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B R U N I A N A & CA MP A NELLI A NA

Ricerche filosofiche e materiali storico-testuali

Con il patrocinio scientifico di:

Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo


e Storia delle Idee
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John Monfasani, State University of New York at Albany
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BRUNIANA
&
CAMPANELLIANA
Ricerche filosofiche e materiali storico-testuali

anno xx
2014 / 1

PISA · ROMA
FABRIZIO SERRA EDITORE
MMXIV
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e-issn 1724-0441
SOMMARIO
su machiavelli
Gennaro M. Barbuto, Leonardo e Machiavelli. Dignitas e indignitas
hominis 13
Francesco Bausi, Da Bernardo a Niccolò Machiavelli. Sui legislatori che
fecero ricorso alla religione (Discorsi i 11) 25
Romain Descendre, La ligne brisée, ou d’une écriture « extravagante »
   

(Le Prince, chap. ix) 35


Jean-Louis Fournel, Jean-Claude Zancarini, Le Savonarole de Ma-
chiavel : une lecture laïque et politique

47
Stefano Velotti, Mandragola una e bina 61

studi
Peter Andersen, De la devise de Bruno à la mort de Tycho Brahe 79
Claudio Moreschini, Francesco Zorzi e la pia philosophia : alcune  

ricerche sulle fonti 97


Giacomo Moro, In onore di Tommaso Campanella : i versi di Pierre de

Boissat e altri componimenti analoghi 115


Diego Pirillo, « Questo buon monaco non ha inteso il Macchiavello » :
     

Reading Campanella in Sarpi’s Shadow 129


Sandra Plastina, « Considerar la mutatione dei tempi e delli stati e de-

gli uomini » : le Lettere di philosophia naturale di Camilla Erculiani


   
145

testi
Armando Maggi, L’estasi neoplatonica alla luce della Controriforma :  

L’huomo astratto di Tommaso Garzoni 159

hic labor
note
Manuel Bertolini, La salmodia controversa. Note preliminari su un
testo di Antonio Caracciolo 189
Francesco Campagnola, Un Rinascimento giapponese : Hayashi Tat-

suo e la forma trascendentale di una nuova vita 199


Massimiliano Chianese, I corsi pomponazziani secondo i codici del-
la Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III di Napoli 209
Ennio De Bellis, Il De amore di Agostino Nifo e il concetto di cupidi-
tas nella riflessione aristotelica del xvi secolo 227
8 sommario
Hilary Gatti, Nuovi documenti sulla fortuna di Bruno nel periodo del-
l’Illuminismo europeo 239
Alessio Panichi, A proposito del cinquecentenario del Principe 251
Manuel De Carli, Donato Verardi, La laurea in artibus di Cesare
Rao. Con documenti inediti dell’Archivio di Stato di Bologna 259

kaspar schoppe e l ’ italia


Laura Balbiani, Klaus Jaitner sulle tracce di Schoppe 265
Alessio Panichi, Il Machiavelli di Schoppe 270
Chiara Petrolini, Schoppe e Venezia 273

voci enciclopediche bruniane


Ornella Pompeo Faracovi, astrologia 279

rassegne
Stefano Gattei, Nova Galilæana. Recenti studi sull’attualità di Galileo 291

cronache
I filosofi e il libero pensiero (secoli xvii-xviii), Napoli, 17-18 ottobre 2013
(Mariassunta Picardi) 299
« I’ allargo i miei pensieri ad alta preda ». L’infinito di Bruno tra caccia filo-
sofica e riforma religiosa, Trento, 7-8 novembre 2013 (Giulio Gisondi) 302
Il tempo del figlio. I filosofi e il Cristo all’inizio dell’età moderna, Viterbo,
Università della Tuscia, 25-26 dicembre 2013 (Stella Carella, Manlio
Perugini) 305

recensioni
Cusano e i Sermoni: 1. Una traduzione italiana dei Sermoni sul Dio in-
concepibile (Mariannina Failla) ; 2. L’etica nei Sermoni (Andrea Fiam-
ma) 309
Claudio Moreschini, Hermes Christianus : The Intermingling of Her-

metic Piety and Christian Thought (Guido Giglioni) 315


Alain Mothu, La pensée en cornue : matérialisme, alchimie et savoirs se-

crets à l’Âge classique (Michela Pereira) 318


Carlos Fraenkel, Philosophical Religions from Plato to Spinoza : Reason,

Religion, and Autonomy (Roberta Giubilini) 320


Pico della Mirandola, Oration on the Dignity of Man (Francesco
Bausi) 324
Paola Zambelli, Astrology and Magic from the Medieval Latin and
sommario 9
Islamic World to Renaissance Europe : Theories and Approaches (Guido

Giglioni) 326
Marco Forlivesi, La filosofia universitaria tra xv e xvii secolo (Marco
Sgarbi) 329
Pietro Pomponazzi, Tutti i trattati peripatetici (Massimiliano Chia-
nese) 331
Turning Traditions Upside Down : Rethinking Giordano Bruno’s Enlighten-

ment (Dagmar von Wille) 334


giostra 337
MANDRAGOLA UNA E BINA
Stefano Velotti
Summary
The Mandragola has been studied and analysed from countless points of view. Such
interpretations, however, fall schematically in two opposing fields. On the one hand,
it is viewed as a serious and bitter meditation on both the world it belongs to and
(human) nature, while on the other hand it is seen as an irresistibly funny comedy
aimed at depicting Florence and mocking its inhabitants ; a comedy which, through its

happy ending, communicates possible future opportunities for the exercise of ‘virtù’.
Through a re-elaboration of textual evidence, these notes aim at underscoring the
inseparable interrelationships of the two main interpretative lines of the comedy –
and its paradoxical intertwining of comic illusion and serious meditation, rebirth and
death, fertility and sterility – to argue that this twofold unity is the most adequate
perspective to grasp its sense.

1. Mandragola doppia

L a letteratura critica sulla Mandragola ha ormai assunto una dimensione


difficilmente padroneggiabile. Nella recente introduzione a un’edizio-
ne economica del testo, Rinaldo Rinaldi ha tentato di dar conto sintetica-
mente di un’opposizione tra le due linee interpretative principali e ha inti-
tolato il suo testo Mandragola doppia. 1 Credo che Rinaldi abbia ragione ad

stefano.velotti@uniroma1.it
Il titolo di queste note ricalca quello dato da Emilio Garroni a un suo libro di alcuni decenni
fa (E. Garroni, Pinocchio uno e bino, Roma-Bari, Laterza, 1975 ; 2a ed. 2010, con un’introduzio-

ne di G. Ferroni e una postfazione di F. Scrivano). Il motivo del titolo era giustificato, in quel
caso, innanzitutto dalle diverse fasi di elaborazione di Pinocchio, e dalla distinzione tra un Pi-
nocchio i e dalla sua rielaborazione in un Pinocchio ii . L’eventuale darsi di una Mandragola una
e bina non è certo riconducibile a vicissitudini compositive, ma a una duplicità paradossale
interna alla commedia stessa, come d’altronde, nel caso di Pinocchio, il primo getta un’ombra
persistente e decisiva, ai fini di un’interpretazione adeguata, sul secondo.
1  N. Machiavelli, Mandragola, a cura di R. Rinaldi, Milano, Rizzoli, 2010. In queste note
utilizzerò questa edizione. Rinaldi si avvale del testo approntato da P. Stoppelli, La Mandra-
gola : storia e filologia. Con l’edizione critica del testo Laurenziano Redi 129, Roma, Bulzoni, 2005,

senza però seguire integralmente il manoscritto laurenziano del 1519, ma tenendo conto, caso
per caso, anche delle argomentazioni dei precedenti editori, e dunque anche della editio prin-
ceps, databile al 1518, intitolata Comedia di Callimaco et di Lucretia. Quanto alla assai dibattuta
questione della data di composizione della Mandragola, Stoppelli si discosta dall’ipotesi più
tradizionale e affermata (tra il 1518 e il 1520), anticipandola al 1514. Su questa ipotesi e sull’edi-
zione di Stoppelli si può vedere la recensione di G. Inglese, « La Cultura », xliv, 2006, 1, pp.
   

