Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
ANCORE E VELE
Poesia, teatro e prosa in Inghilterra
dal Cinquecento al primo Settecento
Seconda edizione
2014
1
2
Alla memoria della nostra
dolcissima Iaia
3
4
INDICE
Premessa p. 9
Introduzione storica: l’Inghilterra dal Cinquecento
al primo Settecento p. 11
Introduzione p. 44
I.1 L’evoluzione dei generi poetici dalle origini alla
comparsa dei linguaggi volgari p. 44
I.1.1 La poesia epica p. 44
I.1.2 La poesia didascalica p. 46
I.1.3 La poesia lirica p. 47
I.1.3.1 La lirica monodica p. 48
I.1.4 L’epigramma e la satira p. 52
I.1.5 Il declino della poesia nell’età dell’impero p. 53
I.1.6 La poesia classica nel Medioevo p. 54
I.1.7 Le traduzioni dei poeti classici in Inghilterra
nel ’500-’600 p. 55
I.1.8 L’influenza dei classici sull’epica inglese p. 61
I.2 Il Medioevo: l’epica e il romance in Francia e in
Inghilterra p. 64
I.2.1 Il Medioevo: la poesia lirica e la poesia
didascalica in Francia e in Inghilterra p. 66
I.2.2 Il capolavoro del Trecento e le ballate del
Quattrocento p. 68
I.3 L’Umanesimo inglese e Sir Thomas Wyatt p. 69
I.4 Il Rinascimento, l’età elisabettiana e Christopher
Marlowe p. 78
I.5 I canzonieri p. 84
I.5.1 Sir Philip Sidney e Astrophel and Stella p. 86
I.5.2 Edmund Spenser e Amoretti p. 89
I.5.3 Michael Drayton e Idea p. 91
I.6 Edmund Spenser e l’epic romance p. 94
5
I.7 Il manierismo e John Donne p. 105
I.8 John Milton e il poema eroico p. 126
I.9 La poesia della Restaurazione e la satira di
John Dryden p. 141
Introduzione p. 145
II.1 The theory of drama p. 146
II.2 A Midsummer Night’s Dream p. 160
II.2.1 Il teatro dal Medioevo all’età elisabettiana p. 160
II.2.2 Il teatro di Shakespeare p. 162
II.2.3 Introduzione a A Midsummer Night’s Dream p. 164
II.2.3.1 La fortuna critica p. 165
II.2.3.2 Le fonti p. 169
II.2.3.3 I temi p. 171
II.2.3.4 I personaggi p. 175
II.2.3.5 Il linguaggio p. 179
II.2.3.6 Tempi e luoghi p. 181
II.3 Lettura di A Midsummer Night’s Dream p. 182
Atto I, scena I: amori e conflitti a palazzo p. 182
Atto I, scena II: gioia e timore di fare teatro p. 191
Atto II, scena I: liti nel bosco p. 195
Atto II, scena II: vendetta e nuovi amori p. 205
Atto III, scena I: due spettacoli sotto la luna p. 210
Atto III, scena II: la commedia degli equivoci p. 215
Atti IV e V: la conclusione. p. 223
Parte III: La scrittura prosastica del ’500 e del ’600: dalle origini
alla letteratura di viaggio elisabettiana e a Robinson Crusoe
(1719)
Introduzione p. 228
III.1 La prosa umanistica p. 229
III.1.1 Le traduzioni della Bibbia e i testi devozionali p. 231
III.1.2 Le altre traduzioni p. 235
6
III.2 Il Rinascimento: la prosa d’arte di John Lyly p. 237
III.2.1 La prosa dei viaggiatori p. 242
III.2.2 La diaristica e la scrittura di propaganda: le
prime opere p. 244
III.2.3 Il resoconto di Arthur Barlow p. 250
III.2.4 The Discovery of Guiana di Walter Raleigh p. 258
III.3 La prosa del Seicento p. 266
III.4 Daniel Defoe e Robinson Crusoe p. 271
Appendice storica
L’atlantizzazione, i viaggi inglesi in America, la colonizzazione
L’atlantizzazione p. 291
Il viaggio per mare nella storia inglese del ’500 p. 294
La colonizzazione p. 299
7
8
Premessa
9
percepibile, con la quale si confronta o entra in conflitto, dalla quale in
ogni caso trae senso. L’elenco delle traduzioni dei classici tra ’500 e ’600
e i cenni all’influenza dell’uno o dell’altro genere o autore sulla produzione
in versi d’oltre Manica intendono documentare la presa che il mondo
greco-romano continuò ad esercitare sulla cultura anglosassone, mentre la
rapida scorsa alle letterature in volgare si offre quale ponte lanciato verso
la scrittura del ’500-’600.
