l’amour »,13 la sexualité en tant que région de l’amour est ce qui permet de dépas-
ser l’antagonisme entre égoïsme et altruisme. C’est encore en rapport avec « la
conception antique de l’amour »,14 autrement dit Platon, avec lequel Levinas
mène une sorte de dialogue implicite, qu’il entend prendre ses distances, ou du
moins opérer une rupture avec l’idée même de dualité. Levinas le dit clairement :
« Sexualité constitutive de l’égoïté » .
Sous la figure d’eros, l’objet intentionnel cesse d’être un simple objet visé ou
désiré. Nous aimerions montrer comment ce motif ne saurait être reconduit à
une linéarité temporelle, mais se trouve être au cœur d’une attente dont l’achè-
vement ne peut être ni pensé, ni conçu, ni anticipé. Ce qui donne à eros son
caractère d’incessante ouverture, ne s’ouvrant plus uniquement à l’horizon d’un
objet, mais décrivant plutôt, dans la matérialité du sujet, une sortie hors de l’être,
c’est l’idée que l’écart entre égoïsme et altruisme est maintenu : « L’intervalle
n’est pas seulement franchi – il est toujours à franchir ».15 Entre les deux, vient
se glisser un autre motif, qui déplace notre regard vers un eros pris dans l’ellipse
de la transcendance d’autrui et non plus uniquement tenu par une dualité tou-
jours résorbée et dépassée. A la dualité comme jouissance même, Levinas relie
la question de la socialité. La socialité atteste une résistance au noyau dur de
l’ipséité et répond à un principe de sédimentation manifeste dans la temporalité
propre à la fécondité, laquelle s’inscrit dans le prolongement des analyses sur
la caresse dans Le Temps et l’Autre. Nous ne reviendrons pas pour l’heure sur
ces analyses. Nous voudrions juste rappeler que, contrairement au motif de la
fécondité développé dans Totalité et Infini, la caresse dont il est question dans
De l’existence à l’existant,16 entendue comme consolatrice,17 n’annonce pas un
avenir libéré de toute intentionnalité : « La caresse du consolateur »18 libère de
l’hypostase, laquelle ne constitue pas un sujet transcendantal, dans la mesure où
ce dernier est rivé à sa propre matérialité. La caresse venue d’autrui libère le sujet
de cette hypostase, de la neutralité du il y a, et rend possible l’effort de suppor-

12
Id., Carnets de captivité, cit., p. 117.
13
Ivi, p. 114.
14
Ibid.
15
Ivi, p. 120.
16
E. Levinas, De l’existence à l’existant, Vrin, Paris 1990, (première édition, 1947).
17
« La caresse du consolateur qui effleure dans la douleur ne promet pas la fin de la souffrance,
n’annonce pas de compensation, ne concerne pas, dans son contact, l’après du temps économique ;
elle a trait à l’instant même de la douleur qui alors n’est plus condamné à lui-même, qui entrainé
‘ailleurs’ par le mouvement de la caresse, se libère de l’étau du ‘soi-même’, se trouve de ‘l’air frais’,
une dimension et un avenir. Ou, plutôt, elle annonce plus qu’un simple avenir, elle annonce un
avenir où le présent bénéficiera d’un rappel » ; cfr. ivi., p. 156.
18
Ibid.

50
Socialité et subjectivité

ter l’existence de l’existant. Cependant, le sujet atteint dans son corps, attaché
à lui-même de manière irrémissible, est encore solitaire. Sa liberté ne l’arrache
pas à ce que Levinas appelle le « définitif de mon existence même » . Dans les
Carnets de captivité, Levinas indiquait dès 1942, alors qu’il se trouvait prisonnier
à Laval, puis à Vesoul, que le sujet relève d’un tout autre ordre que « l’opposition
même du possible et de l’existant (…) Quel est cet ordre ? Solitude ou société.
Enchaînement et liberté ? Être ou bonheur » . Ainsi la matérialité du sujet affecté
par l’il y a attesterait de ce mouvement de séparation hors de l’être. Sans cette
dimension pathique d’un sujet hypostasié par une identité matérialisée – ce que
Levinas appelle une « identité d’existant »19 –, la subjectivité du sujet encore en
position non transcendante ne pourrait pas accomplir ce mouvement d’évasion
sans lequel il ne peut rencontrer autrui. Il y va donc du passage névralgique de
la fluence de l’être verbal à une structure éthique de la subjectivité qui surmonte
sa position non transcendante, à savoir matérielle, corporelle et sensible, de ma-
nière à pouvoir se laisser surprendre par la transcendance d’autrui. Le sens de la
socialité résulterait de cette solitude foncière qui suppose des êtres séparés. Dans
Totalité et Infini, cette multiplicité d’interlocuteurs définit également un rapport
d’enseignement attesté par le mouvement de séparation : « l’absolument étranger
seul peut nous instruire ».20 Cette socialité comprise comme enseignement décrit
aussi un idéal métaphysique dont Levinas dit bien dans Totalité et Infini, qu’il
« se joue là où se joue la relation sociale – dans nos rapports avec les hommes » .
Autrement dit, le sujet sensible confronté à l’immédiateté de la jouissance et
de l’élémental aura déjà pris ses distances avec le il y a et avec l’hypostase en
vigueur dans De l’existence à l’existant. Il s’agit là d’un phénomène de contrac-
tion matérielle. La caresse, quasi synonyme dans Le Temps et l’autre d’« un mode
d’être du sujet, où le sujet dans le contact d’un autre va au delà de ce contact » ,
aura déjà été comprise comme expérience irréductible de l’autre, accès à sa
transcendance et avenir sans anticipation d’un autrui qui toujours se dérobe. Il
est donc permis d’insister sur la signification quasi eschatologique de la socialité.
Celle ci se situerait entre l’immanence d’une phénoménologie matérielle du sujet
qui rencontre autrui, dont le rapport à l’élémental n’est jamais véritablement
constitué comme tel, mais plutôt constituant, et une transcendance dans l’imma-
nence, vécue comme révélation éthique, au-delà de la thématisation de l’infini et
de toute présomption de totalité. Ce rapport entre transcendance et immanence
s’entend depuis la responsabilité pour l’autre et pour tous les autres, comme si la
caractéristique essentielle d’autrui était sa pluralité, mais une pluralité effective
au moment du surgissement du tiers. La jouissance de l’élémental n’est pas dona-
trice de sens pour la constitution du monde ou de l’objet.
Autrui donc, comme principe d’hétérogénéité, s’avère le point de départ d’une
réflexion sur la socialité et rien ne saurait échapper à cette structure éthique

19
Id., Le Temps et l’Autre, rédigé en 1946/47, pour le Collège Philosophique fondé par Jean Wahl,
publié chez Fata Morgana en 1979, puis au PUF en 1983, p. 47.
20
Id., Totalité et infini, cit., p. 71.

51
Shift. International Journal of Philosophical Studies

de la subjectivité du l’un-pour-l’autre. Autrui est susceptible de faire éclater le


cercle magique de la totalité et d’exposer ainsi le sujet à ce que plus tard Levi-
nas nommera dans Autrement qu’être « la contemporanéité du multiple » . Cette
expression paradoxale, « contemporanéité du multiple » est pertinente là où le
duo éthique devient un trio supposant oubli de soi, correction de l’asymétrie
constitutive de la proximité, justice et socialité. Justice et socialité ne sont pas le
résultat d’un mouvement de retrait du pour-l’autre, mais plutôt le déploiement
de ce qui se joue d’emblée dans le duo éthique :

La justice, la société l’Etat et ses institutions – les échanges et le travail compris à partir de
la proximité – cela signifie que rien ne se soustrait au contrôle de la responsabilité de l’un
pour l’autre (…). Mais la contemporanéité du multiple se noue autour de la dia-chronie de
deux : la justice ne demeure justice que dans une société où il n’y a pas de distinction entre
proches et lointains, mais où demeure l’impossibilité de passer à côté du plus proche ; où
l’égalité de tous est portée par mon inégalité, par le surplus de mes devoirs sur mes droits.

Si dans Autrement qu’être la question de la socialité est articulée autour du tiers,


il faut néanmoins rappeler que dans la tradition juive, la droiture du face-à-face
longuement discutée dans Totalité et Infini est déjà en soi un paradigme de socia-
lité. Au même titre qu’autrui « est le lieu de la vérité métaphysique »,21 il est aussi,
avant même le surgissement du tiers, le lieu de la vérité sociale, laquelle n’est pas
compréhensible sans l’horizon de justice. Il n’est pas inutile d’insister sur le fait que
ce qui retient l’attention de Levinas dans l’herméneutique biblique, c’est précisé-
ment l’idéal de proximité sociale comme mode originel du sensé et de l’intelligible,
à savoir, l’inverse de l’extase intentionnelle ou de la question du saisissement de
l’être. Levinas oppose la proximité comme vérité de l’être à la proximité dialogale,
sociale et fraternelle, en vigueur dans les récits bibliques. Le rapport de proximité
sociale, constitutif du sujet, est sans coïncidence. Son irréductibilité n’est pas négo-
ciable. Au fond, la proximité sociale implique de facto une altération de la subjecti-
vité du sujet et donc du rapport même de proximité. C’est là un des points névral-
giques chez Levinas. Comment articuler une proximité altérée à la connaissance,
sans défaire ou amoindrir le rapport de proximité ? Comment passer d’un régime
à l’autre ? Autrement dit, comment passer de la Bible aux Grecs et traduire en
grec des principes que la Grèce ignorait, comme Levinas le précise ? C’est depuis
ce passage d’un régime à l’autre que la justice comme fondement de la socialité et
recours à l’objectivité se pose, et que se noue un lien insécable entre éthique et poli-
tique. Dans The Ethics of déconstruction Derrida and Levinas,22 Simon Critchley
montre comment l’éthique lévinassienne est au service de la politique, à savoir au
service d’une nouvelle conception de l’organisation politique. Nous précisons
d’emblée que selon nous Levinas n’engage pas explicitement une réflexion sur la
socialité qui viserait une pensée de la politique. Je dirai même que c’est l’inverse. Il

21
Id., Totalité et infini, cit., p. 77.
22
S. Critchley, The Ethics of déconstruction Derrida and Levinas , ed. Blackwell, Cambridge 1992.

52
Socialité et subjectivité

n’y a pas d’action politique chez Levinas. Ce serait tout à fait contraire à l’idée de
patience ou de passivité par exemple. L’ouverture originelle de la socialité comme
mode du sensé et de l’intelligible chez Levinas n’est pas la communauté politique.
Elle n’est pas le monde ou un espace ou une liberté commune. Cette ouverture
concerne un sujet seul, isolé, élu à la responsabilité. L’appel eschatologique à la
responsabilité est fondamentalement non-mondain, et la praxis n’est que très peu
sollicitée ou objet d’analyse et d’herméneutique. Le sujet n’a affaire à une pluralité
d’autrui que dans le monde des tiers et de la justice et, là encore, l’exigence de
justice doit pouvoir assurer les conditions de possibilité de sa propre interruption.
Certes, l’exigence de justice se fonde sans aucun doute sur une praxis intersubjec-
tive, mais dans un même mouvement, elle doit pouvoir retenir l’instant éthique qui
lui donne autorité. La justice comme mesure et rectification du risque de déborde-
ment du duo éthique ne doit pas tout recouvrir. C’est là un impératif biblique que
Levinas aura longuement ausculté dans Autrement qu’être :

Pour le peu d’humanité qui orne la terre, il faut un relâchement de l’essence au deu-
xième degré : dans la justice guerre menée à la guerre, trembler – encore frissonner – à
tout instant, à cause de cette justice même. Il faut cette faiblesse. 23

L’affirmation selon laquelle autrui est déjà une figure de tiers nous paraît jus-
tifiée par le fait qu’autrui, selon Levinas, est « un interlocuteur, un être séparé » ,
autrement dit un interlocuteur à qui la subjectivité s’adresse, à qui elle parle.
Pouvons-nous dès lors en déduire que l’événement éthique, inscrit au cœur de
l’assignation par autrui, est de nature responsive, appartenant à l’ordre du dis-
cours, car tout discours suppose bien des interlocuteurs, c’est-à-dire une plura-
lité d’autrui. Dans Totalité et Infini, Levinas aborde le statut du discours :

Le discours où, à la fois, elle (la substance) est étrangère et présente, suspend la parti-
cipation et instaure, par-delà une connaissance d’objet, l’expérience pure du rapport
social, où un être ne tire pas son existence de son contact avec l’autre.24

Le langage est donc ce qui conditionne l’extériorité. Bien que Levinas interroge les
fondements de l’objectivité et de l’universalité de la pensée philosophique occidentale
en insistant sur le primat du langage, ce dernier tendrait, selon ses propres termes,
« à supprimer l’Autre en le mettant d’accord avec le Même ! ».25 La question est de
taille, car « dans sa fonction d’expression, le langage maintient précisément l’autre à
qui il s’adresse, qu’il interpelle ou invoque » . L’opération lévinassienne qui consiste à
faire découler la société, non plus d’une participation à une vérité commune ou à une
connaissance d’objet, prend le langage à rebours. C’est sur lui désormais que repose
la relation irréductible du rapport sujet/objet, et c’est encore à lui qu’est dévolue

23
E. Levinas, Autrement qu’être, cit., p. 283. Les italiques sont d’Emmanuel Levinas.
24
Ivi, p. 76.
25
Ivi, p.70.

53
Shift. International Journal of Philosophical Studies

la responsabilité de maintenir l’autre absolument autre, de sorte que la relation se


déplace et que cet autre interpellé cesse d’être un donné ou un représenté. Il est un
interlocuteur à part entière. Pour Levinas, la force de ce langage ne relève plus de
l’universalité. Il suppose transcendance, séparation et étrangeté. Le langage est

l’expérience pure du rapport social, où un être ne tire pas son existence de son contact
avec l’autre (…). Dès lors, la métaphysique se joue là où se joue la relation sociale –
dans nos rapports avec les hommes.26

La manière dont Levinas fait apparaître le motif de la socialité peut sembler


paradoxale, tant le rapport à l’autre homme comme absolument unique et in-
comparable ne tire sa signifiance première du sensé et de l’intelligible que parce
qu’il se tient précisément en deçà de tout rôle et de toute fonction sociale. Nu-
dité, mortalité, fragilité, impératif, dénuement, appel, etc., sont des modalités
de l’altérité qui ne répondent pas prioritairement à un ordre social. Dans leurs
irréductibles différences, elles soustraient l’altérité de l’autre de toute synthèse
pouvant constituer, soit un ensemble, soit une addition d’ensembles. Pour le
dire en des termes lévinassiens, la proximité d’autrui, ou encore la proximité du
prochain comme non-in-différence à lui – que dans Le Temps et l’Autre Levinas
associait à la figure du féminin, à eros et à la fécondité – n’est pas réductible à une
altérité formelle. La structure non phénoménologique de la subjectivité confron-
tée à la présence phénoménale d’autrui met en péril la puissance et l’efficacité
formelle de la socialité. Ce que Levinas nomme hauteur recèle une tonalité de
jugement, de commandement, de sommation, mettant en présence deux subjec-
tivités incomparables sans aucune mesure, avec deux mondes constitués, dont le
face-à-face réfute l’opération de renvoi entre signe et signifiant, là où le partage
pourrait se dialectiser ou aller vers une synthèse d’entendement. Ce signifiant,
que nous pourrions qualifier de sans signe ou encore d’avant toute constitution
de signe, se tient lui aussi à l’écart de toute socialité, comme s’il était un pur
donné empirique – un signe sans signifié . Levinas le dit clairement dans Totalité
et Infini :

L’expression ne manifeste pas davantage la présence de l’être en remontant du signe


au signifié. Elle présente le signifiant. Le signifiant, celui qui donne signe – n’est pas
signifié. Il faut déjà avoir été en société de signifiants pour que le signe puisse appa-
raître comme signe. Le signifiant doit donc se présenter avant tout signe, par lui-même
– présenter un visage.27

Dans le monde des tiers, là où la socialité est altérée et doit pouvoir s’avérer
comme justice d’un côté et réparation ou pardon de l’autre, la déformalisation du
temps dont je parlais au départ, qui présuppose la transcendance, doit pouvoir

26
Ivi, p.76.
27
E. Levinas, Totalité et infini, cit., p. 198.

54
Socialité et subjectivité

s’inscrire dans un rythme de temps tout en conservant la trace de l’événement de


l’altérité, celle de l’instant de cet événement. Comme si dans le monde des tiers,
cette déformalisation du temps ne disparaissait pas et que se jouaient plusieurs
intrigues temporelles, chacune d’entre elles pouvant à tout moment être inter-
rompue. Comme si Levinas maintenait un écart irréductible entre ces temporali-
tés : écart entre une temporalité mondaine, une temporalité non mondaine et une
temporalité discontinue ; une temporalité liée aux affects pré-originaires et une
temporalité « passive », refusant de se laisser recouvrir ou récupérer par la syn-
thèse. Autrui ne peut se manifester en dehors du champ de la parole, cependant,
le sujet parlant ne parle pas de lui, mais du monde. La diachronie temporelle, la
figure de dérangement et la synthèse doivent être selon nous pensées ensemble,
dans leur écart, leur clignotement, pour reprendre un terme lévinassien, en vue
d’assurer ce que Levinas dans Autrement qu’être nomme « le laps de temps » :
« c’est aussi de l’irrécupérable, du réfractaire à la simultanéité du présent, de
l’irreprésentable, de l’immémorial, du pré-historique ».28
Une pensée de la socialité n’a de sens chez Levinas que parce que ce pro-
cessus d’arrachement à la synthèse temporelle comme principe de déformali-
sation relève d’un registre irrécupérable par la conscience, et que la « synthèse
passive » dont parle Levinas dans Autrement qu’être, qui n’est pas exactement
la synthèse passive de Husserl, ne peut jamais être articulée à une temporalité
continue, ou alors c’est une temporalité continue qui toujours se défait, entraî-
nant une dualité entre l’un et l’autre de ces registres temporels. Chez Husserl
la synthèse passive n’implique pas une rupture ou une interruption, même si la
passivité est un moment d’éveil et d’exigence de réponse, car le sujet qui répond
à l’affect répond adéquatement dans un champ de conscience constitué et consti-
tuant. Levinas a un mot pour dire cette résistance à la synthèse, qui met en défec-
tion la temporalité constituée et constituante : c’est précisément le mot laps que
nous avons déjà mentionné, lequel implique « l’impossibilité pour la dispersion
du temps de se rassembler en présent ».29 Le laps est bien plus qu’une figure de
dérangement. C’est une rupture au cœur même de la constitution temporelle
intentionnelle dont on pourrait penser qu’elle se reconstitue dans le passage du
l’un-pour-l’autre à la pluralité des tiers. Il y aurait une dramaturgie du temps à
l’œuvre dans la question de la socialité, dont nous voudrions montrer qu’elle se
déploie depuis ce que l’on pourrait appeler en terme musical une cellule géné-
ratrice, selon le schéma formel d’un thème suivi de ses variations. Eros constitue
la matrice de ce thème dont les variations, à l’encontre de toute intentionnalité,
forme une constellation fondamentale pour reconduire l’éthique à sa détermina-
tion conceptuelle.

Dans les Carnets de captivité, Levinas a consigné un certain nombre de frag-


ments dans lesquels la dimension temporelle est déclinée en plusieurs temps.

28
Ibid.
29
Ibid.

55
Shift. International Journal of Philosophical Studies

Nous savons que le temps représente jusqu’à Heidegger ce que l’on pourrait ap-
peler la synthèse la plus étendue, ou la plus large. Chez Heidegger, cette synthèse
va jusqu’à signifier et se confondre avec l’ouverture même de l’être. Dans l’éco-
nomie générale de cette ouverture, l’idée d’instant n’a pour ainsi dire aucune
valeur propre. Il se situe au-delà de lui-même et acquiert ainsi une dimension
transcendante. Dans De l’existence à l’existant, Levinas écrit :

L’instant rompt l’anonymat de l’être en général. Il est l’événement par lequel, dans
le jeu de l’être qui se joue sans joueurs, dans l’existence – des existants ayant l’être
à titre d’attribut ; d’attribut exceptionnel, certes, mais d’attribut. Autrement dit, le
présent est le fait même qu’il y a un existant (…). Dans l’instant, l’existant domine
l’existence. 30

Dans la perspective des notes préparatoires à De l’existence à l’existant, Levi-


nas esquisse dans les Carnets de captivité une pensée du temps qui prend sa
source dans l’instant, ce qui signifie à partir de l’événement qui se joue dans l’ins-
tant et non plus l’inverse. Dès lors, la question qui se pose est de savoir quelles
sont les conditions de possibilité d’une résistance de l’instance à la synthèse. Ce
n’est pas la figure d’autrui venant rompre l’immanence formelle du temps qui
semble retenir ici l’attention de Levinas. Il faut plutôt s’interroger sur la manière
dont autrui est comparable à un phénomène irruptif, déchirant l’immanence for-
melle du temps. Autrui se heurte à un mouvement de résistance se produisant
d’abord et prioritairement au cœur de la subjectivité, plus exactement en deçà
d’elle, à savoir dans le corps. Par conséquent, ce serait sur l’immanence même du
corps que viendrait se briser dans un premier temps la synthèse temporelle du
monde. Soulignons un point éclairant et essentiel pour suivre le mouvement de
ce que nous avons appelé Eros en plusieurs temps : sans les Carnets de captivité,
l’effectivité événementielle à l’œuvre dans la caresse, et plus tard dans la question
de la filiation, de la fécondité et de la paternité atteste d’une socialité que nous
qualifions d’originaire. Cette effectivité génère un processus temporel discon-
tinu, qui affranchit le définitif du présent de lui-même pour s’orienter vers une
relation sociale, ce que Levinas désigne dans Totalité et Infini par « ce surplus du
Bien sur l’être de la multiplicité sur l’Un ».31 Ce surplus se signale par-delà « le
caché – jamais assez caché ».32 Nous pouvons, dans la langue de Levinas, le dire
autrement : Eros n’est pas dans le visage, mais au-delà. Il est

un ravissement au-delà de tout projet, de tout dynamisme, indiscrétion foncière, pro-


fanation et non pas dévoilement de ce qui existe déjà comme rayonnement et signifi-
cation.33

30
Id., De l’existence à l’existant, cit., Livre de poche, 1990, p. 170
31
Id., Totalité et infini, cit., p. 325.
32
Ivi, p. 296.
33
Ibid.

56
Socialité et subjectivité

Le ravissement de l’Eros ne se contente pas de traverser l’au-delà. Il redescend


jusqu’à l’en deça du visage, évitant de s’arrêter à lui. Entre l’au-delà et l’en deça se
tient « la non-socialité de la société des amoureux ».34 Levinas précise encore que

Le rapport qui, dans la volupté, s’établit entre les amants, foncièrement réfractaire à
l’universalisation, est tout le contraire du rapport social. Il exclut le tiers, il demeure
intimité, solitude à deux, société close, le non public par excellence.35

Dans les Carnets de captivité, cette dualité entre le caché et la non-socialité


puis de la socialité comme surplus du bien sur l’être est dans un premier temps
entrevu dans l’amour sexuel. La dualité du je comme définitif du présent et
« non définitif du définitif » est d’abord envisagée depuis la dualité sociale dont
Levinas dit, contre toute attente, qu’elle est d’origine sexuelle :

Par ce qu’il y a ‘intimité’ du sexuel, il y a le phénomène du social qui est plus que la
‘somme des individus’. (…) L’accomplissement – suppose drame – suppose dualité de
personnes. – Lien dualité et le drame du temps s’éclairera à partir de la dualité sociale
c’est à dire sexuelle. Le Bien – dépasse l’être.36

Que signifie comme le fait Levinas poser « le sexuel à la base du social » ? Cela
signifie avant tout poser un ordre de relation qui découle de la présence, de l’inti-
mité et de la transcendance d’autrui. Levinas insiste sur la référence platonicienne
– le Bien au-delà de l’Etre, alors même qu’il se déprend de la conception antique
de l’amour. Ce paradoxe ne peut pas laisser indifférent. Il stipule jusqu’où la dua-
lité décrite dans la « concupiscence charnelle » n’appartient pas à l’ordre du pur
plaisir sexuel ou de la recherche du plaisir. Le laps entre la dualité et le drame
du temps relève d’un « ordre de relation que l’on peut découvrir dans cette rela-
tion spécifique entre personnes qu’est l’amour sexuel ».37 Autrement dit, l’amour
sexuel se dirige dans une autre direction que la « concupiscence charnelle » d’où
Levinas peut faire résonner dans Totalité et Infini le mot « avenir » qui « n’est pas
encore » . Autrui, dans la concupiscence, est une intimité qui demeure résolu-
ment séparé : « La séparation de l’Autre au sein de cette communauté du sentir
constitue l’acuité de la volupté » . En fait, dans l’amour sans séparation, le désir
métaphysique pour autrui qui se signale aussi dans la volupté pourrait s’évanouir.
L’amour est donc le lieu où se manifeste la transcendance d’autrui. Levinas va
jusqu’à dire « qu’il ne transcende pas sans équivoque ».38 Dans les Carnets de cap-
tivité, cette intrigue sociale nouée autour de la corporéité du sujet et de son affec-
tion pour autrui est également analysée dans une perspective littéraire. Levinas,

34
Ibid.
35
Ivi, p. 297.
36
Id., Carnets de captivité, cit., p. 66.
37
Ibid.
38
Ivi, p. 298.

57
Shift. International Journal of Philosophical Studies

lecteur de Proust,39 et en particulier d’Albertine disparue, analyse le statut et la


fonction de l’émotion, du désir, de la séparation de l’Autre au sein de la socialité :

Par le rôle que jouent dans son œuvre les émotions – réflexions sur les émotions d’au-
trui – c’est vraiment le poète du social. Non pas un peintre de la société et des mœurs,
mais le poète du fait social – du fait même qu’il y a pour moi autrui (…). Chez Proust,
poésie du social pure. (Levinas insiste). L’intérêt ne tient pas à la ‘psychologie’ mais au
thème : le social. Toute l’histoire d’Albertine prisonnière – c’est l’histoire de la relation
avec autrui.40

Si le motif de la socialité a son origine dans le sexuel, le sexuel quant à lui se


situe dans le battement équivoque entre immanence et transcendance. Eros avec
concupiscence nous ramènerait en deçà d’une immanence foncière et en même
temps elle nous porterait vers Autrui, vers un amour sans concupiscence. La dé-
formalisation du temps traverse dans Totalité et Infini plusieurs registres de sens
et de signification. Il passe de la « nuit érotique », de « la profanation qui permet
l’équivoque » à un Eros qui délivre de l’encombrement, qui « va vers un avenir
qui n’est pas encore et que je ne saisirai pas seulement, mas que je serai (…) ».41
Référence faite à l’érotique du temps, à la fécondité qui révèle la structure sociale
de la subjectivité amoureuse :

L’être se produit comme multiple et comme scindé en Même et Autre. C’est sa struc-
ture ultime. Il est société, et, par là, il est temps.42

Il y a bien fécondité de l’identité affectée, une fécondité du sensible qui jamais


ne se met en retrait. La variation temporelle ainsi décrite accomplit le mouve-
ment de déformalisation du temps, de la cellule génératrice initiale (le sexuel),
jusqu’à l’exigence éthique la plus haute (la Justice). Dans le vocabulaire d’Autre-
ment qu’être, cela signifie que la proximité, l’exposition et l’asymétrie du l’un
pour l’autre est de l’ordre d’un Dire d’avant tout langage constitué, c’est à dire,
d’avant toute synthèse, et donc d’avant toute Justice. La tâche du philosophe est
de pouvoir penser cette déformalisation en termes de diachronie et d’ambiva-
lence « en plusieurs temps » .

39
Je renvoie à mon essai sur Levinas, lecteur de Proust : La naissance d’autrui (à paraître).
40
E. Levinas, Carnets de captivité, cit., pp. 71-72.
41
Ivi, p. 304.
42
Ivi, p. 301.

58
L’inevitabilità del soggetto
Rino Genovese

Abstract

Against a certain contemporary philosophy, the article shows that transcenden-


tal subject and empirical subjectivities are necessary in cognitive processes. Ne-
verthless, the problem is less to emphasize than to criticize them through the
concept of systemic constraint: the subject is unavoidable in the constitution of
belief, but it is also a restriction of possibilities that cognitive processes have to
open in the direction of otherness.

Keywords: subject, empirical/transcendental, bond, habit, utopia

In questo articolo mi propongo di mostrare come sia il soggetto trascendentale


sia le soggettività empiriche (se così vogliamo chiamarle, accettando per un atti-
mo come valida la distinzione tra il trascendentale e l’empirico) siano inaggirabili
in quanto vincoli sistemici dei processi cognitivi. Non si tratta di riassolutizzare
enfaticamente la coscienza (o il campo trascendentale) come qualcosa dotato
d’intenzionalità; si tratta di ribadire la centralità del soggetto di contro a tutte le
tendenze filosofiche contemporanee, pure imparentate con Husserl, che hanno
inteso indebolirne o distruggerne la stessa nozione. Mi riferisco in particolare
all’ontologia heideggeriana e al cosiddetto pensiero post-strutturalista.
La tesi è la seguente: un processo cognitivo capace di fissarsi come una creden-
za – cioè di non essere un puro caleidoscopio d’impressioni e percezioni – fissa
al tempo stesso un soggetto credente. Non può darsi una cosa senza l’altra: ecco
il vincolo. Se è l’intenzionalità a fare la coscienza, il suo fissarsi come credenza
fa il soggetto. I diversi oggetti intenzionali, determinati all’interno di una rete
di spostamenti di punti di vista che tendono a divenire abituali, sono designati
secondo una pluralità di prospettive. Di qui una definizione di sapore humeano
– il soggetto è un fascio di credenze – al posto di quella propriamente humeana
che faceva del soggetto un fascio di percezioni. Conseguenza ulteriore è che una
credenza risulta difficilmente scalzabile, non si lascia abbandonare o trasforma-
re facilmente da un soggetto installato al suo interno. Essa stessa è infatti un
movimento dei punti di vista, sia pure predeterminato, in grado di esprimere la

Shift. International Journal of Philosophical Studies 1/2017


Shift. International Journal of Philosophical Studies

caratteristica principale di ogni conoscenza: muoversi tra diversi angoli di osser-


vazione senza perdere d’identità. La questione identitaria emerge come centrale.
Ogni processo cognitivo – all’ingrosso, una percezione, una credenza, una teoria
– ha bisogno d’istituire un ritorno dei punti di vista. Anche un sistema di feed-
back, come un termostato che scatta quando la temperatura dell’ambiente in cui
è collocato scende o sale al di sotto o al di sopra di una certa soglia, ha in sé que-
sto momento del ritorno. Una memoria, come di solito l’intendiamo, è in grado
di radunare osservazioni precedenti, di modificarle rendendole attuali – insom-
ma di costituire un’identità sia pure approssimativa tra il presente e il passato. Il
tempo è l’autentica sostanza di cui i processi cognitivi sono fatti. Essi avvengono
nel tempo spazializzato non meno che nella corrente dei vissuti. Senza un ordina-
mento temporale – alla stregua dei processi comunicativi, di cui però qui non mi
occupo – non avrebbero né capo né coda. Così nemmeno si potrebbe correggere
un errore, perché quest’ultimo altro non è che un momento cognitivo che è stato
superato nello scorrere del tempo.
La rivalutazione dell’errore – la cui importanza per la conoscenza non è infe-
riore a quella della verità – ci allontana da una teoria della conoscenza di tipo
normativo, o trascendentale-normativo, come quella kantiana secondo cui un’e-
sperienza può darsi soltanto dal gioco combinato del materiale empirico, offerto
dai sensi, con le forme apriori – così come è distante da un rigido criterio di
falsificazione in senso popperiano. La teoria della conoscenza resta il cuore di
una teoria del soggetto, ma essa è eminentemente descrittiva, non normativa: al
suo interno la verità vi compare come un dubbio che è stato dissipato, qualcosa di
continuamente rivedibile entro cui l’errore risulta un carburante indispensabile
per il procedere della conoscenza stessa. E ciò sia nel caso della conoscenza co-
mune sia in quello della conoscenza scientifica. Tra i progressi mediante tentativi
ed errori di un bambino che apprenda a convivere nella sua forma di vita – o, più
avanti, si misuri con i rudimenti della scienza cosiddetta normale – e il procedere
della ricerca scientifica vera e propria non c’è salto di qualità, tutt’al più una dif-
ferenza nell’ampliamento e affinamento delle capacità d’indagine.
Ciò nonostante non ci si può sbarazzare del trascendentale sic et simpliciter.
Se infatti la posizione del soggetto è inevitabile all’interno dei processi cognitivi,
il suo installarsi nella credenza lo trascendentalizza nel senso di una chiusura dei
possibili: mentre i processi cognitivi in sé sono aperti, e l’errore vi figura appunto
come una verità provvisoria rivedibile, l’esigenza d’identità che la credenza fa
prevalere, e che in una certa misura è imprescindibile, tende piuttosto a stra-
ripare per così dire, a farsi eccessiva, e quindi a trascendentalizzare il soggetto.
L’apriori, in questo senso, non è che la conoscenza passata che preme su quella
presente e futura. Il trascendentale va inteso come un vincolo supplementare – di
per sé non necessario eppure contingentemente inaggirabile – in cui le soggetti-
vità empiriche incappano. Non l’errore, che viene eliminato, ma una verità che
può essere invecchiata e purtuttavia durare.
Detrascendentalizzare il soggetto vuol dire allora aprirlo ai suoi possibili, al
futuro. Un grano di utopia, di ricerca del nuovo, è insito nella conoscenza. Può

60
L’inevitabilità del soggetto

operare tacitamente, perfino essere rimosso, ma c’è. Nella stessa tendenza al ri-
torno dei punti di vista, nella prestazione d’identità fornita dalla credenza, vive
la possibilità di un’apertura al nuovo: e ciò già solo per il fatto che non c’è un
ritorno dell’identico tale e quale ma sempre di un identico approssimativo. Del
resto le credenze mettono comunque in contatto con un altro, non fosse che
per escluderlo. Una credenza religiosa, per esempio, sa di essere in relazione o
in opposizione con un’altra credenza religiosa allo stesso titolo. La chiusura dei
possibili che una fede comporta, fino alle posizioni estreme degli integralismi,
ha in se stessa comunque la possibilità di rompersi nell’apostasia o nell’ateismo.
Non va sottovalutato, come farebbe un illuminismo un po’ piatto, il potenziale
cognitivo proprio delle religioni. Una fede non è errore ma un soggetto che per il
suo tramite si trascendentalizza. Essa può spezzarsi sprigionando la sete di cam-
biamento che un’adesione al culto custodisce o comprime. Questo movimento è
tutt’uno con la tensione utopica. L’effetto raggiunto dalla proiezione universali-
stica tipica di una religione (in particolare nel caso di quelle monoteistiche) può
essere tradotto in termini utopici – naturalmente a patto che il soggetto indirizzi
la sua ricerca sulla terra anziché nell’oltremondo.
Punte di diamante delle diverse culture nel loro sforzo di proiezione univer-
salistica, le religioni forniscono un’armatura cognitiva ai singoli soggetti, ma
tendono a privarli di autonomia rispetto agli usi e ai costumi tradizionali della
cultura stessa. La rottura di questa in-differenza (il “salto nella fede”, lo avrebbe
chiamato Kierkegaard) avviene attivando il contenuto di alterità delle religioni.
Può trattarsi di un distacco anticonformistico e addirittura mistico che riapra la
soggettività particolare, ma può anche essere un riconoscimento della limitatezza
e intrinseca fallacia di una fede religiosa nel suo sforzo di proiezione univer-
salistica. In questo secondo caso il passo successivo è il riconoscimento della
fede altrui come differente declinazione di un unico spirito religioso; oppure è
l’ateismo, l’approdo a un’alterità radicale che prenda congedo dalle basi tradizio-
nali sopra cui poggia qualsiasi religione. Il passaggio dalla fede alla dimensione
utopica avviene in questo modo: staccandosi da un fondamento antropologico-
culturale predefinito. È un processo di detrascendentalizzazione del soggetto in
atto. Qualsiasi credenza, non solamente quella di tipo religioso, è una trascen-
dentalizzazione in attesa di essere detrascendentalizzata attraverso approfondi-
menti ulteriori. L’attribuzione di realtà che una credenza definisce – per cui un
che di esistente è inevitabilmente qualcosa che è creduto tale, e viceversa – non
dice mai l’ultima parola. Lo spostamento del punto di vista, un mutamento di
prospettiva, sono sempre possibili e anzi latenti. Basta poco, talvolta un semplice
riaggiustamento del campo percettivo, per modificare un intero quadro consoli-
dato di attribuzione di realtà. È dall’incertezza, del resto, che procede la certezza,
essendo la certezza del soggetto la sua (mai definitiva) trascendentalizzazione.
Decisiva qui è la funzione d’immagine propria della credenza, in virtù della quale
il soggetto può cogliere, in un solo colpo, se stesso e l’altro mediante una sorta di
alterità interna. Husserl aveva per questo il termine di “appresentazione” – però
nell’ambito di una coscienza totalmente costituente. A una coscienza costituita,

61
Shift. International Journal of Philosophical Studies

invece, pertiene un’immagine mentale formata in larga misura con i materiali


offerti dalla cultura: gli usi, i costumi, l’immaginario, tutto un ethos. Il mentale
e il culturale, l’“io” e il “noi”, tendono a saldarsi in un’unica trascendentalizza-
zione del senso (di ciò che è dotato di senso). Ma questo processo, che chiede
di essere alimentato incessantemente, può interrompersi: il soggetto si colloca
allora su una linea di fuga, non crede più ciò che crede. La prestazione fornita
dal carattere d’immagine, con il suo colpo d’occhio, fissa la credenza in una sorta
d’incantesimo ma, al tempo stesso, essendo un’immagine anche evanescente, la
dispone a modificarsi.
Indico questa intera costellazione con l’espressione di abitudine all’abitudine:
con ciò volendo intendere che una credenza si lascia difficilmente smuovere per-
ché diventa abituale ma, nel contempo, un’abitudine può essere modificata per
dare luogo a una nuova abitudine, a una nuova credenza. Si tratta, se si vuole, di
una struttura antropologico-filosofica – ma con l’avvertenza che qualsiasi antro-
pologia filosofica tende a bloccare come “natura” quelle che sono delle determi-
nazioni per lo più storico-sociali e perciò mutevoli. Preferisco quindi presentare
la nozione di abitudine all’abitudine come una critica interna a un’antropologia
filosofica in se stessa bloccante. Anche sotto questo profilo la questione del sog-
getto è centrale. La natura si lascia osservare come un’alterità rispetto al mondo
dell’avventura storico-sociale degli esseri umani. Il richiamo a una comune radi-
ce antropologica vorrebbe passare sopra le soggettività e le culture particolari.
Ma nel momento in cui si riaffaccia il soggetto con la pretesa di determinare
un’unica “natura umana”, proprio qua, rispunta il gioco della credenza e del suo
altro: l’alterità ripropone le sue mille facce in connessione con gli svariati modi di
stare al mondo secondo la pluralità di abitudini che lo abitano. L’universalmente
umano scompare. Il soggetto, sospeso tra chiusura e apertura dei possibili, resta.

62
Il recupero del soggetto conoscente nel Novecento: la via
della fisica
Giuseppe Giordano

Abstract

The paper proposes the reconstruction of a recovery path of the subject within
nature, starting in the physical field at the beginning of the twentieth century.
The science of modernity had set its entire cognitive model on the subject-object
separation, which resulted in an alien description of the world to the human be-
ings. Physics begins to reintroduce man into nature starting from the quantum
revolution and the theory of relativity. Planck, Einstein, Heisenberg and Bohr
are the main stages of the path investigated in this paper.

Keywords: hysic , science of modernity, quantum, theory of relativity

1. La scomparsa del soggetto

Il problema del rapporto fra il soggetto conoscente e la realtà esterna da cono-


scere è uno dei problemi chiave, attraverso il quale si può anche leggere tutta la
storia della nostra cultura. Quando nell’età moderna la scienza fisico-matematica
e naturale assume il ruolo egemone fra le conoscenze (scalzando la filosofia da
un posto che aveva occupato per più di duemila anni), si inaugura una nuova
prospettiva connotata nei termini di un vero e proprio passo indietro del sogget-
to rispetto a ciò che deve conoscere. Infatti, il modello conoscitivo che sottende
la Rivoluzione scientifica è un modello di rispecchiamento: la natura ha una sua
oggettività e la conoscenza deve ripresentarla, appunto rispecchiarla.1
La nascita della scienza moderna, della scienza galileiana, costituisce la scelta
di individuare nella misura quantitativa la modalità di rispecchiamento puntuale
della realtà. Si tratta dunque dell’affermarsi di un riduzionismo che dà valore in

1
Hans Blumenberg ricorda come già San Tommaso nella Summa Theologiae, facendo riferimento
al De definitionibus di Isaac Ben Salomon Israeli, sostenesse che «veritas est adaequatio rei
et intellectus». Cfr. H. Blumenberg, Paradigmen zu einer Metaphorologie, in «Archiv für
Begriffsgeschichte», n. 6, 1960; tr. it. di M. V. Serra Hansberg, revisione della traduzione di M.
Russo, Paradigmi per una metaforologia, Raffaello Cortina, Milano 2009, p. 7.

Shift. International Journal of Philosophical Studies 1/2017


Shift. International Journal of Philosophical Studies

maniera esclusiva alla quantità (a discapito della qualità che caratterizza invece
il nostro stare effettivo al mondo), sulla base di una pretesa oggettività garanti-
ta dall’opzione per una metafisica di tipo pitagorico-platonico: vero è il mondo
delle forme ideali geometrico-matematiche, e a queste forme vanno ri(con)dotti i
corpi presenti effettivamente nella nostra esperienza della realtà.2
Questo tentativo di “oggettivare” il reale accentua la scelta di retrocessione del
soggetto. Così lo descrive un grande protagonista della rivoluzione in fisica del
Novecento, Erwin Schrödinger:

Lo scienziato nel suo subconscio, quasi inavvertitamente, semplifica il suo problema


di comprendere la natura, non prendendo in considerazione o tagliando fuori dal
quadro se stesso, la sua personalità, il soggetto della conoscenza. Senza rendersene
conto il pensatore si limita a rappresentare la parte d’un osservatore esterno. Con ciò
il suo compito è straordinariamente facilitato. […] Questo gran passo – tagliar fuori
se stesso, retrocedere come uno spettatore che non ha nulla a che fare con l’esecuzione
dello spettacolo – ha ricevuto altri nomi, che lo fanno sembrare innocuo, naturale, ine-
vitabile. Lo si può chiamare semplicemente oggettivazione, considerazione del mondo
come un oggetto.3

Nel momento in cui la scienza conquista la preminenza nel campo della cono-
scenza, essa pone l’autore di questa impresa fuori dalla realtà ritenuta conoscibile
in maniera veritiera e oggettiva. Quello che è accaduto, quindi, per citare un altro
grande scienziato del Novecento, Ludwig von Bertalanffy, è stato che «la scienza ha
conquistato l’universo ma ha dimenticato o addirittura deliberatamente soppresso la
natura umana».4 Ma questo è potuto accadere perché la cornice filosofica del tem-
po ha accolto e fatto proprio il “postulato di oggettivazione”, sancendo la cesura
netta fra il soggetto conoscente e l’oggetto, il mondo naturale. Cartesio è il padre di
questa scissione fra la res cogitans e la res extensa, arrivando ad affermare la totale
autonomia della “sostanza pensante” dalla “sostanza estesa”. Esemplare, in questa
prospettiva, è il passo seguente del Discorso sul metodo del 1637:

Conobbi così di essere una sostanza la cui essenza o natura era esclusivamente di pen-
sare, e che per esistere non ha bisogno di alcun luogo e non dipende da alcuna causa
materiale. Dimodoché questo io, cioè l’anima in forza della quale sono ciò che sono,
è interamente distinta dal corpo e addirittura è più facile a conoscersi del corpo, e,
anche se esso non fosse, l’anima, nondimeno, sarebbe tutto ciò che è.5

2
Per una disamina attenta della prospettiva filosofico-epistemologica in cui si colloca la scienza di
Galilei, rinvio a G. Gembillo, Neostoricismo complesso, ESI, Napoli 1999.
3
E. Schrödinger, Nature and the Greeks in «Proceedings of the Royal Irish Academy», vol. 53,
sez. A, 189, 1950; tr. it. di A. Verson, La natura e i Greci, in Id., L’immagine del mondo, Bollati
Boringhieri, Torino 1987, p. 237.
4
L. von Bertalanffy, General System Theory, Braziller, New York 1968; tr. it. di L. Occhetto Baruffi,
Il sistema uomo. La psicologia nel mondo moderno, ILI, Milano 1971, p. 20.
5
R. Descartes, Discours de la méthode, Ian Maire, Paris 1637; tr. it. di M. Garin, Il discorso sul
metodo, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 45.

64
Il recupero del soggetto conoscente nel Novecento: la via della fisica

La richiesta di oggettività e di verità come valori epistemologici della scienza


della modernità reca con sé la necessità di estromettere il soggetto, in quanto ele-
mento storico e transeunte. Le leggi scientifiche, le regole, le descrizioni devono
essere definitive, vere, eternamente valide: si deve allora tagliare fuori il tempo
storico, il tempo della vita,6 e con esso si taglia fuori l’uomo, il soggetto conoscen-
te, la res cogitans. In questo senso Galilei è «genio che scopre e insieme occulta».7
Per dirla con il grande storico della scienza Alexandre Koyré:

la scienza moderna abbatté le barriere che separavano cielo e terra unificando l’uni-
verso. E questo è vero. Ma essa realizzò tale unificazione sostituendo al nostro mondo
delle qualità e delle percezioni sensibili, il mondo che è il teatro della nostra vita, delle
nostre passioni e della nostra morte, un altro mondo, il mondo della quantità, della
geometria deificata, nel quale, sebbene vi sia posto per ogni cosa, non vi è posto per
l’uomo.8

A Koyré fanno eco Ilya Prigogine e Isabelle Stengers, che osservano: «La fisica
classica si è data una forma sistematica. Ma la sua pretesa di costruire una de-
scrizione del mondo chiusa, coerente, completa, espelle l’uomo dal mondo che
descrive, non solo in quanto abitante di questo mondo, ma anche […] in quanto
suo descrittore».9
Il fatto (o il misfatto) si è compiuto; il soggetto è scomparso, è dileguato nella
pretesa della scienza di conoscere oggettivamente la realtà.

6
Su quanto i fisici possano essersi convinti della “verità” di un tempo non storico, reversibile, è
testimonianza l’ultima lettera del carteggio fra Albert Einstein e Michele Besso. In questo scritto,
il fisico tedesco parla al figlio e alla sorella dell’amico scomparso e, a un certo punto, riafferma la
sua “fede” nel tempo della scienza contro il tempo della vita. Scrive: «Ora, anche nel congedarsi
da questo strano mondo, [Michele] mi ha preceduto di un poco. Questo non significa nulla. Per
noi, che crediamo nella fisica, la separazione tra passato, presente e futuro ha solo il significato
di un’illusione, per quanto tenace». Cfr. A. Einstein, Correspondance 1903-1955, Hermann, Paris
1972; a cura di G. Gembillo; tr. it. di M. F. Davì Trimarchi e G. Gregorio, Corrispondenza con
Michele Besso (1903-1955), Guida, Napoli 1995, p. 459.
7
E. Husserl, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie:
Eine Einleitung in die phänomenologische Philosophie, Martinus Nijhoff, Den Haag 1959; tr. it. di
E. Filippini La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano
2002, p. 81.
8
A. Koyré, Netwoniana studies, Harvard University Press, Cambridge 1965; tr. it. di P. Galluzzi,
Studi newtoniani, Einaudi, Torino 1983, p. 26. Il passo di Koyré è in perfetta sintonia con l’esito
estremo della rivoluzione scientifica, simboleggiato da quanto afferma nel 1970 il premio Nobel
Jacques Monod, quando scrive che «l’uomo finalmente sa di essere solo nell’immensità indifferente
dell’Universo da cui è emerso per caso». Cfr. J. Monod, Le hasard et la nécessité. Essai sur la
philosophie naturelle de la biologie moderne, Ed. du Seuil, Paris 1970; tr. it. di A. Busi, Il caso e la
necessità. Saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea, Mondadori, Milano 1976, pp.
171-172.
9
I. Prigogine e I. Stengers, La Nouvelle alliance. Métamorphose de la science, Gallimard, Paris 1979;
tr. it. di P.D. Napolitani, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, Einaudi, Torino 19993, p. 80.

65
Shift. International Journal of Philosophical Studies

2. L’inizio della rivoluzione quantistica e il recupero della res cogitans


cogitan

La scoperta del quanto d’azione da parte di Max Planck all’inizio del Novecen-
to apre, in maniera eclatante, il cambiamento paradigmatico in fisica. Quello
10

che sin dall’inizio viene messo in discussione è, di fatto, il mito dell’oggettività


della scienza fisica. Già il riluttante Planck – che per tutta la vita lotterà contro
l’anti-classicità della sua scoperta11 – è costretto a una importante dichiarazione
filosofico-epistemologica sul triplicarsi dell’immagine del mondo. In un saggio
del 1929 scrive: «Oltre al mondo sensibile ed al mondo reale c’è ancora, ed oc-
corre tenerlo ben distinto dagli altri due, il mondo quale ce lo rappresenta la
scienza fisica».12
Assistiamo qui a un’inversione di tendenza rispetto a quanto accaduto con la
Rivoluzione scientifica del Seicento che, di fatto, aveva messo da parte mondo
sensibile e mondo reale (coincidenti per l’uomo comune; differenti per Planck,
che vede nel primo appunto il mondo esperito quotidianamente, e nel secondo
una sorta di mondo in sé). L’operazione di Galilei aveva messo il soggetto fuori
dal mondo, imponendo come unica immagine quella scientifica. Di fronte alla
scoperta del quanto d’azione, di fronte alla rottura del dogma secondo il quale
«natura non facit saltus», la descrizione scientifica non può più esaurire la realtà.
Afferma ancora Planck:

L’immagine fisica del mondo nella sua struttura si allontana sempre più dal mondo
sensibile, smarrisce sempre più il suo carattere intuitivo a tinta originariamente antro-
pomorfa, elimina sempre più le sensazioni […], e si perde sempre più nell’astratto, in
quanto le operazioni matematiche puramente formali acquistano un’importanza sem-
pre maggiore e le differenze qualitative vengono sempre più ricondotte a differenze
quantitative.13

10
Per una ricostruzione della nascita e dello svilupparsi della rivoluzione quantistica rinvio a
T.S. Kuhn, Black-Body Theory and the Quantum Discontinuity, 1894-1912, Oxford, Clarendon
Press, New York 1978; tr. it. di S. Scotti, Alle origini della fisica contemporanea. La teoria del
corpo nero e la discontinuità quantica, Il Mulino, Bologna 1981; e a G. Tagliaferri, Storia della
fisica quantistica. Dalle origini alla meccanica ondulatoria, Franco Angeli, Milano 1985. Per una
panoramica introduttiva generale si veda G. Gamow, Thirty Years that Shook Physics, Garden City,
New York 1966; tr. it. di L. Felici, Trent’anni che sconvolsero la fisica, Zanichelli, Bologna 1990.
11
Questa dimensione di non totale accettazione da parte di Planck delle conseguenze non solo
epistemologiche, ma anche di mutamento di visione del mondo, implicate dalla scoperta del
quanto d’azione, è evidenziata in tutti gli studi sullo scienziato tedesco. Si vedano, ad esempio, M.
Badino, Il professore e il suo demone. La lunga lotta di Max Planck contro la statistica (1896-1906),
Melquìades, Milano 2010; G. Gembillo, Max Planck, in G. Gembillo – M. Galzigna, Scienziati e
nuove immagini del mondo, Marzorati, Milano 1994, pp. 95-130; J. L. Heilbron, Max Planck. Ein
Leben für die Wissenschaft 1858-1947, S. Hirzel Verlag, Stuttgart 1987; tr. it. di R. Valla, I dilemmi
di Max Planck. Portavoce della scienza tedesca, Bollati Boringhieri, Torino 1988.
12
M. Planck, Das Weltbild der neuen Physik, Verlag, Leipzeg 1929; tr. it. di E. Persico e A. Gamba,
La conoscenza del mondo fisico, Bollati Boringhieri, Torino 1993, p. 206.
13
Ivi, p. 209. Si veda anche G. Gembillo, Max Planck, cit.

66
Il recupero del soggetto conoscente nel Novecento: la via della fisica

L’anti-intuitività della scienza, con la scoperta del quanto, ha raggiunto un


punto di non ritorno, un punto nel quale è difficile mantenere la pretesa (agli
occhi di tutti, non solo degli scienziati) di costituire l’unica immagine del mondo.
La scienza vede, in un certo senso, cambiare il proprio ruolo e compito. Essa non
è più la depositaria della verità del mondo, dell’immagine vera di esso. Scrive
ancora Planck:

Il compito dell’immagine fisica del mondo può essere formulato in doppia maniera,
secondo che lo si mette in rapporto col mondo reale o col mondo sensibile. Nel primo
caso tale compito consiste nel conoscere il mondo reale nel modo più completo pos-
sibile, nel secondo caso esso consiste nel descrivere il mondo sensibile nel modo più
semplice possibile.14

Parlare di “conoscere”, parlare di “descrivere”, di fronte a una scienza che


non ha più, per così dire, l’“esclusiva” della conoscenza della realtà, significa
riconoscere la necessità di reintrodurre in maniera molto più attiva il soggetto; e
anche se tale riconoscimento avverrà soltanto molti anni dopo (rispetto alla sco-
perta del quanto d’azione), quando ormai, con l’enunciazione da parte di Wer-
ner Heisenberg del principio di indeterminazione che taglia i ponti con il passato,
non si può più sperare davvero di imporre un’unica ed esclusiva immagine del
mondo, questo significa avere costruito lo scenario per un inizio di recupero
della res cogitans nella scienza fisica (e non solo).

3. Einstein e il soggetto relativistico

Non si può disconoscere od omettere, in questa ricostruzione di un percorso


di recupero del soggetto conoscente, il ruolo di Albert Einstein con le teorie della
relatività.15 La scoperta del quanto e la formulazione della teoria della relatività
ristretta avvengono, rispettivamente, nel 1900 e nel 1905, inaugurando un clima
di condivisione di risultati e legame della comunità scientifica, che avrà un sigillo
esteriore a partire dal 1911 con l’avvio delle conferenze Solvay.16 Senza entrare

14
Ivi, pp. 206-207.
15
Per una ricostruzione generale dell’opera di Einstein si possono vedere, fra gli innumerevoli studi,
quello sempre valido di A. Pais, Subtle is the Lord… The science and the life of Albert Einstein,
Oxford University Press, U.S.A. 1982; tr. it. di L. Belloni e T. Cannillo, “Sottile è il Signore…”. La
scienza e la vita di Albert Einstein, Bollati Boringhieri, Torino 1991; e il più recente e di taglio più
divulgativo di W. Isaacson, Einstein: his life and universe, Pocket Books, London 2007; tr. it. di T.
Cannillo, Einstein. La sua vita, il suo universo, Mondadori, Milano 2008.
16
Riferendosi proprio ai congressi Solvay, Niels Bohr, che ne fu uno dei maggiori protagonisti
a più riprese, ha ricordato, nel 1961, che gli atti di quegli incontri costituiranno «una preziosa
fonte d’informazione per gli studiosi di storia della scienza che vorranno farsi un’idea del modo in
cui furono affrontati i nuovi problemi presentatisi all’inizio del nostro secolo. Infatti, la graduale
chiarificazione di questi problemi a opera degli sforzi combinati di un’intera generazione di
fisici doveva nei decenni seguenti non solo aumentare enormemente la nostra conoscenza della

67
Shift. International Journal of Philosophical Studies

troppo nello specifico, le teorie della relatività mettono in chiaro come ogni no-
stra osservazione e ogni nostra misura vengano effettuate dal punto in cui si trova
l’osservatore. Già questo è rivoluzionario rispetto all’asettica estraneità in cui si
colloca la res cogitans classica.17
Se procediamo con ordine, nella relatività ristretta il problema al centro della
discussione concerne il concetto di “simultaneità”. Secondo Einstein:

Supponiamo che nel punto A dello spazio sia stato collocato un orologio: in
A, un osservatore può effettuare determinazioni di tempo, per eventi che si ve-
rifichino nelle immediate vicinanze del punto, controllando le posizioni delle
lancette dell’orologio negli istanti stessi in cui quegli eventi si producono. Pari-
menti, un osservatore che si trovi nel punto B e che dispone di un orologio – e
qui diciamo “strutturalmente identico al precedente” – potrà stabilire i valori di
tempo di eventi nell’immediato intorno di B. Ma non è possibile, senza ulteriori
convenzioni, confrontare rispetto al tempo un evento in A e un evento in B.
Noi abbiamo finora definito un “tempo A” e un “tempo B”, ma non un tempo
comune ad A e B.18

Il passaggio successivo è «stabilire, per definizione, che il “tempo” che la luce


impiega nel percorso da A a B è uguale al “tempo” che essa impiega nel percorso
da B ad A».19 Chiarito inoltre che cosa si debba intendere con “orologi staziona-
ri” per effettuare la misurazione,20 Einstein arriva a una prima conclusione: «Il
tempo di un evento è quello indicato, simultaneamente al prodursi dell’evento
stesso, da un orologio stazionario situato nel luogo dell’evento e sincronizzato,
per ogni determinazione temporale, con un ben preciso orologio stazionario».21
Il ragionamento procede ora attraverso un esperimento ideale, nel quale si
vuole misurare la lunghezza di un’asta rigida stazionaria a cui viene impresso un
moto. Senza seguire nei dettagli i passaggi del discorso di Einstein,22 arriviamo al

costituzione atomica della materia, ma addirittura portare a una concezione nuova per ciò che
concerne l’interpretazione dell’esperienza fisica». Cfr. N. Bohr, I congressi Solvay e lo sviluppo della
fisica quantistica, in Id., I quanti e la vita; «The Solvay Meetings and the Development of Quantum
Physics», in Id., Essays 1958-1962 on Atom Physics and Human Knowledge, Richard Clay and
Company, Bungay 1963; tr. it. di P. Gulmanelli, Bollati Boringhieri, Torino 1984, p. 195.
17
Su questo aspetto del pensiero di Einstein rinvio a G. Gembillo, Albert Einstein, in G. Gembillo,
M. Galzigna, Scienziati e nuove immagini del mondo, cit., pp. 15-57.
18
A. Einstein, Zur Elektrodynamik bewegter Körper, in «Annalen der Physik» 17, 1905; tr. it. a cura
di E. Bellone, L’elettrodinamica dei corpi in movimento, in Id., Opere scelte, Bollati Boringhieri,
Torino 1988, pp. 150-151.
19
Ivi, p. 151.
20
Per Einstein, il sincronismo si fonda su dei presupposti: «1) Se l’orologio in B è sincronizzato
con l’orologio in A, l’orologio in A è sincronizzato con l’orologio in B. 2) Se l’orologio in A è
sincronizzato sia con l’orologio in B che con l’orologio in C, sono sincronizzati anche gli orologi
in B e in C. Avendo così stabilito, grazie a esperimenti fisici ideali, che cosa si debba intendere
con sistema di orologi stazionari, disposti in luoghi diversi e sincronizzati tra loro, abbiamo
evidentemente una definizione di “simultaneità” e di “tempo”». Cfr. ibid.
21
Ibid.
22
Cfr. ivi, pp. 152-153.

