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Università degli Studi di Padova

Dipartimento dei Beni Culturali: archeologia, storia dell’arte, del cinema


e della musica

Corso di Laurea Triennale in


Storia e tutela dei Beni artistici e musicali

UT VENTUM EST PARVI RUBICONIS AD UNDAS…


Il potere delle immagini nella Pharsalia di Lucano

Relatore: Sara Vellardi

Laureando: Silvia Mellone


Matr.1149499

Anno Accademico
2018/2019
INDICE

INTRODUZIONE 7

CAP 1. PATRIAE TREPIDANTIS IMAGO


1.1 Intenti anti-virgiliani nella descrizione della Patria 13
1.2 L’invenzione lucanea della Patria turrita 17
1.3 Il discorso della Patria a Cesare, tra epica e retorica 21
1.4. La reazione di Cesare all’apparizione della Patria 29

CAP 2. LA PERSONIFICAZIONE DELLA PATRIA:


FONTI ICONOGRAFICHE E LETTERARIE
2.1 La Patria come matrona in lutto 35
2.2 La Patria come Dea incoronata 37
2.3 La Patria come Tyche 40
2.4 La Patria come Cibele 43

CAP 3. NOTE COLORISTICHE E ALCUNI ASPETTI


DI VISIBILITÀ 47

CONCLUSIONE 59

FONTI ICONOGRAFICHE 61

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI 79

5
6
INTRODUZIONE

Un’esclamazione, iacta alea est, e un piccolo fiume, il Rubicone: due indizi


diventati celebrità storiche, che ci riportano alla notte tra l’11 e il 12 gennaio
dell’anno 49 a.C.1, quando Cesare oltrepassa risolutamente l’invalicabile
confine. Corso d’acqua dalla modesta portata, il Rubicone sanciva il limite
politico tra la Gallia Cisalpina, provincia da poco annessa all’impero grazie
all’operato militare di Cesare, e il territorio italico subappenninico2. Grazie a
quest’evento, l’area è diventata simbolo di uno degli attraversamenti di confine
di maggior rilievo nella storia antica, a cui si riconducono decisioni irrevocabili
che hanno segnato il corso degli eventi. Com’è noto, il gesto del condottiero fu
solo il casus belli di una tensione ormai alle stelle tra il comandante e la parte
senatoria a lui avversa; esso segna la trasgressione di un duplice divieto
impartito a Cesare: in primo luogo quello di condurre eserciti fuori dalla propria
provincia e, a maggior ragione, di farli entrare nella terra Italia senza
autorizzazione da parte del senato; l’ultimatum senatorio, seguito a breve dalla
dichiarazione dello stato di emergenza, chiedeva a Cesare di congedare le
truppe3. Con il superamento di quel confine, il comandante sapeva di dare così
origine a una guerra civile, che avrebbe portato alle armi romani contro romani.
Un bellum civile, dunque, di proporzioni spaventose, prosecuzione di quel
sanguinoso periodo inaugurato nell’88 a.C. dal console Lucio Cornelio Silla4. È
proprio con tale factus funestus che prende avvio il poema di Lucio Anneo
Lucano.

1
Sulla precisazione e a sostegno di questa tesi Fezzi 2017, p. 321.
2
Informazioni dedotte da Laffi 2001, pp. 209-235; Sordi 1987, pp. 200-211; Berti 1987, pp. 212-233.
3
Sul senatus consultum ultimum, passato tra il 3 e il 10 febbraio, cfr. Appel 2012, pp. 341-360.
4
Cfr. Keaveney 2005; Santangelo 2007.

7
Non passa secolo o era senza che l’influenza della Pharsalia non si sia fatta
sentire: riscuote fin da subito un enorme successo e nei secoli a venire autori
successivi hanno considerato il poeta un punto di riferimento, accrescendo
sempre di più la fama del poema. Marziale, per esempio, in un epigramma (14,
194) attesta che al suo tempo la Pharsalia era un’opera vendutissima,
nonostante le continue polemiche letterarie cui l’opera aveva dato luogo5. Ma
tali polemiche non arrestarono l’ascesa dell’opera, che si era ormai affermata
con una una moltitudine di seguaci, in modo particolare durante il medioevo,
dove autori del calibro di Dante, Petrarca e Tasso dimostrarono l’ammirazione
nei suoi confronti6.
A partire dal tardo Settecento e dall’Ottocento, dopo un periodo passato
nell’oblio, neoclassici, alfieriani e romantici riscoprono nella Pharsalia materia
e personaggi conformi al loro gusto e ai loro ideali7.
Autore fortemente ‘visionario’, Lucano crea quadri narrativi di grande efficacia,
che hanno reso iconici molti dei suoi passi: note coloristiche e chiaroscuri di
forte impatto visivo, minuziosità nella rappresentazione dei particolari,
nitidezza delle immagini originano un apparato scenico degno della fortuna

5
In primis quella riportata da Petronio nel suo Bellum civile, dove l’autore in qualche modo intendeva
contrapporsi alle tendenze del poema che Lucano stava elaborando. Ma la polemica non ebbe tregua e
venne successivamente portata avanti da grammatici, quali Frontone, che critica il poeta per la
ripetitività dei concetti e la sovrabbondanza espressiva e Servio, che, nel suo commento all’Eneide,
sostiene la Pharsalia essere una storia e non un poema. In merito a tale argomento cfr. De La Ville De
Mirmont 1893, pp. 157 ss.; per un maggior approfondimento cfr. Gagliardi 1976; Conte 1966, pp. 42
ss.;1985, pp. 75 ss. e ulteriori approfondimenti in 1974.
6
Dante lo colloca quarto fra gli “spiriti magni” dopo Omero, Orazio e Ovidio in Inferno 4, v. 90 e lo
cita anche come modello in Inferno 25, vv. 94 ss.; plasma il Catone che lui e Virgilio incontreranno nel
Purgatorio sul Catone lucaneo; cfr. Ussani 1918. Pure Petrarca trae larga ispirazione da Lucano,
soprattutto per la composizione dell’Africa. Tasso si rifà prendendo spunto per alcuni episodi della
Gerusalemme Liberata, sebbene, nel saggio Del poema eroico, mostri la sua venerazione per il modello
virgiliano e muova le stesse critiche che precedentemente erano state dei grammatici. Vedi anche
Paoletti 1962, pp. 144 ss.
7
Goethe trae ispirazione dalla descrizione dei riti della maga Erittone per l’episodio di Valpurga nel
Faust; Foscolo deriva da Lucano alcuni accenti dei Sepolcri; Alfieri termina il Misogallo con una
epigrafe che riproduce il verso su Catone e la causa victa; Leopardi prende spunto per il Bruto Minore,
rifacendosi agli spunti “titanistici” e “antiteistici” della Pharsalia. Cfr. Timpanaro 1980, pp. 1-79;
Narducci 1979; 1985, pp. 1538 ss.

8
letteraria di questo autore. Se tale è la capacità ecfrastica di Lucano,
paradossalmente non uguale fortuna ha avuto il poema in ambito figurativo.
Il Medioevo è affascinato dal personaggio di Cesare, già all’epoca sospeso tra
realtà storica e mito. Senza ombra di dubbio si può affermare che il merito di
tale operazione va innanzitutto ai fatti accaduti nelle celebri Idi di Marzo, il
fatidico giorno secondo il quale Cesare venne assassinato; non meno incisivo è
stato il contributo che ha dato un evento come quello dell’attraversamento del
Rubicone. Se la letteratura ha manifestato un forte interesse nei confronti del
poema sulla guerra civile tra Cesare e Pompeo, non altrettanta fortuna hanno
avuto quegli specifici episodi sul piano figurativo. Ben pochi artisti hanno
concentrato la loro attenzione sull’attraversamento del Rubicone.
Particolarmente interessante per la stretta adesione alla narrazione letteraria di
questi episodi risultano alcune miniature provenienti da alcuni codici tardo-
medievali dedicati ai Faits des Romains. In quest’opera in prosa, interamente
incentrata sulla vita di Cesare, è narrata una delle scene cardine del primo libro
della Pharsalia: l’apparizione della Patria a Cesare sulle sponde del Rubicone.
Una delle miniature presenti nel codice parigino rappresenta questa scena,
delimitata da una cornice blu e rossa, all’interno della quale spicca per
dimensioni sulla destra la figura maestissima della Patria [Fig. 1]8. Questa è la
protagonista, l’unica rappresentata frontalmente, che rivolge lo sguardo a una
moltitudine di soldati. Tra questi si trova Cesare, rappresentato a cavallo e con
una lancia nella mano destra, a guida dell’esercito che conduce. Più aderente

8
I dodici libri annunciati all’inizio dei Faits des Romains, opera composta in Île-de-France intorno al
1213-1214, portano a conoscenza del fatto che l’opera era dedicata ai dodici Cesari, andando così dalla
nascita di Giulio Cesare alla morte di Domiziano, ma il testo conservato si ferma alla morte di Cesare.
L’autore basa la sua trattazione sulle opere di quattro autori latini: Cesare stesso, Svetonio, Sallustio e
Lucano. L’opera ebbe grande successo fino alla fine del Medioevo, tanto da venire copiata in più di
cinquanta manoscritti.

9
alla narrazione di Svetonio è invece la miniatura realizzata da Jean Fouquet
intorno al 14709.
L’episodio del Rubicone fa poi la sua comparsa in un grande arazzo, ora al
museo di storia di Berna, databile intorno al 1465-1470 circa istoriato con le
gesta di Cesare: illustra il dux intento a passare il Rubicone, mentre davanti a
lui si erge dall’acqua l’immagine della Patria [Fig. 3]10. In primo piano si trova
raffigurato per intero Cesare a cavallo, indossa indumenti cavallereschi tipici
dell’epoca (dove nella manica destra è riportata la scritta “Cesar”) ed è
rappresentato con un’espressione di sgomento e paura, sentimenti comprensibili
anche dal gesto che compie con la mano destra. Alle sue spalle lo segue
l’esercito dal quale spicca una figura vestita di rosso che, alzando la mano destra
e rivolgendosi verso questo, dà segno di fermarsi. Sullo sfondo la raffigurazione
di una città medievale, vicino alla quale scorre un fiume e, dalle cui acque
emerge la rappresentazione allegorica della Patria, riconoscibile dalla scritta
“Rome”, che disperata alza le braccia al cielo in segno di supplica verso il
condottiero.
Si dovrà poi attendere il XIX secolo perché il potere delle immagini riscopra
nuovamente il Rubicone. Nel 1875 Cesare è di nuovo il soggetto di un dipinto,
il “Jules Cèsar” del pittore francese Adolphe Yvonne, diventato una delle sue
opere più celebri [Fig. 4]11. Anche se l’artista non ha deciso di rappresentare la
scena dell’apparizione della Patria a Cesare, l’atmosfera ricorda molto da vicino

9
Jean Fouquet, intorno al 1470, dipinse le miniature di uno dei manoscritti dei Faits des Romains ormai
smembrato, di cui quattro fogli sono ora conservati nel museo del Louvre. Raffigura la Patria seguendo
il testo lucaneo, la quale è collocata sullo sfondo, mentre in primo piano risalta la figura di un giovane
di straordinaria bellezza intento a suonare il flauto, in linea con la narrazione di Svetonio (Caes. I, 31)
[Fig. 2].
10
Cfr. Jubinal 1888, pp. 134-160. Jubinal, che ha dedicato molte delle sue opere a studi su arazzi, è
autore di due volumi nei quali raccoglie gli esemplari più illustri dall’XI al XVI sec. Nel secondo volume
si trova il capitolo dedicato agli arazzi di Berna, che in totale sono dieci. Oltre al ciclo dedicato a Cesare
(questo arazzo è lungo circa 8m e alto 4,5 m), gli altri soggetti rappresentati sono l’adorazione dei magi;
Traiano che, ascoltando la richiesta di una vedova, causa l’esecuzione dell’assassinio del marito
ingiustamente; San Gregorio Nazanzieno che strappa dagli inferni l’anima dell’imperatore Traiano; vita
di San Vincenzo di Saragozza.
11
L’opera è conservata al Musèe des Beaux-Art ad Arras.

