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IL CAPITALE CULTURALE
2016
Studies on the Value of Cultural Heritage
JOURNAL OF THE SECTION OF CULTURAL HERITAGE
Department of Education, Cultural Heritage and Tourism
University of Macerata
Il Capitale culturale Fiorella Dallari, Stefano Della Torre, Maria
Studies on the Value of Cultural Heritage del Mar Gonzalez Chacon, Maurizio De Vita,
Vol. 14, 2016 Michela Di Macco, Fabio Donato, Rolando
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RICERCA, TUTELA E VALORIZZAZIONE DEL PATRIMONIO ARCHEOLOGICO: OPINIONI A CONFRONTO 1055

Paolo Güll***

Dalla “bonifica archeologica” alla gestione del rischio. Nuove sfide per la
ricerca e la tutela

“…se lo conosci, lo eviti”

Come quasi tutte le novità nel panorama archeologico italiano, anche


l’archeologia preventiva si è nutrita di consistenti fraintendimenti, che, uniti ad
uno scarsissimo interesse da parte delle autorità preposte alla tutela nel garantire
il rispetto di norme di cui hanno quasi sempre mostrato di non comprendere
(o, peggio, non condividere) la ratio, hanno portato ad una situazione di stallo,
in cui, se le nuove regole che saranno contenute nei decreti di applicazione
del D.Lgs. 50/2016 non comporteranno una inversione di rotta, è destinata a
segnare il fallimento anche di questa stagione dell’archeologia italiana4.
La refrattarietà dell’archeologia delle piccole patrie a qualunque riflessione
teorica seria ha impedito di entrare nel merito dei problemi metodologici legati
all’archeologia preventiva, questioni che attengono sì alla sfera del metodo, ma
che hanno poi da un lato una precisa ricaduta sul piano operativo, ma obbligano
anche a ripensare l’intero ruolo della disciplina. Ovviamente un’archeologia che
ha fatto fatica a digerire il metodo stratigrafico non poteva che avere difficoltà a
misurarsi con un tema che dal piano del metodo si trasferisce perfino su quello
delle strategie di lungo periodo.
L’assunto di partenza è un dato noto: la stratificazione archeologica è un bene
non rinnovabile. Da tale punto di vista la metafora del petrolio, su cui si è molto
insistito, non può che apparire appropriata. Da parte del mondo archeologico
più tradizionalista e sacerdotale si è ripetuto come un mantra, che sostenere
“il patrimonio culturale è il petrolio d’Italia” suona come una bestemmia, ma
nulla è in realtà più calzante, dal momento che il petrolio a un certo punto
“finisce”, esattamente come si esaurisce la stratificazione archeologica e come si
“consuma” anche se con tempi più lunghi tutto il patrimonio culturale.
Il problema era già stato messo in evidenza da Barker, che, come è arcinoto,
in Tecniche dello scavo archeologico, riferendosi all’attività sul campo parla di
«esperimento irripetibile»5. Meno note, invece, sono le posizioni dell’archeologo

*** Paolo Güll, Ricercatore di Metodologia della ricerca archeologica, Università del Salento,

Dipartimento di Beni culturali, via Birago, 64, 73100 Lecce, e-mail: paolo.gull@unisalento.it.
4 Sulla controversa nascita dell’archeologia preventiva in Italia mi permetto di rinviare a Güll

2015, pp. 15-17. Il comma 13 dell’art. 25 del D.Lgs. 50/2016 prevede un D.M. di applicazione delle
norme sull’archeologia preventiva (compito peraltro imposto fin dal codice D.Lgs. 163/200, art.
96, comma 6 e totalmente disatteso dal MiBACT). Con D.M. 10 giugno 2016, una commissione
presieduta da Girolamo Sciullo è stata incaricata di redigere entro il 15 settembre 2016 una bozza
di decreto.
5 Barker 1977, p. 12.
1056 CARMELO GRASSO, PAOLO GULL, MARIO PAGANO, FRANCESCA SOGLIANI

scandinavo Olaf Olsen, il quale nel suo articolo Rabies archaeologorum,


pubblicato in «Antiquity» nel 1980, fa una serie di considerazioni tra cui una
riveste estrema importanza dal nostro punto di vista: poiché le tecniche di
scavo vengono continuamente migliorate e l’indagine non può essere replicata
(esperimento, appunto, “irripetibile”), effettuare uno scavo oggi significa
impedire domani l’accesso alle stesse maggiori informazioni6.
Lo scavo di oggi dunque preclude la conoscenza futura. Per Olsen, epigono
della stagione del “positivismo spontaneo”, il problema è strettamente
quantitativo: tecniche migliori uguale maggiore conoscenza7. Ma, in una visione
più aggiornata della questione, esiste anche un problema qualitativo, già messo in
evidenza da Jerzy Topolski, autore del principale e per certi versi unico manuale
di Metodologia della ricerca storica8. Per lo storico polacco, infatti, la fonte ha
natura dinamica, cioè risponde alle domande che il ricercatore le pone. Tuttavia
queste ultime non dipendono solo dalla quantità di nozioni di cui dispone il
ricercatore (ricercatori migliori uguale più conoscenza) o da tecniche di analisi
più aggiornate e raffinate (anche qui, tecniche migliori uguale più conoscenza),
ma da un complesso di conoscenze che Topolski definisce “extrafonti”, che non
sono mere “conoscenze accessorie”, ma rappresentano l’hic et nunc storico,
culturale, politico, personale e perfino esistenziale del ricercatore9.
Le domande quindi vanno lette nel contesto socio-culturale in cui esse
vengono poste, sicché le domande di domani non saranno “di più”, perché di
più sono le conoscenze, ma saranno semplicemente “diverse” perché diversa
sarà la società in cui sono nate.
In questa cornice metodologica siamo dunque di fronte alla contraddizione
apparentemente insanabile tra l’irreversibilità dell’attività di scavo archeologico
da una parte e la mutevolezza imprevedibile della ricerca archeologica dall’altra,
soggetta ad un continuo miglioramento della sua qualità, ma allo stesso tempo
in balia di una variabilità dei suoi obiettivi, delle sue priorità, degli stessi
“occhiali culturali” del ricercatore.
La risposta operativa standard a tale problematica è la preservation by record,
ma si tratta tuttavia di una soluzione con fortissimi limiti10. La preservation by
record si basa sull’assunto, epistemologicamente obsoleto, che sia possibile dare
dell’evidenza archeologica una descrizione e una rappresentazione esaustive e
che tale azione consenta di trasformare, in un modo soddisfacente, la stessa
evidenza in “record”, documentazione (generalmente cartacea, ma ormai non
solo).
Al lettore avvertito non sfuggirà la totale inadeguatezza di questo approccio
e ciò per varie ragioni.

6 Olsen 1980.
7 Güll 2011.
8 Topolski 1975.
9 Ivi, pp. 463-494.
10 Su questo tema si veda l’ottimo Carver 2011.
RICERCA, TUTELA E VALORIZZAZIONE DEL PATRIMONIO ARCHEOLOGICO: OPINIONI A CONFRONTO 1057

La più semplice l’abbiamo vista sopra ed è quella legata al progresso tecnico:


a parità di stratificazione asportata la nostra capacità di estrarre informazione
è aumentata e ragionevolmente aumenterà ancora, quindi il “record” di oggi è
più povero di quello che sarà possibile ottenere domani. Abbiamo tratteggiato
anche la seconda ragione, la variabilità culturale (nel tempo) del contesto in cui
matura la ricerca, e questa, chiaramente, in una attività irreversibile come la
ricerca archeologica sul terreno non può essere sottovalutata.
Tuttavia entrambe le cose sono collegate ad un aspetto più complesso,
questo in genere elegantemente ignorato, e cioè il fatto che la documentazione
archeologica non è isomorfa, ma omomorfa, in sostanza una rappresentazione
ridotta (non biunivoca) dell’insieme originario, nel quale non valgono le
relazioni inverse11. Detto in termini più semplici, dal contesto archeologico nel
suo insieme si può derivare la documentazione, ma non è possibile il processo
inverso. Il contesto originario non sarà insomma ricostruibile nella sua interezza,
quali che siano le capacità tecniche di chi ha operato sul terreno. Il potenziale
informativo del contesto archeologico contenuto nella documentazione è infatti
molto minore di quello del contesto originario. Sarà forse evidente, ma vale la
pena di sottolinearlo, che, nel passaggio dal questo alla sua rappresentazione
ridotta, la riduzione e la trasformazione in documentazione avvengono non solo
nei limiti della cornice tecnica in cui si opera, ma anche e soprattutto attraverso
un filtro dato in sostanza da quell’hic et nunc del ricercatore cui le “domande
di ricerca” sono subordinate.
Infine, qualunque sia la natura della conoscenza prodotta attraverso l’attività
di ricerca (ché questa non genera “dati grezzi” ma costruiti), essa non può
essere indefinitamente conservata nella documentazione in cui essa è registrata
e ciò non solo per problemi connessi al deterioramento fisico della stessa (fatto
pure da non sottovalutare), ma anche e soprattutto per una serie di ragioni
che provengono dalla teoria delle comunicazioni. I dati, infatti, subiscono una
perdita progressiva di contenuto informativo indipendentemente dalla loro
qualità iniziale. Vediamo come questo avviene e perché.
A Mathematical Theory of Communication, fondamento della Teoria
dell’informazione, viene pubblicato nel 1948 da Claude Shannon, un matematico
e ingegnere statunitense considerato, assieme a Warren Weaver12, uno dei
padri della moderna cibernetica. Il modello Shannon13 si basa su pochi semplici
elementi essenziali: un messaggio passa da un emittente a un destinatario-
ricevente attraverso un canale fisico; perché ciò accada, il messaggio deve essere
codificato dall’emittente e decodificato da chi lo riceve, utilizzando un codice
ottenuto combinando regole. Durante il percorso che il messaggio compie,
esso può subire delle variazioni, poiché è sottoposto a disturbi, il cosiddetto

