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Schifanoia

Rivista semestrale · A Semi-annual Journal

Direttore · Editor
Marco Bertozzi

Comitato scientifico · Editorial Board


Angelo Andreotti ∙ Franco Bacchelli ∙ Marco Bertozzi
Francesca Cappelletti ∙ Paolo Fabbri ∙ Manuela Incerti
Andrea Pinotti ∙ Giovanni Sassu ∙ Alessandro Scafi
Paolo Tanganelli ∙ Roberta Ziosi

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Angela Ghinato
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Schifanoia
a cur a dell ’ istituto di studi rinascimentali
di ferr ar a

48 - 49 · 2015

pisa · roma
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2016
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S O M M A RIO

Marco Bertozzi, Andrea Pinotti, Presentazione 9

la “ melencolia ” di albrecht dürer


cinquecento anni dopo (1514-2014)
Atti del Convegno internazionale
xvii Settimana di Alti Studi Rinascimentali
(Ferrara, 4-6 dicembre 2014)

parte prima
Marco Bertozzi, Metamorfosi di Saturno: la “Melencolia” di Albrecht Dürer 13
Massimo Cacciari, Melencolia I: un simbolo 21
Claudia Wedepohl, Warburg, Saxl, Panofsky and Dürer’s Melencolia I 27
Saverio Campanini, Melencolia II. Gershom Scholem e l’Istituto Warburg. Un’indagine di
storia delle fonti e dei tipi 45
Elena Filippi, Melancholia, stupor, philosophia: Dürer, la sua Melencolia e l’inizio del pen-
siero come arte 63
Giovanni Maria Fara, Melencolia I di Albrecht Dürer nell’arte e nella letteratura italiana
tra xvi e xvii secolo 77
Alice Barale, «Collectione et quasi compressione»: Warburg e Benjamin in dialogo con Panof-
sky e Saxl 87

parte seconda
Stefania Santoni, Melancholia al femminile 97
Laura Antonella Piras, Effigies melancholiae: la poesia di Petrarca 105
Felice Gambin, Riscritture malinconiche in Spagna tra Cinque e Seicento. Da Andrés Velásquez
a Tomás de Murillo y Velarde 115
Stefania Iurilli, La Melencolia di Dürer. Dal quadro prospettico allo spazio tridimensionale 123
Tommaso Ranfagni, «Sublimium daemonum receptaculum». Proposta per un’iconografia
dell’anima nella Melencolia I di Albrecht Dürer 139
Donato Verardi, Il diavolo e Saturno. Due note a margine di Melencolia I di Albrecht Dürer:
Lutero ed Erasmo 149
Giacomo Mercuriali, Figura dell’inoperosità. La Melencolia I di Albrecht Dürer nel pensiero
di Giorgio Agamben 155

Indice dei nomi, a cura di Angela Ghinato 163


P R E S E N TA ZION E

A cinquecento anni dalla sua realizzazione, l’incisione Melencolia I di Albrecht Dürer non
cessa di interrogarci. Il pensiero, la parola tornano sempre di nuovo a cercare di penetrare
l’enigma dell’immagine (un’immagine complessa, composta di figure, ma anche di scritte e di
numeri). E questo enigma sempre di nuovo resiste alla definitiva soluzione, alimentando la ri-
cerca, stimolando lo studio.
Appoggiandosi a una secolare tradizione, che dai trattati aristotelici giunge fino a Marsilio
Ficino, i grandi interpreti dei primi decenni del Novecento – da Giehlow e Warburg a Panof-
sky-Saxl e Benjamin – hanno insistito sulla natura intimamente ambivalente, dialettica, di que-
sta immagine e del temperamento che essa rappresenta, strutturalmente vincolato al pianeta
Saturno. In particolare Warburg ci offre una sorta di mise en abyme della melanconia. Essa si con-
trappone polarmente alla mania, fissando con questa le estremità della gamma possibile delle
espressioni emotive dell’umanità, la cui vita affettiva può spingersi fino alla negazione della vita
altrui (omicidio), o – per converso – alla negazione della vita propria (suicidio). Come infrarossi
e ultravioletti dello spettro emozionale, questi due poli stabiliscono i confini ultimi dell’espres-
sività umana, all’interno dei quali si possono modulare infiniti cromatismi del pathos. Ma la
stessa melanconia è, al suo interno, polarizzata in un’antitetica immanente, che oscilla fra uno
stato sterile e funesto e una condizione benigna e produttiva, fra la tetraggine improduttiva e
la genialità creatrice.
Polarità nella polarità, dunque: il che determina il carattere costitutivamente simbolico (un
symballein di opposti) di questo temperamento e dell’incisione düreriana che lo raffigura. A que-
sto plesso in vibrante tensione interna è stata dedicata, nel dicembre 2014, la «xvii Settimana di
Alti Studi Rinascimentali» – appunto intitolata La “Melencolia” di Albrecht Dürer: cinquecento anni
dopo (1514-2014) –, promossa dall’Istituto di Studi Rinascimentali di Ferrara in collaborazione con
la fondazione Ferrara Arte e con i Musei di Arte Antica della stessa città. Dei lavori (che si sono
aperti nel Salone dei Mesi di Palazzo Schifanoia per poi proseguire nella sala conferenze di Pa-
lazzo Bonacossi), del loro ampio raggio e degli stimolanti orizzonti di indagine che si sono di-
schiusi per opera di specialisti e di giovani ricercatori, il presente volume rende testimonianza.
I lettori troveranno a convergere sull’incisione düreriana studiosi impegnati in differenti pro-
spettive disciplinari: filosofia (Marco Bertozzi, Massimo Cacciari, Alice Barale, Giacomo Mer-
curiali), storia dell’arte (Claudia Wedepohl, Elena Filippi, Giovanni Maria Fara, Tommaso Ran-
fagni, Stefania Santoni), storia delle religioni (Saverio Campanini, Donato Verardi), storia della
letteratura (Laura Antonella Piras, Felice Gambin), senza dimenticare la geometria (Stefania
Iurilli). Ma a contatto con l’opera di Dürer gli sconfinamenti tra le diverse discipline sono d’ob-
bligo, regola e non eccezione: Melencolia I è una formidabile occasione per eludere il regime di
sorveglianza di quell’occhiuta e sospettosa «polizia di frontiera» che Aby Warburg stigmatizza-
va proprio nel saggio dedicato a Palazzo Schifanoia. L’immagine dischiude e protegge uno spa-
zio del pensiero e della riflessione che si apre a una teoria e storia della cultura, senza altre spe-
cificazioni che non siano quelle dell’umano.
Marco Bertozzi e Andrea Pinotti
la “melenc olia” di albrecht dürer
cinquecento anni dopo (1514-2014)
Atti del Convegno internazionale
xvii Settimana di Alti Studi Rinascimentali
(Ferrara, 4-6 dicembre 2014)

PARTE PRIMA
Fig. 1. Albrecht Dürer, Melencolia I, bulino, 1514, 290 × 190 mm (Ferrara, Musei di Arte Antica,
Collezione Stampe, inv. 5/757).
M E TA M O R F O S I D I S AT URN O:
L A “ M E LE N CO LI A” D I ALBRE C HT D ÜRE R
M a rco B ertoz z i
Five hundred years later, the famous engraving of Albrecht Dürer, dedicated to “Melencolia”, still retains all its
expressive power and its symbolic richness. This enigmatic icon of modernity (of which our Museums of Ancient
Art retain a copy) shows us the genius of the artist represented in the moment of his creative meditation: a melan-
cholic and saturnine spirit, but tempered by the positive influence of Jupiter, represented by its “magic square”. The
image seems to mark the transition to the Modern Age, so full of doubts, of uncertainties and deep anxieties.
Aby Warburg (who made famous the astrological frescoes of Palazzo Schifanoia, with his memorable essay)
considered the masterpiece of Dürer “a sheet of humanistic support against the fear of Saturn”. From the circle of
Warburg’s school, then derived the well-known book, by Saxl and Panofsky, on the meaning of the engraving (1923),
a work later increased with the help of Klibansky, to become the monument of cultural history of the twentieth
century, Saturn and Melancholy. Studies in the History of Natural Philosophy, Religion and Art, published
in English in 1964, translated into Italian in 1983 and re-released in new edition, in 2002.

C inquecento anni fa, Albrecht Dürer creava la famosa incisione, uno dei suoi capolavori,
“Melencolia I”. Il nostro Istituto di Studi Rinascimentali ha deciso di dedicare le giornate
di alti studi a questo importante anniversario, dando inizio ai lavori nella suggestiva cornice del
Salone dei Mesi di Palazzo Schifanoia, luogo d’elezione per una tale circostanza. Intanto, co-
minciamo col dire che la favolosa incisione di Dürer, a cinquecento anni di distanza, mantiene
intatta tutta la sua potenza espressiva e la sua inesauribile ricchezza simbolica. I nostri Musei
di Arte Antica conservano una delle (non così rare) copie dell’originaria incisione, che – per
questa occasione – sarà esposta al pubblico nel Palazzo Bonacossi, dove proseguiranno i lavori
del convegno (Fig. 1).
Questa enigmatica icona della nostra modernità ci mostra il genio dell’artista rappresentato
nel momento della sua meditazione creativa: uno spirito melanconico e saturnino, ma tempe-
rato dalla positiva influenza di Giove, attestata dal suo “quadrato magico”, costruito con quat-
tro caselle per lato, in cui non solo la somma dei numeri delle linee verticali, orizzontali e obli-
que equivale sempre a 34, ma dove (fra le tante combinazioni) i numeri centrali della riga più
bassa corrispondono “magicamente” a 15 e 14, cioè 1514, l’anno stesso dell’incisione. La fonte di
Dürer risale ad un piccolo trattato arabo, tradotto in latino alla fine del xiv secolo, di cui l’artista
aveva ricevuto notizia dall’abate Tritemio. Un manoscritto che avevo avuto modo di segnalare
e trascrivere, nella parte riguardante il “quadrato magico” di Giove, diversi anni fa.1
Aby Warburg, come tutti sapete, ha reso celebri gli affreschi di Palazzo Schifanoia con la sua
memorabile relazione al x Congresso internazionale di Storia dell’arte (Roma, Accademia dei
Lincei, 1912):2 per ricordarne il centenario avevamo organizzato un convegno, che si era svolto
proprio in questo Salone, “I molti Rinascimenti di Aby Warburg”, i cui atti sono usciti sulla ri-
vista «Schifanoia» (vol. 42-43, 2012). Warburg considerava il capolavoro di Dürer «un foglio di

Marco Bertozzi, Università di Ferrara


1 Cfr. Marco Bertozzi, Mensula Jovis. Considerazioni sulle fonti filosofiche della Melencolia I di Albrecht Dürer, «I Castelli
di Yale. Quaderni di Filosofia”, 2, 1997, pp. 19-37; Idem, Nota sul quadrato magico di Dürer, ivi, pp. 37-44; Idem, Dürer e l’enigma
del quadrato magico. Ricerche sulle fonti filosofiche della Melencolia I di Albrecht Dürer, in Idem, Il detective melanconico e altri
saggi filosofici, Milano, Feltrinelli, 2008, pp. 53-72.
2 Aby Warburg, Arte italiana e astrologia internazionale nel Palazzo Schifanoia di Ferrara (1912), trad. it. in Marco Ber-
tozzi, La tirannia degli astri. Gli affreschi astrologici di Palazzo Schifanoia, Livorno, Sillabe, 1999, pp. 84-111 (testo) e pp. 112-
127 (note integrative di Elsbeth Jaffé sulle figure dei “decani”).
14 marco bertozzi

Fig. 2. Albrecht Dürer, Melencolia I, bulino, 1514, particolare: la “cometa”.

conforto umanistico contro il timore di Saturno». E dal circolo warburghiano di Amburgo era
scaturito il noto libro di Fritz Saxl ed Erwin Panofsky, interamente dedicato all’analisi e alla
interpretazione della “Melencolia I”, pubblicato nel 1923.1
Dopo la morte di Warburg (1929), la sua celebre Biblioteca fu costretta ad emigrare a Lon-
dra, nel 1933, a causa del nazismo. Il lavoro sulla “Melencolia”, in seguito, fu accresciuto e svi-
luppato con l’apporto di Raymond Klibansky, fino a diventare quel monumento di storia della
cultura novecentesca che tutti conosciamo, cioè Saturno e la melanconia, uscito in inglese nel
1964 (a causa, come troviamo scritto nella prefazione, della rallentante influenza di Saturno…
e della distruzione dei piombi di una tipografia tedesca durante la guerra). Il libro è stato tra-
dotto in italiano nel 1983 e poi ripubblicato nel 2002, con una nuova introduzione di Raymond
Klibansky, versione italiana della sua prefazione alla prima edizione in lingua tedesca, uscita
nel 1990.2 Dunque, da Warburg possiamo cominciare, per ricostruire l’interpretazione della
“Melencolia” di Dürer, a cui si darà ulteriore proseguimento nei prossimi interventi di questo
convegno.

1 Erwin Panofsky, Fritz Saxl, Dürers “Melencolia I”: Eine quellen- und typengeschichtliche Untersuchung, Leipzig-Berlin,
Teubner, 1923. Cfr. anche, di Erwin Panofsky, La vita e le opere di Albrecht Dürer (1955), Milano, Feltrinelli, 1979, pp. 203-222.
2 Raymond Klibansky, Erwin Panofsky, Fritz Saxl, Saturno e la melanconia. Studi su storia della filosofia naturale,
medicina, religione e arte, Torino, Einaudi, 2002 (nuova edizione ampliata). «In ognuna delle sue fasi, la preparazione del li-
bro fu ostacolata da ritardi e circostanze avverse. Dopo una lunghissima interruzione, dovuta agli sconvolgimenti politici
avvenuti in Germania e al fatto che gli autori dovettero emigrare da quel paese, il lavoro fu ripreso in Inghilterra. Nell’e-
state del 1939 le bozze definitive furono restituite alla tipografia che si trovava a Glückstadt, presso Amburgo; poco dopo
l’armistizio, nel 1945, si venne a sapere che i piombi erano andati distrutti durante la guerra. L’idea di far rivivere il libro
nella versione originale tedesca, andata distrutta, parve subito da scartare. Invece gli autori furono d’accordo di pubbli-
carne una traduzione inglese, da ricavare dal giro di bozze sopravvissuto dell’edizione tedesca. A causa della morte pre-
matura di Fritz Saxl, avvenuta nel marzo del 1948, la realizzazione di questo progetto subì un lungo ritardo» (ivi, p. xxxv).
metamorfosi di saturno: la “ melencolia ” di albrecht dürer 15
Nelle sue impegnative ricerche, Divinazio-
ne antica pagana in testi ed immagini dell’età di
Lutero (1920), Warburg sottolineava il debito
di riconoscenza nei confronti dei lavori
pionieristici di Karl Giehlow, l’amico della
scuola di Vienna, troppo presto scomparso,
che aveva scoperto come nell’incisione “Me-
lencolia I” di Dürer fosse messa in scena l’i-
dea di una congiunzione planetaria (Saturno
e Giove), una configurazione celeste favore-
vole alla cura dei sintomi perniciosi della me-
lanconia, secondo i dettami della medicina
astrologizzante del Rinascimento. Anche se,
dalla sua intuizione, Giehlow non aveva
osato trarre le estreme conseguenze, cioè Fig. 3. Il meteorite di Eisisheim oggi
(Museo della Città).
che il “quadrato magico” di Giove poteva
rappresentare un talismano anti-saturnino.1
Una confortevole soluzione, secondo Warburg, per esorcizzare e mettere a debita distanza
fobie ancestrali.
Saturno, l’antico demone planetario, il dio cannibale che divorava i propri figli, vecchio, len-
to, ottuso, terragno, si era nel tempo trasformato in “iuvans pater” (un padre amorevole, se-
condo le teorie di Marsilio Ficino), dispensatore di benefici doni a chi era destinato a nascere
sotto la sua influenza, ai nuovi figli d’elezione. Una metamorfosi attraverso la quale, per esem-
pio, la lentezza si trasforma in attività meditativa, che va in profondità, che scava nell’interiorità
e produce il genio pensieroso all’opera.2
Tale pensierosa genialità è frutto di una lotta astrale, secondo Warburg, tra Saturno e Giove
(congiunti nel segno della Bilancia, dove Saturno trova la sua “esaltazione”), che danno luogo
alla “melencolia generosa”: una “melencolia” sublimata e spiritualizzata da una favorevole di-
sposizione rappresentata dalla simbologia dell’incisione. Si stagliano, nella parte più alta del fo-
glio, una cometa “saturnina” dai riflessi esplosivi e radianti,3 uno stridente pipistrello (tipico

1 Aby Warburg, Divinazione antica pagana in testi ed immagini dell’età di Lutero (1920), in Idem, La rinascita del pagane-
simo antico, a cura di Gertrud Bing, Firenze, La Nuova Italia, 1966, pp. 309-390.Warburg si riferiva ai testi di Karl Gieh-
low, Dürers Stich “Melencolia I” und der maximilianische Humanistenkreis, «Mitteinlungen der Gesellschaft für vervielfälti-
gende Kunst”, 2, 1903, pp. 29-41; 3, 1904, pp. 6-18; 4, 1904, 57-78.
2 Le fonti filosofiche della “Melencolia I” si trovano già, come ho cercato di dimostrare, negli scritti di Marsilio Ficino
e il “quadrato magico” di Giove non può certo dipendere dal De occulta philosophia (1533) di Enrico Cornelio Agrippa, anche
per una ragionevole questione di date, dato che nel manoscritto di Agrippa (1510) non compaiono ancora i “quadrati ma-
gici” (vedi nota 1 di p. 13). Sulla “facies” melanconica risalente ai testi dello pseudo-Ippocrate, cfr. Marco Bertozzi, Me-
lanconie astrologiche. Indagine sul frontespizio di The Anatomy of Melancholy di Robert Burton, in Idem, Il detective melanco-
nico, cit., pp. 73-83. Sul capitolo dedicato alla melanconia del Dramma barocco tedesco di Walter Benjamin, che ha come fonti
Giehlow, Warburg e il testo di Panofsky e Saxl del 1923, cfr. Idem, Walter Benjamin e le metamorfosi di Saturno, ivi, pp. 84-94;
Idem, Walter Benjamin: un melanconico allievo di Aby Warburg, «Aisthesis», 2, 2010, pp. 81-89.
3 Sembra ormai accertato che Dürer, nella raffigurazione della sua cometa (Fig. 2) e della misteriosa pietra cubica, ab-
bia inteso rievocare il famoso meteorite, di circa 135 chili, caduto il 7 novembre 1492 a Ensisheim, località nei pressi di Ba-
silea (Fig. 3). Proprio a Basilea, nell’autunno di quello stesso anno, egli si era recato per lavorare alle illustrazioni della
“Nave dei folli” (Das Narrenschiff) di Sebastian Brant, che aveva poi diffuso fogli volanti, in cui veniva rappresentato (in
mezzo a fiamme e fuoco) il terrore “apocalittico” suscitato dal memorabile evento (Fig. 4). Nel retro del San Girolamo pe-
nitente (1494) di Dürer (Fig. 5), che si trova ora presso la National Gallery di Londra, l’artista aveva tracciato uno “schizzo”
della deflagrazione del “corpo celeste”, che ritroviamo anche nel Martirio di Santa Caterina (xilografia di fine Quattrocen-
to) (Fig. 6) e nel celebre bulino di inizi Cinquecento La strega (Fig. 7). Cfr. Fedja Anzelewsky, Albrecht Dürer. Das male-
rische Werk (1971), Berlin, Deutscher Verlag für Kunstwissenschaft, 1991, p. 129; Hartmut Böhme, Dürer “Melencolia I” dans
le dédale des interprétations, Paris, Biro, 1990, pp. 30-35; sul meteorite di Ensisheim, cfr. Ingrid Rowland, A contemporary
account of the Ensisheim meteorite, 1492, «Meteoritics», 25, 1990, pp. 19-22; Ursula Marvin, The meteorite of Ensisheim: 1492
to 1992, «Meteoritics», 27, 1992, pp. 28-72 (su Dürer, pp. 37-40). Cfr. anche, Claude Makowsky, Albrecht Dürer, Lucas Cranach:
Melancolie(s), Paris, Somogy, 2012.
16 marco bertozzi

Fig. 4. Sebastian Brant, De fulgetra anni xcii , foglio volante, stampato da Johann Olpe,
Basilea, 1492, particolare: illustrazione della “pietra” caduta presso Eisisheim.

animale notturno, nonché “saturnino”) che regge il cartiglio con la scritta “Melencolia I”, un
“quadrato magico” (di Giove) e una Bilancia (facile allusione alla omonima costellazione
zodiacale). Si tratta della melanconia di Scipione o, ancora meglio, quella “generosissima” di
Augusto, che nel suo oroscopo aveva proprio Saturno e Giove congiunti in Bilancia.1
Secondo Warburg, all’accidia (ereditata dal pensiero medievale) è ora insufflata una nuova
linfa vitale, dovuta alla riattivata conoscenza degli antichi autori. La cosiddetta “melanconia
dell’uomo di genio” (Problemata xxx, 1, testo attribuito ad Aristotele o, comunque, opera di
un suo allievo)2 afferma in modo perentorio che tutte le persone di genio sono inevitabilmen-

1 «L’atto più propriamente creativo, che fa della ‘Melencolia I’ di Dürer il foglio di conforto umanistico contro il timore
di Saturno, può essere capito soltanto riconoscendo come quella mitologia magica sia il vero e proprio materiale che nella
trasformazione artistica è spiritualizzato. Da quel demone planetario accigliato, divoratore di fanciulli, dalla cui lotta con
il cosmo con un altro pianeta reggente dipende la sorte della creatura irradiata, nasce in Dürer, in virtù di una metamorfosi
umanizzante, l’incarnazione plastica dell’uomo lavoratore che pensa. Del fatto che con questa analisi della “Melencolia
I” siamo in armonia con lo spirito dei contemporanei [si trova] una conferma in Melantone, il quale concepisce il genio
di Dürer come la forma più sublime della melanconia propriamente triste, spiritualizzata in virtù di una favorevole posi-
zione degli astri. Melantone dice: “De Melancholicis ante dictum est, horum est mirifica varietas. Primum illa heroica Sci-
pionis, vel Augusti, vel Pomponij Attici, aut Dureri generosissima est, et virtutibus excellit omnis generis, regitur enim
crasi temperata, et oritur a fausto positu syderum”. Questa interpretazione del genio artistico di Dürer potrebbe essere
senz’altro posta come iscrizione sotto la “Melencolia I”. Da un secondo passo di Melantone, sappiamo infatti a quali forze
astrali egli attribuisse quel potere di trasformazione. Come causa della superiore melanconia di Augusto, egli vi definisce
la congiunzione di Saturno e di Giove nella Libra: “Multo generosior est melancholia, si coniunctione Saturni et Iovis in
Libra temperetur, qualis videtur Augusti melancholia fuisse”» (Warburg, Divinazione antica pagana, cit., pp. 357-358). War-
burg cita il De anima di Melantone secondo l’edizione di Wittenberg, 1548, f. 82r. Sulla questione dell’oroscopo di Augusto,
cfr. Giorgio Brugnoli, Augusto e il Capricorno, in L’astronomia a Roma nell’età augustea, a cura di Dora Liuzzi, Galatina
(Lecce), Congedo, 1989, pp. 19-31.
2 Aristotele, La melanconia dell’uomo di genio, a cura di Carlo Angelino ed Enrica Salvaneschi, Genova, Il melangolo,
1981.
metamorfosi di saturno: la “ melencolia ” di albrecht dürer 17

Fig. 5. Albrecht Dürer, San Girolamo penitente, olio su tavola, 1494-96, 23,1 × 17,4 cm
(Londra, National Gallery); sul retro: la cosiddetta “apparizione celeste”.

te melanconiche, comprese divinità mitologiche come, in primis, Ercole (spinto da esaltazio-


ne omicida a massacrare i propri figli). Dunque, secondo lo pseudo-Aristotele, un tempera-
mento condiviso da tutti i grandi melanconici: filosofi, politici, scienziati, letterati, artisti…
Marsilio Ficino, nei suoi tre libri De vita (come conservarla, come prolungarla e come confor-
marla ai cieli), offre ampie e dettagliate riflessioni su come Saturno sia diventato “iuvans pater”
per i propri figli, con l’aiuto di Giove, e sui rimedi per proteggere filosofi e letterati affetti da
temperamento melanconico.1 Ficino suggerisce rimedi di carattere “morale”: concentrazione
spirituale, ritraendo l’animo dalle cose esteriori a quelle interiori, rimanendo saldi in se stessi,
come al centro di una circonferenza; “medico”: alzarsi presto e fare lunghe passeggiate sotto le
confortanti radiazioni solari, la cui luce contribuisce ad allontanare il nero umore saturnino; e
“magico”: la creazione di immagini talismaniche, come potrebbe essere, nel nostro caso, il qua-
drato magico di Giove.
Il filosofo non considera gli artisti, ma ci penserà il geniale incisore a rappresentarli nella sua
“Melencolia I”, sempre sulla base dello pseudo-Aristotele, che Ficino aveva riscoperto e citato
nelle sue opere, e che lo stesso Dürer ben conosceva. Il conflitto cosmico risuona nei moti del-
l’animo umano: sconforto ed esaltazione tracciano la polarità dell’immagine. Saturno si riflette
nel volto scuro e accigliato (la “facies nigra”) della “melencolia” alata di Dürer, «sprofondata in
se stessa, il capo poggiato sulla sinistra, un compasso nella destra, siede in mezzo a strumenti
e simboli tecnici e matematici; davanti a lei vi è una sfera».2

1 Per i tre libri De vita, si veda l’edizione critica (con traduzione, introduzione e note) a cura di Carol Kaske e John Clark:
Marsilio Ficino, Three Books on Life, Binghamton (New York), The Renaissance Society of America, 1989 e la traduzione
italiana, a cura di Alessandra Tarabochia Canavero: Marsilio Ficino, Sulla vita, Milano, Rusconi, 1995.
2 «Sta forse escogitando un rimedio contro la sventura, minacciata dalla cometa nello sfondo sopra l’acqua? Oppure
affiora già il timore del diluvio universale?» (Warburg, Divinazione antica pagana, cit., p. 359).
18 marco bertozzi

Fig. 6. Albrecht Dürer, Martirio di Santa Caterina, Fig. 7. Albrecht Dürer, La strega,
xilografia, 282 × 386 mm, circa 1498. bulino, 71 × 116 mm, circa 1500.

Dunque, non più un volgare badile (quello usato dai figli di Saturno addetti alla sepoltura
dei morti, come si vede nelle illustrazioni dei calendari medievali),1 ma il “geometrico” com-
passo del genio è posto nella mano destra della “Melancolia”. E Giove, simbolicamente convo-
cato tramite il suo quadrato magico, partecipa alla favorevole congiunzione astrale con la sua
influenza bonaria e suadente verso Saturno (che, secondo il mito, lo stesso Giove aveva scon-
fitto e trascinato agli inferi in catene). Il genio melanconico, in virtù di questa feconda parteci-
pazione, è già in certo modo salvato; l’azione del duello planetario sembra placarsi e la magica
tavola numerica pende dalla parete, come una sorta di ex-voto offerto alla salvifica divinità.
Eppure, nemmeno la “Melencolia” di Dürer si è del tutto liberata dall’ancestrale timore ver-
so gli antichi demoni, come Saturno, tanto da dover ricorrere ad una protezione di carattere
“erboristico”: il suo capo non è più coronato di alloro (come accadeva all’“homo literatus”, al
poeta), ma è protetto e difeso dalle classiche piante medicinali umide e acquatiche, che si con-
trappongono alla natura secca e fredda del temperamento melanconico.2 La figura alata, dallo
sguardo apparentemente vacuo e fisso nel vuoto, cerca aiuto e conforto nel tempo del dubbio
e della “insecuritas”.
Fritz Saxl ed Erwin Panofsky, nel lavoro dedicato all’incisione di Dürer del 1923, avevano
espresso molte riserve nei confronti della interpretazione di Warburg, perché non pensavano
che il conflitto astrale fra Saturno e Giove dovesse concludersi con la vittoria di Giove, né in-
tendevano riconoscere al “gioviale” quadrato magico il significato che lo stesso Warburg gli
aveva attribuito. È vero che la “mensula Jovis” poteva anche considerarsi, come talismano, uno
strumento curativo appartenente alla medicina astrologica, ma era solo uno dei tanti rimedi,

1 Cfr. Marco Bertozzi, Indagini sul “De Sphaera”: una decifrazione saturnina, in De Sphaera. Commentario all’edizione in
facsimile del codice miniato della Biblioteca Estense di Modena, Modena, Il Bulino, 2010, pp. 94-105.
2 Klibansky, Panofsky, Saxl, Saturno e la melanconia, cit., p. 305.
metamorfosi di saturno: la “ melencolia ” di albrecht dürer 19
tra gli altri, e certamente neppure il più importante. (E Warburg avrebbe risposto che i suoi due
allievi e collaboratori si erano dimenticati di aggiungere due fondamentali tipologie, di carat-
tere psicologico, come Amleto e Faust).1
Per Warburg, che sembrava seguire i suggerimenti psico-astrologici dettati da Marsilio Fici-
no, a Saturno spettava il compito di allontanare i suoi figli migliori dalla società, aiutandoli pa-
ternamente a ritirarsi in se stessi e a concentrarsi in una proficua meditazione creatrice; mentre
Giove doveva poi riportarli in società, per condividere le conquiste ottenute ed evitare così il ri-
schio di essere trascinati agli “inferi” dal piombo saturnino. Sarebbe proprio questa la melan-
conia dell’artista di genio, sospesa in una continua tensione fra depressione e impulso creativo,
due parti tra loro inscindibili.2 Dürer aveva dunque raffigurato l’essenza stessa della melanco-
nia, così come veniva simbolicamente espressa dalla polarità dell’immagine di Saturno: tetra
divinità che può divorare i propri figli, ma – al contempo – “iuvans pater”, padre premuroso
che dona loro la creatività del genio. È il volto della divina “Melencolia” che vediamo, ma pos-
siamo anche immaginare di riconoscervi il tratto e il temperamento dello stesso artista, che qui
ha voluto mostrarci non il rispecchiamento, ma l’espressione della propria “anima”.

1 Si veda la relazione di Claudia Wedepohl a questo stesso convegno, Warburg, Saxl, Panofsky and Dürer’s Melencolia I,
pp. 27-44; cfr. anche l’introduzione di Susanne Müller alla traduzione italiana di Karl Giehlow, Hieroglyphica. La cono-
scenza umanistica dei geroglifici nell’allegoria del Rinascimento (1915), a cura di Maurizio Ghelardi e Susanne Müller, Torino,
Aragno, 2004, pp. vii-xix.
2 In questa tragicità, Warburg doveva poi cogliere il suo personale dramma: la discesa agli inferi, causata dal crollo ner-
voso che l’aveva colpito, e il ritorno in società da “homo victor”. Cfr. Marco Bertozzi, Aby Warburg e il primo “decano”
dell’Ariete, in Aby Warburg e le metamorfosi degli antichi dèi, a cura di Idem, Modena, Panini, 2002, pp. 20-35.
ME LE N COL I A I : U N S IM BOLO
M a s s i m o Cacc iar i
Albrecht Durer’s Melencolia I must be considered an allegory elevated to a symbol. His sense is not assumed, and
therefore it is not easy to solve his enigma. Faced with the power generated by Dürer’s Melencolia, you need a
phenomenological exercise returning to the same image, as it shows itself to us here again. An exercise that leads
us to the essence of knowledge of melancholic and to the disquiet that this knowledge produces in him and actives his
poiesis. The symbol nor says, nor hides, but indicates.

S e davvero si intende la Melencolia I del Dürer come elevazione dell’allegoria a simbolo, oc-
correrà trarne le necessarie conseguenze. Simbolica è la lingua del mito; simboli i suoi dèi.
Quando la loro figura diviene oggetto di una allegoresi, la loro vita è già passata. Simbolo può
essere ogni presenza che si imponga come donatrice di senso, e non portatrice di significati pre-
supposti, ai quali sia sempre possibile ridurla per risolverne l’enigma. Ciò non esclude che in
essa si rivelino anche significati determinati, dei quali siano opportunamente descrivibili in ter-
mini storici genesi, sviluppo, metamorfosi. Ma l’essenza del simbolo resta non vivisezionabile.
Essa consiste proprio in ciò che avanza a questa analisi e la eccede. Anche una figura allegorica
o un semplice emblema possono così “oltrepassarsi”: se uno sguardo li coglie come ex novo, co-
me un thauma da cui rimane colpito così da sentirsene trasformato; anch’essi, addirittura anche
i più banali tra loro, possono elevarsi alla vita del simbolo. Ciò che è essenziale è che questa pre-
senza manifesti, immanente a sé, la capacità di generare sensi, l’intrinseca apertura alla vita del-
l’interpretazione. La meraviglia del simbolo interroga sempre: “chi credete che io sia?”. Se, al-
lora, si ritiene che la Melencolia rappresentata dal Dürer abbia la potenza del simbolo, i
significati che possiamo rintracciarvi debbono potersi “trascendere”; l’opera deve mostrarsi ta-
le da assumere un senso per noi, e questo corrispondere in qualche modo al colpo che ha subito
l’autore quando la sua anima (imaginatio e ratio) ha incontrato, lungo il suo cammino, una tale
enigmatica figura.
Occorre iniziare con un esercizio fenomenologico. “Ridurre” lo sterminato oceano delle ese-
gesi sostanzialmente allegorico-metaforiche intorno all’opera e ritornare alla cosa che qui ci si
manifesta. Risentirne il thauma, appunto, se ci riesce. Cercare di illuminarlo, per quanto possi-
bile, attingendo alle esperienze dell’autore. Congetturare intorno ai sensi che essa sembra apri-
re e svolgerli per noi. La cosa è questa: una figura alata, nobilissima, di quasi monumentali fat-
tezze, dal volto nubilosus, che con la sinistra regge il capo, greve di pensieri e cure, e con la destra
tiene ancora il compasso; alla sua destra un putto, anch’esso alato, che siede, al centro dell’in-
tera composizione, su una pietra bene squadrata, e incide col bulino su una tavoletta identica
a quelle che in tante opere portano il monogramma del pittore (come ha visto Elena Filippi).
La donna, Melencolia certamente (ma quale?), guarda intensamente dalla parte del putto, ma
non il putto; forse il suo sguardo appena lo sfiora. Intorno alle due figure, prossime, e tuttavia
apparentemente estranee l’un l’altra, diversi oggetti, facili da riconoscere, e un cane, certo an-
che lui di nobile schiatta, un veltro, forse non addormentato, ma del tutto inattivo, che partecipa
da assente alla complessa scena. L’altro protagonista di questa, il cielo. Il pipistrello recante il
cartiglio indica l’ora: se lui si leva in volo è twilight, crepuscolo. Ma una luminosissima cometa,
irradiante ovunque, e con maggiore intensità sulla tranquilla marina, rompe le tenebre immi-
nenti. Un amplissimo, luminoso arcobaleno, infine, abbraccia l’intero paesaggio.

Massimo Cacciari, Facoltà di Filosofia, Università Vita - Salute San Raffaele, Milano.
22 massimo cacciari
Come appartenenti alla cosa dovrebbero apparirci altri due elementi: gli oggetti sparsi a terra
in primo piano attengono alla techne più determinata, sono strumenti operai. Con essi si edifica
ciò che l’architetto ha progettato; l’architetto non disegna con pialle e seghe. Questi strumenti
stanno ai piedi di Melencolia. Lei non ha in mano martelli e chiodi, ma il compasso. Il compasso
non è finito disperso a terra; Melencolia non lo sta usando, ma non l’abbandona, così come il
libro, chiuso, ma ancora nel suo grembo. Corre tra queste due dimensioni una differenza es-
senziale; se non notata, la pregnanza del simbolo evapora. Differenza che non è però affatto
astratta separatezza: i grandi costruttori dell’Umanesimo congiungono perfettamente proget-
to, disegno e cantiere. Tuttavia, Melencolia appartiene all’arte, di cui va rivendicata la potenza
immaginativa e conoscitiva, meta-empirica, non a un fare esecutivo. Se l’arte si “ammala”, an-
che la potenza tettonica del cantiere si spegne. Senza quest’ultima, d’altra parte, ogni arte si ri-
durrebbe a vuoto monologo interiore. Il secondo elemento da assumere come un fatto è l’im-
possibilità di assimilare Melencolia a figure di semplice inerzia o a-kedia. Ella appare piuttosto
dominata dalle curae! Nessuna inerzia o pigrizia esprimono la sua posa e tantomeno il suo
sguardo. Insonne quest’ultimo, e nient’affatto rivolto al vuoto, così come le sue ali, pur non di-
stese, non sono affatto ripiegate, abbandonate lungo il corpo, come avviene in altre rappresen-
tazioni della Malinconia; esse sembrano semmai più vicine a levarsi in volo che al riposo. Lo
sguardo del nostro dèmone-angelo, che dardeggia dal bianco delle pupille nel buio che gli av-
volge il volto, medita sulla sua opera passata e insieme cerca di presagire ciò che il Fato va di-
sponendo? Ciò che è certo è che esso non si rivolge al basso, né si richiude affatto in sé, in inte-
riore, come avviene in tante immagini o emblemi della Malinconia.
Accanto agli strumenti tecnici del costruire troviamo solidi ben squadrati (altro che masse
inerti!), pietre da costruzione; quella su cui il putto è seduto presenta l’incavo già pronto per con-
tenere la sbarra che la collegherebbe ad altra, così da iniziare a dar vita all’intero edificio. L’arte
è tale se edifica, e può farlo come e forse più della filosofia. Questo il punto-chiave delle grandi
teorie dell’arte dell’Umanesimo, dall’Alberti a Leonardo. Un genio, dunque, del misurare, del
ponderare, del progettare è Melencolia, in nessun modo riducibile a “artigiano” e neppure a
semplice typus geometriae. Non la si comprende senza far mente al detto platonico: “sempre il
dio geometrizza”. Queste pietre, ma forse anche questi strumenti, vanno intesi come semata,
sono segni indicanti la potenza tettonica dell’intelligenza artistica. Strumenti infinitamente più
che strumenti, pietre infinitamente più che semplici mezzi. Non sarà il Timeo il libro che sta ser-
rato sulle ginocchia di Melencolia? Abbiamo di fronte un genio ordinatore, demiurgico. Ma, ecco
il problema, lo è ancora? Potrà esserlo di nuovo?
Si impongono, allora, le interrogazioni che conferiscono all’Umanesimo il suo timbro più
drammatico. Certo, quegli strumenti forti, segnati dall’uso, buoni a costruire, giacciono ora sparsi
al suolo – un mucchio, non un insieme – e in un tale stato sono inutilizzabili. Così quelle pietre,
sapientemente disegnate, prodotti di un paziente lavoro della mente e della mano, sembrano ab-
bandonate per sempre. Può darsi benissimo che nei segni della borsa chiusa, delle chiavi che pen-
zolano dalla cintura, del pugno serrato su cui Melencolia poggia la guancia, si ritrovi anche me-
moria della tradizionale avarizia attribuita a Saturno. Ma qui il loro significato muta
radicalmente: non è il chiudersi in sé, inospitale, il non voler donare, ma l’impotenza a farlo che
caratterizza la situazione esistenziale di questa figura. Il Costruttore possiede ora chiavi che non
aprono, borse colme di un possesso che non frutta, un compasso che non disegna, una mano che
non opera, che non disserra, che serve soltanto a reggere il capo. Eppure Melencolia non denun-
cia nella sua figura una sola fibra di debolezza. Nessun cedimento, nessuna “depressione” nel suo
corpo, che rimane magnifico. Né, vale ripeterlo, nell’acutezza e luminosità del suo sguardo. In
nessun modo è possibile affermare che l’energia di questa figura appartenga ormai soltanto al
suo passato. Essa è trattenuta, imprigionata, ma piena proprio nella sua latenza. Dum latet, patet.
Che sia esaurita non è decretabile in alcun modo; potremmo, però, affermare che il silenzio e il
vuoto che sembrano oggi abbracciarla non rappresentano che la vigilia di un nuovo momento
creativo? Neppure.
melencolia i : un simbolo 23
Lo spirito saturnino, lo spirito di Kronos, ha colpito questo grande artista, questo alato com-
positore di scienza geometrico-matematica e capacità fabbrile, questo “miglior fabbro”, per ra-
gioni che oltrepassano ogni dimensione psicologica e che nessuna combinazione di orbite stel-
lari basta a farci comprendere (anche se può aiutare). L’astrologo legge nel cielo che
inevitabilmente l’ora inclina a Saturno; ma ognuno può vedere che batte quella del crepuscolo.
Inesorabile fugge il tempo – e cioè quell’esserci, il nostro, che è il tempo. Nessuno, neppure i
geni alati, possono stare. Nessuna opera, neppure la più grande, può dirsi eterna. Neppure il
cosmo è eterno in sé, ma solo “conveniente” che lo sia, per volontà del Fato. La recta ratio fa-
ciendorum operum era certo quella di Melencolia; la potenza della sua figura dice che ella ha edi-
ficato; ma ora ella è giunta al limite: sa che nessuna ala è più potente di quelle di Kronos, nessuna
opera più grande del suo disperdere, del suo rovinare anche ciò che sembra esser stato fatto per
durare in eterno. Ben prima che Ficino e i neoplatonici teorizzassero sulla Malinconia, il suo
timbro permeava tutta l’opera del Petrarca. I cieli possono farci inclinare ad essa più o meno,
ma nessun mortale può fermare lo scorrere della sabbia nella clessidra. Vi è un momento nella
vita – che il genio vivrà con intensità assoluta – in cui l’immagine della vanità delle opere assale,
un istante sospeso, tra il giorno e la notte (“in mezzo al cammino”, come lo è la sabbia nella
clessidra che pende sul capo di Melencolia) in cui il già-fatto viene a noia e la volontà di provare
ancora sembra dilegui, e un bivio ci si apre, allora, dinanzi: o la disperazione (per il genio non
può darsi serena rinuncia, forse sì, invece, per chi non abbia la ventura-sventura di nascere be-
niamino di Saturno), o il porsi in ascolto, in presagente ascolto, il restare desti in attesa degli dèi
avvenire.
La Melencolia che Dürer immagina è sospesa come il tempo che il suo autore vive. Lei non
risponde. Ma Dürer sì, attraverso l’insieme della composizione. La sua malinconia deve guarire
dai pericoli che la minacciano: akedia, abulia, e soprattutto da quello mortale: disperazione.
Giove la soccorre. Cinge il suo capo di erbe salutari, prescritte dalla platonica medicina; combina
nel quadrato magico numeri e segni propizi: fa risaltare l’anno in cui quest’opera stessa (ap-
punto una di quelle fatte per durare in eterno) è stata “inventata”; pone il 15 e il 14 tra il 4 della
pitagorica tetraktys e l’1 fons et origo numerorum. Fortuna o Fato o Stelle pongono perciò Melen-
colia nelle condizioni di potersi “superare”, di pervenire a vita nuova. A lei è data la possibilità
di “lavorare” il proprio lutto e vincere l’inibizione a agire cui sembra ora condannata. Ma come
si configura questo passaggio periculosum maxime da nigredo a albedo (perché non usare anche
termini alchemici per tentare di esprimere il simbolo)? Anzitutto – e questo è essenziale – lo
stato che Melencolia ora presenta non è affatto semplicemente negativo. Senza la crisi col pas-
sato, senza la decisione con ciò che credevamo essere nostro quieto possesso, non si dà genio,
non si produce opera alcuna. Senza la violenza che esercitiamo su noi stessi negandoci di godere
di ogni godimento limitato (per parafrasare Hegel), non si procede per nessuno degli stadi che
Agrippa descrive (e che Panofsky indica come fonte prima di Dürer, pur non avendo essi alcun
esplicito rapporto con l’umore malinconico), né attraverso l’imaginatio, né attraverso la ratio,
né attraverso la mens. Proprio soltanto nel “negativo” di Melencolia si custodisce la possibilità
che possa la mente aprirsi a nuovi saperi e riconoscere nuovi eventi. In secondo luogo, il passag-
gio dovrà comportare un mutamento di figure. E questo aspetto accentua il suo carattere dolo-
roso e drammatico.
Come si rappresenta tutto questo nell’opera? Al centro della composizione sta il Bimbo. L’o-
pera non può rinascere dalle stesse mani che l’hanno abbandonata. Un’età trapassa; il genio lo
sa e prepara la nuova attraverso la stessa angoscia che avverte di fronte al prodotto della propria
fatica. Che un’età finisca non è il segno della debolezza del genio o della sua opera, ma della
forza del destino. È la legge della universale vicissitudo, di cui tutto l’Umanesimo più filosofica-
mente alto fa esperienza. Vicissitudo significa che nulla muore, ma tutto si trasforma e rinnova
– e tuttavia i volti di un tempo scompaiono. Questo genera necessariamente malinconia – non
deve però generare tristezza né l’inerte abbandonarsi del canis dormitans. Nel genio produrrà
la fatica del meditare e presagire l’avvento della nuova opera. Certo, Melencolia non profetizza.
24 massimo cacciari
La distinzione tra la potenza dell’arte e quella della profezia va tenuta fermissima. Nessuna for-
ma di malinconia, peraltro, potrebbe mai produrre la mania dono di Apollo; ogni stadio della
malinconia sta nella morsa della vicissitudine, che è tanto cosmica quanto immanente alla co-
stituzione della psiche. Ecco, allora, che il più prossimo a Melencolia è il Bimbo, il futuro che
ella non potrà mai conoscere, e che tuttavia proprio lei, con la sua vigile Langweile, col suo du-
rare spiando e presagendo oltre sé, oltre la crisi della propria età, rende possibile. Ridurre questa
figura centrale a “semplice assistente”, come nell’interpretazione fornitane in Saturno e la me-
lanconia, comporta il travisamento della pregnanza del simbolo nella sua integrità.
Il Bimbo si esercita – misterioso dove si possano scovare in lui i tratti di una “felice incoscien-
za” (Panofsky); egli dà già segni di sé; non sono ancora litterae, certo, ma ne contengono l’essere
in potenza. Egli tiene già in sua mano la possibilità di scrivere sulla tavola il proprio nome, come
quello del grande artista che lo sta immaginando. Il Bimbo può essere, cioè, Albrecht Dürer. La
condizione in cui versa Melencolia, che forse lo attende, e la disposizione naturale che egli di-
mostra, consentono che quest’esito possa accadere. Ma qui non basteranno le stelle, né le cure
di Giove. Saranno industria, disciplina, studio, coltivazione metodica delle proprie capacità im-
maginative e razionali a permetterlo. E nervi, ossa, mani buone, come diceva l’Alberti e dirà
Giordano Bruno. La scala è lunga, ma intatta in tutti i suoi Sette pioli, e saldamente appoggiata
alla torre. Il Bimbo siede ancora al suo inizio, ma potrà volare. Così come, d’altra parte, intatti
sono tutti gli oggetti che popolano la scena: gli strumenti a terra, il compasso, la borsa, le chiavi,
le pietre bene squadrate, segni della potenza geometrico-matematica dell’artefice. Pronti, di-
remmo, a trapassare alla nuova Età, a servire altri ingegna. Esattamente l’opposto di una rap-
presentazione della vanitas vanitatum.
L’idea di vicissitudine che tormenta un’opera come questa, un simbolo di tale potenza, e pro-
prio per i motivi appena indicati, non è espressione di alcun determinismo astrale. Certo è solo
che questa Melencolia ha compiuto il suo ciclo. Saprà crescere il Bimbo fino a raggiungere la ci-
ma della scala? Saranno benigne le stelle alla sua impresa? Questo soltanto è chiaro: l’ingresso
in un tempo di straordinari rivolgimenti, annunciato dalle tragedie che segnano la fine dell’U-
manesimo. Il tempo corre alla ri-forma oppure alla fine? Quali segni ci invia il cielo (ammesso
si possa ancora credervi dopo Savonarola e Pico)? Segni doppi, come lo sono tutti quelli degli
astri e dei loro dèi, nessuno dei quali ha un significato univoco, ma che possono indicare, semai-
nein, solo attraverso il gioco vastissimo e difficile del loro combinarsi. E doppio, in fondo, è an-
che il cielo che appare in Melencolia I.
In questo cielo del 1514 splende la cometa. Ma davvero è certo che di cometa si tratti? Me-
lencolia dubita. Il dubbio, la skepsis ne costituiscono, peraltro, un tratto fondamentale, che
troppe volte gli interpreti hanno dimenticato. Lungi dall’essere inerte, questa Melencolia è tor-
mentata da dubbi e interrogazioni. Un po’ Democrito, un po’ Eraclito (come la figura della
Scuola di Atene), un po’ della natura della pietra, un po’ di quella dell’acqua (cara a Saturno).
E se la cometa fosse in realtà un grande astro che cade? In realtà la sua traiettoria non segue la
linea dell’orizzonte, ma sembra piuttosto precipitare. Se si trattasse del segno del quinto An-
gelo? «E vidi un astro caduto dal cielo sulla terra, e gli venne data la chiave del pozzo dell’abis-
so; ed essa aperse il pozzo dell’abisso, e dal pozzo salì del fumo come il fumo di un’immensa
fornace, e il sole e l’aria vennero oscurati dal fumo del pozzo» (Apocalisse, 9, 1-2). Tempo so-
speso: ancora quell’astro in cielo non ha svelato la propria natura. Tuttavia, Dürer è nato sotto
il segno della cometa. Una cometa illuminava i cieli del Nord nell’anno della sua nascita. Ed
egli ha saputo diventare geometra, matematico e artista, ha saputo comporre Saturno con
Giove nella sua opera magistrale. Dunque, certo, nulla di stabilito; l’angoscia non può esser
messa a tacere. Ma la speranza neppure – ed è fondata speranza. Anche la cometa, d’altronde,
è segno complesso. Lo stesso grande Ficino l’ha più volte spiegato. La cometa può essere pro-
spera e salutare se viene dalla natura del Sole, di Giove e di Venere; se è saturnia, invece, può
portare peste e penuria. Quale colore ha il cielo di questa cometa (se davvero è tale)? Difficile
dirlo dai segni dell’incisione. Solo la sua luce ci è dato vedere, che splende nell’oscurità immi-
melencolia i : un simbolo 25
nente. Ma potrebbe essere la notte, lo sappiamo, che precede l’alba, anzi: necessaria al rinasce-
re della luce.
Certamente quell’astro-cometa è segno del ciclo delle epoche: una si chiude, va al suo giudi-
zio, un’altra può aprirsi. Quando un’Età finisce vedi nel tramonto i colori dell’alba, ma non sai
se alba sarà. Indici soltanto trovi nel cielo e in te stesso, poiché te stesso vedi nel cielo. L’astro
della Melencolia I forse non precipita a spalancare i pozzi dell’abisso, certo, però, procede verso
la Bilancia, segno del Giudizio. Neppure questo, tuttavia, significa necessariamente la fine, poi-
ché sempre il trapasso è krisis, ed ogni tempo di crisi, ogni mutamento di stato-catastrofe, im-
plica le tremende fatiche sia del sopprimere che del partorire. Igne natura renovatur integra, canta
il poeta-filosofo Lucrezio. È il fuoco della Ri-forma che la luce ignea dell’astro annuncia? Può
essere. Melencolia non dispera. La sua facies nigra non deve andare disgiunta dall’inizio del Bim-
bo, dalla “promessa” che egli inconsapevolmente incide sulla tavoletta del Maestro. E che in un
tale senso Dürer intendesse la propria stessa opera, o meglio il simbolo che lo assillava, lo mo-
stra, infine, l’arcobaleno. Qui il segno è sicuro. Dopo la catastrofe, pace di nuovo. Il cielo non
vuole la Fine di tutte le cose. La duplicità irrisolvibile dei lumina delle stelle è dominata da una
Luce più alta, dalla Lux dell’arcobaleno, segno della benevolenza divina, di un Patto che nessu-
na crisi potrà mai distruggere. Ma questa Luce non rassicura, non mette in pace; essa non an-
nulla contraddizioni e catastrofi, bensì, all’opposto, le comprende in sé come necessarie. È que-
sta l’essenza del sapere del malinconico. L’inquietudine che tale sapere in lui produce
appartiene alla stessa linfa che gli consente di misurare, considerare, ponderare, progettare –
di cui la sua poiesis si alimenta. Giunge poi, con altrettanta necessità, il momento in cui questo
operari lo delude e lo angustia. Sempre la sua opera l’ha lasciato insoddisfatto, ma ora non può
che “dismetterla”. Dovrà “svuotarsi” per lasciar luogo al Bimbo, per permettere a lui di innal-
zarsi. Nulla in cielo impedisce che tale rivolgimento avvenga. Nulla lo afferma con sicurezza.
Il simbolo né dice, né nasconde, ma indica.
WA R BURG, S A X L, PAN OF S KY
A N D D Ü RE R ’ S MELEN CO LIA I*
Clau di a Wed epohl
Questo articolo analizza le critiche mosse da Aby Warburg a Dürer’s Melencolia I. Eine quellen- und typenge-
schichtliche Untersuchung, il famoso saggio scritto a quattro mani da Erwin Panofsky e Fritz Saxl tra il 1921 e il
1922, poi pubblicato l’anno seguente. Secondo Warburg, lo studio di Panofsky e Saxl aveva evitato di inserire nell’a-
nalisi due tipi essenzialmente melancolici, Amleto e Faust. Partendo da tali rilievi critici, in questo saggio intendo
esaminare il particolare interesse dimostrato da Warburg per la storia della rappresentazione della sindrome melan-
colica e la sua idea di una fondamentale ambivalenza all’interno della personalità melancolica. Mentre Warburg de-
cise di perseguire il fenomeno della melancolia da un punto di vista psicologico, muovendo dalla presunta duplice
natura del dio planetare Saturno per risalire quindi alla psicopatologia moderna, Panofsky e Saxl accentrarono il
loro esame tanto sulla storia intellettuale, quanto sulla morfologia della rappresentazione del melancolico.

n a letter of 30 January 1924 Fritz Saxl, at the time acting director of the Bibliothek Warburg,
I let Aby Warburg almost casually know that «the “Melencolia I” had come out». Warburg
would of course have known about the appearance of the subsequently seminal second vol-
ume in the series of Studien der Bibliothek Warburg, had he not been hospitalized far away from
Hamburg, in Ludwig Binswanger’s sanatorium in Kreuzlingen in Switzerland. After almost
two and a half years of care, partly at home and partly in various German institutions, Warburg
had been transferred to Bellevue in April 1921 where he was treated for a psychosis, triggered
by the events following the German defeat in the First World War. Only a few months later, in
August of the same year, Warburg was finally able to return to Hamburg. Remarkably, Saxl –
who kept Warburg informed about all events in his library – added something about the aim
and the ethos of the study that had just been published under Erwin Panofsky’s and his own
name: «It has become a rather melancholic book in which not many people will rejoice», he
writes, «but you know well that we both feel like very humble followers.1 We don’t believe to
have found a particular solution to the problem; we have only carried further what is written
in the study on “Luther”». The latter is a reference to Warburg’s Pagan-Antique Prophecy in Words
and Images at the Age of Luther of 1920, a study on propaganda and imagery whose first version
was delivered as a lecture to mark the fifth hundred anniversary of the Reformation in 1917.2
Saxl’s metaphorical play on his own study’s subject went even further. Not only did he call the

Claudia Wedepohl, Archivist The Warburg Institute - School of Advanced Study, University of London,
claudia.wedepohl@sas.ac.uk
* My sincere thanks are due to Christopher Johnson for correcting my English. Unless quoted after a printed edition,
all translations into English are mine.
1 A similar statement can be found in the Introduction of Erwin Panofsky, Fritz Saxl, Dürers ‘Melencolia I’. Eine
quellen- und typengeschichtliche Untersuchung, Leipzig-Berlin, Teubner, 1923 (“Studien der Bibliothek Warburg”, 2), p. 2.
2 Warburg Institute Archive (= wia), General Correspondence (= gc ), Fritz Saxl to Aby Warburg, 30 January 1924: «Auch
die Melencolia I ist nun erschienen. Sie ist ein recht melancholisches Buch geworden, von [sic] dem nicht viel Leute Freude
haben werden. Aber ich bin doch menschlich sehr zufrieden, dass es gelungen ist, mit Panofsky zusammen die Arbeit zu
einem glücklichen Ende zu bringen. Sie wissen ja, wie wir beide uns nur als sehr bescheidene Fortsetzer fühlen, dass wir
beide eigentlich nur das Gefühl haben, nicht eine besondere Lösung gefunden zu haben, sondern nur das, was im “Lu-
ther” steht, weiter auszuführen». See also Aby Warburg, The Renewal of Pagan Antiquity. Contributions to the Cultural His-
tory of the European Renaissance, introduction Kurt W. Forster, translation David Britt, Los Angeles, ca, Getty Research In-
stitute for the History of Art and the Humanities, 1999, pp. 597-775 and Aby Warburg, Die Erneuerung der heidnischen
Antike. Kulturwissenschaftliche Beiträge zur Geschichte der europäischen Renaissance, Berlin-Leipzig, Teubner, 1932 (“Gesam-
melte Schriften” = gs, ii), pp. 487-565.
28 claudia wedepohl

Fig. 1. Fritz Saxl, Personal dedication to Warburg, in Erwin Panofsky, Fritz Saxl, Dürers ‘Melencolia I’.
Eine quellen- und typengeschichtliche Untersuchung, Leipzig-Berlin, Teubner, 1923
(“Studien der Bibliothek Warburg”, 2), The Warburg Institute Archive, London, section iii.3.

tenor of the just published book «melancholic», during a stay in Kreuzlingen he dedicates a
copy of the book to Warburg, his so-called master, «in the sign of the healing Jupiter» («Im
Zeichen des heilenden Jupiter» - Fig. 1).1
Saxl’s letter not only confirms the date of the first distribution of the study Dürers ‘Melencolia
I’. Eine quellen- und typengeschichtliche Untersuchung, it also sheds light on the co-author’s relation-
ship with Warburg, both personally and professionally. Yet more importantly, Saxl’s statement
relates to their respective methods. It proves that he was convinced the book – predominantly
written by Erwin Panofsky – broadened and deepened Warburg’s own notion of the meaning
of Dürer’s master etching by tracing and reconstructing its literary sources and its iconography.
Since 1905 Warburg had been developing his personal reading of the Melencolia I, inspired by
Karl Giehlow’s seminal study on the print, published in three parts in 1903 and 1904.2 Giehlow
had been able to demonstrate that Dürer invented a personification of melancholy as being
subject to saturnine influences. Although Warburg’s own interpretation was built on Giehlow’s
reconstruction of the literary tradition, Peter Klaus Schuster has stressed in his monumental
historiographical study of 1991 that Warburg’s interpretation stands out from the historiogra-
phy of the masterpiece by taking the ambivalent depiction of saturnine melancholy as «starting
point for a singular and thus entirely unique optimistic interpretation of Dürer’s invention».3
Giehlow and Warburg had indeed been the first to recognise the print’s allusion to the pseudo-
Aristotelian notion of melancholy as an ambivalent mental state in relation to the ambivalence
of the Greco-Roman god Kronos-Saturn. Only Warburg had however interpreted Dürer’s rep-
resentation of the interchanging states of «sterile gloom» and «human genius» as an appraisal
of the latter: the «liberation of the fear of Saturn», that is, the transformation of the malevolent
planetary ruler into a patron of creativity through «spiritualisation» («Vergeistigung»).4

1 Warburg’s personal copy of the study with the dedication is held in the Warburg Institute Archive.
2 Carl Giehlow, Dürers Stich Melencolia I und der maximilianische Humanistenkreis, «Mitteilungen der Gesellschaft für
vervielfältigende Kunst», vol. ii, 1903, pp. 29-41 (Ein Gutachten Conrad Peutingers über die Melancholie des Herkules Ae-
gypticus), vol. iv, 1904, pp. 6-18 (Konrad Celtis’ Verhalten gegenüber Ficinos Lehre vom melancholischen Temperament)
and pp. 57-78 (Die Stellung Maximilians zu den neuen Theorien vom Wesen der Melancholie).
3 Peter-Klaus Schuster, Melencolia I. Dürers Denkbild, Berlin, Gebrüder Mann Verlag, 1991, p. 32: «[D]em gegenüber
[hat] Warburg gerade Giehlows Gedanken eines ambivalenten Melancholiebildes zum Ausgangspunkt einer völlig
vereinzelt dastehenden optimistischen Deutung des Dürerschen Melancholiestichs gemacht».
4 Warburg, The Renewal of Pagan Antiquity, cit., pp. 641-644 and gs, ii, p. 530: «Die fratzenhaften Dämonen sind
verschwunden, der finstere Trübsinn des Saturn ist humanistich vergeistigt in menschliche Nachdenklichkeit».
warburg, saxl, panofsky and dürer ’ s melencolia i 29
In the following I shall take up Schuster’s claim and challenge Saxl’s statement that Panof-
sky’s and his 1923-study was indeed partly a continuation or expansion of Warburg’s work.
My intention is to demonstrate that what Warburg tried to show through his reading of
Dürer’s Melencolia I differed significantly from the goal Panofsky and Saxl were pursuing,
although all three scholars based their analyses on the results of Giehlow’s research. In
addition to the philosophical tradition, for all three authors the German term ‘Typus’ – an
abstraction that has materialised in a concrete form and is as such relating to morphology –
is highly significant. Yet the same term and the concept for which it stands is also the clue
for naming the difference in their approaches. It will thus be necessary to look closer not
only at the different meanings of this term and its denotation in various contexts, but also
at unpublished and published documents, among the latter, once again, the few crucial lines
on Dürer’s print in Warburg’s well-known study on superstition and imagery in the age of
Luther of 1920.
Published only four years after Warburg’s interpretation, Panofsky’s and Saxl’s book was to
become the nucleus of the most seminal study to this day of the history of the idea of melan-
choly in Western culture: Saturn and Melancholy. Studies in the History of Natural Philosophy,
Religion and Art, published after a prolonged genesis in 1964 under the names of Raymond
Klibansky, Erwin Panofsky and Fritz Saxl.1 The earlier work, conceived by Panofsky in collab-
oration with Saxl and written down in just over one year by Panofsky, had also an unusual
genesis: It was based on materials gathered for a class («Übung») on Dürer Panofsky had
taught in the Winter Semester 1920/21. Saxl had contributed a one-hour lecture on the topic of
melancholy,2 hoping, as he wrote to Warburg, this would give him an opportunity to «intro-
duce a number of art history students to the problem» of the Kulturwissenschaftliche Biblio-
thek Warburg.3 This statement proves how essential the topic was for the propagation of War-
burg’s ideas and the apparent success of the lecture surely encouraged both scholars to pursue
their collaboration. Initially they planned to co-write an appendix to a posthumous publica-
tion, Giehlow’s unfinished book with the title «Dürers Stich Melencholia I und der maximi-
lianische Humanistenkreis». This book would have offered a new interpretation of the print
by taking the results of Giehlow’s essays of 1903 and 1904 a decisive step further, namely to
relate Dürer’s symbolism to Horapollo’s hieroglyphs. It had first been Warburg’s own idea to
edit Giehlow’s abandoned fragment, but only Panofsky and Saxl succeeded in getting access to
the materials. Yet they came to the conclusion that since what had already been set and print-
ed before Giehlow’s death in 1913 was not convincing, they had to transform their own texts
into an entirely independent study; but they still used Giehlow’s materials and 40 of his illus-
trations for the iconographic apparatus.4 The resulting study thus remained a compromise
that also went soon out of print. This situation sparked the desire to revise and expand this
study. In 1927, encouraged by the brilliant, young historian of philosophy, Raymond Klibansky,
Panofsky and Saxl embarked on the re-writing.

1 Raymond Klibansky, Erwin Panofsky, Fritz Saxl, Saturn and Melancholy. Studies in the History of Natural Philo-
sophy, Religion and Art, London, Nelson, 1964. Both historical and personal circumstances had delayed the publication of
this work: the forced move of the Kulturwissenschaftliche Bibliothek Warburg to London in 1933, the loss of the complete
typeset during the war, Saxl’s death in 1948, the revision and translation of the set of proofs into English, and Panofsky’s
reluctance to firstly release a study whose results were out-dated and secondly accept Klibansky as co-author with his
name appearing before his own as main author on the cover.
2 See wia, gc , Fritz Saxl to Aby Warburg, 21 January 1921 in which Saxl informs Warburg about his lecture of 17 January
1921.
3 wia, gc , Fritz Saxl to Aby Warburg, 8 January 1921: «Ich tue es gern, weil ich dadurch die Gelegenheit bekomme,
eine ganze Anzahl von Studenten der Kunstgeschichte an unser Problem heranzuführen».
4 See my introduction to the forthcoming Italian edition of Erwin Panofsky, Fritz Saxl, Albrecht Dürers Melencolia
I. Eine quellen- und typengeschichtliche Untersuchung, edited by Marco Bertozzi, Andrea Pinotti.
30 claudia wedepohl

Fig. 2. Reproductions of Dürers’s Hieronymus in His Studio and Melencolia I in Aby and Mary Warburg’s
apartment in Florence, detail, 1897, The Warburg Institute Archive, London, section ii.

The Genesis of Warburg ’ s Ideas


Even before knowing Giehlow’s work on Dürer, Warburg had apparently chosen the Melencolia
I as personal ‘incunabula’. Together with the related print depicting Hieronymus in his study,
the engraving is clearly visible on a photograph of the first apartment the Warburg couple had
rented in Florence (Fig. 2). In this period – from 1897 to 1902/1904 – Warburg was, as it is mean-
while known, struggling with episodes of depression.1 His serious art historical interest in Al-
brecht Dürer’s master print can be traced back to 1905 when he began researching the influence
of Italian ‘all’antica’ compositions in the Northern master’s inventions. The year before Karl
Giehlow had published his new interpretation of Dürer’s several depictions of the frantic Her-
cules which also led to a fundamentally new reading of the Melencolia I. As the first to recognise
the reference to Marsilio Ficino’s treatise De vita (c. 1482/1489) in which the humanist and physi-
cian advocates three different therapies against the negative effects of melancholy, Giehlow in-
terpreted Dürer’s iconography (most prominently the magical square behind the seated figure)
as alluding to each of these therapies. Giehlow’s main objective was to prove a link between
Ficino and Dürer by highlighting the vivid interest in Ficino’s work by a group of humanists

1 Bernd Roeck, Florence 1900. The Quest for Arcadia (2001), translation Steward Spencer, New Haven - London, Yale
University Press, 2009, pp. 139-140 and 234-239.
warburg, saxl, panofsky and dürer ’ s melencolia i 31
that was associated with the court of Emperor Maximilian I, Dürer’s patron. The fact that one
of them, Conrad Peutinger, had translated Ficino’s De vita and advised the allegedly melan-
cholic Emperor on effective therapies seemed to prove this link.
Already in 1905, when demonstrating his new theory that Dürer used a repertoire of so-called
‘Pathosformeln’, Warburg referred to Dürer’s fundamentally different types of «images of
temperaments» («Temperamentsbilder»).1 Indeed, he had coined the term ‘Pathosformel’ – the
capturing of a specific codified expression – precisely for Dürer’s adoption of Italian copies of
ancient prototypes. He also maintained that Dürer’s art (and perhaps even the artist himself )
underwent a transformation from the earlier expression of frantic pathos ‘all’antica’ to forms
of melancholic pathos in his mature years. This notion of a diachronic development stood,
moreover, at the same time for a synchronic polarity between typical Southern and Northern
European personalities, inspired by Nietzsche’s idea of a Apollonian-Dionysian duplicity.
In his lecture entitled «The Gods of Antiquity and the Early Renaissance in Southern and
Northern Europe» of 1908, Warburg addressed for the first time the ingenious nature of the
melancholic type. According to him melancholy enabled the introverted personality to discover
the laws of nature and thus to overcome the superstitious belief in the power of celestial
deities.2 Only a year later, he stated in another lecture that Dürer had created «a self-absorbed,
humane symbol of a person in deep concentration».3 Meanwhile Dürer’s creation had become
a symbol of Warburg’s idea of modern man: someone who was capable of critical thinking, a
creator who would soon invent the means to discover the physical laws of the universe. In
addition to this allegorical interpretation, in 1910 Warburg suggested in a letter to the health
educator Otto Neustätter, the master print to be included in the new historical section of the
Hygienemuseum in Dresden as it illustrated the «psychiatric knowledge» of Dürer’s time.4
Warburg’s only published remarks on Dürer’s Melencolia I occur in his study on propaganda
in Luther’s age; there he summarise his earlier statements, but omits any description of the en-
graving. The author postulates his readers’ familiarity with Giehlow’s interpretation when he
modifies it in order to read Dürer’s iconography as quintessentially optimistic. Almost in pass-
ing and without explicit reference he alludes to Ficino’s citation of Ptolemaeus. Ptolemaeus
had interpreted dryness and coolness, the attributes of the element earth and as such related
to Saturn (that is,the planet that rules over the melancholic type) as a consequence of an im-
manent ability to centre oneself. Only this ability would, Warburg stresses, provide the power
to turn passive suffering into active thinking. Quoting Ficino’s «remedies» he goes on to write
that they «included mental focussing that enables the melancholic to transmute his sterile
gloom into human genius».5 Although he still regarded Dürer’s representation of the magical
‘tavola Iovis’ in the background of the scenery as alluding to an astrological explanation of the
state of melancholy (transmitted through Arabic sciences, namely the Picatrix, an eleventh-
century compendium of Hellenistic-oriental magical practices),Warburg saw the table as trans-
formed into a symbol and thus as having undergone a distancing abstraction. He was thus con-
vinced that Dürer had documented precisely the moment when the belief in cosmological
causation was overcome by a transformation of the malignant Saturn into the image of the
thinking human being. Quoting Melanchthon who regarded Dürer’s own genius as the most

1 wia, iii.61.6.1 («Dürer und die italienische Antike»), ff. 46, 47.
2 wia, iii.73.1.2.3 («Die antike Götterwelt und die Frührenaissance im Norden und im Süden»), f. 4: «Hier trifft Dürer
mit Leonardo – Norden und Süden – zusammen, auch als Vorläufer des modernen forschenden Menschens, dem die
Melancholie nicht nur die quälenden Fragen absurder Zahlenspielerei bringt, sondern auch den Zirkel brauchen lehrt,
um die neue Weltanschauung vom Gesetz zu schaffen».
3 wia, iii.75.7.2 («Einführung in die Kultur der florentinischen Frührenaissance»), ff. 50-51: «ein innerlich vertieftes,
humanes Symbol des sinnenden, auf sich concentrirten Menschen» / «ein Sinnbild der “Contemplation”».
4 wia, gc , Aby Warburg to Otto Neustätter, 1 June 1910: «So sieht die Psychiatrie der Uebergangszeit aus».
5 Warburg, The Renewal of Pagan Antiquity, cit., p. 641; also gs ii, pp. 526-527: «Seine Mittel sind innere geistige
Konzentration auf der einen Seite; durch diese kann der Melancholische seinen unfruchtbaren Trübsinn umgestalten zum
menschlichen Genie».
32 claudia wedepohl
sublime type of melancholy, a so-called ‘melancholia generosa’ which is spiritualised («vergeis-
tigt») by the influence of a favourable planetary constellation,1 he concludes:
Here the cosmic conflict is echoed in a process that takes place within man himself. The daemonic
grotesques have disappeared; and saturnine gloom has been spiritualised into human, humanistic con-
templation. […] Dürer shows the spirit of Saturn neutralized by the individual mental efforts of the think-
ing creature against whom its rays are directed. Menaced by the “most ignoble complex”, the Child of
Saturn seeks to elude the baneful planetary influence through contemplative activity. Melancholy holds
in her hand not a base shovel, but the compasses of genius.2
In Warburg’s preparatory notes for the essay we find a sentence that did not make it into the
text, but is important for understanding the essence of his thoughts: «In northern Europe ma-
nia becomes both orphic gesticulation and genial melancholy».3 This idea of the distinct, yet
connected forms of the same complexion became indeed a leitmotiv of the cultural-theoretical
speculations of Warburg’s later years. It also leads into the centre of Warburg’s criticism of
Panofsky’s and Saxl’s work.

