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IL CAPITALE CULTURALE
2016
Studies on the Value of Cultural Heritage
JOURNAL OF THE SECTION OF CULTURAL HERITAGE
Department of Education, Cultural Heritage and Tourism
University of Macerata
Il Capitale culturale Fiorella Dallari, Stefano Della Torre, Maria
Studies on the Value of Cultural Heritage del Mar Gonzalez Chacon, Maurizio De Vita,
Vol. 14, 2016 Michela Di Macco, Fabio Donato, Rolando
Dondarini, Andrea Emiliani, Gaetano Maria
ISSN 2039-2362 (online) Golinelli, Xavier Greffe, Alberto Grohmann,
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RICERCA, TUTELA E VALORIZZAZIONE DEL PATRIMONIO ARCHEOLOGICO: OPINIONI A CONFRONTO 1055
Paolo Güll***
Dalla “bonifica archeologica” alla gestione del rischio. Nuove sfide per la
ricerca e la tutela
*** Paolo Güll, Ricercatore di Metodologia della ricerca archeologica, Università del Salento,
Dipartimento di Beni culturali, via Birago, 64, 73100 Lecce, e-mail: paolo.gull@unisalento.it.
4 Sulla controversa nascita dell’archeologia preventiva in Italia mi permetto di rinviare a Güll
2015, pp. 15-17. Il comma 13 dell’art. 25 del D.Lgs. 50/2016 prevede un D.M. di applicazione delle
norme sull’archeologia preventiva (compito peraltro imposto fin dal codice D.Lgs. 163/200, art.
96, comma 6 e totalmente disatteso dal MiBACT). Con D.M. 10 giugno 2016, una commissione
presieduta da Girolamo Sciullo è stata incaricata di redigere entro il 15 settembre 2016 una bozza
di decreto.
5 Barker 1977, p. 12.
1056 CARMELO GRASSO, PAOLO GULL, MARIO PAGANO, FRANCESCA SOGLIANI
6 Olsen 1980.
7 Güll 2011.
8 Topolski 1975.
9 Ivi, pp. 463-494.
10 Su questo tema si veda l’ottimo Carver 2011.
RICERCA, TUTELA E VALORIZZAZIONE DEL PATRIMONIO ARCHEOLOGICO: OPINIONI A CONFRONTO 1057
14 Jakobson 1966.
15 Gli aspetti legati alla volontarietà o meno, all’esistenza o meno di un destinatario, ai diversi
supporti di queste informazioni attengono essenzialmente alla teoria delle fonti. Una eccellente
sintesi con un ampio excursus storico la troviamo in Maetzke 1986.
16 Il processo di formazione della fonte – per il quale, nel caso dell’archeologia, si rimanda ad
esempio a Tabaczyński 1998 – ha naturalmente delle regole specifiche per ogni categoria, ma può
essere applicato a qualsiasi tipo di fonte storica.
17 Questo aspetto, sicuramente caratteristico della ricerca storica, in cui l’asimmetria della
ciò è vero solo in relazione al suo contenuto originario. Le testimonianze del passato vengono
infatti spesso fatte oggetto di fenomeni di riuso che ne trasformano le caratteristiche originarie
(nel caso di oggetti mobili o immobili) o di modifiche, alterazioni, interpolazioni (nel caso di fonti
RICERCA, TUTELA E VALORIZZAZIONE DEL PATRIMONIO ARCHEOLOGICO: OPINIONI A CONFRONTO 1059
testuali, scritte o orali), che richiedono, per la decodifica della forma originaria, una ricostruzione
filologica di essa. Il risultato finale di questo processo che avviene nel corso del tempo non è
sempre esattamente un “impoverimento”: di qui la necessità di utilizzare il concetto di “perdita di
contenuto” in maniera attenta e critica.
19 La fase della documentazione è probabilmente l’unica in cui la perdita di contenuto
non è sostituita da arricchimenti di senso e stratificazione di nuovi significati, cosa invece che
avviene all’atto dell’interpretazione, in un momento successivo del processo della ricerca storico-
archeologica.
20 Sono le fattispecie dell’art. 25, comma 9 del D.Lgs. 50/2016, già art. 96, comma 2 del D.Lgs.
163/2006.
