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Minority Reports.

Cultural Disability Studies


11
2020/II

Direzione editoriale
Lucio d’Alessandro (Università di Napoli “Suor Orsola Benincasa”)
Giampiero Griffo (Disabled People’s International – World Council)
Ciro Tarantino (Università della Calabria)

Comitato editoriale
Maria Giulia Bernardini (Università di Ferrara), Silvia Cutrera (AVI/Agenzia per
la Vita Indipendente), Lavinia D’Errico (CeRC – “Robert Castel” Centre for Go-
vernmentality and Disability Studies), Maria Rosaria Duraccio (Enil Italia – Euro-
pean Network on Independent Living), Cecilia Marchisio (Università di Torino),
Matteo Meschiari (Università di Palermo), Ciro Pizzo (Università di Napoli “Suor
Orsola Benincasa), Matteo Schianchi (Università degli Studi di Milano-Bicocca),
Alessandra M. Straniero (coordinamento, Università della Calabria).

Redazione
Daniele Romano (Fish – Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap),
Federico Ciani (Università di Firenze), Fulvio Librandi (Università della Cala-
bria), Marco Mazzeo (Università della Calabria), Sabrina Tosi Cambini (Università
di Verona).

Comitato scientifico
Lysette Boucher-Castel (presidente), Adalgiso Amendola (Università di Salerno),
Maurice Aymard (École des Hautes Études en Sciences Sociales), Pietro V. Barbie-
ri (European Economic and Social Committee), Mauro Bertani (independent re-
searcher), Rita Barbuto (Disabled People’s International – Italia), Alberto Burgio
(Università di Bologna), Paula Campos Pinto (Universidade de Lisboa), Enrico-
maria Corbi (Università di Napoli “Suor Orsola Benincasa”), Emilia D’Antuono
(Università di Napoli “Federico II”), Theresia Degener (BODYS, Bochum Center
for Disability Studies), Léo Goupil-Barbier (Handicap International), Mondher
Kilani (Université de Lausanne), Marina Lalatta Costerbosa (Università di Bolo-
gna), Michalis Lianos (University de Rouen-Haute Normandie), Marco Mascia
(Università di Padova), Paolo Napoli (École des Hautes Études en Sciences So-
ciales), Leonardo Piasere (Università di Verona), Mark Priestley (University of
Leeds), Gerard Quinn (NUI Galway), Emilio Santoro (Università di Firenze),
Tom Shakespeare (University of East Anglia), Jean-Luc Simon (Disabled People’s
International – Europe), Vito Teti (Università della Calabria), Giacomo Todeschi-
ni (Università di Trieste), Jean-François Trani (Washington University in St. Luis),
Yannis Vardakastanis (European Disability Forum), Miguel-Angel Verdugo (Uni-
versidad de Salamanca).

Peer-reviewed journal

Direzione e redazione
Università di Napoli “Suor Orsola Benincasa” – Dipartimento di Scienze formati-
ve, psicologiche e della comunicazione , via Suor Orsola, 10 – 80135 Napoli
Siti web: mimesisjournals.com
mimesisedizioni.it/riviste/minority-reports.html
Email: minorityreports@unisob.na.it
M inority R eports
C ultural D isability S tudies

ANTROPOLOGIA MEDICA
& DISABILITÀ /
MEDICAL ANTHROPOLOGY
& DISABILITY

11
2020/II

MIMESIS
Registrazione presso il Tribunale di Napoli n. 24 del 21.04.2015
Direttore responsabile: Arturo Lando (Università di Napoli “Suor Orsola
Benincasa”)

Pubblicazione promossa dal CeRC – “Robert Castel” Centre for Governmen-


tality and Disability Studies dell’Università di Napoli “Suor Orsola Benincasa”.

Costo per l’abbonamento annuale, 2 numeri:


Dall’Italia: prezzo 36,00 euro
Dall’estero (Europa): prezzo 54,00 euro
Dall’estero (Paesi Extraeuropei): prezzo 66,00 euro

Stampa: Digital Team – Fano (PU)

MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine)


www.mimesisedizioni.it
www.mimesisjournals.com
mimesis@mimesisedizioni.it

ISSN: 2465-0315
ISBN: 9788857577234

© 2020 – mim edizioni srl


Via Monfalcone, 17/19 – 20099
Sesto San Giovanni (MI)
Phone +39 02 24861657 / 24416383

© 2020 – Suor Orsola University Press


via Suor Orsola, 10 – 80135 Napoli
indice

Antropologia Medica & Disabilità /


Medical Anthropology & Disability
a cura di / ed. by Virginia De Silva

Introduzione
Antropologia Medica & Disabilità.
Prospettive etnografiche in dialogo
Virginia De Silva‌ 7

Sguardi sulla disabilità. Decostruire categorie

Amuleti, studenti, bambini


La costruzione sociale del bambino disabile in Tanzania
Nicoletta Sciarrino 29

L’identità narrativa degli studenti con disabilità


dell’Università di Perugia
Riflessioni inclusive
Laura Arcangeli, Moira Sannipoli 47

“Disabilità motoria”: percezioni e concezioni locali


nell’area nzema del Ghana
Ordine morale, processi globali e mondo locale
Fabiana Pasquazzi 67

La rappresentazione della disabilità


nella letteratura dell’infanzia
Maria Filomia 85

Biopolitica della disabilità in detenzione


“Microstorie esemplari”
Diana Gran Dall’Olio 107
Quando lo Sviluppo “tradizionalizza” la disabilità
Discorsi locali e metadiscorso in Tigray
Virginia De Silva 129

Politiche, servizi, percorsi

L’utente al tempo dei soggiorni estivi


Appunti per un’etnografia sulle vacanze riabilitative
per disabili adulti del Servizio socio-sanitario
Stefano Onnis 153

Il budget di salute come strumento di attivazione


per le persone con disabilità
Il contributo della ricerca partecipata
Mara Tognetti Bordogna, Valeria Quaglia,
Marco Terraneo 175

Vivere la disabilità in Senegal


Rappresentazioni culturali e percorsi
di autodeterminazione
Alessandro Fabbri 195

Progetto Musae
Pratiche, economie e politiche dell’accessibilità
museale in Umbria
Fabrizio Loce-Mandes, Andrea F. Ravenda 213

Abstracts 233
L’ utente al tempo dei soggiorni estivi
Appunti per un’etnografia sulle vacanze riabilitative
per disabili adulti del servizio socio-sanitario
Stefano Onnis*