Per ragioni di tempo e di spazio non è stato possibile ripetere lo
stesso procedimento per il teatro e la prosa, ma se l’excursus sulla poesia
fosse considerato di una qualche utilità, potrebbe essere assunto come
traccia per successive indagini*.
10
Introduzione storica: l’Inghilterra dal Cinquecento al primo
Settecento
Il Cinquecento
Introduzione
All’inizio del XVI secolo, o nel 1485, data che per convenzione
viene indicata quale avvio dell’Età Moderna in Inghilterra, l’Inghilterra era
una nazione sottopopolata, sottosviluppata, periferica, con scarsa
incidenza in Europa, strutture economiche e sociali arretrate,
un’organizzazione politica fragile per via delle lotte tra il re e i baroni, una
Chiesa opaca, che aveva perso il suo ruolo di centro propulsore di vita
morale e culturale. Era, inoltre, del tutto priva di un esercito nazionale e di
una forza di polizia.
La Gran Bretagna era quasi interamente ricoperta da foreste
(pianta predominante e simbolo del Paese: la quercia), che si alternavano a
zone incolte, mentre il centro-sud ospitava svariati coltivi. Le foreste, zone
di caccia per la nobiltà, costituivano una riserva di legname per le
costruzioni sia abitative, sia navali. I tratti incolti offrivano agli abitanti
legname per uso domestico, foraggio per gli animali, erbe e bacche per uso
medicinale, ma servivano soprattutto come pascolo per il bestiame, in
prevalenza ovini. Le aree coltivate, specie quelle cerealicole, si avvalevano
del sistema dei campi aperti (open fields) o campi comuni (common fields),
che si era affermato in tutta Europa da moltissimo tempo. Gli open fields
erano divisi per strisce tra tutti i proprietari del villaggio, ragione per cui
ciascun proprietario possedeva una o più strisce, frammiste a quelle altrui
e delimitate da pietre di confine. Le strisce furono poi accorpate in campi,
coltivati a rotazione, con il criterio a tre campi in cui le colture venivano
alternate: il primo campo era coltivato a frumento (wheat), segale (rye) e
avena (oats), (semina in autunno e raccolto in estate), il secondo ospitava
sia cereali primaverili, avena e orzo (barley), importanti entrambi per il
pane e l’orzo per il malto, sia legumi, fagioli (beans), lenticchie (lentils) e
piselli (peas), utili per arricchire la terra di sali, mentre il terzo era lasciato
a maggese (fallow), incolto per un anno, onde ripristinare la fertilità del
terreno, e adibito a pascolo. Accanto ai campi coltivati c’erano i prati, pure
divisi in strisce, per il pascolo. Si noti che dopo il raccolto sia i campi arati
11
sia i prati erano aperti al pascolo per tutta la comunità. Accanto a prati e
arativi esisteva un pascolo comune e un terreno incolto comune su cui i
coltivatori potevano far pascolare il bestiame e raccogliere legname,
foraggio, bacche. Il tutto era gestito secondo un sistema comunitario. La
proprietà privata degli appezzamenti era riconosciuta e rispettata, ma le
operazioni agricole (dissodamento e concimazione, semina, raccolto,
scavo di fossati o di canali di scolo) erano compiute da tutti i membri della
comunità, che suddividevano il costo delle attrezzature, stabilivano
insieme nelle assemblee che cosa seminare e quando, quando arare, quando
aprire i campi al pascolo comune ecc.