68
Il recupero del soggetto conoscente nel Novecento: la via della fisica

punto principale. Vengono posti orologi sia nel sistema stazionario di riferimento
sia alle estremità dell’asta: se l’osservazione viene fatta muovendosi con l’asta, si
osserverà una non sincronizzazione degli orologi; se l’osservazione viene fatta
dal sistema stazionario, la sincronizzazione ci sarà.23 Ecco, allora, la conclusio-
ne di Einstein: «Vediamo dunque che al concetto di simultaneità non possiamo
attribuire alcun significato assoluto, e che eventi giudicati simultanei in un certo
sistema di coordinate, in un altro sistema che sia in moto rispetto a esso non son
più considerati tali».24
Quando anni dopo, nel 1917, Einstein volle dare una “esposizione divulgati-
va” delle teorie della relatività, sintetizzò l’assunto della relatività ristretta, soste-
nendo che «ogni corpo di riferimento (sistema di coordinate) ha il suo proprio
tempo particolare: un’attribuzione di tempo è fornita di significato solo quando
ci venga detto a quale corpo di riferimento tale attribuzione si riferisce».25
La teoria della relatività ristretta è dunque servita ad Einstein per smascherare,
in un certo senso – sono parole sue – l’«idea, priva di fondamento, del carattere
assoluto del tempo o piuttosto della simultaneità di eventi distanti».26
La teoria della relatività generale estende e universalizza tutto quanto era ve-
nuto fuori da quella del 1905. Seguiamo direttamente Einstein:

Immaginiamo che due orologi di identica costruzione siano posti uno nell’origine del-
le coordinate, e l’altro sulla circonferenza, ed entrambi siano osservati dal sistema
“stazionario” K. In conseguenza di un risultato ben noto nella teoria della relatività
ristretta, l’orologio sulla circonferenza, osservato da K, va più adagio dell’altro, perché
il primo è in moto e il secondo sta fermo. Un osservatore posto nell’origine delle coor-
dinate, in grado di osservare l’orologio sulla circonferenza mediante la luce, costaterà
quindi che questo è più lento dell’orologio che gli sta accanto. E poiché tale osservato-
re non può pensare che la velocità della luce lungo la traiettoria in questione dipenda
esplicitamente dal tempo, egli interpreterà le proprie osservazioni concludendo che
l’orologio sulla circonferenza “realmente” va più adagio dell’orologio nell’origine.
Egli sarà dunque obbligato a definire il tempo in modo tale che la velocità angolare
delle lancette di un orologio dipenda dal luogo in cui l’orologio stesso si trova.27

La conclusione di questo ragionamento costituisce l’ineluttabile oltrepassa-


mento della concezione “statica” di spazio e tempo nella fisica classica, in quan-
to intesi o come punti sugli assi cartesiani oppure come qualcosa di assoluto,
addirittura sensoria Dei, per Newton. Una tale visione dello spazio e del tempo

23
Cfr. ivi, p. 153.
24
Ivi, pp. 153-154.
25
A. Einstein, Über die spezielle und allgemeine Relativitätstheorie, 1917-1950; tr. it., Relatività:
esposizione divulgativa, in Id., Opere scelte, cit., p. 407.
26
Per delle riflessioni a tutto tondo sul valore scientifico, epistemologico e filosofico delle teorie
della relatività, si può vedere il volume collettaneo: Einstein e la relatività cent’anni dopo, a cura di
A. Anselmo, Armando Siciliano, Messina 2007.
27
A. Einstein, Die Grundlage der allgemeinen Relativitätstheorie, in «Annalen der Physik» 49, 769-
822, 1916; tr. it., I fondamenti della teoria della relatività generale, in Id., Opere scelte, cit., p. 288.

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Shift. International Journal of Philosophical Studies

non era mai stata discussa seriamente prima di Einstein, che invece arriva a un
risultato rivoluzionario:

Nella teoria della relatività generale, lo spazio e il tempo non possono venir definiti
in modo tale che le differenze tra le coordinate spaziali possano venir direttamente
misurate mediante il regolo campione scelto come unità di misura, e le differen-
ze fra le coordinate temporali possano venir direttamente misurate da un orologio
campione.28

Nella prospettiva della relatività generale, spazio e tempo non sono più asso-
luti, non c’è più una prospettiva totalmente esterna all’universo che ci permetta
di guardarlo oggettivamente in senso classico.
Tutto questo ci riporta alla res cogitans, al soggetto. Infatti, tutto il discorso
mette in discussione l’oggettivismo “ingenuo” della modernità scientifica (che
era poi quello contro cui polemizzava il filosofo Husserl).29 Tale oggettivismo è,
per Einstein, un vero e proprio pregiudizio. Scrive nel 1949: «Il pregiudizio – che
a tutt’oggi non è affatto sparito – consiste nella convinzione che i fatti possano e
debbano tradursi in conoscenza scientifica di per sé, senza una libera elaborazio-
ne concettuale».30 Ovviamente, noi ci troviamo di fronte una realtà che percepia-
mo attraverso i sensi. Tuttavia, secondo Einstein, «le esperienze sensoriali sono
il dato di partenza, ma la teoria che le interpreta è opera dell’uomo. È il risultato
di un processo di adattamento straordinariamente laborioso: ipotetico, mai defi-
nitivo, sempre soggetto a discussioni e a dubbi».31 La teoria è dunque frutto del
lavoro degli uomini, di un impegno del soggetto, suscettibile di cambiamento e
revisione. Le nostre teorie scientifiche, dice Einstein, sono «libere convenzioni
della nostra attività intellettuale».32
La conseguenza estrema del recupero einsteiniano della res cogitans l’ha trat-
ta Arthur Stanley Eddington, che, proprio concludendo la sua esposizione di-
vulgativa della relatività generale,33 nel 1920 scriveva: «Abbiamo scoperto una
strana impronta sulla spiaggia dell’ignoto. Abbiamo escogitato profonde teorie,
l’una dopo l’altra, per spiegarne la provenienza. Alla fine siamo riusciti a ri-

28
Ivi, p. 289.
29
Cfr. E. Husserl, Die Krisis..., cit.; tr. it., La crisi delle scienze europee, cit.
30
A. Einstein, Albert Einstein: Philosopher-Scientist, edited by P. A. Schlipp, Library of Living
Philosophers, Chicago 1949; tr. it., Opere scelte, cit., p. 84. C’è in questa affermazione di Einstein
tutto il suo essersi confrontato con la visione della fisica di Ernst Mach. Mi permetto di rinviare
sul tema a G. Giordano, Tra Einstein ed Eddington. La filosofia degli scienziati contemporanei,
Armando Siciliano, Messina 2000.
31
A. Einstein, Considerations Concerning the Fundamentals of Theoretical Physics, in «Science 91»,
1940; tr. it., I fondamenti della fisica teorica, in Id., Opere scelte, cit., p. 564.
32
A. Einstein, Out of My Later Years, The Hebrew University of Jerusalem, 1950; tr. it. di L.
Bianchi, Pensieri degli anni difficili, Bollati Boringhieri, Torino 1990, p. 38.
33
Per alcune considerazioni sui primi divulgatori di Einstein, fra i quali proprio Eddington, rinvio
a G. Gembillo, Wolfgang Pauli e le prime riflessioni sulla teoria della relatività, in G. Gembillo, G.
Giordano (a cura di), Wolfgang Pauli tra fisica e filosofia, Armando Siciliano, Messina 2001, pp.
27-53.

70
Il recupero del soggetto conoscente nel Novecento: la via della fisica

costruire la creatura che aveva lasciato quell’impronta. Ed ecco! È la nostra


impronta».34

4. Heisenberg e il soggetto osservatore-perturbatore

Fra i fisici contemporanei, Heisenberg è sicuramente quello la cui dimensione


filosofica appare con grande chiarezza ed evidenza.35 Nel quadro di recupero
della res cogitans all’interno della fisica, che si sta delineando, il posto di Hei-
senberg è preminente, soprattutto se pensiamo al significato, in tale prospettiva,
del “principio di indeterminazione”, da lui enunciato nel 1927. Come si vedrà
anche parlando di Niels Bohr, un indicatore della rivoluzionarietà della stagione
scientifica di cui ci stiamo occupando è dato anche dal numero di “principî” che
vengono enunciati,36 e quello di indeterminazione è un vero spartiacque nella
storia della fisica. Rifkin e Howard hanno scritto che il giorno della sua scoperta
è stato «il giorno più buio nella storia della fisica classica, perché con esso Hei-
senberg aveva tolto le fondamenta al ferreo determinismo su cui avevano poggia-
to le leggi della fisica per quasi trecento anni».37 Ma questo principio costituisce
un punto di svolta anche per il recupero del soggetto.38
Il principio di indeterminazione – o, meglio, le “relazioni di incertezza” – ci
dice che di una particella microfisica, ad esempio un elettrone, non potremo
mai conoscere contemporaneamente con precisione assoluta posizione e veloci-
tà; questo perché l’elettrone lo si osserva “bombardandolo” con un fotone, una

34
A. S. Eddington, Space, Time and Gravitation. An Outline of the General Relativity Theory,
Cambridge University Press, Cambridge 1920; tr. it. di L. Bianchi, Spazio, tempo e gravitazione.
La teoria della relatività generale, Bollati Boringhieri, Torino 1982, p. 252. Si può ricordare che,
negli stessi anni di Eddington, anche un filosofo della levatura di Ernst Cassirer riflette su Einstein,
proponendo una lettura della teoria della relatività, tale da inquadrarla come esito di un processo
di passaggio da una fisica della “sostanza” a una, per così dire, “funzionale”. Si veda E. Cassirer,
Philosophische Probleme der Relativitätstheorie, in «Die Neue Rundschau», XXXI, 1920; tr. it. a
cura di R. Pettoello, I problemi filosofici della teoria della relatività. Lezioni 1920-1921, Mimesis,
Milano 2015.
35
A riprova di quanto affermo rinvio a: G. Gembillo, Werner Heisenberg. La filosofia di un fisico,
Giannini, Napoli 1987; C. Altavilla, Fisica e filosofia in Werner Heisenberg, Guida, Napoli 2006;
G. Gembillo e C. Altavilla (a cura di), Werner Heisenberg scienziato e filosofo, Armando Siciliano,
Messina 2002; G. Giordano, Werner Heisenberg e lo sfondo filosofico della scienza, in «Complessità»,
2, 2007, pp. 73-90. Per un quadro generale su Heisenberg rinvio a D. C. Cassidy, Uncertainty: the
Life and the Science of Wermer Heisemberg, Freeman, New York 1992; tr. it. di L. Sosio, Un’estrema
solitudine. La vita e l’opera di Werner Heisenberg, Bollati Boringhieri, Torino 1996.
36
Bohr, ad esempio, formulerà, come si avrà modo di vedere, il principio di “corrispondenza” e
quello di “complementarità”; Wolfgang Pauli quello di “esclusione”. Su quest’ultimo, su cui non ci
si soffermerà in seguito, rinvio a M. Massimi, Pauli’s Exclusion Principle. The Origin and Validation
of a Scientific Principle, Cambridge University Press, Cambridge 2005.
37
J. Rifkin – T. Howard, Entropy: A New World View, Viking Press, New York 1980; tr. it. di B.
Visentin, Entropia, Mondadori, Milano 1985, p. 242.
38
Cfr., ad esempio, C. Altavilla, Werner Heisenberg. L’interazione soggetto-oggetto, in «Complessità»,
2, 2007, pp. 48-72.

71
Shift. International Journal of Philosophical Studies

particella di luce: il che significa che più precisa sarà la misura della posizione e
meno lo potrà essere quella dell’impulso (velocità). Seguiamo il ragionamento di
Heisenberg:

Se si vuole venire in chiaro di ciò che si deve intendere con l’espressione “posizione
dell’oggetto”, per esempio dell’elettrone (relativamente a un sistema di riferimento
dato), si devono indicare determinati esperimenti con l’aiuto dei quali si pensa di mi-
surare la “posizione dell’elettrone”; altrimenti questa espressione non ha alcun senso.
Esperimenti tali da permettere in linea di principio di determinare con precisione ar-
bitraria la “posizione dell’elettrone” non mancano; per esempio: si illumini l’elettrone
e lo si osservi al microscopio. La più alta precisione conseguibile nella determinazione
della posizione è data qui essenzialmente dalla lunghezza d’onda della luce impiegata.
Tuttavia in linea di principio si può costruire un microscopio a raggi e con questo
eseguire la determinazione della posizione con la precisione desiderata. In questa de-
terminazione è comunque essenziale una circostanza collaterale: l’effetto Compton.
Ogni osservazione della luce diffusa proveniente dall’elettrone presuppone un effetto
fotoelettrico (nell’occhio, sulla lastra fotografica, nella fotocellula) e può quindi anche
essere interpretata nel senso che un quanto di luce colpisce l’elettrone, viene riflesso
da questo o viene deviato e quindi, ancora rifratto dalle lenti del microscopio, provoca
il fotoeffetto. Nell’istante della determinazione della posizione, dunque nell’istante
in cui il quanto di luce è deviato dall’elettrone, l’elettrone cambia il suo impulso in
maniera discontinua. Tale cambiamento è tanto più grande, quanto più piccola è la
lunghezza d’onda della luce impiegata, cioè quanto più precisa è la determinazione
della posizione. Nel momento in cui la posizione dell’elettrone è nota, il suo impulso
può quindi essere conosciuto soltanto a meno di quantità che corrispondono a quel
cambiamento discontinuo; di conseguenza quanto più precisamente è determinata la
posizione, tanto più precisamente è conosciuto l’impulso e viceversa».39

È l’intervento osservativo, è l’intervento attivo del soggetto che produce que-


sta situazione. Ma è una presenza che non può essere messa tra parentesi, non si
può operare una semplificazione escludente il soggetto come accadeva in fisica
classica, pena l’impossibilità di trattare e comprendere la materia a livello atomi-
co.40 Non soltanto o semplicemente, quindi, il soggetto, la res cogitans, rientra

39
W. Heisenberg, Über den anschaulichen Inhalt der quantentheoretischen Kinematik un Mechanik,
in «Zeitschrift für Physik», vol. 43, 1927; tr. it., a cura di G. Gembillo, G. Gregorio, Sul contenuto
intuitivo della cinematica e della meccanica quanto teoriche, Guida, Napoli 20012, pp. 51-52.
40
Nelle lezioni tenute all’Università di Chicago nel 1929, Heisenberg aveva rilevato in proposito:
«Nella discussione di alcune esperienze, occorre prendere in esame quell’interazione tra oggetto
e osservatore che è necessariamente congiunta a ogni osservazione. Nelle teorie classiche, questa
interazione veniva considerata o come trascurabilmente piccola o come controllabile, in modo
tale da poterne eliminare in seguito l’influenza, per mezzo di calcoli. Nella fisica atomica, invece,
tale ammissione non si può fare, poiché a causa della discontinuità degli avvenimenti atomici ogni
interazione può produrre variazioni parzialmente incontrollabili e relativamente grandi. Questa
circostanza ha come conseguenza il fatto che in generale le esperienze eseguite per determinare
una grandezza fisica rendono illusoria la conoscenza di altre grandezze ottenute precedentemente;
esse infatti influenzano il sistema su cui si opera in modo incontrollabile e quindi i valori delle
grandezze precedentemente conosciute ne risultano alterati. Se si tratta questa perturbazione in

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Il recupero del soggetto conoscente nel Novecento: la via della fisica

nella scienza, ma esso diventa parte integrante della descrizione scientifica. Le


conseguenze che Heisenberg trae da tutto questo sono oltremodo rivoluzionarie
e giustificano l’affermazione precedente di Rifkin e Howard. Così si conclude
infatti la memoria del 1927:

Nella formulazione netta della legge di causalità: “Se conosciamo esattamente il pre-
sente, possiamo calcolare il futuro”, è falsa non la conclusione, ma la premessa. Noi
non possiamo in linea di principio conoscere il presente in ogni elemento determinan-
te. Perciò ogni percepire è una selezione da una quantità di possibilità e una limita-
zione delle possibilità future. […] mediante la meccanica quantistica viene stabilita
definitivamente la non validità della legge di causalità.41

Heisenberg ha tratto la conseguenza implicita sin dall’inizio nella scoperta del


quanto d’azione: la difficoltà a mantenere il rigido meccanicismo causale della
fisica classica. La dimensione filosofica di Heisenberg viene fuori proprio nelle
considerazioni che trae dalla sua scoperta. Con grande lucidità, infatti, il fisico
tedesco mette a fuoco il limite della scienza galileiano-newtoniana, dichiarando
che «la fisica classica può venir considerata come quella idealizzazione per cui
noi parliamo del mondo come di qualcosa interamente separato da noi stessi».42
Quello che poi a Heisenberg preme sottolineare è il ruolo esclusivo della fi-
sica quantistica per la reinclusione del soggetto nella scienza, fatto questo che
costituisce, in un certo senso, un ampliamento della scienza stessa. Nella nuova
prospettiva, «la scienza naturale non descrive e spiega semplicemente la natura;
essa è una parte dell’azione reciproca fra noi e la natura; descrive la natura in rap-
porto ai sistemi usati da noi per interrogarla».43 Questo implica, però, la perdita
di quella che avevo definita “oggettività ingenua”. Osserva infatti Heisenberg
che, nella teoria dei quanti, «l’uomo quale soggetto della scienza viene piena-
mente chiamato in causa nelle domande che sono rivolte alla natura nei termini
a priori della scienza umana. La teoria dei quanta non permette una descrizione
completamente oggettiva della natura».44
Il soggetto è rientrato nella scienza e il prezzo di questo rientro è stato la perdi-

modo quantitativo, si trova che in molti casi esiste, per la conoscenza contemporanea di diverse
variabili, un limite di esattezza finito, che non può essere superato». Cfr. W. Heisenberg, Die
physikalischen Prinzipien der Quantentheorie, Lipsia 1930; tr. it. di M. Ageno, I princìpi fisici della
teoria dei quanti, Bollati Boringhieri 1976, p. 13.
41
W. Heisenberg, Über den anschaulichen Inhalt der quantentheoretischen Kinematik un Mechanik,
tr. it., Sul contenuto intuitivo della cinematica e della meccanica quanto teoriche, cit., p. 76.
42
W. Heisenberg, Physics and Philosophy; Harper and Row, New York 1958; tr. it. di G. Gnoli,
Fisica e filosofia. La rivoluzione nella scienza moderna, Il Saggiatore, Milano 1994, p. 128. In altro
luogo, aveva scritto che «nel secolo XIX la natura appariva come un accadimento nello spazio e nel
tempo regolato da leggi, e nella descrizione di esso si poteva, se non praticamente, almeno in linea
di principio, prescindere dall’uomo e dal suo intervento». Cfr. W. Heisenberg, Das Naturbild der
heutigen Physik, Rowohlt, Reinbek bei Hamburg 1955; tr. it. di E. Casari, Natura e fisica moderna,
Garzanti, Milano 1985, p. 39.
43
W. Heisenberg, Physics and Philosophy, tr. it., Fisica e filosofia, cit., p. 99.
44
Ivi, p. 128.

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Shift. International Journal of Philosophical Studies

ta della prospettiva di un’oggettività assoluta (e, ripeto, ingenua). Il principio di


indeterminazione mostra come l’osservazione – atto eminentemente proprio di
un soggetto, ancorché attraverso una apparecchiatura – non sia e non possa esse-
re mai neutra. Scrive ancora il fisico tedesco: «Nei più piccoli elementi costitutivi
della materia ogni processo di osservazione provoca una forte perturbazione;
non è più possibile parlare del comportamento della particella, indipendente-
mente dal processo di osservazione».45 Questo significa che in fisica atomica non
si può più prescindere dal soggetto. Quella che è stata di fatto liquidata, lo ripeto
ancora una volta, è l’idea dell’oggettività della scienza, imposta dalla Rivoluzione
galileiana con quella operazione che Husserl ha definito “matematizzazione della
natura”.46 Per dirla con le parole di Heisenberg:

L’idea dell’obbiettiva realtà delle particelle elementari si è quindi sorprendentemente


dissolta, e non nella nebbia di una qualche nuova, poco chiara e ancora incompresa
idea di realtà, ma nella trasparente chiarezza di una matematica che non rappresenta
più il comportamento della particella, ma il nostro sapere sopra questo comporta-
mento. Il fisico atomico ha quindi dovuto rassegnarsi a considerare la sua scienza solo
come un anello della infinita catena dei contatti dell’uomo con la natura, e ad accettare
il fatto che questa sua scienza non può parlare semplicemente della natura “in sé”. La
scienza della natura presuppone sempre l’uomo.47

In linea con il frantumarsi dell’immagine del mondo, emerso già in Planck,


con Heisenberg si assiste alla comprensione che «se si può parlare di un’im-
magine della natura propria della scienza esatta del nostro tempo, non si tratta
quindi più propriamente di una immagine della natura, ma di una immagine
del nostro rapporto con la natura. L’antica suddivisione del mondo in un acca-
dimento obiettivo nello spazio e nel tempo da una parte, e l’anima, in cui tale
accadimento si rispecchierebbe, dall’altra, la distinzione cartesiana, cioè, tra la
res cogitans e la res extensa, non può più servire come punto di partenza della
scienza moderna».48 L’oggettività e l’oggettivazione sono finite. La scienza, grazie
alla sanzione della necessità della presenza della res cogitans, sa di non avere più
lo scopo di descrivere la natura come essa sarebbe “in sé”. «Obiettivo di questa
scienza» – dice Heisenberg:

è piuttosto la rete delle relazioni tra uomo e natura, la rete delle connessioni per cui
noi, come esseri viventi dotati di corpo, dipendiamo dalla natura, come sue parti, e
nello stesso tempo, come uomini, la rendiamo oggetto del nostro pensiero e della no-
stra azione. La scienza non sta più come spettatrice davanti alla natura, ma riconosce
se stessa come parte di quel mutuo interscambio tra uomo e natura.

45
W. Heisenberg, Das Naturbild der heutigen Physik, cit.; tr. it., Natura e fisica moderna, cit., p. 42.
46
Cfr. E. Husserl, Die Krisis…, cit.; tr. it., La crisi delle scienze europee, cit., pp. 53-88.
47
W. Heisenberg, Das Naturbild der heutigen Physik, tr. it., Natura e fisica moderna, cit., pp. 42-43.
48
Ivi, p. 54.

74
Il recupero del soggetto conoscente nel Novecento: la via della fisica

Heisenberg ha pienamente recuperato il soggetto all’interno della scienza, non


soltanto come osservatore, ma anche in prospettiva etica. Infatti, la conoscenza
scientifica, non più oggettiva in senso classico, chiama il soggetto anche – a un
livello più alto, ma in un unico orizzonte di senso – alla responsabilità etica che
ha e deve assumersi per questo tipo di conoscenza. Concludiamo, allora, con le
parole di Heisenberg:

Una volta lasciata la corda dell’arco, la freccia continua per la sua via; solo una forza
maggiore potrebbe farla deviare. Ma in precedenza la sua traiettoria è determinata
da chi prende la mira. Senza un essere spirituale che la scocchi verso un bersaglio, la
freccia non potrebbe assolutamente volare. In questo senso non è poi forse male, se
insegniamo ai giovani a non sottovalutare i valori spirituali.49

5. Niels Bohr e una nuova logica per il soggetto

Con Bohr siamo di fronte a un’altra grande figura di scienziato, ma anche di


filosofo del Novecento,50 suscettibile, proprio per questa duplice dimensione,
di essere trattato nell’intreccio di fisica e filosofia.51 Ai fini del recupero della
res cogitans il ruolo di Bohr è quello di chiudere un cerchio, di completare
un percorso avviato da Einstein e Heisenberg. Infatti la “consacrazione” del
reinserimento del soggetto nella scienza avviene con un cambiamento di logi-
ca, avviene con l’enunciazione del principio di complementarità.52 Si potrebbe
dire che esso costituisce il salto qualitativo filosofico ed epistemologico, oltre
che scientifico, di un percorso avviato nel 1913 con i modelli dell’atomo, 53 pas-
sato poi per il tentativo di “razionalizzazione” della fisica dei quanti median-

49
Ivi, p. 76.
50
Si veda G. Gembillo, G. Giordano (a cura di), Niels Bohr scienziato e filosofo, Armando Siciliano,
Messina 2004. Per quel che riguarda il posto di scienziati come Bohr nelle storie della filosofia,
mi permetto di rinviare a G. Giordano, Da Einstein a Morin. Filosofia e scienza tra due paradigmi,
Rubbettino, Soveria Mannelli 2006. In particolare si veda il primo capitolo dal titolo “Storia della
filosofia, scienza e scienziati. Nuovi modelli storiografici e nuovi luoghi della filosofia”.
51
Gli studi su Bohr testimoniano proprio questo, sia che provengano da studiosi di parte scientifica,
sia che siano opera di storici o filosofi. Per alcuni esempi si vedano: H. J. Folse, The Philosophy of
Niels Bohr. The Framework of Complementarity, North Holland, Amsterdam 1985; S. Petruccioli,
Atomi Metafore Paradossi. Niels Bohr e la costruzione di una nuova fisica, Theoria, Roma-Napoli
1988 [nuova edizione: Le Lettere, Firenze 2012]; A. Pais, Niels Bohr’s Time: in Physics, Philosophy
and Polity, Clarendon Press, Oxford 1991; tr. it. di D. Canarutto, Il danese tranquillo. Niels Bohr,
un fisico e il suo tempo, 1885-1962, Bollati Boringhieri, Torino 1993; G. Gembillo, Niels Bohr, in G.
Gembillo-M. Galzigna, Scienziati e nuove immagini del mondo, cit., pp. 131-165.
52
Cfr. N. Bohr, The quantum postulate and the recent development of atomic theory, in Atti del
Congresso Internazionale dei Fisici, 11-20 Settembre 1927, vol. II, Zanichelli, Bologna 1928; tr. it.,
Il postulato dei quanti e il recente sviluppo della teoria atomica, in Id., Teoria dell’atomo e conoscenza
umana, a cura di Gulmanelli, Einaudi, Torino 1961, pp. 323-353.
53
Cfr., ad esempio, Id., On the Constitution of Atoms and Molecules, in «Philosophical Magazine
and Journal of Science», 26 (1913); tr. it., Sulla costituzione degli atomi e delle molecole, in Id.,
Teoria dell’atomo e conoscenza umana cit., pp. 11-83.

75
Shift. International Journal of Philosophical Studies

te il cosiddetto “principio di corrispondenza”,54 che cerca un’equivalenza fra


leggi classiche e leggi quantistiche,55 e approdato infine al principio di com-
plementarità. Quest’ultimo – enunciato dopo l’acquisizione delle “relazioni di
incertezza” di Heisenberg, nello stesso 1927, qualche mese dopo, a Como, in
occasione delle celebrazioni in onore di Alessandro Volta, e pubblicato dopo
sul numero 120 di “Nature” – si annunciò come una vera e propria rivoluzione
logica, mettendo in discussione dopo più di duemila anni il principio aristote-
lico di “non contraddizione”.56
La tesi di Bohr si fondava sul fatto che,

mentre nell’ambito della fisica classica l’interazione tra oggetto e apparato può venire
trascurata o, se necessario, compensata, nella fisica quantistica questa interazione è
parte inseparabile del fenomeno. Ne segue che una descrizione non ambigua dei fe-
nomeni tipicamente quantici deve includere in linea di principio la descrizione di tutti
gli aspetti rilevanti dell’apparato strumentale.57

Heisenberg è stato pienamente recepito e accettato. La premessa della com-


plementarità è quello che Bohr definisce “postulato dei quanti” e che «attribui-
sce a ogni processo atomico un’essenziale discontinuità, o piuttosto individualità,
completamente estranea alle teorie classiche e simbolizzata dal quanto di azio-
ne di Planck. Questo postulato implica una rinuncia alla coordinazione causale
spazio-temporale dei processi atomici».58 Tradotto in termini più chiari, questo
significa che «il postulato dei quanti implica che ogni osservazione dei fenomeni
atomici comporti un’interazione non trascurabile col dispositivo di misurazione.

54
Su ciò si veda G. Gembillo, Niels Bohr, cit., pp. 135-137.
55
Sul principio di corrispondenza si veda: N. Bohr, The structure of the atom and the physical
and chemical properties of the elements, in Id., The theory of spectra and atomic constitution,
Cambridge University Press, Cambridge 1922; tr. it., La struttura dell’atomo e le proprietà fisiche
e chimiche degli elementi, in Id., Teoria dell’atomo e conoscenza umana, cit., pp. 250-253; Id.,
Atomic theory and mechanics, in «Nature», 116 (1925); tr. it., Teoria atomica e meccanica, in Id.,
Teoria dell’atomo e conoscenza umana, pp. 310-313; Id., The quantum postulate and the recent
development of atomic theory, cit, tr. it., Il postulato dei quanti e il recente sviluppo della teoria
atomica, cit., p. 337.
56
Testimonianza della dimensione eversiva del principio di complementarità è data dalle note
di accompagnamento che i redattori di “Nature” premisero all’edizione della memoria di Bohr.
Scrivevano i redattori: «La nuova meccanica ondulatoria ha fatto sperare che si potesse ottenere
una spiegazione dei fenomeni atomici che non differisse in modo essenziale da quella fornita dalle
teorie classiche dell’elettricità e del magnetismo. Sfortunatamente, le affermazioni contenute
nell’articolo che segue circa i principî che sono alla base della descrizione dei fenomeni atomici
sono poco, per non dire affatto, incoraggianti in questa direzione» (citato in S. Petruccioli, Atomi
Metafore Paradossi, cit., p. 19). Sul superamento della logica aristotelica da parte dello scienziato
danese, rinvio a G. Gembillo, Le polilogiche della complessità. Mutamenti della ragione da Aristotele
a Morin, Le Lettere, Firenze 2008, pp. 198-206.
57
N. Bohr, Quantum physics and philosophy. Causality and complementarity, in Id., Essays, cit., tr.
it., Fisica quantistica e filosofia, in Id., I quanti e la vita, cit., p. 103.
58
Id., N. Bohr, The quantum postulate and the recent development of atomic theory, cit., tr. it., Il
postulato dei quanti e il recente sviluppo della teoria atomica, cit., p. 324.

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Il recupero del soggetto conoscente nel Novecento: la via della fisica

Di conseguenza, una realtà indipendente nel senso fisico ordinario non può ve-
nire ascritta né al fenomeno, né allo strumento di osservazione».59
L’ingresso del soggetto osservante nel sistema scientifico ha fatto perdere og-
gettività, per così dire, sia all’oggetto sia al soggetto. La conseguenza è una sorta
di antinomicità di aspetti del reale fisico che nella prospettiva classica non emer-
geva. Scrive Bohr:

Le conseguenze di questa situazione sono vastissime. Da una parte la definizione del-


lo stato di un sistema fisico, come viene inteso di solito, richiede l’eliminazione di
ogni perturbazione esterna. Ma in questo caso, secondo il postulato dei quanti, ogni
osservazione sarebbe impossibile e, soprattutto, i concetti di spazio e di tempo per-
derebbero il loro senso immediato. D’altra parte, se allo scopo di rendere possibile
l’osservazione noi ammettiamo certe interazioni con opportuni dispositivi di misura-
zione, non appartenenti al sistema, una definizione univoca dello stato del sistema di-
venta naturalmente impossibile e non si potrà parlare di causalità nel senso ordinario
della parola. La natura stessa della teoria quantistica ci costringe così a considerare la
coordinazione spazio-temporale e l’esigenza della connessione causale, la cui unione
caratterizza le teorie classiche, come aspetti complementari ma reciprocamente esclu-
dentisi della descrizione, i quali simbolizzano l’idealizzazione dei concetti di osserva-
zione e di definizione rispettivamente.60

Messi di fronte a questo contrasto, frutto dello sviluppo conseguente della


teoria dei quanti; giunti a questo punto, secondo Bohr, «il postulato dei quanti ci
pone di fronte il compito di sviluppare una teoria della “complementarità”».61 Il
problema si presentava in tutta la sua evidenza quando si prendeva in considera-
zione la difficoltà (logica) di accettare, ad esempio, il dualismo onda-corpuscolo,
il fatto cioè che un aspetto della natura, la luce o la materia, talvolta venisse spie-
gata come se fosse costituita di onde, talaltra come se fosse fatta di corpuscoli.62
La logica di Aristotele dichiara che

è impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appar-
tenga al medesimo oggetto e nella medesima relazione […]; appunto questo è il più
saldo di tutti i princìpi, perché possiede la determinazione che noi abbiamo enunciata.
È impossibile, infatti, supporre che la medesima cosa sia e non sia.63

E Aristotele continua:

e se non è possibile che attributi contrari appartengano simultaneamente ad una mede-


sima cosa […] e se l’opinione che è in contraddizione con un’altra opinione è contraria

59
Ibid.
60
Ivi, p. 325.
61
Ibid.
62
Cfr. ivi, pp. 325-327.
63
Aristotele, Metafisica, in Opere, vol. VI; tr. it. di A. Russo, Laterza, Roma-Bari 1982, p. 94, l. IV,
3, 1005b.

77
Shift. International Journal of Philosophical Studies

a quest’ultima, risulta allora evidentemente impossibile che la medesima persona, nel


medesimo tempo, pensi che la medesima cosa sia e non sia, giacché, in tal caso, colui che
cadesse in questo errore avrebbe nel medesimo tempo due opinioni contrarie. Ecco
perché chiunque intenda produrre una dimostrazione la fonda, in ultima istanza, su
questa convinzione, giacché questa è, per sua natura, anche la base su cui poggiano
tutti quanti gli altri assiomi.64

Una logica del genere funziona perfettamente fino a quando “semplifichiamo”


la conoscenza della natura, mettendo il soggetto fra parentesi. Ma in fisica, ora,
questa separazione netta non può più sussistere. Scrive Bohr:

La descrizione della nostra attività mentale richiede da una parte un contenuto og-
gettivamente dato, mentre d’altro canto, com’è già implicito in una tale asserzione,
una netta separazione fra oggetto e soggetto non può venire sostenuta in quanto an-
che quest’ultimo appartiene al nostro contenuto mentale. Da ciò segue non solo il
significato relativo di ogni concetto, – meglio di ogni parola –, che viene a dipendere
dall’arbitrarietà del punto di vista, ma altresì che noi dobbiamo, in generale, essere
preparati ad accettare il fatto che una spiegazione completa di una stessa questione
possa richiedere diversi punti di vista che non ammettono una descrizione unitaria.65

Si deve comprendere allora che in fisica – come accade nelle discipline di ta-
glio più umanistico, dove il soggetto è sempre parte dell’analisi – bisogna abban-
donare la rigidità della logica aristotelica, che prevede un’unica spiegazione pos-
sibile; e deve apparire chiaro, proprio perché il soggetto è parte integrante della
realtà fisica (in quanto osservatore e misuratore), che il contrario di una afferma-
zione “vera” può benissimo essere un’affermazione altrettanto “vera”. Dunque
«il concetto di complementarità [può] dimostrarsi adeguato a caratterizzare la
situazione, la quale rivela una profonda analogia con la difficoltà generale insita
nella formazione dei concetti umani, che ha la sua radice nella distinzione fra
soggetto e oggetto».66
La distinzione separante fra soggetto e oggetto è alla base delle difficoltà con
i concetti quantistici. L’impossibilità di separare soggetto e oggetto obbliga ad
accettare la complementarità di più punti di vista. Per dirla in termini sempre
di Bohr, ma più suggestivi, «siamo qui di fronte a relazioni di complementarità
insite nella condizione umana, e che l’antica filosofia cinese riassume con indi-

64
Ivi, pp. 94-95.
65
E Bohr così, di seguito, continua: «Infatti, strettamente parlando, l’analisi consapevole di un
qualunque concetto si trova in relazione di esclusione con la sua applicazione immediata. La
necessità di far ricorso a un modo complementare, o reciproco, di descrizione ci è forse più
familiare nell’ambito dei problemi psicologici. Al contrario, ciò che caratterizza le scienze esatte è,
in generale, il tentativo di conseguire l’univocità evitando ogni riferimento al soggetto percipiente»
(N. Bohr, Wirkungsquantum und Naturbeschreibung, in «Naturwissenschaft», 17 (1929), pp. 483-
486; tr. it., Il quanto d’azione e la descrizione della natura, in Id., Teoria dell’atomo e conoscenza
umana, cit., p. 357).
66
Id., The quantum postulate and the recent development of atomic theory, cit., tr. it., Il postulato dei
quanti e il recente sviluppo della teoria atomica, cit., p. 353.

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Il recupero del soggetto conoscente nel Novecento: la via della fisica

menticabile efficacia ricordandoci che nel dramma dell’esistenza noi siamo sia
attori che spettatori».67
In una simile prospettiva, la complementarità finisce con l’essere il mezzo di
una descrizione oggettiva dell’esperienza microfisica. Osserva infatti il fisico da-
nese:

La nozione di complementarità non comporta alcun allontanamento dall’osservazione


distaccata della natura; essa va anzi considerata come l’espressione logica della nostra
posizione riguardo alla descrizione oggettiva in questo campo di esperienza. Il fatto
che l’interazione fra gli strumenti di misura e il sistema fisico in studio sia parte inte-
grante del fenomeno quantistico, non solo ha rivelato una limitazione inattesa della
concezione meccanica della natura, in quanto caratterizzata dall’attribuzione di pro-
prietà autonome ai sistemi fisici, ma ci ha forzati a prestare la dovuta attenzione, nel
predisporre le esperienze, alle condizioni di osservazione.68

Occorre sottolineare l’importanza di questo passaggio, perché mette in chiaro


come, per Bohr, siamo ben lontani da relativismo o soggettivismo filosofici dagli
esiti più disparati; il riferimento al soggetto conoscente è la constatazione della
presenza di un sistema di osservazione, e dunque Bohr può affermare:

In vista dell’influenza della concezione meccanica della natura sul pensiero filosofico,
è comprensibile che si sia talvolta visto nella nozione di complementarità un riferi-
mento alla soggettività dell’osservatore, incompatibile con l’obiettività della descrizio-
ne scientifica. Naturalmente in ogni campo dell’esperienza dobbiamo mantenere una
netta distinzione fra osservatore e contenuto dell’osservazione, ma dobbiamo anche
prendere atto del fatto che la scoperta del quanto d’azione ha gettato nuova luce sui
fondamenti stessi della descrizione della natura e rivelato presupposti fin qui ignorati
dell’impiego razionale dei concetti su cui riposa la comunicazione dei risultati dell’e-
sperienza. Nella fisica quantistica, come si è visto, è indispensabile per la definizione
dei fenomeni una descrizione del funzionamento degli strumenti, e si deve, per così
dire, distinguere tra soggetto e oggetto in modo che in ogni singolo caso risulti assi-
curata l’applicazione non ambigua dei concetti fisici elementari impiegati nella descri-
zione. Lungi dal contenere qualunque misticismo estraneo allo spirito della scienza, la
nozione di complementarità conduce alle condizioni logiche necessarie per la descri-
zione e comprensione dell’esperienza della fisica atomica.69

È cambiato il senso della distinzione soggetto-oggetto; non più, semplicistica-


mente, una contrapposizione alla Cartesio, res cogitans da una parte e res extensa

67
Id., The Unity of Human Konwledge, in Id., Essays, cit.; tr. it., Unità della conoscenza, in Id.,
Teoria dell’atomo e conoscenza umana, cit., p. 395. Cfr. anche Id., Biology and atom physics, in Id.,
Atom physics and human knowledge, Wiley, New York 1958; tr. it., Biologia e fisica atomica, in Id.,
Teoria dell’atomo e conoscenza umana, cit., p. 395.
68
Ivi, p. 418.
69
Id., Atoms and human knowledge, in Id., Atom physics and human knowledge, cit.; tr. it., Atomi e
conoscenza umana, in Id., Teoria dell’atomo e conoscenza umana, cit., p. 437.

79
Shift. International Journal of Philosophical Studies

dall’altra; la distinzione ora individua una particolare situazione: il riconoscimento


della presenza del soggetto è indispensabile, dopo la svolta quantistica, per defi-
nire, in un certo senso, i termini di oggettività (particolare) della natura osservata.
La complementarità di spiegazioni in fisica quantistica, allora, individua la
molteplicità non riducibile di risposte. Seguiamo ancora Bohr:

Nell’ambito della fisica classica tutte le proprietà caratteristiche di un dato oggetto


possono in linea di principio venire determinate con un unico apparato sperimentale,
benché in pratica sia spesso conveniente ricorrere a dispositivi differenti per studiare
aspetti diversi dei fenomeni. Infatti i dati così ottenuti si integrano a vicenda e possono
venire unificati in una descrizione coerente del comportamento dell’oggetto studiato.
Nella fisica quantistica, invece, dati sui sistemi atomici ottenuti per vie diverse posso-
no manifestare un tipo nuovo di relazione di complementarità. Infatti si può vedere
che questi dati, i quali appaiono contraddittori qualora si tenti di combinarli in un
singolo quadro, esauriscono tutto ciò che è conoscibile intorno all’oggetto. Lungi dal
limitare le domande che possono essere poste alla natura sotto forma di esperimenti,
la nozione di complementarità semplicemente caratterizza le risposte che si possono
ricevere ogniqualvolta l’interazione tra gli strumenti di misura e gli oggetti formi parte
integrante del fenomeno.70

La complementarità, dunque, esprime la necessità, per potere avere un’infor-


mazione completa su un sistema, di mettere assieme prospettive diverse. Bohr lo
ribadisce con chiarezza: «Per caratterizzare la relazione tra i fenomeni osservati
sotto condizioni sperimentali differenti, è stato introdotto il termine di comple-
mentarità, che sottolinea il fatto che quei fenomeni esauriscono insieme tutta
l’informazione possibile sul sistema».71
La complementarità permette, quindi, di spiegare aspetti della realtà fisica che
sfuggono alla spiegazione singola o presentano contraddizioni con altri aspetti
del fenomeno che si pongono, in termini classici, in una posizione di aut aut. È
in questa situazione – osserva Bohr

che si fa appello alla nozione di complementarità per realizzare uno schema sufficien-
temente ampio per fornire la spiegazione di regolarità fondamentali che non possono
venire comprese in una singola descrizione. Infatti i dati ottenuti in condizioni spe-
rimentali ben definite – ed espressi mediante un impiego adeguato dei concetti fisici
elementari – esauriscono nel loro complesso tutta l’informazione sugli oggetti atomici
che può venire comunicata con il linguaggio usuale.72

Per concludere, la complementarità mette in rilievo il ruolo del soggetto osser-


vatore. Infatti, «la nozione di complementarità fa riferimento diretto alla nostra
posizione di osservatori in un dominio di esperienza in cui l’applicazione non

70
Id., Quantum physics and philosophy, cit., tr. it., Fisica quantistica e filosofia, cit., p. 104.
71
Id., Physical science and the problem of life, in Atom physics and human knowledge, cit.; tr. it., La
fisica e il problema della vita, in Id., Teoria dell’atomo e conoscenza umana, cit., p. 446.
72
Id., The Unity of Human Konwledge, cit., tr. it., Unità della conoscenza, cit., p. 114.

80
Il recupero del soggetto conoscente nel Novecento: la via della fisica

ambigua dei concetti usati nella descrizione dei fenomeni dipende in modo es-
senziale dalle condizioni di osservazione».73 Essa, cioè, mette in risalto il ruolo del
soggetto conoscente osservatore: «Lo schema più ampio della complementarità
è l’espressione diretta della nostra posizione nei confronti della spiegazione di
proprietà fondamentali della materia che la descrizione classica presuppone».74
Quello che allora va ribadito è che si tratta di un principio che coglie una
nuova logica e «il graduale sviluppo di una terminologia appropriata per la de-
scrizione della situazione più semplice che si presenta nella fisica indica che non
si è di fronte a più o meno vaghe analogie [con altri campi della conoscenza], ma
a chiari esempi di relazioni logiche che, sia pure in differenti contesti, valgono in
campi ben più vasti».75
Dalla complementarità viene fuori una nuova logica da estendere ad altri
campi,76 una logica che può arrivare a coinvolgere discipline e approcci diversi.77
Senza però mai dimenticare che la complementarità della spiegazione è una ne-
cessità logica che discende dall’interazione soggetto-oggetto. Scrive ancora Bohr,
pensando a certe paradossalità della fisica dei quanti:

La spiegazione di questi apparenti paradossi è venuta attraverso l’osservazione che


l’interazione tra gli oggetti e i mezzi di osservazione, che ordinariamente può venire
trascurata o valutata a parte, nell’ambito della fisica quantistica forma invece parte
inseparabile dei fenomeni. In tal modo le varie esperienze non possono più venire
integrate nel modo usuale, bensì i diversi fenomeni devono venir considerati come
complementari, nel senso che insieme esauriscono tutta l’informazione sugli oggetti
atomici univocamente esprimibile.78

6. Conclusione

A questo punto, il recupero della res cogitans in fisica può dirsi completo.
Questo processo non è stato (e non è) né lineare né indolore. Gli stessi protago-
nisti delle vere e proprie “avventure di idee” che ho cercato di mettere in campo
sono testimoni delle difficoltà.
Einstein – non a caso definito “l’ultimo fisico classico”79 – si può dire che po-

73
Id., Physical science and the problem of life, cit., tr. it., La fisica e il problema della vita, cit., pp.
446-447.
74
Id., Quantum physics and philosophy, cit., tr. it., Fisica quantistica e filosofia, cit., p. 106.
75
Ivi, pp. 107-108.
76
Bohr lo farà, ad esempio, con la biologia e con il confronto tra culture. Ma su ciò rimando al
mio Da Einstein a Morin, già citato, e in particolare al settimo capitolo, “Niels Bohr e la biologia”.
77
Su questo si veda I. Prigogine e I. Stengers, La Nouvelle alliance. Métamorphose de la science,
cit.; tr. it., La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, cit., p. 228. Cfr. anche G. Gembillo, G.
Giordano, Ilya Prigogine. La rivoluzione della complessità, Aracne, Roma 2016.
78
N. Bohr, Rapporti tra le scienze fisiche e biologiche, in Id., I quanti e la vita, cit., p. 121.
79
Cfr. H. Pagels, The cosmic code, Simon & Schuster, New York 1982; tr. it. di E. Panaitescu, Il
codice cosmico, Bollati Boringhieri, Torino 1984, p. 15.

81
Shift. International Journal of Philosophical Studies

lemizzi con Bohr (anche in memorabili discussioni durante i convegni Solvay),80


riguardo, ad esempio, alla completezza della teoria quantistica,81 per salvare l’og-
gettività della realtà scientifica, da mantenere completamente distinta e indipen-
dente dal soggetto.82 Ma il recupero della res cogitans, il superamento dell’“errore
di Cartesio”,83 si connota come un percorso ineluttabile per rendere la scienza
non solo a misura d’uomo, ma anche adatta a un mondo complesso e reticolare,
difficile da “cosificare”, sic et simpliciter, una volta che se ne sia colta la peculia-
rità.
La nuova fisica che nasce nel Novecento; la fisica che intreccia i suoi percorsi
anche con la chimica e altre discipline; questa fisica non poteva, nella sua dirom-
pente rivoluzionarietà concettuale e metodologica (e persino pratica), non essere
protagonista – con pensatori della caratura di Einstein, Heisenberg e Bohr – nel
recupero del soggetto conoscente all’interno del quadro naturale, passo fonda-
mentale nella reimpostazione del rapporto fra uomo e natura.

80
Ampie ricostruzioni di queste discussioni si trovano in tutta la letteratura su Einstein. Si
veda in particolare A. Pais, “Sottile è il Signore …”, op. cit.; N. Bohr, Discussion with Einstein
on epistemological problems in atomic physics, in Schilpp (editor by), Albert Einstein philosopher-
scientist, Cambridge University Press, Cambridge 1949; tr. it. di A. Gamba, Discussione con
Einstein sui problemi epistemologici della fisica atomica, in A. Einstein, Autobiografia scientifica,
Bollati Boringhieri, Torino 1979, pp. 104-147; D. Murdoch, Niels Bohr’s Philosophy of Physics,
Cambridge University Press, Cambridge 1987; S. Petruccioli, Atomi Metafore Paradossi, cit., pp.
247-292; G. Greison, Dove nasce la nuova fisica, op. cit.
81
Cfr. A. Einstein-B. Podolsky-N. Rosen, Can quantum-mechanical description of physical reality
be considered complete? in «Phys. Rev.», 1935; tr. it. in A. Einstein, Opere scelte, cit., pp. 374-382.
82
Non è un caso che Einstein vedesse proprio nel principio di indeterminazione il motivo
dell’incompletezza della teoria quantistica. Questo fatto emerge, ad esempio, nell’incipit della
memoria La descrizione quantica della realtà può considerarsi completa? (p. 374). E, da parte sua,
Heisenberg riteneva che, «se si pensa alle gravi difficoltà che anche eminenti scienziati, come
Einstein, incontrarono per intendere e accettare l’interpretazione di Copenaghen della teoria dei
quanti, esse si possono fare risalire alla divisione cartesiana fra materia e spirito» (W. Heisenberg,
Physics and Philosophy; tr. it., Fisica e filosofia, cit., p. 100). Del resto, una sorta di ritorno al classico
muove anche altri fisici di grande spessore come Schrödinger. Su ciò si veda N. Bohr, Essay 1958-
1962 on Atomic Physics and Human Knowledge, cit.; tr. it. Il postulato dei quanti e il recente sviluppo
della teoria atomica, in Id., I quanti e la vita, cit., p. 341.
83
Cfr. A. R. Damasio, Descartes’ Error: Emotion, Reason, and the Human Brain, Putnam, New York
1994; tr. it. di F. Macaluso e I. C. Blum, L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano,
Adelphi, Milano 2011.

82
Le sujet par-delà les normes
Jérôme Lèbre

Abstract

The subject beyond the norms.


The question nowadays is less « who I am » than « who are we », and « what
shall we do? ». The dominating answer is from Foucault: subjects are inherent
to a process of subjectivation in the context of the confrontation with norms.
This paper sticks to foucaldian best definition of the norm as a « mixt of nature
and legacy », and tries to show that this definition resists to the idea of a imma-
nent and living process of production involving subjects and norms. Then norms
are nothing without the other dimensions which concern the subject even if
Foucault tries later to reduce them: the necessity of nature, the external course
of technique, the legacy as ground (without ground) of normativity, the ethical
appeal coming from the other(s). Modern subjects are confronting themselves to
these non-subjective and irreductible dimensions that are leading them beyond
the norms, disrupting in singular ways any process of subjectivation.

Keywords: immanence, subjectivity, norms, Foucault, sovereignty.

Nous ne savons pas pour combien de temps encore peut durer le grand dis-
cours à la première personne du sujet souverain, qui vote en son âme et conscience
ou qui décide, sans autre fondement que sa volonté suprême. Cependant le scep-
ticisme vis-à-vis du présidentialisme de la cinquième République française, tout
comme l’indécision totale des électeurs à quelques jours du scrutin présidentiel
sont des signes assez nets du recul, en France et ailleurs, d’un tel «sujet»: celui-ci
ne sait plus trop quoi dire, quoi faire, et c’est à peine ce qui veut, il ne se recon-
naît plus dans celui qui est censé être son incarnation à la tête de l’Etat.
En même temps, plus personne ne croit, en dehors de ce grand discours qui
achève sa domination, à une possible mort du sujet. Celui-ci s’est profondément
transformé, il n’a plus ses certitudes, sa maîtrise de soi, sa relation immédiate et
définitive à la vérité, son autonomie, mais il est là – comme nous sommes là, per-
suadés d’avoir encore quelque chose à dire ou à faire dans un monde que nous
ne contrôlons plus vraiment. A la question de cette mort du sujet, qui a tant pré-
Shift. International Journal of Philosophical Studies 1/2017
Shift. International Journal of Philosophical Studies

occupé les philosophes et la presse il y a quelques décennies, s’en est substituée


une autre: «qui suis-je? » «qui sommes-nous»? Et en même temps: «que faire?»
Si bien que la charge de la réponse est revenue à chacun et à tous.

1. Les processus de subjectivation et le statut des normes

Il apparaît cependant que dans cette question, un certain mode de réponse est
déjà prédéterminé: nous (chacun de nous ou en nombre) sommes ce que nous
faisons de nous dans une relation à un ensemble de normes par lesquelles nous
existons et vis-à-vis desquelles nous nous situons. Le sujet se comprend, d’une
manière immanente, dans ce processus de subjectivation qui vaut dans sa géné-
ralité tout en se disséminant en figures et en pratiques multiples.
Rappelons comment la référence aux normes a en quelque sorte réglé la ques-
tion du sujet, tout en laissant relativement ouverte. Au début du deuxième vo-
lume de L’Histoire de la sexualité (L’Usage des plaisirs), Foucault énonce des
considérations de méthode préliminaires à l’étude «des formes et transformation
d’une morale».1 Si la morale est un ensemble de règles, toute règle est confrontée
à la manière qu’a le sujet de se rapporter à elle. Alors que la règle, considérée
en elle-même, acquiert le statut d’une loi indépendante, elle ne peut vraiment
être étudiée que dans le double mouvement par lequel chaque sujet s’assujettit
à elle en même temps qu’il se constitue lui-même en se différenciant d’elle: pas
d’assujettissement, donc, sans subjectivation. C’est ainsi que l’ascèse grecque fait
de la diététique tout un art de vivre, qui agence les exercices physiques, les bains,
l’alimentation, la boisson, le sommeil et les relations sexuelles. La sexualité, cette
dépense organique intense, est encadrée par des prescriptions de temps et de
contexte très précises. Ensuite, l’«économique» régit la conduite sexuelle des
époux en fonction du bon ordre de la maison; l’ «érotique» définit les justes
relations de plaisir entre un homme mûr et un jeune disciple désirable et édu-
cable: elle a pour horizon une relation à la vérité qui n’est rien d’autre que la
philosophie.
Il en découle en apparence qu’au-delà de la norme il n’y a rien – sinon le sujet
lui-même, qui «se constitue comme matière principale de sa conduite morale».2
Toute la philosophie de Foucault semble converger vers l’étude de ces pratiques
sous-jacentes à la loi, ces attitudes vis-à-vis de la norme. Il s’avère rétroactive-
ment que le prisonnier ou le fou étaient déjà pris dans des processus de subjec-
tivation qui peuvent s’étendre à tous les domaines où des normes s’imposent
– donc à tout le champ à la fois transcendantal et empirique des subjectivités qui
configurent leur expérience tout en lui appartenant. Tout se passe comme si la
pensée de la subjectivation venait équilibrer une thématique constante de Fou-
cault, l’assujettissement, et consolider une méthode applicable à l’interprétation

1
M. Foucault, Histoire de la sexualité, II, L’Usage des plaisirs, Gallimard, Paris 1984/2001, p. 36.
2
Ivi, p. 37.

84
Le sujet par-delà les normes

de ses écrits ainsi qu’à tous les champs du savoir. Le philosophe qui faisait de la
déprise le principe même de son écriture est depuis sans cesse repris.
Pourtant, chez Foucault lui-même, le champ des normes a toujours été tra-
versé par quantité de césures qui n’ont cessé de remettre en question son imma-
nence. La consistance du milieu disciplinaire (l’asile et l’hôpital psychiatrique)
dont L’Histoire de la folie montre la naissance est confrontée à un dehors qui est
précisément celui où le sujet suit une ligne sombre à l’écart des normes: l’écriture
littéraire (de Cervantès à Artaud en passant par Hölderlin et Nietzsche) n’est
pas une discipline, elle n’est donc pas assujettissante, et nous hésiterions beau-
coup avant de considérer comme évidente la notion de subjectivation littéraire.
Surveiller et punir fait naître les disciplines avec la modernité, qui n’est qu’une
époque du sujet. Les Mots et les choses ont justement pour but de montrer que
le champ des pratiques n’a de consistance que fragile et périodique, puisqu’il est
traversé par la césure entre le sujet de l’expérience et l’expérience du sujet (entre
le transcendantal et l’empirique): l’homme, ce mixte empirico-transcendantal,
implique une décision sur «l’être de l’homme» que les sciences humaines ont
prise sans l’éclaircir et qui laisse donc ouverte la question de cet être comme de
son avenir. Il semble même aller de soi que cet homme qui ne peut faire l’impasse
sur la question de son être tient non seulement du sujet nietzschéen (auquel se
réfère Foucault) que de l’existant chez Heidegger, Foucault s’appuyant implici-
tement mais constamment sur la critique heideggérienne des sciences humaines:
«l’homme» n’est pas plus un objet qu’un sujet, mais le seul être qui existe, c’est-
à-dire se pose la question de son être, si bien qu’il est fondamentalement sans
fond, et définitivement incernable. Enfin, s’il est clair par la suite que la question
de l’être de l’homme n’est autre pour Foucault que celle du sujet confronté aux
normes, ces dernières gardent un statut problématique, puisqu’elles sont, selon
la formule de Surveiller et punir, «un mixte de légalité et de nature».3 Tout mixte
est voué à être analysé; dans L’Herméneutique du sujet, Foucault fait même de
l’analyse stoïcienne des représentations une «technique de soi» incontournable;
mais ce mixte s’est plutôt ressoudé dans sa dernière pensée pour devenir legs
universel, au risque de laisser dans l’ombre la double relation du sujet à la loi et
à la nature. C’est donc la relation du sujet à ces deux pôles qui nous serviront
maintenant de fil conducteur.

