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Lazzaro Tavarone

Colombo mette in fuga le tribù cannibali


1606-1611
Disegno a lapis e inchiostro su carta, cm …x…

La più importante testimonianza decorativa conservata all’interno del palazzo De Ferrari poi Chiavari,
Negrotto Cambiaso, Belimbau è senza dubbio il parato ad affresco realizzato da Lazzaro Tavarone,
allievo di Luca Cambiaso, negli anni tra il primo e il secondo decennio del XVII secolo. Il palazzo,
costruito da Gio. Francesco De Ferrari e dalla moglie Delia Giustiniani, ricevette l’importante intervento
ad affresco in realtà in un anno imprecisato, collocabile però con probabilità tra i 1606 e il 1611. Il termine
ante quem del 1611 viene fissato in base anche alla testimonianza di Raffaele Soprani, che indica la
decorazione come commissionata dal De Ferrari, mentre il termine post quem deriva dall’analisi di un
affresco sino ad ora inedito in cui il Tavarone si ispira senza dubbio, per quanto riguarda il soggetto e la
composizione, all'incisione di Antonio Tempesta Apulus pastor in Oleastrum pubblicata a corredo del testo
Metamorphoseon sive Transformationum Ovidianarum Libri quindecim Aeneis formis ab Antonio Tempesta Fiorentino
incisi, la cui prima edizione in Anversa presso Pietro de Iode data precisamente al 1606. La scena, sfuggita
sino ad ora alle indagini degli studiosi, si trova in un piano ammezzato, tra l’ingresso e il salone del piano
nobile, e narra la vicenda di un pastore pugliese che, presosi gioco delle Muse, venne tramutato
nell’oleastro, albero tipico di quelle terre i cui frutti amari debbono ricordare l'asprezza dello scarso e
ferino intelletto dell’uomo da cui originò la pianta.
A parte, però, questa interessante e moraleggiante deriva mitologica, il ciclo pensato dal Tavarone
ripercorre vicende legate alla storia antica, nel grande ingresso e nelle scale, e più recente, nello spazio del
salone del piano nobile. Ad accogliere chi entra nel palazzo infatti, si trova la grande nave dai remi
d'argento e con la poppa d'oro con la quale Plutarco racconta che la Regina Cleopatra avrebbe veleggiato
incontro a Marco Antonio sulle acque del fiume Cnido, soggiogandone lo spirito con la propria
magnificenza, la sicurezza e l’autorevolezza di una «donna grandissima, signora d’un felicissimo regno»
(Plutarco, Vite, ed. Venezia 1587, vol. II, p. 343). La vicenda plutarchea prosegue descrivendo, in un altro
quadro riportato sul soffitto di uno spazio che oggi sovrasta il ballatoio dello scalone prima della rampa
di accesso al salone del piano nobile, l’incontro tra la Regina d’Egitto e il condottiero romano, giunto ad
accettare l’invito a cena di Cleopatra nel di lei accampamento, per quanto egli si fosse mosso nei suoi
confronti per ridurre a più miti consigli la politica egiziana, riottosa nel sottomettersi alle volontà di Roma
(Plutarco, Vite, ed. Venezia 1587, vol. II, p. 344). È però nel grandioso salone che affaccia con tre ampie
finestre e uno spazioso balcone sulla piazza della Nunziata che Lazzaro Tavarone sfodera tutta la sapiente
inventiva e la maestria grafica che ne fecero uno dei frescanti più richiesti a Genova, dopo il suo ritorno
dall’avventura spagnola e la morte del suo apprezzatissimo maestro Luca Cambiaso, avvenuta nel 1585.
Tavarone imposta lo spazio nella sua consueta modalità del quadro riportato, con un imponente riquadro
centrale che ospita la raffigurazione del momento clou della vicenda descritta: il Re di Spagna di
Ferdinando d’Aragona si alza dal trono per abbracciare Cristoforo Colombo di ritorno dalle Americhe,
carico doni e latore delle importantissime scoperte relative alle nuove terre. Tutto attorno prendono vita
le scene che descrivono come Colombo riuscì nella più grande impresa di tutti i tempi e che così
radicalmente cambiò la storia dell’umanità: i cartigli retti da alcuni putti in cieletti prospetticamente
sfondati narrano in latino la storia della partenza da Palos, dell’arrivo nel Nuovo Mondo, delle battaglie
contro i cannibali e delle pacifiche contrattazioni con altre tribù indigene, così come delle tempeste
affrontate dalle caravelle e della costruzione del primo presidio con le tavole di legno tratte dall’ammiraglia