Il problema era quello di conciliare le esigenze del pascolo (prati)
con quelle della cerealicoltura, che garantiva cibo per gli uomini e
foraggio per il bestiame, il quale, a sua volta, era indispensabile non solo,
ovviamente, per l’alimentazione ma per il concime, necessario alla fertilità
della terra. L’estensione degli arativi al fine di produrre più cereali
comportava la riduzione dei prati, quindi l’inevitabile abbattimento di capi
di bestiame che non si potevano più nutrire, la riduzione del concime e
conseguentemente la riduzione della fertilità della terra che, nella
coltivazione dei cereali, perdeva sali minerali, integrabili solo con il
concime o con la semina di leguminose. Una necessità seriamente
avvertita con la crescita della popolazione – e il ’500 vide dopo i primi due
decenni un costante incremento demografico, salvo verso la metà e la fine
del secolo, fino ad arrivare a circa 5 milioni nel 1601 – fu quella di
eliminare il maggese, cioè l’anno di riposo di una parte del terreno del
villaggio. A tale necessità si fece fronte con l’agricoltura alternata, che
cioè avvicendava arativo e pascolo sullo stesso appezzamento. Occorse
molto tempo per riorganizzare i terreni: quelli lasciati permanentemente a
pascolo erano difficilmente convertibili in arativi perché troppo grassi,
pieni di parassiti e di erbacce, mentre i terreni sempre arati producevano
buon foraggio solo dopo diversi anni in cui rimanevano infruttuosi. Il
successo arrivò lentamente e fu davvero importante, perché nel frattempo
la popolazione era molto cresciuta.
Un altro fenomeno caratterizzò il paesaggio e la vita nelle campagne
d’Inghilterra dalla fine del Quattrocento in poi: il fenomeno delle
recinzioni (enclosures), che aprì la strada allo sviluppo capitalistico della
terra e minò alle fondamenta il sistema dei campi aperti. Il pascolo comune
e l’incolto comune erano provvidenziale fonte di sopravvivenza per i
contadini più poveri, quelli che avevano terreni troppo piccoli per poter
12
alimentare sia i membri della famiglia sia il bestiame. I proprietari terrieri
(landowners) si resero conto che accorpando i propri appezzamenti
avrebbero potuto sfruttarli in modo razionale. Se poi le proprietà fossero
state più ampie, la resa sarebbe stata ancora più proficua poiché si potevano
introdurre colture intensive sul modello di ciò che avveniva in certe zone
d’Europa (le Fiandre e l’Italia settentrionale), oppure si potevano adibire
le terre a pascolo per l’allevamento degli ovini, molto apprezzato in un
periodo come il Cinquecento di forte aumento di richiesta della lana. Allo
scopo i proprietari procedettero a scambi di terreni, ad acquisti di piccoli
appezzamenti incuneati nelle rispettive proprietà e infine
all’accaparramento delle terre comuni – fatto, quest’ultimo, che portò
all’estinzione dei diritti comunitari su pascoli e incolti. I terreni venivano
poi puntualmente recintati, onde il termine enclosures. Il fenomeno si
verificò progressivamente ora con adesioni estorte con la forza, ora con
intese amichevoli. Rimane comunque il fatto che le recinzioni
scombussolarono la vita nei villaggi, costringendo i più poveri a lasciare le
campagne, a vivere di rapine lungo le vie di comunicazione o a portarsi nei
centri più popolosi, specialmente a Londra, nella speranza di trovare lavoro
o, almeno, assistenza caritativa. Non trovando né l’uno né l’altra,
campavano di elemosina e di espedienti, tra cui il vagabondaggio e, ancora,
il furto – che la legge puniva spietatamente.