11 Maetzke et al. 1977.


12 Shannon, Weawer 1949.
13 Shannon 1948.
1058 CARMELO GRASSO, PAOLO GULL, MARIO PAGANO, FRANCESCA SOGLIANI

“rumore”, inteso come ogni possibile intervento esterno, che durante il


percorso del messaggio potrebbe alterarlo o in casi estremi impedire allo
stesso di raggiungere il destinatario. È chiaro che, perché il modello funzioni,
è necessaria in prima istanza l’esistenza di un codice condiviso tra emittente e
destinatario. Nella formulazione iniziale il codice è inteso in senso unicamente
matematico e non vengono considerati gli aspetti linguistico-semantici, che
saranno introdotti da Roman Jakobson14.
Tralasciando una serie di aspetti che esulano dagli scopi di questo testo,
sarà sufficiente considerare che, applicando il modello di Shannon alla ricerca
archeologica, la fonte dell’informazione, il “mittente”, corrisponde al contesto
socioculturale in cui si produce, parte volontariamente, parte involontariamente,
una “informazione”. Questa, anche qui parte volontariamente, parte
involontariamente15, si “fossilizza”, cioè si trasforma in un insieme o contesto
di “tracce archeologiche”, sotto forma di deposito in senso fisico, ma non
solo16. Questo contesto è quindi il frutto della “codifica del segnale”, nel quale il
messaggio è stato ridotto a parte dei suoi elementi materiali secondo una “regola
tafonomica” (sorta di “algoritmo di codifica”), che nel nostro caso, peraltro,
è sostanzialmente inconoscibile17. Il “canale di trasmissione” così creato può
essere a questo punto oggetto di disturbi vari, da quelli di tipo naturale, cioè
tutti quei fenomeni che comportano modifiche lente o traumatiche del paesaggio
come terremoti, alluvioni, smottamenti, a quelli prodotti dall’azione antropica.
Quest’ultima peraltro può essere all’origine di una forma di “ibridazione”
del messaggio, che viene in qualche modo “rieditato” da culture successive
e quindi parzialmente “riscritto”, fenomeno che introduce complessi aspetti
che ugualmente non c’è qui spazio per trattare. Tutte queste trasformazioni
comportano modifiche che alterano il “segnale” e comportano comunque una
perdita di contenuto rispetto al messaggio iniziale18.

14 Jakobson 1966.
15 Gli aspetti legati alla volontarietà o meno, all’esistenza o meno di un destinatario, ai diversi
supporti di queste informazioni attengono essenzialmente alla teoria delle fonti. Una eccellente
sintesi con un ampio excursus storico la troviamo in Maetzke 1986.
16 Il processo di formazione della fonte – per il quale, nel caso dell’archeologia, si rimanda ad

esempio a Tabaczyński 1998 – ha naturalmente delle regole specifiche per ogni categoria, ma può
essere applicato a qualsiasi tipo di fonte storica.
17 Questo aspetto, sicuramente caratteristico della ricerca storica, in cui l’asimmetria della

comunicazione è particolarmente accentuato da ragioni temporali, non è assolutamente nuovo


nell’ambito della teoria delle comunicazioni: il lavoro di Shannon nasce infatti a seguito delle
sue ricerche nel campo della sicurezza delle trasmissioni, settore in cui aveva lavorato durante
la Seconda guerra mondiale. Lo stesso Alan Turing, padre con la cd. “macchina di Turing” del
modello concettuale del computer, aveva lavorato a programmi di decrittazione dei codici utilizzati
dai nazisti durante la guerra, in particolare con lo studio del “codice enigma”.
18 Abbiamo detto sopra che il “messaggio” subisce una perdita di contenuto informativo, ma

ciò è vero solo in relazione al suo contenuto originario. Le testimonianze del passato vengono
infatti spesso fatte oggetto di fenomeni di riuso che ne trasformano le caratteristiche originarie
(nel caso di oggetti mobili o immobili) o di modifiche, alterazioni, interpolazioni (nel caso di fonti
RICERCA, TUTELA E VALORIZZAZIONE DEL PATRIMONIO ARCHEOLOGICO: OPINIONI A CONFRONTO 1059

Il momento della ricezione del messaggio e della decodifica dello stesso è


forse quello nel quale intervengono le maggiori perdite rispetto al contenuto
iniziale, e ciò avviene proprio nella fase cruciale di trasformazione del deposito
stesso in documentazione, che è peraltro l’unica su cui possiamo cercare di
esercitare un controllo effettivo19. Questa fase, da identificare a tutti gli effetti
come critica, presenta dunque dei limiti oggettivi per le ragioni sopra esposte,
riassumibili nella natura omomorfa della documentazione archeologica; ciò ha
chiaramente anzitutto dei riflessi ineludibili nel campo della ricerca scientifica,
in quanto il ricercatore deve essere consapevole della natura parziale, soggettiva
e storicamente determinata della sua indagine, ma questo problema, pur
determinante, può in qualche misura essere riassorbito nella naturale dinamica
della ricerca stessa, il cui compito è anche quello di analizzare il suo stesso
modo di procedere.
Nel caso della tutela, che ha il compito invece di conservare le informazioni
storico-culturali in maniera più possibile inalterata, perché siano successivamente
utilizzabili, è chiaro che la trasformazione dell’evidenza in documentazione,
la cosiddetta preservation by record, si rivela in questa cornice teorica uno
strumento totalmente inadeguato ad una reale tutela dei depositi stratificati.
Tale modo di procedere altro non è che una sorta di “bonifica archeologica” in
cui le aree che devono essere impegnate dai manufatti vengono “liberate” (con
le buone o con le cattive) dall’evidenza archeologica.
Come avviene infatti oggi la tutela archeologica “standard”? Essa in
buona sostanza si riduce semplicemente ad uno “smontaggio controllato”
dell’evidenza, che comporta nell’immediato una perdita delle relazioni fra gli
elementi e, successivamente, la loro asportazione o eventuale distruzione.
La stessa normativa in materia di archeologia preventiva codifica a grandi
linee questo modo di procedere, distinguendo diversi tipi di intervento a seconda
di circostanze che possono essere riassunte come segue20.
Ci sono circostanze in cui si ritiene che «lo scavo stratigrafico esaurisce
direttamente l’esigenza di tutela»21, cioè in cui l’esigenza di tutela verrebbe
soddisfatta dal semplice esaurimento della sequenza stratigrafica, trasformata
in documentazione di scavo. Questa può essere definita una “bonifica
archeologica” in senso proprio.

testuali, scritte o orali), che richiedono, per la decodifica della forma originaria, una ricostruzione
filologica di essa. Il risultato finale di questo processo che avviene nel corso del tempo non è
sempre esattamente un “impoverimento”: di qui la necessità di utilizzare il concetto di “perdita di
contenuto” in maniera attenta e critica.
19 La fase della documentazione è probabilmente l’unica in cui la perdita di contenuto

non è sostituita da arricchimenti di senso e stratificazione di nuovi significati, cosa invece che
avviene all’atto dell’interpretazione, in un momento successivo del processo della ricerca storico-
archeologica.
20 Sono le fattispecie dell’art. 25, comma 9 del D.Lgs. 50/2016, già art. 96, comma 2 del D.Lgs.

163/2006.
21 D.Lgs. 50/2016, art. 25, comma 9, lettera a.
1060 CARMELO GRASSO, PAOLO GULL, MARIO PAGANO, FRANCESCA SOGLIANI

Esistono poi altri casi in cui, poiché non si evidenziano «reperti leggibili
come complesso strutturale unitario» e/o il loro livello di conservazione è
definibile «scarso», sono possibili «interventi di rinterro oppure di smontaggio,
rimontaggio e musealizzazione in altra sede rispetto a quella di rinvenimento»22
e infine circostanze in cui «la conservazione non può essere altrimenti assicurata
se non in forma contestualizzata mediante l’integrale mantenimento in sito»23,
casi cioè in cui la “bonifica” non è ritenuta possibile.
Questo è il testo della normativa attuale: qual è la sua logica? È una logica
che contiene diverse aporie metodologiche. Anzitutto è in contrasto con
tutto quanto si insegna e si apprende all’università, dal momento che essa
discende dall’assunto, ormai fuori corso, secondo cui se si è in presenza di resti
strutturali, che sono potenziali “monumenti” in quanto “costruiti”, se ne deve
presupporre la conservazione, mentre se siamo di fronte a depositi stratificati
la prima opzione ritenuta valida è quella della rimozione. Ciò deriva da un
approccio che considera il singolo oggetto alla stregua dell’antico vaso di una
nota pubblicità, e trascura invece la trama di relazioni tra oggetti contenute
nelle stratificazioni24.
È chiaro che questo approccio dal punto di vista metodologico risulta
completamente obsoleto, poiché stabilisce una gerarchia implicita tra evidenze
archeologiche, secondo una logica di matrice idealista, circostanza che non deve
stupire poiché l’impianto della normativa italiana in materia deriva direttamente
dalla legge del 1939.
In secondo luogo, dopo aver operato questa scelta, suggerisce che la soluzione
migliore, più efficiente, quando non si sia in presenza di “monumenti”, sia
quella della trasformazione dell’evidenza archeologica in documentazione
cartacea, che costituisce, come abbiamo visto, una rappresentazione ridotta e
insufficiente dell’evidenza stessa. Anche questo è un residuo di un approccio
metodologico sorpassato, erede di quel positivismo spontaneo e ingenuo,
ormai privo di qualsiasi cittadinanza nella comunità scientifica mondiale, con
l’eccezione, pare, dell’archeologia italiana.
In sostanza, aderendo al modello della preservation by record, l’archeologia
italiana spinge verso un eccessivo “consumo di suolo archeologico” (nel
dubbio, scaviamo tutto), peraltro promuovendolo di fatto non attraverso
un programma di ricerca, ma semplicemente facendosi trascinare dalle
trasformazioni territoriali, diventando quindi una archeologia development led
della peggior specie25.
Come uscire da questo vicolo cieco che, se perseguito ad oltranza,
porterebbe di fatto alla distruzione totale dei depositi archeologici nel giro di

22 Ivi, lettera b.
23 Ivi, lettera c.
24 È parente stretto del modo di procedere che ha portato in passato a scavare praticando

trincee lungo i muri per liberarli dalla terra e “recuperarne” l’andamento.