167-170.
«bruniana & campanelliana», xx, 1, 2014
62 stefano velotti
attribuire questa divaricazione interpretativa a una « contraddizione » o a un    

« paradosso » che non starebbe tanto nella testa degli interpreti, ma nel testo
   

stesso. Data però anche la natura introduttiva delle sue pagine, non ci si
poteva aspettare un’articolazione di questo paradosso o di questa contraddi-
zione nel corpo della commedia, né l’elaborazione della sua ragion d’essere
e del suo modo di funzionare.
Intanto, può essere utile vedere il carattere delle ‘due Mandragole’ trat-
teggiate da Rinaldi. In « Mandragola i » non è difficile riconoscere alcuni
   

tratti – pur nelle differenze – della lettura che ne hanno dato, tra gli altri,
Benedetto Croce, 1 o Gennaro Sasso nei suoi innumerevoli e importanti

studi, o Giorgio Inglese in più occasioni : sarebbe, questa prima Mandragola,  

una commedia « che non fa ridere », cupa, in cui « ogni personaggio (manca
     

un vero protagonista) è mosso da istinti primordiali come il desiderio, l’uti-


le, la stoltezza, in un mondo dominato dalla natura e da forze a cui non si
può sfuggire, in assenza di ogni determinazione morale o ideale ». In altre  

parole,
[l]a commedia riproduce […] in piccolo lo spazio dei capolavori politici di Machiavelli,
ma lo presenta ormai come un eterno dato di fatto in cui non si può più suggerire
un’azione qualsiasi : deride insomma il suo stesso mondo, stravolgendolo con lucida

amarezza e rinunciando a tutte le illusioni. L’unica morale […] è allora quella della
conquista dello stato, di un guadagno o di una perdita del potere in cui si compendia
l’essenza stessa della politica. 2  

La « Mandragola ii » reimmette invece nel suo spazio i colori del quotidiano


   

e della contingenza, e si trasforma nella « commedia in cui si ride dei “casi”  

e delle stranezze del mondo impossibili da trasformare e quasi impossibi-


li da capire, ma offerti allo sguardo partecipe e quindi alla comprensione
umana dello spettatore ». Anche in questo caso, è possibile indovinare qual-

che nome a cui si potrebbe rimandare, fatte le debite differenze, da Luigi


Russo a Carlo Dionisotti a Giulio Ferroni. Riemerge, in queste prospettive,
l’umorismo di Machiavelli, beffardo e scanzonato, e con esso la centralità
di Firenze, « [l]uogo amatissimo […] che permette di sperare nell’eccezione

1  È proprio Croce, « maestro di cultura e di vita morale » che, secondo C. Dionisotti, Ap-
   

punti sulla « Mandragola », « Belfagor », xxxix, 1984, pp. 621-622, costituiva il bersaglio delle riser-
       

ve di Luigi Russo, da lui condivise, alla « vecchia critica dei romantici e poi dei positivisti, che

hanno sempre parlato di una farsa che nel suo fondo è una tragedia ». E aggiunge : « Appena      

occorre dire che in questione era il saggio del Croce sulla commedia del Rinascimento, ap-
parso nel 1930 (« Critica », xxxiii [sic, ma xxviii]) e poco dopo incluso in Poesia popolare e poesia
   

d’arte ». Lì si assisteva a una « deformazione tragica e moralistica », dovuta all’« incompatibilità


       

dell’Italia risorgimentale con quella del Rinascimento ». Oggi, che « quelle repulsioni e riserve
   

morali si sono […] attenuate, […] si è rafforzata per compenso la tendenza a considerare la
Mandragola appaiata al Principe », appaiamento che Dionisotti dichiara di non voler discutere.

2  R. Rinaldi, op. cit., p. v.


mandragola una e bina 63
alla regola […] insomma nel futuro, ovvero in un personale e collettivo “ri-
nascimento” ». Di qui anche la possibilità di letture allegoriche, e del potere

trasformatore del gioco e delle maschere, in cui « si rivela insomma un mon-  

do non chiuso ma aperto alla possibilità, non definitivamente cristallizzato


nell’immoralità ma trasformabile dall’imprevisto e dal progetto ». 1    

Assumendo come sostanzialmente corretto questo sdoppiamento della


Mandragola agli occhi degli interpreti e nel corpo stesso della commedia, re-
stano aperti diversi problemi : come si manifesta questa duplicità nel testo ?
   

È possibile cogliere l’unità della Mandragola senza cancellarne la duplicità (o


dovremmo rassegnarci a leggere ogni volta, esclusivamente, una « Mandra-  

gola i » o una « Mandragola ii ») ? In che modo si ingranano l’una nell’altra le


       

‘due Mandragole’ ? Quale rapporto le tiene insieme ? Non, infatti, di un com-


   

promesso tra le ‘due Mandragole’ si tratta, ma dell’unità della commedia


nella sua duplicità, nel suo offrire simultaneamente i due versi di una stessa
medaglia, che, solo nella loro relazione, ne costituiscono il valore.

2. Contrapposizione e sovrapposizione
Una scena che ha spesso colpito gli interpreti per la sua apparente superflui-
tà nel meccanismo a orologeria della Mandragola 2 è quella in cui appare per  

1  Ivi, p. xii.
2  È forse utile dare qui un breve promemoria della trama della commedia. Il prologo, in
versi, ci fa sapere che l’azione della commedia è ambientata a Firenze, e che narra di « un  

nuovo caso in questa terra nato », che è « cosa da smascellarsi per le risa ». Apprendiamo che
     

al centro dell’azione c’è un inganno e che « la favola Mandragola si chiama ». La quinta stanza
   

del prologo apre lo spazio di una meditazione personale : « E se questa materia non è degna/
   

per esser pur leggieri,/ d’un uomo che voglia parer saggio e grave,/ scusatelo con questo,
che s’ingegna/con questi van pensieri/fare el suo tristo tempo più suave,/ perch’altrove non
have/dove voltare el viso/[...] ». L’antefatto ci informa che il trentenne Callimaco, fiorentino,

rimasto orfano a dieci anni, è stato mandato dai suoi tutori a Parigi, da cui ha osservato la
rovina portata in Italia da Carlo VIII. Lì conduce una vita tranquilla, dividendo il suo tempo
tra piacere, studi e affari. Un giorno si accende una disputa sulla bellezza delle donne francesi
e di quelle italiane. Interviene un tal Camillo Calfucci, nipote di un « legista » fiorentino, Nicia
   