Le città inglesi si concentravano nel sud-est ed erano molto
limitate quanto a popolazione. Solo Londra vantava nel primo Cinquecento
60.000 abitanti. L’Inghilterra appariva dunque come un insieme di
paesotti. Le città più importanti, i capoluoghi, o provincial towns, il cui
numero di abitanti oscillava tra i 10 e i 20.000, erano soltanto cinque –
York, Norwich, Bristol, Exeter e Newcastle – centri commerciali,
amministrativi e religiosi già segnalati nel Medioevo. I centri regionali, o
county towns, avevano tra i 1.500 e i 7.000 abitanti, mentre i centri
commerciali, cioè le market towns, ne avevano meno di mille. Delle
county towns le più importanti erano porti (Southhampton) oppure sedi di
università (Oxford) o di vescovadi (Canterbury); sorgevano in posizioni
strategiche, alla confluenza di vie di comunicazione, ospitavano
manifatture di lana (Gloucester) e attività specializzate. Le market towns
erano piuttosto città di attività mercantili che accoglievano tessitori, fabbri,
sarti, fabbricanti di candele.
Londra era già nel Medioevo il centro più fittamente popolato. Sorgeva
nel cuore di una rilevante rete di scambi, non tanto lontano dal mare da non
13
poter accogliere navi di grossa stazza, ma non tanto vicino da essere
esposta ad attacchi di flotte nemiche. La sua posizione la favoriva nei
rapporti con il resto del Paese e con la Francia, le Fiandre, la Germania,
l’Atlantico, il Baltico. Aveva importanza nel settore manifatturiero e in
quello della fabbricazione di prodotti di semilusso. Inoltre ospitava la corte
e il parlamento, gli enti connessi con la vita amministrativa e giudiziaria
del regno, le grandi compagnie mercantili. La sua ricchezza dipese
soprattutto dal ruolo che esercitò nel commercio, interno ed estero.
Inizialmente centro di scambi, divenne anche sede di industrie, come
l’oreficeria e altre, legate allo sviluppo del porto. Vi sorsero infatti cantieri
piccoli e grandi, poi raffinerie di zucchero e stabilimenti connessi con la
lavorazione dei prodotti coloniali.
L’aspetto più evidente del suo sviluppo fu l’incremento
demografico, dovuto all’emigrazione dalle province e, all’epoca della
persecuzione degli Ugonotti dopo la revoca dell’Editto di Nantes, dalla
Francia. Ben presto emerse il problema dei senza lavoro, dei poveri e dei
vagabondi, il cui incremento si verificò nonostante l’alto tasso di mortalità,
dovuto al sovrappopolamento, all’inadeguata struttura igienica, alle
epidemie. L’incremento demografico riguardò non solo Londra, ma tutta
l’Inghilterra. Esso comportò abbondanza di mano d’opera a bassi salari e
richiesta sempre più pressante di derrate alimentari (che rimase talora
insoddisfatta), e provocò nel contempo ondate di disoccupazione e di
inflazione – dovuta, quest’ultima, alle spese della guerra contro la Spagna,
alla comparsa sul mercato di oro americano, ai pesanti prestiti governativi.
Tuttavia, per la prima volta nella storia inglese, il Paese fu quasi sempre in
grado di nutrire se stesso, il che rappresentò un notevole successo dell’età
Tudor.