25 Per le nozioni di development led, research driven, ecc. si veda sempre l’ottimo Carver 2011.
RICERCA, TUTELA E VALORIZZAZIONE DEL PATRIMONIO ARCHEOLOGICO: OPINIONI A CONFRONTO 1061

un paio di generazioni e alla conservazione di poche evidenze monumentali


decontestualizzate (una archeologia che non si vedeva dagli anni Trenta)?
Nel panorama europeo molti di questi nodi sono stati affrontati in maniera
più ragionevole, cioè non limitandosi ad inseguire l’emergenza, brandendo
improbabili cazzuoline (nella migliore delle ipotesi) o cercando di addomesticare
le ruspe limandone i denti della benna, ma prendendo atto della situazione e
invitando i singoli paesi ad avere una visione strategica. Così è nata l’archeologia
preventiva e questi sono i principi ispiratori della principale convenzione
europea in materia, la Convenzione di Malta26, un trattato che (e non è un
caso) l’Italia ha ratificato con 23 anni di ritardo, solo dopo una grandissima
insistenza delle associazioni professionali e forse ormai fuori tempo massimo.
Una visione, insomma, che l’archeologia italiana si è ostinata a rifiutare.
Anziché, dunque, continuare a contemplare l’archeologia nel suo splendido
isolamento idealista, lontano dalle brutture del mondo contemporaneo, in una
cornice allietata dalle parietarie nella frescura di umbratili specole, occorre
rilanciare la sfida accogliendo e non ignorando le istanze della modernità.
Se ammettiamo che il patrimonio archeologico sia una delle risorse non
rinnovabili (principio in qualche misura come abbiamo visto sopra codificato
da Barker, ma in realtà espresso nell’archeologia statunitense fin dai primissimi
anni Settanta da McGimsey27) va da sé che, alla stregua di tutte le risorse non
rinnovabili, la sua salvaguardia passi necessariamente attraverso il principio
del polluter pays, in questo caso developer pays: chi, attraverso la sua azione,
rende necessaria l’attivazione di misure di tutela deve farsi carico dei costi che
tale necessità comporta. Tale quadro operativo determina necessariamente
la nascita di una archeologia development led e questo passaggio, benché
possa far storcere più di un naso, è inevitabile, in quanto è chiaro che una
parte consistente dell’archeologia sul campo si fa a seguito di operazioni di
trasformazioni territoriali. È appunto l’archeologia detta compliance driven
archaeology che si fa non a scopo primario di ricerca, ma in ottemperanza ad un
obbligo di legge. In sostanza, se la legge obbliga i developers a finanziare anche
la tutela archeologica oltre a quella ambientale, i suoi costi devono rientrare nel
computo economico delle opere.
Affrontare questo nuovo quadro con gli strumenti dell’archeologia
tradizionale non è però possibile: agire “in risposta all’evento”, cioè intervenire
a seguito della minaccia rappresentata da un’opera, significherebbe di fatto
semplicemente spostare il centro di costo dal bilancio del ministero (come avveniva
ancora negli anni Novanta) al quadro economico dell’opera (scaricandolo
quindi su stazioni appaltanti e imprese), ma non modificherebbe lo scenario
operativo: le crescenti necessità di tutela archeologica di un’opera progettata

26 Convenzione europea per la salvaguardia del patrimonio archeologico (rivista): <http://

conventions.coe.int/Treaty/en/Treaties/Html/143.htm>, 23.10.2016.
27 McGimsey 1972.
1062 CARMELO GRASSO, PAOLO GULL, MARIO PAGANO, FRANCESCA SOGLIANI

senza criterio incontrerebbero comunque un limite fisico nel quadro economico


e di conseguenza o la tutela dovrebbe essere sottodimensionata, con tutte le
conseguenze del caso, oppure si dovrebbe far ricorso alla “buona volontà”,
integrando l’azione con schiere di volonterosi: in prima battuta funzionari di
soprintendenza che immolano le proprie ferie e imprese e professionisti che
comprimono costi (e qualità) largamente sotto la soglia minima della decenza
(al ritornello di “archeologia, che passione”), poi in seconda battuta, grattato
ogni possibile fondo di ogni immaginabile barile, utilizzando volontari
variamente reclutati, deragliando in tal modo direttamente nell’indecenza
pura e semplice. Un modello chiaramente insostenibile, ispirato piuttosto alla
protezione civile (non esattamente un esempio di efficienza) e destinato quindi
ad operare strutturalmente in emergenza, inseguendo appunto necessità di fatto
imprevedibili.
In realtà la soluzione è quella di inserire in maniera stabile l’archeologo nella
cabina di regia della pianificazione territoriale e della progettazione delle opere,
facendo sì che, esattamente come vuole la Convenzione di Malta, le esigenze
della tutela del patrimonio archeologico e quelle dello sviluppo territoriale siano
conciliabili. Nel primo caso agendo a livello di strategie territoriali, nel secondo
lavorando sulla progettazione di dettaglio, è possibile rendere la tutela non
più un esercizio astratto, ma un’azione mirata all’ottimizzazione del rapporto
costi-benefici. Ciò trasforma l’archeologia, sin qui mera ricerca, in un servizio
professionale per il territorio, una cosa che cambia l’approccio alla disciplina in
maniera sostanziale28.
I vantaggi di questa trasformazione, una seconda, definitiva perdita
dell’innocenza, non riguardano solo la ricerca, che vede aprirsi un’enorme
prateria fatta di “soluzioni ingegneristiche”, che possono sancire la nascita di
una “archeologia applicata” sin qui quasi sconosciuta, ma anche e soprattutto
la tutela, quel settore che in un mondo in continua trasformazione assume un
ruolo strategico non più riducibile all’inseguimento dei danni più evidenti29.
Anche in questo caso il quadro cambia (e migliora) sostanzialmente. Se
infatti le risorse per la tutela vengono non da un capitolo di spesa aprioristico,
che può essere più o meno dimensionato e pur sempre scollegato dalla realtà
effettiva degli interventi, ma piuttosto dal quadro economico della singola opera,
questa e gli interventi di scavo debbono essere reciprocamente dimensionati.
E soprattutto, proprio in virtù del principio secondo cui lo scavo può essere
definito “erosione della storia”, l’opera deve essere progettata per ridurre il
consumo di suolo archeologico.
Purtroppo constatiamo che, se è vero che la prevenzione rappresenta un
obiettivo prioritario, la risposta della tutela italiana è assolutamente insufficiente
per diversi motivi.

28 Güll 2015, pp. 127-128.


29 Ivi, pp. 130-131.
RICERCA, TUTELA E VALORIZZAZIONE DEL PATRIMONIO ARCHEOLOGICO: OPINIONI A CONFRONTO 1063

Innanzitutto nel 2004, con la stesura del “Codice Urbani” è stata riproposta
la tutela delle “cose”, rinunciando a fare quel passo avanti per cui i tempi erano
assolutamente maturi. Nel 2006 poi, con la nuova legge sul codice degli appalti,
si è persa l’occasione di definire con chiarezza l’ambito della diagnostica iniziale.
In questo 2016 infine, in occasione della riforma del Codice degli appalti, la
questione è stata riproposta pari pari (il nuovo articolo 25 è una maldestra
sintesi dei vecchi artt. 95 e 96), con il consueto habitus conservatore che
caratterizza la poco coraggiosa archeologia italiana. La conseguenza è che nella
legislazione attuale non si comprende esattamente il ruolo della diagnostica
(strumento essenziale della prevenzione) e il compito di definirlo spetta in parte
ai decreti attuativi attualmente (agosto 2016) in fase di stesura30.
Eppure esempi non mancano: la legge francese tra tutte è molto precisa
da questo punto di vista, operando una chiara distinzione tra la fase della
diagnostica iniziale e quella dell’esecuzione.
In Italia è stata fatta notevole confusione in passato tra i due aspetti, confusione
che persiste nel testo attuale, che addirittura riporta tutti gli adempimenti di
archeologia preventiva al progetto di fattibilità, il vecchio “preliminare” (D.Lgs.
50/16, art. 25, comma 8). Se lo spirito della norma, come vedremo oltre, sarebbe
condivisibile (risolvere il maggior numero di criticità ad un livello progettuale il
più precoce possibile), il testo non scioglie una ambiguità metodologica di fondo
ereditata dagli artt. 95 e 96 del precedente codice, ovvero la mancata chiara
distinzione tra una fase diagnostica (integrativa della progettazione, a qualsiasi
livello si faccia riferimento) e una fase operativa (a supporto dell’esecuzione
delle opere), in cui vengono materialmente risolte e portate a termine le attività
di archeologia.
Con il vecchio codice la questione veniva affrontata di volta in volta
secondo una prassi che prevedeva l’approvazione del progetto in maniera
“condizionata”31. In questo caso il progetto dell’opera veniva approvato con
“nulla osta condizionato”, subordinato cioè agli esiti finali delle indagini
condotte in fase esecutiva. Oltre a creare una serie di complicazioni sul piano
tecnico, la vecchia e la nuova norma non escono dall’equivoco metodologico
dello “scavo come prima opzione”, ma poiché l’obiettivo pratico dovrebbe
essere quello di non dover mai più dire “ho trovato dei resti in fase esecutiva ma
non posso più impegnare risorse se non attraverso lunghe e costose varianti”,
la soluzione sul piano del metodo sta nello spostare l’asse in direzione di
una diagnostica più marcata ed efficiente e su un’impostazione pienamente
“preventiva”. Il compito di risolvere queste contraddizioni, in assenza di un
chiaro orientamento metodologico in seno all’archeologia italiana, è per ora