2. Le sujet et la nature: corps et nécessité

Il nous faut revenir sur cette formule en la citant entièrement: la norme est
«mixte de légalité et de nature, de prescription et de constitution». Cette double
définition de la norme réalise un étonnant tour de force: celui de nous signaler
un mixte, tout en identifiant strictement la légalité et la prescription d’un côté,

3
Id., Surveiller et punir, Gallimard, Paris 1975, p. 310.

85
Shift. International Journal of Philosophical Studies

la nature et la constitution de l’autre. Il en découle tout simplement qu’il n’y a


pas de loi naturelle au sens où on l’entend ordinairement: une nécessité univer-
selle qui fait l’objet des sciences de la nature, et qui détermine les hommes en
même temps que tous les corps physiques. La nature n’est pas nécessaire dans la
formule de Foucault, mais constitutive – elle ne peut être abordée que comme
nature du sujet, autrement dit comme corps élaboré par le sujet lui-même.
Cette thèse est issue des travaux de Foucault sur la naissance de la clinique.
Ceux-ci visaient précisément à dégager la médecine de la présupposition d’un
corps naturel, obéissant simplement à des lois organiques, biologiques ou physi-
co-chimiques. Ces lois sont indissociables d’une position normative du médecin,
si bien que le corps vivant n’est connu que comme l’envers d’un corps malade,
pris en charge par la pratique clinique. L’appartenance du corps organique s’ef-
face alors au profit d’une certaine configuration de l’homme, qui inclut jusqu’à sa
confrontation à la mort à l’intérieur du savoir médical. La médecine se substitue
ainsi historiquement aux mathématiques, cette science de la nature; elle s’inscrit
dans la démarche anthropologique qui fait de l’homme à la fois le sujet et l’objet
de sa propre connaissance; elle devient même, à la fin de La Naissance de la cli-
nique, le socle discret des sciences humaines.4
Le savoir médical offre ainsi, comme celui des sciences humaines, un champ
périodique et instable: il ne règle ni la question de la nature, ni celle de l’être
de l’homme, cet être fini conscient de la nécessité de sa mort et donc amené
à se poser la question de sa finitude, sans pouvoir la résoudre d’une manière
technique (et provisoire) comme le fait la médecine. Autrement dit, le champ
anthropologique, «jamais offert en totalité, jamais en repos en soi-même»,5 reste
bien ici ce milieu mixte que Kant, commenté par Foucault, dégageait du fait
que l’homme mélange pragmatiquement ce qu’il doit être (son être moral) et
ce qu’il est nécessairement (un être appartenant à la nature). Toute pacification
de ce champ, toute consolidation, est alors de l’ordre du sommeil anthropolo-
gique; autrement dit l’homme ne vaut (au vrai sens de la valeur) qu’écartelé entre
nécessité naturelle et liberté, ces deux pôles que les normes effacent dans un
mouvement inévitable mais illusoire consistant à normer la nature ou naturaliser
les normes.

Peut-être est-ce alors précisément dans L’Herméneutique du sujet que Fou-


cault s’est le plus donné l’occasion de retrouver ce que pouvait signifier pour lui
la nécessité naturelle, et qu’il a le plus manqué cette occasion. Ce séminaire au
Collège de France implique en effet un long développement sur les Stoïciens.
Mais ce que reconnaît Foucault dans le stoïcisme, ce sont toutes les pratiques
visant à s’occuper de soi, se maîtriser soi-même, prendre soin de son corps, ana-
lyser ses représentations mixtes, tous ces usages ou ces techniques développant
une relation de soi à soi constitutive du sujet – sans considérer que l’intégralité de

4
Id., Naissance de la clinique, P.U.F., Paris 2000, pp. 201-202.
5
Id., Introduction à l’Anthropologie de Kant, version internet non paginée.

86
Le sujet par-delà les normes

la philosophie stoïcienne règle ses pratiques sur les lois nécessaires de la nature.
Pierre Hadot a parfaitement cerné ce problème: «Sénèque ne trouve pas sa joie
dans «Sénèque» mais en transcendant Sénèque, en découvrant qu’il a en lui une
raison, partie de la raison universelle, intérieur à tous les hommes et au cosmos
lui-même».6 Hadot est précieux dans sa manière d’expliquer pourquoi Foucault
a «gommé ces aspects»: sa description des pratiques de soi «veut implicitement
donner à l’homme contemporain un modèle de vie (que Foucault appelle «esthé-
tique de l’existence»). Or, selon une tendance à peu près générale de la pensée
moderne, tendance peut-être plus instinctive que réfléchie, les notions de «raison
universelle» et de «nature universelle» n’ont maintenant plus beaucoup de sens.
Il était donc utile de les mettre en parenthèses». On appréciera l’ironie qui place
Foucault dans un main stream ou une doxa contemporaine qui serait en même
temps instinctive, confirmant malgré elle que la pensée effaçant la nécessité natu-
relle ne parvient qu’à se laisser guider par elle...
Laquelle évidemment fait toujours sens, y compris chez les auteurs qui en-
tendent consolider la perspective de Foucault. Il nous semble que c’est Pierre
Macherey qui est parvenu le mieux à lui redonner sa cohérence, en plaidant
d’une manière tout à fait conséquente pour une «histoire naturelle des normes».
Il s’agit pour lui de revenir à Canguilhem, l’inspirateur des travaux de Foucault,
mais pour qui la vie est en elle-même productrice de normes se constituant en
même temps qu’elles s’exercent: le vivant n’est tel que dans l’effort constant
qu’il fait pour se maintenir autant que possible en vie, donc pour maintenir une
régulation ou une normalité que la maladie défie. Dès lors nature et sujet appar-
tiennent au même champ d’immanence. Le seul tort de Foucault serait donc
d’avoir abordé la norme d’une manière trop transcendante (trop kantienne) et il
serait réparable, pour peu qu’on relise Foucault d’une manière spinoziste: toutes
les configurations que se donnent dans leurs pratiques les individus sont autant
d’efforts d’insertion «dans un réseau homogène et continu, un dispositif norma-
tif, qui en les produisant, ou plutôt en les reproduisant, les transforme en sujet».7
Etre sujet, écrit Macherey, «c’est alors, suivant une formule qui revient dans
toute l’œuvre de Spinoza, se poser, s’affirmer, se reconnaître comme pars natu-
rae, c’est-à-dire comme étant soumis à la nécessité (et Spinoza dit qu’il s’agit de
tout le contraire d’une contrainte externe) globale d’un tout, ce tout étant la
nature elle-même dont chacune de nos expériences de sujets est l’expression plus
ou moins développée et complète, expression déterminée chez Spinoza, expres-
sion normée dirait Foucault».8 La norme n’est plus ici un mixte entre légalité et
nature: elle est une manière d’exprimer d’une manière finie et déterminée l’iden-
tité entre la loi et la nature, la liberté et la nécessité. Par exemple, la sexualité
n’est rien d’autre que l’ensemble des expériences historiques et sociales produi-

6
P. Hadot, Exercices spirituels et philosophie antique, Albin Michel, Paris 2002, p. 325.
7
P. Macherey, De Canguilhem à Foucault – La force des normes, La Fabrique éditions, Paris 2009,
p. 78.
8
Ivi, p. 84.

87
Shift. International Journal of Philosophical Studies

sant des normes sexuelles et constituant les individus comme sujets déterminés
du désir sexuel; ou encore, l’appartenance au présent et à l’actualité consiste à
s’insérer dans le processus normatif qui constitue ce présent pour le modifier.
Mais alors, l’appartenance du sujet à ce processus n’est pas contrebalancée par le
fait que comme processus naturel, il ne nous appartient pas, qu’il n’appartient à
personne (précisément ce que souligne l’appendice du livre I de l’Ethique). On
ne peut alors plus faire la différence, si importante chez Spinoza, entre la totalité
de la nécessité naturelle et son expression partielle dans les modes finis que sont
les êtres vivants, les hommes, les sociétés et leurs lois ou en termes foucaldiens,
les normes. Le souci de soi du mode fini ne lui offre plus d’ouverture sur l’infini,
sur ce qui le précède et le dépasse infiniment. Cette nature universelle dont le
propre est de se situer par delà les normes, et qui est mise entre parenthèses dans
le Spinoza de Macherey, est la même que celle qui était mise entre parenthèses
dans le stoïcisme de Foucault; seulement, on ne peut pas dire, en considérant la
tendance actuelle à relire Foucault à travers Spinoza, qu’elle n’a pas beaucoup de
sens pour les penseurs modernes.
En clair, si toute la nature est norme, il n’y a plus de nature, ou donc plus
de monde hors du sujet (ou du vivant) producteur de normes et constitué par
elles, et le foucaldisme devient un acosmisme. Concrètement: il n’y a plus de
processus pathologique en dehors de la clinique ou de la gestion policière des
épidémies, plus de meurtres mais seulement des crimes déjà préfigurés par les
normes pénales et carcérales, plus d’animaux en dehors de l’animalisation des
hommes (on peut le vérifier empiriquement dans les textes de Foucault); tout
événement ne se produit que dans et par les institutions, ou dans la relation entre
sujet et institution, il n’y a plus véritablement d’événement. Evidemment nous
ne voulons pas dire que nous savons quelque chose d’une nature qui ne serait
pas immédiatement reprise dans une théorie, une histoire, des institutions, des
normes, et il est vrai que tout discours sur la nature est déjà normatif. Seulement,
des Stoïciens et de Spinoza, nous retenons que même si la nature est inconnais-
sable, nous savons qu’elle est. Même si elle ne nous apparaît que dans une suite
de rencontres contingentes, nous savons qu’elle est nécessairement, c’est-à-dire
que la nécessité naturelle n’est pas une norme, mais ce qui fait que les événe-
ments arrivent du dehors, se produisent sans être produits par des sujets, sans
être d’emblée constitués ou institués. Il y a une nature signifie: il y a de l’inconsti-
tué par delà les normes, ou encore: nous savons qu’il y a de l’inconnaissable, que
chaque accident arrive selon une nécessité qui nous échappe.

Ou encore: nous savons que nous avons un corps sans pour autant posséder
une connaissance de ce corps. Spinoza: «ce que peut le corps, personne jusqu’à
présent ne l’a déterminé... Car personne jusqu’à présent n’a connu la structure
du corps si précisément qu’il en pût expliquer toutes les fonctions».9 Spinoza

9
B. Spinoza, Ethique, III, prop. II, scolie, trad. fr. B. Pautrat, Seuil, Paris 1988, p. 209.

88
Le sujet par-delà les normes

n’a jamais dit «nous ne savons même pas ce que peut un corps», traduction
deleuzienne volontairement décalée qui met entre parenthèses la connaissance
physique du corps, afin de critiquer un non-savoir qui est de l’ordre du bavar-
dage et élaborer un savoir évaluatif du corps comme puissance d’organiser ses
rencontres avec le monde. Mais Spinoza résiste: personne jusqu’à présent n’a dé-
terminé, connu, expliqué ce que peut le corps, c’est-à-dire l’intégralité de sa struc-
ture (ou «fabrication») et toutes ses fonctions. Nous pouvons donc bien mettre
toute l’activité de notre âme dans la pensée organisée des affections du corps,
nous concevoir comme des sujets qui se constituent en normant leurs attitudes
corporelles, montrer que la médecine elle-même garde une vue normative sur le
corps, il reste que personne n’a pour autant (hier comme aujourd’hui) la connais-
sance déterminée et intégrale de ce corps, si bien que tout corps normé n’est
que restructuration d’une structure naturelle radicalement inconnue, laquelle est
par delà toute norme. Et tout ce que nous faisons, toute notre pensée a sa limite
dans cette non-connaissance, cette non-appartenance du corps à l’âme qui fait
toute son étendue, tout son dehors structuré selon un attribut qui n’est pas celui
de la pensée (sauf pour Dieu). Bien sûr cela ne change rien au fait que l’âme est
parallèle au corps, ou même, comme le dit Freud repris par Jean-Luc Nancy,
qu’elle est entièrement dans l’étendue, ou en dehors d’elle-même. Mais alors
(et en conformité avec Freud et Nancy) elle se méconnaît, ne s’appartient pas,
ne se constitue pas intégralement, n’est pas entièrement normée: le sujet se sait
transporté par son corps au-delà de son savoir de lui-même, ou se sait comme ne
se connaissant pas.
C’est ainsi que le corps, toujours sexué, diffère du genre. Judith Butler insiste
sur cette différence, en s’opposant en particulier à Monique Wittig paraphrasée
ainsi: «la catégorie de sexe est elle-même une catégorie genrée, pétrie de poli-
tique, naturalisée et non naturelle».10 Dans le constructivisme radical attribué à
Wittig le sexe est entièrement discursif, et finalement fictif, entraînant dans la fic-
tion tout le corps et toute la nature. Il ne s’agit pas alors pour Butler de défendre
a contrario un accès quelconque au sexe en soi, à l’organe, au corps, ou à la
nature en soi. Tout ce que l’on peut dire sur le sexe organique et sur le corps est
aussi normé. Seulement, ce n’est pas le même plan normatif que celui du genre,
et c’est dans la nécessité de cet écart entre les deux plans de la norme, c’est dans
cette discontinuité que se troue la naturalité du sexe. En d’autres termes, seule
une discontinuité entre sexe et genre permet de les inscrire l’un et l’autre dans la
réalité. Le corps n’est pas une fiction, il n’est pas non plus que sexe, il n’est pas
plus une matière informe sur laquelle la sexualité viendrait s’inscrire, mais il naît
dans une configuration sexuée qui se situe par delà les normes du genre. Et c’est
bien pourquoi notre corps sexué peut être soumis à une norme qui naturalise les
genres (l’hétérosexualité) ou être engagé dans un effort performatif qui consiste
à devenir autre que son sexe, c’est-à-dire à s’affirmer comme individu genré, ou

10
J. Butler, Trouble dans le genre, trad. fr. C. Kraus, La découverte, Paris 2005, p. 225.

89
Shift. International Journal of Philosophical Studies

coproducteur d’un genre subversif, quitte à ce que celui-ci ne se laisse pas identi-
fier par les catégories ou les normes dominantes et s’avère «incroyable».
Il fallait dégager cette existence de la nature par-delà les normes pour mon-
trer aussi que normes et subjectivation ne peuvent absorber tous les sens de la
technique.

3. Sujet et nécessité technique – les lois de la production

La relation entre le sujet (ou les sujets) et les normes est technique. Les normes
assujettissantes sont autant de technologies du pouvoir produites par les rela-
tions entre sujets et constitutives des sociétés, si bien qu’elles se diffusent en
elles d’une manière immanente, investissent les corps, gèrent les populations.
Réciproquement, les conduites que les sujets adoptent vis-à-vis des normes, leurs
pratiques d’emblée insérées dans ce champ multiple des relations de pouvoir,
sont autant de techniques de subjectivation. Les relations de soi à soi ou de sujets
à sujets se déterminent donc à la fois comme normes et comme techniques, il n’y
a pas de technique qui ne soit normative, rien ne demeure d’une technique qui
serait confrontation à cet autre radical de la subjectivité qu’est la nature. Comme
le dit Judith Revel, Foucault a entièrement repensé la technique: «la référence à
la tekhnè est pour Foucault à mille lieues d’être envisagée sous l’angle exclusif du
travail entendu comme transformation de la nature par l’homme. Mieux: elle ne
l’est pas du tout – parce que la référence à la nature demeure pour le philosophe,
dès les premières années de son travail, l’un des avatars du vieux discours de la
métaphysique, en ce que ce dernier prétend dire l’origine, la nature et la natura-
lité des choses».11
Transformer la nature, ce serait se référer à elle en restant pris dans les filets
d’un discours historiquement dépassé. Ce serait parler au lieu de travailler, le
vrai travail ne s’exerçant alors pas sur la nature, mais sur soi, dans sa relation aux
normes. Il devient alors très difficile de distinguer ce «vrai» travail de la skholè
grecque ou de l’otium latin, détournant ses regards des efforts trop naturels de
l’homme travaillant pour se séparer de la nature, au profit de cette dénaturalisa-
tion radicale que permet la pensée – c’est-à-dire, encore, la métaphysique. Fou-
cault n’y parvient, dans l’Herméneutique du sujet, qu’en distinguant la voie méta-
physique de celle du souci de soi, impliquant un effort constant d’élaboration
de soi-même. Mais de cette manière, ce n’est pas seulement la pensée stoïcienne
de la nécessité naturelle qu’il met entre parenthèses; c’est la non-pensée antique
des conditions matérielles de la skholè, à savoir le travail des esclaves, confrontés
à la place de leurs maîtres à la nécessité naturelle. Alors le stoïcisme peut bien
se déployer d’une manière immanente en une suite cohérence de techniques de
soi, cette relation de soi à soi impliquant inévitablement un autre, le maître, si

11
J. Revel, “Michel Foucault: repenser la technique”, in Tracés, 16/2009, ENS éditions, Lyon,
version internet non paginée, https://traces.revues.org/2583.

90
Le sujet par-delà les normes

bien que les techniques se déploient dans la relation de maître à disciple – quitte
à masquer la relation de maître à esclave. Qu’il y ait un esclavage, cette réalité
historique et non naturelle, c’est-à-dire qu’il y ait un assujettissement organisé
contre la subjectivation, l’établissement d’une relation de sujet à non-sujet, fondé
sur le droit du plus fort et non sur la norme, voilà ce qui hante l’histoire de la
folie tout en entrant difficilement en compte dans l’histoire vue par Foucault,
si bien que Surveiller et punir contourne aussi la question de l’abolition et de la
rémanence de l’esclavage moderne.
La modernité est bien, selon les Mots et les choses, ce moment où l’on découvre
que la nature ne produit pas toute seule des richesses, mais qu’il a toujours fallu
du travail pour créer de la valeur. Mais la pensée foucaldienne s’installe si bien
dans l’épistémé de chaque époque que le travail n’a vraiment de valeur qu’au
cours de la période où elle est découverte et théorisée par Ricardo et Marx. Cette
découverte a pour fondement la raréfaction des ressources naturelles, indisso-
ciable de la première révolution industrielle; seulement, pour Foucault, il n’y
a pas de raréfaction, il n’y a aucune histoire des effets du travail sur la nature,
des transformations techniques de l’environnement par l’homme; mais seule-
ment la présupposition métaphysique, historiquement dépassée, d’une rareté de
la nature indispensable à la justification de la valeur du travail. Il suffit alors de
prendre conscience de l’absence de nature pour que les problèmes que pose sa
rareté et son avarice disparaissent, que la finitude de «l’homme naturel» soit
remplacée par la conscience de la finitude, et pour que le travail prenne sa vraie
valeur comme élaboration de soi par soi.
Il est alors normal que dans ce texte si commenté, Qu’est-ce que les Lumières,
Foucault, revenant à Kant, définisse la modernité comme une tâche, celle de
la sortie de la minorité, sans pour autant s’attarder sur le fait que cette tâche
était dérivée par Kant d’un devoir moral consistant à ne pas se laisser asservir
par la nécessité naturelle. Horkheimer et Adorno sont allés jusqu’à affirmer que
finalement la libération morale n’était jamais qu’une version optimiste du projet
matériel des lumières, la maîtrise technique de la nature. Foucault prend la voie
radicalement inverse. Certes il fait de la «maîtrise des choses» le premier axe
de «l’ontologie historique de nous-mêmes».12 Mais ensuite, s’appuyant sur ce
que «l’on sait bien», il masque rapidement ce premier axe: «on sait bien que
la maîtrise sur les choses passe par le rapport aux autres; et celui-ci implique
toujours des relations à soi; et inversement. Mais il s’agit de trois axes dont il
faut analyser la spécificité et l’intrication: l’axe du savoir, l’axe du pouvoir, l’axe
de l’éthique». La maîtrise des choses passe sans réciprocité possible dans l’intri-
cation réciproque du rapport aux autres et des relations à soi; elle devient «axe
du savoir», bien différent de celui du pouvoir, comme si aucune puissance tech-
nique ne s’exerçait dans la maîtrise des choses, quitte à se retourner ensuite sur
les hommes; et par conséquent la question qui doit servir de fil conducteur pour

12
M. Foucault, Dits et écrits, II, Gallimard, Paris 2001, p. 1395.

91
Shift. International Journal of Philosophical Studies

l’étude de ce premier axe, dont nous rappelons qu’il était celui de la maîtrise des
choses est la suivante : «comment nous sommes-nous constitués comme sujets de
notre savoir». La conclusion va alors de soi: «être moderne, ce n’est pas s’accep-
ter soi-même tel qu’on est dans le flux des moments qui passent; c’est se prendre
soi-même comme objet d’une élaboration complexe et dure».13

La puissance de dénaturalisation du travail est ainsi entièrement réinvestie par


un sujet qui ne rencontre plus la nature; et dès lors, c’est la puissance de désub-
jectivation de la technique qui n’est plus visible dans son approche normative.
Car la technique n’est pas simplement parvenue à une maîtrise sur les choses
insérée dans leur nécessité; elle est, progressivement, devenue une nécessité aussi
extérieure à l’homme que la nature elle-même; elle est devenue force anonyme,
impossible à maîtriser, s’appliquant sur les hommes en niant leur statut de sujet.
Et l’on ne peut différencier cette force technique des lois économiques de la
production, qui, comme le disait Hegel sont aussi dures que les lois naturelles.
Bien sûr, de telles affirmations sont dans un contexte foucaldien autant de
banalités métaphysiques. Mais au cœur de cette banalité, se trouve les différences
internes de la loi (loi de la nature, loi de la technique, loi de la production) qui
rendent la nécessité irréductible aux normes. La production nucléaire d’électri-
cité donne un bon exemple d’une technique où la maîtrise toute relative d’un
processus physique (fission et fusion) tel qu’il a lieu au cœur du réacteur est sans
cesse renormé, mais dans la mesure même où l’efficacité des normes (épaisseur
des cuves, circuit de refroidissement, tenues isolantes du personnel, protocoles
de sécurité etc.) échoue régulièrement (à chaque «accident») devant les lois de
la physique nucléaire. Et si l’on continue à faire fonctionner des centrales qui
selon toutes les normes de sécurité devraient être arrêtées depuis longtemps,
c’est en raison d’une nécessité économique dont on ne peut sortir qu’économi-
quement; c’est-à-dire non par de simples décisions, mais par un processus quasi-
anonyme qui fait que des techniques alternatives plus rentables se généralisent.
De même, la «prise immédiate» sur les corps que Foucault attribue aux normes
des casernes, des écoles, des hôpitaux, est toujours doublée ou médiatisée par
des contraintes non normatives (les nécessités techniques de la guerre, l’immo-
bilisation qu’impliquent l’écriture et la lecture, le processus des maladies), tout
en étant contredite par la pauvreté économique des institutions non rentables:
prisons, écoles, hôpitaux, fonctionnent toujours bien en-deçà et au détriment de
leurs normes.
En fin de compte il semble que nous ne fassions que déplacer ce que Foucault
entend par vérité. Car pour lui la vérité est produite par le sujet se constituant
lui-même dans sa relation aux normes, si bien que toutes les techniques de soi
sont aussi des modes de relations au vrai. L’assujettissement consiste à prendre
la norme pour la vérité, la subjectivation à vérifier l’écart entre soi et les normes.

13
Ivi, p. 1389.

92
Le sujet par-delà les normes

C’est de cette manière que Foucault s’inspire et se sépare de Heidegger. Celui-ci


a affirmé de la manière la plus radicale que la technique n’était pas qu’une pra-
tique externe dégagée de la théorie, mais qu’elle était un mode de dévoilement
de l’être, et donc d’accès à la vérité comme dévoilement. Mais il reste que pour
Foucault l’être n’a de sens que comme être du sujet, et c’est bien pourquoi il n’y
a pas d’autre vérité que celle produite par les techniques de soi. D’où la fin spec-
taculaire de l’Herméneutique du sujet, où comme le dit Frédéric Gros14, Foucault
retourne la question heideggérienne de la technique. Le défi de la philosophie
occidentale, explique Foucault, a été semble-t-il de penser le monde comme
objet de savoir corrélatif d’une technè. Mais la question doit se reformuler ainsi:
«comment le monde peut être à la fois objet de connaissance et lieu d’épreuve du
sujet?» Et donc: «comment le monde peut-il être le lieu où s’éprouve la vérité du
sujet que nous sommes?».15 Réponse: il ne peut être ce lieu que comme monde des
normes. Seulement, dans cette opération de retournement, ce qui disparaît, c’est
l’aspect démesuré du monde, ou pour parler autrement, son é-normité. Cette
disparition, Heidegger la nommait le danger de la technique, en tant qu’elle in-
terpelle la nature, la convoque, la torture, et finit par inclure l’homme lui-même
dans cette convocation. Il fallait donc selon lui que celle-ci soit compensée par
une authentique écoute de l’être. Il nous semble cependant qu’il n’y a pas d’être
en dehors de l’intrication de la nécessité naturelle, des nécessités économiques et
techniques et des normes, autrement dit qu’il n’y a pas à opposer radicalement
Heidegger et Foucault, mais plutôt à reconnaître qu’il y a des normes et autre
chose que des normes, donc aussi autre chose que des sujets. Et une fois la norme
confrontée à des nécessités autres, se repose bien sûr la question de la différence
entre les lois politiques et les lois nécessaires, entre ce qui est et ce qui devrait
être, donc aussi la question de la différence entre les normes et la légalité.

4. Immanence des normes et différence du droit, subjectivation et souveraineté

«Mixte de légalité et de nature», la norme chez Foucault tend à investir


jusqu’à l’absorber tout ce qui serait nature ou monde. Le problème n’est pas
alors seulement qu’elle met entre parenthèses la nécessité naturelle, ou encore
l’aspect nécessaire que prend la technique et la production économique, mais
aussi qu’elle entre directement en conflit avec la loi juridique, quitte à ne plus
savoir quel statut lui reconnaître. Autrement dit, «mixte de prescription et de
constitution», la norme devient ce vis-à-vis de quoi un sujet se constitue d’une
manière immanente, mais dès lors, elle perd son statut prescriptif, ou tout sim-
plement normatif: celui que ne peut lui donner que le droit, qui affirme sa dif-
férence irréductible vis-à-vis des pratiques, des techniques ou des attitudes qu’il
légifère. Nous rejoignons les formules de Corneliu Bîlba: «Foucault donne à la

14
Cfr. F. Gros, in M. Foucault, L’Herméneutique du sujet, Gallimard, Paris 2001, p. 505.
15
M. Foucault, L’Herméneutique du sujet, Gallimard, Paris 2001, p. 467.

93
Shift. International Journal of Philosophical Studies

norme une valeur constitutive, se retrouvant par la suite avec un concept de droit
duquel il ne sait pas quoi faire». Ou encore: «Chez Foucault, le droit n’est pas
constitutif, mais normatif; et la norme n’est pas normative, mais constitutive».16
Ici encore, on peut se demander si le paradoxe n’est pas désamorcé en prônant
une histoire naturelle des normes inspirée de Spinoza. Car le moins que l’on
puisse dire, c’est que Spinoza sait quoi faire du droit: non pas un empire dans un
empire, mais une modulation à la fois immanente et humaine d’une communauté
entre les êtres qui s’étend à toute la nature. Mais cela suppose justement, qu’il
est une nature; et donc aussi chez Spinoza un état de nature, dont les hommes
sortent à la fois nécessairement et rationnellement par contrat afin d’élaborer un
état civil et des lois politiques. L’identification de la loi spinoziste et de la norme
foucaldienne s’effondre dans la mesure où c’est cette différence entre un état de
nature et un état civil, donc la théorie du contrat social, que Foucault doit expli-
citement écarter pour rendre possible une généalogie des normes.
Dans les considérations de méthode qui commence le cours au Collège de
France «Il faut défendre la société», Foucault renvoie ainsi dos à dos contrac-
tualisme et marxisme. L’un et l’autre seraient les deux variantes d’un même
«économisme».17 L’un fait du pouvoir une marchandise échangeable par contrat,
l’autre fait reposer la société sur les lois nécessaires de l’économie, et considère
par suite le contrat social comme le fantôme d’une économie inversée et fausse,
donc idéologique. Mais comme cette dernière critique est invalidée par l’ap-
proche «non-économique» de Foucault, il faut que le refus de la «vieille» théorie
du contrat social se fonde sur autre chose. La seule possibilité est alors de faire
un pas en arrière, et de dire que «depuis le Moyen-Âge, l’élaboration de la pensée
juridique s’est faite essentielle autour du pouvoir royal… Le droit en Occident
est un droit de commande royal».18 Dès lors, la théorie du contrat social n’est
plus qu’une modulation moderne d’un problème plus général, celui des pré-
rogatives et des limites du droit royal, donc le problème de la souveraineté. Le
dernier pas, réalisé une semaine plus tard, consiste à considérer que «le discours
du droit tout entier depuis le Moyen-Âge» doit être radicalement inversé; ainsi
on pourra montrer «comment, jusqu’où et sous quelle forme le droit (et quand
je dis le droit, je ne pense pas simplement à la loi, mais à l’ensemble des appa-
reils, institutions, règlements qui appliquent le droit) véhicule et met en œuvre
des rapports qui ne sont pas des rapports de souveraineté mais des rapports de
domination».19 Ces derniers sont les multiples réseaux de relations qui diffusent
le pouvoir à l’intérieur de la société, qui la constituent et qui la norment.
Qu’est devenue la relation des normes au droit dans ce raisonnement? D’un
côté, la généalogie du pouvoir diffusé dans les normes sociales doit rendre

16
C. Bîlba, Entre la loi et la norme. Sur les difficulté d’une théorie généalogique du pouvoir, http://
hermeneia.ro/wp-content/uploads/2011/02/balba-nr.-6_0.pdf, p. 152 et p. 153.
17
M. Foucault, «Il faut défendre la société», Seuil-Gallimard, Paris 1997, p. 14.
18
Ivi, p. 23.
19
Ivi, p. 24.

94
Le sujet par-delà les normes

compte du fait qu’il y ait un droit. Telle est l’idée de l’inversion du discours: au
lieu de partir du haut (la souveraineté, le roi, la loi, l’Etat, le droit tout entier) en
pensant arriver jusqu’en bas (la société), on partira du bas, de l’immanence des
rapports sociaux, et on remontera jusqu’à la généalogie du pouvoir souverain.
Mais il n’y a de cohérence et d’immanence généalogique que si le droit «véhicule
et met en œuvre des rapports qui ne sont pas des rapports de souveraineté». En
d’autres termes, «le pouvoir transite par les individus, il ne s’applique pas à eux».
La démarche allant de haut en bas en vient donc à la conclusion qu’il n’y a pas de
haut, que la souveraineté n’est rien, que «le discours du droit tout entier depuis
le Moyen-Âge» est une vaste illusion. Tout le discours politique «du droit» est
discours sur le droit est discours sur rien, constituant à lui tout seul une vaste
épistémè détachée de la réalité. Mais l’immanence des stratégies de discours et
des normes ne peut rendre compte de la production d’un tel système illusoire
planant au-dessus d’elle-même. L’histoire vient à son secours: alors il s’avère que
la souveraineté était un pouvoir réel, mais que celui-ci a été gagné par des normes
immanentes, si bien qu’il ne reste du droit souverain qu’une idéologie masquant
la production de ces normes.
Dans tout ce raisonnement, c’est bien la possibilité même de saisir la normati-
vité des normes qui disparaît. Nous ne prétendons en rien innover en constatant
que le problème s’étend ensuite sur l’ensemble du cours de Foucault, la souve-
raineté suivant de loin comme un pâle fantôme féminin aux contours indécis une
généalogie du pouvoir qui se retourne régulièrement sur elle sans parvenir à la
faire disparaître, mais élabore sans elle cette «nouvelle mécanique du pouvoir»
qu’est la gouvernementalité: celle-ci condense sans les totaliser ou les unifier les
normes qui permettent d’organiser et de faire tenir la société, ou autrement dit
d’ordonner et de maintenir la population, et c’est maintenant elle qui a une prise
immédiate sur les corps, c’est vis-à-vis de ses propres formes d’assujettissement
que doivent se comprendre toutes les formes de subjectivation.
Souveraineté et gouvernementalité s’opposent dans des formules célèbres,
présentes dans La Volonté de savoir comme dans «Il faut défendre la société».
«Au vieux droit de faire mourir et de laisser vivre s’est substitué un pouvoir
de faire vivre ou de rejeter dans la mort».20 La gouvernementalité est donc une
étatisation du biologique, une biopolitique, elle soutient et maintient la vie de
la population, quitte à éradiquer une part de la population jugée radicalement
autre. Dans cette substitution du pouvoir au droit, il devient clair que le pouvoir
n’est pas d’une manière immanente producteur de droit. Pouvoir et droit ne
peuvent alors s’opposer que si le droit de faire mourir, présenté d’abord comme
«un des privilèges caractéristiques du pouvoir souverain», devient sa seule carac-
téristique, au détriment d’un autre privilège, celui de légiférer. Or la législation
prétend bien elle aussi ordonner la société et fait plus que laisser vivre (accorder
une grâce) puisqu’elle interdit de tuer. C’est bien ce qui la fonde dans la théorie

20
Id., Histoire de la sexualité I, La Volonté de savoir, Gallimard, Paris 1976/ 2002, p. 181.

95
Shift. International Journal of Philosophical Studies

du contrat social. Mais pour Foucault c’est là «une discussion de philosophie


politique qu’on peut laisser de côté»,21 comme une modalité de ce grand discours
illusoire et impuissant qu’est le «discours sur le droit». Si on se situe «non pas au
niveau de la théorie politique mais, bien plutôt, au niveau des mécanismes, des
techniques et des technologies de pouvoir», la force et l’interdit de la loi s’éva-
porent; disparaissent avec elle la théorie du contrat et le meurtre tel que le définit
le code pénal, et il faut admettre que si les individus ne s’entretuent pas c’est en
raison de la prise immédiate sur leur corps que les technologies du pouvoir auto-
risent: «Ils se regardent au lieu de s’entretuer».22
Il n’est donc pas étonnant que la plus célèbre continuation de ce cours, celle
que l’on trouve chez Agamben, consiste à réattribuer l’ensemble de la biopo-
litique et donc de la gouvernementalité à la souveraineté. Il est aussi fort pro-
bable que le dernier séminaire de Derrida, La Bête et le souverain, qui à notre
connaissance, ne cite pas une fois Foucault et ne parle jamais de normes, soit une
très vaste réponse au cours «Il faut défendre la société»: il aborde en effet très
clairement la politique par le haut tout en montrant qu’il est aussi le bas, puisque
le fondement de la loi est l’animalité. N’insistons pas: nous voulions seulement
montrer qu’il ne peut y avoir de normes sans un pas au-delà, quitte à garder
comme Derrida les deux sens du mot «pas», le mouvement de transcendance
s’interrompant avec de poser quoi que ce soi pour ouvrir sur le fondement sans
fond de la légalité et du pouvoir. L’au-delà est ainsi toujours moins celui d’un
être que celui d’une différence: rien n’est au-dessus du monarque (ou de tout
chef d’Etat), sauf la loi, qu’en même temps il outrepasse; rien n’est au-dessus de
la loi, sauf la loi sans loi qui rend la loi légitime. Le «vieux discours» sur la sou-
veraineté se renouvelle sans cesse en reportant les différences mêlées entre sujet
souverain et loi, légalité et légitimité. Ainsi le fantôme de la souveraineté est iné-
vitablement un revenant, même s’il ne revient jamais entièrement vivant, même
si la souveraineté n’est RIEN comme le disait Bataille: ce rien en majuscule qui
dépasse la norme. Ou encore: la souveraineté n’est que la différence qui creuse
l’immanence, ou l’autre comme autre de la norme.

5. L’autre et la question: «qui es-tu?»

C’est tout le problème finalement: la norme ne peut investir jusqu’à l’épuiser


la relation à l’autre. La constitution immanente du sujet dans un double pro-
cessus de subjectivation et d’assujettissement fait du sujet l’effet des normes en
critiquant radicalement sa prétendue souveraineté, elle remplace le présupposé
de son autonomie par l’exigence de son émancipation, elle va très loin dans la
description des dispositifs de discours et de pouvoirs qui maintiennent les sujets

21
Id., «Il faut défendre la société», cit., p. 215.
22
Selon la belle formule de C. Bîlba en référence au dispositif panoptique, op. cit., p. 151.

96
Le sujet par-delà les normes

dans des réseaux de relations complexes, mais n’a plus de prise immédiate sur
l’altérité.
Le grand moment de la pensée de l’autre, chez Foucault, c’est l’histoire de la
folie. Alors en effet le fou s’avérait irréductible à tous les dispositifs de savoir et
de pouvoir, ils ne pouvaient être enfermés en eux qu’à condition d’en être aussi
radicalement exclu, il n’était jamais saisi comme fou; c’est-à-dire aussi comme un
sujet qui n’a pas de prise sur lui-même. En revanche Les Mots et les choses, qui
ont pour fil directeur une pensée du même faisant suite à la pensée de l’autre,
marquent plutôt l’investissement réussi de l’altérité par l’épistémè moderne.
L’épistémè classique, qui prétend dire un monde transparent dans le discours
adéquat de la représentation, énonce encore l’irréductibilité du sujet souverain
(c’est l’analyse des Ménines) tout comme elle rend limpide son exclusion de la lit-
térature (Don Quichotte). L’épistémè moderne tend pour sa part à résorber com-
plètement l’altérité dans l’homme, à la fois sujet et objet des sciences humaines.
Ce qu’elles ne saisissent alors plus, avons-nous dit, c’est l’être de l’homme, non
l’autre de l’homme. Tout en annonçant à la fin de l’ouvrage que l’homme ne peut
que devenir autre, d’une manière discontinue et donc imprévisible, Foucault est
voué à laisser plutôt cet horizon s’effacer: du visage de l’homme tracé sur le sable
et effacé par les vagues, retenons ce regard Foucaldien qui regarde le sable sur la
plage et non l’étendue infinie de la mer. Cependant, quelque chose résiste encore
à ce mouvement, et qui se nomme littérature. Celle-ci reste le bord extérieur de
l’épistémè: «le sujet de la littérature (ce qui parle en elle et ce dont elle parle)
ce ne serait pas tellement le langage en sa positivité que le vide où elle trouve
son espace».23 Ce dehors, ce vide, cette marge, sont définitivement oubliés ou
remplis par la suite, quand l’homme redevient sujet dans sa relation aux normes,
sujet saisissable dans sa relation de soi à soi, son souci de soi, son travail sur soi,
dans une éthopoiétique qui rend possible toute subjectivation, y compris une
«subjectivation littéraire» qui a absorbé la poésie, l’a tirée de son dehors (Bau-
delaire n’est pas Nietzsche, ni Artaud, ni Bataille) et qui plus jamais entièrement
travaillé par le souci de l’autre. C’est ainsi que tout ce que Foucault avait pu dire
sur le désœuvrement laisse place à l’idée que chacun peut encore faire de sa vie
une œuvre, dans une lignée schellingienne qui tend justement à faire de l’œuvre
l’unité absolue du sujet et de l’objet, du génie et de la nature, de l’individualité
et de la communauté.24 Dans «Il faut défendre la société» Foucault peut déjà
reprocher à la souveraineté d’être une simple boucle de sujet à sujet; il ne peut
masquer pour autant qu’elle est une figure de l’autre, d’autant plus prégnante
que lui-même ne cesse de reproduire cette boucle de soi à soi, la retrouvant dans
le stoïcisme pour en faire la tâche des Lumières et de la modernité.
Le problème n’est-il pas le même quand on parle de légalité plutôt que de
norme? Le sujet kantien affirme au-delà de la nature et en incompatibilité avec

M. Foucault, « La pensée du dehors », in Dits et écrits, I, Gallimard, Paris 1994-2001, p. 548.


23

Sur ces points, cf. J. Lèbre, « Ethos et poésie chez Michel Foucault », in L’école des philosophes,
24

Université de Lille, Lille, 2008.

97
Shift. International Journal of Philosophical Studies

sa nécessité une loi qui exige l’universel, devenant exigence d’une pure forme
qui n’admet aucune altérité (ni celle de l’action ni celle des lois dira Hegel, et
au risque d’une politique morale autoritaire, celle de Fichte). Cependant la dif-
férence kantienne entre le moi empirique plongé dans l’expérience de la nature
et l’être du moi (le «caractère moral») rétablit l’autre au cœur de la pensée du
sujet. Elle est alors reportée dans la relation à l’autre sous la forme du respect
(pour l’être moral de l’autre), et surtout portée à l’horizon comme le but infini
de toutes les actions morales individuelles et collectives (le progrès moral et la
visée d’un monde accordant les esprits). Ainsi le moi, l’autre, et la communauté
engagent le même effort pour faire régner la loi morale contre la nécessité natu-
relle, effort dont la version pessimiste se trouve dans la théorie kantienne du mal
radical (chaque homme choisit toujours la nature contre la liberté) et sa version
optimiste dans la pensée de l’histoire, dont tout le sens se trouve dans sa ten-
sion vers une législation juridique universelle. L’anthropologie oscille alors d’une
manière inquiète entre le pessimisme affirmant l’irréductibilité de l’égoïsme et la
possibilité pour l’homme de devenir citoyen du monde. C’est la polarité entre
légalité et nature qui permet tout ce déploiement de la pensée de l’autre, que l’on
retrouve dans la norme comme mixte de légalité et de nature, mais que l’on perd
une fois que cette tension est recouverte par le champ immanent des normes.
Ce n’est donc pas que la question de l’altérité échappe à Foucault, mais c’est
plutôt que sur cette question Foucault est voué à être sans cesse «le critique
de lui-même»,25 comme le dit Judith Butler et précisément dans ce contexte.
On connaît par exemple l’analyse foucaldienne de la confession, comme dispo-
sitif d’assujettissement visant à extorquer au sujet sa vérité sur soi; celle-ci est
compensée par un processus de subjectivation dans la mesure où celui qui se
confesse garde inévitablement sa vérité sur soi, en fait un secret que la confession
traque en confirmant et renforçant son irréductibilité. Mais Foucault, remarque
J. Butler, interprète aussi la confession autrement: comme une forme directe de
subjectivation, le sujet interpellé par l’autre s’exposant à l’autre en se verbalisant
lui-même. Dès lors, quand Foucault affirme que sa question n’est pas du tout
celle de la généalogie du pouvoir mais du «rapport entre dire vrai et formes de
réflexivité, réflexion de soi sur soi», demeure une question sous-jacente, à la fois
contournée et approchée, celle de la constitution du soi par l’autre. D’où la pers-
pective nuancée et très forte de J. Butler: d’un côté «la configuration dyadique du
soi et de l’autre ne permet pas de décrire correctement les mécanismes sociaux
de la normativité qui conditionnent tant la production du sujet que l’échange
intersubjectifs»,26 d’un autre côté «certaines discontinuités dans la pratique de
la reconnaissance marquent un lieu de rupture dans l’horizon de la normati-
vité et appellent implicitement à l’institution de nouvelles normes». La question
«qui es-tu?», celle que Foucault ne pose jamais, est alors le point de rupture par

25
J. Butler, Le Récit de soi, trad. fr., P.U.F., Paris 2007, p. 113.
26
Ivi, p. 23.

98
Le sujet par-delà les normes

excellence de toute subjectivation qui répond à la question «qui suis-je?» ou «qui


sommes-nous?»
L’enjeu ici n’est rien moins que l’intraductibilité entre l’éthique et la philoso-
phie sociale, voire la sociologie. Et la démarche de J. Butler consiste à montrer
que si la relation à l’autre est d’emblée normée, elle est tout autant rompue par
l’exposition de soi à l’autre et par l’adresse de l’autre à soi. Il ne s’agit pas ici de
rétablir une relation dyadique rebelle à toute norme, mais seulement d’indiquer
que par-delà toute norme existante, demeure la singularité de l’autre impliquant
celle de soi. La pensée des normes n’est alors plus celle de l’appartenance à un
tout qui me dépasse (Macherey) mais bien celle de la «dépossession» de soi au
cœur de la possibilité de rendre compte de soi: «la valence éthique de la situation
ne se restreint donc pas à la question de savoir si oui ou non je rends compte
de moi-même de manière adéquate mais de savoir si, en le faisant, j’établis une
relation avec celui à qui je m’adresse».27 La vie commence par une exposition
à autrui qui fait que le moi ne se constitue que déjà submergé, selon la psy-
chanalyse de Laplanche, qui sait très bien que cela remet en cause l’aspect pri-
maire des pulsions (puissances normatives et «investissantes» par excellence);
la conscience de soi est toujours seconde, elle n’est telle que par la primauté
d’autrui, selon l’éthique de Levinas. C’est ainsi que pour ce dernier, la première
loi, répondant au réquisit de la loi qui est de venir du dehors et de s’imposer, est
celle qu’exprime le visage d’autrui: «tu ne tueras point». Il faut passer par cette
primauté de l’autre qui devient, chez Butler, son irréductibilité, pour rendre pos-
sible un récit de soi qui est à la fois relation aux normes et rupture avec la norme.
Nous avons dit plus qu’en définissant le sujet souverain par son «droit de tuer»
ou de «laisser vivre», puis la gouvernementalité biopolitique comme «pouvoir
de faire vivre», Foucault ne pouvait rendre compte de la loi politique fondée sur
l’interdit de tuer. Levinas a montré que la raison d’Etat était toujours là pour trans-
former cet interdit, non seulement en autorisation, mais en devoir souverain du
meurtre (en particulier, et comme chez Foucault, dans la guerre). Mais c’était alors
pour reporter l’introduction de tuer dans la relation éthique de l’autre à soi, et
donc pour différencier commandement éthique et loi politique. L’irréductibilité
de l’autre vis-à-vis des normes est donc aussi celle de la loi comme interdiction du
meurtre. Cela Levinas l’affirme dans un dialogue sous-jacent avec Nietzsche, donc
avec une généalogie immanente du sujet qui devait le porter par-delà le bien et le
mal, mais qui tout en étant une pensée de la hauteur, n’atteint pas cet «au-dessus de
moi» qu’est l’autre, exprimant sa loi au-dessus de tout. La politique résistante fou-
caldienne, indispensable dans sa manière de décrire avec toute la force de l’imma-
nence des normes les pires meurtres issues de la biopolitique, manque comme la
généalogie nietzschéenne cette dimension de l’autre; il en découle qu’elle ne peut
énoncer ce qui rend condamnables les normes biopolitiques.28

27
Ivi, p. 51, cfr. p. 6 sur la dépossession.
28
Cfr. Nancy Fraser, «Foucault and Modern Power: Empirical Insights and Normative Confusions»,
cité par C. Bîlba, op. cit., p. 150.

99
Shift. International Journal of Philosophical Studies

Si nous sommes des sujets non assujettis, ce n’est pas seulement dans cet écart
vis-à-vis de la norme qui se nomme subjectivation. Mais dans l’exposition de tous
les sujets à ce qui se trouve par-delà les normes, ou finalement, à ce qui se nomme
événement.

100
Figurazioni/Figurations
Il soggetto prismatico: tra assenza e orma, materia e corpo
Franco Cipriano

Shift. International Journal of Philosophical Studies 1/2017


Shift. International Journal of Philosophical Studies

Icona di materia ermetica,


attraverso ibrido stratificarsi
compone un cifrario dell’invisibile,
tracce dell’impossibile, corpo dell’assenza…
nell’apparizione della immagine s-definita…senza nome.

Le opere sono orme di mondi immaginali,


sull’orlo estremo della memoria,
riflessi corporei dell’anima,
crocevia dell’impossibile, circoli di analogie,
“canti” dell’assenza, scritture originarie…

I segni sono nella deriva del tempo,


le forme dell’informe sospese nell’oblìo -
immagini del vuoto ri-velante
dove ogni cosa appare
in controverso spazio, profondità e superficie
l’una nell’altra, la stessa materia.

Immemoriale del volto deposto,


tra maschera e cenere, ombra e corpo…
nella tragica ironia della figura indefinibile…

L’immagine si rivolge al suo interno, scavando


in esso non un “doppio” ma un passaggio…

Orme impresse da un gesto riflesso


che risale dalla memoria senza luogo,
le tracce in cui si svolgono le “opere sacre dell’addio”
sono eventi di radice immemoriale,

In questa occidentale “fine infinita”


il tremito dell’arte tenta “dire”
nella memoria sacra dell’irrangiungibile,
nella disperata opera per un signum
che per un istante
lasci passare il tremendo non-spazio
per cui anche nell’arte le cose appaiono

Materia che si forma


sull’estremità della memoria,
nello spazio intemporale dell’ascolto:

Materia trascendentale,
nel signum del circulus,
Canto in-finito (polveris?)
104
Il soggetto prismatico: tra assenza e orma, materia e corpo

del gesto che nello spazio


inscrive nascendo?

Materia archi-tectonica,
spazi della natura dimenticata delle
cose?

Prima d’ogni immaginazione,


nella radice inversa dello sguardo,
quando la visione guarda al proprio
fondo:
materia del sogno immemoriale del senso?

Quale tempo si potrà invocare


Per queste orme,
se ogni gesto
dà luogo all’ultimo canto,
abyssum della imago?

E le orme umane della pictura,


tracce dell’absentia picta,
dell’assenza che si presenta,
dove sono sprofondate
se la materia ne respira
ancora la luce?

Materia che riflette se stessa, nella sua infondatezza,


come orma eccedente delle cose

Prossima al silenzio nella estrema imago del corpus mundi.

105
Shift. International Journal of Philosophical Studies

Franco Cipriano, Elegia dell’assenza, 2003, inchiostro su carta, cm. 70x50

106
Il soggetto prismatico: tra assenza e orma, materia e corpo

Franco Cipriano, In-Corpus, 2003, inchiostro su carta, cm. 35x25

107
Studi e Ricerche/Studies and Researches
Segretezza e astrattezza: note sulla costituzione politica del
soggetto moderno
Gian Paolo Faella

Abstract

The paper explores, from a point of view of political philosophy, the features of
a kind of action having certain political effects and at the same time not assigned
to single individuals and therefore collective. It develops an analysis of the pas-
sage from ancient-medieval to modern world through the categories of secrecy
and abstraction and, in so doing, it provides insights into the distinction between
left and right in their way to deal with the problems of modernity and to address
the role of subjects and capitalism.

Keywords: modernity, secrecy, abstraction, state, party

1. L’azione non imputabile. Il problema

La definizione di una soggettività in età moderna ha a che vedere con la propo-


sizione di un’azione collettiva. L’autore dell’azione collettiva resta per principio
non imputabile, non individuabile. In tale condizione di de-responsabilizzazione
giace paradossalmente la forza dell’atto politico.
Accade, allora, che proprio quell’azione pubblica che non risulti assegnabile
ad un individuo specifico si trovi al centro teorico dell’attività politica. In quanto
tale, si tratta comunque di un’azione che resta in qualche suo aspetto segreta,1

1
Sul tema del segreto in politica, si veda anche N. Bobbio, Democrazia e segreto, Einaudi, Torino 2011,
particolarmente alle pp. 21-46. Bobbio, distinguendo regimi democratici e autocratici, autorizza
una visione del problema che non rinuncia a un certo tratto di idealizzazione o di “moralismo
politico” o, come anche lo si potrebbe definire, di kantismo politico, soprattutto in merito alla
caratterizzazione del rapporto controverso tra democrazia e segreto. Peraltro qui non interessa
tanto il segreto di per sé, ma la sua relazione con l’astrattezza delle forme politiche moderne. Cfr.
I. Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, Vandenhoeck & Ruprecht, Gottingen 2004; tr. it.
di P. Chiodi, Fondazione della metafisica dei costumi, Laterza, Roma-Bari 1990 e cfr. B. Williams, In
the Beginning Was the Deed: Realism and Moralism in Political Argument, a cura di G. Hawthorn,
Princeton University Press, Princeton 2005; tr. it. di C. Del Bò, In principio era l’azione: Realismo
e moralismo nella teoria politica Feltrinelli, Milano 2007, pp. 3-22.

Shift. International Journal of Philosophical Studies 1/2017


Shift. International Journal of Philosophical Studies

anche soltanto a causa del fatto che non è possibile ricostruirne fino in fondo la
causa. Il soggetto, si potrebbe dire, sta infatti in questo: risulta impossibile distin-
guere, da un lato, la chiamata da parte di un capo rispetto alle masse; dall’altro,
l’agire di quelle masse stesse in quanto spontaneamente dirette in una determi-
nata direzione – se una soggettività si è realmente costituita. Una caratteristica
specificamente moderna di una soggettività che si estrinsechi in un’attività di tal
fatta è nella circostanza che la partecipazione di un individuo a quell’azione col-
lettiva non è preordinata, non è dovuta a un ruolo sociale nominale che quell’in-
dividuo incarnava già prima che quell’azione fosse posta in essere. La soggettività
moderna è già tutta azione: non è mera registrazione di valori o interessi. La sua
figura è infatti il movere, l’atto che suscita il riconoscimento da parte di un indivi-
duo del proprio giocare un ruolo che vada oltre se stesso, e, dunque, oltre ciò che
lo definisce socialmente. Tuttavia, l’assumere un ruolo viene giocato per molti
versi nell’inconsapevolezza altrui, fino a quando non esplode nell’ostentazione
del gesto politico. Proprio in tale rapporto tra coscienza di sé e inconsapevolezza
altrui giacciono alcuni dei germi dell’astrattezza (l’esprimersi a titolo collettivo e
non a titolo personale) della politicità moderna.

L’azione collettiva in età moderna, con il suo carico di segretezza quanto alla
propria scaturigine, per molti versi è resa possibile dalla presenza di corpi astratti
(lo Stato, i partiti). Ma, per altri aspetti, è proprio la presenza stessa di quei corpi,
che fa sempre capo a una certa segretezza dell’agire, che le consente di essere
riaffermabile. I due processi, quello verso l’astrazione e quello che lascia spazio
alla segretezza, sono così consustanziali alla stessa dinamica che conduce alla mo-
dernizzazione dell’azione pubblica (o resa in pubblico): al distacco del Moderno
dal mondo aristocratico-feudale che lo ha preceduto.
L’acquisita centralità dell’attività di legislazione, la neonata possibilità di ef-
fettuare politiche pubbliche, la forma burocratizzata e neutralizzante dell’agire
statuale, sono tutti epifenomeni della grande trasformazione che condusse alla
nascita dello Stato moderno, come entità presente innanzitutto nella coscienza
dei singoli.
Si pensi, da questo punto di vista, alla natura delle istituzioni in uso nell’epoca
repubblicana romana: le cosiddette magistrature. Esse erano sicuramente in una
certa misura impersonali. Tuttavia, la res publica romana era di fatto un’alleanza
tra famiglie, escludente rispetto ad ampie fette della società. Le istituzioni politi-
che si rivelavano come istituzioni religiose e viceversa, nel senso che svolgevano,
fuse, la funzione essenziale di scandire lo stare-in-comunità.
Per di più, in Occidente il sistema regolativo politico (o civile) e quello rego-
lativo religioso non entrarono tra di loro in contrasto fino all’alba del ‘moderno’.
Il diritto, che ne era l’asse portante, era una forma mentis unica e vigente per en-
trambi quei sistemi sociali.2 Una simile sovrapposizione tra religiosità (pagana) e

2
Cfr. A. Schiavone, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, Einaudi, Torino 2005.

112
Segretezza e astrattezza: note sulla costituzione politica del soggetto moderno

politica era incompatibile con la creazione di entità astratte come quelle che qui
si presenteranno a proposito del mondo moderno: soggetti politici o Stati.
Il Senato romano era dunque già un’entità astratta (impersonale)? In parte,
sì, e sicuramente di più di quanto lo sarebbe stato la stessa istituzione imperiale,
mutuata dalla maniera largamente personalistica di concepire il potere nei regimi
orientali. Tuttavia esso non rispondeva, né del resto avrebbe mai dovuto rispon-
dere, a due esigenze politiche che noi sentiamo oggi come essenziali all’azione
pubblica: la segretezza, come necessità posta dalla ragion di Stato3 e quella stessa
segretezza, intesa stavolta come antidoto al rischio di eterodirezione politica dei
soggetti.
Per quanto riguarda il primo punto, non esisteva tecnicamente uno Stato –
vale a dire un’organizzazione dotata di un determinato tasso di credibilità presso
la popolazione – se non, in maniera limitata, sul fondamento della paura4.
Per quanto riguarda il secondo punto, non esisteva in forma sistemica la pos-
sibilità di eterodirezione di soggettività politiche perché chi aveva disponibilità
economiche le aveva in corrispondenza di un potere essenzialmente militare e
soltanto per questo politico, o immediatamente logistico (i “mercanti”, proprie-
tari per lo più di imbarcazioni che costituivano il principale tramite di ogni co-
municazione, incluse naturalmente quelle militari): il conflitto tra economia e
politica per la sovranità – per le “coscienze” – non aveva ancora luogo, poiché
quello sul lavoro era un “comando” vero e proprio: un’imposizione che rinvigo-
riva i tratti della supremazia militare di alcuni su tutti gli altri.

2. Legittimità e autorevolezza come fonti del potere

Titolarità (legittimità ) e autorevolezza5 costituiscono due fonti del potere in


ogni epoca, a un determinato livello di analisi (dal punto di vista del rapporto tra
emozioni e politica, bisognerebbe piuttosto sottolineare come il timore sia all’o-
rigine soprattutto della prima, e l’emulazione intellettuale all’origine principal-
mente della seconda). Nell’età pre-moderna europea, tuttavia, esse erano scisse e

3
A proposito della quale, si rimanda anche alla precettistica di G. Botero, Della ragione di Stato,
Gioliti, Venezia 1589.
4
Da questo punto di vista, l’indagine di Hobbes, spesso evocata come archetipica della stessa
modernità politica, mostra perfettamente, piuttosto, un aspetto del pre-Moderno: la centralità
della paura come principio di legittimazione. Tuttavia, modernamente, era piuttosto la presa di
coscienza di tale paura originaria che la convertiva in lex: un atto di soggettivazione. Cfr. T. Hobbes,
Leviathan, or The matter, forme and power of a common-wealth ecclesiasticall and civill, Andrew
Crook, London 1651; tr. it. a cura di A. Pacchi, con la collaborazione con A. Lupoli, Leviatano,
Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 116-117. Si veda anche il contributo di R. Esposito, Communitas:
origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 1998, pp. 3-31.
5
Questa doppiezza intrinseca dell’origine del potere si va via via perdendo sulla linea Hobbes-
Schmitt, a causa della natura del linguaggio comune, luogo illuminante, per Hobbes, mentre per
altri resta luogo da scavare con inquietudine. Cfr. C. Galli, Genealogia della politica, Il Mulino,
Bologna 2010, particolarmente alle pp. 780-805.