10
quella lucanea. Il cielo plumbeo sovrasta l’intera schiera di personaggi che
seguono il condottiero, segno del ben evidente disastro di cui Cesare è portatore.
Questi avanza, fiero e deciso con lo sguardo fisso di fronte, contemplando il
globo che stringe fra le mani, incurante di quanti ha travolto o sta per travolgere.
Tra questi spicca la figura all’estrema sinistra, una madre che stringe fra le
braccia il figlio che piange e si dispera inorridito alla vista dell’avanzata: con la
mano destra la madre cerca invano aiuto tenendosi aggrappata a quello che si
può definire un altare, appena visibile, e sul quale, oltre a ergersi una colonna
spezzata la cui parte distrutta è visibile in secondo piano, è incisa la scritta
“PATRIA”. La colonna rotta è simbolo di morte e distruzione, richiamate inoltre
dalla presenza dell’uccello nero in volo, dalle ossa di cadaveri in primissimo
piano e dalle tre figure che per dimensioni sovrastano le altre; due avanzano in
coppia completamente velate di bianco con in mano una falce ciascuna, mentre
la terza è al contrario semivestita di nero e le segue, cingendo nella mano destra
una spada e in quella sinistra una fiaccola. In alto a destra, il fuoco arde e sta
radendo al suolo una città ormai distrutta, presagio di quello che avverrà, tanto
che il suo fumo da destra percorre l’intero dipinto e non lascia via di scampo.
Straziante è la visione di questo quadro, come straziante e orribile è la guerra
che ricorda Lucano.
Vent’anni prima anche il comune di Rimini, legato geograficamente e
storicamente al fiume Rubicone, aveva reso omaggio al celebre evento storico:
risale al 2 novembre 1855 la stipula di un contratto con il pittore bergamasco
Francesco Coghetti (1802-1875) per l’esecuzione del sipario del Teatro
comunale “Amintore Galli” allora in via di completamento sotto la direzione
del progettista, l’architetto Luigi Poletti [Fig. 5]12. Anche se inizialmente si
pensa a un soggetto differente, quello del console Flaminio che veste le insegne
consolari nel foro di Rimini, alla fine si concorda di mantenere il soggetto

12
Il teatro è oggetto di un recente restauro, eseguito da Laura Ugolini due anni fa, nel 2017.

11
cesariano, precedentemente rappresentato dal pittore riminese Marco
Capizucchi (1784-1844) nel sipario del Teatro Vecchio. In questo caso, però, si
introduce una novità: l’iconografia non si baserà sulla trattazione storica di
Svetonio, ma sul poema epico di Lucano. Il caos e la disperazione regnano sulla
composizione: l’intero esercito si è diviso in gruppi e, unite tutte le loro forze,
cerca di sconfiggere l’immane visione che squarcia il cielo. Viene rappresentata
in questo modo la Patria, abbigliata come una dea e ritratta con la mano sinistra
alzata in segno di rimprovero13. Al centro, quasi isolata, la rappresentazione di
Cesare in sella al suo cavallo: entrambi sono scossi e impauriti a causa della
visione. Ecco che ben due anni dopo, nel 1857, Coghetti presenta il più bello e
costoso telo scenico dell’epoca, “accolto con applausi e ovazioni ben dovute”14,
soddisfacendo la città di Rimini.

13
Interessante notare come, nonostante la certezza nel sapere che il pittore guardò al testo lucaneo per
la rappresentazione, la Patria non viene ritratta con la corona muraria in testa.
14
Sono queste le parole che il gonfaloniere scrive a Francesco Coghetti, che non partecipò alla prima
dell’Aroldo di Verdi con cui fu inaugurato il teatro in data 11 luglio 1857.

12
CAPITOLO 1
PATRIAE TREPIDANTIS IMAGO

1.1 Intenti anti-virgiliani nella descrizione della Patria

Al termine del primo proemio, che si conclude con le Laudes Neronis, e del
cosiddetto secondo proemio, dove invece vengono spiegate le cause del bellum
civile, ha avvio il racconto, con il rapido accenno alla discesa di Cesare dalle
Alpi:

Phars. I, vv. 183-185:


Iam gelidas Caesar cursu superaverat Alpes
ingentisque animo motus bellumque futurum
ceperat.

Già Cesare aveva nella sua corsa superato le gelide Alpi


e concepito il piano di grandi sommovimenti
e della guerra futura15.

Fin dai primi versi emerge la ricercata intertestualità del passo. Si scorgono
subito reminiscenze ovidiane: in particolare le parole cursu superaverat Alpes
si ritrovano nella simile espressione ovidiana cursu superavimus Isthmon in
Trist. I, 11, 516.
La narrazione lucanea è fulminea, degna del personaggio di Cesare17; ma
all’arrivo il dux non si abbatte immediatamente come un fulmine, esita per un

15
Qui e in seguito la traduzione riportata è quella di Ludovico Griffa, prefazione di G. Pontiggia,
Adelphi Milano 1967. L’edizione critica di riferimento per il testo della Pharsalia è l’edizione
teubneriana curata da D. R. Shackleton Bailey 1988
16
Per un’analisi puntuale dell’intertestualità del passo cfr. Getty 1992, pp. 53-54.
17
Come lo propone Lucano paragonandolo a un fulmine con la similitudine inserita pochi versi prima
a presentazione del personaggio (cfr. Phars. I, vv. 143-157). Cesare non dà mai tregua ai suoi successi,
al contrario sollecita il favore divino e si getta su tutto ciò che ostacola i suoi sogni di dominio con una

13
momento, si ferma a pensare e valutare se effettivamente è conveniente
spingersi a un gesto così tanto scellerato. L’esitazione è breve: diversamente
dalle fonti storiche che riferiscono l’episodio, tale esitazione è causata da una
straordinaria apparizione, quella della Patria. Quando il condottiero ha ormai
concepito i suoi grandiosi disegni di guerra, l’unica autorità in grado di farlo
retrocedere non poteva che essere lei:

Phars. I, vv. 185-192:

Ut ventum est parvi Rubiconis ad undas,


ingens visa duci patriae trepidantis imago
clara per obscuram voltu maestissima noctem,
turrigero canos effundem vertice crines,
caesarie lacera nudisque adstare lacertis
et gemitu permixta loqui: “Quo tenditis ultra?
Quo fertis mea signa, viri? Si iure venitis,
si cives, huc usque licet”.

Quando fu giunto al piccolo Rubicone,


maestosa apparve al condottiero l’immagine della Patria trepidante,
fulgida nell’oscurità della notte, afflitta in volto,
con i bianchi capelli fluenti dalla testa turrita,
ritta e a braccia nude. Lacerandosi la chioma, così apostrofò tra
i gemiti: “Dove volete ancora proseguire?
Dove portate le mie insegne, soldati? Se venite nella legalità, come
cittadini, potete arrivare solo qui”.

Evidente, anche dal punto di vista strettamente stilistico, come Lucano non
abbia saputo resistere alla tentazione di attingere a celebri apparizioni virgiliane.
Nel secondo libro dell’Eneide, quando si racconta della notte in cui Troia viene
distrutta ed è data alle fiamme, Enea è da solo e scorge Creusa che,
sopravvissuta, cerca di nascondersi dietro agli altari. Mentre è intento a pensare

furia tale che, come il fulmine che squarcia il giorno, terrorizza le genti con il guizzo del suo fuoco e si
accanisce contro la volta del cielo.

14
fra sé e sé pieno d’ira a come vendicare la patria, gli appare la madre Venere,
che lo distoglie dagli empi pensieri e lo incita a scappare da Troia per mettersi
in salvo insieme al padre Anchise e al figlio Iulo:

Verg. Aen. II, vv. 589-592:

non ante oculis tam clara, videndam


obtulit et pura per noctem in luce refulsit
alma parens, confessa deam qualisque videri
caelicolis et quanta solet.

quando mi apparì, non sì chiara davanti agli occhi,


visibile e splendette di pura luce nella notte
la grande madre, manifestandosi dea quale e quanto
bella suole apparire ai celesti.

Al condottiero la Patria si presenta clara per obscuram noctem (v. 187), come
nel poema virgiliano la dea si mostra al figlio clara (v. 589) e pura per noctem
in luce (v. 590). Analoga è la posizione incipitaria di clara, analoghi sono i
contrasti di luce, come analoghe sono le dimensioni sovrumane, tipiche della
maggior parte di apparizioni o visioni prodigiose. E difatti, ingens (v. 185) è il
primo termine su cui si focalizza l’attenzione di Lucano: il poeta ricorre
all’aggettivo epico, di chiara reminiscenza virgiliana18, utilizzandolo ben due
volte nel giro di pochissimi versi. In questo modo tra l’ingens imago (v. 184)
della Patria e gli ingentes motus (v. 186) dell’animo di Cesare, emerge il
Rubicone, definito invece parvus.

18
Parola di assai frequente impiego, ingens ricorre nelle opere virgiliane ben 199 volte, di cui 168
nell’Eneide e 31 nelle Georgiche (mai nelle Bucoliche). Evidentemente si tratta di un aggettivo che era
sentito, sotto il profilo semantico e/o tonale, tanto estraneo al mondo e ai modi espressivi della “tenue”
poesia pastorale, quanto adatto, invece, alla grandiosità e solennità dell’epica; esso doveva apparire
confacente anche al genus medium del poema didascalico. Cfr. Ranucci, voce ingens in Enciclopedia
Virgiliana, II, 1985, pp. 984-985.

15
Sull’apparizione della Patria, che ricalca il prototipo delle tipiche apparizioni di
umbrae, non sfugge il contributo che sempre Virgilio ha dato, descrivendo
l’immagine di Ettore comparsa in sogno a Enea la notte dell’incendio:

Verg. Aen. II, vv. 270-271:

ecce ante oculos maestissimus Hector


visus adesse mihi largosque effundere fletus.

davanti agli occhi mi sembrò presentarsi


Ettore maestissimo e versare lunghi pianti.

Maestissimus è Ettore per Virgilio, come maestissima è la Patria per Lucano (v.
187). E se si continua a leggere tra i versi, la ripresa virgiliana continua anche
nella decisione di Lucano di voler rappresentare la Patria afflitta e scomposta
nello stesso modo in cui Ettore, sfigurato dalla brutalità di Achille, si presenta
ad Enea. Qui è evidente l’intento di identificare la città di Troia con quella di
Roma, contrapponendo Ettore morto per la salvezza della patria a Cesare, che,
invece, la sfida19.
Virgilio è l’autore da cui Lucano ha attinto di più, le riprese sono molteplici e
la contrapposizione tra i due autori è eclatante proprio nella scena
dell’apparizione della Patria, di indubbia natura anti-virgiliana20: l’antitesi fra
colui che rappresenta il fondatore non solo della gens Iulia, ma prima ancora
della patria stessa, e quello che invece ne viene considerato l’avversario, è
messa in luce dall’opposizione tra l’adesione di Enea alla missione destinatagli
e gli ordini inascoltati da Cesare. Anche lui a suo modo arriverà a portare a
termine l’intento, oltrepassa il confine stabilito e, sovvertendo le leggi, non tiene

19
Cfr. Thompson-Bruère 1968, pp. 6-7; il parallelo tra le due situazioni è ribadito anche in Narducci
1982, pp. 175-178.
20
La fonte presa in considerazione in questo caso è Peluzzi 1999, pp. 130-131. Cfr. ancora Thompson-
Bruère 1968, p. 6.

16
affatto conto dell’esortazione della Patria. Ciò che Enea è riuscito a fondare,
dopo aver combattuto e unito due popoli, quello latino a quello troiano, Cesare
lo distrugge e porta all’oblio.

1.2 L’invenzione lucanea della Patria turrita

Nel descrivere la Patria apparsa a Cesare, Lucano usa l’aggettivo turriger (v.
188). Dal greco πυργοφόρο"Ú (corrispondente a turriger e turrifer) e purgotei'",
purgwtό" (legati a turritus), l’aggettivo turriger è di solito utilizzato, insieme
a turritus e turrifer, per qualificare Cibele, per descrivere città fortificate, navi
o anche elefanti21. Nel passo di Lucano relativo all’apparizione della patria,
turriger viene usato in riferimento al diadema murale che essa indossa, simbolo
di dignità regale22. Un’analisi delle occorrenze dei tre aggettivi in riferimento
alla corona murale negli autori precedenti a Lucano può ulteriormente chiarire
con quali modelli il poeta si sia confrontato.
Sia turriger che turritus si ritrovano in Virgilio: entrambi i termini si ritrovano
nell’Eneide in riferimento alle mura di città23. In Aen. VII, v. 631 l’epiteto
turriger è usato in riferimento alle mura di Antenna, una delle città latine che si
arma e accorre, tra squilli di tromba, a muovere guerra contro i Troiani. Tutto
ha inizio dall’uccisione da parte di Ascanio di un cervo addomesticato da Silvia,
figlia di Tirro, capo delle stalle del re Latino. Scoppia così una mischia in cui
muoiono due italici e si crea il pretesto per la guerra:

21
Ad es. Plinio. Hist Nat. VIII, 77 o Sil. It. IX, 39.
22
Nelle altre due occorrenze del termine presenti nella Pharsalia, l’aggettivo designa invece le navi
(III, v. 514 e IV, v. 226).
23
E altre due volte invece tali termini sono usati in riferimento agli scogli (Aen III, v. 536) e alle navi
(Aen. VIII, v. 693).