21 D.Lgs. 50/2016, art. 25, comma 9, lettera a.
1060 CARMELO GRASSO, PAOLO GULL, MARIO PAGANO, FRANCESCA SOGLIANI
Esistono poi altri casi in cui, poiché non si evidenziano «reperti leggibili
come complesso strutturale unitario» e/o il loro livello di conservazione è
definibile «scarso», sono possibili «interventi di rinterro oppure di smontaggio,
rimontaggio e musealizzazione in altra sede rispetto a quella di rinvenimento»22
e infine circostanze in cui «la conservazione non può essere altrimenti assicurata
se non in forma contestualizzata mediante l’integrale mantenimento in sito»23,
casi cioè in cui la “bonifica” non è ritenuta possibile.
Questo è il testo della normativa attuale: qual è la sua logica? È una logica
che contiene diverse aporie metodologiche. Anzitutto è in contrasto con
tutto quanto si insegna e si apprende all’università, dal momento che essa
discende dall’assunto, ormai fuori corso, secondo cui se si è in presenza di resti
strutturali, che sono potenziali “monumenti” in quanto “costruiti”, se ne deve
presupporre la conservazione, mentre se siamo di fronte a depositi stratificati
la prima opzione ritenuta valida è quella della rimozione. Ciò deriva da un
approccio che considera il singolo oggetto alla stregua dell’antico vaso di una
nota pubblicità, e trascura invece la trama di relazioni tra oggetti contenute
nelle stratificazioni24.
È chiaro che questo approccio dal punto di vista metodologico risulta
completamente obsoleto, poiché stabilisce una gerarchia implicita tra evidenze
archeologiche, secondo una logica di matrice idealista, circostanza che non deve
stupire poiché l’impianto della normativa italiana in materia deriva direttamente
dalla legge del 1939.
In secondo luogo, dopo aver operato questa scelta, suggerisce che la soluzione
migliore, più efficiente, quando non si sia in presenza di “monumenti”, sia
quella della trasformazione dell’evidenza archeologica in documentazione
cartacea, che costituisce, come abbiamo visto, una rappresentazione ridotta e
insufficiente dell’evidenza stessa. Anche questo è un residuo di un approccio
metodologico sorpassato, erede di quel positivismo spontaneo e ingenuo,
ormai privo di qualsiasi cittadinanza nella comunità scientifica mondiale, con
l’eccezione, pare, dell’archeologia italiana.
In sostanza, aderendo al modello della preservation by record, l’archeologia
italiana spinge verso un eccessivo “consumo di suolo archeologico” (nel
dubbio, scaviamo tutto), peraltro promuovendolo di fatto non attraverso
un programma di ricerca, ma semplicemente facendosi trascinare dalle
trasformazioni territoriali, diventando quindi una archeologia development led
della peggior specie25.
Come uscire da questo vicolo cieco che, se perseguito ad oltranza,
porterebbe di fatto alla distruzione totale dei depositi archeologici nel giro di
22 Ivi, lettera b.
23 Ivi, lettera c.
24 È parente stretto del modo di procedere che ha portato in passato a scavare praticando
conventions.coe.int/Treaty/en/Treaties/Html/143.htm>, 23.10.2016.
27 McGimsey 1972.
1062 CARMELO GRASSO, PAOLO GULL, MARIO PAGANO, FRANCESCA SOGLIANI
Innanzitutto nel 2004, con la stesura del “Codice Urbani” è stata riproposta
la tutela delle “cose”, rinunciando a fare quel passo avanti per cui i tempi erano
assolutamente maturi. Nel 2006 poi, con la nuova legge sul codice degli appalti,
si è persa l’occasione di definire con chiarezza l’ambito della diagnostica iniziale.
In questo 2016 infine, in occasione della riforma del Codice degli appalti, la
questione è stata riproposta pari pari (il nuovo articolo 25 è una maldestra
sintesi dei vecchi artt. 95 e 96), con il consueto habitus conservatore che
caratterizza la poco coraggiosa archeologia italiana. La conseguenza è che nella
legislazione attuale non si comprende esattamente il ruolo della diagnostica
(strumento essenziale della prevenzione) e il compito di definirlo spetta in parte
ai decreti attuativi attualmente (agosto 2016) in fase di stesura30.