Calfucci, che descrive la bellezza incomparabile della fiorentina Lucrezia, moglie di Nicia.
Callimaco cade subito vittima di un innamoramento per fama, ed è posseduto dal desiderio
di possedere Lucrezia. Si reca a Firenze con il servo Siro, dove scopre che l’anziano, ma non
vecchio, Messer Nicia è posseduto a sua volta da un altro desiderio accecante, quello di aver
figli. Il desiderio della coppia di avere figli sarà infine ciò che permetterà a Callimaco di sod-
disfare il desiderio suo di possedere Lucrezia. Nicia è rappresentato come un uomo sciocco,
gretto e un po’ sinistro. Di questa limitatezza di Nicia si vale Ligurio, un mezzano messosi al
servizio di Callimaco. Con l’aiuto decisivo di Ligurio, Callimaco si fa passare per un famoso
dottore e assicura a Nicia che se Lucrezia berrà una pozione di mandragola, rimarrà incinta.
Ma la mandragola ha questo grave inconveniente : chi giace per primo con la donna che ne

ha bevuta una pozione muore entro otto giorni. Nicia si fa convincere facilmente che bisogna
trovare un giovane, un « garzonaccio », che si accoppi per primo con sua moglie e che di con-
   

seguenza sarà destinato a morire. A convincere Lucrezia provvedono il suo confessore, fra’
64 stefano velotti
la prima volta frate Timoteo, scena collocata approssimativamente nel mez-
zo della commedia (iii, 3), quasi fosse il suo perno. Il frate sta parlando con
una donna, una vedova. La vedova va di fretta, non ha tempo di confessarsi ;  

le basta essersi « sfogata un poco, così ritta ritta », senza neppure inginoc-
   

chiarsi, e aver dato al frate un fiorino di elemosina a compenso delle messe


recitate per l’anima del marito defunto.
Donna : E ancora che fussi un omaccio pure le carne tirono : io non posso fare non
   

mi risenta, quando io me ne ricordo. Ma credete voi che sia in purgatorio ?  

Frate : Senza dubio !


   

Donna : Io non so già cotesto. Voi sapete pure quello che mi faceva qualche volta.

Oh, quanto me ne dolsi io con esso voi ! Io me ne discostavo quanto io potevo, ma egli

era sì importuno ! Uh, Nostro Signore ! (iii, 3).


   

Ammirata per la sua vivacità e naturalezza degli interpreti ottocenteschi,


questa scena è stata chiarita per la prima volta, senza mezzi termini, da Rus-
so, nei suoi saggi machiavelliani degli anni trenta del Novecento. Su questa
scena è tornato poi Dionisotti, che ha cercato di chiarirla meglio e di com-
prenderne il ruolo nell’economia della commedia. 1 Qui veniamo a sapere,  

in sostanza, che il marito della donna, « l’omaccio », usava sodomizzarla, e


   

che la donna non è dunque sicura che l’anima di quello sia davvero in pur-
gatorio e non all’inferno. Ancora sensualmente e ambiguamente turbata
per le importunità del marito, di cui pure soffre la mancanza e la cui ani-
ma vorrebbe salvare, sembra improvvisamente cambiare discorso, quando,
subito dopo il breve dialogo, chiede a fra’ Timoteo se pensa che « ’l Turco  

passi questo anno in Italia ». Il motivo di questa domanda, apparentemente


casuale, si rivela invece una variazione sul tema già toccato della sodomia :  

la donna accenna, infatti, al timore di un’invasione turca solo per dire della
sua « gran paura di quello impalare ».
   

La scena si conclude rapidamente, e la vedova, apparsa in modo inaspet-


tato nel centro della commedia, non riapparirà più. Vedremo però che nella
scena successiva, quello stesso frate che si è appena dimostrato così indul-
gente a proposito della sodomia, si dirà disposto a promuovere un aborto e,
subito dopo, a farsi complice dello stupro, o della fecondazione fraudolenta
di Lucrezia.
Nel sottolineare questa sequenza, Dionisotti non mancava di notare l’ac-
costamento tra coito sterile e coito fecondo. Ma, alla domanda su quale

Timoteo, e sua madre Sostrata. Naturalmente è Callimaco travestito da « garzonaccio » che    

quella notte sarà nel letto di Lucrezia : la quale apprezzerà a tal punto l’inganno, che le appa-

rirà il segno di una disposizione provvidenziale, e finirà quindi per eleggere Callimaco, seduta
stante, non solo suo « signore, padrone, guida » ma anche « padre » e « difensore ». La comme-
           

dia si chiude con una cerimonia. Nicia, tutto felice, apre la propria casa a Callimaco, e vuole
che si porti Lucrezia « in santo », cioè che la si conduca in chiesa per un rito di purificazione.
   

1  C. Dionisotti, Appunti sulla « Mandragola », « Belfagor », xxxix, 1984, pp. 621-644.


       
mandragola una e bina 65
fosse « il significato proprio della scena e la sua ragion d’essere nella strut-

tura compatta della Mandragola », rispondeva senza esitare che significato e


ragione profonda stanno « evidentemente » nella « contrapposizione, in un


     

fulmineo scorcio, del coito o stupro innaturale e sterile, all’accoppiamento


naturale e fecondo che avvia e suggella l’azione della commedia ». 1 Credo si    

possa obiettare, tuttavia, che non sia davvero ‘evidente’ che si tratti senz’al-
tro di una contrapposizione, e non invece, o insieme, di una sovrapposizione.
Non è necessario, insomma, soprattutto in un’opera letteraria, in una « favo-  

la », che un accostamento di due concetti di significato opposto vada senz’al-


tro in direzione di una contrapposizione. Il ‘senso’ – anche inteso come la


direzione o l’orientamento della lettura – può essere deciso solo dai segnali
che il testo offre nella sua complessità, allargandosi via via al contesto in cui
sorge e che esso stesso aiuta a costituire come proprio contesto. Si potreb-
be dire, addirittura, che nella scelta tra i due concetti – contrapposizione o
sovrapposizione – sotto cui sussumere la sequenza sodomia-aborto-fecon-
dazione si concretizza uno dei luoghi in cui si gioca il senso stesso della
commedia, nel suo essere una e bina.
Vediamo intanto cosa ricavava Dionisotti dalla soluzione scelta, quella
della « contrapposizione ». Quella sequenza metterebbe in fila gli « anelli di
     

una stessa catena o collana » che, « [s]toricamente parlando, sono capitoli


   

consecutivi di quei confessionali o manuali giudiziari che ci aiutano oggi a


intendere nelle sue proprie forme, reali e immaginarie, una società molto
diversa dalla nostra ». 2 Questo, quanto al ricavo storico, per il quale si di-
   

rebbe che l’esistenza della Mandragola non sia poi indispensabile. Ma esiste
anche un altro risultato ? Sì, e arriverebbe – seguendo la logica esclusiva del-

la contrapposizione – in v, 4, quando Callimaco racconta la notte passata


con Lucrezia. Lì Dionisotti vedeva « il punto moralmente e artisticamente

più alto della commedia », in quanto la « bontà, ossia la vera e intiera felicità
   