1. I soggiorni estivi e il campo della disabilità

Vorrei incominciare con alcune precisazioni sul metodo di


indagine, sul campo e sullo specifico oggetto di osservazione.
Il contesto generale di riferimento è quello dei soggiorni
estivi per adulti con disabilità intellettiva intesi come presta-
zioni socio-sanitarie promosse da una Azienda Sanitaria Loca-
le, in collaborazione con i Servizi Sociali del Comune, tramite
le strutture territoriali.
Il lavoro etnografico è stato svolto all’interno di una Città
Metropolitana1 – dove, data l’estensione territoriale, l’Azien-
da Sanitaria Locale è suddivisa in più Distretti e il Comune in
Municipi – ed è stato affrontato nel corso di numerosi anni e
a diverso livello (in presenza e in assenza) nell’ambito di più
distretti territoriali.
Per lavoro etnografico qui – è bene sottolinearlo – non in-
tendo quindi una ricerca in un luogo e in un tempo circo-
scritti, ma un’osservazione partecipante di lungo corso e al
contempo frammentata e discontinua, sia in veste di opera-
tore sia di studioso dell’argomento2. Non c’è stata insomma
un’impostazione classica – se oggi ha ancora senso questa

* Antropologo; direttore scientifico di “Come un Albero” – Museo


dello sguardo sulla disabilità di Roma.
1. Per diversi motivi ritengo più opportuno restare generico nei rife-
rimenti territoriali.
2. Come assistente alla persona ho iniziato a partecipare ai soggiorni
estivi nel 1999, e tra una pausa e l’altra l’ultimo l’ho svolto nel 2012. Resta
fermo il fatto che continuo a ricevere informazioni, spontanee o su richie-
sta, da utenti e operatori che ancora li svolgono. Se qualcosa, da un punto
Minority Reports. Cultural Disability Studies 11|2020:153-173
154 Stefano Onnis

espressione – sul campo, con registratore pronto a raccogliere


informazioni dagli utenti e operatori indigeni. Come non c’è
stato nemmeno un committente o un destinatario scientifico
specifico (salvo il fatto che parte di questa esperienza è stata
utile sia per una riflessione più ampia nella ricerca di dottora-
to3, sia per il lavoro di progettista sociale4).
Piuttosto, il risultato di questa ricerca nasce da una costan-
te sensibilità e attenzione sul campo a cogliere appunti, spun-
ti, tracce discorsive e pratiche relazionali, talvolta pungolando
alcuni interlocutori, altre raccogliendo dichiarazioni sponta-
nee, frasi, impressioni su un tema specifico che seguo con
interesse da diverso tempo: il disconoscimento sociale della
persona con disabilità di tipo intellettivo proprio in quanto
persona e il rischio che questi e i suoi familiari vengano con-
siderati all’interno dei servizi sociosanitari come utenti sotto-
posti a pratiche di potere arbitrario e non come soggetti attivi
che usufruiscono di un servizio.
Se questa modalità di indagine dal tono impressionistico
può apparire d’acchito poco rigorosa (o comunque non scien-
tificamente strutturata) è anche vero che sul campo è stata

di vista normativo, è in parte cambiato in questi anni, nella sostanza le


criticità rilevate continuano a presentarsi.
3. “L’handicap in gioco nel tempo del racconto. Una lettura antropo-
logica degli usi della disabilità negli sguardi, nelle parole comuni e nella
narrativa contemporanea”, Tesi di Dottorato in Etnoantropologia, Dipar-
timento di Studi glottoantropologici e discipline musicali, Tutor Prof.ssa
Laura Faranda, Co-tutor Prof. Alberto Sobrero, Sapienza Università di
Roma, 2007.
4. In particolare con l’Associazione “Come un Albero” ONLUS e il
progetto “Museo dello sguardo sulla disabilità”, a Roma (www.comeu-
nalbero.org), e con l’Ufficio Disabili Adulti Roma1-III distretto e il pro-
getto “Rete per l’inclusione sociale”. Desidero qui ringraziare con affetto
e riconoscenza sia i soci di “Come un Albero” sia la dott.ssa Simeoni, il
dott. Paris e il loro staff, che mi hanno permesso di proporre e sperimen-
tare assieme una progettazione con approccio antropologico in ambito di
disabilità.
L’utente al tempo dei soggiorni estivi 155

sostenuta da un doppio ruolo, non sempre dichiarato, di ope-


ratore e ricercatore5.
Un doppio ruolo che mi ha permesso di poter interagire
con diverse figure presenti sulla scena: utenti, operatori, fa-
miglie, professionisti del settore. In questo modo la postura
osservante dell’etnografo può stare sul campo intendendo la
disabilità proprio come un campo secondo l’accezione pro-
posta da Pierre Bourdieu, rilevando il punto di vista di ogni
persona in quanto attore sociale che agisce, pensa e si muove
all’interno di una rete di relazioni, interazioni, conflitti.
Ma ancor di più, ognuno di questi attori presenta delle
caratteristiche che si ripropongono con una costanza tale da
delineare una sorta di personaggio idealtipico (l’utente, il fa-
miliare, l’operatore e il professionista)6.

5. Come operatore ho ricoperto e ricopro diversi ruoli: assistente do-


miciliare alla persona, esperto/maestro d’arte all’interno di laboratori ri-
abilitativi o socio-occupazionali, progettista, coordinatore e responsabile
di progetti. L’aspetto fondamentale è che si tratta di ruoli che permettono
di stare tanto nelle pratiche di campo quanto di poterle osservare: un
ruolo che con un’espressione felice può essere definito “meta-operatore”
(Pistone 2019:135).
6. La figura e il senso (puramente etnografico) di questi personaggi
idealtipici dovrebbe emergere durante la lettura del testo, anche se per
ovvi motivi di spazio non può essere qui ben messa in scena. Aggiungo
solo, per maggior chiarezza, che talvolta queste rappresentazioni possono
essere ulteriormente sottocategorizzate in due o tre sfumature più evi-
denti. Per esempio, se prendiamo la figura dell’operatore, questa ha degli
elementi costanti che ci aiutano a rappresentarlo, quali: un ruolo profes-
sionale poco valorizzato sia da un punto di vista economico sia sociale;
condizioni contrattuali spesso precarie; alto rischio di burn out; conflit-
tualità tra colleghi e poco spirito corporativo; una spontanea tendenza
a giudicare i genitori; un senso di impotenza rispetto alla discrasia tra le
attuali normative sull’inclusione e l’impossibilità operativa nel realizzarle.
Per la frequenza con cui le ho riscontrate, queste sono delle costanti, che,
per il modo diverso in cui vengono vissute dagli operatori, possiamo sud-
dividere ulteriormente in due tipologie specifiche: operatori demotivati e
operatori motivati. Ma, ripeto, la sostanza del “personaggio operatore” e
156 Stefano Onnis

É a partire da questa visione che vorrei entrare nel merito


dei soggiorni estivi promossi dai Servizi socio-sanitari (d’o-
ra in avanti “il Servizio”), mostrando i diversi attori sociali
che stanno sulla scena e dimostrando come da una percezione
comune di proposta ed esperienza tendenzialmente positiva
questa possa essere svelata, in alcuni casi, anche come pratica
di potere, di violenza simbolica7, di assoggettamento e di de-
soggettivizzazione.
Per rappresentare tutto ciò ho scelto di partire da frasi e
situazioni comuni, ovvero retoriche e pratiche che tendono a
ripetersi con una certa costanza al di là di specifiche ma non
significative varianti, accompagnate da brevi descrizioni etno-
grafiche e note di campo8.