30 Cfr. supra, nota 4.


31 Possibilità espressamente prevista dalla circolare 10/2012 della DG Antichità, qualora
«le caratteristiche delle opere da realizzare comportino necessariamente e motivatamente una
contestualità dei lavori di scavo archeologico con la realizzazione, anche parziale, delle stesse»
(p. 7).
1064 CARMELO GRASSO, PAOLO GULL, MARIO PAGANO, FRANCESCA SOGLIANI

appunto affidato alla redazione dei decreti attuativi del Codice degli Appalti.
Dovrebbe essere chiaro a questo punto che il primo degli aspetti chiave di
qualsiasi integrazione tra archeologia e progettazione delle opere sta nella chiara
individuazione delle evidenze nell’area interessata dai lavori, la definizione cioè,
in forma cartografica, di una cosa che in letteratura con qualche difficoltà è
entrata col nome di “potenziale archeologico”.
In realtà non tutta la terminologia in questo campo è chiara e condivisa,
sebbene esistano (per la verità non numerosi) studi in questa direzione a
cominciare da quello di Campeol e Pizzinato, pubblicato in «Archeologia e
Calcolatori»32, che però ha un limite di fondo dettato da un grado di analisi
molto elevato, che comprende una serie di valutazioni “qualitative” complesse
e forse alla fine difficilmente utilizzabili.
Si deve invece a un gruppo di ingegneri campani l’elaborazione di un secondo
modello molto più semplice e forse per questo più adatto ad un contesto come
quello della gestione del territorio e della progettazione delle opere, secondo un
principio che vedremo più avanti.
Una serie di indicazioni più operative che teoriche (con qualche limite
metodologico) sono infine fornite dalla circolare in materia di archeologia
preventiva 1/2016 della DG Archeologia del MiBACT.
Questi studi aiutano indubbiamente a definire molti dei problemi sollevati
dalla mancanza di visione condivisa, ma non trovano un vocabolario comune,
per cui sarà compito, peraltro urgente, della ricerca metodologica muovere in
questa direzione, anche facendo ordine e chiarezza nel lessico utilizzato.
Cerchiamo anzitutto di fare un po’ d’ordine nelle espressioni correntemente
usate.
Parte della letteratura definisce “rischio assoluto” la possibilità che “in
assoluto”, cioè indipendentemente da qualunque azione o piano, vi sia il
rischio di imbattersi in resti archeologici in un’area definita; essa di conseguenza
definisce “rischio relativo” la possibilità che resti archeologici esistenti vengano
danneggiati da una azione o piano. Questa impostazione del problema risente
di un grave fraintendimento metodologico, essendo per definizione il “rischio”
la possibilità che un evento, un’azione o un’attività conduca a un danno. Di
conseguenza un rischio è sempre “in relazione a qualcosa” e, ove non vi sia
alcuna azione o evento, il rischio è nullo. Di conseguenza “rischio assoluto” è un
termine contraddittorio non esistendo un “rischio” in astratto. È probabilmente
questa impostazione approssimativa, priva di fondamento metodologico, ad
aver alimentato ad un certo punto una reazione “negazionista” del concetto di
rischio.
Più opportuno appare invece, in linea con una concezione più corretta e
soprattutto transdisciplinare, definire la possibilità che un’area definita conservi
resti archeologici come “potenziale” e associare questo concetto a quello di

32 Campeol, Pizzinato 2007. Cfr. anche Calaon, Pizzinato 2011 e 2013.


RICERCA, TUTELA E VALORIZZAZIONE DEL PATRIMONIO ARCHEOLOGICO: OPINIONI A CONFRONTO 1065

“valore” che rappresenta in sostanza la natura, la quantità e l’importanza


dei beni esposti a un possibile evento, in questo caso la natura, la quantità e
l’importanza del patrimonio archeologico di tale area. La nozione va abbinata a
sua volta a quella di “vulnerabilità” di tali beni, intesa come maggiore o minore
capacità degli stessi di sopportare gli effetti dell’azione, piano o evento attesi o
considerati.
La formula base di valutazione del rischio infatti è R = P x V x E33 dove:
– E sono i “valori” esposti al rischio, quindi una entità assimilabile al
nostro “potenziale archeologico”,
– V (vulnerabilità) è il grado di perdita dell’insieme esposto,
– P (pericolosità) indica la probabilità dell’evento.
Notare che qui l’evento è valutato in termini di probabilità, mentre nel caso
delle valutazioni archeologiche legate ad opere umane gli aspetti “probabilistici”
sono sempre connessi a processi decisionali spesso complessi.
Nel nostro campo una valutazione pienamente soddisfacente del valore
(che quindi includa complesse nozioni “qualitative”) risulta ancora oggi
problematica e anche quella di vulnerabilità (che fa riferimento a parametri
raramente considerati in campo archeologico) non gode di condizioni più
favorevoli. Tuttavia questa formula di valutazione del rischio è alla base del
lavoro condotto da Caliano nell’ambito della sua tesi di dottorato presso
l’Università di Salerno34, che dà del potenziale archeologico una definizione
piuttosto precisa ed esaustiva.
Con l’espressione “potenziale archeologico” egli infatti indica la possibilità
che un’area definita contenga un insieme di evidenze archeologiche, sia di tipo
noto sia di tipo ipotetico35. Questo valore, definito Pt, va dunque a sostituire
E nella formula che abbiamo visto sopra, da riscriversi dunque così: R = P x V
x Pt.
Consideriamo quindi il “rischio archeologico” come “probabilità che i resti
conservati in un’area vengano compromessi da un’azione” e, per rendere più
chiaro questo, useremo la sigla specifica Ra, quindi Ra = P x V x Pt. Appare
evidente che in questo contesto va chiarita la natura di P, cioè della pericolosità,
intesa, lo abbiamo accennato sopra, come probabilità (secondo le formulazioni
di tipo ambientale), che si verifichi un evento negativo. Qui invece l’evento
“negativo” è in realtà un’opera programmata per la quale non valgono
considerazioni di tipo strettamente probabilistico, come nel caso di alluvioni
o terremoti. La pericolosità va quindi probabilmente scomposta in una serie di
componenti, di cui alcune, come detto sopra, riguardano opzioni di tipo strategico
o politico: in ogni caso l’aspetto “materiale” da prendere in considerazione per
primo è il grado di invasività dell’opera programmata, un elemento individuato

33 Varnes et al. 1984.


34 Caliano 2011.
35 Ivi, pp. 46 e ss.
1066 CARMELO GRASSO, PAOLO GULL, MARIO PAGANO, FRANCESCA SOGLIANI

anche da Caliano, che tuttavia lo classifica come “sensibilità” («livello di


interferenza sugli elementi esposti in funzione dell’intensità dell’intervento –
consistenza e profondità dello scavo»36), laddove sarebbe più corretto definirlo
come grado di impatto dell’azione antropica (nozione già seguita in precedenza
da Caliano37, in cui si utilizzava la sigla Pe, appunto pericolosità). Esso può
essere classificato in base alla sua invasività, essenzialmente quantificabile in
base al livello di impatto sul sottosuolo, principalmente la profondità di scavo.
Quindi Ra = Pe x V x Pt. Abbiamo detto che però Pe, essendo evento “certo”,
non sottostà alle stesse condizioni dell’evento probabilistico P delle formule base
di valutazione dei rischi. Esso tuttavia è sottoposto ad una serie di condizioni che
ne rendono la sua realizzazione subordinata a una serie di variabili decisionali che,
nel nostro caso, assumono un peso significativo che vedremo alla fine.
Passiamo ora piuttosto ad analizzare il valore di V, la vulnerabilità. Come
abbiamo detto, Caliano identifica questo valore come “sensibilità”, riunendo in
tal modo due aspetti: l’aggressività dell’opera e la maggiore o minore capacità di
“resistenza” dei beni esposti. Sono cose diverse fra loro e che è opportuno tenere
distinte: l’aggressività dell’opera dipende dalle sue caratteristiche, stabilite in sede
progettuale e, nella stessa sede, suscettibili di essere modificate, mentre la resistenza
dei beni è legata a caratteristiche intrinseche del patrimonio archeologico, che
non possono essere modificate e che, in prima istanza, possiamo identificare con
la profondità di giacitura dei depositi; il patrimonio archeologico conservato in
superficie o a modesta profondità avrà una “resistenza” modesta anche di fronte a
interventi di poca entità, sarà quindi maggiormente “vulnerabile”. Questa nozione
quindi può in questi termini essere sovrapposta al concetto di vulnerabilità V,
che possiamo dunque adottare in questa formula. In sintesi, perciò, maggiore
“aggressività” dell’opera programmata, maggiore rischio per il patrimonio
archeologico Ra, maggiore “vulnerabilità” del patrimonio archeologico, maggiore
rischio Ra per il patrimonio stesso.
Molto interessante anche un altro aspetto evidenziato egualmente da Caliano
stesso nei suoi lavori in due prospettive diverse e tra loro complementari. Egli
identifica infatti come fattori da considerare anche un “valore dell’intervento
programmato”, Ip38 e un “livello strategico dell’opera”, Lst39. Essi occupano
la stessa posizione all’interno dell’equazione, cioè sono entrambi a destra del
segno di uguale, quindi il loro maggior valore comporta un aumento del rischio.
Pertanto possono essere in parte sovrapponibili, ma solo in parte. Il “valore”
dell’intervento infatti appare un dato difficile da quantificare, in quanto il mero
importo globale dei lavori inteso come “risorse in arrivo da non perdere” è
un parametro solo in parte utile (in quanto dipende dall’area geografica su