Eppure esempi non mancano: la legge francese tra tutte è molto precisa
da questo punto di vista, operando una chiara distinzione tra la fase della
diagnostica iniziale e quella dell’esecuzione.
In Italia è stata fatta notevole confusione in passato tra i due aspetti, confusione
che persiste nel testo attuale, che addirittura riporta tutti gli adempimenti di
archeologia preventiva al progetto di fattibilità, il vecchio “preliminare” (D.Lgs.
50/16, art. 25, comma 8). Se lo spirito della norma, come vedremo oltre, sarebbe
condivisibile (risolvere il maggior numero di criticità ad un livello progettuale il
più precoce possibile), il testo non scioglie una ambiguità metodologica di fondo
ereditata dagli artt. 95 e 96 del precedente codice, ovvero la mancata chiara
distinzione tra una fase diagnostica (integrativa della progettazione, a qualsiasi
livello si faccia riferimento) e una fase operativa (a supporto dell’esecuzione
delle opere), in cui vengono materialmente risolte e portate a termine le attività
di archeologia.
Con il vecchio codice la questione veniva affrontata di volta in volta
secondo una prassi che prevedeva l’approvazione del progetto in maniera
“condizionata”31. In questo caso il progetto dell’opera veniva approvato con
“nulla osta condizionato”, subordinato cioè agli esiti finali delle indagini
condotte in fase esecutiva. Oltre a creare una serie di complicazioni sul piano
tecnico, la vecchia e la nuova norma non escono dall’equivoco metodologico
dello “scavo come prima opzione”, ma poiché l’obiettivo pratico dovrebbe
essere quello di non dover mai più dire “ho trovato dei resti in fase esecutiva ma
non posso più impegnare risorse se non attraverso lunghe e costose varianti”,
la soluzione sul piano del metodo sta nello spostare l’asse in direzione di
una diagnostica più marcata ed efficiente e su un’impostazione pienamente
“preventiva”. Il compito di risolvere queste contraddizioni, in assenza di un
chiaro orientamento metodologico in seno all’archeologia italiana, è per ora
appunto affidato alla redazione dei decreti attuativi del Codice degli Appalti.
Dovrebbe essere chiaro a questo punto che il primo degli aspetti chiave di
qualsiasi integrazione tra archeologia e progettazione delle opere sta nella chiara
individuazione delle evidenze nell’area interessata dai lavori, la definizione cioè,
in forma cartografica, di una cosa che in letteratura con qualche difficoltà è
entrata col nome di “potenziale archeologico”.
In realtà non tutta la terminologia in questo campo è chiara e condivisa,
sebbene esistano (per la verità non numerosi) studi in questa direzione a
cominciare da quello di Campeol e Pizzinato, pubblicato in «Archeologia e
Calcolatori»32, che però ha un limite di fondo dettato da un grado di analisi
molto elevato, che comprende una serie di valutazioni “qualitative” complesse
e forse alla fine difficilmente utilizzabili.
Si deve invece a un gruppo di ingegneri campani l’elaborazione di un secondo
modello molto più semplice e forse per questo più adatto ad un contesto come
quello della gestione del territorio e della progettazione delle opere, secondo un
principio che vedremo più avanti.
Una serie di indicazioni più operative che teoriche (con qualche limite
metodologico) sono infine fornite dalla circolare in materia di archeologia
preventiva 1/2016 della DG Archeologia del MiBACT.
Questi studi aiutano indubbiamente a definire molti dei problemi sollevati
dalla mancanza di visione condivisa, ma non trovano un vocabolario comune,
per cui sarà compito, peraltro urgente, della ricerca metodologica muovere in
questa direzione, anche facendo ordine e chiarezza nel lessico utilizzato.
Cerchiamo anzitutto di fare un po’ d’ordine nelle espressioni correntemente
usate.