17
Verg. Aen. VII, vv. 629-631:

quinque adeo magnae positis incudibus urbes


tela novant, Atina potens Tiburque superbum,
Ardea Crustumerique et turrigerae Antemnae.

così cinque grandi città, approntate le incudini,


rinnovano le armi, la potente Atina, Tivoli superba,
Ardea, Crustumeri e Antenna turrita.

Ancora una volta, le città definite turrite sono citate nel quadro della preghiera
che Enea rivolge alla Madre degli dei nel decimo libro, affinché lo accompagni
e gli faccia da guida nella guerra contro i Rutuli:

Verg. Aen X, vv. 252-253:

alma parens Idaea deum, cui Dyndima cordi


turrigeraeque urbes biiugique ad frena leones.

divina Idea madre degli dei, cui stanno a cuore Dindimo,


le città turrite e i leoni appaiati alle brighe.

Turritus lo troviamo invece nella similitudine presente nel sesto libro, v. 785 in
riferimento questa volta alla corona indossata dalla dea Cibele. Una volta
raggiunto il regno dei morti Enea incontra il padre Anchise, che gli predice il
destino di Roma, le cui sette rocche verranno circondate di muraglia, paragone
con la corona turrita della dea:

Verg. Aen. VI, vv. 784-785:

qualis Berecyntia mater


inuehitur curru Phrygias turrita per urbes.

come la madre Berencizia


turrita è portata sul cocchio per le città frigie.

18
Lucano questo aggettivo turritus lo usa solo due volte: in Phars. VI, v. 39,
quando parla delle macchine da guerra e in II, v. 358, nell’indicare la turrita
corona, in questo caso in riferimento alle tipiche acconciature delle matrone
romane24.
Nelle Elegiae, Properzio usa turriger e turritus, entrambi una sola volta e
sempre in riferimento a Cibele:

Prop. Eleg. III, 17, vv. 35-36:

vertice turrigero iuxta dea magna Cybelle


tundet ad Idaeos cymbala rauca choros.

la grande dea Cibele dalla testa turrita


allatto i rauchi cembali risonare farà al canto dei cori dell’Ida.

Prop. Eleg. IV, 11, vv. 51-52:

vel tu quae tardam movisti fune Cybellen


Claudia, turritae rara ministra deae.

persino tu, Claudia, della dea turrita serva rara


che con la fune Cibele che tardava rimovesti.

È evidente la ripresa di Lucano al v. 188 del properziano vertice turrigero di


Eleg. III, 17, 3525.
Ma l’autore a cui più sembra riconnettersi Lucano nel presentare la Patria
agghindata con la corona turrita è Ovidio, che in due casi utilizza l’epiteto
turriger sempre in attribuzione a Cibele: Fast. VI, v. 321: turrigera frontem
Cybele redimita corona e Trist. II, vv. 23-24: ipse quoque Ausonias Caesar
matresque nurusque / carmina turrigerae dicere iussit Opi. Turrita mater è poi

24
Cfr. in proposito Fantham 1992, p. 146.
25
Che a sua volta ricorda un altro passo di Properzio, il cui soggetto è l’immagine di Roma rappresentata
con i capelli sciolti in segno di lutto (Prop. II, vv. 45-46).

19
definita Cibele in Met. X, v. 696. In particolare, nella sezione dedicata alla
spiegazione delle Megalesie, feste in onore di Cibele, nel quarto libro dei Fasti
dove Ovidio fornisce una spiegazione all’attributo della corona turrita. Il poeta
rivolge una serie di domande alla dea, la quale ordina alle muse di rispondere
per lei. In questo modo si instaura il seguente dialogo tra la musa Erato e Ovidio:

Ov. Fast. IV, vv. 219-221:

“At cur turrifera caput est onerata corona?


An primis turres urbibus illa dedit?”
Adnuit.

“Ma perché la sua testa è gravata da una corona di torri?


Forse fu lei a dare le torri alle prime città?”
La musa annuì.

Dotando di corona turrita l’immagine femminile della Patria personificata,


Lucano opera una sintesi tra questo tipo di attributo, usuale nella
rappresentazione letteraria della dea Cibele (come si è visto nei passi citati da
Properzio e Ovidio), e nelle urbes turritae presenti nell’Eneide. Tramite
l’inserimento di questo dettaglio, la città di Roma si dota così di un attributo che
la rende Urbs per eccellenza e sacra nello stesso tempo, accentuando in questo
modo il misfatto compiuto da Cesare26.

26
Dopo Lucano, Silio Italico (Pun IV, vv. 408-409 e Pun. XIII, vv. 13-15), Rutilio Namaziano (De red.
I, vv. 115-118) e Sidonio Apollinare (Pan. Magg., vv. 13-15 e Pan. ad Ant., vv. 391-393) sono autori
che scelgono tale tipo di rappresentazione, avvertendo l’originalità dell’invenzione lucanea. Appare
chiaro che, dopo di lui, chi voleva dipingere poeticamente la dea Roma, doveva prendere come modello
i versi della Pharsalia.

20
1.3 Il discorso della Patria a Cesare, tra epica e retorica

Si è osservato che, nei passi della Pharsalia analizzati nei paragrafi precedenti,
la prosopopea retorica della Patria è in parte costruita riproducendo moduli e
frasario virgiliani. Appena apparsa nell’oscurità della notte, afflitta in volto e
intenta a lacerarsi la chioma dalla disperazione, gli si rivolge dicendo tali parole:

Phars. I, vv. 190-192:

“Quo tenditis ultra?


Quo fertis mea signa, viri? Si iure venitis,
si cives, huc usque licet”.

“Dove volete ancora proseguire?


Dove portate le mie insegne? Se venite nella legalità,
come cittadini, potete arrivare solo qui”.

Lucano recupera nuovamente il modello epico virgiliano, questa volta mediante


l’uso del verbo tendere27. Arrivato insieme ai compagni sopravvissuti sulle
coste della Libia, Enea si rivolge loro incoraggiandoli e ricordando la meta
predestinata nella terra del Lazio, sede promessa a lui e ai suoi discendenti:

Veg. Aen. I, vv. 204-206:

per varios casus, per tot discrimina rerum


tendimus in Latium, sedes ubi fata .quietas
ostendunt; illic fas regna resurgere Troiae.

tra varie vicende, tra tanti rischi


miriamo al Lazio, dove i fati dimostrano dimore
tranquille; là è giusto risorga il regno di Troia.

27
Oggetto di un approfondito studio di Emanuele Narducci mirato all’analisi dei modelli letterari è la
prima interrogazione che la donna pone a Cesare: Narducci 2002a, in particolare pp. 198-199.

21
Di seguito, una volta arrivati alla reggia di Didone, i Troiani supplicano la regina
di aver commiserazione e risparmiare un popolo pio come il loro. Parla il più
vecchio tra di essi, Ilioneo, che si rivolge così a Didone dicendo:

Verg. Aen. IV, vv. 551−554:

quassatam ventis liceat subducere classem


et silvis aptare trabes et stringere remos,
si datur Italiam sociis et rege recepto
tendere, ut Italiam laeti Latiumque petamus.

sia permesso attaccare la flotta sconvolta dai venti


e coi boschi preparare travi e tagliare remi,
se è dato tendere all’Italia coi compagni, ripreso
il re, per dirigerci lieti in Italia e nel Lazio.

Ma è nel libro ottavo che si trova un parallelo ancor più significativo, quando
Enea arriva nella terra degli Arcadi e trova Pallante che, andandogli incontro,
esclama tali parole:

Verg. Aen. VIII, vv. 112-114:

“Iuvenes, quae causa subegit


ignotas temptare vias? Quo tenditis?” inquit.
“quo genus? Unde domo? Pacemme huc fertis an arma?”.

“Giovani, quale motivo


costrinse a tentare ignote vie? Dove andate?” disse.
“Quale stirpe? Da quale patria? Venite in pace o con armi?”.

La seconda interrogazione con la quale la divinità continua il suo discorso nel


tentativo di fermare l’hostis, ha la funzione di sottolineare il paradosso della
situazione che vede protagonisti Cesare e la Patria, a differenza dei versi del
poema virgiliano; Enea propone un’alleanza a Pallante, volendo in questo modo

22
ribadire l’intento assolutamente pacifico dei troiani28. La ripresa virgiliana ha
quindi la funzione di contrapporre un intento assolutamente pacifico con le
intenzioni belligeranti di Cesare.
Autori come Svetonio e, in modo particolare, Cassio Dione possono aver avuto
presente il racconto narrato da Lucano. Nel primo capitolo della vita di Claudio,
nel quale si narra della spedizione oltre il Reno di Druso, Svetonio ci racconta
che quest’ultimo non cessò di rincorrere i nemici prius […] quam species
barbarae mulieris humana amplior victorem tendere ultra sermone Latino
prohibuisset. (Svet. Caes. V, 1)
Lo stesso evento viene raccontato anche da Cassio Dione, quando fa presente
che l’arresto dell’avanzata di Druso sulle rive dell’Elba avviene a causa di una
misteriosa figura femminile, della quale sottolinea le dimensioni sovrumane; le
parole che costei rivolge a Druso ricalcano in modo evidente il quo tenditis della
scena lucanea29:

Historia romana 1, 3:

@poi' dh'ta +epeigh Dpou'se;

Soprattutto nel parallelo tra lo storico greco e Lucano si notano alcune


somiglianze da non sottovalutare: le due visioni femminili, entrambe di
gigantesche dimensioni, avvengono sul punto di passaggio di un fiume, ed
entrambe pongono la stessa domanda.
Espressioni come quo tenditis ultra? e il seguente huc usque licet (Phars. I, v.
190 e v. 192) fanno parte di quel linguaggio retorico tipico delle conquiste di

28
Il dialogo lucaneo sembra ricalcare il modello, tra l’altro abbastanza convenzionale, di colloquio tra
advena e difensore delle sedi patrie. Il nesso (Phars. I, v. 191) quo fertis mea signa? appare stravolto,
in quanto risalta il paradosso di guerre come quelle civili, secondo il quale si identificano il legittimo
proprietario delle armi e l’oggetto del loro armi: la Patria è infatti la detentrice delle armi con cui viene
assaltata.
29
Cfr. sempre Narducci 2002a, pp. 198-199.

23
età giulio-claudia e dei divieti divini annessi30. Nel periodo di Augusto e Tiberio
ha avuto una grande fortuna la tematica letteraria che univa la conquista a rischi
di sacrilegio nell’oltrepassare il confine dell’ignoto31. Un esempio è il poema di
Albinovano Pedone dedicato alle imprese del figlio di Druso, Germanico, nel
quale uno dei marinai di Germanico esclama:

Albin. Ped. Fr. 1, vv. 7-11: 32

“Quo ferimur?
[…]
Di revocant rerumque vetant cognoscere finem
mortales oculos”.

“Dove siamo portati?


[…]
Gli dei ci richiamano indietro e vietano di conoscere
gli estremi confini dell’Universo ai nostri occhi mortali”.

Il lessico del divieto presente nel poema di Albinovano Pedone, ritorna nel passo
lucaneo appena dopo l’attraversamento del Rubicone:

Phars. I, vv. 223-224:

Caesar, ut adversam superato gurgite ripam


attigit Hesperiae vetitis et constitit Arvis, ‘hic’ ait: “…

30
Cfr. Narducci 2002b, p. 199. A proposito anche Tandoi 1964, pp. 1-29.
31
Molto spesso questa retorica era fondata sul ricordo dell’avanzata di Alessandro Magno, come ad
esempio ricorda Seneca padre (Suas. I, 1): satis sit hactenus Alexandro vicisse.
32
Pedone fu autore di un poema dedicato alla spedizione di Germanico nei mari del Nord, avvenuta nel
16 d.C. e a cui lui stesso partecipò, identificabile nel praefectus equitum citato da Tacito in Annales, I,
60. Tuttavia, della sua opera ci rimangono solamente 23 esametri, trascritti nell’opera di Seneca il
Vecchio. I versi superstiti narrano di un naufragio avvenuto nell’Oceano durante la spedizione e lasciano
trasparire una chiara accentuazione patetica, resa dall’uso ricorrente di artifici dell’arte declamatoria e
da un’impostazione tipicamente virgiliana. Amico fidato di Ovidio, sembra essere stato il più importante
poeta storico della tarda età augustea. Era forse legato a Celso Albinovano, poeta minore a cui Orazio
indirizza le sue Epistolae e probabilmente fu anche retore, data la definizione di Seneca il Vecchio, che
lo definisce fabulator elegantissimus (Controversiae, II, 10, 12).

24
Cesare, una volta uscito fuori dai gorghi, non appena
ebbe toccato l’opposta riva e posto il piede sul suolo interdetto dell’Esperia,
[esclamò: “…

È utile aprire una parentesi sulla denominazione con cui Lucano designa l’Italia:
l’Hesperia. Nell’Eneide, l’Italia è spesso indicata con tale termine nei passi in
cui essa rappresenta il traguardo che i troiani devono perseguire33. Nel seguente
passo, Enea si rivolge a Didone, disperata per l’abbandono da parte di questo,
ricordandole che deve portare a termine una missione: arrivare in Italia e dare
origine a una nuova stirpe. Ciò è volere del fato, ma anche il padre Anchise gli
compare in sogno ricordando tale compito:

Verg. Aen. IV, vv. 350-355:

…et nos fas extera quaerere regna.