14
obbligarlo a sottoscrivere nel 1215 la Magna Carta, documento
fondamentale per il riconoscimento dei diritti dei cittadini, i cui punti
principali prevedevano che il re non potesse imporre tasse senza il
consenso della Curia e che nessun cittadino potesse essere incarcerato
senza un processo regolare da parte di una giuria di suoi pari. Nel giro di
cinquant’anni la Curia si trasformò in un vero e proprio parlamento. Il
parlamento fu, almeno in linea teorica, una componente indiscussa del
governo in quanto legato al re in un unico corpo, il body politic, ma, poiché
si configurava come un organo di controllo nei confronti del monarca,
venne convocato raramente. Esso comprendeva la Camera Alta e la
Camera Bassa. La Camera Alta, Upper House o House of Lords,
includeva sia i nobili titolati (duchi, marchesi, conti, visconti, baroni)
corrispondenti all’aristocrazia di ascendenza medievale, sia l’Alto Clero o
Lord spirituali; la Camera Bassa, Lower House o House of Commons,
raccoglieva i rappresentanti delle contee e dei borghi, i membri della
piccola nobiltà, o gentry, costituita soprattutto da proprietari terrieri,
nonché personaggi abbienti della città, desiderosi di riconoscimento
politico.
I Tudor
Veniamo ora alle vicende del secolo XVI. Occorre una premessa:
nella seconda metà del Quattrocento (1455-1485) il Paese fu travagliato
dal crudo conflitto tra due rami discendenti dai Plantageneti, la casata degli
York e quella dei Lancaster, per il possesso della corona. Poiché l’emblema
araldico dei contendenti era una rosa, rispettivamente bianca per gli York,
rossa per i Lancaster, il conflitto è denominato Guerra o meglio, per il
carattere non continuativo, Guerre delle Rose, Wars of the Roses. Ad esso
pose fine Henry Tudor dei Lancaster, che sconfisse e uccise in battaglia
Richard III degli York, ascendendo al trono nel 1485 con il nome di Henry
VII [ricorda: Henry the seventh] (1485-1509) e dando inizio alla dinastia
Tudor, che si sarebbe conclusa nel 1603.
Henry rafforzò la sua incerta rivendicazione della corona sposando
Elizabeth di York, così unendo, almeno ufficialmente, le fazioni rivali.
Preoccupato di ripristinare il prestigio della corona, impose alla nazione
ordine e autorità con un’azione energica e lungimirante. Anzitutto piegò al
suo volere quanti si opponevano all’istaurazione dell’unità nazionale. Poi
avviò una prassi tipica dei Tudor, quella di premiare con favori e compensi
15
gli elementi fidati, indipendentemente dall’estrazione sociale. Creò inoltre
un avvio di burocrazia, si circondò di ministri abili e leali, contenne le
spese e accumulò denaro (la rapacità è il lato oscuro del suo carattere),
evitò in tutti i modi la guerra (il che lo rese gradito alla borghesia dei traffici
e dei commerci) e condusse una sagace politica matrimoniale.
Alla sua morte, nel 1509, gli successe tra grandi festeggiamenti il
figlio diciottenne, Henry VIII (1509-1547), che subito contrasse – previa
dispensa papale – nozze trionfali con la vedova del fratello Arthur,
Caterina di Aragona. Avvenente, audace, prodigo, egli appariva l’antitesi
del padre, ma le brillanti qualità nascondevano un profondo egotismo, la
convinzione di essere sempre dalla parte della ragione e una crudeltà di
fondo. Egli sentì di dover continuare la politica del padre e rafforzare la
corona, ma nei primi anni di regno fu anche attratto dal desiderio di fare
dell’Inghilterra l’ago della bilancia della politica europea e affascinato
dalla guerra, che definitiva “lo sport del re”. Si impegnò quindi in svariate
operazioni militari, quasi tutte fallimentari, che lasciarono le casse dello
stato vuote e l’Inghilterra esclusa dal gioco diplomatico.