36 Ivi, p. 53.
37 Caliano et. al. 2010.
38 Caliano 2011, p. 54.
39 Caliano et al. 2010.
RICERCA, TUTELA E VALORIZZAZIONE DEL PATRIMONIO ARCHEOLOGICO: OPINIONI A CONFRONTO 1067

cui tali risorse vengono “spalmate”), mentre il beneficio economico globale


è un elemento che in genere viene nettamente sovrastimato, sebbene esistano
tecniche per valutarlo. Più interessante appare il “livello strategico”, che invece
può essere considerato sia come “necessità dell’opera” in generale, su un
piano politico (cioè “l’opera si deve fare” per via di interessi di vario genere,
anche opachi, ma che comunque entrano nel gioco della decisione) rispetto
al quale è estremamente difficile agire, sia come “necessità dell’opera proprio
così”, cioè la valutazione tecnica di possibili varianti che delocalizzino l’opera
o parte di essa. Si tratta di una valutazione “tecnica” fino ad un certo punto, in
quanto lo spostamento di un’opera può comportare ricadute sul piano politico
(ad esempio nella collocazione di una discarica). In via provvisoria si può
considerare “livello strategico” la sommatoria di tutti i vincoli politici, tecnici,
geografici, “ambientali” in senso stretto e in senso lato, che riducono lo spazio
delle possibili varianti e quindi di conseguenza rendono più “certa” la minaccia
a quella specifica parte di patrimonio archeologico.
Senza timore di rischiare complicazioni apparentemente inutili, possiamo
completare la formula in questo modo Ra = Pe x Vu x Pt x Lst x Ip (evitando
quindi di introdurre sigle nuove ma utilizzando quelle esistenti in letteratura).
Lasciamo però da parte per il momento le ultime due che necessitano di un
lavoro di analisi ulteriore per poter dare almeno un abbozzo di formalizzazione
anche tabellare e concentriamoci sugli aspetti maggiormente maturi. Va
anche tenuto presente che, a legislazione vigente e allo stato attuale (piuttosto
modesto) dell’integrazione fra archeologia e pianificazione territoriale, la
valutazione archeologica viene effettuata alla scala delle singole opere e quindi
in un contesto “dato”, con modesti margini di azione e soprattutto con l’opera
già decisa e finanziata40. Di conseguenza non esiste modo di agire sul piano
politico e sugli aspetti tecnici più legati alla pianificazione strategica e quindi di
interagire con questa dimensione.
È necessario a questo punto iniziare a “riempire” questi concetti di dati
quantitativi, sebbene questo sia un altro approccio che genera nel mondo
dell’archeologia italiana poderosi mal di pancia. Partiamo dall’aspetto più
complesso e potenzialmente controverso, quello della valutazione del potenziale
Pt.
Il primo modello di valutazione di questi aspetti fa riferimento a modalità
di analisi e quantificazione molto diversi da quelli che stiamo considerando,
poiché è stato sviluppato in un contesto culturale e normativo differente dal
nostro. È quello contenuto nel Dutch Archaeology Quality Standard, le linee
guida olandesi in materia di archeologia preventiva (tab. 1)41. Nei Paesi Bassi, la
norma prevede che venga assegnato un punteggio di valutazione che considera
una serie di parametri.

40 Calaon, Pizzinato 2013, p. 19.


41 Willems, Brandt 2004.
1068 CARMELO GRASSO, PAOLO GULL, MARIO PAGANO, FRANCESCA SOGLIANI

Tab. 1. Modello di analisi e valutazione contenuto nel Dutch Archaeology Quality Standard
(Fonte: Willems, Brandt 2004, p. 69, tab. 4)
RICERCA, TUTELA E VALORIZZAZIONE DEL PATRIMONIO ARCHEOLOGICO: OPINIONI A CONFRONTO 1069

Per comprendere la ratio di questo tipo di valutazione occorre tener presente


la sua funzione, che non è quella di valutare a monte entità e importanza dei
depositi coinvolti da un progetto, ma quella di consentire a valle di stabilire
le politiche di conservazione da parte delle autorità di tutela. In sostanza,
l’archeologo incaricato di svolgere le indagini preventive definirà, attraverso
una griglia di punteggi prevalentemente quantitativi (in realtà non tutti
quantitativi, ovviamente), una valutazione qualitativa dei resti archeologici, che
servirà non a valutare il grado di “minaccia” ma a consentire, anche attraverso
dei suggerimenti (recommendations), di condurre la cosiddetta “selection”, la
decisione cioè di cosa va conservato e cosa no. Da un certo punto di vista,
siamo in una fase paragonabile a quella delle “conseguenti prescrizioni” della
normativa italiana.
Appare chiaro subito, credo, che l’idea di esprimere in modo esplicito
che si effettua, su una base essenzialmente “politica”, una decisione su cosa
conservare e cosa non siaquanto di più lontano dall’impostazione tradizionale
della tutela italiana (ma anche sia una cosa reclamata a gran voce da più parti
anche autorevoli). E questo non riguarda solo gli aspetti propriamente legati
alla tutela: ad esempio, dove si fa riferimento, per la valutazione del “potenziale
per la ricerca”, ad una Relevance for current research programmes according
to the National research Agenda, si evidenzia il fatto che si sta valutando
in relazione ad una politica della ricerca stabilita a monte. L’idea stessa che
possa esistere un riferimento ad una “agenda della ricerca” è invece totalmente
estranea all’archeologia italiana, notoriamente divisa nelle sue piccole patrie.
Questi aspetti vanno tenuti presente perché si tratta di un modello
estremamente interessante che però non può essere importato acriticamente.
Infatti, poiché molte di queste voci vengono riutilizzate dal primo modello
italiano, quello di Campeol e Pizzinato42, accade che, all’interno di un sistema
come il nostro, il risultato finisca per essere troppo complesso e difficilmente
gestibile. Esso infatti è ispirato a criteri che in Olanda si applicano a valle della
verifica archeologica preventiva e non durante la stessa. Questo è reso evidente
dal fatto che nelle tabelle delle linee guida olandesi finalizzate alla vaultation
non si considera in modo sistematico la relazione tra patrimonio archeologico
e opera da realizzare, in quanto tale relazione è stata già considerata nelle fasi
precedenti. Una redistribuzione delle voci in base ad un’altra e molto diversa
concezione dell’operatività e ad un diverso flusso del lavoro, crea una serie di
ambiguità come si nota dalle tabelle che seguono (tabb. 2-3).

42 Campeol, Pizzinato 2007, modello ripreso e migliorato poi in Calaon, Pizzinato 2011.
1070 CARMELO GRASSO, PAOLO GULL, MARIO PAGANO, FRANCESCA SOGLIANI

Tab. 2. Criteri di definizione del valore, del potenziale e del rischio/probabilità (Fonte:
Calaon, Pizzinato 2011, p. 421)

Tab. 3. Possibile classificazione del valore, del potenziale e del rischio/probabilità secondo i
criteri individuati nella tabella 2 (Fonte: Calaon, Pizzinato 2011, p. 422)

Alcune voci presentano delle criticità non facilmente risolvibili, come, ad


esempio, la valutazione del “valore” in relazione alla “rarità”, che non è sempre
applicabile in quanto non sono infrequenti casi in cui l’insieme costituisce
un valore in sé (considerereste “comune” e quindi “meno importante” una
torre costiera del Salento solo perché ce ne sono 80?) e anche lo stato di
conservazione “pessimo” non costituisce di per sé una sentenza di condanna o
un fattore di abbassamento del valore, se svincolato da altri parametri. Ma dal
punto di vista tecnico, prima ancora che metodologico, si osserva l’incongruità
della voce “posizione”, in quanto, se l’obiettivo è valutare la preservazione dei
depositi, contesti distanti più di 100 metri dalle opere da realizzare di fatto
non andrebbero neanche presi in considerazione (se non eventualmente per la
definizione di fasce di rispetto più “estetiche” che tecnicamente necessarie, sulla
base quindi di una successiva valutazione globale, olistica per così dire, e non
puntuale).
Il problema principale di questa opzione sta dunque nel tentativo di
trasporre questo sistema di valutazione in un contesto giuridico e procedurale
completamente diverso, dove siamo di fronte ad una tutela solo formalmente
appiattita in cui l’inevitabile “selection” è affidata a criteri estemporanei, non
sempre esplicitati e troppo spesso soggettivi.
RICERCA, TUTELA E VALORIZZAZIONE DEL PATRIMONIO ARCHEOLOGICO: OPINIONI A CONFRONTO 1071