Warburg ’ s criticism
An exchange between Warburg and Saxl one year before the study Dürers ‘Melencolia I’ came
out is indicative of their different approaches to the topic. After skimming through the proofs,
Warburg expressed his admiration, but also disclosed a significant objection: he missed an ex-
ploration and discussion of two quintessentially melancholic types: Shakespeare’s Hamlet and
Goethe’s Faust.4 Already in his Pagan-Antique Prophecy he had mentioned Hamlet briefly in a
passage on representations of the Children of Saturn. After explaining that the god Saturn’s
presumed idleness (which was a projection of the slow movement of the correspondent planet
and a reference to the related capital sin of ‘acedia’) Warburg states laconically that Hamlet
«too, was a child of Saturn».5 His proof for this claim is a reference to Rochus von Liliencron’s
short novel Die siebte Todsünde of 1903.6 It is perhaps surprising that Warburg quotes a novel
rather than a scholarly text, but Liliencron claims in his preface that the chapter quoted by
Warburg relies entirely on a historic text: Lucifers Königreich und Seelengejaid of 1616 by Aegidius

1 Warburg, The Renewal of Pagan Antiquity, cit., p. 644; also gs ii, p. 529.
2 The Renewal of Pagan Antiquity, cit., p. 645; gs ii, p. 530: «Der kosmische Konflikt klingt als Vorgang im Innern des
Menschen selbst wieder. Die fratzenhaften Dämonen sind verschwunden, der finstere Trübsinn des Saturn ist humanis-
tisch vergeistigt in menschliche Nachdenklichkeit. […] Bei Dürer wird der Saturndämon unschädlich gemacht durch den-
kende Eigentätigkeit der angestrahlten Kreatur; das Planetenkind versucht sich durch eigene kontemplierende Tätigkeit
dem mit der “unedest complex” drohenden Fluch des dämonischen Gestirns zu entziehen. Der Zirkel des Genies, kein
niedriges Grabscheit, ist in der Hand der Melancholie».
3 wia, iii.90.4.2 («Luther»), f. 77/29: «Die Mania wird im Norden zu orphischer Gestikulation und zur genialen Me-
lancholie».
4 wia, gc , Aby Warburg to Fritz Saxl, 19 February 1923: «Soweit ich beim Durchfliegen sah – ich bin unter Opium und
leide sehr, unsäglich – beziehen [Sie] zwei Typen nicht in ihre Studie mit ein: Hamlet und Faust». See also iii.2.1, Zettel-
kasten (= zk ) 31/017214: «Zur Melancholie. / Mit Faust gemeinsam. / Der Widerstand des aktiv denkenden Menschen ge-
gen die Dumpf heit, Energielosigkeit, das fatalische <…?> brüten. / Widerstand des tüchtigen Erfindergenies (gegen die
endzeitlich drohende Wassernot). / Zugleich Anwendung der Magie (Zahlentafel)».
5 Warburg, The Renewal of Pagan Antiquity, cit., p. 615 and gs ii, s. 507: «Das allzu deutsche oder allzu italienische Auf-
treten darf uns eben nicht darüber hinwegtäuschen, daß die wesentlichen Züge des unheimlichen alten Dämons [Saturn]
im Bilde lebendig fortdauern, und dass sie dadurch verstärkt worden waren, daß sein Name auf jenen Planeten übertragen
worden war, der durch seine größte Erdferne, das matte Licht und die langsame Bewegung am rätselhaftesten erschien.
Von diesem Stern erhielt er rückwirkend noch einen Zusatz von schwerer Trägheit; die christliche Todsünde der Acedia
verknüpft sich deshalb mit ihm. Hamlet ist auch ein Saturnkind».
6 Rochus Freiherr von Liliencron, Wie man in Amwald Musik macht. Die siebte Todsünde, Leipzig, Duncker &
Humblot, 1903, p. 158. See also wia, gc, Aby Warburg to Heinrich Weizsäcker, 29 June 1927: «Von einer ganz anderen Seite
her ist die Doppelheit vom saturnischen Menschen und mittelalterlicher acedia schon lange klar gesehen und anschaulich
dargestellt worden[,] von Rochus von Lilienkron [recte Liliencron] in seiner Novelle: Die sieben Todsünden [recte: Die sieb-
te Todsünde] (1903 erschienen). Von der belletristisch schillernden Art darf man sich freilich nicht irritieren lassen, es liegt
dennoch die richtige Version von der saturnischen Acedia zu Grunde».
warburg, saxl, panofsky and dürer ’ s melencolia i 33
Albertinus.1 Liliencron himself had edited this popular-scientific seventeenth-century book
two decades earlier and Warburg owned a copy of this edition.2
In his novel Die siebte Todsünde Liliencron lets a «master» («Magister») of William Shake-
speare, indeed a kind of mage, teach the poet the nature of the seventh deadly sin, that is, ‘ace-
dia’. The advice this master has to offer is based on Albertinus’s seventh chapter («Lucifers
Sibendes Seelengejaidt. Von der Trägheit ins gemein») which, as Liliencron believed, followed
Thomas Aquinas’s Summa Theologica faithfully.3 It seems unlikely that Warburg studied Albert-
inus’s original text, but he repeatedly refers to Liliencron in whose phantasy Shakespeare’s
«master» was responsible for the poet’s turning an unfinished play into a masterpiece.4 The
German author surely invented Shakespeare’s being taught the doctrine of ‘acedia’; yet for
Warburg he was the only author who had recognized the afterlife of Saturn’s supposed twofold
benign-intransigent nature in Shakespeare’s concept of ‘acedia’.
In Warburg’s letter of 19 February 1923, addressed to Saxl, the cursory justification for his re-
quest to include the two dramatic characters, Hamlet and Faust, in the forthcoming study was
no less enigmatic than the short reference to Hamlet in his essay. Firstly, with regard to the Dan-
ish prince, Warburg quotes Liliencron once again and points to the author’s discussion of the
impact of the spell of melancholy, supposedly to the effect of carrying out a notional rather
than a real act of revenge. Secondly, with regard to Faust, Warburg mentions a series of seven-
teenth-century Dutch prints, supposedly in Goethe’s possession. These prints (whose author
Warburg cannot recall) were representing saturnine types, among them a gravedigger.5 Both
these putative clues made Warburg believe that firstly Hamlet’s famous dialogue with the
gravedigger should be read as a monologue with one side of his own twofold saturnine nature,
and secondly that in his Faust II Goethe had transformed the base shovel into an instrument of
salvation. Only Goethe’s genius, Warburg was convinced, had enabled the saturnine brooder
Faust to ennoble the gruesome instrument. By quoting some well-known lines from chapter
60 of Goethe’s Faust II Warburg claimed that the transformation of the shovel into an instru-
ment of revival was expressed through the analogy of gaining land from the sea:
With what delight I hear the clink and clank of spades!
It is the multitude who toil for me:
They give the earth peace with herself at last,
To the proud waves they set their limits fast,
And put a mighty barrier around the sea.
(Wie das Geklirr der Spaten mich ergetzt!
Es ist die Menge, die mir frönet,
Die Erde mit sich selbst versöhnet,
Den Wellen ihre Grenze setzt,
Das Meer mit strengem Band umzieht).6

1 Aegidius Albertinus (1560-1620) was a Dutch Jesuit who since 1593 was employed as chancellor in the state of Bavaria
and advocated for the Counterreformation.
2 Aegidius Albertinus, Lucifers Königreich und Seelengejaid, ed. Rochus von Liliencron, Berlin, Spemann [1884], War-
burg Institute Library shelf mark bch 1965.
3 Liliencron, Wie man in Amwald Musik macht, cit., pp. 93-94. 4 Ivi, p. 164.
5 wia, gc, Aby Warburg to Fritz Saxl, 19 February 1923: «Die Studie von Liliencron über d[ie] Acedia ist Ihnen bekannt,
das Gebanntsein in der Melancholie, die selbst zu Rache unfähig ist und schließlich versucht [sic] durch die imaginäre That
zu handeln versucht – wenn Hamlet mit dem Totengräber spricht – so spricht er mit der einen Seite seines fatalen satur-
nischen Wesens. – Goethe besaß eine Folge von niederländischen Planetenblättern aus d[em] Ende des 17. Jahrh[underts].
Schuchhardt nachsehen, de Vries? Ich sah sie in Weimar und besitze, glaube ich, selbst die Folge. Leider fehlt mir d[er]
Name (Opium und Veronal!). Sehen Sie meine Kästen durch! Mit den Notizen über d[ie] Planeten. Auf diesem Blatt sind
alle die bekannten Typen der Melancholie vereinigt. Auch der Leichenbestatter oder Totengräber. Das Grabscheit
wandelt sich aber im Faust – der dem Meere Boden abgewinnt – zum Erlöser-Werkzeug. Der saturnische Grübler adelt
die Totenschaufel durch Goethes Genie zum Instrument des wiederauferstehenden Lebens: das Land, das dem Meere
abgewonnen wird; trägt und bringt Menschleben neuen Boden». Saxl should check this in Schuchardt’s description of
Goethe’s art collections, i.e. Johann Christian Schuchardt, Goethes Kunstsammlungen, Jena, Frommann, 1848-49.
6 Goethe, Faust II, 11539-11543. Translation Florence Melian Stawell, Goldsworthy Lowes Dickinson.
34 claudia wedepohl

For Warburg these cursorily presented examples were proof of the survival of ancient myth in
Early Modern psychology. The assumption of such survival surely goes back to his studying
the ideas of the Italian evolutionist thinker Tito Vignoli whose description of the significance
of Greek poetry as well as Greek philosophy in the process of a rationalisation of myth (that
is, the genesis of classical mythology and its allegorical exegesis) and its afterlife in poetical
metaphors had a major impact on Warburg’s own epistemological ideas.1 This aspect cannot
be addressed here in detail;2 yet it is worth mentioning that also the philologist Hermann
Usener, who, as Warburg’s teacher at Bonn, had introduced the young student to Vignoli’s
study, held that only the language of the poets had maintained the original human tendency
to perceive the world as an animated entity – being the very nature of mythical thinking –
beyond the Enlightenment.3 Another of Warburg’s favoured authors, the theorist of literature
Alfred Biese, was arguing along the very same lines that the metaphorical language of the poet
reflects one of the basic forms of thinking.4
When Saxl had not replied after a few days to his objections Warburg wrote again and de-
manded a response to the idea of a «spiritualisation of the base shovel in the last part of
Goethe’s Faust» with the implication that Goethe had spiritualised the gravedigger and turned
him into a «dying-and-rising-demon» («Saatendaemon»).5 Three days later, still without an
answer, in a letter to his wife Mary, Warburg repeated his lament that Panofsky and Saxl had
generally disregarded the grafting of the Greek myth of Chronos onto a Latin «dying-and-ris-
ing-god» («Saatengott»). The latter, he stressed, was both a chthonic deity and a god of regen-
eration; and he went on to explain:
The terrible deed of burying of the seed is not only an act of destruction but also of revitalisation. Grain
is man’s main nutrient. That is why Saturn eats his children after harvesting them with a sickle. Yet only
seeds undergo a revitalisation; men – “seeded” in analogy – remain beneath the surface. This is the endless
revival of sowing and harvest. The spring bow in the hand [of Dürer’s personification of Melencolia] –
the symbol of an either calculated or imagined continuous recurrence of things (Kreislauf ) – spiritualises
the sickle.6

In an earlier letter he had stressed the symbolic role of physical labour with a spade as the tri-
umph of the human being, expelled from paradise and condemned to work: «“With what de-
light I hear the clink and clank of spades!” Terrible resignation instead of music of the spheres
– rhythm of work. I’m missing the emphasis on the reason for a reformation of Saturn in Panof-

1 Warburg read the German translation of Tito Vignoli, Mito e scienza. Saggio, Milano, Fratelli Dumolard, 1879, al-
ready at university.
2 For a more in-depth discussion see Claudia Wedepohl, Mnemosyne, the Muses and Apollo. Mythology as Epistemology
in Aby Warburg’s Bilderatlas, in The Muses and their Afterlife in post-classical Europe, eds. Kathleen W. Christian, Clare E.L.
Guest, Claudia Wedepohl, London, The Warburg Institute, 2014 (“Warburg Institute Colloquia”, 26), pp. 211-270: 217-223.
3 Hermann Usener, Mythologie (1904), in Idem, Vorträge und Aufsätze, Berlin-Leipzig, Teubner, 1907, pp. 37-65: 46, 63.
4 Alfred Biese, Das Metaphorische in der dichterischen Phantasie. Ein Beitrag zur vergleichenden Poetik, Berlin, Haak, 1889;
Idem, Das Associationsprincip und der Anthropomorphismus in der Aesthetik. Ein Beitrag zur Aesthetik des Naturschönen, Kiel,
Schmidt & Klaunig, 1890; Idem, Die Philosophie des Metaphorischen in Grundlinien dargestellt, Hamburg-Leipzig, Voss, 1893.
5 wia, gc , Aby Warburg to Fritz Saxl, 19 February 1923: «Haben Sie die nachträglichen Saturnbemerkungen erhalten?
Hamlet und Faust! Die Vergeistigung des Grabscheites im letzten Theil des Faust, Boden – ergänzend kein Totengräber
mehr – der uralte Saatendaemon schlägt durch!».
6 wia, Family Correspondence (= fc ), Aby to Mary Warburg, 22 February 1923: «S[axl] u[nd] P[anofsky] haben viel zu
wenig berücksichtigt, daß die griechische Kronosmythe auf eine lateinische Saatengottheit, die zugleich “chtonisch”[,]
das heißt [das] unterirdisch-irdisch-andere ist[,] aufgepfropft ist. Das Grabscheit der Saturnkinder ist das Instrument des
Zerstörens der Erde, aber auch des Erschaffens für die Saat, die wie das Leben immer wieder das junge Korn heraustreibt.
Das fürchterliche Begraben der Saat ist aber Zerstörung und Wiedererweckung beim Korn, der Hauptnahrung des
Menschen. Darum ißt Saturn seine Kinder, die er mit der Sichel mäht. Nur die Saat aber kommt wieder, die Menschen,
die nach Analogie “gesät” werden, bleiben unten – das ist die ewige Wiederkehr durch die Aussaat und Ernte der Zirkel
in der Hand vergeistigt die Sichel – das Symbol des mathematisch festgestellten oder erschauten Kreislaufs».
warburg, saxl, panofsky and dürer ’ s melencolia i 35
sky’s and Saxl’s study».1 As opaque as Warburg’s jotted ideas remain, they obviously allude to
an observation crucial to him: the conversion from the real to the symbolic act, that is, from
practice to theory or from the factual to the spiritual. In this sense he assumed a relation be-
tween shovel and spring bow in the hand of the creature being under the influence of Saturn.
Symbolically this transformation (which he called reformation) also alluded to the interchang-
ing of manic-depressed episodes, supposedly typical for the genius who is always hoping for
overcoming gloom. Warburg was evidently fascinated by melancholy as a manifestation of op-
posites. In other words, at this stage of his life-long research in the patterns that determine the
forms of a human being’s expression Warburg’s interest had shifted from morphological to
psychological phenomena. For precisely this reason and at a time when he was focussing on his
own state of mind he saw Faust and Hamlet as prototypically ambivalent characters of the trag-
ic drama. They were incarnations of ‘types’ in as much as their behaviour was driven by an am-
bivalent psychological pattern.2
A week after receiving Warburg’s ideas Saxl replied that he was looking forward to dis-
cussing the dying-and-rising-god with him in person, and he may have well done so a few
weeks later; yet we know that a year later, holding the bound book in his hands, Warburg
kept insisting that the most important element was missing: the afterlife of Chronos’s typical
twofold character in Goethe’s Faust who speaks the famous line: «With what delight I hear
the clink and clank of spades!» («Wie das Geklirr der Spaten mich ergetzt!»).Warburg re-
mained convinced that Goethe’s interpretation of the digging had been inspired by a visual
source, namely the mentioned seventeenth-century Dutch series of engravings representing
the activities of the Children of Saturn. Although he maintained having seen this sequence
in Weimar, it proved impossible to trace it, and it remains unclear which images he had in
mind.3

‘Typenlehre’, ‘Typenkunde’ and ‘Typengeschichte’


Warburg was doubtlessly impressed by Panofsky’s and Saxl’s work. All three scholars had a
deep shared interest in the same literary and iconographic traditions: firstly the origin, trans-
mission and transformation of the natural-philosophical doctrine of the four humours, in par-
ticular melancholy, secondly, the role of Saturn as astrological ruler over those born in his
sign, and thirdly the representation of introversion through the gesture of the resting chin. I
have already mentioned that these traditions have one particular aspect in common: their
transmission relies on a phenomenon which is usually called ‘Typus’ or type, that is, an ‘a pri-
ori’ or ‘Urform’, in itself immaterial though determining the material form of its derivatives.
Yet both term and concept of ‘Typus’ seem to be the key for understanding not only the com-
mon nature of these different phenomena and the resulting definition of a new methodology
of art history, but also for the differences between Warburg’s approach and that of the two
younger scholars.
The term type was common in late nineteenth-century scholarship. ‘Typenkunde’ or
‘Typenlehre’, a combination of an empirical method (inspired by the sciences) and the search
for a system (rooted in philosophy), were applied to two fields of specific interest here:
psychology and archaeology. The fact that the origin of the terminology lay in the natural sci-
ences, namely in Goethe’s and Alexander von Humboldt’s morphological studies, made it par-

1 wia, fc , Aby to Mary Warburg, 26/27 January 1924: «“[W]ie das Geklirr der Spaten mich ergötzt”. Furchtbare
Resignation anstatt der Sphaerenmusik – Rhythmus der Arbeit. Mir fehlt bei der Saxl Panofsky Studie die Heraushebung
des Sinnes der Reformation des Saturn».
2 Only in the deeply revised new version of their study, Saturn and Melancholy of 1964, Panofsky, Saxl and Klibansky
dedicated a whole part to melancholy as a poetical phenomenon. Hamlet’s and Faust’s being driven by emotions, how-
ever, were only mentioned in passing, see Klibansky, Panofsky, Saxl, Saturn and Melancholy, cit., pp. 235 and 365, n. 283.
3 wia, fc , Aby to Mary Warburg, 3/4 March 1923; gc , Gertrud Bing to Fritz Saxl, 19 March 1923.
36 claudia wedepohl
ticularly suitable for an explicitly natural-scientific approach to phenomena of expression.1 A
type in the strictly morphological sense can therefore not be ambivalent.
When the term type relates to physiognomy – since the eighteenth century defined as the
unchangeable expression of the face and thus different from mimicry – it refers to the person-
ality theories of classical philosophy.2 A revival of these theories in the eighteenth century had
sparked a new generation of treatises on both character and affections. The subsequently
growing interest in the presumed link between the physical and the mental initiated specula-
tions about its anthropological as well as its biological implications, a field which for Warburg
seemed productive for a new theory of expression in art.
The conflation of morphology with psychology is the basis of the phenomenon Warburg
called ‘Pathosformel’. As a number of extant lists with classifications of ancient and Renais-
sance sculpture imply, his concept was originally shaped by the methods of contemporary ar-
chaeology. The classification of ancient sculpture according to certain types was common prac-
tice among archaeologists, but Warburg’s contemporaries went beyond stereotypical
classification and began to identify various forms of the agitated body in neo-Attic sculpture
and to sketch related ‘Typenreihen’.3 Yet, like the two late-nineteenth-century archaeologists
Friedrich Hauser and Franz Winter to whom he repeatedly refers, Warburg had not been in-
terested in outward signs that were traditionally defined as typical attributes; instead he fo-
cussed on the characteristic postures, gestures and sometimes facial expressions which index
the figure’s state of agitation. By adopting the term empathy («Einfühlung») from another con-
temporary, the art historian Robert Vischer, Warburg also took over the belief in an analogy
between subjective and objective expressions.4 He was convinced that through empathy, a kind
of re-living of a typical situation, a pre-codified form of expression (the immaterial ‘a priori’ or
‘Urform’) would materialize through an innate force to form matter.5 Hence a type of this kind
combines the image arising in the individual’s imagination with one drawn from the collective
memory of human experience. Artists would accordingly have sought to translate subjective
impressions into typical forms whose general understanding is based on social memory.6
Distinct from Goethe’s morphology, the ‘Typenreihen’ Warburg reconstructed and the ‘Bilder-
atlas’ he frequently called ‘Typenatlas’7 thus show anthropological continuities whose creation
is not controlled by natural law, but by conscious selection.

1 See Andrea Pinotti, Memorie del neutro. Morfologia dell’immagine in Aby Warburg, Milano, Mimesis, 2001 (“Itinerari
filosofici”); Idem, Nympha zwischen Eidos und Formel. Phänomenologische Aspekte in Warburgs Ikonologie, in Phänomenalität des
Kunstwerks, eds. Hans R. Sepp, Jürgen Trinks, Wien, Turia & Kant, 2006 (“Mesotes. Jahrbuch für philosophischen Ost-
West-Dialog”), pp. 222-232: 228-229.
2 Cornelia Zumbusch, Wissenschaft in Bildern. Symbol und dialektisches Bild in Aby Warburgs Mnemosyne-Atlas und
Walter Benjamins Passagen-Werk, Berlin, Akademie Verlag, 2004 (“Studien aus dem Warburg-Haus”, 8), p. 176.
3 See Claudia Wedepohl, Von der Pathosformel zum Gebärdensprachatlas. Dürers Tod des Orpheus und Warburgs Arbeit
an einer ausdruckstheoretisch begründeten Kulturgeschichte, in Die entfesselte Antike. Aby Warburg und die Geburt der Pathos-
formel, eds. Marcus Andrew Hurttig in collaboration with Thomas Ketelsen, Cologne, Walter König, 2012 (Exhibition
Catalogue, Wallraf-Richartz-Museum & Foundation Corboud»), pp. 33-50: 37-40, where I try to demonstrate the
influence of Friedrich Hauser, Verzeichnis der neu-attischen Reliefs, Stuttgart, Wittwer, 1889, and Franz Winter, Ueber ein
Vorbild neu-attischer Reliefs, «Winckelmanns-Programm der Archäologischen Gesellschaft zu Berlin», vol. l, 1890, pp.
97-153.
4 Robert Vischer, On the Optical Sense of Form. A Contribution to Aesthetics, translation Harry Francis Mallgrave and
Eleftherios Ikonomou, in Empathy, Form and Space. Problems in German Aesthetics, 1873-1893, Santa Monica, Getty Center for
the Arts and Humanities, 1994, pp. 89-123. Warburg read the original, Robert Vischer, Über das optische Formgefühl. Ein
Beitrag zur Aesthetik, Leipzig, Credner, 1873, before 1891.
5 Pinotti, Nympha zwischen Eidos und Formel, cit., p. 227.
6 Cf. Thomas Schindler, Zwischen Empfinden und Denken. Aspekte zur Kulturpsychologie von Aby Warburg, Münster, Lit,
2000 (“Kunstgeschichte”, 65), pp. 117-119 who compares Warburg’s approach with Wilhelm Dilthey’s.
7 Ivi; see e.g. wia, fc , Aby to Max Warburg, 13 June 1928: «jetzt, wo ich mit Hilfe von Fräulein Bing das sogenannte
Lebenswerk in Gestalt eines Typenatlas herausstelle». See also Dieter Wuttke, Aby M. Warburgs Methode als Anregung
und Aufgabe. Mit einem Briefwechsel zum Kunstverständnis, Wiesbaden, Harrassowitz, 1990 (“Gratia”, 2), pp. 41-51.
warburg, saxl, panofsky and dürer ’ s melencolia i 37
When on 30 October, 1888, the student Warburg had been asked to prepare a presentation
on Masaccio’s «characters, types or portraits» in the Brancacci Chapel,1 he must have wanted
to substantiate the morphological approach to artefacts he saw practised by contemporary ar-
chaeologists. His idea was to revert to evolutionist anthropology, namely – as it is well known –
Charles Darwin’ The Expression of Emotions in Man and Animals of 1872, but he also read Johann
Caspar Lavater’s seminal work on physiognomy (Physiognomische Fragmente, 1775-1778) as well
as the studies of the German physician Theodor Piderit.2 Piderit had published two books on
mimicry and physiognomy (in 1858 and in 1867) in which he developed his own thesis of an anal-
ogy between the activities of the soul («Seelentätigkeit»), the brain («Gehirnfunktion») and the
body.3 Different from Darwin’s linking of expression and habits Piderit assumed a connection
between physical and emotional activities via the nerves of the spinal cord. He thus came to
the conclusion that mimic traits are reflexes of a so-called brain of the soul, triggered in re-
sponse to a stimulus. Reading Piderit in 1888 had doubtlessly made Warburg receptive for Vis-
cher’s theory of empathy in which the impact of the individual’s experience on the formation
of certain expressions is emphasised.
Piderit’s was a modern approach to the phenomenon of expression compared to Lavater’s
attempt to link physiognomy and character through ancient pathology, namely the doctrine of
the four humours. Hippocratic in its origin and further developed by Galen, this doctrine is
based on the idea of preponderance of one of the four body fluids, blood, phlegm, yellow or
black bile. Such preponderance presumably caused an illness that was later considered as psy-
chopathological condition with effect on the formation of a person’s temperament: either a
strong tendency to seek pleasure (in the so-called sanguine type), or to indulge in laziness (in
the so-called phlegmatic type), or to behave in a self-centred, ambitious, impulsive and aggres-
sive manner (in the so-called choleric type), or to be introverted, sad and depressed (in the so-
called melancholic type). With regard to the latter, Hippocrates defines this condition for the
first time around 400 BC by writing: «If fear and sadness last for a long time this is a sign of
melancholy».4 While Hippocrates describes the symptoms, scholars have stressed the differ-
ence between the proper illness and episodes of depression in the melancholic type.5 Such type
is in principle able to influence his or her quintessentially ambivalent complexion. The origin,
transmission and representation of precisely this conception of melancholy had increasingly
come to the fore of Warburg’s interest.
Since the Early Modern period melancholic introversion was captured in the motive of a
seated figure with the chin propped on his or her elbow. Supporting the head with the hand
had already in ancient sculpture been indicating pain, mourning, sadness and deep thought;
Hercules and Ajax were occasionally represented in such posture.6 Driven by his interest in an-
tique origins and their afterlife, Warburg was keen to identify the ancient source for not only
the resting chin, but also the reclining body, leaning on an elbow. Evidence of this search ap-
pears in his study on paganism in the age of Luther. Buried in a footnote Warburg addresses
Dürer’s reshaping of motives from the medieval tradition into the «classical language of forms»
(«klassische Formensprache»):

1 wia, iii.9.4 («Tagebuch»), entries of 30 October: «Charaktere, Typen oder Bildnisse» and 16, 26, 27, 29, 30 November
1888; 3 December 1888. Later Warburg studied the characterology of the philosopher Ludwig Klages, too, but not earlier
than 1911 when his basic theoretical notions regarding the ‘Pathosformel’ had already been formed.
2 wia, i.10.1 («Vom Arsenal zum Laboratorium»), f. 4.
3 Theodor Piderit, Grundsätze der Mimik und Physiognomik, Braunschweig, Vieweg, 1858; Idem, Wissenschaftliches
System der Mimik und Physiognomik, Detmold, Klingenberg, 1867. 4 Hippocrates, Aphorism 6.23.
5 Hubert Tellenbach, Melancholie. Zur Problemgeschichte, Typologie, Pathogenese und Klinik, Berlin-Göttingen-Heidel-
berg, Springer, 1961, pp. 4-6.
6 See Alain Pasquier, Trauer und Melancholie und ihre Darstellung in der griechischen Kunst, in Melancholie, Genie und
Wahnsinn, ed. Jean Clair, Ostfildern-Ruit, Hatje Cantz, 2005 (Exhibition Catalogue, Deutsche Nationalgalerie, Berlin,
2006), pp. 38-43.
38 claudia wedepohl

Fig. 4. Detail of a reclining figure in Albrecht Dürer,


The Holy Family with two Angels, 1503-1504.
The illustrated Bartsch, no. vii, 135.100
© The Warburg Institute.

It is worth emphasizing that Melencolia I also con-


tains a number of purely formal echoes of the tra-
dition of antiquity. This is exemplified by one of
Fig. 3. Eridanus in Lapidario del Rey D. Alfonso X, the decan figures in the lapidary of Alfonso the
facsimile of the manuscript in the library Wise [produced in the second half of the thir-
of the Escorial. Introduction and transcription teenth century]. […] In form and content this is a
by José Fernandez Montaña, [Madrid, transposition of a reclining river god, with head
Imprenta de la Iberia 1881], f. 99v, copy with supported on the one hand, he is identified as Eri-
Warburg’s notes, held in the Warburg Institute,
classmark foh 2090.
danus, described as a star rising in company with
the watery Pisces, ruled by Saturn […]. A similar
posture is adopted by the antique male spandrel
figure whom Dürer depicts, with a female counterpart, on the arch of a gateway in an early woodcut
[that is a scene of the Life of Mary depicting the Birth of Christ].1
For the first time Warburg states here that the iconography of the reclining figure must be
based on the classical depiction of river gods. One of Ptolemy’s 48 constellations, the river god
Eridanus, Greek for the river Po, would subsequently have influenced the depiction of Saturn
as a star deity (Figs. 3, 4). In Warburg’s collection of notes and images we can find a number
of examples for the revival of an original antique iconography, an earth-bound figure in a pos-
ture that was associated with saturnine melancholy, presumably known by Dürer (Fig. 5). Dür-
er’s reception of this iconography was, Warburg believed, the turning point when lethargy be-
came one of the characteristics of the melancholic type. Yet it is important to note that
Warburg writes of «purely formal echoes of the tradition of classical antiquity». He was appar-
ently referring exclusively to the typical posture of the mythological figure; in other words he
refers to the «Ausdrucksbewegung» («expression through motion») of an entire body which de-
fines the «Umfang» («circumference») of the figure.2
The tone for an emphasis on both the morphological and historical aspect of the phenom-
enon called melancholy is already announced in the subtitle (i.e. typengeschichtliche Untersuchun-
gen) of Panofsky’s and Saxl’s study. The two authors report at length and in great detail the com-

1 Warburg, The Renewal of Pagan Antiquity, cit., p. 691; gs ii, p. 530, n. 1: «Es sei hervorgehoben, daß in der “Melencolia
I” auch rein “formal” antike Überlieferung nachklingt. Das zeigt das Sternsymbol eines Dekans zu den Fischen im Stein-
buch des Alfonso (Lapidario del rey Alfonso X., [Madrid 1883], B. 99v). Dieses Dekangestirnbild ist in Form und Inhalt die
transponierte Figur eines liegenden Flußgottes mit aufgestütztem Kopf, der eben als “Eridanos” (vgl. Abu Ma‘sar bei Boll,
Sphaera, s. 537) als mit aufgehender Stern zum Zeichen der saturnbeherrschten, wässrigen Fische gehört. Eine ganz ähn-
liche Stellung weist nun die männliche antike Zwickelfigur auf, die – mit einer weiblichen zusammen – Dürer auf einem
frühen Holzschnitt in einem Torbogen angebracht hat (Die heilige Familie, Holzschnitt B. 100 Abb. Bei Val. Scherer,
Dürer, Klass. Der Kunst, Bd. iv, s. 189 [4. Aufl. 1928, S. 238])».
2 Cf. Zumbusch, Wissenschaft in Bildern, cit., pp. 176-187.
warburg, saxl, panofsky and dürer ’ s melencolia i 39

Fig. 5. Aby Warburg, Manet und die italienische Antike, (Manet and Italian Antiquity), Panel 3,
Rome 1929, detail, © The Warburg Institute.

plex intellectual tradition of both illness and temperament; as a matter of course this includes
the ambiguity of melancholic complexion due to the merging of contradicting elements in the
personification of the planet Saturn. Yet, as Warburg observed, they do not discuss the trans-
lation of this ambiguity into either the poetic or the iconographic representation of the typical
melancholic character. Instead, their text culminates in an analysis of Dürer’s invention, tracing
the iconographic tradition of all its elements and motives including the central figures posture
and gesture. This analysis seems indeed the very first and in this respect a paradigmatic analysis
of its kind in twentieth-century art history. Dieter Wuttke, the editor of Panofsky’s correspon-
dence, states explicitly that the method known as «iconology and iconography» had initially
been called ‘Typenlehre’,1 a term Panofsky used synonymously with ‘Typengeschichte’, but

1 Erwin Panofsky, Korrespondenz 1910-1968. Eine kommentierte Auswahl in fünf Bänden, i: Korrespondenz 1910-1936, ed.
Dieter Wuttke, Wiesbaden, Harrassowitz, 2001, p. xxii: «die zunächst vom ihm Typenlehre, bald aber Ikonologie und
Ikonographie genannte Untersuchungsrichtung».
40 claudia wedepohl
mainly with reference to iconography. The essay in which it appears for the first time is his
Dürers Stellung zur Antike of 1921-22.1 The title has a striking resemblance with Warburg’s Dürer
und die italienische Antike of 1905 where Warburg had introduced both term and concept of the
‘Pathosformel’ by demonstrating the influence of pathos-laden classical imagery on fifteenth
and sixteenth-century ‘all’antica’ works. Along the very same lines Panofsky discusses Dürer’s
adoption of motives of «tragic unrest» – handed down from Greek art by Early Italian Renais-
sance artists – but he focuses more on the phenomenon of «classical calm».2 His very first
methodological reflection on the terminology, though, appears only ten years later, in Panof-
sky’s Zum Problem der Beschreibung und Inhaltsdeutung von Werken der bildenden Kunst of 1932. In
this essay he calls both ‘Typenlehre’ and ‘Typengeschichte’ a «corrective» for the determination
of a ‘Bedeutungssinn’, a method later named «Ikonographie» («iconography»),3 and in another
famous essay, now with the terms iconography and iconology in its title, he defines the same
‘Typengeschichte’ as «controlling principle of interpretation» of «conventional subject matter,
constituting the world of images, stories and allegories» throughout history. In contrast, Panof-
sky uses the terms «symptom» and «symbol» to define «essential tendencies of the human
mind» being «expressed by specific themes and concepts» whose meaning varies under different
historical conditions; the method for their interpretation is called iconology.4 Both «symptom»
and «symbol» are thus for Panofsky much more complex phenomena than a type. This com-
plexity seems to point to Warburg’s specific criticism of Panofsky’s and Saxl’s study. Warburg’s
own definition of iconology refers to the consideration of both text and image – a method
whose contemporary co-pioneer in the history of art had been no other that Karl Giehlow.5

Melancholy - Acedia - Bipolarity


According to Warburg’s, Panofsky’s and Saxl’s account, fatalistic astrology had infiltrated the
Mediterranean culture through the spread of Middle Eastern cults in late antiquity. This astrol-
ogy – as recorded in the ninth century in Abu Mash‘ar’s Introductorium major – ruled that the
planet Saturn shared his qualities with the element earth as whose metabolic agent in the hu-
man body Aristotelian humoral pathology considered the complexion of melancholy. Accord-
ingly children born in the sign of Saturn were inevitably believed to become melancholic types.
Yet the humours were not only connected with the four different qualities of the four elements
(wet, dry, warm and cold), but also with the originally Pythagorean joining of the four ages of
men (childhood, youth, advanced and old age) and the four seasons. Melancholy was associated
with autumn and old age, and Saturn therefore usually represented as an old man.6 In Greek

1 Erwin Panofsky, Dürers Stellung zur Antike (1921), in Idem, Deutschsprachige Aufsätze, i, eds. Karen Michels, Martin
Warnke, Berlin, Akademie Verlag, 1998, pp. 254-255. This essay originated in the same class on Dürer that gave rise to the
collaboration with Saxl.
2 Panofsky quotes the terms «tragische Unruhe» and «klassische Ruhe» from Warburg’s unpublished lecture, delivered
in Florence in November 1914 and refers to the results of his «Botticellis “Geburt der Venus” und “Frühling”» and «Dürer
und die italienische Antike», see ivi, pp. 249 and 253 and 259-261.
3 Erwin Panofsky, Zum Problem der Beschreibung und Inhaltsdeutung von Werken der bildenden Kunst, «Logos», 21, 1932,
pp. 103-119: 114: «daß das, was diesen subjektiven Erkenntnisquellen als objektives Korrektiv gegenübertritt, […] nichts
anderes ist als etwas, was wir “Überlieferungsgeschichte” nennen können, und was uns im Fall des Phänomensinns als
“Gestaltungsgeschichte”, im Fall des Bedeutungssinns als “Typenschichte” begegnet ist».
4 Erwin Panofsky, Iconography and Iconology. An Introduction to the Study of Renaissance Art, in Idem, Meaning in the Vi-
sual Arts. Papers in and on Art History, Garden City, ny, Doubleday, 1955 (“Doubleday anchor books”, a59), pp. 26-54: 40-41.
Elsewhere Panofsky states, somehow differently, that the linking of a transmission of texts («Worttradition») and images
(«Bildüberlieferung») enables the recipient to gain «iconological» insights by means of philology and ‘Typengeschichte’,
see Panofsky, Korrespondenz, cit., p. 382.
5 Martin Warnke, Aby Warburg (1866-1929), Altmeister moderner Kunstgeschichte, ed. Heinrich Dilly, Berlin, Reimer,
19992 (“Kunstgeschichte. Zur Einführung”), pp. 117-130: 122. Warnke however speaks of «modern iconography» («moderne
Ikonographie»).
6 See Franz Boll, Die Lebensalter. Ein Beitrag zur antiken Ethologie und zur Geschichte der Zahlen, mit einem Anhang über
die Schrift von der Siebenzahl, Berlin-Leipzig, Teubner, 1913, pp. 16-17 and 40-41, one of Warburg’s other sources on this topic:
warburg, saxl, panofsky and dürer ’ s melencolia i 41
mythology the same Saturn had been the children-devouring Chronos and in Roman mythol-
ogy the god of agriculture, civilizations and civil order. Subsequently Saturn had accumulated
a number of qualities, most importantly, though, he maintained Chronos’s fundamental du-
plicity. Macrobius, for example, quotes in his commentary on Cicero’s Somnium Scipionis Pro-
clus’s attribution of the most noble gift a person can receive to Saturn’s influence: «in Saturni
ratiocinationem et intellegentiam» – in the sphere of Saturn the descending soul received ra-
tional and divinely-inspired thinking.1
Another astronomical quality of the most distant of the seven known planets was its slow
movement. Due to this quality the planet’s influence was associated with idleness or sloth,
which in the Christian tradition is called ‘acedia’ and one of the seven deadly sins.2 In other
words, idleness as characteristic of the melancholic type was not an original quality of this
complexion but acquired it through the linking with Saturn. The concept of ‘acedia’, from the
Greek àÎˉ›·, literally numbness, is older than the doctrine of the seven deadly sins. In the
post-classical age it was first connected with the solitude of the eremites and was seen as being
a form of despair of the belief in salvation. Due to this tradition we can often find anchorites
represented among the Children of Saturn. Only during the fifth century did both term and
concept spread throughout Europe to become perceived as a sin, the illness of inactivity and
thus an illness of the soul rather than the body.
The association of melancholy and ‘acedia’ fascinated Warburg. For him ‘acedia’ was an
«ethical form of melancholy» which as such had found its entry in the Christian doctrine.3
Liliencron, repeatedly quoted by Warburg, had suggested a way in which the ancient notion
could have been transmitted from the Christian doctrine to an Early Modern conception of a
complex personality. Not only stressing the diffusiveness of the doctrine of the «seven types of
self-destruction of the souls» through literature and practice, Liliencron calls these seven sins
a «mirror of the psychology» of the time.4 Very similarly, Warburg writes that one would in his
days call ‘acedia’ a «manic-depressive insanity» and that it «symbolises the duplicity of insanity
which the ancients had already discovered».5 He therefore slightly revises the view that the Ital-
ian Neo-Platonist and physician Marsilio Ficino (who was undisputedly the first to ennoble the
complexion), had rediscovered melancholy’s duplicity – a personal view to which he also al-
ludes in his study on the age of Luther by writing about the breathing of «new life into the
mummified acedia of the Middle Ages».6
Ficino had certainly revived and endorsed the ancient idea of a link between melancholy and
genius that had been transmitted in chapter xxx, 1 of the pseudo-Aristotelian treatise Problema-
ta. The treatise’s author – possibly Theophrastus – argues that all gifted personalities in history,
those who excelled in arts, sciences, politics and philosophy were melancholic types. In physi-
ological terms he holds that black bile can either be heated or cooled resulting in two different

«Dann kommt das letzte Alter, das dem lichtschwächsten, langsamsten Planeten untersteht, dem Saturn. Das ist die letzte
Stufe des abwärtsschreitenden Lebens: da erkalten und erlahmen alle Bewegungskräfte des Leibes und der Seele; Triebe,
Genüsse, Wünsche – alles schwächt sich ab, Mutlosigkeit, Mattigkeit, Unlust zu allem nimmt überhand, bis das Leben
vollends erstarrt». See also Jean Starobinski, Geschichte der Melancholiebehandlung von den Anfängen bis 1900, Basle, Geigy,
1960 (“Documenta Geigy. Acta psychosomatica. Deutsche Ausgabe”, 4), p. 14.
1 Macrobius, In somnium Scipionis, i.12.14. Cf. Panofsky, Saxl, Dürers ‘Melencolia I’, cit., pp. 12-14; wia, iii.2.1, zk ,
031/17218 where Warburg copies and corrects Panofsky.
2 Cf. Boll, Die Lebensalter, cit., p. 34. 3 wia, iii.2.1, zk 031/017229-37: «Melancholie ethisch Accedia».
4 Liliencron, Wie man in Amwald Musik macht, cit., p. 94: «die allgemeinen psychologischen Anschauungen jener
Jahrhunderte» and p. 95: «die Lehre von den sieben Typen tragischer Selbstzerstörung der Seelen».
5 wia, gc , Aby Warburg to Heinrich Weizsäcker, 3 June 1927: «Die mittelalterliche Acedia nimmt in christlicher
Denkweise die Idee des saturnisch-melancholischen Menschen auf – des manisch-depressiven Irreseins, wie wir heute
sagen würden, und versinnbildlicht so die von der Antike längst erkannte Doppelheit des Irreseins, die der eigentlich sehr
vielsinnigen Doktrin von der schwarzen und weißen Galle zu Grunde liegt».
6 Warburg, The Renewal of Pagan Antiquity, cit, p. 644; also gs ii, p. 529: «Die mummifizierte Acedia des Mittelalters
wird wiederbelebt».
42 claudia wedepohl
types of symptoms, moodiness and anxiety or a euphoric state, even manic ecstasy – a descrip-
tion that seems to imply having recognised the cyclical character or episodic quality of a bipolar
condition. The cold, dry and earthbound black bile was thus associated with depression but be-
lieved to be reversible into hot, yellow bile that triggered ‘mania’, Plato’s enthusiasm; for the
author of Problem xxx, 1 this was however a natural disposition, not a divine gift.1 He propa-
gates the ideal of the right measure, a temperate but constantly labile state, typical for the men-
tioned «best man» («ÂÚÈÙÙÔ›»). Cicero later translated «ÂÚÈÙÙÔ›» as «ingeniosi», and this trans-
lation marks not only the introduction of the term ‘genius’, but sparked the Platonic discourse
on genius and madness.
Marsilio Ficino had supported the idea – disseminated by Rufus and his commentator Con-
stantinus Africanus – that scholars are not only susceptible to melancholy, but that the com-
plexion was even a prerequisite for intellectual achievement.2 He advocated a therapy against
the worst effects of an excess of black bile aiming to convert it. The recommended therapy con-
sisted of a combination of diet, herbal medicine to temper the black vile, and occult practices
to moderate the destructive influence of Saturn and turn this influence into the gift of a
prophetic talent. Accordingly, ‘mania’, that is, Ficino’s ‘furor divinus’, the enthusiasm of inspi-
ration, was considered the highest form of contemplation.
Since around 1800 the mental illness that the ancients called melancholy has been identified
as depression; yet until Freud’s time its clinical picture was still named melancholy. The
aethiopathology of this illness is often characterized by periodic mood changes between states
of enthusiasm and depression. Both affections are believed to be caused be the same underlying
mental condition. Periodically, the patient falls either victim to his or her condition, or is able
to control and overcome it. The same clinical picture is recorded in the medical history Ludwig
Binswanger compiled for Aby Warburg. For the enthusiastic state, also called ‘mania’ or re-
ferred to as obsession, Binswanger used the term «flight of ideas» («Ideenflucht») synonymous-
ly, referring to a lack of coherence and continuity in thinking. The eminent psychiatrist Emil
Kraepelin had diagnosed Warburg’s general condition as episodic manic-depressive states,3 a
condition nowadays in all likelihood called bipolarity.

Inner Tension: the Hamlet-Problem


Warburg’s fascination for Shakespeare’s invention of Hamlet is beyond the single line in his
long essay on Luther only traceable in his notes and correspondences, as is the case for any ref-
erence to the poet in general. Despite the infrequent quotations, we can assume that Shake-
speare (whom Boll called the greatest and Liliencron the greatest of all psychologists) and his
play (which according to the same Boll was deeply rooted in Renaissance culture and would re-
main impenetrable without the knowledge of antiquity) was very much on Warburg’s mind as
a household name.4 Now and again he mentions the supposedly well-known «Hamlet prob-
lem» («das Hamlet-Problem»), for example, in his lecture on «Rembrandt and Italian Antiquity»
of May 1926. Here he uses the expression as synonym for a «moral conflict» («Gewissensqual»)
whose experience, he thinks, shaped Rembrandt’s work:

1 Tellenbach, Melancholie, cit., p. 10.


2 Thomas Rütten, ad v. Melancholy, in The Classical Tradition, eds. Anthony Grafton, Glen W. Most, Salvatore Settis,
Cambridge, ma - London, Belknap Press of Harvard University Press, 2010, p. 580.
3 Ludwig Binswanger, Aby Warburg, Die unendliche Heilung. Aby Warburgs Krankengeschichte, ed. Chantal Marazia,
Davide Stimilli, Berlin, Diaphanes, 2007.
4 Boll, Die Lebensalter, cit., p. 4; Liliencron, Wie man in Amwald Musik macht, cit., p. 95. Shakespeare is quoted several
times in Aby Warburg, Tagebuch der Kulturwissenschaftlichen Bibliothek Warburg, mit Beiträgen von Fritz Saxl und
Gertrud Bing, eds. Karen Michels, Charlotte Schoell-Glass, Berlin, Akademie Verlag, 2001 (“Gesammelte Schriften,
Studienausgabe”, vii), also with regard to the representation of ‘mania’ (p. 453) and Cassirer’s research on ‘synderesis’ the
Scholastic term for moral conscience (p. 484).
warburg, saxl, panofsky and dürer ’ s melencolia i 43

Whoever asks supporters of the arts to share, inwardly, a despaired inner composure that prepares itself
for an uncertain, dangerous future, that is, compassion with the eternal Hamlet problem of moral con-
flict between reflex («Reflexbewegung») and reflection («reflexives Handeln») – it might be posed as an
example in either the Medea or the Claudius Civilis as a cult image – is in danger of being defeated by the
producers of triumphal praise of the presence».1

This complex conclusion of Warburg’s might be reduced to its nucleus: the opposition of reflex
and reflection. The pair is a variation of his many examples of oppositional terms that had epis-
temological value for Warburg. Both these terms mark the extremes in a behavioural spectrum
between an instinct-driven and a calculated reaction, as, for example, the belief in magic and
rational reasoning. In the context of Warburg’s lecture on Rembrandt they refer to an antago-
nism of artistic styles, co-existing in seventeenth-century Holland, one represented by Rem-
brandt’s work, the other by Rubens’s highly popular Baroque art (as for Warburg this type of
expression manifests uncontrolled emotions). The quoted «Hamlet problem» thus refers to
Rembrandt’s presumed inner tension, triggered by his opposition to a so-called Italian Antiq-
uity, that is, how an influx of highly animated ‘all’antica’ inventions from Italy met with popular
taste. Warburg compares this tension – also called «Hamlet tension» («Hamlet-Spannung») –
with the electrical charge of the famous ‘Leyden jar’, the very first device to store static elec-
tricity, invented by Pieter van Musschenbroek in Leyden in 1745/46.2 But, of course, the ‘Leyden
jar’ is just another metaphor for a phenomenon Warburg called ‘engram’ (‘Engramm’) or ‘dy-
namogram’(‘Dynamogramm’): a container of psychic energy, latent in its potential, whose
charge is released through the revival of a primordial experience, but this release can be regu-
lated by will.
Warburg’s linking of Hamlet’s tragic dilemma («To be or not to be? That is the question – /
Whether ’tis nobler in the mind to suffer / The slings and arrows of outrageous fortune, / Or to
take arms against a sea of troubles, / And, by opposing, end them?») with Faust’s («Two souls,
alas, are dwelling in my breast / And one is striving to forsake its brother») was by no means as
original as was his reading of Hamlet through Liliencron;3 shortly afterwards the same connec-
tion was quoted by Walter Benjamin.4 Yet while Benjamin was interested in the Lutheran un-
dertones of Liliencron’s interpretation of Shakespeare,5 for Warburg the obvious parallels in

1 wia, iii.101.2.1 («Rembrandt und die italienische Antike»), fol. 106: «Wer verzweifelte innere Zusammenfassung, die
sich auf ungewisse gefahrvolle Zukunft vorbereitet, innerlich von den Kunstfreunden verlangt, Mitleiden mit dem ewigen
Hamletproblem der Gewissensqual zwischen Reflexbewegung und reflexivem Verhalten – es mag nun in der Medea oder
im Claudius Civilis als sittlich forderndes Kultbild aufgerichtet werden –, der wird immer Gefahr laufen, von den Liefe-
ranten triumphaler Gegenwartsbejahung aus dem Felde geschlagen zu werden».
2 See wia, iii.102.5.3 («Grisalle, Mantegna»), fol. 17; Warburg, Tagebuch, cit., pp. 253 and 543.
3 Hamlet, iii.1, 56-60; Faust, i, 1112-1117. Warburg’s interest in the psychology of Goethe’s Faust was neither new, nor
did it go far beyond any general interest in German classics. He wanted to find out from where Goethe had taken his
inspiration, presuming the poet hat been inspired by either a particular classical or post-classical source, perhaps even by
visual material. Warburg’s attention for the historical Dr. Johannes Faustus is first traceable in his study on the German
Reformation, initially prepared for the Luther anniversary in 1917. Yet it is well known that Warburg elaborated on his
lecture of 1917 and delivered a profoundly revised version in Berlin in April 1918; this is the version on which the publication
of 1920 is based. In this lecture and again in the published essay he mentions Dr. Faustus as a contemporary of Luther
who, like others he quotes, e.g. Melanchthon, Carion, Camerarius, Gauricus and Sebastian Brant, practised necromancy
(magic), wrote horoscopes and prognostica and was thus a practising ‘augur’, see Warburg, The Renewal of Pagan Antiq-
uity, cit., pp. 648-649 and gs ii, p. 533. See also wia, fc , Aby to Mary Warburg, 22 April 1918.
4 Walter Benjamin, Der Ursprung des deutschen Trauerspiels (1928), Frankfurt/M, Suhrkamp, 19692, p. 173: «Shake-
speare allein vermochte aus der barocken, unstoischen wie unchristlichen, pseudoantiken wie pseudopietistischen Starre
des Melancholikers den christlichen Funken zu schlagen. Wenn anders der Tief blick, mit dem Rochus von Liliencron
Saturnkindschaft und Male der Acedia in Hamlets Zügen las, um seinen besten Gegenstand nicht betrogen sein soll, wird
er in diesem Drama das einzigartige Schauspiel ihrer Überwindung im christlichen Geiste erblicken. Nur in diesem
Prinzen kommt die melancholische Versenkung zur Christlichkeit».
5 Jane Newman interprets Benjamin’s attention for Liliencron’s novel as attention to the fact that it was written in the
sprit of propagating a Pan-Germanic confessional unity in which Warburg was not interested. See Jane O. Newman,
Benjamin’s Library. Modernity, Nation and the Baroque, Ithaca-New York, Cornell, 2011 (“Signale”), p. 140.
44 claudia wedepohl
the make-up of two fictive characters were manifestations of the afterlife of an archetypical
problem of human existence: the being driven by a continuous search for transcendence.
When Panofsky’s and Saxl’s study was finally printed, bound and distributed, Warburg ac-
knowledged its historicising character and called the presumed allusion to a conjunction of
Jupiter and Saturn in Dürer’s print a «metamorphosis of Saturn into the genius», a symbol of
the elevation of «the human being’s fate and destiny» («heimarmene») embodied by a «Faust à
la Hamlet».1 Perhaps the most concise summary of the same idea with its optimistic under-
tones can however be found among his notes relating to the classical literary tradition of melan-
choly: «Out of these roots grows the Northern doctrine of the genius as the morally con-
demned Saturnine nature is taken away from the idle personality: the ‘Weltschmerz’
canonizes».2

Mourning River Gods


After the appearance of Panofsky’s and Saxl’s study Warburg continued to develop his own
ideas about the nature of melancholy. Not surprisingly, he pursued a different path than his
younger colleagues. The result, however, was never written down in a coherent text. As ever
so often, one has to reconstruct Warburg’s notions from letters, fragments, journal entries and
notes. These documents prove once again that his very own concept of a structural polarity of
the human mind also counted as model for mental ambivalence and inner conflicts. One could
perhaps even say that Warburg tried to capture an innate bipolarity in the melancholic type.
Historically, this inner conflict was for him an emblematic symbol of the battles between irra-
tional belief and the rational thinking in the proto-enlightened period. Dürer’s Melencolia I be-
came, accordingly, a prefiguration of the Enlightenment. Psychologically this inner conflict
was something he had not only experienced himself, he had also recognised the same conflict
in the famous fictive characters discussed above.
As always, Warburg attempted to link this notion with the iconographic tradition, tracing it
back to the images of classical mythology. In this case, the figuration of the reclining, according
to Warburg «mourning» («trauernd») river god seemed to provide an answer. This semi-divine
creature is supposedly grieving his earthbound existence that prevents him from ascent into su-
pernatural spheres, following one’s innate heliotropism and longing for transcendence. In his
text known as the fragment on Manet and Italian Antiquity, describing a scene on one of the two
Roman sarcophagi he analysed, Warburg writes:
Doomed to remain on river-banks and mountains they raise themselves, whether in awe or longing, to
spheres of light never to be their own. Their eyes, completely absorbed by the fearful spectacle of the di-
vine epiphany, speak of nostalgia and the burden of still-corporal existence – the fate of the non-
Olympians».3

In this role the river god was part of Warburg’s model of a structural interconnection between
the human psyche and the history of civilisation.

1 wia, fc , Aby Warburg letter draft to Erwin Panofsky, 21 January 1924: «Ich bin doch der Meinung, daß man die Me-
tamorphose des Saturn ins Genie durch das [Jupiter] Amulett belegen kann. Bis zum Faust alla Hamlet: Adel der <…?>
Heimarmene zum Symbol seelischer, produktivster Ergriffenheit».
2 wia, iii.2.1, zk 030/017232: «Aus diesen Wurzeln nordische Doctrin v[om] Genie indem d[em] Unthätigen das
moralisch sträfliche des Saturn-Menschen genommen wird: der Weltschmerz canonisiert».
3 Aby Warburg, Manet and Italian Antiquity, translation Henriette Frankfort, ed. Claudia Wedepohl, «Bruniana &
Campanelliana», a. xx, 2, 2014, pp. 455-476: 465.
M E LE N CO LIA II.
GER SH O M S CH O LE M E L’I S T IT UTO WARBURG.
UN’ I NDAGI N E D I S TO R I A D E LLE F ON T I E D E I T IPI
Sav e r i o Ca m panini
The failed attempt by Walter Benjamin to enter the exclusive circle of the Warburg Institute in the Twenties has
been the object of much scholarly attention. The fact that his friend Gershom Scholem also attempted to cultivate a
fruitful collaboration with the Institute was less known and has not been studied systematically. At the end of his
long life Scholem was quite dismissive concerning the Warburg, which he even called “a Jewish sect”, stating at the
same time that the degree of “Jewish intensity” of its adepts ranged from a moderate sympathy to nil and even less.
On the basis of a vast documentation, both published and unpublished, the article presents and evaluates the evi-
dence of a long, at times frustrating, and often tormented relationship, which lasted well beyond the entre-deux-
guerres period. Scholems attempts to belong to the group were frustrated by the resolute anti-Zionist attitude shown
by Warburg. The poles around which this noteworthy intellectual confrontation are crystallized as “melancholy”
and “Nachleben” and the complex intertwining of the desire of being included and the hard task of surviving.

Und alles schwieg. Doch selbst in der Verschweigung


ging neuer Anfang, Wink und Wandlung vor.
R. M. Rilke

L a fuga delle idee (Ideenflucht), di cui ha parlato Ludwig Binswanger,1 più che una patologia
del pensiero, appare talora come il modo naturale in cui esse trascorrono, in prospettiva.
Tuttavia c’è un istante in cui le idee si arrestano e il pensiero, per quanto paradossalmente, può
cominciare il suo corso. Questo momento, l’occasione che ha offerto a Scholem il destro per
ripensare, con la saggezza e la rigidità che sono i doni inseparabili dell’età avanzata, il suo rap-
porto con l’Istituto Warburg, può essere cercato nell’estate del 1977. Dopo aver ricevuto una co-
pia della traduzione inglese di John Osborne dell’Ursprung des deutschen Trauerspiels (The Origin
of German Tragic Drama) con introduzione di George Steiner,2 Scholem, che non aveva certo
bisogno di leggere il libro, a lui ben noto nella lingua originale, nella genesi e nella sua struttura,
per essere stato tenuto al corrente di ogni sviluppo della sfortunata Habilitationsschrift di Walter
Benjamin dall’autore stesso, di persona, durante l’incontro che ebbero a Parigi nel 1927 e nelle
molte lettere che ne ricevette dalla Francia, dalla Germania e soprattutto dall’Italia, si mise a
leggere la prefazione di Steiner e un passo in particolare attirò la sua attenzione con la violenza
di un ricordo a lungo rimosso e forse proprio per questo tinto di malinconia.
Steiner, con una certa leggerezza, aveva colto uno snodo che pareva essere stato del tutto
trascurato dall’autore della Storia di un’amicizia, quella con Walter Benjamin, dalla quale il no-
me di Aby Warburg è del tutto assente.3 Dopo aver osservato che il lavoro di Benjamin lo av-
vicinava naturaliter alle ricerche di Saxl e Panofsky su Saturno e la malinconia, Steiner osserva,
sulla sola base dell’epistolario di Benjamin allora disponibile, che il tentativo di avvicinamento

Saverio Campanini, Università di Bologna, Dipartimento di Beni Culturali


1 Cfr. Ludwig Binswanger, Sulla fuga delle idee, Torino, Einaudi, 2003 (ed. orig. Über Ideenflucht, Zürich, Art. Institut
Orell Füssli, 1933).
2 George Steiner, Introduction, in Walter Benjamin, The Origin of the German Tragic Drama, London, New Left
Books, 1977, pp. 7-24.
3 Gershom Scholem, Walter Benjamin. Geschichte einer Freundschaft, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1975; trad. it.
Walter Benjamin. Storia di un’amicizia, Milano, Adelphi, 2008, riveduta rispetto alla prima edizione del 1992.
46 saverio campanini
da parte di Benjamin all’Istituto Warburg lo avrebbe condotto, se non fosse miseramente fallito
per l’opposizione di Panofsky, a trovare una dimora intellettuale e un clima psicologico (a ge-
nuine intellectual and psychological home) assai più confacente alle sue attitudini di quanto non do-
vesse rivelarsi in seguito la frustrante e, con il senno di poi, fatale collaborazione con l’Istituto
per la ricerca sociale di Francoforte guidato da Horkheimer e da Adorno.1
This marks – sono parole di Steiner – the most ominous moment in Walter Benjamin’s career […] Panof-
sky could have rescued Benjamin from isolation; an invitation to London might have averted his early
death.2

Simili parole non potevano lasciare indifferente Scholem il quale, è il meno che se ne possa dire,
aveva passato buona parte della sua vita, dopo il settembre 1940, a chiedersi se Benjamin si sa-
rebbe potuto salvare, e come.
“Ad ora incerta”, secondo il verso di Coleridge caro a Primo Levi,3 il pensiero di un’occasione
mancata si ripresenta e, anziché paralizzare il soggetto con sguardo di Medusa, ne attiva la rea-
zione. Scholem prende carta e penna e scrive a Steiner il 28 giugno 1977.4 Dopo essersi scusato
per non averlo ringraziato dell’invio del suo celebre saggio After Babel del 1975,5 che Scholem
con tratto tipico riesce a storpiare in “The Tower of Babel”, secondo la sua classica inconscia
perfidia,6 va dritto alla questione che lo ha toccato: “Ciò che mi pare maggiormente degno di
nota nella sua introduzione, è la congettura per cui Benjamin si sarebbe trovato meglio al War-
burg Institute anziché all’Institut für Sozialforschung di Horkheimer. That sets me thinking”.7
Subito dopo fa la sua comparsa, per la prima volta, se non vado errato, la celebre definizione
delle “sette ebraiche”, che troverà8 la sua fortunata formulazione definitiva nell’autobiografia
che Scholem andava ultimando proprio in quel torno di tempo e che fu pubblicata nel dicembre
dello stesso anno 1977: Da Berlino a Gerusalemme.9 Qui Scholem si riferisce a qualcosa che deve
aver comunicato personalmente a Steiner anche in precedenza: “forse ricorderà che sono solito
definire le persone raccolte intorno a Warburg e a Horkheimer come le sette ebraiche più im-
portanti prodotte dall’ebraismo tedesco. A queste – sono ancora parole di Scholem – si dovreb-
be aggiungere come terza la setta di Oskar Goldberg”.10 Segno che le sette ebraiche, per un to-
pos risalente alle Antichità ebraiche di Giuseppe Flavio,11 dovevano essere tre: non una di più e
non una di meno. In effetti, a ben vedere, se ne trova almeno una quarta: Scholem, che ricorreva
a questa definizione maliziosa senza parsimonia, l’aveva adoperata in una lettera al suo editore
Siegfried Unseld, direttore della casa editrice Suhrkamp. Unseld aveva avuto l’improntitudine
di chiedergli una presentazione per la progettata ristampa delle opere di Constantin Brunner

1 Va considerato che, a parte Scholem, tutti i protagonisti di cui parla Steiner con una certa facilità, erano già morti
(Benjamin 1940; Saxl 1948; Panofsky 1968; Adorno 1969; Horkheimer 1973).
2 Steiner, Introduction, cit., p. 19.
3 Che ne fece il titolo della sua raccolta di poesie: Primo Levi, Ad ora incerta, Milano, Garzanti, 1984 e lo citò in esergo
a Primo Levi, I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 1986.
4 Gershom Scholem, Briefe iii 1971-1982, Hrsg. von Itta Shedletzky, München, Beck, 1999, p. 156.
5 George Steiner, After Babel. Aspects of Language and Translation, London, Oxford University Press, 1975.
6 Cfr. Saverio Campanini, A Case for Sainte-Beuve. Some Remarks on Gershom Scholem’s Autobiography, in Creation and
Re-Creation in Jewish Thought, Festschrift in Honor of Joseph Dan on the Occasion of His 70th Birthday, edd. Peter Schäfer,
Rachel Elior, Tübingen, Mohr Siebeck, 2005, pp. 363-400.
7 Scholem, Briefe iii , cit., p. 156: «Am merkwürdigsten in Ihrem Aufsatz ist mir Ihre Vermutung, dass Benjamin besser
zum Warburg-Institute als zu Horckheimers Institut für Sozialforschung gepasst hätte. That sets me thinking».
8 È degno di nota che nella conferenza intitolata “Von Berlin nach Jerusalem” tenuta il 9 maggio 1976 presso l’Akade-
mie der Künste di Berlino, apparsa poi in versione ampliata in Gershom Scholem, Von Berlin nach Jerusalem. Jugenderin-
nerungen, «Neue Rundschau», 87, 4 (1976), pp. 542-570, anticipazione dell’autobiografia pubblicata l’anno seguente, il passo
dedicato a Warburg non compariva ancora.
9 Gershom Scholem, Von Berlin nach Jerusalem. Jugenderinnerungen, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1977; trad. it. di
Anna Maria Marietti: Da Berlino a Gerusalemme. Ricordi giovanili, Torino, Einaudi, 1988.
10 Scholem, Briefe iii , cit., p. 156: «Vielleicht erinnern Sie sich, dass ich die Leute um Warburg und um Horckheimer
immer für die wichtigsten «jüdischen Sekten» zu erklären pflegte, die das deutsche Judentum hervorgebracht hat, wozu
als dritte noch die Sekte Oskar Goldberg[s] treten müsste». 11 Giuseppe Flavio, Ant. Jud. 13, 5, 9.
melencolia ii. gershom scholem e l ’ istituto warburg 47
(pseudonimo di Arieh Yehudah Wertheimer). Nella sua risposta puntuta, Scholem afferma di
conoscerne bene gli scritti e di trovarli insopportabili, giudicando ridicolo, se non proprio odio-
so “quel suo atteggiamento da praeceptor mundi, in particolare praeceptor Judaeorum: quella sua
posa da capo settario (di una delle sette ebraico-tedesche che negavano di esserlo) ha sempre
messo in moto tutti i miei anticorpi”.1 Adoperava il termine così volentieri che gli è toccato,
ma solo dopo la morte, di essere dipinto come il fondatore di una piccola setta, la scuola scho-
lemiana di Gerusalemme, da Moshe Idel.2 Quella che per Scholem era poco più di una battuta
pare trovi la propria origine in un bon mot di Friedrich Gundolf (risalente al 1924)3 il quale avreb-
be osservato: “Finalmente so che cos’è la sociologia: la sociologia è una setta ebraica”.4
Quanto alla congettura azzardata da Steiner, Scholem osserva che il “flirt con il comunismo”
(termine non scelto a caso ma contenente una chiara allusione al legame sentimentale tra
Benjamin e Asja Lacis) era più antico in Benjamin degli approcci verso l’Istituto di ricerca so-
ciale, e si chiede se i membri del circolo Warburg avrebbero potuto svolgere una funzione effi-
cace nel distrarlo da quella, per Scholem decisiva, illusione.
Solo a quel punto Scholem rivela a Steiner che l’anno precedente (1976) la sua prima moglie
Escha (Else Burchardt, 1896-1978), appena rimasta vedova del secondo marito, Shemuel Hugo
Bergman, aveva trovato, riordinando le carte proprie e del marito, un fascio di lettere che
appartenevano a Scholem e gliele aveva restituite. Tra queste lettere se ne trovava una che
Scholem afferma di avere a lungo cercato: si tratta della lettera di Fritz Saxl del 17 giugno 1928,
in cui Saxl prende posizione sul libro di Benjamin sul dramma barocco tedesco, apparso in
quell’anno.5 Non vi possono essere dubbi che egli avesse cercato quella lettera intorno al 1974,
quando Wolfgang Kemp, preparando la seconda puntata del suo articolo su Benjamin e la
“Kunstwissenschaft”,6 gli aveva chiesto lumi sui rapporti tra Benjamin e il Warburg, a proposi-
to dei quali pure emergeva, in modo indiretto, che Scholem doveva essersi interessato presso
Saxl per ribaltare il giudizio freddo e risentito che Panofsky aveva rivolto all’indirizzo di
Hofmannstahl, che aveva pubblicato il capitolo sulla Malinconia, anticipo del volume sul

1 Scholem, Briefe iii , cit., pp. 137-138 (lettera del 3 giugno 1976): «Seine Schriften sind mir unerträglich, seine Haltung
als praeceptor mundi, besonders praeceptor Judaeorum, lächerlich, wenn nicht geradezu abscheulich, und seine Stellung
als Sektenhaupt (einer der manchen deutsch-jüdischen Sekten, die leugneten eine zu sein) mobilisierte seit je alle meine
Anti-Stoffe!».
2 Moshe Idel, Subversive Catalysts: Gnosticism and Messianism in Gershom Scholem’s View of Jewish Mysticism, in The Jewi-
sh Past Revisited: Reflections on Modern Jewish Historians, edd. David N. Myers, David B. Ruderman, New Haven - London,
Yale University Press, 1998, pp. 39-76: 42; poi in Idem, Old Worlds New Mirrors. On Jewish Mysticism and Twentieth-Century
Thought, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 2010, pp. 133-153: 134.
3 La sua prima attestazione a stampa, se non vado errato, si trova in Rene König, Die Freiheit der Distanz. Der Beitrag
des Judentums zur Soziologie, «Der Monat», 155 (1961), pp. 70-76, poi in Idem, Studien zur Soziologie, Fischer, Frankfurt am
Main - Hamburg, 1971, pp. 123-131: 123: «Jetzt weiß ich wenigstens, was Soziologie ist! Soziologie ist eine jüdische Sekte».
4 Cfr. Zoltan Tarr, Judith Marcus, Erich Fromm und das Judentum, in Erich Fromm und die Frankfurter Schule, edd.
Michael Kessler, Rainer Funk, Tübingen, Francke Verlag, 1992, pp. 211-220.
5 Pubblicata per la prima volta nel primo volume del carteggio di Panofsky, in nota, Erwin Panofsky, Korrespondenz,
Bd. i 1910-1936, Hrsg. von Dieter Wuttke, Wiesbaden, Harrassowitz, 2001, p. 276, poi, sempre in frammenti, in Sigrid Wei-
gel, Zur Odyssee von Benjamins Trauerspiel im Warburg-Kreis. Ein Brief Fritz Saxls an Gershom Scholem, «Trajekte», 3-5 (2002),
pp. 10-12; Eadem, Bildwissenschaft aus dem „Geiste wahrer Philologie“. Benjamins Wahlverwandtschaft mit der neuen Kunstwis-
senschaft und der Warburg-Schule, in Detlev Schöttker, Schrift, Bilder, Denken. Walter Benjamin und die Künste, Frankfurt
am Main, Suhrkamp, 2004, pp. 112-127, quindi in Sigrid Weigel, Walter Benjamin. Die Kreatur, das Heilige, die Bilder, Frank-
furt am Main, Fischer, 2008, pp. 228-264. Cfr. anche Momme Brodersen, Wenn Ihnen die Arbeit des Interesses wert erscheint…
Walter Benjamin und das Warburg-Institut: einige Dokumente, in Aby Warburg. Akten des internationalen Symposions (Hamburg,
1990), Hrsg. von Horst Bredekamp, Michael Diers, Charlotte Schoell-Glass, Andreas Beyer, Weinheim, Wiley-vch Verlag,
1991, pp. 87-94; Cornelia Zumbusch, Wissenschaft in Bildern. Symbol und dialektisches Bild in Aby Warburgs Mnemosyne-Atlas
und Walter Benjamins Passagen-Werk, Berlin, Akademie Verlag, 2004; Alice Barale, La malinconia dell’immagine, Rappre-
sentazione e significato in Walter Benjamin e Aby Warburg, Firenze, Firenze University Press, 2009.
6 La prima era apparsa nel 1973: Wolfgang Kemp, Walter Benjamin und die Kunstwissenschaft. Teil i : Benjamins Beziehun-
gen zur Wiener Schule, «Kritische Berichte», 1 (1973), pp. 30-50. La seconda parte, nella quale l’autore cita le notizie, piuttosto
vaghe, ricevute da Scholem, apparve in Wolfgang Kemp, Walter Benjamin und die Kunstwissenschaft. Teil ii : Walter Benja-
min und Aby Warburg, «Kritische Berichte», 3 (1975), pp. 5-25.
48 saverio campanini
dramma barocco tedesco nel 1927 nei «Neue deutsche Beiträge».1 Scholem aveva cercato
quella lettera, in cui Saxl gli diceva di aver apprezzato il libro di Benjamin e che desiderava
incontrarlo. Ma la lettera, sparita dall’archivio di Scholem sin dal 1936, anno della separazione
da Escha, non si trovava. Così, scrive ancora Scholem a Steiner, se l’avesse avuta sottomano,
l’avrebbe certo citata nella Storia di un’amicizia.2 Quel che Scholem non poteva sapere è che lo
stesso Saxl, che aveva avuto il libro di Benjamin in dono da Aby Warburg, aveva scritto a Pa-
nofsky in termini assai più riservati e ne aveva ricevuto per risposta una sostanziale conferma
della freddezza di Panofsky, che pure si mostrava imbarazzato per il tono che aveva adoperato
a suo tempo scrivendo a Hofmannstahl.3
Ma era davvero solo per via di Benjamin che Scholem ripensava, quasi colto di sorpresa, a
Warburg e al suo circolo? Cercherò nelle considerazioni che seguono di argomentare per la ne-
gativa: Scholem meditava da tempo sulla vicenda, ma non particolarmente nella costellazione
che coinvolgeva gli sfortunati passi di Benjamin nei suoi approcci al Warburg: ci pensava in re
propria.4
Se si cerca una data alla quale far risalire la riflessione scholemiana intorno al senso del pro-
prio rapporto con il Warburg si potrà indicare, con qualche verosimiglianza, il 1970, anno in cui
apparve la biografia intellettuale di Aby Warburg scritta dal direttore del Warburg-Institute
Ernst Gombrich,5 che Scholem lesse con avidità e, come risulta dall’epistolario, con una certa
delusione. In una lettera inviata a Gombrich il 22 febbraio 1971 Scholem loda l’affascinante affre-
sco della personalità intellettuale di Warburg ma, seppure con delicatezza, non tace le sue ri-
serve sulla decisione di passare sotto silenzio le “sfere oscure” e l’irrazionale. Con discrezione
egli arriva a chiedere di poter vedere gli appunti che Warburg scrisse durante gli anni del rico-
vero in diverse cliniche psichiatriche, nonché gli appunti di Gertrud Bing sullo stile della prosa
di Warburg.6 Scholem racconta a Gombrich l’impressione che esercitò su di lui la scala croma-
tica adoperata per statuire e allo stesso tempo suggerire le connessioni tra i libri nella biblioteca
dell’istituto quando la visitò per la prima volta ad Amburgo nel 1927. Ricorda di aver conosciuto
allora Fritz Saxl, mentre deve essere caduto vittima di un falso ricordo quando afferma di avervi
incontrato in quella stessa circostanza anche Gertrud Bing, che invece non può aver visto prima
della sua seconda visita alla biblioteca, avvenuta nel 1932. Nel novembre del 1927, infatti, la Bing
era in Italia, in compagnia di Aby Warburg.7
All’esperto bibliografo e bibliofilo Scholem non sfugge che il catalogo della biblioteca, non
meno della sua distribuzione sugli scaffali, proiettavano un diagramma della mente di Aby War-
burg stesso. Dopo aver premesso, come non mancava mai di fare, di non essere un seguace della
psicoanalisi, egli insiste tuttavia sul fatto che il rapporto tra coscienza e inconscio del fondatore
del Warburg era più complesso rispetto al quadro riconciliato e olimpico che ne ha offerto
Gombrich e parla di un “resto irriducibile” (ein Rest, der nicht aufgeht). Ricorda infine di aver con-