La sua attenzione era comunque da sempre concentrata sul
problema dinastico. Convinto che la giovane dinastia Tudor avesse
bisogno di un inoppugnabile erede maschio, fu indotto – dalla
constatazione che nei lunghi anni di matrimonio l’unico rampollo
sopravvissuto era una bambina, Mary – a concepire l’eventualità di
ottenere dal papa Clemente VII l’annullamento del matrimonio con
Caterina. La questione si protrasse per anni, ma Clemente, forte della
dispensa concessa dal suo predecessore affinché Enrico potesse sposare la
vedova di suo fratello, rifiutò sempre, anche per non dispiacere allo zio di
lei, Carlo V, re di Spagna e imperatore del Sacro Romano Impero. Tuttavia
il sovrano Tudor era deciso a imporre il suo volere. Invaghitosi nel
frattempo di una giovane francese, Anne Boleyn, convocò il parlamento –
che nel 1533, per la prima volta nella storia inglese, funse con il monarca
da organo legislativo onnicompetente – e fece dichiarare nullo il
matrimonio con Caterina (l’annullamento del matrimonio è al centro del
tardo dramma di Shakespeare e Fletcher sulla caduta dei grandi, Henry
VIII). Intanto egli aveva sposato in segreto Anne Boleyn che nello stesso
1533 diede alla luce Elizabeth (che figura neonata nello stesso Henry VIII)
prima di finire di lì a pochi anni (1536) sulla forca, accusata di tradimento
e di incesto. Con la secessione da Roma, o scisma anglicano (separazione
della Church of England dalla Chiesa di Roma) nasceva la nuova religione
16
anglicana, un cripto-cattolicesimo con qualche concessione ai principi
protestanti.
Negli anni successivi il parlamento approvò una raffica di statuti
antipapali, atti a svincolare definitivamente l’Inghilterra dalla fedeltà a
Roma e a garantire al sovrano l’appoggio, spesso recalcitrante, della
nazione. Il più importante fu l’Atto di supremazia (Act of Supremacy) del
1534, che proclamava il sovrano capo supremo della Church of England in
materia temporale e spirituale, affidandogli il controllo sulle nomine dei
vescovi, mentre il l’Atto sul tradimento (Treason Act) dello stesso anno
stabiliva che fosse messo a morte chiunque negasse la supremazia di
Enrico. La volontà del sovrano non fu accettata passivamente, come
attestano quanti furono giustiziati in ottemperanza a quest’ultimo statuto,
tra cui Thomas More, ex cancelliere del re, mentre altri vescovi furono
indotti alla sottomissione da minacce e da tassazioni punitive. Enrico attuò
anche l’operazione della confisca delle abbazie, o Dissolution of the
Monasteries, che non solo eliminò il secondo ostacolo alla potenza regia
(il primo era costituito dalla nobiltà, già messa a freno da Henry VII), ma
portò alla corona le grandi ricchezze della Chiesa (non solo terreni e
immobili, ma preziosi arredi che si salvarono dal vandalismo dei
‘dissolutori’). La confisca delle abbazie ebbe luogo a partire dalla seconda
metà degli anni Trenta. Essa fu seguita dall’alienazione dei beni
ecclesiastici a vantaggio dell’aristocrazia ma soprattutto della gentry e
dell’alta borghesia che, animate da spirito di intraprendenza, sfruttarono la
terra praticando colture intensive o il pascolo su larga scala. Vittime
dell’operazione, per contro, furono non solo gli ecclesiastici ma tutta
quell’umanità, dai domestici ai poveri e ai viandanti, che gravitava intorno
alle abbazie. Le ricchezze della Chiesa non rimasero a lungo nei forzieri
regi, perché negli anni ’40 Henry VIII ritornò a una costosa politica
militare contro francesi e scozzesi che si sarebbe protratta ben oltre il suo
regno. La fase finale del suo dominio lo vide dibattersi tra i giochi delle
fazioni di corte, incapace di esercitare un controllo efficace, e ondeggiare
tra opposte tendenze religiose. Quanto al fronte familiare, esso era stato
quanto mai burrascoso: Enrico ebbe sei mogli, alcune delle quali furono
messe a morte. La terza, Jane Seymour, gli diede il sospirato erede maschio
Edoardo che salì al trono a nove anni come Edward VI, alla morte del
padre (1547), ma che si spense nel giro di pochi anni (1547-1553).