113
Shift. International Journal of Philosophical Studies

ciascuna appannaggio di agenzie divise: da un lato la nobiltà con competenze es-


senzialmente militari, dall’altro la Chiesa universale, con la sua complessa archi-
tettura interna di tendenze culturali, la quale univa e coordinava sistemi di valori
distinti e articolava modi diversi di concepire la religiosità e la fede. Legittimità e
autorevolezza, in quella società, erano virtualmente giunte, concettualmente, dal
diritto divino dei sovrani, chiave di lettura dell’organicità interna della nozione
di potere in quel particolare contesto.
Ora, nobiltà ed ecclesia erano, da un punto di vista moderno e retrospettivo,
(anche) strutture politiche operative cui si accedeva per nomina (e non, perciò,
per elezione). La politica era, infatti, dal punto di vista antropologico, assimila-
bile a una scienza (un sapere e non soltanto una pratica), molto più di quanto
lo sarebbe stato dopo, vale a dire nell’età moderna, quando la retorica pubblica
iniziò a costituire il campo in cui mostrare le virtù politiche. Quale spazio vi era,
all’interno di quelle due strutture, per l’arcanum – l’atto politico non imputabile
ad alcuno in particolare e proprio per questo attribuibile esclusivamente a una
soggettività collettiva? Tale spazio era nei fatti apparentemente immenso. Tutta-
via, ed è questo il punto qui in questione, la segretezza in politica non produceva
ipso facto corpi politici di natura astratta del tipo dei partiti e degli stati, né de-
terminati corpi astratti davano luogo al fatto che le origini delle azioni collettive
restassero segrete, inaccessibili. Si trattava di un mondo ancora pre-moderno
perché non vi era politica che suscitasse direttamente le masse se non, semmai,
per l’irrigidimento psicologico dovuto all’estremizzazione di etiche religiose, o
per l’imposizione dell’azione sotto la minaccia delle armi.
Va chiarita perciò innanzitutto una questione che attiene alla storia della co-
municazione politica. Risulta che, nel mondo pre-moderno, la segretezza sulle
ragioni profonde di una nomina o di un altro atto politico era tale soprattutto
rispetto al popolo, sia nell’ambito delle prassi del ceto nobiliare, sia nel contesto
del funzionamento interno delle strutture ecclesiastiche. Infatti, era reso noto al
popolo esclusivamente ciò che dall’alto si voleva fosse reso noto, anche a causa
di una distanza in termini culturali e di disponibilità di informazioni incolmabile
tra ceto dirigente e ceto diretto. Si trattava perciò innanzitutto di una segretezza
che operava per distinzioni di classi sociali. Le guerre interne al ceto militare
e nobiliare per la conquista del potere, da conseguirsi attraverso l’acquisizione
di una titolarità ad agire con funzioni pubbliche, erano rappresentate presso il
popolo come meri scontri per il dominio anche quando avevano ragioni di ge-
nuino dissenso circa l’indirizzo politico alla base, giacché il ruolo sociale di quel
ceto era essenzialmente di protezione rispetto agli altri e non era rivolto verso
una forma di felicità pubblica più ampiamente intesa. L’elemento rappresenta-
to all’esterno era perciò la forza. Per ciò che concerne la lotta per la conquista
dell’autorevolezza morale e politica – la cathedra più alta dalla quale parlare, e,
parlando, aizzare o commuovere le folle –, essa seguiva una linea evolutiva che
potrebbe apparire del tutto opposta: di fatto essa era e pure appariva come una
competizione per la maggiore umiltà, secondo un agone sostanzialmente interno
alle strutture eclessiastiche. Prima che la nozione di Stato venisse fuori in tut-

114
Segretezza e astrattezza: note sulla costituzione politica del soggetto moderno

ta la sua forza presso la coscienza collettiva, perciò, legittimità e autorevolezza


erano così avocate a quelle due strutture organizzative che traevano entrambe
linfa prevalentemente da un singolo ceto socialmente apicale. Ma, proprio per
questo, esse non emergevano presso i sudditi come due idee fondamentalmente
rivali circa la giustificazione politica di ciascuna azione nel dominio pubblico:
fuse, esse costituivano il riferimento unitario di un ordine “naturale”. Eppure,
nella mentalità politica moderna, l’azione messa in campo da un attore nello
spazio pubblico segue logicamente e storicamente la titolarità ad esercitarla, ma
precede logicamente e storicamente l’autorevolezza che dimostra di avere presso
altri. Nel contesto pre-moderno si trattava allora, sostanzialmente, di una società
per caste o più esattamente per funzioni, mitigata da strutture di cerniera, dove
ciascun attore giocava un suo ruolo precostituito e nominalmente attribuitogli, il
che impediva appunto una vera e propria politicità, nel senso di quella dinamica
psicologica resa possibile dalla forza politica di un consenso accumulato per miti
atti di persuasione. Non vi erano, connessi all’idea di legittimità o di autorevo-
lezza, corpi astratti con il loro annesso spirito corporativo, ma più propriamente
ceti con differenti posizioni di direzione sociale. Mancando quel corporativismo,
mancava poi l’esigenza di uno spazio di segretezza interna esplicitamente codi-
ficato. Paradossalmente, la Chiesa era, fin dal motto benedettino, la principale
struttura incentrata consapevolmente sul lavoro – non meramente cetuale, ma
parzialmente meritocratica. Tuttavia, non era neanch’essa una corporazione per-
ché, fino a una certa epoca, Chiesa universale e dunque in nessun senso pars.
Le due strutture – Chiesa, da un lato, e organizzazione statuale-militare,
dall’altro – erano in comunicazione continua l’una con l’altra, in quanto i mem-
bri dell’una erano quasi sempre imparentati con membri dell’altra. Peraltro, esse
erano pure fortemente simili, in quanto avevano in comune strutture intermedie
e di raccordo quali, ad esempio, le università e le istituzioni di diritto. Solamente
l’architettura della comunicazione politica verso l’esterno si rivelava essere total-
mente differente, a causa della consapevolezza, in ciascuna di esse, della presenza
dell’altra.
Ma la connessione strettissima tra “Chiesa” e “segretezza”, nella conduzione
degli affari interni, si sarebbe istituita soltanto lentamente, nella sua forma attua-
le, nella quale riconosciamo i due possibili tratti della segretezza in politica: quel-
lo degli arcana imperii e quello della protezione dall’eterodirezione del soggetto
collettivo.6 La politica, infatti, era ancora il frutto di strutture di comando (sul
lavoro e sull’esercizio di funzioni militari, prima di tutto) e non di convincimen-
to. Così, come ciò che la nobiltà rappresentava veniva percepito nella sua forza
e non nella sua legittimità, ciò che la Chiesa esprimeva veniva letto come vero e

6
La Chiesa visibile e quella Chiesa invisibile (per usare la terminologia di C. Schmitt, Die
Sichtbarkeit der Kirche. Eine scholastichem Erwägung, in «Summa»,1917/1918; tr. it. di C. Galli,
La visibilità della Chiesa. Una riflessione scolastica, in «Cattolicesimo romano e forma politica»,
Giuffré Editore, Milano 1986) si scindono definitivamente soltanto, schmittianamente, di fronte
ad un protestantesimo che denuncia l’inemendabile distanza tra di esse.

115
Shift. International Journal of Philosophical Studies

non come meramente autorevole. La segretezza era, allora, una questione ancora
interamente di classe: un mero dispositivo di separazione dei dirigenti dai ceti
diretti.
Sarebbe stata solo l’idea di sovranità popolare a cambiare radicalmente il qua-
dro. Ma soprattutto l’apparente continuità nel ruolo sociale della Chiesa, seppur
frantumata dalla Riforma, rendeva quel cambiamento, de facto, assimilabile a una
lunga transizione. In particolare, il problema della Riforma e della valutabilità
delle opere, ai fini della salvezza dell’anima, rendeva il tema della trascendenza
incline a un’intrinseca obsolescenza, o meglio dire a una trasposizione in una
nuova forma. Sia che si accettasse questo profondo cambiamento dottrinale che
nel caso opposto, si erano poste le basi per una nuova disciplina politica.

3. Stato e partito nell’azione pubblica in età moderna

Nel mondo moderno, legittimità e autorevolezza si costituiscono in due for-


me della coscienza politica: rispettivamente, Stato e partito. Per quanto riguarda
quest’ultimo, si arrivava così allo statuto, del tutto innovativo rispetto al mondo
aristocratico-feudale, del Principe moderno7, con i suoi antecedenti nella prima
età moderna nella composizione interna del mondo religioso cristiano. Vi sono
state, come detto, due finalità della segretezza come matrice dell’azione pubbli-
ca: una relativa al ruolo dello Stato rispetto alla società e una relativa al ruolo
delle partes rispetto al potere del Capitale8 (potere che si è definito come capacità
di eterodirezione politica delle soggettività).
La questione può essere rappresentata così: lo Stato fallisce in mancanza della
capacità di mantenere la segretezza rispetto alla società, così come le partes orga-
nizzate che si oppongono al Capitale si svuotano quando non riescono a mante-
nere l’apparenza esterna ed interna di una effettiva collettività della loro azione
(vale a dire quando la segretezza su chi sia in ultima analisi l’autore vero del gesto
politico viene conosciuta all’esterno come collettività e quindi non imputabilità
dell’azione). Perché?
Lo Stato, là dove esiste come struttura burocratico-amministrativa, rivaleggia
con tutte le altre strutture politiche9, nel senso del rendere continuamente note la
legittimità e l’universalità delle proprie preoccupazioni; ma se si mostrasse come

7
Il riferimento è a A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Einaudi, Torino 1977.
8
Per come questo termine viene definito in K. Marx, Das Kapital: Kritik der politischen Oikonimie
buch 1: produktionsprozess des kapitals, Dietz Verlag, Berlin 1957; tr. it. di D. Cantimori, Il processo
di produzione del Capitale, in Il capitale, Editori Riuniti, Roma 1973, Vol. I, Tomo I.
9
Rivaleggia, naturalmente, innanzitutto per il monopolio della forza legittima, come sostenuto in
M. Weber, Wissenschaft als beruf, Politik als Beruf, Ernst Klett, Stuttgart 1995; tr. it. di H. Grünhoff,
P. Rossi e F. Tuccari, La scienza come professione, la politica come professione, Edizioni di Comunità,
Torino 2001. Lo Stato esiste in senso stretto soprattutto in alcuni luoghi dell’Europa continentale,
oltre che in alcuni regimi orientali. Per quanto riguarda la statualità in ambito anglosassone, essa
richiede e allude a tutt’altra impostazione teorica.

116
Segretezza e astrattezza: note sulla costituzione politica del soggetto moderno

pars esso andrebbe rapidamente a deperire. Lo Stato “vive” nelle coscienze fin
tanto che non si presenta esplicitamente come partito.10 In quanto tale, sopravvi-
ve perciò solo in una dimensione di astrattezza: lo Stato non appare come gruppo
di potere determinato fin tanto che ciò che mantiene come segreto resti in una di-
mensione ignota all’esterno di quel gruppo. Esso, perciò, può semmai costituirsi
in forma di partito solo senza rendere tale circostanza nota all’esterno del gruppo
di potere che lo anima dall’interno: in forma, quindi, di società segreta e dunque
di dominio di un gruppo su un altro, in termini di informazioni disponibili.
Il partito, invece, nelle forme di società moderne e dunque essenzialmente
capitalistiche, esprime, nel caso in cui esso abbia tra le sue finalità l’opposizione
alle forme capitalistiche stesse, la modalità di rapporto tra individuo e organismo
sociale che è definita dall’autorevolezza. Esso sopravvive così solo se rende nota
all’esterno la non-imputabilità delle proprie azioni a singoli individui – in questa
maniera, infatti, nessun individuo che sia responsabile di decisioni rilevanti è
ricattabile. Bisogna considerare che queste tipologie di partiti si costituiscono
in una sproporzione assoluta di potere a proprio svantaggio nei confronti dei
propri avversari. Al vertice di simili strutture, pertanto, c’è e ci deve essere una
collegialità non trasparente all’esterno nelle sue meccaniche decisionali. Vi è in
questo senso una segretezza, una segretezza su chi realmente comandi.11 Tutta-
via, naturalmente, non è detto che un partito debba avere, in senso tecnico, un
vertice. Esso è infatti, seppure soltanto idealmente, una condivisione di emozioni
politiche, più che una struttura.12
Ma, definiti questi punti relativi allo Stato e al partito, nella loro forma arche-
tipica, è in verità soprattutto l’interconnessione tra i due a mostrare più chiara-
mente i caratteri della segretezza e dell’astrattezza in politica nell’età moderna.
A questo proposito, le strutture di difesa dall’eterodirezione politica presenti
nei partiti anti-capitalistici reggono fin tanto che c’è un pensare condiviso tra i
suoi membri. Tuttavia, un partito è anche in senso stretto burocrazia: è esso stes-
so Stato. Esso funziona, a causa di ciò, con regole. Non soltanto, ma un partito

10
La natura “etica” dello Stato giace appunto nella sua astrattezza, ovvero nel suo carattere non-
familistico e in questo senso impersonale; un aspetto che risulta fondamentale soprattutto se
guardiamo alla statualità da una prospettiva antropologica. Significativamente, tuttavia, Hegel non
interpretò invece la statualità come una forma di astrattezza, ma piuttosto di concretezza. Ciò
che gli interessava mettere in luce era l’“opposizione” dello Stato alla società, del resto, e non
tanto direttamente alla famiglia, secondo una filosofia della storia della “potenza”. Cfr. G.W.F.
Hegel, Grundlinien der Philosophie der Rechts, Nicolaischen Buchhandlung, Berlin 1821; tr. it. di
G. Marini, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Roma-Bari 1991.
11
Su questi argomenti, sia consentito rimandare ad alcune pagine di memorabile lucidità. Cfr. V.
I. Lenin, ‘to delat’? Dietz, Stoccarda 1902; a cura di V. Strada, Che fare?, Einaudi, Torino 1971,
particolarmente alle pp. 119-177.
12
Robert Michels, con la sua particolare impostazione, non fu forse molto d’accordo con questo
punto, e con lui buona parte della scienza politica moderna. Tuttavia sembra si possa sostenere che
la politica contenga una tale intrinseca dimensione di idealità. Cfr. R. Michels, Zur Sociologie des
Parteiwesens in der modernen Demokratie. Untersuchungen über die oligarchischen Tendenzen des
Gruppenlebens, Dr. Werner Klinkhardt, Leipzig 1911; tr. it. di E.M. Forni, La sociologia del partito
politico, Il Mulino, Bologna 1966.

117
Shift. International Journal of Philosophical Studies

è anche una struttura militare (di accumulazione di forza). A causa di ciò, esso
funziona anche come una catena di comando: entrambe, burocraticità e funzione
militare, specialità dell’entità statuale. Il problema della segretezza e, all’opposto,
dell’esposizione pubblica di informazioni è, perciò, nel caso dei partiti reali (e
non, perciò, di meri archetipi), molto problematico.

4. Partito-Stato e Stato-partito, forme ibride della soggettività moderna

Il Partito-stato costituisce la forma degenerativa (ma per altri versi pienamente


realizzata) del comunismo, lo Stato-partito quella del fascismo. Perché? Perché
esse stanno a significare che il partito si fa Stato, quando si completa una sua
eventuale sclerotizzazione burocratico-militare, e che lo Stato si fa partito quan-
do la ragion di stato prevale su qualunque altro elemento motivazionale, come
base dell’agire. Di fatto, è in tal modo ancora in rapporto al problema dell’astrat-
tezza e del segreto che è possibile interpretare quelle due diverse modalità ibride
(e dunque reali) di costruzione di entità politiche: laddove nel Partito-stato si
verificano dinamiche relative all’eterodirezione politica, per cui il segreto viene
evocato per evitare quell’eventualità, nello Stato-partito si verificano dinamiche
relative al segreto di Stato, per cui il segreto viene evocato come meccanismo di
protezione dello Stato nei confronti delle pretese della società.
Rispetto al Partito-stato, vi sono diversi livelli di segretezza che è possibile ri-
conoscere. Da un lato, vi è il rapporto, non trasparente, tra l’organismo collegiale
dirigente e i membri del Partito-stato stesso: questi ultimi in generale non sanno
chi, nell’organismo di vertice, ha preso quale specifica decisione. L’elemento de-
mocratico, che agisce invece in senso opposto e, per così dire, “divulgativo”, di
quella forma organizzativa, si ha nella determinazione “dal basso” delle direttive
politiche, poiché esse costituiscono in linea di principio la “sintesi” delle diverse
posizioni dei membri del Partito-stato. Tuttavia uno iato tra “sintesi” e “posi-
zione politica espressa” è sempre possibile e di fatto reale, innanzitutto perché
la direzione del Partito-stato è coinvolta nell’organizzazione della macchina sta-
tale (ogni forma di dirigismo, in quella forma-partito, dipende dalla necessaria
vicinanza di esso alle pratiche del governo e del sottogoverno) mentre i singoli
membri non lo sono.
Vi sono perciò anche, in quella forma organizzata, diverse dimensioni dell’a-
strattezza: da un lato, essa si costituisce, appunto, come non-individualità (colle-
gialità) dell’organismo dirigente, e dall’altro essa si determina come caratteristica
del linguaggio politico, dovuta a un principio di realtà o a un necessario tasso di
decisionismo: il dirigente dice in privato quello che non può dire in pubblico,
perché è coinvolto nell’opaca dialettica tra la stessa macchina statale e la mac-
china partitica. Questo non dire, pur dicendo, è alla base dell’astrattezza del
linguaggio politico a sinistra.
Si consideri, ora, lo Stato-partito, o la forma politica organizzativa del movi-
mento fascista nelle sue caratteristiche archetipiche. Anche in esso la segretezza

118
Segretezza e astrattezza: note sulla costituzione politica del soggetto moderno

è duplice: essa, come detto, viene ad essere causata dalla presenza del segreto
di Stato, e cioè dalla pretesa della macchina partitica di guidare la società inte-
ra (il “popolo”), e non soltanto, come nella forma precedente, i suoi membri,
costruendo una macchina perfetta che stia “sopra” i corpi sociali, per forza. La
macchina dello Stato-partito viene ad essere credibile quanto meno sono credi-
bili i suoi avversari. Essa viene intesa, dai membri dirigenti dello Stato-partito,
come una pars tra le tante, ma si agisce come se i membri non dirigenti dovessero
intenderla come una totalità organica. Vi è, perciò, un’ambigua dimensione di
astrattezza. In quanto “parte”, lo Stato-partito appare come un mero gruppo di
potere, all’interno dell’élite dirigente. Al limite, direttamente come un capo: il
concreto per eccellenza. Ma in quanto totalità, lo Stato-partito viene visto come
organismo vivente di cui ogni membro della società fa parte: in questo senso,
l’astrazione pura. Lo Stato-partito ha dunque un doppio volto: quello aperto
alla visione dell’insieme di persone che soggettivamente si sente parte del gruppo
dirigente e quello aperto alla visione di coloro che altrettanto soggettivamente si
sentono sudditi. Tuttavia, appunto, tale distinzione è meramente soggettiva.

5. Le dinamiche delle strutture ibride e la loro connessione con il Capitale

Il Partito-stato si consolida come una struttura più incline al burocratismo che


alla militarizzazione. Lo Stato-partito, viceversa. Naturalmente, il Partito-stato è
una struttura più incline all’acquisizione di autorevolezza, mentre lo Stato-par-
tito è intrinsecamente legittimista. Si tratta di due strutture attraverso le quali
leggere la totalità delle forme della politica: due modalità estreme in un vasto
campo di possibilità, quello dell’aggregazione politica tra individui nell’epoca,
quella moderna, della disgregazione dell’organicità teologica.
L’uso del segreto e l’astrattezza che caratterizza entrambe quelle strutture or-
ganizzate sono così tratti della politicità, per come quest’ultima viene espressa
nelle forme di società capitalistiche.13 Da un lato, quello che, guardando allo
Stato-partito, conduce dalla legittimità originaria “pre-moderna” alla legittimità
acquisita per “meriti”, il Capitale si costituisce come una conseguenza del libe-
ralismo politico, vero motore che conduce alla soggettivazione.14 Le forme del
potere costituito saranno così nuovamente legittime, in altre parole, in quanto
esplicheranno funzioni che nessun altro soggetto è in grado di svolgere. Esse
lotteranno, di continuo, con altre strutture rivali, per l’acquisizione di “tito-

13
Il problema del self government con tutto il suo insistere sulla “trasparenza” in politica, dunque,
si rivela come una significativa alternativa alla visione della storia qui proposta. Le due principali
forme di reazione al Capitale, vale a dire i modelli ibridi qui presentati, rimandano a una struttura
di significati politici, infatti, del tutto diversa. Per una descrizione molto nota delle pratiche del self
government, si veda A. D. Tocqueville, De la démocratie en Amérique, Hauan, Bruxelles1835; tr. it.
di S. Tosi, La democrazia in America, Cappelli, Bologna 1962.
14
Una categoria storico-filosofica decisiva, e su cui si rimanda a L. Bazzicalupo, Dispositivi e
soggettivazioni, Mimesis, Milano 2013.

119
Shift. International Journal of Philosophical Studies

li” presso gli individui, che vengono loro continuamente sottratti dalla crisi di
legittimazione cui va incontro ogni soggetto politico in quanto “costituito” e,
dunque, inspiegabile o “immeritatamente” essente. Dall’altro, quello che porta
all’accumulazione nelle mani di alcuni di una forma di rinnovata autorevolezza
politica e morale, secondo la tipica strategia organizzativa del Partito-stato, il Ca-
pitale si costituisce e viene osservato essenzialmente come causa delle asimmetrie
di potere esistenti. L’autorevolezza politica e morale viene così ad essere acquisi-
ta dai soggetti che la cercano all’interno della polemica politico-culturale, come
opposizione o come resistenza rispetto alle condizioni oggettive del potere, e
tende a ri-accumulare una forza che le viene continuamente svilita dalla presenza
delle asimmetrie da cui essa stessa nasce.
Nelle condizioni originariamente “doppie” aperte dal Capitale, in definitiva,
e cioè nel suo doppio carattere di struttura psicologica delle relazioni di potere
dopo la crisi della teologia, e di struttura di comando sul lavoro attraverso il pos-
sesso e la protezione dei mezzi di produzione, autorevolezza e legittimità vanno
a comporre, disgiungendosi in una nuova forma, il campo delle opzioni politiche
a seconda delle due diverse interpretazioni del processo storico cui il Capitale
stesso apre.15 Mentre il liberalismo stesso poteva e può essere letto politicamente
come “maschera” delle relazioni di potere, o da un punto di vista opposto come
conseguenza necessaria della crisi radicale del monismo teologico, lo spazio per
la segretezza dell’azione pubblica e l’esigenza di un astrattezza delle soggettività
politiche si configurava e si configura come un tratto della modernità politica
imprescindibile, seppur declinato in diverse e opposte modalità, nelle interazioni
possibili tra statualità e concezione della forma-partito.

6. Perché ancora destra e sinistra. Note conclusive

Destra e sinistra16 sono connesse alla possibilità stessa di interpretare la storia


secondo categorie e secondo rapporti di interrelazione tra materialità dei fatti ed
elaborazione delle idee. Apparentemente soltanto la spesso evocata “bancarotta
del pensiero dialettico” potrebbe dunque metterle in crisi, ma si fa fatica a com-
prendere cosa quest’ultima espressione potrebbe significare. Si sono proposte,
qui, due forme di organizzazione “forti”: lo Stato-partito e il partito-Stato. La
forza di quei due modelli, appunto, non pare scalfita da eventi storici recenti

15
Risulta che il Capitale si trovi inestricabilmente connesso, per taluni, alla determinazione di
“potenze” tecnico-scientifiche che ne costituiscono per molti versi il correlato, in termini di storia
della scienza e delle idee. Tuttavia non pare che questo, rispetto alla nostra lettura, introdurrebbe
una “terza” ipotesi oltre alle due appena delineate, poiché il problema “genealogico” sarebbe
ancora quello di comprendere se tali “potenze” discendano in ultima analisi da una nascita
“necessaria” del liberalismo, o da un’evoluzione altrettanto “necessaria” della proprietà dei mezzi
di produzione. Cfr. M. Cacciari, P. Prodi, Occidente senza utopie, Il Mulino, Bologna 2016.
16
Distinzione sulla quale si rimanda anche a N. Bobbio, Destra e sinistra: ragioni e significati di una
distinzione politica, Donzelli, Roma 1994.

120
Segretezza e astrattezza: note sulla costituzione politica del soggetto moderno

e dalla struttura reale del sistema politico. Quelle forme hanno senso appunto
come idealtipi della forma specificamente moderna del problema della legittimi-
tà e dell’autorevolezza quali fonti generali del potere in ciascuna epoca. Ma si è
inteso anche sottolineare come tali rapporti tra legittimità e autorevolezza non
siano sempre stati incarnati in strutture politiche uguali nel corso della storia. La
sopravvivenza di destra e sinistra resta legata dunque alla presenza di una qual-
che filosofia della storia: una lettura globale, consapevole o inconsapevole, del
processo storico in atto. Lo statuto del segreto e della dimensione astratta delle
soggettività politiche (partito e Stato), cui qui si è fatto riferimento, va inteso
allora in un senso: essi sono segni indispensabili della modernità politica, e della
forma specificamente moderna dell’agone politico, nella misura in cui registrano,
semplicemente, le relazioni costitutive e conflittuali tra politica e regime capitali-
stico. Di fronte all’ampio spettro di possibilità aperto da quella coppia oppositiva
(Stato e partito) appare per certi versi inutile parlare, come pure spesso si fa, di
una crisi dello Stato o di una crisi dei partiti. Partito e Stato restano le forme or-
ganizzative opposte e tipiche, ciascuna, di una certa interpretazione della storia:
di un determinato atteggiamento verso il reale che non si può, per quanto incon-
sciamente, non avere. Il possesso stesso, nel proprio animo, di una certa filosofia
della storia, è così un dato politico legato più di quanto non si creda alla propria
condizione sociale, psicologica, umana. Una condizione, come è evidente, a cui è
impossibile, per quanti sforzi si possano eventualmente fare, rinunciare.

121
Autonomia come relazione.
Forme della soggettività morale nel pensiero di Kant
Luigi Imperato

Abstract

In this essay, I first analyze the problem of the constitution of subjectivity in


Kantian philosophy (§1); the following is the question of the relationship betwe-
en moral subjectivity, moral law and author of the law (§ 2). Then I analyze,
through the doctrine of the fact of reason, the relationship between moral law
and its manifestation in pure practical reason (§ 3) and finally (§ 4) I proceed to
a characterization of moral subjectivity as openness to other free beings.

Keywords: oral law, utonomy, ubject, elationship, ommunity

1. La forma della soggettività nella filosofia trascendentale

Ripensare la questione del soggetto significa situarsi nel cuore di uno dei
temi centrali della tradizione filosofica da Cartesio in avanti, riprendere in mano
l’interrogativo relativo al modo in cui la ragione moderna si è autointerpretata.
Interpellare su questo tema un autore come Kant, che ha aperto la via trascen-
dentale al filosofare, intesa come forma di riflessione radicale sulle modalità che
rendono possibile non la diretta conoscenza dell’oggetto, bensì il nostro sapere
dell’oggetto, in quanto questo debba essere possibile a priori, significa situarsi
nel punto nevralgico di un problema così cruciale.
Nel disegnare, nella prima Critica, le funzioni e le prerogative della facoltà co-
noscitiva pura, Kant non manca di dedicare alcune riflessioni alla struttura della
soggettività in generale. Nella Confutazione dell’idealismo, in particolare, egli dif-
ferenzia in maniera netta il suo idealismo trascendentale dall’idealismo dogmatico
di Berkeley e da quello problematico di Descartes. Dell’idealismo empiristico del
primo egli critica l’idea che le determinazioni soggettive possano essere pensate
in assenza di un riferimento esterno; dell’idealismo sostanzialistico del secondo
contesta la visione secondo cui il cogito possa essere pensato come una res: affin-
ché ciò fosse possibile, infatti, dovremmo avere una intuizione corrispondente,
mentre l’unica intuizione che noi abbiamo di noi stessi è empirica, mediata dal
senso interno, sicché, nella misura in cui ci conosciamo, siamo sottoposti all’i-
dentica condizione a cui sono sottoposti tutti i fenomeni, quella di poter apparire
Shift. International Journal of Philosophical Studies 1/2017
Shift. International Journal of Philosophical Studies

soltanto nelle forme dell’intuizione, lo spazio ed il tempo. Nel capitolo Sui para-
logismi della ragione pura, viene spiegato che noi possiamo ben stabilire come si
pensa, non, però, quel che in noi pensa:

[della] semplice […] rappresentazione dell’io […] si deve dire che è una semplice
coscienza, la quale accompagna tutti i concetti. Mediante questo io, o egli, o esso (la
cosa), che pensa, non viene poi rappresentato null’altro se non un soggetto trascen-
dentale dei pensieri ( = x), il quale è conosciuto solo attraverso i pensieri, che sono
suoi predicati, e del quale, separatamente, non potremo mai avere il minimo concetto.1

Non che qui Kant fuoriesca del tutto dallo schema sostanzialistico aristotelico,
per il quale ogni predicato deve rientrare in un rapporto di inerenza con qualche
cosa di per sé sussistente;2 ne conserva, però, soltanto l’aspetto logico, abbando-
nando quello ontologico. Difatti: nel dominio logico il soggetto è il sostrato delle
sue attività, cioè dei suoi pensieri; ma nel dominio ontologico l’esperienza di un
tale sostrato è preclusa, sicché nella filosofia trascendentale il soggetto si ridu-
ce ad essere la pura struttura funzionale connettente. Si può farne discendere
un duplice ordine di conseguenze: a. il soggetto kantiano ha la forma di un io,
ma non è l’io, se con questo si intende la sostanza che possa essere indicata dal
pronome personale; b. quest’io si definisce sempre come un modulo aperto, tale
perché, come pura forma del determinare, esso non può in alcun modo autodefi-
nirsi: «Io conosco me stesso, non già per il fatto che io sia cosciente di me come
pensante, bensì soltanto se sono cosciente dell’intuizione di me stesso, in quanto
determinata rispetto alla funzione del pensiero».3
Il soggetto della conoscenza, dunque, non ha di per sé consistenza, e può
acquisirla solo in una materia che non sia esso stesso, ossia di fronte ad un deter-
minabile che si offra come resistenza; pertanto, perché una, sia pur solo fenome-
nica, conoscenza del soggetto sia possibile, «gli oggetti esterni sono assolutamen-
te indispensabili, e di conseguenza, la stessa esperienza interna è possibile solo
mediatamente e solo attraverso quella esterna»; e ciò a motivo del fatto che «noi
non abbiamo proprio nulla di permanente, da poter porre, come intuizione, alla
base del concetto di una sostanza, se non semplicemente la materia».4 Già nella
Deduzione trascendentale delle categorie, d’altra parte, era stato chiarito che la
coscienza che “io sono”, derivata dalla sintesi trascendentale del molteplice, è
un semplice pensare,5 ossia una semplice consapevolezza che la funzione logico-

1
I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, zweite Auflage (1787), in Kants Gesammelte Schriften, hrsg.
von Königlich Preußischen Akademie der Wissenscheften zu Berlin (dal vol. XXIV: hrsg. von der
Akademie der Wissenschaften zu Göttingen), Bände I-XXIX, Reimer (poi: De Gruyter), Berlin,
1902 e sgg. (d’ora in avanti abbreviato in KGS, seguito dal volume in numeri romani e dalla pagina
in numeri arabi), Band III, p. 265; tr. it. di G. Colli, Critica della ragione pura, Adelphi, Milano
20013, p. 399.
2
Aristotele, Metafisica, Z 2, 1029 a 7-9; tr. it. di G. Reale, Metafisica, Rusconi, Milano 19942, p. 293.
3
I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, KGS, III, p. 267; Critica della ragione pura, cit., pp. 402-403.
4
Ivi, KGS, III, pp. 192-193; ivi, p. 297.
5
Cfr. ivi, KGS, III, p. 123; ivi, p. 193.

124
Autonomia come relazione

trascendentale dell’Io penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresenta-


zioni.6 È un altro dall’io, dato come posizione assoluta di un esistente,7 ciò che gli
dà consistenza, pur se l’esperienza di esso è, a sua volta, sempre mediata dall’io.8
La soggettività trascendentale è dunque coscienza autoriflessiva di sé in relazione
ad un altro, che appare in questa coscienza manifestandosi come altro: in tale rela-
zione non vi è un prius dal punto di vista ontologico, ma soltanto una differenza
di carattere epistemologico, per cui l’essere appare in una coscienza, la quale è
tuttavia sempre rapportata ad un essere.9
La soggettività esiste come forma di commercium con l’altro da sé – dove si
deve tener presente che l’utilizzo del termine commercium ha in Kant un signifi-
cato tecnico, essendo la parola latina con la quale Kant traduce la parola tedesca
Gemeinschaft, comunanza, intesa come Wechselwirkung, relazione reciproca,
senza cui «ogni percezione è staccata dalle altre», e non potrebbero «minima-
mente connettersi».10 Nella Reflexion 6311, dedicata al tema dell’idealismo, data-
bile, secondo gli editori dell’Accademia, circa al 1790-91, troviamo precisamente
questa caratterizzazione della soggettività come commercium, ossia come relazio-
ne dinamica con l’esterno:

La nostra esistenza viene determinata nel nostro senso interno nel tempo e presup-
pone dunque la rappresentazione del tempo stesso; nel tempo tuttavia è contenuta
la rappresentazione del cambiamento; il cambiamento presuppone qualcosa di per-
manente […] Questo permanente non possiamo essere noi stessi, poiché noi siamo
determinati proprio come oggetti del senso interno mediante il tempo; il permanente
può dunque essere posto unicamente in ciò che viene dato attraverso il senso esterno.
La possibilità dell’esperienza interna presuppone dunque la realtà del senso esterno.
Infatti, posto che si volesse dire che anche la rappresentazione del permanente dato
attraverso il senso esterno sia la mera percezione data dal senso interno, che viene
rappresentata come data dal senso esterno solo in virtù dell’immaginazione, allora
dovrebbe in generale essere possibile […] diventare coscienti di se stessi come appar-
tenenti al senso interno; ma allora la rappresentazione dello spazio viene mutata nella
rappresentazione del tempo, cioè dovrebbe essere possibile rappresentarsi lo spazio
come un tempo (secondo una dimensione) […] Il senso esterno ha dunque realtà,
perché senza di esso il senso interno non è possibile. – Di qui pare seguire che noi
conosciamo la nostra esistenza nel tempo sempre soltanto nel commercium.11

6
Cfr. ivi, KGS, III, pp. 108-109; ivi, pp. 155-156
7
Cfr. ivi, KGS, III, p. 401; ivi, pp. 623-624.
8
Su questo aspetto della costituzione della soggettività in senso kantiano vanno tenute presenti le
importanti analisi contenute in C. La Rocca, Soggetto e mondo. Studi su Kant, Marsilio, Venezia
2003, soprattutto le pp. 21-76.
9
Si possono a tal proposito utilizzare le illuminanti parole di M. Ivaldo: «In un pensiero di
tipo trascendentale […] l’accesso alla realtà essente avviene infatti sempre e soltanto nel medio
dell’essere-cosciente […]; per parte sua l’essere-cosciente è sempre e soltanto relazione all’essere
[…]. La posizione trascendentale è comprensione […] autoriflessiva di questo rapporto fondante»
(M. Ivaldo, Libertà e moralità. A partire da Kant, Il Prato, Padova 2009, p. 132).
10
I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, KGS, III, pp. 182-183; Critica della ragione pura, cit., p. 285.
11
I. Kant, Reflexion 6311, KGS, XVIII, pp. 611-612 [traduzione mia].

125
Shift. International Journal of Philosophical Studies

Per Kant, dunque, non potrebbe esservi alcun io senza un tu, non potrebbe
esservi, e neppure definirsi, una coscienza senza un mondo.

2. Soggettività trascendentale e legge morale

Se la forma della soggettività, in generale, è rappresentabile nei termini di un


commercium con qualche cosa di altro, potremmo chiederci come questa forma
si determini in relazione a quella particolare alterità che è la soggettività altra.
Una relazione di questo tipo ha, per Kant, immediate ricadute di carattere eti-
co; di essa si occupa la parte della filosofia che indaga l’uso pratico della ragione
pura. Mentre la filosofia teoretica deve occuparsi di indagare a quali condizioni
sia possibile un uso legislativo del giudizio nel campo conoscitivo, la filosofia pra-
tica deve stabilire a quali condizioni sia possibile un uso legislativo del giudizio
in ambito morale.12 Essa deve farsi carico della questione di chi sia autorizzato
a porre il criterio morale («Agisci in modo tale che la massima della tua volon-
tà possa sempre valere nello stesso tempo come principio di una legislazione
universale»)13 e di chi sia legittimato ad utilizzarlo; per restare nella metafora
giuridica, ci troviamo di fronte a tre distinti problemi, quello della legislazione,
del legislatore e della giurisdizione morale.
Che vi sia una giurisdizione morale, è, secondo Kant, evidente dalla circostan-
za che noi possiamo, in ogni momento, stabilire la moralità o meno del principio
(Gesinnung) a fondamento delle nostre azioni sulla base di un criterio comple-
tamente interno alla ragione, per cui essa esercita non solo la giurisdizione, ma
anche la legislazione. L’autonomia del soggetto morale, per la quale la volontà è
legge a se stessa,14 fa dunque sì che gli uomini siano, ad un tempo, legislatori e
sudditi nel regno dei fini, in quanto ne sono membri, mentre Dio ne sarebbe il
capo, in quanto non sottoposto alla volontà di nessun altro.15 La volontà degli uo-
mini è infatti legislativa, ma non tale che il suo movente coincida spontaneamen-
te con quanto prescritto dalla legge, a cui essi si devono adeguare sottoponendosi
ad un imperativo, categorico perché comanda un’azione avente in se stessa il suo
scopo.16
Due equivoci vanno subito dissipati: in primo luogo, non bisogna scambiare
l’autonomia della volontà per l’elevazione della natura umana ad origine della
legge morale, «bensì, dato che la legge morale deve valere per ogni essere razio-
nale in generale, [occorre] dedurre tale legge già dal concetto universale di un es-

12
Cfr. I. Kant, Kritik der Urtheilskraft, KGS, V, pp. 174-176; tr. it. di A. Gargiulo, riveduta da V.
Verra, Critica del Giudizio, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 17-21.
13
I. Kant, Kritik der praktischen Vernunft, KGS, V, p. 30; tr. it. di P. Chiodi, Critica della ragion
pratica, in I. Kant, Critica della ragion pratica e altri scritti morali, UTET, Torino 1995, p. 167.
14
I. Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, KGS, IV, p. 440; tr. it. di F. Gonnelli, Fondazione
della metafisica dei costumi, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 115.
15
Ivi, KGS, IV, p. 433; ivi, p. 101.
16
Ivi, KGS, IV, pp. 414; ivi, p. 59.

126
Autonomia come relazione

sere razionale in generale»;17 in secondo luogo, non bisogna ritenere che Dio sia
al di sopra della legge morale, ma, essendo la sua volontà santa, in lui tale legge
non assume un carattere imperativo.18 Cosa intende allora Kant per ‘legislatore
morale’, considerato che, sebbene in senso diverso, sono legislatori morali tanto
l’uomo quanto Dio, e anche che l’origine della legge morale non può essere ricer-
cata nella natura umana? A tal proposito, occorre mettere in rilievo che abbiamo
due modi per intendere l’attività di posizione della legge da parte di un legisla-
tore: uno è quello per il quale egli ha facoltà di dichiarare la vigenza della legge
sulla base di un principio proprio; l’altro è quello di pensarla come da lui stesso
prodotta. Per Kant, però, questa seconda opzione è da escludere: «Il legislatore
non può essere l’autore, ma le leggi morali stanno nella natura delle cose. Farle
derivare dalla volontà divina corromperebbe tutta la morale: infatti, se così fosse,
Dio potrebbe anche dispensare» 19 dalla loro osservazione. Si potrebbe dire: tutti
gli esseri razionali sono autorizzati ad esercitare la giurisdizione proprio perché
manca un autore della legge: ché, se vi fosse, allora questa non sarebbe intrinse-
camente incondizionata, ma subordinata alle condizioni poste dalla volontà del
suo autore. La legge è, dunque, la stessa struttura sovraindividuale del giudicare
morale, che prende corpo in ciascun essere razionale. L’originaria domanda sul
legislatore morale dovrà, dunque, essere modificata come segue: esiste, ed in che
senso, un soggetto delle proposizioni morali?

3. Il soggetto delle proposizioni morali

Le proposizioni morali hanno la forma di una soggettività, di qualcosa che


ha a che fare con scopi e volizioni, ma sono, in certo modo, senza soggetto, per-
ché non possono essere ascritte ad alcun soggetto come prodotto suo proprio.
Risulta perciò non molto sensato chiedersi se la legge morale sia soggettiva o
oggettiva. L’interrogativo sulle condizioni di validità della legge anziché sulla sua
origine ultima pone il discorso kantiano al di qua della dicotomia tra soggettività
e oggettività della legge, tanto è vero che essa conserva alcune caratteristiche di
entrambe: come pura forma razionale, la legge non proviene da nessun soggetto

17
Ivi, KGS, IV, pp. 411-412; ivi, p. 55.
18
I. Kant, Kritik der praktischen Vernunft, pp. 32-33; Critica della ragion pratica, cit., pp. 169-170.
19
I. Kant, Danziger Rathionaltheologie nach Baumbach, KGS, XXVIII, 2.2, p. 1316; Natürliche
Theologie Volckmann nach Baumbach, KGS, XXVIII, 2.2, p. 1221; Philosophische Religionslehre
nach Pölitz, KGS, XXVIII, 2.2, pp. 1116-17; tr. it. di C. Esposito, Lezioni di filosofia della religione,
pp. 269-270 (si tratta di tre trascrizioni di una Vorlesung tenuta nell’a.a. 1783/84). Dichiarazioni
di pari tenore le possiamo ritrovare in corsi accademici e appunti personali dagli anni Settanta
fino agli anni Novanta. Si veda al riguardo Reflexion 4739, KGS, XVII, p. 693 (collocata negli
anni Settanta del Settecento dagli editori dell’Accademia); Moral Mrongovius (corso di lezioni del
1774/75), KGS, XXVII, p. 1425; Metaphysik der Sitten Vigilantius, in KGS, XXVII, p. 530 (corso
di lezioni del 1793/94). Anche a prescindere dai riferimenti testuali, tuttavia, il carattere di assoluta
necessità e incondizionatezza della legge rende inevitabile che Kant la pensi come priva di un au-
tore, per spogliarla di ogni possibile carattere di arbitrarietà e contingenza.

127
Shift. International Journal of Philosophical Studies

e vale, oggettivamente, per tutti gli esseri razionali, tuttavia essa è rivolta ad esseri
volenti-agenti e ciò le conferisce un carattere soggettivo. È, dunque, la ragione
pura pratica l’unico, fondante non fondato, soggetto delle proposizioni morali, di
per sé non riducibile a nessun essere razionale e ugualmente operante in ciascu-
no di essi; la legge, che da essa proviene, è la forma universale ordinatrice di un
mondo, il mondo delle azioni, degli scopi e delle volizioni, che le si offrono come
quel molteplice senza il quale essa non avrebbe senso come forma determinante.
È allora opportuno spostare l’attenzione dalla dicotomia soggettivo/oggettivo
alla relazione tra la legge morale, forma soggetto-oggettiva, e la sua manifestazio-
ne nella ragione pura pratica umana.
La legge morale, giusta la dottrina che troviamo nella seconda Critica, si ma-
nifesta come l’unico Factum der reinen praktischen Vernunft:20 essa è la coscienza
riflessiva di poter agire sulla base di un puro movente morale, a fondamento del
quale vi è «una regola che determina a priori semplicemente la volontà rispetto
alla forma delle sue massime».21 Secondo Kant questa è l’unica possibilità per
dimostrare l’esistenza di una causalità operante nel mondo secondo libertà.22 I
tentativi in tal senso contenuti nella prima Critica e nella terza sezione della Fon-
dazione avevano, infatti, fallito nel loro intento: essi consistevano nello sforzo di
provare l’effettività della libertà o sulla base della supposizione dell’esistenza di
una causalità sovrasensibile, non sottoposta alle condizioni del tempo, e dun-
que in grado di esprimere, per dirla con Hannah Arendt,23 un “cominciamento
assoluto” nella serie causale,24 o della circostanza che la ragione è in grado di
esprimere una spontaneità tale da dimostrare la sua indipendenza rispetto alle
cause efficienti.25 Tali tentativi erano, invero, incoerenti con i principî di fondo
della filosofia critica: del mondo soprasensibile non abbiamo una conoscenza
diretta, dunque esso non può fungere da termine di mediazione per la prova; la
spontaneità della ragione, di per sé, non ci assicura affatto che vi sia una effettiva
connessione sintetica a priori tra legge e volontà, poiché una tale determinazione
potrebbe essere un puro atto logico. La soluzione proposta nella seconda Critica,
invece, parte dalla consapevolezza della disponibilità di un criterio assoluto di
giudizio sulle nostre azioni. È vero che noi non sappiamo se mai agiremo per
rispetto della legge, ma, certo, sappiamo in ogni momento di poterlo fare, perché
siamo sempre consapevoli che la legge può essere movente dell’azione.26 Non

20
Cfr. I. Kant, Kritik der praktischen Vernunft, KGS, V, p. 31; Critica della ragion pratica, cit., p.
168.
21
Ibid.
22
Cfr. ivi, KGS, V, p. 42; ivi, p. 180.
23
H. Arendt, The Human Condition (1958), 19982, pp. 177-178; tr. it. di S. Finzi, Vita activa. La
condizione umana, Bompiani, Milano 2000, pp. 128-129.
24
Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, KGS, III, p. 363; Critica della ragione pura, cit., p. 573.
25
Cfr. I. Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, KGS, IV, p. 448; Fondazione della metafisica
dei costumi, cit., p. 131.
26
Si vedano, in questo senso, i famosi esempi kantiani contenuti nella Anmerkung II al Lehrsatz
IV nella Kritik der praktischen Vernunft, KGS, V, pp. 35-37; Critica della ragione pratica, cit., pp.
172-175.

128
Autonomia come relazione

bisogna scambiare questa consapevolezza per una mera evidenza psicologica,


soggetta a proiezioni, autoinganni, o, comunque, ad assenza di certezza per l’im-
possibilità di conoscere i moventi interni del soggetto agente;27 essa è invece la
coscienza di avere un criterio col quale confrontare ciò che di fatto facciamo con
ciò che dobbiamo fare. Si tratta, pertanto, di una consapevolezza che lega fun-
zionalmente massime e legge. Solo per questo la legge morale può essere consi-
derata la ratio cognoscendi della libertà e rivestire un ruolo epistemologicamente
rilevante, pur essendo la libertà la ratio essendi della legge morale.
Il tipo di prova cui ci troviamo qui di fronte è, quanto meno, sui generis, ed è
stato variamente accolto in letteratura;28 senza avventurarmi in una discussione
sulla sua concludenza, tenterei di confrontarmi con un altro problema, che mi
pare rilevante per affrontare la domanda sull’identità del soggetto delle propo-
sizioni morali: qual è la natura del fatto della ragione? Si tratta di un fatto inteso
come qualcosa cui ci si trova dinanzi, di un dato, oppure esso è l’atto riflessivo
con cui colgo in che modo opera la mia ragione nel determinare la mia volontà?
Quest’ultima ipotesi sembrerebbe più confacente al modo di pensare proprio
della filosofia trascendentale quale filosofia della riflessione, in cui la ragione, in
una sorta di gioco di sdoppiamenti, è soggetto e oggetto della sua conoscenza e
può rivedere sé come un altro. Tale interpretazione sembra rafforzata dall’utiliz-
zo della parola latina factum, che vuol dire “ciò che è stato fatto”, sicché bisogne-
rebbe intenderla sulla scorta dei seguenti due brani della Metafisica dei costumi:

Si chiama fatto un’azione […] nella quale il soggetto viene considerato anche secondo
la libertà della sua volontà […] come autore dell’effetto […]
[qualcuno] è considerato come autore […] di un’azione la quale è sottomessa a leggi
e che allora si chiama fatto (factum).29

27
Nella Grundlegung Kant scrive che basta essere «un osservatore di mente fredda […] per mettere
in dubbio, in certi momenti […], se davvero nel mondo si incontri mai, realmente, autentica virtù»
(I. Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, KGS, IV, p. 407; Fondazione della metafisica
dei costumi, cit., p. 45). Sulla diffidenza di Kant per l’introspezione si veda Anthropologie in
pragmatischer Hinsicht, in KGS, VII, pp. 133-134; tr. it. di P. Chiodi, Antropologia dal punto di
vista pragmatico, in Critica della ragion pratica e altri scritti morali, cit., p. 553.
28
La letteratura ha ampiamente discusso la soluzione kantiana di provare la libertà attraverso un
fatto. Non posso, in questa sede, discutere la varietà delle soluzioni proposte; mi limito a segnalare
alcuni lavori significativi: L. W. Beck, Das Faktum der Vernunft: zur Rechtfertigungsproblematik in
die Ethik, in «Kant-Studien», LII, nn. 1-4, 1960/61, pp. 271-282; G. Prauss, Kants über Freiheit als
Autonomie, Vittorio Klostermann, Frankfurt am Mein 1983, pp. 62-115; S. Landucci, Sull’etica di
Kant, Guerini e Associati, Milano 1994, pp. 15-50; O. O’ Neill, Autonomy and Fact of Reason in
the Kritik der praktischen Vernunft, in O. Höffe (Hrsg.), Kritik der praktischen Vernunft, Akademie
Verlag, Berlin 2002, pp. 81-97; D. Henrich, Der Begriff der sittlichen Einsicht und Kants Lehre vom
Faktum der Vernunft, in Idem (Hrsg.), Die Gegenwart der Griechen in neueren Denken, Mohr,
Tübingen 1960, pp. 77-115; M. Willaschek, Die Tat der Vernunft. Zur Bedeutung der Kantischen
These vom “Factum der Vernunft”, in G. Funke (hrsg.), Akten des siebenten Internationalen Kant-
Kongresses, Bouvier, Bonn 1991, vol. II.1, pp. 455-466; S. Bacin, Il senso dell’etica. Kant e la
costruzione di una teoria della morale, Il Mulino, Bologna 2006, pp. 165-221.
29
I. Kant, Die Metaphysik der Sitten, KGS, VI, pp. 223 e 227; tr. it. di G. Vidari, riv. da N. Merker,
La metafisica dei costumi, Laterza, Roma-Bari 19985, pp. 26 e 30.

129
Shift. International Journal of Philosophical Studies

In entrambi i casi, la parola utilizzata da Kant è That, azione, e non v’è dubbio
che egli consideri la That come factum, dal momento che nel secondo brano con-
siderato propone anche la traduzione latina della parola tra parentesi. Resta però
che questo fatto, suo proprio, della ragione, è indeducibile e non ostensibile in
una intuizione – che esso rimane un che d’immediato. La legge morale è dunque
un fatto/atto della ragione proprio nella misura in cui essa si sa originariamente
autonoma e legislatrice. Dobbiamo infatti tener presente che, con la legge mo-
rale, siamo risaliti a qualcosa di originario nella costituzione del soggetto, e che,
data la sua finitudine, ciò che prima di tutto esso non può intuire né giustificare
secondo concetti è se stesso, perché «ogni intellezione umana si arresta quando si
sia pervenuti alle forze e alle facoltà fondamentali».30 La legge morale designa il
modo di agire della ragione pura pratica, ma oltre questa coscienza autoriflessiva
si apre un campo di indeducibilità, perché indeducibile è l’intima costituzione
della soggettività. Si comprende, dunque, ora il senso compiuto della negazione
kantiana dell’idea che la legge abbia un autore: non solo occorre sottrarre la
legge ad ogni forma di contingenza, ma questo fatto/atto della ragione è un suo
prattein, non un poiein, perché, in caso contrario, dovremmo soggiacere necessa-
riamente alla tracotanza di volerne svelare l’intima essenza ed avere così accesso
all’intuizione di una natura archetypa, quale sarebbe costituita in conformità alla
legge morale.31

4. La legge morale come originaria relazione di riconoscimento tra esseri liberi

La legge è consustanziale, ma non riducibile alla natura umana, perché essa ‘sta
nella natura delle cose’, a cui però l’accesso è interdetto. La soggettività umana
è dunque situata su una soglia, non tra due mondi (per quanto Kant l’abbia
talvolta pensata così), ma tra due modi di stare al mondo: uno con il quale viene
accettata, nella libertà, l’originaria relazione con altri esseri liberi e un altro con il
quale viene rifiutata. Questo esser-soglia della soggettività umana è la cifra della
sua apertura.32 Vi è una pluralità originaria nella ragione pura pratica, una sorta
di affezione originaria, che è l’esperienza della libertà con l’altro. La ragione si
dà in qualche modo come comunanza, che implica una pluralità: pluralità degli
esseri, in quanto relazione; comunanza, in quanto essi hanno nella reciprocità la
loro forma di relazione. Ciò spiega perché, quando Kant tenta di estetizzare la

30
I. Kant, Kritik der praktischen Vernunft, KGS, V, pp. 46-47; Critica della ragione pratica, cit., p.
185.
31
Ivi, KGS, V, p. 43; ivi, pp. 181-182.
32
Scrive, in maniera suggestiva, a tal riguardo Jean-Luc Nancy che «la libertà […] non è
l’autoposizione del Soggetto, non è più neppure il libero arbitrio del soggetto individuale. Essa
concerne ciò che nell’individuo non è dell’individuo. E ciò che non è dell’individuo – ma neanche
del “collettivo” in quanto tale – è la possibilità di essere “allocuto” dall’altro, a partire dall’alterità
dell’altro […], è la possibilità di essere interpellato» (J.-L. Nancy, L’impératif categorique,
Flammarion, Paris 1983; tr. it. di F. F. Palese, L’imperativo categorico, Besa, Nardò 2007, p. 41).

130
Autonomia come relazione

legge, prenda a modello la natura, pensata come un regno. “Regno” designa una
molteplicità in connessione sistematica, nella quale ogni parte è un membro della
relazione, che influisce su tutti quanti gli altri essendone a sua volta influenzato.33
Il concetto di regno dipende dalla terza categoria della relazione, quella del-
la Gemeinschaft, che rappresenta un’unità non più solo distributiva, logica, ma
collettiva, reale: non, insomma, una semplice communio, ma una communitas.
Leggiamo a tal proposito due diverse Reflexionen kantiane sulla metafisica:

La totalità [omnitudo] è […] o distributiva. Universalità. O collettiva. Universitas.34


[…] [La totalità] distributiva è logica. Ogni cosa [ein jedes]. [Totalità] collettiva: rea-
le. Tutto insieme. Ogni corpo è mobile; non: tutti insieme sono mobili. Ogni cambia-
mento ha una fine; non: tutti insieme [hanno] una fine35.

La completudo logica è universalitas; quella realis è universitas; allo stesso modo la


communitas e la communio.36

L’invito che viene dalla legge morale è quello alla costruzione di una commu-
nitas o Gemeinschaft, i cui componenti non siano soltanto esponenti di una unità
distributiva, ma anche membri di una unità collettiva. La Gemeinschaft tra esseri
liberi, il regno dei fini, è, pertanto, il luogo della loro concreta correlazione, non
solo morale, quale «totalità di tutti i fini […] in una connessione sistematica»,37
dove l’esser sempre insieme fine in sé dell’essere razionale costituisce quanto
meno il limite negativo dell’utilizzo come semplice mezzo di qualsiasi membro
della comunità.38 Sviluppare il potenziale critico della filosofia kantiana vuol
dire dunque andare a cercare le zone di intersezione e di apertura tra soggetto
e mondo, se soggettività significa prima di tutto relazione ad un altro,39 sicché

33
Cfr. I. Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, KGS, IV, p. 433; Fondazione della
metafisica dei costumi, cit., p. 101. Per comprendere l’orizzonte teorico di riferimento di questa
idea di una “connessione sistematica del molteplice” vanno senz’altro tenuti presenti ulteriori
testi. Nell’impossibilità di segnalarli tutti (si tratta, infatti, di un problema cruciale dell’intera
speculazione kantiana), mi limito ad indicare, nella prima Critica, la sezione relativa alla terza
analogia dell’esperienza (KGS, III, pp. 180-185; Critica della ragione pura, cit., pp. 282-288) e
l’Appendice alla dialettica trascendentale (KGS, III, pp. 426-461; Critica della ragione pura, cit.,
pp. 657-705), e, nella terza Critica, alcune parti dell’Introduzione (KGS, V, pp. 179-186 e 192-194;
Critica del Giudizio, cit., pp. 27-43 e 55-61) e l’intera Critica del Giudizio teleologico (KGS, V, pp.
359-485; Critica del Giudizio, cit., pp. 399-663).
34
Lascio in questo caso non tradotto il termine latino (lingua in cui questa parte della Reflexion
4149 è scritta), poiché, probabilmente, il modo migliore per tradurla sarebbe di nuovo ‘totalità’.
35
I. Kant, Reflexion 4149, KGS, XVII, p. 434 [Traduzione mia].
36
I. Kant, Reflexion 4714, KGS, XVII, p. 684 [Traduzione mia].
37
I. Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, KGS, IV, p. 433; Fondazione della metafisica
dei costumi, cit., p. 101. Su tali questioni rimando a A. Pirni, Il “regno dei fini” in Kant. Morale,
religione, politica in collegamento sistematico, Il Melangolo, Genova 2000 e Idem, Kant filosofo
della comunità, ETS, Pisa 2006.
38
Cfr. I. Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, KGS, IV, p. 433; Fondazione della metafisica
dei costumi, cit., p. 101.
39
Quanto detto può, forse, mitigare l’idea di Hannah Arendt per la quale la morale kantiana assume

131
Shift. International Journal of Philosophical Studies

portare a maturazione certe premesse che si trovano nella filosofia kantiana può
condurre al pensiero che ad essere-un-sé si perviene nel rapporto con i pensieri
di altri esseri razionali e con la libertà di altri esseri morali: «All’egoismo non si
può opporre che il pluralismo, ossia quel modo di pensare che consiste nel non
ricondurre tutto il mondo a noi stessi, ma nel considerarci e comportarci come
semplici cittadini del mondo».40
Questo concetto pratico-antropologico ha una sua rilevanza, anche etica, nel
farci comprendere il soggetto kantiano come una pluralità relazionale. Certo,
occorre, per questo, servirsi in maniera relativamente libera degli strumenti della
filosofia critica, praticando un approccio integrato che permetta di mettere in
comunicazione gli elementi costituenti l’intera sfera pratica grazie al raccordo tra
morale e teleologia, la quale, come forma di sistematica che si occupa del rap-
porto tra singolarità e universalità, mette a fuoco l’idea, polivoca nella sua unita-
rietà, di Gemeinschaft – naturale, sociale, morale – in cui sempre si svolge o a cui
sempre mette capo l’azione dell’uomo. L’autonomia della ragione pura pratica, il
soggetto delle proposizioni morali, può pertanto essere letta come campo di una
apertura intersoggettiva. Autonomi legislatori morali, senza che vi sia un autore
della legge, sono tutti gli esseri razionali, che in e per essa si sanno in una non
ulteriormente fondabile relazione originaria. Quando dal livello trascendentale
sulle condizioni di validità del discorso morale si acceda al più concreto piano
etico-antropologico, la legge morale si configura come forma di legame tra esseri
nei quali la ragione è sempre incorporata e ha, perciò, da sostanziarsi in una co-
munità di liberi che in tale legame si riconosca.

un senso radicalmente impolitico o comunque prepolitico, dato che, a suo giudizio, «pratico
significa per Kant morale e concerne l’individuo in quanto individuo» (H. Arendt, Lectures on
Kant’s Political Philosophy, edited by R. Beiner, Chicago University Press, 1989, p. 61; tr. it di P. P.
Portinaro, Teoria del giudizio politico, Il Melangolo, Genova 1990, p. 94).
40
I. Kant, Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, KGS, VII, p. 130; Antropologia dal punto di
vista pragmatico, cit., p. 550.