1 Walter Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, «Neue Deutsche Beiträge», 2, 3 (1927), pp. 89-110.
2 Scholem, Walter Benjamin. Geschichte einer Freundschaft, cit. Nel libro, effettivamente, non si trova alcun accenno ad
Aby Warburg.
3 Il libro di Benjamin è l’oggetto di una triangolazione tra Warburg, Saxl e Panofsky che appare anche quale evidente
segno d’imbarazzo: è come se vi si riconoscesse un tratto famigliare e, allo stesso tempo, una qualche deformità che
nessuno è disposto a guardare in faccia. Panofsky, Korrespondenz, ed. Wuttke, i, cit., pp. 289 e sgg.
4 Avevo tentato un primo approccio alla questione del rapporto tra Scholem e Warburg, partendo dalle prime
menzioni esplicite di Warburg, e in particolare del suo motto “il buon Dio è nel dettaglio”, risalenti al 1960 (Gershom
Scholem, Wissenschaft vom Judentum einst und jetzt, «Bulletin des Leo Baecks Instituts», 9 [1960], pp. 10-20) e al 1965
(Gershom Scholem, Walter Benjamin, «Neue Rundschau», 76 [1965], pp. 117-136), in Saverio Campanini, Parva Schole-
miana. Rassegna di bibliografia, «Materia giudaica», 10, 2 (2005), pp. 395-412, in particolare pp. 396-403.
5 Ernst Gombrich, Aby Warburg. An Intellectual Biography. With a Memoir on the History of the Library by F. Saxl,
London, The Warburg Institute, 1970; trad. it. Aby Warburg. Una biografia intellettuale, Milano, Feltrinelli, 1983.
6 Scholem, Briefe iii , cit., pp. 5-7.
7 Cfr. Dorothea McEwan, “Wanderstrassen der Kultur”. Die Aby Warburg - Fritz Saxl Korrespondenz 1920 bis 1929, Mün-
chen - Hamburg, Dölling und Galitz Verlag, 2004, pp. 66-67.
melencolia ii. gershom scholem e l ’ istituto warburg 49
versato, a proposito della personalità di Warburg con il fratello Max, in occasione di un viaggio
di quest’ultimo a Gerusalemme, nel 1929. Max Warburg gli aveva raccontato della personalità
del fratello e delle visite che gli aveva fatto a Kreutzlingen e Scholem ne deduce che il racconto
“apollineo” di Gombrich, forse per necessità o eccesso di prudenza, resta incompleto, mancan-
do del tutto il lato “dionisiaco”, che solo avrebbe permesso di misurare la potenza costrittiva
dei simboli (Zwangsymbolik) e la vera, seppure inconfessata, inclinazione di Warburg per l’astro-
logia e per il resto irrazionale, che non si lascia ridurre ad altro.
La pubblicazione della biografia di Warburg scritta da Gombrich ebbe una serie di strascichi
che non toccarono solo, come è ben noto, i destini del libro ma esercitarono un qualche influsso
anche sulla costituzione della memoria di Scholem. Il 10 agosto 1972 egli scrisse a una conoscen-
te londinese, Elisabeth Whitecombe, per ringraziarla di avergli inviato la recensione alla bio-
grafia warburghiana di Gombrich, apparsa come di consueto in forma anonima sul «Times Li-
terary Supplement».1 Scholem, che da conoscitore non ha il minimo dubbio sull’identità del
recensore, Edgar Wind: chi altri conosceva Warburg così bene e, allo stesso tempo, poteva nu-
trire un odio più profondo per l’attuale direttore del Warburg? Nondimeno giudica quella re-
censione eccessivamente negativa pur lasciando trasparire che essa è scritta da persona compe-
tente e, nel suo proposito “omicida” (murderous), perfettamente efficace. Il disaccordo di
Scholem rispetto a Wind discende dal fatto che quest’ultimo ritiene addirittura esagerato il ri-
corso agli inediti e agli abbozzi operato da Gombrich mentre Scholem, come abbiamo visto,
lo riteneva insufficiente. Per ridurre la divergenza a una formula, si potrebbe dire che la biogra-
fia warburghiana di Gombrich contiene troppa tetraggine, o malinconia, per Wind, troppo po-
ca a parere di Scholem.
Un altro elemento, che aveva un’importanza centrale nel giudizio di Scholem su Warburg
e, come vedremo, fu decisivo anche nei loro rapporti, emerse con chiarezza solo dopo la
pubblicazione dell’articolo di un altro membro del circolo Warburg, Hans Liebeschütz,2 al
quale Scholem si affrettò a scrivere, il 22 maggio 1972.3 Scholem aveva letto con grande par-
tecipazione l’articolo e lo giudicava favorevolmente nel paragone con il libro di Gombrich
perché offriva qualche dettaglio in più sui “complessi ebraici di Warburg”. Liebeschütz aveva
infatti scritto con mirabile senso della sintesi che Warburg non dimenticava le sue radici
ebraiche ma non si permetteva di andarne fiero. Infine Scholem confidò a Liebeschütz di aver
potuto personalmente misurare l’effetto di quei problemi quando, nel 1926, si era rivolto a
Warburg per una questione accademica (in einer wissenschaftlichen Sache), sulla quale intendo
ritornare.
Nemmeno in questo caso, tuttavia, Scholem si limitò ai complimenti, già piuttosto avari, ma
mosse una critica, dal suo punto di vista alquanto rilevante, all’articolo di Liebeschütz: parlando
a più riprese di Saxl egli aveva trascurato di ricordare che, “per anni”, questi fu un “ardente sio-
nista” (ein glühender Zionist): Scholem era in grado di provarlo perché, nella sua biblioteca, con-
servava un articolo pubblicato da Saxl nel 1919, sul periodico sionista «Jerubbaal», rivista della
gioventù ebraica, in cui prendeva posizione sulla futura educazione artistica e i suoi valori in
Palestina (“la nostra terra”; unser Land).4 Scholem si dichiarava stupito che non solo Liebe-
schütz non vi avesse fatto cenno ma ricordava di averne chiesto conto a Gertrud Bing e di aver

1 Unfinished Business. Aby Warburg and his Work, «Times Literary Supplement», (26.6.1971), pp. 735-736, trad. it. in Edgar
Wind, L’eloquenza dei simboli, Milano, Adelphi, 1992, pp. 161-173. L’identità del recensore, che non dovette sfuggire a Gom-
brich fin dalla pubblicazione (cfr. Thomas DaCosta Kaufmann, Speaking of Lilliput? Recollections of the Warburg Institute
in the Early 1970s, «Common Knowledge», 18,1 [2012], pp. 160-173: 161), fu svelata dopo la morte di Wind in Edgar Wind,
The Eloquence of Symbols. Studies in Humanist Art, ed. by Jaynie Anderson, Oxford, Clarendon Press, 1983, pp. 106-113 e
ancora prima in Bernhard Buschendorf, Einige Motive im Denken Edgar Winds, in Edgar Wind, Heidnische Mysterien
in der Renaissance, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1981, pp. 319-415: 403, n. 19.
2 Hans Liebeschütz, Aby Warburg (1866-1929) as Interpreter of Civilization, «Leo Baeck Institute Yearbook», 16 (1971),
pp. 225-236. 3 Cfr. Scholem, Briefe iii , cit., p. 26.
4 Fritz Saxl, Die jüdische Jugend und die bildende Kunst, «Jerubbaal», 1 (1918-1919), pp. 311-314.
50 saverio campanini
ottenuto una reazione di profonda, paralizzante sorpresa (lähmendes Erstaunen),1 mentre Saxl
ne parlava apertamente nel 1927. Scholem è costretto a riconoscere, peraltro, che Saxl doveva
aver mutato il proprio orientamento politico, se è vero che, a suo dire, fu soprattutto per l’op-
posizione di Saxl che la biblioteca, quando la sua stessa sopravvivenza era minacciata e si do-
vette decidere di farla emigrare all’estero, non poté essere accolta a Gerusalemme, mentre
“noi” ci sforzammo perché vi trovasse rifugio. Il “noi” adoperato in quella circostanza, oltre a
una generica appartenenza politica, potrebbe essere riferito al direttore della Jewish National
Library, Shemuel Hugo Bergman e, soprattutto, al rettore dell’Università ebraica di Gerusalem-
me Judah L. Magnes, che sappiamo in ottimi rapporti con i fratelli di Warburg, in particolare
con Max, cui si deve il distacco di un assegno di cinquecentomila dollari, che permise l’apertura
dell’Università ebraica di Gerusalemme.
Si può immaginare, allora, come dovette essere rimasto deluso Scholem, leggendo in appen-
dice al libro di Gombrich, l’appunto di Saxl2 dedicato alla storia della biblioteca Warburg, in cui
si legge che, prima di decidere per l’Inghilterra, altre proposte per trasferire la biblioteca furono
considerate, e si accenna all’Olanda e persino all’Italia, come possibili rifugi, ma si tace del tutto
l’ipotesi palestinese. Lo stesso si può dire del ricordo di Fritz Saxl pubblicato da Gertrud Bing
nel volume in sua memoria,3 ma anche di un documento precedente, apparso nel 1953 per la
penna di Eric Warburg,4 il quale riferisce con maggiori dettagli delle proposte alternative a Lon-
dra, indicando l’Università di Leida e una non meglio precisata disponibilità italiana, con una
sede a Roma, ma nessun mezzo finanziario per la sussistenza nel tempo di quella istituzione.
Come che sia, il tentativo di trasferire la biblioteca Warburg a Gerusalemme, benché desti-
nato all’insuccesso, per ragioni ideologiche non meno che economiche, non può essere consi-
derato semplice espressione di whishful thinking da parte di Scholem: esso ha infatti lasciato
traccia in una lettera inviata, il 31 luglio 1933, da Fritz Saxl allo storico Percy Ernst Schramm, pri-
ma della rottura della loro lunga amicizia, dovuta all’adesione di Schramm al nazismo. In que-
sta lettera, e solo qui, a mia notizia, si legge che le ipotesi, e le trattative, per un trasferimento
della biblioteca si limitavano a quattro: “L’Inghilterra ci sembrerebbe una possibilità, l’Olanda
sarebbe una seconda, la Palestina una terza e l’America una quarta”.5
Negli ultimi anni della sua vita, Scholem stesso divenne a sua volta oggetto di intensa atten-
zione accademica, alla quale contribuì in misura non trascurabile offrendo interviste, memorie
e saggi autobiografici a ritmo incalzante. Inoltre egli si mostrò piuttosto attento e non poco cri-

1 Ancora in Dorothea McEwan, “The Enemy of Hypothesis”. Fritz Saxl as Acting Director of the Bibliothek Warburg,
«Yearbook of the Leo Baeck Institute», 49 (2004), pp. 75-86 non si fa il minimo cenno all’episodio sionista nella vita di Saxl
mentre in Dorothea McEwan, Exhibitions as Morale Boosters. The Exhibition Programme of the Warburg Institute 1938-1945,
in Arts in Exile in Britain 1933-1945. Politics and Cultural Identity, edd. Shulamith Behr, Marian Malet, Amsterdam - NewYork,
Rodopi, 2005, pp. 267-299: 295, n. 16 si accenna almeno alla pubblicazione dell’articolo menzionato da Scholem. Anche nel-
la voce “Saxl, Fritz” della Neue Deutsche Biographie, 22, Berlin, Duncker & Humblot, 2005, pp. 480-481, a firma di Charlotte
Schoell-Glass, non vi si fa alcun cenno. Persino nella più recente biografia di Saxl, opera di Dorothea McEwan (Fritz Saxl.
Eine Biografie. Aby Warburgs Bibliothekar und erster Direktor des Londoner Warburg Institutes, Wien, Böhlau, 2012), si menziona
l’articolo in bibliografia ma nel corpo del testo si legge solo che la moglie di Saxl, Elise Bienefeld, aveva simpatie sioniste
e si impegnò in attività benefiche in ambito sionista, mentre a Saxl sono accreditate simpatie socialiste, senza poter dimo-
strare la sua iscrizione al partito socialista austriaco.
2 Fritz Saxl, The History of Warburg’s Library, in Gombrich, Aby Warburg, cit., pp. 325-338: 335; trad. it. cit., pp. 277-
290, nonché in Aby Warburg. Ausgewählte Schriften und Würdigungen, Hrsg. von Dieter Wuttke, Baden-Baden, Verlag Valen-
tin Koerner, 1979, pp. 335-346 e in Ernst Gombrich, Aby Warburg. Eine intellektuelle Biographie, Hamburg, Europäische
Verlagsanstalt, 1981, pp. 433-449.
3 Gertrud Bing, Fritz Saxl (1890-1948). A Memoir, in Fritz Saxl (1890-1948). A Volume of Memorial Essays from his Friends
in England, ed. by Donald J. Gordon, London, Thomas Nelson and Sons, 1957, pp. 1-46, in italiano in Fritz Saxl, La storia
delle immagini, trad. it. di Giulio Veneziani, Roma - Bari, Laterza, 1982, pp. 267-293.
4 Eric Warburg, The Transfer of the Warburg Institute to England in 1933, in The Warburg Institute Annual Report 1952-1953,
pp. 13-16.
5 Cfr. Joist Grolle, Percy Ernst Schramm - Fritz Saxl. Die Geschichte einer zerbrochenen Freundschaft, «Zeitschrift des
Vereins für Hamburgische Geschichte», 76 (1990), pp. 145-167: p. 150. L’articolo è stato ristampato anche in Aby Warburg.
Akten des internationalen Symposions, cit., pp. 95-114.
melencolia ii. gershom scholem e l ’ istituto warburg 51
tico nei confronti del numero crescente di articoli e dissertazioni che si proponevano di deli-
nearne il profilo intellettuale e le ascendenze culturali.1 Proprio reagendo a uno di questi arti-
coli, di Henry Pachter,2 che aveva osato tentare una ricostruzione non autorizzata del suo
pantheon intellettuale, Scholem scrisse a Stephen Bronner, che gli aveva mandato l’articolo, re-
golando in modo abbastanza sbrigativo una serie di conti: intorno ai suoi rapporti con Nietz-
sche, con la Scuola di Francoforte e, avvicinandosi al nostro tema, a proposito dell’influsso che
avrebbe subito da parte di Ernst Cassirer, da lui dichiarato semplicemente nullo.
In un “a parte” della lettera, datata 12 giugno 1978, Scholem aggiunse che, mentre le consi-
derazioni generali di Cassirer non lo avevano mai interessato, era sempre stato attratto dalle
“ricerche specifiche” del circolo Warburg. “In realtà – prosegue – sapevo di questi lavori molto
più di Benjamin il quale ne aveva letti assai pochi, soprattutto la prima edizione del saggio sul-
l’incisione di Dürer Melancholia I. Poiché io capisco meno, per non dire niente del tutto, di sto-
ria dell’arte, ciò che mi ha attratto in particolare di questo circolo erano i lavori propriamente
storici e di storia delle religioni”.3
In effetti, Scholem conosceva l’elenco dei libri letti che Benjamin teneva e che compilò con
precisione fino alla sua fuga da Parigi nel 1940.4 Proprio lui, in una nota all’epistolario di Benja-
min osserva che la lista comprendeva solo libri letti per intero,5 ma ciò è smentito dalla lista
stessa, in cui Benjamin accanto al titolo aggiunge talora di averlo solo scorso, letto per metà o
anche meno. Nell’annotazione relativa al libro di Panofsky e Saxl del 1923 (n. 955), Benjamin ag-
giunge “nicht alles” (non tutto).6 Sappiamo che egli scoprì il libro, che gli era incredibilmente
sfuggito in precedenza, a uno stadio avanzato della stesura della sua Habilitationsschrift sul
dramma barocco tedesco, come si desume da una sua lettera a Scholem del 22 dicembre 19247
in cui gli consiglia di assicurarselo per la biblioteca di Gerusalemme.
Si torna, dunque, alla “setta”, alla quale Scholem, diversamente da Benjamin, sembrava non
voler appartenere. Alle ben note righe che aveva dedicato al Warburg nell’autobiografia del
1977,8 Scholem ne aggiunse altre in ebraico, proprio al termine della propria vita, tanto che ap-
parvero postume, nella versione riveduta dell’autobiografia, a cura di Avraham Shapira, verso
la fine del 1982,9 proponendo ai lettori un curioso indovinello: l’interesse ebraico dei membri del
circolo Warburg andava da una moderata simpatia, allo zero e anche al di sotto, tanto che gli
unici studiosi che ne facevano parte e si occupavano di temi specificamente ebraici erano: un
giovane promettente e prematuramente scomparso, figlio di genitori convertiti e un pio ebreo
austriaco che un bel giorno si fece battezzare. Non è questa la sede per una disamina completa
della questione dell’identità di questi due studiosi,10 che Scholem, con maliziosa discrezione, la-

1 In questa sede basterà riferirsi a Robert Alter, The Achievement of Gershom Scholem, «Commentary» (1973), pp. 69-
77 e David Biale, Gershom Scholem. Kabbalah and Counter-History, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1979.
2 Henry Pachter, Gershom Scholem. The Myth of the Mythmaker, «Salmagundi», 40 (1978), pp. 9-39.
3 Cfr. Scholem, Briefe iii , cit., pp. 186-187: 186: «Cassirer hat keinen Einfluss auf mich gehabt, während die spezifischen
Untersuchungen der Leute um das Warburg-Institut mich stets sehr interessiert haben. In der Tat habe ich mehr über die-
se Arbeiten gewusst als Benjamin selber, der nur wenige davon überhaupt gelesen hat, vor allem, die erste Ausgabe des
Werkes über Dürers Malancholia I. Da ich von Kunstgeschichte weniger, um nicht zu sagen gar nichts verstehe, haben
mich mehr die eigentlich historischen und religionshistorischen Arbeiten dieses Kreises besonders angezogen».
4 La lista è pubblicata in Walter Benjamin, Gesammelte Schriften, vii,1, Herausgegeben von Rolf Tiedemann und
Hermann Schweppenhäuser, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1989, pp. 437-476. Cfr. anche Walter Benjamin, Je déballe
ma bibliothèque. Une pratique de la collection, Paris, Payot - Rivages, 2000, pp. 141-212.
5 Cfr. Walter Benjamin, Briefe, Hrsg. von Theodor W. Adorno und Gershom Scholem, Frankfurt am Main,
Suhrkamp, 1966, i, p. 384, n. 4: «In dieses Verzeichnis, das W[alter] B[enjamin] mit großer Sorgfalt führte, kamen nur Sch-
riften, die er bis zum Ende gelesen hatte». 6 Cfr. Benjamin, Gesammelte Schriften, vii, 1, cit., p. 456.
7 Walter Benjamin, Gesammelte Briefe, Bd. ii 1919-1924, Hrsg. von Christoph Gödde und Henri Lonitz, Frankfurt am
Main, Suhrkamp, 1996, p. 509. 8 Scholem, Von Berlin nach Jerusalem, cit., pp. 166-167.
9 Gershom Scholem, Mi-Berlin Li-Yrushalayim. Zikronot neu‘urim, Tel Aviv, Am Oved, 1982, pp. 153-154; trad. it. (dello
scrivente), Da Berlino a Gerusalemme. Ricordi di gioventù. Nuova edizione ampliata, Torino, Einaudi, 2004, pp. 166-167.
10 L’ho svolta in Saverio Campanini, Il gatto di Scholem e altri animali, prefazione a Emma Abate, Sigillare il mondo.
Amuleti e ricette dalla Genizah. Manoscritti magici ebraici della biblioteca della Alliance Israélite Universelle di Parigi, Palermo, Of-
ficina di Studi Medievali, 2015, pp. ix-xxix.
52 saverio campanini
scia innominati. Gli indizi che ha lasciato trasparire sono sufficienti a identificare entrambi, cre-
do, con un buon grado di probabilità: si tratterebbe dello storico dell’arte Isaiah Shachar (nato
Stengel) e del bibliotecario del Warburg Alphons Augustinus (nato Alfons Ascher) Barb.
Il giudizio “finale” dell’anziano Scholem non poteva essere più secco o più sprezzante: il
Warburg ridotto a una delle “sette” ebraiche che, spesso, non volevano ammettere di essere
tali, una combriccola attraversata da risentimenti e complessi, la cui identità, anziché formare
un sano punto di partenza per una fruttuosa ricerca storica, sembra piuttosto essere il problema
stesso, il cruccio che la piaga.
In realtà non fu Benjamin a rischiare di far parte del Warburg, fu piuttosto Scholem che tentò
ripetutamente quella via e, come vedremo, in parte ci riuscì, salvo poi disperdere le tracce o, il
che appare appropriato nel caso di una biblioteca emigrata come il Warburg, far migrare altro-
ve il lavoro svolto.
Ricorrendo allo straordinario strumento di ricerca costituito dal regesto dei documenti con-
servati presso il Warburg Institute Archive, allestito da Dorothea McEwan, siamo in grado di
ricostruire la vicenda iniziale dei rapporti tra Scholem e il Warburg, anzitutto tra Scholem e
Aby Warburg, quindi con l’Istituto, in modo un po’ meno frammentario.
Se Scholem abbia preceduto Benjamin nei suoi tentativi di trovare accesso all’Istituto War-
burg non si lascia documentare con facilità: del resto, Scholem non ha mai nascosto di essere
entrato in contatto con Fritz Saxl, mentre Aby Warburg era in clinica, per i buoni uffici di Ro-
bert Eisler. Ora, Scholem conosceva Eisler sin dal 1920. Il primo accenno a Scholem che giunge
a Saxl è datato 21 dicembre 1924, lo stesso giorno in cui Benjamin scrive a Scholem di avere in-
trapreso la lettura di Panofsky-Saxl sulla Melencolia I di Albrecht Dürer. Eisler, che aveva tenuto
una conferenza nella biblioteca del Warburg ad Amburgo il 9 dicembre 1922 ed era in eccellenti
rapporti di amicizia con Fritz Saxl, mentre Aby Warburg ne diffidava, considerandolo un “bluff
in grande stile”,1 menziona Scholem in una lettera a Saxl, ma è assai probabile che gliene abbia
parlato già in uno dei loro incontri precedenti. Senza contare che nel 1923 fu Eisler a pubblicare
la tesi di dottorato di Scholem, dedicata al Sefer ha-Bahir.2 Poiché Scholem aveva lasciato l’Eu-
ropa nel settembre 1923 per trasferirsi a Gerusalemme, sotto mandato britannico, fu Eisler, im-
pegnato nelle snervanti trattative in vista della pubblicazione della sua conferenza del 1922, che
avverrà solo nel 1925,3 facendo gonfiare il volume, riccamente illustrato, a ben oltre 400 pagine,
a tenere i contatti tra la direzione del Warburg e Scholem, che intanto lavorava come bibliote-
cario alla Jewish National Library e stava conducendo ricerche oggettivamente molto vicine
agli interessi warburghiani, in particolare sulla storia della magia, sulle interazioni tra qabbalah
e sufismo e ben presto anche sulla storia della fisiognomica. Si può anzi affermare che i primi
anni della produzione scientifica di Scholem siano stati quasi interamente sotto il segno del
Warburg: si pensi in particolare all’articolo del 1925 su Alchimia e qabbalah,4 che dette luogo a
un vivace scambio con Eisler, autore di due articoli,5 apparsi nella medesima sede, sulla termi-

1 Cfr. Aby M. Warburg, Per monstra ad sphaeram. Sternglaube und Bilddeutung, Hrsg. von Davide Stimilli unter Mitar-
beit von Claudia Wedepohl, München - Hamburg, Dölling und Galitz Verlag, 2008, p. 9; trad. it. di Davide Stimilli e Claudia
Wedepohl: Aby Warburg, Per monstra ad sphaeram, Milano, Abscondita, 2009, p. 139. Lettera di Warburg a Saxl del 13 mag-
gio 1922. Si veda già McEwan, Wanderstrassen der Kultur, cit., p. 25.
2 Gershom Scholem, Das Buch Bahir. Ein Schriftdenkmal aus der Frühzeit der Kabbala auf Grund der kritischen Neuausga-
be, Leipzig, W. Drugulin, 1923. Il volume apparve come n. 1 della collana “Qabbala. Quellen und Forschungen zur Ge-
schichte der jüdischen Mystik” edita, su incarico della “Johann Albrecht Widmannstetter Gesellschaft”, da Robert Eisler.
3 Robert Eisler, Orphisch-Dionysische Mysteriengedanken in der christlichen Antike, «Vorträge der Bibliothek Warburg»,
1922-1923, Teil ii, Leipzig, Teubner, 1925 (rist. Hildesheim, Olms, 1966; Torino, Aragno, 2002).
4 Gershom Scholem, Alchemie und Kabbala. Ein Kapitel aus der Geschichte der Mystik, «Monatsschrift für die Geschichte
und Wissenschaft des Judentums», 69 (1925), pp. 13-30; 95-110.
5 Robert Eisler, Zur Terminologie der jüdischen Alchemie, «Monatsschrift für die Geschichte und Wissenschaft des
Judentums», 69 (1925), pp. 364-371 e 70 (1926), pp. 194-201. Scholem non fece mancare le proprie controdeduzioni, cfr. Ger-
shom Scholem, Nachbemerkung, «Monatsschrift für die Geschichte und Wissenschaft des Judentums», 69 (1925), pp. 371-
374 e Idem, Zu Abraham Eleazars Buch Esch Mezareph (Bemerkungen zu Eislers Aufsatz), «Monatsschrift für die Geschichte und
Wissenschaft des Judentums», 70 (1926), pp. 202-209.
melencolia ii. gershom scholem e l ’ istituto warburg 53
nologia dell’alchimia, all’articolo sulla profezia come incontro con il sé,1 ma soprattutto i lavori
preparatori che sfociarono prima nell’articolo2 e poi nel volume3 dedicati all’edizione del testo
ebraico e alla traduzione tedesca del “Libro della palma”, trattato astromagico sulla “scienza
spirituale” che suscitò l’interesse di Aby Warburg anche se, come vedremo poco oltre, non ar-
rivò ad accoglierlo tra le pubblicazioni promosse dal proprio Istituto.
La visita di Scholem ad Amburgo nel 1927 aveva anche un retroscena di carattere famigliare,
poiché sua moglie Escha aveva origini amburghesi e nella città anseatica vivevano ancora i suoi
genitori. In ogni caso Scholem preparò la propria visita all’Istituto con un fitto scambio di
lettere, di cui resta traccia a Londra e a Gerusalemme. Il progetto, concepito da Scholem o sug-
gerito da Eisler, ma sostenuto anche da Hugo S. Bergman, direttore della Jewish National Li-
brary di Gerusalemme e persino, seppure in ritardo, da Judah L. Magnes, cancelliere dell’Uni-
versità ebraica, consisteva nell’avvicinare Warburg per ottenerne un sostegno finanziario ma,
soprattutto, un endorsement di carattere culturale.
Già all’inizio del 1924 Scholem dovette accennare al progetto, scrivendo a Walter Benjamin,
se è vero che nella risposta, datata 5 marzo 1924, si allude a una “arabische Publikation”4 che
dovrebbe corrispondere, a quanto ne sappiamo, ai primi passi della ricerca sul Sefer ha-tamar.
Scholem, riordinando i manoscritti ebraici presenti a Gerusalemme ne trovò uno,5 proveniente
dal lascito di Lazar Grünhut, che conteneva copia del Sefer ha-tamar, opera tradotta dall’arabo,
solo parzialmente pubblicata da Steinschneider6 e fatta per suscitare il suo interesse. Studiando
l’opera Scholem si rese conto che una copia del medesimo testo si trovava alla Staatsbibliothek
di Monaco. Nel ms. 214 il Sefer ha-tamar compare fianco a fianco con la traduzione ebraica del
testo magico intitolato Picatrix, un’opera che ha segnato profondamente la ricerca di Warburg
e le vicende editoriali dell’Istituto sin dalla conferenza di Hellmut Ritter del 1922,7 e ha accom-
pagnato le peregrinazioni di quel sodalizio intellettuale fino alla pubblicazione del testo arabo
(1933),8 della traduzione tedesca (1962)9 e del testo latino (1986),10 ma che aveva giocato un ruolo
ancor più decisivo già in un articolo di Saxl, del 1912, sulle rappresentazioni dei pianeti,11 prima
di costituire una chiave fondamentale negli articoli di Aby Warburg su Lutero, in particolare
nella parte concernente la Melencolia I di Dürer.12 Il Sefer ha-tamar, per epoca, contenuti e orien-
tamento sembrava dunque destinato a essere pubblicato da Warburg. È possibile seguire, lungo
tutto il 1925, la sequela di sforzi diplomatici che vedono coinvolti Scholem, Eisler e Bergman13

1 Gershom Scholem, Eine kabbalistische Erklärung der Prophetie als Selbstbegegnung, «Monatsschrift für die Geschichte
und Wissenschaft des Judentums», 74 (1930), pp. 285-290.
2 Gershom Scholem, Sefer ha-tamar le-Abu Aflach ha-sarkusti, «Kiryat Sefer», 3 (1926-1927), pp. 181-222.
3 Gershom Scholem, Das Buch von der Palme des Abu Aflah aus Syrakus. Ein Text aus der arabischen Geheimwissenschaft.
Nach der allein erhaltenen hebräischen Übersetzung herausgegeben und übersetzt, Heft ii: Übersetzung, Hannover,
Orient-Buchhandlung Heinz Lafaire, 1927. 4 Benjamin, Gesammelte Briefe, Bd. ii : 1919-1924, cit., p. 437.
5 Gershom Scholem, Catalogus Codicum Cabbalisticorum quot [sic] conservantur in Bibliotheca Hierosolymitana quae est
Judaeorum Populi et Universitatis Hebraicae, Jerusalem, Hebrew University, 1930, n. 28, pp. 78-79, segnatura 8º 151.
6 Cfr. Moritz Steinschneider, Ma’amarim meyuchasim el Shelomoh ha-melek, «Ha-Karmel», 6 (1867), pp. 116-117; 125.
7 Pubblicata in Hellmut Ritter, Picatrix, ein arabisches Handbuch hellenistischer Magie, in Vorträge der Bibliothek War-
burg, Bd. 1: Vorträge 1921-1922, Hrsg. von Fritz Saxl, Leipzig-Berlin, Teubner, 1923, pp. 94-124.
8 Pseudo-Magriti, $ayat al-hakim wa ahaqq al-natigatain bi-’l-taqdim, Hrsg. von Hellmut Ritter, «Studien der Bibliothek
Warburg», 12, Leipzig - Berlin, Teubner, 1933.
9 Hellmut Ritter - Martin Plessner, Picatrix. Das Ziel des Weisen von Pseudo-Magriti, «Studies of the Warburg In-
stitute», 27, London, University of London, 1962.
10 David Pingree, Picatrix. The Latin Version of the Ghayat al-¢akim, «Studies of the Warburg Institute», 39, London,
University of London, 1986.
11 Fritz Saxl, Beiträge zu einer Geschichte der Planetendarstellungen im Orient und im Okzident, «Der Islam», 3,1 (1912), pp.
151-177.
12 Cfr. Aby Warburg, Heidnisch-antike Weissagung in Wort und Bild zu Luthers Zeiten, Heidelberg, Carl Winters Univer-
sitätsbuchhandlung, 1920, in particolare pp. 58-64.
13 Hugo Bergman scrive a Warburg l’8 giugno 1925 per annunciare la pubblicazione, su Kiryat Sefer, del testo ebraico
(cfr. Warburg Institute Archive [wia], General Correspondence [gc ] 15638). Questo suscita la curiosità di Warburg e Bergman
risponde (in data 15 luglio 1925) che sarebbe intenzione dell’autore, ossia Scholem, pubblicare anche una versione tradotta
54 saverio campanini
per arrivare a questo risultato. Fritz Saxl, che teneva i contatti con Warburg, e ne conosceva me-
glio il carattere, si dimostrava più prudente.1 Se quel progetto non poté essere realizzato, lo si
deve alla fiera opposizione di Warburg nei confronti dell’ideologia sionista, incarnata in questo
caso da Scholem.
Per comprendere la posizione di Warburg, in modo che qui possiamo solo tratteggiare, oc-
corre tener conto della crisi, politica e mentale, che ha comportato per lui la sconfitta della Ger-
mania nella prima guerra mondiale e lo shock che dovette rappresentare la scelta dei sionisti di
avvicinarsi alla Gran Bretagna, in particolare dopo la dichiarazione Balfour del 2 novembre 1917,
che sanciva di fatto il sostegno del governo britannico alle aspirazioni sioniste. Ogni speranza
di favorire la causa degli ebrei sotto l’egida del Reich guglielmino fu così spazzata via. In una
lettera del 16 maggio 1918 al fratello Max, Aby Warburg esprimeva tutto il proprio risentimento
mettendo alla berlina “il misticismo e il romanticismo” dei sionisti e metteva in guardia il fra-
tello da quella gente: non sono altro che “epigoni falliti, proprio come la civile Europa cristia-
na”, che “credono di poter costruire qualcosa di nuovo sulla base di una cultura specificamente
ebraica”.2 Dopo una serie di scambi di lettere, dietro le quinte, per ottenere l’appoggio di War-
burg, che è interessato alla pubblicazione di una traduzione tedesca del Sefer ha-tamar, Warburg
mostra un interesse sincero scrivendo, il 7 luglio 1925 al fratello Felix che il progetto di pubbli-
cazione del Sefer ha-tamar è parallelo e indipendente rispetto a Picatrix.3 Si direbbe, dunque, che
Warburg sia intenzionato a sostenere l’impresa, ma subito aggiunge, come se il nesso fosse evi-
dente, di essere un anti-sionista convinto, ed evoca un altro anti-sionista, Aron Freimann a Fran-
coforte. La trattativa è brutalmente terminata quando Warburg, in una lettera a Robert Eisler
del 7 agosto 1925, accanto a un giudizio sprezzante, all’indirizzo di Bergman, che crede di rige-
nerare intellettualmente gli ebrei con una chiusura linguistica, dovuta alla scelta di pubblicare
in ebraico moderno, che può solo portare al provincialismo, asserisce di essere ben disposto
verso la traduzione di Scholem e di essere pronto a sostenerla acquistandone 30 copie, ma riba-
disce con enfasi, di non essere intenzionato “a finanziare i sionisti”.4 Il sostegno di Aby Warburg
nei confronti del lavoro di Scholem si limitò, alla fine, al finanziamento dei costi di riproduzione
del ms. 214, un debito riconosciuto correttamente da Scholem nella prefazione del volume,5
che tuttavia si vide costretto a stampare “in casa”, nella tipografia berlinese che il fratello
Reinhold aveva ereditato dal padre nel 1925. Per il mercato tedesco Scholem fece allestire un
frontespizio speciale in cui veniva indicato come editore un libraio specializzato in orientalistica
quale Heinz Lafaire di Hannover, ma si trattava di un mero espediente: in realtà il libro era sem-
plicemente depositato presso la Orientbuchhandlung di Lafaire ad Hannover in conto vendita,
mentre Scholem ne era il proprietario a tutti gli effetti. Non si può dire che Warburg abbia boi-
cottato la pubblicazione, ma certo la sua diffidenza verso l’ideologia sionista costrinse Scholem
a pubblicare il libro a proprie spese.
Le trenta copie che Warburg aveva promesso di acquistare diventano solo cinque, stando a
una lettera di Scholem, del 9 settembre 1927, in cui il docente palestinese gli annuncia che gli
farà visita nella nuova sede della biblioteca, appena inaugurata sulla Heilwigstrasse nel corso
del suo primo viaggio europeo dall’emigrazione.6 Warburg, nella sua risposta datata 13 settem-
bre 1927, lo informa che, a causa di un viaggio in Italia, non potrà accoglierlo, ma Saxl gli mo-
strerà la biblioteca.7

in inglese o in tedesco, ma la biblioteca, che pubblica la rivista, non ha ancora trovato un editore, un chiaro segnale che
spetterebbe a Warburg cogliere (cfr. wia, gc 15640).
1 In data 29 luglio 1925 Saxl scrive a Eisler per informarlo della curiosità di Warburg per la “palma” e gli suggerisce di
pubblicarlo lui stesso, considerato che ha già pubblicato il Bahir (cfr. wia, gc 15848). Il 4 agosto Eisler scrive a Saxl che sa-
rebbe felice di includere il libro nella medesima collana in cui ha pubblicato il Bahir di Scholem, ma richiede un contributo
economico (cfr. wia, gc 15850). Il 22 agosto Saxl gli risponde che Warburg è felicissimo che Eisler si incarichi della pub-
blicazione e, come contributo alla stessa, si offre di finanziare la riproduzione del ms. 214 di Monaco (cfr. wia, gc 15857).
2 Cfr. wia, gc 12424. 3 Cfr. wia, gc 17090.
4 Cfr. wia, gc 15851. 5 E anche in una lettera cordiale, inviata il 16 ottobre 1925 (wia, gc 18054).
6 Cfr. wia, gc 19279. 7 Cfr. wia, gc 19280.
melencolia ii. gershom scholem e l ’ istituto warburg 55
La visita così, lungamente preparata, ebbe finalmente luogo nell’ottobre 1927 e già il 20
ottobre Saxl si affrettava a darne notizia a Warburg,1 quindi, dietro esplicita richiesta di que-
st’ultimo, gli traccia un ritratto dell’ospite, in una missiva del 29 ottobre:2 ha parlato per ore,
300 parole al minuto senza interruzione; come tipo assomiglia a Liebeschütz,3 cerca di combi-
nare la scientificità occidentale con il sapere talmudico; speriamo che la spaventosa energia e
irrequietezza che lo animano possano essere guidate e placate (gelenkt und gelöst). In effetti, co-
me nel caso di Benjamin, si può dire che Saxl adoperi un doppio linguaggio o in ogni caso uno
stile ispirato ad estrema prudenza: sapendo della diffidenza di Warburg, ma anche tentando, se
possibile, di sondarne le intenzioni, quanto alla possibilità di invitare Scholem per una confe-
renza, lo caratterizza con le seguenti parole: “Se gli si chiede qualcosa in particolare, risponde
in modo spumeggiante e conclude le sue tirate con la formula stereotipata: Su questo argo-
mento potrei tenere senz’altro una conferenza qui da voi”.4
Anche dopo la descrizione dettagliata di Saxl, Warburg si dichiara insoddisfatto, perché vuole
sapere che impressione ha fatto la biblioteca (che è come dire la sua mente) su Scholem,5 Saxl
si affretta a informarlo che l’impressione è stata notevole e che Scholem avrebbe preferito adot-
tare il sistema prussiano di catalogazione al posto del metodo Dewey (che lui stesso ha contri-
buito ad adattare per la Jewish National Library).6
La memoria del “Libro della Palma” lasciò una traccia ancora più tardi nel carteggio tra
Scholem e Saxl. Quest’ultimo si era informato presso Scholem se fosse possibile immaginare un
trasferimento in Palestina per la moglie Elise, dalla quale vive separato, aggiungendo che aveva
appreso il mestiere di rilegatrice e Scholem risponde, il primo gennaio 1928, con la consueta
asciuttezza: il lavoro non manca ma per i primi tempi non sarà pagato, inoltre la donna dovrebbe
portare con sé gli attrezzi del mestiere, infine se vuole insegnare, occorrerà che apprenda l’ebrai-
co; una lettera da Felix Warburg a Magnes sarebbe certo d’aiuto, ma Scholem sconsiglia un cam-
biamento radicale di mestiere. Quindi, approfittando dell’occasione, domanda a Saxl se conosca
qualcuno in grado di intendere gli aforismi, le venti frasi profondamente enigmatiche che si leg-
gono, attribuite a Sulayman, vale a dire al re Salomone, nel “Libro della Palma”.7
All’anno seguente risale una lettera inviata il 28 gennaio 1929 da Fritz Saxl a Warburg, che si
trova a Roma:8 due articoli di Scholem9 sono tanto piaciuti a Saxl che gliene manda una copia
e gli chiede se sia possibile invitare Scholem a tenere una conferenza all’Istituto. Lo stesso gior-
no Saxl scrive a Scholem10 che il saggio sulle origini della qabbalah sarebbe stato perfetto per i
«Vorträge» e gli chiede se potesse eventualmente dargli un contributo, ma prudentemente av-
verte che non potrebbe pagargli le spese di viaggio per tornare ad Amburgo. Per la serie di con-
ferenze di quell’anno, da lui curata11 e incentrata sui viaggi celesti, manca un saggio sull’ascesa
al cielo dal punto di vista ebraico. Come si poteva anticipare, è ora Scholem a fare il difficile e,
nella sua risposta, datata 27 febbraio 1929, si dichiara incompetente in materia, ma propone un
saggio sugli elementi visionari nel misticismo ebraico e la loro soppressione, conta di essere ad

1 Cfr. wia, gc 19489. 2 Cfr. wia, gc 9493.


3 Si noti che Scholem non poteva sapere di questo giudizio quando molti anni dopo, come abbiamo ricordato in pre-
cedenza, scrisse a Hans Liebeschütz a proposito della personalità di Warburg e del “fervente sionismo” giovanile di Saxl.
4 «Sowie man ihn übrigens in einer konkreten Sache befragt gibt er sprudelnde Auskunft und endet mit dem stereoty-
pen Satz: darüber könnte ich sehr gut bei Ihnen einen Vortrag halten». La lettera è pubblicata in parte in Weigel, Walter
Benjamin, cit., pp. 256-257, ma già in Dorothea McEwan, Ausreiten der Ecken. Die Aby Warburg-Fritz Saxl Korrespondenz
1910 bis 1919, Hamburg, Dölling und Galitz Verlag, 1998, p. 87.
5 Lettera di Aby Warburg a Fritz Saxl del 4 novembre 1927 (cfr. wia, gc 19494).
6 In una lettera del 9 novembre 1927 (wia, gc 19495).
7 Cfr. wia, gc 21565. 8 Cfr. wia, gc 24939.
9 Si tratta del già ricordato Scholem, Zu Abraham Eleazars Buch Esch Mezareph, cit., e di Gershom Scholem, Zur Frage
der Entstehung der Kabbala, «Korrespondenzblatt des Vereins zur Gründung und Erhaltung einer Akademie für die Wissen-
schaft des Judentums», 9 (1928), pp. 4-26. 10 Cfr. wia, gc 24414.
11 Saxl curò per la collana dei «Vorträge del Bibliothek Warburg» per gli anni 1928-1929, il volume Über die Vorstellungen
von der Himmelsreise der Seele, Leipzig, Teubner, 1930.
56 saverio campanini
Amburgo nel 1930 e si offre di tenere una conferenza.1 La risposta di Saxl, del 27 marzo, è in
realtà un modo di prendere tempo, giacché vi si legge che non ha ancora piani precisi per l’anno
seguente, ma ribadisce il proprio interesse, mantenendo immutata la propria proposta.2 La ri-
sposta che Saxl attendeva da Warburg arriva, in effetti, solo il primo aprile: da Roma egli scrive
che è contrario a invitare Scholem, ma vorrebbe un articolo sulla chiromanzia.3 Il riferimento
alla chiromanzia si comprende meglio tenendo conto di una lettera (del 10 aprile 1929) in cui
Aby Warburg, scrivendo al fratello Max, che è in partenza per la Palestina mandataria, gli chiede
di salutare da parte sua Scholem “che si è servito della biblioteca per le sue ricerche sulla chi-
romanzia”.4 In effetti, in data 4 aprile 1929 Scholem, scrivendo a Saxl, declina l’offerta asserendo
che il tema del viaggio celeste non ha avuto grande importanza nel misticismo ebraico e ag-
giunge che preferirebbe parlare di fisiognomica e chiromanzia, che è un suo vecchio cavallo di
battaglia.5 Nella stessa lettera, Scholem accenna anche all’incontro che ha avuto con Max War-
burg a Gerusalemme, un momento del quale era particolarmente fiero, se è vero che ne parla,
con qualche civetteria, anche alla madre, in una lettera del 24 aprile.6 Alla fine di maggio Saxl,
nel tentativo evidente di guadagnare tempo, si limita a riformulare la proposta o, se Scholem
dovesse preferirlo, a suggerire un contributo sul tema microcosmo-macrocosmo.7 Nel luglio
1929 Scholem replica un po’ stancamente, dicendosi sorpreso che Saxl non abbia accusato rice-
vuta della sua ultima lettera e che Max Warburg, il cui nome serve evidentemente quale stru-
mento di pressione, non lo abbia salutato da parte sua.8 In quel momento Scholem sperava an-
cora di recarsi in Europa l’anno seguente, un piano che dovette rinviare, tra l’altro, a causa dello
scoppio dei moti arabi contro l’insediamento ebraico dell’agosto 1929: per questa ragione an-
nunciava a Saxl la sua prossima visita e la speranza di incontrarlo.
La parte già repertoriata del carteggio9 si conclude su una nota malinconica: in data 12 no-
vembre 1929 Scholem scrive a Saxl per fargli le condoglianze per la morte di Aby Warburg.10
Saxl risponde inviandogli copie di numerosi necrologi per Warburg.11 Tuttavia, nella stessa let-
tera, anche il futuro si annuncia, poiché Saxl chiede a Scholem se sia disponibile a fornire qual-
che consulenza ebraistica nella preparazione del lavoro di Wilhelm Gundel, dedicato al tema
dei decani astrologici. Sappiamo dal libro di Gundel, apparso nel 1936, che Scholem prestò l’aiu-
to richiesto.12
Proprio gli anni più bui, tra la morte di Warburg, l’ascesa del nazionalsocialismo e l’emigra-
zione della Biblioteca segnano l’unica autentica collaborazione tra Scholem e il Warburg, si
tratta del progetto, guidato da Edgar Wind e Hans Meier, della “Bibliografia sulla sopravviven-
za dell’antico”, riferita all’anno 1931, ma apparsa a stampa solo nel 1934.13 Scholem rientrava nel

1 Cfr. wia, cg 24415. 2 Cfr. wia, cg 24416.


3 Cfr. wia, cg 24976. 4 Cfr. wia, cg 24898. 5 Cfr. wia, cg 24417.
6 Betty Scholem, Gershom Scholem, Mutter und Sohn im Briefwechsel 1917-1946, Hrsg. von Itta Shedletzky in Ver-
bindung mit Thomas Sparr, München, Beck, 1989, pp. 188-189.
7 Lettera di Saxl a Scholem del 31 maggio 1929 (cfr. wia, cg 24418).
8 Lettera di Scholem a Saxl dell’11 luglio 1929 (cfr. wia, cg 24419).
9 Che arriva sino all’anno della morte di Aby Warburg, avvenuta il 26 ottobre 1929.
10 Cfr. wia, cg 24420.
11 Lettera di Fritz Saxl a Gershom Scholem dell’11 dicembre 1929 (cfr. wia, cg 24421).
12 Cfr. Wilhelm Gundel, Dekane und Dekansternbilder. Ein Beitrag zur Geschichte der Sternbilder der Kulturvölker. Mit
einer Untersuchung über die Ägyptischen Sternblder und Gottheiten der Dekane von Siegfried Schott, «Studien der
Bibliothek Warburg» 19, Glückstadt - Hamburg, J. J. Augustin, 1936. Già nella prefazione (p. vii), Gundel ringrazia Scholem
per avergli prestato aiuto nel seguire e illuminare il cammino dei decani nella loro peregrinazione verso oriente. In diversi
passi del libro, poi, Gundel riferisce il parere esperto di Scholem. In un caso (p. 385), Scholem parla della deformazione
(Verballhornung) di nomi dei decani ed è stato per questo criticato, dato che il termine da lui impiegato presuppone una
condanna teologica che sarebbe invece assente. Cfr. Kocku Von Stuckrad, Das Ringen um die Astrologie. Jüdische und
christliche Beiträge zum antiken Zeitverständnis, Berlin - New York, Walter De Gruyter, 2000, p. 402, n. 271.
13 Cfr. Kulturwissenschaftliche Bibliographie zum Nachleben der Antike, Bd. i. Die Erscheinungen des Jahres 1931. In Gemein-
schaft mit Fachgenossen bearbeitet von Hans Meier, Richard Newald, Edgar Wind, Leipzig - Berlin, Teubner, 1934 (rist.
Nendeln, Liechtenstein, Kraus Reprint, 1968).
melencolia ii. gershom scholem e l ’ istituto warburg 57
novero dei collaboratori ufficiali dell’impresa, e nella bibliografia appaiono sei articoli a sua fir-
ma,1 dei quali due sono “Selbstanzeigen”,2 vale a dire brevi riassunti di pubblicazioni dello stes-
so Scholem. In generale si può dire che il contributo di Scholem a questa impresa bibliografica
non andasse molto al di là di una mirata autopromozione: oltre ai propri articoli ne segnala altri
due dalla rivista «Tarbiz» e uno dalla «Monatsschrift», riviste alle quali collaborava, così che la
sua partecipazione all’impresa fu piuttosto modesta e, già nel volume successivo, apparso tra
notevoli difficoltà nel 1938,3 il suo nome non compare affatto, né come autore né come recen-
sito. Va inoltre rilevato che, ma potrebbe trattarsi di una svista, nelle due bibliografie delle opere
di Scholem, curate nominalmente dalla moglie Fania4 e da Moshe Catane,5 sotto l’attenta su-
pervisione dell’autore, non si fa il minimo accenno a quelle schede, forse considerate troppo
minute, o forse dimenticate.
In ogni caso il primo volume della Bibliographie ebbe il dubbio onore di una recensione sul
«Völkischer Beobachter», organo ufficiale del partito nazionalsocialista tedesco, a firma Martin
Rasch, con il titolo “Juden und Emigranten machen deutsche Wissenschaft”, un puro distillato
di odio antisemita, nel quale Scholem veniva addirittura citato per nome. Rasch, sgranando l’e-
lenco dei fuoriusciti e degli ebrei (la cui appartenenza religiosa o “razziale” è dedotta a partire
dal cognome), che avevano partecipato alla pubblicazione dell’Istituto Warburg, scandisce, con
macabro motteggio, “Gerhard Scholem in Jerusalem (offenbar von reinstem Jordanwasser)”
[Gerhard Scholem a Gerusalemme (evidentemente della più pura acqua del Giordano)].6 L’idea
che il Warburg fosse essenzialmente un’istituzione ebraica, che Scholem avrebbe sottoscritto,
se si esclude il tono e, ovviamente, la valutazione negativa, suscitò reazioni di vario genere e
compromise l’impresa, almeno per quanti vi avevano collaborato e restavano in Germania, in
modo clamoroso per il già ricordato Schramm, meno evidente ma pesante anche per Ernst Ro-
bert Curtius. Curiosamente, lo stesso Rasch fu costretto a pubblicare (il 23 gennaio 1935),7 una
rettifica, perché numerosi studiosi nominati (tra gli altri Daniel Achelis, Wilhelm Kamlah,
Heinrich Heydenreich, Leo Schrades e Julius Ruska) avevano protestato di non essere emigrati
e di essere ariani. Non sappiamo se Scholem vide quel documento agghiacciante, che non fa-
ceva che confermare le sue idee da tempo radicate sul fatto che non restasse alcun posto per gli
ebrei in Germania sia le sue intuizioni più recenti, e forse non ancora consolidate, sul Warburg
inteso come setta ebraica che rifiutava di trarre le debite conseguenze dalla propria male accet-
tata identità.
Dopo quell’increscioso episodio si diradò, anche a causa della guerra, il contatto tra Scho-
lem e il Warburg, sparso nell’emigrazione, con i libri in magazzini e in diverse città dell’In-
ghilterra. Proprio una bomba sganciata da un aereo tedesco colpì a morte il bibliotecario

1 Si veda, in particolare, Kulturwissenschaftliche Bibliographie (1934), cit., n. 248: Joseph Klausner, Don Juda Abravanel
and his Dialoghi d’amore, «Tarbiz»; n. 532: Marie-Joseph Lagrange, Le Judaïsme avant Jesus-Christ, Paris, Gabalda, 1931; n.
533: Heinrich Lewy, Kleine Beiträge zu Bibel und Volkskunde, «Monatsschrift für die Geschichte und Wissenschaft des
Judentums»; n. 534: Victor Aptowitzer, The Heavenly Temple in the Agada, «Tarbiz».
2 Si tratta dei nn. 149 (Gershom Scholem, Reste neuplatonischer Spekulation in der Mystik der deutschen Chassidim und
ihre Vermittlung durch Abraham Bar Chija, «Monatsschrift für die Geschichte und Wissenschaft des Judentums», 75 [1931], pp.
172-191) e 150 (Gershom Scholem, Die Entwicklung der Weltenspekulation in der alten Kabbala [Hitpatchut torat ha-‘olamot
be-qabbalat ha-rishonim], «Tarbiz», 2 [1931], pp. 415-442; 3 [1932], pp. 33-66).
3 Cfr. A Bibliography of the Survival of the Classics. II. The Publications of 1932-1933, London, The Warburg Institute, 1938
(rist. Nendeln, Liechtenstein, Kraus Reprint, 1968).
4 Fania Scholem, Baruch Yaron, Bibliography of the Published Writings of Gershom G. Scholem, in Studies in Mysticism
and Religion Presented to Gershom Scholem on His Seventieth Birthday, Jerusalem, Magnes Press - The Hebrew University, 1967,
pp. 199-235.
5 Moche Catane, Bibliography of the Writings of Gershom G. Scholem Presented to G. G. Scholem on the Occasion of His Ei-
ghtieth Birthday, Jerusalem, Magnes Press - The Hebrew University, 1977.
6 Nell’edizione per la Germania settentrionale, del «Völkischer Beobachter», 5 (5 gennaio 1935), p. 5, “Juden und Emi-
granten machen deutsche Wissenschaft”. La recensione è ristampata in Kosmopolis der Wissenschaft. Ernst Robert Curtius
und das Warburg Institute, Hrsg. von Dieter Wuttke, Baden Baden, Koerner, 1989, pp. 296-299.
7 Cfr. «Völkischer Beobachter», n. 23 (23.1.1935), p. 6.
58 saverio campanini
Hans Meier e distrusse il catalogo della biblioteca Warburg che avrebbe dovuto rappresentare,
una volta pubblicato, il degnissimo coronamento della progettata edizione delle opere di Aby
Warburg.
A pochi anni dall’emigrazione l’attività dell’Istituto trovò, come è noto, un nuovo centro
d’espressione del «Journal», pubblicato a partire dal 1937. Ora, come apprendiamo da una lettera
di Scholem a Joseph Blau, del 2 agosto 1945, egli aveva trovato (nel 1938) un importante mano-
scritto presso il Jewish Theological Seminary di New York che permetteva di risolvere un gran
numero di enigmi bibliografici suscitati dal De arte cabalistica di Johannes Reuchlin. Scholem
era convinto di aver individuato il manoscritto che doveva aver letto Reuchlin, o uno ad esso
assai simile, e aveva, da tempo, in preparazione un articolo: “I began to write an article on this
for the Journal of the Warburg Institute but left it somehow unfinished. I do not know why”.1
L’articolo progettato non apparve mai sulle pagine del «Journal» ma non fu abbandonato da
Scholem, che ne pubblicò una parte nel 19542 e un’altra, quella più direttamente legata al ma-
noscritto di New York, solo nel 1970,3 ma senza alcun collegamento con il Warburg.
Il rapporto tra Scholem e il Warburg, negli anni ’60 è caratterizzato da una più distesa sim-
patia e cordialità: oltre ai già ricordati Alphons Barb e Isaia Shachar, è noto che Scholem fu
in rapporti assai amichevoli con Frances Yates,4 funse da consulente per la traduzione tedesca
di Picatrix,5 ma soprattutto che trascorse un anno sabbatico (il 1961) presso l’Istituto,6 inau-
gurando nuovi contatti e rinnovando antichi legami. Durante quell’anno Scholem portò a
termine la redazione di un suo importantissimo lavoro, dedicato alle origini della qabbalah,
ovvero la lungamente promessa introduzione al Bahir, per la quale Warburg aveva mostrato
interesse, come del resto anche Benjamin e, più tardi Hannah Arendt. Una prima versione
era apparsa in ebraico nel 19487 e trovava finalmente la propria forma definitiva con il titolo
Ursprung und Anfänge der Kabbala. Tuttavia neanche questo opus magnum apparve per i tipi,
ormai decisamente anglofoni, del Warburg Institute, ma fu pubblicato a Berlino da Walter
De Gruyter.8
Ci si può chiedere quale fu la sorte delle pubblicazioni che, in un modo o nell’altro, Scholem
aveva destinato al Warburg: di alcune, come il Sefer ha-tamar, abbiamo visto l’esito, mentre di
altre possiamo seguire le tracce bibliografiche. Ne è un esempio il progettato libro sulla fisio-
gnomica, che avrebbe interessato molto Aby Warburg, come abbiamo visto e che Scholem, in
una lettera a Martin Buber del 1926,9 dichiara di avere ormai pronto, nella speranza, forse, di
pubblicarlo ad Amburgo. In questo caso, peraltro, fu Scholem stesso a mutare d’avviso, se è ve-
ro che, dopo aver pubblicato un breve articolo, su «The Quest»,10 organo ufficiale della Theo-
sophical Society of England, certo grazie alla mediazione di Robert Eisler, un habitué di quella

1 Gershom Scholem, Briefe i 1914-1947, Hrsg. von Itta Shedletzky, München, Beck, 1994, pp. 300-301, in particolare p. 301.
2 Gershom Scholem, Zur Geschichte der Anfänge der christlichen Kabbala, in Essays Presented to Leo Baeck on the Occasion
of His Eightieth Birthday, London, East and West Library, 1954, pp. 158-193.
3 Gershom Scholem, Die Erforschung der Kabbala von Reuchlin bis zur Gegenwart, Pforzheim, Selbstverlag der Stadt,
1970; poi in Idem, Judaica 3. Studien zur jüdischen Mystik, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1973, pp. 247-263. Itta Shedletzky
che ha curato il primo volume delle lettere di Scholem ha dunque parzialmente torto quando afferma (Scholem, Briefe
i , cit.) che l’articolo evocato nella lettera a Blau non fu pubblicato. Resta vero che Scholem non lo pubblicò nel «Journal».
Ho trattato con maggiori dettagli la questione in Saverio Campanini, Some Notes on Gershom Scholem and Christian Kab-
balah, in Gershom Scholem: In Memoriam, ed. by Joseph Dan, ii, «Jerusalem Studies in Jewish Thought», 21 (2007), pp. 13-33.
4 Che lo ringrazia nella prefazione a Frances Yates, The Occult Philosophy in the Elisabethan Age, London, Routledge
& Kekan Paul, 1979, p. x. 5 Come segnalato in Ritter, Plessner, Das Ziel des Weisen, cit., p. iv.
6 Anche se la fellowship che permise il suo soggiorno londinese gli fu concessa dall’Institute of Jewish Studies di Londra
e non dal Warburg. 7 Gershom Scholem, Reshit ha-qabbalah, Jerusalem, Schocken, 1948.
8 Gershom Scholem, Ursprung und Anfänge der Kabbala, Berlin, De Gruyter, 1962. Si veda anche la versione postuma,
curata da Raphael J. Zwi Werblowsky e da lui aggiornata sulla base degli appunti di Scholem: Origins of the Kabbalah, Phi-
ladelphia - Princeton, Jewish Publication Society - Princeton University Press, 1987.
9 Cfr. Scholem, Briefe i , cit., pp. 225-227. Mi sono soffermato su questo progetto in Saverio Campanini, Kabbala und
Esoterik (christliche Kabbala, Alchemie), in Gershom Scholem. Bausteine zu einer Biographie, Hrsg. von Andreas Kilcher, Daniel
Weidner, Göttingen, Wallstein, in corso di stampa.
10 Gershom Scholem, Cheiromancy in the Zohar, «The Quest», 17 (1926), pp. 255-256.
melencolia ii. gershom scholem e l ’ istituto warburg 59
pubblicazione, si limitò a far apparire due articoli, uno in ebraico nel 1930,1 l’altro in tedesco,
assai più tardi.2 Curiosamente, i due articoli, che testimoniano di molta maggior prudenza da
parte di Scholem rispetto agli entusiasmi iniziali condivisi con Eisler e Buber, apparvero in due
Festschriften: l’una per un sionista di spicco quale Simcha Assaf e l’altra per il pastore protestante
Claas Bleeker.
Infine, è opportuno ricostruire il destino di un altro articolo la cui idea originaria risale, come
si ha ragione di ritenere, a una richiesta di Fritz Saxl quando ancora sperava di poter ottenere
da Scholem un contributo per i Vorträge della biblioteca Warburg. Mi riferisco all’articolo che
Scholem intitolò Zelem, dedicato alle peculiari caratteristiche del corpo astrale e delle sue pere-
grinazioni nel misticismo ebraico. L’epistolario, ancora largamente inedito, tra Scholem e lo
storico della medicina, nonché ebreo berlinese in esilio a Londra, Walter Pagel, che ebbe inizio
proprio nell’autunno 1961, dopo che Scholem aveva concluso il suo anno sabbatico londinese,
testimonia che i loro rapporti si approfondirono proprio in quel torno di tempo. Le parti già
note di quello scambio epistolare3 dimostrano che Scholem stava lavorando proprio allora al-
l’articolo sul corpo astrale, che del resto era stato sin dall’inizio un progetto warburghiano, di
rinnovato interesse se si considerano le pagine dedicate alla questione da Daniel Pickering
Walker.4 Eppure quell’articolo non fu pubblicato nel «Journal» dell’Istituto ma in un volume
che raccoglieva, per il resto, solo conferenze che Scholem aveva tenuto nel corso degli ultimi
anni agli incontri di Eranos, organizzati ad Ascona sotto il nume tutelare di Carl Gustav Jung.5
Il gruppo riunito sotto l’egida del “genus loci”, potrebbe essere definito, ma Scholem si guardò
bene dal farlo, una setta, certo non ebraica, ma che non faceva mistero di esserlo. In ogni caso,
ancora nel 1975 Scholem propose all’allievo di Jung, James Kirsch,6 che lo invitava a tenere una
conferenza in occasione del congresso “Panarion” di Los Angeles per celebrare il centenario
della nascita di Jung, di far tradurre proprio il testo sul corpo astrale.7 Come era toccato a Kirsch
negli anni più neri della persecuzione, anche Scholem fu costretto, in quel torno di tempo, a
prendere le difese di Jung per le sue controverse posizioni all’epoca dell’ascesa del nazismo.
Per concludere questa rassegna del malinconico rapporto tra Scholem e il Warburg non si
dà, se non mi sbaglio, migliore costellazione che quella, suggerita dai documenti stessi, della fi-
siognomica. Nella lettera a Gombrich, che abbiamo ricordato all’inizio, in cui Scholem lo rin-
grazia per l’invio della sua biografia intellettuale, il nostro si sofferma brevemente sulla foto-
grafia, riprodotta nel volume, che raffigura Aby Warburg. Scholem afferma, in modo che può
sorprenderci, abituati come siamo alle immagini, vale a dire assuefatti a ignorarle, di averlo a
lungo studiato. Che cosa vi ha scorto?

1 Gershom Scholem, Hakkarat panim we-sidre shirtutin, in Sefer Asaf, Hrsg. von Umberto Cassuto, Joseph Klausner,
Joshua Guttmann, Jerusalem, Mossad ha-Rav Kook, 1953, S. 459-495.
2 Gershom Scholem, Ein Fragment zur Physiognomik und Chiromantik aus der Tradition der spätantiken jüdischen Esoterik,
in Liber amicorum. Studies in Honour of Professor Dr. C. J. Bleeker, Leiden, Brill, 1969, pp. 175-193.
3 Cfr. Cis Van Heertum, The Alchemical and Kabbalistic Correspondence of Walter Pagel and Gershom Scholem, apparso
online al seguente indirizzo http://www.ritmanlibrary.com/collection/western-esotericism/walter-pagel-and-gerschom-
scholem. La prima lettera di Scholem a Pagel, datata 5 novembre 1961 è pubblicata in Scholem, Briefe ii 1948-1970, Hrsg.
von Thomas Sparr, München, Beck, 1995, pp. 81-82.
4 Cfr., tra l’altro, Daniel P. Walker, The Astral Body in Renaissance Medicine, «Journal of the Warburg and Courtauld
Institutes», 21 (1958), pp. 119-133 e Idem, Spiritual and Demonic Magic from Ficino to Campanella, London, The Warburg Insti-
tute, 1958.
5 Gershom Scholem, Von der mystischen Gestalt der Gottheit. Studien zu Grundbegriffen der Kabbala, Zürich, Rhein
Verlag, 1962, in particolare pp. 249-271 e 306-313 (trad. it. La figura mistica della divinità. Studi sui concetti fondamentali della
Qabbalah, a cura e con una nota di Saverio Campanini, Milano, Adelphi, 2010). Walter Pagel e la sua consulenza su Galeno
e Paracelso sono ricordate a p. 313, n. 42 (trad. it. p. 297, n. 44).
6 Il carteggio tra Kirsch e Jung, di notevole interesse anche per il complesso rapporto tra Jung e l’ebraismo, è pubblicato
in The Jung-Kirsch Letters. The Correspondence of C. G. Jung and James Kirsch, ed. by Ann Conrad Lammers, London - New
York, Routledge, 2011, ed è ora disponibile anche in tedesco: Carl Gustav Jung, James Kirsch, Die Briefe 1928-1961, Ost-
fildern, Patmos, 2014.
7 Cfr. Scholem, Briefe iii , cit., p. 363: «Der Aufsatz geht nicht auf einen Eranosvortrag zurück, sondern wurde eigens
für das Ihnen ja bekannte Buch geschrieben». La proposta fu accolta e le spese per la traduzione in inglese furono soste-
nute dal mecenate Tom Laughlin, che finanziò la conferenza Panarion.
60 saverio campanini
Ha studiato lungamente – scrive – il ritratto di Warburg che Gombrich ha pubblicato. Esso
reca le tracce delle sue sofferenze, tanto più evidenti se, come nel caso di Scholem, si sono co-
nosciuti alcuni dei suoi fratelli che rappresentavano in modo molto spiccato i tratti convenzio-
nali della fisionomia familiare dei Warburg.1
Qual è il bilancio che si può trarre da questa lunga vicenda? Prevalgono, rispetto a quella non
dissimile dell’amico Walter Benjamin, le differenze o le analogie? Senza dubbio vi abbondano,
proprio come nel caso di Benjamin, le occasioni mancate, ma, come ha finemente osservato Si-
grid Weigel,2 fu lo stesso Benjamin, nel saggio sulle Wahlverwandtschaften di Goethe, apparso
nei «Neue deutsche Beiträge»3 a osservare che il ritornare nella scrittura sulle affinità elettive
proviene dall’esperienza di ciò che si è mancato. Ma quale conclusione trarne per Scholem, che
avrebbe voluto incontrare Warburg, senza riuscirci, avrebbe voluto entrare nel circolo War-
burg, senza successo e quando la situazione si capovolse, fu lui a preferire il circolo Eranos e
persino la compagnia, alla quale fu costretto ricevendo il premio Reuchlin, del decano nazista
dell’università di Friburgo ai tempi del rettorato di Heidegger, Wolfgang Schadewaldt. La soffe-
renza di Warburg lo attraeva e lo respingeva ad un tempo perché era la sua.
Ancora prima di avere visto la fotografia di Warburg che tanto lo impressionò, Scholem, pur
non avendolo mai incontrato di persona, ne aveva disegnato un ritratto a beneficio del suo ami-
co e corrispondente Werner Kraft, a sua volta tormentato, durante la prima guerra mondiale,
da forti tentazioni suicide. Mette conto, credo, riferire le sue parole: “Posso dirti che Warburg
ha sofferto per un periodo di una grave forma di mania di persecuzione ed era un malinconico
di prima grandezza”.4 E ancora: “suo fratello mi ha raccontato che durante la guerra (ma credo
anche molto tempo prima) era completamente crollato e poteva essere ridestato a un interesse
intellettuale solo parlandogli di astrologia (ma assai stranamente, credeva che fosse tutto un cu-
mulo di sciocchezze, il che mi ha grandemente sorpreso quando mi è stato detto)”.5
Viene in mente, se si leggono le parole di Scholem avendo presente l’incisione di Dürer dal
titolo Melencholia I, il celebre e sconcertante giudizio di Füssli: la sua melancolia sfiora il sublime
ma l’espressione è indebolita dal cumulo di spazzatura (rubbish) che l’incisore le ha gettato
intorno.6
Resta da chiedersi, visto che il loro fu, a tutti gli effetti, un incontro mancato, potevano ca-
pirsi, Scholem e Warburg? Certamente l’ideologia li divideva, ma non la diagnosi della situa-
zione del primo dopoguerra, in particolare per quel che riguarda gli ebrei. Tuttavia, Scholem,
che apparteneva a un’altra generazione, ne aveva tratto conseguenze assai diverse. La sua pre-
coce e convinta adesione al sionismo non gli impedì, per lungo tempo, di cercare accesso alla
“setta” warburghiana né di tentare, quando l’ora suonò, di accogliere la biblioteca di Warburg
a Gerusalemme, il che avrebbe rappresentato un trionfo e una seppur postuma riconciliazione.
Negli anni della maturità i tratti più salienti del suo carattere si smussarono: per usare le parole

1 Scholem, Briefe iii , cit., p. 6: «Ich habe Warburgs Portrait, das sie beigegeben haben, lange studiert. Es trägt die
Spuren seiner Qualen, um wieviel mehr, wenn man wie ich einige seiner Brüder gekannt hat, die den konventionellen
Warburgschen Familientyp sehr ausgeprägt darstellten».
2 Cfr. Weigel, Bildwissenschaft aus dem „Geiste wahrer Philologie“, cit., poi in Weigel, Walter Benjamin, cit.
3 Walter Benjamin, Goethes Wahlverwandtschaften, «Neue deutsche Beiträge», 2,1 (1924), pp. 38-138; 2,2 (1925), pp. 134-188.
4 Gershom Scholem, Briefe an Werner Kraft, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1986, p. 145 (lettera del 10 febbraio 1931):
«so kann ich Dir sagen, daß W. temporär an schwerem Verfolgungswahn litt und sehr starker Melancholiker war».
5 Ibidem: «Im Kriege war er jahrelang vollständig zusammengebrochen, ich glaube aber auch schon lange Zeit vorher
– er konnte dann, wie mir sein Bruder erzählt hat, nur durch Gespräche über Astrologie (von der er übrigens höchst son-
derbarerweise selbst absolut nichts hielt, was mich sehr überrascht hat, als man es mir sagte) zu geistigem Interesse bewo-
gen werden».
6 Cfr. The Monthly Review or, Literary Journal, Enlarged From September to December, inclusive, mdccxcv , With an Appendix,
xviii, London, R. Griffiths, 1795, p. 235 (Anecdotes of Sewald): «…and the mystic mass of his figure of Melancholy have
much sublimity, though the expression of the last is weakened by the rubbish he has thrown about her». In seguito, in
forma lievemente modificata, in Henry Fuseli, Lectures on Painting, Delivered at the Royal Academy, March 1801, London, J.
Johnson, 1801, pp. 88-89: «…and the mystic conception of his figure of Melancholy, are thoughts of sublimity, though the
expression of the last is weakened by the rubbish he has thrown about her».
melencolia ii. gershom scholem e l ’ istituto warburg 61
di Saxl egli fu più controllato (gelenkt) anche se certo non placato (gelöst) ma l’esperienza del
Warburg, in prima persona o per interposto Benjamin, restò una ferita aperta.
La malinconia rimase uno dei registri fondamentali dello Scholem più intimo, come ci rive-
lano le sue poesie. Nel fatale 1933, quando tutte le strade, compresa quella di una soluzione pa-
cifica in Palestina, si erano chiuse, Scholem allegò a una copia del volume Strada a senso unico
(Einbahnstraße), dell’amico Walter Benjamin, un proprio componimento, e ne fece un cupo
dono di nozze per gli amici Kitty Marx e Karl Steinschneider.1 Tra quei versi si poteva leggere
la seguente quartina:
In alten Zeiten fuhren alle Bahnen
Zu Gott und seinem Namen, irgendwie.
Wir sind nicht fromm, wir bleiben im Profanen
Und wo einst Gott stand, steht Melancholie.
[Nei tempi antichi menavano le vie
A Dio e al suo nome, tuttavia,
noi non siam pii, restiamo nel profano,
e dove Dio fu, ora sta Melancolia].

Scholem fu longevo e così gli accadde di doppiare molti capi nella sua navigazione. Per esempio
l’articolo su Alchimia e qabbalah, che aveva pubblicato nel 1925 pensando all’interesse che avreb-
be suscitato in Warburg, divenne, molti anni dopo una delle ultime conferenze che tenne di
fronte agli accoliti di Eranos, nel 1977.2 Analogamente il tema della malinconia è prelevato da
Scholem nel 1967 da quell’antica poesia d’occasione e ripreso in un componimento dedicato a
Ingeborg Bachmann, dopo una giornata trascorsa insieme a Roma, dove la scrittrice viveva, in
seguito alla lettura del suo “Quel che ho visto e udito a Roma”.3 Una nuova quartina, imper-
niata sulla malinconia, se possibile ancora più sconsolata:
So sprach zu uns der Geist der Utopie,
in der sich Trost und Unglück dunkel einen.
Statt ihrer blieb uns nur Melancholie,
und alles was von Trost blieb, war das Weinen.4
[Così ci ha parlato lo spirito di utopia,
in cui si uniscono, nel buio, conforto e tristezza.
Al suo posto ci è rimasta la melancolia,
e tutto quel che resta del conforto è il pianto].
Nel rapporto con la Bachmann, come in troppi altri casi, a Scholem toccò il dubbio ufficio dei
sopravvissuti. Con la morte dell’inafferrabile Warburg Scholem doveva apprendere per sé un
significato ulteriore del termine intorno a cui si volgevano i pensieri in fuga di Aby Warburg:
“la sopravvivenza”, anche nel senso etimologico, permesso dal tedesco, del Nachleben5 del dover
vivere “dopo”.

1 Il componimento apparve per la prima volta in Walter Benjamin, Gershom Scholem, Briefwechsel 1933-1940,
Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1980, p. 105.
2 Cfr. Gershom Scholem, Alchemie und Kabbala, «Eranos Jahrbuch», 46 (1977), pp. 1-96; poi in Idem, Judaica 4, Hrsg.
von Rolf Tiedemann, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1984, pp. 19-127; quindi in volume autonomo, nella collana
«Suhrkamp Bibliothek»: Idem, Alchemie und Kabbala, Frankfurt am Main, Surkamp, 1994 (tr. it. Alchimia e kabbalah, Torino,
Einaudi, 1995; poi Milano, se, 2015).
3 Cfr. Ingeborg Bachmann, Was ich in Rom sah und hörte, «Akzente», 2,1 (1955), pp. 39-43 (trad. it. Quel che ho udito e
visto a Roma, Prefazione di Giorgio Agamben, Macerata, Quodlibet, 2002, pp. 107-114).
4 Il componimento fu pubblicato per la prima volta in Gershom Scholem, Chamishah shirim, «Hadarim», 4 (1984), pp.
10-15, poi in Sigrid Weigel, Der Abend aller Tage, «Die Zeit», 26 (1996), p. 40, rifuso in Eadem, Ingeborg Bachmann. Hinter-
lassenschaften unter Wahrung des Briefgeheimnisses, München, Deutscher Taschenbuch Verlag (ed. orig. Wien, Szolnay, 1999),
in particolare p. 10. Cfr., inoltre, Scholem, Briefe iii , cit., p. 335.
5 Cfr. Daniel Weidner, Über-, Fort- und Nachleben. Zu einer Denkfigur bei Benjamin, in Benjamin-Studien 2, ed. by Sigrid
Weigel, Daniel Weidner, Paderborn, Wilhelm Fink Verlag, 2011, pp. 161-178.
M E LA N C H OL I A , S T U P O R , PHILO S O PHIA:
D ÜRE R , L A S UA MELEN CO LIA
E L’ I N I Z I O D E L P E N S I ERO C OM E ART E
E l ena F i l ippi
In some of his works Dürer tried to animate a “figurative thought”, which was recognized at his time among others
by poet and humanist Celtis and earned him the epithet of “philosophus”. These images share some unique charac-
teristics, which can be identified with a careful examination of his Melencolia I. Through this figurative inventio
the artist was able to show the emotional tone calling to the need of thinking, which can be related to the
thaumázein of ancient classical philosophy. So in Melencolia I one can grasp a vision of the conditio humana.
Therefore Meisterstich can be properly set within the organic context of Dürer’s production.

i.