Parte della letteratura definisce “rischio assoluto” la possibilità che “in
assoluto”, cioè indipendentemente da qualunque azione o piano, vi sia il
rischio di imbattersi in resti archeologici in un’area definita; essa di conseguenza
definisce “rischio relativo” la possibilità che resti archeologici esistenti vengano
danneggiati da una azione o piano. Questa impostazione del problema risente
di un grave fraintendimento metodologico, essendo per definizione il “rischio”
la possibilità che un evento, un’azione o un’attività conduca a un danno. Di
conseguenza un rischio è sempre “in relazione a qualcosa” e, ove non vi sia
alcuna azione o evento, il rischio è nullo. Di conseguenza “rischio assoluto” è un
termine contraddittorio non esistendo un “rischio” in astratto. È probabilmente
questa impostazione approssimativa, priva di fondamento metodologico, ad
aver alimentato ad un certo punto una reazione “negazionista” del concetto di
rischio.
Più opportuno appare invece, in linea con una concezione più corretta e
soprattutto transdisciplinare, definire la possibilità che un’area definita conservi
resti archeologici come “potenziale” e associare questo concetto a quello di
36 Ivi, p. 53.
37 Caliano et. al. 2010.
38 Caliano 2011, p. 54.
39 Caliano et al. 2010.
RICERCA, TUTELA E VALORIZZAZIONE DEL PATRIMONIO ARCHEOLOGICO: OPINIONI A CONFRONTO 1067
Tab. 1. Modello di analisi e valutazione contenuto nel Dutch Archaeology Quality Standard
(Fonte: Willems, Brandt 2004, p. 69, tab. 4)
RICERCA, TUTELA E VALORIZZAZIONE DEL PATRIMONIO ARCHEOLOGICO: OPINIONI A CONFRONTO 1069
42 Campeol, Pizzinato 2007, modello ripreso e migliorato poi in Calaon, Pizzinato 2011.
1070 CARMELO GRASSO, PAOLO GULL, MARIO PAGANO, FRANCESCA SOGLIANI
Tab. 2. Criteri di definizione del valore, del potenziale e del rischio/probabilità (Fonte:
Calaon, Pizzinato 2011, p. 421)
Tab. 3. Possibile classificazione del valore, del potenziale e del rischio/probabilità secondo i
criteri individuati nella tabella 2 (Fonte: Calaon, Pizzinato 2011, p. 422)
Tab. 4. Parametri per la definizione della vulnerabilità (Fonte: Calaon, Pizzinato 2011, p. 428)
43 Ivi, p. 422.
44 Ivi, p. 423.
1072 CARMELO GRASSO, PAOLO GULL, MARIO PAGANO, FRANCESCA SOGLIANI
Negli sviluppi successivi46 la stessa tabella viene utilizzata per valutare quello
che in questa nuova formulazione è definito “sensibilità degli elementi” (Sel)
(tab. 6):
Tab. 6. Classificazione della sensibilità degli elementi (Fonte: Caliano 2011, p. 56, tab. 3.2)
Tab. 7. Valutazione del potenziale (Fonte: Caliano 2011, p. 48, tab. 3.1)
Tab. 8. Indicatori per la valutazione del potenziale e criteri classificazione associati (Fonte:
Caliano 2011, p. 59, tab. 3.3)
1074
CARMELO GRASSO, PAOLO GULL, MARIO PAGANO, FRANCESCA SOGLIANI
Tab. 9. Tavola dei gradi di potenziale archeologico (Fonte: DG Archeologia, circolare 1/2016, all. 3
RICERCA, TUTELA E VALORIZZAZIONE DEL PATRIMONIO ARCHEOLOGICO: OPINIONI A CONFRONTO 1075
Invece, benché gli equivoci metodologici non siano stati tutti dissipati, è
bene iniziare a delineare un percorso virtuoso per curare questa pericolosa
deriva dell’archeologia italiana.
Abbiamo chiarito, spero, che “rischio archeologico” non è un termine
sconveniente ma rappresenta (accezione primaria “A”) il rischio di
compromissione cui il patrimonio archeologico presente in un’area interessata
da un progetto è esposto per effetto del progetto medesimo. E del resto la
stessa discussa accezione complementare, quella che vede l’archeologia come
“rischio per gli investimenti” (accezione secondaria “B”) non è disdicevole,
ma costituisce la necessaria molla in base alla quale progettisti e imprese per
minimizzare il rischio archeologico “B” hanno bisogno di affrontare in maniera
corretta il rischio archeologico “A”, il rischio archeologico tout court.