Santa Maria, affondata su una secca.
Il disegno qui presentato rappresenta uno dei bozzetti preparatori per le lunette sopracitate e corrisponde
– in particolare – a quella raffigurante Colombo mette in fuga le tribù cannibali. L’episodio, come gli altri tratto
dai Giornali di Bordo in maniera letterale, serve ad evidenziare la superiorità morale e militare degli
spagnoli, capaci – pur in netta inferiorità numerica, otto contro cinquanta – di mettere in fuga gli agguerriti
Indios che nulla possono contro le loro armi e la loro prodezza marziale. La perfetta sovrapponibilità
delle due scene (quella dipinta e quella del foglio) indicano come più che una semplice idea progettuale si
debba prendere qui in considerazione piuttosto uno stadio di abbozzo in via di definizione, al quale
dovevano seguire – come è documentato in alcuni altri casi già resi noti dagli studi1 – sia una finale
versione quadrettata per il riporto sulla parete, sia un probabile approfondimento di alcune figure con
alcuni studi dedicati per la realizzazione delle ombre e dei volumi2. Si colgono, nel foglio, le evidenti
eredità cambiasesche nella semplificazione dei corpi secondo una scansione per solidi geometrici, mentre
il gustoso linguaggio del Tavarone s’evidenzia nella destrezza narrativa e nell’impostazione di una linea
essenziale, eseguita quasi esclusivamente a penna su una traccia a lapis e pressochè priva di ombreggiature
sia a tratteggio, sia a inchiostro o acquerello.
Nel grande salone, poi, a decorazione degli innesti di ciascuna lunetta, siedono i protagonisti dell’evento
storico: Cristoforo Colombo, il Re Ferdinando d’Aragona e la Regina Isabella di Castiglia, i fratelli di
Cristoforo, Bartolomeo e Diego (Giacomo) Colombo, la Regina indios Anacaona e i Cacicchi Caonabò
e Guacanagarì. Al di sotto, sopra un architrave illusivamente costruito prospetticamente, Tavarone
posiziona un nutrito gruppo di indios caratterizzati da frutti, animali e decorazioni legate alle Americhe
o almeno all’idea che se ne aveva secondo i principali trattati dell’epoca, atteggiati in pose ardite e
manierate, quasi a sottolineare l’abilità dell’artista come disegnatore anatomico e degno erede della
apprezzatissima competenza grafica e resa spaziale del Cambiaso. Tutti questi personaggi e le vicende
effigiate corrispondono precisamente agli eventi narrati in un volume attribuito a Fernando Colombo,
erede del navigatore ligure, pubblicato in una traduzione italiana a Venezia nel 1571, andando a costituire
a oggi il più esteso, antico e organico racconto ad affresco delle imprese di Colombo, rappresentando
così un documento straordinario. Il "mito" colombiano tornerà a decorare le dimore di illustri genovesi
con le opere realizzate dal pittore Bernardo Strozzi, nell’importante e recentemente riscoperto (2001)
ciclo di affreschi commissionato da Luigi Centurione per il proprio palazzo in Strada Nuova3, mentre
sempre per mano del Tavarone il navigatore genovese prese parte alla decorazione della facciata di
Palazzo San Giorgio e a quella della villa Saluzzo Bombrini del Paradiso, sulla collina di Albaro. Il
richiamo a fonti letterarie antiche e contemporaneamente al più recente passato rappresentato dalle gesta
di Colombo, ben rappresentano una modalità più volte adottata dal Tavarone in anni limitrofi, come
nell’affresco realizzato nel 1624 per gli Adorno nel palazzo di Strada Nuova (via Garibaldi), dove a fianco
alle vicende del nobile Antoniotto Adorno, prendono posto le storie della traslazione delle reliquie del
Battista a Genova a seguito della presa di Myra, avvenimenti narrati nelle antiche cronache cittadine.
Inoltre, l’iconografia legata alle imprese di Colombo sarà prescelta come soggetto decorativo di un celebre
apparato effimero, compiuto per il passaggio in città del cardinale Infante Ferdinando, fratello del re
Filippo IV di Spagna, nel maggio del 16334, così come per i magnifici bassorilievi in argento di soggetto
colombiano realizzati per Agostino Pallavicino da Mathias Meljin, oggi conservati presso la Galleria
Nazionale di Palazzo Spinola di Genova5. La scelta come tema decorativo delle imprese del navigatore,