L a tesi che intendo illustrare qui, a celebrare i cinquecento anni del capolavoro düreriano aper-
to a un inesauribile lavoro ermeneutico,1 è che siamo di fronte a un testo filosofico. Si tratta
invero di una ‘filosofia in immagine’,2 la quale possiede una specificità sua propria e soprattutto
una legittimità che non è stato Dürer per primo a conferirle. La possibilità di filosofare per im-
magini è stata efficacemente tematizzata da Nikolaus von Kues3 – teologo, filosofo, matemati-
co, vescovo di Bressanone e quindi cardinale di San Pietro in Vincoli – nel suo De visione Dei del
1453.4 Che Dürer avesse conosciuto quest’opera è stato segnalato altrove da altri e mostrato nel

Elena Filippi, Kueser Akademie für Europäische Geistesgeschichte (Bernkastel-Kues).


1 Per una storia delle diverse interpretazioni e influssi dell’opera in ambito letterario e teatrale si rinvia al contributo
di Hartmut Böhme, Zur literarischen Wirkungsgeschichte von Dürers Kupferstich “Melencolia I”, in Polyperspektivik in der lite-
rarischen Moderne. Studien zur Theorie, Geschichte und Wirkung der Literatur. Festschrift Karl Robert Mandelkow, a cura di Jörg
Schönert, Harro Segeberg, Frankfurt a.M., Peter Lang Verlag, 1988, pp. 3-123 (con bibliografia); per le molteplici ricadute
nel contesto artistico si veda Melancholie. Genie und Wahnsinn in der Kunst, Catalogo della mostra a cura di Jean Clair (Paris,
Galeries Nationales du Grand Palais, 10 ottobre 2005 - 16 gennaio 2006; Berlin, Neue Nationalgalerie, 17 febbraio - 7 maggio
2006), Ostfildern, Hatje Cantz Verlag, 2005.
2 Circa il contesto düreriano così si è espresso di recente Thomas Schauerte: «Nach damaliger Überzeugung also
standen am Beginn allen Philosophierens nicht Worte, sondern Bilder», in Idem, Dürer. Das ferne Genie. Eine Biographie,
Stuttgart, Philipp Reclam junior, 2012, p. 15. Su questo tema si assiste da qualche anno a un interesse crescente. Fra gli esiti
senz’altro più interessanti indico gli Atti del convegno di Hildesheim (2005): Kann das Denken malen? Philosophie und Malerei
in der Renaissance, a cura di Inigo Bocken, Tilman Borsche, München-Paderborn, Fink, 2010; Elena Filippi, Denken durch
Bilder. Albrecht Dürer als «philosophus», Münster, Aschendorff, 2013 (“Texte und Studien zur europäischen Geistesgeschich-
te”, Reihe B, Band 7). Su questo versante si muovono anche le indagini di Raphael Ebgi intorno a Pico della Mirandola.
3 Niccolò da Cusa (o Nicola Cusano; lat. Nicolaus Cusanus; ted. Nikolaus Chrypffs o Krebs von Cues) nacque a Kues
(oggi Bernkastel-Kues), nei pressi di Treviri, nel 1401; morì a Todi l’11 agosto 1464. Dopo gli studi di teologia, diritto,
matematica e filosofia, fra Heidelberg, Padova e Colonia, fu legato pontificio nei Paesi a Nord delle Alpi, quindi vescovo-
principe di Bressanone (dal 1452) e cardinale di San Pietro in Vincoli (dove è sepolto, ma il suo cuore, per sua stessa volontà,
riposa nell’amata piccola patria in riva alla Mosella). Partecipò attivamente ai Concili di Costanza e di Firenze, prodigan-
dosi per la soluzione della questione conciliarista e incoraggiando un riavvicinamento tra le Chiese d’Oriente e d’Occi-
dente. Ai molteplici impegni ecclesiastici e pastorali – fu predicatore assai attivo – affiancò una inesausta ricerca filosofica
e teologica, che lo portò a produrre un ampio corpus di opere, tra le quali il famoso De docta ignorantia, un dialogo che ha
per protagonista ‘il laico’, la persona semplice ma desiderosa di capire a partire dall’esperienza quotidiana. Per un primo
approccio alla molteplicità dei suoi interessi e contatti con il mondo dell’Umanesimo italiano si veda il prezioso contributo
di Martin Thurner, “tedesco di nazione ma non di costumi”? Nicolaus Cusanus zwischen Deutschland und Italien im Spiegel
der Forschung, in Nicolaus Cusanus zwischen Deutschland und Italien. Beiträge eines deutsch-italienischen Symposiums in der Villa
Vigoni vom 28.3.-1.4.2001 (“Veröffentlichungen des Grabmann-Instituts”, 48), a cura di Martin Thurner, Berlin, Akademie
Verlag, 2002, pp. 11-72 (con bibliografia).
4 Nicola Cusano, La visione di Dio, in Scritti filosofici, testo critico e trad. a cura di Giovanni Santinello, Bologna, Za-
nichelli, 2 voll., vol. i (1965), vol. ii (1980), ii, pp. 260-379.
64 elena filippi
dettaglio della documentazione storica da me. Qui il teologo descrive un experimentum, in ter-
mini concreti, per illustrare ai confratelli benedettini di Tegernsee la visione ‘di’ Dio (nel dupli-
ce senso del genitivo, soggettivo e oggettivo allo stesso senso). Per far ciò, Cusano si servì di un
piccolo ritratto di Cristo onniveggente (tabella, icona), il quale ricambia lo sguardo degli osser-
vatori, in quiete come pure in movimento, addirittura in direzioni opposte. Con ciò, egli illustra
una nozione insieme teologica e filosofica, quella della coincidentia oppositorum, già formulata
anni addietro nel suo De docta ignorantia, ma vi aggiunge qualcosa che può esser mostrato solo
ricorrendo all’immagine: un’esperienza del fatto che la nostra visione di Dio coincide con quel-
la che Dio ha dell’uomo.1 Se l’uomo parla del divino servendosi del linguaggio dell’immagine,
non si tratta affatto di un ripiego, ma del modo più opportuno per riferirsi a Dio, più efficace
rispetto al linguaggio concettuale, parlato o scritto che sia.2 Infatti il logos umano è sempre pro-
spettico nell’affermare questo o quello – ora questo ora quello – ma non simultaneamente due
realtà che si escludono a vicenda; non è insomma omogeneo al logos divino, perciò non è adatto
a sondarlo. In tal senso, l’esperimento condotto nel De visione Dei non rappresenta un ‘parago-
ne’ – nel senso di un’immagine che illustra ciò che potrebbe essere altrimenti detto ancor me-
glio per mezzo del puro concetto (come è il caso del mito platonico della caverna) – e non è
nemmeno un mito pre- o extra-filosofico che pure ricorre in Platone quando ci fa immaginare
come fosse l’antica Atlantide (mito pre-filosofico: precede e prepara il filosofare) o quando offre
una visione di ciò che accade all’anima dopo la morte (mito extra-filosofico: si spinge con l’im-
maginazione sin dove la filosofia non può arrivare).3
Il ragionare per immagini è richiesto nell’esempio cusaniano dalla cosa stessa che deve essere
espressa. Pertanto l’artista, che domina il linguaggio dell’immagine, è del tutto legittimato a
fare filosofia con le immagini, ed è quello che Dürer mise in pratica – non in tutte le sue imma-
gini, si badi, ma in alcune (poche) opere della sua produzione che rivelano aspetti peculiari, di
cui dirò a breve. La Melencolia I è una di queste. Anzi, è quella in cui Dürer espone una filosofia
finalmente svincolata in misura più matura dalle influenze entro cui è venuta plasmandosi fra
gli ultimi anni del Quattrocento e il primo decennio del nuovo secolo.4
Una delle prime esperienze di Dürer nel rendere in immagine la filosofia fu un lavoro com-
missionatogli negli ultimi anni del xv secolo dall’umanista Konrad Celtis per il frontespizio del
suo compendio intitolato Quattuor libri amorum secundum quattuor latera Germaniae, noto col ti-
tolo abbreviato di Amores (edito a Norimberga nel 1502).5
Dürer fu incaricato di approntare l’incisione della Philosophia (Fig. 1). In questa prima prova,
che gli valse l’appellativo di «philosophus noster», attribuitogli da Celtis in un suo epigramma,6
nonché un ideale accostamento ad Alberto Magno,7 iniziano a emergere i tratti che connote-

1 Mi permetto qui di rinviare al recente Elena Filippi, L’antropologia di Nicola da Cusa e il tema della “viva imago dei”.
Riflessi nella cultura figurativa del Quattrocento, «Horti Hesperidum. Studi di storia del collezionismo e della storiografia ar-
tistica», iv, 2015, 1, pp. 71-98, qui pp. 81e sgg.
2 Filippi, Denken durch Bilder, cit., specialmente pp. 15-31 e pp. 33-62.
3 Per una solida sintesi dei concetti di mito e immagine in Platone si veda David Ambuel, Platon: In Bildern denken, in
Denken mit dem Bild: philosophische Einsätze des Bildbegriffs von Platon bis Hegel, a cura di Johannes Grave, Arno Schubbach,
Paderborn, Fink, 2010, pp. 13-42 (Coll. “Eikones”); inoltre I miti di Platone, a cura di Franco Ferrari, con una premessa di
Mario Vegetti, Milano, bur Rizzoli, 2006.
4 In proposito si veda Thomas Schauerte, Von der ‘Philosophia’ zur ‘Melencolia I’. Anmerkungen zu Dürers Philosophie-
Holzschnitt für Konrad Celtis, in Konrad Celtis und Nürnberg, Akten des interdisziplinären Symposions vom 8. und 9. Novem-
ber 2002 im Caritas-Pirckheimer-Haus in Nürnberg, Wiesbaden, Harassowitz, pp. 117-139.
5 Imprescindibile il lavoro di Jörg Robert, Konrad Celtis und das Projekt der deutschen Dichtung. Studien zur humanisti-
schen Konstitution von Poetik, Philosophie, Nation und Ich, Tübingen, Niemeyer, 2003; in breve Idem, Celtis’ «Amores» – Ein Ma-
nifest des deutschen Humanismus, in Der frühe Dürer, Catalogo della mostra (Nürnberg, Germanisches Nationalmuseum, 24.
Mai bis 2. September 2012), a cura di Daniel Hess, Thomas Eser, Nürnberg, Verlag des Germanischen Nationalmuseums,
2012, pp. 65-67; Anja Grebe, «Anderer Apelles», in Der frühe Dürer, cit., pp. 78-86.
6 Dieter Wuttke, Unbekannte Celtis-Epigramme zum Lobe Dürers, «Zeitschrift für Kunstgeschichte», 30, 1967, pp. 321-
325, qui p. 323.
7 Al riguardo Jörg Robert, Dürer, Celtis und die Geburt der Landschaftsmalerei aus dem Geist der “Germania illustrata”, in
Der frühe Dürer, cit., pp. 71-83, qui pp. 82 e sgg. In particolare afferma lo studioso: «Durch den Albertus-Vergleich erweitert
dürer, la sua melencolia e l ’ inizio del pensiero come arte 65

Fig. 1. Albrecht Dürer, Philosophia, xilografia in Konrad Celtis, Quatuor Libri Amorum Secundum
Quatuor Latera Germanie, Norimbergae, Sodalitas Celtica, 1502, fol. 6v.
66 elena filippi
ranno le immagini filosofiche del Maestro: in primo luogo, vi è una rigorosa centralità, che dal
punto mediano del foglio si trasmette lungo l’asse centrale. Non si tratta solo di una centralità
sul piano compositivo, ma anche su quello ermeneutico: è a partire dal centro che l’opera va
letta e compresa; in secondo luogo, le immagini filosofiche di Dürer hanno tutte un riferimento
esplicito o implicito alla sua persona, non tanto e non solo nella sua dimensione privata, quanto
nel suo ruolo di artista e umanista.1 Infine, e per terzo, si tratta di opere caratterizzate da un in-
tento programmatico.
I tre aspetti qui enunciati si riscontrano con facilità nell’incisione della Philosophia:2 il mono-
gramma di Dürer è piazzato sull’asse centrale, alla base un cursus scientiarum che ha il suo tra-
guardo sul busto della figura che incarna la filosofia.3 Ciò possiede di per sé un valore di auto-
referenzialità e, insieme, di programma: in quanto artista che si fa riconoscere tramite il proprio
monogramma, Dürer intende intraprendere il cammino delle scienze indicate dalle iniziali del-
le parole greche che più sopra le connotano e che trovano proprio nella filosofia il senso ultimo
e il loro compendio più autonomo.
Ebbene, quali altre immagini di Dürer possiedono questi caratteri? Senza pretesa di esausti-
vità, ne menzionerò qui alcune, rispettando l’andamento cronologico: anzitutto l’Autoritratto
in pelliccia della Alte Pinakothek di Monaco datato 1500 (Fig. 2), dipinto che vede fortemente
sottolineato l’asse centrale, nel cui punto mediano la mano del pittore oscilla ambivalente fra
il riferimento a sé e il gesto del Cristo benedicente. Il programma umanistico è chiaramente
sotteso alle parole disposte sull’asse longitudinale a formare idealmente il transetto di una cro-
ce: progetto umanistico e cristologico insieme.4 Ancora, la Nemesi del 1502 (Fig. 3),5 al cui cen-
tro sono le gambe di una figura alata allegorica, pericolosamente in bilico su di una sfera.6 Ne
va anche della riuscita dell’arte nordica laddove essa sia tenuta a confrontarsi con quella

Celtis sein bis dahin auf den Bereich der “artes liberales” bezogenes “translatio” - Programm um den Bereich der “artes
mechanicae” und damit um einen “ästhetischen Patriotismus”». Questo aspetto rilevante viene ragionato in Idem, Ae-
mulatio und ästhetischer Patriotismus. Dürer-Bilder zwischen Humanismus und Frühromantik, in Aemulatio. Kulturen des Wett-
streits in Text und Bild (1450-1620), a cura di Jan Dirk Müller et alii, Berlin-New York, De Gruyter, 2011, pp. 144-147 (“Plurali-
sierung und Autorität”, Bd. 27).
1 Su ciò intanto Ernst Rebel, Albrecht Dürer. Maler und Humanist, München, C. Bertelsmann, 1996, pp. 125-133. Questo
lavoro ha di fatto aperto la strada a pensare Dürer nella sua straordinaria complessità di uomo, artista curioso e onnivoro
uditore-interlocutore di una cerchia fenomenale di intellettuali a cavaliere del Cinquecento, riuscendo ad un tempo a ren-
dere siffatto plesso di relazioni in misura eccezionalmente agevole per il lettore.
2 Scheda di Matthias Mende, Die Philosophie (Philosophia ), in Albrecht Dürer. Das druckgraphische Werk, a cura di
Rainer Schoch et alii, i-iii, München-London-New York, Prestel, 2001-2004, iii, 2004, nº 269.2, pp. 140-144. Per una analisi
dettagliata, comprensiva delle fonti letterarie e filosofiche e più in generale per quanto concerne la interpretazione dei di-
versi elementi di questa xilografia da ultimo Filippi, Denken durch Bilder, cit., pp. 75-85.
3 La stessa figura femminile alata della Melencolia I, attorniata da strumenti che rinviano alle sette arti liberali, i quali
innescano anche un gioco allusivo alla personificazione di Astronomia, rende testimonianza di una lunga tradizione, dal
pitagorismo di età antica, passando per Marziano Capella e Boezio fino a Cusano e oltre.
4 Cfr. Elena Filippi, «Quasi pictor, qui diversos temperat colores, ut habeat sui ipsius imaginem»: zu Cusanus und Dürer, in
Das europäische Erbe im Denken des Nikolaus von Kues: Geistesgeschichte als Geistesgegenwart, a cura di Harald Schwaetzer,
Münster, Aschendorff, 2008, pp. 175-197; Eadem, Imitatio naturae und imitatio Christi: die coincidentia oppositorum in der viva
imago Albrecht Dürers von 1500, in «Ars imitatur naturam». Transformationen eines Paradigmas menschlicher Kreativität im Über-
gang vom Mittelalter zur Neuzeit, a cura di Arne Moritz in collaborazione con Franz-Bernhard Stammkötter, Münster,
Aschendorff, 2009, pp. 107-117.
5 Scheda tecnica di Giovanni M. Fara, Albrecht Dürer. Originali, copie, derivazioni (Inventario generale delle stampe
del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, i), Firenze, 2007, pp. 133-135.
6 Per il motivo di Fortuna, nella sua personificazione che reca fra gli attributi umanistici la sfera, cui si contrappone la
‘soliditas’ del cubo su cui è assisa Sapientia nel frontespizio del Liber de sapiente di Bovillus (1510), ad un tempo frutto di una
personale rilettura di Cusano e insieme crogiuolo delle sue esperienze di matematico e umanista, che da più parti è visto
come un riferimento decisivo per l’invenzione düreriana del 1514, rinvio a Peter-Klaus Schuster, melencolia i : Dürers
Denkbild, i-ii, Berlin, Gebr. Mann Verlag, 1991, i, pp. 162-164 e più in generale pp. 312-318; Gosbert Schüßler, «Die Tugend
auf dem Felsenberg». Eine Komposition Pinturicchios für das Paviment des Domes von Siena, in Zeichen, Rituale, Werte, a cura di
Gerd Althoff, Münster, Rhema, 2004, pp. 435-497, qui pp. 478 e sgg.; per il nostro contesto è apprezzabile il saggio di An-
ne-Hélène Klinger-Dollé, Making Figures: A Way of Philosophizing in the De Sapiente, «Intellectual History Review»,
21/3, 2011, pp. 317-339.
dürer, la sua melencolia e l ’ inizio del pensiero come arte 67

Fig. 2. Albrecht Dürer, Autoritratto con pelliccia,


1500 (München, Alte Pinakothek).
Fig. 3. Albrecht Dürer, Nemesis (La grande Fortuna),
ca. 1501-1502, incisione a bulino.

italiana.1 Il luogo di tale competizione è indicato dallo scenario alpino di Chiusa/Klausen, al li-
mitare fra i due mondi culturali. Anche tipologicamente, vi è implicito tutto il problema della
regola,2 del canone della bellezza italiana e della volontà formale nordica,3 che invece, come
dirà Wölfflin, vive piuttosto della trasgressione di tale canone.4 In ordine cronologico troviamo
poi appunto il foglio della Melencolia I, dove i suddetti caratteri sono più difficili da riconoscere,
come bisogna ammettere. Prima di ravvisarli e di addentrarmi in una lettura interpretativa del
foglio, e non solo per amor di completezza, indico quello che a mio parere è un punto di arrivo
della filosofia düreriana per immagini: la cosiddetta Colonna dei contadini del 1525 (Fig. 4), an-
ch’essa incentrata su di un asse mediano, le cui proporzioni sono rigorosamente calcolate. Sia-
mo all’interno di un manuale a uso dei futuri artisti, nel quale il Maestro inserisce un deciso e
grave riferimento alla scottante attualità, quella dei fatti di sangue di Frankenhausen della tarda
primavera di quell’anno. In tal senso, vi è un intento programmatico circa la funzione morale
dell’arte.5 Il fatto che questo foglio sia stato interpretato in modi radicalmente opposti – come

1 Mi limito qui a indicare la recente sintesi di Ulrich Pfisterer, Dürer im Dialog. Kunsttheorien um 1500 und ihre Ver-
mittlungswege nördlich und südlich der Alpen, in Dürer. Kunst - Künstler - Kontext, Catalogo della mostra (Frankfurt am Main,
Staedelmuseum), a cura di Jochen Sander, München, Prestel, 2013, pp. 376-381.
2 Cfr. Elena Filippi, Albrecht Dürer. Nemesis - Fortuna - Decisione, in Le due muse. Scritti d’arte, collezionismo e letteratura
in onore di Ranieri Varese, a cura di Francesca Cappelletti et alii, Ancona, Il Lavoro Editoriale, 2012, pp. 215-223.
3 Anne-Marie Bonnet, Albrecht Dürer - Die Erfindung des Aktes, München, Schirmer-Mosel, 2014, pp. 29-31; Filippi,
Denken durch Bilder, cit.: Das Gelingen des Schönen und die Haltung von Maß, pp. 141-151.
4 Heinrich Wölfflin, L’arte del Rinascimento. L’Italia e il sentimento tedesco della forma, a cura di Maurizio Ghelardi,
Livorno, Sillabe, 2001, qui p. 145.
5 Cfr. Elena Filippi, Dignitas hominis: Thomas Müntzer, Albrecht Dürer und die “vera mensura” des sozialen Humanismus,
in Was bleibt? Karl Marx heute, a cura di Beatrix Bouvier et alii, Studienzentrum Karl-Marx-Haus der Friedrich-Ebert-Stif-
tung, Trier, 2009, pp. 95-109.
68 elena filippi
presa di posizione a favore degli oppressori
oppure in difesa dei contadini oppressi – testi-
monia che anche in questo caso, come in
quello riguardante l’esperimento cusaniano, il
linguaggio dell’immagine capace di dire si-
multaneamente l’una e l’altra cosa, non è un
semplice succedaneo del logos, ma diventa lo
strumento più idoneo a mostrare e additare
l’eticità.1
Quale domanda filosofica viene sondata in
queste immagini? La risposta non può che
essere insieme semplice e complessa: non
‘una’, bensì ‘la’ domanda filosofica. Essa si in-
terroga sul senso dell’essere nel mondo, perciò
sull’uomo nel suo confronto col cosmo, con la
cultura, con Dio. Di volta in volta, può essere
posto in evidenza un singolo aspetto di tale in-
terrogativo, il rapporto della filosofia con le
scienze e le arti (Philosophia), il nesso uomo-
Dio (Autoritratto), il pensiero sotteso alle diver-
se culture e alle difformi volontà artistiche (Ne-
mesis), il problema della giustizia e del giusto
soggiornare dell’uomo sulla Terra (Colonna
dei contadini), ma si tratta sempre di orizzonti
che si fondono in un unico grande punto di do-
manda che mira all’intero dell’esperienza.

ii.
Eccoci dunque, dopo questo primo inquadra-
mento introduttivo, alla Melencolia I (Fig. 5):2
dove sono qui i connotati esteriori che la avvi-
cinano alle opere filosofiche e quale questione
assume qui il ruolo cruciale?
Un primo indizio – ex negativo – è dato già
Fig. 4. Albrecht Dürer, Victoria (c.d. Colonna dei
contadini), xilografia, in Vnderweysung der Messung dal fatto che in generale gli interpreti concor-
mit dem zirckel vn[d] richtscheyt, Norimbergae 1525, dano nel parlare di questa invenzione düreria-
apud Hieronymus Andreae, Liber iii, fol. 49v. na come di un ‘enigma’: ‘ein Rätselbild’, dicono

1 A questo motivo ho rivolto peculiare attenzione negli ultimi anni: Elena Filippi, Maß und Vermessenheit des Men-
schen. Cusanus und Dürer als Erzieher, in “Videre et videri coincidunt” - Theorien des Sehens in der ersten Hälfte des 15. Jahrhunderts,
a cura di Wolfgang Christian Schneider et alii, Münster, Aschendorff, 2010, pp. 333-350; Eadem, “Ein rechte Maß gibt auch
eine gute Gestalt und nit allein im Gemäl”. Dürers Maßverständnis zwischen Theorie, Praxis und Ethik, in Dürer und die Mathema-
tik - Neues aus der Dürerforschung, Germanisches Nationalmuseum, a cura di Ulrich G. Großmann, Nürnberg, Verlag des
Germanisches Nationalmuseums, 2009, pp. 115-124; Eadem, “Halt mass”: “attieniti alla misura”! – Dürer e la proporzione nelle
cose: la regola, i precetti, l’orizzonte umanistico della “Unterweisung der Messung” - una esemplificazione da manuale, «Atti e me-
morie dell’Accademia Toscana di Scienze e Lettere ‘La Colombaria’», n.s., 59, 2008, pp. 39-61; Eadem, Umanesimo e misura
viva. Cusano, Alberti, Dürer, San Giovanni Lupatoto (Verona), Arsenale-ebs Bortolazzi, 2011, pp. 187-205; Eadem, Denken
durch Bilder, cit., specialmente cap. 9: Maß und Vermessenheit des Menschen. Die Philosophie der Dürerschen “Bauernsäule” im
Anschluss an Cusanus, pp. 205-230.
2 Per una ottima sintesi rinvio alla scheda di Matthias Mende, Melencolia I (Die Melancholie), in Albrecht Dürer. Das
druckgraphische Werk, cura di Rainer Schoch et alii, i-iii, München-London-New York, Prestel, 2001-2004, i, 2001, nº 71, pp.
179-184; relativamente ai contributi in lingua italiana si veda anzitutto Giovanni M. Fara, Albrecht Dürer. Originali, copie,
derivazioni, cit., pp. 127-129.
dürer, la sua melencolia e l ’ inizio del pensiero come arte 69

Fig. 5. Albrecht Dürer, Melencolia I, 1514, incisione a bulino.

i tedeschi. È la stessa espressione che San Paolo attribuisce alla vista e alla sua relazione con la
conoscenza di Dio: «videbimus sicut in enigma». Non si tratta cioè di un rompicapo che un giorno
potrà essere risolto, anche se questo non significa certo legittimare qualsiasi lettura.
Dürer stesso ha provveduto a sciogliere il significato di alcuni elementi presenti sulla scena
(la chiave e il borsellino). Non abbiamo quindi a che fare con un rebus da decifrare, ma con un
70 elena filippi

Fig. 6. Albrecht Dürer, Adamo ed Eva, 1504, incisione a bulino, particolare della tavoletta con monogramma -
Melencolia I, particolare del putto (fotocomposizione dell’autrice).

‘enigma’, cioè con una domanda che non è indirizzata a ricevere una risposta. Tale è anche la
domanda filosofica.
Se si tracciano le diagonali del foglio, esse s’incrociano immediatamente al di sotto del putto,
che siede proprio al di sopra di questo punto mediano, occupando con ciò il posto d’onore nella
composizione.
È misteriosamente sfuggito a quasi tutti gli interpreti che tale putto tiene in mano la stessa
tavoletta sulla quale Dürer è solito presentare il proprio monogramma (Fig. 6).1 Quest’ultimo
è equivalente al suo marchio di fabbrica. Nello stesso anno in cui fu realizzata la nostra incisio-
ne, il 1514, si concluse il processo per plagio contro l’incisore bolognese Marcantonio Raimondi,
il quale fu autorizzato a riprodurre le invenzioni düreriane, tuttavia prive del monogramma: la
tavoletta doveva essere libera da scritte e simboli. Soltanto Albrecht Dürer aveva il diritto di im-
primervi il proprio marchio. Ora, il modo in cui il putto impugna il bulino – non si tratta infatti
di altro strumento – ha sollevato in qualcuno il dubbio che non stia realmente scrivendo (cosa
che pure è stata pensata). Invece, traccia segni concentrandosi su quanto sta facendo.
Il putto sta qui nel ruolo di Dürer stesso. È «lo spirito creativo destinato a potenziare le ca-
pacità dell’artista», così Marco Bertozzi.2 La sua funzione è quella di figura in assistenza, non

1 Si fa apprezzare in tal senso l’acuta analisi di Philipp P. Fehl, Dürers literal presence in his pictures. Reflections on his Si-
gnatures in the Small Woodcut Passion, in Der Künstler über sich in seinem Werk, Internationales Symposium der Bibliotheca
Hertziana, Rom, 1989, a cura di Matthias Winner, Weinheim, vch Acta Humaniora, 1992, pp. 191-244, qui p. 206.
2 Marco Bertozzi, Il detective melanconico e altri saggi filosofici, Milano, Feltrinelli, 2008, p. 63.
dürer, la sua melencolia e l ’ inizio del pensiero come arte 71
estranea del resto ad altri celebri putti rinascimentali, come ad esempio quelli ai piedi della Ma-
donna Sistina di Raffaello, di poco precedente.1 Qui il putto seduto al centro della scena «non
condivide né la demonica cecità del pipistrello, né la malinconica consapevolezza della donna,
ma è – nello sguardo, nella posa e sprofondato nel suo scarabocchio – l’immagine di un grado
preriflessivo del sapere e del saper fare».2 Proprio per questo suo trovarsi al di fuori della ma-
linconia, svincolato dalle dinamiche che le sono connaturate, il putto può svolgere questa fun-
zione di assistenza e rappresentare il ruolo assunto dall’arte.3
Ma perché l’artista si farebbe qui rappresentare proprio da un putto?
Nel 1472, quando non aveva ancora compiuto un anno, si fece osservabile in cielo un feno-
meno straordinario: vi splendeva una cometa così luminosa da rischiarare il buio della notte.
L’astronomo Regiomontano, appartenente peraltro alla cerchia cusaniana, aveva osservato
questo fenomeno molto attentamente. Il suo Liber chronicarum fu pubblicato nel 1493 a Norim-
berga da Anton Koberger, padrino di battesimo di Albrecht.4 Sotto questa stella nacque Dürer,
che in tal modo riassume i propri natali. Probabilmente già il 21 maggio 1471 il corpo luminoso
era visibile in lontananza e aveva sollevato una questione epocale: se si trattasse veramente di
un corpo oppure di un riverbero di luce nel mondo sublunare, secondo la dottrina aristotelica.5
In ogni caso, si trattava di un segno!6
Nel 1514 quando fu inventato questo foglio (che come è noto viene criptodatato dai due nu-
meri 15 e 14 nell’ultima riga in basso), Dürer aveva 42 anni. Sappiamo infatti dal suo Autoritratto
in pelliccia che nel 1500 aveva 28 anni (aetatis / anno xxviii). Nel 1514 ne aveva 14 di più: 42.
L’anno dell’apparizione della cometa viene insomma calcolato come punto zero della nascita
(artistica) di Dürer.
La cosmologia e la dottrina dell’anima erano allora strettamente legate. Un primo autore
che viene sovente chiamato in causa a sostegno di questo nesso cosmopsicologico nella Melen-
colia düreriana è Cornelius Agrippa di Nettesheim.7 Accanto al suo ricorrono altri nomi impor-

1 Su questo motivo di recente Elena Filippi, «Si fonda l’esser beato ne l’atto che vede…», in Elena Filippi, Stefan Ha-
sler, Harald Schwaetzer, La Madonna Sistina di Raffaello. Un dialogo nella visione, ed. it. ampliata e aggiornata a cura
di Elena Filippi, Roma, Aracne, 2013, pp. 35-40.
2 Cit. da Hartmut Böhme, Albrecht Dürer: Melencolia I. Im Labyrinth der Deutung, Frankfurt a. M., Fischer Verlag, 1989,
pp. 23 e sgg.
3 Cfr. Hanne Bergius, Von Contemplatio dei zu Putto-Ismus. Über die Wirkungsgeschichte der “Melencolia I” von Dürer, in
Hülle und Fülle. Festschrift für Tilmann Buddensieg, a cura di Andreas Beyer et alii, Verlag und Datenbank für Geisteswissen-
schaften, 1993, pp. 41-49; Thomas Leuker, Dürer als ikonographischer Neuerer, Freiburg i. Br., Rombach Verlag, 2001, pp.
33-49.
4 Nel 1497 Koberger fece stampare l’epistolario di Ficino. Soprattutto per tramite di Pirckheimer Dürer ebbe accesso
agli scritti del filosofo, ovvero a sintesi del suo pensiero e alla sua dottrina dei temperamenti: Willibald aveva acquistato a
Padova nel 1489 una copia del De vita triplici. Cfr. Raymond Klibansky, Erwin Panofsky, Fritz Saxl, Saturno e la me-
lanconia. Studi di storia della filosofia naturale, religione e arte, trad. it. di Renzo Federici, Torino, Giulio Einaudi, 1983, sulla
«Melancholia generosa», pp. 228-257; più recentemente Martin Büchsel, Albrecht Dürers Stich Melencolia, i. Zeichen und Emo-
tion. Logik einer kunsthistorischen Debatte, München, Fink, 2010, soprattutto pp. 109-131. Efficace ancorché sintetico al riguar-
do Böhme, Albrecht Dürer, cit., pp. 68-80.
5 Aristotele, De meteor. i, 7, 1,2. Già nell’antichità Seneca aveva contestato questa tesi (Nat. quaest., vii). Regiomon-
tano riteneva che la cometa fosse una stella con una propria traiettoria. La questione fu risolta infine nel 1572 da Tycho
Brahe nel suo De nova et nullius aevi memoria prius visa stella.
6 Qui ‘segno’ può essere inteso in due sensi: come simbolo dell’attesa escatologica della fine del mondo, ma anche co-
me annuncio della vocazione di Dürer, disegnatore e artista. Cfr. Elisabeth Heitzer, Kometen, in Erkenntnis Erfindung
Konstruktion. Studien zur Bildgeschichte von Naturwissenschaften und Technik vom 16. bis zum 19. Jahrhundert, a cura di Hans
Holländer, Berlin, Gebr. Mann Verlag, 2000, pp. 449-462, qui pp. 454-456; Rudolf e Margot Wittkower, Born under Sa-
turn. The Character and Conduct of Artists: A Documented History from Antiquity to the French Revolution, London, Weidenfeld
& Nicolson, 1963, pp. 104 e sgg., e per molti passaggi anche Klibansky, Panofsky, Saxl, Saturno e la melanconia, cit.
7 Fra le prime a fissare l’attenzione su di lui è stata Paola Zambelli, Umanesimo magico-astrologico e raggruppamenti se-
greti nei platonici della preriforma, in Umanesimo e Esoterismo, Atti del v convegno internazionale di studi umanistici, a cura
di Enrico Castelli, Padova, cedam, 1960, pp. 141-174; quindi Eadem, White magic, black magic in the European Renaissance from
Ficino, Pico, Della Porta to Trithemius, Agrippa, Bruno, Leiden, Brill, 2007 (“Studies in Medieval and Reformation Tradi-
tions”), qui pp. 249-251; Christopher I. Lehrich, The Language of Demons and Angels. Cornelius Agrippa’s Occult Philo-
sophia, Leiden and Boston, Brill, 2003.
72 elena filippi
tanti: oltre a quello di Cusano, soprattutto Ficino, Pico e Bovillus,1 Reuchlin,2 Ulrich Pinder e,
per la tradizione antica, Cicerone. Tutti costoro sono indicati come possibili chiavi di lettura
della più celebre fra le invenzioni düreriane.3 Marco Bertozzi ritiene che le fonti filosofiche di
Dürer siano da ricercare negli scritti di Marsilio Ficino, più che nel De occulta philosophia di En-
rico Cornelio Agrippa.4 Mentre, la fonte del “quadrato magico” di Giove si deve attribuire ad
un piccolo trattato arabo, tradotto in latino alla fine del xvi secolo, di cui Dürer aveva avuto
notizia dall’abate Tritemio.5
Si tratta di richiami legittimi e sempre documentati in modo plausibile, anche se ultimamen-
te il legame con Agrippa non gode più della particolare preferenza della critica.
Già questa rosa di filosofi è tuttavia indicativa del fatto che è in ogni caso difficile lasciarsi sfug-
gire un intendimento filosofico del foglio in questione, anche se poi è assai difficile determinarlo
più da presso. Ma l’impossibilità di riconoscere uno di questi candidati come la fonte par excel-
lence per questo ‘tour de force grafico’6 suggerisce a mio avviso un’ipotesi su cui vale la pena di
soffermarsi: se ancora ventottenne il pittore realizzava il proprio autoritratto in pelliccia inse-
rendosi appieno nel solco tracciato da Cusano, l’artista ormai quarantaduenne è in grado di ‘fare
filosofia’ in proprio, pur mantenendo vivo e operante il costante dialogo con gli spiriti dominanti
del proprio tempo. Del resto, che Albrecht avesse raggiunto piena consapevolezza circa la pos-
sibilità di trasmettere contenuti complessi, altrimenti difficilmente esprimibili, grazie alla forza
e all’evidenza delle immagini ce lo riferiscono testimoni del calibro di Melantone, fine teologo,
grecista e umanista, trasferitosi da Wittenberg a Norimberga nel 1526, chiamato a dar concre-
tezza all’ideale educativo su cui, prima di lui, aveva alacremente lavorato la cerchia degli intel-
lettuali intorno a Celtis, Pirckheimer compreso: si trattava di porre in essere un programma di
formazione del ‘nuovo’ giovane tedesco, a partire dalla fondazione di scuole primarie,7 dove col-
tivare quei rudimenti di scrittura e lettura e ‘arte’, sulla scorta dei quali oltretutto, si sarebbe
emancipata la fede riformata. Si ricordano accese discussioni fra gli inseparabili Willibald e Al-
brecht, in cui il Maestro, nella foga di sottoporre all’amico umanista e traduttore i risultati delle
sue ‘inventiones’, diventava un «gallo da combattimento». Pirckheimer, dal canto suo – conosciu-
to per il suo temperamento irascibile e collerico – se ne usciva con espressioni come: «Nein, das
kann nicht gemalt werden»! “Questo non può essere dipinto!”. Al che replicava Dürer: «Aber
das, wovon du redest, läßt sich auch nicht sagen und nicht einmal denken», vale a dire: “Ma ciò
di cui tu parli, nemmeno si lascia dire a parole, manco pensare si lascia!”.8

1 Particolarmente impegnato a promuovere questa pista Schuster, melencolia i : Dürers Denkbild, cit., pp. 84-105, pp.
162-167 e pp. 307-322.
2 Cfr. David Hotchkiss Price, Albrecht Dürer’s Renaissance. Humanism, Reformation, and the Art of Faith, Ann Arbor,
University of Michigan Press, 2004, p. 85 (“Studies in Medieval and Early Modern Civilization”).
3 Per le diverse interpretazioni fino al 1991 imprescindibile e preziosa è la sintesi di Schuster, melencolia i : Dürers
Denkbild, cit., pp. 15-83. Per lo specifico di proposte posteriori e inerenti gli autori sopracitati si vedano Patrick Doorly,
Dürer’s Melencolia I. Plato’s abandoned search for the beautiful, «The Art Bulletin», 86, 2004, pp. 255-276 (ma chi scrive non si
sente di condividere la tesi qui esposta); più direttamente perspicua al contesto düreriano la ricerca offerta da Ewald Las-
snig, Dürers “melencolia - i ” und die Erkenntnistheorie bei Ulrich Pinder. Versuch einer Interpretation aus einer naheliegenden
Quelle, «Wiener Jahrbuch für Kunstgeschichte», 57, 2008, pp. 51-95.
4 L’edizione di riferimento è Cornelius Agrippa, De occulta philosophia libri Tres, a cura di Vittoria Perrone Compagni,
Brill, Leiden 1992 (“Studies in the History of Christian Thought”, 48).
5 Marco Bertozzi, Mensula Jovis. Considerazioni sulle fonti filosofiche di Albrecht Dürer, «I castelli di Yale. Quaderni di
filosofia», 2, 1997, pp. 19-44; Idem, Il detective melanconico, cit., pp. 53-72.
6 In proposito Büchsel, Albrecht Dürers Stich Melencolia, cit., soprattutto il capitolo Code oder Nicht-Code? Von Ficino zu
Dürer via Agrippa von Nettesheim – Ein gescheiterter Interpretationsversuch, pp. 123-131.
7 Si veda intanto Ulrich Pfisterer, Kunst im Curriculum des 15. und 16. Jahrhunderts oder: Eine Nürnberger Erziehungsal-
legorie der Reformation, in Anfänge und Grundlegungen moderner Pädagogik im 16. und 17. Jahrhundert, a cura di Anja-Silvia
Göing, Hans-Ulrich Musolff, Köln-Weimar, Böhlau, 2003, pp. 205-233 (“Beiträge zur historischen Bildungsforschung”).
8 Albrecht Dürer, Schriftlicher Nachlass, Bd. i: Autobiographische Schriften, Briefwechsel, Dichtungen, Beischriften, Noti-
zen und Gutachten, Zeugnisse zum persönlichen Leben, a cura di Hans Rupprich, Berlin, Deutscher Verein für Kunstwissen-
schaft, 1956, p. 306; tematizza opportunamente la questione Lydia Hilberer, Iconic World. Albrecht Dürers Bildbegriff,
Würzburg, Königshausen & Neumann, 2008, nel capitolo Nutzen und Notwendigkeit des Bildes, qui pp. 91 e sg. La citazione
dürer, la sua melencolia e l ’ inizio del pensiero come arte 73

iii.
Abbiamo sin qui raggiunto alcune indicazioni circa il centro di questo autonomo filosofare dü-
reriano nella Melencolia I: la nascita dell’artista e con ciò il suo ingresso nel mondo, il ruolo che
nel mondo gli spetterà.1 E ciò nel contesto di uno stato d’animo peculiarmente intonato alla
meditazione. Se la domanda filosofica è: in che misura e in quali modalità l’artista possa essere
pensatore, allora la domanda sulla nascita dell’artista deve essere associata a quella sulla genesi
della filosofia; insomma – al di là della metafora della nascita e seguendone il senso – che cosa
fa sì che l’artista sia tale e come scaturisce il pensiero della filosofia? C’è qualcosa nell’essere
dell’artista che possa partecipare di questa nascita nel pensiero?
Come è noto, Platone e Aristotele avevano attribuito l’inizio del filosofare alla tonalità emoti-
va del thaumázein.2 Solitamente la si traduce con ‘meraviglia’. Ma al fine di comprendere corret-
tamente l’accezione di questo termine, è opportuno distinguerlo dalla semplice curiositas, la qua-
le scivola sulle cose cercando alcunché di insolito da ricondurre al più presto nella sfera
dell’abituale, per poi procedere oltre. Non è da qui che nasce la filosofia, e nemmeno dalla forma
già più nobile della meraviglia che è la ‘ammirazione’: in essa l’eccezionale è rispettato e stimato
come tale, per restare catturati e come ammaliati nella sua sfera. L’autentico thaumázein, che po-
tremmo chiamare stupor – l’inizio del filosofare – lascia emergere come inquietante (e perciò de-
gno di essere interrogato) proprio ciò che è più solito e consueto: un indagare che si estende al-
l’ente nella sua totalità. Ebbene, proprio questo è il senso di ciò che Dürer chiama ‘melencholia’.
Al suo tempo era molto apprezzato un celebre testo dei Problemata, allora ancora ritenuto di
Aristotele.3 Vi si afferma che la malinconia, altrimenti giudicata negativamente come tedio e
mestizia, è il fondamento della «divina follia».4 La domanda correlata: «perché tutti gli uomini
eccezionali, filosofi, statisti, poeti o artisti sono stati spesso malinconici?» era stata più viva che
mai nel clima culturale allo snodo del Cinquecento, sollevata da ingegni come Ficino e Agrippa.
È questo, notoriamente, uno dei tratti caratteristici della lettura panofskyana.
La decisiva trasformazione del concetto di malinconia in uno status positivo, creativo, è do-
vuta a Ficino. Riassumendo: i neoplatonici della cerchia ficiniana, avidamente letti dagli uma-
nisti di Norimberga, vedevano nella meditazione una possibilità di conoscenza produttiva. Co-
loro che erano afferrati dal furor melancholicus sapevano compiere prodigi nel campo della
scienza, dell’arte, della politica. Vi è dunque una intonazione emotiva comune al filosofo e al-
l’artista, uno stato d’animo che può celare in sé la possibilità di un ‘pensare in figura’.5 In che
senso allora la malinconia – o come scrive Dürer Melencolia – in sé condizione tendenzialmente
negativa dell’animo, può volgersi in positivo? Perché è così prossima al thaumázein da poterne
veicolare adeguata comprensione?
L’autentico thaumázein ti assale laddove la più piatta quotidianità – il fatto che l’ente è – di-
venta la cosa più inabituale e quindi inquietante (i tedeschi dicono fragwürdig: alla lettera «de-

commentata del passo nel tedesco dell’epoca si trova in Ewald Lassnig, Beiträge zu Dürers Kupferstich der Melancholie,
Wien, Lassnig, 2005, p. 29.
1 Per tutta la vita il Maestro ebbe a cuore l’attività del misurare e la ricerca inesausta della ‘giusta misura’, non solo
nelle cose. Fra l’altro, è uno dei temi che emerge anche nell’abbozzo del suo scritto, di poco precedente al periodo dei
Meisterstiche, e che è noto come Speis der Malerknaben. Per questo contesto così si esprime Françoise Rücklin, La condition
humaine d’après Dürer, i-ii, Zürich, Thesis-Verlag, 1995, i, p. 93: «l’activité du Putto représente alors également la synthèse,
sur un plan supérieur, c’est-à-dire idéal, au sens platonicien, de l’activité des différents métiers tributaires de la “Messung”.
Le Putto indique donc aussi que ces métiers partecipent à l’activité artistique». Questa riflessione è propedeutica all’ap-
proccio complessivo all’opera düreriana del 1514 oggetto della mia attenzione.
2 Platone, Teeteto, 155 d 2 e sgg.; Aristotele, Metafisica, A 2, 982 b 11 e sgg.
3 Pseudo-Aristotele, Problemata, xxx, 1.
4 Un compendio sulla storia del concetto di ‘malinconia’ fino al Cinquecento è offerto fra gli altri da Brigitte Schul-
te, Melancholie. Von der Entstehung des Begriffs bis Dürers Melencolia I, Würzburg, ergon, 1996.
5 Qui nella formulazione di Gianluca Cuozzo, Raffigurare l’invisibile. Cusano e l’arte del tempo, Milano-Udine, Mime-
sis, 2012, p. 13.
74 elena filippi
gno di essere interrogato»). Se lo stupore è in sé una condizione positiva, che tuttavia può de-
generare in ammirazione o mera curiosità, nella malinconia accade piuttosto il contrario: essa
reca con sé il rifiuto e il congedo dal mondo. Ne ricusa soprattutto ciò che è superficiale, pura
parvenza, come pure quanto suole essere oggetto di ammirazione ossequiosa. Pertanto questo
stato d’animo solleva la questione del mondo, fattosi degno d’interrogazione nella sua totalità.
Dunque, la malinconia positiva, lo stupore, è di fatto identica al thaumázein. Una volta immerse
nella malinconia, le cose consuete e abituali della quotidianità non hanno più niente da dire.
Studiosi polacchi l’hanno assimilata perciò alla depressione, in cui le cose si congedano e sco-
lorano, facendo emergere uno stupor che ‘rende problematico l’universo’.1 In altre parole, pos-
siamo dire, la malinconia mette in moto quella problematicità pura che investe l’ente nella sua
totalità, e in cui consiste appunto la filosofia. Il fatto che essa venga identificata con la follia non
deve distogliere da ciò. Anche Platone, Erasmo e Bruno hanno caratterizzato mania e pazzia
come momenti che connotano il filosofare. Si tratta, in termini profani, di un furor o raptus, co-
me preferiva chiamarlo Ficino.2
Chi fa esperienza di tale situazione, desidera sì esserne liberato, in quanto si vede costretto
a lottare, ma è proprio in questa lotta che può raggiungere l’irraggiungibile. Agrippa parla anzi
espressamente di furor melancholicus. Lo fa soprattutto nel terzo libro del De occulta philosophia.
Ma è incline a spiegare questo furor e la malinconia per mezzo dell’influsso astrale sull’uomo,
e perciò a partire da una realtà che trascende il piano dell’umano e la conditio humana.
A me sembra, tuttavia, che questa peculiare visione della filosofia sviluppata da Agrippa, tocchi
solo in parte la filosofia düreriana, il cui sforzo muove piuttosto proprio dalla condizione umana,
come intendo sostenere. E ciò induce allo stesso tempo anche a relativizzare la interpretazione
offerta da Panofsky, secondo cui Dürer avrebbe illustrato solo un primo grado della malinconia,
cui avrebbero dovuto o potuto seguire un secondo e un terzo.3 Con ciò si solleva la vexata quaestio
del titolo: ‘Melencolia Uno’? ‘Melencolia paragrafo Uno’? ‘Melencolia i’ (“Vattene, malinconia”)?
Per dover essere qui concisa: la questione può restare aperta, in quanto la lettura che sugge-
risco risulta di fatto compatibile con tutte le possibili varianti:
a) la prima (“Melencolia Uno”) è quella su cui insiste in special modo Peter-Klaus Schuster, che
richiama l’Uno neoplatonico come alpha e omega di tutte le cose; questo stato che spinge a
filosofare è percepito come oppressivo, pertanto vi è implicito il desiderio di liberarsene. Per
questo ogni malinconia reca con sé tacita l’esclamazione “vattene, umore cattivo!”.
b) Essa, inoltre, non assale soltanto poeti, artisti e filosofi, ma anche statisti: pertanto è lecito
che il segno di difficile lettura fra le parole “Melencolia” e “I” venga colto come segno di
paragrafo, in uso nei codici di legge e nel diritto, e che il tema precipuo dell’incisione possa
in effetti essere la questione della giustizia,4 più in generale l’etica.5

1 Nel suo contributo Dürer’s Melencolia I. Melancholy and Undecidable, «Artibus et historiae», 15, 1994, pp. 9-21, Wojciech
Bałus cita un passo della psichiatria moderna sulla depressione, individuando in questa un possibile sinonimo del termine
usato da Dürer. In proposito scrive Antoni Kępiński: «Nella depressione il disagio si impossessa di un uomo senza alcuna
ragione percepibile. È come se qualcuno premesse un bottone e ogni cosa prendesse congedo da lui; il mondo perde il
suo colore», in Melancholia (Melancholy), Warszawa, Państwowy Zakład Wydawnictw Lekarskich, 1977, pp. 7 e sg. Bałus
riassume la posizione di Kępiński, aggiungendo: «La malinconia è dunque uno stato di indecidibilità» (ivi, p. 18); più in là:
«l’attività è stata sostituita dallo stupor, la ordinatio si tramuta in inertia, e il senso dell’universo diventa problematico» (ivi,
p. 19). Questa indagine si avvicina a individuare quella problematicità pura in cui consiste appunto il filosofare.
2 Scrive Marsilio Ficino nel De raptu Pauli: «inverso il sole, se non è prima accesa dal sole». Inoltre: «quella voce reflexa
che si nomina Eco non chiama altri se prima non è chiamata, così tu non invochi Iddio se prima Iddio te non voca». Cit.
da Cesare Vasoli, Considerazioni sul De Raptu Pauli di Marsilio Ficino, in Concordia Discors. Studi su Niccolò Cusano e l’u-
manesimo europeo offerti a Giovanni Santinello, a cura di Gregorio Piaia, Padova, Antenore, 1993, pp. 377-404; Idem, Quasi sit
Deus: Studi su Marsilio Ficino, Lecce, Conte, 1999, pp. 241-262.
3 Klibansky, Panofsky, Saxl, Saturno e la melanconia, cit., pp. 326-328.
4 Elfriede Scheil, Albrecht Dürers “Melencolia § I” und die Gerechtigkeit, «Zeitschrift für Kunstgeschichte», 70, 2, 2007,
pp. 201-214.
5 Anche qui nulla osta a far coagire in modo sinergico osservazioni che di volta in volta evidenziano il portato del sa-
pere, un’eco cristologica legata alla meditazione sulla storia della Passione (cfr. la tesi di Matthias Winner), il portato di
dürer, la sua melencolia e l ’ inizio del pensiero come arte 75
Ma Dürer sta ancora nel paradigma anteriore a Levinas: la filosofia prima è per lui la meta-
fisica, e l’etica si fonda su questa. La prima conduce dalla dimensione del contesto storico alla
distanza astorica dell’interrogare radicale in cui la trascina proprio il thaumázein; la seconda tor-
na invece a radicarsi nel tessuto storico.
C’è anche questo aspetto – per come la vedo io – nella Melencolia di Dürer, che infatti si radica
integralmente nella conditio humana, sempre situata nel tessuto degli eventi mondani. Per com-
prenderlo appieno è necessario leggere il nostro foglio nel contesto della serie dei Meisterstiche,
in cui l’artista stesso lo vedeva a buon diritto inserito: Il cavaliere, la morte e il diavolo, la Melencolia
I e il San Girolamo nello studio, cui è da aggiungere, come primo momento, già l’Adamo ed Eva
del 1504. Ma tale lettura non può essere svolta entro i limiti concessi in questa sede.1

riflessioni teologico-filosofiche sia di carattere pessimista, sia invece di sprone a una azione responsabile, non senza il por-
tato di una emozionalità che è legata alle nuove forme della devotio moderna (iconograficamente espresse ad esempio nella
Gregormesse); più in generale la questione della tecnica e delle possibilità umane, in una riflessione sulla conditio humana,
la quale ha come nervo proprio il quid tum, albertianamente inteso.
1 Per conoscere più da presso la esegesi della scrivente, mi sia consentito rinviare al cap. 8 del mio Denken durch Bilder,
cit.: Dürers Ethik in seinen ‘Meisterstichen’, pp. 177-203.
M E L E N COL I A I D I A L BRE C HT D ÜRE R
NEL L’ A RT E E N E L LA L E T T E RAT URA ITALIANA
T RA X V I E X V I I S E C OLO
G i ova n n i M a r ia Far a
In this article the author proposes an overall reconsideration of the Italian reception of Albrecht Dürer’s Melencolia
I, between sixteenth and seventeenth century, paying constant attention to the surviving sources.

I l primo ricordo esplicito del bulino Melencolia I di Albrecht Dürer (Fig. 1) rintracciabile nella
letteratura artistica italiana, è contenuto in una lettera che il poligrafo di origine fiorentina
Anton Francesco Doni scrive da Venezia, l’ultimo giorno di agosto di un anno imprecisato, ma
verosimilmente il 1549, al suo amico incisore Enea Vico da Parma. Lettera che si trova, insieme
ad altre, in appendice al Disegno, il trattato pubblicato nello stesso 1549 dal maggior stampatore
veneziano, e quindi italiano, Gabriele Giolito, nella città in cui Doni si era da poco trasferito:1
Al gentilissimo e virtuoso amico suo M[esser] Enea da Parma.
Questa è una carta disegnata per mano di messer Giovanni Agnolo Fiorentino, anchora che non ci vuol
nome nissuno sopra: et è sua inventione e tutto con comissione di farvela intagliare. Io l’ho tenuta nel
mezzo di parecchie carte intagliate una per mano di messer Martino maestro d’Alberto Duro; ho poi d’Al-
berto l’Adamo, il San Girolamo, Santo Eustachio, la maninconica et la passione. Et tengo alcune storie
del vecchio testamento di Luca d’Olanda. Et di Marco Antonio: il Monte di Parnaso, il giudicio di Paris
con il Ne[-] tuno e gl’Innocenti. Le due carte del Bandinello, cioè San Lorenzo e gl’Innocenti, ho anchora
acconcio a torno gl’amor de gli Dei intagliati da Iacopo Veronese. E di Marco da Ravenna il Laocoonte.
Questi sono i valenti intagliatori che io gli ho messo attorno, e perché io tengo il San Paolo vostro taglio
bravissimo. E le medaglie che voi m’havete tagliate e di vostra invention ornata all’incontro a queste, mi
par mill’anni che ci sia questa; perché io ho speranza che la vadìa nel numero di quelle belle, e poter dire
queste son le più degne carte e i più valenti intagliatori che habbin tagliato rami insino a hoggi. E se non
fosse che voi mi siate amico, vi inalzerei sopra i cieli, ma che dico io?, le virtù vostre vi fanno maggiore
che non vi farei io e tutta la casa de Doni. State sano et amatemi. Di Vinegia l’ultimo d’agosto.
Al servitio vostro.
Il Doni.
In questa lettera fondamentale, fra le altre cose, per chiunque voglia occuparsi della storia del-
l’incisione in Italia nel secolo xvi, Anton Francesco Doni descrive ad Enea Vico la propria col-
lezione di stampe. Una collezione che prende forma intorno a un disegno dello scultore Gio-
vanni Angelo Montorsoli, ex confratello di Doni tra i serviti della SS. Annunziata a Firenze, fra
terzo e quarto decennio del xvi secolo;2 disegno che Doni ha intenzione di far incidere proprio

Giovanni Maria Fara, Università Ca’ Foscari di Venezia.


1 Per un’edizione moderna commentata del testo di Doni, si consulti: Anton Francesco Doni, Disegno. Fac-simile
della edizione del 1549 di Venezia. Con una appendice di altri scritti riguardanti le arti figurative. Introduzione e commento
critico a cura di Mario Pepe, Milano, Electa, 1970. In seguito, i contributi di: Paolo Carloni, Il Disegno di Anton Francesco
Doni, «Notizie da Palazzo Albani. Rivista di storia e teoria delle arti», xxi, 1992, 1, pp. 51-58; Mario Pepe, Svolgimenti nella
concezione del disegno in Anton Francesco Doni: dalla “Diceria” al Montorsoli del 1546 al trattato del 1549, in Per Luigi Grassi. Di-
segno e disegni, a cura di Anna Forlani Tempesti e Simonetta Prosperi Valenti Rodinò, Rimini, Galleria Editrice, 1998, pp.
123-132. La lettera qui riprodotta, è stata già integralmente pubblicata da chi scrive, con un commento aggiornato che iden-
tifica correttamente le incisioni düreriane: Giovanni Maria Fara, Albrecht Dürer nelle fonti italiane antiche: 1508-1686, Fi-
renze, Olschki, 2014, pp. 66-68.
2 Giorgio Masi, Il Doni del Marcolini, in Un giardino per le arti: «Francesco Marcolino da Forlì», la vita, l’opera, il catalogo,
Atti del Convegno internazionale di studi (Forlì, 11-13 ottobre 2007), a cura di Paolo Procaccioli, Paolo Temeroli, Vanni Te-
78 giovanni maria fara

Fig. 1. Albrecht Dürer, Melencolia I, bulino, 1514.

a Vico, in quegli anni diventato celebre per avere tradotto con particolare maestria un’invenzio-
ne di Francesco Salviati in un bulino di notevolissime dimensioni: una Conversione di San Paolo
di ben 535 × 935 mm, un «taglio bravissimo» come ricorda lo stesso Doni, che era stato grande-

sei, Bologna, Editrice Compositori, 2009, pp. 141-169, in particolare p. 146 (tutto il saggio, comunque, è fondamentale per
la ricostruzione di una corretta biografia doniana).
melencolia i nell’arte e nella letteratura italiana tra xvi e xvii secolo 79
mente elogiato, sempre a Venezia, da Pietro Aretino, nell’agosto 1545, in una lettera indirizzata
proprio a Salviati, e che Doni poteva aver letto anche prima che fosse pubblicata, dal solito Gio-
lito nel 1546, nel Terzo libro delle lettere di Aretino.1
La collezione riunita da Doni comprende opere di quelli che venivano riconosciuti, per con-
senso comune nell’Italia di metà xvi secolo, come i maggiori incisori su rame: Martin Schon-
gauer, Albrecht Dürer, Luca di Leida, Marcantonio Raimondi, Gian Giacomo Caraglio, Marco
Dente. Di Dürer, nello specifico, sono menzionati alcuni fondamentali bulini, quasi a formare
un primo canone delle sue incisioni, che di lì a qualche anno sarà grandemente ampliato nel-
l’edizione giuntina delle Vite di Vasari. I bulini düreriani richiamati da Doni sono tutti capola-
vori dello stile maturo, realizzati fra 1501 circa e 1514, a cavallo quindi del lungo soggiorno ve-
neziano che tanto profondamente influì nella carriera dell’artista; enumerandoli secondo il
loro ordine di esecuzione, sono: il Santo Eustachio eseguito intorno al 1501 (B. 57);2 l’Adamo ed
Eva del 1504 (B. 1); la preziosa serie a bulino della Passione (B. 3-18), composta da sedici fogli dal
forte chiaroscuro incisi fra 1507 e 1513; il San Gerolamo nello studio (B. 60) e la Melencolia I (B. 74;
Fig. 1), i due superbi bulini datati 1514. Grazie alla lettera scritta da Doni, fanno il loro ingresso,
questi fogli, nella letteratura artistica in lingua italiana; da qui in avanti, la loro presenza segnerà
il valore di una collezione.3 Per l’ecfrasi letteraria, bisognerà invece attendere Vasari, che così
descrive la Melencolia I:
Dopo, cresciuto Alberto in facultà et in animo, vedendo le sue cose essere in pregio, fece in rame alcune
carte che feciono stupire il mondo. Si mise anco ad intagliare, per una carta d’un mezzo foglio, la Malin-
conia con tutti gl’instrumenti che riducono l’uomo e chiunche gl’adopera a essere malinconico; e la ri-
dusse tanto bene, che non è possibile col bulino intagliare più sottilmente.4

1 In questa famosa lettera Aretino instaura un significativo paragone fra gli sfondi dell’incisione della Conversione di San
Paolo e quelli delle incisioni di Dürer. Per brano e commento, si veda Fara, Albrecht Dürer nelle fonti, cit., p. 55. Nello specifico,
sul bulino della Conversione di San Paolo inciso da Vico, rimando a quanto sostenuto da Alessandro Nova in Francesco Salviati
(1510-1563) o la Bella Maniera, catalogo della mostra (Roma, 29 gennaio - 29 marzo 1998; Parigi, 30 aprile - 29 giugno 1998) a
cura di Catherine Monbeig Goguel, Milano-Parigi, Electa-Editions de la Réunion des musées nationaux, 1998, p. 66 e scheda
num. 29. Infine, sui ben noti, intensi, amicali rapporti tra Doni e Aretino, fra quinto e sesto decennio del Cinquecento, fino
alla violenta contrapposizione avvenuta nel 1556, si consulti: Anton Francesco Doni, Contra Aretinum (Teremoto, Vita,
Oratione funerale. Con un’Appendice di lettere), a cura di Paolo Procaccioli, Manziana (Roma), Vecchiarelli, 1998.
2 Si segnala, una volta per tutte, che per le incisioni citate si è indicato, in forma abbreviata in parentesi tonda, il numero
riportato nel classico catalogo di Adam von Bartsch, Le Peintre-graveur, 21 voll., Vienne, De l’Imprimerie de J.V. Degen,
1803-1821.
3 Alcuni esempi significativi di area emiliano-veneta: nell’Inventario delle Pitture del q.s. Cavaglier Bayardo, scritto dopo la
sua morte, avvenuta a Parma il 30 settembre 1561, e conservato alla Biblioteca Comunale di Piacenza ed edito da Attilio
Rapetti nel 1940 – trascrizione riprodotta in seguito da: Arthur E. Popham, Drawings of Parmigianino, 3 voll., New Haven
and London, The Pierpont Morgan Library - Yale University Press, 1971, i, pp. 265-266, da cui si cita – fra le cinque stampe di
Dürer sono menzionate due di quelle raccolte da Doni: «35. Un’ quadretto co’ la Fama d’Alberto dura stampata» (nel secondo
camerino); «42. Un quadretto in stampa d’Alberto Dura, et un’ Mostro marino che porta una donna. […] 52. Un’ quadretto
co’ la carta di sant’Eustachio stampata di man d’Alberto dura. 53. Un’ quadretto co’ una Carta d’Alberto dura co’ un’huomo
armato a Cavallo. […] 57. Un’ quadretto in stampa della malanconia d’Alberto dura” (terzo camerino). Nell’inventario di
Andrea Mantova Benavides a Padova, redatto nel 1695-1696, ma che riflette la consistenza della raccolta dell’avo Marco Man-
tova Benavides, morto il 3 aprile 1582, sono menzionate ben centotredici incisioni fra cui cinque di Dürer – e di queste ben
quattro ricorrevano nella lettera di Doni: «Item: Una Carta in Stampa con soaza di nogara del Santo Eustachio dell’Egregio
famoso Alberto Duro L’Anticha buona che nell’Intaglio in rame di segno e prontezza non hebbe pari Segna:o n:o 141 […]
Item: sopra li pilastrelli del 4.o Nicchio vi è la Carta stampa belliss:ma e rara del Sa:o Girolimo d’Alberto Durer in Quadretto
soazato di pera segnata n:o 281 […] Item: sopra altro Pilastrello 6:to Nicchio vi sono Due Quadretti Carte soazate di pero:
Uno è la Melancolia diviname:te espressa da Alberto Durer: segnata n:o 288 Item: l’Altro pure l’Adamo et Eva del mede:o
Alberto 1504. Carte rarissi:me et stima:te che più non si trovano seg:to 289 […] Item: Sotto al Nicchio n:o 15 della Testa
d’idolo: vi è Un Quad:to Carta stampa con soaza nogara di Alberto Durer della Depositione de Christo di Croce segnata n:o
316» (Irene Favaretto, Andrea Mantova Benavides. Inventario delle antichità di casa Mantova Benavides - 1695, «Bollettino del
Museo Civico di Padova», lxi, 1972, pp. 34-164, in particolare pp. 54-56). Infine, nell’Inventario della raccolta di Mario Bevi-
lacqua a Verona – redatto nel 1595, e pubblicato in: Lanfranco Franzoni, La Galleria Bevilacqua, Milano, Edizioni di
Comunità, 1970, pp. 169-171 – ricorrono ancora il Santo Eustachio, il San Gerolamo nello studio, la Melencolia I.
4 Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori scultori e architettori nelle redazioni del 1550 e 1568, 6 volumi di testo e 3 di
indici, testo a cura di Rosanna Bettarini, commento secolare a cura di Paola Barocchi, Firenze, Sansoni e spes, 1966-1997,
v, p. 6. Il brano viene sinteticamente ripreso da Baldinucci nel 1686: «Tornò poi a fare altre cose in rame […] una carta
80 giovanni maria fara

Questo celebre brano richiede di essere analizzato ancora una volta. Innanzitutto, tale descri-
zione della Melencolia I (Fig. 1) segna una prima riconoscibile pausa nel ritmo della serrata nar-
razione vasariana; infatti, dopo averne ricordato il discepolato presso Schongauer, Vasari inin-
terrottamente descrive diciotto bulini di Dürer (uno dei quali soltanto oggi non è possibile
identificare con certezza) e ben cinquantaquattro xilografie, così divise: sei fogli sciolti (dei quali
uno non corrisponde ad alcuna xilografia düreriana a noi nota) e quarantotto fogli che apparten-
gono alle serie xilografiche della Grande Passione, della Vita della Vergine e dell’Apocalisse. Vasari
quindi sottolinea che, proprio perché cresciuto «in facultà et in animo», Dürer può ora affrontare
l’esecuzione di questo celebre bulino; fatto questo, Vasari ne descrive la seconda parte della stre-
pitosa carriera incisoria, che nel suo racconto si sostanzia nell’esecuzione di altri ventinove bulini
(fra i quali la preziosa serie della Piccola Passione su rame), nonché delle trentasei xilografie della
Piccola Passione e di altre due su fogli sciolti – la seconda delle quali per lungo tempo, fino al
catalogo di Ralf von Retberg nel 1871, considerata un autoritratto autografo di Dürer, e che noi
oggi invece attribuiamo alla mano del suo seguace Erhard Schön. Un altro corposo elenco, che
Vasari distribuisce inframmezzato al racconto del ‘plagio veneziano’ da parte di un giovane Mar-
cantonio Raimondi, e della virtuosa competizione con un sempre più dotato Luca di Leida.1
Inoltre Vasari, nella sua descrizione della Melencolia I, così come in quelle dei coevi Il Cavaliere,
la Morte e il Diavolo (B. 98) e San Gerolamo nello studio (B. 60),2 riconosce un preciso ed esclusivo
valore incisorio, inteso come abilità di rendere effetti assai sottili di chiaroscuro, o di nettezza e
finezza del segno. Introduce cioè, nella valutazione di tali magistrali bulini, elementi profonda-
mente differenti da quelli della semplice ricezione iconografica del motivo, che è invece la
ragione prima della strepitosa e persistente fortuna cinquecentesca del Dürer incisore – un ar-
tista da cui non era male, ed anzi caldamente raccomandato ai giovani, copiare le invenzioni.
Infine, la precisione con cui Vasari si riferisce a «gl’instrumenti che riducono l’uomo e chiun-
che gl’adopera a essere malinconico», mi sembra che trovi chiaro riscontro in altre testimonian-
ze, figurative e letterarie, riconducibili a lui o alla sua cerchia. Mi riferisco alla Melanconia che
avrebbe dovuto essere dipinta in Palazzo Vecchio, nel Terrazzo di Saturno: in questa circostan-
za Vasari avrebbe assegnato alla complessione strumenti fabrili, geometrici e matematici, ca-
ratterizzandola per così dire intellettualmente, come in Dürer.3 Alcuni anni dopo, nella volta

dove con bella invenzione figurò la Malinconia, con tutti quelli strumenti, che aiutano l’uomo a farsi malinconico» (Fi-
lippo Baldinucci, Cominciamento e progresso dell’arte dell’intagliare in rame colle vite di molti de’ più eccellenti maestri della
stessa professione, a cura di Evelina Borea, Torino, Einaudi, 2013, p. 29).
1 Sul significato più ampio della fondamentale biografia vasariana, mi sia consentito il rimando a quanto da me soste-
nuto in Fara, Albrecht Dürer nelle fonti, cit., pp. 23-32, 143-157, dove si contestualizza, riproduce e commenta il testo vasaria-
no, con i necessari riferimenti bibliografici.
2 «[…] che elle [qui Vasari intende le incisioni di Luca di Leida] furono cagione che, assottigliando Alberto per questa con-
correnza l’ingegno, mandasse fuori alcune carte stampate tanto eccellenti che non si può far meglio; nelle quali volendo
mostrare quanto sapeva, fece un uomo armato a cavallo per la Fortezza umana, tanto ben finito che vi si vede il lustrare
dell’arme e del pelo d’un cavallo nero: il che fare è difficile in disegno; aveva questo uomo forte la Morte vicina, il Tempo
in mano, et il Diavolo dietro; èvvi similmente un can peloso, fatto con le più difficili sottigliezze che si possino fare nel-
l’intaglio. […] Et ultimamente mandò fuori la carta del San Ieronimo che scrive et è in abito di cardinale, col lione a’ piedi
che dorme; et in questa finse Alberto una stanza con finestre di vetri, nella quale percotendo il sole, ribatte i razzi là dove
il Santo scrive, tanto vivamente che è una maraviglia; oltre che vi sono libri, oriuoli, scritture e tante altre cose, che non
si può in queta professione far più né meglio» (Vasari, Le vite, cit., v, pp. 7, 8).
3 Raymond Klibansky, Erwin Panofsky, Fritz Saxl, Saturno e la melanconia. Studi su storia della filosofia naturale,
medicina, religione e arte, Torino, Einaudi, 20022 (ed. or. London 1964), p. 361. La Malinconia avrebbe dovuto essere dipinta,
a partire dal 1558, nel fregio del Terrazzo di Saturno; è stato però osservato come tale decorazione «o non fu eseguita o si
perdè successivamente, ipotesi questa meno probabile» (Ettore Allegri, Alessandro Cecchi, Palazzo Vecchio e i Me-
dici. Guida Storica, Firenze, spes, 1980, p. 107). Eseguita o meno, rimane comunque la descrizione di Vasari nei Ragionamenti
(Firenze, Filippo Giunti, 1588): «P[rincipe]. Restanci ora queste dieci figure che tramezzano le storie de’ fregi, se volete dirci
niente. G[iorgio]. Dico che dove edificano Saturno, è la Malinconia con li strumenti fabrili, seste, quadranti e misure; e
dove fabbricano Ianiculo, v’è la Superbia che fabbrica; e dall’altra banda là v’è l’Eternità con istatue, scritture e bronzi; alla
storia dell’età d’oro è la Ilarità, o Allegrezza, che rallegrandosi contempla Dio, all’erario comune v’è l’Animo vestito di ve-
ste verde, il quale si apre il petto, e mostra il cuore; dove le monete si battono è l’Avarizia, quale serra i tesori ne’ luoghi si-
melencolia i nell’arte e nella letteratura italiana tra xvi e xvii secolo 81
dello Studiolo di Francesco I, la Malinconia
viene raffigurata da Jacopo Zucchi al modo di
una figura alata in piedi con la testa nella ma-
no sinistra, una bilancia nella destra e ai suoi
piedi un fanciullo con un libro aperto; in alto,
appoggiati sul muro che inquadra la figura, si
riconoscono una clessidra, un libro e una sfera
armillare: motivi e attributi che derivano dal
bulino düreriano.1

Più ampio e, naturalmente, ancora alla ricerca


di una sua chiara delimitazione, è il campo
delle citazioni letterarie non esplicite del cele-
bre bulino düreriano. Anche in questo caso,
un libro stampato a Venezia nel quinto decen-
nio del secolo può fornire un affidabile punto
di partenza. Nel poemetto Il sogno scritto dal
gioielliere Alessandro Caravia (Venezia, Gio-
vann’Antonio Nicolini da Sabbio, 1541), l’at-
teggiamento triste e mesto dell’autore viene
così definito dal suo interlocutore, il buffone
Zuanpolo Liompardi: «Voi mi parete la Me-
lancolia / Dipinta da buon maestro dipinto- Fig. 2. Alessandro Caravia, Il sogno, Venezia,
re»; un colloquio posto in principio del poe- 1541, frontespizio.
metto (vii, 1-2), che viene raffigurato anche
sul frontespizio, dove l’immagine è chiara-
mente esemplificata sulla Melencolia di Dürer (Fig. 2). Alle puntuali disanime condotte in pas-
sato del brano di Caravia – disanime basate, oltre che sul riconoscimento della citazione düre-
riana, sulle implicazioni simbolico-astrologiche dell’umore malinconico, in relazione alla
biografia dello stesso Caravia, frequentemente soggetto a crisi da lui in più circostanze ricor-
date2 – si può qui aggiungere l’ipotesi che il «buon maestro dipintore» dietro cui si cela ovvia-
mente Dürer possa essere inteso non soltanto quale un generico elogio della sua abilità dise-
gnativa, ma soprattutto come un preciso riferimento alla sua attività di pittore, di cui a quel
tempo a Venezia, a differenza del resto d’Italia, si trovavano cospicue testimonianze, certo non
ignote a un gioielliere e mercante come Caravia.3
Un’altra importante criptocitazione letteraria della Melancolia di Dürer fu riconosciuta da
Julius Schlosser nella descrizione della personificazione della Scultura,4 offerta dall’Arte alla

curi; l’Astuzia con la face accesa, è dove si rende il regno a Saturno; e la Sagacità è quella, dove i sacrifizj saturnali si cele-
brano; e la Simulazione e l’Adulazione è nell’ultima, dove si sacrificano i figliuoli; che vengono queste dieci qualità di affetti
in Saturno, sendo Malinconico, Superbo, Eterno, Allegro, Astuto, Animoso, Avaro, Seduttore, Sagace e Simulatore» (p. 28).
1 Marilena Caciorgna, «Il mio maestro, che sono i libri». Fonti letterarie classiche e tradizione iconografica nella decorazione
dello Stanzino di Francesco I, in L’architettura civile in Toscana. Il Cinquecento e il Seicento, a cura di Amerigo Restucci, Siena,
Banca Monte dei Paschi di Siena, 1999, pp. 505-525, in particolare pp. 514-516; Valentina Conticelli, «Guardaroba di cose
rare e preziose». Lo Studiolo di Francesco I de’ Medici: arte, storia e significati, Lugano, Agorà, 2007, p. 121.
2 Carlo Ginzburg, Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ’500, Torino, Einaudi, 1996, p. 28; Enrica Benini
Clementi, Riforma religiosa e poesia popolare a Venezia nel Cinquecento: Alessandro Caravia, Firenze, Olschki, 2000, pp. 20-22;
Massimo Firpo, Artisti, gioiellieri, eretici. Il mondo di Lorenzo Lotto tra Riforma e Controriforma, Roma-Bari, Laterza, 2001,
pp. 188-192.
3 Sul modo in cui tali cospicue testimonianze – su tutte la pala della Festa del Rosario all’epoca ancora in San Bartolomeo
presso il ponte di Rialto – condizionassero fortemente la percezione di Dürer, fino a costituire un momento davvero singo-
lare nella storia della sua ricezione italiana, mi sia consentito ancora il rimando a Fara, Albrecht Dürer nelle fonti, cit., pp. 1-11.
4 Julius Schlosser Magnino, La letteratura artistica, terza edizione aggiornata da Otto Kurz, Firenze, La Nuova Ita-
lia, 1964, p. 246 (ed. or. Wien 1924).
82 giovanni maria fara
Natura nella prima parte del Disegno, il tratta-
to di Doni pubblicato a Venezia nel 1549, con
il quale abbiamo iniziato la nostra analisi:
Nell’aspetto la fecero grave, nel mirar severa, e
d’habito intero vestita: puro et honorato, equale co-
sì alla testa come a tutto il corpo. Il quale habito
mostrava non meno d’esser da temere, che da esser
honorato. E così ferma e stabile, solitaria e pensosa,
si stava a sedere con le sue masseritie, et artifitiosi
stromenti intorno; sì come a tal arte si conviene.1

Se, come credo, si può concordare con Schlos-


ser sul fatto che ci troviamo di fronte ad un’il-
lustrazione letteraria della Melencolia I – a
maggior ragione sapendo che un esemplare
del bulino era conservato tra le carte di Doni,
e quindi costantemente sotto il suo sguardo –,
bisogna anche osservare come una tale ecfrasi
Fig. 3. Lambert Sustris (att.) possa essere proficuamente associata a una
Allegoria dell’Industria, in Francesco Marcolini, raffigurazione dell’Industria, usata dallo stesso
Le Sorti, Venezia, 1540, c. D1r.
Doni più volte nei suoi libri, in cui la presenza
di teste, scudi e sculture, probabili attributi
delle arti, sono qui intese come frutto di quell’operosità contrassegnata appunto dall’allegoria.
L’Industria compare per la prima volta nel corredo illustrativo del libro delle Sorti, stampato, e
probabilmente composto, da Francesco Marcolini a Venezia nel 1540 (Fig. 3); in particolare, il
disegno di questa allegoria è stato ricondotto, attraverso probanti confronti, alla mano di Lam-
bert Sustris, al principio del suo soggiorno veneziano.2 Il singolare volume di Marcolini conob-
be una precoce attenzione da parte di eruditi e letterati – lo stesso Doni così definisce il testo
nella sua Libraria, pubblicata a Venezia da Giolito nel 1550, città e anno in cui fu data alle stampe
la seconda edizione delle Sorti: «Ha fatto [Marcolini] un’opera molto industriosa, piacevole, e
bella; ornata di varj intagli e disegni bellissimi, onde il mondo lo loda estremamente. Libro delle
Sorti» (c. 20r). Il sodalizio che unì, fra 1552 e 1553, Doni e Marcolini, nella composizione e stampa
di una serie variegata di testi, favorì il riuso dell’ampio corredo illustrativo preparato per le Sor-
ti; nello specifico, l’allegoria dell’Industria viene ripresa nelle Foglie della Zucca del Doni (Venezia,
Marcolini, 1552, c. C2r) e ne I Marmi del Doni, academico peregrino (Venezia, Marcolini, 1552-1553,
c. S1v).3 Inoltre, se consideriamo tutte le illustrazioni delle allegorie marcoliniane, denunciano
evidenti debiti con modelli iconografici düreriani la Maninconia (Sorti 1540, c. H4r, ripresa da
Doni nei Fiori della Zucca 1552, c. B4r e nei Marmi 1552-1553, c. 2L4r) e l’Occasione (Sorti 1540, c.
O1r, ripresa da Doni nelle Foglie della Zucca 1552, c. I6v e nei Mondi 1552-1553, c. T3r) – il disegno
di entrambe le allegorie è attribuito ancora a Sustris. Per l’Occasione l’ovvia ispirazione icono-
grafica proviene dalla Nemesis (B. 77), il bulino di grande formato inciso da Dürer intorno al
1501. È fin troppo evidente, già dal titolo, la derivazione iconografica dell’allegoria della Manin-
conia; nel classico studio di Klibansky, Panofsky e Saxl, si fa specifico riferimento all’illustrazione
contenuta nei Marmi di Doni (all’epoca non si conosceva la dipendenza dell’immagine dalle al-

1 Doni, Disegno, cit., cc. 8v-9r.


2 In genere, sulle allegorie del libro marcoliniano, si consulti ora il saggio di Enrico Parlato, Le allegorie nel giardino
delle «Sorti», in Studi per le «Sorti». Gioco, immagini, poesia oracolare a Venezia nel Cinquecento, a cura di Paolo Procaccioli, Tre-
viso-Roma, Edizioni Fondazione Benetton Studi Ricerche-Viella, 2007, pp. 113-137, nello specifico pp. 121-124, con ampio ri-
ferimento alla bibliografia precedente.
3 Giorgio Masi, Le magnifiche sorti delle immagini, in Studi per le «Sorti», cit., pp. 139-156, in particolare la tabella I, pp.
154-155.
melencolia i nell’arte e nella letteratura italiana tra xvi e xvii secolo 83
legorie delle Sorti): «una xilografia, che, per
quanto molto mediocre, ha esercitato una for-
tissima influenza, e ci presenta la sublime
profondità della figura principale della Melen-
colia I (il Doni dice di possedere una copia
dell’incisione düreriana) trasformata nella tri-
stezza elegiaca di una “feminetta tutta malin-
conosa, sola, abandonata, mesta et aflitta” che
piange su uno scoglio solitario»1 (Fig. 4). Infi-
ne, in questo gioco di rimandi, non è forse
inutile ricordare come quarantasei delle cin-
quanta xilografie di allegorie che illustrano le
Sorti, fossero già state tradotte in controparte
a bulino, provviste di un titolo che quasi sem-
pre replica l’originale e accompagnate con un
breve testo latino, dall’incisore Enea Vico da
Parma, l’amico di Aretino e Doni, negli anni
del suo soggiorno veneziano, dopo cioè il suo Fig. 4. Lambert Sustris (att.) Allegoria
arrivo nel 1546 e prima della sua partenza per della Maninconia, in Francesco Marcolini,
Augusta nel 1550.2 Le Sorti, Venezia, 1540, c. H4r.