132
Il «soggetto volontario».
La finzione della vita nella riflessione di Carlo Michelstaedter
Valentina Mascia

Abstract

The essay deals with the problem of subjectivity in Carlo Michelstaedter’s phi-
losophical thought. In fact, Michelstaedter stresses that there are “ways of con-
stituting” subject that trap it into unrealistic, non-authentic forms of life. The
difference between “persuasion” and “rhetoric” is at stake. If the latter is the
world “of saying”, the former is the world “of doing”. However, the subject
prefers “to say” rather than “to do”. So it chooses to surrender to the forms of
life rather than to life itself.

Keywords: subject, subjectivity, form of life, rhetoric, persuasion

Il tratto sorprendente de La persuasione e la rettorica1 sta nel ripensamento del


soggetto tradizionale. Non è un caso che Michelstaedter, problematizzando le
posizioni filosofiche di Cartesio prima e di Hegel poi, voglia riportare l’argomen-
tazione su un piano di discussione non più soltanto teorico, ma anche e soprat-
tutto pratico.2 In tal senso, l’intuizione di Michelstaedter, secondo cui il soggetto
non è più il postulato da cui partire per la conoscenza del mondo, quanto la parte

1
C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica. Appendici critiche, a cura di S. Campailla, Adelphi,
Milano 1995.
2
Vediamo cosa Michelstaedter scrive nei suoi appunti a proposito del “cogito” cartesiano: «Cogito
ergo sum. Quae autem cogito non comprehendo – ergo non sunt; – Si autem cogito quae non sunt
non cogito. Sed non-entia co-agito [:Sed:] I will [:[…]:] understand – [:cogitabo:], cogito[:are:]
Volo ut intelligam [:quod:] Credo enim me cogitando comprehendere posse – ergo credo me esse».
[Penso quindi sono, ma quelle cose che penso non le comprendo – quindi esse non sono; ma se
penso quelle cose che non sono, non penso. Ma co-agito cose che non sono. Io comprenderò/Io
voglio comprendere, penso, voglio comprendere. Credo infatti di poter comprendere pensando
– quindi credo di essere]. Cfr. C. Michelstaedter, Parmenide ed Eraclito. Empedocle, a cura di A.
Cariolato, E. Fongaro, SE, Milano 2003, p. 20.
Invece, per quanto riguarda Hegel, è nel III capitolo, “La rettorica nella vita” che Michelstaedter,
soprattutto per ciò che concerne la logica servo-padrone, approfondisce la questione
dell’assoggettamento. Cfr. Id., La persuasione e la rettorica. Appendici critiche, cit., pp. 92-100. Cfr.
anche F. Rizzo, Carlo Michelstaedter lettore di Hegel, in «Filosofia e società», I, 1976, pp. 65-103.

Shift. International Journal of Philosophical Studies 1/2017


Shift. International Journal of Philosophical Studies

“critica” di quella conoscenza, gli dà la possibilità non solo di rivoluzionare il


pensiero filosofico classico, ma anche di poter pensare la dimensione “vitale” del
soggetto.
Prima di addentrarci all’interno della questione, è tuttavia opportuno capire
in che modo e perché Michelstaedter si sofferma a pensare la vita e, dunque, il
soggetto. Se volessimo fare una breve ricostruzione storica, potremmo senz’altro
affermare che le sue prime considerazioni non nascono soltanto dalla sua opera
filosofica, ma ben prima, e precisamente tra il 1905, quando, ancora studente
liceale, scrive la poesia Alba. Il canto del gallo,3 e il 1908, quando, a causa di un
suo proprio disagio esistenziale, entra in conflitto sia con la famiglia,4 che cerca
di tenerlo vicino a una moralità borghese e, perciò, lontano dalle mode sregolate
del tempo, sia con l’Accademia,5 che non è pronta a fare i conti con una filosofia
non dogmatica e non sistematica. Ed è proprio da tali conflitti che nel giovane
goriziano nascono spunti di riflessione, volti a capire dove sta l’errore nell’espe-
rienza vitale del soggetto. Forse, ma non solo, l’errore sta nella continua scissione
tra vita teorica e vita pratica (come scriverà anche ne La persuasione e la rettorica)
– e perciò nella divisione costante tra “idea” e “vita”; “ragione” e “sensazione”;
“apparire” e “essere”. Queste dicotomie, tipiche della cultura moderna e bor-
ghese, sono, come vedremo, l’emblema della retorica. Perciò l’elaborazione della

3
Salve, o vita! Dal cielo illuminato / dai primi raggi del sorgente sole / all’azzurra campagna!
/ Salve, o vita! Potenza misteriosa / fiume selvaggio, poderoso eterno / ragione e forza a tutto
l’universo / salve o superba! / Te nel silenzio gravido di suoni / te nel piano profondo o palpitante
/ cui nuovi germi agitano il seno/ te nel canto lontano degli uccelli / nel frusciar delle nascenti
piante; / te nell’astro che sorge trionfante / ed in fra muti sconsolati avelli / sento vibrare / E ribollir
ti sento nel mio sangue / mentre il sole m’illumina la faccia / e dalle labbra mi prorompe il grido:
/ viva la vita! Cfr. C. Michelstaedter, Poesie, a cura di S. Campailla, Adelphi, Milano 20057, p. 38.
4
Interessante è ciò che Rico dice a Nino ne Il dialogo della salute: «e tu te ne vai – aggrondato
– sinistro – e mediti in cuor tuo vendetta per la tua dignità vilipesa – e maledici la rozzezza dei
costumi – e la troppa libertà concessa – maledici gli usi della tua famiglia – la tua famiglia […] Tu
maledici la tua famiglia – la famiglia – la necessità del nascimento – la vita – il mondo – la vanità
delle cose». Cfr. Id., Il dialogo della salute, a cura di G. Brianese, Mimesis, Milano 2009, pp. 171-
172.
5
Se io levo i miei due compagni, Firenze non è niente per me. […] Nei momenti che sento un
po’ di entusiasmo nel lavoro arido, mi par di lottare per la vita e per il sole contro quell’aridità
e quell’oscurità della filosofia universitaria, di lottare per il sole e per l’aria, e per i sassi puri del
Valentin – d’essere un falco, che manda via le cornacchie dalla cima del monte. È vero che lavoro
per una rovina e che tanto le cornacchie alla cima non arrivano, e che continueranno sempre a
chiamar cima quella pianura sudicia dove stanno, che continueranno sempre a mangiar cadaveri
– a trar la vita dalla morte – e che non c’è forza al mondo che possa tirarle da quell’illusione – che
resteranno sempre cornacchie. Cfr. Id., Epistolario, a cura di S. Campailla, Adelphi, Milano 20102,
pp. 374-375 [lettera n. 149]. Come osserva Fabrizio Meroi: «questa delle “cornacchie” e del “falco”
è dunque una metafora che allude, da un lato, a coloro che sono irrimediabilmente immersi in una
condizione di vita inautentica; dall’altro, invece, a colui che riesce a innalzarsi e a sperimentare
inaudite forme di autenticità. Ed è una metafora che, pur non risultando forse particolarmente
originale, ottiene in ogni caso in maniera piuttosto efficace lo scopo che si prefigge. Ma – ed è
questo l’aspetto importante – si tratta di una metafora che deriva direttamente dal vissuto». Cfr.
F. Meroi, Persuasione ed esistenza. Filosofia e vita in Carlo Michelstaedter, Edizioni di Storia e
Letteratura, Roma 2012, pp. 12-13.

134
Il «soggetto volontario»

persuasione6 costituisce non solo un viatico per evitare la postura retorica, ma


anche una “via”, un “modo”, che possa liberare il soggetto e far sì che esso possa
“agire” il suo proprio “pensato”. Purtroppo però l’operazione di Michelstaedter
si rivela più complessa di quanto egli stesso non abbia temuto:

Miei carissimi,
[…] mi sa fatica – e non ora soltanto – applicarmi allo studio pratico. Quando mi son
formato un complesso d’idee sopra una cosa qualunque mi par d’aver fatto tutto, e la
mente si rifiuta di applicarlo alla realtà in unione alla quale soltanto esso complesso ha
vita, e ragion d’esistere, senza la quale è cosa morta, campata in aria, inutile, incomuni-
cabile. E mi succede sempre così. Ti ricordi papà quel dopopranzo che ti parlavo della
mia idea d’una tragedia? Tu mi dicesti: «questo non è un dramma, è filosofia pura».
Avevi tutte le ragioni. Ma io non riescivo a far sentire questa idea attraverso la vita,
attraverso un insieme di avvenimenti, farla vibrare in caratteri reali, veri, farla balzare
naturalmente davanti agli occhi di un pubblico, che vi dovrebbe pervenire attraverso
la comprensione di un fatto tratto dalla vita. Perciò quell’idea come tante altre resta
inutile, incomunicabile dentro di me. – Però non creder papà che io mi compiaccia di
constatar questa condizione di cose, e che mi adagi in questa inerzia. Troppe cose mi
legano alla vita, troppo forte mi suona dentro la voce della gioventù, il bisogno della
comunicativa, dell’espansione, per poter vivere d’una vita puramente contemplativa.7

La fatica della pratica, ma la sua doverosità – senza la quale, dice Michelsta-


edter, la “cosa” (cioè la vita) è morta, inutile, campata in aria, incomunicabile. A
cosa serve il “dire” se non segue il “fare”? Il dire, senza fare, è destinato a divenir
“detto” perché si adatta all’inerzia, alla corrente già conosciuta (in quanto per-
corsa da altri), ordinaria e sempre protetta dagli imprevisti. Il “fare”, invece, mai
potrà canalizzarsi in “fatto” perché nel far agire la “cosa” c’è un’espansione che
non potrà mai essere uguale alle altre – e neppure uguale a se stessa. Se il “dire” è
la linea teorica, contemplativa, chiusa in sé, il “fare” è un punto attraverso il qua-
le passano infinite azioni, sempre aperte.8 Ma come poter rendere concreto tutto

6
«La parola chiave, la nozione fondamentale intorno a cui si articola il pensiero di Carlo
Michelstaedter è persuasione. Ma cosa vuol dire persuasione e persuadere nella sua opera? Il
significato corrente di tali parole ci porta fuori strada. Per Michelstaedter non si tratta affatto di
indurre qualcuno a fare o a credere alcunché [...] Persuadere, convincere si dice in greco peitho.
Ora in origine la radice peith- era solo intransitiva: non valeva dire “convincere qualcuno”, ma
avere fiducia, fidarsi. [...] La prima accezione di persuasione è dunque fiducia. Essere persuaso
vuol dire dunque avere una grande fiducia, essere e permanere in uno stato di tranquillità, di
sicurezza. La parola e l’esperienza che ad essa corrisponde sono sviluppate nell’ebraismo [...] la
radice ebraica bth, che è frequentemente usata nei libri sapienziali dell’Antico Testamento per
indicare la disposizione d’animo del giusto, che “sarà come un albero piantato lungo corsi d’acqua:
darà frutto a suo tempo, le sue foglie non cadranno mai e riusciranno tutte le sue opere” (Sal. 1,3)».
Cfr. M. Perniola, La conquista del presente, in «MondOperaio. Rivista mensile del Partito socialista
italiano», 40, n. 4, 1987.
7
C. Michelstaedter, Epistolario, cit., pp. 180-181, [lettera n. 56].
8
È interessante l’osservazione di Rosalia Peluso che, a tal proposito, scrive: «L’autocreazione del
persuaso, che è insieme creazione del suo mondo dopo che egli ha fatto appunto deserto intorno
a sé, un deserto dei “sensi convenzionali” che prelude alla nascita del “senso”, è il suo “fare” e il

135
Shift. International Journal of Philosophical Studies

ciò, nella vita quotidiana, dove si ha a che fare necessariamente con la retorica?
Il frammento che segue è rivelativo della preoccupazione e della reale sofferenza
di Michelstaedter:

Tu non sai quanto sia lo strazio di sentire in sé quelle cause motrici che si disprezzano
negli altri; quale la rabbia di sentirsi spinto da queste verso quelle cose che l’intelletto
fieramente sdegna. Tu non hai mai provato il disprezzo di sé medesimi, della nausea
per questo fango che ci circonda, e forma l’essenza di noi stessi. Tu non hai mai sentito
il prepotente desiderio di fuggire il proprio ‘io’ giudice crudele, feroce…
Il mio ideale sarebbe di liberarmi da me, di cessare questo orrendo sdoppiamento che
mi farà impazzire. Solo nel sonno ho pace… ma non ne godo perché appunto non ne
ho coscienza…9

Le “cause motrici”: le cause dell’essere in linea con gli altri. Vivere nel “detto”:
vivere secondo il piacere e il desiderio dell’altro. È questo l’elemento che determi-
na in Michelstaedter il più acuto dei turbamenti: disprezzo e nausea, nonché desi-
derio di fuggire da se stesso, da un “io morale” crudele e feroce. Fuggire, dunque,
nel punto pratico del “fare”, per poter “consistere” e “permanere” nella persuasio-
ne. Ma come liberarsi dall’Autorità? Come fare per essere “potenza” nell’“atto”?
Essere, cioè, ciò che si è senza il bisogno (il peso) di essere altro ancora?
Se, come abbiamo detto, l’obiettivo di Michelstaedter è fare in modo che il
soggetto si spinga verso il fuori (anabasi) per liberarsi dalle maglie retoriche, è
anche vero che quello stesso soggetto deve entrare in contatto coi suoi propri li-
miti – il primo dei quali sembra essere il linguaggio. Infatti sta proprio nell’espe-
rienza linguistica il punto originario dell’Autorità retorica, ed è da lì che bisogna
partire per decostruire i “modi formali di costituzione del Soggetto”. Ecco, allo-
ra, qual è il senso delle sei “Appendici critiche” scritte alla fine de La persuasione
e la rettorica.
La prima – quella su cui focalizzerò la mia attenzione – è, non a caso, intitolata
Ai modi della significazione sufficiente – a quei modi, cioè, dove il soggetto viene
definito “sufficiente” in quanto non è in grado di creare concetti, perché si limita
a imitare e a riproporre quelli già esistenti.

Ogni parola detta è la voce della sufficienza: – quando uno parla, afferma la propria
individualità illusoria come assoluta. I limiti della potenza di chi parla sono i limiti
della realtà; questa non è data come realtà che è per chi parla in quanto egli lo voglia,
ma come assoluta reale. L’infinito d’ogni attualità è dato per finito, ogni concetto arbi-
trariamente chiuso. Poiché il soggetto in ciò che parla si finge Soggetto assoluto. Ogni
cosa detta ha un Soggetto che si finge assoluto.10

suo “agire”». Cfr. R. Peluso, Michelstaedter al futuro, La scuola di Pitagora, Napoli 2012, p. 41.
9
C. Michelstaedter, Sfugge la vita. Taccuini e appunti, a cura di A. Michelis, Aragno, Torino
2004, p. 25.
10
Id., La persuasione e la rettorica. Appendici critiche, cit., p. 135.

136
Il «soggetto volontario»

Fingersi assoluto. È questo il cavillo che sta, più di tutti, all’origine del proble-
ma – ed è su questo che Michelstaedter cercherà di insistere per liberare il sog-
getto da se stesso, dalla sua propria finzione, della sua propria vanità, per far sì
che si riappropri dell’esperienza vitale, quella autentica: persuasa, appunto. Nel
frammento poc’anzi citato si capisce bene la portata ingombrante del Soggetto
assoluto – di colui che necessita di una chiusura nel reale, per fingersi e illudersi
di una potenza che, di fatto, non ha. E non può avercela perché restando chiuso
nei contorni e/o limiti linguistici di significato definiti, lascia “fuori” qualsiasi
cosa che non rispecchi e rifletta il “dentro”.11 Ma un ulteriore aspetto affligge
molto Michelstaedter: il riflesso che il soggetto assoluto rimanda ai tanti soggetti.
Questo è ancora più preoccupante perché la potenza del Soggetto assoluto sta,
paradossalmente, nella forza retorica dei soggetti relativi – di coloro che, senza
neppure rendersene conto, non fanno che accrescere la potenza del Soggetto
assoluto proprio attraverso quei “modi di significato” ormai acquisiti dal consen-
so fiducioso dei tanti. La fiducia che gli uomini (i soggetti relativi) nutrono per
la “sufficienza” non stupisce affatto Michelstaedter; il motivo per cui l’uomo è
posto continuamente sul piano del mero deficere è dovuto proprio a quel suo pe-
renne accontentarsi degli altrui significati.12 E cioè: se l’uomo retorico è il primo
a vivere nel limite e ad accettarlo, trascurando la sua propria potenza, come po-
trebbe interrogarsi sul limite della parola – che, in fondo, è per lui nient’altro che
un “detto”? Da qui, esattamente da qui, Michelstaedter pensa ai modi della “si-
gnificazione sufficiente” che sono: il modo diretto, il modo congiunto e il modo
correlativo. Poi c’è l’imperativo che, come dice Michelstaedter, non è un modo,
ma è azione – quel “fare” nuovo e creativo che eccede la sufficienza. Ma vedia-
mo, con ordine, quali sono questi “modi formali” entro cui dimora il Soggetto.
Nel “modo diretto” – dice Michelstaedter – «il Soggetto si finge indipendente
dal tempo».13 Fingersi indipendenti dal tempo equivale a non tener conto dell’e-
voluzione e del divenire naturale delle cose; ecco perché il Soggetto colloca spa-
zialmente l’oggetto e gli altri soggetti a seconda delle connotazioni da Esso pre-
stabilite. La relazione “tra” cose/persone assume una struttura rigida, tanto da
stabilire puntualmente, senza mutazioni, che «questa cosa è qui, quell’altra è lì».
Nel “modo congiunto”, invece, non vi è coscienza di sé e dell’altro nel divenire
temporale, ma solo un ri-conoscimento di se stessi in quella struttura immutabile.

11
«Il sistema dei nomi tappezza di specchi la stanza della miseria individuale, pei quali mille
volte e sempre avanti infinitamente la stessa luce delle stesse cose in infiniti modi è riflessa».
Ivi, p. 60.
12
A tal proposito, Michelstaedter, citando Hegel, Buckle, Comte, Villari, Vico, Voltaire e Condillac,
scrive: «1°. La finalità metafisica dell’individuo è attribuita – al “grande individuo” che diviene
dall’adattamento degli indiv.[IDUI] singoli. – Mentre viceversa questi indiv.[IDUI] in quanto
s’adatt.[ANO] negano la propria finalità metafisica. Quindi storia = fenomenologia dello spirito
assoluto; le leggi dello spirito assoluto sono leggi storiche: filosofia della storia. – Hegel»; […] «3°.
Fede di poter trovare nei fenomeni in generale leggi dello sviluppo dell’indiv.[IDUO] grande, e in
questo sviluppo le leggi morali dell’indiv.[IDUO] singolo. (Comte, Villari)». Cfr. Id., Sfugge la vita.
Taccuini e appunti, cit., pp. 152-153.
13
Id., La persuasione e la rettorica. Appendici critiche, cit., p. 136.

137
Shift. International Journal of Philosophical Studies

Così «il Soggetto si riferisce a fatti che sono fuori dalla sua attualità, ma dei quali
egli vive attualmente».14 Lo scarto tra dentro/fuori è netto. Il fuori accade, ma è
un accadere che non deve scomporre i soggetti confinati: se la realtà è in divenire,
l’armatura logica deve trattenere l’atto sostanziale per proteggerlo dalla potenza
trasformativa. In questo modo, l’Io si è già pietrificato nel sistema del “confina-
mento necessario”. Sicché, il Soggetto intenzionale del modo diretto si annulla
nel modo congiunto poiché in quest’ultimo modo non vi è più alcun valore de-
terminato dall’Io, «ma è solo in quanto appartenente alla realtà di quel qualun-
que elemento della realtà diretta».15 Infine, il “modo correlativo” è la relazione
di due realtà congiunte. In questo caso sembra avvenire una “doppia retorica”
poiché non solo non vi è il Soggetto che determina “la cosa” nell’intenzione, ma
addirittura si crea la “dipendenza” tra due realtà non intenzionali: 1) Egli lo farà
quando tu lo faccia […] 2) Se tu lo facessi egli lo farebbe […] 3) Se tu lo avessi
fatto, egli lo avrebbe fatto.16 Qui è facile notare come i soggetti, ormai assoggettati
alla presenza dell’Autorità retorica, vivono e operano non più nella dimensione
della poiesis, della creazione, ma nel baratro della dipendenza “vana” in cui la
schiavitù è regola. Tuttavia, c’è un “modo” per riappropriarsi del dominio creati-
vo dell’uomo: modo nominato imperativo. In verità, dice Michelstaedter, più che
un modo logico, l’imperativo è la vita stessa, in quanto è «azione intensa»; non c’è
nessuna coscienza e nessuna intenzione logica, poiché l’unica cosa che sussiste è
l’atto costante e continuo del “presente fare”.

Non è realtà intesa, ma vita; è l’intenzione che vive essa stessa attualmente, e non finge
un’attualità in ogni modo finita e sufficiente: è reale tanto quanto è reale il Soggetto,
perché appunto come questo non è finita nel presente, ma è attuale come volontà d’una
cosa. È il Soggetto qui che invade con la propria vita il regno delle proprie parole: non fa
parole, ma vive. Evviva l’imperativo.17

Il modo imperativo è, allora, il nucleo fondante della persuasione perché è


nell’imperativo che si vive la vita: non ci sono più detti, modi o motti, ma soltanto
quel puro e autentico fare. In questo caso – e solo in questo caso – la vita è salva
dalla costituzione retorica perché l’azione non dovrebbe conoscere parola: «la
parola è il fiore dell’atto».18 Ma, purtroppo, questa consapevolezza non genera
nulla se non il rammarico in Michelstaedter che gli uomini, in fondo, fanno della
parola il più grande dei piaceri. E questo significa philopsychia, perché «la parola
non è atto che in chi cerca l’atto, ma gli uomini si fingono nelle parole assoluto
questo atto e di parole nutrono la noia della loro vita, mettono un empiastro sul
loro dolore. Altri del cercar le parole si fingono l’attività. Poiché non hanno che

14
Ivi, p. 138.
15
Ivi, p. 140.
16
Ivi, p. 141.
17
Ivi, pp. 141-142.
18
Id., Opere, a cura di G. Chiavacci, Sansoni, Firenze 1958, p. 725.

138
Il «soggetto volontario»

dare gli uomini s’adagiano in parole che lo fingano».19 L’operazione di Michelsta-


edter, una volta capito il “modo” per potersi liberare dalle gabbie della rettorica,
sembra terminata. Ma non è affatto così. C’è un punto di stallo che Michelsta-
edter ancora non riesce a comprendere fino in fondo – ed è quello relativo alla
paura e al terrore che il soggetto ha di stare da solo con se stesso. Il soggetto,
insomma, non potrà mai essere persuaso se non si svincola dal suo “voler essere
soggetto”. Il problema, allora, sta nell’eccessivo utilizzo dell’intelligere;20 nell’ec-
cessivo bisogno che il soggetto ha delle “Assicurazioni”; nell’eccessiva necessità
che egli ha dell’alter. Ma questa eccedenza di “intelligenza”, di “bisogno” e di
“necessità” è, paradossalmente, la più buia delle prigioni e la più grande delle
sufficienze perché “da solo” il soggetto si sente niente.

Gli uomini […] si sentono mancare nella solitudine: la voce del dolore è troppo forte.
Essi non sanno più sopportarla con tutta la loro persona. Guardano dietro a sé, guar-
dano intorno a sé, e chiedono una benda agli occhi, chiedono di essere per qualcuno,
per qualche cosa […]. Di essere per qualcuno e per qualche cosa persona sufficiente
con la loro qualunque attività, perché la relazione si possa ripetere nel futuro; perché
il correlato sia per loro sicuro nel futuro.21

La critica al soggetto è allora radicale. Non si tratta, in definitiva, di salvare


il soggetto, reduce e vittima di una sovranità molesta, perché è esso stesso a
piegarsi, a volersi piegare, alle forme dell’assoggettamento.22 Il soggetto, insom-
ma, si finge libero, ma invece è imbrigliato in un perverso gioco meccanico, in
cui, esattamente come nell’inorganico, domina la “correlazione valente” e non
l’esperienza vitale. E cioè: nell’ingranaggio del sistema bio-chimico, spiega Mi-
chelstaedter, vi è una relazione di causa ed effetto, per cui la parte, per esistere,
deve aderire perfettamente all’intero organico. Tale “meccanica obbligata”, che
Michelstaedter chiama «correlazione», porta a un’impossibilità di scissione e di
separazione tra i vari elementi. In ambito chimico, infatti, l’idrogeno, per dar
vita all’acido cloridrico, vive in funzione del cloro e viceversa. Sicché la singola
particella ha la sua ragion d’esistere solo nell’unione, poiché è nel “-co” della
«correlazione» che trova la sua valenza vitale. Ma questo se vale per l’inorganico,
non vale per l’uomo perché, in quest’ultimo caso, vi è una reductio ab absurdum:

19
Id., La persuasione e la rettorica. Appendici critiche, cit., p. 59.
20
È questo il senso da attribuire alla frase rinvenuta in un foglio di taccuino, dove Michelstaedter, in
preda a lampi sanguigni, scrive: «salvami, salvami dall’intelligere». Cfr. Id., Sfugge la vita. Taccuini
e appunti, cit., p. 7.
21
Ivi, p. 53 [corsivo mio].
22
Si sente, qui, l’eco di Étienne De La Boétie, e del suo Discours de la servitude volontaire – che,
benché scritto nel XVI secolo, è ancora attualissimo. Cfr. É. De La Boétie Discorso della servitù
volontaria, a cura di E. Donaggio, Feltrinelli, Milano 2014. È interessante anche l’intervista a Miguel
Benasayag, dal titolo Resistere in un’epoca oscura, dove afferma: «Gli uomini, in realtà, amano
teneramente le proprie catene e vi si avvinghiano come se ne andasse della loro libertà: esiste una
forma di servitù volontaria. Che coraggio! È un illuminismo nero. Altri pensatori dissidenti, come
Spinoza o Leibniz, riprenderanno in seguito l’idea». Cfr. ivi, p. 72.

139
Shift. International Journal of Philosophical Studies

la correlazione non sarebbe più “vitale”, bensì “mortale”. Così la sicurezza e il


codice di leggi messi in atto dalla società civile, non fa che sorvegliare il sogget-
to, riducendolo a mero nulla perché «nella società organizzata ognuno violenta
l’altro attraverso l’onnipotenza dell’organizzazione, ognuno è materia e forma,
schiavo e padrone ad un tempo per ciò che la comune convenienza a tutti comu-
ni diritti conceda ed imponga comuni doveri. L’organizzazione è onnipotente ed
è incorruttibile poiché consiste per la deficienza del singolo e per la sua paura».23
Ed è per questo che, senza mai abbandonare del tutto le conoscenze geometri-
co-matematiche, Michelstaedter, nel pensare il soggetto, l’uomo retorico insom-
ma, non può che esprimere una legge matematica: (lim c1 y=0) – che ben si lega
alla geometria del cerchio: «per le vie consuete gli uomini vanno in un cerchio che
non ha principio e non ha fine; vanno, vengono, gareggiano, s’accalcano affac-
cendati come le formiche – forse anche si scambiano l’uno con l’altro – certo, per
camminare che facciano, sono sempre là dov’erano, ché un posto vale l’altro nella
valle senza uscita».24 E la valle senza uscita è anche quella «pianura sudicia» dove
si accalcano le cornacchie, o quella «nebbia» descritta da Rico ne Il dialogo della
salute. Ma, di contro, c’è la montagna, l’altezza, il San Valentin, dove vi è il domi-
nio25 incontrastato non più del soggetto retorico, ma dell’individuo persuaso: di
colui che si distacca dalla massa, dal lamento, dalla “processione di ombre”,26 per
spiccare il volo27 in solitudine. È da soli, infatti, che si è realmente liberi; realmente
in grado di poter essere l’una e l’altra cosa: l’essere e il divenire, come la crisalide,28
che “è” e che “diviene” nella costanza tensiva del flusso vitale. Un flusso vitale
iperbolico,29 dove l’uomo, per essere salvo dalla costituzione retorica, deve abban-
donare la moltitudine e lo spazio protetto per aprirsi a un territorio indifeso, fra-
gile e pericoloso come quello dei bambini, non ancora, fortunatamente, soggetti.30

23
C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica. Appendici critiche, cit., p. 152.
24
Ivi, p. 36.
25
Giorgio Brianese afferma: «la logica che sottende tutto il pensiero di Michelstaedter […] è quella
della volontà di dominio: rettorica e persuasione sono nei fatti entrambe figure interne alla logica
del dominio […]. Con questa differenza: che la rettorica è quella volontà che non sa conseguire
quello che vuole, la persuasione il tentativo di mettere in atto il massimo del dominio concreto.
[…] L’atto del persuaso è l’atto con il quale egli vuole il dominio più vasto, il dominio della totalità».
Cfr. G. Brianese, L’essere, il nulla, la volontà di dominio, in C. Michelstaedter, Dialogo della salute
e altri scritti sul senso dell’esistenza, cit., p. 108.
26
Processioni di ombre è il titolo di un disegno a lapis di Carlo Michelstaedter, conservato presso il
Fondo Carlo Michelstaedter della Biblioteca Statale Isontina di Gorizia; [collocazione: FCM IV A].
27
Mi permetto di rinviare a V. Mascia, Come una cometa. Saggio su Carlo Michelstaedter, Le Lettere,
Firenze 2016.
28
Cfr. Il canto della crisalide, in C. Michelstaedter, Poesie, cit., pp. 54-55.
29
L’iperbole è un’altra figura geometrica, oltre al cerchio, che ricorre nell’opera michelstaedteriana.
Attraverso l’uso della metafora dell’iperbole, Michelstaedter concettualizza il significato di “vivere
con/nella persuasione”. Cfr. C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica. Appendici critiche, op. cit.
30
Michelstaedter è particolarmente legato alla figura del bambino, poiché esso, a differenza
dell’adulto, riesce a essere realmente e autenticamente persuaso. Non a caso, il Nostro autore,
indirizza un’aperta critica al mondo adulto che, sotto l’apparenza dell’affetto, contamina la purezza
infantile con la vanità rettorica. Cfr. Ivi, pp. 129-131.

140
Il soggetto e l’organico.
Teoria critica e scienze della vita a partire da Th. W. Adorno
Luca Scafoglio

Abstract

My article deals with the contribute of Frankfurt critical theory to the philoso-
phical consideration of some topics from the sciences of life. It proceeds in four
steps. First, it presents Theodor Adorno’s thesis that modern biology, from Dar-
win to Mendel, becomes the organon of a new ontology of life, the latter concei-
ved as survival. Second, I stress the social-historical relevance of darwinism from
the Frankfurt perspective, while examining the notion of “economy of nature”.
Third, I discuss the natural-historical relevance of darwinism, faced with Benja-
min’s and Adorno’s pattern of Naturgeschichte. Finally, the man-life connection
is discussed, in terms of the tragedy of life beings – its common dependence on
caducity and suffering.

Keywords: Adorno, Darwin, Naturgeschichte, economy of nature, struggle for


existence

1. Biologia e destino

Nel corso del 1941, Theodor Adorno redige alcune note su quella che chiama
«nuova antropologia», la teoria del «tipo umano» che viene formandosi al tempo
delle concentrazioni monopolistiche e del capitalismo di Stato.1 L’autore ne indi-
vidua tanto l’irruzione improvvisa indotta dalla crisi – per la Germania, ai tempi
dell’inflazione tedesca –, quanto la lenta genesi, le cui esperienze prototipiche
risalgono all’epoca bismarckiana e guglielmina. Tra queste, compare la ristruttu-
razione del rapporto con la realtà naturale, in forza della quale la nozione stessa
di “natura” muta di senso. Ne è ora contenuto non più il diritto innato di ogni
essere, quanto la costrizione [Zwang] e la violenza [Gewalt] che ognuno subisce,
non l’aspirazione del creato alla felicità e alla vita, ma il suo essere racchiuso en-

1
Th. W. Adorno, Notizen zur neuen Anthropologie (1941), in «Frankfurter Adorno Blätter»,
8/2003, pp. 69-82, qui p. 69; tr. it., Appunti per la nuova antropologia, in Th. W. Adorno, La crisi
dell’individuo, a cura di I. Testa, Diabasis, Reggio Emilia 2010, pp. 66-82, qui p. 66.

Shift. International Journal of Philosophical Studies 1/2017


Shift. International Journal of Philosophical Studies

tro una connessione alla quale non è dato sottrarsi. Di contro alla “vecchia” rap-
presentazione della natura, le cui categorie sono ancora impregnate di elementi
giusnaturalistici, nonché di preoccupazioni morali e persino teologiche, «il cano-
ne di questo concetto di natura è la biologia; la quale – continua – non insegna al-
tro se non l’assenza di ogni via di uscita [Ausweglosigkeit]».2 La legge di Mendel,
le dottrine darwiniane della selezione naturale, della lotta per l’esistenza e della
sopravvivenza del più adatto divengono i pilastri di una vera e propria «ontolo-
gia, che abbatte Dio per vincolare in modo tanto più cieco l’uomo al destino».3
Certo, come il successivo riferimento al “monismo” attesta, Adorno si riferisce
qui innanzitutto alla dilatazione e popolarizzazione, cui le teorie darwiniane van-
no incontro con Haeckel, cui si deve la traduzione, nel cuore del Kulturkampf,
del darwinismo – in verità di una sintesi darwiniano-lamarckiana – nel program-
ma di educazione nazionale della borghesia tedesca.4 Insomma, in gioco sarebbe
la ricaduta ideologica del darwinismo. È la rappresentazione di un «cosmo», di
«un ordine naturale delle cose», «totale», cui «si può solo obbedienza»,5 che
elimina tutto ciò che va al di là della riproduzione del meramente esistente. Con
ciò, la natura, già «svuotata di ogni illusione», disincantata, è dilatata a grandezza
cosmico-ontologica, e come tale si fa modello della condotta e norma dell’umano
– in un certo senso torna a farsi grandezza mitica, e il processo sociale, culmi-
nante con la pratica del nazionalsocialismo, avrà cura di livellarvi l’uomo stesso.
D’altro canto, qui non sembra volersi mettere al riparo la disciplina, né fis-
sare un confine rigido tra scienza e ideologia – se non altro perché la capacità
di persuasione di quest’ultima pare discendere direttamente dalla forza con-
cettuale della prima – insomma, se di una precisa ontologia della vita si tratta,
si dovrebbe parlare piuttosto dell’eco, o della potenza ontologica della stessa
teoria darwiniana.6 Adorno lo esplicita quando rileva come il concetto di natu-
ra al fondo di una simile visione complessiva del mondo si riveli già in Darwin
una «forma di riflesso sociale» [gesellschaftliche Reflexionsform], «estraniatasi
però dalla società stessa»:7 una rappresentazione nella quale gli uomini non si
sono più riconosciuti, per poi riappropriarsene in modo tanto più ostinato. Si
abbozza qui un duplice movimento, col quale la realtà sociale è prima “estra-
polata” dal sociale stesso, trasposta nella natura organica, la quale poi è nuo-
vamente generalizzata e riproiettata, quale chiave interpretativa e normativa,
sull’esistenza dell’uomo – col primo movimento che rifluirebbe in scienza, il

2
Ivi, p. 77; tr. it. cit., p. 76.
3
Ibid.; tr. it. cit., p. 76.
4
Cfr. E. Haeckel, Der Monismus als Band zwischen Religion und Wissenschaft, Emil Strauss, Bonn
1892.
5
Th. W. Adorno, Notizen zur neuen Anthropologie, cit., pp. 77-79; tr. it. cit., pp. 76-79.
6
Sull’ontologia della vita quale orizzonte comune a biologia e vitalismo, scienza e metafisica, cfr.
D. Tarizzo, La vita, un’invenzione recente, Laterza, Roma-Bari 2010, in particolare, sulla teoria di
Darwin quale «dramma metafisico», pp. 110 sgg.
7
Th. W. Adorno, Notizen zur neuen Anthropologie, cit., p. 78; tr. it. cit., p. 77.

142
Il soggetto e l’organico

secondo in Weltanschauung e senso comune. L’ontologia naturale restituirebbe


in verità una ontologia sociale.
Al centro di tale intersezione e sovrapposizione, alla nozione di “natura” su-
bentra quella di “vita”, restituita come «sopravvivenza» o sussistenza: «In un
certo senso, la biologia ha elevato la legge ferrea del salario a ontologia».8 Darwin
compare qui tra Malthus e Lassalle: è la legge del salario di sussistenza – propor-
zione “nuda” di livello salariale e incremento demografico –, e lungo tale diret-
trice procede la naturalizzazione del processo sociale.9
A tale duplice trasposizione categoriale tra saperi della società e saperi della
vita, Adorno ha fatto cenno più volte – nel saggio Società, poi in Dialettica nega-
tiva.10 Forse però nel modo più chiaro nelle lezioni Zur Lehre von der Geschichte
und von der Freiheit, del 1964-65. Al centro dell’attenzione è la nozione di adat-
tamento. L’ideale della Anpassung, il «doversi piegare» [sich fügen müssen], trova
la sua formulazione originaria all’interno dell’economia di mercato, nella relazio-
ne di offerta e domanda – innanzitutto, in quella tra offerta di lavoro e doman-
da di lavoro, dunque di lavoro e capitale, in quanto adattamento (coattivo) del
primo al secondo. Da qui poi, con la biologia darwinistica, esso «è stato proiet-
tato sulla natura stessa». Ora, «dopo essere stato naturalizzato nel darwinismo, è
ritrasportato all’interno di quella stessa società, dal quale era provenuto».11

2. Oeconomia naturae

Nel toccare i temi della biologia evoluzionistica, le note adorniane rimanda-


no, secondo una peculiarità di accento e declinazione, a due distinte aree pro-
blematiche: connesse come sono con i passaggi sopra fissati – rispettivamente
dal sociale al naturale e dal naturale al sociale –, la loro discussione si dispiega
all’interno e all’esterno del darwinismo scientifico, accompagna sin da principio
l’avanzamento della disciplina, nella sua rifrazione nella cultura e in particolare
nel discorso sociale e politico.
L’una riguarda il rapporto tra la concorrenza come lotta sociale e la lotta na-
turale. L’affinità tra le due è notoriamente registrata e discussa dagli stessi con-
temporanei di Darwin. La sua formulazione canonica – nonché verosimilmente

8
Ivi, p. 77; tr. it. cit., p. 76.
9
Cfr. F. Lassalle, Offenes Antwortschreiben, in Id., Gesammelte Reden und Schriften, a cura di E.
Bernstein, Berlin 1918-1919, vol. 3, pp. 58 sg.
10
Cfr. Th. W. Adorno, Gesellschaft, in Id., Gesammelte Schriften, a cura di R. Tiedemann, voll. 1-20,
Suhrkamp, Frankfurt/M. 1970-1986, vol. 8, p. 16; tr. it. di A. Marietti Solmi, Società, in Id., Scritti
sociologici, Einaudi, Torino 1976, p. 10. D’ora in poi, l’edizione delle opere complete adorniane
è siglata in AGS seguito dall’indicazione del volume. Cfr. Id., Negative Dialektik, Frankfurt/M.
1966, poi in AGS 6, p. 341; tr. it. di C.A. Donolo, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 1970, p. 313.
11
Id., Zur Lehre von der Geschichte und von der Wahrheit (1964-1965), a cura di R. Tiedemann,
Suhrkamp, Frankfurt/M. 2001, pp. 291-292. La traduzione, come in tutti i casi in cui non si dà
edizione italiana, è mia.

143
Shift. International Journal of Philosophical Studies

referenza diretta del discorso di Adorno – potrà ritrovarsi in un noto luogo en-
gelsiano di Dialettica della natura, che delinea precisamente l’idea di una traspo-
sizione delle categorie dall’economia alla biologia, intendendo la teoria darwinia-
na della lotta per l’esistenza quale «trasferimento dalla società umana al mondo
organico della teoria di Hobbes del bellum omnium contra omnes e della teoria
della concorrenza dell’economia borghese».12 Ma nello stesso Engels – questa
volta in un testo polemico, di ben più ampia diffusione, quale l’Antidühring – è
presente anche l’argomentazione di segno opposto, che sgancia invece la nozione
darwiniana dalla dottrina di Malthus, per elevarla ad un superiore livello di astra-
zione, grazie al quale risulti depurata da ogni antropomorfismo e equiparazione
all’atto predatorio.13
Per Adorno si tratta piuttosto di riconoscere nella metafora della lotta per l’e-
sistenza, collocata com’è al centro del discorso evoluzionistico, una cristallizza-
zione di pratiche sociali e in particolare di quelle, di tipo competitivo-concorren-
ziale, connesse col moderno capitalismo. Nella letteratura storiografica dedicata
alla biologia evoluzionistica, il tema diviene quello dell’influenza dell’economia
politica sulla nascita e sull’articolazione della teoria evoluzionistica, parsa talora
decisiva, in altri casi andata incontro ad un drastico ridimensionamento.14 In ogni
caso, ancora di recente la questione è richiamata nella tesi, maggiormente proble-
matica, che identifica una zona di permeabilità tra i due campi del sapere nella
prima metà del XIX secolo, nel senso, dunque, di una «sovrapposizione – tanto
metodologica quanto concettuale – di teoria economica e scienze naturali».15
La seconda area riguarda le modalità in cui i plessi epistemici della nuova biolo-
gia hanno inciso – e continuano a incidere – sulla comprensione dell’umano e della
sua articolazione storico-sociale. Vi rientra sin da principio il nodo complesso del
rapporto tra Darwin, “darwinismo” e “darwinismo sociale”, dunque tra «la logica
della scoperta scientifica» darwiniana16 e i molteplici tentativi – compresi quelli
dello stesso autore di The Origin of Species, ma poi ampiamente diffusi anche al
di fuori del discorso biologico-disciplinare – di estendere la selezione naturale al

12
F. Engels, Dialektik der Natur, Mosca-Leningrado 1925, in K. Marx, F. Engels, Werke, Dietz
Verlag, Berlin 1957-1990, vol. 20, p. 565; tr. it. di L. Lombardo Radice, Dialettica della natura, in
K. Marx, F. Engels, Opere complete, Editori Riuniti, Roma 1972 sgg., p. 585.
13
Cfr. Id., Antidühring, Leipzig 1878, in K. Marx, F. Engels, Werke, cit., vol. 20, pp. 64-65; tr. it. G.
De Caria, Antidühring, in K. Marx, F. Engels, Opere complete, cit., vol. 25, pp. 66-67.
14
Cfr., per quanto riguarda la prima traccia ermeneutica, S. Schweber, Darwin and the Political
Economists: Divergence of Character, «Journal of the History of Biology», 13/1980, pp. 195-289,
e Id., The Wider British Context in Darwin’s Theorizing, in D. Kohn (a cura di), The Darwinian
Heritage, Princeton University Press, Princeton 1985, pp. 35-69. Per la seconda, cfr. D.L. Hull,
Deconstructing Darwin: Evolutionary Theory in Context, in «Journal of the History of Biology»
38/2005, pp. 137-152.
15
M. Shabas, The Natural Origins of Economics, The University of Chicago Press, Chicago-London
2005.
16
T. Pievani, Anatomia di una rivoluzione. La logica della scoperta scientifica di Darwin, Mimesis,
Milano-Udine 2013. Sulla questione, in particolare, ivi, pp. 60-67.

144
Il soggetto e l’organico

mondo sociale umano.17 Si tratta, in fondo, in entrambe le aree considerate, della


distinzione e del rapporto tra la riscrittura darwiniana della “lotta per l’esistenza”
come nozione dallo specifico statuto epistemico e teorico, dotata di una inedita
valenza euristica e esplicativa, strettamente connessa con la teoria della selezione
naturale, e il complesso culturale e ideologico che «precede, accompagna, attraver-
sa e segue»18 la rivoluzione darwiniana, alimentandovi la sussistenza di luoghi di
ambiguità e contiguità con le stesse estrapolazioni socialdarwiniste.
Peraltro, al di là del contesto vittoriano o positivistico, a partire dalle ricer-
che di “sociobiologia”, il tema della continuità sussistente tra i comportamenti
umani e quelli degli altri animali – dunque della possibilità di estendere ai primi
i principi di biologia delle popolazioni e di zoologia con i quali si sono analizzati
i secondi – è posto nell’ambito delle stesse scienze della vita.19
La lettura adorniana suggerisce però come la trasposizione dalla società alla
natura non lasci la teoria economica – essenzialmente quella del laissez faire –
immutata. Essa va incontro ad una sorta di “naturalizzazione” che ne muta i
caratteri essenziali e la dispone a farsi figura della transizione dal capitalismo
concorrenziale alla società monopolistica.20 In altri termini, insieme col giusna-
turalismo è anche l’economia politica classica che cade sotto i colpi del disincan-
tamento. Nella nuova economia lo scambio si conserva come forma generale del
processo; si fa concreto però nella lotta “per la vita e per la morte”: in fondo, è
lo stesso concetto di “economia” che viene riscritto attraverso il passaggio per il
medium della biologia, in quanto ne risultano accentuate quelle linee che sin da
principio problematizzano l’ottimismo smithiano – confluisce qui peraltro quel
“sapere coloniale” fondato sul travaso delle vicende del moderno colonialismo e
di quelle biologiche che Darwin condivide con i contemporanei.21
Secondo la traccia adorniana si lasciano intendere – in termini in questa sede
necessariamente schematici – le vicissitudini cui va incontro la nozione di «eco-
nomia della natura».22 In Linneo, che la introduce, essa indica «la saggissima

17
Cfr. A. La Vergata, Guerra e darwinismo sociale, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005.
18
Id., L’equilibrio e la guerra della natura. Dalla teologia naturale al darwinismo, Morano, Napoli
1990, p. 7.
19
Cfr. E.O. Wilson, Sociobiology: The New Synthesis, Harvard University Press, Cambridge-
London 1975; tr. it. di A. Suvero, Sociobiologia. La nuova sintesi, Zanichelli, Bologna 1979.
20
Shabas ricorre alla nozione di “denaturalizzazione” (denaturalization) per designare la progressiva
separazione – che ha luogo a partire da John Stuart Mill e decisamente nell’ambito dell’economia
neoclassica – della comprensione dei fenomeni economici dal quadro teorico naturalistico
entro il quale essi sono intesi dall’economia politica classica: cfr. M. Schabas, The Natural
Origins of Economics, cit., pp. 16-17, 142 sgg. In tal senso, l’economia risultava originariamente
“naturalizzata”. Ma “naturalizzazione” (naturalization) è anche la traduzione della concettualità
ricardiana in termini naturalistici: cfr. M. Schabas, Ricardo Naturalized: Lyell and Darwin on the
Economy of Nature, in D.E. Moggridge, Perspectives on the History of Economic Thought, vol. 3,
Edward Elgar, Aldershot 1990, pp. 40-49.
21
Cfr. A. La Vergata, L’equilibrio e la guerra, cit., pp. 254-256.
22
Sui «mutamenti fondamentali» nella storia delle scienze della vita segnalati dalla nozione di
«economy of nature», cfr. S. Muller-Wille, The Economy of Nature in Classical Natural History, in
«Studies in the History of Biology», 4/2012, pp. 38-49.

145
Shift. International Journal of Philosophical Studies

disposizione impartita alle cose naturali dal Sommo Fondatore; disposizione se-
condo la quale esse risultano adatte a soddisfare i fini comuni e gli usi reciproci».23
Quello secondo il quale la generazione, conservazione e la stessa distruzione dei
viventi cospirano al mantenimento della «giusta proporzione fra tutte le specie»
è un ordine finalistico: le specie vi si rapportano le une alle altre secondo rapporti
di subordinazione e «quasi un governo», una «giusta amministrazione»,24 per cui
quelle collocate più in alto sono al servizio di quelle collocate ai gradini inferiori
del creato in quanto ne governano l’andamento e le dominano. Ciò affinché l’uo-
mo, «ammirando le opere del Creatore, esalti la Sua gloria».25
Quando la nozione ritorna in Darwin, il riferimento è, in prima istanza, al-
l’«insieme di tutti i dati di fatto relativi alla distribuzione, alla rarità, all’abbon-
danza, all’estinzione ed alla variazione» delle forme di vita. Alla luce del prin-
cipio maltusiano della penuria, la prestazione economica decisiva coincide però
con quello che Darwin chiama «l’accaparramento di posti» all’interno del siste-
ma naturale: «Poiché tutti i viventi lottano per accaparrarsi un posto nell’eco-
nomia della natura, se una specie non si modifica e perfeziona parallelamente ai
suoi concorrenti, ben presto sarà sterminata».26 Se in Linneo l’«economia della
natura», in verità «economia divina» e «politia naturae», opera una moralizza-
zione del discorso naturalistico, contenendone lo svolgimento entro un model-
lo teologico e provvidenzialistico, qui ha luogo piuttosto una naturalizzazione
della nozione di economia, nel frattempo elaborata dai “classici”: in luogo della
«moltiplicazione delle produzioni di tutte le differenti arti» in forza della divi-
sione del lavoro e in ultima istanza dello scambio quale attività specificamente
umana, da cui deve seguire una «universale opulenza che si estende sino alle
classi sociali più basse»,27 viene in primo piano la difesa e conquista – a forza di
adattamento – dei «posti» che si rendono disponibili. Se la nozione ecologico-
astratta di “place” di cui Darwin fa uso, modifica certo profondamente la matrice
spaziale del concetto, quale era presente nella botanica di De Candolle,28 essa
però deve riproporne, ad un livello di maggiore complessità, le implicazioni – la
minaccia dell’estinzione. Il singolo vivente è stretto in una «rete inestricabile di

23
C. Linné, Specimen academicum de oeconomia naturae, Uppsala 1749, p. 1; tr. it., L’economia
della natura, in Id., L’equilibrio della natura, a cura di C. Limoges, Feltrinelli, Milano 1882, p. 70.
24
H.C.D. Wilcke, C. Linné, Dissertatio academica de politia naturae, Uppsala 1760, pp. 4, 7; tr. it.,
Il governo della natura, in C. Linnaeus, L’equilibrio della natura, cit., pp. 110, 112.
25
C. Linné, Specimen academicum de oeconomia naturae, cit., p. 47; tr. it. cit., p. 105.
26
C. Darwin, On the Origin of Species by means of Natural Selection, or the Preservation of Favoured
Races in the Struggle for Life, Murray, London 1859, pp. 62, 102; tr. it. di C. Balducci, L’origine
della specie, Newton Compton, Roma 2007, pp. 87, 114. Sulla centralità della nozione in Darwin,
cfr. T. Perce, “A Great Complication of Circumstances”- Darwin and the Economy of Nature, in
«Journal of the History of Biology», 43/2010, pp. 493-528.
27
A. Smith, An Inquiry into the Causes and Nature of the Wealth of Nations (1776), Oxford
University Press, Oxford 1976, p. 22; tr. it. a cura di A. e T. Biagiotti, La ricchezza delle nazioni,
Utet, Torino 1975, p. 88.
28
Cfr. A.P. De Candolle, Essai élémentaire de géographie botanique, Levrault, Paris 1820.

146
Il soggetto e l’organico

rapporti»,29 che ne determina la stessa struttura e nella quale divengono decisive,


insieme con la categoria dell’adattamento, le categorie naturali del numero, della
predominanza, della decimazione.

3. Il soggetto piegato e la storia naturale

In una nota del 1948, Horkheimer riconduce all’incidenza di Darwin i suc-


cessivi tentativi – operati da Marx e da Nietzsche – di «penetrare oltre il rigido
dualismo di uomo e natura».30 Le acquisizioni darwiniane paiono convergere qui
con quel peculiare “naturalismo” che attraversa i lavori adorniani sino a Dialet-
tica negativa e ai corsi preparatori, ma che egli mette a punto già nei primi anni
della sua riflessione, quando prova a ricavare la nozione di “storia naturale” – nel
senso in cui Benjamin l’ha intesa, quale consapevolezza del barocco – dal con-
tatto con «la rovina dell’idealismo», dunque con la crisi dei sistemi idealistici a
partire dalla metà del XIX secolo.
Assoluto è – come è noto – in Adorno il soggetto idealistico in quanto, quale
puro spirito, pensiero incontaminato, in piena autosufficienza si insedia a verità
del reale e garanzia del suo senso. Alla natura – come alla dimensione della mera
esistenza spazio-temporale, del caduco, del corporeo e del bisogno – esso deve
riferirsi in quanto soggetto sovrano, e questa risultare terreno sin da principio
penetrato o da conquistare. In fondo, i diversi tracciati dell’idealismo in quanto
«pensiero dell’identità» devono restituire altrettante vie, stazioni e difficoltà di
tale costruzione del primato dello spirito.
Ora, nel tempo in cui le grandi sintesi del pensiero sovrano rovinano, quella
che risulta da tale disincantamento è dapprima la «mera natura», in balìa del
ciclo inesorabile delle nascite e delle morti, principio di quella caducità e «co-
strizione» che vale esorcizzare nell’umano – «creato abbandonato», secondo la
via di fuga teologica kierkegaardiana esaminata dal giovane Adorno.31 Vi corri-
sponde, dall’altro lato, un soggetto orfano del sistema, teso a riproporre i fasti del
pensiero sovrano, preda di una «allergia all’ente»32 tanto più acuta quanto più
il proprio primato si fa instabile. Al tempo stesso, precisamente tra le rovine del
sistema e le incongruenze dei tentativi di riproporne l’istanza, si rende accessibile
una diversa esperienza del naturale e dell’umano, che la teoria critica raccoglie
nella consapevolezza storico-naturale. Questa emerge quando l’avanzamento

29
C. Darwin, Natural Selection, Being the Second Part of his Big Species Book Written from 1856 to
1858, a cura di R. C. Stauffer, Cambridge University Press, Cambridge et al. 1975, p. 272.
30
Lettera di M. Horkheimer a L. Löwenthal, 23 novembre 1948, in Id., Gesammelte Schriften, a
cura di G. Schmid Noerr, voll. 1-19, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1985-1996, vol. 17, p. 1040.
31
Cfr. Th. W. Adorno, Kierkegaard. Konstruktion des Ästhetischen, Tübingen 1933, poi in AGS
2, pp. 7-213; tr. it. di A. Burger Cori, Kierkegaard. La costruzione dell’estetico, Longanesi, Milano
1962.
32
Id., Ontologie und Dialektik (1960-1961), a cura di R. Tiedemann, Suhrkamp, Frankfurt/M.
2002, p. 102.

147
Shift. International Journal of Philosophical Studies

del pensiero autonomo subisce un arresto ed esso tocca la propria corporeità


e caducità – «la natura riecheggia nel battito dell’ora».33 Cade allora la finzione
originaria in forza della quale esso rimuove la trama naturale di cui è intessuto,
per fondare «il primato del cosiddetto spirito sulla materia, della quale esso pure
vive».34
Al pensiero “che respira”35 e si sa così della medesima sostanza del proprio
oggetto – naturale, appunto – non sono estranei né il desiderio né la sofferenza;
portandoli a contemplazione, esso vi riconosce piuttosto i modi nei quali già il vi-
vente cozza contro la costrizione naturale. Tale è la spinta di autoelevazione tutta
naturale, giacché «ciò che trascende la natura è la natura stessa che si avvede di
sé».36 Perciò della natura il pensiero concepisce anche il riscatto: esso assume la
postura di quella «speranza» che, «essendo sorta essa stessa dalla natura, sarebbe
veramente in grado di superarla solo conservandone la traccia».37 Non altro si-
gnifica «conservare la traccia» della natura – in cui è già l’idea del «ricordo della
natura nel soggetto»38 –: portare a consapevolezza l’utopia immanente ad ogni
sentire organico, che la sofferenza cessi e il bisogno trovi appagamento.

4. La tragedia del vivente e l’animale triste

È con questa consapevolezza che Adorno e Horkheimer tornano nei primi


anni Quaranta sull’evoluzionismo darwiniano.
Va detto che la lettura del darwinismo come figura della modernità matura
suggerita dalle coordinate adorniane ne fa tutt’altro che mera ideologia. Esso
risulta invece doppiamente vero, nel proprio contenuto storico-sociale, in quan-
to figura dell’economia dei grandi monopoli e degli imperi, e in quello storico-
naturale. In quest’ultimo senso, la teoria darwiniana restituisce la storia naturale
come dimensione nella quale il vivente è consegnato al destino, e il destino stesso
come intersezione di sequenze causali e nessi necessari, in cui si raccoglie una
duplice inesorabilità: quella imperscrutabile della variazione e quella trasparen-
te, ma non meno feroce, della selezione, dunque la lotta stessa come crocicchio,

33
Cfr. Id., Kierkegaard, cit., p. 144; tr. it. cit., p. 253.
34
Id., Ontologie und Dialektik, cit., p. 104.
35
Cfr., Id., Kierkegaard, cit., p. 144; tr. it. cit., p. 253.
36
Id., Probleme der Moralphilosophie (1963), a cura di T. Schröder, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1996,
p. 155.
37
Id., Kierkegaard, cit., p. 156; tr. it. cit., p. 271.
38
«Das Eingedenken der Natur im Subjekt»: M. Horkheimer, Th. W Adorno, Dialektik der
Aufklärung. Philosophische Fragmente, Amsterdam 1947, poi in AGS 3, p. 58; tr. it. di R. Solmi,
Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1997, p. 48. Sulla rilevanza del tema sul piano etico,
cfr. Ch. Menke, Genealogy and Critique: Two Forms of Ethical Questioning of Morality, in T. Huhn
et al. (a cura di), The Cambridge Companion to Adorno, Cambridge University Press, Cambridge
2004, pp. 302-327, in particolare pp. 319 sgg.; E. Mendieta, Animal Is to Kantianism as Jews Is
to Fascism, in J. Sanbonmatsu (a cura di), Critical Theory and Animal Liberation, Rowman &
Littlefield, Lanham et. al. 2011, pp. 147-162.