Me patris Anchisae quotiens umentibus umbris
nox operit terras, quotiens astra ignea surgunt;
admonet in somnis et turbida terret imago;
me puer Ascanius capitisque iniuria cari,
quem regno Hesperiae fraudo et fatalibus arvis.

…anche noi possiamo cercare regni stranieri.


L’immagine del padre Anchise, per quante volte la notte
ricopre con le umide ombre la terra, e sorgono gli astri di fuoco,
mi rimprovera in sogno e mi atterrisce adirata;
me e anche il fanciullo Ascanio, con l’offesa al suo caro capo,
che defraudo del regno d’Esperia e dei campi fatali.

Ai versi 223 ss., Lucano sembra riprendere, in modo totalmente opposto, le


parole che Enea rivolge all’amata e poi abbandonata Didone, proprio nel
momento in cui le spiega che la sua partenza non è volontaria. E ciò è
confermato dagli aggettivi collegati al termine arva: per Virgilio sono fatalia,

33
Cfr. Aen. IV.

25
mentre Lucano li definisce vetita, indicando in questo modo non un disegno
divino, ma, al contrario, una proibizione.
Con la domanda successiva rivolta dalla Patria al condottiero (v. 191: quo fertis
mea signa viri?), l’autore vuole sottolineare il totale rovesciamento della
vicenda: Roma, che è diventata grande sconfiggendo altri popoli, superandoli
dal punto di vista militare e affrontando così guerre esterne, ora si ritrova invece
a dover soccorrere feriti, seppellire morti che lei stessa origina e subire la
visione di un fratello che uccide un fratello. Lucano prende posizione in modo
netto contro le guerre civili cantate, non volendosi riconoscere in un popolo che
non progredisce nel tempo, bensì retrocede. Così com’era riuscito a diventare
grande ampliando i confini del suo impero, facendo conoscere le sue armi a
popoli che nessuno era riuscito a sconfiggere, ora il popolo romano punta le
armi contro se stesso. Di qui la sbalorditiva domanda che Roma rivolge a
Cesare, nella quale si può ritrovare anche un senso di esclamazione e
meraviglia, sebbene la Patria non fosse affatto nuova ad avvenimenti simili.
Tanto è vero che, la figura della Patria che con un discorso ammonisce e cerca
di bloccare l’avanzata contro di lei, ricorda la protesta che Cicerone a suo tempo
aveva espresso contro Lepido. Nella tredicesima Filippica, Cicerone esprime il
suo disaccordo riguardo una possibile pace tra Antonio e il senato. Il 20 marzo
fu convocato il senato dal pretore urbano Marco Cecilio Cornuto per rendere
pubbliche le lettere ricevute da Marco Emilio Lepido e Lucio Munazio Planco34.
Suddette lettere suggerivano, dietro consiglio di Antonio, la stipulazione di una
pace tra questo e il senato35. Cicerone dunque, avendo compreso l’intento delle
due missive, sostenne con decisione che nonostante la pace fosse una volontà di
entrambe le parti, essa era impossibile da raggiungere perché era in corso una
feroce guerra contro lo stato.

34
Cfr. Cic, Phil. 13, 16; 39; Fam. 10, 6, 3.
35
Cfr. Bellardi 1978, p. 53.

26
Cic. Phil. XIII, 14:

Licet autem nemini contra patriam ducere exercitum, siquidem licere id dicimus,
quod legibus, quod more maiorum institutisque conceditur. Neque enim, quod
quisque potest, id ei licet, nec, si non obstatur, propterea etiam permittitur. Tibi
enim exercitum, Lepide, tam quam maioribus tuis patria pro se dedit. Hoc tu
acerbis hostem, finis imperi propagabis.

Non è lecito a nessuno condurre un esercito contro la patria; se è vero che si


intende per lecito ciò che è concesso dalle leggi, dalle usanze e dalle istituzioni
maggiori. Infatti non è lecito tutto quello che altri possono; né se non li si
contrasta, non per questo li si autorizza. Come ai tuoi maggiori, o Lepido, così
la Patria ha consegnato a te l’esercito per la sua difesa. Con questo tu
allontanerai il nemico ed estenderai i confini dell’impero.

Diversamente da Cicerone, in Lucano l’esortazione della Patria risulta vana.


Pur mantenendo ferma l’influenza esercitata dal genere epico, è evidente come
Lucano abbia attinto anche da testi di retorica. Nell’affrontare il discorso della
fortuna e della frequenza del tema della prosopopea della Patria, già l’autore
della Rhetorica ad Herennium citava l’introduzione della Patria fra gli esempi
più comuni di conformatio36. In questa si affronta la questione messa in risalto
soprattutto dalle parole della stessa Patria Roma quando Cesare si accinge a
varcare il confine: guerre esterne possono rendere sempre più grande e potente
uno stato, quelle interne al contrario solo indebolirlo. E anche in questo caso,
l’esempio riportato è sempre quello dell’allegoria di Roma:

Ad Herenn. IV, vv. 53-66:

Conformatio est, cum aliqua, quae non adest, persona confingitur quasi
adsit, aut cum res muta aut informis fit eloquens, et forma ei et oratio
adtribuitur ad dignitatem adcommodata, aut actio quaedam, hoc pactoc:

36
Passi contenenti prosopopee della patria sono raccolti in Jal 1963, p. 307. Si veda anche il commento
di Calboli alla Rhetorica ad Herennium 1969, p. 427. La tradizione dell’epica arcaica invece poteva
offrire spunti più precisi: sappiamo da Cicerone (De fin. II, 106) che in Ennio era riportato un colloquio
tra Scipione e la Patria, nel quale il grande generale vantava i propri meriti verso Roma.

27
“Quodsi nun haec urbis invictissima vocem mittat, non hoc pacto loquatur:
"Ego illa plurimis tropeis ornata, triumphis ditata certissimis, clarissimis
locupletata vctoriis, nunc vestris seditionibus, o cives, vexor; quam dolis
malitiosa Kartago, viribus provata Numantia, disciplinis erudita Cornthus
labefactare non potuit, eam patimi nunc ab homunculis deterrumis proteri
atque conculcari?”.

Perché se ora questa città invincibile parlasse con la propria voce, non
direbbe forse: “Io, ornata di innumerevoli trofei, ricca di indiscutibili
tronfi, arricchita da celebri vittorie, ora, o cittadini, sono tormentata dalle
vostre divisioni sovversive; io, che né Cartagine con i suoi perfidi inganni,
né Numanzia con la sua forza messa a prova, né Corinto ricca di cultura
riuscirono a distruggere, ora dovrei sopportare di essere malmenata e
calpestata dai peggiori omiciattoli?”.

Affrontando il tema delle discordie interne tra lo Stato e colui che ne mette a
repentaglio le istituzioni, il pensiero non può non andare alle Orationes in
Catilinam: si pensi alla prima Catilinaria, dove la Patria suggerisce la via
dell’esilio a Catilina (17-18), o alla quarta, dove viene immaginata mentre,
rivolgendosi ai senatori, invoca protezione per fermare l’assalto da parte dei
congiurati37:

Cic. Cat. IV, 18:

obsessa facibus et tellis inpiae coniurationis, vobis supplex manus tendit


patria communis; vobis se, vobis vitam omnium civium, vobis Arcem et
Capitolium, vobis aras Penatium, vobis illum ignem Vestae sempiternum,
vobis omnium deorum templa atque delubra, vobis muros atque urbis tecta
commendat.

37
Sulla caratterizzazione lucanea di Cesare come sovversivo e sulla presenza, nel personaggio, di tratti
“catilinari”, cfr. Narducci 1979, pp. 98 ss.: nell’allocuzione ai soldati prima della battaglia di Farsalo,
Cesare demistifica le affermazioni di fedeltà alla Patria dichiarate sul Rubicone; cfr. inoltre Phars I,
174-176 nefas magnumque decus ferroque petendum/plus patria potuisse sua, mensuraque iuris/vis
erat: alla Patria che invano richiama al diritto (I, 191 si iure venitis) si oppone una pratica politica che
oppone il condottiero al di sopra dello Stato. Dopo questo passo, il lettore già sa come interpretare le
assicurazioni di Cesare alla Patria, che seguono pochi versi più avanti. Lucano scrive avendo alle spalle
la polemica su Cesare, che si fregiava del titolo di Pater Patriae, quando in realtà ne era parricida: cfr.
ad es. Cic., Off. III, 83.

28
assediata dalle fiaccole e dalle armi dell’empia congiura, a voi la Patria
comune tende le mani in atto di supplica; a voi affida la vita di tutti i
cittadini, a voi la Rocca e il Campidoglio, a voi gli altari de penati, a voi
l’eterno fuoco di Vesta, a voi i templi e i santuari degli dei, a voi le mura
e gli edifici della città.

Dalle Catilinarie prima e dalle Philippicae poi prende avvio l’idea della guerra
civile come attacco e la retorica viene sempre usata come mezzo di propaganda
nel rivolgersi a chi di dovere, sia che si tratti di declamazioni scolastiche o
narrazioni storiografiche. Ecco allora che il poeta nativo di Cordova introduce
la Patria come personaggio, che in questo caso cerca di fermare l’avanzata da
parte di coloro che sono diventati a tutti gli effetti dei nemici. L’esitazione del
dux non dura tanto e, esprimendo il suo intento, afferma di venire in pace e non
di voler assalire la città con ferro e fuoco, appellandosi contemporaneamente
anche agli dei.

1.4 La reazione di Cesare all’apparizione della Patria

L’atteggiamento con il quale Cesare reagisce alla visione divina è un altro tratto
raffrontabile alla figura di Enea38. Nel secondo libro dell’Eneide, tra le macerie
di Troia in fiamme, Enea cerca disperatamente la moglie Creusa, smarritasi
nella fuga. Ed è esattamente in quel momento che il fantasma della donna fa la
sua comparsa dinnanzi al marito, cogliendolo di sorpresa: a questi i capelli si
drizzano e la voce si attacca alla gola (Aen. II, v. 774: obstipuit steterunque
comae et vox faucibus haesit). Allo stesso modo, l’orrore che percorre le

38
Cfr. Peluzzi 1999; cfr. Narducci 1982.

29
membra e i capelli che si rizzano sono le conseguenze che pervadono Cesare
alla vista della Patria:

Phars. I, vv.192-194:

Tum perculit horror


membra ducis, riguere comae gressumque coercens
languor in extrema tenuit vestigia ripa.

Allora le membra del condottiero furono


percosse dall’orrore, gli si rizzarono i capelli e un languore,
frenandogli il piede, arrestò i suoi passi proprio al bordo
[della sponda.

Com’è stato osservato, l’azione di Cesare del fermare il passo ricorda, nel
poema virgiliano, l’atteggiamento del comandante acheo Androgeo di fronte
alla schiera troiana che egli deve fronteggiare39: Aen. II, v. 378 obstipuit
retroque pedem cum voce repressit. Ancora più persuasivo è l’accostamento di
gressumque cohercens del v. 193 della Pharsalia a comprime gressum del v.
389 del sesto libro dell’Eneide40.
È l’horror che attraversa Cesare alle prime parole rivoltegli dalla Patria41. Ma
rotto ogni indugio, si appresta furente ad attraversare il confine proibito:

39
Cfr. ancora Peluzzi 1999, p. 129. Cfr. anche i Commenta Bernensia, noti anche come la scholia di
Berna: sono commenti e note marginali in un manoscritto del X sec. d. C., Cod. 370, conservato alla
Burgerbibliothek di Berna in Svizzera. Si riferiscono a testi classici latini, tra cui le Bucoliche e le
Georgiche di Virgilio e il De bello civili di Lucano: assai popolare fino al rinascimento, infatti, la
Pharsalia venne nel corso dei secoli studiata e chiosata.
40
Paragone proposto da Wuilleumier e Le Bonneic 1962, pp. 44-45; Getty 1964, pp. 73-81. È da notare
poi l’importanza che il seguente passo virgiliano del secondo libro assume per Lucano: Aen. II, vv. 388-
389: quisquis es, armatus qui nostra ad flumina tendis/fare age, quid venias, iam istinc, et comprime
gressum.
41
Nell’horror cesariano riecheggiano le parole di Lucrezio: I, vv. 608-609 quo nunc insigni per magnas
praedita terras / horrifice fertur divinae matris imago (per un’analisi della reminiscenza si rimanda a
Getty 1964, pp. 74-75).