Nel loro classico studio, in principio del capitolo terzo della parte quarta, dedicato a «Il retaggio
artistico della Melencolia I», Klibansky, Panofsky e Saxl, allorché tentano di classificare le rappre-
sentazioni della melanconia successive al bulino di Dürer – una di «quelle opere d’arte che sem-
brano aver esercitato un potere quasi coattivo sull’immaginazione della posterità» – distinguo-
no opportunamente tra «l’imitazione consapevole» e «quella pressione inconsapevole che si
chiama “tradizione”».3 Ovviamente è soprattutto al primo dei due gruppi, più facilmente di-
stinguibile e circoscrivibile, che appartengono le derivazioni iconografiche che ci apprestiamo
ad analizzare.
Il modo in cui la Melencolia I (Fig. 1) veniva collezionata, osservata e descritta, pare di capire
dalle testimonianze fin qui raccolte, favoriva l’apprezzamento della maestria incisoria di Dürer,
intesa quale abilità di rendere effetti assai sottili di chiaroscuro, o di nettezza e finezza del segno.
Una visione, per così dire, complessiva, del bulino, che limitava fortemente le desunzioni ico-
nografiche parziali, rintracciabili in moltissima grafica e pittura italiana, soprattutto della prima
metà del xvi secolo, e che riguardavano la parte più vasta della produzione incisoria di Dürer:
fogli sciolti con caratteristiche figure isolate in pittoreschi paesaggi, o serie apocalittiche, cri-
stologiche e mariane dallo spiccato carattere narrativo. Inoltre, occorre osservare come non
esista alcuna copia della Melencolia I sicuramente riconducibile ad un artista italiano, nonostan-
te questo esercizio abbia costituito una pratica diffusa, un imponente fenomeno di traduzione
e assimilazione del Dürer incisore, che coinvolse, per un lungo periodo, un numero assai ele-
vato di autori e opere.4 Ne consegue che possiamo imbatterci soltanto in prestiti minimi, quasi

1 Klibansky, Panofsky, Saxl, Saturno e la melanconia, cit., p. 361.


2 Parlato, Le allegorie, cit., pp. 129-130; Idem, Abecedario iconografico marcoliniano, in Un giardino per le arti: «Francesco
Marcolino da Forlì», cit., pp. 249-263, in particolare pp. 250, 257-258.
3 Klibansky, Panofsky, Saxl, Saturno e la melanconia, cit., pp. 350, 351.
4 Il fenomeno è stato trattato da chi scrive in Giovanni Maria Fara, Albrecht Dürer: originali, copie, derivazioni, Firen-
ze, Olschki, 2007, con ampio riferimento alla bibliografia precedente. Nello specifico, per quel che concerne la Melanconia
I, sono note sette copie del bulino: una eseguita da Jan Wierix nel 1602, una nello stesso verso e fortemente ingannevole,
una tirata da una lastra solo parzialmente incisa, quattro in controparte – una delle quali è una xilografia (Joseph Heller,
Das Leben und die Werke Albrecht Dürer’s. Des zweyten Bandes zweyte Abtheilung. Dürer’s Bildnisse - Kupferstiche - Holzschnitte und
die nach ihm gefertigten Blätter, Bamberg, Kunz, 1827, pp. 473-474). Ritengo che possa riferirsi ad una di queste copie la men-
zione contenuta nell’Indice delle stampe in vendita nella bottega di Antonio Lafréry del 1572: «La Malinconia, cavata da
84 giovanni maria fara
insignificanti: il cane accucciato ai piedi di
Massimiliano Stampa, nel noto ritratto dipin-
to da Sofonisba Anguissola nel 1557, conserva-
to nella Walters Art Gallery di Baltimora (inv.
num. 37.1016; Fig. 5);1 cane che viene traspor-
tato anche in un disegno a penna e inchiostro
marrone acquerellato di Lelio Orsi verso il
1560, raffigurante Diana e Endimione, conser-
vato alla Galleria Estense di Modena.2
Al confine tra l’«imitazione consapevole», e
la «pressione inconsapevole» della tradizione,
sono alcuni disegni ed affreschi eseguiti fra se-
condo e terzo decennio del Cinquecento, che
coinvolgono alcuni fra i massimi artisti del se-
colo. Un foglio di schizzi di Raffaello conser-
vato agli Uffizi (inv. 1973F; Fig. 6), convincen-
temente datato da Konrad Oberhuber al 1514,
è stato recentemente messo in rapporto con
Melencolia I di Dürer, per la ripresa che da que-
sto bulino è stata supposta nella figura femmi-
nile melanconica con il solito cane accucciato
ai suoi piedi, disegnata in basso a sinistra (il ca-
ne si può scorgere con un po’ di fatica, dato lo
stato di conservazione del foglio).3 Una figura
la cui prima ispirazione era stata riconosciuta,
proprio da Oberhuber, in un prototipo antico,
il rilievo di sarcofago un tempo nella collezio-
ne Albani del Drago a Roma, oggi nel Museo
Nazionale Romano in Palazzo Altemps, noto
con il nome di Nova nupta sulla base di un’er-
rata interpretazione seicentesca, ma ben co-
Fig. 5. Sofonisba Anguissola, Ritratto di nosciuto fra fine xv e inizio xvi secolo, come
Massimiliano Stampa, 1557 (Baltimora, testimoniato anche da un disegno della cer-
Walters Art Gallery, inv. 37.1016). chia di Andrea Mantegna conservato all’Al-

Alberto Durer» (siamo nella sezione dell’Indice dedicata alle Effigie diverse. Tale indice, conosciuto in una copia stampata
conservata presso la Biblioteca Marucelliana di Firenze, venne pubblicato in Roma prima di Sisto V. La pianta di Roma Du
Pérac-Lafréry del 1577 riprodotta dall’esemplare esistente nel Museo Britannico, per cura e con introduzione di Francesco Ehrle,
Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1908, appendice 12, pp. 53-59; nello specifico, la citazione riportata è a p.
59. Il fatto che si usi il termine «cavata», piuttosto che «intagliata», mi fa ritenere con una ragionevole certezza che si tratti
di una copia del bulino di Dürer, e non di un esemplare originale, o ritenuto tale).
1 Charles De Tolnay, Sofonisba Anguissola and her Relations with Michelangelo, «Journal of the Walters Art Gallery»,
iv, 1941, p. 115 è colui che per primo ha proposto tale accettabile desunzione; ma secondo Rossana Sacchi, in Sofonisba An-
guissola e le sue sorelle, catalogo della mostra (Cremona, 17 settembre - 11 dicembre 1994), Milano, Leonardo Arte, 1994, sche-
da num. 11, «se è plausibile, come ha osservato De Tolnay nel 1941, che il motivo sia stato desunto dalla Melencolia di Dürer,
è altrettanto evidente che l’animale sia stato studiato dal naturale e non trasferito di peso da un’incisione».
2 Joseph Hofmann, Lelio Orsi si è dato ai tedeschi, «Acta Historiae Artium Academiae Scientiarum Hungaricae», xxxi,
1985, pp. 31-41, in particolare pp. 34-35, dove si ricorda come tale prestito fosse stato osservato già da Armando Quintavalle
nel 1935.
3 Stefano Pierguidi, Dürer, Raffaello e la circolazione delle stampe: sulla «Melencolia I» e un disegno degli Uffizi, e sul tem-
peramento saturnino degli artisti del Rinascimento, «Iconographica. Rivista di iconografia medievale e moderna», ix, 2010, pp.
101-106. Fra le recenti letture del foglio raffaellesco, si segnala quella di Marzia Faietti, Il sogno di Raffaello e la finestra di
Leon Battista Alberti, in Linea ii . Giochi, metamorfosi, seduzioni della linea, a cura di Marzia Faietti e Gerhard Wolf, Firenze,
Giunti, 2012, pp. 15-29.
melencolia i nell’arte e nella letteratura italiana tra xvi e xvii secolo 85

Fig. 6. Raffaello, Donna alla finestra, studio di figure per la volta della Stanza di Eliodoro e schizzi architettonici per
la basilica di San Pietro (Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, inv. 1973 F r).

bertina; prototipo la cui memoria viene temperata e ammodernata, nel disegno degli Uffizi, at-
traverso il ricorso al bulino di Dürer, dato alle stampe nel 1514, e quindi subito recepito nella
bottega di Raffaello.
A distanza di pochi anni Giulio Romano, «ereditario di Raffaello in Mantova» secondo la fe-
lice definizione vasariana, nella lunetta centrale della parete settentrionale della camera di
Amore e Psiche in Palazzo Te, affrescata intorno al 1526-1528, conserva memoria del passaggio
del bulino düreriano nell’aspetto malinconico di Psiche abbandonata da Amore e angariata da
Venere, che la sottopone alla prima prova della cernita dei semi. Come è stato finemente osser-
vato,1 si tratta di una somiglianza iconografica sostanziata, oltre che da posa, atteggiamento e
aspetto di Psiche, anche nella scopetta, nella séssola e nel mastello ai suoi piedi e al fianco; non
menzionati nelle Metamorfosi di Apuleio, sono aggiunti da Giulio Romano per esplicare il senso
del lavoro che dovrà compiere Psiche, e svolgono il medesimo ruolo degli oggetti sparsi ai piedi
della Melencolia I – «instrumenti che riducono l’uomo e chiunche gl’adopera a essere malinco-
nico» ricorda potentemente Vasari.

1 Rodolfo Signorini, Melencolia I del Dürer (1514) possibile fonte iconografica di ‘Psiche fra le sementi’ dipinta nella camera
di Amore e Psiche (1526-1528 ca.) in Palazzo Te a Mantova, «Fontes. Rivista di filologia, iconografia e storia della tradizione clas-
sica», iii, 5-6, 2000, pp. 181-188.
« C OL L E CT I O N E E T QUA SI C OM PRE S S ION E »:
WA RBU RG E B E N JA MIN IN D IALOG O
CO N PA N O F S K Y E S AX L
A l i c e Ba r ale
The question of the difference between Warburg’s and Panofsky and Saxl’s interpretation of melancholy is addressed
here through an objection that Benjamin raises in The Origin of German tragic Drama to Panofsky and Saxl.
An objection that hasn’t been considered yet, and that concerns their relation to what constitutes, according to Ben-
jamin, their «extraordinary model»: to Karl Giehlow.

L e vicende del fallito avvicinamento di Benjamin al Warburg-Kreis sono, com’è noto, ancora
piuttosto misteriose, e hanno richiamato l’attenzione di molti studiosi.1 Vorrei qui prende-
re le mosse da una critica, passata sino a ora inosservata, che Benjamin nel Dramma barocco te-
desco sembra muovere a Panofsky e Saxl, e che riguarda il loro rapporto con quello che Benja-
min definisce il loro «straordinario modello»,2 con Karl Giehlow. Spero in questo modo di
mostrare come la differenza, a cui si è più volte accennato nel corso di questo convegno, del-
l’interpretazione warburghiana della malinconia rispetto a quella di Panofsky e Saxl non possa
essere considerata sotto il segno di un maggiore ottimismo da parte di Warburg, ma rinvii al
contrario a un elemento problematico, che Panofsky e Saxl sembrano respingere, e che è invece
presente – come colgono sia Warburg sia Benjamin – già in Giehlow. Questo elemento proble-
matico è la «concentrazione»; vedremo ora cosa questo significhi.
Benjamin cita, nel Dramma barocco tedesco,3 un passo di Ficino che è non a caso proprio al
centro del saggio di Giehlow,4 ed è presente anche – e questo ha, come vedremo, un valore mol-
to particolare – in una serie di appunti del giovane Warburg sulla malinconia.5 Si tratta di un
passo che riguarda il nesso tra bile, terra e concentrazione:
La causa naturale [del legame tra malinconia e attività letteraria e filosofica] poi sembra essere il fatto
che per conseguire le scienze, soprattutto quelle difficili, è necessario che l’animo si raccolga dall’ester-
no all’interno come da una circonferenza al centro, e, mentre specula, rimanga saldissimo proprio nel
centro, per dir così, dell’uomo. Ma raccogliersi dalla circonferenza al centro e fissarsi nel centro è pro-
prio soprattutto della terra, a cui in effetti è molto simile l’atra bile. Pertanto l’atra bile stimola conti-
nuamente l’animo a raccogliersi in unità e a fermarsi in essa e a contemplare. Ed essa stessa, simile al

Alice Barale, via Cappuccio 7, 20123 Milano, alice_barale@yahoo.it


1 Cfr. Marco Bertozzi, Walter Benjamin. Un melanconico allievo di Aby Warburg, «Aisthesis», iii, 2, 2010; Momme Bro-
dersen, Wenn Ihnen die Arbeit des Interesses wert erscheint…: Walter Benjamin und das Warburg-Institut: einige Dokumente, in
Horst Bredekamp, Michael Diers, Charlotte Schoell-Glass, Aby Warburg: Akten des internationalen Symposions,
Hamburg 1990, Weinheim, vch, 1991, pp. 87-97; Wolfgang Kemp, Walter Benjamin e la scienza estetica, ii. Walter Benjamin
e Aby Warburg, «aut aut», 189-190, pp. 234-262; Sigrid Weigel, Walter Benjamin: Die Kreatur, das Heilige, die Bilder, Fischer,
2008, pp. 246 e sgg.
2 Walter Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, in Gesammelte Schriften, i. 1, p. 327; trad. it. Il dramma barocco
Tedesco, Torino, Einaudi, 1971 (di Enrico Filippini), p. 154 e Einaudi, Torino 1999 (di Flavio Cuniberto), p. 124. Si farà da ora
in poi riferimento alla prima edizione Einaudi, a cura di Enrico Filippini, modificando la traduzione dove necessario.
3 Ivi, pp. 158-159.
4 Karl Giehlow, Dürers Stich “Melencolia I” und der maximilianische Humanistenkreis, «Mitteilungen der Gesellschaft
für vervielfältigende Kunst», 2, 1903, pp. 29-41; 1/2, 1904, pp. 6-18; 4, 1904, pp. 57-77. Il passo di Ficino in questione è in
«Mitteilungen der Gesellschaft für vervielfältigende Kunst», 2, 1903, p. 36.
5 Aby Warburg, Einführung in die Kultur der italienischen Frührenaissance, trad. it. Il primo Rinascimento italiano. Sette
conferenze inedite (1909), a cura di Giovanna Targia, Torino, Aragno, 2013, p. 412.
88 alice barale
centro del mondo, spinge ad indagare il centro delle singole cose […] Ed anche la stessa contemplazio-
ne, a sua volta, come per una continua concentrazione e quasi compressione, acquista una natura assai
simile a quella dell’atra bile [assidua quadam collectione et quasi compressione, natura matrae bili persimilem
contrahit].1

Benjamin cita questo passo direttamente dal saggio di Panofsky e Saxl del 1923 sulla malinconia,
Dürers melencholia I: Eine quellen- und typengeschichtliche Untersuchung.2 Qui il passo di Ficino non
ha però il rilievo che aveva in Giehlow, e anche negli appunti a cui si è accennato di Warburg,
ma è inserito in una nota, e seguito da un’osservazione che ne limita, per così dire, il significato,
e che costituisce, come comprende Benjamin, una critica a Giehlow. Le critiche a Giehlow, per
una ragione a cui accenneremo, sono molto più presenti nel saggio del 1923 che nella sua suc-
cessiva e più celebre versione inglese, Saturn and melancholy (1964).3 La precisazione di Panofsky
e Saxl che segue al passo in questione è che questo brano non significa che Ficino consigli al
malinconico «la “concentrazione spirituale [Geistige Konzentration]”».4 L’espressione è tra virgo-
lette, anche se senza l’indicazione della fonte, che è, come si accorge Benjamin, il saggio di
Giehlow. Benjamin osserva a questo proposito che Panofsky e Saxl hanno «perfettamente ra-
gione», ma la loro affermazione
significa ben poco di fronte a una serie analogica che comprende il pensiero-la concentrazione-la terra-la
bile, e questo non solo per portare dal primo all’ultimo membro della serie stessa [secondo l’interpreta-
zione di Panofsky e Saxl], ma anche, evidentemente, con una chiara allusione ad una nuova interpreta-
zione, nell’ambito dell’antico contesto di saggezza della dottrina dei temperamenti, della terra. Secondo
un’antica opinione quest’ultima deve infatti la sua forma sferica, e quindi, come aveva già scoperto Tolo-
meo, la sua perfezione e la sua posizione centrale nell’universo, alla forza di concentrazione.5

È interessante che proprio lo stesso passo di Ficino sia sottolineato – come si accennava – già
da Warburg, negli appunti per una conferenza del 1909 su Dürer, che appartiene alla serie delle
sette conferenze su Il primo rinascimento italiano.6 L’uomo «pensieroso all’opera», in cui il
demone Saturno si trasforma nel saggio su Lutero (1920),7 è descritto qui come un «sinnender
auf sich concentrierter Mensch»:8 un “uomo che riflette concentrato su di sé”, e a questo segue,
subito dopo, la citazione di Ficino: «La contemplazione, che attraverso una “assidua quadam
collectione et quasi compressione, naturam atrae bili persimilem contrahit”».9
Sappiamo da varie fonti dell’ammirazione che Warburg aveva per Giehlow.10 Qualche anno
dopo la sua morte – come ci informa il curatore del saggio di Panofsky e Saxl sulla malinconia,
Arpad Weixlgärtner, nella sua nota di accompagnamento al volume11 – Warburg si offre per
aiutare a preparare l’edizione dello studio di Giehlow sulla malinconia,12 che a differenza della

1 Marsilio Ficino, De vita, i, 4, trad. it. Sulla vita, Milano, Rusconi, 1995, p. 13.
2 Erwin Panofsky, Fritz Saxl, Dürers “Melencolia I”: Eine quellen- und typengeschichtliche Untersuchung, in Studien der
Bibliothek Warburg, Leipzig, Teubner, 1923, p. 51.
3 Raymond Klibansky, Erwin Panoksky, Fritz Saxl, Saturn and melancholy: studies in the history of natural philo-
sophy, religion and art, London, Nelson, 1964; trad. it. Saturno e la melanconia: studi di storia della filosofia naturale, religione e
arte, Torino, Einaudi,1983. 4 Panofsky, Saxl, Dürers “Melencolia I”, cit., p. 51.
5 Benjamin, Il dramma barocco tedesco, cit., p. 159.
6 Warburg, Il primo Rinascimento italiano, cit., pp. 411-412.
7 Aby Warburg, Heidnisch-antike Weissagung in Wort und Bild zu Luthers Zeiten, trad. it. Divinazione antica e pagana in
testi e immagini dell’età di Lutero, in Aby Warburg, Opere, a cura di Maurizio Ghelardi, ii, Torino, Aragno, 2008, pp. 83-207.
8 Warburg, Il primo rinascimento italiano, cit., pp. 411-412.
9 Ibidem. Al testo tedesco (qui tradotto in italiano) segue dunque la citazione da parte di Warburg dell’originale latino
del De Vita.
10 Cfr. Warburg Institute Archive (wia), General Correspondence (gc ), lettera di Warburg a Wilhelm Ahrens del 4 ottobre
1915. Cfr. inoltre Arpad Weixlgärtner, Zum Geleite, in Panofsky, Saxl, Dürers “Melencolia I”, cit., pp. ix-xv e Susanne
Müller, Introduzione, in Karl Giehlow, Hieroglyphica. La conoscenza umanistica dei geroglifici nell’allegoria del Rinascimen-
to, a cura di Maurizio Ghelardi e Susanne Müller, Torino, Aragno, 2004.
11 Weixlgärtner, Zum Geleite, cit.
12 Cfr. wia, gc , lettera di Warburg ad Arpad Weixlgärtner del 23 marzo 1915.
warburg e benjamin in dialogo con panofsky e saxl 89
grande opera sui geroglifici, pubblicata postuma proprio allora,1 era rimasto pronto per la pub-
blicazione ma inedito. L’editore però prende tempo, e Warburg qualche anno dopo si ammala.
Nel 1920, mentre Warburg è ricoverato presso la clinica psichiatrica di Kreuzlingen, i materiali
di Giehlow vengono inviati infine a Saxl,2 a cui si aggiunge poco dopo anche Panofsky, con il
compito di preparare l’edizione. A questo punto però, attraverso una vicenda complicata e po-
co conosciuta,3 la curatela dello studio di Giehlow diventa una vera e propria rielaborazione.
In buona fede, dal mio punto di vista, perché Panofsky e Saxl pensavano davvero che la ricerca
di Giehlow, così com’era, non andasse più bene, e andasse sviluppata in un altro modo. Giehlow
stesso, del resto, non era soddisfatto delle sue conclusioni. Ma su questo torneremo tra breve.
Durante queste vicende Warburg, come si accennava, si è ammalato, e dal 1920 è a Kreuzlin-
gen. Da qui scrive a Panofsky di giudicare il suo lavoro «di grande valore», ma si lamenta che poco
è stato accolto, nel libro, della sua idea della «sublimazione» dell’antico demone Saturno.4 Quello
che non c’è abbastanza, nel saggio di Panofsky e Saxl, è la trasformazione, o meglio la «riforma»
di Saturno. Nel libro, scrive Warburg, c’è una tremenda «rassegnazione, al posto della musica
delle sfere».5 Manca, quindi, la trasformazione, il riscatto: «siamo stati espulsi dal Paradiso», scri-
ve qui Warburg.6 E fa presente un altro elemento, la «zappa» in mano «a Faust».7 La zappa,
attribuita nella tradizione astrologica medievale ai figli di Saturno, è – scrive Warburg – uno
strumento di distruzione ma serve anche ad aprire la terra, per piantare i semi. Che è quello che
fa Faust, quando tenta alla fine dell’opera di bonificare le terre in riva al mare (mentre l’altro polo
è rappresentato dal becchino dell’Amleto, altro personaggio molto citato in queste lettere).8
Sarebbe interessante cercare le risposte di Panofsky a queste critiche. Ci limitiamo a osser-
vare, per inciso, che nel saggio del 19239 troviamo un’osservazione sul legame tra Saturno e la
semina, e sul duplice valore che quest’ultima ha di «annientamento» e «produzione», «sepoltu-
ra» e «risurrezione», che risente probabilmente proprio della discussione avuta con Warburg, e
che nell’edizione inglese, infatti, scompare, lasciando il posto al valore esclusivamente positivo
del Saturno romano, in contrapposizione al Crono greco.10
C’è però un’altra osservazione, in Dürers Melencholia I, che riguarda il rapporto con Warburg
e che rimane, invece, identica in Saturn and melancholy, segno che si tratta di un elemento im-
portante, destinato a restare nell’impostazione della questione:
[…] possiamo associarci alla sua descrizione [la descrizione di Warburg nel saggio su Lutero, appena ci-
tato da Panofsky e Saxl] solo con molte riserve, dato che non possiamo immaginare che «il conflitto de-
moniaco» tra Saturno e Giove si concluda con la vittoria di quest’ultimo; né possiamo riconoscere ad esso
quel significato primario per l’interpretazione dell’incisione di Dürer che Warburg gli attribuisce. La mensula Jo-
vis è dopo tutto solo uno dei motivi, e certamente non il più importante […].11

1 Karl Giehlow, Die Hieroglyphenkunde des Humanismus in der Allegorie der Renaissance: besonders der Ehrenpforte Kaisers
Maximilian I, «Jahrbuch der Kunsthistorischen Sammlungen des Allerhöchsten Kaiserhauses», Wien - Leipzig, Tempsky -
Freiyag, 1915; trad. it. Hieroglyphica. La conoscenza, cit.
2 Cfr. wia, gc , lettera di Saxl a Warburg del 21 novembre 1921.
3 Ricostruita per la prima volta in Weixlgärtner, Zum Geleite, cit., poi ripresa, attraverso un’indagine estremamente
interessante anche se decisamente ‘di parte’ in Müller, Introduzione, in Giehlow, Hieroglyphica, cit., pp. xiii e sgg., e in
seguito in Luca Crescenzi, Melancolia occidentale. La montagna magica di Thomas Mann, Roma, Carocci, 2011, pp. 33-35.
Entrambe le trattazioni, sia quella di Müller sia quella di Crescenzi, si concentrano di più su cosa, dello studio di Panofsky
e Saxl, ci fosse già in Giehlow, che sul perché Panofsky e Saxl abbiano voluto trasformare completamente il lavoro di Gieh-
low. Un chiarimento in tal senso potrà venire forse dalla prima edizione italiana di Dürers «Melencholia I», che è stata an-
nunciata durante questo convegno, e che uscirà a cura di Marco Bertozzi e Claudia Wedepohl.
4 wia, cg , lettera di Warburg a Mary del 4 febbraio 1924.
5 wia, cg , lettera di Warburg a Mary del 26 gennaio 1924.
6 Ibidem. 7 Ibidem.
8 Cfr. ad esempio wia, cg , lettere di Warburg a Mary del 19 febbraio 1923, 22 febbraio 1923 (datazione incerta) e 24 feb-
braio 1923. Cfr. inoltre su questo tema il contributo di Claudia Wedepohl raccolto in questo volume.
9 Panofsky, Saxl, Dürers “Melencolia I”, cit., p. 10.
10 Klibansky, Panofsky, Saxl, Saturno e la melanconia, cit., p. 126.
11 Ivi, p. 307, corsivo mio; cfr. Panofsky, Saxl, Dürers “Melencolia I”, cit., p. 54. Cfr. su questo punto Marco Bertozzi,
Mensula Jovis. Considerazioni sulle fonti filosofiche della Melencolia I di Albrecht Durer, «I Castelli di Yale», ii, 2, 1998, pp. 19-44.
90 alice barale

Fig. 1. Aby Warburg indossa una maschera Fig. 2. Francesco Mazzola detto il Parmigianino,
“katchina”, Oraibi, Arizona, 1896. Atteone trasformato in cervo, affresco, 1524
(Fontanellato, Rocca Sanvitale).

La reformatio, o trasformazione di Saturno è stata quindi colta da Panofsky, non è passata inos-
servata per lui, ma il fatto è che Panofsky non vuole farne il centro della propria interpretazione.
Perché? Cosa non condivide Panofsky di questa trasformazione?
Per comprenderlo occorre tornare a Warburg. Il potere di trasformare la figura di Saturno
spetta in Warburg alla coscienza. O più precisamente a qualcosa che accompagna senz’altro la
coscienza ma esattamente coscienza non è. Spetta cioè, stando al passo della conferenza del
1909 su Dürer a cui ci siamo riferiti, alla «concentrazione» – quella concentrazione che infatti,
come abbiamo visto, Panofsky e Saxl nella loro interpretazione di Ficino negano che costituisca
un rimedio contro la malinconia. Come può la concentrazione fare questo?
Può aiutarci a comprenderlo un appunto di Warburg redatto per la conferenza sul rituale del
serpente, tenuta durante il ricovero psichiatrico. Qui Saturno torna a legarsi al tema della zappa.
L’appunto porta annotato in alto, a mo’ di titolo, «Tragedia della corporeizzazione [Verleibung] /
Fenomenologia / Limiti fluttuanti della personalità». Nella parte centrale Warburg scrive:
Il peccato originale d’Adamo è certamente consistito in primo luogo
nell’aver incorporato (Einverleibung) la mela, un corpo estraneo il
cui effetto era incalcolabile. Inoltre, fatto questo altrettanto importante,
costretto ad usare la zappa per lavorare la terra, egli sperimentò
un’estensione tragica della sua esistenza attraverso lo strumento,
poiché quest’ultimo non fa parte del suo essere [a margine e a matita:
Saturno]. La tragedia dell’uomo che mangia e che manipola è uno dei
capitoli della tragedia dell’umanità.1

La malinconia è legata dunque per Warburg a questo problema dei limiti «fluttuanti» della per-
sonalità. Al nostro rapporto con quel che ci è «estraneo». Una recente edizione del Problema
xxx.1 di Aristotele si è intitolata «la malinconia dell’uomo di genio».2 Ma in Warburg la malin-

1 Aby Warburg, Reise-Erinnerungen aus dem Gebiet der Pueblo Indianer, wia 93.4, trad. it. Ricordi di viaggio nella regione degli
Indiani Pueblo nell’America del Nord, in Idem, Gli Hopi, a cura di Maurizio Ghelardi, Torino, Aragno, 2006, p. 46 (corsivi miei).
2 Aristotele, La “melanconia” dell’uomo di genio (Problemata, 30, 1), a cura di Carlo Angelino e Enrica Salvaneschi,
Genova, Il Melangolo, 1981.
warburg e benjamin in dialogo con panofsky e saxl 91

Fig. 4. Albrecht Dürer, Schizzi per la traduzione


di Pirckheimer degli Hieroglyphica di Orapollo.

conia ha proprio a che fare con l’andare ol-


tre i confini del genio – inteso come “indi-
Fig. 3. Il mistero dei caratteri antichi, xilografia
per l’Arco di trionfo di Massimiliano i. vidualità” di cui si possano stabilire una
volta per tutte i contorni. C’è una parola
chiave per Warburg a partire da questi anni
di Kreuzlingen, che è «Weltzugewandtheit».1 il “rivolgersi al mondo”, e la malinconia rappre-
senta, possiamo dire, l’aspetto problematico di questo. Come scoperta del proprio confinare –
in modo mobile, «fluttuante» – con l’estraneo. Del proprio essere materia: «inorganico», dice
qui Warburg, più avanti dirà «hyle», nelle riflessioni sugli Eroici Furori.2 Del proprio essere
animali – il tema della «trasformazione in animale» è già al centro degli appunti sugli Hopi,3 e
si svilupperà negli ultimi anni nella riflessione sugli Eroici Furori (Figg. 1-2).

Gli animali dominano, del resto, il mondo dei geroglifici a cui si era dedicato Giehlow. In una
delle incisioni che costituiscono il cosiddetto “Arco di trionfo” di Massimiliano4 – che è posta
proprio in apertura dell’opera sui geroglifici di Giehlow5 – una vera e propria folla di animali
misteriosi si raccoglie attorno all’imperatore (Fig. 3). Tra questi uno strano cane con la stola,
lo stesso che Dürer disegna per l’edizione latina degli Hieroglyphica di Horapollo (Fig. 4).6 Il
cane è un animale particolarmente importante nei geroglifici. Secondo Horapollo il suo orga-
nismo è dominato dalla milza, organo associato dalla tradizione alla malinconia, e ai suoi stra-
ni doni.7 Così il cane della Melencolia I di Dürer (Fig. 5) è interpretato da Giehlow, poi ripreso
da Benjamin, come cane che sta sognando sogni profetici.8 È proprio questo del resto che è

1 Cfr. ad esempio wia, cg , lettera di Warburg a Mary del 2 febbraio 1924. Mi permetto di rimandare per questo a Alice
Barale, Perseus and Medusa: between Warburg and Benjamin, «Engramma», 105, 2013.
2 Aby Warburg, Giordano Bruno, in Idem, Opere, ii, cit., p. 979.
3 Cfr. ad esempio Warburg, Ricordi di viaggio, cit., p. 74 e p. 26.
4 La Ehrenpforte Kaiser Maximilians I, progettata da Dürer e studiata da Giehlow (cfr. Giehlow, Die Hieroglyphenkunde
des Humanismus, cit.), è composta da 192 xilografie, riunite insieme a formare un arco trionfale di notevoli dimensioni (341
292 cm). 5 Giehlow, Die Hieroglyphenkunde des Humanismus, cit.
6 Tradotti dall’umanista amico di Dürer Willibald Pirckheimer. Cfr. Giehlow, Dürers Stich “Melencolia I” («Mitteilun-
gen der Gesellschaft für vervielfältigende Kunst», 4, 1904), cit., pp. 70-71. 7 Ivi, p. 72.
8 Ibidem. Tutto questo in contrapposizione al cane malandato dell’interpretazione di Panofsky, su cui cfr. Bertozzi,
Mensula Jovis, cit.
92 alice barale

Fig. 5.

piaciuto tanto a Benjamin dello studio di Giehlow sui geroglifici: questo nesso tra vertici del
sapere e vita animale. Un nesso che nel barocco si divarica: materia (immagine, o suono) e si-
gnificato si separano irrimediabilmente.1 In Dürer questi poli sono invece ancora «contenuti
[gebändigt: legati assieme]», scrive Benjamin, «dalla forza di un genio».2 Il genio, quindi, come

1 Cfr. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, cit., pp. 216 e sgg. 2 Ivi, p. 159.
warburg e benjamin in dialogo con panofsky e saxl 93
capacità di «tenere insieme» il sé e il non sé, il proprio e l’estraneo, la vita spirituale e animale,
il significato e la materia. Un tenere insieme difficile, che non sopprime la tensione instabile tra
queste forze (di qui la «compressione»), e che ha un carattere di divinazione: Benjamin parla,
citando direttamente Giehlow, di «concentrazione spirituale divinatoria [divinatorische Geistes-
konzentration]».1
In Giehlow questo elemento della divinazione è fondamentale, e si lega all’interesse per la
figura di Agrippa. La divinazione associata alla malinconia è infatti già presente, sulle orme di
Aristotele, in Ficino,2 ma è nel mago Agrippa che assume una vera e propria centralità.3 E
Agrippa costituisce, accanto a Ficino e alla sua nuova valorizzazione della terra, il secondo
grande fulcro del saggio di Giehlow. Questo è interessante, perché nel saggio del 1923 di Panof-
sky e Saxl sulla malinconia Agrippa è invece quasi assente, nominato soltanto due volte in nota.
Quando gli autori di Saturno e la malinconia fanno di Agrippa e della sua teoria dei «gradi» della
divinazione melanconica la chiave della loro conclusione sul significato della Melencolia I,4 ri-
prendono quindi Giehlow. Che interpreta però Agrippa – questo è il punto che ci interessa – in
tutt’altro modo rispetto agli autori di Saturno e la malinconia. Questi ultimi se ne accorgono be-
ne, e scrivono infatti che «a Giehlow è sfuggito del tutto il significato della teoria di Agrippa».5
Merito di Agrippa per Giehlow non è, come per Panofsky, Klibansky e Saxl, aver indicato la ne-
cessità, per la malinconia, di legarsi a gradi di conoscenza più alti rispetto alla sfera della cono-
scenza spaziale, ma al contrario proprio quello di avere esteso i doni di Saturno sino a questa
sfera: non più al solo campo della conoscenza speculativa, puramente mentale, come avveniva
in Ficino, ma anche all’attività razionale e a quella immaginativa, spaziale, dell’anima.6 La fi-
gura del mago Agrippa – che scrive di metafisica dalle sue campagne di costruzioni e di guerra
per Massimiliano – sembra cioè rappresentare, per Giehlow, proprio questo portare nel mondo
la dottrina di Ficino, questo applicarla a una conoscenza intensificata della realtà, una conoscen-
za capace di penetrarla in ogni suo grado e di dischiuderne i segreti.7
Che è un po’ quello che vuole fare Giehlow per ogni immagine dell’incisione di Dürer, di cui
vuole interrogare il significato geroglifico. Ma di fronte a questo compito, la sua trattazione si
arresta. È il famoso ultimo capitolo, che sembra che Giehlow non abbia mai scritto. Dopo aver
descritto il contesto, ricchissimo di sollecitazioni e di idee, in cui Dürer è immerso e a cui
partecipa, Giehlow, nell’ultimo capitolo pubblicato dello studio sulla malinconia scrive che si
tratta a quel punto di definire il passaggio da quel contesto all’opera di Dürer nella sua concre-
tezza e «freschezza».8 E proprio di fronte a questo passaggio la pubblicazione si interrompe. La
scoperta del significato follemente instabile dei geroglifici aveva accompagnato del resto l’inte-
ra trattazione sino a quel punto. È questo un carattere che distingue – secondo Giehlow – i
geroglifici del Cinquecento dal sogno del primo umanesimo, che nel geroglifico aveva cercato
l’espressione immediata e cristallina di un pensiero o di un’idea. Ed è forse, per ragioni diverse
che sarebbe importante indagare, quello che non piaceva a Saxl e a Panofsky, che sin dagli anni
’20 dichiarano con particolare decisione di non voler percorrere la «strada dei geroglifici»9 (il

1 Giehlow, Dürers Stich “Melencolia I” («Mitteilungen der Gesellschaft für vervielfältigende Kunst», 4, 1904), cit., p. 72.
2 Ficino, De Vita, cit., i; cfr. Giehlow, Dürers Stich “Melencolia I” («Mitteilungen der Gesellschaft für vervielfältigende
Kunst», 1/2, 1904), cit., p. 14.
3 Agrippa di Nettesheim, De occulta philosophia, iii, 31-32. Cfr. Giehlow, Dürers Stich “Melencolia I” («Mitteilungen
der Gesellschaft für vervielfältigende Kunst», 1/2, 1904), cit., p. 14. La versione a stampa del De occulta philosophia è del 1531
e non può costituire, quindi, una fonte per la Melencolia I di Dürer. Già Giehlow, tuttavia, aveva ipotizzato l’esistenza di
una prima versione manoscritta, che è stata poi effettivamente scoperta (da Hans Meier, bibliotecario del Warburg Insti-
tute), e su cui si basa l’ipotesi degli autori di Saturno e la melanconia. Giehlow nei suoi studi sulla malinconia era stato quindi
a sua volta ‘profetico’.
4 Klibanski, Panofsky, Saxl, Saturno e la melanconia, cit., p. 328 e sgg. 5 Ivi, p. 328.
6 Giehlow, Dürers Stich “Melencolia I” («Mitteilungen der Gesellschaft für vervielfältigende Kunst», 1/2, 1904), cit., pp.
14 e sgg. 7 Ivi, p. 17.
8 Giehlow, Dürers Stich “Melencolia I” («Mitteilungen der Gesellschaft für vervielfältigende Kunst», 4, 1904), cit., p. 77.
9 wia, gc , lettera di Saxl a Warburg del 21 novembre 1921. La lettera è citata in Susanne Müller, Introduzione a Gieh-
low, Hieroglyphica, cit., p. xiv.
94 alice barale
saggio del 1923 porta tracce particolarmente
forti di questa presa di posizione).
Ed è infine, forse, quello che è interessato
tanto a Warburg, e poi a Benjamin. Perché è
proprio nel momento in cui la speculazione si
perde in se stessa (Giehlow ha pagine molto
ironiche sul famoso cane con la stola, e sulle ag-
grovigliate interpretazioni del perché sia nudo,
sotto la sua stola), che quest’ultima avverte la
necessità di tornare a quella concentrazione da
cui proviene e che in nessun «grado» del pro-
prio avanzamento può lasciarsi definitivamen-
te alle spalle. Una concentrazione «su di sé»1
che è anche – come abbiamo visto – concentra-
zione sul mondo: sullo spazio che il pensiero
deve continuamente ri-aprire al proprio in-
terno e a cui deve ri-aprirsi, per non perdersi,
per ritrovare il proprio orientamento. Come i
cani di un altro autore di malinconie novecen-
tesche (Fig. 6),2 «rain dogs», perché devono
aspettare che passi la pioggia per poter final-
Fig. 6. mente tornare a fiutare la strada di casa.

1 Ficino, De vita, i, 4, cit. 2 Tom Waits, Rain dogs, Island Records, September 1985.
PARTE SEC ONDA
ME L A N C H OL I A A L F E M M IN ILE
St efa n i a Sa ntoni
The aim of the present research consists in focusing some elements which contributed to make the famous engraving
called Melencolia I.
In particular, they are female echoes coming directly from the Antiquity, such as the motif of the inclined head
and the weaving. It is well known that the first meaning of the gestus melancholicus is sorrow: however, it may
express something different too, like boredom and creativity. Only a famous classical heroine, often portrayed since
the 5th century A.D. with the head put on the hand (thus, in a melancholic posture), comprehends all these three
meanings: she is Penelope. Nevertheless, it is possible to find the same iconographic form in other ancient female fig-
ures, as well as in some medieval thumbnails made by Robinet Testard to accompany the French translation of
Ovid’s Heroides by the poet Octavien de Saint-Gelais. In our research, we will occupy as well of the spinning, as
a form denoting a melancholic temperament. We can find it expressing this sense in a lot of thumbnails: for instance,
in the Augsburg Manuscript and in the Strasbourg Calendar, where there are a lot of iconographies of a woman, al-
most always sleeper, accompanied by a distaff and a spinning wheel. Through a philological and literary research,
we shall try to motivate the presence of these typical feminine elements so often combined to melancholy.

T ra le diverse suggestioni che animano la celebre incisione Melencolia I di Dürer ve ne sono


alcune che godono di una particolare funzione: si tratta di echi femminili provenienti del
mondo antico che hanno di fatto contribuito alla realizzazione dell’opera in questione. Nello
specifico si possono notare due aspetti al femminile: il tema della tessitura, che riscontriamo
nell’iconografia del temperamento melanconico, e il celebre gestus melancholicus che contrad-
distingue numerose eroine della classicità. Cominciamo quindi ad analizzare il primo punto,
facendo un breve accenno alla teoria dei quattro temperamenti.
Codificata nella tarda antichità, si tratta di un’estensione della dottrina degli umori, indivi-
duati dai medici antichi come causa delle malattie dell’uomo.1 Si riteneva infatti che questi fos-
sero un’eccedenza del corpo, parti di materiale nutritivo non assimilato che quindi poteva ge-
nerare malattie, se non eliminato. Attraverso la pratica quotidiana, i medici antichi riuscirono
a comprendere che fra malattie e secrezioni degli umori esisteva un legame e per questo le pa-
tologie vennero raggruppate a seconda degli umori presenti in eccedenza nel corpo. In questa
maniera dalla teoria degli umori si passa a quella dei temperamenti, in cui la prospettiva cambia
radicalmente. I temperamenti infatti fanno riferimento a qualità e inclinazioni che sono stabili
nell’uomo, non al temporaneo predominio di un umore sugli altri, capace di alterare lo stato
di salute dell’uomo. Secondo questa dottrina alcune persone, per loro natura, hanno un’incli-
nazione ad avere malattie specifiche: alcuni cadranno più facilmente in preda a mali legati alla
collera, altri al flemma, altri ancora alla bile nera, e anche il loro profilo interiore e psicologico
ne risulterà profondamente condizionato. Questo stretto legame tra fisicità e carattere, tra cor-
po ed interiorità è legato a interessi fisiognomici profondi che la cultura greca sviluppò già a
partire da Aristotele, e che poi gli studiosi cinquecenteschi elaboreranno in teorie fisiognomi-
che diffuse dalle scuole mediche aristoteliche.2

Stefania Santoni, Dipartimento di studi linguistici e letterari dell’Università degli Studi di Padova,
stefania.santoni@studenti.unipd.it
1 Raymond Klibansky, Erwin Panoksky, Fritz Saxl, Saturno e la melanconia. Studi su storia della filosofia naturale,
medicina, religione e arte, traduzione italiana a cura di Renzo Federici, Umberto Colla, Torino, Einaudi, 2002, pp. 7-19.
2 Sonia Maffei, La malinconia: tracce di una storia per immagini fino all’Iconologia di Cesare Ripa, in Bile nera. Nove saggi
sulla malinconia, prefazione di Eugenio Borgna, a cura di Emilio Gattico, Silvana Bonanni, Giovanni Ferrari, Bergamo,
Dalla Costa, 2012, p. 148.
98 stefania santoni
Dal punto di vista figurativo il rafforzamento del sistema dei temperamenti porta alla diffu-
sione di composizioni tetrastiche, dove ognuna delle quattro categorie umane è raffigurata in
corrispondenza con le altre. Tali immagini che raffigurano i quattro temperamenti sono clas-
sificabili in due categorie principali: da una parte abbiamo quelle che presentano ogni tempe-
ramento come una figura isolata, più o meno statica, che si contraddistingue per l’età, il fisico,
l’espressione, il costume e gli attributi; dall’altra invece quelle in cui diverse figure, solitamente
un uomo o una donna, sono poste a fronte ad impersonare una scena tipica del loro particolare
temperamento. Gruppi del primo tipo sono assai numerosi; quelli del secondo sono inferiori
di numero, però sono più rilevanti per l’evoluzione successiva.1
Il primo esempio di una serie di figure isolate si ha in un disegno a semplice contorno inse-
rito in un testo dell’xi o xii secolo, il Tractatus de quaternario, conservato a Cambridge, fonte
che si può considerare la rappresentazione più antica che si conosca dei temperamenti. Da una
prima osservazione notiamo la presenza di quattro figure femminili, ubicate nei quadranti di
un cerchio, che rappresentano le quattro età dell’uomo. Ma non solo. Grazie a delle note
marginali, comprendiamo che tali figure indicano le quattro complessioni, personificando gli
umori che in esse sono dominanti. Vediamo quindi che l’Infanzia rappresenta anche il flemma,
che partecipa delle caratteristiche elementari del freddo e dell’umido (la vediamo caratterizza-
ta dalle gambe incrociate in un tipico atteggiamento di riposo, indifferenza fisica e mentale
propria del temperamento flemmatico e dell’infanzia); la calda e umida Gioventù rappresenta
il sangue (è l’unica figura in piedi e si distingue per la presenza della ghirlanda della primavera);
la calda e asciutta Virilità rappresenta la bile gialla; infine la fredda e secca Decadenza rappre-
senta la bile nera.2
Soffermiamoci su queste due ultime figure. Notiamo che entrambe svolgono due attività
molto simili che da sempre distinguono il mondo femminile da quello maschile. Senectus
infatti sta arrotolando un gomitolo, mentre Decrepitas sta ancora filando partendo dall’alto.3
Trascurando la confusione cronologica relativa all’attribuzione delle due attività, ciò che ri-
sulta particolarmente significativo è la presenza di caratteristiche quali il filo e la conocchia
nella rappresentazione del temperamento melanconico e quindi della Decadenza. Sappiamo
che la funzione della conocchia è quella di reggere la massa di lana che deve essere filata;4
presso gli antichi aveva il significato di avvenire e quindi di futuro, tanto che il filo avvolto sul
fuso rappresenta il passato, come suggerisce un passo dello Pseudo Apuleio tratto dal De
mundo:5
[…] Tutto quello che è già stato ultimato nel fuso è l’immagine del tempo passato; quello che è ritorto
dalle dita, indica il periodo presente; quello che non è stato ancora estratto dalla conocchia e sottoposto
al lavoro delle dita, è l’immagine del futuro, del susseguirsi dei secoli a venire. […]

Questa tradizione è stata ripresa nel vii secolo da Isidoro di Siviglia, fino ad arrivare ai mitografi
rinascimentali. In particolare col tempo si è andata ad instaurare una corrispondenza tra queste
tre fasi di lavorazione del filo, fasi che nell’antichità coincidevano con le mansioni delle figure
del destino (vale a dire le Moire in Grecia e le Parche a Roma), e le categorie temporali. Nelle
Etimologie di Isidoro si legge infatti:6

1 Klibansky, Panoksky, Saxl, Saturno e la melanconia, cit., p. 275. 2 Ibidem.


3 Per quanto concerne il rapporto filatura/tessitura e mondo femminile si vedano i seguenti studi: Françoise Fron-
tisi-Ducroux, Trame di donne. Arianna, Elena, Penelope…, traduzione a cura di Sara Puggioni, Costabissara (Vicenza), Col-
la, 2010; Saverio Gualerzi, Penelope o della tessitura. Trame femminili da Omero ad Ovidio, Bari, Palomar, 2007; Maurizio
Bettini, Nascere. Storie di donne, donnole, madri ed eroi, Torino, Einaudi, 1998, pp. 92-97; Valeria Andò, L’ape che tesse: sa-
peri femminili nella Grecia antica, Roma, Carocci, 2005.
4 Sylvie Ballestra-Puech, Les Parques: essai sur les figures féminines du destin dans la littérature occidentale, Toulouse,
Editions Universitaires du Sud, 1999, pp. 110-111.
5 Pseudo Apuleio, De mundo, xxxviii , a cura di Maria Grazia Bajoni, Pordenone, Studio Tesi, 1991.
6 Isidoro di Siviglia, Etimologie, viii, 11, 92, a cura di Angelo Valastro Canale, Torino, utet, 2006.
melancholia al femminile 99

Si immaginano tre divinità fatali che svolgono un filo di lana servendosi di una rocca, di un fuso e delle
dita, simbolo dei tre diversi aspetti del tempo: il passato, già filato e avvolto sul fuso; il presente, che passa
fra le dita della filatrice; il futuro, nascosto nella lana assicurata alla rocca e che deve essere ancora portato
dalle dita della filatrice al fuso, come presente rispetto al passato.

Si potrebbe quindi supporre che la scelta di tali attributi per indicare il temperamento melan-
conico e l’età dell’uomo adulto vicino alla vecchiaia sia stata influenzata dai significati simbolici
delle categorie temporali, che, come abbiamo poc’anzi accennato, derivano dalla nuova acce-
zione che le figure del destino rivestono a partire dalla tarda antichità.
Altra testimonianza interessante è costituita dall’iconografia del temperamento melanconi-
co che si ritrova nel primo calendario tedesco di Augsburg, risalente al 1480 circa, in quello di
Strasburgo del 1500 e nel manoscritto di Zurigo. Questo modulo iconografico si componeva
delle seguenti scene: sanguineus, una coppia di innamorati che si abbracciano; colericus, un uo-
mo che picchia la moglie; melencholicus, una donna che si addormenta sulla sua conocchia (op-
pure intenta al lavoro, come nel manoscritto di Zurigo) e un uomo nel fondo addormentato,
in genere ad un tavolo, ma talvolta a letto; phlegmaticus, una coppia che sta facendo musica.1
Soffermiamoci sul temperamento melanconico, in cui notiamo la compresenza di due scene fi-
gurative opposte fra loro, ossia attività e inoperosità. L’aspetto bipolare della melanconia era
noto a partire dall’antichità: nel Problema xxx,2 Aristotele esplicita il duplice aspetto, e quindi
effetto, della bile nera; a seconda di un’alterazione temporanea e qualitativa dell’umore melan-
conico, quali un eccesso di caldo o freddo, un individuo si può ritrovare in preda alla pazzia o
alla depressione, in due stati d’animo totalmente opposti.3 Allo stesso modo Orazio parlava di
«strenua inertia»,4 il corrispettivo di quella che oggi in psicologia viene definita “depressione
ansiosa”.5 Il torpore smanioso è così costituito dall’artista che medita, che ha la mente satura
di pensieri e che quindi è preso dall’immobilità prima della creazione.6 Nelle immagini suddet-
te, la parte attiva del temperamento melanconico si distingue per la presenza di attributi quali
il filatoio, il filo e il gomitolo; nella sua Iconologia, Cesare Ripa, scrive che il pensiero intricato
suole essere rappresentato come un filo:7
Uomo vecchio, pallido, magro, e malinconico, vestito cangiante, con capelli rivolti in su, con un par d’ali
al capo et alle spalle, averà appoggiato la guancia sopra alla sinistra mano, e con la destra terrà un viluppo
di filo tutto intrigato, con un’Aquila appresso. […] Vecchio si rappresenta, per esser i pensieri più scolpiti
e più potenti nell’età vecchia che nella gioventù. […]

Vediamo quindi che nel modulo iconografico del temperamento saturnino ritornano elementi
appartenenti al mondo femminile. Questo aspetto si può riscontrare anche nelle rappresenta-
zioni medievali di vizi e virtù; se infatti ci cimentiamo nell’analisi di alcuni opuscoli illustrati8
tra i quali l’esempio più conosciuto è la Somme le Roi9 scopriamo che l’Accidia, cioè la pigrizia

1 Klibansky, Panoksky, Saxl, Saturno e la melanconia, cit., p. 281.


2 Aristotele, Problemi, xxx, i, a cura di Maria Fernanda Ferrini, Milano, Bompiani, 2002.
3 Oltre Aristotele, si veda anche Cicerone, Tuscolanae disputationes, iii, 11, introduzione a cura di Emanuele Narducci,
traduzione e note a cura di Lucia Zuccoli Clerici, Milano, Rizzoli, 2007.
4 Orazio, Epistole, i, xi, a cura di Mario Ramous, Milano, Garzanti, 1985.
5 Alfonso Traina, Semantica del carpe diem, «Rivista di filologia e istruzione classica», 101, 1973, pp. 5-21.
6 Sul tema del temperamento saturnino legato all’uomo di genio si veda Rudolf Wittkower, Nati sotto Saturno, tra-
duzione a cura di Franco Salvatorelli, Torino, Einaudi, 1968, p. 112.
7 Cesare Ripa, Iconologia, 285.2 Pensiero, a cura di Sonia Maffei, Torino, Einaudi, 2012.
8 Klibansky, Panoksky, Saxl, Saturno e la melanconia, cit., p. 282.
9 «La Somme è un’opera di didattica morale […] destinata ad una lettura privata, innanzi tutto di laici – uomini e, per
quel poco possibile, donne – e poi di ecclesiastici, che se ne servivano, prevalentemente, per la predicazione e l’istruzione
religiosa dei laici: è scritta, pertanto, non in latino, ma in lingua d’oil, ed è illustrata da una serie di quindici miniature,
programmate dallo stesso autore. La sua fortuna è ben testimoniata dalle numerose e immediate traduzioni in molti altri
volgari: delle non meno di tre italiane quella fiorentina, curata intorno al 1310 dal notaio ser Zucchero Bencivenni, ebbe
la maggior diffusione», Paola Supino Martini, De regimine principum e Somme le Roi: tipologie librarie e lettori, in Libro,
100 stefania santoni
e la noia di ben fare, è illustrata in una forma
che attesta la derivazione della nostra imma-
gine del melanconico.1 Fra i vizi compresi nel-
la nozione di ‘Accidia’ si trattava di scegliere il
più adatto ad essere illustrato e questo fu l’i-
nosservanza del dovere del lavoratore e del
pregare. Le illustrazioni della Somme le Roi
mostrano quindi un aratore addormentato
con la testa sulla mano, che ha abbandonato
l’aratro in mezzo al campo preferendo dedi-
carsi all’ozio; contrapposto a lui troviamo la
rappresentazione del negotium, ovvero un
seminatore dedito al lavoro. A questo punto è
rilevante segnalare che in una xilografia del
Narrenschiff di Brant, nell’edizione del 1494, re-
lativa ai vizi della Pigrizia e dell’Indolenza, In-
Fig. 1. Pittore di Penelope, schyphos dolenza mantiene il diligente seminatore della
(Chiusi, Museo Archeologico). Somme le Roi come contraltare virtuoso, però
sostituisce all’aratore addormentato la con-
sueta filatrice, indicata come Acedia.2
È importante ora notare che nell’editio princeps del 1593 dell’Iconologia di Ripa, alla voce
‘Accidia’ viene riportato quanto segue:3
Donna a sedere, vestita di color negro, di panni stracciati et terrà ambe le mani alla cintola et il capo chino;
havrà appresso un paio di forbice, con un pezzo di panno et un gomitolo di filo gettati per terra.

Da questo passo si riscontra ancora una volta la presenza di attributi femminili relativi al
modulo iconografico del temperamento melanconico. Quindi, vista la frequente presenza di
strumenti che contraddistinguono da sempre una delle mansioni tipiche della donna nell’anti-
chità, possiamo supporre che vi sia un legame fra femminilità e malinconia.
Procediamo ora con la seconda tematica del nostro saggio, vale a dire del motivo della testa
reclina.
Le attestazioni del gestus melancholicus4 si riscontrano a partire dal v secolo a.C. in ceramiche
e sculture greche. Queste sono associate a una celebre tessitrice del mondo classico, Penelope
(Fig. 1): in uno schyphos del 420 a.C., ora al museo archeologico di Chiusi, si vede la moglie di
Ulisse con il figlio Telemaco e alle spalle il telaio, che medita pensosa con la mano appoggiata
all’orecchio.5 Penelope pensa, è tormentata dalla sua eccessiva sensibilità, desidera qualcosa di
lontano, proprio come Ulisse che piange seduto sul lido dell’Isola di Calipso e prova nostalgia
per la sua Itaca.6 Moglie e marito, pur separati dalle vicende mitiche, sono comunque accomu-

scrittura, documento della civiltà monastica e conventuale nel basso medioevo (secoli xiii-xv ) a cura di Giuseppe Avarucci, Rosa
Marisa Borracini, Giammario Borri, Spoleto, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, 1999, p. 286.
1 Per approfondire il legame tra accidia-malinconia si veda Georges Minois, Storia del mal di vivere: dalla malinconia
alla depressione, traduzione a cura di Manuela Carbone, Bari, Dedalo, 2005, pp. 35-47.
2 Klibansky, Panoksky, Saxl, Saturno e la melanconia, cit., p. 283.
3 Il passo è stato tratto da Ripa, Iconologia, cit., nota 9, pp. 622-623.
4 Per quanto riguarda il gestus melancholicus si tengano in considerazione i seguenti studi: Salvatore Settis, Immagini
della meditazione, dell’incertezza, del pentimento, «Prospettiva», 2, 1975, pp. 4-18; Paul Zanker, La maschera di Socrate. L’im-
magine dell’intellettuale nell’arte antica, traduzione a cura di Francesco De Angelis, Torino, Einaudi, 1997; Musa pensosa:
l’immagine dell’intellettuale nell’antichità, a cura di Angelo Bottini, Milano, Electa, 2006.
5 Maffei, La malinconia, cit., pp. 166-167.
6 Omero, Odissea, a cura di Vincenzo Di Benedetto, Milano, Rizzoli, 2010, v, vv. 150-158, «[…] Lo trovò / seduto sul
lido: né mai i suoi occhi erano asciutti / di lacrime: la dolcezza del vivere si dissolveva nel pianto / per il ritorno, perché
non gli piaceva più la ninfa. / Certo la notte dormiva sempre, per forza, / nella cava spelonca, controvoglia accanto a lei
melancholia al femminile 101
nati dalla stessa patologia: conoscenza, intro-
spezione, memoria li portano ad essere perso-
naggi melanconici. Come spiegare il motivo
del gestus melancholicus o, per dirla in termini
warburghiani, la Pathosformel della mano al
volto?1
Nel mondo antico la memoria era associata
ad una parte del corpo, più precisamente
all’orecchio. Infatti Plinio il Vecchio racconta
che quando si tocca l’orecchio, si chiama qual-
cuno a testimone.2 Lo studioso del mondo
antico Maurizio Bettini ha messo in luce nu-
merose testimonianze in cui ricorre il collega-
mento fra memoria e orecchio:
Virgilio nelle Ecloghe racconta per esempio che
Apollo rivolgendosi a lui “aurem vellit et admonuit”
mi tirò l’orecchio e mi ammonì. Il poeta infatti si Fig. 2. Pittore del Primato, Elettra, cratere
era dimenticato che il suo compito era quello di (Napoli, Museo Archeologico Nazionale).
scrivere poesia bucolica, di pascere le pecore e di
cantare un carme deductum. Invece si era messo in testa di celebrare re e battaglie dimenticando il vero
compito del poeta bucolico. Ecco allora che il dio, tirandogli un orecchio, intese farglielo ricordare (ad-
monere). Anche Seneca si augurava per parte sua che “ci fosse un qualche custode che all’occasione ci tiri
le orecchie, allontani da noi le chiacchiere e protesti contro le lodi della folla”. Toccare le orecchie, tirarle,
costituiva la traduzione gestuale dell’admonere, del far ricordare. […] Dunque il lobo dell’orecchio è la se-
de della memoria. Ci troviamo quindi di fronte a una manifestazione di quella anatomia simbolica che fa-
ceva corrispondere le facoltà o i sentimenti dell’animo a determinate parti del corpo. […] Plutarco ci as-
sicura infatti che il canale dell’udito sarebbe direttamente collegato alla psyché, all’anima.3

Ma torniamo al gestus melancholicus.


Il motivo della testa reclina conosce fin da subito una vasta e duratura fortuna nelle figure
femminili del mondo classico; per far sì che ogni eroina raffigurata in atteggiamento pensoso
fosse riconosciuta, le viene affidato uno specifico attributo; riportiamo quindi alcuni esempi si-
gnificativi. Elettra è caratterizzata dalla urna del padre Agamennone che regge sulle ginocchia
davanti alla tomba di lui (Fig. 2); Medea porta invece sulle ginocchia, nella pittura pompeiana,
la spada con la quale ucciderà i figli. Canace ha lo stesso atteggiamento pensoso di Penelope,
quando medita il suicidio dopo che il padre ha scoperto il suo amore incestuoso per il fratello.
E lo stesso vale per Alcesti, rappresentata mentre sta meditando se offrire la sua vita in cambio
a quella del marito.4
Lo stesso modulo iconografico si ritrova anche in Polimnia (Fig. 3), Musa della poesia inno-
logica: la Musa riflessiva con la mano al volto rimanda alla dimensione dell’interiorità, del pen-
siero profondo e continuo; non a caso, quando le nove Muse prendono il posto sulle nove sfere
cosmiche, a lei viene affidato il pianeta Saturno.5 Tale gesto d’introspezione, malinconia e ab-

che voleva; / ma di giorno, seduto sugli scogli e sulle rive, / con lacrime e gemiti e dolori lacerandosi il cuore, / guardava
spesso il mare inconsunto, e lacrime versava».
1 Per quanto riguarda il termine Pathosformel si veda Aby Warburg, La rinascita del paganesimo antico, a cura di Gertrud
Bing, traduzione a cura di Emma Cantimori, Firenze, La Nuova Italia, 1996.
2 Plinio il Vecchio, Naturalis historia, xi, 251, traduzione e note a cura di Alberto Borghini, Elena Giannarelli, Ar-
naldo Marcone, Giuliano Ranucci, Torino, Einaudi, 1983.
3 Maurizio Bettini, Le orecchie di Hermes: studi di antropologia e letterature classiche, Torino, Einaudi, 2000, pp. 47-48.
4 Settis, Immagini della meditazione, cit., p. 16.
5 Monica Centanni, Malinconica Polimnia. La “Musa pensosa” come figura del pathos dell’intellettuale, in Musa pensosa,
cit., pp. 151-161.
102 stefania santoni

Fig. 3. Agostino Penna, Polimnia, 1780


(Parigi, Musée du Louvre). Fig. 4. Fedra, Manoscritto delle Heroides, xv secolo.

bandono si ritrova anche in alcune miniature medievali realizzate da Robinet Testard che ac-
compagnano la traduzione francese delle Heroides per opera del poeta Octavien de Saint-Gelais,
come ad esempio quella in cui vi figura Fedra (Fig. 4).
Questa lunga tradizione iconografica continua così ininterrottamente dall’antichità alle mi-
niature medievali, fino ad arrivare alla nostra Melencolia I. Abbiamo quindi visto che nell’icono-
grafia antica il gesto di riportare la mano al volto, carico di un’altissima componente emotiva
e drammatica, connota atteggiamenti di chiusura riflessiva e di colloquio interiore. La mano
sull’orecchio della figura assorta nel pensiero ci ricorda che il malinconico è tormentato dal suo
stesso sapere, «dalla sua troppo acuta sensibilità».1 Ma è proprio grazie a questo disagio, a que-
sta «sacra insoddisfazione»2 che si garantisce una propensione alla ricerca continua, alla medi-
tazione costante: dalla noia scaturisce la progettualità che porta il melanconico a percorre nuo-
ve via del sapere.
Passando in rassegna alcune figure femminili catturate nel momento del ricordo e del pen-
siero più profondo abbiamo quindi visto quale stretto legame vi sia fra femminilità e malinco-
nia; forse per questo Jean Clair nella sua mostra intitolata Melancholie ha posto il vaso di Pene-
lope e Telemaco all’inizio del percorso, proprio per indicare che all’origine del motivo della
testa reclina vi è una donna.3 Ma il gestus melancholicus non è l’unico aspetto femminile della

1 Ivi, p. 156. 2 Gertrud Bing, Aby M. Warburg, «Rivista storica italiana», lxxii, 1960, pp. 100-113.
3 Frontisi-Ducroux, Trame di donne, cit., p. 79.
melancholia al femminile 103
nostra incisione. Fili, conocchie e filatoi che abbiamo trovato nelle rappresentazioni del tem-
peramento malinconico rimandano alla parte creativa del genio, che non può sussistere senza
la sua parte meditativa e pensosa; negotium ed otium convivono in una sola immagine: la solerte
filatrice e l’eroina meditabonda si incontrano e diventano retaggio al femminile della Melencolia
I di Dürer.
EFFI G I E S ME LA N CH OL I A E : LA POE S IA D I PE T RARC A
Lau r a A n ton e lla Pir as
In the volume Problemata xxx, 1 (attributed to Aristotle) melancholy was seen for the first time as a force that could
lead the scholar, the poet and the man of genius to the sublime world of ideas. The black bile – considered previously
as the primary cause of different pathologies – became the dark source of genius that could provide the melancholic
individual with unique intellectual abilities. A real understanding of the Problem nevertheless was not achieved un-
til Humanism, when the theories elaborated in the pseudo-aristotelic work were resumed and further developed. Al-
though it was allegedly related to the intellect, melancholy was confined to an ambiguous position up to the fifteenth
century, when it was still seen as in-between psychological predisposition and illness, in-between sin and damna-
tion. Poetry defined the narrow difference between illness and Stimmung, especially in the works by Petrarch. In-
deed, the fourteenth-century poet depicts all of the contradictions and insecurities of an age of transition, but he
also portrays the birth of a sensibility and ability to interpret and describe the world in novel terms. For the first
time in Italian and European literature, poetry thus becomes a stage for the soul of the author, a stage on which
melancholy is represented in its various appearances. Petrarch was in fact one of the first poets who considered him-
self as a man of genius; he thought that his own poetical inspiration derived from an exaltation bordering on mad-
ness. His poetry is apparently born out of that divine furor that could possess an author, out of a melancholy that
was then interpreted as the source of the highest spiritual exaltation. This essay argues that Petrarchan poetry at-
tempts to be a representation of the author’s melancholy, as is the case of Dürer’s picture.