148
Il soggetto e l’organico

il momento di una sorta di redde rationem: «ognuno, in qualche periodo della


vita, in qualche stagione dell’anno, nel corso di alcune generazioni o ad intervalli,
deve lottare per la vita e subire gravi distruzioni».39
Che si tratti però di caso e necessità in un certo modo patiti, è la consapevo-
lezza che si fa lutto in alcuni «schizzi» di Dialettica dell’illuminismo. In verità,
il contenuto di sofferenza che attraversa il mondo organico costituisce un tema
classico del naturalismo settecentesco, ancora intriso di teodicea.40 Darwin vi
accenna appena, il tempo di ritrarsene rassicurato. Lo scienziato non riesce a
sottrarsi all’happy end quale sanzione del destino: «Quando riflettiamo su questa
lotta possiamo consolarci nella sicurezza che la guerra della natura non è inces-
sante, non esiste la paura, la morte di solito è immediata e i vigorosi, i sani e i
felici sopravvivono e si moltiplicano».41 È il gesto affine a quello di Omero, cui
Adorno allude al termine dell’excursus su Odisseo, col quale il lettore è rassicu-
rato del fatto che il supplizio delle ancelle – voluto quale punizione esemplare dal
sovrano in procinto di riprendere il proprio posto dopo la strage dei pretendenti
– non durò a lungo, e il lieto fine dell’illuminismo messo così in salvo.42
Adorno vi oppone la tragedia del vivente che soggiace al destino della co-
strizione naturale. Certo nella natura tale assoggettamento – in un certo senso
assoggettamento del vivente alla vita – non viene alla coscienza: il mondo dell’a-
nimale è «senza concetto. Non ha parola per fissare l’identico nel flusso di ciò
che appare».43 Il suo mutismo differisce perciò da quello di Edipo, che esprime
la protesta contro l’ordine delle cose che trionfa.44 Nondimeno, la costrizione, se
non è concepita, è però vissuta. Vi si è fatto cenno: l’assenza di autocoscienza – di
quella linguisticamente articolata – non esenta dalla sofferenza e anzi dall’ango-
scia e dalla tristezza.45 Da qui l’accento peculiare di una nozione di “vita” non
del tutto sovrapponibile a quella biologica: nella teoria critica, il disincantamento
della natura e dell’uomo, la fluidificazione dei confini tra l’una e l’altro, aprono
all’interrogazione su ciò che, nella natura stessa, urta contro i confini della co-
strizione naturale.
Su questo sfondo deve intendersi la riserva di Horkheimer verso quella sorta
di darwinismo “pratico” che rovescia l’umiltà nei confronti della natura in una
nuova arroganza: quanto più l’uomo è proiettato e come risolto nell’esistenza na-
turale, tanto più esso si impone sul vivente e in generale sulla natura, riduce l’uno
e l’altra a oggetto. È la biologia per un verso dilatata a visione del mondo, ad

39
C. Darwin, On the Origin of Species, cit., p. 79; tr. it. cit., p. 98.
40
Cfr. A. La Vergata, L’equilibrio e la guerra, cit., pp. 27 sgg.
41
C. Darwin, On the Origin of Species, cit., p. 79; tr. it. cit., p. 98.
42
M. Horkheimer, Th. W. Adorno, Dialektik der Aufklärung, cit., p. 98; tr. it. cit., pp. 85-86.
43
Ivi, p. 284; tr. it. cit., p. 264.
44
Cfr. W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, Berlin 1928, poi in Id., Gesammelte
Schriften, a cura di R. Tiedemann, H. Schweppenhäuser, voll. 1-7, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1972-
1989, vol. 1/1, p. 286; tr. it. di E. Filippini, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1971, pp.
101-103.
45
M. Horkheimer, Th. W. Adorno, Dialektik der Aufklärung, cit., p. 284; tr. it. cit., p. 264.

149
Shift. International Journal of Philosophical Studies

opera, insieme, di una certa coscienza filosofica e di quella quotidiana, per l’altro
confluita nell’impresa tecnico-scientifica. Quanto più la stessa ragione è risolta
in parte del corredo naturale, dunque in organo di autoconservazione, tanto più
essa deve, come tale, opporsi alla natura stessa e farsene padrona: «Come parte
della natura, la ragione è sua nemica: avversaria e nemica di ogni vita che non sia
la sua […] adattarsi all’ambiente significa semplicemente essere capaci di tener-
gli testa, essere capaci di dominare le forze che ci assediano».46
Il naturalismo francofortese continua ad interrogare i confini del vivente e
dell’umano,47 non ammette lo scarto ontologico ma saggia il prodursi di momenti
di discontinuità.48 Incrocia allora tracciati differenti, nell’ambito delle scienze
della vita e in quello della riflessione filosofica a queste più prossima – lì, dove
ne va sia dell’esplorazione dei modi della coscienza e dell’affettività delle altre
specie animali, sia dell’accentuazione della animalità e vulnerabilità degli animali
umani.49 Di fronte ai successi della manipolazione tecnica, ma anche a quelli
dell’evoluzione, una simile esperienza reca il segno del lutto, che negli «animali
superiori» riconosce «il monumento funebre di infinite altre, il cui tentativo di
divenire è stato frustrato dall’inizio». Significa intendere la natura «come un te-
sto»: «un testo che […] quando sia letto nel modo giusto, racconterà una storia
di infinite sofferenze».50

46
M. Horkheimer, Eclipse of Reason, Oxford University Press, New York 1947, pp. 124-125; tr.
it. di E. Vaccari Spagnol, Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale, Einaudi, Torino
1969, pp. 110-111. Le considerazioni horkheimeriane andrebbero verificate sulla loro referenza
più immediata: cfr. J. Dewey, Experience and Nature, Allen & Unwind, London 1929; tr. it. a cura
di P. Bairati, Esperienza e natura, Mursia, Milano 2014.
47
«Nella psiche animale sono presenti – in forma germinale – i singoli sentimenti e bisogni dell’uomo,
e anche gli elementi dello spirito, ma senza il sostegno che dà solo la ragione organizzatrice» (M.
Horkheimer, Th. W. Adorno, Dialektik der Aufklärung, cit., p. 284; tr. it. cit., p. 264).
48
A. Bellan, L’uomo e l’animale. Natura, morale, intersoggettività, in Id., Trasformazioni della
dialettica. Studi su Theodor W. Adorno e la teoria critica, Il poligrafo, Padova 2006, pp. 143-161,
qui pp. 57 sgg. Cfr. anche Id., Antispecismo, teoria critica, e le ragioni di un’etica riconoscitiva
dell’ambiente, in «Animal Studies», 3/2014, pp. 46-64.
49
Per una convergenza dei due motivi, peraltro entro un quadro categoriale distante da quello
francofortese, cfr. A. McIntyre, Dependent Rational Animals: Why Human Beings need the Virtues,
Oper Court, Chicago 1999; tr. it. a cura di M. D’avenia, Animali razionali dipendenti. Perché
gli uomini hanno bisogno delle virtù, Vita e Pensiero, Milano 2001; Ch.M. Korsgaard, Yellow
Creatures: Kantian Ethics and Our Duties to Animals, in G.B. Peterson, The Tanner Lectures on
Human Values, University of Utah Press, Salt Lake City 2005, pp. 79-110.
50
Rispettivamente, M. Horkheimer, Th. W. Adorno, Dialektik der Aufklärung, cit., p. 295; tr. it.
cit., p. 274 («Sulla stupidità»), e M. Horkheimer, Eclipse of Reason, cit., p. 126; tr. it. cit., p. 110.

150
Archivi/Archives
Un sujet?*51
Jean-Luc Nancy

Ce titre est donné après-coup à l’ensemble de deux séminaires tenus en avril


et mai 1992, dans le cadre de la formation doctorale de psychologie dirigée par
Mme Dominique Weil. L’objectif initial était de permettre à un public de psycho-
logues et de psychanalystes de s’engager, à propos de la question du sujet, dans
une confrontation avec une perspective philosophique.
Le texte qui suit provient d’une transcription des séances, réalisée sous la
direction de Dominique Weil, et corrigée par moi-même avec le parti pris de
rester au plus près de l’exposé oral, en conservant aussi les raccourcis, voire les
suppressions, que les limites horaires avaient rendu nécessaires.
Pour la clarté, une subdivision en numéros a été introduite.
J.-L.N. – Juillet 1992.

LE SUPPOSE SUJET

J’ai décidé d’adopter le mode du séminaire, c’est-à-dire de ne pas vous lire un


texte écrit, mais de vous présenter un exposé, ou un cours, avec ce que cela com-
porte d’improvisé, voire de tâtonnant, parce qu’il ne s’agit pas d’un travail achevé,
mais seulement d’esquisses, de frayages pour un travail à faire. Donc le premier
exposé s’intitule «Le supposé sujet», et le deuxième s’intitulera «Quelqu’un».
1. Que le sujet soit supposé, cela au moins n’est pas une supposition. Vous
l’aurez compris vous-même à l’énoncé du titre. C’est une évidence dans la me-
sure où «le supposé sujet», ou «le sujet supposé», c’est une tautologie. Sujet veut
dire supposé, en bon latin comme en bon français philosophique au moins, et
nous allons parler de philosophie, ce qui veut dire que nous parlerons aussi d’un
discours philosophique présent dans la psychanalyse.
Subjectum, subjectum vel suppositum, en latin c’est le sujet ou bien le supposé.

*
Il testo qui proposto per la sezione Archivi/Archives è stato edito nel 1992 da L’Harmattan, Paris
e faceva parte di un volume collettaneo, curato da D. Weil, dal titolo: “Homme et sujet”.
Si ringraziano Jean-Luc Nancy e l’editore L’Harmattan per aver concesso di ripubblicare il testo
nella sua interezza.

Shift. International Journal of Philosophical Studies 1/2017


Shift. International Journal of Philosophical Studies

Voilà une formule qui pour un scolastique du 12e ou du 13e siècle, n’aurait
présenté aucune espèce de surprise, ni cette allure de provocation que mon titre
revêt un peu, intentionnellement. Car le suppositum pouvait être pour la scolas-
tique, l’être substantiellement complet en soi, ens in se substantialiter completum,
comme vous en trouverez la définition, par exemple chez Avicenne, aussi bien
que chez Albert Le Grand. Ou encore la substance première singulière, substan-
tia prima singularis, autre définition de suppositum, autrement dit l’être singulier
ou, comme on en reparlera, l’individu: peut-être pas au sens moderne, mais au
sens justement du un, du chaque un, du ekastos d’Aristote, dont on reparlera
aussi.
Voilà ce qu’il faut bien poser au départ: sujet ou supposé, le supposé ou le
sujet, c’est la même chose. Le subjectum est supposé, il est placé dessous, en-des-
sous, par-dessous. Mais toute la question, bien sûr, c’est: en quel sens? En quel
sens, c’est-à-dire tout d’abord, sous quoi est-il posé? Ou bien, de quoi est-il le
support? ou le suppôt? Et tous ces mots disent la même chose, support, suppôt.
(«Suppôt», qui n’existe plus que sous la forme du «suppôt de Satan», ce n’est
pas autre chose que le suppositum). Donc, sous quoi est-il posé, ou que veut dire
ce «dessous» en général, et dans quel statut ou dans quelle posture cet «être
dessous» met-il celui qu’on appelle le sujet? N’a-t-il pas d’autre pose, que d’être
ainsi supposé ou d’être sa propre supposition. Car c’est là le point essentiel, on le
verra, c’est qu’il est sa propre supposition. Et puis, jusqu’où recule cette suppo-
sition: à la supposition d’un sujet, faut-il encore supposer quelque chose d’autre?
Dès qu’on a commencé à supposer, pourquoi ne pas supposer encore? Ou bien
doit-on aller jusqu’à une dé-supposition?
Voilà toutes les questions qui vont être les nôtres pour les deux séances de ce
séminaire. Nous verrons comment, de cet ensemble de questions, on débouche
sur une seconde série, qui seront plutôt celles de la seconde séance. Ces ques-
tions, telles que je les jette comme ça, en paquet, composent un réseau passa-
blement embrouillé, enchevêtré, d’autant que, comme nous allons le voir, ni le
sujet, ni sa supposition ne se prennent en un seul sens. Il y a au contraire toute
une combinatoire de sens possibles. Et aussi bien, pour cette première séance,
je ne voudrais rien faire d’autre au fond, que de distinguer et de clarifier des
significations, et d’en refaire le montage historico-conceptuel, de manière aussi
nette que possible: ce sera déjà beaucoup, par rapport à un certain nombre de
débats qui sont le plus souvent de faux débats d’opinion, plutôt que de sérieux
débats de concepts autour du sujet. Je veux dire: des débats du type «mort du
sujet – retour du sujet», où le sujet devient une espèce d’étrange ludion, qui peut
partir, revenir; ou bien les débats du genre «ontologie versus subjectivité»; et
bien entendu les débats où se mêlent sans précautions ce qu’on entend par sujet
en philosophie, ce qu’on entend par sujet en psychologie et ce qu’on entend par
sujet en psychanalyse. Débats qui, pour une bonne part, ne doivent leur exis-
tence, et souvent leur sottise, qu’à la confusion entre des significations, ou qu’à
l’absence de significations claires et nettes.
Il y a, pour prendre les choses à partir de ces confusions et de ces brouillages,

154
Un sujet?

deux grands motifs de débat ou de malentendu autour du mot sujet. Un premier


motif passe entre la philosophie et la psychanalyse, celle-ci du moins prise dans
son lexique lacanien, et je crois que dans ce cas il s’agit d’abord d’une singulière
confusion quant au sens du mot sujet. Le philosophe et l’analyste ne parlent pas
de la même chose, mais ils l’ignorent souvent. Encore que ce ne soit pas si simple
que ça: Lacan, malgré lui peut-être, retient quelque chose, beaucoup peut-être,
du concept philosophique du sujet. Nous en reparlerons certainement. Mais un
analyste, dans sa pratique, parlant du «sujet», ne parle du tout de la même chose
qu’un philosophe qui fait un cours sur le sujet, sur le sujet du sujet. Il faudrait
clarifier cela une fois pour toutes.
L’autre débat passe à l’intérieur de la philosophie, c’est le débat entre ce qui se
présente comme «philosophie du sujet», et ce qui s’affirme comme philosophie
du non sujet ou sans sujet, dans la mesure où on a cru pouvoir, devoir dire que
le sujet n’était plus un concept adéquat à une pensée contemporaine. Non sans
quelques bonnes raisons, mais il est possible que des expressions comme «mort
du sujet» ou «fin du sujet» ne soient pas tout à fait heureuses. Dans ce débat à
l’intérieur de la philosophie, il y a aussi, souvent, une confusion sur le sens du
mot, et d’autre part il y a une opposition entre certains choix, décisions ou enga-
gements philosophiques.
Ainsi, dans un cas on ne parle pas de la même chose, et il n’est pas toujours sûr
que chacun des interlocuteurs sache exactement de quoi il parle; et dans l’autre
cas, on croit parler de la même chose, du sujet, et se décider pour ou contre lui, et
il n’est pas sûr en fait qu’on parle de la même chose. Et donc il n’est pas sûr non
plus que les décisions qu’on peut en prendre aient beaucoup de sens. Je fais ces
remarques rapides pour bien souligner ceci: rien n’est moins clair, aujourd’hui,
que ce qu’on suppose quand on parle du sujet. Il faut donc prendre beaucoup de
recul par rapport à tous ces bavardages.
2. Un des traits les plus remarquables, à l’arrière-plan de cette confusion, c’est
cette constatation toute simple, que dans la tradition d’où nous provenons, on
serait souvent bien en peine de trouver le mot sujet avec le sens ou les sens
qu’on lui donne. On peut dire que c’est seulement avec Leibniz que le mot sujet,
prend son premier sens moderne en philosophie. Mais on peut prendre quatre
exemples majeurs, d’auteurs très importants dans l’histoire de la constitution de
la subjectivité et des débats actuels autour d’elle, pour lesquels le mot sujet n’a
pas du tout, ou presque pas, aucune de ses significations actuelles. Ce sont Saint
Augustin, Descartes, ce qui surprendra peut-être certains d’entre vous, Rous-
seau, qui ne connait le mot sujet que dans une acception bien différente, sur
laquelle nous reviendrons, et enfin Freud, ce qui en surprendra d’autres. En un
sens, ce n’est pas important: ce sont les choses, non les mots, qui comptent. Mais
les mots font aussi les choses, et cela indique donc aussi qu’il n’y a pas et qu’il
n’y a pas eu un seul sujet, il n’y a pas eu une seule supposition du mot sujet. Et
cela veut dire encore, de manière plus fine, plus aiguë, qu’il n’y a peut-être même
pas une réalité une, chaque fois qu’est supposé un sens de sujet. Et que donc il
faut traiter ce mot selon une multiplicité de sens, qui peut-être à certains égards

155
Shift. International Journal of Philosophical Studies

se révélera irréductible. Ce qui veut dire qu’il y a là sans doute le symptôme


d’un enjeu important. Un enjeu dont les débats que j’évoquais sont eux aussi
des symptômes, malgré leurs confusions, ou à cause d’elles. Les symptômes de
quelque chose qui devrait guider notre intérêt dans ces deux séances, à savoir
que là où on s’attendrait par excellence à saisir le «un» – car s’il y a bien quelque
chose qui nous saute à l’esprit quand nous disons «le sujet», c’est qu’il soit «un»
de quelque manière –, là, on trouve du multiple et du confus. Le minimum
supposé sous le mot «sujet», c’est une certaine unité – et c’est ce que nous ne
trouvons pas. L’introuvable supposé du sujet, voilà notre problème, voilà l’état
critique dont il y a symptôme. Comme si toute notre tradition occidentale avait
rendu le «un» trouble, contradictoire, multiple, divisé ou disséminé. (Tout cela
voulant dire d’ailleurs chaque fois des choses différentes.) Je ne dis pas que notre
tradition a abîmé ou a perdu quelque chose qui était «un» au départ: sûrement
pas. Elle a plutôt produit, engendré la problématique du «un», du «sujet un» à
laquelle maintenant nous avons à faire. Je ne parle donc pas de dégradation ni
de perte: je remarque que là où nous avons aujourd’hui le «sujet» comme le sub-
jectum justement d’une quantité de confusions et de débats, quelqu’un comme
Platon avait seulement le petit mot grec tis, qui veut dire «quelqu’un», (ou le
neutre ti qui veut dire «quelque chose»), et ce mot ne faisait pas l’objet d’un pro-
blème ni d’un débat. Pour nous, avec le mot de «sujet», à la fois nous supposons
toujours un tis, un quelqu’un, mais le «quelqu’un» dans son unité et/ou dans son
unicité, c’est ça qui nous fait problème, ou c’est ça qui nous trouble. C’est pour
nous une question, que de savoir s’il y a quelqu’un, où il y a quelqu’un, qu’est-ce
que être «quelqu’un», ou qui est «quelqu’un». Voilà la question à laquelle je crois
qu’il s’agira d’en venir, parce que c’est une des questions les plus nécessaires dans
le travail de la pensée contemporaine, comme en témoignent les symptômes dont
j’ai parlé, et qui sont aussi des symptômes de la situation de la philosophie, de la
psychologie et de la psychanalyse.
3. Cela dit, pour commencer à nous orienter dans cette multiplicité, dans cette
confusion diachronique et synchronique du «sujet», je veux poser ce qui peut
valoir comme une définition large, plus ou moins implicitement supposée par
tout emploi du mot. Car il y a aussi ce paradoxe, que sous la multiplicité, sous
de brouillage, il y a aussi une sorte de consensus plus ou moins clair autour
d’une acception du mot, autour d’une supposée «une» acception du mot. Faute
de quoi on ne se servirait même pas du mot, s’il n’y avait que pure dispersion.
Derrière tout usage d’un mot, il y a un minimum de sentiment linguistique. Si
nous négligeons les cas où le mot «sujet» a un sens proche de celui d’«objet»
(comme dans «le sujet de cet exposé»), notre sentiment linguistique nous
indique que «sujet» désigne l’être propre d’un agent de représentation ou de
volition. C’est au moins cela qu’on entend quand on parle d’un sujet. Un sujet
c’est ce «quelqu’un» qui peut avoir des représentations et/ou des volitions.
Je dis «volition» pour prendre ce mot archaïque dans un sens très large, des
désirs si vous voulez. (A condition qu’on puisse faire la distinction entre des
représentations et des volitions, ce qui ne va pas de soi. Mais laissons cela).

156
Un sujet?

Deuxièmement, le même sentiment linguistique nous indique aussi que pouvoir


avoir ce genre de choses, des représentations et/ou des volitions, suppose aussitôt
une propriété bien précise, et qui est la propriété précisément de l’appropriation.
Pouvoir avoir des représentations ou des voûtions, c’est pouvoir les avoir comme
siennes, et cela, non au sens d’une possession extérieure, mais selon une véritable
assimilation à soi. Il faut que ce «quelqu’un» ait la représentation ou la volition
présente en lui-même comme lui-même. Je ne fais d’ailleurs ici que répéter
une phrase de Kant, «Il faut que mes représentations puissent être miennes».
C’est-à-dire que la représentation ne peut pas être ce qu’est une image dans un
appareil photographique. L’appareil a l’image en lui, mais il ne l’a pour lui, il
ne l’a pas comme sienne. En ce sens, avoir quelque chose comme sien, c’est
d’une manière ou d’une autre s’y retrouver ou s’y retrouver soi-même. Le sujet
que nous comprenons comme agent, ou comme porteur d’une représentation ou
d’une volition, c’est donc ce qui est à soi. Le «s’avoir soi même» ou le «être à soi»
définit donc le plus largement le sujet ainsi compris.
4. Or nous n’allons parler que de cela: qu’est-ce que c’est que «être à soi», ou
qu’est-ce que c’est que «s’avoir?» Ici précisément, avoir et être ne font pas de
distinction. C’est un des aspects de la question du sujet. Qu’est-ce qu’être à soi
ou qu’est-ce que s’avoir, c’est ce qui nous met tout de suite en face d’une grande
chaîne de déterminations philosophiques. J’en prends trois pour marquer trois
moments dans cet enchaînement. Kant, d’abord, pour qui «avoir des représenta-
tions comme miennes», renvoie à un «je» transcendantal, qu’il faut poser comme
une formé nécessaire mais en elle-même vide, inconnaissable comme substance.
Deuxième moment, autre dispositif: Heidegger qui pose, non pas l’appartenance
de représentations à un «soi», mais l’existence comme cela où ce qui arrive est
«à chaque fois mien» (en allemand, Jemeinigkeit). Il ne s’agit plus, en principe,
d’un sujet comme présence supposée sous la représentation, mais il s’agit bien
d’une appropriation, d’un événement d’appropriation constitutif de l’événement
d’exister. Troisième moment, la question posée par Derrida à la «présence à soi»
du sujet husserlien, question que je résumerai ainsi: quelle est la différence im-
pliquée par l’être-présent-à-soi, ou quel est l’écart du «à soi» lui-même, en lui-
même? Qu’est-ce que le «à soi» de la présence à soi? Donc, trois moments de
la problématisation du sujet: mes représentations en tant que celles du «je», le
«mien» de l’existence en chaque instant, et la présence à soi comme écart à soi.
Que devient le «sujet» à travers ces moments? ce sera un des fils conducteurs
dans la suite de ce séminaire: la problématisation du «sujet» entendu comme le
support ou comme la supposition d’une appropriation à soi, de soi à soi.
5. Mais un retour au sentiment linguistique s’impose d’abord, pour compli-
quer un peu ces données de départ. Car le sentiment linguistique nous donne
aussi un autre sens de «sujet», ou une autre supposition quand on parle d’un
sujet. C’est le sujet qui est assujetti, celui qui est soumis à quelque chose, à une
autorité ou à une contrainte. Celui ou celle, car dans ce cas le mot admet un fémi-
nin, «sujette». Il l’admet comme substantif mais peut-être parce qu’il est là plutôt
d’abord adjectif. Tandis que dans le premier cas le sujet n’est que substantif

157
Shift. International Journal of Philosophical Studies

c’est-à-dire aussi substantiel, nous allons y revenir, et que le substantif est comme
par définition, toujours masculin. Donc sujet, sujette, comme par exemple «j’ai
toujours été sujette à suer», écrit Madame De Sévigné, (lettre 575). Le sujet ou
la sujette est exposé(e) à des accès ou à des accidents. Non pas la substance qui
supporte des accidents, en tant que qualités ou propriétés. Mais un sujet exposé
à ce qu’il lui arrive quelque chose, ou bien exposé aux effets d’une autorité, loi
ou souverain. Le sujet sur qui quelque chose tombe ou retombe. Il est très remar-
quable que dans ce sens, au lieu de la propriété de soi, c’est la soumission à de
l’autre qui est signifiée. C’est ce qu’on appelle aussi la sujétion. Encore que ce
dernier terme relativement peu employé aujourd’hui, ait pu désigner aussi l’état
de celui qui soumet: par exemple, Pascal écrit «mettre sous sa sujétion». Double
sens, donc, qui lui-même ramènerait à la double valeur du sujet, si la première est
une valeur active, et la deuxième une valeur passive. Il y avait donc deux suppo-
sitions possibles du sujet: ou bien il est ce qui se tient sous une représentation ou
une volition, il est le support d’une représentation ou d’une volition, en tant que
l’être à soi ou la propriété de soi de cette représentation, ou bien il est ce qui est
placé sous l’autorité ou sous l’empire de quelque autre.
6. Le sentiment linguistique nous impose encore une troisième signification,
ou une troisième supposition: le sujet c’est aussi la matière dont on traite, par
exemple le sujet de ce séminaire, qui est «le sujet». C’est alors ce qui est dessous
au sens de l’objet d’un discours, d’une analyse. Rien de plus courant, que de
prendre «sujet» au sens «d’objet». Ce sujet-objet, perd sa référence implicite
à un quelqu’un ou à une quelqu’une, et devient plutôt un quelque chose. Son
«être dessous» devient plutôt un «être devant», objet, mais ce «devant» est une
soumission à la prise et à l’inspection d’un entendement, un entendement qui
donne à la chose son unité d’objet.
Il y aurait donc, si vous voulez, au moins trois instances et trois suppositions
du sujet. Comme on le verra mieux plus tard, cela tient d’abord à l’histoire du
mot dans laquelle se mêlent, comme pour tant de mots, plusieurs provenances,
plusieurs traductions, et donc plusieurs significations. Ce qui n’a rien que de très
banal, et qui n’entame pas la consistance propre de chacun des sens pris à part.
Il est bien certain, par exemple, que le sens politico-juridique du sujet, du latin
subjectum, se détache toujours bien clairement dans la plupart des contextes,
par rapport au sens philosophique où le même mot a traduit le grec hypokeime-
non (ce qui se tient dessous). Il suffit alors de savoir ce qui est supposé par le
contexte. Mais il n’en reste pas moins que la prolifération de sens et son ampli-
tude, que j’ai ici limitée à l’essentiel, quitte à évoquer plus tard la distinction
entre sujet et substance, ou encore les bons et les mauvais sujets, ou encore le
sujet au sens botanique de support ou de receveur d’une greffe, sans parler de
ce qui est finalement en jeu, à savoir le sens ou les sens que donnent à ce mot,
aujourd’hui, le philosophe ou l’analyste ou le juriste, tel philosophe, tel analyste
ou tel juriste... cette prolifération n’est sans doute pas étrangère au trouble et
aux débats dont ce mot est l’objet, ou le sujet. Ce que je voudrais dégager, c’est
comment ce trouble général serait celui de la supposition en tant que supposition

158
Un sujet?

du «un», de l’un. Le sujet fait problème parce qu’il est la supposition de l’un, ou
parce qu’il se suppose lui-même comme l’un ou comme un.
7. A partir de ces préalables, essayons d’envisager la provenance de ce régime
pluriel, complexe et retors du supposé sujet. Il faut pour cela que je marque
quelques étapes au moins, seulement quelques unes, d’une histoire qui, vous
allez le voir, n’est rien d’autre que l’histoire de l’Occident ou de la philosophie en
tant qu’histoire d’une supposition. Je ne veux pas dire seulement par là une sup-
position déterminée, quelque chose qui aurait été supposé et que nous aurions
ainsi derrière nous, dans notre origine, voilà ce qui est présuppose. Mais plutôt
ceci, qui est d’un tour plus compliqué que la supposition, le geste même de sup-
poser, est le geste occidental philosophique par excellence, le geste principiel.
Et que par conséquent le sujet, en tant qu’il est lui-même si j’ose dire le rejeton
de ce geste, en tant qu’il est la supposition de soi, et cela en plusieurs sens, n’est
évidemment pas n’importe quoi; le sujet est en quelque sorte, si j’ose dire, la
figure accomplie, développée, d’un geste en quelque sorte pré-subjectif, qui est
vraiment le geste fondateur occidental, le geste de la supposition et de la pré-
supposition. Il faudrait développer cela très longuement, ce n’est pas possible ici,
mais je pense que vous pouvez vous représenter un peu par vous-mêmes, ce dont
je veux parler. Disons-le par exemple ainsi: l’occident, c’est ce qui commence en
disant «je me présuppose comme ayant déjà été». Par exemple, et apparemment
à côté de notre question du sujet, prenez la cité; on dit que l’Occident commence
avec la cité, or la cité dit «je suis déjà la cité». Elle ne raconte pas sa genèse. Elle
dit qu’elle s’est fondée elle-même. Elle dit: «voilà je suis la cité, je ne suis ni le
village, ni l’empire, ni le nomade, je ne proviens pas d’eux, je m’institue moi-
même, ce qui est justement le propre d’une cité». Evidemment cela entraîne de
très grandes conséquences, aussi bien politiques que philosophiques. Ce dont il
faut schématiser ici l’histoire, c’est en quelque sorte la forme générale de la pré-
supposition occidentale et philosophique. Et en ce sens, si la subjectivité n’est
pas comme telle formelle ment présente à la naissance de l’Occident, et il est
certain que elle n’y est pas, en revanche on peut montrer que l’Occident naît
dans la supposition, qui rend elle-même possible la subjectivité. Sans doute, la
subjectivité proprement dite met du temps à se déployer. On aura assez dit et
répété, vous le savez, qu’en un sens il n’y a pas de subjectivité avant Saint- Augus-
tin, ce qui veut dire pas de subjectivité avant le Christianisme. Ou bien certains
peuvent dire, en restant dans le domaine grec, pas de subjectivité avant Euripide.
Rien de cela n’est faux, et on peut dire aussi, pas de subjectivité avant Descartes,
à proprement parler. Mais on aura encore plus de raisons de dire qu’il n’y en a
pas encore de véritablement achevée avant Hegel. Il n’en reste pas moins que si
la subjectivité n’est pas, comme telle, présente à la naissance de l’Occident, et s’il
est vrai, globalement, que l’antiquité, c’est le monde sans subjectivité, (et encore
en partie le moyen-âge), néanmoins, le sujet dans sa structure la plus générale,
c’est-à-dire dans la structure de la supposition, est bien là dans la naissance de
l’Occident. Et à cet égard, je crois qu’on peut dire que la détermination, par
Heidegger, du moment cartésien comme le moment de l’irruption du sujet reste

159
Shift. International Journal of Philosophical Studies

trop courte. Elle laisse dans l’ombre quelque chose de cette supposition qui est
présente dès le départ. Je dirai donc que l’Occident, ou la philosophie, c’est ce
qui s’établit dans et comme la supposition, ou selon le rapport de supposition.
8. Je ne vais retenir maintenant de cette trajectoire de la philosophie que ce
qui engage le plus directement ou le plus visiblement la dimension du sujet
tel que je l’ai pris dans sa première définition un peu large, comme sujet de la
représentation et ou de la volition. En disant cela je me conforme, cette fois, au
geste de Heidegger qui désigne justement, dans le sujet cartésien, le sujet de la
représentation, et qui voit en lui le sujet comme tel, en général ou absolument;
mais ce sujet de la représentation il a lui-même une histoire où il ne se présente
pas tout à fait d’abord comme le sujet de la représentation. Partons si vous le
voulez bien d’Anaxagore, ou en tout cas d’Anaxagore tel que Platon le compre-
nait.
Anaxagore dont le Socrate de Platon admire tellement la grande idée, l’idée
majeure, (dans le Phédon 97 B), à savoir cette idée que le noûs, (mot d’où vient
«noétique», ou les mots de Husserl, «noème», «noématique», etc, l’intellect ou
l’intelligence, si vous voulez, c’est-à-dire la pensée dirigée de telle ou telle manière
ou encore l’intention, l’attention, la conception) que le noûs, donc, est l’auteur de
l’ordre du monde. Voilà pour Platon la grande trouvaille d’Anaxagore. Anaxa-
gore se distingue ainsi de ceux qui attribuaient au monde, comme sa cause ou
son principe, l’un des éléments de la nature, l’eau ou le feu par exemple. Anaxa-
gore dit que c’est le noûs qui est l’auteur de l’ordre du monde. Anaxagore qui est
de peu le cadet de Parménide, ce Parménide qui dit, comme vous savez, dans son
poème, que c’est la même chose que noein, penser, et noèma, cela qui est pensé.
Il y a donc évidemment là une configuration historique dans laquelle cette affaire
du noûs, de la pensée, joue un rôle très important. Et c’est à l’intérieur de ça, c’est
dans la matrice du noûs que le sujet commence à se préparer. Je laisse de côté
tout autre examen de la doctrine d’Anaxagore, et je ne retiens que ceci, qui nous
intéresse: le noûs d’Anaxagore n’est pas un élément naturel, et il n’est pas non
plus, en tous cas pas exactement, et pas d’abord, un dieu ni même un démiurge.
Bien qu’il soit appelé dieu ou divin par d’autres il n’est pas comme tel un dieu.
Il est la saisie à la fois ordonnée et ordonnatrice de quelque chose en général.
En tant que tel, en tant qu’intellect ordonnateur du monde, il a deux propriétés:
premièrement, il n’est pas donné par une expérience ou par un témoignage, il
est supposé. Voilà la supposition. Ce geste de supposition n’est pas propre à
Anaxagore, il est le geste de tous ceux qu’on appelle les physiciens ioniens, qui
supposent à l’univers un principe, l’eau, le feu, etc. Mais ce qui est supposé avec
Anaxagore, c’est l’ordre du monde, justement. Ce qui est supposé n’est pas une
matière première, c’est l’ordonnancement de toutes choses. C’est le fait que le
monde tienne, soit consistant, cohérent, relativement cohérent, qu’il ne soit pas
dans le pur illimité et mêlé. Anaxagore dit: les choses étaient illimitées et mêlées;
puisqu’il y a du non-illimité et du non-mêlé, puisque les choses sont distinctes,
ça suppose l’ordonnancement. C’est donc l’ordre qui est supposé à lui-même
comme ordonnancement. L’ordre comme fait est supposé comme acte. Il se sup-

160
Un sujet?

pose comme mise-en-ordre. Le fait supposé à lui-même comme acte, cela com-
porte aussitôt la dimension d’un rapport à soi. L’ordre se suppose. Notez aussi
au passage, si vous voulez regarder du côté, qui peut paraître tout à fait opposé
à Anaxagore, du côté qu’on dirait matérialiste de Démocrite, vous avez la même
chose. Les atomes et le rapport des atomes dans leur chute, c’est la supposition
de l’ordonnancement, de la mise en ordre, de l’ordre du monde. Il se produit
par chute et hasard, mais c’est une autre figure de la mise en ordre. Et peut-
être que ça nous donne toute de suite aussi, curieusement, une double figure du
sujet, soit le sujet comme un seul, un ordonnateur, soit le sujet comme autant de
petits «un», de singuli, autant de petits atomes qu’il en faut, si ce nombre peut
être arrêté. La supposition fondamentale, ou ce pour quoi on pourrait fabriquer
le mot de «subjection», c’est ce qui est à l’oeuvre lorsque le donné du monde
est saisi comme ordonné et lorsque du même coup, parce qu’il est saisi comme
ordonné, l’ordonnancement est supposé à l’ordonné. Mais l’ordonnancement est
supposé comme quelque chose qui est en dernière instance, peut-être, de même
nature que l’ordonné. Encore une fois, l’ordre se présuppose. Lorsqu’il s’agit
d’un dieu, qui crée ou qui fabrique le monde, l’ordonnateur est d’une autre es-
sence, d’une autre nature. Ici au contraire, il se pourrait bien que ce soit le même.
9. Deuxième moment, Socrate et Platon. Socrate est sans doute, et sans aucun
hasard, celui qui porte la première parole explicite, si on peut dire, de la subjecti-
vité: c’est le fameux «connais-toi toi-même», le fameux gnoti seauton, que Socrate
reçoit du dieu de Delphes. Et remarquez au passage qu’il y a là encore un dieu,
il y a encore la figure d’un dieu. Je dirais que ce dieu, c’est vraiment le dernier
dieu. Le dernier dieu qui lâche le premier mot, si vous voulez, de la subjectivité.
Lorsqu’on veut bien distinguer le Socrate historique du Socrate de Platon, on in-
siste sur le caractère avant tout moral, comme on dit, du «connais-toi toi-même»,
par différence avec ce que Platon va en faire. Mais ce qui nous intéresse pour le
moment, c’est le Socrate de Platon, c’est-à-dire justement le Socrate supposé par
Platon. Tout ce jeu de suppositions auquel Platon se livre avec Socrate et qui fait
que Socrate est aussi le premier sujet du texte, du dialogue philosophique. Or,
ce Socrate supposé par Platon, ce Socrate que Platon érige en figure de la philo-
sophie, c’est une figure de supposition. Par exemple, Socrate est très laid, mais
à l’intérieur il a l’âme la plus belle. Et pour revenir à l’oracle de Delphes Socrate
a une propriété remarquable, étonnante, qui est la capacité d’appliquer sa pen-
sée à soi-même (voyez dans le Banquet 174 D). Le Socrate de Platon, ce n’est
pas simplement celui qui porterait une sentence morale «connais-toi toi-même»,
mais il se distingue par ce savoir-faire -d’appliquer son noûs à lui-même -, c’est-
à-dire que ce que le dieu lui commande est déjà prêt, présupposé en lui, comme
sa nature. Donc le noûs appliqué à soi, tourné vers soi, se soumettant lui-même
à lui-même, voilà Socrate, voilà l’exemple, voilà le paradigme. Pour Platon, cela
donne le principe d’un «se connaître soi-même» non plus moral, mais théorique,
dont je prends maintenant une autre détermination dans le texte de Platon: se
connaître soi-même supposerait la possession d’un savoir qui se sache lui-même,
épistémè épistémès, la science de la science. Une science de la science, c’est dans

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Shift. International Journal of Philosophical Studies

le Charmide, en 169 DC, que vous trouvez ça. Une science de la science c’est
une supposition qu’on fait à ce moment là (Platon emploie le verbe sunchôrein,
admettre, faire une hypothèse). On fait l’hypothèse d’une science de la science.
Un savoir qui se sait, une épistémè épistémès, ce serait la présupposition d’un
«se connaître», lui-même présupposé pour pouvoir être sage. Le «se connaître»
demanderait la médiation d’une science qui soit à elle-même sa propre science,
d’une science que se suppose à elle-même. Donc un savoir qui se sait serait la
présupposition d’un «se connaître soi-même», et inversement, un rapport à soi,
serait la présupposition d’un savoir véritable. C’est ce dont nous retrouverons le
fruit chez Descartes: le savoir véritable est un savoir qui se sait, c’est même là le
savoir véritable. Certes, dans la suite du Charmide, cette science de la science ne
peut pas être trouvée; au contraire, on conclut qu’on ne peut pas la trouver, et
que tout ce qu’on sait, c’est qu’on ne sait pas. Vous le savez, la grande formule
socratique, l’aboutissement; du «connais-toi toi-même» dans l’ordre théorique,
c’est: «tout ce que je sais, c’est que je ne sais rien». Mais cette négativité n’abolit
pas la portée de la supposition. Comme vous le savez aussi, très souvent chez Pla-
ton la conclusion aporétique d’un dialogue est un procédé pour faire entendre
ce qu’il en est de la vraie solution, et d’abord ceci, que la vraie solution ne peut
pas être donnée par les voies de la dialectique, elle est au delà de la dialectique et
du dialogue. Et en effet, ce dont il est question ici, et qu’ailleurs Platon appelle
noésis noéséos, l’intelligence de l’intelligence ou la pensée de la pensée, c’est au-
delà de la dialectique. Nous avons à revoir cela: comment le terme ultime de la
présence à soi, c’est-à-dire aussi la supposition première ou dernière de toute
supposition, c’est toujours à la fin ou au-delà des dialectiques que ça se présente.
Pour le dire brutalement: la supposition ultime est toujours supposée hors de
portée. Ou encore, elle est supposée en deux sens: posée dessous, au principe,
et supposée, mais non posée. Cette négativité inhérente à la supposition fait une
bonne partie de l’enjeu du «sujet». Donc maintenant le savoir en tant que «se
savoir» est un rapport à soi, et le rapport à soi est un savoir de soi. Voilà le deu-
xième état, si vous voulez, de la matrice suppositionnelle.
10. Troisième moment, Plotin. Plotin fait avancer les choses d’un cran en di-
sant ceci, qui est dans la troisième Ennéade, au livre 9: «Quand nous pensons, et
que nous nous pensons nous-mêmes nous voyons une nature pensante (...) Cette
pensée, présuppose une pensée antérieure, qui n’implique pas de mouvement».
Ici on a un tour de plus: nous nous pensons nous-même et nous nous trouvons
en nous comme nature pensante, et celle-ci présuppose une pensée antérieure,
qui n’implique pas de mouvement, tandis que notre pensée est toujours mouve-
ment vers quelque chose. Il faut donc introduire ici une supposition sous la sup-
position précédente. Pourquoi faut-il une telle supposition? parce que pour Plo-
tin, en général tout ce qui est en mouvement présuppose quelque chose qui ne
soit pas en mouvement, qui ne soit pas en déplacement. C’est-à-dire aussi qui ne
soit pas en puissance, mais qui soit purement et simplement, absolument présent
et en acte. Donc pour qu’il y ait quoi que soit en mouvement, il faut supposer
quelque chose en acte. On a donc ici, en fait dans une sorte d’aboutissement

162
Un sujet?

conjoint de Platon et d’Aristote, l’idée que la pensée de la pensée, la supposition


par excellence, est l’acte pur d’un noûs, ou le noûs comme acte pur; c’est-à-dire
pour la première fois, le noûs est défini comme pur rapport à soi sans mouvement
hors de soi. Et en effet, dit Plotin, la pensée que nous avons de nous-mêmes nous
donne l’image de ce qu’il en est du noûs, mais seulement l’image.
Chez Plotin, il y a encore un degré supplémentaire de supposition. Le noûs,
comme présence à soi de la pensée, présuppose encore l’un. Dans l’un, dit Plo-
tin, il n’y a que l’un, et l’un doit bien être présuppose. Dans l’un il y a que l’un,
c’est-à-dire qu’il n’y a même pas la légère, l’infime distinction impliquée dans
«pensée de la pensée», dans noésis noéséos. C’est pourquoi on accède à l’un selon
Plotin par ce qui s’appelle extase, et qui n’est plus connaissance. Nous avons
ainsi un double trait de la supposition: d’une part, il faut une division d’avec soi,
pour se poser sous soi-même, derrière soi-même, noésis noéséos, fondement pour
soi-même. Et d’autre part et en même temps, c’est comme cela que l’unité d’un
soi sans division peut être posée au fond ou au principe. On a donc à la fois divi-
sion et unité. Toutes les figures du «sujet» hériteront de cette structure double.
11. Quatrième moment: Augustin. Augustin, c’est vraiment le tournant de
l’Antiquité, quant à la subjectivité. Non pas lui seul, évidemment, il s’agit en fait
du christianisme tout entier et il faudrait s’arrêter très longuement là-dessus. Je
vous signale, parce que j’en reparlerai peut-être un peu que le dogme central
du christianisme, à savoir le dogme de l’incarnation, s’énonce théologiquement,
théologico-philosophiquement, en disant que le Christ est une seule nature en
deux hypostases. Or hypostasis n’est qu’un autre mot pour hypokéimenon, (placé
dessous, supposé, mot très important chez Aristote), qu’en latin on traduit par
subjectum. Il y a toute une famille là, «substance», «sujet», «hypostase», «hypo-
kéimenon», dont on pourrait dire que c’est toute la famille du suppositum. Le
dogme central du christianisme est donc le dogme de un en deux sujets, ou deux
en un sujet (en une persona). Et la supposition s’appelle ici mystère.
Mais revenons à Augustin. Avec lui le «être supposé à soi», et être ainsi présent
à soi, comme savoir de soi, devient l’affaire spécifique d’une instance propre, qui
va être justement l’instance du propre, et qui va être ainsi, déjà, le lieu même
du sujet en un sens pré-moderne: il s’agit de l’âme. (Plus tard, Leibniz dira «le
sujet ou l’âme».) En tant que distincte du corps, l’âme se distingue précisément
par la présence à soi, voire par l’immanence à soi, la présence sans écart et
sans mouvement. Elle se distingue par l’intériorité, ou plutôt, dans les termes
de Saint Augustin par l’intimité, intimité qui est aussi intimité avec Dieu, ou
intimité divine en moi, ce qui est la même chose. Ainsi, l’âme ne se distingue
pas du corps pour des motifs d’abord moraux. L’âme se distingue d’abord pour
ce motif ontologique qu’elle est le lieu de la vraie présence. (De Trinitate, livre
10, chapitre 9). Une présence vraie, intérieure, non simulée: l’âme c’est le nom
de la vraie présence, c’est-à-dire de la présence à soi, sibi praesens, présence à
soi-même. Présence qui touche, en quelque sorte, sa propre supposition, qui
est indiscernable d’elle. Dès ce moment là (ce qui nous entraîne de plus en plus
vite vers la subjectivité moderne) s’engage un rapport de soi à soi qui constitue

163
Shift. International Journal of Philosophical Studies

cette présence à soi. En effet, il suffit qu’on dise à l’âme, «connais-toi toi-même»,
cognosce te ipsam, c’est-à-dire qu’on renouvelle à l’âme le commandement
socratique, dit Saint Augustin (c’est toujours dans le même passage du traité de
la Trinité), pour que, au simple énoncé du te ipsam, «toi-même», elle se connaisse
elle-même, cognoscit se ipsam. C’est-à-dire qu’il lui suffît d’être désignée dans
son identité, pour se connaître: ce qui veut dire aussi qu’il n’y a rien d’autre
à connaître que ça, que le se ipsam, le soi-même, ou si vous voulez, connaître
que je suis moi-même, c’est la même chose que me connaître moi-même. Je suis
moi-même, je m’épuise en quelque sorte dans cette propriété d’être moi-même.
C’est cela que je suis fondamentalement. Cette propriété d’être moi-même, est la
propriété la plus propre, la propriété de toutes les propriétés.
Ici vient au jour quelque chose qui aura une grande importance dans toute
la suite, ici surgit la ponctualité du sujet. Elle a toujours été là présente, latente,
mais ici elle est vraiment marquée, indiquée, et plus précisément elle est indiquée
comme une ponctualité énonciatrice et réceptrice en même temps. C’est l’affaire
de cet appel, de cette injonction, cognosce te ipsam: alors, dit Saint Augustin, non
seulement elle comprend, mais elle comprend tout de suite, eo ictu, à ce coup,
de ce coup, d’un seul coup. Ictus, c’est le coup, le choc, et aussi le battement de
la mesure, ou du pouls. La supposition devient celle d’une énonciation ou d’une
adresse du sujet au sujet, en un coup, un battement d’interpellation. Il y a une
adresse, une parole adressée, l’ego se connaît comme ego, dans la mesure où un
tu lui est adressé sous le régime du «toi-même». Donc ego devient aussi celui qui
s’adresse à lui-même, qui s’appelle ou qui s’interpelle. Ou bien c’est ainsi qu’il
devient ego, c’est ainsi qu’un certain «un», un supposé «un», devient ego. Et
cette interpellation indique donc un «entre», un entre toi et moi, qui chez Augus-
tin se passe entre Dieu et moi: c’est Dieu qui me dit «connais-toi toi-même». Et
c’est cet entre Dieu et moi qui ouvre tout l’espace des Confessions, c’est-à-dire
ce qui nous donne aussi, le premier modèle de cet épanchement, pour le dire
d’un terme romantique, du sujet, ouvrant une série qui passera par Montaigne,
Descartes, Rousseau ou Proust. Mais cet espace entre Dieu et moi, c’est aussi
bien l’espacement entre deus intimior intimo meo, dieu plus intime à moi que
moi-même, et moi-même. En même temps qu’il renvoie à de l’autre il renvoie au
même dans sa supposition la plus supposée, si on peut dire, et la plus intime. La
supposition ultime, c’est cette intimité, plus intime à moi que moi-même qu’est
l’intimité de Dieu en moi. La supposition de l’autre, sous la position du même,
soutenant la position du même, est la condition et peut-être la condition décisive
du sujet. C’est-à-dire aussi, l’autre supposé même autant que le même supposé
autre.
12. Cinquième moment, Descartes, évidemment. En un sens, tous les éléments
de l’ego sum sont déjà donnés. Et ce qui s’y ajoute, avec Descartes, c’est en
quelque sorte trois déterminations, qui vont opérer le «moi je» complet du sujet.
Ces trois déterminations sont: la nécessité, la temporalité et la substantialité. Ces
trois déterminations, elles étaient là latentes, virtuelles, les voici portées au jour.
Premièrement la nécessité. La supposition du sujet chez Descartes est rendue

164
Un sujet?

strictement nécessaire, comme vous le savez bien, par le doute. Le doute permet
non seulement de porter à la pureté absolue ce moi qui pense en doutant, et qui
pense «que puisque je doute il faut bien que je sois quelque chose». Non seu-
lement, ça porte ce «je» à sa clarté absolue, mais ça y porte nécessairement. On
ne peut rien faire d’autre qu’aboutir à ça. Cette supposition n’est pas une sup-
position au sens d’une hypothèse, ou bien c’est une hypothèse contrainte, c’est
l’hypothèse contre laquelle on ne peut rien faire, et qui pourtant n’est pas prou-
vée, n’est pas démontrée. Le ergo qui se trouve dans le texte du Discours, Lacan
l’a très bien vu, est presque un lapsus de Descartes. Ego sum n’est pas démontre,
c’est une inférence nécessaire mais sans preuve; la preuve, c’est l’évidence. Et la
nécessite, c’est ce qui a mené à cette évidence absolue. Mais alors, aussi, au bout
de cette nécessite, le sujet, qui je vous le rappelle ne s’appelle toujours pas sujet, il
s’appelle ego, le sujet devient alors la supposition de l’être même, du seul être, en
tout cas, sur quoi se fonder. Ce n’est pas une instance parmi d’autres, cela dont
on a déterminé la nécessaire structure de supposition, c’est l’être lui-même qui
s’est supposé et qui se suppose comme le «je suis», ego sum, j’existe.
Deuxième élément, la temporalité. Ego sum est vrai, dit Descartes, autant de
fois que je le prononce, ou que je le conçois dans mon esprit. Autant de fois que
je le prononce: ce qui est adressé chez Saint Augustin, cognosce te ipsum, devient
simple profération à la première personne: ego sum. Autant de fois, ou encore,
dans la deuxième Méditation, «autant de temps que je pense (...) si je cessais de
penser, je cesserais en même temps d’être ou d’exister». Donc ego sum est vrai
quand je le pense ou quand je le dis, c’est-à-dire que c’est au moment où je le
pense que cet énoncé est adéquat à la réalité. Ego sum est réel autant de temps
que je pense. Ainsi, toute pensée n’est pas la pensée ego sum, mais toute pensée
suppose comme son fond l’être de ego. Et tout ego suppose comme son fond, le
penser. D’une part donc, le penser se suppose comme un «se penser», penser c’est
se penser. Se penser n’est pas une détermination supplémentaire qui s’ajoute,
c’est au contraire une détermination de supposition nécessaire. Et d’autre part,
cette présence à soi se fait présent, présent temporel, présent de l’instant. Ictus
d’une présence de l’être qui apparaît et disparaît à chaque moment. (On trouvera
les conséquences de cela avec Kant, c’est pourquoi je le relève). Parce que ce qui
chez Descartes se tient encore immobile dans la présentation d’un présent, de
ce présent de l’énonciation ego sum, ce sera chez Kant emporté dans le passage
permanent du temps, et même comme ce passage.
Enfin, troisièmement, la substantialité. Ce qui est supposé, dans l’ego sum,
c’est l’être lui-même, le fondement de l’être ou l’être-ego comme le minimum ab-
solument nécessaire d’être. Mais alors ego qui sum se suppose lui-même comme
quelque chose. Or dans l’instant de son énonciation, il n’est rien. L’ego sum n’est
en quelque sorte que son flatus vocis. (Lacan, sans le thématiser, à ma connais-
sance, a très bien vu cela). Et il ne prend consistance qu’en s’attribuant immé-
diatement la consistance d’une chose; il fait de son existo une chose, c’est-à-dire
aussi bien pour Descartes, substance, la chose pensante. Une substance dont
toute l’essence ou la nature n’est que de penser.

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Shift. International Journal of Philosophical Studies

C’est exprès que j’ai laissé de côté jusqu’à présent le motif de la «substance».
Jusqu’ici nous avons eu le motif de la supposition en tant que rapport à soi,
noésis noéseos. Nous n’avions pas encore rencontré, ou à peine, ce qui pour la
première fois nous donne un mot de la famille du suppôt, de la supposition et
du sujet, le mot de substance. Le mot de «sujet» n’existe pas chez Descartes au
sens que nous lui connaissons, et il est tout à fait faux, historiquement, de dire
«le sujet cartésien». Le mot de «substance», en revanche, s’y trouve. La cogitatio
est l’attribut de la substance qu’est pour Descartes, la mens, l’esprit. Qu’est-
ce qu’une substance? Descartes le dit lui-même, reprenant des définitions qui
viennent de la scolastique: «toute chose dans laquelle réside immédiatement,
ou par laquelle existe quelque chose que nous concevons, c’est-à-dire quelque
propriété, qualité ou attribut, dont nous avons en nous une réelle idée, s’appelle
substance» (IIe Réponses, Définitions). La substance, c’est ce qui est supposé par
et à quelque chose, son substrat, son rapport.
(Je dirai au passage, que lorsque Lacan écrit «le sujet cartésien est le pré-
supposé de l’inconscient», – c’est dans les Ecrits page 839 –, à ce moment là il
ne retient que l’aspect d’énonciation de l’ego sum, il oublie la substance ou la
substantialité qui est aussitôt supposée à l’ego. Et c’est sans doute ce qui reste à
interroger dans le sujet lacanien: substance, ou énonciation? C’est-à-dire, deux
modes différents de supposition).
Il faut dire un mot de l’histoire de la substance. Elle vient d’Aristote. La
substance, dont le nom latin veut dire le «placé-dessous», c’est la traduction
du grec hypokeimenon. Jusqu’ici, la supposition, nous l’avons envisagée plutôt
comme un geste, n’est-ce pas, le geste de supposer, de se supposer soi-même
devenant geste de s’adresser à soi. Mais du côté de la substance, la supposition
est une position, c’est la position de ce qui chez Aristote s’appelle ousia, ce qui
se traduit par essence, et aussi quelque fois par substance. C’est-à-dire, ce qui
n’est pas rapporté à un hypokeimenon, ce qui est par soi-même hypokeimenon.
Ce sous quoi il n’y a plus rien. Dans la scolastique, hypokeimenon sera traduit
par subjectum, et ousia par substantia. Mais ce qui doit le plus nous intéresser,
c’est que chez Aristote l’hypokeimenon, le ce-qui-est-placé-dessous, c’est le
quelque-un: c’est ekaston, un «chacun». Ou bien en latin scolastique, le singulare
suppositum, le singulier supposé, supposé à toutes ses propriétés ou qualités.
Pour Aristote, un homme, chaque homme, ekastos, un homme, ou un cheval
singulier, individuel, voilà le «ce qui est sous les propriétés», le propre lui-même.
Ainsi, la substance nous introduit à une autre considération de la supposition,
en ce qu’elle est plutôt celle d’une position par rapport à celle d’un geste, mais
aussi en ce que elle renvoie plutôt à l’empirique, au sensible, au concret, au un de
ce que nous appelons des individus. La substance fait signe en direction de l’ex-
périence, ce serait l’expérience comme supposé, tandis que le geste en direction
au contraire de se penser faisait signe, disons, vers une transcendance. Mais je
vous fais remarquer que ce qui est commun à ces deux ordres de la supposition,
c’est que à terme, ils concernent tous les deux le «un». On pourrait dire, d’un
côté le grand Un, la transcendance du Un ou comme Un, et de l’autre côté le

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Un sujet?

petit un la multiplicité des individus. Mais à part ça, qui est peut-être beaucoup,
c’est toujours du un qu’il s’agit.
13. Ce deuxième aspect de la supposition, la supposition substantielle, en-
traîne trois remarques.
D’abord, et pour rester près de Descartes, la substance pensante n’est
évidemment pas connue par elle-même. Pour toute la tradition aristotélicienne,
la substance ou l’être singulier n’est pas connaissable par lui-même, mais seule-
ment par ses qualités, par ses accidents: cet être singulier a des cheveux noirs,
des lunettes, parle français etc. Mais on ne peut pas le connaître par lui-même.
Cela reste vrai pour Descartes, qui dit bien en effet que la res cogitans, ou la
mens, la substance pensante, je ne peux pas la connaître par elle-même, je la
connais par son attribut qui est la cogitatio. Cependant, la pensée comme attri-
but de la mens ne se distingue de sa substance que par une distinction de raison,
dit aussi Descartes, (Principes, 1.62.) c’est-à-dire qu’il n’y a qu’une distinction
formelle, logique, mais en réalité il n’y a pas de distinction. L’attribut «pensée»
n’est réellement pas distinct de la substance pensante. Ce par quoi je connais la
chose pensante, à savoir la pensée, la cogitatio, cette propriété équivaut à la chose
même. Donc c’est comme si je connaissais le support lui-même de la propriété.
Par conséquent, on peut dire qu’avec Descartes il s’agit d’une appropriation par
soi de la substance ou que le sujet pose vraiment sa supposition, ou se pose
en se supposant. Cette appropriation par soi de la substance est totalement
étrangère à l’esprit d’Aristote. Avec Descartes, la psyché, en tous cas la psyché de
l’homme devient la mens elle-même, comme energéia, c’est-à-dire comme être
en acte. La dimension augustinienne, ou plotino-augustinienne de l’acte est ici
reprise comme substance. Pour Aristote, certes, la substance est acte, mais en
tant qu’acte, elle ne se connaît pas comme substance. Avec Descartes, on a, si
vous voulez, l’être qui se suppose nécessairement lui-même, et qui s’atteind et
se connaît lui-même en acte dans cette auto-supposition. D’un seul coup, et en
même temps d’un coup qui est aussi comme je le disais tout à l’heure une coupe
temporaire, un présent temporaire.
Deuxième remarque: en s’éloignant de Descartes, en allant plutôt vers ce qui
suit, on a donc deux schèmes de la supposition, qui se superposent et commencent
peut-être à se brouiller l’un l’autre. Il y a le schème du chaque un, de l’ekastos ou
du tis, donné en acte à l’expérience. Je dirais, la supposition comme position d’un
don actuel. En acte nous est donnée une existence, dans une sorte d’antécédence
absolue, qui coupe court à toute autre présupposition. La substance, elle est là,
de même d’ailleurs que pour Aristote, la perception est là, donnée, donnante, la
perception du monde et des choses qui sont dans le monde, des substances. Il n’y
a pas si vous voulez, de genèse à supposer en plus. Tandis que l’autre schéma de
la supposition, c’est celui d’un geste, c’est un schéma de genèse ou de production
d’engendrement ou de création. La supposition est une opération, qu’il faut pro-
duire et qui se produit elle-même. On a le sujet comme donné, ou le sujet comme
opéré. Le supposé donné se retirant presque à lui-même la possibilité du «sup».