è raggiunta solo nel momento in cui al piacere fornito dalla donna ignara,
che pure è stato piacere grande […] succede, affatto diverso, l’amore della
donna consapevole e consenziente ». 3    

3. Fertilità fa rima con sterilità


Torniamo alla scena della vedova a colloquio con Timoteo. Appena la don-
na si allontana, Timoteo è avvicinato da Ligurio accompagnato da Nicia,
il quale, su imposizione di Ligurio, deve fingere di essere sordo. Il motivo
esplicito di questa finzione è che Nicia non intervenga a sproposito, rovi-
nando il piano. Ma le parole con cui Ligurio ribadisce a Nicia di persistere
nella sua finta sordità forniscono un’indicazione non solo per l’azione della

1  Ivi, p. 633. 2  Ibidem. 3  Ivi, p. 635.


66 stefano velotti
commedia, ma per gli stessi spettatori e interpreti : « Oltre a questo, non    

vi dia briga che io dica qualche cosa che e’ vi paia disforme a quel che noi
vogliamo, perché tutto tornerà a proposito » (iii, 2). Che « tutto tornerà a
   

proposito » vale senz’altro per « tutto andrà come previsto » (come si dice
     

nel commento di Rinaldi), e il riferimento al modello dello Heautontimoru-


menos (826-28), segnalato nel commento di Pasquale Stoppelli, è senz’altro
pertinente. E lo è soprattutto perché Ligurio non si limita a ripetere le rac-
comandazioni del Siro di Terenzio a Clitofonte (« bada a non meravigliarti  

di nulla che si faccia, vieni assecondando quanto è necessario, fa’ quel che
ti comanda, parla poco »), ma proprio in quanto se ne discosta. I modelli di

riferimento sono tanto più preziosi quanto più mettono in rilievo gli scarti
– consapevoli o meno – che vengono introdotti da chi, presumibilmente, li
assume. L’assicurazione data da Ligurio sarà da intendere, allora, sì, nel sen-
so di ‘funzionale al proposito della mia (di Ligurio) tattica’ ; ma anche come  

‘funzionale al senso della commedia che voi spettatori state leggendo/ve-


dendo’. Nicia deve fingere di essere sordo ai fini dell’azione scenica, ma solo
perché è davvero sordo al senso di quell’accostamento che Ligurio farà di lì a
poco. Una sordità che non dovrebbe, però, colpire anche gli spettatori e gli
interpreti, che vengono così messi sull’avviso. 1  

Ricordiamo innanzitutto come si svolge l’inganno. Il compito di Ligurio


è quello di convincere, a suon di denaro, frate Timoteo, confessore di Lu-
crezia, a convincere a sua volta quest’ultima ad accoppiarsi con uno scono-
sciuto (Callimaco travestito da « garzonaccio »). Ma invece di andare subi-
   

to al sodo, Ligurio si inventa tutt’altra storia : dice a Timoteo che Camillo


Calfucci, nipote di Nicia, essendo vedovo, ha lasciato la propria figlia in un


monastero parigino, e che la fanciulla è rimasta incinta. Per evitare che le
monache, la fanciulla e l’intera casa dei Calfucci sia « vituperata », Timoteo    

dovrebbe convincere la « badessa che dia una pozione alla fanciulla per farla

sconciare » (iii, 4), cioè per farla abortire. E i beni che ne deriverebbero sa-

rebbero tanti, mentre l’unico male sarebbe l’offendere « un pezzo di carne  

non nata, senza senso, che in mille modi si può disperdere ; ed io credo che  

quello sia bene, – conclude Ligurio – che facci bene a’ più, e che e’ i più se
ne contentino ». E il frate accetta e benedice il piano : « Sia col nome di Dio !
       

Faccisi ciò che voi volete, e per Dio e per carità sia fatta ogni cosa. Ditemi el
munistero, datemi la pozione e, se vi pare, cotesti danari da potere comin-
ciare a fare qualche bene » (iii, 4).

È opportuno sottolineare alcuni indizi testuali che vanno nella direzione

1  Se Dionisotti sembra ostentare questa sordità, G. Aquilecchia, « La favola “Mandragola”  

si chiama » (1971), in Idem, Schede di italianistica, Torino, Einaudi, 1976, pp. 97-126, ipotizza che

la sordità di Nicia possa mimare quella del rizotomo che si tura le orecchie durante l’estrazio-
ne della radice di mandragola (ivi, p. 119).
mandragola una e bina 67
indicata, cioè quella di una sovrapposizione, e non di una contrapposizione,
dei termini della sequenza sodomia-aborto-fecondazione.
Innanzitutto, nei passi appena citati, prima Ligurio poi Timoteo, nomina-
no due volte una « pozione » per abortire. « Pozione » è la stessa parola che,
       

salvo la seconda volta che appare nella commedia, e poi quando viene usata
per indicare la miscela abortiva, viene ripetuta senza altre qualificazioni 1 per  

indicare la presunta bevanda di mandragola che, secondo credenze popolari


derivanti da una lunga tradizione, 2 fa « ingravidare ». Mi sembra improbabile
     

che l’uso dello stesso termine, impiegato indifferentemente per « sconciare »    

e per « ingravidare », possa essere casuale o innocente, giustificato solo dalla


   

sua genericità. Tanto più se si considera che i termini che Machiavelli pote-
va trovare in una delle sue fonti – il Novellino di Masuccio Salernitano 3 – a  

proposito dei rimedi delle monache alle loro indesiderate gravidanze, erano
altri : « medèle » (medicine) e « venenose bevande ». 4
           

In secondo luogo, Ligurio dice a Timoteo che se la fanciulla non aborti-


sce, la casa dei Calfucci sarà « vituperata » (iii, 4), e di « vituperio » poco dopo
       

(iii, 10) parlerà due volte Lucrezia all’idea di doversi accoppiare con uno
sconosciuto e di provocarne la morte pur di essere « ingravidata ». Qui la    

corrispondenza sembra smentire l’ipotesi : il vituperio, nel primo caso, si ab-  

batterebbe sulla famiglia Calfucci se la figlia di Camillo non abortisse, men-


tre, nel secondo caso, se Lucrezia si lascerà ingravidare e, presumibilmente,
partorirà. Ma è anche vero che l’uso dello stesso verbo sembra suggerire
un chiasma, che inserisce di nuovo aborto e fecondazione in un rappor-
to di corrispondenza : il ‘vituperio’ che si abbatte comunque sulla famiglia

Calfucci nel caso in cui una delle due donne partorisca. Nel primo caso, il
« vituperio » si rende evidente solo al mondo della commedia e dei suoi in-
   

ganni, nel secondo, agli occhi del mondo degli spettatori, che condividono
con tutti i personaggi (a esclusione di Nicia) la conoscenza del « vituperio » di    

Lucrezia. Contribuisce a costituire tale corrispondenza il fatto che è quello


stesso Camillo Calfucci – che, nell’antefatto parigino della commedia, con
la sua descrizione di Lucrezia, suscita il desiderio ‘per fama’ di Callimaco – a
essere il padre di una figlia che dovrebbe abortire. Inoltre, gli stessi trecento

1  ii, 2 ; ii, 6 ; iii, 12 ; iv, 1 ; iv, 3. In iv, 3, Nicia si riferisce alla pozione anche come a « la me-
         

dicina che ha a pigliare la donna », come è stato già notato da Aquilecchia nell’articolo citato.