«Perché tutti gli uomini eccezionali, nell’attività filosofica o politica,


artistica o letteraria, hanno un temperamento melanconico – ovvero
atrabiliare – alcuni a tal punto da essere persino affetti dagli stati
patologici che ne derivano?»1
Problemata xxx, 1

el libro Problemata xxx, 1 la melanconia fu descritta, per la prima volta, come una forza
N capace di condurre lo studioso, il poeta, l’uomo di genio fino alle mete sublimi del mondo
delle idee. Questo libro, attribuito ad Aristotele, rivoluzionò profondamente il modo di vedere
e di sentire la melanconia: sostenendo che questa fosse un requisito particolare dell’uomo di
genio, l’autore tentò di affrancarla dalla sua sfera meramente patologica e, in qualche misura,
le conferì una nobiltà che non aveva avuto precedenti nella letteratura filosofica e medico-scien-
tifica del tempo. Con lo pseudo-Aristotele, infatti, la bile nera, vista, nelle epoche precedenti,
come causa primaria di diverse patologie, divenne la fonte oscura del genio, capace di conferire
al “melanconico per natura” una forza d’ingegno che gli altri individui non potevano possedere.
Una vera comprensione del Problema, però, non si ebbe fino all’Umanesimo, periodo durante
il quale, come possiamo leggere dalle pagine di Marsilio Ficino, furono riprese e portate a nuovi
sviluppi le teorie contenute nell’opera pseudo aristotelica. Fino a quel momento, per tutta l’e-
poca latina e medievale, la melanconia, pur mantenendo il suo legame con la sfera intellettuale,
restò ingabbiata in una dimensione di ambiguità: in bilico tra predisposizione psicologica, ma-
lattia, peccato e dannazione divina. Più di qualsiasi altra arte, sarà la poesia a segnare il sottile
discrimine tra malattia e Stimmung e sarà proprio Petrarca a indicare la nuova via.
Figura di snodo tra il Medioevo e il Rinascimento, Petrarca mostra, nelle sue opere, tutte le
contraddizioni e le incertezze di un’epoca di transizione, ma anche la nascita di un modo di sen-

Laura Antonella Piras, laurapiras85@live.it


1 Aristotele, La “melanconia” dell’uomo di genio, a cura di Carlo Angelino, Enrica Salvaneschi, Genova, Il Melangolo,
1981, p. 11.
106 laura antonella piras
tire e di una maniera di interpretare e descrivere il reale totalmente nuovi. Per la prima volta,
nella storia della letteratura italiana ed europea, la poesia si fa palcoscenico dell’anima del suo
autore e si fa pura rappresentazione della melanconia, nelle sue più svariate declinazioni, tanto
che lo storico Daniello Bartoli, nel 1600, indicò Petrarca quale autentico padre della melanconia
italica.
La poesia di Petrarca, come l’opera di Dürer, tenta di farsi figuratio della melanconia del suo
autore, in uno sforzo di rappresentazione che, in Petrarca, non ha cornice, né spazio, ma è in-
goiata dall’ingombrante presenza dell’Io. Il poeta è stato forse il primo di una categoria di uo-
mini consapevoli del proprio genio ed è stato capace di descrivere i propri trasporti poetici co-
me frutto di un’esaltazione che sfiora il confine della pazzia:
Una certa forza d’animo divina
esiste nei poeti,
lo ammetto, la mente esaltata può uscire di senno;
proiettata al di sopra di sé, canterà nobilmente…
ritenne non esistere
alcun ingegno, se non mescolato alla pazzia.1

La sua poesia appare, a tutti gli effetti, creatura di quel furor divino che invasa i poeti, di quella
melanconia considerata, in senso aristotelico e rinascimentale, come la sorgente della più alta
esaltazione spirituale.
Egli chiamò la propria melanconia col nome medievale di accidia e la descrisse come una ve-
ra e propria malattia che colpisce l’anima e la tormenta, uno stato che lo perseguitò di giorno
e di notte e dal quale egli trasse disperata voluttà. Incapace di placare il proprio tormento, il
poeta riuscì a trovare consolazione e pace attraverso gli studi. Un ruolo molto importante nella
sua vita è rivestito dalla filosofia che il poeta apprende dalle pagine di Cicerone, Seneca, Boezio
e Sant’Agostino. Opere che Francesco lesse non solo per trovare consolazione ai propri tormen-
ti e risposte alle proprie inquietudini, ma anche per crearsi una serie di valori etici e morali ai
quali votare e ispirare la propria esistenza. In queste opere la filosofia viene rappresentata come
cultura animi, medicina, salvezza e le lezioni di questi autori gli permetteranno di mettere a pun-
to una vera e propria terapia per il proprio animo inquieto.
Il Secretum scritto sulla scorta di questi illustri maestri è uno splendido esempio di terapeutica
morale e una vera e propria esortazione alla filosofia volta a liberare l’animo dai suoi tormenti.
Il primo libro si incentra sull’esame di una delle malattie morali che colpiscono il poeta: la sua
noluntas, il suo confondere il non potere con il non volere; il secondo libro è dedicato all’analisi
dei peccati di cui Francesco si è macchiato, svolta sulla base dei sette vizi capitali, soffermandosi
in maniera particolare sull’accidia. Francesco tenta di individuare le cause di questo male per
cui tutto appare aspro, doloroso e orrendo e aperto solo alla disperazione, e le individua nel
sommarsi di diversi fattori: la miseria della condizione umana, la memoria degli affanni passati
e il timore dei venturi. Il suo male non ha nessuna causa oggettiva, appare come una tristitia
sine causa dalla quale l’ammalato sembra del tutto incapace di liberarsi.2 Questa tristezza nasce
dal prevalere di un’istanza annidata nel suo animo: un impulso autodistruttivo che nell’accidio-
so domina sull’istinto di vita. Tra i sintomi dell’accidia c’è infatti il disgusto della vita. Soffer-
marsi sulle minacce che pesano sull’integrità dell’esistenza: malattie, morte, disastri e colpe
porta l’accidioso a dipingere la propria vita utilizzando colori scuri, tinte nere, funeste, morti-
fere.3 L’accidia si configura, in questo modo, come un disordine dell’animo con se stesso, un

1 Francesco Petrarca, Epistola metrica a Zoilo, i, v. 167, cit. in Raymond Klibansky, Erwin Panofsky, Fritz
Saxl, Saturno e la melanconia. Studi su storia della filosofia naturale, medicina, religione e arte, trad. it., Torino, Einaudi, 2002,
p. 234.
2 Cfr. Patrizia Scanu, Lo specchio della vera conoscenza. Saggio sul Petrarca filosofo morale, Cavallermaggiore (Cuneo),
Gribaudo, 1993, p. 43.
3 Cfr. Giuseppe Roccataglia, L’immagine nera. Riflessioni sulla malinconia, Roma, Borla, 1992, p. 27.
effigies melancholiae : la poesia di petrarca 107
sibi displicere, per dirla con Seneca, che comporta o un blocco della volontà che genera tedio,
prostrazione, letargia o un’oscillazione della volontà che genera ansia e perenne instabilità: «Io
non mi vergogno della mia condizione, ma mi rincresce e mi rammarico dei tanti tormenti che
mi fanno, per usare le parole di Orazio “trepidare e oscillare nelle speranze di un incerto do-
mani”». Se mi togliesse quest’apprensione, quanto posseggo mi basterebbe a sufficienza […] io
invece, sempre ansioso del futuro, sempre con l’animo in sospeso non so godere della dolcezza
dei doni della fortuna».1 È un’istanza bipolare per la quale l’ammalato è in preda a continue
oscillazioni dell’animo, che lo vedono sempre in bilico tra abbattimento ed esaltazione.
Un’altra caratteristica di questo male è la voluttà quasi viscerale e, in qualche modo potrem-
mo dire perversa, che porta con sé un oscuro piacere nell’assistere alla vittoria della pulsione
di morte sulla pulsione di vita: «E – cosa che può ben dirsi il colmo delle miserie – mi pasco
talmente di lacrime e di dolore, e con una voluttà così funesta, che me ne stacco poi a malin-
cuore».2 La voluptas dolendi che caratterizza questo male dell’anima si configura come un pec-
cato di hybris: essa non è altro che il godimento della propria sofferenza, una condizione in cui
la volontà dell’io assume una direzione perversa che lo porta a crogiolarsi nella propria tristezza
e a ripiegarsi in narcisistica auto contemplazione. La tristitia del soggetto rischia in questo mo-
do di diventare superba persuasione che nulla, nemmeno la grazia divina, sia in grado di solle-
varlo dalla miseria in cui si sente sprofondato.3 Così Agostino esorta il discepolo a riflettere sulla
condizione umana e a tenere presenti gli insegnamenti dei filosofi per trarne, oltre che insegna-
mento, giovamento:
Hai sull’argomento un’epistola di Seneca tutt’altro che inutile; sempre di Seneca hai il trattato sulla Tran-
quillità dell’animo, e ancora, sul modo di guarire in tutto da questa malattia dello spirito, hai l’eccellente
libro che Cicerone dedicò a Bruto, desumendolo dal terzo giorno delle Conversazioni tenute nella sua
villa di Tuscolo […] ogni volta che nella lettura ti si presentano massime salutari, dalle quali ti senti frenare
o eccitare l’animo, non fidarti della forza della tua intelligenza, ma nascondile nei recessi della memoria
e fa’ che ti diventino familiari con uno studio continuo, sicché, come abitudine dei medici esperti, ogni
qual volta e in qualunque luogo ti insorga una malattia che non consente dilazione, tu abbia le cure, per
così dire scritte nell’animo.4

Con l’aiuto di Seneca e Cicerone Francesco dovrà vincere la dura battaglia contro l’accidia, e
Agostino gli offre gli strumenti per combatterla: «Con un aiuto siffatto potrai resistere salda-
mente tanto alle altre passioni quanto all’accidia, che soffoca, come un’ombra funestissima, il
seme delle virtù e il frutto dell’intelletto; quell’accidia in cui, come dice con eleganza Cicerone
«è la sorgente e la radice di tutti i mali».5
Il terzo libro è incentrato, invece, sulle due grandi catene mortali che trattengono il poeta:
l’amore per Laura e la sua sete di gloria. Dal dialogo emerge che l’amore per Laura e le opere
storiche che gli avevano fatto conquistare la corona d’alloro e dunque la gloria poetica sono di-
ventate cause di alienazione del soggetto. L’Africa e il De viris illustribus sono fonte soltanto di
stanchezza e frustrazione (Petrarca non riuscì mai a portarle a termine) e poi parlano di altri,
sono scritte per altri. Il poeta storico agisce proprio come l’innamorato: vive per altri e pensa
per altri. Come sostiene Sant’Agostino nel Secretum: Francesco deve tornare in sé, restituire sé
a se stesso. Ed è proprio quello che Francesco promette alla fine del Secretum: «Sarò presente a
me stesso quanto potrò raccoglierò gli sparsi frammenti dell’anima mia e dimorerò in me con
attenzione».6
È, di certo, chiaro ed evidente il riferimento ai fragmenta del Canzoniere. L’atto di tornare in
se stesso si configura come processo di individuazione reintegrazione e riappropriazione del
sé. Esso coinvolge, dunque, sia la sfera privata e intima dell’uomo Francesco, sia quella pubblica

1 Ivi, p. 179. 2 Francesco Petrarca, Secretum, a cura di Ugo Dotti, Milano, Rizzoli, 2000, p. 165.
3 Cfr. Scanu, Lo specchio della vera conoscenza, cit., p. 46. 4 Petrarca, S ecretum, cit., p. 187.
5 Ivi, p. 193. 6 Ivi, p. 319.
108 laura antonella piras
e artistica del poeta Francesco: l’atto creativo si riveste di speciali ed uniche finalità: difendere
l’io dall’alienazione e permettergli di agire come egli si sente davvero di essere. Questo proces-
so di reintegrazione si realizza nell’atto di riscriversi sotto il segno di un nuovo impegno intel-
lettuale ed etico. Un uomo nuovo e più consapevole del passato, dunque, si esibisce nelle opere
che compongono la sua autobiografia ideale: Il Secretum, le Epistole e il Canzoniere. Nelle lettere
Petrarca parla, come nel Secretum e nel Canzoniere, di sé; mettendo al centro delle sue opere il
proprio io, il poeta si presenta, così, come l’interprete dell’individualità. Si tratta di un’indivi-
dualità nuova, contrassegnata dalla complessità, dalla conflittualità interna e da una profonda
inquietudine psicologica e morale.
Come scrive Loredana Chines, uno dei tratti fondamentali dell’inquietudine petrarchesca è
sicuramente la sua incapacità di star fermo. Nel fluire dei libri dell’Epistolario si percepisce l’im-
magine di un esule, uno sradicato che viaggia a lungo, incapace di stare fermo in un luogo e
incapace di trovare quiete:
Vengo a sapere che tu ti meravigli ch’io vada vagando qua e là e in nessun luogo stabilmente mi fermi, e
sembri che non sia riuscito a trovare una dimora definitiva; che dopo aver trascorso appena un anno in
Italia, per altri due vado facendo la spola dalla Francia in Italia e dall’Italia in Francia […] Conosco la verità
di quel detto di Seneca, “primo indizio di una mente sana essere il sapere star fermo e trattenersi con se
medesimo” […] Sarebbe ormai tempo che all’araldo dell’animo mio io decessi quel che al suo disse quel
centurione romano: “araldo, pianta l’insegna; qui staremo ottimamente” […] Ma che fare? Mi creda
chiunque ha fiducia in me: se sotto il cielo mi fosse dato trovare un luogo qualunque non dirò buono, ma
non cattivo, o almeno non pessimo, volentieri e per sempre mi fermerei; ma ora come in un duro giaciglio
io mi volto e mi rivolto, né con tutta la buona volontà riesco a trovare il bramato riposo; e così alla mia
stanchezza, non potendo con la morbidezza del letto, provvedo col continuo mutare; vado vagando e
sembro un eterno viandante.1

Questa continua ansia di cambiare luoghi non nasce tanto dal desiderio di rivedere i posti amati,
mille volte visti, quanto dal tentativo di porre rimedio alle angosce del suo spirito, mutando
luogo. Inquieto viaggiatore alla ricerca di se stesso, egli si sente come Ulisse, ma con la diffe-
renza che Ulisse lasciò la sua patria già vecchio, mentre Francesco una patria vera non l’ebbe
mai: «Si può paragonare l’errare di Ulisse al mio errare, e senza dubbio, se la gloria del nome e
delle imprese fosse la stessa, egli non vagò né più a lungo né più largamente di me. Egli lasciò
la patria già vecchio […] io generato nell’esilio, nell’esilio nacqui».2
A Ulisse, il poeta si sente affine perché, come lui, vaga senza sosta spinto dalla propria
curiositas:3 «poteva vivere in pace Ulisse, se l’insaziabile desiderio di conoscere non l’avesse
spinto per tutti i mari e per tutte le terre».4 Il viaggio assume, così, in Petrarca un significato
molto profondo: Nella Familiare xv 4 il poeta ammette che l’irrequietudine e la curiositas pos-
sano essere sintomi di una malattia dell’animo, ma ne indicano anche l’origine divina, il fuoco
celeste.5 Viaggiare, infatti, significa anche indagare la natura più intima dell’uomo e conoscere
se stessi.6
È proprio ciò che avviene nella celebre Familiare iv 1 a Dionigi da Borgo San Sepolcro, in cui
Petrarca racconta l’ascesa al monte Ventoso compiuta in compagnia del fratello Gherardo. La
scalata, irta di difficoltà, si trasforma in ascesi interiore che apre nuovi orizzonti di riflessione
sull’esistenza, intesa anch’essa come peregrinatio verso vette più alte. Lo spazio e il tempo si tra-
sformano in dimensioni interiori. Quello descritto da Petrarca, in questa lettera, è uno scenario
melanconico. La melanconia che caratterizza la condizione di Petrarca non coinvolge mai, nella

1 Francesco Petrarca, Familiare xv 4, in Idem, Lettere dell’inquietudine, a cura di Loredana Chines, Roma, Carocci,
2004, pp. 143-147. 2 Francesco Petrarca, Familiare ii, in Idem, Lettere dell’inquietudine, cit., p. 47.
3 Cfr. Loredana Chines, Introduzione a Francesco Petrarca, Lettere dell’inquietudine, cit., p. 25.
4 Francesco Petrarca, Familiare xiii 4 10, in Idem, Lettere dell’inquietudine, cit., p. 25.
5 Sulla natura divina dell’anima cfr. Petrarca, Secretum, cit., p. 103.
6 Cfr. Ugo Dotti, Vita di Petrarca, Roma-Bari, Laterza, 2004, p. 444.
effigies melancholiae : la poesia di petrarca 109
sua visione, il mondo creaturale. Essa diventa una sonda per calarsi nella profondità del proprio
animo, senza consentire mai al soggetto di aderire veramente al mondo circostante.1
Quello che domina la vista è il paesaggio del suo animo, che, una volta raggiunta la cima del
monte, viene guardato dall’alto di una raggiunta consapevolezza. Il tempo durante la salita da
chronos si trasforma in kairos: è il tempo di Dio, il tempo propizio per fare una scelta. Il tempo
della vetta è aion: il tempo dell’eterno, un tempo che si frantuma nell’esperienza del sublime,
e nella scoperta che nulla c’è di tanto alto quanto l’animo umano. Nell’epistola Petrarca sottrae
l’io allo spazio e al tempo per mantenerlo immobile nella vetta dell’eternità; la montagna, di-
mensione tra terra e cielo, tra umano e divino, diventa il palcoscenico migliore per dichiarare
la grandezza del proprio io.
Anche gli spazi fisici descritti nel Canzoniere, quasi come paesaggi onirici, sono pervasi dalla
bellezza dell’insensibile e dell’immateriale. Essi tendono a perdere i loro contorni reali per di-
ventare luoghi letterari deputati ad esprimere gli stati d’animo dell’io lirico. Il paesaggio si tra-
sforma in spazio mentale, luogo delle epifanie di Laura, e quindi simbolico e fantasmatico allo
stesso tempo. Tutta l’opera, inoltre, appare segnata dalla continua riflessione sulla caducità
dell’esistenza umana e scandita dall’oscillazione di dimensioni temporali diverse: passato, pre-
sente e futuro si intrecciano, si alternano e si sovrappongono in maniera inestricabile. Il tempo
del Canzoniere è, con i suoi slittamenti e le sue oscillazioni, ancora una volta, un tempo interio-
re, che supera i confini del tempo reale (chronos) per configurarsi come tempo che segue i ritmi
dell’animo.
La vallata di Valchiusa e le sorgenti del fiume Sorga sono i luoghi prediletti dal poeta. Val-
chiusa si configura come un locus amoenus, un luogo di meraviglie dove il poeta riesce a trovare
quiete e ristoro e in cui ama ritirarsi, in solitudine, per scrivere e dedicarsi agli studi. Petrarca
non smetterà mai di celebrarla:
Nessun luogo al mondo per me più caro della Valchiusa
nessuna contrada più adatta ai miei studi.
In Valchiusa ero stato bambino, e quando vi sono tornato giovane
la valle amena mi ha nutrito nel seno soleggiato.
In Valchiusa ho trascorso, da uomo, dolcemente, gli anni migliori
e il candido stame della mia vita.
In Valchiusa desidero concludere, vecchio, l’estrema stagione
e con la tua guida in Valchiusa morire.2

Valchiusa è anche lo scenario poetico in cui il poeta ambienta le liriche per Laura; lì tutto parla
della donna amata, la donna è sempre irraggiungibile, eppure in quel paesaggio idilliaco il suo
ricordo si carica di immensa dolcezza. Su Valchiusa Petrarca costruisce un vero e proprio mito
e, nelle varie redazioni del Canzoniere, quel luogo tanto amato non perderà mai le sue caratte-
ristiche positive, neppure dopo la morte di Laura. Il fantasma della donna continuerà a mani-
festarsi in quei luoghi e rivivrà nella bellezza della natura:3
ovunque gli occhi volgo
trovo un dolce sereno
pensando: Qui percosse il vago lume.
Qualunque Herba o fior colgo
Credo che nel terreno
Aggia radice ov’ella ebbe in costume
Gir fra le piagge e ’l fiume,

1 Cfr. Carmelo Tramontana, L’ascesa al Monte Ventoso: linee di confine e meditazione, in La letteratura degli italiani: rotte
confini e paesaggi, 2013 (sito web: www. Diraas.it).
2 Francesco Petrarca, Solitudini, in Gabbiani, a cura di Francisco Rico, Milano, Adelphi, 2008, p. 53.
3 Cfr. Marco Santagata, I frammenti dell’anima. Storia e racconto del Canzoniere di Petrarca, Bologna, il Mulino, 1992,
p. 170.
110 laura antonella piras
et talor farsi un seggio
fresco, fiorito et verde.1

Nella vita di Petrarca un ruolo molto simile è rivestito da Selvapiana, vicino a Parma. Anche
questo è un locus amoenus dove il poeta ama ritirarsi; nel Canzoniere però questo luogo si riveste
di caratteristiche completamente diverse da quelle assunte da Valchiusa. Selvapiana è il luogo
dell’esilio amoroso, della nostalgia, del dolore provocato dalla lontananza di Laura.2 Nella Can-
zone Di pensier in pensier, di monte in monte il paesaggio si colora di una struggente malinconia.
Di pensier in pensier, di monte in monte
mi guida Amor, ch’ogni segnato calle
provo contrario a la tranquilla vita.
Se ’n solitaria piaggia, rivo o fonte,
se ’n fra duo poggi siede ombrosa valle,
ivi s’acqueta l’alma sbigottita;
et come Amor l’envita,
or ride, or piange, or teme, or s’assecura;
e ’l volto che lei segue ov’ella il mena
si turba et rasserena,
et in un esser picciol tempo dura;
onde a la vista huom di tal vista experto
diria: Questi arde, et di suo stato è incerto.
Per alti monti et per selve aspre trovo
qualche riposo: ogni habitato loco
è nemico mortal degli occhi miei.
A ciascun passo nasce un penser novo
de la mia donna, che sovente in gioco
gira ’l tormento ch’ i’ porto per lei;
et a pena vorrei
cangiar questo mio viver dolce amaro,
ch’ i’ dico: Forse anchor ti serva Amore
ad un tempo migliore;
forse, a te stesso vile, altrui se’ caro.
Et in questa trapasso sospirando:
Or porrebbe esser vero? or come? or quando?3

Il poeta ricerca la solitudine di quei luoghi per dedicarsi alla meditazione, ma non riesce a tro-
vare pace, i verdi boschi e la bellezza della natura non riescono a dargli la consolazione sperata.
La sua mente è in preda ad una incessante fluctuatio, immersa in continui pensieri e tormentata
da dubbi e incertezze. L’interiorità del poeta è caratterizzata da una profonda instabilità psico-
logica: al rasserenamento seguono crisi di angoscia; alle illusioni, abbattimenti profondi. Il pae-
saggio si fa teatro di questi stati d’animo instabili e delle illusorie epifanie della donna amata.
Laura, così lontana nella realtà, ma vicina nella memoria, vive nelle valli e nei boschi di quei
luoghi solitari e il suo fantasma non fa che rendere più insopportabile il desiderio.
Tanti altri sono i luoghi della solitudine e della melanconia petrarchesca: «i deserti campi»
sono «i luoghi aspri e selvaggi dell’innamorato che non trova pace»;4 sono i luoghi della solitu-
dine, i luoghi dove si possono liberamente esprimere i dolori nascosti e dove il poeta può con-
sumarsi nelle lacrime della melanconia amorosa.5

1 Francesco Petrarca, Se ’l pensier che mi strugge (cxxv), 1-27, in Idem, Canzoniere. Rerum volgarium fragmenta, a cura
di Rosanna Bettarini, Torino, Einaudi, 2005, p. 577. 2 Cfr. Santagata, I frammenti dell’anima, cit., p. 172.
3 Francesco Petrarca, Di pensier in pensier, di monte in monte (cxxix), 1-27, in Idem, Canzoniere. Rerum volgarium frag-
menta, cit., pp. 623-624. 4 Loredana Chines, Marta Guerra, P etrarca, Milano, Mondadori, 2005, p. 21.
5 Cfr. Roberto Gigliucci, La melanconia, Milano, Rizzoli, 2009, p. 84.
effigies melancholiae : la poesia di petrarca 111

Solo et pensoso i piú deserti campi


vo mesurando a passi tardi et lenti,
et gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio human l’arena stampi.
Altro schermo non trovo che mi scampi
dal manifesto accorger de le genti,
perché negli atti d’alegrezza spenti
di fuor si legge com’io dentro avampi:
Sì ch’io mi credo omai che monti et piagge
et fiumi et selve sappian di che tempre
sia la mia vita, ch’é celata altrui.
Ma pur sí aspre vie né sí selvagge
cercar non so ch’ Amor non venga sempre
ragionando con meco, et io co’ lui.1
L’immagine del poeta che vaga in luoghi solitari ci riporta al mito di Bellerofonte, l’eroe ome-
rico che aveva sfidato gli dei e per questo era stato punito con la condanna a vagare in posti de-
serti e a rodersi il cuore, evitando le vestigia degli uomini. Il poeta, come l’eroe melanconico,
vaga solitario e immerso nei suoi pensieri, evitando i luoghi in cui l’impronta dell’uomo si sia
impressa nel suolo; e lo fa con passi tardi e lenti: la sua andatura non è solo un’immagine poe-
tica, ma è anche un atteggiamento tipico dei melanconici, dei nati sotto Saturno2 e la ricerca
della solitudine per dare sfogo alla propria sofferenza è uno dei tratti caratteristici della melan-
conia. Il sonetto ci immerge, ancora una volta, in una dimensione del tutto interiore, che va al
di là dei confini spazio-temporali reali, e caratterizzata da un paesaggio stilizzato e un tempo
indeterminato. Il fatto narrato si manifesta come «un monologo che prende spunto da un do-
lore imprecisato, una melanconia di cui si sa soltanto che si tratta di una fuga dagli uomini, di
una gioia che si è spenta, di un intimo dolore».3
Come si può notare, la solitudine è vissuta dal poeta in maniera ambivalente: talvolta è su-
bita con dolore, altre cercata per consumarsi furiosamente nella propria voluptas dolendi, altre
ancora è vissuta come condizione necessaria del saggio che si dedica agli studi e alla contem-
plazione. Tutta l’opera di Petrarca, inoltre, è scandita dall’ossessione della fuga del tempo. L’i-
dea stessa della ricomposizione e dell’ordinamento dei fragmenta nasce proprio dal desiderio
di lasciare un’opera capace di vincere l’azione divoratrice del tempo e di sopravvivere al silen-
zio della morte e dell’annullamento. Il tema della fuga temporis costituisce il fulcro narrativo
del sonetto La vita fugge e non s’arresta una hora, uno dei primi componimenti della sessione in
morte di Laura.
La vita fugge, et non s’arresta una hora,
et la morte vien dietro a gran giornate,
et le cose presenti et le passate
mi dànno guerra, et le future anchora;
e ’l rimembrare et l’aspettar m’accora,
or quinci or quindi, sí che ’n veritate,
se non ch’i’ ò di me stesso pietate,
i’ sarei già di questi penser’ fòra.

1 Francesco Petrarca, Solo et pensoso i più deserti campi (xxxv), in Idem, Canzoniere. Rerum volgarium fragmenta, cit.,
p. 189. 2 Cfr. Roberto Gigliucci, La melanconia, Milano, Rizzoli, 2009, p. 83.
3 Hugo Friedrich, Il rapporto tra soggetto e paesaggio. Solo et pensoso: una lettura di Hugo Friedrich, in Romano Luperi-
ni, Pietro Cataldi, Lidia Marchiani, Franco Marchese, La scrittura e l’interpretazione, i-ii, Firenze, Palumbo, 2003,
p. 309.
112 laura antonella piras

Tornami avanti, s’alcun dolce mai


ebbe ’l cor tristo; et poi da l’altra parte
veggio al mio navigar turbati i vènti;
veggio fortuna in porto, et stanco omai
il mio nocchier, et rotte arbore et sarte,
e i lumi bei che mirar soglio, spenti.1

Nel sonetto la vita scivola via, la morte incalza e il tempo è vissuto dal poeta come forza divo-
ratrice che sopprime qualsiasi forma di avvenire. Gli esseri umani sono divorati, proprio come
nel mito, da Chronos che governa il cosmo e contro il quale essi non possono nulla. Il poeta non
trova rifugio in nessuna dimensione temporale reale, il presente, il passato e il futuro sono ine-
stricabilmente intrecciati in una catena d’angoscia che lo strangola giorno per giorno. Ricorda-
re e aspettare: entrambe le azioni sono fonte di tormento per il poeta, fonte di pensieri cupi e
dolorosi: «Se non ch’i’ io ò di me stesso pietate, / i’ sarei già di questi pensier’ fora». L’io si pre-
senta affetto da una crisi talmente profonda e insopportabile che, se non avesse paura della dan-
nazione eterna, sarebbe disposto a mettere fine alla propria vita e liberarsi finalmente da questi
pensieri angosciosi.2 Come fa notare Marco Santagata, tutto questo pessimismo non sembra
provocato da alcuna causa specifica, è una tristezza della quale non è possibile indicare con si-
curezza le cause.3 È accidia, è melanconia. I ricordi sono dolorosi perché riportano alla mente
le dolcezze perdute e le aspettative, perché preannunciano un futuro privo di speranza. Il pre-
sente, il passato e il futuro si mescolano in una visione cupa e sconfortante della vita e il tempo
perde consistenza.
La significazione del tempo e lo stravolgimento della temporalità rappresentano la vera cen-
tralità del vissuto melanconico. Nella melanconia, infatti, i piani temporali si intrecciano per
perdere la loro caratteristica di continuità. Questa frattura colloca l’individuo in una prigionia
nel passato la cui cella non prevede via d’uscita. Intrappolato in questa situazione, il melanco-
nico non trova più lo spazio per progettarsi: il futuro è escluso alla luce di un passato irrime-
diabilmente perduto. Non c’è un dispiegamento del tempo, ma una sua radicale impossibilità
a dispiegarsi. Il presente si annulla, così, in un istante senza fine e il futuro risulta compromesso
e impossibile, in quanto tutto è già accaduto, deciso, compiuto. Il tempo è il più grande nemico
del melanconico poiché consuma la bellezza delle cose terrene e porta con sé il presagio della
morte e dell’annullamento. Il melanconico è, così, costretto all’illusione di un tempo eterno.
Incapace di vivere il presente e stretto nell’alternativa tra la nostalgia e la demoralizzazione,
egli crea una temporalità artificiale, che nega la vera ed effettiva possibilità di una perdita. Que-
sto vale anche per l’amore. Io credo, infatti, che nell’essenza stessa di Laura risieda il sintomo
più specifico della patologia melanconica di Petrarca.
Quello che Petrarca prova per Laura è eros melanconico, qualcosa di diverso dall’amore vero,
da quell’amore che comporterebbe, se si realizzasse, reciprocità e presenza. Laura è il modo
che Francesco adopera per “non amare” e per difendersi da un reale e possibile abbandono. Egli
crea una realtà fittizia dominata da una soddisfazione del desiderio solo allucinatoria, dove non
esistono separazioni reali, dove non esistono perdite reali, perché, come si sa, non si può per-
dere ciò che non si possiede realmente. L’oggetto dell’eros melanconico può esistere soltanto
come illusione e l’amore stesso si configura come «un ambiguo commercio coi fantasmi»4 in
cui il melanconico riesce a far apparire perduto un oggetto inappropriabile.5 È un amore basato

1 Francesco Petrarca, La vita fugge, et non s’arresta una hora (cclxxii), in Idem, Canzoniere. Rerum volgarium frag-
menta, cit., p. 1239.
2 Cfr. Marco Santagata, Accidia, aegritudo, depressione: modernità di un poeta medievale, in santagata.sitonline.it
3 Cfr. Marco Santagata, L’amore in sé, Parma, Guanda, 2006, p. 138.
4 Cfr. Riccardo Dalle Luche, L’amore perverso. Eros melanconico e perversificazione, in Malinconia d’amore. Frammenti
di una psicopatologia della vita amorosa, a cura di Carlo Maggini, Pisa, ets, 2001, pp. 207-247. 5 Cfr. ibidem.
effigies melancholiae : la poesia di petrarca 113
sull’assenza, un’assenza che diventa il principio nutritivo del sentimento e della poesia, un amo-
re eternamente sospeso nella possibilità della concretizzazione, ma che, per vivere, deve restare
irreale ed irrealizzabile. La realizzazione e, quindi, la nascita di una relazione vera e profonda,
probabilmente, avrebbe decretato la fine del sentimento stesso e, probabilmente, avrebbe
impedito la nascita della poesia, una poesia creata per cantare non l’amore, ma l’assenza e la
voluptas dolendi dell’io.
R I SC R I T T URE M A LI N CO N IC HE IN S PAG NA
T RA CI N QUE E S E IC E N TO.
DA A N D R É S V E LÁS QUE Z
A TO M Á S D E M U RI LLO Y VE LARD E
F e li c e Ga mbin
This essay focuses on the representation of the man developed by Tomás de Murillo y Velarde in terms of melancholy
from the materials “stolen” from the first book entirely devoted to the subject, written in a different language than
Latin, i.e. the book of the Spanish doctor Andrés Velásquez (Seville, 1585). Almost a century later, additions and dif-
ferent combinations of the chapters in the work by Velásquez underline, in the book of Murillo y Velarde (Zaragoza,
1672) – a Spanish doctor who took his priestly vows – a melancholy that opens to unusual relationships between spir-
itual dimension and corporeal dimension of the man, to unique therapies to cure it, to herbs and plants from the
New World, never excluding the most effective means of Christian sacraments.

1.

D a tempo non vi sono più dubbi: il primo libro interamente dedicato alla malinconia, scritto
in lingua non latina, è quello del medico spagnolo Andrés Velásquez, stampato a Siviglia
nel 1585, con il titolo Libro de la melancholía.1 Ciò nonostante, quando si scrive sull’importanza
del tema nella cultura occidentale tra Cinque e Seicento, inevitabilmente il riferimento conti-
nua ancora ad andare spesso all’Inghilterra, all’umore nero come «male» tutto inglese, ai suoi
esiti letterari e teatrali, all’Anatomy of Melancholy scritta da Robert Burton nel 1621. Pressoché
all’unisono gli studi ribadiscono che la prima opera interamente dedicata alla malinconia è
quella dell’inglese Timothie Bright, autore nel 1586 di un libro intitolato A Treatise of Melancholy,
seguita da quella di André Du Laurens, medico francese che nel 1597 pubblicò i Discours de la
conservation de la veue; des maladies mélancholiques; des catarrhes et de la vieillesse.
L’umore nero, come sta evidenziando anche una mostra intitolata Tiempos de melancolía.
Creación y desengaño en la España del Siglo de Oro,2 si insinua in svolte decisive dell’assetto cultu-
rale iberico e in molte relazioni di ambasciatori e viaggiatori italiani del Cinquecento e del Sei-
cento i territori degli Asburgo apparivano inospitali a quei mercanti, pellegrini o ambasciatori
che vi andavano; essi ritornavano di gran fretta in Italia, scappando da quelle così brutte e de-
solanti terre popolate di gente malinconica.3

Felice Gambin, Università di Verona, Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere


1 Andrés Velásquez, Libro de la melancholía, edizione di Felice Gambin, Viareggio-Lucca, Baroni, 2002. Si veda anche
Roger Bartra, El siglo de oro de la melancolía. Textos españoles y novohispanos sobre las enfermedades del alma, México, Uni-
versidad Iberoamericana, 1998, pp. 255-372.
2 Prezioso il catalogo di questa mostra itinerante inizialmente allestita a Valladolid, successivamente a Valencia e da
ultimo a Palma de Mallorca, Tiempos de melancolía. Creación y desengaño en la España del Siglo de Oro, a cura di María Bolaños,
Madrid, Turner/Obra social “la Caixa”, 2015.
3 Sull’importanza dell’argomento in ambito ispanico, molto si è scritto negli ultimi anni. Per un primo orientamento,
con utili riferimenti bibliografici, si vedano almeno i lavori di Teresa Scott Soufas, Melancholy and the Secular Mind in
Spanish Golden Age Literature, Columbia and London, University of Missouri, 1990; Christine Orobitg, L’humeur noire.
Mélancolie, écriture et pensée en Espagne au xvi e et au xvii e siècle, Bethesda, International Scholars Publication, 1996; Javier
García Gibert, Cervantes y la melancolía. Ensayo sobre el tono y la actitud cervantinos, Valencia, Editions Alfons el Magnà-
nim, 1997; Bartra, El siglo de oro de la melancolía, cit.; Roger Bartra, Cultura y melancolía. Las enfermedades del alma en la
España del Siglo de Oro, Barcelona, Anagrama, 2001; Felice Gambin, Azabache. Il dibattito sulla malinconia nella Spagna dei
Secoli d’Oro, prefazione di Giulia Poggi, Pisa, ets, 2005 (ma si veda anche l’edizione rivista e accresciuta El debate sobre la
116 felice gambin
Non è neppure casuale, anche se poco noto, che Arturo Farinelli si sia più volte soffermato
nella prima metà del Novecento sul tema e sulla sua importanza in Spagna a margine della let-
tura del libro di Erwin Panof ky e Fritz Saxl, intitolato Dürers ‘Melencolia I’. Eine quellen- und ty-
pengeschichtliche Untersuchung, prima stesura embrionale di quello che è il contributo più ricco
e articolato sulla malinconia nato nell’ambito degli studi warburghiani ad opera di Raymond
Klibansky, Erwin Panofsky, Fritz Saxl, Saturn and Melancholy. Studies in the History of Natural Phi-
losophy Religion and Art.1
Se quest’ultima opera venne finalmente pubblicata nel 1964, un lungo ritardo dovuto alla
guerra, alla fuga degli autori dalla Germania, alla distruzione dei piombi durante i bombarda-
menti, alla morte di Fritz Saxl, avvenuta nel 1948, lo studio di Arturo Farinelli, che si annunciava
già nel 1916 così attento alla malinconia in terra spagnola, non vide mai la luce, a dispetto dei
ripetuti propositi di scriverlo.2 Altre forse sarebbero state le sorti, diverse le prospettive di ricer-
ca e i risultati sul vasto e complesso quadro che la malinconia ha disegnato nell’intera tradizione
europea. In ogni caso, anche Farinelli nelle sue incursioni sulla melanconia in Spagna da una
parte dà per indiscutibile che la malinconia contraddistingue gli spagnoli, dall’altra parte egli si
imbatte, a quello che si intuisce senza rendersene forse conto, sul primo libro del Cinquecento
interamente dedicato al tema in Europa: quello del medico andaluso Andrés Velásquez.
Come ho già mostrato una decina di anni fa nell’edizione critica dell’opera, l’autore del Libro
de la melancholía fu negli ultimi anni della sua vita, tra il 1608 e il 1615, medico del duca di Medina
Sidonia, Alonso Pérez de Guzmán, uno dei personaggi più ricchi e potenti dell’Impero spagno-
lo dell’epoca. Ma è negli anni precedenti, quando egli era salariato della città di Arcos de la Fron-
tera come medico nei suoi operosi bordelli, cioè quando per motivi professionali vagava di po-
stribolo in postribolo in quella città andalusa, che Velásquez mette insieme nel Libro de la
melancholía tutto lo scibile elaborato sul tema dal mondo antico e rinascimentale.
L’imitazione è la forma costitutiva del libro: apes debemus imitari, come loro dobbiamo tra-
sformare quei fiori di diverse esperienze di lettura per ricomporli in qualcosa di nuovo che na-
sconda con arte la fatica del raccogliere e dell’elaborare. In questo modo è possibile ricavare un
distillato in tema di malinconia utile «para la salud y bien público».3 Se da una parte il Libro de
la melancholía testimonia l’interesse che il tema suscita in quegli anni in terra iberica, dall’altra
parte il testo è segnato dal successo che in Spagna e in Europa sta vivendo l’opera, stampata a
Baeza nel 1575, del medico navarrino Juan Huarte de San Juan: l’Examen de ingenios para las cien-
cias, già tradotto in francese e in italiano. Un vero proprio bestseller che alimenterà la cultura
europea per diverse generazioni.4 Le affermazioni dell’Examen de ingenios di Huarte de San Juan

melancolía en la España de los Siglos de Oro, presentación de Aurora Egido, prólogo de Giulia Poggi, Madrid, Biblioteca
Nueva, 2008); Marc Fumaroli, La mélancolie et ses remèdes: la reconquête du sourire dans la France clasique, in Mélancolie génie
et folie en Occident, sous la direction de Jean Clair, Catalogue d’exposition (Paris, Galeries nationales du Grand Palais, 10
octobre 2005 - 16 janvier 2006; Berlin, Neue Nationalgalerie, 17 février - mai 2006), Paris, Gallimard-Réunion des Musées
nationaux - Staatliche Museeen zu Berlin, 2005, pp. 210-224; José María Ferri Coll, Los tumultos del alma. De la expresión
melancólica en la poesía española del Siglo de Oro, Valencia, Editions Alfons el Magnànim - Diputació de València, 2006; Fer-
nando Rodríguez de la Flor, Era melancólica. Figuras del imaginario barroco, Barcelona, Universitat de les Illes Balears,
J. J. de Olañeta, 2007; David José Pujante Sánchez, La melancolía hispana, entre la enfermedad, el carácter nacional y la
moda social, «Revista de la Asociación Española de Neuropsiquiatría», 28, 2008, pp. 401-418; Madness and Melancholy in
Sixteenth-and Seventeenth-Century Spain, Edited, with an Introduction by Elena Carrera, «Bulletin of Spanish Studies», 8,
2010; José Luis Peset, Las melancolías de Sancho. Humores y pasiones entre Huarte y Pinel, Madrid, Asociación española de
neuropsiquiatría, 2010.
1 Mi riferisco ai seguenti contributi: Arturo Farinelli, La vita è un sogno. Parte seconda. Concezione della vita e del mondo
nel Calderón. Il dramma, Torino, Bocca, 1916, p. 394; Idem, Italia e Spagna, Torino, Bocca, 1929, pp. 363-364.
2 Così si legge in un suo articolo del 1936: «Esbozaba yo un tiempo un gran trabajo sobre La Malinconia nella letteratura
attraverso i secoli; nada he concluído». Su ciò Arturo Farinelli, Dos Excéntricos. Cristóbal de Villalón - El doctor Juan Huarte,
«Revista de Filología Española», xxiv, 1936, p. 100. 3 Velásquez, Libro de la melancholía, cit., p. 60.
4 Juan Huarte de San Juan, Examen de ingenios para las ciencias, edición de Guillermo Serés, Madrid, Cátedra, 1989.
Sulla ricezione dell’opera in Europa, rinvio ai lavori di Gabriel-André Pérouse, L’Examen des Esprits du Docteur Juan
Huarte de San Juan. Sa diffusion et son influence en France aux xvi e et xvii e siècles, Paris, Les Belles Lettres, 1970; Idem, Le Dr
riscritture malinconiche in spagna tra cinque e seicento 117
inducono il medico di Arcos de la Frontera a scrivere il Libro de la melancholía. Velásquez attacca
il tentativo di Huarte di riabilitazione e nobilitazione della malinconia compiuta attraverso un
raffinato dosaggio dell’orizzonte proprio dei Problemata xxx, 1 di Aristotele e di quello umani-
stico rinascimentale. Huarte individua nella risplendente malinconia adusta, quella che brilla
come il giaietto, che pure rende gli uomini instabili come l’aceto e la calce viva, uno straordi-
nario strumento della controriforma. I malinconici adusti sono per Huarte, nonostante i molti
difetti che li contraddistinguono, gli uomini più adatti alla predicazione, l’attività più importan-
te dell’impero di Filippo II.1
Contro una malinconia riabilitata nelle sembianze dell’apostolo san Paolo – e va da sé ricor-
dare la sua immagine così come viene raffigurato nelle figure dei Quattro apostoli di Dürer, il
suo sguardo minaccioso, eppure calmo, la facies nigra e l’accesa brillantezza degli occhi – si sca-
glia il volume di Velásquez. Costui ritiene che le presunte capacità di alcuni malinconici, tra le
quali l’emettere profezie e il parlare in latino senza mai averlo appreso, assumano i contorni
della colpa morale e del peccato, tanto è vero che più che l’intervento degli speziali egli invoca
quello del confessore. È infatti significativa l’ombra del soprannaturale che viene proiettata sul
malinconico. L’intero ultimo capitolo, l’ottavo, nega la possibilità annunciata sin nel frontespi-
zio dell’opera, e riproposta nella dedica, che il rustico possa parlare latino o filosofare quando
cade in preda alla malinconia.2
Per Velásquez, criticando ancora una volta Huarte, tutti i casi di divinazione o di personaggi
incolti che improvvisamente parlano latino sono o frutto del demonio o effetto del caso.3 Die-
tro il caso clinico compare il peccatore e questo spiega la mancanza assoluta di terapie e rimedi
nel libro di Velásquez, anche se vi è la promessa di colmare tale lacuna con un’altra opera. E
forse non poteva essere altrimenti se si considera che sullo spessore patologico dell’infermità
atrabiliare, che pareva contemplata dal punto di vista fisico della medicina, irrompe, come si è
detto, la figura del confessore. Il suo intervento ridimensiona lo sguardo del medico. Il pecca-
tore ricompare dietro il caso clinico.
I malinconici sono soltanto individui da curare, da disciplinare, e soprattutto, da confessare.
La malattia invoca la confessione, che può dove, evidentemente, non possono bastare l’elleboro
o la borrana. Soltanto attraverso il Santissimo sacramento conseguente alla confessione i ma-
linconici vengono sanati e guariti.

2.
Se Velásquez mette in discussione ogni possibile primato spirituale dei malinconici, quasi un
secolo dopo, Tomás de Murillo y Velarde pubblica nel 1672 ben due libri sulla malinconia. Il
primo, con il titolo Novisima, verifica et particularis hypochondriacae melancholiae curatio et medela,
viene stampato a Lione; il secondo a Saragozza con il titolo Aprobación de ingenios, y curación de
hipocóndricos, con observaciones y remedios muy particulares.
Mi soffermerò sulla seconda opera. L’autore non è una figura marginale nella medicina della
seconda metà del Seicento. Murillo y Velarde fu medico nei presidi di Orano e nelle galere spa-

Huarte de San Juan: pédagogie et politique sous Philippe II, «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», 23, 1970, pp. 81-93;
Martin Franzbach, La traducción de Huarte por Lessing (1752). Recepción e historia de la influencia del “Examen de Ingenios
para las Ciencia” (1575) en Alemania, Pamplona, Institución Príncipe de Viana, 1987; Juan Huarte au xxi e siècle. Actes du colloque
international, a cura di Véronique Duché-Gavet, Anglet, Atlantica, 2003. Sulla storia della fortuna del libro in Italia, Felice
Gambin, Un libro che ha fatto l’Europa: l’Examen de ingenios para las ciencias di Juan Huarte de San Juan, Verona, Quiedit, 2014.
1 Si veda Gambin, Azabache. Il dibattico sulla malinconia nella Spagna dei Secoli d’Oro, cit., pp. 69-96.
2 Velásquez, Libro de la melancholía, cit., pp. 125-138.
3 Sulle prodigiose doti dei malinconici, sulla possibilità di parlare latino, greco, ebreo e altre lingue, senza mai averle
apprese, il dibattito è ampio ed articolato anche nella Spagna del xvi e xvii secolo. Su tali questioni rimando alla nostra
introduzione all’edizione italiana del trattato di un medico andaluso, stampato nel 1606 come appendice alla sua opera in-
titolata Conocimiento, curación y preservación de la peste ( Jaén, Fernando Díaz de Montoya, 1606): Alonso de Freylas, I
malinconici e la divinazione, introduzione, traduzione e note di Felice Gambin, Firenze, Seid, 2012, soprattutto pp. 7-50.
118 felice gambin
gnole fino a quando Filippo IV lo nominò medico della famiglia reale e poi personale. Scrisse
sull’abuso del tabacco, che considera causa di manie e ipocondria, intervenne in molte dispute
tra i medici del tempo, tra le quali quella sull’uso della neve e della mandragora, si interessò
alle novità terapeutiche della corteccia dell’albero della china e del cioccolato.1
Nelle pagine di approvazione alla stampa dell’Aprobación de ingenios, y curación de hipocóndri-
cos, con observaciones y remedios muy particulares viene sottolineata la sua particolare condizione:
una volta rimasto vedovo prese i voti sacerdotali, continuando a praticare la professione medi-
ca. Egli viene presentato come uno scrittore capace di tenere assieme le due professioni: come
medico dà ricette per curare i corpi, come sacerdote di Dio insegna aforismi per preservare le
anime. Le pagine preliminari insistono sulla novità ed originalità del libro, utile ai cristiani, agli
esorcisti e ai teologi.
Eppure, non ci sono dubbi: la materia non è nuova. Anzi: l’opera è un evidente plagio del
Libro de la melancholía di Andrés Velásquez. Ma quale immagine e quale rappresentazione
dell’uomo elabora quasi cento anni dopo Murillo y Velarde in tema di malinconia a partire dai
materiali rubati a Velásquez? Vi è tra il medico che andava di bordello in bordello, Velásquez,
e il medico che prende i voti sacerdotali, Murillo y Velarde, una diversa presa di posizione sul
rapporto tra anima e corpo, tra dimensione spirituale e dimensione corporea?
Ma andiamo con ordine. Dopo appena due carte incontriamo le prime righe rubate dal libro
di Velásquez, alle quali Murillo y Velarde fa seguire alcuni suoi pensieri per poi riprendere una
seconda e poi una terza volta ancora le frasi del medico di Arcos de la Frontera. Anche uno dei
tre testi poetici, attribuiti alla penna del figlio, è già nel testo di Velásquez.
I primi tre capitoli de la Aprobación de ingenios altro non sono che l’ultimo dei capitoli dell’o-
pera di Velásquez. Il quarto capitolo altro non è che il primo di Velásquez, il quinto è il secondo,
il sesto è il terzo, il settimo è il quarto, l’ottavo è il quinto, il nono è il sesto, il decimo è il settimo.
La Aprobación de ingenios è costituita di dodici capitoli e solo gli ultimi due capitoli, quelli relativi
alle terapie, non rinviano al Libro de la melancholía di Velásquez.
Per tutto il libro Murillo y Velarde taglia e cuce, aggiunge, sostituisce e ritocca qualche ter-
mine impiegato da Velásquez. In molti casi intere pagine del collega del siglo xvi vengono ri-
proposte senza alcuna modifica. Le copia tout court. Ciò nonostante gli spostamenti e la diversa
dislocazione dei materiali copiati sono stati sufficienti perché molti studiosi non si rendessero
conto di un così evidente plagio.
Eppure, una volta appurato che di un plagio si tratta, e di grandissima estensione, pratica-
mente l’intero volume di Velásquez, il libro di Murillo y Velarde, come qualsiasi altra riscrittura
(si pensi all’ampia diffusione del fenomeno nel xvi secolo) rivela «la tendenza e la volontà di
creare – come ricorda Paolo Cherchi – un discorso moderno, di riempire forme antiche con
contenuti nuovi, di esperimentare forme nuove combinando quelle antiche, di dare una nuova
e più larga base all’erudizione».2
Velásquez, che scrive tenendo presente che apes debemus imitari, diventa quasi un secolo dopo
il modello di Murillo y Velarde, un modello sì, ma un modello da superare.
Nei primi tre capitoli, nei quali Murillo y Velarde spezzetta l’ultimo capitolo di Velásquez, vi
sono numerose significative aggiunte che interrompono l’operazione di plagio. Tra queste al-
cuni passi e frammenti che rinviano al De incertitudine et vanitate scientiarum di Cornelio Agrip-
pa, a Pedro García Carrero, a Gerolamo Cardano, a Levinio Lemnio, a Girolamo Mercuriale,
ad Andrés Laguna, a Marsilio Ficino.
Interessante è la digressione sulla supremazia del temperamento sanguigno e del sangue, tra-
sformato in simbolo della vita e di santità. Il suo primato è per di più trascendentale come prova
il fatto che «debaxo de las especies de pan por la concomitancia está presente, real y ver-

1 Sull’autore si veda Felice Gambin, Paseos melancólicos entre Siglos de Oro, Verona, Quiedit, 2014.
2 Paolo Cherchi, Polimatia di riuso. Mezzo secolo di plagio (1539-1589), Roma, Bulzoni, 1998, p. 22.
riscritture malinconiche in spagna tra cinque e seicento 119
daderamente la sangre de Christo Señor y Dios nuestro».1 Tra il sangue e la malinconia esiste
un’opposizione radicale.2
Un’altra integrazione merita la nostra attenzione. Nell’elencare le peculiari ossessioni dei ma-
linconici, egli si sofferma sulla licantropia per indicare la natura ferina della malinconia. Per de-
scrivere le pene che assalgono i malinconici egli rinvia ai tormenti che soffrono le persone morse
dalla tarantola e a un commento a Dioscoride del medico di Siena Pietro Andrea Mattioli.
La malinconia, l’ipocondria, la mania e la pazzia – e per Murillo y Velarde sono quasi la stessa
cosa – evocano lo stesso orrore del morso velenoso della tarantola. Come le persone morse dal-
la tarantola, i malinconici, quasi fossero spiritati, fanno pazzie. L’analogia tra malinconia e mor-
so della tarantola non è casuale: essa rinvia alle rappresentazioni che associavano la malinconia
al veleno, la bilis nigra a un fluido mortifero. In molti autori la malinconia è liquido velenoso, è
veleno per lo spirito vitale. Come ricordava il gesuita Juan Eusebio Nieremberg nella sua Oculta
filosofía, la musica cura i malinconici, così come cura coloro che sono stati avvelenati.3
L’aspetto più interessante dei primi tre capitoli di Murillo y Velarde è che, rispetto al capitolo
ottavo di Velásquez, copioso e insistente diventa il riferimento alla malinconia come umore che
facilita l’intervento del diavolo: «el demonio se alegra con el humor melancólico y negro, y re-
side en él, por ser humor tenebroso, obscuro, y péssimo».4 La possibilità di parlare lingue senza
mai averle studiate è imputabile al diavolo che si insinua nel corpo umano grazie all’umore ma-
linconico. La malinconia è balneum diaboli. Nessuno spazio è concesso ad una malinconia ispi-
rata: il malinconico non è il temperamento dell’ingegno e della perspicacia d’ingegno.
Le aggiunte di Murillo y Velarde popolano la realtà di molte presenze soprannaturali, di
presunte pratiche magiche e demoniache in quanto per lui sia le intelligenze demoniache sia
quelle angeliche intervengono, Dio volendo, nel mondo degli uomini. Esistono streghe e stre-
goni e fattucchiere e il diavolo si serve di loro per tormentare i corpi degli uomini non potendo
appropriarsi delle loro anime. Per l’autore le streghe esistono e partecipano al sabbat, spalman-
dosi freddi unguenti o ingurgitando pozioni o usando il tabacco o altre erbe. Il libro di Murillo
y Velarde, pubblicato lo ricordo nel 1672, è un’opera che anche in questo si fa interprete del cli-
ma che si respira nella Spagna di quegli anni, una Spagna che, scettica per tutto il Cinquecento
dinanzi al fenomeno della stregoneria, intensifica i processi contro le streghe proprio in quella
decade.5
Negli altri capitoli Murillo y Velarde non perde l’occasione di inserire aggiunte per illustrare
i cattivi costumi della sua epoca: il perdere tempo nel pettinarsi, dedicandosi agli accidenti del
corpo, l’appassionarsi al gioco di dadi e carte, l’andare a teatro, il consumarsi nel cibo e nelle
pratiche sessuali, esortando, in opposizione, il valore dello studio e dei libri.6 I vizi sono ovvia-
mente di casa soprattutto tra le donne, che pure al vino si dedicano.7
Ma non mancano aggiunte nelle quali Murillo y Velarde si sofferma sui nessi tra malinconia
ed immaginazione e la testimonianza di avere conosciuto vecchie e donne giovani assalite dalla
malinconia che affermano di avere visto il bambino Gesù e la Vergine. Si tratta di visioni mil-
lantate e ben diverse da quelle di Santa Brigida, di Santa Caterina da Siena o di Santa Teresa.8

1 Tomás de Murillo y Velarde, Aprobación de ingenios, y curación de hipocóndricos, con observaciones y remedios muy
particulares, Zaragoza, Diego de [D]Ormer, 1672, f. 13v.
2 Interessante il contributo di Christine Orobitg, Le sang royal: symbolique, médecine et politique dans l’Espagne du xvi e
et du xvii e siècle, «Cheiron. Materiali e strumenti di aggiornamento storiografico», 11, 1994, pp. 45-77.
3 Cfr. Christine Orobitg, Melancolía e inspiración en la España del Siglo de Oro, «Bulletin of Spanish Studies», 8, 2010,
pp. 17-31.
4 Murillo y Velarde, Aprobación de ingenios, y curación de hipocóndricos, con observaciones y remedios muy particulares,
cit., f. 31r.
5 È quanto documenta il volume, con ampia bibliografía, di Ricardo García Cárcel, Historia de España. Siglos xvi
y xvii : la España de los Austrias, Madrid, Cátedra, 2003.
6 Murillo y Velarde, Aprobación de ingenios, y curación de hipocóndricos, con observaciones y remedios muy particulares,
cit., ff. 59r-60v. 7 Ivi, f. 78r.
8 Si veda ivi, ff. 71r-73r. Come è noto, la Spagna, come altri paesi europei, è interessata da molte figure di mistici e di
santi, ma anche da una variopinta schiera di visionari, pseudoprofeti, indovini che riempiono le strade, le corti e i conventi.
120 felice gambin
Nessun legame, come abbiamo già ricordato, esiste invece tra Velásquez e Murillo y Velarde
per quello che riguarda i tre capitoli finali dedicati alle cure della malinconia. Se è vero che la
malinconia inghiotte tutti, senza alcuna distinzione, le cure prestano molta attenzione alle don-
ne, particolarmente esposte alla malinconia, soprattutto durante il mestruo o dopo il parto.
Murillo y Velarde prescrive numerose ricette per evacuare l’umore malinconico, terapie delle
quali assicura l’efficacia. La sua è una farmacia fornitissima e vi troviamo una grande quantità
di piante e spezie, purganti, alteranti, refrigeranti, ricostituenti. Oltre a precise indicazioni ali-
mentari che consentono di prevenire qualsiasi malattia, è favorevole all’uso dell’oppio. Invita
all’uso regolare del salasso e dà precise indicazioni su come fare sanguinare le emorroidi. Tra
le cure vi è anche l’impiego dell’elleboro e della mandragora, pianta che egli stesso ha fatto
piantare nel giardino della regina.1 Tuttavia, il principale rimedio per la cura della malinconia
è la pietra bezoar (lapis bezoaris) estratta dagli intestini di alcuni animali.2 Egli dedica a tale ri-
medio ben dodici carte. Contrariamente a molti medici del suo tempo che avevano già messo
in discussione le presunte virtù di tale pietra, per Murillo y Velarde l’efficacia è certa. A suo dire
il disprezzo si deve semplicemente al fatto che circolano molte false pietre bezoar e per questo
dà precise indicazioni su come distinguere quelle vere da quelle false, quelle efficaci da quelle
inutili. La pietra bezoar ancora una volta lega la malinconia al veleno ed essa, come indicava
una lunga tradizione medica, annulla gli effetti di tutti i veleni: è un eccellente antidoto contro
la peste e contro la malinconia.
Egli riserva alcune pagine anche all’uso della china come medicamento per curare la malin-
conia. La corteccia della pianta, considerata miracolosa, si impose nel corso del Seicento e si
vendeva a peso d’oro.3 Un altro medicinale, sempre legato alla scoperta del Nuovo mondo, è il
cioccolato. Il medico spagnolo ricorda che è una bevanda che si è imposta in tutta Europa e che
serve, come già sapevano le popolazioni delle Americhe, per le malattie acute. A questo pro-
posito Murillo y Velarde consegna al lettore alcune gustose ricette che vedono il cioccolato pre-
parato con cannella, mandorle, anice e bevuto inzuppando biscotti, anche se si affretta a dire
che tale medicamento, che si usa spesso, andrebbe impiegato con moderazione.4
Non poteva mancare in un libro come quello di Murillo y Velarde, un capitolo, l’ultimo, sui
mezzi e le terapie per combattere la malinconia quando peggiora perché associata alla sifilide.
Vi è in tutto questo una logica stringente. La malinconia è una malattia, come è una malattia
il mal francese. Entrambe sono malattie che angosciano e fanno paura. Il loro rapporto è dato
dal fatto che i malinconici, così come si legge nei Problemata xxx, 1, sono per natura particolar-
mente lussuriosi. Ma ancora: nel suo poema Syphilis, sive de morbo gallico, che darà nome alla
malattia, il medico veronese Gerolamo Fracastoro metteva in relazione la malattia con le in-
fluenze nefaste di Saturno, pianeta tradizionalmente legato alla malinconia. Il nesso è presente
in molti altri autori, non soltanto spagnoli.
Nulla di più facile per Murillo y Velarde che legare la malinconia alla sifilide: le due infermità
richiedono lo stesso trattamento fondato sull’evacuazione degli umori dannosi. Entrambe
sono malattie individuali, ma che mettono in pericolo l’intera comunità.
E se in maniera decisa Murillo y Velarde invita a curare prima la malinconia, ossia prima la
«causa conservante», e poi la sifilide, il capitolo di fatto indugia su altri temi che nulla hanno a
che vedere con quanto promesso nel titolo: si sofferma soprattutto sui rimedi per la memoria

Moltissimi i testi che invitano la gente appartata e malinconica a non dare credito a tutte le visioni e rivelazioni ma di con-
sultarsi con un saggio confessore.
1 Murillo y Velarde, Aprobación de ingenios, y curación de hipocóndricos, con observaciones y remedios muy particulares,
cit., f. 137r.
2 Sono numerosi i trattati che già nel secolo precedente la indicavano come efficace contro la malinconia. Frantumata
e diluita veniva consigliata anche da José de Acosta, esplicitamente ricordato da Murillo y Velarde come autore della
Historia natural y moral de Indias, Sevilla, Juan de León, 1590, cap. lxii, De las piedras bezoares.
3 Cfr. Murillo y Velarde, Aprobación de ingenios, y curación de hipocóndricos, con observaciones y remedios muy particu-
lares, cit., ff. 130v-135v. 4 Ivi, ff. 127v-130v.
riscritture malinconiche in spagna tra cinque e seicento 121
dopo che i malinconici sono guariti e sull’uso dell’oppio per farli dormire. In modo particolare
va segnalato che vi è un unico e frettoloso accenno alla concezione della aegritudo amoris, della
quale semplicemente dice che «volgarmente» si chiama «eroico» e che si può curare in modo
rapido.1 L’intera tradizione della malattia d’amore, cantata, rielaborata e parodiata anche dagli
scrittori spagnoli per secoli, non trova nessuno spazio. Più semplicemente viene taciuta.
Sempre più invece prende forma la figura del medico, il suo ruolo nella cura della melancolia.
Ma tutto questo offrendo non soltanto rimedi materiali, in quanto i sintomi della malinconia
si manifestano sotto forma di comportamenti, di vizi, di organizzazione del tempo della vita,
non soltanto come disturbi fisici. Esiste insomma una malinconia fisica, ma anche una malin-
conia che deriva dall’organizzazione della società, dalle passioni che la muovono, dai valori che
la regolano. Si tratta di un indizio che indica come per Murillo y Velarde la malinconia non pos-
sa essere spiegata facendo ricorso alle sole cause fisiologiche e a quelle teologiche, senza porre
un’adeguata attenzione a fattori sociali e morali.
Se è vero che Murillo y Velarde plagia il volume di Velásquez, egli fornisce pure molteplici
rimedi per curare la malinconia. Il suo è un vero e proprio arsenale di erbe e rare pietre venute
dal Nuovo mondo somministrate al ritmo della preghiera, pronunciando un Credo o una Ave
Maria.2 Il medico non esclude il confessore e la terapia medica non può fare a meno delle risorse
di cui la Chiesa dispone. Religione e medicina unite: la figura del medico invoca quella del con-
fessore, e viceversa. Medicamenti e preghiere, insieme. Né la teologia né la medicina possono
rivendicare una competenza prioritaria sulla malinconia. I due approcci sono complementari e
trovano nella persona dello stesso autore, Murillo y Velarde, un eccellente compendio, medico
che una volta diventato vedovo prese i voti sacerdotali, esercitando così ad un tempo sia la pro-
fessione medica sia quella spirituale.
E tuttavia, non vanno mai dimenticati i drammi che è facile cogliere nell’andirivieni del me-
dico e del sacerdote, che da una parte certifica la presenza del demonio e del peccato, e dall’altra
parte indaga le cause naturali del comportamento malinconico. La dimensione del dolore si ac-
compagna a quella della sofferenza spirituale.
La malinconia riesce ad esprimere nel libro di Murillo y Velarde con grande forza e decisione
la collocazione incerta dei mali dell’anima: essa ci rende turbati nella mente e deboli nel corpo.
Essa, peraltro, attraverso le digressioni e le aggiunte di Murillo y Velarde a un libro pubblicato
quasi cento anni prima, conferma la sua vocazione a porsi come potente catalizzatore culturale
e concettuale.
Nulla sembra cambiato. Nella seconda metà del secolo xvii – ed anche oggi – scrivere sulla
malinconia implica inevitabili incursioni che non sono solo mediche, ma religiose, morali, giu-
ridiche. Tutto come un secolo prima: nelle pagine dell’Aprobación de ingenios di Murillo y Velar-
de la malinconia è sempre più una malattia che racconta esclusivamente di un soggetto che non
ha più presa sulla realtà che lo circonda: egli inventa gli oggetti, li deforma, li altera. Eppure in
questa scena che è sempre uguale a se stessa, o che si pretende tale, vi sono significativi muta-
menti di accenti e toni rispetto al Libro de la melancholía di Andrés Velásquez. Tra questi l’insi-
stente presenza della donna. Molti uomini delirano e sono preda della malinconia, ma la donna,
insegna Murillo y Velarde, molto di più. La donna si trasforma nella protagonista delle follie e
dei peccati del mondo, a volte perché cade preda della malinconia, altre volte come strega, altre
come finta santa o ancora come corpo che contagia, corpo pericoloso e che incute timore. An-
zi: minacciosa è tutta la sua esistenza quotidiana, quando si lascia trascinare dall’immaginazio-
ne incontrollata, quando ha le mestruazioni, quando partorisce, quando si accoppia con un uo-
mo, lasciandolo prigioniero non dei lacci della malinconia d’amore ma della sifilide.

1 Cfr. ivi, f. 137v. 2 Cfr. ivi, ff. 143v-144r.


LA ME L E N C OL I A D I D ÜRE R.
DA L QUA D RO P RO S PE T T IC O
A LLO S PA Z I O T R I D I M E N S IONALE
St efa n i a I ur illi
This study is about the large polyhedron dominating Dürer’s engraving Melencolia I: its exact geometric nature
has always been subject of investigations for academics, and many theories have been formulated about it. Many re-
searchers identified the solid as a truncated rhombohedron, with different hypotheses regarding angles amplitudes
and faces measurement, others find relations of commensurability with other elements in the scene, such as the
sphere in the foreground on the left. It is however undeniable, beyond any symbolism, that the structure of the scene
is ruled by an exact one-point perspective: it is therefore impossible to measure geometric elements not belonging to
the picture plane, and to find proportional relationships between elements standing on different planes. Only through
a rigorous reconstruction of the three-dimensional space depicted by Dürer, made by reversing the rules of Renais-
sance perspective, it is possible to rebuild entirely the geometric elements in the scene. Building a 3d model, interac-
tively navigable and explorable, will help the exact interpretation of the scene’s space and of the items featured, like
some sort of ‘virtual perspectograph’ mindful of those perspective devices that Dürer itself loved to design.

L ’opera di Dürer Melencolia I è dominata da un grande poliedro in equilibrio, la cui esatta


natura geometrica è stata oggetto di indagini da parte degli studiosi nell’arco di decenni.1
Molti identificano il solido con un romboedro troncato di due vertici,2 con ipotesi differenti
riguardo alla misura degli angoli e delle facce, altri trovano relazioni di commensurabilità con
elementi presenti in altri punti del disegno, come ad esempio la sfera in primo piano sulla
sinistra. È tuttavia innegabile, al di là di ogni implicazione simbolica, che l’architettura della
scena sia regolata da un rigoroso impianto in prospettiva lineare: risulta pertanto impossibile
misurare direttamente elementi geometrici non appartenenti al quadro prospettico, e relazio-
nare proporzionalmente fra loro quelli che giacciono su piani diversi. Solo una rigorosa resti-
tuzione dello spazio tridimensionale rappresentato da Dürer, basata sull’inversione delle re-
gole prospettiche del Rinascimento, può consentire di misurare in ogni parte gli elementi
geometrici presenti nella scena; la costruzione di un modello tridimensionale, navigabile ed
esplorabile interattivamente, può favorire la lettura degli elementi geometrici nello spazio, in
una visione da ‘prospettografo virtuale’ memore dei congegni prospettici che lo stesso Dürer
amava ideare.

Stefania Iurilli, via A. Passaglia 22, 55100 Lucca.


1 Il primo contributo notevole dal punto di vista geometrico viene da: David Heinrich Richter, Perspektive und
Proportionen in Albrecht Dürers “Melancholie”, «Zeitschrift für Vermessungswesen», lxxxii, pp. 284-288 e 350-357, Stuttgart,
K. Wittwer, 1957. Si vedano anche: Eberhard Schröder, Dürer, Kunst und Geometrie. Dürers künstlerisches Schaffen aus der
Sicht seiner “Underweysung”, Basel, Springer, 1980; Caroline Henriette MacGillavry, The polyhedron in A. Dürers Me-
lencolia I. An over 450 years old puzzle solved?, «Proceedings of the Koninklijke Nederlandse Akademie van Wetenschappen»,
b, lxxix, 3, 1984, pp. 287-294 e Terrence Lynch, The geometric body in Dürer’s engraving Melencolia I, «Journal of the
Warburg and Courtauld Institutes», 45, 1982, pp. 226-232. Fra i contributi più recenti ricordiamo inoltre: Peter Schreiber,
A new hypothesis on Dürer’s enigmatic polyhedron in his copper engraving “Melencolia I”, «Historia Mathematica», 26, 1999, pp.
369-377; Hans Weitzel, A further hypothesis on the polyhedron of A. Dürer’s engraving Melencolia I, «Historia Mathematica»,
31, 2004, pp. 11-14 e Hideko Ishizu, Another solution to the polyhedron in Dürer’s Melencolia: a visual demonstration of the Delian
problem, «Aesthetics. Review of the Japanese society for Aesthetics», 13, 2009, pp. 179-194.
2 Il primo a riflettere sulla natura geometrica, oltre che simbolica, del solido è Peter Weber, Beiträge Zu Dürers Welt-
anschauung. Eine Studie über die drei Stiche Ritter, Tod und Teufel, Melancholie und Hieronymus im Gehäus, Strassburg, 1900, rist.
Whitefish, mt, Kessinger publishing, 2010, pp. 62-85.
124 stefania iurilli

1. Gli studi sul solido: un quadro sintetico


Il dibattito tra gli studiosi sulla natura del solido di Dürer dura ormai da oltre 100 anni:1 Weber
(1900) per primo parla di un romboedro tronco – un prisma regolare le cui facce sono sei rombi
congruenti, troncato di due vertici – ma senza determinare i due parametri fondamentali ca-
paci di descriverne univocamente le proporzioni (Fig. 2b).
Un primo tentativo di ipotesi quantitativa viene da Richter (1957), il quale, basandosi sulla
lettura di alcuni elementi prospettici, per primo fornisce un’ipotesi dimensionale sul solido, as-
segnando all’angolo acuto della faccia un valore di 79,36°. Molti anni più tardi Schröder (1980)
determina le misure principali del solido attraverso un procedimento basato sulla restituzione
prospettica; secondo la sua tesi le misure del romboedro sono tali che, in una particolare vista
frontale, questo possa essere inscritto in una griglia quadrata di 4 × 4 celle uguali tra loro (che
riprenderebbe, peraltro, lo schema del quadrato magico poco distante). Da ciò risulta, per la
singola faccia, un rapporto tra la lunghezza della diagonale corta e della diagonale lunga pari a
√3/2, da cui deriverebbe un angolo acuto al vertice di 81,8°. Un risultato molto simile è condi-
viso da Lynch (1982), il quale arriva ad una misura dell’angolo pari a 80-83°, attraverso un pro-
cedimento empirico basato sulla ricostruzione di modelli fisici, che vengono, a posteriori, ridi-
segnati in prospettiva; anche Lynch condivide il modello basato sul quadrato magico proposto
da Schröder.
A breve distanza una brillante soluzione viene da MacGillavry (1984), la quale determina l’an-
golo minore della faccia romboidale misurando due lunghezze sul disegno il cui rapporto non
è alterato dalla prospettiva, ovvero l’altezza AH del romboedro non troncato e la diagonale
maggiore AF della faccia (Fig. 1d). Dalla relazione fra queste lunghezze deriva un angolo di 79
± 1°. Quest’ultima ipotesi è in parte corroborata da Weitzel (2004), il quale ricava un valore
molto vicino per la misura dell’angolo (79,5 ± 0,5°) a partire da uno schizzo di Dürer del 1510.2
Ma quella che certamente appare più affascinante agli occhi di chi ricerca nel solido misure o
proporzioni ‘speciali’ è l’ipotesi di Schreiber (1999); egli sostiene che Dürer intendesse raffigu-
rare un poliedro i cui 12 vertici appartenessero alla superficie di una sfera, così come avviene
per i poliedri platonici e archimedei.3 Tale ipotesi corrisponde ad un angolo al vertice della fac-
cia di 72°. Si tratta di un valore molto particolare, in quanto strettamente legato alla sezione
aurea: il lato di un pentagono regolare, infatti è la sezione aurea di una sua diagonale e il punto
d’intersezione tra due diagonali consecutive divide ciascuna di esse in due segmenti le cui lun-
ghezze stanno tra loro nel rapporto aureo. Inoltre ogni lato forma con le due diagonali uscenti
dai suoi estremi un triangolo i cui angoli misurano 72°, 72°, 36°. Anche questa è una figura con
delle proprietà geometriche molto interessanti: infatti, dato un triangolo isoscele ABC i cui an-
goli alla base misurano 72° ciascuno, e l’angolo al vertice 36°, la bisettrice di un angolo alla base

1 Per quanto ancora non sia stato possibile giungere ad una conclusione certa sulla natura del solido, vista l’assenza di
fonti documentarie, l’ipotesi che possa trattarsi di un cubo troncato di due vertici sembra essere definitivamente tramon-
tata. Trascureremo qui il commento di quei contributi nei quali si sostiene tale idea, fra i quali ricordiamo: Walter L.
Strauss, The Complete Drawings of Albrecht Dürer, iii., New York, Abaris, 1975, p. 1436; Karel De Haas, Albrecht Dürer’s
engraving Melancolia I: a symbolic memorial to the scientist Johann Muller (Regiomontanus), Rotterdam, D. Van Sijn en zonen,
1951 ed Adolf Wangart, Der Geometrische Körper in Dürers Melencolia,«Humanismus und Technik», 20, 1976, pp. 16-27. Si
veda inoltre l’ipotesi di G. Niemann, descritta in: Raymond Klibansky, Erwin Panofsky, Fritz Saxl, Saturno e la Me-
lanconia. Studi di storia della filosofia naturale, religione e arte, trad. di Renzo Federici, Torino, Einaudi, 2010, pp. 400-402.
2 Si tratta di un disegno autografo proveniente da un taccuino di Dürer, conservato alla Stadtbibliothek di Norimberga
(Cent. v. App 34aa, fol. 128b); da Dürers Schriftlicher Nachlass, a cura di Hans Rupprich, iii, Berlin, Deutscher Verein fur Kun-
stwissenschaft, 1969. Weitzel (2004) corregge quanto riportato da Rupprich, indicando il disegno come fol. 127. Cfr. Weit-
zel, A further hypothesis, cit., p. 12.
3 Un solido si dice archimedeo, o semiregolare, se e solo se è convesso, le sue facce sono poligoni regolari di due o più
tipi, i suoi vertici sono isometrici (vale a dire che in ogni vertice convergono le stesse figure con lo stesso ordine) e gli
spigoli congruenti. Tale proprietà implica l’esistenza di una sfera circoscritta, alla quale appartengono tutti i vertici del po-
liedro. Un tale poliedro si dice platonico se anche le facce sono congruenti; in questo caso esiste anche una sfera inscritta
nel solido.
la melencolia dal quadro prospettico allo spazio tridimensionale 125

Fig. 1. Ricalco del poliedro in prospettiva dalla Melencolia del Museum of Fine Arts di Budapest (a);
lo stesso solido con in evidenza i gruppi di spigoli paralleli (b) e le facce o sezioni orizzontali
a forma di triangolo equilatero; il quadrilatero frontale, ovvero appartenente
ad un piano parallelo al quadro prospettico (d).

divide il lato opposto in due segmenti che stanno tra loro in rapporto aureo (infatti il triangolo
ABC è simile al triangolo BCD, con D punto d’intersezione fra la bisettrice ed il lato). Da questo
risulta che: AC:BC = BD:DC, e dunque: AC:AD = AD:DC. Nessun dato rilevato scientifica-
mente viene però portato da Schreiber a supporto di tale ipotesi, che risulta pertanto priva del
necessario riscontro: essa deve essere dunque considerata scarsamente attendibile a meno di
conferme sperimentali successive.
126 stefania iurilli

Fig. 2. Anomalie grafiche di tipo prospettico rilevate nel poliedro (a) e parametri necessari
per definire univocamente le proporzioni della faccia rombica con il suo troncamento (b).
Tali parametri sono l’angolo · e l’altezza di troncamento Ï, esprimibile attraverso il rapporto OP:OH.