Va tuttavia sottolineato come il modello di Pizzinato sia l’unico che prende


in considerazione e quantifica esplicitamente la “vulnerabilità”. Stabilire
la vulnerabilità significa valutare “se il sito verrà intaccato, considerando la
profondità alla quale si trova e quella prevista dal progetto. Si cercherà di
stabilire, in definitiva, se ci sarà un vulnus o meno”43. Questi (tab. 4) i parametri
individuati:

Tab. 4. Parametri per la definizione della vulnerabilità (Fonte: Calaon, Pizzinato 2011, p. 428)

Se correttamente viene riconosciuto nella profondità in cui si trovano i


depositi il parametro principale, siamo anche in questo caso di fronte alla scelta
di non considerare attributi del deposito e attributi del progetto separatamente.
La vulnerabilità viene associata alla profondità del progetto valutato, mentre si
tratta di due aspetti da tenere rigorosamente distinti.
Dal punto di vista pratico, infine, questo modello presenta un limite di
utilizzabilità. Ai fini della valutazione, introduce un concetto piuttosto complesso,
quello di rischio totale cumulativo (sui problemi del quale non c’è spazio qui per
soffermarsi), che risulterebbe il prodotto della somma fra valore e potenziale
moltiplicata per il rischio secondo la formula RTC = V + P x R (dove V, P e R
sono i parametri indicati nelle tabelle viste qui sopra). Il prodotto di questi valori
genera il range numerico 0-288 così suddiviso in valori aggregati44:
– 288÷192 = rischio totale cumulativo alto;
– 192÷96 = rischio totale cumulativo medio;
– 96÷1 = rischio totale cumulativo basso;
– 0 = rischio totale cumulativo nullo.
Osservando i valori delle tabelle sembra tuttavia che 0 non sia risultato
ammesso in quanto nessuna scala propone il valore nullo.
Edoardo Caliano assieme ad un gruppo di ingegneri e pianificatori campani
ha messo a punto un modello come abbiamo visto molto più semplice. Nel
corso dello sviluppo successivo è stato reso un po’ meno lineare rispetto alla
formulazione iniziale, ma è chiaro che è proprio entrando nello specifico
dei singoli settori di intervento che emergono le peculiarità, i distinguo e le

43 Ivi, p. 422.
44 Ivi, p. 423.
1072 CARMELO GRASSO, PAOLO GULL, MARIO PAGANO, FRANCESCA SOGLIANI

necessarie specificazioni, le quali rendono inevitabilmente il modello generale


del rischio più articolato con tutte le complicazioni del caso.
La formula è associata a delle scale di valori che, essendo meno complesse
rispetto al modello di Pizzinato, generano dei risultati più facilmente gestibili.
La prima tabella che prendiamo in considerazione è quella della “pericolosità”
(Pe), come definita in Caliano45, articolata su quattro valori in base alla “aggressività”
dell’opera programmata (tab. 5). La scala non ammette valore 0, anche per una
azione immateriale. È importante sottolineare che, se da un lato giustamente la scala
non dà indicazioni di quali siano in pratica queste azioni “rilevanti” o “irrilevanti”,
è anche vero che, stabilito questo principio, come vedremo, occorrerà nella pratica
riempire queste voci di parametri in relazione alle caratteristiche dell’opera, in prima
battuta indubbiamente l’entità delle operazioni di scavo.

Tab. 5. Classificazione della pericolosità (Fonte: Caliano et al. 2010, fig. 9)

Negli sviluppi successivi46 la stessa tabella viene utilizzata per valutare quello
che in questa nuova formulazione è definito “sensibilità degli elementi” (Sel)
(tab. 6):

Tab. 6. Classificazione della sensibilità degli elementi (Fonte: Caliano 2011, p. 56, tab. 3.2)

45 Caliano et al. 2010.


46 Caliano 2011, pp. 55-57.
RICERCA, TUTELA E VALORIZZAZIONE DEL PATRIMONIO ARCHEOLOGICO: OPINIONI A CONFRONTO 1073

Al di là di obiezioni evidenziate sopra, si tratta di un valore che è messo in


relazione con l’intensità dell’azione programmata ed è questo il dato importante
da tenere presente.
Più problematica la questione della valutazione del potenziale, se non altro
perché è comunque il “cuore” di tutta l’analisi. Caliano individua quattro valori,
indicando anche sinteticamente i relativi criteri di classificazione e gli indicatori
associati, operazione molto importante come vedremo oltre (tabb. 7-8).

Tab. 7. Valutazione del potenziale (Fonte: Caliano 2011, p. 48, tab. 3.1)

Tab. 8. Indicatori per la valutazione del potenziale e criteri classificazione associati (Fonte:
Caliano 2011, p. 59, tab. 3.3)
1074
CARMELO GRASSO, PAOLO GULL, MARIO PAGANO, FRANCESCA SOGLIANI
Tab. 9. Tavola dei gradi di potenziale archeologico (Fonte: DG Archeologia, circolare 1/2016, all. 3
RICERCA, TUTELA E VALORIZZAZIONE DEL PATRIMONIO ARCHEOLOGICO: OPINIONI A CONFRONTO 1075

Un’ultima classificazione è stata infine proposta dalla DG Archeologia


nella circolare 1/2016 (tab. 9) e questa è particolarmente importante perché
viene direttamente dall’autorità di tutela e colma di fatto una lacuna tecnica
significativa dal punto di vista normativo (sebbene il riordino del Ministero e la
riforma del codice appalti rendano questo documento parzialmente obsoleto).
Vediamo il tipo di classificazione.
La circolare individua due valori da considerare: il potenziale archeologico
dell’area e il grado di rischio. Notare che, fatto non irrilevante, questo rischio è
indicato come “rischio per il progetto” e tale definizione denuncia un mancato
superamento degli equivoci metodologici che abbiamo discusso. Che ciò accada
in un documento della massima autorità in materia di tutela archeologica è
un fatto particolarmente grave che rende le linee guida, così come sono,
scarsamente applicabili.
Tuttavia la classificazione del potenziale presenta una serie di aspetti
interessanti che meritano di essere ben analizzati. Sono previsti undici gradi
di potenziale su una scala da zero a dieci (peraltro associata ad una scala
cromatica):
– 0 (Nullo): non sussistono elementi d’interesse di nessun genere. Si ha la
certezza di questa condizione;
– 1 (Improbabile): mancanza quasi totale di elementi indiziari all’esistenza
di beni archeologici. Non è possibile escludere del tutto la possibilità di
rinvenimenti sporadici;
– 2 (Molto basso): anche se il sito presenta caratteristiche favorevoli
all’insediamento antico, in base allo studio del contesto fisico e morfologico
non sussistono elementi che possano confermare una frequentazione in
epoca antica. Nel contesto territoriale limitrofo sono attestate tracce di
tipo archeologico;
– 3 (Basso): il contesto territoriale circostante dà esito positivo. Il sito si
trova in una posizione favorevole (geografia, geologia, geomorfologia,
pedologia), ma sono scarsissimi gli elementi concreti che attestino la
presenza di beni archeologici;
– 4 (Non determinabile): esistono elementi (geomorfologia, immediata
prossimità, pochi elementi materiali etc.) per riconoscere un potenziale
di tipo archeologico, ma i dati raccolti non sono sufficienti a definirne
l’entità. Le tracce potrebbero non palesarsi, anche qualora fossero
presenti (es. presenza di coltri detritiche);
– 5: Indiziato da elementi documentari oggettivi, non riconducibili oltre ogni
dubbio all’esatta collocazione in questione (ad es. dubbi sulla erraticità
degli stessi), che lasciano intendere un potenziale di tipo archeologico
(geomorfologia, topografia, toponomastica, notizie) senza la possibilità
di intrecciare più fonti in modo definitivo;
– 6: Indiziato da dati topografici o da osservazioni remote, ricorrenti nel
tempo e interpretabili oggettivamente come degni di nota (es. soilmark,
1076 CARMELO GRASSO, PAOLO GULL, MARIO PAGANO, FRANCESCA SOGLIANI