Ma lo scopo di Aquilecchia nel sottolineare la presenza del termine generico « pozione » non    

è quello di far notare la sovrapposizione con la pozione abortiva, ma invece di sostenere il


ruolo-chiave, non pretestuoso, giocato specificamente dalla mandragola nelle sue peculiarità
estrattive e allegoriche, che quindi non potrebbe essere sostituita da una diversa e generica
‘pozione fecondativa’. 2  Cfr. ancora Aquilecchia, op. cit.
3  M. Bendinelli Predelli, Madonna Lucrezia fra Masuccio e Niccolò, « Letteratura Italiana  

Antica », iv, 2003, pp. 447-464.


4  Sono questi i termini che si trovano nel passo del Novellino (vi, 34-35) segnalati da Stoppel-
li nel suo commento a questa scena.
68 stefano velotti
ducati che Nicia – nell’ingannevole richiesta di Ligurio – sarebbe disposto a
dare a Timoteo perché acconsenta a far « sconciare » la ragazza, Nicia glieli
   

darà (iii, 4 ; v, 6) per aver convinto la propria moglie a farsi ingravidare da


un « garzonaccio ». Infine, a confermare questa sovrapposizione, sta il nome


   

« Calfucci », nome di una famiglia che a Firenze era estinta : secondo alcu-
     

ni commentatori, Machiavelli avrebbe scelto quel nome per non offendere


nessuno dei suoi concittadini – ma in tal caso, sarebbe bastato scegliere un
qualsiasi altro nome non esistente a Firenze, invece che quel nome che Dan-
te, nel xvi canto del Paradiso, menziona, con accenti ironici, per ricordare
una famiglia senza eredi.
Un ulteriore indizio, infine, è rintracciabile nel fatto che uno degli argo-
menti che userà Timoteo con Lucrezia per convincerla a bere la pozione
di mandragola per rendersi feconda è simile a quello usato da Ligurio per
convincere Timoteo a farsi complice dell’aborto : nel primo caso, si mette

a confronto quello che sarebbe un bene certo (la procreazione) a un male


incerto (la morte del « garzonaccio ») – attenendosi a « questa generalità, che,
     

dove è un bene certo ed un male incerto, non si debbe mai lasciare quel
bene per paura di quel male » (iii, 11) ; nel secondo, si mette a confronto la
   

quantità dei beni che ne risulterebbero, e la pochezza del male che ne de-
riverebbe, 1 in accordo questa volta con la massima secondo cui « quello sia
   

bene, che facci bene a’ più, e che e’ più se ne contentino » (iii, 4). Quanto al  

primo argomento, Carlo Ginzburg ne ha indicato la fonte nelle Quaestiones


Mercuriales del professore di diritto canonico Giovanni d’Andrea, libro pos-
seduto da Bernardo Machiavelli e che è probabile che Niccolò avesse letto.
Anche qui avremmo uno scarto rispetto alla sua fonte : in quel libro, infatti,  

la massima secondo cui « il male può essere consentito per due motivi : in
   

primo luogo, per il bene che ne può scaturire, in secondo luogo, per il male
maggiore che permette di evitare » è riferita all’usura, non all’aborto. 2 È ve-
   

ro che la pertinenza dello scarto rispetto alla fonte varrebbe tanto nell’ipote-
si della contrapposizione che della sovrapposizione, ma la somiglianza degli
argomenti usati in parallelo da Timoteo per l’aborto e per la fecondazione
suggerisce di nuovo una sovrapposizione.
La sequenza sodomia-aborto-fecondazione non si dispone dunque uni-
vocamente secondo un’opposizione tra i primi due termini e il terzo. È co-
me se Machiavelli disponesse le cose in modo tale che fertilità rimasse con

1  « Guardate, nel fare questo, quanti beni ne resulta : voi mantenete l’onore al monistero,
   

alla fanciulla, a’ parenti, rendete al padre una figliuola, satisfate qui a Messere, a tanti sua
parenti, fate tante elemosine quante con questi trecento ducati potete fare ; e dall’altro canto  

voi non offendete altro che un pezzo di carne non nata, senza senso, che in mille modi si può
sperdere » (iii, 4).

2  C. Ginzburg, Machiavelli, l’eccezione e la regola, « Quaderni storici », xxxviii, 2003, pp. 195-
   

213 ; vedi in particolare pp. 197-198.



mandragola una e bina 69
sterilità, di modo che la prima non trionfi sulla seconda cancellandola, né
viceversa.

4. Il vortice degli inganni e la radice di mandragola


Dopo che il frate si è detto disposto a sostenere l’aborto della nipote di Ca-
millo Calfucci, Ligurio trova uno stratagemma per dire che il suo aiuto è
inutile, il problema si è risolto perché la fanciulla ha avuto un aborto spon-
taneo. Il frate è deluso, aveva già assaporato la « limosina » che gli era stata
   

promessa. Ma Ligurio lo rincuora : la « limosina si farà » per una « cosa di mi-


       

nor carico, di minore scandalo, più accetta a noi, più utile a voi ». E lo mette  

al corrente dell’inganno ordito alle spalle di Nicia e di Lucrezia.


Timoteo si presterà al gioco, ma non prima di aver recitato davanti agli
spettatori un monologo che inizia con queste parole : « Io non so chi s’abbi
   

giuntato l’un l’altro », vale a dire, non so chi ha ingannato chi, e se è vero

che lui si rende conto di essere stato ingannato con la storia dell’aborto, è
anche vero che ne ricaverà il suo utile ingannando madonna Lucrezia, e lo
stesso Nicia, il quale lo aveva ingannato a sua volta, poco prima, fingendosi
sordo e, come si è accennato, restando davvero sordo all’inganno ordito da
Ligurio.
Sul tema dell’inganno non era certo la prima volta che Machiavelli riflet-
teva, né sarà l’ultima : « Da un tempo in qua io non dico mai quello che io
   

credo, né credo mai quello che io dico, e se pure e’ mi vien detto qualche
volta il vero, io lo nascondo tra tante bugie, che è difficile ritrovarlo », scrive-  

va a Guicciardini il 17 maggio del 1521. Ma il vortice degli inganni veniva già


menzionato nel prologo-argomento della commedia, dove si preannunciava
che una giovane accorta fu molto amata da Callimaco « e per questo ingan-  

nata/fu, come intenderete, ed io vorrei/che voi fusse ingannate come lei »,  

dove il doppio senso sulle gioie sessuali di Lucrezia augurato alle spettatrici
non cancella la cifra più generale dell’inganno che caratterizza l’intera com-
media. 1  

Perché la commedia funzioni, è necessario che qualcuno creda ai pote-


ri fecondativi della mandragola, e che il pubblico della commedia, se non
vi crede, creda almeno che qualcuno possa credervi. È stato Aquilecchia
ad ammonire gli interpreti a non dimenticare che « la favola Mandragola si

chiama ». 2 La credenza che questa pianta potesse rendere feconda una don-
   

na sterile è stata studiata in civiltà geograficamente e storicamente molto


diverse. E la stessa commedia potrebbe essere strutturata secondo il rito di
estrazione di questa pianta. Tra le infinite varianti di questo rito, Aquilec-

1  E si potrebbe menzionare anche la canzone che verrà aggiunta alla fine del terzo atto,
dove si dice che l’inganno è così soave che vince con i suoi « consigli santi/pietre, veneni e

incanti ».