2. Prima lettura, uno sguardo positivo

Sul pulmino Manuelona sale a fatica, nonostante la spinta


con un certo slancio da parte dell’operatore. Neanche si è se-
duta e già che con la testa abbassata incomincia ad indagare tra
i presenti. “Tu ci vieni quest’anno ai soggiorni?”, chiede con
eccitato entusiasmo. Ma le risposte degli altri sono solo un pre-
testo per dirci che oggi l’hanno chiamata quelli dell’Asl, e ce lo
dice sfregandosi le mani. “Ah, è dove ve ne andate di bello?”,
gli fa eco con distratta sufficienza l’operatore. “Ah boh, questo
non lo so ancora.”, risponde in tono un po’ più serio. (Nota di
campo dell’Autore).

del contesto sociale in cui opera, non cambia di molto, ed è una figura che
tende ad autodefinirsi proprio in opposizione alle altre figure in campo.
7. Uso il termine secondo l’accezione proposta da Pierre Bourdieu
(vedi più avanti, nota 11).
8. Sono appunti sparsi raccolti nel tempo. Non ho inserito qui date e
luoghi, e ho modificato eventuali nomi, per motivi di privacy.
L’utente al tempo dei soggiorni estivi 157

“Tu ci vieni quest’anno ai soggiorni?” è una frase che tra gli


utenti incomincia a circolare già da fine aprile. In questo senso
è un’espressione che ben rappresenta il periodo preparato-
rio, di attesa, di sovraeccitazione che si carica lentamente. Nel
porgere la domanda – verso un altro utente, o nei confronti di
un operatore – questa è accompagnata spesso da un sorriso,
mostrandoci indirettamente il valore di esperienza positiva,
piacevole, che viene assegnato dagli utenti. Non credo serva
qui ricordare che spesso è l’unica possibilità per poter fare
un’esperienza fuori di casa senza i genitori, anche se ovvia-
mente ci sono utenti a cui l’idea di andare a fare i soggiorni
con il Servizio non è che sconfinferi tanto, ma in linea generale
c’è una percezione di “festa comandata”, dove alla fine il pia-
cere di ritrovarsi assieme a far festa prevale su tutto.

“No, domani non veniamo al laboratorio”, risponde una ma-


dre, il giorno prima della partenza del figlio per un soggiorno,
al mio sincerarmi della loro presenza. “Dobbiamo fare la vali-
gia”, aggiunge con imperturbabile motivazione. E non è l’uni-
ca, mi accorgo poco dopo, che darà serenamente buca all’ap-
puntamento per lo stesso motivo. Probabilmente in mezzo ci
sono semplici questioni organizzative, ma a voler giocare agli
antropologi, è come se mi trovassi di fronte a una vera e propria
preparazione rituale, a una necessaria azione purificatoria per il
rito di passaggio che allontanerà l’iniziato da casa per qualche
giorno. Di certo è che mi ritrovo ad annullare il laboratorio.
(Nota di campo dell’Autore)

Questa percezione positiva è confermata anche dai geni-


tori: “I ragazzi si divertono, stanno bene”. Nel riemergere
stagionale dell’argomento, riprendono aneddoti ed episodi
“divertenti” degli anni precedenti. Una memoria selettiva che
sembra emergere in tutta la sua funzione rassicurante. Inoltre,
è anche considerato come “un momento di sollievo”, “di re-
spiro”, qualche giorno per provare a non pensare direttamen-
te alla quotidiana disabilità.
158 Stefano Onnis

Interessante, sempre rispetto a questa prospettiva positiva,


è la percezione di chi potremmo definire un “interlocutore
comune”9. Senza che mai avessi chiesto nulla al riguardo,
spesso sono state spontaneamente enunciate, con un tono
compiaciuto e commiserevole, frasi tipo “E’ un bene che ci
siano queste vacanze per loro”, perché “così loro hanno anche
modo di uscire un po’, di fare un’esperienza”10.

Sulla spiaggia il vicino di ombrellone attacca bottone. Mi


sembra che stia cercando di farmi capire che non gli diamo fa-
stidio. Poi aggiunge: “Loro sono come angeli”, e guarda Daniela
una ragazza del gruppo che ha la sindrome di Down. Daniela
lo riguarda e gli sorride. “Ho una cugina che è così. Loro sono
buoni, sono proprio degli angeli”, e quasi mi si commuove da-
vanti. E io resto imbambolato senza riuscire a dire più nulla.
(Nota di campo dell’Autore)

Una percezione ed un’espressione tipica che spesso fa il


paio con una domanda posta rigorosamente in modo retorico:
“Siete della Asl?”. E qui probabilmente emerge la necessità di
un appagamento con le Istituzioni: finalmente qualcosa fun-