Qual è la maniera corretta di affrontarlo? Non tutti i rischi possono essere
evitati e quindi un certo numero di essi va appunto considerato, valutato e di
conseguenza ridotto, secondo una condotta propria della cosiddetta “gestione del
rischio”. Ogni settore di intervento conosce le proprie strategie, nel nostro sarà
opportuno valutare anzitutto quali siano gli aspetti prioritari da salvaguardare
dal punto di vista della tutela archeologica. Sicuramente il primo riguarda la
conoscenza del passato come risorsa per la società. Su questo si è detto molto ed
è forse superfluo tornarvi sopra, mentre va sottolineato ancora una volta che la
tutela della conoscenza effettiva o potenziale contenuta nei depositi archeologici
non può essere affidata alla mera preservation by record per le ragioni sopra
esposte. In conseguenza, quindi, la tutela del deposito deve anzitutto perseguire
il minor consumo di suolo archeologico, cioè lasciare i depositi il più possibile
intatti come prima opzione. Come opzione subordinata, qualora l’integrità dei
depositi non possa essere garantita, avremo quindi la loro “trasformazione in
documentazione”, con l’accettazione di tutte le perdite di informazioni del caso.
Ovviamente la tutela astratta della conoscenza rappresenta solo uno sfondo
generico rispetto alla seconda (non in ordine di importanza) necessità, quella di
creare una qualità dei luoghi adeguata e comunque migliore di quella (mediocre)
che la gestione italiana del territorio ci ha proposto sin qui. Sottolineo questo
fatto, solo in parte ovvio, perché grandi distese di cemento e asfalto potrebbero
essere ottenute senza intaccare depositi archeologici, ma il risultato finale
sarebbe sicuramente deprecabile.
L’azione di tutela deve dunque avere come orizzonte anche quello di garantire una
corretta conservazione della qualità paesaggistica, integrando quindi l’aspetto della
tutela del patrimonio archeologico, inteso come risorsa di conoscenza, all’interno di
una strategia territoriale che miri alla creazione di un ambiente sostenibile. Questi
concetti sono espressi dalla Convenzione di Faro (2005)48, che riprende in un quadro
più ampio i concetti delle convenzioni di Malta, Granada e Firenze.
48 Council of Europe Framework Convention on the Value of Cultural Heritage for Society:
<http://www.conventions.coe.int/Treaty/EN/Treaties/Html/199.htm>, 23.10.2016.
RICERCA, TUTELA E VALORIZZAZIONE DEL PATRIMONIO ARCHEOLOGICO: OPINIONI A CONFRONTO 1079
Di seguito non entreremo, però, nel merito di questo secondo aspetto, che
richiede una integrazione, che rappresenta un obiettivo ancora immaturo per
l’archeologia italiana. Tuttavia, in questa direzione risulta essere opportuna
l’unificazione degli uffici in soprintendenze uniche, per superare meglio
contraddizioni tra diverse istanze di tutela.
Fissati gli aspetti primari da salvaguardare, possiamo stabilire alcuni principi
di gestione del rischio archeologico inteso come sua valutazione, riduzione e,
ove necessario, compensazione.
Tenendo presente la formula Ra = Pe x V x Pt x (Lst x Ip), queste due
ultime voci fra parentesi perché non ancora integrate in modo soddisfacente,
consideriamo che il nostro obiettivo è ridurre il valore di Ra. Essendo questo
il prodotto di una serie di fattori, osserviamo quali sono quelli su cui abbiamo
la capacità di agire. Non possiamo evidentemente intervenire su Pt, in quanto
il potenziale archeologico di un’area non dipende da nostre scelte, ma è un
elemento dato. Allo stesso modo anche la vulnerabilità V non dipende da fattori
su cui possiamo agire, ma essenzialmente sulla profondità dei depositi stessi,
aspetto che può essere analizzato ma non modificato. Di fatto il solo aspetto
su cui possiamo intervenire è Pe, inteso come l’insieme delle caratteristiche
del progetto con particolare riferimento alle profondità di scavo. Quindi per
ridurre Ra dobbiamo cercare di minimizzare Pe.