2  G. Aquilecchia, op. cit.
70 stefano velotti
chia ricordava che ce ne è una particolarmente pertinente : poiché si credeva

che chi avesse estratto la mandragola con le proprie mani sarebbe morto, il
rizotomo si serviva di un intermediario, un cane. Dopo aver scavato intorno
alla radice, il rizotomo attaccava la pianta alla coda del cane e poi lo spaven-
tava, così che questo, correndo, portava a termine l’estrazione. La corri-
spondenza con la struttura della commedia machiavelliana sembra ovvia :  

Nicia è il rizotomo, Callimaco il cane, e Lucrezia la mandragola. Se questa


ipotesi venisse presa per chiave interpretativa della commedia, il risultato
sarebbe piuttosto esile. Ma il motivo della mandragola si trova anche nella
Bibbia, e vanta una lunga tradizione nei padri della Chiesa. Qui ricordiamo
solo che le radici delle mandragole – che avrebbero caratteristiche antropo-
morfe, anzi assomiglierebbero al corpo di un uomo senza testa – starebbero
a indicare le genti vissute nell’oscurità della terra, prive della testa della fe-
de, della rivelazione cristiana. In una variante interpretativa, si specifica che
prima dell’avvento glorioso di Cristo le nazioni avevano un capo solo appa-
rente, l’Anticristo. Da questi elementi, Aquilecchia trae la conclusione che
Machiavelli, oltre a sbeffeggiare le credenze superstiziose del volgo, stia pa-
rodiando, nella scena finale della commedia, anche l’interpretazione simbo-
lico-cristiana della mandragola. Ora avremmo una ‘Lucrezia-mandragola’ a
cui si sovrapporrebbe prima Nicia (capo solo apparente), quindi Callimaco
(capo reale o Logos divino). Ciò spiegherebbe il carattere iperbolico delle
parole che Lucrezia rivolge a Callimaco quando lui, travestito, le rivela, a
letto, la sua vera identità e il desiderio che l’ha spinto a ingannarla e posse-
derla : non solo Lucrezia lo elegge a suo « signore, padrone, guida », ma ad-
     

dirittura a « padre » e « defensore ». Questo riconoscimento, che a Dionisotti


       

pareva essere il trionfo della fertilità sulla sterilità e dell’amore consapevole


sul piacere bestiale, appare ora come una parodia di una veneranda simbo-
logia cristiana.
È evidente l’arricchimento apportato alla comprensione della complessi-
tà della commedia da questo contributo. E tuttavia, non si può dimenticare,
che nella commedia la mandragola e le credenze a essa associate non sono
solo occasione di parodia di credenze altrui, ma anche elementi e veicoli di
quel rapporto tra fecondità e sterilità che abbiamo visto emergere continua-
mente, e sul quale rapporto la riconduzione della struttura della Mandrago-
la ai riti di estrazione della pianta non dice molto, al pari delle altre letture
allegorico-politiche via via proposte nel tempo. 1 Proprio sul ruolo della cre-

denza nei poteri della mandragola bisognerà tornare in conclusione, dopo


aver gettato uno sguardo, però, sugli aspetti ‘luminosi’ e rigenerativi che si
sovrappongono a quelli più cupi messi in rilievo finora.

1  A cominciare da quella di Th. A. Sumberg, “Mandragola” : An Interpretation, « The Journal


   

of Politics », xxiii, 1961, 2, pp. 320-340.



mandragola una e bina 71

5. Rigenerazione e ripetizione
È noto che le origini della commedia greca sono da ricercarsi in rituali o fe-
ste di fecondità, nelle processioni e nei canti fallici. Sappiamo che anche nel
Rinascimento la stagione della commedia è il carnevale e che il carnevale
è legato a cerimonie di eliminazione del male e di purificazione, alla figura
del capro espiatorio, alla rinascita e alla rigenerazione della comunità che se
ne libera allontanandolo o uccidendolo, al riso che relativizza e capovolge le
gerarchie ufficiali, alla parodia di tutte le istituzioni. Analoghe considerazio-
ni valgono per i motivi del travestimento e della maschera, indici entrambi
di mutamento, di trasformazione. Sono considerazioni ormai note, specie
dopo la fortuna che hanno conosciuto in occidente gli studi di Michail Bach-
tin, e che diversi interpreti hanno già riferito alla Mandragola. Senza poter
entrare in un’analisi, da questa prospettiva, del ‘Machiavelli letterato’, basti
ricordare qui i Capitoli per una compagnia di piacere, un insieme di precetti
che, anche se limitati a una brigata burlesca di amici, sono tipici del ‘mondo
alla rovescia’ carnevalesco.
Come è noto, le prime messe in scena della Mandragola avvengono duran-
te il periodo di carnevale. 1 Si potrebbe anche ipotizzare che quando messer

Nicia (ii, 3), facendo l’inconsapevole parodia di se stesso, inveisce contro la


grettezza di Firenze, e si lamenta che « in questa terra non ci è se non caca-

stecchi », e chi non ha uno « stato » è costretto a perder tempo andando « a’


       

mortori, o alle ragunate d’un mogliazzo », si stia riferendo sì ai funerali e


ai matrimoni, ma, forse, anche al pubblico delle commedie lì convenuto.


Proprio nei Capitoli, infatti, « le feste et altre cose che si fanno per le chiese »
   

vengono accostate e allineate « ad tutti i desinari, merende, cene, comme-


die, veghie et altre chiachiere simili che si fanno per le case ». 2    

« In basso, alla rovescia, all’incontrario : tale è il movimento che caratte-


   

rizza tutte queste forme [di allegria festiva e popolare e del realismo grotte-
sco], che […] mettono a testa in giù, trasferiscono l’alto al posto del basso, il
didietro al posto dell’avanti, sia sul piano dello spazio reale che su quello meta-
forico ». 3 Sarebbe forse superfluo insistere ancora sui capovolgimenti, reali
   

e metaforici, presenti nella Mandragola, ma vale la pena citare ancora uno


dei precetti che troviamo nei Capitoli, per la sua corrispondenza oscena con
i tratti carnevaleschi messi in luce da Bachtin : « Sieno tenute le donne stare
   