9. Per “interlocutore comune” mi riferisco a una persona che non


è strettamente dell’ambiente (utente, familiare, operatore, etc.), ma che
indirettamente, di sfuggita, può interfacciarsi alla disabilità. Per fare qual-
che esempio di questi miei inconsapevoli informatori: un inserviente della
struttura che ci ospita, un vicino di ombrellone, un negoziante del pae-
se di villeggiatura. Sono persone comuni con cui capita di interagire per
poco tempo e per un qualche motivo specifico: osservano il gruppo e poi,
quasi sempre rivolti a uno degli operatori, espongono con un qualche
commento non richiesto la loro visione della disabilità. Il commentario è
spesso accompagnato da toni eccessivamente gentili o compassionevoli.
10. Nota non a margine: il termine “loro” appare come una costante
in queste conversazioni, ed è un inconsapevole marcatore di distanza. O
se si vuole, è un infelice e ridicolo paradosso, perché il tentativo – con
“loro” – non è di indicarli in malo modo, ma anzi è di provare a dargli un
valore, un significato esistenziale che evidentemente continua a sfuggirgli
di mano.
L’utente al tempo dei soggiorni estivi 159

ziona, lo stato sociale c’è. E soprattutto, fa qualcosa al posto


mio. Non mi interessa stare con i disabili, ma lo Stato se ne
deve occupare. Un principio di sussidiarietà al contrario che
però mal si innesta con il presupposto relazionale alla base di
ogni principio di inclusione.
E lo Stato – attraverso il Servizio Sanitario Nazionale – in
effetti c’è. Nel periodo dopo Pasqua, gli Uffici Disabili Adulti
assumono quasi le sembianze di un tour operator. Si prendo-
no accordi con alberghi e strutture, ci si confronta tra colle-
ghi. Il lavoro è immane: si devono prima richiedere preferenze
di periodo tramite un apposito modulo, poi fare i gruppi. Di
solito i gruppi sono formati almeno da sei utenti e si cerca
di organizzarli nel modo più possibile omogeneo: un termine
osceno se pensato nella prospettiva delle persone; un termine
oggettivamente pratico se utilizzato secondo un mix tra cate-
gorie patologiche e conoscenza personale degli utenti.
Il compito di assegnare gli operatori agli utenti spetta alle
cooperative che gestiscono il servizio, e anche questo non è
un compito facile: un operatore che, per accompagnare un
solo utente a un soggiorno, si assenta per diversi giorni è un
operatore che va sostituito su gli altri utenti che segue e che
non partono in quel periodo, vanno fatti incastri, vanno con-
trattati eventuali rifiuti a partecipare. Insomma, si tratta di un
momento importante a livello di organizzazione interna, che
va visto e rivisto, a volte anche fino al giorno prima della par-
tenza (un operatore che si ammala, un utente che non parte
più).
Di fondo, possiamo dire che rispetto ai soggiorni estivi, la
cooperativa svolge un ruolo con una tensione più di tipo so-
ciale, lasciando formalmente quello sanitario al Servizio. Nel
senso che per la cooperativa, e per gli operatori, il soggiorno
viene percepito più come una vacanza, quindi con una valenza
di socializzazione, di divertimento. Il referente della coopera-
tiva telefona e rassicura i genitori che la struttura è bella, che il
luogo scelto è adatto: “Non preoccupatevi, è un bel gruppo”.
160 Stefano Onnis

Il Servizio, al contrario, ma sempre in un’ottica positiva,


rivendica formalmente il ruolo di soggiorno in quanto espe-
rienza riabilitativa, ribadendone l’importanza nelle sedi op-
portune e nella modulistica. Il Sistema Sanitario Regionale
non sta concedendo una vacanza premio agli utenti, ma pro-
muove un importante momento di monitoraggio e di verifica,
ed è per questo che vi partecipa sempre parte del personale
del Servizio.
Infine, gli operatori: anche loro si confrontano e si chiedono
“tu li fai i soggiorni quest’anno?”, ma rispetto agli utenti non
c’è la stessa sovraeccitazione, tutto viene visto più come una
cosa che va fatta, una proposta che è possibile rifiutare solo se
si è maturata una certa anzianità di servizio o per particolari
motivi. Una sorta di rito di passaggio: non si è un vero operato-
re se non si è fatto almeno un soggiorno. Perché effettivamente
i soggiorni estivi sono un’esperienza totalizzante ed estranian-
te, qualcosa che resta impresso. Per una decina di giorni si vive
assieme, con gli stessi ritmi, negli stessi ambienti: nascono rela-
zioni affettive, sessuali, ma anche antipatie e dissapori.
Quello che qui si vuole mettere in risalto è l’aspetto comun-
que positivo che ho rilevato non tanto nell’attesa o nel deside-
rio della partenza, quanto nel racconto del ricordo, proprio in
quanto esperienza fondante e totalizzante. Un’esperienza così
piena che nei racconti di chi ha partecipato ai primi soggiorni
estivi, quelli che addirittura duravano quasi un mese intero,
assume le forme narrative dell’epica: “Io c’ero”.

Dalla cooperativa mi chiamano per sapere se faccio i soggior-


ni. Non so cosa rispondere, o meglio vorrei rispondere: “Con
chi?”. Ma non con quali utenti: con quali operatori. Una con-
trodomanda, la mia, che potrebbe essere intesa male come ri-
sposta, e allora la prendo larga, chiedo degli utenti, così sembro
più professionale e al contempo cerco di capire se c’è qualche
operatore/operatrice di riferimento che mi piace. (Nota di cam-
po dell’Autore)
L’utente al tempo dei soggiorni estivi 161

Tutto bene, quindi? O meglio – per restare nel senso del


discorso – tutto positivo? Ed è una domanda che ovviamente
non è interessata alla scontata possibilità che un ingranaggio
con così tante figure, interessi e desideri in campo possa ogni
tanto incepparsi.
È una domanda da approfondire attraverso un’indagine et-
nografica, il cui senso vuole essere proprio quello di osservare
e rilevare se dietro le belle parole e le buone intenzioni – per
come queste ci appaiono – ci sia anche altro. O, a dirla tutta e
spoilerando la trama, se queste belle parole e buone intenzioni
non diano piuttosto agio al mascheramento di un inconsape-
vole, perverso e simbolicamente violento disconoscimento (e
lasciamo almeno qui in sospeso i nomi dei presunti colpevoli
e i loro moventi). Una patina positiva di buone prassi e belle
parole che è essa stessa forma e sostanza di un dispositivo di
potere atto a governare la vita di persone in quanto persone
con disabilità intellettiva e dei loro familiari.
Fino ad ora l’immagine dei soggiorni estivi ci è apparsa
come sostanzialmente positiva perché: è una spesa socio-sani-
taria, quindi collettiva, della comunità; è volta a favorire per-
corsi di inclusione e socializzazione; è volta a portare avanti
progetti riabilitativi già attivi durante l’anno; coinvolge nume-
rose figure professionali (operatori, assistenti sociali, psicolo-
gi, psichiatri); si svolge nell’arco temporale di una decina di
giorni in cui gli utenti si divertono fuori casa in un contesto di
villeggiatura, mentre i genitori hanno un po’ di sollievo nella
gestione familiare.
L’osservazione etnografica sul campo però permette di ve-
dere anche altri aspetti, in completa contraddizione con que-
sta immagine.