a) Sarà dunque compito del valutatore preparare tre strati informativi, due
risultato della sua analisi, cioè Pt e V, il terzo risultante da una estrapo-
lazione di attributi Pe del progetto, in sostanza degli aspetti che com-
portano escavazioni e movimento terra. Non tutti gli elementi saranno
immediatamente disponibili:
a. dopo un primo screening fatto tramite analisi bibliografica,
fotointerpretazione e ricognizione diretta (non a caso le indagini
previste dalla valutazione preliminare ex art. 25, comma 1),
b. il lavoro sarà da integrare attraverso indagini complementari come
indagini geofisiche, carotaggi ed eventualmente saggi archeologici, in
maniera da valutare consistenza e profondità dei depositi (le indagini
ex art. 25, comma 8).
b) Una corretta esecuzione di queste fasi di lavoro dovrebbe consentire di
ottenere:
a. una carta del potenziale che potrà essere espressa attraverso una
qualsiasi scala di valori, anche quella più complessa disposta dalle
linee guida (sebbene chi scrive sia favorevole a soluzioni più semplici);
b. una carta della vulnerabilità, essenzialmente espressa attraverso una
valutazione della profondità dei depositi ove possibile.
Occorre stabilire, e questa è materia per futuri lavori di ricerca, un metodo per
interpolare i dati di profondità di depositi archeologici noti (dove abbiamo allo
stesso tempo la certezza della loro presenza e la certezza della loro profondità)
e dati carenti o lacunosi di aree in cui la presenza di depositi non è accertata in
1080 CARMELO GRASSO, PAOLO GULL, MARIO PAGANO, FRANCESCA SOGLIANI
Questa seconda opzione, che come abbiamo visto sarebbe quella ottimale,
non può essere allo stato attuale imposta per legge, ma deve essere perseguita
attraverso la “mano invisibile” dei costi. Da questo punto di vista qualsiasi
scelta al ribasso, che offra “sconti sulla tutela”, accontentandosi di un livello
di tutela inferiore o che garantisca le necessità operative attraverso volontari,
studenti, associazioni ecc., lungi dall’essere una scelta virtuosa, spinge, come
abbiamo visto, ad una inutile (e dannosa) erosione dei depositi in condizioni
operative al di sotto degli standard minimi. Ogni futura linea guida dovrebbe
essere inflessibile su questo aspetto.
È qui che entrano in gioco valutazioni di tipo politico, tecnico-economico,
strategico e compito della futura ricerca metodologica sarà integrare questi
valori dentro il modello di analisi, consentendo di abbozzare anche gli step
G, H e così via, fino alla cantierizzazione delle opere. Quanto più l’opera sarà
necessaria o politicamente imposta “proprio lì e proprio così” (quindi il suo Lst
sarà elevato) e/o quanto più il valore di Ip sarà alto (cioè i benefici economici
attesi saranno consistenti), tanto più nella formula Ra = Pe x Vu x Pt x Lst
x Ip il valore di Ra si avvicinerà alla certezza (vedi i casi della TAV in val di
Susa e del gasdotto TAP sulle coste pugliesi) e quindi l’azione di tutela dovrà
essere estremamente rigorosa. Una compiuta integrazione della componente
archeologica in tutti i livelli della progettazione dovrebbe avere il compito di
far sì che, specialmente dove gli interessi sono particolarmente forti e quindi
la capacità economica del progetto adeguata alla posta in gioco, l’azione di
tutela non sia orientata verso opere compensative a pioggia (“devasto tutto
ma vi riallestisco il museo archeologico”), scelte che specialmente gli enti locali
potrebbero irresponsabilmente caldeggiare in sede di trattativa, ma miri, nella
lettera e nello spirito della norma, ad assicurare sempre tutte le fasi del ciclo
dell’archeologia “dalla diagnosi al museo” per tutte le necessità strettamente
legate alle specifiche caratteristiche dell’opera e alle sue dirette esigenze. Senza
cedere a possibili strabismi.
1102 CARMELO GRASSO, PAOLO GULL, MARIO PAGANO, FRANCESCA SOGLIANI
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