cropmark, micromorfologia, tracce centuriali). Può essere presente o


anche assente il rinvenimento materiale;
– 7: Indiziato da ritrovamenti materiali localizzati: rinvenimenti di materiale
nel sito, in contesti chiari e con quantità tali da non poter essere di natura
erratica. Elementi di supporto raccolti dalla topografia e dalle fonti. Le
tracce possono essere di natura puntiforme o anche diffusa/discontinua;
– 8: Indiziato da ritrovamenti diffusi: diversi ambiti di ricerca danno
esito positivo. Numerosi rinvenimenti materiali dalla provenienza
assolutamente certa. L’estensione e la pluralità delle tracce coprono
una vasta area, tale da indicare la presenza nel sottosuolo di contesti
archeologici;
– 9 (Certo, non delimitato): tracce evidenti e incontrovertibili (come
affioramenti di strutture, palinsesti stratigrafici o rinvenimenti da scavo).
Il sito, però, non è stato mai indagato o è verosimile che sia noto solo in
parte;
– 10 (Certo, ben documentato e delimitato): tracce evidenti ed
incontrovertibili (come affioramenti di strutture, palinsesti stratigrafici o
rinvenimenti da scavo). Il sito è noto in tutte le sue parti, in seguito a studi
approfonditi e grazie ad indagini pregresse sul campo, sia stratigrafiche
che di remote sensing.
Come si vede, la tabella prevede indicazioni abbastanza precise in grado
di assistere effettivamente il professionista nella sua valutazione. La loro
impostazione non differisce molto da quella di Caliano ed è solo un po’ più
prudente nella formulazione dell’incertezza introducendo a questo scopo
una categoria “indeterminabile” collocata in una posizione non del tutto
condivisibile. Importantissimo il valore nullo corrispondente al “vuoto
archeologico”, cioè all’unica condizione certa dell’assenza di deposito: la sua
precedente asportazione completa.
L’impianto di queste tabelle però vacilla notevolmente quando si
passa a discutere il “rischio”, che infatti è malamente definito dal punto di
vista metodologico. L’identificazione del “rischio”, infatti, si riduce ad un
accorpamento di alcuni valori secondo il modo che riportiamo qui appresso:
– 0: Nessun rischio;
– 1: Rischio inconsistente;
– 2: Rischio molto basso;
– 3: Rischio basso;
– 4-6: Rischio medio;
– 7: Rischio medio-alto;
– 8: Rischio alto;
– 9-10: Rischio esplicito.
Una operazione fatta in questi termini non ha un grandissimo significato,
ma ciò accade perché non viene considerato realmente il rapporto fra opera
ed evidenze archeologiche e ciò è ancor più palese quando le tabelle passano a
RICERCA, TUTELA E VALORIZZAZIONE DEL PATRIMONIO ARCHEOLOGICO: OPINIONI A CONFRONTO 1077

considerare un non ben precisato “impatto accertabile” secondo lo schema che


segue:
– 0-2: Non determinato: il progetto investe un’area in cui non è stata
accertata presenza di tracce di tipo archeologico;
– 3: Basso: il progetto ricade in aree prive di testimonianze di frequentazioni
antiche oppure a distanza sufficiente da garantire un’adeguata tutela a
contesti archeologici, la cui sussistenza è comprovata e chiara;
– 4-6: Medio: il progetto investe l’area indiziata o le sue immediate
prossimità;
– 7-8: Alto: il progetto investe un’area con presenza di dati materiali che
testimoniano uno o più contesti di rilevanza archeologica (o le dirette
prossimità);
– 9: Difficilmente compatibile (a): il progetto investe un’area non delimitabile
con chiara presenza di siti archeologici. Può palesarsi la condizione per
cui il progetto sia sottoposto a varianti sostanziali o a parere negativo;
– 10: Difficilmente compatibile (b): il progetto investe un’area con chiara
presenza di siti archeologici o aree limitrofe.
Anche qui si tratta di un mero accorpamento di categorie, non di una analisi
incrociata di dati. In realtà l’intero impianto è finalizzato alla valutazione
“burocratica” prescritta dalla legge sui lavori pubblici47.

47 Gli esiti sono così raggruppati:


– 0-2: La documentazione prodotta è sufficiente per accertare l’insussistenza dell’interesse
archeologico: si dichiara la procedura conclusa con esito negativo della verifica, salve
le misure di tutela da adottare ai sensi del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio,
relativamente a singoli ritrovamenti non prevedibili e al loro contesto. Con potenziale
archeologico “basso” la Soprintendenza detta inoltre prescrizioni per la tutela, indicando
fra l’altro il valore della distanza minima dai contesti archeologici riconosciuti nelle aree
limitrofe;
– 3-6: La documentazione prodotta non è sufficiente per valutare correttamente la potenzialità
archeologica dei siti: si richiede quindi l’attivazione della procedura di cui all’articolo
96, comma 1, lettera a. È auspicabile (previa valutazione delle caratteristiche dei suoli)
l’esecuzione di indagini geofisiche, propedeutiche alla progettazione di carotaggi e saggi;
– 7-8: La documentazione prodotta è sufficiente per valutare l’alta potenzialità archeologica
dei siti, ma non la precisa localizzazione e consistenza dei contesti: si richiede quindi
l’attivazione della procedura di cui all’articolo 96, comma 1, lettera a). Le indagini
dirette devono essere oggetto di accurata progettazione eseguita, auspicabilmente (previa
valutazione delle caratteristiche dei suoli), sulla base dei risultati di indagini geofisiche;
– 9: La documentazione prodotta è sufficiente per valutare l’alta potenzialità archeologica
dei siti: si richiede quindi l’attivazione contestuale delle due fasi previste dall’articolo 96,
comma 1. Le indagini dirette devono essere oggetto di accurata progettazione eseguita,
auspicabilmente (previa valutazione delle caratteristiche dei suoli), sulla base dei risultati di
indagini geofisiche;
– 10: La documentazione prodotta rende certa l’alta potenzialità archeologica dei siti: la
procedura di cui all’articolo 96, comma 1, non viene attivata. Sono possibili tre fattispecie:
richiesta di varianti sostanziali con valorizzazione in situ a seguito di scavo estensivo eseguito
in fase di realizzazione; richiesta di varianti sostanziali con delocalizzazione totale o parziale
dei resti a seguito di scavo estensivo eseguito in fase di realizzazione; parere negativo.
1078 CARMELO GRASSO, PAOLO GULL, MARIO PAGANO, FRANCESCA SOGLIANI

Invece, benché gli equivoci metodologici non siano stati tutti dissipati, è
bene iniziare a delineare un percorso virtuoso per curare questa pericolosa
deriva dell’archeologia italiana.
Abbiamo chiarito, spero, che “rischio archeologico” non è un termine
sconveniente ma rappresenta (accezione primaria “A”) il rischio di
compromissione cui il patrimonio archeologico presente in un’area interessata
da un progetto è esposto per effetto del progetto medesimo. E del resto la
stessa discussa accezione complementare, quella che vede l’archeologia come
“rischio per gli investimenti” (accezione secondaria “B”) non è disdicevole,
ma costituisce la necessaria molla in base alla quale progettisti e imprese per
minimizzare il rischio archeologico “B” hanno bisogno di affrontare in maniera
corretta il rischio archeologico “A”, il rischio archeologico tout court.
Qual è la maniera corretta di affrontarlo? Non tutti i rischi possono essere
evitati e quindi un certo numero di essi va appunto considerato, valutato e di
conseguenza ridotto, secondo una condotta propria della cosiddetta “gestione del
rischio”. Ogni settore di intervento conosce le proprie strategie, nel nostro sarà
opportuno valutare anzitutto quali siano gli aspetti prioritari da salvaguardare
dal punto di vista della tutela archeologica. Sicuramente il primo riguarda la
conoscenza del passato come risorsa per la società. Su questo si è detto molto ed
è forse superfluo tornarvi sopra, mentre va sottolineato ancora una volta che la
tutela della conoscenza effettiva o potenziale contenuta nei depositi archeologici
non può essere affidata alla mera preservation by record per le ragioni sopra
esposte. In conseguenza, quindi, la tutela del deposito deve anzitutto perseguire
il minor consumo di suolo archeologico, cioè lasciare i depositi il più possibile
intatti come prima opzione. Come opzione subordinata, qualora l’integrità dei
depositi non possa essere garantita, avremo quindi la loro “trasformazione in
documentazione”, con l’accettazione di tutte le perdite di informazioni del caso.
Ovviamente la tutela astratta della conoscenza rappresenta solo uno sfondo
generico rispetto alla seconda (non in ordine di importanza) necessità, quella di
creare una qualità dei luoghi adeguata e comunque migliore di quella (mediocre)
che la gestione italiana del territorio ci ha proposto sin qui. Sottolineo questo
fatto, solo in parte ovvio, perché grandi distese di cemento e asfalto potrebbero
essere ottenute senza intaccare depositi archeologici, ma il risultato finale
sarebbe sicuramente deprecabile.
L’azione di tutela deve dunque avere come orizzonte anche quello di garantire una
corretta conservazione della qualità paesaggistica, integrando quindi l’aspetto della
tutela del patrimonio archeologico, inteso come risorsa di conoscenza, all’interno di
una strategia territoriale che miri alla creazione di un ambiente sostenibile. Questi
concetti sono espressi dalla Convenzione di Faro (2005)48, che riprende in un quadro
più ampio i concetti delle convenzioni di Malta, Granada e Firenze.