3. Seconda lettura, uno sguardo negativo

In realtà basterebbe partire dalle notizie di cronaca per in-


cominciare a insospettirsi della positiva vulgata comune ed
162 Stefano Onnis

accorgersi che ogni anno ne esce fuori più di una: appalti di


gestione del servizio vinti da cooperative che “non conoscono
i ragazzi”, con conseguente preoccupazione dei genitori; mes-
sa in forse della conferma dei soggiorni, perché “non ci sono i
soldi”; riduzione dei giorni effettivi di durata del soggiorno –
si pensi che inizialmente duravano circa un mese e oggi stiamo
sugli otto giorni; difficoltà organizzativo-logistiche lamentate
dai genitori a cui i responsabili rispondono che “siamo sotto
organico”.
La lista è lunga, e come si può facilmente immaginare, dalla
mera cronaca dei quotidiani si passa alla quotidianità delle
famiglie, alle ansie, alle arrabbiature, alla giusta incapacità di
comprendere perché ogni anno esca fuori un problema e non
si possa usufruire tranquillamente di un servizio, o, a dirla
meglio, di poter esigere il diritto a un servizio.
In questa tensione, le famiglie incominciano a porre ri-
chieste al Servizio, che, in difficoltà nell’accoglierle e sotto
pressione per cause non dipendenti dalla propria gestione,
incomincia a fare muro. Se un genitore reclama una villeg-
giatura al mare perché preferita dal figlio rispetto alla mon-
tagna, la risposta assume le sembianze del potere burocrati-
co: “Questi sono soggiorni riabilitativi, non una vacanza”.
E lo stesso vale per chi richiede di poter spostare il pro-
prio figlio in un altro gruppo, dove ci sono suoi amici: le
esigenze pratico-organizzative, di fronte a criticità esterne
allo stesso Servizio, diventano necessariamente più urgenti
delle esigenze degli utenti, i quali improvvisamente si sento-
no sempre meno utenti che possono usufruire di un servizio
e sempre più – per restare nella radice etimologica - utilizzati
dallo stesso.
Le vittime principali in questi casi sono i genitori: quelli che
avanzano pretese, o meglio che rivendicano diritti, corrono il
rischio di venire implicitamente sfavoriti. E questo è un pun-
to fondamentale per l’analisi: quello che dovrebbe essere un
diritto, può essere invece pensato e posto come favore – da
L’utente al tempo dei soggiorni estivi 163

richiedere, da una parte; da concedere, dall’altra – connotan-


do di una violenza simbolica11 tutto il sistema, tutto il campo.
Uso il termine violenza simbolica proposto da Pierre Bou-
rdieu in un’accezione però particolare, perché la maggior par-
te dei genitori, questo ruolo di vittima delle Istituzioni non
lo ha inconsapevolmente incorporato anche se in realtà lo
indossa in modo impeccabile. Per essere più chiari: ero con-
vinto che molti genitori non si accorgessero di questa violen-
za, e in questo senso la ritenevo simbolica, proprio perché
incorporata. In realtà, i miei informatori indigeni sono molto
consapevoli della realtà e sanno di star recitando una parte,
un ruolo, sanno che devono fare “i buoni genitori”, “i buoni
utenti”, altrimenti il rischio di perdere quanto acquisito negli
anni è alto. Si tratta quindi di un ruolo altamente strategico
nel campo.

“Domani vado a chiedere spiegazioni alla Asl”, mi fa un pa-


dre visibilmente scocciato. Il figlio, con un ritardo mentale non
particolarmente grave, partirà in un gruppo che un pezzo alla
volta è stato ricomposto e ora ci sono utenti molto più gravi
di prima. “Delle due, l’una: o Valentino lo lasciano partire in
questo gruppo perché si è aggravato negli ultimi giorni, oppure
questi sono una manica di incapaci”, e lo dice con evidente di-
sprezzo. Un disprezzo che, conoscendo il padre, terrà per sé di
fronte a loro. (Nota di campo dell’Autore)

È importante qui sottolineare anche un altro aspetto: chi


esercita questo potere arbitrario non lo mette in atto, tranne

11. Con il termine “violenza simbolica” Bourdieu intende un potere


che agisce in modo non evidente, che non sembra tale, in quanto incor-
porato dagli attori sociali, in particolar modo dalle vittime che subiscono
la violenza ma non percependola come tale. In realtà, come dovrebbe
emergere da questa rappresentazione, in questo caso la non percezione
della violenza è soprattutto da parte di chi la crea che da parte degli utenti
stessi o, ancor di più, dei loro familiari.
164 Stefano Onnis

in rari casi, con consapevolezza, o, per dirla in modo sempli-


ce, con cattiveria.
Il personale del Servizio avvia inizialmente la macchina con
entusiasmo e partecipazione, o al minimo con un basico impe-
gno professionale, ma si scontra da subito con la (sovra)struttura
burocratica. Anche qui si delinea un senso di impotenza e di fru-
strazione: “Siamo un Servizio di serie B”, mi viene detto facendo
notare con amara ironia che lo stesso Servizio Disabili viene con-
siderato “handicappato” all’interno del sistema sanitario. E così
l’équipe si sente ingiustamente sotto il fuoco amico, giudicata
non per come vorrebbe operare ma per come è costretta a farlo.
E la strategia dei personaggi del Servizio si arrocca in una torre di
difesa che genera vittime contro la propria volontà.
A proposito di vittime, un aspetto che vorrei ulteriormen-
te mettere in evidenza è la percezione reale degli utenti. Se
si prova ad andare oltre l’euforia di cui parlavo inizialmente,
emerge invece spesso una certa insoddisfazione, soprattutto
per le routine dell’organizzazione quotidiana durante i sog-
giorni estivi. D’altronde si tratta di muovere un gruppo com-
plessivo di dodici-quindici persone, e quindi gli orari devono
essere comuni, le scelte delle attività devono andare bene per
tutti, anche se purtroppo si è andati in montagna con un “car-
rozzato”. La differenza nei soggiorni estivi, per gli utenti, la
fanno gli animatori locali: se sono capaci e si sanno rapportare
in modo diretto, il soggiorno lascia un bel ricordo, altrimenti
è tutto molto noioso. Ed è quindi la dimensione ludica – non
altro – a essere la cartina di tornasole per un disabile cognitivo
adulto. Oltre ovviamente alla possibilità di mangiare bene. La
cura da parte del personale a convogliare l’attenzione degli
utenti anche su altri aspetti, culturali, paesaggistici, l’ho vista
solo in casi eccezionali. Di norma, non viene proprio presa in
considerazione, e d’altronde andrebbe coltivata durante l’an-
no, perché altrimenti è questione a dir poco ostica. La pato-
logia si concentra su bisogni primari – il mangiare su tutti – e
non c’è bellezza di una chiesa o di un tramonto che tenga.
L’utente al tempo dei soggiorni estivi 165