30
Phars. I, vv. 205-212:

sicut squalentibus arvis


aestiferae Libyes viso leo comminus hoste
subsedit dubius, totam dum colligit iram;
mox, ubi se servae stimulavit verbere caudae
erexitque iubam et vasto grave murmur hiatu
infremuit, tum torta levis si lancea Mauri
haereat aut latum subeant venabula pectus,
per ferrum tanti securus volneris exit.

come un leone
nelle desolate distese della Libia infuocata,
visto da vicino il nemico, si sofferma esitante e
concentra tutta la sua rabbia; poi, dopo essersi eccitato
sferzandosi con la fiera coda e aver rizzata la
criniera, spalanca le fauci e freme con ruggiti profondi, c
e, se anche porta confitta la lancia scagliata
dall’agile Mauro o si sente nel vasto petto gli spiedi,
incurante di tante ferite, si avventa contro il ferro.

Ancora una volta il modello è l’Eneide, in particolare la similitudine virgiliana


con cui si paragona il furore guerresco di Turno alla rabbia di un leone42:

Verg. Aen. XII, vv. 4-9:

poenorum qualis in arvis


saucius ille gravi venantum vulnere pectus
tum demum movet arma leo, gaudetque comantis
excutiens cervice toros fixumque latronis
impavidus frangit telum et fremit ore cruento:
haud secus accenso gliscit violentia Turno.

come nelle distese della terra cartaginese un leone,


colpito al petto con una grave ferita dai cacciatori,

42
Il dettaglio dello sferzarsi con la coda è una similitudine ripresa invece dal libro XX, vv. 180 ss.

31
infine muove all’attacco ed esulta scuotendo la criniera sul collo
[muscoloso,
impavido spezza la lancia dal predone, e ruggisce dalle fauci
[insanguinate:
non diversamente cresce la violenza dell’infuriato Turno.

A un leone furente era stato paragonato l’eroe rutulo anche nel libro nono:

Verg. Aen. IX, vv. 792-798:

…ceu saevum turba leonem


cum telis premit infensis; at territus ille,
asper, acerba tuens, retro redit et neque terga
ira dare aut virtus patitur, nec tendere contra
ille quidem hoc cupiens potis est per tela virosque.
haud aliter retro dubius vestigia Turnus
improperata refert et mens exaestuart ira.

…come quando una folla assale


con armi ostili un leone feroce; e quello,
per quanto spaventato, con fierezza, e con lo sguardo torvo, arretra; l’ira
e il coraggio non gli consentono di volgere il dorso, e nemmeno può, pur
desiderandolo, scagliarsi contro, in mezzo ai dardi e agli uomini.
non diversamente, esitando Turno ritrae dietro
i passi lenti e il suo animo ribolle d’ira.

La similitudine del leone caratterizza poi l’Oedipus senecano: qui è evidente


l’intento del poeta filosofo di rappresentare la degradazione possibile
dell’umano nel bestiale nel descrivere il protagonista nel momento preciso in
cui, venuto a conoscenza dei delitti commessi, riversa contro sé stesso la collera
per le atroci e innaturali azioni commesse:

32
Sen. Oed. vv. 919-923:

qualis per arva Lybicus insanit leo,


fulvam minaci fronte conctiens iubam;
vultus furore torvus atque oculi truces,
gemitus et altum murmur, et gelidus volat
sudor per artus, spumat et volvit minas.

come un leone libico infuria per i campi,


scuotendo minacciosamente dalla fronte la fulva criniera:
egli ha il volto torvo per il furore, lo sguardo feroce,
geme e rantola profondamente, gli cola per le membra un sudore
gelido, ha la schiuma alla bocca e rovescia minacce.

Sulle scie dello zio, Lucano sembra aver voluto intraprendere un procedimento
simile: rivestire, con la similitudine animalesca, Cesare di un furor che per nulla
appartiene agli esseri umani nell’attimo di esitazione che precede la fatidica
impresa. Il torpore che pervade le membra di Cesare e che di conseguenza fa in
modo tale che egli non proceda, è paragonato al rannicchiarsi della belva per
concentrare e raccogliere tutta la sua rabbia. In Lucano non si troverà quindi la
ripresa dell’elemento virgiliano della voce che si ferma in gola, ma, al contrario
il voler far trasparire in modo forte e chiaro l’assordante ruggito del leone. Le
parole di Cesare, apparentemente rassicuranti, rivelano in realtà tutta
l’aggressività di cui sono cariche:

Phars. I, vv. 195-203:

“O magane qui moenia prospicis urbis


Tarpeia de rupe Tonans Phrygiique penates
gentis Iuleae et rapti secreta Quirini
et residens celsa Latiaris Iuppiter Alba
Vestalesque foci summique o numinis instar,
Roma, fave coeptis. non te furialibus armis
perequor; en, adsum, victor terraque marique,

33
Caesar, ubique tuus (liceat modo, nunc quoque) miles.
Ille erit, ille nocens, qui me tibi fecerit hostem”.

“O tu, che dalla Rupe Tarpea guardi


le mura della grande città, o Tonante e voi frigi penati
della Giulia gente, o Quirino misteriosamente assunto in cielo,
e Giove Laziale, che siedi nell’eccelsa Alba,
e fuochi di Vesta, e tu Roma, pari a sommo nume, favorite la mia impresa.
Non vengo contro te con le armi delle Furie; ecco: sono qui
vittorioso per terra e per mare, io, Cesare, ovunque
e anche ora soldato tuo, solo che mi sia concesso.
Quegli sarà colpevole, che mi farà a te nemico”.

Analizzando queste similitudini si può quindi ben capire che la vera


motivazione dello smarrimento del comandante non è di certo la pietas, ma, in
maniera differente come si addice al carattere di Cesare, la presa di coscienza
della posizione in cui è e la volontà di abbattersi contro la Patria, ora sua nemica,
con tutta la rabbia che ha raccolto. Da subito nel colloquio con quest’ultima,
infatti, Cesare afferma di non avere l’intenzione di metterla a ferro e fuoco, si
dichiara un semplice miles a sua completa disposizione; ma le invocazioni
successive si qualificano nelle intenzioni del poeta come vere e proprie
dichiarazioni di guerra: annunciarle presso il Rubicone altro non è che anticipare
il destino che spetta alla città, quello di un futuro all’insegna del principato43.

43
Narducci 2002a, p. 204.

34
CAPITOLO 2
LA PERSONIFICAZIONE DELLA PATRIA: FONTI
ICONOGRAFICHE E LETTERARIE

2.1 La Patria come matrona in lutto

L’analisi dei particolari presenti nella descrizione della Patria apparsa a Cesare
sulle sponde del Rubicone permette di portare alla luce alcuni modelli letterari
e iconografici che hanno influenzato Lucano: dal richiamo alle donne barbare
per quanto riguarda il dettaglio delle braccia scoperte, alla ripresa della tipica
raffigurazione delle matrone romane in lutto, all’effige della dea Cibele per
quanto concerne la corona muraria.
Si riportano nuovamente i versi relativi alla descrizione della Patria:

Phars. I, vv. 185-189:

Ut ventum est parvi Rubiconis ad undas,


ingens visa duci patriae trepidantis imago
clara per obscuram voltu maestissima noctem,
turrigero canos effundem vertice crines,
caesarie lacera nudisque adstare lacertis.

Quando fu giunto al piccolo Rubicone,


maestosa apparve al condottiero l’immagine della Patria trepidante,
fulgida nell’oscurità della notte, afflitta in volto,
con i bianchi capelli fluenti dalla testa turrita,
ritta e a braccia nude.

Il particolare delle braccia nude sembra riconducibile all’immaginario associato


alle donne barbare, come viene riportato da Tacito.

35
Nel diciassettesimo libro della sua opera etnografica dedicata ai diversi aspetti
delle tribù germaniche residenti al di là dell’impero romano, De origine et situ
Germanorum, lo storico si sofferma a descrivere il modo di vestire femminile:

Tac. Germ. XVII, 3:

Nec alius feminis quam viris habitus, nisi quod feminae saepius lineis amictibus
velantur eosque purpura variant, partemque vestitus superiorem in manicas non
extendunt, nudae bracchia ac lacertos; sed et proxima pars pectoris patet.

Il modo di vestire delle donne non è diverso da quello degli uomini, se non che
le donne spesso si coprono con mantelli di lino ornati qua e là di porpora e non
allungano la parte superiore della tunica a formare delle maniche; hanno
braccia e avambracci scoperti e rimane scoperta anche la parte superiore del
petto.

Dal punto di vista iconografico si ha testimonianza di rappresentazioni della


Germania, in particolare in atteggiamento di subordinazione: primo fra tutti il
rilievo raffigurante la cosiddetta “Germania capta”, proveniente dall’Asia
Minore, precisamente da Kula (nei pressi di Philadelphia), ora conservato al
museo d’antichità “J. J. Winckelmann” a Trieste [Fig. 6]44. Il rilievo raffigura
un uomo armato sulla sinistra, che sprona il cavallo al galoppo verso una donna,
posizionata sulla destra, dai lunghi capelli sciolti, stante, in lunga tunica ma con
le braccia scoperte, legata a una colonna. La figura femminile è stata interpretata
come figurazione di una provincia conquistata, in atteggiamento dimesso e
impotente; l’iscrizione in greco, difatti, identifica le due figure come
l’imperatore Caligola e la provincia della Germania.
Tale rilievo rivela anche un altro particolare degno di interesse ai fini di un
raffronto con la descrizione lucanea: la donna è rappresentata coi capelli sciolti

44
Per una più specifica conoscenza, soprattutto dal punto di vista artistico, particolare è il contributo
Tonynbee 1934; rimando a p. 95, dove si parla del rilievo citato.

36
nello stesso modo in cui viene presentata la Patria nella Pharsalia, particolare
riconducibile alla categoria del lutto femminile. Fin dall’antichità fonti antiche
testimoniano l’usanza di sciogliere i capelli in segno di lutto, caratteristica delle
prefiche, figure pagate per piangere ai funerali e solite portare i capelli sciolti,
graffiarsi la faccia o strapparsi ciocche di capelli. A Roma, durante il corteo
funebre, precedevano il feretro stando dietro i portatori di fiaccola e coi capelli
sciolti cantavano lamenti funebri e innalzavano lodi al defunto.

2.2 La Patria come Dea incoronata

Relativamente invece al nesso turrigero […] vertice (v. 188), il Getty ha


riconosciuto nel dettaglio della corona turrita della Patria il classico attributo
della dea Cibele45. Nonostante questa associazione simbolistica non verrà usata
nel periodo tardoantico e medievale, la si può considerare come un’iconografia
diffusa e comune dell’epoca romana. In questo senso, dunque, la corona posta
sul capo di Roma è prova che l’autore aveva il chiaro intento di rappresentare
un’apparizione divina. L’assimilazione con la Magna Mater non deve
sorprendere. Nel De civitate Dei, S. Agostino, citando a sua volta Varrone,
spiega che all’epoca l’attributo della corona turrita aveva un preciso significato:
Cibele, in quanto Grande Madre ed emblema dell’orbis terrae, reggeva su di sé
tutte le città fortificate46.
A Cibele venerata come “Terra Madre”, divinità legata alla natura, ma anche
promotrice e protettrice degli insediamenti degli uomini, viene attribuito il
particolare della corona murale in Frigia prima della fine del III sec. a.C.,

45
Cfr. Getty 1992.
46
S. Agostino, De civitate Dei 7, 24

37
quando la sua pratica devozionale venne introdotta a Roma. In ambiente greco,
invece, si presuppone abbia avuto luogo l’assimilazione di Cibele con la Tyche
greca, divinità poliade, affabile e benevola, che veniva dapprima raffigurata con
la corona murale47. Di conseguenza, una volta che il culto della dea Cibele si
espanse, inevitabile fu il paragone tra la divinità Cibele-Tyche e la
personificazione delle città48.
È lecito pensare allora che l’assimilazione tra la dea Cibele e la Tyche sia stata
fatta anche da Lucano nel voler rappresentare la Dea Roma. Una concezione
divina in riferimento alle città era estranea alla visione e soprattutto alla religio
romana, o almeno alla più antica. La venerazione della città di Roma come
divinità proviene dall’Oriente e, come ci informa Tacito, furono solamente gli
abitanti della città di Smirne i primi a edificare un tempio in onore della Dea
Roma nel 195 a.C.49. Nello stesso periodo, anche Plutarco ci testimonia che
Roma veniva adorata come dea al pari di Zeus50. La deificazione dell’Urbe
quindi è attribuibile alle propensioni adulatorie tipiche della cultura greca,
portando così Lucano ad assimilare Roma come una Dea alla pari di Cibele.
Come leggiamo in Svetonio, Augusto, nel formale rispetto della pietas
tradizionale, permise il culto del nomen Imperatoris solo se in stretto contatto
col nomen Romae e a patto che venisse accostato a questo. Ciò fu possibile
solamente in ambito provinciale, dove l’Urbe era già onorata come divinità:

47
Nell’opera di Deonna 1940, alle pp. 157 e 174-179 si fa riferimento alla Tyche greca che riprende dai
simili culti in onore delle dee orientali protettrici di città. Accenni inerenti all’argomenti sono stati fatti
anche da Shelton 1979, pp. 27-38.
48
Gli stessi Deonna 1940 p. 136 e Shelton 1979, pp. 29-30 riportano il primo caso, la città di Antiochia
sull’Oronte, in Siria, e la famosa opera dello scultore Eutychide di Samo, che fu incaricato di raffigurarla
e la munì di corona turrita. [Fig. 8]
49
Tacito, Ann. 6, 56.
50
Nella vita di Flaminio 16, 4 viene raccontato dei calcidesi di Eubea che, nel comunicare la loro
gratitudine al console che li aveva resi liberi, dichiarano pistin ^Romaiwn...Zh?na megan !Rwman te.