48 Council of Europe Framework Convention on the Value of Cultural Heritage for Society:

<http://www.conventions.coe.int/Treaty/EN/Treaties/Html/199.htm>, 23.10.2016.
RICERCA, TUTELA E VALORIZZAZIONE DEL PATRIMONIO ARCHEOLOGICO: OPINIONI A CONFRONTO 1079

Di seguito non entreremo, però, nel merito di questo secondo aspetto, che
richiede una integrazione, che rappresenta un obiettivo ancora immaturo per
l’archeologia italiana. Tuttavia, in questa direzione risulta essere opportuna
l’unificazione degli uffici in soprintendenze uniche, per superare meglio
contraddizioni tra diverse istanze di tutela.
Fissati gli aspetti primari da salvaguardare, possiamo stabilire alcuni principi
di gestione del rischio archeologico inteso come sua valutazione, riduzione e,
ove necessario, compensazione.
Tenendo presente la formula Ra = Pe x V x Pt x (Lst x Ip), queste due
ultime voci fra parentesi perché non ancora integrate in modo soddisfacente,
consideriamo che il nostro obiettivo è ridurre il valore di Ra. Essendo questo
il prodotto di una serie di fattori, osserviamo quali sono quelli su cui abbiamo
la capacità di agire. Non possiamo evidentemente intervenire su Pt, in quanto
il potenziale archeologico di un’area non dipende da nostre scelte, ma è un
elemento dato. Allo stesso modo anche la vulnerabilità V non dipende da fattori
su cui possiamo agire, ma essenzialmente sulla profondità dei depositi stessi,
aspetto che può essere analizzato ma non modificato. Di fatto il solo aspetto
su cui possiamo intervenire è Pe, inteso come l’insieme delle caratteristiche
del progetto con particolare riferimento alle profondità di scavo. Quindi per
ridurre Ra dobbiamo cercare di minimizzare Pe.
a) Sarà dunque compito del valutatore preparare tre strati informativi, due
risultato della sua analisi, cioè Pt e V, il terzo risultante da una estrapo-
lazione di attributi Pe del progetto, in sostanza degli aspetti che com-
portano escavazioni e movimento terra. Non tutti gli elementi saranno
immediatamente disponibili:
a. dopo un primo screening fatto tramite analisi bibliografica,
fotointerpretazione e ricognizione diretta (non a caso le indagini
previste dalla valutazione preliminare ex art. 25, comma 1),
b. il lavoro sarà da integrare attraverso indagini complementari come
indagini geofisiche, carotaggi ed eventualmente saggi archeologici, in
maniera da valutare consistenza e profondità dei depositi (le indagini
ex art. 25, comma 8).
b) Una corretta esecuzione di queste fasi di lavoro dovrebbe consentire di
ottenere:
a. una carta del potenziale che potrà essere espressa attraverso una
qualsiasi scala di valori, anche quella più complessa disposta dalle
linee guida (sebbene chi scrive sia favorevole a soluzioni più semplici);
b. una carta della vulnerabilità, essenzialmente espressa attraverso una
valutazione della profondità dei depositi ove possibile.
Occorre stabilire, e questa è materia per futuri lavori di ricerca, un metodo per
interpolare i dati di profondità di depositi archeologici noti (dove abbiamo allo
stesso tempo la certezza della loro presenza e la certezza della loro profondità)
e dati carenti o lacunosi di aree in cui la presenza di depositi non è accertata in
1080 CARMELO GRASSO, PAOLO GULL, MARIO PAGANO, FRANCESCA SOGLIANI

via definitiva. In parte questo può essere oggetto di “regole metodologiche”, in


parte dipenderà da strategie di campionamento messe in atto durante il lavoro
di analisi, in parte infine da condizioni locali note a scala locale. Molto lavoro
c’è da fare anche sul versante della valutazione del potenziale anche sul piano
predittivo. Un buon inquadramento di questo problema, che qui non c’è spazio
neanche per accennare è stato condotto da alcuni colleghi olandesi49.
c) Incrociando questi dati con i dati di progetto (con lo strato informativo
Pe) si evidenzieranno settori in cui una aggressività significativa del pro-
getto si andrà a sovrapporre con zone di maggior valore di potenziale ed
eventualmente maggiore vulnerabilità.
Secondo il nuovo codice degli appalti (2016) questo tipo di indagine
dovrebbe compiersi a livello di progettazione preliminare (ribattezzata progetto
di fattibilità). Non c’è spazio qui per insistere sul malcostume di predisporre
progetti preliminari carenti, vizio cui la nuova legge cerca di opporsi, non
sappiamo ancora con quanto successo, ma consideriamo invece un “progetto
di fattibilità” completo di tutti gli studi e analisi previsti dalla normativa.
A questo punto, prima ancora di approvare il progetto di fattibilità stesso,
dovrebbe essere possibile
d) stabilire delle alternative progettuali a minor impatto: innanzitutto va-
riando subito caratteristiche macroscopiche, modificando pendenze,
profondità di scavo e altre caratteristiche progettuali che possono essere
variate senza mettere in discussione l’impianto del progetto stesso, poi
stabilendo possibili alternative con diversi valori di Ra.
Qui entrano in gioco le prescrizioni di tutela, un passaggio estremamente
delicato. Partendo dal presupposto che l’opera si debba fare (qui appunto
trascuriamo i valori di Lst e di Ip, non considerando margini di negoziazione
politica), compito degli uffici di tutela è
e) prescrivere le necessarie “opere compensative” consistenti in scavi ar-
cheologici delle zone interessate dai lavori dove l’impatto sul patrimo-
nio archeologico è probabile o certo e, a valle di questi, tutti i necessari
programmi di studio, pubblicazione e valorizzazione dei rinvenimenti
previsti dalla normativa in vigore. Queste “compensazioni” avranno un
costo che deve essere calcolato in modo congruo e le stesse norme danno
facoltà agli uffici di tutela di non approvare interventi sottodimensionati.
Una volta stabilito l’importo complessivo questo andrà
f) valutato all’interno delle ipotesi di alternativa progettuale: in questa area
X conviene condurre tutti i costosi scavi prescritti o è possibile proporre
varianti al progetto che richiedono interventi meno onerosi? Questo bi-
lancio ha due finalità, la prima diretta (trovare la soluzione ottimale dal
punto di vista del progetto), l’altra indiretta (spingere verso un minor
consumo di suolo archeologico).

49 Kamermans et al. 2009.


RICERCA, TUTELA E VALORIZZAZIONE DEL PATRIMONIO ARCHEOLOGICO: OPINIONI A CONFRONTO 1081

Questa seconda opzione, che come abbiamo visto sarebbe quella ottimale,
non può essere allo stato attuale imposta per legge, ma deve essere perseguita
attraverso la “mano invisibile” dei costi. Da questo punto di vista qualsiasi
scelta al ribasso, che offra “sconti sulla tutela”, accontentandosi di un livello
di tutela inferiore o che garantisca le necessità operative attraverso volontari,
studenti, associazioni ecc., lungi dall’essere una scelta virtuosa, spinge, come
abbiamo visto, ad una inutile (e dannosa) erosione dei depositi in condizioni
operative al di sotto degli standard minimi. Ogni futura linea guida dovrebbe
essere inflessibile su questo aspetto.
È qui che entrano in gioco valutazioni di tipo politico, tecnico-economico,
strategico e compito della futura ricerca metodologica sarà integrare questi
valori dentro il modello di analisi, consentendo di abbozzare anche gli step
G, H e così via, fino alla cantierizzazione delle opere. Quanto più l’opera sarà
necessaria o politicamente imposta “proprio lì e proprio così” (quindi il suo Lst
sarà elevato) e/o quanto più il valore di Ip sarà alto (cioè i benefici economici
attesi saranno consistenti), tanto più nella formula Ra = Pe x Vu x Pt x Lst
x Ip il valore di Ra si avvicinerà alla certezza (vedi i casi della TAV in val di
Susa e del gasdotto TAP sulle coste pugliesi) e quindi l’azione di tutela dovrà
essere estremamente rigorosa. Una compiuta integrazione della componente
archeologica in tutti i livelli della progettazione dovrebbe avere il compito di
far sì che, specialmente dove gli interessi sono particolarmente forti e quindi
la capacità economica del progetto adeguata alla posta in gioco, l’azione di
tutela non sia orientata verso opere compensative a pioggia (“devasto tutto
ma vi riallestisco il museo archeologico”), scelte che specialmente gli enti locali
potrebbero irresponsabilmente caldeggiare in sede di trattativa, ma miri, nella
lettera e nello spirito della norma, ad assicurare sempre tutte le fasi del ciclo
dell’archeologia “dalla diagnosi al museo” per tutte le necessità strettamente
legate alle specifiche caratteristiche dell’opera e alle sue dirette esigenze. Senza
cedere a possibili strabismi.
1102 CARMELO GRASSO, PAOLO GULL, MARIO PAGANO, FRANCESCA SOGLIANI

molto redditizio, di mera innovazione. I patrimoni culturali e archeologici,


la loro conoscenza, tutela e valorizzazione, proprio perché depositari delle
“chiavi” di accesso ai valori identitari di un territorio, di un paesaggio, di una
comunità, richiedono tempi specifici, a volte lunghi, senza dubbio profondi,
in cui la conoscenza possa sedimentarsi, tempi in grado di generare relazioni
e di stimolare reazioni in coloro che sono i destinatari dei contenuti che questi
patrimoni conservano in sé. Una corretta elaborazione dei percorsi di ricerca,
congiunta a una cura attenta ai percorsi di formazione dei ricercatori e degli
operatori del settore, può davvero garantire un efficace accompagnamento al
cambiamento in atto, attraverso un’offerta di contenuti per la promozione di
processi corretti di politiche culturali e per veicolare la cultura e i patrimoni
nella nuova società. Il modello che si propone è quindi basato su percorsi di
formazione altamente specializzati, ricerca di base sul patrimonio culturale e
archeologico costruita sul territorio e veicolata attraverso le risorse strategiche
messe in atto a livello regionale, nazionale ed europeo, nuove modalità di
comunicazione e narrazione che non possono prescindere dall’uso del digitale,
ma che siano in grado di calibrarne il rapporto con i sistemi analogici, il tutto
innestato in sistemi di gestione che siano caratterizzati da una forte innovazione
per quanto riguarda gli aspetti organizzativi. Su quest’ultimo punto si giocherà
la sfida del patrimonio culturale del nostro Paese, chiamato ad assumere
un ruolo importante nella coesione sociale, nella crescita economica, nello
sviluppo del mondo del lavoro e nella trasmissione dell’eredità culturale dei
nostri paesaggi storici, in virtù delle sue ancora paradossalmente inesplorate,
ma enormi potenzialità creative di progresso socio-economico e di riduzione
della povertà… anche intellettuale.

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