Decidiamo di fare una piccola gita e andiamo in un parco ar-


cheologico, dove c’è un lago con una cascata immersi nella natu-
ra. Un piccolo eden. Appena arrivati Emiliano si è sdraiato sotto
l’ombra di un albero e non sembra molto attratto dallo scenario.
“Emi, vieni qui, dai, è bellissimo, l’acqua è fresca, ma non fred-
da!”. A forza riesco a convincerlo ad alzarsi, si avvicina, si bagna
i piedi. “Non è bellissimo?”, gli chiedo convinto. Grugnisce un
“sì” dentro a un sorriso forzato e torna indietro verso il suo di
eden, un po’ più ombrato del mio. (Nota di campo dell’Autore)

Il fatto però è che anche l’utente recita una parte, quella


di chi è assuefatto a una data realtà e – particolare di non
poco conto – di chi è imbrigliato in un ruolo silente e di non
valore. I genitori, onde evitare possibili e sempre in agguato
ripensamenti, si sforzano di “fargliela prender bene”, carican-
doli di input enfaticamente positivi. Così come il personale
socio-sanitario, nell’impossibilità di interrogarsi e interroga-
re gli utenti sulla reale soddisfazione si accontenta di una ri-
sposta tendenzialmente a comando: “Siete stati bene, no?”.
D’altronde viene facile giustificarsi dietro le difficoltà comu-
nicative dettate dalle patologie di tipo cognitivo e trincerarsi
dietro un appagante “i ragazzi sono stati bene”, che in realtà
però non è altro che la manifestazione di un pensiero comune
tanto ai genitori quanto agli operatori, tanto all’équipe socio-
sanitaria quanto al villeggiante: sono disabili intellettivi, cosa
puoi aspettarti, cosa possono volere di più?
E così, come in una profezia autoavverante, uno dei mo-
menti tanto attesi per “i ragazzi” diventa la baby dance, la
possibilità di scatenarsi in pista subito dopo cena. Con una
fisicità spesso esagerata, parossistica, senza filtri, che di fronte
a un pubblico di bambini – e dei loro genitori in stato di al-
lerta – andrebbe decisamente rivista all’interno di un discorso
sull’inclusione e sulle necessarie premesse relazionali nell’in-
contro con l’altro, e non buttata così nella mischia. Senza te-
ner conto poi della facile equazione “disabili = bambini”, su
cui ci sarebbe molto da dire.
166 Stefano Onnis

Rispetto a questo punto voglio qui almeno accennare all’at-


teggiamento degli operatori nei confronti di chi invece è fon-
damentalmente una persona adulta e verso cui vengono as-
sunte forme di controllo che scadono spesso nel potere del
dominus.
Il non poter/voler seguire le inclinazioni spontanee del sin-
golo utente, racchiudendolo nelle esigenze di gruppo, spesso
porta a nervosismi, se non a vere e proprie crisi emotive. Re-
sponsabile nel gestire queste crisi è l’operatore che, quando
conosce bene l’utente, sa come prevenirle, o al massimo argi-
narle (in qualche caso purtroppo anche in un modo eccessiva-
mente plateale, volto a mostrare al pubblico – agli altri opera-
tori, al responsabile, agli avventori della struttura – che lui sa,
detiene il potere, di come far superare la crisi, non curante – o
forse molto consapevole – di mettere in mostra questo sottile
gioco perverso).

A Valeria a un certo punto è presa una crisi, proprio a tavola.


Ha incominciato a buttare piatti e bicchieri per terra e allora
l’operatrice è intervenuta con forza. L’ha presa con decisione e
l’ha messa a terra. Ci si è seduta sopra, trattenendole le braccia
e, al contempo, dicendole di stare calma. Glielo diceva senza
urlare, con fermezza e decisione. Valeria dopo poco si è ripresa
e sono uscite fuori. È intervenuto subito un cameriere per levare
i cocci e gli avanzi da terra, come a cancellare le prove di quanto
successo sotto lo sguardo attonito e preoccupato degli altri vil-
leggianti. (Nota di campo dell’Autore)

Altra faccenda è quando l’operatore non conosce bene l’u-


tente, o non lo conosce affatto. Per tranquillizzare le famiglie,
con gli operatori nuovi sono (teoricamente) previsti due/tre
incontri conoscitivi. Ma star fuori per diversi giorni è altra
cosa da qualche ora passata assieme prima di partire. E così
il mandar fuori il proprio figlio con un operatore sconosciuto
ovviamente non fa star per niente tranquillo il genitore, e an-
che il momento di sollievo diventa solo presunto.
L’utente al tempo dei soggiorni estivi 167

C’è comunque in generale una tendenza a non dare il giusto


valore alla figura dell’operatore, pur essendo nelle sue mani la
riuscita del soggiorno: dal compenso non adeguato (per una
presenza che nella sostanza è h24), alla conseguente scelta
di personale molto spesso privo di esperienza e competenze
specifiche, in piena contraddizione con il senso riabilitativo
dichiarato e a favore di una dimensione ludica e di una conce-
zione dei soggiorni come tempo da far passare, senza troppe
pretese.

“Che poi scusa, se al soggiorno ci mandano la figlia del coor-


dinatore, mi rode ‘na cifra, perché io mi sono formato e lei no!”,
mi racconta in modo accalorato un operatore rispetto all’abitu-
dine di coinvolgere un familiare della Asl o della cooperativa
come assistente. Provo a rispondergli con una difesa d’ufficio:
“Vabbé, però sono persone che conoscono bene i ragazzi, li
hanno già visti, sono persone di fiducia…”. Mi risponde netto:
“Oh, io ho studiato e loro mi stanno a prende il posto di lavoro.
Punto”. (Nota di campo dell’Autore)

Ed è proprio questa cornice di disvalore che può permette-


re agli operatori di agire senza un profondo significato e con-
seguentemente in una pericolosa e ambigua autonomia.
In un contesto che alla fine risulta così destrutturato (o peg-
gio, apparentemente e ambiguamente strutturato), gli opera-
tori non solo perdono il loro specifico orizzonte di senso, ma
possono implicitamente sentirsi autonomi, liberi di poter de-
cidere, di pensare di esser liberi nella relazione con l’utente,
con il rischio di poterlo “utentizzare” a proprio piacimento,
di potergli urlare, di punirlo, di trattarlo come un bambino,
di sgridarlo davanti a tutti, di ridicolizzarlo. Di entrare in una
relazione di potere arbitrario in cui la violenza, seppur non
fisica, rende fisicamente il corpo dell’utente nuda vita (Agam-
ben 1995).
168 Stefano Onnis

Nella sala da pranzo dell’hotel c’è un altro gruppo di disabili.