38
Svet. Caes. II, 52:

Templa, quamvis sciret etiam proconsulibus decerni solere, in nulla tamen


provincia nisi communi suo Romaeque nomine recepit. Nam in urbe quidem
pertinacissime abstinuit hoc onore.

Sebbene sapesse che anche i proconsoli erano soliti innalzargli templi, tuttavia
non ne accettò in nessuna provincia, senza associare al suo nome quello di
Roma; a Roma, ciò nonostante, egli rifiutò ostinatamente questo onore.

Con l’ascesa al potere dell’imperatore Adriano il culto fu successivamente


integrato e accettato anche nella capitale: sappiamo ad esempio che egli fece
edificare un tempio il 21 aprile 121 d.C., dove insieme a Venere si poteva
adorare anche la Dea Roma51.
Per quanto riguarda l‘iconografia della Dea Roma, particolarmente significativo
è uno statere coniato a Locri Epizefiri al tempo di Pirro [Fig. 7]. Nel 280 a.C.
Locri si allea con Pirro e alla zecca di Locri viene attribuita la coniazione di
alcune monete nell’Italia da Pirro e recanti il suo nome. Verso il 275 a.C. Locri
ruppe l’alleanza con Pirro e si alleò con Roma; in questa occasione viene coniato
questo statere, che celebra la conclusione di un trattato. Nel dritto, lo statere
presenta la testa di Zeus coronato di alloro; dietro, Roma è vestita di un lungo
chitone, con scudo al fianco, ed è incoronata da Pi?"ti", la dea della Fede o della
Fedeltà. Roma è rappresentata in atteggiamento solenne e pacifico, in maniera
simile alla dea Atena, fornita, oltre che di scudo, di parazonio, un altro attributo
guerresco. Le due divinità sono indicate con i nomi PISTIS e RWMA. In esergo
l’etnico LOKRWN [Fig. 7]52.

51
Vedi Adriani 1955, pp. 381-390, dove si parla del legame che intercorre tra il culto dedicato alla dea
Roma, inizialmente tipico della cultura ellenistica e non facente parte di quella romana. Per un
approfondimento invece più dettagliato e preciso sulla divinità in questione si rinvia a Mellor, 1981, in
particolare pp. 950-1030.
52
Cfr. Larizza 1930; Rutter1997; Rutter 2001.

39
Le raffigurazioni della Dea Roma furono più numerose a partire dal I sec. a.C.
e soprattutto con l’avvento dell’impero. Si possono inoltre dividere in tre
categorie iconografiche: l’assimilazione della Roma-Atena, quella della Roma-
Amazzone e infine quella della Roma ‘semiamazzonica’, che presenta eventuali
caratteristiche di Atena53. In tutti e tre i casi, molto frequenti sono le occorrenze
in cui la Dea è ritratta coronata di torri54.
Sui modelli sottesi alla descrizione della Patria con corona turrita in Lucano,
sembrano più pertinenti le raffigurazioni della Dea Roma munita di corona a lui
contemporanee. Raffigurazioni simili a quelle appena descritte vengono
riprodotte nelle monete greche d’età imperiale da Augusto fino a Gallieno55,
mentre secondo altre ipotesi si dovrebbe guardare al denaro coniato in Gallia,
precisamente nel 68 a.C., dove Roma è ornata di una corona turrita e in più
munita di elmo crestato56.

2.3 La Patria come Tyche

L’altra personificazione, oltre a quella della dea Cibele, che nell’iconografia


antica porta tradizionalmente l’attributo della corona turrita è quella della Tyche.
È questo il caso che cita K. J. Shelton, quando parla della diffusione del culto
della Tyche-Fortuna57. Alla fine dell’epoca che vede Roma come una potenza
repubblicana, tale culto si affermò fino a crescere ed espandersi sempre di più.
Il culto della Tyche come divinità di singole città fiorì nell’area del

53
Cfr. Peluzzi 1999, p. 145.
54
Bibliografia specifica sull’argomento: Kluegmann, 1879; Calza 1927, pp. 663-688; Vermeule 1959;
Balestrazzi, voce Roma in Lexicon Iconographicum Mythologiae Classicae, VIII, 1 1997, pp. 1049-
1066; R. Mellor 1975; 1981, pp. 952-959.
55
Informazioni dedotte da Fayer 1975, pp.273-288.
56
Cfr. Getty 1992, p. 79.
57
Cfr. Shelton 1979, pp. 27-38.

40
Mediterraneo e con questo anche quello della Qea? !Rw?mh. Le rappresentazioni
di Roma come Tyche si stavano diffondendo con la stessa velocità con la quale
Roma si stava espandendo58. La sua immagine nel complesso era singolare e
una particolare enfasi era posta sulla sua eleganza: si svilupparono, infatti, una
serie di immagini e concetti ad essi associati riguardo la personificazione delle
città con moltitudine di specifici attributi. Uno di questi, la corona muraria, ha
sviluppato una propria esistenza: sempre associata alle immagini della Tyche e
delle città, è stata utilizzata anche per l’immaginario di altri luoghi, sovrani
dell’epoca e divinità. Eppure, la corona in quanto attributo principale, non
sempre appariva nelle sue rappresentazioni. La quantità di singole raffigurazioni
della Tyche era innumerevole, ma solo alcune di queste, come quella di
Antiochia, erano conosciute su larga scala [Fig. 8]59. E ancora meno immagini,
tra cui quella della Qea? !Rw?mh, erano venerate da diversi gruppi.
Con le conquiste dei generali repubblicani, a ogni modo, le singole città vennero
assimilate in conglomerati più estesi e con esse le rappresentazioni della loro
Tyche. Shelton cita il caso specifico di due monete coniate all’epoca di Pompeo,
nelle quali la Tyche della Spagna saluta il suo conquistatore, mentre la Tyche di
una delle sue città, Cordova, si inchina ai suoi piedi e lo incorona: entrambe
hanno il capo turrito [Fig. 9]60.
Anche il modello iconografico presente in alcune monete orientali, però,
potrebbe essere stato preso come esempio da Lucano per plasmare l’imago che
ha voluto dare alla sua Patria e l’attenzione va in modo particolare a una in
bronzo d’età neroniana facente parte della collezione del British Museum.
Proveniente dalla Frigia, coniazione della città di Acmoneia, la moneta reca sul

58
Su questo argomento cfr. Matheson 1994, pp. 19-33; Peluzzi 1999, pp. 141 ss.
59
L’autore Eutichide di Samo la rappresenta con la corona turrita e i piedi che poggiano sulla spalla di
un giovane raffigurante il fiume Oronte, sulle cui rive la città era stata edificata. Perché non constatare,
dunque, quest’ultima associazione della poliade dea turrita col fiume, come testimonianza a prova della
comparsa della Tyche di Roma sulle sponde del Rubicone. Cfr. inoltre Mellor 1975; Moretti 2007, p. 5.
60
Colpisce, oltre alla presenza del Magno, quella della città natale del poeta, rappresentata come la Patria
della Pharsalia.

41
rovescio l’effige di L. Servenius Capito insieme a sua moglie Iulia Severa, per
la terza volta arciereu?"; sul dritto è presente la raffigurazione di una figura
femminile avente le sembianze di Poppea61 con annessa corona turrita e
indiscutibile è affermare che tale rappresentazione sia proprio la Dea Roma; è
visibile in modo chiaro la seguente dicitura:

AKMONEIS [QEAN]]] RWMHN.62

Non è da dimenticare però che, abbandonati per un istante i riferimenti


iconografici a cui Lucano guarda, il tratto distintivo di funus mundi che l’autore
ha la capacità di tenere sempre a un livello altissimo nel corso dell’intero poema,
spiega il continuo imbattersi in immagini e metafore che rimandano alla morte
e al lutto. L’angoscia, la sofferenza, il dolore e la disperazione diventano, oltre
che elementi caratteristici dell’opera, anche chiave di lettura per comprendere
la funzione che ha l’apparizione della Patria all’interno di questa scena63. E
infatti, a testimonianza della gravissima situazione che sta colpendo la città,
significativo è l’aspetto logorato, vecchio e sciupato della Patria, non a caso
apparsa nell’oscurità della notte, afflitta in volto, a braccia nude e intenta a
lacerarsi la chioma, mentre cerca di fermare l’avanzata di Cesare, già indizio
del futuro insuccesso.

61
Non era per niente infrequente che in Oriente lo Stato romano venisse celebrato rendendo omaggio
alle donne imperiali: Livia era ad esempio onorata come Era e Demetra. L’usanza non era comunque
estranea neanche al mondo occidentale; è noto infatti che, nella Gemma Augustea, Roma ha i tratti della
stessa Livia.
62
In proposito cfr. Fayer 1975, p. 278. Durante il periodo di Nerone, Magnesia al Sipylum coniava una
moneta, nella quale nel rovescio la dea Roma, riportata dalle parole TEAN RWMHN, col capo turrito
ha le sembianze di Poppea, presente anche nel dritto insieme all’imperatore e accompagnati dalla scritta
NERONA POPPAIAN SEBASTOUS. Cfr. Imhoff-Blumer 1913, pp. 5-134 (la descrizione della
moneta è a p. 50, n 147 e tav. II, 12).
63
Per un’analisi specifica anche dei personaggi femminili di gran comprensione è l’opera di Sannicandro
2010. Come premessa viene detto che il compianto dei defunti si addiceva alle donne e che proprio per
questo motivo non è da considerare stupefacente l’atteggiamento del lutto, comune alla maggior parte
delle figure femminili, tra le quali è da considerare anche la prosopopea della Patria.

42
2.4 La Patria come Cibele

Sul piano delle fonti letterarie, due sono i modelli che sottendono la
rappresentazione lucanea di Roma con la corona turrita.
Il De rerum natura è la prima opera in cui nella letteratura latina Cibele appare
con la corona muraria:

Lucr. De rerum natura, II, vv. 606-609:

Muralique caput summum cinxere corona,


eximiis munita locis quia sustinet urbes.
Quo nunc insigni per magnas praedita terras
horrifice fertur divinae matris imago64.

E le cinsero la sommità del capo d'una corona murale,


perché munita di alture sostiene città;
di tale diadema adorna, ora destando sacro orrore incede
attraverso le vaste terre l'immagine della madre divina.

Il passo citato è tratto dalla digressione che Lucrezio fa su Cibele, tentativo


dell’autore di interpretazione allegorica del mito della dea, e in quest’ambito
viene fornita una spiegazione razionale anche dell’attributo della corona
turrita65. Il lucreziano horrifice ricorda l’horror che si impadronì di Cesare nel
momento in cui gli apparve la Patria: lo stilema lucreziano divinae matris imago
riecheggia in modo evidente quel patriae trepidantis imago con cui Lucano
presenta la sua figura femminile. Che il passo preso in esame della Pharsalia
abbia più di una reminiscenza lucreziana è testimoniato anche dal v. 187, in cui

64
Il culto della Magna Mater è descritto ai vv. 600-660.
65
Cfr. il classico commento di Bailey 1950, pp. 898-910. Si pensa che per la spiegazione che Lucrezio
dà della simbologia mitica, questo si sia servito di una fonte romana, bene al corrente della letteratura
greca e delle interpretazioni allegoriche. Si ipotizza che tali fonti possano essere una il Liber Annalis di
Accio e l’altra l’opera di Sorano, poema sulla natura, citata da Cicerone nel Brutus (169) e nel De
Oratore (3, 2, 43).

43
la Patria è clara per obscuram […] noctem. Quest’espressione usata da Lucano
ricalca alla perfezione la descrizione dell’incomprensibile linguaggio di
Eraclito, clarus <ob> obscuram linguam (De rerum natura I, v. 639).
Ma il passo lucreziano influenzò fortemente anche Virgilio, laddove, nel sesto
libro, è esposta la profezia di Anchise sulla grandezza di Roma:

Verg. Aen VI, vv. 781-787:

“En huius, nate, auspiciis illa incluta Roma


imperium terris, animos aequabit Olympo
septemque una sibi muro circumdabit aerces,
felix prole virum; qualis Berecyntia mater
invehitur curru Phrygias turrita per urbes
laeta deum partu, centum complexa nepotes,
omnis caelicolas, omnis super alta tenentis”.