Infine, fra i contributi più recenti merita una menzione quello di Ishizu (2009), che propone
una singolare ipotesi secondo la quale il solido sarebbe stato dapprima un cubo troncato di due
spigoli, rappresentato da Dürer in prospettiva; il disegno sarebbe poi stato ‘allungato’ vertical-
mente secondo un particolare rapporto. Tale operazione, secondo l’autore, è connessa con una
particolare soluzione approssimata del problema di Delo, ovvero della duplicazione del cubo.1
Dal quadro fin qui tracciato emerge come ogni possibile modello elaborato sino ad oggi for-
nisca, dal punto di vista metrico e proporzionale, risultati anche sensibilmente differenti. Le
cause sono da ricercarsi da un lato nell’inevitabile errore umano che, nel misurare un disegno
così piccolo, può inficiare l’accuratezza delle misure, dall’altro nella presenza di alcune anoma-
lie grafiche presenti nell’immagine, come segnalato prima da Schuritz (1919) e poi da Lynch
(1982).2
In merito alla misura dell’angolo acuto della faccia, possiamo dividere i risultati in due grandi
gruppi: quelli che individuano un valore intorno ai 72° e quelli che assegnano all’angolo un va-
lore di circa 80°. Certamente l’idea di un angolo di 72°, che condurrebbe ad un solido ‘ideale’
concepito da Dürer su basi neoplatoniche, è quella dotata di maggiore attrattiva. Ad oggi, tut-
tavia, nessuna misurazione scientificamente condotta riporta ad un valore di questo tipo. Al
contrario, le analisi più accurate basate sulla prospettiva si attestano su valori dell’angolo vicini
agli 80°; tale valore, però, non sembrerebbe dar luogo ad alcuna figura dotata di proprietà par-
ticolari.
È inoltre da notare che, tra i due parametri fondamentali capaci di descrivere univocamente
il poliedro, la quasi totalità degli studiosi si è concentrata sulla misura dell’angolo ·, trascuran-

1 Ishizu, Another solution to the polyhedron in Dürer’s Melencolia, cit., pp. 179-194. Il problema della duplicazione del cubo
è uno dei tre grandi quesiti ‘insolubili’ della matematica dell’antica Grecia, insieme a quello della quadratura del cerchio
e della trisezione dell’angolo. Cfr. Carl Benjamin Boyer, Storia della Matematica, trad. di Adriano Carugo, Milano, Mon-
dadori, 1976, pp. 76-85.
2 Cfr. Hans Schuritz, Die Perspektive in der Kunst Dürers: ein Beitrag zur Geschichte der Perspektive, Frankfurt am Mein,
Keller, 1919, p. 252 e Lynch, The geometric body, cit., p. 229. Il problema è poi ripreso da Fumiko Futamura, Marc
Frantz, Annalisa Crannell, Party Game for a 500th Anniversary, arxiv:1405.6481 [math. ho], 2014, p. 11.
la melencolia dal quadro prospettico allo spazio tridimensionale 127
do la seconda quantità necessaria: l’altezza del troncamento Ï sulla singola faccia, esprimibile
attraverso il rapporto OP:OH (Fig. 2b).

2. La ricostruzione prospettica
L’obiettivo di questo studio è dunque quello di pervenire ad una ricostruzione completa – ma
limitata ai soli elementi geometrici − della scena raffigurata da Dürer, utilizzando gli strumenti
della geometria descrittiva. In tal senso è fondamentale un rilevamento estremamente accurato
del disegno, che permetta di estrarre da questo i punti e le linee essenziali della delineazione
prospettica sul quadro (con particolare attenzione ai 12 vertici del poliedro, ed ai suoi spigoli,
visibili e non).
La riproduzione utilizzata ai fini di questo studio è quella del Museum of Fine Arts di Buda-
pest, ristampata in scala 1:1 per poter stabilire una tolleranza ammissibile nell’acquisizione dei
punti.1 In generale questa viene relazionata con lo spessore della punta con cui è tracciato il di-
segno, che nel caso del bulino di Dürer è inferiore al decimo di mm; questo dato, tuttavia, è po-
co rilevante, poiché nell’incisione la punta serve a tracciare campiture, più che a definire con-
torni. Inoltre lo zoom digitale consente un ingrandimento molto superiore rispetto al disegno
originale; il rischio, pertanto, è quello di lavorare su una dimensione troppo diversa da quella
utilizzata dall’autore, scegliendo punti non pertinenti. Per questa ragione si è scelto di campio-
nare digitalmente ogni vertice come intersezione degli spigoli in esso convergenti; successiva-
mente, nel costruire la prospettiva, si è resa necessaria per alcuni vertici una compensazione
della posizione, all’interno di un intorno circolare di massimo 0,5 mm di diametro.2
Il risultato è il disegno di Fig. 3a, in cui le linee sintetizzano gli elementi della prospettiva leg-
gibili con chiarezza sul disegno, e quindi utili alla ricostruzione spaziale.
La delineazione proposta soddisfa le seguenti condizioni di carattere geometrico:
1. Che gli spigoli segnati nella Fig. 1b con lo stesso colore siano paralleli;3
2. Che i piani ai quali appartengono i triangoli B*C*D*, BCD, EFG ed E*F*G* siano orizzontali
(Fig. 1c);
3. Che l’asse quaternario AH del solido sia ortogonale ad essi, dunque verticale ed ortogonale
al piano di base, o geometrale (Fig. 1d);
4. Che il quadrangolo ADHF appartenga ad un piano frontale, e dunque parallelo al quadro
(Fig. 1d).4
Inoltre, per le regole della proiezione centrale, deve verificarsi che gli spigoli paralleli del po-
liedro convergano, sul quadro prospettico, nello stesso ‘punto di concorso’, che nel caso di rette
orizzontali appartiene all’orizzonte. Gli spigoli fra loro paralleli che siano anche paralleli al qua-
dro convergono in un punto infinitamente distante del quadro stesso, e vengono dunque rap-
presentati come segmenti paralleli sul disegno, mantenendo la propria direzione.
Rispetto a tali condizioni la figura nell’incisione di Dürer è costruita con assoluto rigore geo-
metrico, ed ogni punto è collocato sul piano del foglio coerentemente rispetto alle ipotesi enun-
ciate. Fanno eccezione i due vertici dello spigolo DD* (Fig. 2a), il cui scostamento rispetto alla
figura ideale risulta comunque piccolo, sebbene non del tutto trascurabile (1.4 mm).
Ciò non induce, ad ogni modo, a pensare che l’autore abbia volutamente introdotto delle co-
sì lievi irregolarità nella geometria del solido; l’interesse di Dürer per i poliedri regolari è ben
noto, e confermato dai numerosi studi contenuti nei suoi appunti grafici, e compendiati più

1 Un’immagine ad alta risoluzione, utile ai fini di questo studio, è disponibile all’indirizzo www.google.com/cultura-
linstitute/u/0/asset-viewer/melencolia-i/en. La dimensione originale netta del bulino è di 18,5 × 23,8 cm. Le misure men-
zionate da Schröder (24,3 × 18,7 cm) includono probabilmente il bordo non disegnato che corre attorno all’immagine.
2 Tale intorno è pari alla misura della punta di un pennarello sottile.
3 In particolare sono paralleli tra loro i seguenti gruppi di spigoli: (AD//BE//FH//CG); (AB//CF//GH//DE);
(AC//BF//EH//DG); (B*D*//G*F*); B*C*//E*G*); (C*D*//E*F*).
4 Cfr. MacGillavry, The polyhedron, cit., p. 290.
128 stefania iurilli

Fig. 3. Linee principali estratte dal bulino di Dürer (a) e loro sovrapposizione con il modello digitale (b).

tardi nell’Underweysung der Messung.1 La scelta è stata dunque quella di risalire ad un’immagine
del poliedro che, seppur lievemente regolarizzata in senso prospettico, fosse più vicina possibile
a quella rappresentata.
Seguendo lo stesso criterio sono stati tracciati anche gli spigoli e i contorni riconoscibili degli
altri elementi presenti nella scena: l’edificio con il marcapiano superiore, il quadrato magico, i
gradini, la sfera.

1. 1. Dal ‘tableau’ dell’artista allo spazio materiale


Una volta ricreata la figura sul ‘foglio da disegno’ è possibile procedere alla sua ricostruzione
spaziale. Gli strumenti contemporanei del disegno digitale ci consentono di condurre questo
tipo di operazione direttamente nello spazio, e con estrema accuratezza metrica.
L’ipotesi fondamentale è che le due facce triangolari del solido, e le due sezioni triangolari
E*F*G* e B*C*D*, siano appartenenti a piani orizzontali, e quindi ortogonali al quadro (Fig.
1c). Tale ipotesi si verifica facilmente, poiché si osserva che gli spigoli BC, B*C*, EG, E*G*con-
vergono in un punto P, collocato sulla linea dell’orizzonte. Poiché P è il punto principale della
prospettiva, deduciamo che tali spigoli appartengono a rette orizzontali, parallele tra loro ed
ortogonali al quadro. Inoltre possiamo osservare, per il triangolo superiore G*E*F*, che gli spi-
goli G*F* ed E*F*, prolungati fino ad incontrare la linea dell’orizzonte, individuano su di essa
due punti F1 ed F2, la cui distanza da P, a destra e a sinistra, è identica:ciò significa che le due
rette formano con il quadro angoli complementari. Poiché non siamo in grado di misurare tali
angoli direttamente in prospettiva, è necessario introdurre una seconda ipotesi, ovvero che il

1 Cfr. Albrecht Dürer, Underweysung der Messung mit dem Zirckel und Richtscheyt, Nürnberg, 1525. Per un interessante
approfondimento sui solidi platonici ed archimedei nell’opera di Dürer si veda inoltre: Judith Veronica Field, Redisco-
vering the Archimedean Polyhedra: Piero della Francesca, Luca Pacioli, Leonardo da Vinci, Albrecht Dürer, Daniele Barbaro, and
Johannes Kepler, «Archive for history of Exact Sciences», 50, pp. 241-289.
la melencolia dal quadro prospettico allo spazio tridimensionale 129

Fig. 4. Ad una sola immagine sul quadro prospettico possono corrispondere, nello spazio, infinite figure simili
fra loro; per risolvere l’indeterminazione del problema è necessario stabilire un piano di giacitura per la figura.

triangolo G*E*F* sia equilatero. Tale ipotesi rientra nella descrizione della figura come rom-
boedro tronco, ma sarebbe vera anche nel caso in cui il solido fosse un esaedro con l’asse qua-
ternario ortogonale al piano geometrale. Se dunque il triangolo è equilatero, gli angoli che le
due rette suddette formano con il quadro misurano 30° e 150° (Fig. 5): da questa configurazio-
ne possiamo facilmente collocare nello spazio l’asse ottico a (incidente il quadro in P ed orto-
gonale ad esso), ed il centro di proiezione V appartenente ad a. La distanza fondamentale risul-
tante d, ovvero la distanza minima dell’occhio dal piano del disegno, è di 21,3 cm. Data tale
distanza è possibile costruire, sul quadro, la circonferenza fondamentale di centro P e raggio d,
luogo geometrico delle fughe di tutte le rette inclinate di 45° rispetto al quadro.
Ricostruiti dunque gli elementi fondamentali della prospettiva (dimensioni e posizione del
quadro, centro di proiezione V e circonferenza di distanza), è stato possibile risalire alla relazio-
ne di prospettività che lega biunivocamente la figura nello spazio e la sua immagine sul foglio.1
In base a ciò si è riusciti a ricollocare esattamente nello spazio ogni punto rappresentato sul di-
segno, ricostruendo dunque il modello ‘a fil di ferro’ del solido e degli altri elementi.
È necessario specificare che, poiché non conosciamo alcuna dimensione del modello fisico,
si è dovuta introdurre un’ulteriore ipotesi, al fine di ‘scegliere’ una sola fra tutte le figure simili
che corrispondono correttamente ad un’unica immagine prospettica (Fig. 4). L’ipotesi, del tut-
to ragionevole, è che la faccia triangolare inferiore sulla quale appoggia il poliedro appartenga
ad un piano orizzontale, la cui quota corrisponda al limite inferiore del disegno.
Proprio da questa faccia è partito il procedimento di ricostruzione del modello; a seguire so-
no stati ricavati i punti necessari a delineare gli altri tre triangoli equilateri, procedendo dal bas-
so verso l’alto. Lo stesso procedimento è stato applicato agli altri elementi geometrici nella sce-
na, ove possibile.
Il risultato è la costruzione tridimensionale rappresentato in Figg. 3b, 7 e 9, nelle quali il so-
lido appare come un romboedro tronco; ancora una volta l’ipotesi che si tratti di un esaedro è
confutata sperimentalmente.

1 Cfr. Riccardo Migliari, Geometria dei Modelli. Rappresentazione grafica e informatica per l’architettura e per il design,
Roma, Kappa, 2003, pp. 26-37.
130 stefania iurilli

Fig. 5. Sintesi del procedimento adottato per ricavare la posizione nello spazio del punto di vista
(centro di proiezione), a partire dall’ipotesi dei triangoli equilateri.

2. 2. Osservazioni sul modello tridimensionale


Dal modello ottenuto ci proponiamo ora di estrarre alcuni dati notevoli, che possano essere
messi in relazione con le ipotesi precedentemente illustrate, e allo stesso tempo consentire nuo-
ve osservazioni.
la melencolia dal quadro prospettico allo spazio tridimensionale 131
Il solido risultante dalla ricostruzione presenta sei facce congruenti a forma di pentagono ir-
regolare, risultato del troncamento dei due vertici superiore ed inferiore. Se si trascura momen-
taneamente tale troncamento, le facce della figura ‘integra’ sono rombi regolari, e presentano
angoli acuti con ampiezze comprese fra 79,01° e 80,19°; la media ponderata di tali valori forni-
sce un risultato di 79,10°. Tali angoli ricordano molto da vicino quelli misurati da Richter
(79,36°) e McGillavry (78-80°), per cui possiamo definitivamente escludere che il modello basa-
to sull’angolo ‘aureo’ di 72° proposto da Schreiber sia da considerare plausibile. L’altezza del
troncamento, espressa attraverso il rapporto Ï = OP:OH, è esprimibile con un valore medio,
per tutte le sei facce, molto vicino a 0,42; questo significa che anche il modello di Lynch, che
presupponeva un troncamento del rombo a 0,50 (pari a 3/4 della diagonale maggiore) deve es-
sere accantonato.1 Attraverso la ricostruzione prospettica si arriva dunque, sebbene per una via
diversa, alla stessa conclusione di Futamura, Frantz e Crannell, i quali, verificando le differenti
ipotesi attraverso l’uso del birapporto,2 indicano la soluzione data da McGillavry come la più
attendibile. Il solido risultante dalla ricostruzione prospettica è rappresentato in pianta e alzato
in Fig. 7; la faccia in vera forma è quella raffigurata in Fig. 6a.
A questo punto è lecito domandarsi i motivi di tale costruzione geometrica: risulta infatti
difficile credere che Dürer, artista colto e dalle raffinate capacità matematiche, abbia potuto in-
serire una figura casuale in una tale, rilevante posizione. Di certo sappiamo che la rappresen-
tazione prospettica del poliedro è estremamente rigorosa, così come lo è quella del bozzetto
preparatorio di Dresda;3 questo suggerisce che l’artista avesse, a priori, un’idea molto esatta
della figura da rappresentare.
Osservando la faccia in vera forma notiamo che il rombo può essere inscritto, con buona ap-
prossimazione, in una coppia di rettangoli aurei,4 secondo lo schema di Fig. 6b. L’altezza del
troncamento si ottiene facilmente per via geometrica, tracciando la perpendicolare al lato par-
tendo dal centro della figura, da cui risulta un rapporto Ï = OP:OH=0,40 (Fig. 6c). Si tratta di
uno schema estremamente semplice e regolare, basato su numeri ‘significativi’, in pieno spirito
neoplatonico, e che ben si conforma ai risultati ottenuti sperimentalmente: l’angolo risultante
da questo schema ideale misura infatti 77,95°, un valore molto vicino a quello ricavato dalla
prospettiva.5 La differenza fra le due figure, ad una dimensione paragonabile a quella del dise-
gno di Dürer, è pressoché impercettibile (Fig. 6d).
Se dunque fosse questo il tracciato proporzionale pensato dall’artista, è lecito immaginare
che egli abbia costruito un modello fisico del poliedro secondo tale schema; la dimestichezza
di Dürer con lo sviluppo piano dei solidi è cosa nota, tanto che si ritiene che tale sistema sia pro-
prio di sua invenzione.6 È interessante inoltre ricordare che, al principio del quarto libro del-
l’Underweysung, i poliedri regolari vengono introdotti e definiti come ‘solidi che possono essere
disegnati con riga e compasso’, ed illustrati con il sistema dello sviluppo piano, oltre che in pian-

1 Nel caso del modello proposto da Lynch non risulta verificato nemmeno l’angolo, in quanto il valore ricavato dal-
l’autore è 80-83°; ricostruendo il suo modello in un modellatore 3d matematico il valore misurato è 81,79°.
2 Il birapporto, o rapporto anarmonico, è una grandezza associata a una quaterna di punti di una retta. Si tratta di uno
strumento importante in geometria proiettiva: risulta infatti definito anche se uno dei quattro punti è all’infinito, oltre ad
essere un’invariante proiettiva (proprietà di una figura che non varia con la proiezione). Cfr. Michel Chasles, Aperçu
historique sur l’origine et le développement des méthodes en géométrie, Bruxelles, Hayez, 1837, pp. 302-307.
3 Si tratta di un disegno preparatorio a penna realizzato con inchiostro nero e bruno, datato 1514 e conservato alla Sä-
chsische Landesbibliothek di Dresda (20,2 × 19,3 cm). Il bozzetto mostra un solido identico a quello rappresentato nella
Melencolia, ma ‘specchiato’ orizzontalmente rispetto ad esso. Il poliedro è appoggiato su un piedistallo a forma di paral-
lelepipedo con uno spigolo troncato, e vi compaiono le figure abbozzate di un cane e di un uccello. Il disegno prova che
Dürer ha lavorato sul solido a più riprese, e che dunque può averlo ricalcato più volte; questo spiegherebbe anche il mi-
nimo errore grafico presente nella parte bassa del poliedro.
4 Cfr. Futamura, Frantz, Crannell, Party Game for a 500th Anniversary, cit., p. 4.
5 Il valore rispecchia anche l’angolo minimo fornito da McGillavry (78°), la quale aveva calcolato un valore per l’altezza
di troncamento pari a 0,45.
6 Cfr. Erwin Panofsky, La vita e le opere di Albrecht Dürer, Milano, Feltrinelli, 1979. Si veda inoltre Field, Rediscovering
the Archimedean Polyhedra, cit., p. 266.
132 stefania iurilli

Fig. 6. Vera forma della faccia del solido ‘rilevata’ dal modello 3d da restituzione prospettica (a);
tracciato geometrico basato sul disegno di due rettangoli aurei (b) nei quali viene inscritta la figura (c);
lo scostamento fra la figura rilevata e quella ‘ideale’ derivata da tale tracciato (retino grigio) è minima (d).

ta e alzato:1 questo conferma, ancora una volta, la familiarità dell’autore con tale sistema di
rappresentazione.
Se dunque il solido è stato concepito volendo attribuire certe caratteristiche alla singola fac-
cia, la rappresentazione come sviluppo piano è alquanto naturale in fase di studio, poiché sia la
prospettiva che le viste ortogonali ‘canoniche’ mostrano le facce scorciate, e non in vera forma

1 Pianta ed alzato sono presenti solo per i primi 5 solidi, mentre i restanti 2 sono rappresentati solo come sviluppo pia-
no. Cfr. Dürer, Underweysung der Messung mit dem Zirckel und Richtscheyt, cit., pp. 133-146.
la melencolia dal quadro prospettico allo spazio tridimensionale 133

Fig. 7. Pianta ed alzato del solido derivati dal modello 3d da restituzione prospettica.

(Fig. 7). Queste viste possono, ad ogni modo, essere ricavate con facilità dal modello fisico, una
volta tratte da esso tutte le misure necessarie.
Proprio parlando di misure, rileviamo un ulteriore dato interessante leggendo quelle del po-
liedro della nostra ricostruzione: la diagonale maggiore della faccia, prima del troncamento,
misura 15,2 cm, ovvero esattamente 1/2 piede di Norimberga.1
Partendo dunque da una misura ‘familiare’ ed esatta, Dürer può aver facilmente costruito,
con riga e compasso e senza bisogno di altre misure, la faccia rombica con il suo troncamento;
a partire da questa ottenere il modello del poliedro tramite il suo sviluppo piano è un passaggio
altrettanto immediato.

3. Un prospettografo virtuale?
La ricostruzione in prospettiva inversa del modello di Dürer ha dunque condotto ad alcune
informazioni metriche sul solido rappresentato, che confermano o smentiscono alcune delle

1 Cfr. Angelo Martini, Manuale di metrologia, ossia misure, pesi e monete in uso attualmente e anticamente presso tutti i
popoli, Torino, Loescher, 1883, p. 414 e Girolamo Francesco Cristiani, Delle misure d’ogni genere antiche, e moderne: con
note letterarie, e fisico-matematiche, Brescia, Stampe Giambattista Bossoni, 1760, p. 40.
134 stefania iurilli

Fig. 8. Pianta ed alzato dell’intero modello 3d ricavato dalla restituzione prospettica; l’unità di misura
utilizzata è il piede di Norimberga con i suoi sottomultipli, ovvero l’unità di misura in uso
nella città di Dürer nel xvi secolo (1 piede = 30,4 cm). Il passo della griglia è di 4 zoll, ovvero 1/3 di piede.

teorie più accreditate sulla sua forma e natura. Ma, estendendo la visione oltre il problema del
solido, nuovi dati emergono dall’osservazione dell’intera composizione: la possibilità di mette-
la melencolia dal quadro prospettico allo spazio tridimensionale 135
re in relazione e misurare − direttamente nello spazio e in una visione dinamica − il modello
materiale e la sua rappresentazione sul quadro ci offre un nuovo e ‘potenziato’ punto di vista
sulla scena raffigurata.
Se osserviamo il modello in doppia proiezione ortogonale ci accorgiamo che la base grado-
nata presenta, in vera grandezza, delle misure in profondità molto regolari, ed in diretto rap-
porto con quelle ipotizzate per il solido: sovrapponendo infatti allo schema una griglia quadra-
ta, questa risulta perfettamente dimensionata in sottomultipli del piede di Norimberga (1 unità
= 10,13 cm = 4 zoll = 1/3 di piede) (Fig. 8). È innegabile che un tale schema sia enormemente
d’aiuto nel mettere gli oggetti in prospettiva, e ci conferma ancora una volta il rigore metodo-
logico adottato da Dürer nella costruzione.
Tornando invece ad osservare il modello in prospettiva, non può sfuggire il fatto che le mi-
sure generali della ‘base’, ed il rapporto di queste con le dimensioni del quadro e con la distanza
principale, siano complessivamente piccole, e compatibili con un apparato prospettico mate-
rialmente costruito: la distanza occhio-foglio ricavata (21,3 cm) è assolutamente naturale in ter-
mini ‘ergonomici’, in quanto inferiore alla lunghezza di un braccio umano piegato nell’atto di
disegnare. La scelta di usare un prospettografo, inoltre, sarebbe coerente con la volontà di rap-
presentare in prospettiva un modellino che è già stato fisicamente realizzato.
Fra i prospettografi di Dürer quello che certamente si adatta meglio a tali dimensioni è il ve-
tro, primo e meno evoluto esempio di apparato prospettico descritto nell’Underweysung der
Messung, il cui limite descritto è proprio quello delle piccole dimensioni imposte dalla distanza
braccio-foglio.
Tale apparato è direttamente ripreso dalle descrizioni di Alberti e Filarete, ben antecedenti,
e forse influenzato anche da quelle esposte nel Trattato della Pittura da Leonardo, artista che
Dürer ben conosceva già al tempo del suo primo viaggio in Italia.1 Se è vero infatti che
l’Underweysung sarà pubblicato solo nel 1525, due anni prima della morte dell’autore, bisogna
anche considerare che le sue riflessioni e sperimentazioni pratiche sulla prospettiva erano
cominciate già in età giovanile, e lo avevano accompagnato per tutta la vita:2 il suo trattato sulla
misura ne costituisce il naturale compendio.
Tra tutte le descrizioni di prospettografi, quella di Leonardo è particolarmente interessante,
in quanto prevede la presenza di un traguardo per fissare la posizione dell’occhio, oltre ad in-
cludere dei riferimenti dimensionali per la costruzione dell’apparato:
Abbi un vetro grande come un mezzo foglio di carta reale, e quello ferma bene dinanzi agli occhi tuoi,
cioè tra gli occhi e quella cosa che tu vuoi ritrarre, e poi ti poni lontano con l’occhio al detto vetro due
terzi di braccio, e ferma la testa con un instrumento, in modo che non la possi muovere punto. Dipoi serra
o cuopriti un occhio, e col pennello, o con il lapis, segna su ’l vetro quello che dija appare, e poi lucida
con la carta tal vetro, e spolverizzandola sopra una carta buona, dipingela, se ti piace usando bene di poi
la prospettiva aerea.

1 Fra il 1494 e il 1495 Dürer viaggiò fra Venezia, Padova, Mantova e Pavia, desideroso di apprendere l’arte dei più grandi
maestri italiani del tempo. In tale occasione venne certamente in contatto con le più importanti fonti teoriche sulla pro-
spettiva allora esistenti (Alberti, Piero della Francesca, Leonardo da Vinci), che peraltro avrebbe potuto conoscere già nella
biblioteca del suo amico umanista Willibald Pirckheimer. Proprio in una celebre lettera all’amico, scritta da Venezia e
datata 1506, si legge: «Rimango qui altri dieci giorni. In seguito vado a Bologna per imparare l’arte della segreta prospet-
tiva, che uno mi vuole insegnare». Sull’identità del maestro bolognese molto si è dibattuto: si parla di Luca Pacioli o di
una personalità a lui vicina. Per un approfondimento si veda Giovanni Maria Fara, Albrecht Dürer teorico dell’architettu-
ra. Una storia italiana, Firenze, Olschki, 1999, pp. 35-36.
2 Dopo il secondo viaggio in Italia (1505-1507) Dürer intraprese il progetto di redigere una grande opera teorica, che
compendiasse elementi di geometria euclidea, teoria prospettica, proporzioni del corpo umano e del cavallo e considera-
zioni sull’architettura. Tale intenzione è testimoniata da alcuni fogli manoscritti del 1512. L’opera, tuttavia, non vide mai
la luce, poiché Dürer non riuscì a dedicarvisi con la necessaria continuità; a partire dal 1521 egli decise di affrontare sepa-
ratamente ogni argomento, e alla stesura dei suoi trattati si dedicò fino alla morte. Cfr. Fara, Albrecht Dürer teorico dell’ar-
chitettura, cit., p. 13.
136 stefania iurilli

Fig. 9. In alto: vista tridimensionale del modello con in evidenza gli elementi fondamentali della prospettiva;
In basso a sinistra: Albrecht Dürer, apparato prospettico detto ‘vetro’, dall’Underweysung der Messung (1525);
a destra: esemplificazione grafica dell’uso di un prospettografo per la rappresentazione
del solido düreriano (disegno dell’autore).

Il ‘prospettografo virtuale’ associabile al modello della Melencolia, ricostruito attraverso le mi-


sure ricavate dalla prospettiva, risulta grande circa la metà rispetto a quello descritto da Leo-
nardo: la scelta ideale per lavorare su una figura di piccole dimensioni come il poliedro düre-
riano e la sua base gradonata (Fig. 9). Naturalmente, in assenza di prove documentarie,
la melencolia dal quadro prospettico allo spazio tridimensionale 137
l’ipotesi che la costruzione geometrica della Melencolia possa essersi avvalsa di un tale apparato
non è che una possibilità, benché confortata da dati metrici certi. Ciò che indubbiamente col-
pisce, a distanza di cinquecento anni dalla sua realizzazione, è che quest’opera ancora riesca a
fornire nuovi spunti di ricerca e dati inediti: essa racchiude in sé tutto il mistero di quei ‘segreti
prospettici’ che Albrecht Dürer ricercò e coltivò a lungo, seguendo le tracce dei suoi maestri
fino in Italia.
« SU BL I M I UM DA E M O N UM RE C E PTAC ULUM ».
P ROP OSTA P E R U N ’I CO N O G RAF IA D E LL’AN IM A
NEL L A ME L E N C OL I A I D I ALBRE C HT D ÜRE R
To m m a s o Ra nfagni
Based on the popular metaphor of Aristotle included in De anima’s book, the image of the tabula rasa was em-
ployed between the last decade of xv century and the first decade of the xvi century in several masterpieces to rep-
resent man’s soul upon his ascent to divinity. Starting from precise comparisons with artworks and philosophical
sources, this paper attempts to demonstrate that the angel seated on the grindstone in the famous graphic master-
piece by Albrecht Dürer Melencolia I recalls this iconographic tradition, and that it further modifies it for the new
figurative context created by the author.

ra i numerosi elementi che affollano il piano più avanzato della Melencolia I di Albrecht
F Dürer, una particolare emergenza assume la creatura alata, profondamente assorta nella
scrittura, che appare seduta sulla ruota di una macina presso il fianco destro della Melanconia
(Fig. 1). Presentata da Erwin Panofsky come un putto che scrive affaccendato su una lavagna, e
interpretata dallo studioso col significato della Pratica – l’attività senza pensiero1 –, la creatura,
per il suo evidente rilievo all’interno del discorso figurativo, è stata oggetto nel corso del tempo
di un ampio ventaglio di interpretazioni, contestuali alle diverse letture che l’opera ha ricevuto
fino a oggi. Sottraendoci all’impegnativo compito di una nuova esegesi generale dell’opera, e
muovendo piuttosto da corrispondenze formali incrociate a studi già compiuti, la nostra pro-
posta è di riconoscere nella raffigurazione presa in esame il derivato di una formula iconogra-
fica già nota e impiegata in ambito neoplatonico per rappresentare figurativamente l’anima del-
l’uomo quando, nel desiderio di tornare al cielo, trova l’opposizione del corpo. Al pari della
figura della Melanconia perciò essa non costituirebbe un’invenzione originale di Dürer, ma
piuttosto l’originale elaborazione dell’artista di un’espressione simbolica consolidata.
Producendo una nutrita serie di esempi figurativi per commentare quello che, per una con-
venzione dell’ekphrasis storico-artistica,2 venne identificato col termine putto, Erwin Panofsky
influenzò notevolmente la riflessione posteriore intorno alla figura del fanciullo alato. In realtà
col nome putto nella lingua dialettale italiana e, per il nostro caso specifico, nelle arti figurative
dell’epoca si tendeva a identificare esclusivamente un fanciullo, spesso nudo.3 Così ad esempio
nel Libro dell’arte di Cennino Cennini o nel Trattato di architettura del Filarète.4 Diversamente,
la presenza delle ali sulla schiena del bambino porta a riconoscere in esso un angelo. Sebbene si-
mile precisazione possa apparire irrilevante, sul piano dell’interpretazione iconologica la distin-
zione fra queste due entità reca con sé importanti conseguenze. In un passo del Gorgia Platone,
descrivendo per bocca di Socrate la differenza tra la medicina e la culinaria, afferma infatti che
i fanciulli sono la rappresentazione di quell’umanità dotata di «poco discernimento» la quale,

Tommaso Ranfagni, via Benozzo Gozzoli 27, 50124 Firenze, tommaso.ranfagni@gmail.com


1 Raymond Klibansky, Erwin Panoksky, Fritz Saxl, Saturno e la melanconia. Studi di storia della filosofia naturale,
religione e arte, Torino, Einaudi, 1983 (“Saggi”, 657), pp. 318 e sgg.
2 Si veda Charles Dempsey, Inventing the Renaissance putto, Chapel Hill, University of North Carolina Press, 2001
(“Bettie Allison Rand lectures in art history”, 2) e Wilfried Hansmann, Putten: das Motiv der “Kindlein” in der Kunst,
Worms, Werner, 2010.
3 Salvatore Battaglia, ad vocem Putto, in Grande Dizionario della Lingua Italiana, utet, 1988, xiv, pp. 1071-1072.
4 Cennino Cennini, Il libro dell’arte, per cura di Carlo e Gaetano Milanesi, Firenze, Le Monnier, 1859, pp. 95, 138; An-
tonio di Pietro Averlino, Trattato di architettura, a cura di Anna Maria Finoli e Liliana Grassi, Milano, 1972, p. 268.
140 tommaso ranfagni
simulando di conoscere i cibi migliori per il
corpo, riducono la culinaria a una pratica em-
pirica che non può essere chiamata arte, ma
solo attività irrazionale.1 È proprio nell’eserci-
zio di questa attività che essi sono rappresen-
tati in uno dei disegni che Michelangelo donò
a Tommaso de’ Cavalieri, il Baccanale di Putti
conservato alla Royal Library di Windsor, ispi-
rato, secondo recenti studi, proprio al passo
appena citato.2 All’opposto, l’angelo – o anche
dèmone benigno come veniva chiamato dagli
antichi – è considerato dalla tradizione neo-
platonica una potenza semidivina preposta al
governo del mondo inferiore. Un ministro di
Dio, il cui compito è quello di dispensare agli
uomini i beni che da Lui provengono.3 Per
questa ragione non ci sembrano pertinenti i
confronti che fino a ora sono stati condotti
con tutti quei testi figurativi che riportano
fanciulli anziché angeli, primi fra tutti i due di-
pinti con la Melanconia di Lucas Cranach con-
servati rispettivamente al Musée Unterlinden
di Colmar e alla National Gallery of Scotland
di Edimburgo, dove i putti, adesso sì, qui si
industriano in atteggiamento ludico attorno
alla sfera, là si accapigliano fra loro, incitati dai
guaìti del cane, rappresentanti perfetti di
un’attività priva di intelligenza in contrasto
all’attitudine contemplativa esibita dall’ange-
Fig. 1. Albrecht Dürer, Melencholia I, 1514, lo dureriano.4
particolare.
Un discorso analogo può essere intrapreso
per il piano di scrittura usato dall’angelo, defi-
nito dallo studioso una lavagna (così nella traduzione italiana, derivata da tafel nell’edizione te-
desca, e da slate in quella inglese).5 Sebbene nascosto in gran parte dal braccio, esso appare do-
tato di un’ansa forata, da cui pende un laccio, e di uno spessore che ne circonda i bordi, dettagli
che lo fanno assomigliare alla tavoletta recante la firma dell’autore all’interno del San Girolamo
nello studio, l’opera grafica tradizionalmente considerata come complementare alla Melencolia
I (Fig. 2). Qui l’assenza di ostacoli ci permette di capire che si tratta una tabula ricoperta da quel-
la che potrebbe essere cera come dichiara sia la lucidità pastosa del materiale che la ricopre, al-
lusa dalle piccole tracce rarefatte con cui viene connotata, sia le lettere della firma, spesse e ve-

1 Platone, Gorgia, 463b-464d.


2 Marco Palumbo, Michelangelo e la virtù, «Artista», 2012, p. 32. Si veda in particolare il putto nell’angolo in alto a destra
che attinge, e vino alla botte, e orina, dal compagno beone.
3 Marsilio Ficino, In convivium Platonis de amore, vi, 3. Per una disamina più precisa sui dèmoni si veda Le Divine lettere
del gran Marsilio Ficino tradotte in lingua toscana da Felice Figliucci senese, a cura di Sebastiano Gentile, Roma, Edizioni di Sto-
ria e Letteratura, 2001 (“Rari”, 1), ii, pp. 101 e sgg.
4 A sostegno di questa tesi si veda anche Aristotele, Fisica, 247b-248a, che attribuisce proprio al turbamento prodot-
to dal continuo stato di moto dei fanciulli un ostacolo alla formulazione di un corretto giudizio: «Così i fanciullini non
possono acquistar conoscenza né formulare un giudizio relativo alle sensazioni alla stessa guisa dei maturi, perché grandi
sono in loro il turbamento e il moto».
5 Erwin Panofsky, Das Leben und die Kunst Albrecht Dürers, München, Rogner & Bernhard, 1977, p. 220; Idem, Albrecht
Dürer, Princeton, Princeton University Press, 1943, i, p. 164.
proposta per un ’ iconografia dell ’ anima nella melencolia i di dürer 141
rosimilmente impresse nel piano, ma soprat-
tutto lo strumento utilizzato per scrivervi,
identificato dallo stesso Panofsky come una
punta da incisore.1 Col suo gesto pertanto
l’angelo non cercherebbe di nascondere la ta-
bula ma piuttosto, pensiamo, di afferrarla sal-
damente per poter esercitare la forza necessa-
ria a lasciarvi dei segni. Inoltre il fatto che la
punta dello strumento sia tutta spostata verso
sinistra suggerisce che, nel momento in cui lo
osserviamo, egli abbia appena iniziato a scri-
vere e che, in conclusione, quella tabula vada
considerata una tabula rasa.
Del tutto pacifico è invece il riconoscimen-
to di una macina nella grande ruota di pietra
su cui siede l’angelo che, infatti, risulta munita
del foro per la barra del mulino. Relativamen-
te ad essa tuttavia sarà da tenere ben presente
il tappeto che la ricopre, un dettaglio fino a
ora mai considerato dai commentatori ma
che troverà spazio in questa lettura.
Riconosciute le tre parti che formano l’im-
magine – la tabula rasa, l’angelo e la macina –
analizziamone ora il significato al fine di dimo- Fig. 2. Albrecht Dürer, San Girolamo nello studio,
strare in che modo, a seconda delle occasioni, 1514, particolare.
esse si siano fuse fino a comporre un’unica for-
mula molto simile a quella impiegata da Dü-
rer. Iniziamo dalla tabula rasa che, come vedremo, rappresenta il fulcro dell’iconografia. L’uti-
lizzo della tabula rasa come motivo iconografico sarebbe passato del tutto inosservato se la sua
rappresentazione non figurasse in massima evidenza tra le braccia di un angelo nella celebre
Madonna di Foligno dipinta da Raffaello nel 1512 per la cappella funeraria di Sigismondo de’ Conti
(Fig. 3). La straordinaria emergenza assegnata a questo oggetto ha contribuito a sollevare un
dibattito intorno al suo significato, specialmente quando le indagini radiografiche effettuate in
occasione dell’ultimo restauro dimostrarono che fin dall’origine la tabula fosse vuota. Fra le
proposte avanzate,2 la lettura di Andreas Tönnesmann è quella che ha ottenuto il maggior cre-
dito presso la critica. Lo studioso sostiene che la tabula rasa nel dipinto sia la rappresentazione
figurativa dell’Intelletto, la parte dell’anima che fin dall’antichità era considerata immortale.3 Il
motivo troverebbe la propria legittimazione iconografica nel terzo libro del De Anima di Aristo-
tele dove, come è noto, il filosofo utilizza questa immagine per descrivere la mente dell’uomo
che, al pari di una tavoletta cerata, prima della conoscenza è vuota ma potenzialmente in grado
di ricevere tutte le forme. Ponendo la tabula rasa fra le mani dell’angelo Raffaello ne descrive
dunque la sua aspirazione alla conoscenza quando, una volta purgata dai sensi e distaccata dal
corpo, si innalza verso l’ultimo grado della scala contemplativa, ossia la visione di Dio.4
La proposta di Tönnesmann sembra trovare un riscontro nei numerosi esempi raccolti da
chi scrive e provenienti da contesti figurativi analoghi. La sua presenza sull’urna-reliquiario di

1 Klibansky, Panoksky, Saxl, Saturno e la melanconia, cit., p. 322.


2 Jürg Meyer zur Capellen, Raphael. A Critical Catalogue of His Paintings, Münster, Arcos, 2005, ii. The Roman Reli-
gious Paintings, ca. 1508-1520, 52, Madonna di Foligno, pp. 102-104.
3 Andreas Tönnesmann, Ein psychologische motiv bei Raffael, in Arbor amœna comis, Stuttgart, Steiner, 1990, p. 302.
4 Ivi, pp. 303-304.
142 tommaso ranfagni

Fig. 3. Raffaello, Madonna di Foligno, 1512 (Roma, Pinacoteca Vaticana).


proposta per un ’ iconografia dell ’ anima nella melencolia i di dürer 143
san Clemente, opera di manifattura bizantina,
prova tanto per cominciare che questo motivo
iconografico ha una genesi molto più antica,1
imputabile alla diffusione del De anima, sia a
partire dal recupero e dalla traduzione del te-
sto, sia attraverso i numerosi commenti che
l’opera ha ricevuto nel corso dei secoli (Fig.
4). In linea con la destinazione funebre della
pala raffaellesca, la tabula rasa figura isolata in
basso tra i tralci che decorano l’arcosolio del
sepolcro di Francesco Castellani nella basilica
di Santa Croce a Firenze, risalente al primo
decennio del xvi secolo (Fig. 5). O ancora al-
l’interno del sontuoso sepolcro del cardinale Fig. 4. Urna-reliquiario di san Clemente
(Castiglione a Casauria, abbazia di San Clemente).
Oliviero Carafa, la cappella Carafa nel Succor-
po del Duomo di Napoli, dove essa venne col-
locata in scala gigante proprio di fronte alle re-
liquie di san Gennaro custodite in quel luogo2 (Fig. 6). Di diversa destinazione ma tuttavia
pertinente in ordine al significato è invece la tabula rasa inserita sul fregio del fonte battesimale
dello scultore Donato Benti nel Duomo di Pietrasanta, dove, coerentemente al discorso teolo-

Fig. 5. Benedetto da Rovezzano (attr.), Sepolcro di Francesco Castellani, 1503 ca


(Firenze, basilica di Santa Croce [Fondo Edifici di Culto - Ministero dell’Interno]).

1 L’abbazia di San Clemente a Casauria, a cura di Marialuce Latini, Antonio Varrasso, Pescara, carsa, 1997 (“Gli scrigni”),
p. 45.
2 Daniela Del Pesco, Oliviero Carafa e il programma iconografico del Succorpo di San Gennaro nel Duomo di Napoli, in Ot-
tant’anni di un maestro. Omaggio a Ferdinando Bologna, a cura di Francesco Abbate, Napoli, Paparo, 2006, i, pp. 203-222.
144 tommaso ranfagni

Fig. 6. Giovanni Tommaso Malvito, Cappella Carafa, 1499-1506, particolare (Napoli, Duomo).

gico espresso, essa appare sostenuta da una creatura marina e associata a una fiamma ad allu-
dere al rinnovamento interiore che l’uomo ottiene in virtù di quel sacramento1 (Fig. 7).
Pur dotata di una forza evocativa autonoma, la tabula rasa è in certe occasioni accompagnata
da elementi che ne arricchiscono il significato in conformità al dettato della dottrina neoplato-
nica. Come nel dipinto di Raffaello, essa compare così abbinata a un angelo ad ali spalancate in
grado di descriverne la naturale tensione all’ascesa. Tale sincretismo si può osservare sulla tom-
ba del pittore Filippo Lippi nel Duomo di Spoleto, datata 1490, che rappresenta, per quanto ci
risulta, il primo esempio in cui il motivo è utilizzato (Fig. 8). Alla coppia tabula rasa-angelo è
poi aggregato talvolta un elemento capace di evocare l’ostacolo che il corpo oppone all’eleva-
zione dell’anima. Nel prospetto marmoreo della Libreria Piccolomini nel Duomo di Siena que-
sta funzione è svolta dalla base marmorea sulla quale è abbarbicato un vaso, simbolo del
corpo,2 il cui peso esercita una tale contrapposizione alla salita dell’angelo che, come descritto
con mirabile artificio figurativo, il nastro usato per sollevare la tabula rasa si tira e si torce in con-
seguenza di quella trazione3 (Fig. 9). Diversamente, nel testo dureriano tale compito è affidato

1 Ringrazio il dott. Francesco Traversi che mi ha gentilmente segnalato la presenza della tabula rasa in questo fonte bat-
tesimale il quale è stato suo oggetto di studio in occasione della tesi quinquennale dal titolo Donato Benti (1470-1538). Il mar-
mo e il pensiero. Uno scultore del Cinquecento tra mestiere e invenzione, discussa presso l’Università degli Studi di Firenze nel-
l’anno accademico 2010-2011.
2 Salvatore Battaglia, ad vocem Vaso, in Grande Dizionario della Lingua Italiana, utet, 1989, xxi, lemma 9, p. 681. Se-
condo una precisa tradizione letteraria che trova la sua origine nel testo biblico (cfr. l’espressione Vaso di terra in Genesi 1,
7) il vaso ha sempre rappresentato l’essere umano nella sua condizione corporale di debolezza e fragilità.
3 La lettura di questa immagine nel suo contesto figurativo sarà presto disponibile nel volume in corso di stampa Tom-
maso Ranfagni, Lorenzo di Mariano detto il Marrina, scultore dei Piccolomini, Pisa, Pacini, 2015 (“Studi di Storia e Critica
d’Arte”, 7).
proposta per un ’ iconografia dell ’ anima nella melencolia i di dürer 145

Fig. 7. Donato Benti, Fonte battesimale, 1509-12, particolare (Pietrasanta, Duomo).

Fig. 8. Filippino Lippi (su disegno di), Sepolcro di Filippo Lippi, 1490 (Spoleto, Duomo).
146 tommaso ranfagni
alla macina, elemento tradizionalmente individuato
come la metafora di un peso opprimente fin dal noto
passo del Vangelo di Matteo (18, 6): «chi poi scanda-
lizzerà alcuno di questi piccolini, che credono in me,
meglio per lui sarebbe che gli fosse appesa al collo
una macina da asino, e che fosse sommerso nel
profondo del mare».1 La conferma del suo valore al-
l’interno del testo figurativo è offerta, pensiamo, dal
tappeto che la copre. Costituendo un elemento di se-
parazione tra la macina e l’angelo esso infatti potreb-
be rappresentare quel tegmen, ossia la copertura, che
secondo Ficino separa l’anima dal corpo giacché, co-
me sostiene il filosofo nel De amore, «l’ordine natura-
le richiede che l’animo purissimo non si congiunga
a questo corpo impurissimo se non per mezzo d’un
puro velame (così nella versione volgare), il quale es-
sendo men puro che l’animo e più puro che questo
corpo, è stimato dai platonici comodissima copula
dell’animo col corpo terreno».2
I confronti proposti, nel mostrare, ci sembra, l’af-
finità della raffigurazione düreriana con questa tra-
dizione iconografica, ne marcano allo stesso tempo
delle differenze generate evidentemente dal riadat-
tamento della formula figurativa a un diverso discor-
so iconologico. Partendo dal significato simbolico di
partenza – la Mente, la parte più sublime dell’anima,
che tenta di elevarsi al cielo contrastata dal corpo –
la riflessione su queste differenze può offrire un nuo-
vo punto di osservazione per comprendere l’innesto
operato da Albrecht Dürer. Rispetto agli esempi ap-
pena esaminati, nella Melencolia I l’angelo non sem-
bra voler compiere un’ascesa, anzi, al contrario, egli
è immobile, del tutto assorto nel tracciar segni sulla
tabula rasa. Il suo atteggiamento contemplativo lo
pone in stretta affinità con la figura della Malinconia
suggerendo, come è stato osservato a più riprese, un
qualche tipo di legame con essa. In effetti, intercet-
tando la linea passante prospetticamente tra l’astro
sul fondo, riconosciuto da David Edwin Pingree nel
pianeta Saturno,3 e la figura della Malinconia, l’ange-
lo si pone di fatto come un filtro tra questi due estre-
mi, così da presentare la figura in primo piano come
il risultato dell’emanazione di quei raggi. Riconside-
rando la relazione tra gli elementi dell’opera in que-

1 Salvatore Battaglia, ad vocem Macina, in Grande Dizionario


della Lingua Italiana, utet, 1980, ix, lemma 5, pp. 377-378: «Figur. Op-
pressione, affanno, fastidio insopportabile; situazione gravemente
imbarazzante; ostacolo, intralcio; sventura, avversità, calamità di-
Fig. 9. Lorenzo di Mariano detto il Marrina, sastrosa». 2 Ficino, In convivium, cit., vi, 4.
Prospetto della Libreria Piccolomini, 1496-1499, 3 David Edwin Pingree, A new look at Melencolia I, «Journal of
particolare (Siena, Duomo). the Warburg and Courtald Institutes», 43, 1980, pp. 257-258.
proposta per un ’ iconografia dell ’ anima nella melencolia i di dürer 147
sti termini, la tabula rasa potrebbe dunque rappresentare la parte più sublime dell’anima del-
l’uomo melanconico la quale, sottoposta agli influssi del pianeta Saturno ad essa propizio, ne
riceve i benefici doni attraverso i di lui dèmoni, mentre la Malinconia, elemento finale di questa
sequenza, si configurerebbe come una sorta di manifestazione sensibile di quell’effetto.1
Tale proposta trova una certa compatibilità con le fonti filosofiche tradizionalmente associa-
te all’opera di Dürer: sia che si prenda come riferimento il De occulta philosophia di Agrippa, sia
invece che si impieghi come chiave di lettura il De vita di Ficino che ebbe un’ampia diffusione
in Germania diventando la fonte principale di Agrippa stesso.2 In entrambi i casi infatti le rifles-
sioni relative all’anima e ai doni che ad essa discenderebbero dal pianeta Saturno attraverso i
suoi dèmoni trovano un’ampia discussione. Nel De occulta philosophia (i, 40) Agrippa ritiene che
il furore platonico sia l’illuminazione dell’anima a opera di dèi o dèmoni e che sia causato dal-
l’humor melancolicus: non quello chiamato bile nera, atra bilis, ma piuttosto la candida bilis.
Quando questo umore prende fuoco genera il furore che ci porta alla sapienza e al vaticinio,
soprattutto se si combina all’influsso di Saturno che, essendo il più alto fra tutti i pianeti, richia-
ma l’anima dalle cose esterne a quelle interiori. Gli antichi testimoniano che ciò avverrebbe in
tre forme diverse, corrispondenti alle tre facoltà della nostra anima, cioè l’immaginativa, la ra-
zionale e, per ciò che ci concerne, la mentale, per la quale afferma: «quando l’anima si eleva in-
teramente alla mente, essa diventa la sede dei dèmoni superiori, dai quali apprende i segreti del-
le cose divine, come ad esempio la legge di Dio, le gerarchie angeliche e ciò che si riferisce alla
conoscenza delle cose eterne e alla salvezza dell’anima».3 Analogamente Ficino nel De vita (iii,
21) afferma che noi tutti ci esponiamo agli occulti poteri delle stelle ma che solo la Mente con-
templatrice, sollevandosi dalle realtà separate, si espone a Saturno, a lei sola propizio. Gli anti-
chi sosterrebbero infatti che i corpi celesti riversino moltissimi beni, non solo sul corpo e lo spi-
rito dell’uomo, ma anche sull’anima: «ogni qual volta diciamo che scendono su di noi i doni del
cielo, si deve intendere, sia che vengono ai nostri corpi le doti dei corpi celesti con la mediazione
del nostro spirito preparato nei modi dovuti … [sia che] … pervengono direttamente dalle loro
anime, o dagli angeli, alle anime degli uomini aperte ad essi».4

1 In tal proposito è nostra convinzione che la figura identificata con la Malinconia non sia altro che il ritratto dell’uomo
saturnino per eccellenza così come Marsilio Ficino lo descrive nel De Vita, iii, 22: «Perciò quelle genti lunari che Socrate
descrive nel Fedone, abitatrici di uno spazio della terra elevatissimo, più alto delle nubi, viventi di una vita molto sobria,
contente dei frutti della terra e dedite allo studio di una molto grande sapienza e alla religione, godono della propizia fe-
licità di Saturno e conducono una vita così prospera da essere considerati non uomini mortali ma dèmoni immortali; e
molti li chiamano eroi, aurea stirpe che si gode una specie di età e regno di Saturno». Il ritratto condotto da Ficino stabilisce
infatti, ci sembra, delle precise corrispondenze con la figura rappresentata da Dürer. La collocazione della scena in un luo-
go elevato, come dichiara la linea estremamente bassa dell’orizzonte, alluderebbe a quello spazio più alto delle nubi dove
vivono questi uomini. La presenza delle ali invece, secondo un codice ben consolidato, dichiarerebbe la natura sovrumana
di quella creatura. La borsa di denaro ne richiamerebbe la prosperità mentre le chiavi l’accesso a una conoscenza ulteriore.
Ecco dunque che la cifra romana apposta nel titolo dell’opera non potrebbe indicare altro che la terza forma di sapienza
concessa ai melanconici, la prima nella gerarchia stabilita da Agrippa, quella relativa alle cose eterne che l’anima ottiene
quando influenzata da Saturno si eleva alla Mente.
2 Marco Bertozzi, Dürer e l’enigma del quadrato magico, in Malinconia ed Allegrezza nel Rinascimento, Milano, Nuovi
Orizzonti, 1999 (“Caleidoscopio”, 9), p. 341.
3 Heinrich Cornelius Agrippa von Nettesheim, De occulta philosophia libri tres, edited by Vittoria Perrone Com-
pagni, Leiden-New York-Köln, Brill, 1992 (“Studies in the history of Christian thought”, 48), pp. 212-216; utilizzo qui la
traduzione italiana fornita da Bertozzi, Dürer e l’enigma, cit., pp. 334-335.
4 Marsilio Ficino, De vita, iii, 21. Utilizzo qui la traduzione del volume a cura di Albano Biondi e Giuliano Pisani,
Pordenone, Biblioteca dell’Immagine, 1991 (“Il Soggetto & la Scienza”, 12), pp. 377-386.
I L D I AVO LO E SAT URN O.
DU E N OT E A M A RG I N E D I M ELEN CO LIA I
DI A L BR E CH T D Ü RE R : LUT E RO E D E RAS M O
D onato Ver ar d i
This paper investigates the demonology of Melencholia I and shows a comparison with the demonology of Luther
and Erasmus. Dürer, as Erasmus, limits the action of the devil in the inner life of man. Luther, however, seems
obsessed by the devil. This diabolical obsession is totally absent in Melencolia I.

L e differenti sensibilità all’interno della spiritualità cristiana hanno condotto – ieri come
oggi – a riflessioni demonologiche non sempre sovrapponibili. La storia del Cristianesimo,
tutt’altro che monolitica e priva di contraddizioni (ammesso e non concesso che si possa par-
lare di contraddizioni in un movimento libero quale è la storia), ha conosciuto su questo tema
un dibattito acceso, in alcuni momenti sotterraneo, in altri più visibile. Si tratta di un argomen-
to assai delicato, viste le profonde implicazioni con il problema della grazia, del peccato e del
libero arbitrio. Che ruolo assegnare al diavolo nella vita degli uomini? Fino a che punto si
estendono i suoi poteri e in che rapporto essi sono con l’onnipotenza divina e la libertà degli
individui?1
Come è noto Dürer2 aderì alla Riforma propugnata da Martin Lutero. A detta di alcuni in-
terpreti essa ne ispirò profondamente la spiritualità. Altrettanto noto è il desiderio di Dürer di
vedere Erasmo da Rotterdam e Lutero accomunati da un medesimo progetto di riforma spiri-
tuale della cristianità. Nelle pagine che seguono mostrerò il differente rapporto malinconia-de-
monio proposto da Lutero e da Erasmo, tentando di individuare quale delle due proposte è
maggiormente aderente a Melencolia I: incisa – è bene sottolinearlo – prima che la Riforma di
Lutero sia avviata e che la divisione tra il riformatore tedesco ed Erasmo si consumi del tutto.
D’altro canto, le posizioni demonologiche dei due pensatori non sono assolutamente nuove
nella riflessione cristiana, inserendosi in un dibattito secolare che investe anche questioni me-
dico-astrologiche, ad esempio circa la natura della malinconia.3 Platonici agostiniani, aristote-
lici tomisti, mistici e teologi dall’ispirazione più varia, avrebbero dibattuto lungamente su que-
sto argomento, in alcuni casi giungendo a soluzioni contrastanti, in altri maggiormente
conciliabili.

Per rappresentare la concezione del diavolo di Lutero spesso si ricorre ad un celebre aneddoto.
È a tutti noto l’episodio del castello della Wartburg, nella Turingia occidentale, nella quale –
pare – Lutero venne assalito dal diavolo. Lucifero gettò per terra le nocciole contenute in un

Donato Verardi, Université Paris Est - Créteil, crhec; Università di Pisa, donatoverardi@libero.it
1 Cfr. gli studi riuniti in Il diavolo nel Medioevo, Atti del xlix Convegno storico internazionale (Todi, 14-17 ottobre 2012),
Spoleto, Fondazione Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 2013. Inoltre, cfr. Tullio Gregory, Principe di questo
mondo. Il diavolo in Occidente, Roma-Bari, Laterza, 2013; Graziella Federici Vescovini, Le Moyen Âge magique. La magie
entre religion et science aux xiii e et xiv e siècles, Paris, Vrin, 2011, pp. 97-114; Alain Boureau, Satana eretico. Nascita della de-
monologia nell’Occidente medievale (1280-1330), trad. it., Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2004; inoltre, mi sia concesso di rin-
viare a Donato Verardi, L’occulte en Italie entre astrologie, athéisme et nécromancie (xiv e-xvii e siècle). Éléments de réflexion,
«crmh. Cahiers de Recherches Médiévales et Humanistes» (in corso di stampa, 2016).
2 Cfr. Raymond Klibansky, Erwin Panofsky, Fritz Saxl, Saturno e la malinconia. Studi su storia della filosofia natu-
rale, medicina, religione e arte, trad. it. di Renzo Federici, Torino, Einaudi, 2010. Albrecht Dürer, Viaggio nei Paesi Bassi,
Reggio Emilia, Diabasis, 2005, p. 143. 3 Cfr. Federici Vescovini, Le Moyen Âge magique, cit.
150 donato verardi
sacco e Lutero lanciò contro di lui un calamaio, provocando delle macchie sul muro che ancora
oggi vengono mostrate ai visitatori del castello. Ma gli esempi che Lutero stesso ci riporta delle
manifestazioni ‘reali’ del demonio sono assai numerosi. Il diavolo, a dire di Lutero, strepitava
attorno alla sua stufa, rumoreggiava in soffitta, faceva ruzzolare botti giù nel pozzo delle scale;
nel castello di Coburg gli apparve «materialmente» persino in forma di serpente e di stella;1 il
diavolo, poi, grugniva come un maiale, discuteva con lui – come si ricorda nei Discorsi a tavola
– come avrebbe fatto uno scolastico, emanando fetori insopportabili.2
Per Lutero, conformemente ad un convincimento comune nel Cristianesimo – ma sottoli-
neato soprattutto dall’agostinismo –, il diavolo era tutt’altro che un’idea astratta. Egli era il
principe di questo mondo e della Storia.3 Satana operava realiter nel mondo e con lui l’uomo di
fede avrebbe dovuto combattere quotidianamente una vera e propria lotta corpo a corpo. Lu-
tero attribuiva al diavolo ogni male del mondo, compresi i mali fisici, le malattie e finanche i
momenti drammatici della Germania del suo tempo.4 Lungi dalla sua posizione era l’idea
medica incarnata nel Medioevo da filosofi come Pietro d’Abano, secondo la quale le malattie –
e la stessa malinconia – dipenderebbero da uno squilibrio umorale, riconducibile a sua volta –
in virtù di una particolare dottrina complessionale umana e del cielo – all’azione ‘effettiva’ degli
astri.5 Più vicina alla sua idea era la proposta demonologica (e malinconica) presente nel Malleus
maleficarum di Sprenger e Institoris, tristemente noto per la sua centralità nel fenomeno della
caccia alle streghe. Questo testo avrebbe fornito solide basi filosofiche, dottrinali e giuridico-
procedurali alla bolla Summis desiderantis affectibus di Innocenzo VIII.6
Ad una concezione ‘esteriore’ del diavolo, che ne rimarcava l’azione reale nel mondo degli
uomini, Lutero affiancò anche un’idea ‘interiore’, ‘psicologica’ del Maligno, anch’essa di deri-
vazione agostiniana. Il diavolo era per Lutero il ‘dio’ della tristezza, dell’angoscia, e colpiva so-
prattutto quando l’uomo era «solo».7 Attribuendo al diavolo poteri enormi nel mondo della
materia, dove l’uomo era tutt’altro che libero,8 Lutero affermava che: «Colui che è tormentato
dallo spirito della tristezza, quegli deve massimamente temere […] Ogni tristezza, malattia e
melanconia viene da Satana». Per Lutero, dunque, «la malinconia è un bagno pronto per il dia-
volo».9
Ma cosa intendeva Lutero per malinconia? E in che senso essa sarebbe strettamente connessa
con l’azione demoniaca?

1 Martin Lutero, Discorsi a tavola, a cura di Leandro Perini, con un saggio di Delio Cantimori, Torino, Einaudi, 1969,
p. 67. 2 Ivi, p. 40.
3 Fiorella De Michelis Pintacuda, Tra Erasmo e Lutero, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2001, pp. 74-76. Su
Erasmo e Lutero cfr. anche il recente libro di Franco Buzzi, Erasmo e Lutero. La porta della modernità (xvi-xvii ), Milano,
Jaca Book, 2014. 4 Cfr. ivi, p. 230.
5 La dottrina delle complessioni risale, come è noto, a Galeno ed è completamente reinterpretata da Pietro, il quale,
tra l’altro, ritraduce dal greco il De complexionibus, non contento, dice, della traduzione araba. Cfr. Pietro d’Abano,
Conciliator, diff. 18, propter tertium. Su questo problema cfr. Lynn Thorndike, Translation of Galen from the Greek by
Peter of Abano, «Isis», 33 (1942), pp. 649-653 e Marie-Thérèse d’Alverny, Pietro d’Abano traducteur de Galien, «Medioevo»,
ii (1985), pp. 19-64. Pietro d’Abano considera i pianeti in rapporto ai loro effetti, per i quali essi sono provvisti delle me-
desime combinazioni delle qualità fisiche elementari: freddo, caldo, umido, secco, come nel mondo sublunare. Come nei
temperamenti umani le complessioni derivano dalla combinazione delle loro qualità e delle loro proporzioni, così la com-
plexio stellarum è ordinata alla maniera della natura umana. Essa, infatti, tende al caldo o al freddo, al secco o all’umido.
Pietro d’Abano distingue tra stelle prese secundum se o formaliter, e stelle considerate secundum operationem. Solo in questo
secondo caso, esse possono ben dirsi calde o fredde, in virtù degli effetti che producono. Cfr. Pietro d’Abano, Proble-
mata, 25, 20.
6 Questo testo, come ha dimostrato Claudio Buccolini, è fortemente permeato da dottrine riconducibili ad Agostino
e a Guglielmo d’Alvernia. Tommaso, pur presente tra le auctoritas del testo, è radicalizzato attraverso una serie di rimandi
alla sua opera del tutto decontestualizzati, tesi a virarne il senso nella direzione dell’agostinismo. Cfr. Claudio Bucco-
lini, Il diavolo nel Malleus maleficarum, in Il Diavolo nel Medioevo, cit., pp. 519-551. Per una visione d’insieme della problema-
tica cfr. La stregoneria in Europa (1450-1650), a cura di Marina Romanello, Bologna, il Mulino, 1981 e gli studi più recenti con-
tenuti in I vincoli della natura. Magia e stregoneria nel Rinascimento, a cura di Germana Ernst e Guido Giglioni, Roma,
Carocci, 2012. 7 Lutero, Discorsi a tavola, cit., p. 66.
8 De Michelis Pintacuda, Tra Erasmo e Lutero, cit., p. 227. 9 Lutero, Discorsi a tavola, cit., p. 66.
due note a margine di melencolia i di dürer: lutero ed erasmo 151
«Quando sono immerso in pensieri mondani o domestici – leggiamo sempre nei Discorsi a
tavola – mi prendo un Salmo o un detto di San Paolo e ci dormo sopra. I pensieri che il Diavolo
mi insinua invece mi costano di più; così devo dire delle arguzie più forti per storcemelo di dos-
so, mentre con facilità supero i pensieri domestici e familiari».1 Il diavolo, infatti, si cela dietro
l’afflizione della coscienza, tanto che in questo stato d’animo è assai difficile riconoscerlo, in
quanto esso si trasforma «in angelo della luce».2 Egli approfitta del rimorso e della disperazione
per far in modo che il Cristiano diventi suo figlio, figlio di Satana.3 D’altronde, Dio stesso «vuole
che noi siamo lieti ed odia la tristezza. Se infatti volesse che fossimo tristi, non ci darebbe il sole,
la luna e gli altri frutti della terra […] Farebbe le tenebre. Non farebbe più sorgere il sole o
tornare l’estate».4 In data 30 novembre dell’anno 1531, Lutero annotava un fatto accaduto a
Girolamo Weller, «un brav’uomo» assillato dallo spirito della tristezza. Questi, essendo per caso
tormentato dai suoi pensieri tanto da sentirsi svenire, fintantoché trattenne queste parole, ‘sal-
vami Signore’, stette bene. Avendo ripreso un po’ le forze, esclamò: «Questo è un combatti-
mento spirituale e questi sono i dardi infuocati del Diavolo. Voi non dovete dare spazio al Dia-
volo. E dovete ascoltare noi fratelli, Dio infatti parla per mezzo nostro». E a Lutero disse:
«Anche tu patirai un giorno le stesse cose».5 Ed è nei momenti di tristezza che il Diavolo
insinuava Lutero, spingendolo, a volte, ad interpretare il testo sacro «fuori dalla grazia».6 Ecco
allora che, argomentazioni fallaci, divenivano convincenti proprio durante l’assalto malinconi-
co del diavolo. Solo «quando uno è in sé, non prima» tali argomentazioni si mostravano infatti
per quel che erano, ossia argomentazioni ridicole. «Che volpone! – aggiungeva Lutero – Ci
insidia di nascosto ovunque!».7 «Nella tentazione – continuava – spesso me ne sono andato
all’inferno, dentro, finché Dio non mi ha richiamato».8 L’uomo, infatti, è troppo spesso incline
a credere più a Satana che a Cristo, poiché è la stessa sua natura ad essere incline alla dispera-
zione, più che alla speranza.9 Il diavolo, secondo Lutero, poteva essere vinto per due vie: 1) «nel-
la parola e per mezzo della parola», atto che deve avvenire sempre nella grazia; 2) o scacciando
i cattivi pensieri, in sé diabolici, «pensando ad altro, ad una danza, ad una graziosa fanciulla».10
Per respingere le Anfechtungen e le depressioni, il riformatore tedesco non esitava a ricorrere
a qualsiasi tipo di mezzo, opponendo loro risa, allegria, chiassosità, oscenità, disprezzo, insulti:
insomma «tutto ciò che fosse forte ed efficace, robustamente terreno e di buon umore».11 Co-
me è stato scritto non senza ironia, «l’ardore di Satana per l’anima di Lutero lo faceva stare così
a lui intimo»12 che il riformatore passava più notti col diavolo che con la moglie Käthe. Tuttavia,
egli poteva trovare una facile via per combattere la tristitia diabolica proprio giacendo a letto
con sua moglie.13
Lutero aveva del diavolo un’idea tutt’altro che riconducibile a fatterelli sinistri, coi quali, an-
cora oggi, si ama divertire o atterrire l’avido lettore dei numerosi libri dedicati a Satana. Il rifor-
matore tedesco aveva del «principe di questo mondo» una immagine più profonda e complessa,
legata anche ad una precisa concezione della malinconia umana. Il diavolo era presente soprat-
tutto in lui, «dentro», nei suoi dubbi, nelle sue incertezze di uomo di fede. Ciò che lo atterriva
non erano le nocciole scaraventate giù per le scale dal diavolo, ma la capacità del Maligno di
confonderlo nella tristezza circa la propria fede. Era questo dubbio che andava a tutti i costi –
e con ogni mezzo – evitato.

Ben diversa la concezione demonologica di Erasmo, propugnatore di quello che definirei un


Cristianesimo della luce assai lontano dal cono d’ombra dell’ossessione diabolica luterana. Co-

1 Ivi, p. 6. 2 Ivi, p. 14.


3 Cfr. ivi, pp. 24-25. 4 Ivi, p. 31.
5 Ivi, pp. 26-27. 6 Ivi, p. 36.
7 Ibidem. 8 Ivi, p. 37.
9 Cfr. ivi, p. 68. 10 Ivi, p. 37.
11 Jeffrey B. Russel, Il diavolo nel mondo moderno, Roma-Bari, Laterza, 1988, p. 27.
12 Ivi, p. 25. 13 Cfr. ivi, p. 27.
152 donato verardi
me ha messo in luce Panofsky, in relazione all’ispirazione erasmiana che domina l’incisione Il
cavaliere, la morte e il diavolo di Dürer, era proprio l’Enchiridion di Erasmo che poteva rivelare al-
l’artista «l’idea di una fede cristiana così virile, chiara, serena e forte che i pericoli e le tentazioni
del mondo semplicemente cessano di essere tali». Il diavolo, quindi, non sarebbe un vero avver-
sario da vincere, ma da ignorare. Esso sarebbe ridotto a mero “spauracchio” e “fantasma”, “om-
bra del deserto”.1 In effetti, è proprio questa concezione del diavolo che ritroviamo nell’Enchi-
ridion, dove l’angoscia che emerge nelle pagine che Lutero dedica al diavolo è del tutto assente.
Due regole, contenute in questo testo, appaiono a riguardo particolarmente importanti: la di-
ciannovesima, Confronto tra Dio e demonio; e la regola ventesima, Confronto tra il premio e la vita
eterna.
Nella regola diciannovesima Erasmo scriveva:
Confronta questi due autori così diversi tra di loro, Dio e il diavolo; col peccato ti rendi nemico il primo
e fissi il secondo come tuo padrone. Con l’innocenza e la grazia sei ammesso nel numero degli amici di
Dio, sei adottato per avere il diritto di eredità dei suoi figli. Con il peccato invece sei costituito come schia-
vo e figlio del demonio. L’uno è la sorgente eterna e il modello della somma bellezza, della somma felicità,
del bene supremo che si comunica a tutti. L’altro è padre di tutti i mali, della bruttezza estrema, dell’in-
felicità più profonda. Ricorda i benefici dell’uno verso di te e i malefici dell’altro. Con che bontà il primo
ti ha creato? Con che misericordia ti ha riscattato? Con che generosità ti ha arricchito? Con che dolcezza
sopporta ogni giorno i tuoi peccati? Con che gioia accoglie il tuo pentimento? All’opposto di tutte queste
cose, con che malevolenza il diavolo ormai da tempo insidia la tua salvezza? In che affanno ti ha gettato?
E poi, che cosa macchina ogni giorno, se non come trascinare alla perdizione eterna l’intera specie del
genere umano?

Nella ventesima, aggiungeva:


Il verme degli empi non muore già su questa terra e i peccatori patiscono i supplizi dell’inferno. Nè diversa
è la fiamma dalla quale è tormentato quel famoso ricco epulone del Vangelo. Nè diversi sono i numerosi
supplizi infernali di cui tanto hanno scritto i poeti, questa continua ansia dello spirito che accompagna l’a-
bitudine al peccato. Prenda dunque chi vuole ricompense del futuro tanto diverse; la virtù di per sé com-
porta qualche cosa che vale abbondantemente la pena della sua ricerca, il peccato comporta di per sé qual-
cosa che deve essere aborrito.2

Per Erasmo, il diavolo era il padre dell’infelicità più profonda; insidiava l’uomo e lo gettava
nell’affanno, macchinando ogni giorno espedienti per indurlo alla perdizione.
In cosa, dunque, sarebbe diversa la posizione erasmiana da quella di Lutero? A una prima let-
tura dei passi poc’anzi riportati le due immagini del demonio sembrerebbero assai simili, visti
i comuni riferimenti alla tristezza profonda, all’affanno dell’animo che il diavolo provochereb-
be. In realtà sono due posizioni antitetiche, che sottendono anche differenti concezioni antro-
pologiche e della grazia. Se per Lutero, la malinconia e la tristezza erano debolezze tipiche
dell’uomo, che favorivano l’ingresso del diavolo nella sua vita interiore; per Erasmo la tristezza
era un sentimento successivo all’azione diabolica, che consisteva, però, nel peccato stesso che
l’uomo compiva. Secondo Erasmo, solo dopo aver peccato, non prima, si era afflitti dal tormen-
to dell’animo, dalla «profonda tristezza». Essa era assai simile alle pene dell’inferno, tanto che,
«i molti supplizi infernali di cui tanto hanno scritto i poeti» non erano poi così diversi da «questa
continua ansia dello spirito che accompagna l’abitudine al peccato». Per Erasmo, che nell’Exor-
cismus sive spectrum si burlava di un rito di esorcismo, non era la malinconia ad attrarre o a fa-
vorire l’ingresso del diavolo nella coscienza dell’uomo. Solo dopo che, attraverso il peccato,
l’uomo aveva scelto (stoltamente, pazzamente) di aderire alla fazione del male, egli era afflitto
dalla abituale tristezza del peccatore.