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Shift. International Journal of Philosophical Studies

Ou bien le sujet comme le «se supposer soi-même», le geste qui s’approprie sa


propre position ou fondation.
Troisième remarque: l’hypokeimai, le «être à la base de», au fondement, c’est
aussi ce qui nous oblige maintenant à raccrocher, si j’ose dire cet autre sens de
«sujet», qui est plus proprement le sens du subjectum latin, et qui travaille dans le
latin tardif, puis dans le français, au point qu’à l’époque de Descartes, il est sur-
tout connu dans cet autre sens à savoir le sens de la sujétion. Hypokeimai, c’est
aussi «être plié à», soumis à une autorité. Subjectum a d’abord ce sens en latin,
d’où le mot sujétion en français, puis le «sujet» d’un prince, en allemand Unter-
tan, celui qui est soumis. C’est de chez les Allemands, (Leibniz, Kant, Hegel) que
viendra le plus proprement le sens moderne du Subjekt, qui rejaillira sur le sujet
politique. Vous allez me demander ce que fait ici ce sujet de la sujétion, de l’assu-
jettissement. Il ne fait rien, sans doute, il relève d’une autre histoire. Mais ces
histoires se croiseront, et il n’est pas utile de lancer simplement une indication,
qui est que ce sujet de la sujétion est un sujet qui n’est pas dessous au sens d’un
support, ou d’un fondement c’est un sujet qui est abaissé, qui est jeté sous. C’est
cela qui vient du latin subjectum, jeté dessous.
Un être-jeté du sujet, nous ne trouverons pas cela dans la philosophie avant
Heidegger, qui aura voulu penser à la place du sujet cartésien quelque chose
comme un être jeté. Mais je voulais signaler cela tout de suite pour indiquer que
par une simple proximité des termes cet être abaissé, cet être jeté, côtoie très cu-
rieusement l’être supposé, au sens où la supposition est une élévation en dignité,
puisqu’on gagne de plus en plus vers le fondement. Ce côtoiement produit peut-
être sourdement des effets dans le destin politique du mot sujet. C’est ce même
mot qui donnera, pas très longtemps après Rousseau, – et grâce à lui – le sujet du
droit et du contrat comme un sujet actif, libre, responsable, tout à fait opposé au
sujet de sa majesté.
(Je vais devoir aller de plus en plus vite, mais aussi pour dire des choses sans
doute de mieux en mieux connues. Il faudrait passer par Leibniz, et par la mo-
nade leibnizienne, mais je ne le fais pas, parce que ces choses là étant un peu
moins connues de vous, sans doute, ça nous prendrait trop de temps. De même
pour la constitution du sujet de l’empirisme, du sujet des facultés. Ces étapes
seraient nécessaires pour être complet. Mais il faut abréger).
14. Sixième moment, Kant. Avec lui on peut dire qu’on a le déploiement et
l’installation du sujet moderne de la philosophie dans ses caractéristiques les plus
importantes. On dit toujours que la révolution, la dite révolution copernicienne
de Kant a consisté à faire tourner autour du sujet ce qui avant tournait autour de
l’objet. C’est bien ce que dit Kant lui-même. Mais en même temps, il faut souli-
gner que ce sujet, on n’y va plus qu’à partir de l’objet. C’est-à-dire, à partir de ce
que Kant appelle l’expérience possible. C’est de l’expérience possible, celle du
monde, celle que fait du monde la raison finie qui est la nôtre, qu’on remonte aux
conditions de possibilités a priori de cette expérience possible. En cela, le sujet
est ici plus que jamais structuré par la supposition: que faut-il supposer comme
conditions pour que cette expérience, que nous avons, soit possible? C’est la

168
Un sujet?

question que Kant nomme transcendantale. Mais de même que cette expérience
qui n’est possible qu’à l’intérieur de certaines limites, celles de la sensibilité, celles
de l’entendement, et celles de l’hétérogénéité entre les deux, de même le sujet
transcendantal va être en lui-même divisé. Ainsi, avec Kant c’est le un qui tout à
coup échappe. Sa supposition demeure, mais comme supposition vide (celle de
Dieu, ou d’une âme rationnelle, si vous voulez). Le sujet transcendantal est lui-
même d’emblée divisé en facultés. Il est le sujet de la faculté de connaissance ou
le sujet de la faculté de désirer, ou le sujet de la faculté de plaisir ou de déplaisir.
Le premier sujet supposé par la nature, le deuxième par la moralité, le troisième,
par l’art et par la pensée de la finalité en général. Ces sujets s’appellent respec-
tivement l’entendement, la raison, la faculté de juger. Par ailleurs, il y a le sujet
empirique, c’est-à-dire le sujet tel qu’on le trouve lui-même dans l’expérience, le
chaque-un phénoménal, qui est un objet, comme tout phénomène. Mais de ce
sujet empirique, on ne remontera jamais à une substance une, transcendante, qui
serait la substance du sujet. Donc la supposition a tout entière basculé dans le
geste transcendantal des conditions a priori de possibilité. Mais un moi substan-
tiel, nous ne pouvons pas le connaître, c’est un être de raison ou de fiction. Il n’y
a pas comme dit Kant de psychologie rationnelle. Ce qui veut dire: la raison n’est
pas une âme, encore moins un esprit divin. La substantialité est perdue de deux
manières: elle est perdue dans une fonctionnalité des facultés, et elle est perdue
dans une psychologie qui ne peut être qu’empirique, ou dans une anthropologie.
Il se produit ainsi une anthropologisation, si je peux dire, qui ouvre à tous les
emplois modernes banals du mot de sujet où se mêlent des valeurs d’individu,
d’agent, de responsable et d’existant simplement là, erratique, tout cela à la fois.
Sous l’effet de cet éclatement du sujet, la supposition apparaît plus pure, plus
nue, plus nette que jamais, et en même temps elle devient supposition entière-
ment formelle. «Sous» les facultés comme «sous» le moi empirique, il n’y a de
«je» transcendantal que comme une pure forme logique. Il faut le supposer pour
que «mes représentations soient miennes», mais «on ne s’occupe même pas de
sa réalité» dit Kant. Mais cette forme vide, ce point, je ne peux absolument pas
accéder à sa substantialité.
Et je ne le peux pas plus dans les autres instances de la subjectivité. En effet,
le sujet de la moralité, le sujet de la raison pratique, ça n’est pas autre chose que
le sujet en tant que liberté. Et le sujet en tant que liberté ne peut pas plus se
connaître que le sujet théorique. Bien plutôt, il se trouve d’abord dans une posi-
ton assujettie, comme celui à qui est adressé le fameux impératif catégorique. La
liberté s’adresse à elle-même non plus un «connais-toi» mais un «agis». Dans le
«agis» le sujet est le sujet d’une soumission qui est soumission à la supposition
absolue et inaccessible de sa liberté.
Enfin, le sujet du plaisir et de la finalité, ce serait justement là qu’on pour-
rait dire que Kant cherche l’unité de tout le sujet, ce serait le libre accord des
facultés. Mais précisément cet accord est pour Kant seulement subjectif; et voilà
peut-être pour la première fois, le mot subjectif dans cette valeur moderne du
«seulement subjectif». L’unité d’un sujet dans le plaisir ne peut être que postu-

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lée. Ou encore, elle est à la limite, elle se perd en se donnant (c’est pour Kant
le sublime). Et du même coup, il est très remarquable qu’avec cette subjectivité
s’introduit aussi une pluralité des sujets. L’accord du libre jeu des facultés devrait
être, identiquement et en même temps, l’accord de tous les sujets donnés dans
l’expérience, leur accord dans une communauté qui, ne pouvant pas se réaliser
elle-même comme sujet commun substantiel, est au moins pour Kant la com-
munauté de la discussion. En discutant du beau et des fins, on postule fût-ce à
l’infini, l’idéal d’une humanité rationnelle, l’accord des sujets empiriques, et du
coup la réalisation finale du sujet. La supposition se fait projets, ou projection,
elle se fait action, ou rêve (ici, je n’examine pas ce point).
La supposition est donc ici à son maximum en deux sens: d’une part, la place
du sujet est entièrement occupée par le transcendantal, c’est-à-dire par la déter-
mination de ce que l’expérience suppose comme ses conditions, mais sans un
accès à la substance du sujet. D’autre part, la supposition de la liberté se fait
commandement, action et pratique de la communauté des sujets empiriques qui
se règle sur l’idée d’un sujet final, postulé mais hors de prise. Ainsi, de toutes
les manières, l’acte ou l’actualité de la substance est hors de prise. Le chaque-
un d’Aristote n’a plus sa consistance de donné-en-acte, ou bien, sa donation
empirique reste à distance infinie de son assomption en sujet-de-soi. C’est cette
distance que Hegel tente de résorber.
15. Dernier moment, donc et septième comme il se doit, Hegel. Avec He-
gel, rassurez-vous on va pouvoir aller très vite pour conclure, parce que tous
les éléments sont donnés. Là où le sujet kantien est éclaté entre la multiplicité
empirique de l’existence et la détermination transcendantale elle-même divisée
en facultés, Hegel restitue la substance. Il la restitue en produisant sa dernière
forme, sa forme achevée. Il fait de la substance un mouvement, ou un processus,
le processus du se-rapporter-à-soi par quoi le sujet devient ce qu’il est. Le sujet
se produit en passant par sa propre négativité. Hegel fait la synthèse des supposi-
tions, du geste opératoire de se supposer et du geste positionnel de la substance.
Cette synthèse est le sujet au sens hégélien. C’est pourquoi le grand énoncé de
Hegel, c’est que le vrai n’est pas substance mais sujet. Ce qui veut dire qu’il est
mouvement de se poser soi-même. Mais se poser soi-même veut dire désormais
se poser à travers ce vide de substantialité qui a été ouvert par Kant. Ce vide
de substantialité correspond au monde de l’expérience. Le sujet est ce qu’il est
en devenant ce qu’il est, en traversant la négativité, c’est-à-dire en traversant ce
qui n’est pas soi. Le sujet dans l’expérience devient autre que soi, et c’est ainsi
qu’il devient absolument soi. Il est l’expérience de soi comme autre, et de l’autre
comme soi. Il y a un grand modèle là derrière, une supposition de tout l’hégé-
lianisme, c’est le modèle christique justement. Le Christ devient ce qu’il est, en
traversant la mort, c’est-à-dire la négativité de la condition finie. Le sujet hégélien
c’est fondamentalement le sujet qui s’approprie lui-même par le mouvement de
s’incorporer sa propre négativité.
Le premier moment de cette négativité, c’est le langage. Le langage, dit le
début de la Phénoménologie de l’esprit, c’est ce qui tout d’abord nie la pré-

170
Un sujet?

sence sensible. Je dis «maintenant c’est le jour», et puis je redis ça à minuit,


et ce n’est plus vrai, le jour n’est plus là, mais la vérité, comme dit Hegel, la
vérité ne perd rien à être conservée. Cette vérité conservée en l’absence de la
chose, c’est la vérité du sujet. Et au terme du mouvement qui commence par
cette négativité du langage, il y a le sujet qui, traversant toute la négativité,
celle de l’histoire, celle de toutes les formes de l’expérience, devient soi, le soi,
en se posant absolument au fond de sa propre opération, et ce fond apparaît
alors comme un sommet, un trône, comme le disent les dernières phrases de la
Phénoménologie de l’esprit, «la certitude de son trône». La supposition s’avère
comme superposition. Mais en même temps, le fond et le trône qui ont ainsi
été acquis, ne l’ont été que par et comme la traversée de la négativité, ce que
Hegel marque par l’autre mot, qui désigne l’autre côté de la christologie, le
calvaire. La certitude de son trône et le calvaire. Le trône garde en soi le cal-
vaire, et ainsi il est le trône. Ainsi est atteinte «la concentration en soi-même
de la substance en tant que savoir de soi». Le savoir de soi, complètement
concentré en lui-même, est devenu présence à soi absolue, sans reste. Mais en
même temps, cette présence à soi n’est aussi bien que présence au négatif qui
fait sa ressource, son ressort essentiel, au négatif de substance qui est sa subs-
tance même. Le sujet édifie son trône sur le calvaire de sa substance, et alors
on a à faire à une présence pure, si vertigineuse ment et si infiniment supposée
à soi, qu’elle est indéfiniment aussi bien présence à soi complètement achevée,
pleine et sans reste, que perte absolue et continuellement renouvelée de soi.
Dans son sens achevé, dans son sens plein, complet, mais aussi historique-
ment achevé, clos, bouclé avec Hegel, le sujet est la supposition pure. Il se
pose dans la mesure exacte où il se sup-pose à lui-même, et cette sup-position
est sa propre négation, et ainsi la supposition est le mouvement d’incorporer
cette négativité comme sienne, comme propre. Le sujet ne se pose que dans la
mesure même où il se dépose. Son unité, son être-un, est donc à la fois absolue
et absolument effondrée dans sa supposition.
16. Ainsi, cette gigantesque machine de la supposition, qui va d’Anaxagore
à Hegel, révèle la logique absolue de la supposition. Car ou bien la supposition
serait un enchaînement infini, qui demanderait toujours une autre supposition,
ou bien il y a une butée dernière, ce serait le «un», dont précisément le statut
s’est toujours soigneusement dérobé. Je conclus donc aujourd’hui là-dessus: en
son sens achevé, le sujet c’est la supposition pure, en tant que la supposition
pure ouvre sur sa propre négativité de supposition. Et en même temps, ce sens
achevé du sujet, correspond aussi bien à l’éclatement des sens du sujet, en autant
de sujets qu’il y a de facultés, ou en autant de sujets qu’il y a d’instances d’exis-
tence, dans le monde de l’expérience. C’est-à-dire que dans les deux cas, avec la
supposition pure, comme avec l’éclatement anthropologique des sujets ou des
subjectivités, dans les deux cas, c’est bien l’unité c’est bien le un qui est perdu
(qui avait peut-être été perdu dès le début). Aussi bien le un du ekastos, que le un
comme communauté des sujets, ou comme unique sujet, transcendant ou trans-
cendantal. C’est pour cette raison que je partirai la prochaine fois de la question

171
Shift. International Journal of Philosophical Studies

du un ou du quelque un, pour me demander comment comprendre autrement


la supposition du un.

QUELQU’UN

J’enchaîne sur la conclusion du premier exposé, qui est donc la suivante: ce


qu’il convient d’appeler sujet en philosophie, selon la lecture de la tradition phi-
losophique que je vous ai proposée, c’est la supposition de soi, ou bien c’est la
substance, en tant que supposée par les accidents ou par les qualités, mais ne
supposant elle-même plus rien, et douée de la propriété de se supposer elle-
même. Elle devient ainsi le processus infini de son auto-constitution ou de son
auto-engendrement, comme on a pu le voir se mettre en place d’Anaxagore à
Hegel, depuis la supposition que l’ordre du monde se suppose lui-même comme
noûs ordonnateur, jusqu’à cette déposition de soi et de la substance dans le néga-
tif par quoi le sujet conquiert, en somme, l’abîme de sa supposition (ou bien,
s’abîme lui-même en lui). Par conséquent, le supposé sujet dans sa tautologie
doit et peut se prendre en deux sens.
Premièrement, qui dit sujet dit présupposition de soi, ou mieux, qui dit sujet
dit le «soi» comme présupposition et comme auto-présupposition. D’où il faut
tirer ceci, que le soi philosophique est essentiellement dans cette dimension du
pré ou de l’avant, de la précédence, de l’antécédence. Mais c’est pour se. Il est
toujours au-delà de ce qu’il est puisque précisément il peut et il doit toujours
revenir sur l’infini de sa présupposition. Il n’en a jamais fini, comme dit Hegel,
de laisser «rejaillir jusqu’à lui l’écume de son infinité». On pourrait dire: il est
d’avant ou d’après, il n’est jamais là, jamais quelqu’un qui est là.
Ce que je veux en retenir, pour orienter mon propos d’aujourd’hui, c’est que
pour le sujet de la présupposition qui est aussi toujours le sujet de la post-posi-
tion, il y a une dimension qui n’est pas la sienne, c’est tout simplement le présent
ou la présence. D’une certaine façon, il n’est jamais présent, bien que l’auto-en-
gendrement, l’auto-constitution et la présupposition en général, impliquent la
présence à soi. Le point d’articulation de mes deux exposés, c’est l’interrogation
sur ce qui manque de présence effective à la présence à soi. Au titre de la présup-
position le sujet n’est rien d’autre que l’infinie identité d’une précédence, qui se
transpose en l’infinie identité d’une succession. Ce sujet est toujours déjà advenu,
et toujours encore à venir. Mais comment il est présent, s’il l’est jamais, c’est ce
qui est en question.
Deuxièmement, – c’est ce qui revient aussi dans l’histoire de la philosophie,
discrètement avec Descartes, puis avec Kant, puis avec Nietzsche et Freud –, c’est
la supposition au second sens, qui est inséparable du premier, le sujet comme
évanouissant, comme illusion: le sujet comme consistance ou comme présence,
au sens de la stabilité, de la permanence et de la cohésion, finit par apparaître et
par s’apparaître à lui-même comme n’étant que supposition. Ce qui donne chez
Kant qu’il n’y a pas d’autre sujet véritablement assignable qu’une forme vide, un

172
Un sujet?

«je» formel. Chez Nietzsche, il devient le sujet comme effet d’illusion, de projec-
tion, comme phantasme ou comme mirage.
1. Avec ces deux valeurs opposées, nous pouvons faire le point sur les débats
et sur les malentendus que j’ai évoqués en commençant, et principalement, sur
ce qui semble opposer, quant au sujet, psychanalyse et philosophie. Dans la me-
sure où «sujet» veut dire cette présupposition ou bien la position du supposé
de la supposition, alors le mot sujet est inévitablement lourd de toute la charge
historico-théorique que j’ai résumée; et c’est pourquoi on a à très bon droit parlé
de «fin du sujet». La «fin du sujet» ne veut absolument pas dire que le malheu-
reux sujet serait passé à la trappe, ou que les individus ou les «uns» dont nous
allons reparler auraient disparu. Ce n’est pas ça du tout. La «fin du sujet» veut
dire, de façon très précise et très rigoureuse (de manière exactement analogue à
ce que veut dire l’expression «la fin de la philosophie»), que cette problématique
entière de la constitution du sujet philosophique est close, qu’elle est achevée,
que vous ne pouvez rien ajouter au sujet hégélien. Cela ne veut pas dire que c’est
bon pour les poubelles de l’histoire; en philosophie, il n’y a pas de poubelles de
l’histoire. En revanche dans la philosophie comme ailleurs il y a des probléma-
tiques qui sont achevées, qui sont bouclées. Ces achèvements eux-mêmes sont
des événements actifs de l’histoire. Ce qui veut dire aussi qu’avec l’achèvement
de la clôture hégélienne, a commencé à se manifester, à venir au jour, l’abîme de
la présupposition.
L’abîme en deux sens: l’abyme au sens héraldique du mot, qui s’écrit avec un
«y», c’est-à-dire le fait de mettre, de répéter une figure au centre d’elle-même,
comme dans un blason où on met un petit blason en abyme au milieu du blason.
C’est précisément le mouvement de la présupposition. Mais cet abyme fait aussi
abîme, c’est-à-dire gouffre sans fond, et c’est ainsi que le sujet hégélien apparaît
aussi bien comme plénitude et consistance absolue que comme gouffre infini de
son propre rapport à soi. En ce sens on est tout à fait fondé à parler de «fin du
sujet», et cette fin du sujet marque nécessairement le commencement d’une autre
problématique du sujet.
C’est pourquoi si la psychanalyse maintient avec le mot «sujet» la notion ou la
valeur d’une présupposition, d’une précédence et d’une succession interminable
du sujet par et sur lui-même, alors ce discours psychanalytique, – je ne parle pas
ici de pratique bien sûr –, ce discours psychanalytique est pris dans le même
régime que la philosophie, il est dans le régime philosophique, et donc il est dans
le régime de la fin du sujet. C’est évidemment, inévitablement, ce qui se passe
si l’inconscient est pris, ou est compris, comme le présupposé de la conscience.
Comme la conscience se présupposant, ou comme une conscience d’avant la
conscience, ou comme un négatif de conscience. Présupposition à quoi ferait
pendant une post-position, c’est-à-dire la promesse d’une autre conscience à
venir après, à venir par exemple justement à la fin de l’analyse. La fin de l’analyse
serait ainsi comprise comme la négation de la fin du sujet. Tandis que si l’ana-
lyse est interminable, selon un titre et une pensée célèbres et importants, peut-
être que ce sujet-là, ce sujet de l’inconscient pris comme pré-supposition de la

173
Shift. International Journal of Philosophical Studies

conscience n’advient plus jamais. Et si la psychanalyse se comprend autrement,


et comprend l’inconscient autrement que comme présupposé de la conscience,
ce qui est à beaucoup d’égards ce que Lacan a introduit, alors je dirais que la
psychanalyse peut toujours appeler cela ou celui dont elle s’occupe «sujet», mais
il ne s’agit plus du sujet de la philosophie. Et pour ma part, je serais assez porté
à demander à la psychanalyse de changer de mot, pour qu’on y voie plus clair,
alors même que je crois un peu deviner ce que la psychanalyse entend résonner
derrière le mot sujet, et que ça n’est pas si loin peut-être de ce dont je veux parler
aujourd’hui, de ce qui est à penser après la fin du sujet.
2. Essayons donc d’en parler. Une fois ces mise-au-point faites, il devient clair
que pour sortir de la présupposition il ne suffit pas de corriger un petit peu le su-
jet de la présupposition. Il ne suffit pas de dire, comme on l’entend parfois: «bien
sûr, le sujet n’est pas tout à fait le grand sujet total à la Hegel, bien sûr il faut un
peu nuancer, il faut introduire quelques limites, bien sûr le sujet n’a pas une maî-
trise totale de sa présupposition, bien sûr il faut admettre des zones d’ombres et
des défaillances de la maîtrise, bien sûr on n’est pas tout à fait conscient de tout».
Mais ne pas être tout à fait conscient de tout, n’a strictement rien à voir avec
le concept dénommé inconscient. Admettre des éclipses ou des défaillances de la
présence à soi, de la présupposition, tout en restant formellement et fondamen-
talement dans une pensée de la précédence infinie de la présence en elle-même,
c’est ne rien changer du tout, c’est simplement amollir la pensée. Et cette pensée
molle accepte tacitement quelque chose, à savoir qu’il y aurait de l’acte qui serait
inégal à l’être, il y aurait du sujet en acte qui ne serait pas tout à fait égal à l’être
sujet. On accepte ainsi que l’exister ne rejoigne pas vraiment l’existence. Et on
est prêt à dire que c’est ça, la finitude, le sujet fini. On le confond avec l’incom-
plet, le provisoire, la demi-mesure. En conséquence, on se contente d’une poli-
tique des droits de l’homme ou d’une morale des valeurs, faute de penser qu’on
puisse avoir une politique de l’être ensemble ou en commun des sujets ou une
éthique de l’être ensemble, du rapport effectif des sujets. On renonce, au nom
d’une pseudo-finitude, à penser radicalement la finitude.
La question ouverte par la fin du sujet, c’est d’en venir au coeur même de son
concept à savoir justement la présupposition, et là essayer d’être radical, c’est-
à-dire de prendre les choses par la racine. Et que serait la racine, ici, ce serait
peut-être précisément le lieu où la supposition est déracinée, coupée de son pro-
cessus infini. Deleuze dirait que c’est le lieu où il y a rhizome, et non racine, et
sans doute cette opposition du rhizome à la racine a sûrement à faire avec une
déconstruction de la présupposition. Pour ma part je dirais, pour rendre encore
hommage à Lacan, que prendre les choses à la racine, ici, ce serait se porter au
lieu du sujet lui-même, c’est-à-dire au lieu de la supposition, au lieu de la subs-
tance, au lieu même de la présupposition, de son principe et de sa fin pour y
considérer que la substance, au lieu de se subjectiver, c’est-à-dire de se supposer
et de se présupposer, se subvertirait. L’hommage à Lacan, c’est bien entendu le
rappel du titre «Subversion du sujet et dialectique du désir». Lacan savait très
bien ce qu’il faisait en employant le mot de subversion. Une subversion au lieu

174
Un sujet?

d’une substance. Cela dit je ne solliciterai pas plus le mot. Mais j’indique plutôt
tout de suite de quoi il devrait s’agir, là, en ce lieu même de la présupposition, si
on en a fini avec la double logique de son abîme: le renfermement en soi, ou la
chute vertigineuse hors de soi. En ce lieu, il s’agit d’interroger qui est là à la place
même de la substance, dans les deux sens de l’expression: c’est-à-dire à l’endroit
même où la substance s’est supposée, présupposée, et en même temps à la place
de, en remplacement de la substance. J’insiste beaucoup là-dessus: tout doit se
passer à la place même de la substance, à la place même du sujet. Mais que se
passe-t-il ?
3. Qui est la substance, si elle ne fonctionne pas comme substance? C’est une
forme de la question que j’avais eu l’occasion de poser, il y a quelques années,
sous la forme: qui vient après le sujet? C’était le titre, d’ailleurs retourné par la
rédaction, de la revue «Confrontations» (1989 n° 20) dans une formule plus sug-
gestive: après le sujet qui vient? où le sujet redevenait sujet de cette venue d’un
autre que lui; j’avais demandé une réponse à cette question à une quinzaine de
philosophes français contemporains, non des moindres, et dont vous trouverez
les réponses dans ce volume.
Avec cette façon de poser la question «qui?», on fait le premier pas nécessaire,
qui est de passer de «quoi» à «qui». Passer de quoi à qui, ou de quid à quis, c’est-
à-dire passer de la quiddité, de l’être-quelque-chose de la substance que suppose
la présupposition, à ce qu’on pourrait appeler une «quisité», du latin quis: qui.
Mais le deuxième pas revient justement à constater qu’une «quisité» ne peut pas
consister dans une propriété distincte de l’exister, du quis. Le «qui» existe. On
ne peut même pas dire qu’il est existant, comme si c’était être quelque chose
(noir, ou lourd). Il y a là un «être un» qui n’est pas la même chose que être-un-
quelque-chose. Et c’est pourquoi «quisité» n’est pas à garder, ce serait un mot
privé de sens.
C’est peut-être l’être-un-qui, un quis, que Descartes éprouve dans l’ego sum,
dans l’instant où il ne sait pas encore quoi il est. Il dit «je sais que je suis, mais je
ne sais pas quel je suis». Dans le quis seul, qui fait que quelqu’un énonce je, il y
a seulement que je suis, il y a quelqu’un, mais il n’y a pas de quoi. On ne sait pas
quel il est, de quoi il est fait.
Le troisième pas qui serait à faire serait de comprendre que c’est justement le
sujet lui-même, le supposé, la substance, le suppositum, qui vient ainsi comme
un quis. Et qui serait donc, si on peut dire, encore plus ancien, plus primitif, plus
archaïque, plus originaire que la substance, dans la substance même, à sa racine,
mais qui pourtant ne serait pas le présupposé de la substance, ne serait pas son
suppôt, ne serait pas la substance de la substance, la supposition infinie. Mais au
milieu et à la place de la quiddité de la substance comme présupposition, le quis,
ce qui fait que la substance s’énonce présente ou simplement se présente comme
quelqu’un. Voilà tout l’argument de l’exposé que je veux vous présenter.
4. Il s’agirait donc du sujet devenant autre à la même place, ou bien du lieu du
sujet, ou du lieu de la substance, en tant qu’un quis, un «qui», qui ne serait plus
supposé, et encore moins se supposant mais alors quoi? je dirai, «exposé», ou

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Shift. International Journal of Philosophical Studies

s’exposant. C’est-à-dire à la fois présenté au dehors, exhibé, et risqué, aventuré.


Le fil de mon argument, c’est l’exposition, comme comble de la supposition,
ou comme son extrémité, comme son abîme aussi, si on veut et/ou comme son
excès.
Or ce point d’extrémité, l’extrémité de la supposition qui ne serait plus sup-
position, mais exposition, toute la pensée de la supposition nous l’a aussi indi-
qué, mais sans le mettre vraiment en relief. Ce point, c’est tout simplement le
«quelqu’un». Partout le long de l’histoire que j’avais parcourue la dernière fois,
partout nous pourrions retrouver le un, l’instance d’un un, d’une unité et d’une
unicité, jamais vraiment mise en relief, mais inévitablement liée à la substantialité
de la substance. Cela se montre dans le fait que la problématique du un, du un
singulier ne cesse pas d’accompagner la problématique de la substance ou du
sujet, en particulier dans toute la grande époque du Moyen-âge, disons entre
Saint-Thomas et d’Ockham. Nous en reparlerons. Et plus tard, à la pointe de ego
sum, il y a quelqu’un, il faut qu’il y ait quelqu’un. C’est même quelqu’un qui dans
l’ego sum de Descartes, à un instant, pour un ictus, le battement de la «média-
tion», est indiscernable du quelqu’un empirique nommé René Descartes. Et à la
pointe de la phénoménologie de l’esprit, il y a le quelque un à qui revient l’écume
de son infinité. Il est le un de l’esprit, lequel ne peut être l’esprit, par conséquent
le Sujet, avec un grand S, qu’en étant un. Toute la question est du un. Dans le
premier exposé, nous n’avons fait attention qu’à la substantialité de la substance,
nous n’avons pas fait attention à son unicité. C’est à elle qu’il faut s’intéresser
maintenant. Et tout se passe comme si, à déplacer le regard de la substantialité et
de son caractère supposé vers l’unicité, tout se déplaçait, tout changeait, de pas
grand chose sans doute, mais d’un pas grand chose qui change l’essentiel.
La question de «quelqu’un» est sans doute l’une des questions contempo-
raines les plus vives. Qu’est-ce que c’est que quelqu’un? Par exemple, et puisque
la psychanalyse nous intéresse, je dirai que lorsque quelqu’un, une personne,
vient chez un psychanalyste, toute la question est justement de savoir s’il y a là
quelqu’un. D’une part, celui qui vient vient peut-être justement parce qu’il n’est
pas quelqu’un, il vient comme quelqu’un qui s’interroge sur son «quelque un».
Et l’analyste, de son côté, est quelqu’un qui est et qui n’est pas un, d’une autre
manière. De même sur un autre plan, l’actualité n’arrête pas de nous renvoyer à
des questions comme: quel est le un d’une nation, d’une communauté, d’une tri-
bu, comme on dit quelquefois. Qui est là en Bosnie-Herzégovine, par exemple,
qui? Qu’est-ce que c’est qu’un sujet collectif, aussi bien qu’un sujet individuel?
Qu’est-ce qui est supposé là, et qu’est-ce qui est exposé?
Au «quelqu’un» de mon titre, j’ajoute encore, en sous-titre, l’allemand jemand,
«quelqu’un», qui vient de l’ancien allemand joman, fait de deux morceaux, dont
le premier a pour racine l’éternité, ou le temps continu, ewigkeit, et le second,
l’homme, Man. Le un qui est toujours, chaque fois, homme. Et puis l’anglais
somebody, qui double someone. Someone c’est «quelqu’un», mais somebody c’est
«quelque corps». Ces deux valeurs de l’allemand et de l’anglais pourront nous
servir tout à l’heure.

176
Un sujet?

La question serait donc: y a-t-il quelqu’un? Y a-t-il quelqu’un, là où la sup-


position se dérobe? Comme on demande à l’entrée d’une maison, «y a-t-il
quelqu’un?» Ce n’est pas la question «qu’est-ce que quelqu’un?», si on ne peut
plus poser la question de la quiddité. C’est plutôt alors, qui est quelqu’un? Mais
si on ne veut pas que cela revienne à une «quisité», il faut plutôt commencer par
«y a-t-il quelqu’un?». Dans la subversion de la substance, la question qu’est-ce
que quelqu’un ne peut pas être posée, car elle nous ramènerait dans le système
de la présupposition. Mais en quittant la présupposition, nous avons aussi quitté
ce régime de la question et de ce qui vient lui répondre, et nous devons passer en
quelque sorte à une réponse qui précède même la question «y a-t-il quelqu’un?».
C’est-à-dire tout simplement à ceci que celui qui peut poser la question, il faut
déjà qu’il soit quelqu’un pour la poser. D’une certaine manière, c’est ce que Des-
cartes formalise déjà: moi qui doute, et qui demande s’il y a seulement quelque
chose au monde, moi qui doute je ne peux pas ne pas être. Il y a au moins cet
«un» qui doute.
5. En un sens c’est encore la supposition, la précédence. Mais ce n’est pas
une chose-posée-dessous, c’est seulement l’acte de dire: je suis. Cet acte aura
précédé, en somme, toute question. Je dirai que ce qui doit faire maintenant
notre axiome c’est ceci: avec quelqu’un, la réponse précède la question. Ce
n’est pas: «y a-t-il?», mais il y a d’abord quelqu’un, et après on peut se deman-
der ce que c’est que quelqu’un. Mais qu’est-ce que ça veut dire, une réponse
qui précède la question? Qui précédant la question, n’est justement pas la
présupposition de la question? Une réponse qui ne répond pas à une ques-
tion, c’est une réponse qui n’est pas la solution d’un problème, ni l’apaisement
d’une interrogation, mais c’est, selon l’étymologie du mot «réponse» c’est une
garantie donnée, c’est une promesse, c’est un engagement. On a ce sens dans
sponsus, le fiancé, ou dans sponsor, le garant, et derrière il y a le grec spendo,
qui signifie faire une libation pour consacrer un accord, un engagement, un
pacte. La réponse, dans laquelle vous voyez qu’évidemment la responsabilité
est engagée, sans que je veuille en parler plus, la réponse c’est la garantie don-
née ou l’engagement qui va avec la garantie, et la promesse qui accompagne
la garantie. Quand il s’agit de quelqu’un, il s’agit d’abord, d’engagement et de
garantie que quelqu’un donne en étant là, en étant là en présence, en engageant
sa présence, et donc en l’exposant.
Cet engagement de la présence de quelqu’un serait la même chose, mais tout
autrement, que la présupposition. «Il y a quelqu’un», il faut bien qu’il y ait
quelqu’un, et avant toute question sur sa substance, sur son être, ce quelqu’un
aura toujours déjà répondu de lui-même, en disant «il y a quelqu’un».
Que peut-on dire maintenant de ce quelque un? Nous l’avons déjà rencontré
dans l’histoire du sujet, à une place décisive, très remarquable, c’est le ekaston
d’Aristote. Ekaston c’est chacun, le chacun offert à la saisie sensible et esthé-
tique, cet ekaston qui, vous vous le rappelez, est aussi bien l’eskhaton, l’eskhaton,
le dernier, l’ultime, la butée, (sur eskhaton voyez la Métaphysique 10, 1035, 31.)
Chaque un s’engage, se présente et s’expose comme ultime, dernier. Et récipro-

177
Shift. International Journal of Philosophical Studies

quement, sans doute, l’ultime, le dernier ou l’absolu s’engage comme un, et peut-
être comme chaque un.
Cet ekaston d’Aristote ouvre sur une somptueuse histoire conceptuelle à tra-
vers le Moyen-âge, dont je ne peux vous donner que quelques petits indices très
fugitifs et furtifs, faute de connaissance suffisante, mais aussi faute de temps.
L’eskhaton aristotélicien, c’est le singularis latin, l’être singulier, qui est l’hypokei-
menon, le sujet, en tant que chacun. C’est-à-dire aussi, en tant que c’est dans son
«être-chacun» qu’il est vraiment la substance pleine et achevée, eskhaton.
L’histoire de l’être singulier passe par Saint-Thomas, par Guillaume d’Oc-
kham, (je vous recommande le livre de P. Alféri, Guillaume d’Ockham le singu-
lier), Duns Scot, Suarez, bien d’autres. Au-delà de cette histoire extrêmement
riche du singulier ou de la singularité dans le Moyen-âge, et au-delà de Mon-
taigne, référence évidement majeure, il y a Leibniz, et puis il y aura Nietzsche, et
ce qui nous vient de lui, à ce sujet, en passant par Heidegger.
6. Dans cette histoire, que je ne peux pas reprendre avec les détails que j’ai
accordés à l’histoire de la substance, il s’agit de manière centrale de ceci, – que
j’énonce en contractant plusieurs thèses ensemble –, que le singulier est singulier
non pas en vertu d’un être-singulier, d’un être ou d’une essence de la singularité
qui serait hors de lui, mais le singulier est singulier en tant qu’il se singularise
grâce à rien d’autre que lui-même «quaelibet res singularis se ipsa est singularis,
unum per se» dit Ockham. Cette formule, «se singulariser grâce à soi», «se singu-
lariser par sa seule singularité», c’est la répétition de la formule de la présuppo-
sition, mais pas en forme de présupposition. Car le singulier se singularisant par
lui-même ne se rapporte pas à lui-même comme à une substance. Dans la pensée
de la substance en termes aristotéliciens, on pourrait dire que la singularité est
l’acte de la substance. Et l’acte n’est pas une présupposition, l’acte est l’exister de
la substance. L’exister ne présuppose pas la substance, ce serait plutôt l’inverse.
On pourrait encore le dire autrement: quand on passe de la substance au chacun,
au singulier, on change de registre. Avec la substance, on était encore dans le re-
gistre de la connaissance et des déterminations logiques, – il faut présupposer un
support des accidents –, et puis à un moment donné, on passe de la connaissance
à l’existence, on saute, on change de registre: cette substance dont on a analysé
la présupposition, elle est, oui ou non. Socrate est, oui ou non. Oui, Socrate est,
voici le quelque un Socrate.
L’exister singulier est par soi, per se. Il y a ici un per se, un «par soi», qui est le
même que celui de la supposition, mais de telle sorte que le se, le soi du par soi
ne se présuppose pas ici, ne se postpose pas non plus, mais est très exactement
le même que l’exister du singulier, que l’acte de cet exister. Autrement dit, dans
la singularisation du singulier, il n’est plus question d’un rapport d’opération de
soi à soi tel que auto-constitution, auto-engendrement, présupposition. Je dirais
qu’il n’y a plus de rapport poiétique, de production, il n’y aurait que praxis, la
praxis étant pour Aristote l’action qui n’a pas d’autre résultat que l’agent même
de l’action. En un sens, il faudrait dire ici «l’agent», plutôt que le sujet. Donc
pas de rapport d’opération, et pas non plus de passage d’une puissance à un

178
Un sujet?

acte: la singularisation n’est pas quelque chose qui est en puissance et qui vient
à s’actualiser. La singularité, si on peut encore employer ce substantif, la singula-
rité, – c’est plutôt le singulier, un chacun – est l’acte même au sens d’Aristote. Or
pour lui l’acte est toujours premier par rapport à la puissance. L’ekaston comme
eskhaton est aussi le premier, et le premier c’est l’acte.
Le quelqu’un qui ainsi se singularise et s’expose, on peut en discerner trois
grands traits, que je vais parcourir aujourd’hui.
7. Premièrement, c’est bien entendu son unicité, sa distinction, sa singularité,
– chaque un. Deuxièmement c’est son caractère quelconque, – le chaque un c’est
aussi le quelque un, n’importe lequel, le tout un chacun. Et troisièmement, le
mode eschatologique de sa présence. C’est par ces trois traits que le quelqu’un,
le un se distingue du sujet qu’il est pourtant, ou dont il fait l’existence, ou plus
radicalement: qu’il existe.
Premièrement, donc, le chaque un. Dans la pensée de la présupposition
on pourrait montrer, en prolongeant le premier exposé, qu’on trouve un trait
constant, une tendance irrésistible vers une unicité ultime, par absorption de
toutes les substances dans une substance première et dernière, – un eskhaton sans
ekaston –, parce qu’il faut bien, dans le régime de la présupposition, que toutes
les substances finissent par être supportées aussi par une substance première
et dernière. Il faut fonder l’abîme. C’est pourquoi par exemple Spinoza pense
Dieu, ou la nature, comme un unique individu. C’est pourquoi les monades de
Leibniz supposent encore Dieu, ou l’esprit de Hegel exige sa propre réunion à
soi, etc. Et pourtant, la pensée de la présupposition reconnaît aussi bien quelque
chose que Hegel formule ainsi: «l’autonomie, la Selbststandigkeit – le fait de tenir
par soi, sur soi – poussée jusqu’à l’extrémité de l’un étant absolument pour soi,
est l’autonomie abstraite, formelle qui se détruit elle même» (Grande Logique).
Donc à la pointe de la pensée de la supposition, il se produit que l’un, comme
purement et simplement un, l’un absolument unique, l’un sans rien en dehors de
lui, le sujet qui est sa propre substance, se détruit lui-même. C’est pourquoi d’ail-
leurs Hegel lui-même analyse que l’un, par son auto-position même, engage à
l’intérieur de lui-même un double rapport de répulsion et d’attraction entre lui et
lui-même, entre les uns. Il faudrait trop de temps pour déplier cela maintenant.
On peut donc reconnaître, par la pensée de la présupposition elle-même, que
pour autant que le régime de la substance semble toujours reconduire à l’idée
d’une substance unique et dernière, autant en même temps et comme inverse-
ment, la simple position de la singularité de la substance oblige à penser plus
d’une substance. Et pourquoi plus d’une substance, tout simplement pour la
raison que, c’est au fond ce que veut dire Hegel, s’il n’y avait que l’un il n’y aurait
rien. S’il n’y a que l’un ne se divisant même pas, comment l’un se présenterait-il
lui-même. Pour qu’il soit présent à lui-même comme un, encore faut il qu’il y ait
du rapport, donc plus d’un, dans l’un lui-même. Dans un sens je dirai qu’il n’y a
même pas besoin de sortir du grand individu spinoziste pour avoir plus d’un. Il
peut y avoir une seule substance, en logique de la supposition, et une multiplicité
de «un», en logique de l’unicité. Il y a plus d’un, dans l’un lui-même ou avec l’un

179
Shift. International Journal of Philosophical Studies

lui-même. Il n’y a donc pas l’un, il y a toujours les uns, et s’il y a les uns, il y a les
autres. L’un veut dire, paradoxalement, les uns et les autres. Ou si vous voulez,
il y a des multiples. Je prendrai à Badiou cette formulation (au début de L’être et
l’événement): «ce qui se présente est essentiellement multiple, ce qui se présente
est essentiellement un». Ce qui se présente, l’accent est ici mis sur la qualité et
sur la quiddité, le un est la qualité de cela qui se présente, nous sommes dans
l’ordre de la substance, mais ce qui se présente, en tant que ça se présente, le sin-
gulier comme tel, l’existence du singulier, c’est essentiellement multiple. En latin
classique, on ne dit pas singulus, mais seulement singuli, au pluriel: chacun un
par un. C’est pourquoi je dirais que l’essentialité du multiple en tant que c’est la
pluralité effective des uns (et des autres), c’est l’existence. L’essence du multiple
n’est pas, selon la rigueur de ce qu’on vient de dire, une unité qui surplombe ou
qui supporte le multiple, et qui par conséquent l’annule comme multiple. Non,
l’essentialité du multiple, si on peut parler ainsi, c’est l’existence, c’est-à-dire la
singularité c’est-à-dire les uns singuliers. On pourrait donc dire que ce qui est à
la place du suppositum, du support, c’est l’existant, mais c’est l’existant précisé-
ment en tant que l’existence, ne se soutient pas d’une essence. Ou en tant que
l’existence, c’est ce dont toute l’essence consiste à être là, singulièrement là.
Etre là, que l’on peut comprendre encore à partir de l’ekaston d’Aristote,
en tant que son individualité consiste à être indissociablement, indivisiblement
forme et matière, (c’est-à-dire, pour un corps organisé, âme et corps). Le singu-
lier, c’est cette unité indivisible, donc ce n’est pas quelque chose à rapporter à
une essence, soit à l’âme, version spiritualiste, soit au corps, version matérialiste.
Sa singularité, c’est son unité comme existence unique. Voilà autour de quoi se
joue la catégorie décisive du singulier, en tant précisément qu’elle n’est peut-être
même pas une catégorie, ou qu’elle est à la limite de toute catégorie.
Pour le faire mieux voir, on peut l’opposer, comme on le fait en logique, au
particulier. Le singulier n’est pas le particulier, parce que le particulier, comme
son nom l’indique, est considéré en tant que partie de quelque chose. Ainsi
lorsqu’on désigne une personne comme «un particulier»: c’est une manière, la
manière dite «privé», d’être une partie d’une société, d’une communauté, d’un
ensemble quelconque. Le particulier est classifiable, il rentre dans un certain
nombre de classes, de sous-classes, etc. Il est classifiable, ce qui veut dire aussi
qu’il est connaissable en tant que particulier ou dans sa particularité (espèce de
quiddité). Le singulier n’est précisément pas classifiable, le singulier est l’acte par
lequel on sort de la classification, par lequel on sort de l’ordre logique et cognitif
de la substance.
8. Le particulier, de même, se laisse diviser, et on peut demander en quelles
parties ou particularités il se divise, entre une âme et un corps par exemple. Le
singulier au contraire ne se laisse pas décomposer pour être ensuite recomposé.
En revanche, le singulier se multiplie, il est multiple. Comme je l’ai dit, en latin
classique, singuli, un par un, est un pluriel. Et le un par un, la pluralité, dont nous
avons vu qu’elle est impliquée dans le un lui-même, ou ce qu’on pourrait appeler
l’essence nombreuse de l’existence, c’est ce qui fait que chacun des singuliers est

180
Un sujet?

dans sa singularité radicalement et absolument, au sens strict du mot, différent,


distinct des autres. Tout aussi radicalement et aussi absolument que la substance
ne se rapportait plus elle-même à aucun autre sujet. Mais cette différence absolue
est aussi bien ce qui la rapporte aux autres sujets.
On tombe alors sur le mot d’individu, qui semble être ce qui renvoie le mieux
à ce dont nous parlons. En effet l’individu, dans la scolastique, c’est exactement
cela: individuum: quod est in se indistinctum, ab aliis vero distinctum (Saint-Tho-
mas, Somme théologique, 1ère partie 29, 4c). L’individu c’est ce qui est en soi
indistinct mais qui est en revanche distinct des autres. Il est posé d’emblée à la
fois «en soi» et dans le rapport aux autres. Il ne peut pas être seul. En ce sens,
l’individu unique de Spinoza est contradictoire.
Si on veut bien laisser l’individu à cette stricte acception, et mettre de côté tout
l’individualisme l’éthico-politique qui n’a rien à faire ici, qui est même incom-
patible avec ce dont il est question (mais qui n’est pas par hasard un symptôme
de malaise de notre société), alors ce que désigne l’individu, c’est précisément le
«ne pas se diviser», en tant que il est la condition du «se singulariser». Et le «se
singulariser» emporte avec lui l’individu effectif pratique, empirique, à savoir le
corps. Pour Aristote puis pour Saint-Thomas lui-même, l’individualité est dans
la matérialité. Saint-Thomas a forgé pour cela un concept particulier, le concept
de materia signata, c’est-à-dire de matière «désignée», ou déterminée. La matière
tout à fait déterminée, materia signata vel individualis, c’est la matière considérée
sous les dimensions déterminées d’un coup singulier. C’est-à-dire, comme le dit
le même texte (le De ente et essentia) hoc os haec caro, cet os, cette chair. Cette dé-
termination qui est aussi la monstration, l’exposition matérielle, physique, éten-
due et corporelle est ce que j’appellerai le dernier et l’ultime trait transcendan-
tal du singulier. Ici l’empirique, le matériel, le complètement physiquement et
esthétiquement (sensiblement) déterminé est le transcendantal lui-même. C’est
ça la condition de possibilité du singulier, des singuliers. Les singuliers ne sont
pas possibles comme de purs esprits. Ou bien il faudrait penser une matérialité
du pur esprit, tout aussi signata que la matérialité telle que nous la connaissons.
C’est ici que l’anglais somebody prend tout son sens. Ce body, ce corps, ce corps-
chacun, est le trait transcendantal et en même temps eschatologique de la singu-
larité. C’est ainsi que le singulier, quelqu’un, s’expose et engage son unicité avec
celle des autres. Je ne dis pas tout de suite son identité. Jusqu’ici nous n’avons
pas parlé d’identité; il n’est pas dit que le singulier soit d’emblée dans l’identité,
c’est-à-dire qu’il soit simplement le même que soi, puisqu’il est le même que les
autres, en tant que singulier. Ce que nous disons c’est qu’il est dans une certaine
matérialité. Mais on pourrait dire, en reprenant un mot à la tradition, mais aussi
bien à Lévinas et à Bataille, que le singulier est dans l’ipséité.
Ipse, c’est «soi-même». Mais il faudrait entendre l’ipséité comme un mot pour
tenter d’indiquer un rapport singulier à soi-même, qui n’est pas le rapport de
l’identité. Le rapport de l’identité est plutôt celui de la substance. Dans la subs-
tance, on a l’identité qui supporte les accidents. Mais l’ipse, le soi-même serait
cela, par quoi, un existant, un ego, s’atteste comme existant. C’est-à-dire rien

181
Shift. International Journal of Philosophical Studies

d’autre encore une fois que l’ego sum de Descartes. On ne quitte pas la pointe
de Descartes. Simplement dans l’ego sum de Descartes, au lieu de considérer
la présupposition, et du coup, la substance pensante, on s’arrête juste l’instant
d’avant, et on a simplement ceci que un quelqu’un dit qu’il existe. Il ne nous fait
rien savoir de ce qu’il est, d’une identité, mais il atteste, il témoigne qu’il existe.
Il est, et il est à lui-même le garant de son existence, parce que précisément il n’y
a pas de garant à ce moment-là. Pas de Dieu, pas de monde, pas de suppositum,
pas d’identité.
Premier point, le chaque un, le singulier, c’est celui qui se singularise finale-
ment en attestant de son existence. Comment se fait ce témoignage? est-ce seule-
ment par le langage? sûrement pas, mais je ne veux pas entrer ici dans l’examen
de ces questions, et encore moins dans la question de savoir si cela concerne
d’autres existants que les existants qui parlent. Ce n’est pas le moment. En re-
vanche, il faudra tout à l’heure se demander de quoi il y a ainsi une attestation.
Ce sera pour la fin de l’exposé.
9. Deuxièmement, le quelconque du un. Paradoxalement le quelconque ac-
compagne la distinction du singulier. Avec le tel du singulier, va le tel ou tel, ou
le untel, (il paraît qu’Unamuno parlait de «untelisme»). Le untel, c’est-à-dire
l’anonyme, le quelconque. Pourquoi le quelconque va-t-il avec le chacun? Pour
une raison très simple, qui est que s’il y a plus d’un, si singulier c’est singuli, alors
la singularité est nécessairement partagée à égalité entre les singuliers, comme si
elle était une essence unique de tous, et pourtant sans être une essence. Chaque
un est tout autant singulier que l’autre un.
Mais alors quel est le rapport des quelconques entre eux? Je me contenterai
d’un point très rapide: le rapport des uns quelconques, ce qui les met en com-
mun, leur commensurabilité, c’est justement leur incommensurabilité. Tout ce
qu’ils ont en commun, c’est leur distinction, c’est tout ce qui fait que chacun
reste indistinct en soi. Ce que nous avons en commun c’est très exactement ce
qui nous sépare. Ainsi, au contraire de ce qu’exige la pensée de la présupposi-
tion, qui conduit vers l’unité substantielle de tous, ici il n’y a pas de substance
unique à rejoindre, il y a plutôt à rejoindre la séparation. Ce que cela veut dire,
j’en donnerai un exemple en résumant une analyse, que je n’ai pas le temps de
détailler, du rapport à la mort chez Heidegger.
Vous savez que Heidegger dit que l’on n’accède jamais à la mort, ni à la sienne
propre, ni à celle de l’autre. Devant la mort d’autrui, on n’accède pas à sa mort,
on ne peut pas prendre sa mort à autrui on ne peut pas la prendre sur soi. Donc
il n’y a pas d’expérience de la mort, et cette impossibilité de l’expérience de la
mort, est l’indication de l’ultime possibilité d’existence de l’existant: la possibi-
lité de cesser d’exister et de ne pas s’approprier cette cessation, de ne pas accéder
à soi (contrairement au sujet hégélien, qui justement accède à soi en traversant la
mort, la négativité). Cette analyse est convaincante à un certain nombre d’égards.
Je crois pourtant que dans une logique rigoureuse de la singularité et de la com-
munauté comme incommensurabilité des singuliers, il faut la corriger. Et il le faut
dans la mesure où Heidegger lui-même affirme par ailleurs que nous sommes

182
Un sujet?

essentiellement mit-sein, c’est-à-dire «être avec les autres». Si on prend tout à


fait au sérieux que le da-sein, l’être là, est mit-sein, c’est-à-dire que le singulier est
en commun avec les singuliers, alors je crois qu’il faut dire que devant la mort de
l’autre se fait bien l’expérience d’un être avec, qui devient l’être avec personne.
Le mort n’est plus là, mais j’entretiens avec ce «ne plus être là» du mort un rap-
port bien spécifique, qui est un rapport avec la place d’un un vide, ou avec un
un qui a vidé la place, comme vous voudrez. J’entretiens ainsi un rapport avec
l’autre singulier en tant que singulier. Et dans l’irréductible et l’incommensurable
de sa singularité, c’est bien entendu aussi la mienne qui est en jeu. Chez Heideg-
ger il n’y a pas une analytique du deuil et du tombeau, ni de la commémoration
en général, ni du mode singulier de la présence du mort ou des morts. Bien sûr,
il évoque le deuil et le tombeau, mais comme des choses extérieures qui ne tou-
cheraient pas à l’essentiel. Je crois au contraire que le deuil, le tombeau touchent
à la chose-même, non seulement à la chose du sujet, comme par exemple dans
le rapport deuil-mélancolie, où il s’agit d’un sujet qui s’incorpore un sujet mort,
qui le substantialise en somme, mais on touche ici au rapport à l’être avec comme
essentiel à l’être un. Ce n’est pas par hasard que tout ce qui concerne la mort,
le deuil et le tombeau, ne se fait pas entièrement, voire pas du tout de manière
privée. Cela relève toujours, par principe même, de la communauté. Je dirais
que dans l’expérience de la mort d’autrui, nous avons l’expérience de l’être avec
l’autre singulier dans sa disparition même de singulier, ou dans sa disparition
singulière. Bien entendu, il n’y a pas pour autant de substitution de l’un à l’autre.
Mais il y a autre chose que je nommerai du seul mot de partage, avec son ambi-
guïté. Il y a un partage effectif de ce qui nous sépare c’est-à-dire de ce qui nous
partage, précisément. Les singuliers partagent leur singularité, qui les partage à
son tour. Ce n’est pas la participation à une essence commune de la singularité,
c’est l’être-singulier en tant qu’être avec ou être en commun. Si on remonte dans
l’étymologie de «soi», de suus, on trouve une racine indo-européenne, swe, qui
marque d’abord l’appartenance à un groupe des «siens» propres (comme on dit
les «miens»), donc à une pluralité, à une communauté, et seulement ensuite on a
le sens de l’individualité et de l’être à soi. Cette même racine donne aussi bien le
suus, le se, et l’idios, le propre, que l’hétairos grec ou le sodalis latin, c’est-à-dire
le compagnon. On peut même ajouter que dans cette même famille linguistique,
celle du se, du «soi-même», on trouve aussi le se séparatif, celui qu’il y a dans
séparation, et même le se de sed en latin, c’est-à-dire le mais de l’opposition...
(voyez dans le Vocabulaire des institutions européennes, de Benveniste, volume
1, page 32).
10. Pour mieux saisir ce dont il s’agit dans ce rapport des singularités, on
pourrait dire avec Leibniz que le singulier ne se rapporte pas à d’autres sin-
guliers sur le mode des exemplaires d’une même classe. Les exemplaires ne se
distinguent en effet que par l’identité numérique, solo numero, seulement par
le nombre. Mais s’il n’y a pas deux êtres qui se distinguent solo numero (c’est
le fameux principe dit «des indiscernables»), alors le singulier se rapporte à
l’autre singulier non comme un exemplaire, mais comme un exemple, au sens

183
Shift. International Journal of Philosophical Studies

où Leibniz fait de chaque individu un exemple. Cela veut dire pour lui qu’un
individu est la monstration exemplaire de son essence. (Evidemment, il y a là une
particularité de Leibniz sur laquelle je dois dire un mot: Leibniz pense l’individu,
la singularité, avec une essence propre, une essence individuelle. L’individu est
une infima species, une espèce infime, toute petite, avec son essence propre. C’est
ainsi, comme il est connu, qu’il est pour Leibniz de l’essence de César de franchir
le Rubicon. L’acte singulier d’un singulier est la réalisation exemplaire de son es-
sence). Sans en rester plus à Leibniz, on peut lui reprendre, en le détournant, ce
motif de l’exemplarité, pour le comprendre comme monstration, exposition de
la singularité. Chaque singulier expose aux autres singuliers sa singularité. Mais
sa singularité précisément en tant qu’elle n’est pas un exemplaire d’une essence
de la singularité. Ce que chacun d’entre nous expose aux autres, ce n’est juste-
ment pas un exemplaire, mettons d’humanité (ou d’inhumanité, de surhumanité
ou de soushumanité) on peut dire que chacun est un homme (ou surhomme,
etc.) exemplaire. Il n’y a que des hommes exemplaires. C’est aussi pourquoi cha-
cun atteste et garantit l’existence en l’exposant: elle n’est pas garantie dans une
essence. Dès qu’il y a un minimum de présence, un instant, un regard, un clin
d’oeil, il y a une attestation, une garantie d’existence singulière.
11. L’exemple, si on le ramène à son sens originel, dans le verbe eximo, c’est
un retrait, une soustraction, une mise à part, un privilège aussi. Un exemple,
c’est un singulier qui est mis à part pour présenter quelque chose de plus grand,
de plus important, disons quelque chose d’universel. Mais ici le seul «univer-
sel», c’est précisément le retrait du chaque un, ou son exemplarité. Dans l’usage
banal de l’exemple, on fait appel à l’induction. C’est-à-dire qu’à partir du cas
particulier de l’exemple on conclut au général. Mais ici il n’y aurait pas d’induc-
tion, puisqu’il n’y a pas de généralité à laquelle il s’agit de conclure. Chaque
fois c’est une nouveauté complète, une singularité complète, une existence et
non l’essence, qui est annoncée ou attestée. Chaque fois, jemand, voilà l’alle-
mand, toujours ou à chaque fois un homme, mais justement en tant qu’il n’y a pas
d’humanité mais seulement le «à chaque fois» du singulier. Et par exemple aussi,
pour en rester à cet exemple de l’exemplarité singulière, chaque fois un homme
ou une femme. Il ne suffit même pas de dire singuli, le pluriel n’est pas suffisant,
il faudrait dire que c’est un singulier masculin ou féminin qu’on rencontre, en
tous cas à l’intérieur de l’humanité et des espèces animales sexuées.
Le quelqu’un, le quelconque, le paradoxal trait ou retrait commun des sin-
guliers n’est décidément pas un être commun ou une substance commune.
D’une certaine façon il n’y a rien de commun, il n’y a pas d’essence commune,
il y a le «en» de l’en commun. L’en commun, c’est le rapport des singularités
comme rapport d’exemple. Ce rapport d’exemple suppose peut-être une autre
caractéristique, que j’indiquerai d’abord comme celle d’un intérêt: pour qu’il
se passe quelque chose dans la rencontre des singuliers, pour que l’un fasse
exemple pour l’autre, il faut que l’un soit intéressé à l’autre. Je prends ainsi l’inter
esse, comme «l’être entre» auquel Lévinas donne la valeur péjorative du rapport
intéressé, calculateur, je le prends dans une autre valeur, pour lui faire dire que