i tre quarti del tempo tra le finestre et gli usci, o dinanzi o di dietro, come

1  La prima, probabilmente a Firenze, durante il carnevale del 1520, e poi ancora di sicuro a
Venezia, nel carnevale del 1522 e nel carnevale del 1526.
2  N. Machiavelli, Tutte le opere, a cura di M. Martelli, Firenze, Sansoni, 1971, p. 932.
3  M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione
medievale e rinascimentale, trad. it. di M. Romano, Torino, Einaudi, 1979, p. 407 (corsivo mio).
72 stefano velotti
pare loro ; et gli huomini di detta compagnia sieno tenuti a rappresentarsi

loro almeno xii volte il dì ». 1    

Se è tipico del carnevale stringere insieme morte e rinascita, l’ambivalen-


za carnevalesca di tale unione è pur sempre sbilanciata verso la rinascita,
verso la ciclica rigenerazione della vita. Nonostante questa dimensione di
‘rinascita generale’ sia evocata nella commedia anche mediante riferimen-
ti biblici, 2 il rapporto in cui Machiavelli stringe fertilità e sterilità ha una

tonalità diversa, rimanda a qualcosa di non assimilabile senz’altro all’am-


bivalenza fertile del carnevale. Innanzitutto, la rigenerazione dell’umanità
risulta del tutto sproporzionata al desiderio di Nicia di avere figli. 3 Quel suo  

desiderio, motore della commedia, è semmai prossimo allo sfondo di quei


valori tra il comunale e il borghese che troviamo espressi, per esempio, nei I
libri della famiglia di Leon Battista Alberti : l’accento cade sulla continuità del  

patrimonio, sul proprio interesse, sulla perpetuazione del casato. Così Nicia
appare gretto persino quando si commuove all’idea di « avere in braccio »    

un bambino, un « naccherino » (v, 2). A questo stesso sfondo si riferiscono


   

anche le parole che Sostrata, rimasta vedova, rivolgerà alla figlia Lucrezia,
quando cercherà di convincerla a passare una notte con un « garzonaccio »    

sconosciuto : « Lasciati persuadere, figliuola mia. Non vedi tu che una donna
   

che non ha figliuoli non ha casa ? Muorsi el marito, resta com’una bestia,

abbandonata da ognuno » (iii, 11).  

La scena finale può assumere sotto questo profilo una nuova rilevanza. Il
problema, lo ricordo, è questo : perché Nicia vuol far « menare » Lucrezia « in
       

santo » dopo la notte con Callimaco travestito, dato che questa cerimonia era

riservata alle puerpere che avevano partorito da quaranta giorni ? È stato acu-  

tamente suggerito che è proprio del carattere di Nicia, della sua stupidità, di
non saper vedere « la realtà effettuale della cosa », l’hic et nunc, la realtà che ci
   

sta davanti, e di anticipare con l’immaginazione gli eventi. 4 Non può sfuggi-  

re, però, che tutti i personaggi si adeguano a questo presbitismo di Nicia sen-
za manifestare stupore. E anche se si volesse vedere all’opera in questa scena
un doppio codice – uno che vale per il solo Nicia e forse anche per Sostrata,
e un altro che vale per tutti gli altri personaggi al corrente dell’inganno e per

1  N. Machiavelli, Tutte le opere, cit., p. 932.


2  Lucrezia : « Io ho sempre mai dubitato che la voglia che messer Nicia ha d’avere figliuoli
   

non ci facci fare qualche errore [...] ché io non crederei, se io fussi sola rimasa nel mondo, e
da me avessi a risurgere l’umana natura, che mi fussi simile partito concesso » (iii, 10). L’esi-  

tazione di Lucrezia viene vinta da Timoteo di lì a poco proprio con un esempio biblico che
richiama la sopravvivenza della specie umana : « Dice la Bibbia che le figliuole di Lotto, cre-
   

dendosi essere rimase sole nel mondo, usorno con el padre ; e, perché la loro intenzione fu  

buona, non peccorno » (cfr. Gn, 1, 30-37).


3  « [...] ho tanta voglia d’avere figliuoli che io son per fare ogni cosa » (i, 2).
   

4  D. Donadi Perocco, Il rito finale della « Mandragola », « Lettere italiane », xxv, 1973, pp.
       

531-537.
mandragola una e bina 73
gli spettatori – resta un fatto innegabile che nella commedia si celebra un
rito di purificazione che presuppone una nascita che non è avvenuta, che si
purifica una madre che madre (ancora) non è. Come nella scena dell’aborto,
dunque, anche qui Machiavelli salda la sterilità (quella di un parto non avve-
nuto) con la fertilità : « gli è proprio, stamane, come se tu rinascessi » (v, 5), di-
     

ce Nicia a Lucrezia, mentre il frate, per il quale promuovere un aborto o una


fecondazione fraudolenta non faceva molta differenza, si rivolge a Sostrata,
facendola protagonista, attraverso il paragone con un vecchio tronco da cui
spuntano nuove gemme, dell’ambigua rigenerazione generale. La vecchia
vedova, che da giovane era stata « buona compagna », è ora reinserita nel ci-
   

clo universale della vita : come nelle ornamentazioni grottesche, dove forme

di vita diverse si tramutano l’una nell’altra, viene paragonata a un vegetale,


a un vecchio ceppo, le cui radici affondano nella terra, nel regno dei morti e
nel seno della natura, che ora rinasce sotto altra forma, grazie alle protube-
ranze che, agli occhi o nelle parole di Timoteo, fuoriescono dal suo corpo. 1  

La nascita celebrata ma non avvenuta contribuisce tuttavia a gettare


un’ombra su questa rigenerazione. Se fertilità fa rima con sterilità, se la
morte a cui si rimanda è quella di un aborto, allora non è una morte assimi-
labile a una di quelle sue figure che troviamo nel carnevale : la « morte incin-    

ta », le forme di vita che trasmutano l’una nell’altra, la loro unione ciclica.


Se il carnevale è il ‘mondo alla rovescia’, qui assistiamo a un ulteriore rove-


sciamento, che non annulla il rovesciamento carnevalesco, ma lo compli-
ca, lo critica, lo rende illusorio e insieme indispensabile per scorgere la « realtà  

effettuale della cosa ». È per questo che non sono sufficienti le letture sem-

plicemente ‘carnevalesche’ della Mandragola. 2 È comunque il mutamento


governato dalla virtù individuale che interessa a Machiavelli, non quello dei
cicli naturali, che è governato dalle stagioni e dal tempo, ed è alleato della
fortuna ; ma al tempo stesso Machiavelli sa che la virtù di ciascun individuo

ospita un nucleo non virtuoso, naturale, insuperabile, 3 che trova qui una  

sua figura nella ciclicità carnevalesca, evocata e insieme non creduta. A vo-
ler usare un termine moderno, in cui va letta però anche una sfumatura
ciclica e naturalistica, una sorta di inflessibile ‘coazione a ripetere’.