A un certo punto, dal loro tavolo, si sente un grido secco e forte.
È un operatore che urla a un utente di alzarsi da tavola, uscire e
darsi una calmata. Nella sala si crea il silenzio e tutti guardano
la scena. Il ragazzo si alza a testa bassa, esce e resta sulla soglia
della porta a vetri, farfugliando qualcosa, in attesa di un cenno
per ritornare a tavola. L’operatore guarda un suo collega e gli
sorride compiaciuto, come a dire: “Hai visto come si fa, eh?”.
(Nota di campo dell’Autore)

Gli operatori che assistono a queste forme di assoggetta-


mento, spesso non intervengono, lasciando l’atto educativo
(o presunto tale) alle modalità di ciascuno, salvo ovviamente
modalità estreme e particolarmente odiose. E poi – per chia-
rire meglio questo punto – non si tratta di comportamenti
spesso evidenti, e quindi più facili da censurare, ma di piccoli
atteggiamenti dispotici, di sottili e implicite contraddizioni
che di fondo manifestano il disconoscimento della persona in
quanto tale e il suo riconoscimento solo come vita non degna
di essere vissuta. Tutto ciò non avviene in ogni momento, e
anzi la difficoltà nel rilevarlo è che le situazioni si alternano a
momenti di svago, di ballo di gruppo, di giochi sulla spiaggia.
Ma sullo sfondo – coperto dal velo della formale cornice del-
la responsabilità – resta l’ambigua ombra del potere dell’atto
educativo, dell’arbitraria violenza di poter decidere quando
imporre divieti, senza nemmeno provare a venir incontro alle
richieste che emergono, senza nemmeno provare a immagina-
re nuove esigenze, nuove esperienze da scoprire, che poi sono
il sale di una qualsiasi vacanza per tutti.

A fine cena Alfredo allunga il braccio per prendere la coca-


cola. “Che stai a fa?!?”, lo sgrida innervosito l’operatore. “Ti ho
detto che ti fa male, ché poi la sera non dormi!”. Alfredo, con
uno sguardo languido, fa il gesto di allungare la mano, come a
dire “e dai, per favore”. Ma niente, l’operatore lo brucia con lo
sguardo, gli fa cenno di no con la testa e poi riprende a parlare
con un suo collega. E intanto si versa del vino nel suo bicchiere,
L’utente al tempo dei soggiorni estivi 169

e sarà almeno il terzo per questa sera. (Nota di campo dell’Au-


tore)

In tutto questo, “il pacco è servito”, come ha scritto un


utente di TripAdvisor, lamentandosi del fatto che la struttura
in cui alloggiava fosse piena di disabili12. Nel suo odioso com-
mento, l’utente ha manifestato il sentimento di chi pensa che
la disabilità debba stare al suo posto, e non andare in vacan-
za nei posti di villeggiatura, perché mette disagio, disturba lo
sguardo. Un pensiero che è stato subito fortemente criticato
dall’opinione comune, manifestando a favore di un principio
di inclusione e accoglienza, senza però fermarsi a riflettere se
questo principio sia reale o solo di facciata.
Viene da chiedersi, piuttosto, se questa postura così po-
liticamente scorretta non sia uscita fuori anche per come
culturalmente sono pensati i soggiorni estivi in termini di in-
clusione: alla fisicità della disabilità lo sguardo comune non è
(purtroppo) culturalmente abituato, e un gruppo numeroso
composto da più disabili non passa di sicuro inosservato, ma
anzi caratterizza il gruppo proprio in quanto “gruppo di di-
sabili”. Il fatto è che, credo per ragioni pratico-organizzative,
spesso capita che più gruppi, anche provenienti da diverse
ASL, frequentino la stessa struttura per alcuni anni. Mi è capi-
tato per esempio di andar via da un soggiorno mentre stavano
arrivando altri cinque gruppi di disabili. Tutto ciò ci riporta
così più alle colonie estive di una volta, e, certamente stigma-
tizzando le parole usate dall’utente di TripAdvisor, passi verso
l’inclusione sono però difficili da realizzare in questo modo.
Non si tratta ovviamente di definire improbabili quote “H”
per struttura o eugenetiche percentuali di disabili ammessi
sulla spiaggia. Ma è un dato di fatto, un’evidenza culturale e
sociale, che una presenza così massiccia di persone con disa-

12. https://www.repubblica.it/cronaca/2016/07/26/news/troppi_di-
sabili_nella_struttura_il_pacco_e_servito_sdegno_social_per_la_recen-
sione_ignobile-144853078/
170 Stefano Onnis

bilità intellettiva non è oggi ancora comprensibile in termini


di tensione inclusiva da parte degli altri villeggianti. C’è dietro
tutto ciò un senso logico, una strategia, o non ci si è nemme-
no posti la domanda? Proverò ad affrontare un giorno anche
questo punto, che al momento ho lasciato in sospeso.

4. Una terza lettura, il doppio vincolo del dis-positivo

Proviamo a tirare le somme. Da una parte, abbiamo un’im-


magine positiva dei soggiorni estivi in quanto servizi organiz-
zati e volti a favore di persone con disabilità, con un articolato
organigramma di persone e professionalità il cui orizzonte di
senso è la persona con disabilità quale utente al centro di un
servizio; dall’altra, un’immagine esattamente opposta, con in-
certezze operative, ambiguità di senso, scelte di potere arbi-
trario, violenze di tipo simbolico, favori invece che logiche di
diritto, disconoscimento dell’essere persona.
In scena, o meglio nel campo, i diversi personaggi mettono
in atto strategie, di attacco e di difesa, talvolta lasciando cor-
rere, comunque sempre portando avanti una messa in scena
che si ripete, uguale a sé stessa, salvo qualche rara occasione,
buona sola come eccezione alla regola.
È in questo cortocircuito narrativo che intravedo quello
che a me piace chiamare il “dis-positivo” (Onnis 2013), ov-
vero un dispositivo disciplinare à la Foucault che a livello di
discorso, di enunciazione, di retorica e parole nei confron-
ti della disabilità si mostra positivo, ma che nella pratica è
subdolamente negativo in quanto volto a desoggettivizzare le
persone in utenti, a renderli docili e a governare i loro corpi.
Un dispositivo di controllo volto a privare l’utente della possi-
bilità di rivendicare i suoi diritti, spostando l’attenzione sul bi-
sogno della quantità (il numero dei giorni o, ancor peggio, la
possibilità stessa dei soggiorni) e non della qualità dei soggior-
ni estivi. Ma è soprattutto un dispositivo foucaultiano perché
non vi è modo di identificare i responsabili. I personaggi si
L’utente al tempo dei soggiorni estivi 171