184
Un sujet?

ce qui articule le rapport singulier des singuliers, c’est qu’ils s’intéressent les uns
aux autres. Ne croyez pas que je veux reconstituer une idylle du genre dit rous-
seauiste. Cet intérêt n’est peut-être pas toujours bienveillant.
Traduisons le encore par un autre mot, la curiosité. Dans la vie courante, nous
sommes toujours un peu curieux des autres, de leur singularité, de leur étrangeté,
de leur retrait. Mais je proposerais de dire qu’il y a une curiosité transcendan-
tale et qui serait le rapport constitutif de l’exemplarité réciproque des singuliers.
Curiosité transcendantale qui serait à la fois démasquée et révélée par ces rap-
ports qu’on dit primitifs, de peur et de désir, d’amour et de haine, de pitié, de
terreur etc. La curiosité n’est pas idyllique, elle peut, elle doit être d’emblée sai-
sie dans l’ambivalence, curiosité bien ou mal veillante de l’exemple pour l’autre
exemple. Mais je rappelle en même temps que curiosus est de la même racine que
cura, le soin. Curiosus, c’est aussi celui qui va y regarder de près parce qu’il prend
soin. Ce qui dans le singulier est curieux de l’autre singulier, c’est à la fois ce qui
est indiscret (ce qui viole la discrétion, la distinction) mais aussi, tissée peut-être
dans l’indiscrétion elle-même, une façon de prendre soin ou souci de l’autre.
12. Troisième et dernier trait du quelque un: le mode singulier de sa présence.
Et sa présence, en termes aristotéliciens est forcément une présence eschato-
logique, c’est-à-dire dernière, ultime. L’ékastologique est eschatologique. Vous
savez que dans la tradition théologique chrétienne, l’eschatologie est la science et
les discours des temps derniers, de la fin du monde, dans laquelle se produit ce
qu’on appelle la parousie. La parousia, c’est la venue en présence de l’être-même,
de l’essence suprême dernière, pour parler selon l’ontologie de la substance. La
présence du quelque un, s’il est à sa façon aussi l’être ultime, il faut bien qu’elle
soit de l’ordre de la parousie, toute théologie laissée de côté. L’existence, comme
telle, relève d’une parousie eschatologique.
D’emblée, le quelque un est dernier, premier et dernier. Il n’y a rien à attendre
d’autre du quelque un, que son être quelque un. C’est ce qui fait tout le prix et
tout le poids singulier de ce dicton allemand que Heidegger mentione dans Sein
und Zeit: «dès qu’un enfant est né, il est assez vieux pour mourir». L’enfant qui
meurt à peine né n’en a pas moins existé, et sa place singulière n’en est pas moins
singulièrement marquée. Sur un tout autre plan la psychanalyse saurait nous le
confirmer si nous avions besoin de l’apprendre. L’existant est d’emblée ultime,
et il l’est à chaque moment de son existence. Il ne l’est pas seulement au moment
de sa mort. C’est à cette manière d’être à chaque moment dans l’ultime, dans
l’eschatologique, que renvoie profondément la pensée de «l’être pour la mort»
chez Heidegger, c’est-à-dire la pensée de l’existence en tant qu’exposition de
chaque instant à sa propre suspension. Il ne s’agit pas, comme on l’a dit parfois,
d’une obsession morbide. Il s’agit de ceci, que la mort ne fait que ponctuer,
achever une série de moments singuliers qui auront tous été, chacun pour soi,
le dernier moment. Donc l’eschatologique, c’est aussi bien la parousie, dont la
dimension est le présent. Je vous dirais que le sujet en tant que supposé, est
toujours soit antécédent, soit succédant, toujours déjà venu, ou toujours à venir.
L’existant singulier est, au contraire, et si on peut dire, simplement présent, mais

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Shift. International Journal of Philosophical Studies

à deux conditions: d’abord, il est présent non pas sur le mode d’être présent à
soi, qui est le mode de la supposition, mais sur le mode d’être exposé à chaque
instant. Et comme on vient de le voir, exposé chaque fois aux autres singuliers,
aux singuliers comme autres. Il n’est donc pas présent à soi comme même, il
est présent à soi comme autre. Deuxièmement, ce présent n’est pas non plus le
présent d’un pure présence à soi de substance, immobile et permanente. C’est un
présent essentiellement temporel c’est le présent du chaque fois, du je allemand,
du jemand. C’est chaque fois, à chaque instant, que le singulier se singularise.
Cela va avec le fait que le singulier est l’acte même de sa singularisation: cet acte
de se singulariser, il l’est ou il le fait, à chaque moment. On ne devient pas un
individu le jour de sa naissance, pas plus le jour de sa conception, pas plus qu’on
ne le sera devenu le jour de sa mort, pas plus qu’on ne le sera devenu plus tard,
dans la mémoire des autres. Quand est-on un? à chaque instant. C’est-à-dire que
le un est constant dans la remise en jeu constante de sa nouveauté. Leibniz, en-
core lui, avait bien senti la nécessité de cette pensée, du moins pour lui, à propos
des individus physiques. Il écrivait que deux individus physiques ne sont jamais
parfaitement semblables, et que le même individu passe d’espèce en espèce car il
n’est jamais semblable en tout à soi-même, au delà d’un moment, c’est la logique
de l’infima species. (Nouveaux essais, 2, 27). Ensuite, bien sûr Leibniz réintroduit
une identité permanente, qui est celle de l’âme. Il revient alors à une logique de la
substance ou du sujet. Mais la veine la plus profonde de sa pensée est sans doute
du côté de l’incessante nouveauté et du «à chaque fois» du chaque-un. L’escha-
tologie, c’est le «à chaque instant».
13. Je vais conclure à partir de là. A chaque fois, dans le je (prononcé à l’alle-
mande) de sa singularité, le singulier se singularisant ne fait rien d’autre que
répondre de sa singularité. Il la garantit, il atteste qu’elle existe, ou qu’il existe
singulièrement. Qu’est-ce donc qu’il atteste ainsi? C’est sans doute la seule vraie
question qu’on puisse poser: on ne peut pas demander ce qu’est quelqu’un, si
quelqu’un n’est que cette attestation. Mais on peut demander ce que quelqu’un
atteste ou engage, ce que le quelqu’un comme tel engage. Je nomme cela le sens.
Quelqu’un engage chaque fois le sens d’être quelqu’un, ou il atteste, engage
le «être quelqu’un» en tant que sens. Il engage et il atteste à la fois que «être
quelqu’un» c’est être dans le sens, le sens d’exister, ou le sens de l’existence.
Il s’agit bien en effet de cette chose la plus simple à dire et la plus banale du
monde, le «sens de l’existence» ou «le sens de la vie», qui est après tout, à bien
y regarder, l’unique préoccupation de la philosophie, l’unique préoccupation de
la psychanalyse. Encore s’agit-il de s’entendre sur ce que c’est que «sens», ou sur
le sens du sens.
Il y aurait bien sûr beaucoup à dire. Je me contenterai du peu que permet de
dire cette façon d’aborder le «sens» par le «quelqu’un». Lorsque je dis qu’un
existant engage le sens, je veux dire d’abord que cela se passe toujours très
exactement au même lieu du sujet, au lieu de la substance. La substance était le
suppôt ou le support des accidents ou des qualités, c’est-à-dire leur raison, leur
fondement, leur sens. Dans la substance et dans la présupposition, il y avait le

186
Un sujet?

sens en tant que fondement. Disons que c’est le fondement qui tenait la place
de l’attestation, de cette attestation dont nous parlons maintenant, la garantie, la
réponse et la responsabilité du quelqu’un. Celle-ci est l’acte singulier qui a lieu à
la place du fondement. C’est comme si en attestant de mon existence, j’articulais
en acte «je suis bien fondé à exister». Mais ce n’est pourtant pas ce que je dis,
car je ne produis en fait aucun fondement, ni du genre de la cause, ni du genre
de la légitimation. Je suis «bien fondé» à exister parce que j’existe, c’est tout.
L’attestation vaut ici pour fondement.
De quoi s’agit-il, dans ce sens qui vient à la place d’un sens de fondement?
Nous ne connaissons comme sens du sens, en général, que le fondement ou la
raison, ce que j’appellerai ici la signification. La signification est un renvoi: elle
renvoie au sens pré-supposé, à une pré-supposition de sens. Mais lorsque je dis
que quelqu’un garantit ou atteste le sens, le sens d’être quelqu’un, il ne renvoie
à rien d’autre. Tout au plus renvoie-t-il à lui-même mais lui-même n’est pas hors
de son attestation, et cela ne fait pas un renvoi, c’est plutôt un envoi. Ce qui est
à la fois attesté et engagé et je dirai aussi promis – parce que ce n’est pas déjà
donné, ce n’est pas supposé, c’est attesté sans autre raison que l’attestation, c’est
garanti sans autre garantie – cela, c’est le sens précisément en tant que sens non
présupposé et non présupposable. C’est-à-dire, le sens non rapportable à un su-
jet de sens, à un sujet qui pourrait supporter ce sens et le présenter d’une manière
ou d’une autre, le signifier, encore plus le démontrer. Mais précisément le sens est
engagé par le singulier en tant que sens singulier du singulier. Et un sens singulier
du singulier c’est un sens qui n’a justement pas de sens, pas de sens présupposé
ni présupposable. C’est-à-dire aussi pas de sens précédent, ni de sens postposé
ou de sens à venir. De même que le singulier se singularise par lui-même, de
même il fait sens par lui-même. Faire sens par soi, sans que ce «soi» soit lui-même
une substance, faire sens par soi sans être sujet, ou faire sens sans se supposer
sensé, c’est être «sans raison» ou «sans pourquoi», selon le très fameux distique
d’Angelus Silesius que cite Heidegger, pour le rapprocher et pour le confronter
au principe de raison de Leibniz. «La rose croît sans raison» ou «sans pourquoi».
Autrement dit, le sens comme non-supposé ou comme non-subjectif, c’est ce
qui ne serait pas à découvrir derrière le singulier, dans une remontée archéologique
ou anamnésique, comme chez Platon, ou comme dans une certaine vision des
choses chez Freud. Le sens, au lieu d’être ce qui serait à découvrir et à supposer
derrière ou en avant, serait ce qui singulièrement s’engage, se garantit, se promet
chaque fois, à chaque moment, non pas en arrière ni en avant, mais ici même,
au lieu de l’exposition d’une singularité. Un sens qui aurait donc tout d’abord le
rapport le plus étroit avec la présence affective, matérielle, du somebody, un sens
qui serait inséparable de cette materia signata. Ensuite, un sens chaque fois nou-
veau. Ce qui ne voudrait pas dire que l’être singulier accumule des nouveautés,
mais plutôt que son sens, le sens singulier du singulier, c’est d’être chaque fois
dans une infinie nouveauté ou novation du sens.
C’est là-dessus que je terminerai, très vite, beaucoup trop vite, en disant que
c’est peut-être là une des directions nouvelles, où la psychanalyse se réinvente

187
Shift. International Journal of Philosophical Studies

depuis Freud, en tous cas depuis Lacan, et peut-être encore tout récemment
dans le dernier livre de Claude Rabant, Inventer le réel, où la psychanalyse est
plutôt rapportée à l’invention d’un sens qu’à la reconstitution d’un sens supposé.
Quoiqu’il en soit de l’analyse pour le moment, c’est en tout cas à quelque chose
comme une invention singulière du sens que fait place la supposition du sujet.
On passe, on est peut-être déjà passé, du supposé sujet au quelqu’un s’inventant
lui-même chaque fois, interminablement et «terminablement», comme une nou-
velle possibilité de sens singulier.

188
Effetti/Effects
Populisti e neoliberali, la guerra civile nella governance
Adalgiso Amendola

All’ordine del giorno del dibattito politico, ci sarebbe da un po’ di tempo,


almeno secondo i detentori del potere d’agenda massmediale, la questione popu-
lista. Probabilmente già questo strano imporsi delle priorità meriterebbe qualche
riflessione. Avremmo in testa tutte altre urgenze: e invece siamo qui a discutere
del “populismo” e della sua avanzata. Che è pure, intendiamoci, una cosa peri-
colosa, pericolosissima, su cui dovremmo pronunciarci tutti e subito. Solo che,
spiegata e proclamata come “questione populista”, ci svanisce fra le mani, non
ne sappiamo più niente: tranne il fatto che l’imperativo è discuterne, ed urgen-
temente.
Questo strano gioco che contemporaneamente rende centrale il problema e lo
dissolve, non è evidentemente innocente: usare “concetti estremamente grosso-
lani” serve a far nascere “miscugli grotteschi, dualismi sommari”, spiegava Gilles
Deleuze mettendo in guardia dalla “sgradevole forza reazionaria” che i nouveaux
philosophes andavano costruendo verso la fine degli Anni Settanta: “la legge e il
ribelle, il potere e l’angelo”. Ed è in fondo esattamente questo che l’evocazione
del populismo comporta nei modi in cui assistiamo oggi: la creazione di opposi-
zioni astratte, che celano i conflitti reali e nascondono continuità e complicità più
che evidenti. E, soprattutto, questa mistificazione dei fronti permette a ciascuno
di retrocedere sulle posizioni più tranquillizzanti e consuete, di ricostruire geo-
grafie del pensiero di comodo e che pensavamo superate.
È innegabile che nelle democrazie occidentali stanno avanzando sempre più
forze che si richiamano al valore assoluto dell’appartenenza nazionale, al con-
cetto di sovranità nazionale come elemento “perduto” che dovrebbe essere al
più presto recuperato, e a concezioni dell’omogeneità popolare giocata come
un “noi” organico contrapposto agli “altri”. Altrettanto innegabile, però, è il
fatto che molte di queste formazioni hanno evidentemente poco a che fare con
il “populismo”, almeno con quello che come populismo è stato classicamente
individuato nel discorso politico, prima che il termine cominciasse ad essere af-
fetto dall’attuale dilatazione semantica. Il Front National è arrivato al secondo
turno delle presidenziali francesi, e lì, a differenza di quando Jean Marie Le Pen
affrontò Chirac, e le prese sonoramente dal muro compatto eretto dalla Fran-
cia antifascista, si è temuto concretamente che Marie Le Pen potesse farcela. In

Shift. International Journal of Philosophical Studies 1/2017


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realtà, almeno per questo giro, la paura non si è rivelata fondata, e Le Pen si è
fermata ad un 34 per cento, preoccupante, anzi decisamente allarmante, ma co-
munque ben lontano dalla vittoria. Ora, mettendo insieme l’avanzata del Front
National con le varie formazioni euroscettiche che si vanno consolidando in giro
per l’Europa, dai tedeschi dell’AFD al governo ungherese di Orban, dai leghisti
e grillini italiani sino ai già sconfitti “liberali” (di estrema destra) austriaci, si
è fatto riferimento anche qui ad un’avanzata appunto “populista”. Guardando
oltreoceano, si è fatto risuonare il risultato del Front National con la vittoria di
Trump, che ha insistito su un’agenda protezionista, nazionalistica, antiimmigrati
molto simile a quella di Marie Le Pen. Ora, tutto questo si infila nel sacco del
populismo. Non si riesce a capire, però, non solo effettivamente cosa c’entrino
Le Pen, Orban e Trump con la comune contadina russa di prerivoluzionaria
memoria – i difensori della quale restano gli unici ad essersi esplicitamente de-
finiti “populisti” – ma neanche quale sia la parentela di questi fenomeni con
quei complessi movimenti politici sudamericani che hanno fatto del “popolo”
una specifica modalità di ricomposizione politica, e la cui natura peculiarmente
“populista” fu studiata, per esempio, da Gino Germani, e riportata ad altrettanto
specifici processi di modernizzazione e di secolarizzazione. Se si guarda al Front
National e a Trump, più che di movimenti populisti, sarebbe più facile, e anche
molto più preciso, parlare di espressioni politiche di estrema destra: nel caso del
Front National, la presenza anche di un’organizzazione partitica molto centra-
lizzata, nonché gli specifici richiami mai interrotti, e spesso riaffermati, con la
Francia di Vichy, dovrebbe spingere esplicitamente a parlare di fascismo, almeno
nella versione petainista. Nel caso di Trump, una certa tradizione isolazionista
repubblicana, richiamata più volte dal neopresidente, va in realtà a braccetto a
più inquietanti, ma altrettanto esplicite presenze di estrema destra, di quella alt
right i cui esponenti hanno lavorato ad un vero e proprio progetto di egemonia
mediatica, conquistata a colpi di attacchi al politicamente corretto, che si sono
via via trasformati in attacchi al femminismo e all’antirazzismo, e poi a campagne
contro qualsiasi cosa avesse a che fare con il mondo liberal e con rivendicazioni
egualitarie.
Perché invece di porre allora la questione del razzismo, del nazionalismo di
ritorno, del maschilismo ad oltranza, in altre parole la questione molto seria di un
ritorno di forme fasciste al centro della scena politica, si continua ad usare una
parola vaga, che spiega pochissimo e non aiuta a capire, come populismo? La
risposta più probabile sta proprio in quella creazione di “dualismi sommari” che
Deleuze richiamava: dualismi che servono a spostare il piano di discussione at-
torno ad “antagonismi” tanto semplificatori quanto astratti, buoni per mettere a
tacere i conflitti reali che si agitano e le soggettività altrettanto reali che li incarna-
no, sostituendoli con fantasmi vuoti. “Popolo”, “sovranità”, “antiestablishment”
sono appunto alcuni di questi fantasmi, agitati sia da chi afferra le bandiere del
populismo come da chi chiama a raccolta contro il pericolo populista: tutti con-
giurano nel nascondere la posta in gioco reale, i termini effettivi della crisi che
attraversiamo. A leggere il presente con la lente di una presunta nuova centralità

192
Populisti e neoliberali, la guerra civile nella governance

dei concetti di sovranità e di popolo, questi movimenti di destra sarebbero acco-


munati ad altri movimenti di sinistra, come gli spagnoli di Podemos, o la France
Insoumise di Mélenchon, dal fatto di iscriversi tutti in una sorta di arresto del
processo di globalizzazione: a destra darebbe luogo a forme nazionaliste, a sini-
stra a una richiesta di ritorno a uno stretto rapporto tra democrazia e sovranità,
nelle forme della sovranità popolare. Parlare di populismo, quindi, ci permette-
rebbe di riallineare tutti questi fenomeni politici attorno al nuovo conflitto che
davvero conterebbe: quello tra i vincenti della globalizzazione e i desiderosi di
protezione (nazionale) dalla globalizzazione stessa. Ma, com’è stato evidente già
dopo l’elezione di Trump, credere che si sia entrati in un processo di “degloba-
lizzazione” e di ritorno alla decisione statale, di cui appunto il populismo sarebbe
più o meno un sintomo, significa semplicemente prendere per buone le retoriche
dei neonazionalisti: una politica protezionista oggi è una politica del mero an-
nuncio, flatus vocis che si infrange immediatamente contro i meccanismi dell’ac-
cumulazione finanziaria. Interpretare l’emersione di queste forze come segnali di
ritorno a una “ristatualizzazione” del mondo globale, anche se spesso la fine del-
la globalizzazione viene proclamata credendo di fare esercizio di duro realismo
politico, manca in realtà proprio di un minimo di realismo: la chiacchiera sulla
fine della globalizzazione disconosce completamente le trasformazioni radicali
oramai avvenute nel ruolo degli stati e sembra pensare che sia possibile una sorta
di infarto più o meno improvviso dei flussi globali. Non è escluso, invece, che
alcune parziali rinazionalizzazioni di alcuni settori di intervento possano essere
adottate dalle stesse governance neoliberali proprio per innestare nella crisi al-
cuni momenti di decisione autoritaria: come si vede bene nel dibattito europeo,
dove la stessa governance che sostiene le politiche dell’austerity propone, come
eventuale piano B, il passaggio ad un’Europa a due velocità. I ritorni di fiam-
ma alla sovranità, dunque, non sembrano per nulla alternativi al neoliberalismo:
sorgono esattamente nello stesso contesto neoliberale e come alternative tutte
interne al neoliberalismo. Ragionare in termini di populismo accredita invece l’i-
dea che comunque il “vero” scontro sia sulla sovranità, tacendo questa evidente
complicità tra tensioni neosovraniste e politiche neoliberali: e anzi, preparando
il terreno per invocare, anche da parte della sinistra, una comprensione del “mo-
mento sovranista”, e quindi un ritorno allo statualismo tradizionale e a politiche
di rintanamento difensivo nel proprio spazio nazionale. Tutto il contrario di ciò
di cui avrebbe bisogno ora qualcosa che aspiri davvero a produrre un impatto
critico contro le politiche neoliberali: che possono essere sfidate solo da movi-
menti sociali che si collochino sullo stesso livello trasnazionale sul quale agisce il
capitale, che reclamino l’apertura delle frontiere e non la loro moltiplicazione, e,
prima ancora, che sappiano tenersi lontano dalla ripetizione delle vecchie parole
del classico Politico, a cominciare da quelle dello Stato e della Rappresentanza.
Perché è proprio insistendo sulle parole della tradizione che nulla comunicano
oramai alle nuove forme di vita, che la sinistra ha lasciato spazio all’irrompere
di mostri arcaici quanto si vuole e che, però, sanno evidentemente agire dentro
quella crisi. E non è restaurando la tradizione della politica statual-nazionale e

193
Shift. International Journal of Philosophical Studies

dell’autonomia del Politico e della Sovranità, cioè proprio quella tradizione che
ha da tempo cominciato a non far più presa sulle soggettività reali che abitano
la società postnazionale e postindustriale, e giustificando questa restaurazione
magari proprio con il pretesto di voler ascoltare il populismo per “inseguirlo” e
svuotarlo, che si fermeranno i nuovi fascismi.

194
Recensioni/Reviews
F. S. Festa, E. Fröschl, T. La Rocca, L. Parente, A. M. Vitale (a cura
di), L’Austria nell’Europa degli anni Trenta, Castelvecchi, Roma
2016, pp. 671.

Il dibattito svoltosi in Austria negli anni Venti e Trenta scandisce la ricerca di


una Identität per un Paese creato ex novo, ma dal nome storico nel segno della
tradizione, esaltandone le distanze e le differenze piuttosto che una unitarietà for-
male avulsa dal nuovo contesto storico europeo scaturito dalla “grande guerra”.
La storia dell’Austria novecentesca ha due momenti decisivi: la crisi della Pri-
ma Repubblica (Erste Republik), alla fine degli anni Venti; poi la sua dissolu-
zione con l’Anschluss nel 1938. Tra queste due date si svolge la parabola di uno
Stato che nessuno allora riusciva a definire compiutamente non solo in quanto
amputato di grandi territori e ridotto alla sola parte di lingua tedesca, tanto che
fu chiamato dopo la sconfitta DeutschOesterreich (Austria tedesca), ma anche
perché, per nulla rassegnato a svolgere un ruolo marginale nel contesto europeo,
era volto decisamente a interrogarsi su una nuova identità volta al futuro, non al
passato. In questo «piccolo mondo ove il grande mondo compie le sue prove»
(Hebbel), politica, filosofia, economia, arte, scienza, letteratura, satira si intrec-
ciano alla ricerca di una nuova identità non solo austriaca, ma essenzialmente
europea se non planetaria, dando vita a un vero e proprio “laboratorio politi-
co” decisivo per l’Europa d’oggi, rammentando agli uomini del continente come
l’Austria incarni, nella sua storia e nella sua tradizione, il modo di riuscire a far
convivere popoli, civiltà e religioni diverse.
L’Austria era uno Stato inventato di sana pianta a Versailles nel 1919 dove,
“confortati” dalle squallide parole di Clemenceau: “L’Autriche est ce qui re-
ste…”, dopo l’amputazione di vasti territori, gli uomini politici delle potenze
vincitrici, al cosiddetto tavolo della pace, avevano creato un’altra occasione di
guerra futura, che avevano già compiuto “inventando” il famigerato corridoio
di Danzica. Viene pubblicato così, a partire da questi temi, un lavoro – opera
di una serie di studiosi austriaci, tedeschi, americani, francesi, italiani: L’Austria
nell’Europa degli anni Trenta (Castelvecchi, Roma 2016), a cura di Erich Froe-
schl, Francesco Saverio Festa, Tommaso La Rocca, Luigi Parente, Angelo Maria
Vitale. Il volume scandisce e registra fasi, temi e problemi del ventennio tra le
due guerre, ed annuncia esiti in modo pluritematico, a partire dalle vicende di
un’Austria, divenuta dopo la “grande guerra”, per dirla con lo storico Anton
Pelinka, una “piccola repubblica danubiana”, ma per nulla ripiegata su se stessa

Shift. International Journal of Philosophical Studies 1/2017


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a giustificare la propria esistenza. La repubblica d’Austria era, invece, decisa a


impiegare le proprie risorse e potenzialità, specie in campo scientifico e socio-
culturale, nel compito tutt’altro che semplice di riuscire a “pensare in grande”
all’Europa, – considerata sino ad allora “terra permanente di rivoluzione” – qua-
le mondo comune. Un “pensare in grande” in chiave europea, a cominciare dal
tema delle nazionalità, che induce la “Erste Republik” d’Austria, insieme con la
parallela Repubblica di Weimar, a teorizzare nuovi diritti politici, civili, econo-
mici e sociali nella prospettiva di una possibile federazione europea. Autori e
specialisti di fama internazionale, come Antiseri, Bader, Botz, Doll, Froeschl,
Haas, Merker, Münster, Orsi, Pasteur, Ranchetti, Stieg, Stadler, Perone, de Gio-
vanni, Bouchard, Paggi, Tronti ed altri si sono interrogati e misurati sul ruolo
“europeo” dell’Austria, che non solo predilige la scelta di una forma di cittadi-
nanza de-territorializzata, al di là del mero luogo natìo, – la nota proposta Bauer-
Renner –, ma altresì tenta di districarsi tra le quattro grandi ideologie storiche
novecentesche, che, senza perdere affatto la loro chiave universale, hanno finito
per acquisire lì, in quegli anni, una intima peculiarità: infatti ancor oggi si parla
di dottrina cristiano-sociale corporativista, di austrofascismo, di austroliberismo,
di austrosocialismo. Il confronto serrato, in Austria, tra queste quattro grandi
Lager-Mentalität (lager è da intendersi nel significato originario di campo o disci-
plina teorica) segna un momento epocale nelle vicende storiche in quanto l’Au-
stria indica all’Europa non solo l’asprezza del dibattito, i termini di confronto,
come quelli di scontro, ma altresì la fecondità delle varie soluzioni proposte. È
un Paese capace di partire dall’adozione della Costituzione kelseniana (su cui è
ricalcata la Costituzione della Repubblica italiana), all’indomani della sconfitta,
per approdare al tentativo di convivenza tra cattolici, laici e socialisti, intorno a
un progetto comune, sperimentando per la prima volta la possibilità di creare sul
campo una sorta di unione non in nome della patria, bensì in nome dell’obiettivo
di un “bene comune”.
Ma un decennio dopo, agli inizi degli anni Trenta, i cristiano-sociali, restati soli
al potere, danno vita a una Costituzione di tipo corporativo, – che diverrà un mo-
dello per altri esperimenti simili a cominciare dal Portogallo di Salazar, – col can-
celliere Dollfuss che diventa sodale di Mussolini, mentre le correnti neo-liberiste,
da Von Mises a Von Hayek, annunciano al mondo intero come il liberismo sia
da considerarsi l’unica dottrina economica praticabile in età moderna in aperta
polemica con l’austrosocialismo di Victor Adler, Otto Bauer, Karl Renner ed altri
che avevano reinventato, invece, il rapporto tra socialismo e libertà, in politica e
in economia, in aperta polemica sia con la socialdemocrazia secondinternaziona-
lista, sia coi bolscevichi russi. Nasceva addirittura una nuova Internazionale, iro-
nicamente definita “Internazionale due e mezzo” dagli stalinisti, appunto perché
a metà tra la seconda Internazionale socialdemocratica e la terza Internazionale
comunista. Ebbe vita breve, ma lasciò il segno: come ha notato Cacciari, ne furo-
no seguaci persino i maggiori rappresentanti della teologia dialettica in Europa.
Oggi in Europa vi è la tentazione ricorrente di dar vita a nuove teorie “nazio-
nali”, un tema alla moda su giornali o su riviste scientifiche, come nel caso di una

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Recensioni/Reviews

French Theory o di un’Italian Theory, volte entrambe a “orientare” la definizione


di una dottrina o forma politica adatta all’Europa; eppure, nessuno tra gli autori
del volume (cfr. pp.16-17) ha pensato al conio di un “Austrian Thought”, per
quanto siano presenti nella vicenda austriaca elementi decisivi, e persuasivi, in
tema di cosmopolitismo, de-territorializzazione, de-nazionalizzazione, e persino
de-nominalizzazione (Austria di per sé non significa nulla di preciso, solo Reich o
Stato dell’Est). Nel determinare l’uscita dall’Austria felix di absburgica memoria
e nell’esaminare le tragiche vicende della Erste Republik, in tutti i protagonisti
del dibattito racchiuso nel volume si è avvertita la “coscienza infelice” che la sto-
ria insegna, ma altresì segna, con la chiara consapevolezza dell’inaudita difficoltà
nell’Europa d’oggi di poter re-inventare facilmente un’identità post-nazionale e
post-economica in senso unidimensionale senza correre il rischio di doversi…
rassegnare a una “nevrosi di nome Austria” (Ingeborg Bachmann).

Giuseppe Schettino

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Michele Ciliberto, Il nuovo Umanesimo, Laterza, Roma-Bari
2017, pp. 196.

Che nella nostra nazione ci sia bisogno, più che mai in questo particolare
periodo storico, di un drastico rinnovamento culturale, è cosa certa. Un passo
avanti, nel cercare di realizzarlo, lo compie Michele Ciliberto col suo ultimo im-
portante libro, che ha come titolo Il nuovo Umanesimo.
«Sono persuaso che la lezione dell’Umanesimo sia oggi particolarmente attua-
le, e questo per un motivo preciso: alla radice, esso è sempre stato una interro-
gazione sulla condizione dell’uomo, sul suo destino, ed è diventato attuale ogni
volta che si è riaperto questo problema, specie in tempi di crisi e di trasformazio-
ne» (Premessa, p. IX).
È, pertanto, il travaglio di un’epoca drammatica e a tratti tragica, dominata
dalla tensione tra «utopia e analisi disincantata del reale» (p. 154), ciò che ci
presenta Ciliberto in questa sua ultima esemplare opera: una tesi, questa, inno-
vativa, soprattutto se raffrontata con l’altra storiografica, tipicamente illuminista
– ancora valida nel XX secolo – che rappresenta il Rinascimento come un tempo
di armonia e serenità, una vera e propria “genesi del mondo moderno”. Da ciò
risulta la grande attualità del pensiero rinascimentale: «L’Umanesimo è tornato
attuale perché, con esso, si è riaperto, in maniera drammatica e in forme del tutto
nuove, il problema della condizione umana» (p. 64).
Il motivo della crisi occupa già l’animo di uomini del Rinascimento, come, per
esempio, Machiavelli, con il suo senso della perennità del mondo ma, al tempo
stesso, la percezione della sua mutazione. Ancora prima, Leon Battista Alber-
ti, con il Momus (1450), svolge una disincantata riflessione sull’impossibilità di
una renovatio mundi: se tutto cambia, ogni cosa resta la stessa. In tale scenario,
non essendo in grado di esercitare alcuna previsione, l’uomo – come afferma
Guicciardini – deve affidarsi, per far fronte ai rovesci della fortuna, all’arte della
dissimulazione, unica sua risorsa. Dissimulando, egli sovverte i valori e recita:
questo è il suo ruolo, che finirà solo con la morte.
Il tema del rovesciamento degli ordini del mondo, connesso a quello dell’in-
giustizia, occupa tutta l’opera di Tommaso Campanella: solo grazie all’iniziativa
di uomini eccezionali, destinati a subire l’incomprensione e la persecuzione, si
potrà uscire dallo stato di decadenza. Ma la giustizia è comunque assicurata, per

Shift. International Journal of Philosophical Studies 1/2017


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il filosofo calabrese, da un Dio buono e da un giorno del giudizio in cui l’uomo


avrà modo di «situarsi nell’orizzonte della Verità» (p. 24).
Giordano Bruno, invece, sviluppa un altro tema: quello della giustizia che è,
per lui, «il terreno su cui si gioca la battaglia cruciale fra decadenza e renovatio»
(p. 36), ma la sua prospettiva è ormai post-cristiana. L’uomo non è un un ludus
deorum – un giocattolo nelle mani degli dei – e, per salvaguardare la libertà e
la responsabilità umane, egli «introduce una piega nella vicissitudine» (p. 38):
l’idea secondo cui il merito decide ciò che saremo nelle mutazioni successive.
Agli antipodi di questa prospettiva vi è Pietro Pomponazzi. Nel De fato (1524),
il filosofo mantovano ritiene inesistente, dal punto di vista filosofico, la questione
del libero arbitrio, affermando, sulla scorta degli stoici, l’esistenza di un ordine
universale dove ognuno fa solo quello che può. È con la metasomatosi che si
risolve, per lui, il problema della giustizia: le anime, trasmigrando da un corpo
all’altro, subiranno sorti ogni volta diverse, e così si realizza la piena eguaglianza
tra gli uomini.
Ciliberto egregiamente individua una fondamentale polarità nel pensiero
umanistico-rinascimentale. Da una parte il filone ermetico, con a capo Marsilio
Ficino e Pico della Mirandola, che celebra le potenzialità camaleontiche dell’uo-
mo, il quale è faber fortunae suae e, dall’altra, pensatori come Machiavelli e Guic-
ciardini, i quali insistono sui limiti contro cui l’agire umano s’infrange: la natura,
il tempo, la fortuna. «Dignitas ed excellentia hominis sono dunque certamente
presenti nell’Umanesimo, ma non ne costituiscono l’unico motivo, non il domi-
nante» (p. 54).
Il tratto comune del pensiero rinascimentale – osserva Ciliberto – è rappresen-
tato dalla vocazione umana alla praxis in ogni campo (politico, religioso, artistico
e scientifico): ciò avviene specialmente in Italia, dove il cosiddetto “Umanesimo
civile” trova i suoi più illustri rappresentanti in Leon Battista Alberti, Pico del-
la Mirandola, Girolamo Savonarola, Niccolò Machiavelli, Pietro Pomponazzi,
Giordano Bruno, per arrivare a Tommaso Campanella. Tutti pensatori in cui la
dimensione biografica si conforma a quella intellettuale. Se infatti la vita vissuta
costituisce il deposito della propria esperienza personale, la biografia è il luogo
stesso in cui la verità si manifesta.
«In un mondo – il nostro – che si divide in forme sempre più feroci, nel quale
le differenze di religione o di razza generano conflitti sanguinosi» (p. 63), l’U-
manesimo testimonia il valore della tolleranza, di cui l’Oratio de hominis dignita-
te rappresenta un luminoso esempio, dal momento che riconosce in ogni auten-
tica ricerca umana un riflesso della verità.
Il volume è, poi, completato da una corposa scelta antologica operata dall’Au-
tore. In essa, divisa in ben nove sezioni, trovano spazio pagine in cui si riflette
sulla condizione dell’uomo (“l’omo quasi umbra d’un sogno” di Alberti, “l’uomo
come grande miracolo” di Pico, ma anche il monito machiavelliano che l’uomo
non comanda le stelle e la pacata riflessione di Montaigne intorno alla mutevolez-
za dell’essere umano); sull’opposizione tra esse e videri, per Alberti antica come
il genere umano e che Paolo Sarpi elegge a massima di buon senso civile: «Al di

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Recensioni/Reviews

dentro vivi e giudica secondo ragione, al di fuori secondo la comune opinione vivi
e parla» (p. 90); sull’attività, di cui è convinto Erasmo, e la passività dell’uomo,
sostenuta invece da Lutero, che parla di asservimento della volontà umana a Dio
o al diavolo. Ed ancora ci si focalizza sulla tendenza ereticale, ispirata all’inse-
gnamento di Origene e condivisa da Bruno, secondo cui il «beneficio di Cristo»
debba estendersi anche ai demoni e persino a Lucifero; sul tema di «ascenden-
za platonica, dell’eros come forza mediatrice tra i differenti piani del reale» (p.
127), con la riproposizione da parte di Ciliberto di varie pagine dello splendido
commento di Ficino al Simposio – dove il furor amoris conduce l’uomo ad essere
un quasi deus – e degli Eroici Furori di Bruno, in cui il furore eroico culmina
nel “disquarto” del corpo di Atteone; sull’importanza delle immagini, che – per
citare ancora Ficino e precisamente il De vita (1489) – hanno il compito di «ge-
nerare delle successioni di somiglianze formali tra oggetti terreni e loro modelli
ultraterreni» (p. 139), anche se, seguendo la teoria bruniana della conoscenza,
tra le immagini e il Modello esiste comunque uno scarto incolmabile e proprio
questo rende l’uomo “umbratile”; sulla tensione utopica che anima la letteratura
rinascimentale, dal Filarete a Campanella; sull’«antropologia tirannica» di Giro-
lamo Savonarola, che tanto ha influenzato Guicciardini e il Machiavelli dei Di-
scorsi sopra la prima deca di Tito Livio (1531) ed infine sulle riflessioni maturate in
seguito all’incontro con le popolazioni indigene nell’America centro-meridionale
e la crisi della monogenesi e della cronologia biblica che questo incontro ha com-
portato. Se, da una parte, Campanella cerca di individuare un collegamento tra
le Sacre Scritture e le recenti scoperte geografiche e, dall’altra, Bruno considera
gli Indios «la prova dell’impossibilità dell’origine di tutte le stirpi da un unico
progenitore», si fa strada ormai il relativismo culturale di Montaigne che incide
molto sull’etnocentrismo degli europei.
Il messaggio che Ciliberto ci consegna è chiaro: «Crisi e renovatio, si è det-
to, e conviene ribadire: l’originalità, la forza ed anche l’attualità dei più grandi
pensatori del Rinascimento sta nell’intrecciare questi due momenti: una consi-
derazione della realtà per quello che essa è, con uno sguardo freddo, addirittura
sarcastico; la capacità di non cedere all’esistente, proponendo sempre nuove pro-
spettive politiche, religiose, artistiche, salendo senza timore anche nella dimen-
sione dell’utopia, del mito, perfino del sogno» (p. 59).
Questo il grande insegnamento che l’Umanesimo custodisce e su cui l’uomo di
oggi è invitato sempre a meditare.

Renato Trombelli

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Alain Badiou, Il nostro male viene da più lontano. Pensare i mas-
sacri del 13 novembre, Einaudi, Torino 2016, pp. 68.

Il pamphlet di Badiou è la trascrizione di un seminario da lui tenuto ad Au-


bervilliers il 23 novembre 2015. Pochi giorni prima, il 13 novembre, i massacri
di Parigi, che costituiscono l’oggetto del seminario, esponevano l’Europa alla
sua vulnerabilità. Quell’esplosione di violenza, che aveva fatto 137 morti e più
di 300 feriti, mostrava l’insufficienza delle politiche securitarie in cui l’Occiden-
te si è avvitato a partire dal 2001. Già nel dicembre dello stesso anno, la fatwa
messa in atto contro la redazione di “Charlie Hebdo” palesava l’inadeguatezza di
una strategia che volesse proteggere un dentro virtuoso separandolo da un fuori
minaccioso: il male che aveva già colpito l’Europa (Istanbul 2003, Beslan 2004,
Madrid 2004, Londra 2005), e che l’avrebbe scossa nuovamente dopo i fatti di
Parigi (ancora a Istanbul, a Nizza, a Berlino, a Stoccolma), è un male endogeno.
È un male che viene da lontano, spiega Badiou, ma non da fuori; una specie di
malattia autoimmune che si è sviluppata in un tempo molto lungo, un tempo
che è necessario ripercorrere all’indietro: perché è inutile, e al limite contropro-
ducente, la risposta paranoica che punta l’indice contro l’arabo, contro l’Islam
‘fondamentalista’, contro una presunta alterità.
Del libretto di Badiou, che si impegna in questo lavoro di risalita genealogica,
stupisce in prima battuta lo stile semplice e trasparente, lontano da quella scrittu-
ra ostica che ben conoscono i suoi lettori. Ma soprattutto colpisce il tono lucido,
l’argomentare estremamente razionale che, benché i fatti commentati siano anco-
ra caldi, lavora a tenere lontano il «sopravvento della sfera sensibile» (p. IX). Si
tratta di un esercizio, in stile hegeliano, di apprendimento del proprio tempo in
pensieri. Badiou dichiara subito che per rispondere politicamente e non d’impul-
so alla tragedia occorre pensare: «niente di quello che fanno gli uomini è incom-
prensibile. Dire ‘non capisco’, ‘non capirò mai’, ‘non posso capire’ è sempre una
sconfitta. Non si deve lasciare nulla al registro dell’impensabile. La missione del
pensiero […] è per l’appunto pensare l’impensabile» (p. XV). Rinunciare a que-
sta missione significa lasciare il campo a comportamenti irrazionali e criminali.
Il testo procede dall’universale al particolare: l’evento in questione è raggiunto
alla fine di un percorso che parte dalla descrizione della struttura del mondo da
cui esso è emerso. Questo mondo è, per Badiou, la scena del dispiegamento del
“capitalismo globalizzato”. Con questa espressione egli intende un processo che

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negli ultimi trent’anni «non solo ha ritrovato la sua energia dissolvente, ma l’ha
anche profusa in modo tale che oggi il capitalismo, inteso come struttura globale,
costituisce un dominio praticamente incontrastato per l’insieme del pianeta» (p.
4). Ciò che Badiou stigmatizza in maniera molto netta è il fatto che il mondo con-
temporaneo non dispone di modelli alternativi – o antagonisti – rispetto a quello
capitalista, il quale, di conseguenza, si impone come un che di naturale, inevi-
tabile e destinale. A partire da qui, l’autore descrive l’indebolimento o la netta
neutralizzazione degli Stati, una dinamica ben diversa da quella riappropriazione
sociale del Gemeinwesen auspicato da Marx, e che semplicemente riduce gli Sta-
ti ad agenti della finanza; soprattutto egli sottolinea la “vittoria soggettiva” del
capitalismo, il trionfo di cui esso gode nelle concrete forme di soggettivazione,
nelle quali si assiste allo «sradicamento totale dell’idea stessa di un’altra via pos-
sibile» (p. 10). È della massima importanza per Badiou il fatto che si sia del tutto
erosa l’idea di un’altra via possibile. Questa idea, “il cui nome generico, dal XIX
secolo, è ‘comunismo’” è ormai estirpata dalle menti. Per cui «si è passati dal due
all’uno. Questo è fondamentale. Non è la stessa cosa quando, su una medesima
questione, ci sono due idee in conflitto o quando ce n’è una sola. E questa unicità
è il punto chiave del trionfo soggettivo del capitalismo» (pp. 12-13).
Su un piano oggettivo, poi, si è assistito a quella che Badiou chiama “zoniz-
zazione”, ovvero la prosecuzione di politiche imperialiste e coloniali, non più
costruendo Stati tutelati, controllati e guidati da superpotenze globali; si è pun-
tato invece a distruggere gli Stati e a sostituirli con «zone infrastatali che sono
in realtà zone di saccheggio non statali» (p. 19). Sono zone di caos e anarchia,
miste a conflitti a bassa intensità, corruzione diffusa e gestione mafiosa della poca
amministrazione: Badiou qui parla di Iraq, Libia, Mali, ex Iugoslavia, eccetera.
Poiché l’effetto più immediato di tutto questo è uno sviluppo iniquo senza
precedenti, si allarga, a livello sia globale che locale, la forbice tra i sempre più
ricchi e la crescente massa dei sempre più poveri. La classe media, storico «soste-
gno di massa del potere democratico» (p. 24), tende a sparire e vive quindi nella
paranoia della sua stessa estinzione: «ecco perché questa classe è permeabile al
razzismo, alla xenofobia, al disprezzo della gente povera» (p. 25).
Alla soggettivazione della classe media, corrisponde il binomio delle due sog-
gettività che Badiou chiama rispettivamente “desiderio di Occidente”, incarnata
da coloro che intendono lasciare le zone devastate per raggiungere il benessere
del mondo occidentale, e la “soggettività nichilista”, animata da un desiderio
di rivalsa e distruzione rispetto ai più fortunati: entrambe gravitano intorno al
predominio della forma di vita occidentale con la sua capacità seduttiva; sono, in
altri termini, due facce della stessa medaglia.
È in questo contesto che emerge, secondo Badiou, il “fascismo contempora-
neo”. Del tutto post-ideologico, esso è “intracapitalista”, non propone nessuna
struttura alternativa al capitalismo, ma si alimenta della frustrazione che esso
genera. E allora ecco il punto chiave: questo fascismo può essere definito, nella
sua forma, come “una pulsione di morte articolata in un linguaggio identita-
rio”, mentre nel suo contenuto esso “deriva dall’onnipresenza del desiderio di

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Recensioni/Reviews

Occidente”. Ma questo significa che «la religione è solo un involucro, non è


assolutamente la sostanza della questione, è una forma di soggettivazione, non il
contenuto reale della cosa» (p. 44). La religione è la forma retorica che canalizza
insoddisfazioni diffuse. Ecco perché non hanno senso né efficacia i discorsi e le
pratiche che intendono individuare un nemico esterno che porta la peste tra le
nostre mura. Non si dà alcun fuori, secondo Badiou, rispetto all’idea capitalista
che dà forma alle nostre vite. Del tutto ridicole, in questa prospettiva, oltre che
politicamente regressive, le analisi del Corano che tanti “intellettuali identaristi”
fanno per scovarvi fondamenta delle sempre più frequenti eruzioni di violen-
za. Che sono piuttosto, insiste il filosofo, perversioni soggettive del capitalismo.
Quello che si legge come scontro delle civiltà, non è che uno spasimo interno a
un mondo monodimensionale, impantanato in una immanenza senza uscite.
L’analisi di Badiou soffre di un certo riduzionismo storico, che tende a portare
fenomeni molto complessi, e che negli anni subiscono mutamenti sostanziali, a
un ceppo unico e invariante. Badiou non vede stratificazioni né salti temporali.
Il suo lavoro convince molto di più, invece, quando si cala nelle forme di sog-
gettivazione – cioè nelle forme psichiche, emotive e di convinzioni – prodotte
dal mondo contemporaneo: la razionalità politica globale non è, in effetti, in-
tellegibile al di fuori di questo livello estremamente concreto, infrapolitico. Da
ribadire, poi, è la tesi di un mondo dominato da un pensiero unico, ormai privo
di esteriorità. È da qui che viene il “nostro male”, “dal fallimento storico del co-
munismo”, inteso genericamente come «pensiero strategico avulso dalla struttu-
ra capitalista egemonica» (p. 64). In questo quadro è inevitabile che ciò che non
trova voce torni come il rimosso: per eventi di violenza rapsodica.
Per uscire dalla spirale occorre ricostruire un pensiero “universale”, come fu,
secondo Badiou, quello della Rivoluzione francese: un pensiero non univoco, ma
capace, come l’Idea platonica, di tenere in sé la proliferazione della molteplicità.

Massimo Villani

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Autori/Authors

is ull Professor of Sociology of Law, Theory of


Governance, Citizens and Rights, and of Sociology of Risk and Security at
Università degli Studi di Salerno. He is faculty member of the PhD in Sociology,
Social Analysis, Public Policies and Theory and History of Institutions. He is
also member of the “Diritto e società” association, of Società Italiana di Filosofia
del Diritto, and of the editorial team of “Outis. Rivista di filosofia (post)europea/
Revue de philosophie (post)européenne”. Among his writings: Costituzioni
precarie (Manifestolibri, Roma 2016); Dopo il nomos moderno? Eguaglianza,
neutralità, soggetto, co ritten with L. Bazzicalupo (Esi, Napoli 2006); I
confini del giuridico. La crisi della sovranità e l'autonomia del giuridico (Esi,
Napoli 2003); Carl Schmitt tra decisione e ordinamento concreto (Esi, Napoli
1999); Il sovrano e la maschera. Il concetto di persona in Thomas Hobbes (Esi,
Napoli 1998).

Alfonso Amendola is Professor of Sociology of Experimental Audiovisuals


at University of Salerno (Italy). Among his last works Teatro e immaginari
digitali. Saggi di sociologia dello spettacolo multimediale, with V. Del Gaudio
(I gechi, Salerno 2017), Far Above the World. David Bowie tra consumi culturali
e analisi del discorso, co ritten with L. Barone (Areablu Edizioni, Salerno
2017), Saccheggiate il Louvre. William S. Burroughs tra eversione politica e
insurrezione espressiva, co ritten with M. Tirino (Ombre Corte, Verona
2016). Actually he’s writing an essay about phenomenology of dandy.

Laura Bazzicalupo is ull Professor of Political Philosophy at the University


of Salerno and she is director of “Soft Power. Revista euroamericana de teor a e
historia de la politica y del derecho”. In the first period of her work she focused
on leading figures of the late modernity such as Thomas Mann e Musil, Il
sismografo e il funambolo. Modelli di conoscenza e idea del politico in Thomas
Mann e Robert Musil (Liguori, Napoli 1982) and Hannah Arendt, Hannah
Arendt. La storia per la politica (ESI, Napoli 1995). Her name is however linked
to the introduction in Italy of the biopolitical debate. Among her books: Il
governo delle vite. Biopolitica ed economia (Laterza, Bari 2006); Biopolitica. Una

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Shift. International Journal of Philosophical Studies

mappa concettuale (Carocci, Roma 2010); Politica. Rappresentazioni e tecniche


di governo (Carocci, Roma 2013), Dispositivi e soggettivazioni (Mimesis, Milano
2013). She has edited and prefaced the Italian Edition of J. Butler, E. Laclau, S.
Žižek, Dialoghi sulla sinistra. Contingenza, egemonia, universalità (Laterza, Bari
2010).
Franco Cipriano has been active on the artistic scene since the ‘70. His main
interest is the relation between art and thinking, explored in dialogue with phi-
losophical culture, poets, and writers. His practice of painting and writing is an
itinerary of thought on meaning memory of the work. He is author of
theoretical texts on poetics and art critique, and has promoted and actually
coordinates Artlante Community of studies and initiatives for contemporary art.
His last exhi-bition, held in 2017 at the National Archeological Museum of
Napoli, is Myste-rium bibliotheca philosophica.
Danielle Cohen-Levinas is philosopher, musicologist and poet. Since 1998
she has been Full Professor at the University of Paris IV-Sorbonne; in 2008,
she founded the “Collège des études juives et de philosophie contemporaine
– Centre Emmanuel Levinas”. She’s Associate Professor at the Husserl Archi-
ves in Paris at Ecole Normale Supérieure. Her publications include books on
the work of Emmanuel Levinas, on the of thought of Benjamin, Rosenzweig,
Adorno, Derrida et Blanchot, Jean-Luc Nancy, and on music. She is director
of several series by the Éditions Hermann and president of “ a iers aurice
lanc ot”, which she co-founded with Monique Antelme and Mike Holland
in 2010. Among her recent books are: Inventions à deux voix n n , co-
written with J.-L. Nancy (Du Felin Eds., Paris 2015) Une percée de l’humain
(Payot/Rivages poche, Paris, 2015) Le devenir-juif du poème. Double envoi:
Celan et Derrida (PU, Montréal 2015).
Vincenzo Del Gaudio earned a PhD in Metaphysics at Università Vita-Salute
San Raffaele of Milan (Italy). He holds the digital perfomances laboratory and
coworks at University of Salerno at chair of Sociology of Experimental
Audiovisuals and of Sociology of cultural processes. Among his last works, e
edited Il corpo sottile. Hypokritès Teatro Studio: scena, media e società
(Areablu, Salerno 2016) and A. Abruzzese s theatrical works Il dispositivo
segreto. La scena tra sperimentazione e consumi di massa, with A. Amendola
(Meltemi, Roma 2017).

Gian Paolo Faella earned a PhD in the History of Ideas at Scuola Normale
Superiore, Pisa. He’s been co-convener of the “Market Square” research group
at CRASSH (Center for the Arts, Humanities and Social Sciences), University of
Cambridge. Moreover he’s among the editors of “Pandora. Rivista di teoria e politi-
ca”. His research interests vary from political philosophy to semiotics, to aethetics.
Rino Genovese (Napoli 1953) was formerly researcher at the Scuola Normale
Superiore in Pisa. At the present, he presides over the “Fondazione per la critica

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Autori/Authors

sociale” in Firenze. His main publications include: Convivenze difficili (Feltri-


nelli, Milano 2005); Trattato dei vincoli (Cronopio, Napoli 2009); Un illumini-
smo autocritico (Rosenberg & Sellier, Torino 2013).

Giuseppe Giordano is currently Full Professor of History of Philosophy at the


Department of Ancient and Modern Civilizations, University of Messina (Italy).
His research interests focus on the analysis of the relationship between philoso-
phy and science. Giordano’s historical-philosophical approach clearly emerges
also in his interests for Italian philosophy. He has published several books: Tra
paradigmi e rivoluzioni. Thomas Kuhn (Rubbettino, Soveria Mannelli 1997); La
filosofia di Ilya Prigogine (Armando Editore, Roma 2005); Da Einstein a Morin.
Filosofia e scienza tra due paradigmi (Rubbettino, Soveria Mannelli 2006); Storie
di concetti. Fatti, Teorie, Metodo, Scienza (Le Lettere, Firenze 2012); La filosofia
della scienza di Giovanni Vailati (Le Lettere, Firenze 2014). He has also pub-
lished several articles in books, refereed journals and proceedings.

Luigi Imperato is PhD in Philosophy at Istituto Italiano di Scienze Umane,


Florence-Naples. He spent periods of research at Ludwig-Maximilians-Univer-
sität, Munich. In 2010, he received special mention at “Vittorio Sainati” Award
for best doctoral dissertations discussed in Italy, organized by the University of
Pisa. Some of his publications: La ragione ricondotta all’intelletto?, in AA.
VV., Jacobi in discussione (Franco Angeli, Milano 2012); Padula lettore di
Hegel, in “Quaderni di Antropologia e Scienze Umane” (2013), I limiti della
ragione e le possibilità della filosofia, in “Il Cannocchiale” (2013), Una libertà
ancipite, in “Il Cannocchiale” (2016).

Jérôme Lèbre is member of the Collège international de philosophie, profes-


sor of philosophy in classes préparatoires littéraires (Paris) and associated mem-
ber of the Crephac (Strasbourg University). His philosophical work focuses on
german and contemporary philosophy, and follows specific problems: the
character and its stability, speed and immobilisation. Last books: Vitesses
(Hermann Philosophie, Paris 2011); Derrida – La justice sans condition
(Michalon, Paris 2013); Les Caractères impossibles (Bayard, Paris 2014);
Signaux sensibles, co ritten with J.-L. Nancy (Bayard, Paris 2017).

Valentina Mascia is PhD in Italian Studies. She received a research fellow-


ship in Theoretical Philosophy at the University of Salerno (Italy). Her main
publications include: Scenari della corporeità in Jean-Luc Nancy in “Quaderni di
InSchibboleth” (2012); Carlo Michelstaedter: dalla bellezza alla persuasione in
AA.VV., Carlo Michelstaedter e il Novecento filosofico italiano (Le Lettere,
Firenze 2013); Jean-Luc Nancy. La chance comunitaria: l’esposizione del senza
progetto , in “Epékeina” (2015); Come una cometa. Saggio su Carlo
Michelstaedter (Le Lettere, Firenze 2016).

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Shift. International Journal of Philosophical Studies

Jean-Luc Nancy (Bordeaux 1940) is one of the most important leading figures
of contemporary thought. He was a professor at the University of Strasbourg,
and in the 1970s and 1980s he was a guest professor at several universities all
over the world, such as the University of California or the Freie Universität in
Berlin. The principal topics of his work are body, community, freedom, democ-
racy: concepts that he has elaborated analysing and criticizing the heideggeri-
an heritage. Among his books, translated in several countries: La communauté
désouvrée (Christian Bourgois, Paris 1986) L’expérience de la liberté (Galilée,
Paris 1988) Corpus (Métailié, Paris 1992) Les Muses (Galilée, Paris 1994) Être
singulier pluriel (Galilée, Paris 1996) La création du monde ou la mondialisation
(Galilée, Paris 2002) Verité de la démocratie (Galilée, Paris 2008) La
déclosion. Déconstruction du christianisme 1 (Galilée, Paris 2005) L’Adoration.
Déconstruction du christianisme 2 (Galilée, Parigi 2010) La communauté
désavouée (Galilée, Paris 2014) Banalité de Heidegger (Galilée, Paris 2015).

Luca Scafoglio carries out research at the University of Salerno. He as


earned the National Scientific Qualification Associate Professor in Moral
Philosophy. His studies mainly deal with Frankfurt critical theory. In this field
he has published several articles and two monographs: Forme della dialettica.
Herbert Marcuse e l’idea di teoria critica (Manifestolibri, Roma 2009), and La
merce e il mito. Su Adorno e la teoria critica (Manifestolibri, Roma 2013). He
is also editor of Max Horkheimer’s Manuscript On the Sociology of Class
Relations (Paparo, Napoli 2013).

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Finito di stampare
nel mese di giugno 2017
da Digital Team - Fano (PU)

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