“Ecco, figlio, coi suoi auspici quella famosa Roma:


eguaglierà l’impero alle terre, gli anni all’Olimpo,
unica si circonderà le sette rocche di muraglia,
fortunata per stirpe d’eroi: come la madre Berencizia
turrita è portata sul cocchio per le città frigie,
gioiosa per la nascita di dei, abbracciando cento nipoti,
tutti celesti, tutti occupanti le massime altezze”.

Una similitudine tra Roma, in questo caso chiaramente divinizzata, e Cibele.


La cinta muraria dell’Urbe è paragonata alla corona turrita della Dea; Roma è
fiera delle sue gentes, come Cibele è lieta della sua progenie divina. La
similitudine del sesto libro virgiliano va chiaramente interpretata in ottica
encomiastica66: Cibele è laeta deum partu, soprattutto per aver generato Giove
e a sua volta Roma è felix prole virum, dove il suo figlio più illustre è Augusto.
E con ciò il poeta si riferisce al piano di restaurazione religiosa voluto da

66
Cfr. Getty p. 78; 1950, pp. 1-2.

44
Augusto, che in Oriente aveva permesso il culto dell’imperatore accanto a
quello della Dea Roma, mentre in Patria restaurava la religione tradizionale e
faceva ricostruire il tempio della Magna Mater sul Palatino, dopo l’incendio che
lo aveva distrutto nel 3 d.C.
In proposito si può richiamare l’attenzione anche sulla preghiera che, nel
decimo libro, Enea rivolge alla Madre degli Dei67:

Verg. Aen X, vv. 252-255:

“Alma parens Idaea deum, cui Dindyma cordi


turrigeraeque urbes biiugique ad frena leones,
tu mihi nunc pugnae princeps, tu rite propinques
augurium Phrygibusque adsis pede, diva, secundo”.

“Divina Idea madre degli dei, a cui stanno a cuore Dindimo,


le città turrite e i leoni appaiati alle briglie,
tu ora per me guida della battaglia, tu affretta bene
l’augurio ed assisti i Frigi, divina, con piede propizio”.68

In tale passo si sottolinea ancora una volta la presenza della corona turrita sul
capo della dea Cibele e l’uso dell’aggettivo turriger, presente in Lucano.
Nonostante Virgilio sia stato uno dei modelli a cui Lucano ha maggiormente
guardato, importante è stato il mutamento e l’ampliamento del modello che
quest’ultimo ha compiuto: la scena analizzata rivela infatti come egli abbia
compiuto il passaggio dalla similitudine virgiliana a un’assimilazione vera e
propria tra Cibele e la Dea Roma.

67
Cfr. Fletcher, Oxford 1941, p. 89; Conington 1963, p. 530; Paratore, trad. Canali, Milano 1992. In
particolare questi versi sono quelli che Harrison confronta con Lucan. I, v. 188, 1991.
68
Enea, inoltre, prega la Madre Frigia insieme a Giove Ideo anche in Aen. VII, vv. 139.

45
46
CAPITOLO 3
NOTE COLORISTICHE E ALCUNI ASPETTI DI VISIBILITÀ

Questo capitolo affronta, fra i tanti aspetti della lingua lucanea, quello inerente
ai colori e con ciò la capacità che l’autore ha di trasformare in immagini quello
che a parole propone al lettore. Questo aspetto, caratteristica peculiare che nel
tempo è stata sempre più riconosciuta a Lucano, viene ripreso attraverso
l’analisi delle note coloristiche, principale forma di osservazione grazie alla
quale l’idea dell’atmosfera e del clima con cui Lucano caratterizza l’intero
poema arriva in maniera più diretta.
La Pharsalia è opera di poesia che conquista e affascina grazie alla sua vitale
forza d’immaginazione e drammatica potenza di rappresentazione. Le forti
tonalità scure, fosche e cupe contribuiscono a chiamare in causa il paradosso
della guerra:

Phars. I, vv. 1-7:

Bella per Emathios plus quam civilia campos,


iusque datum sceleri canimus, populumque potentem
in sua victrici conversum viscera dextra,
cognatasque acies, et rupto foedere regni
certatum totis concussi viribus orbis
in commune nefas, infestique obvia signis
signa, pares aquilas et pila minantia pilis.

Canto guerre atroci più che le civili sui campi


dell’Emazia, la violenza fatta legge, il popolo potente
che contro le sue stesse viscere volse la destra vittoriosa,

47
gli eserciti di uno stesso sangue, la gara di nefandezze a cui,
rotto il patto su cui si fondava lo Stato, si abbandonarono le forze del
mondo sconvolto, levando ostilmente insegna contro insegna,
aquila contro aquila, arma minacciosa contro arma.

La pienezza dell’espressione, la copia dei traslati, l’audacia delle iperboli e i


violenti contrasti sono solo alcuni tra i tratti distintivi dell’epoca di Lucano,
aperta al patetico, al paradossale, al drammatico, al colossale; si tratta degli
stessi tratti che hanno ispirato le tragedie di Seneca, i caratteri di un’arte che,
come quella di Lucano, sembra anticipare il periodo barocco69.
Tra i tanti aspetti della lingua lucanea, un’analisi delle note coloristiche merita
senza dubbio un’indagine approfondita anche per quanto riguarda la forte
visività della scena dell’apparizione della Patria a Cesare, realizzata grazie ad
un uso sapiente dei colori e dei chiaroscuri. Per conferire tonalità
espressionistiche la notazione coloristica è essenziale e, come Virgilio, anche
Lucano ama avvalersi di contrasti cromatici70.
Un contrasto caro a Virgilio è quello della luminosità di un’apparizione divina
che improvvisamente squarcia l’oscurità della notte. Un esempio eclatante si
trova nel secondo libro dell’Eneide, quando, nella notte della distruzione di
Troia, si racconta il momento in cui Venere si mostra a Enea in tutto il suo
splendore71:

69
Malcovati 1940, p. 64.
70
Cfr. Narducci 1979, pp. 86-87.
71
Sul colorismo virgiliano in rapporto a quello lucaneo cfr. Conte 2012, pp. 89 ss.: “Per Virgilio […]
la determinazione coloristica, espressa in ogni elemento, fa sì che i colori siano individuati per se stessi,
e nel contrasto l’uno esalti la nitidezza cromatica dell’altro […]. Per Lucano, il segno, per aver valore
espressivo, deve essere potenziato in qualche modo: direttamente, per sovrabbondanza espressiva, o
indirettamente, per effetto di una prepotente suggestione”. Cfr a proposito anche Tucker 1975, pp. 17-
20; Leigh 1997; Esposito 1985, pp. 85-105.

48
Verg. Aen. II, vv. 589-591:

mihi se, non ante oculis tam clara, videndam


obtulit et pura per noctem in luce refulsit
alma parens.

quando mi si offrì alla vista, mai così luminosa,


e in una pura luce rifulse attraverso la notte
la madre benigna.

Tale apparizione è così rielaborata da Lucano nella scena del Rubicone:

Phars. I, vv. 186-188:

ingens visa duci patriae trepidantis imago


clara per obscuram voltu maestissima noctem,
turrigero canos effundens vertice crines.

maestosa apparve al condottiero l’immagine della Patria


trepidante, fulgida nell’oscurità della notte, afflitta in volto,
con i bianchi capelli fluenti dalla testa turrita.

Squarcia l’oscurità della notte l’epifania di questa figura, distinta da una


luminosità sublime: è questo uno degli esempi in cui una tipica atmosfera
lucanea grigia e tenebrosa è irradiata da una luce quasi accecante; l’obscura nox
è contrapposta in questo modo alla clara imago della Patria.
Le notti in Lucano sono il tratto distintivo di un’opera che si sviluppa in un
contesto che, per la maggior parte delle volte, riserva al lettore un ambiente
ostile e tetro, completamente buio o velatamente nascosto da banchi di nebbia.
La notte è lo sfondo temporale in cui Lucano sceglie di collocare gli
avvenimenti catastrofici al fine di sottolineare la tragicità dell’evento, così come
risulta evidente anche nella scena dell’arrivo al Rubicone:

49
Phars. I, vv. 228-229:

Sic factus noctis tenebris rapit agmina ductor


inpiger.

Ciò detto, l’alacre condottiero trascina le sue truppe


attraverso le tenebre della notte.

L’atmosfera tenebrosa perpetua e diventa sempre più intensa, soprattutto una


volta che il condottiero fa la sua entrata nella città di Rimini.

Phars. I, vv. 229-235:

Et torto Balearis verbere fundae


ocior et missa Parthi post terga sagitta
vicinumque minax invadit Ariminum, et ignes
solis lucifero fugiebant astra relicto.
Iamque dies primos belli visura tumultus
exoritur; seu sponte deum, seu turbidus auster
inpulerat, maestam tenuerunt nubila lucem.

Va più veloce del sasso scagliato dalla fionda baleare


o della saetta che il Parto si scocca alle spalle
e irrompe minaccioso nella vicina Rimini, proprio nell’ora
in cui le stelle abbandonano Lucifero e fuggono i raggi
del sole. Già spuntava l’alba del giorno che avrebbe visto
le prime azioni di guerra, e le nubi, o perché così volessero
gli dei o perché le avesse sospinte l’Austro torbido,
[offuscavano di mestizia la luce.

Tanto è grave l’atto, che a cingere la scena non vi è il sole appena sorto, ma nubi
e oscurità.
E queste sono ancora più tetre quando Lucano, sempre nel primo libro, descrive
i presagi funesti con cui gli dei hanno deciso di riempire minacciosamente la

50
terra, il cielo e il mare. Fra questi, ciò che avviene in cielo ha un posto di
rilevante importanza e occupa gran parte della narrazione:

Phars I, vv. 526-544:

Ignota obscurae viderunt sidera noctes


ardentemque polum flammis caeloque volantes
obliquas per inane faces crinemque timendi
sideris et terris mutantem regna cometen.
Fulgora fallaci micuerunt crebra sereno
et varias ignis tenso dedit aere formas:
nunc iaculum longo, nunc sparso lumine lampas
emicuit caelo. Tecitum sine nubibus ullis
fulmen et arctois rapiens de partibus ignem
percussit Latiare caput, stellaeque minores
per vacuum solitae noctis decurrere tempus
in medium venere diem, cornuque coacto
iam Phoebe toto fratrem cum redderet orbe,
terrarum subita percussa expalluit umbra.
Ipse caput medio Titan cum ferreret Olympo,
condidit ardentes atra caligne currus
involvitque orbem tenebris gentesque coegit
desperare diem; qualem fugiente per ortus
sole Thyesteae noctem duxere Mycenae.

Le notti oscure videro gli astri ignoti, videro il


cielo ardere in fiamme, luci solcare oblique il
firmamento, videro la chioma di una stella spaventosa,
la cometa, che sconvolge i regni sulla terra. Frequenti
i lampi balenarono nel sereno ingannatore e
nell’aria tesa la folgore disegnò le forme più bizzarre:
ora si accendeva come una lunga asta di fuoco, ora
diffondeva un chiarore come di lampada.
Senza tuono e senza nubi, un fulmine, strappando il suo
fuoco dalle regioni settentrionali, colpì
la vetta del Campidoglio e stelle piccole, che
sogliono trascorrere gli spazi durante la notte,

51
apparvero in pieno giorno e Febe, che allora, chiuse
le punte, rifletteva il fratello a pieno disco, si oscurò
invasa dall’ombra improvvisa della Terra. Il Titano stesso,
nell’ora in cui alzava la fronte a mezzo il cielo,
velò di nera nube il carro infuocato, avvolse di tenebre
il suo globo e ridusse gli uomini a disperare del giorno,
come quando nella tiestea Micene il sole ricusò di sorgere
e si prolungò la notte.

Anche in questo passo, evidenti sono tra le tenebre, le scie di luce che illuminano
il cielo, come ad esempio il passaggio della cometa o i lampi che squarciano il
firmamento, che mantengono in questo modo vivo il continuo contrasto
attraverso l’epifania del bianco sul nero.
Il sole che si rifiuta di sorgere è inoltre un altro tema frequente nella Pharsalia,
senza dubbio ereditato da Seneca, che, come nessun altro è in grado di rendere
la forza negativa e la potenza distruttrice che porta con sé la notte.
Il settimo libro della Pharsalia inizia proprio con il sole che non è disposto a
sorgere sulla regione tessalica e sarà in quel contesto che successivamente avrà
luogo il nostalgico sogno di Pompeo:

Phars. VII, vv. 1-6:

Segnior Oceano quam lex aeterna vocabat


luctificus Titan numqua magis aethera contra
egit equos cursumque polo rapiente retorsit,
defectusque pati voluit raptaeque labores
lucis, et attraxit nubes, non pabula flammis,
sed ne Thessalico purus luceret in orbe.