1 Erwin Panofsky, La vita e le opere di Albrecht Dürer, Milano, Feltrinelli, 1983, p. 199.
2 Cfr. Enchiridion Erasmi Roterodami Germani de milite Christiano, Lypsi, Schuman, 1515, ff. xlvii-xlviii.
due note a margine di melencolia i di dürer: lutero ed erasmo 153

Tornando a Dürer e concludendo. Credo che sia proprio questa concezione del diavolo e del-
l’uomo proposta da Erasmo, e non quella che sarebbe stata incarnata dal Malleus maleficarum o
dallo stesso Lutero, che avrebbe ispirato l’artista tedesco in Melencolia I. Infatti, solo limitando
l’azione del diavolo nella vita della coscienza, sarebbe stato possibile per Dürer – ora in linea
con la spiritualità di Erasmo e con le raffinate dottrine astrologiche del tempo – attribuire a
Saturno1 e non a Satana il ruolo di ‘signore della Malinconia’.

1 Sulle fonti filosofiche di Melencolia I di Dürer e sul ruolo di Saturno sono da vedersi le importanti pagine di Marco
Bertozzi, Mensula Iovis. Considerazioni sulle fonti filosofiche della Melencolia I di Albrecht Dürer, «I Castelli di Yale», ii (2), pp.
19-44, a cui rimando anche per una puntuale discussione della bibliografia sull’argomento. Sul dibattito astrologico del
tempo, cfr. Medieval and Renaissance astrology, ed. by Donato Verardi, «Philosophical readings» (Special Issue), 1 (2015).
F I G URA D E LL’I N OPE ROS IT À
L A M E LE N COL I A I D I A L BRE C HT D ÜRE R
NEL P E N S I E RO D I G I ORG IO AG AM BE N
G i aco m o M erc u r iali
This essay presents the work of the Italian philosopher Giorgio Agamben in the light of Dürer’s engraving Melen-
colia I. In the first part we discuss the occurrence of the engraving in three Agamben’s books: The Man Without
Content (1970), Stanzas (1977), and Nudities (2009). In the second, we attempt to interpret his use of Melencolia
I as a figure of the concept of inoperativity. Inoperativity is seen by the philosopher as the essential feature of
humanity, and its characterization takes advantage of the axiological overturning of the Aristotelian couple
energeia/dynamis in favour of the second. From there follows what can be called an anthropology of (im)poten-
tiality which shaped not only Agamben’s most known work in political philosophy but also his view of the artistic
creation: both these research paths are therefore to be seen as the result of ontological interrogations. The footnotes
of the essay retrace key passages in Agamben’s bibliography that help to follow the development and refinements of
the concept of inoperativity.

L ’incisione di Albrecht Dürer intitolata Melencolia I compare diverse volte nei testi pubblicati
da Giorgio Agamben. A cinquecento anni dalla sua realizzazione, il valore d’attualità del-
l’opera come termine di confronto per la riflessione filosofica contemporanea è testimoniato
dalla sua ricorrenza nel lavoro del filosofo lungo un arco temporale di quasi quarant’anni. L’ap-
parizione dell’angelo illumina un percorso di lettura attraverso le opere di Agamben che ci per-
mette di seguire lo sviluppo del concetto di inoperosità, uno dei pilastri fondamentali del suo
progetto di ricerca.

1. L’angelo dell ’ arte


La prima occorrenza della Melencolia düreriana nei testi di Agamben risale al suo primo libro,
L’uomo senza contenuto, pubblicato da Rizzoli nel 1970.1 L’apparato di note dell’ultimo capitolo,
intitolato “L’angelo malinconico”, specifica la filiazione delle informazioni di Agamben a par-
tire dall’Ursprung des deutschen Trauerspiels di Walter Benjamin (1928), a sua volta debitore del
Dürers “Melencolia I”. Eine quellen- und typengeschichtliche Untersuchung di Erwin Panofsky e Fritz
Saxl (1923). Nel contesto di una trattazione della relazione temporale che l’uomo instaura con
l’oggetto artistico, l’angelo melanconico che «ha fissato la realtà circostante in una sorta di ar-
resto messianico» viene contrapposto all’Angelus Novus di Paul Klee che Benjamin aveva utiliz-
zato per raffigurare l’inarrestabile e disastrosa corsa del tempo verso il futuro nella nona Tesi
di filosofia della storia. Il potere dell’angelo di Dürer, immaginato da Agamben come un «angelo
dell’arte», sarebbe quello di salvare taluni oggetti dall’oblio e dall’indecifrabilità del «cumulo di
rovine» storiche, a patto di garantirne la sopravvivenza come «citazioni» straniate, simili agli
«utensili della vita attiva e [agli] altri oggetti che stanno sparsi intorno all’angelo malinconico
[che] hanno perso il significato di cui li investiva la loro utilizzabilità quotidiana».2 Dunque se-
condo Agamben l’arte possiede un «potenziale di estraneazione» in grado di spostare un ogget-
to dalla sfera dell’uso quotidiano verso un altro dominio, in qualche modo «inafferrabile», nel
quale, tra le altre cose, l’oggetto si garantisce una possibilità di sopravvivenza storica proprio

Giacomo Mercuriali, giacomo.mercuriali@gmail.com


1 Giorgio Agamben, L’uomo senza contenuto (Rizzoli, 1970), Macerata, Quodlibet, 1994, pp. 164-165.
2 Ivi, p. 165.
156 giacomo mercuriali
perché perde la sua qualità di utilità pratica. Ciò che rimarrà al centro dell’attenzione di Agam-
ben negli anni a venire sarà la possibilità di questo scarto che spinge ciò che è quotidiano e pra-
tico ad acquisire un nuovo statuto ontologico – operazione che nell’ambito delle arti plastiche
è esemplificata dal ready-made, oggetto-limite la cui dimora nella sfera estetica è impossibile
«tranne che per l’istante che dura l’effetto di estraneazione».1
L’uomo senza contenuto, che si presenta come una ricerca genealogica sul concetto di creazio-
ne, interessa il nostro discorso anche perché vi appaiono per la prima volta alcune riflessioni
intorno ad Aristotele che accompagneranno nei testi successivi lo svolgimento dei problemi le-
gati all’inoperosità: in particolare, le pagine dedicate alle coppie poiesis/praxis e dynamis/ener-
geia puntano già verso la concezione dell’umanità dell’essere umano intesa come un gioco di
polarità tra potenzialità e destinalità biologico-sociali.2

2. Fantasmi malinconici
La Melencolia ritorna pochi anni dopo come protagonista del saggio che apre il secondo libro
di Agamben, Stanze, quasi a riprendere il filo di un discorso interrotto, sviluppando una intui-
zione debitrice di Benjamin contenuta in nota fra le ultime pagine de L’uomo senza contenuto.3
La “Prefazione” del libro lo presenta come una ricerca sul «modello della conoscenza […] cer-
cato in quelle operazioni, come la disperazione del malinconico […] in cui il desiderio nega e,
insieme, afferma il suo oggetto e, in questo modo, riesce a entrare in rapporto con qualcosa
che non avrebbe potuto altrimenti essere né appropriato né goduto».4
Agamben si addentra in una minuziosa descrizione del peccato di acedia che Panof ksy e Saxl
consideravano la fonte di alcuni precedenti iconografici dell’incisione di Dürer. Per Agamben,
sebbene la psicologia moderna abbia svuotato il termine acedia dal suo significato originale, di-
minuendone la complessità e facendone un semplice peccato contro «l’etica capitalistica del la-
voro», il pensiero medioevale, che assumeva in una sola parola il plesso costituito da tristitia e
acedia, teneva già insieme quella polarità positivo-negativa che Panofsky e Saxl riconoscevano
solo come una riscoperta umanistica del neoplatonismo di Marsilio Ficino.5 Nei termini di
Tommaso d’Aquino, la perversione dell’accidioso sarebbe stata quella di «una volontà che vuo-
le l’oggetto, ma non la via che vi conduce». La fenomenologia dell’accidia elaborata dai padri
indicava già come il peccatore, pur non riuscendo ad attingere all’oggetto del suo desiderio
(Dio, nel caso dei monaci claustrali dediti alla contemplazione in cui la patologia melanconica
poteva comparire spesso), avesse comunque la possibilità positiva di tenerne ferma una rappre-
sentazione: «Poiché il suo desiderio rimane fisso in ciò che si è reso inaccessibile, l’acedia non è
solo una fuga da…, ma anche una fuga per…, che comunica col suo oggetto nella forma della
negazione e della carenza».6
Il saggio prosegue rilevando come già a partire dall’aristotelico problema xxx la malinconia
fosse associata al desiderio amoroso e alla sua perversione, concezione che all’epoca dell’amor
cortese e dell’umanesimo ritornava nei termini di «un desiderio che vuole possedere e toccare
ciò che dovrebbe essere solo oggetto di contemplazione, […] un gesto che vuole abbracciare

1 Ivi, p. 95.
2 Ivi, pp. 89-101 e 103-141. In queste pagine risuonano le voci di due autori di riferimento per Agamben: Martin Heideg-
ger (cfr. L’origine dell’opera d’arte [1935] in Sentieri interrotti, Firenze, La Nuova Italia, 1968) e Hannah Arendt (cfr. Vita Activa
[1958], Milano, Bompiani, 1964).
3 Agamben, L’uomo senza contenuto, cit., p. 173. Cfr. Walter Benjamin, L’origine del dramma barocco tedesco (1928), To-
rino, Einaudi, 1999, p. 130.
4 Giorgio Agamben, Stanze (Einaudi, 1977), Torino, Einaudi, 2011, p. xiv. Si tratta di una raccolta di saggi; quello a
cui ci si riferisce costituisce un ampliamento di un saggio già pubblicato sulla rivista «Paragone» nel 1974 intitolato I
fantasmi di Eros. Dürer è menzionato anche l’anno successivo in Giorgio Agamben, Warburg e la scienza senza nome,
«Prospettive settanta», luglio-settembre 1975; ora in La potenza del pensiero. Saggi e conferenze (2005), Vicenza, Neri Pozza,
2010, pp. 127-151. Questi contributi sono da far risalire a una residenza di Agamben presso il Warburg Institute a Londra
fra il 1974 e il 1975. 5 Agamben, Stanze, cit., p. 8. Cfr. Benjamin, L’origine del dramma barocco, cit., p. 124.
6 Agamben, Stanze, cit., p. 13.
figura dell ’ inoperosità 157
l’inafferrabile».1 Seguendo poi la trattazione della melanconia di Sigmund Freud, Agamben no-
ta come nella prospettiva dello psicoanalista, «la malinconia sarebbe […] la capacità fantasma-
tica di far apparire come perduto un oggetto inappropriabile».2 Agamben considera proprio la
teoria medico-filosofica medioevale del fantasma il terreno di intelligibilità comune alla teoria
amorosa, alla teoria delle complessioni e alla teoria delle influenze astrali, determinate da una
fisiologia che pone l’esistenza dello spiritus phantasticus, un corpo sottile dell’anima capace di
ricevere le immagini degli oggetti e formare i fantasmi. Il sistema che vede incatenati soggetto,
spirito fantastico, fantasma e oggetto del desiderio è esemplificato in un passo di Infanzia e sto-
ria, il terzo libro scritto dal filosofo: il fantasma, la produzione della fantasia, in quanto medio
fra uomo e oggetto era pensato come una condizione di appropriabilità dell’oggetto di cui ben
sapevano gli stilnovisti che, nelle parole di Guido Cavalcanti, cantavano come l’amore fosse in
grado di formare «di desio nova persona».3 In definitiva, considerate queste analisi sulla gno-
seologia fantasmatica, per Agamben nella Stimmung melanconica sarebbe in gioco la capacità
del soggetto di appropriarsi di un inappropriabile – Dio, donna o feticcio – attraverso il suo «fan-
tasma», verso la sua immagine, una operazione che «apre uno spazio che non è né l’allucinata
scena onirica dei fantasmi né il mondo indifferente degli oggetti naturali» ma l’apertura di un
mondo «che gli è più vicino di ogni altro», una «topologia della cultura».4
Considerando l’incisione di Dürer nella prospettiva della teoria fisiologica dello spiritus phan-
tasticus, Agamben propone infine di vedere nel putto che scrive sulla tavoletta non più la stolida
Pratica, come in Panofsky e Saxl, ma «lo Spiritus phantasticus stesso nell’atto di imprimere nella
fantasia il fantasma». A questa conclusione iconografica si aggiunge anche l’idea di considerare
il pipistrello come un «emblema minore che contiene la chiave dell’emblema maggiore in cui
è contenuto»; la menzione cinquantadue del secondo libro degli Hieroglyphica di Orapollo pa-
ragona infatti il volo senza piume del pipistrello al «tentativo dell’uomo di superare audacemen-
te la miseria della sua condizione osando l’impossibile».5 La lettura complessiva della Melencolia
come «l’emblema del tentativo dell’uomo, al limite di un essenziale rischio psichico, di dar cor-
po ai propri fantasmi e di padroneggiare in una pratica artistica quel che non potrebbe altri-
menti essere né afferrato né conosciuto»6 pone Agamben in coda a Benjamin e Aby Warburg,
nel solco della tradizione che ha visto nel celebre bulino la rappresentazione della tensione tra-
gica dell’uomo verso la conoscenza piuttosto che una meditazione ombrosa sui limiti intellet-
tuali dell’artista rinascimentale.
Per quanto riguarda il nostro discorso sull’inoperosità, raccogliamo e teniamo a mente da
questa sintesi la presentazione dello stato malinconico come il paradigma di un pensiero che
può mantenersi in relazione con un oggetto fantasmatico ipostatizzato nella rappresentazione,
un oggetto al tempo stesso «reale e irreale, affermato e negato». Ed è proprio la possibilità e la
consapevolezza di mantenersi in relazione con un apparente non-essere, ad aprire, attraverso
esso, un mondo di senso per l’uomo.

3. Corpi fuori uso


Ritroviamo la Melencolia molti anni dopo, tra le pagine di un saggio intitolato Il corpo glorioso
contenuto nella raccolta Nudità del 2009.7 Il tema qui trattato è il destino del corpo dei giusti

1 Ivi, pp. 20-23. 2 Ivi, pp. 25-26.


3 Giorgio Agamben, Infanzia e storia (Einaudi, 1978), Torino, Einaudi, 2001, pp. 19-20.
4 Agamben, Stanze, cit., p. 33.
5 Ivi, p. 34. Questa ipotesi può essere sostenuta anche ricordando una informazione fornita da Panofsky stesso che in
La vita e l’opera di Albrecht Dürer (1955), Milano, Feltrinelli, 1983, pp. 226-231, riporta come negli stessi anni dell’elaborazione
della Melencolia, Dürer fosse al lavoro non solo sulle illustrazioni per l’edizione della traduzione degli Hieroglyphica intra-
presa da Willibald Pirckheimer, ma anche sull’incisione dell’Arco trionfale di Massimiliano I, la cui edicola sommitale è in-
terpretata da Panofsky proprio sulla base del testo di Orapollo. 6 Agamben, Stanze, cit., pp. 34-35.
7 Giorgio Agamben, Il corpo glorioso, in Nudità, Roma, Nottetempo, 2009, pp. 129-146. Le premesse a questo saggio
era già state poste in Idem, L’Aperto. L’uomo e l’animale, Torino, Bollati - Boringhieri, 2002, pp. 25-27.
158 giacomo mercuriali
ascesi in Paradiso secondo l’elaborazione della teologia medioevale. Origene, Gregorio Magno
e Tommaso d’Aquino sono ricordati per il loro sforzo di pensare il possibile funzionamento
biologico dei corpi risorti; la loro caratterizzazione deve necessariamente sciogliere problemi
sulla funzione gloriosa delle sensazioni, degli organi nutritivi e degli organi sessuali. Sembre-
rebbe infatti paradossale che i salvati conservino ancora facoltà tanto basse, eppure la resurre-
zione dovrebbe riportare in vita il corpo nella sua integrità. Per dirimere la questione i padri
introducono una separazione tra l’organo e la sua funzione fisiologica specifica: una volta
isolato, l’organo acquista una funzione ostensiva che esibisce la sua operazione eternamente
sospesa evidenziando e glorificando la sua natura potenziale. Le funzioni fisiologiche del corpo
glorioso non sono più eseguite ma solamente mostrate e in questo «la gloria è […] solidale
dell’inoperosità».1
Lo stato degli organi dei beati, eternamente «inadoperati e inadoperabili», è spiegato da
Agamben con un paragone che rievoca la Melencolia düreriana: «Come gli strumenti sparsi al
suolo ai piedi dell’angelo malinconico dell’incisione di Dürer o come i giocattoli abbandonati
dai bambini dopo il gioco, gli oggetti, separati dal loro uso, diventano enigmatici e perfino in-
quietanti».2 In questo modo viene stabilito il collegamento esplicito fra l’angelo e la riflessione
sull’inoperosità. Nel gioco i bambini trovano facile trasferire gli oggetti – preferibilmente quel-
li antichi e fuori uso – nel loro regno magico, modificandone l’essenza di strumenti o cose e
spostandoli in un nuovo mondo di significati. Gli strumenti inutilizzati, gli organi dei beati e i
giocattoli abbandonati dopo il gioco indicherebbero così una situazione di indecidibilità che le
cose assumono una volta che abbandonano il loro originario sistema di referenza, prima di
rientrare in uno nuovo. Per estendere l’esempio, Agamben cita Martin Heidegger, di cui ricor-
da la distinzione svolta in Essere e Tempo fra strumenti direttamente impiegabili, come un
martello, che esistono nella sfera dell’essere-a-portata, Zuhandenheit, e gli strumenti fuori uso,
come un martello rotto, che risiedono nella sfera della disponibilità senza scopo, Vorhandenheit,
presenti al di fuori di ogni uso possibile.3 Ma è proprio questa stazione enigmatica delle cose
in una zona indecidibile a fare segno verso la possibilità di un nuovo uso che esse potranno as-
sumere. Mentre in Paradiso gli organi dovranno abbandonare per sempre la loro funzione, esi-
bendo senza fine la propria paradossale insignificanza, sulla terra ciò che momentaneamente
si trova in questa situazione è sempre disponibile a una nuova realtà, eventualmente, come nel
gioco e nell’arte, liberata da fini direttamente tecnico-strumentali in una dimensione culturale.
Abbiamo identificato dunque le tracce di una riflessione che era suggerita in chiusura delle
pagine sulla Melencolia in Stanze, pagine che Agamben non si è scordato, a distanza di anni, di
sviluppare:
E poiché la sua lezione è che si può afferrare veramente solo ciò che è inafferrabile, a suo agio il malin-
conico è solo fra queste ambigue spoglie emblematiche. Come reliquie di un passato su cui sta scritta la
cifra edenica dell’infanzia, esse hanno catturato per sempre un barlume di ciò che può essere posseduto
solo a patto di essere perduto per sempre.4

4. Inoperosità. Un ’ antropologia dell ’ (im)potenza


Nei paragrafi precedenti abbiamo passato in rassegna le citazioni esplicite della Melencolia nei
testi di Agamben e, contemporaneamente, abbiamo proposto una interpretazione generale
della sua presenza come figura che rimanda a una condizione contemplativa in cui l’uomo
sospende la comprensione delle cose nel loro uso quotidiano e le pone nel modo di una
disponibilità a un nuovo uso.5 La sospensione avviene, seguendo quanto visto in L’uomo senza

1 Agamben, Il corpo glorioso, cit., p. 139. 2 Ivi, p. 140.


3 Ivi, pp. 139-140. 4 Agamben, Stanze, cit., p. 35.
5 Cfr. Benjamin, L’origine del dramma barocco, cit., p. 25: «Il pensiero riprende sempre da capo, di circostanza in circo-
stanza ritorna alla cosa stessa. Questo interrotto riprender fiato è la più specifica forma di esistenza della contemplazione».
figura dell ’ inoperosità 159
contenuto, Stanze e Nudità, quando il pensiero è in grado di raggiungere l’essenza potenziale
della cosa, un apparente non-essere, e mantenersi fermo in essa. È a partire da questo momento
che è possibile un’apertura verso un nuovo uso e verso quella che Agamben identifica come
una maggiore verità umana, seguendo Heidegger nel rovesciare l’assiologia della coppia atto/
potenza quale era stata stabilita da Aristotele e dalla tradizione metafisica successiva.1
A questo punto, per spiegare il collegamento tra la melanconia e l’inoperosità, è necessario
provare a dare un profilo generale del sistema messo in piedi da Agamben nel tentativo di fon-
dare una antropologia dell’(im)potenza nonché i risultati che ne conseguono nell’ambito della
teoria politica e teoria dell’arte. In primo luogo, dobbiamo considerare la definizione di poten-
za (dynamis) in Aristotele, che Agamben discute svariate volte, esaminata estesamente per la
prima volta in La potenza del pensiero, una conferenza pronunciata a Lisbona nel 1987 ed edita
nel 2005 nella raccolta dal titolo omonimo. Aristotele distingue due generi di potenza: una, che
facilmente riconosciamo al bambino, prevede un’alterazione attraverso l’apprendimento,
l’altra, che compete a chi possiede già una tecnica, riguarda una facoltà, hexis, che si può
mettere o non mettere in atto. Così si può dire che un architetto ha la potenza di costruire an-
che quando non sta costruendo o che un cantante ha la potenza di cantare anche quando non
sta cantando. Questo secondo genere di potenza è definito negativamente: «L’architetto è,
cioè, potente, in quanto può non-costruire […]. Vi è una forma, una presenza di ciò che non
è in atto, e questa presenza privativa è la potenza. Come Aristotele afferma senza riserve in un
passo straordinario della Fisica: “La privazione, è come una forma” (193 b 19-20)».2 Ciò che
definisce il modo di essere della potenza è che essa esiste nella forma di «una signoria su una
privazione».3 La potenza per Aristotele esiste nella forma della facoltà, e chi la possiede può
tanto metterla che non metterla in atto; la potenza e il suo contrario, la potenza-di-non, si
coappartengono e la loro relazione costituisce l’essenza della potenza: «ogni potenza umana
è, cooriginariamente, impotenza; ogni poter-essere o poter-fare è, per l’uomo, costitutivamen-
te in rapporto con la propria privazione».4 Così l’architetto sarà detto tale non solo quando
esercita la sua professione ma anche quando non la esercita. Mentre gli altri animali possono
solo la loro potenza specifica, questo o quel comportamento, inscritto nella loro vocazione
biologica, la potenza umana è illimitata proprio perché essa può rimanere in relazione con la
sua stessa negatività.
Proseguendo la ritrattazione della coppia aristotelica e passando dall’ambito della potenza a
quello dell’atto, seguendo l’Etica Nicomachea Agamben si chiede se esista un’opera specifica del-
l’uomo.5 Per Aristotele è chiaro che esiste una produzione che definisce l’architetto o una azio-
ne che definisce il suonatore di flauto, ma è dubbio quale sia l’opera che definisce l’uomo in
quanto tale. Di passaggio, Aristotele propone che l’uomo possa essere il vivente nato senz’o-
pera e senza attività a lui propria, ma lascia subito cadere un’ipotesi che Agamben si dice invece

1 Cfr. Martin Heidegger, Essere e tempo, Milano, Longanesi, 2005, p. 54: «Più in alto della realtà si trova la possibilità»
citato in Carlo Altini, Potenza/Atto, Bologna, il Mulino, 2014, p. 168.
2 Giorgio Agamben, La potenza del pensiero, in La potenza del pensiero (Neri Pozza, 2005), Vicenza, Neri Pozza, 2010,
pp. 284-285. Si veda anche: Agamben, Infanzia e storia, cit., 1978, pp. xi-xii (da “Experimentum linguae”, premessa aggiunta
nell’edizione francese ampliata nel 1989, edita in Italia nella ristampa del 2001): «La potenza – o il sapere – è la facoltà spe-
cificamente umana di mantenersi in relazione con una privazione»; Giorgio Agamben, Gilles Deleuze, Bartleby, la
formula della creazione, Macerata, Quodlibet, 1993, p. 52; Giorgio Agamben, Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita
(1995), Torino, Einaudi, 2005, pp. 51-54; Idem, Su ciò che possiamo non fare, in Nudità, cit., 2009, pp. 67-68; Idem, Che cos’è
l’atto di creazione, in Il fuoco e il racconto, Roma, Nottetempo, 2014, pp. 39-60.
3 Agamben, Che cos’è l’atto di creazione, cit., pp. 43-44. 4 Ivi, pp. 44-45.
5 Agamben, Homo Sacer, cit., 1995, pp. 70-71. Si veda anche: Giorgio Agamben, Mezzi senza fine, Torino, Bollati - Bo-
ringhieri, 1996, p. 109; Idem, L’opera dell’uomo, in «Forme di vita», 2004, ora in La potenza del pensiero, cit., pp. 372-384; Idem,
Art, Inactivity, Politics, Atti del convegno “Serralves International Conference: Criticism of contemporary issues”, Porto,
Fundação Serralves, 2007, pp. 131-141; Idem, Il regno e la gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo, Vicenza,
Neri Pozza, 2009, pp. 269-270; Idem, Che cos’è l’atto di creazione, cit., 2014, che riassume, sintetizzandoli, i temi aperti da La
potenza del pensiero e L’opera dell’uomo.
160 giacomo mercuriali
pronto a raccogliere.1 Nella sua prospettiva, l’umanità dell’uomo non si trova dal lato dell’ener-
geia, non è leggibile nelle sue opere, quanto in quello della dynamis, della sua potenza, vista
però dalla prospettiva essenziale della sua impotenza. Ma questa impotenza non corrisponde a
una inattività quanto alla consapevolezza di poter scegliere di non esercitare la propria potenza;
abbiamo così una definizione dell’inoperosità:
La potenza-di-non non è un’altra potenza accanto alla potenza-di: è la sua inoperosità, ciò che risulta dalla
disattivazione dello schema potenza/atto. Vi è, cioè, un nesso essenziale fra potenza-di-non e inoperosità.
[…] La potenza-di-non, sospendendo il passaggio all’atto, rende inoperosa la potenza e la esibisce come
tale».2

In questo modo la potenza-di-non si configura come una «resistenza interna alla potenza» e ne
impedisce il totale esaurimento nell’atto, la spinge a «potere la propria impotenza».3 Dalla so-
spensione della potenza risultano opere che insieme al loro oggetto presentano la potenza con
la quale sono state realizzate, come Las Meninas di Diego Velázquez: «Così la grande poesia non
dice solo ciò che dice, ma anche il fatto che lo sta dicendo, la potenza e l’impotenza di dirlo. E
la pittura è sospensione ed esposizione della potenza dello sguardo, come la poesia è sospen-
sione ed esposizione della lingua».4
Nei termini di Agamben, sarebbe perciò inoperosa qualsiasi produzione o azione che, attra-
verso la contemplazione, depone l’opera dalla sua dimensione bioeconomica e conserva in essa
la potenza della sua origine, una potenza che non precede l’opera, ma «l’accompagna e apre in
possibilità», senza esaurirsi interamente nell’atto. Il significato eccezionale che secondo Agam-
ben la tradizione filosofica occidentale ha riservato all’inoperosità deriva dall’identificazione di
una prassi propriamente umana che disattiva le funzioni meramente biologiche del vivente:
Contemplazione e inoperosità sono in questo senso gli operatori metafisici dell’antropogenesi, che, libe-
rando il vivente uomo da ogni destino biologico o sociale e da ogni compito predeterminato, lo rendono
disponibile per quella particolare assenza di opera che siamo abituati a chiamare “politica” e “arte”. Po-
litica e arte non sono compiti né semplicemente “opere”: esse nominano, piuttosto, la dimensione in cui
le operazioni linguistiche e corporee, materiali e immateriali, biologiche e sociali vengono disattivate e
contemplate come tali.5
A questa antropologia dell’(im)potenza Agamben lega le sue interpretazioni della politica e del-
l’arte. La caratterizzazione essenziale dell’uomo come l’essere inoperoso è alla base del proget-
to di Homo Sacer, la serie di libri in cui Agamben tenta una archeologia di alcuni concetti di fi-

1 Questa disponibilità era già contenuta in un passo di: Agamben, L’uomo senza contenuto, cit., 1970, p. 103: «Secondo
l’opinione corrente, tutto il fare dell’uomo – tanto quello dell’artista e dell’artigiano che quello dell’operaio e dell’uomo
politico – è prassi, cioè manifestazione di una volontà produttrice di un effetto concreto. Che l’uomo abbia sulla terra uno
statuto produttivo, significherebbe allora che lo statuto della sua abitazione sulla terra è uno statuto pratico. Noi siamo
così abituati a questa considerazione unitaria di tutto il “fare” dell’uomo come prassi, che non ci rendiamo conto che esso
potrebbe invece essere concepito – ed è stato concepito in altre epoche storiche – in modo diverso».
2 Agamben, Che cos’è l’atto di creazione, cit., 2014, pp. 52-53. Anche se, come abbiamo visto, il tema precede di molto
l’uso del termine inoperosità, il concetto come tale appare per la prima volta in: Agamben, Homo Sacer. Il potere sovrano e
la nuda vita, cit., 1995, pp. 70-71, dove l’autore prende posizione in merito a un dibattito già a aperto in Francia a e rispetto
al quale menziona direttamente: Alexandr Kojève, Les romans de la sagesse, «Critique», 60, 1952; Jean-Luc Nancy, La
communauté désœuvrée, «Alea», 4, 1983, trad. it. La comunità inoperosa, Napoli, Cronopio, 1992; Maurice Blanchot, La com-
munauté inavouable, Paris, Minuit, 1984, trad. it. La comunità inconfessabile, Milano, Feltrinelli, 1984; e in bibliografia: Geor-
ges Bataille, La souverainité, in Œuvre complètes, Paris, Gallimard, 1976, trad. it. in La sovranità, Milano, se, 2009.
3 Agamben, Che cos’è l’atto di creazione, cit., pp. 52-53. 4 Ibidem.
5 Agamben, Che cos’è l’atto di creazione, cit., 2014, pp. 58-59. È importante notare che la riflessione sulla potenza prelude
agli studi di filosofia politica compiuti nel ciclo di Homo Sacer, come si evince dalle conclusioni della conferenza pronun-
ciata nel 1987 già citata: Agamben, La potenza del pensiero, cit., p. 295: «Noi dobbiamo ancora misurare tutte le conseguenze
di questa figura della potenza che, donandosi a se stessa, si salva e accresce nell’atto. Essa ci obbliga a ripensare da capo
non soltanto la relazione fra la potenza e l’atto, fra il possibile e il reale, ma anche a considerare in modo nuovo, nell’este-
tica, lo statuto dell’atto di creazione e dell’opera e, in politica, il problema della conservazione del potere costituente nel
potere costituito. Ma è tutta la comprensione del vivente che dev’essere revocata in questione, se è vero che la vita dev’es-
sere pensata come una potenza che incessantemente eccede le sue forme e le sue realizzazioni».
figura dell ’ inoperosità 161
losofia politica allo scopo di determinare come l’inoperosità venga «catturata» nella sfera sepa-
rata del sacro dalla «macchina governamentale»1 che si è data come compito quello di separare
l’uomo dalla sua potenza-di-non, da ciò che esso può non fare.2
Per quanto riguarda l’atto artistico, Agamben pensa l’opera d’arte come il risultato dialettico
dello scontro tra una «potenza-di», volontaria e impersonale, in quanto hexis determinata, e una
«potenza-di-non» che agisce come un’istanza critica soggettiva che frena l’impulso cieco della
potenza verso l’atto. La creazione artistica non può mai esaurirsi in una messa in opera di una
potenza-di, altrimenti essa risulterebbe soltanto una semplice esecuzione. Il vero maestro è co-
lui che, piuttosto che raggiungere la perfezione formale, riesce a conservare un’apertura po-
tenziale nell’opera:
Dante ha compendiato in un verso questo carattere anfibio della creazione poetica: “l’artista / ch’a l’abito
de l’arte ha man che trema” […] questa contraddizione pervade tutto l’atto poetico, dal momento che
già l’abito contraddice in qualche modo l’ispirazione, che proviene da altrove e per definizione non può
essere padroneggiata in un abito. In questo senso, la resistenza della potenza-di-non, disattivando l’abito,
resta fedele all’ispirazione, quasi le impedisce di reificarsi nell’opera: l’artista ispirato è senz’opera.3

5. Figure
Agamben ha utilizzato di frequente Bartleby lo scrivano, il personaggio di Hermann Melville
protagonista dell’omonimo racconto, come «figura della potenza perfetta».4 Con la sua celebre
formula «I would prefer not to», lo scriba che smette di scrivere espone assolutamente la propria
(im)potenza ponendosi addirittura al di fuori della lingua e sospendendola; spiega Gilles De-
leuze: «malgrado la sua apparente correttezza, la formula funziona come una vera e propria
agrammaticalità».5 Il risultato è che egli finisce per essere messo in prigione poiché rifiuta di
adempiere a qualsiasi compito e permane nel suo impossibile stato di potenzialità pura che ri-
manda, come visto sopra, all’inoperosità. Potremmo allora considerare la Melencolia di Dürer
– è questa la nostra tesi – un precedente di Bartleby e di altri personaggi che costellano i libri
di Agamben, come quelli di Franz Kaf ka o Robert Walser, evocati per il loro fulgore paradig-
matico ad esemplificare lo sviluppo del concetto di inoperosità.6
Il collegamento tra la Melancolia e Bartleby è in qualche modo presente già in Melville che
descrive il grigio personaggio come un saturnino in grado di esercitare un ascendente planeta-
rio, «ascendacy», sul suo capufficio, coinvolto irresistibilmente, suo malgrado, dall’umor nero
e dal mistero dello scrivano. Ma come spiegare il conflitto tra uno stato che sarebbe il più vicino
all’essenza stessa dell’uomo e lo sprofondamento abissale cui è associato già nel problema ari-
stotelico? C’è un brano di Agamben, intitolato Idea del potere, che sembra voler rendere conto
di tutto questo, oltre che della macina corrosa, morsicata dal tempo-Saturno – non «scheggia-
ta»7 – su cui siede il putto nell’incisione. Vale la pena di leggerlo per intero:
Forse soltanto nel piacere le due categorie, inventate dal genio di Aristotele, della potenza e dell’atto per-
dono la loro ormai stereotipa opacità e diventano, per un attimo, trasparenti. Il piacere – è scritto nel trat-

1 In particolare, si veda: Agamben, Il regno e la gloria, cit., la “Premessa”, pp. 9-11, e §§ 8.21-8.25. Ad esempio p. 269: «Il
dispositivo governamentale funziona perché ha catturato nel suo centro vuoto l’inoperosità dell’essenza umana. Questa
inoperosità è la sostanza politica dell’Occidente, il nutrimento glorioso di ogni potere». Per il significato politico dell’ino-
perosità si veda anche: Giorgio Agamben Elogio della profanazione, in Profanazioni, Roma, Nottetempo, 2005, pp. 83-106.
2 Agamben, Su ciò che possiamo non fare, in Nudità, cit., pp. 67-70.
3 Agamben, Che cos’è l’atto di creazione, cit., pp. 47-48.
4 Agamben, Deleuze, Bartleby, la formula della creazione, cit., p. 56. Si veda anche: Agamben, La comunità che viene, To-
rino, Einaudi, 1990, pp. 25-27; Idem, Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, cit., p. 56; Idem, Idea della prosa, Milano, Fel-
trinelli, 1985, nell’edizione ampliata: Idea della prosa, Macerata, Quodlibet, 2002, i capp. Idea della Politica, p. 59 e Idea dello
Studio, p. 45. 5 Agamben, Deleuze, Bartleby, la formula della creazione, cit., p. 18.
6 Agamben, Che cos’è l’atto di creazione, cit., p. 51.
7 Raymond Klibansky, Erwin Panofsky, Fritz Saxl, Saturno e la melanconia. Studi di storia della filosofia naturale,
religione e arte (1964), Einaudi, Torino, 1983, p. 296.
162 giacomo mercuriali
tato che il filosofo dedicò al figlio Nicomaco – è ciò la cui forma è in ogni istante compiuta, perpetuamen-
te in atto. Da questa definizione consegue che la potenza è il contrario del piacere. Essa è ciò che non è
mai in atto, che manca sempre la sua fine; in una parola: dolore. E se il piacere, conformemente a questa
definizione, non si svolge mai nel tempo, la potenza sarà invece essenzialmente durata. Queste conside-
razioni permettono di far luce sui rapporti segreti che legano potere e potenza. Il dolore della potenza
svanisce, infatti, nell’attimo in cui essa trapassa nell’atto. Ma esistono ovunque – anche dentro di noi –
delle forze che costringono la potenza a attardarsi in se stessa. Su queste forze si fonda il potere: esso è l’i-
solamento della potenza dal suo atto, l’organizzazione della potenza. Raccogliendone il dolore, il potere
fonda su questo la propria autorità: esso lascia letteralmente incompiuto. Ciò che va, in questo modo,
perduto, non è, però, soltanto il piacere, quanto il senso stesso della potenza e del suo dolore. Divenuta
interminabile, essa cade in balia del sogno e intrattiene, su sé stessa e sul piacere, gli equivoci più mo-
struosi. Pervertendo la retta connessione di via e meta, di ricerca e stesura, essa scambia il culmine del
dolore – l’onnipotenza – per la perfezione più grande. Ma solo come fine della potenza, solo come asso-
luta impotenza è umano e innocente il piacere; e soltanto come tensione che oscuramente presagisce la
sua crisi, il suo giudizio risolutivo, è accettabile il dolore. Nell’opera, come nel piacere, l’uomo gode fi-
nalmente della propria impotenza.1

6. Un sorriso
Abbiamo tentato di mostrare come per Agam-
ben nell’incisione conti l’espressione di un
pensiero che entra in relazione con la sua ne-
gatività e che è, per questo, doloroso, ma an-
che aperto e vicino alla verità umana. Vista da
questa prospettiva, la caratterizzazione dispe-
rante della Melancolia I che viene offerta da Pa-
nof ksy e Saxl2 rischia di diventare solidale con
il significato dato dall’«etica capitalistica» all’i-
noperosità, la stessa etica che guida il capuffi-
cio di Bartleby che nel comportamento para-
dossale dello scrivano non riesce a percepire
altro che «idleness», inazione, termine equiva-
lente a «Untätigkeit», usato da Panof ksy e Saxl
per descrivere l’angelo nel saggio del 1923.3 In
Agamben la polarità è rovesciata attraverso la
proposta della supremazia ontologica della
potenza sull’atto e l’impiego di un nuovo con-
cetto. In ultima analisi, l’interpretazione della
Melencolia che si può trarre dai testi del filosofo
tiene conto del fatto che l’angelo ha sì il volto
oscurato dal gelido Saturno ma anche che,
Fig. 1. Albrecht Dürer, Melencolia I, particolare. osservato da vicino, egli nondimeno sorride.

1 Agamben, Idea del potere, in Idea della prosa, cit., 1985, pp. 45-46.
2 In realtà l’interpretazione ha in generale un tono di neutralità ma, nel finale, deve necessariamente propendere per
una tragicità derivante dalla consapevolezza di una meta impossibile per rendere conto della spiegazione che viene data
dell’“I” posto nel cartiglio, in riferimento ai tre gradi della malinconia teorizzati da Agrippa di Nettesheim. Si veda: Kli-
bansky, Panofsky, Saxl, Saturno e la melanconia, cit., p. 296: «la caratteristica saliente della Melencolia di Dürer è che non
sta facendo nulla con tutti questi strumenti intellettuali o manuali […]. Questa mancata utilizzazione delle cose che sono
lì per essere usate, questo non vedere ciò che è lì per essere veduto lega la Melancolia I alla indolente melanconia rappre-
sentata dalla filatrice addormentata o perduta in una pigra depressione»; si vedano anche: pp. 231, 298, 300. Lo stesso si
legge nelle pagine dedicate all’incisione in Panofsky, La vita e l’opera di Albrecht Dürer, cit.
3 Erwin Panofsky, Fritz Saxl, Dürers “Melencolia I”. Eine quellen-und typengeschichtliche Untersuchung, Teubner, Leip-
zig-Berlin, 1923, p. 58.
I N D I CE D E I N OM I*

Abate, Emma, 51n Barale, Alice, 9, 47n, 91n


Abbate, Francesco, 143n Barb, Alphons Augustinus, 52, 58
Abu Ma‘sar, Abu Mash‘ar, 38n, 40 Barocchi, Paola, 79n
Achelis, Daniel, 57 Bartoli, Daniello, 106
Acosta, José de, 120 e n Bartra, Roger, 115n
Adorno, Theodor W., 46 e n, 51n Bartsch, Adam von, 79n
Agamben, Giorgio, 61n, 155 e n, 156 e n, 157 e n, 158 Bataille, Georges, 160n
e n, 159 e n, 160 e n, 161 e n, 162 e n Battaglia, Salvatore, 139n, 144n, 146n
Agostino d’Ippona, 106, 107, 150n Behr, Shulamith, 50n
Agrippa di Nettesheim, Enrico Cornelio, 15n, 23, Bencivenni, Zucchero, 99n
71, 72 e n, 73, 74, 93 e n, 118, 147 e n, 162n Benedetto da Rovezzano, 143
Ahrens, Wilhelm, 88n Benini Clementi, Enrica, 81n
Alberti, Leon Battista, 21, 24, 135 e n Benjamin, Walter, 9, 15n, 43 e n, 45, 46 e n, 47, 48 e
Albertinus, Aegidius, 32, 33 e n n, 51 e n, 52, 53 e n, 55, 58, 60 e n, 61 e n, 87 e n,
Alberto Magno, 64 88 e n, 91, 92 e n, 93, 94, 155, 156 e n, 157, 158n
Alfonso X el Sabio, re di Castiglia e León, 38 e n Benti, Donato, 143, 145
Allegri, Ettore, 80n Bergius, Hanne, 71n
Alter, Robert, 51n Bergman, Shemuel Hugo, 47, 50, 53 e n, 54
Althoff, Gerd, 66n Bertozzi, Marco, 9, 13n, 15n, 18n, 19n, 29n, 70 e n, 72
Altini, Carlo, 159n e n, 87n, 89n, 91n, 147n, 153n
Ambuel, David, 64n Bettarini, Rosanna, 79n, 110n
Anderson, Jaynie, 49n Bettini, Maurizio, 98n, 101 e n
Andò, Valeria, 98n Bevilacqua, Mario, 79n
Angelino, Carlo, 16n, 90n, 105n Beyer, Andreas, 47n, 71n
Anguissola, Sofonisba, 84 Biale, David, 51n
Anzelewsky, Fedja, 15n Bienefeld, Elise, 50n, 55
Aptowitzer, Victor, 57n Biese, Alfred, 34 e n
Apuleio, v. anche Pseudo-Apuleio, 85 Bing, Gertrud, 15n, 35n, 36n, 42n, 48, 49, 50 e n, 101n,
Arendt, Hannah, 58, 156n 102n
Aretino, Pietro, 79 e n, 83 Binswanger, Ludwig, 27, 42 e n, 45 e n
Aristotele, v. anche Pseudo-Aristotele, 16 e n, 71n, Biondi, Albano, 147n
73, 90n, 93, 97, 99 e n, 105 e n, 117, 139, 140n, 141, Blanchot, Maurice, 160n
156, 159, 161 Blau, Joseph, 58 e n
Asburgo, Casa d’, 115 Bleeker, Claas, 59
Assaf, Simcha, 59 Bocken, Inigo, 63n
Attico, Tito Pomponio, 16n Boezio, Severino, 66n, 106
Avarucci, Rosa, 100n Böhme, Hartmut, 15n, 63n, 71n
Bolaños, María, 115n
Bachmann, Ingeborg, 61 e n Boll, Franz, 38, 40n, 41n, 42 e n
Baiardo, Francesco, 79n Bonanni, Silvana, 97n
Bajoni, Maria Grazia, 98n Bonnet, Anne-Marie, 67n
Baldinucci, Filippo, 79n, 80n Borea, Evelina, 80n
Balfour, Arthur James, 54 Borghini, Alberto, 101n
Ballestra-Puech, Sylvie, 98n Borgna, Eugenio, 97n
Bałus, Wojciech, 74n Borracini, Rosa Marisa, 100n

* Dall’indice sono esclusi gli stampatori (ove non siano agenti), i personaggi letterari, i nomi della mitologia, i nomi inclusi in titoli
di opere letterarie e artistiche. I sovrani, i santi, i patronimici e i toponimici si trovano sotto il nome di battesimo, con eventuale
rimando. Il corsivo segnala indicazioni tratte dal testo e/o da altre fonti per ovviare ai casi di omonimia o ad altro che possa creare
difficoltà nella consultazione.
164 indice dei nomi
Borri, Giammario, 100n Cennini, Cennino, 139 e n
Borsche, Tilman, 63n Centanni, Monica, 101n
Botticelli, Sandro, 40n Chasles, Michel, 131n
Bottini, Angelo, 100n Cherchi, Paolo, 118 e n
Boureau, Alain, 149n Chines, Loredana, 108 e n, 110n
Bouvier, Beatrix, 67n Christian, Kathleen W., 34n
Bovelles, Charles de, Carolus Bovillus, 66n, 72 Cicerone, Marco Tullio, 41, 42, 72, 99n, 106, 107
Boyer, Carl Benjamin, 126n Clair, Jean, 37n, 63n, 102, 116n
Brahe, Tycho, 71n Clark, John, 17n
Brant, Sebastian, 15n, 16, 43n, 100 Coleridge, Samuel Taylor, 46
Bredekamp, Horst, 47n, 87n Colla, Umberto, 97n
Bright, Timothie, 115 Conti, Sigismondo de’, 141
Brigida, santa, 119 Conticelli, Valentina, 81n
Britt, David, 27n Costantino Africano, Constantinus Africanus, 42
Brodersen, Momme, 47n, 87n Cranach, Lucas, 140
Bronner, Stephen, 51 Crannell, Annalisa, 126n, 131 e n
Brugnoli, Giorgio, 16n Crescenzi, Luca, 89n
Brunner, Constantin, 46, 47 Cristiani, Girolamo Francesco, 133n
Bruno, Giordano, 24, 74 Cuniberto, Flavio, 87n
Buber, Martin, 58, 59 Cuozzo, Gianluca, 73n
Buccolini, Claudio, 150n Curtius, Ernst Robert, 57
Büchsel, Martin, 71n, 72n Cusano, v. Niccolò da Cusa
Burchardt, Else, Escha, 47, 48, 53
Burton, Robert, 115 D’Alverny, Marie-Thérèse, 150n
Buschendorf, Bernhard, 49n Dalle Luche, Riccardo, 112n
Buzzi, Franco, 150n Dan, Joseph, 58n
Dante Alighieri, 161
Cacciari, Massimo, 9 Darwin, Charles, 37
Caciorgna, Marilena, 81n De Angelis, Francesco, 100n
Camerarius, Joachim, 43n De Gruyter, Walter, 58
Campanini, Saverio, 9, 46n, 48n, 51n, 58n, 59n De Haas, Karel, 124n
Cantimori, Delio, 150n De Michelis Pintacuda, Fiorella, 150n
Cantimori, Emma, 101n De Tolnay, Charles, 84n
Capella, Marziano, 66n Del Pesco, Daniela, 143n
Cappelletti, Francesca, 67n Deleuze, Gilles, 159n, 161 e n
Carafa, Oliviero, 143 Democrito, 24
Caraglio, Gian Giacomo, 77, 79 Dempsey, Charles, 139n
Caravia, Alessandro, 81 Dente, Marco, 77, 79
Carbone, Manuela, 100n Di Benedetto, Vincenzo, 100n
Cardano, Gerolamo, 118 Díaz de Montoya, Fernando, 117n
Carion, Johann, 43n Diers, Michael, 47n, 87n
Carloni, Paolo, 77n Dilly, Heinrich, 40n
Carrera, Elena, 116n Dilthey, Wilhelm, 36n
Carugo, Adriano, 126n Dionigi da Borgo San Sepolcro, 108
Cassirer, Ernst, 42n, 51 e n Dioscoride, Pedanio, 119
Cassuto, Umberto, 59n Doni, Anton Francesco, 77 e n, 78, 79 e n, 82 e n, 83
Castellani, Francesco, 143 Doorly, Patrick, 72n
Castelli, Enrico, 71n Dotti, Ugo, 107n, 108n
Cataldi, Pietro, 111n Du Laurens, André, 115
Catane, Moshe / Moche, 57 e n Duché-Gavet, Véronique, 117n
Caterina da Siena, santa, 119 Dürer, Albrecht, 9, 12-14, 15 e n, 16n, 17-19, 21, 23-25,
Cavalcanti, Guido, 157 28-30, 31 e n, 32, 34, 37-39, 40 e n, 44, 51 e n, 52, 53,
Cavalieri, Tommaso de’, 140 60, 63-65, 66 e n, 67-70, 71 e n, 72 e n, 74 e n, 75, 77,
Cecchi, Alessandro, 80n 79 e n, 80 e n, 81-83, 84 e n, 85, 88, 90, 91 e n, 92,
Celtis, Konrad, 28n, 63-65, 66n, 72 93 e n, 97, 103, 105, 106, 117, 123, 124 e n, 126, 127,
indice dei nomi 165
131 e n, 132n, 133, 134, 135 e n, 136, 137, 139-141, 146, Füssli, Johann Heinrich, Henry Fuseli, 60
147 e n, 149 e n, 152, 153, 155, 156 e n, 157 e n, 158, Futamura, Fumiko, 126n, 131 e n
161, 162 e n
Galeno, 37, 59n, 150n
Ebgi, Raphael, 63n Gambin, Felice, 9, 115n, 117n, 118n
Egido, Aurora, 116n García Cárcel, Ricardo, 119n
Ehrle, Francesco, 84 e n García Carrero, Pedro, 118
Eisler, Robert, 52 e n, 53, 54 e n, 58, 59 García Gibert, Javier, 115n
Elior, Rachel, 46n Gattico, Emilio, 97n
Eraclito, 24 Gaurico, Luca 43n
Erasmo da Rotterdam, 74, 149, 150n, 151-153 Gentile, Sebastiano, 140n
Ernst, Gemma, 150n Ghelardi, Maurizio, 19n, 67n, 88n, 90n
Eser, Thomas, 64n Giannarelli, Elena, 101n
Giehlow, Karl, 9, 15 e n, 19n, 28 e n, 29-31, 40, 87 e n,
Faietti, Marzia, 84n 88 e n, 89 e n, 91 e n, 92, 93 e n, 94
Fara, Giovanni Maria, 9, 66n, 68n, 77n, 79n, 80n, Giglioni, Guido, 150n
83n, 135n Gigliucci, Roberto, 110n, 111n
Farinelli, Arturo, 116 e n Ginzburg, Carlo, 81n
Favaretto, Irene, 79n Giolito, Gabriele, 77, 79, 82
Federici, Renzo, 71n, 97n, 124n Giulio Romano, Giulio Pippi detto, 85
Federici Vescovini, Graziella, 149n Giunti, Filippo, 80n
Fehl, Philipp, 70n Gödde, Christoph, 51n
Fernandez Montaña, José, 38 Goethe, Johann Wolfgang, 31n, 33 e n, 34, 35, 36, 43n,
Ferrari, Franco, 64n 60
Ferrari, Giovanni, 97n Göing, Anja-Silvia, 72n
Ferri Coll, José María, 116n Goldberg, Oskar, 46 e n
Ferrini, Maria Fernanda, 99n Gombrich, Ernst, 48 e n, 49 e n, 50 e n, 59, 60
Ficino, Marsilio, 9, 15 e n, 17 e n, 19, 23, 28n, 30, 31, Gordon, Donald J., 50n
41, 42, 71n, 72, 73, 74 e n, 87 e n, 88 e n, 90, 93 e n, Grafton, Anthony, 42n
94n, 105, 118, 140n, 146 e n, 147 e n, 156 Grassi, Liliana, 139n
Field, Judith Veronica, 128n Grave, Johannes, 64n
Filarète, Antonio di Pietro Averlino detto il, 135, 139 Grebe, Anja, 64n
en Gregorio Magno, 158
Filippi, Elena, 9, 21, 63n, 64n, 66n, 67n, 68n, 71n, 75n Gregory, Tullio, 149n
Filippini, Enrico, 87n Grolle, Joist, 50n
Filippo II d’Asburgo, re di Spagna, 117 Großmann, Ulrich G., 68n
Filippo IV d’Asburgo, re di Spagna, 118 Grünhut, Lazar, 53
Finoli, Anna Maria, 139n Gualerzi, Saverio, 98n
Firpo, Massimo, 81n Guerra, Marta, 110n
Flavio, Giuseppe, 46 e n Guest, Clare E. L., 34n
Forlani Tempesti, Anna, 77n Guglielmo d’Alvernia, teologo, 150n
Forster, Kurt W., 27n Gundel, Wilhelm, 56 e n
Fracastoro, Gerolamo, 120 Gundolf, Friedrich, 47
Francesco I de’ Medici, principe e granduca di Tosca- Guttmann, Joshua, 59n
na, 81
Frankfort, Henriette, 44n Hansmann, Wilfried, 139n
Frantz, Marc, 126n, 131 e n Hasler, Stefan, 71n
Franzbach, Martin, 117n Hauser, Friedrich, 36 e n
Franzoni, Lanfranco, 79n Heertum, Cis van, 59n
Freimann, Aron, 54 Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 23
Freud, Sigmund, 42, 157 Heidegger, Martin, 156n, 158, 159 e n
Freylas, Alonso de, 117n Heitzer, Elisabeth, 71n
Friedrich, Hugo, 111n Heller, Joseph, 83n
Frontisi-Ducroux, Françoise, 98n, 102n Hess, Daniel, 64n
Fumaroli, Marc, 116n Heydenreich, Heinrich, 57
Funk, Rainer, 47n Hilberer, Lydia, 72n
166 indice dei nomi
Hofmann, Joseph, 84n Lavater, Johann Caspar, 37
Hofmannstahl, Hugo von, 47, 48 Lehrich, Christopher I., 71n
Höllander, Hans, 71n Lemnius, Levinus, 118
Horkheimer, Max, 46 e n León, Juan de, 120n
Huarte de San Juan, Juan, 116 e n, 117 Leonardo da Vinci, 21, 31n, 135n
Humboldt, Alexander von, 35 Leuker, Thomas, 71n
Hurttig, Marcus Andrew, 36n Levi, Primo, 4 e n
Levinas, Emmanuel, 75
Idel, Moshe, 47 e n Lewy, Heinrich, 57n
Ikonomou, Eleftherios, 36n Liebeschütz, Hans, 49 e n, 55 e n
Innocenzo VIII, papa (Giovanni Battista Cibo), 150 Liliencron, Rochus von, 32 e n, 33 e n, 41 e n, 42 e n,
Institoris, Henricus, 150 43 e n
Ippocrate, v. anche Pseudo-Ippocrate, 37 e n Lionpardi, Zuanpolo, 81
Ishizu, Hideko, 123n, 126 e n Lippi, Filippino, 145
Isidoro di Siviglia, 98 e n Lippi, Filippo, 144, 145
Iurilli, Stefania, 9 Liuzzi, Dora, 16n
Lonitz, Henri, 51n
Jaffè Elsbeth, 13n Lowes Dickinson, Goldsworthy, 33
Johnson, Christopher, 27n Luca di Leida, Luca d’Olanda, 77, 79, 80 e n
Jung, Carl Gustav, 59 e n Lucrezio Caro, Tito, 25
Luperini, Romano, 111n
Kaf ka, Franz, 161 Lutero, Käthe, 151
Kamlah, Wilhelm, 57 Lutero, Martin, 29, 31, 37, 41, 42, 43n, 53, 89, 149, 150
Kaske, Carol, 17n e n, 151-153
Kaufmann DaCosta, Thomas, 49n Lynch, Terrence, 123n, 124, 126 e n, 131n
Kemp, Wolfgang, 47 e n, 87n
Kępiński, Antoni, 74n MacGillavry, Caroline Henriette, 123n, 124, 127n,
Kessler, Michael, 47n 128 e n, 131 e n
Ketelsen, Thomas, 36n Macrobio, 41 e n
Kilcher, Andreas, 58n Maffei, Sonia, 97n, 100n
Kirsch, James, 59 e n Maggini, Carlo, 112n
Klages, Ludwig, 37n Magnes, Judah L., 50, 53, 55
Klausner, Joseph, 57n, 59n Makowsky, Claude, 15n
Klee, Paul, 155 Malet, Marian, 50n
Klibansky, Raymond, 13, 14 e n, 18n, 29 e n, 35n, 71n, Mallgrave, Harry Francis, 36n
74n, 80n, 82, 83 e n, 88n, 89n, 93 e n, 97, 98n, 99n, Malvito, Giovanni Tommaso, 144
100n, 106n, 116, 124n, 139n, 141n, 149n, 161n, 162n Mantegna, Andrea, 43n, 84
Klinger-Dollé, Anne-Hélène, 66n Mantova Benavides, Andrea, 79n
Koberger, Anton, 71 e n Mantova Benavides, Marco, 79n
Kojève, Alexandr, 160n Marazia, Chantal, 42n
König, Rene, 47n Marchese, Franco, 111n
Kraepelin, Emil, 42 Marchiani, Lidia, 111n
Kraft, Werner, 60 Marcolini, Francesco, 82, 83
Krämer, Heinrich, v. Institoris, Henricus Marcone, Arnaldo, 101n
Kues, Nikolaus von, v. Niccolò da Cusa Marcus, Judith, 47n
Kurz, Otto, 81n Marrina, Lorenzo di Mariano detto il, 146
Martini, Angelo, 133n
Lacis, Asja, 47 Marvin, Ursula, 15n
Lafaire, Heinz, 54 Marx, Kitty, 61
Lafréry, Antonio, 83 Masaccio, 37
Lagrange, Marie-Joseph, 57n Masi, Giorgio, 77n, 82n
Laguna, Andrés, 118 Massimiliano I d’Asburgo, imperatore del Sacro Ro-
Lammers, Ann Conrad, 59n mano Impero, 31, 91, 93
Lassnig, Ewald, 72n, 73n Matteo, evangelista, 146
Laughlin, Tom, 59n Mattioli, Pietro Andrea, 119
Laura, cantata da Francesco Petrarca, 107, 109, 110, 112 McEwan, Dorothea, 48n, 50n, 52 e n, 55n
indice dei nomi 167
Meier, Hans, 56 e n, 58, 93n Panofsky, Erwin, 9, 13, 14 e n, 15n, 18 e n, 23, 24, 27 e
Melantone, Filippo, Melanchthon, 16n, 31, 43n, 72 n, 28, 29 e n, 32, 34 e n, 35 e n, 38, 39 e n, 40 e n,
Melian Stawell, Florence, 33n 41n, 44 e n, 45, 46 e n, 47 e n, 48 e n, 51, 52, 71n, 74
Melville, Herman, 161 e n, 80n, 82, 83 e n, 87, 88 e n, 89 e n, 90, 91n, 93
Mende, Matthias, 66n, 68n e n, 97, 98n, 99n, 100n, 106n, 116, 124n, 131n, 139 e
Mercuriale, Girolamo, 118 n, 140n, 141 e n, 149n, 152 e n, 155, 156, 157 e n,
Mercuriali, Giacomo, 9 161n, 162 e n
Meyer zur Capellen, Jürg, 141n Paolo di Tarso, santo, apostolo, 69, 117, 151
Michelangelo Buonarroti, 140 Paracelso, 59n
Michels, Karen, 40n, 42n Parlato, Enrico, 82n, 83n
Migliari, Riccardo, 128n Parmigianino, Mazzola Francesco detto il, 90
Milanesi, Carlo, 139n Pasquier, Alan, 37n
Milanesi, Gaetano, 139n Penna, Agostino, 102
Minois, Georges, 100n Pepe, Mario, 77n
Monbeig Goguel, Catherine, 79n Pérez de Guzmán, Alonso, 116
Montorsoli, Giovanni Angelo, 77 Pérouse, Gabriel-André, 116n
Moritz, Arne, 66n Perrone Compagni, Vittoria, 72n, 147n
Most, Glen W., 42n Peset, José Luis, 116n
Müller, Jan Dirk, 66n Petrarca, Francesco, 23, 105, 106 e n, 107 e n, 108 e n,
Müller, Johann, v. Regiomontano 109 e n, 110 e n, 111 e n, 112 e n
Müller, Susanne, 19n, 88n, 89n, 93n Petrarca, Gherardo, 108
Murillo y Velarde, Tomás de, 115, 117, 118, 119 e n, Peutinger, Conrad, 28n, 31
120 e n, 121 Pfisterer, Ulrich, 67n, 72n
Musolff, Hans-Ulrich, 72n Piaia, Gregorio, 74n
Musschenbroek, Pieter van, 43 Pico della Mirandola, Giovanni, 24, 63n, 72
Myers, David N., 47n Piderit, Theodor, 37 e n
Pierguidi, Stefano, 84n
Nancy, Jean-Luc, 160n Piero della Francesca, 135n
Narducci, Emanuele, 99n Pietro d’Abano, medico e filosofo, 150 e n
Neustätter, Otto, 31 e n Pinder, Ulrich, 72
Newald, Richard, 56n Pingree, David Edwin, 53n, 146 e n
Newman, Jane O., 43n Pinotti, Andrea, 29n, 36n
Niccolò da Cusa, Nicola Cusano, 63n, 64, 66n, 72 Piras, Laura Antonella, 9
Nicolini da Sabbio, Giovann’Antonio, 81 Pirckheimer, Willibald, 71n, 72, 91 e n, 135n, 157n
Niemann, Georges, 124n Pisani, Giuliano, 147n
Nieremberg, Juan Eusebio, 119 Platone, 42, 64 e n, 73 e n, 74, 139, 140n
Nietzsche, Friedrich, 31, 51 Plessner, Martin, 53n, 58n
Nikolaus von Kues, v. Niccolò da Cusa Plinio il Vecchio, 101 e n
Nova, Alessandro, 79n Plutarco, 101
Poggi, Giulia, 115n, 116n
Oberhuber, Konrad, 84 Popham, Arthur E., 79n
Octavien de Saint-Gelais, 97, 102 Price, David H., 72n
Olpe, Johann, 16 Procaccioli, Paolo, 77n, 79n, 82n
Omero, 100n Proclo, 41
Orapollo, Horapollo, Horus Apollo, 29, 91, 157 Prosperi Valenti Rodinò, Simonetta, 77n
Orazio Flacco, Quinto, 99 e n, 107 Pseudo-Apuleio, 98 e n
Origene, 158 Pseudo-Aristotele, 17, 28, 73n, 105
Orobitg, Christine, 115n, 119n Pseudo-Ippocrate, 15n
Orsi, Elio, 84 Puggioni, Sara, 98n
Osborne, John, 45 Pujante Sánchez, David José, 116n
Ovidio Nasone, Publio, 97
Quintavalle, Armando, 84n
Pachter, Henry, 51 e n
Pacioli, Luca, 135n Raffaello Sanzio, 71, 84, 85, 141, 142, 144
Pagel, Walter, 59 e n Raimondi, Marcantonio, 70, 77, 79, 80
Palumbo, Marco, 140n Ramous, Mario, 99n
168 indice dei nomi
Ranfagni, Tommaso, 9, 144n Schoell-Glass, Charlotte, 42n, 47n, 50n, 87n
Ranucci, Giordano, 101n Scholem, Betty, 56n
Rapetti, Attilio, 79n Scholem, Fania, 57 e n
Rasch, Martin, 57 Scholem, Gershom, 45 e n, 46 e n, 47 e n, 48 e n, 49,
Rebel, Ernst, 66n 50 e n, 51 e n, 52 e n, 53 e n, 54 e n, 55 e n, 56 e n,
Regiomontano, 71 e n 57 e n, 58 e n, 59 e n, 60, 61 e n
Rembrandt, Harmenszoon van Rijn, 42, 43 e n Scholem, Reinhold, 54
Restucci, Amerigo, 81n Schön, Erhard, 80
Retberg, Ralf von, 80 Schönert, Jörg, 63n
Reuchlin, Johann, 58, 72 Schongauer, Martin, 79, 80
Richter, David Heinrich, 123n, 124, 131 Schott, Siegfried, 56n
Rico, Francesco, 109n Schöttker, Detlev, 47n
Rilke, Rainer Maria, 45 Schrades, Leo, 57
Ripa, Cesare, 99 e n, 100 e n Schramm, Percy, 50, 57
Ritter, Hellmut, 53 e n, 58n Schreiber, Peter, 123n, 124
Robert, Jörg, 64n Schröder, Eberhard, 123n, 124, 127n
Roccataglia, Giuseppe, 106n Schubbach, Arno, 64n
Rodríguez de la Flor, Fernando, 116n Schuchardt, Johann Christian, 33n
Roeck, Bernd, 30n Schulte, Brigitte, 73n
Romanello, Marina, 150n Schuritz, Hans, 126 e n
Rowland, Ingrid, 15n Schüssler, Gosbert, 66n
Rubens, Peter Paul, 43 Schuster, Peter Klaus, 28 e n, 29, 66n, 72n
Rücklin, Françoise, 73n Schwaetzer, Harald, 66n, 71n
Ruderman, David B., 47n Schweppenhäuser, Hermann, 51n
Rufo, Rufus di Efeso, 42 Scott Soufas, Teresa, 115n
Rupprich, Hans, 72n, 124n Segeberg, Harro, 63n
Ruska, Julius, 57 Seneca, Lucio Anneo, 71n, 101, 106-108
Russel, Jeffrey B., 151n Sepp, Hans R., 36n
Rütten, Thomas, 42n Settis, Salvatore, 42n, 100n, 101n
Shachar, Isaiah, nato Stengel, 52, 58
Sacchi, Rossana, 84n Shakespeare, William, 31n, 33, 42 e n, 43 e n
Salomone, re di Israele, 55 Shapira, Avraham, 51
Salvaneschi, Enrica, 16n, 90n, 105n Shedletzky, Itta, 46n, 56, 58n
Salvatorelli, Franco, 99n Signorini, Rodolfo, 85n
Salviati, Francesco, 78, 79 Socrate, 139
Sander, Jochen, 67n Sparr, Thomas, 56, 59n
Santagata, Marco, 109n, 110n, 112 e n Spencer, Steward, 30n
Santinello, Giovanni, 63n Sprenger, Jacob, 150
Santoni, Stefania, 9 Stammkötter, Franz Bernhard, 66n
Savonarola, Girolamo, 24 Stampa, Massimiliano, marchese di Soncino, 84
Saxl, Fritz, 9, 13, 14 e n, 15n, 18 e n, 27 e n, 28, 29 e n, Starobinski, Jean, 41n
32 e n, 33 e n, 34 e n, 35 e n, 38, 40 e n, 41n, 42n, Steiner, George, 45 e n, 46 e n, 47, 48
44, 45, 46n, 47, 48 e n, 49 e n, 50 e n, 51, 52 e n, 53 Steinschneider, Karl, 61
e n, 54 e n, 55 e n, 56 e n, 57, 59, 61, 71n, 74n, 80n, Steinschneider, Moritz, 53 e n
82, 83 e n, 87, 88 e n, 89 e n, 90, 93 e n, 97, 98n, Stengel, Isaiah, v. Shachar, Isaiah
99n, 100n, 106n, 116, 124n, 139n, 141n, 149n, 155, Stimilli, Davide, 42n, 52n
156, 157, 161n, 162 e n Strauss, Walter L., 124n
Scanu, Patrizia, 106n, 107n Stuckrad, Kocku von, 56n
Schadewalt, Wolfgang, 60 Supino Martini, Paola, 99n
Schäfer, Peter, 46n Sustris, Lambert, 82, 83
Schauerte, Thomas, 63n, 64n
Scheil, Elfriede, 74n Tarabochia Canavero, Alessandra, 17n
Schindler, Thomas, 36n Targia, Giovanna, 87n
Schlosser, Julius von, 81 e n, 82 Tarr, Zoltan, 47n
Schneider, Wolfgang Christian, 68n Tellenbach, Hubert, 37n, 42n
Schoch, Rainer, 66n, 68n Temeroli, Paolo, 77n
indice dei nomi 169
Teofrasto, 41 n, 35 e n, 36 e n, 37 e n, 38 e n, 39, 40 e n, 41 e n,
Teresa d’Avila, santa, 119 42 e n, 43 e n, 44 e n, 45, 46 e n, 48 e n, 49, 50, 52
Tesei, Vanni, 77n e n, 53 e n, 54 e n, 55 e n, 56, 58, 59, 60 e n, 61, 87
Testard, Robinet, 97, 102 e n, 88 e n, 89 e n, 90 e n, 91 e n, 94, 101n, 157
Thorndike, Lynn, 150n Warburg, Eric, 50 e n
Thurner, Martin, 63n Warburg, Felix, 54, 55
Tiedemann, Rolf, 51n, 61n Warburg, Mary, 30, 34 e n, 35n, 43n, 89n e n
Tolomeo, Claudio, 31, 88 Warburg, Max, 36n, 49, 50, 54, 56
Tommaso d’Aquino, 33, 150n, 156, 158 Warnke, Martin, 40n
Tönnesmann, Andreas, 141 e n Weber, Peter, 123n, 124
Traina, Alfonso, 99n Wedepohl, Claudia, 9, 19n, 36n, 44n, 52n, 89n
Tramontana, Carmelo, 109n Weidner, Daniel, 58n, 61n
Traversi, Francesco, 144n Weigel, Sigrid, 47n, 55n, 60 e n, 61n, 87n
Trinks, Jürgen, 36n Weitzel, Hans, 123n, 124n
Tritemio, Giovanni, Johannes Trithemius, 13, 72 Weixlgärtner, Arpad, 88 e n, 89n
Weizsäcker, Heinrich, 32n, 41n
Unseld, Siegfried, 46 Weller, Girolamo, 151
Usener, Hermann, 34 e n Werblowsky, Raphael J. Zwi, 58n
Wertheimer, Arieh Yehudah, v. Brunner, Constan-
Valastro Canale, Angelo, 98n tin
Vasari, Giorgio, 79 e n, 80 e n, 85n Whitecombe, Elisabeth, 49
Vasoli, Cesare, 74n Wierix, Jan, 83n
Vegetti, Mario, 64n Wind, Edgar, 49 e n, 56 e n
Velásquez, Andrés, 115 e n, 116 e n, 117 e n, 118, 119-121 Winner, Matthias, 70n, 74n
Velázquez, Diego, 160 Winter, Franz, 36 e n
Veneziani, Giulio, 50n Wittkower, Margot, 71n
Verardi, Donato, 9, 149n, 153n Wittkower, Rudolf, 71n, 99n
Vico, Enea, 77, 78, 79n, 83 Wolf, Gerhard, 84n
Vignoli, Tito, 34 e n Wölfflin, Heinrich, 67 e n
Virgilio Marone, Publio, 101 Wuttke, Dieter, 36n, 39 e n, 47n, 50n, 57n, 64n
Vischer, Robert, 36 e n, 37
Yaron, Barich, 57n
Waits, Tom, 94n Yates, Frances, 58 e n
Walker, Daniel Pickering, 59 e n
Walser, Robert, 161 Zambelli, Paola, 71n
Wangart, Adolf, 124n Zanker, Paul, 100n
Warburg, famiglia, 60 Zucchi, Jacopo, 81
Warburg, Aby, 9, 13 e n, 15 e n, 16 e n, 17n, 18, 19 e n, Zuccoli Clerici, Lucia, 99n
27 e n, 28 e n, 29 e n, 30, 31 e n, 32 e n, 33 e n, 34 e Zumbusch, Cornelia, 36n, 38n, 47n
co m p o sto i n c a r att e re da nte m onotype da lla
fa b ri z i o se rr a e d i to r e, pisa · ro m a .
sta m pato e ri l e gato nella
t i p o g r a f i a d i agna n o, ag na no pisa no (pisa ).

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Gennaio 2016
(cz 2 · fg 21)
F ABRIZ I O S E RRA E D I TO RE
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Fabrizio Serra
Regole editoriali,
tipografiche & redazionali
Seconda edizione
Prefazione di Martino Mardersteig · Postfazione di Alessandro Olschki
Con un’appendice di Jan Tschichold
Dalla ‘Prefazione’ di Martino Mardersteig
[…] O ggi abbiamo uno strumento […], il
presente manuale intitolato, giustamente, ‘Re-
gole’. Varie sono le ragioni per raccomandare
quest’opera agli editori, agli autori, agli appas-
sionati di libri e ai cultori delle cose ben fatte e
soprattutto a qualsiasi scuola grafica. La prima
è quella di mettere un po’ di ordine nei mille
criteri che l’autore, il curatore, lo studioso ap-
plicano nella compilazione dei loro lavori. Si
tratta di semplificare e uniformare alcune nor-
me redazionali a beneficio di tutti i lettori. In
secondo luogo, mi sembra che Fabrizio Serra
sia riuscito a cogliere gli insegnamenti prove-
nienti da oltre 500 anni di pratica e li abbia inse-
riti in norme assolutamente valide. Non possia-
mo pensare che nel nome della proclamata
‘libertà’ ognuno possa comporre e strutturare
un libro come meglio crede, a meno che non si
tratti di libro d’artista, ma qui non si discute di
questo tema. Certe norme, affermate e conso-
lidatesi nel corso dei secoli (soprattutto sulla
leggibilità), devono essere rispettate anche og-
gi: è assurdo sostenere il contrario. […] Fabri-
zio Serra riesce a fondere la tradizione con la Non credo siano molte le case editrici che
tecnologia moderna, la qualità di ieri con i curano una propria identità redazionale metten-
mezzi disponibili oggi. […] do a disposizione degli autori delle norme di stile
da seguire per ottenere una necessaria unifor-
* mità nell’ambito del proprio catalogo. Si tratta di
Dalla ‘Postfazione’ di Alessandro Olschki
una questione di immagine e anche di professio-
[…] Q ueste succinte considerazioni sono
soltanto una minuscola sintesi del grande
nalità. Non è raro, purtroppo, specialmente nel-
le pubblicazioni a più mani (atti di convegni,
impegno che Fabrizio Serra ha profuso nelle pubblicazioni in onore, etc.) trovare nello stesso
pagine di questo manuale che ripercorre minu- volume testi di differente impostazione redazio-
ziosamente le tappe che conducono il testo nale: specialmente nelle citazioni bibliografiche
proposto dall’autore al traguardo della nascita delle note ma anche nella suddivisione e nell’im-
del libro; una guida puntualissima dalla quale postazione di eventuali paragrafi: la considero
trarranno beneficio non solo gli scrittori ma an- una sciatteria editoriale anche se, talvolta, non è
che i tipografi specialmente in questi anni di facilmente superabile. […]
transizione che, per il rivoluzionario avvento
dell’informatica, hanno sconvolto la figura
classica del ‘proto’ e il tradizionale intervento 2009, cm 17 × 24, 220 pp., € 34,00
del compositore. isbn: 978-88-6227-144-8
R I V I S TE di s tud i i ta li a ni
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