1  « E voi, madonna Sostrata, avete, secondo che mi pare, messo un tallo in sul vecchio »
   

(v, 6).
2  Cfr. per es. W. A. Rebhorn, Foxes and Lions. Machiavelli’s Confidence Men, Ithaca, Cornell
University Press, 1988.
3  Su questi temi, il rimando più pertinente è ai numerosi lavori di G. Sasso, di cui qui
dobbiamo ricordare almeno, per gli scopi di queste note, Niccolò Machiavelli, vol. i, Il pensie-
ro politico, Bologna, il Mulino, 3a ed. 1993 ; Qualche osservazione sui « Ghiribizzi al Soderino », in
     

Idem, Machiavelli e gli antichi e altri saggi, t. ii, Milano-Napoli, Ricciardi, 1988, pp. 3-56 ; Idem,

Considerazioni sulla Mandragola, apparso prima come introduzione a N. Machiavelli, La


Mandragola, Milano, Rizzoli, 1980, poi, completo delle note, in G. Sasso, Machiavelli e gli anti-
chi e altri saggi, t. iii, Milano-Napoli, Ricciardi, 1988, pp. 56-122.
74 stefano velotti

6. Illusione e disincanto
Una buona parte degli interpreti, a cominciare almeno da Russo, ha visto in
Lucrezia un personaggio positivo, forse l’unica espressione, nella commedia,
di una machiavelliana virtù, riconducibile alla sua capacità di « mutazione » in    

accordo con le mutate circostanze. 1 Ma di che mutazione si tratta ? Davvero,


   

come dice il ‘presbite’ e ‘sordo’ Nicia, Lucrezia è rinata, ha cambiato natu-


ra ? Da un certo punto di vista il cambiamento è innegabile. Schiva, onesta,

chiusa in casa nel suo rapporto sterile con lo sterile Nicia, Lucrezia accoglie
ora il giovane Callimaco come suo signore. Ma Lucrezia ci è apparsa anche
come una donna che si adegua ad azioni che nel testo vengono sovrapposte
o rese equivalenti a un aborto. Il corpo di Lucrezia subirà delle trasforma-
zioni, il suo ventre si gonfierà, la sua natura si trasformerà come si trasfor-
ma tutta la natura, compreso il corpo grottesco di Sostrata, e tuttavia, da un
altro punto di vista Lucrezia era e rimane sterile, come gli altri personaggi
della commedia. Torniamo per un momento alla prima scena della Mandra-
gola. Prima di ingannare Nicia con lo stratagemma della pozione mandra-
golesca, Ligurio e Callimaco avevano pensato a un’altra strategia, che poi
abbandoneranno (anche qui una falsa pista, come quella dell’aborto, si rive-
la funzionale a dar forma al senso della commedia) : quella di spingere Nicia

a portare Lucrezia ai bagni termali. E la ragione è questa, dice Callimaco,


che « Potrebbe quel luogo farla diventare d’un’altra natura [...] Che so io ? Di
   

cosa nasce cosa, e il tempo la governa ». Rassegnata, prima, alla sterilità del

rapporto con Nicia, Lucrezia si rassegna, poi, a ciò che nasce dal tempo. 2  

Lucrezia continua a subire gli eventi : non cambia la sua natura, ma cambia

semmai con la natura. La lettera indirizzata a Giovan Battista Soderini, ri-


presa poi nel capitolo xxv del Principe – che è stata analizzata a fondo da Sas-
so e che riemerge nella sua lettura della Mandragola 3 – è qui fondamentale.

1  Si veda, per tutti, la posizione espressa per esempio in un articolo di J. A. Barber, The
Irony of Lucrezia : Machiavelli’s Donna di virtù, « Studies in Philology », 82, 1985, 4, pp. 450-459,
     

che si conclude sostenendo che « once seduced, Lucrezia takes charge of the situation, and

emerges as a true donna di virtù », in quanto « trough her own volition and through a positive
   

mutazione she regains control ». A letture di questo genere, compiute da altri studiosi, si è op-

posto con argomenti convincenti G. Sasso, Considerazioni sulla Mandragola, op. cit.
2  Inevitabile il confronto con un passo del terzo capitolo del Principe : « el tempo si caccia
   

innanzi ogni cosa, e può condurre seco bene come male, e male come bene ».  

3  Si tratta della lettera del 1506, nota come Ghiribizzi al Soderino (su cui vedi gli studi di Sas-
so citati sopra, p. 73, nota 3), di cui conviene almeno ricordare un passo, che restituisce un’an-
tropologia opposta a quella dell’uomo camaleonte proposta da Giovanni Pico della Mirandola :  

« E veramente chi fosse tanto savio che conoscesse i tempi e l’ordine delle cose, e accomodas-

sisi a quelle, arebbe sempre buona fortuna, o egli si guarderebbe sempre dalla trista, e verreb-
be a essere vero che il savio comandasse alle stelle e ai fati. Ma perché di questi savii non si
truova, avendo gli uomini prima la vista corta e non potendo poi comandare alla natura loro,
ne segue che la fortuna varia, e comanda agli uomini, e tiengli sotto il giogo suo ».  
mandragola una e bina 75
Scrivendo la Mandragola, e lo stesso Principe, Machiavelli mostra che ci si
può, sì, distanziare dalla propria natura particolare, ma solo per constatare
che non è possibile prenderne le distanze a proprio piacere. Sembra insom-
ma che la ciclicità dei mutamenti naturali possa essere spezzata con una
decisione che, se ci affranca dalla natura, non ne assicura però il possesso :  

ogni mutazione volontaria avviene all’interno del rapporto inestricabile tra


nascita di qualcosa di nuovo e ripresentarsi dell’identico. La ciclicità carne-
valesca, messa in scena senza che sia possibile avvertirvi un’adesione o una
fiducia da parte di Machiavelli, fa balenare la visione di una rigenerazione
universale, ma depotenziata, nei fatti, a una pseudociclicità fatta di ripeti-
zione e di stasi. Il mondo umano non è né sterile né fecondo, non si può
contare né sulla fecondità dei cicli naturali né sulle scelte individuali che li
vogliono spezzare con una cesura, un aborto, per impadronirsi, paradossal-
mente, della fecondità vitale. L’inganno della mandragola, con il suo carico
di credenze tradizionali e superstiziose, si rivela allora necessario alla stessa
opera di rivelazione di una realtà cruda e disincantata, senza che questa, pe-
rò, possa affermarsi come l’ultima parola della commedia : privata, infatti,

dell’illusione della mandragola e della vitalità carnevalesca, la commedia


non potrebbe neppure interrogarsi sulla realtà effettuale della natura e dei
rapporti tra gli uomini.
Sembra allora che nel cuore della Mandragola ‘una e bina’, non troviamo
tanto il trionfo dell’amore e del piacere sulla sterilità e la brutalità dei rap-
porti umani, né quello della virtù in formato ridotto e privato, e neppure
solo la parodia beffarda e distaccata di una superstizione popolare o di un’al-
legoria cristiana, o la fine di ogni illusione, quanto piuttosto un ripensamen-
to e un’esibizione, in forma drammatica (in forma di « favola »), di un sodali-
   

zio conflittuale tra illusione e realtà, fertilità e sterilità, della incontrollabile


affermazione della vita, con le sue necessarie illusioni, e della sua costante
insensatezza che le incrina e le disincanta.
STUDI
c o mp osto in car atter e dan t e m on ot y p e d a l l a
fabr izio serr a editor e , p i s a · r oma .
stamp ato e rileg at o n e l l a
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Maggio 2014
(cz 2 · fg 3)

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