Più lento di quanto la legge eterna lo invitasse dall’Oceano,


mai il Titano apportatore di lutti spinse con più forza i cavalli
contro l’etere e volse indietro la sua rotta, benché il cielo lo
trascinasse: avrebbe volto subire la sofferenza di essere privato
della luce da un’eclisse, e attrasse le nubi, non per dare

52
nutrimento alle fiamme, ma per non risplendere limpido
sulla regione tessalica.

Le oscuri notti che ritroviamo nella Pharsalia sono portatrici di misfatti, azioni
sciagurate e rispecchiano lo spirito dell’epoca neroniana. Dalle tragedie
senecane derivano frasi, espressioni, immagini e idee, tutte plasmate con lo
stesso procedimento di libera e originale imitazione che Lucano attua anche con
gli altri poeti. Oltre che per singole frasi e immagini, l’influsso delle tragedie di
Seneca nell’opera si rivela anche nell’uso dei lunghi brani descrittivi e delle
parlate eloquenti, nella tendenza a ripetere più volte variando la medesima idea,
nel frequente uso delle sentenze, delle argute espressioni concise, ma,
principalmente, nel gusto del cupo, del tetro, del favoloso e dello spettrale. Zio
e nipote, legati tra loro da un’affinità spirituale, avevano entrambi subìto e
assorbito l’influsso dell’educazione retorica. Nelle scuole dei retori, Lucano, si
era esercitato a svolgere controversie e suasorie; l’abilità da lui raggiunta si
scorge in molti discorsi dei personaggi del suo poema. In quei luoghi egli aveva
anche appreso l’abitudine alle digressioni geografiche e alle spiegazioni
scientifiche, la predilezione per le tinte forti e i toni drammatici, per le frasi
brevi, le antitesi, le apostrofi e le interiezioni che danno pathos e vivacità alla
narrazione.
Obscura, dunque, è la notte dell’apparizione della Patria a Cesare e obscurus è
l’attributo in genere utilizzato da Lucano per rendere fenomeni funesti e tragici
simili a quelli già citati, come in Phars. I, vv. 526-544, dove le obscures noctes
vengono comparate alle solitae noctis e Febe che si oscura invasa dall’ombra
improvvisa della terra mira a rendere la spettacolarità dell’immagine,
soprattutto grazie all’oscurità72.

72
Fra le tenebre comunque si intravede un bagliore di strana e orrida luminosità: ignota…sidera (Phars.
I, v. 526); ardentem…polum flammis (v. 527); fulgora fallaci micuerunt crebra sereno (v. 530); nunc
iaculum longo, nunc sparso lampas/emicuit caelo. Tacitum sine nubibus ullis/fulmen (vv. 532-534).

53
Un uso dell’aggettivo obscurus legato alla tipica atmosfera delle notti lucanee è
presente nel quinto libro, dove si racconta di Cesare che, a bordo di una piccola
imbarcazione, si trova a dover affrontare una sinistra tempesta:
Phars. V, vv. 627-636:

Non caeli nox illa fuit: latet obsitus aer


infernae pallore domus nimbisque gravatus
deprimitur, fluctusque in nubibus accipit imbrem.
Lux etiam metuenda perit, nec fulgora currunt
clara, sed obscurum nimbosus dissilit aer.
Tum superum convexa tremunt, atque arduus axis
insonuit motaque poli compage laborat.
Extimuit natura chaos; rupisse videntur
concordes elementa moras, rursusque redire
nox manes mixtura deis.

Quella non fu una notte naturale: l’aria era buia


avvolta da un lividore da dimora infernale e su di essa gravava
una nuvolaglia così bassa, che i flutti attingevano acqua dalle nubi.
Perfino la luce spaventosa dei lampi mancò,
perché le saette più non guizzavano
accecanti nel firmamento e il cielo coperto da nuvole
sussultava di tuoni senza folgori. Tremavano le sedi degli dei,
rimbombava l’alta volta del cielo e vacillava scossa nelle sue compagini.
La natura rischiò un second caos. Pareva che gli elementi avessero rotto
ogni tregua e concordia e che tornasse la notte a confondere cielo e inferno.

La notte in cui tutto ciò accade rispecchia i canoni lucanei, l’aria che si respira
è tipica di ambienti infernali e appesantita dalle nubi cariche di pioggia;
nemmeno i lampi sono visibili nell’oscurità delle tenebre. Le sedi divine
vacillano e la natura ha il timore di ritornare al caos originario, dove niente
occupa un posto definito. La compattezza e organicità tematiche sono
innanzitutto definite dal vocabolo nox e dalla sua posizione a inizio e fine passo.
Dapprima si ha la visione di una notte che non presenta elementi inusuali o
innaturali, ma verso dopo verso si arriva al caos, nel quale sono schierate la luce

54
contro le tenebre, che alla fine deterranno il potere. Consegue un effetto di totale
oscurità, una nox senza spiragli e infinita.
Se l’aggettivo obscurus rimanda alle sfumature dell’oscurità e del nero,
ugualmente interessanti risultano nella scena dell’apparizione della Patria gli
attributi che definiscono splendore e luminosità.
Bianchi sono i capelli fluenti della spettrale figura femminile apparsa al
condottiero:

Phars. I, vv. 186-189:

ingens visa duci patriae trepidantis imago


clara per obscuram voltu maestissima noctem,
turrigero canos effundens vertice crines,
caesarie lacera nudisque adstare lacertis.

maestosa apparve al condottiero l’immagine


della patria trepidante, fulgida nell’oscurità della
notte, afflitta in volto, con i bianchi capelli fluenti
dalla testa turrita, ritta e a braccia nude, lacerandosi la chioma.

La vitalità dovrebbe essere il tratto prevalente (clara imago), al contrario è


affievolita dall’aggettivo lacera. Ci si trova nuovamente di fronte a una
rappresentazione triste e angosciante, in un clima di trepidazione (rilevante è a
proposito l’aggettivo trepidans al v. 186).
Clarus è il terzo aggettivo di cui Lucano fa uso nella scena del Rubicone e il
significato cromatico che possiede è sempre quello di chiarezza, di una
luminosità così chiara che risplende in maniera lucente. In questo caso, infatti,
con tale termine si intende una tonalità di bianco splendente, ai limiti
dell’accecante e, di conseguenza, ancora più potente è l’impatto che
l’apparizione della figura femminile crea, rendendosi visibile al comandante nel
mezzo dell’oscurità della notte. Il chiarore che viene emanato in questo caso

55
però, rende visibile e ben chiaro qualcosa che invece non sarebbe opportuno
osservare; l’unico che gode di tale visione è infatti Cesare, in quanto la
raffigurazione è data da termini che calcano l’aspetto tragico e funereo della
strage.
La Pharsalia è infatti il poema dell’oscurità, delle tenebre, della notte e del buio
che dilagano e hanno sempre la meglio sulla luce o anche solo su un minimo
bagliore. Basti anche solo far attenzione alle volte in cui viene fatto uso dei
sostantivi come lux e umbra; l’utilizzo di quest’ultimo supera abbondantemente
quello di lux, ottanta volte il primo e appena trentanove il secondo. Pertanto,
anche solamente da questi dati si può dedurre quanto più spazio hanno le tenebre
nel poema. L’analisi dei contrasti cromatici e della forza dei chiaroscuri ha così
permesso di indagare quanto potente sia la forza narrativa con la quale l’autore
riesce a immergere il lettore nell’avvenimento che sta narrando; termine dopo
termine, verso dopo verso, le immagini iniziano a prendere forma. E i colori si
materializzano in oggetti, persone, paesaggi o stati d’animo. Se si volesse
assegnare un colore al poema, questo sarebbe sicuramente il nero, il secondo
colore per importanza nell’opera dopo il rosso. La tonalità scura e cupa di un
colore come questo ben soddisfa la necessità di voler rappresentare una realtà
difficile, poco serena e critica. Indubbia è la volontà di Lucano di comunicare
la situazione politica e sociale a lui contemporanea, che vive e che vuole
demolire, a cui cerca di scardinarsi opponendosi; visibilissimo, a tal proposito,
il clima del principato neroniano. Proprio in tal senso deve essere inteso l’uso
frequente che l’autore fa di aggettivi che rimandano a note coloristiche: la
potenza e il grado di visibilità dell’immagine che Lucano voleva restituire non
potevano risultare più efficaci. L’influsso di un ambiente come la corte di
Nerone, che egli aveva a lungo frequentato, agì potentemente sull’animo e sulla
fantasia del poeta: tutto era grandioso, gigantesco, stravagante, la raffinatezza
del gusto era spinta fino al paradossale, il culto per ogni forma d’arte fino
all’idolatria e l’abitudine del colossale alterava il senso della misura. Qui, aveva

56
veduto affluire dalle estreme regioni dell’impero ogni stranezza e prodigio di
natura; qui, tra maghi e indovini, aveva partecipato a pratiche di astrologia e
magia. A corte, ma soprattutto a fianco dell’imperatore, aveva acquisito
l’abitudine al paradossale e al teatrale; e quando, caduto in disgrazia e ritiratosi
in ombra, egli si occupava della composizione del suo poema, non poteva
tuttavia sottrarsi all’influsso della corte.

57
58
CONCLUSIONE

La Pharsalia è opera di poesia, che conquista e affascina grazie alla sua vitale
forza d’immaginazione e drammatica potenza di rappresentazione. Indubbi
sono la volontà di Lucano di comunicare la situazione politica e sociale a lui
contemporanea e l’influsso con cui l’ambiente della corte di Nerone agì
potentemente sull’animo e sulla fantasia del poeta.
È il poema dell’oscurità, della notte e delle tenebre che dilagano e hanno sempre
la meglio sulla luce. Autore con una grande abilità ecfrastica, Lucano dà vita a
quadri narrativi di grande efficacia che hanno contribuito alla fortuna dell’opera
e reso famosi molti dei suoi passi. La nitidezza delle immagini, le note
coloristiche, i chiaroscuri di forte impatto visivo e la minuziosità nella
rappresentazione dei particolari caratterizzano quadri plastici pieni di figure,
ricchi di movimento e colore. Descrizioni di tal genere abbondano nella
Pharsalia, fioriscono spontanee grazie all’estroso ingegno del giovane poeta e
possono essere considerate vere e proprie opere d’arte, gemme incastonate nel
vivo della narrazione.
Egli si avvale della realtà che lo circonda, dell’immaginario figurativo e della
letteratura impressa nella sua mente per evocare immagini di una potenza
stravolgente. Emblematica a riguardo è la scena dell’apparizione della Patria,
nella quale l’epifania di questa figura distinta da una luminosità sublime,
squarcia l’oscurità della notte. Infatti, unica nel suo genere è la capacità che
l’autore ha di trasformare in immagini quello che a parole presenta al lettore.
Per certi aspetti egli si contrappone a Virgilio, tanto da essere la Pharsalia
ritenuta il poema anti-virgiliano per eccellenza, mentre per tanti altri gli viene

59
accostato. È da Virgilio che Lucano deriva descrizioni, immagini ed espressioni,
ma sempre trasformandole in modo originale e caratterizzandole con tinte forti
e stile colorito.
Inoltre, non mancano all’opera ricchezza e splendore d’immagini, potente
plasticità di rappresentazione ed efficaci pitture di stati d’animo che possono a
tutti gli effetti decretare l’opera letteraria ad una vera e propria forma d’arte.

60
Figura 1: Ms Paris, BnF fr.295, miniatura f 279r, Cesare attraversa il
Rubicone, Biblioteca dell’arsenale, Parigi 1324-31

61
62
Figura 2: Jean Fouquet, Cesare attraversa il Rubicone, miniatura da
"Histoire ancienne jusqu'à César et Faits des Romains", Museo del Louvre,
Parigi 1470

63
64
Figura 3: Arazzo facente parte del Ciclo istoriato con le gesta di Cesare,
Historisches Museum, Berna 1465-1470

65
66
Figura 4: Adolphe Yvonne, Jules Cèsar, Museo di Beaux-Art, Arras 1875

67
68
Figura 5: Francesco Coghetti, Giulio Cesare attraversa il Rubicone, sipario del
Teatro comunale "Amintore Galli", Rimini 1855

69
70
Figura 6: Germania capta, rilievo, Museo d'Antichità “J. J. Winckelmann”,
Trieste 39-40 d.C.

71
72
Figura 7: Statere coniato a Locri Epizefiri, Locri, 275-270 a.C.

73
74
Figura 8: Eutichide di Samo, Tyche di Antiochia, copia marmorea da
opera in bronzo, Musei Vaticani, Roma III sec. a.C.

75
76
Figura 9: Due stateri coniati a Locri Epizefiri, Locri I sec. a.C.

77
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