accusano a vicenda, infatti, ognuno secondo la propria più o


meno consapevole strategia, autoalimentando e autoregolan-
do il sistema stesso, inconsciamente consapevoli di recitare
una parte davanti a un pubblico, autore non accreditato di
questa messa in scena.
A queste condizioni, senza un adeguato capitolato di spesa,
la sceneggiatura inclusiva messa su carta fa acqua da tutte le
parti: l’équipe del Servizio non è messa nelle condizioni di po-
ter avere un personale congruo per attivare un serio progetto
riabilitativo; il più facile aspetto ludico prende il sopravvento;
gli utenti restano “i ragazzi”; gli operatori senza un orizzonte
professionale di senso si demotivano; una perenne stato d’ec-
cezione di fondo genera pratiche simbolicamente violente ed
arbitrarie.
In questa drammatica schizofrenia comunicativa – i detta-
mi di come si dice che debbano essere svolte le cose, e il come
queste vengono in realtà attuate – mi sembra quanto mai utile
il rimando al concetto di doppio vincolo proposto da Grego-
ry Bateson (1976): innanzitutto perché i due messaggi sono
comunicati assieme e sono di diverso tipo logico (le retoriche
stanno alle pratiche come il digitale sta all’analogico); ma so-
prattutto perché è la reiterazione di questo messaggio schi-
zofrenico che rende catatoniche le vittime, impossibilitate ad
agire su un piano di aderenza alla realtà e confinate piuttosto
in un mero personaggio di scena.

Avevo promesso di svelare colpevoli e moventi, ma, in con-


clusione, non ci sono dei veri colpevoli responsabili, e tutti ne
escono fuori come vittime.
Il motivo per cui tutto ciò accade credo che vada rintrac-
ciato in una visione comune e generalizzata – e sarebbe in-
teressante sapere se appartiene, in cuor suo, anche a chi sta
leggendo – che le persone con disabilità intellettiva non sono
affatto considerate come cittadini, ma solo come utenti e per
giunta di poco valore, assegnatari di un riconoscimento che li
invalida innanzitutto come persone. Ecco allora che il varcare
172 Stefano Onnis

la soglia di un Servizio Disabili Adulti diventa un vero e pro-


prio atto di istituzione13 (Bourdieu 1988) volto a formalizzare
l’imperativo categorico sociale: “Diventa ciò che sei”, ovvero
un utente disabile e non un cittadino, e in quanto privo di
diritti esigibili, un utente disabile docile e mansueto.
Questa panoramica di un frammentato ma sentito lavoro
etnografico nel campo dei soggiorni estivi credo non faccia
altro che confermare questa immagine, così come spero al
contempo che possa evidenziare la necessità di uno sguardo
etnografico nel variegato e complesso campo della disabilità.

Marina di Montalto di Castro, Agosto 2020. Sulla spiaggia c’è


molto vento, il mare è mosso e siamo in pochi. Davanti a me ci
sono due bambini che giocano sulla battigia. Il più grande a vol-
te si tuffa, la piccola lo rincorre “a carriola”, camminando agile
sulle braccia con le gambe distese. Solo in seconda battuta mi
accorgo che le gambe sono molto, troppo esili, e allora capisco
che quello è il suo unico modo di camminare. Di questa strana
estate che volge al termine ho un ricordo che mi dà fiducia: mai
come quest’anno ho incrociato tante persone con disabilità in
villeggiatura. Tanto al mare quanto in montagna. Un paio di set-
timane fa stavo in un parco giochi in Alto Adige. “Papà come si
dice in tedesco ‘Per favore, mi fai passare sullo scivolo?’, perché
c’è una bambina che non ci fa passare. Gli abbiamo fatto pure
così! [fa con la mano il gesto di chiede di spostarsi]”, mi ha
chiesto mio figlio spazientito dall’incomprensione linguistica e
dalla lunga attesa. “Non è tedesca. È che lei non è una di tante
parole”, è intervenuto sorridendo il suo operatore, sollevandola
di peso, in modo gentile e professionale14.

13. Bourdieu definisce come riti di istituzione i riti che permettono


di “separare coloro che lo hanno subìto non tanto da coloro che non lo
hanno subìto, quanto da coloro che non lo subiranno in nessun modo e di
istituire così una differenza duratura tra gli interessati e i non interessati al
rito” (Bourdieu 1988:97).
14. Questa nota di campo ha dei riferimenti più precisi perché non è
stata scritta durante un soggiorno estivo, ma, a mo’ di chiusura, proprio
durante la revisione di questo testo.
L’utente al tempo dei soggiorni estivi 173

Riferimenti bibliografici

Agamben, Giorgio. 1995. Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita.


Torino: Einaudi.
Bateson, Gregory. 1976. Verso un’ecologia della mente. Milano:
Adelphi. Ed. or. 1972. Steps to an Ecology of Mind. Collect Essays
in Anthropology, Psychiatry, Evolution, and Epistemology. San
Francisco-London: Chandler Publishing Company.
Bourdieu, Pierre. 1988. I riti di istituzione. Pp. 97-107 in La parola e
il potere. L’economia degli scambi linguistici. Napoli: Guida. Ed.
or. 1982. Ce que parler veut dire. L’économie des échanges lingui-
stques. Paris: Arthéme Fayard.
– 1992. Risposte. Per un’antropologia riflessiva. Torino: Bollati Borin-
ghieri. Ed. or. 1992. Réponses. Pour une anthropologie réflexive.
Paris: Editions du Seuil.
Foucault, Michel. 1976. Sorvegliare e punire: nascita della prigione.
Einaudi: Torino. Ed. or. 1975. Surveiller et punir. Naissance de la
prison. Paris: Gallimard.
Onnis, Stefano. 2013. “Il dis-positivo. Dal diritto vigente alla nuda
vita delle persone con disabilità intellettiva.” Italian Journal of Di-
sability Studies / Rivista Italiana di Studi sulla Disabilità 1(1):109-
132.
Pistone, Francesca. 2019. “Situare la disabilità. L’“interpretazione
efficace” come possibile terreno operativo dell’antropologia nei
contesti sanitari.” AM Rivista della società italiana di antropologia
medica 47-48:111-143.
Finito di stampare
nel mese di dicembre 2020
da Digital Team - Fano (PU)

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