Il presente testo è una rielaborazione del saggio presentato da chi scrive per il volume, a cura di Lauro Magnani, Palazzo
Belimbau. I dipinti restaurati, Genova 2015, pp. 22-24
1 E. Parma, Palazzo Belimbau e il ciclo colombiano, Novara 1986. Sono riportati, in questa occasione, i bozzetti preparatori delle

lunette con Colombo chiede ai Reali di Spagna le caravelle per il viaggio; Colombo prende terra a San Salvador; La tempesta durante il ritorno
in Spagna, tutti con analoghe caratteristiche grafico-strutturali. A questi si aggiunge oggi il prezioso disegno in oggetto, che
rappresenta un utile documento atto a ricostruire ulteriormente la componente progettuale di uno dei cicli pittorici più
importanti del primo Seicento a Genova e il più significativo al mondo dedicato a Cristoforo Colombo.
2 Si tratta, in particolare, di disegni raffiguranti gli indios che siedono nell’illusorio cornicione. Cfr. anche E. Parma, Palazzo De

Ferrari Chiavari Belimbau, in Città Ateneo Immagine, a cura di L. Magnani, Genova 2014, pp. 116-131.
3 Si tratta di palazzo Lomellini Centurione Podestà Bruzzo. Gli affreschi dello Strozzi furono, per altro, al centro di una accesa

controversia di tipo legale con il committente, che comportò la loro pressochè totale scialbatura pochi anni dopo l’esecuzione
degli stessi. La loro riscoperta, relativamente recente, ha restituito uno dei più gustosi brani di pittura naturalista ad affresco
del primo Seicento genovese, seppur qui predomini – nell’obiettivo del committente e del pittore – la narrazione allegorica a
quella storica, esemplata invece magistralmente dal Tavarone. Cfr. anche D. Sanguineti, Un “nuovo modo di pennelleggiar risoluto e
franco”. Affreschi e pale d’altare di Bernardo Strozzi negli anni genovesi, in Bernardo Strozzi (1582-1644). La conquista del colore, Genova
2019, pp. 43-104.
4 L. Magnani, Committenti e architetture a Genova tra XVI e XVII secolo, l’edilizia religiosa e le scelte di Giovan Andrea Doria, in Atti del

XXIII Congresso di storia dell’architettura (Roma, 24 - 26 marzo 1988), Roma 1989, II, pp. 141-149.
5 Boggero F., Simonetti F., Argenti “colombiani” nella Galleria Nazionale di Palazzo Spinola, Genova 1988.
di umili origini e al contempo arrivato per forza di volontà a compiere un’impresa senza eguali,
rappresenta senz’altro l'esaltazione della famiglia De Ferrari, che aveva guadagnato il rango aristocratico
a seguito delle Leges doriane del 1528 e della riforma degli Alberghi, poi confermata e ribadita a Casale
con le Leges Novae del 1576 e rappresentava pertanto un magnifico esempio di quei nobili nuovi, desiderosi
di legittimarsi anche attraverso le immagini come self made man, sull’esempio di Cristoforo Colombo.
Nondimeno, avendo sposato una donna di augusto lignaggio come Delia Giustiniani, nel palazzo si
ricorda per tramite della storia antica e di Plutarco anche l’autorevolezza, la bellezza e la regalità di una
Regina come Cleopatra, a cui nessun uomo fu capace di tenere testa né per amore, né tantomeno per
forza.

Giacomo Montanari

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