Durante il suo breve regno la Chiesa si allineò sul modello
luterano, con qualche fluttuazione verso il cattolicesimo, ma il calvinismo
17
si diffuse comunque tra tutti i ceti sociali, specialmente tra le classi
popolari.
L’avvento al trono di Mary Tudor (1553-1558), nata dal primo
matrimonio di Henry VIII e allevata da Caterina d’Aragona nel credo di
Roma, scatenò l’offensiva delle forze cattoliche, tanto più che ella sposò
Filippo II di Spagna con un’unione quanto mai invisa agli inglesi,
timorosi dell’inevitabile ingerenza spagnola Anche se non riuscì a
intervenire sull’abolizione della confisca dei monasteri che rimase
operativa, Mary Tudor commise l’errore di provocare i primi martiri
della religione anglicana (le vittime furono quasi 300), il che consacrò
l’anglicanesimo come fede a tutti gli effetti e procurò a Mary, the Catholic,
l’inglorioso epiteto di ‘sanguinaria’ (bloody).
La seconda metà del ’500 vide Elizabeth Tudor (1558-1603) sul
trono.
Come sarebbe accaduto alla regina Victoria nell’Ottocento, ella
diede il nome all’epoca in cui regnò. Le due sovrane hanno molti punti in
comune: entrambe salirono giovani al trono, governarono a lungo e
lasciarono il paese più forte di quanto non l’avessero ricevuto. Entrambe
molto amate, furono anche oggetto di attentati. Elizabeth vide il decollo
della potenza inglese; con Victoria l’Inghilterra si impose al mondo.
Nell’epoca di Elisabetta si avviò quel processo di sviluppo industriale e
agricolo che si sviluppò nel Settecento per trovare coronamento in età
vittoriana e si mossero i primi passi in direzione dell’impero, che nel tardo
Ottocento raggiunse l’apogeo. Alla fine del regno di Elizabeth l’Inghilterra
era diventata una potenza di tutto rispetto in Europa; con Victoria la Gran
Bretagna divenne la prima potenza mondiale e tale rimase fino al ’900
avanzato. Però si colgono almeno un paio di vistose differenze tra le due:
l’una fu la regina “vergine”, l’altra la regina madre; l’una governò, l’altra
regnò.
18
teologia. Fu nel contempo allevata nella fede anglicana, il che la espose a
seri rischi durante il regno di Mary, la Cattolica. Quando salì al trono a
venticinque anni, il popolo l’accolse con entusiasmo, segno del fascino che
esercitava e della scarsa simpatia che aveva suscitato la sorellastra Mary
Tudor. Da subito il parlamento, preoccupato che desse un erede al trono,
sollecitò Elizabeth al matrimonio. Ella però vi si sottrasse, rispondendo,
con una frase divenuta famosa, di essere già sposata all’Inghilterra e di
avere gli inglesi come suoi figli. Il nubilato le attirò diversi pretendenti e
le consentì di giocare la carta matrimoniale, ora promettendosi, ora
negandosi. Di fatto ella rifiutò costantemente le nozze. L’assenza di eredi
preoccupò molto gli inglesi, che temevano disordini e guerra civile alla sua
morte. Tuttavia, pochi mesi prima del decesso ella designò ufficialmente il
proprio successore nella figura di James VI di Scozia.
Per superare la diffidenza che molti nutrivano nei confronti di una
donna sul trono, Elizabeth si dimostrò subito energica e intenzionata ad
imporre la propria volontà, il che non le impedì di circondarsi di ministri
fidati e capaci: scelta felicissima fu quella del Primo Ministro, William
Cecil, diventato poi Lord Burghley, che per trent’anni fu il grande e
onesto cooperatore della politica regia. Quanto al parlamento, ella lo
convocò, lo sciolse o lo prorogò quando le risultava opportuno, evitando le
sessioni lunghe, cercando di accelerare i dibattiti, evitando sempre lo
scontro. Conquistò il consenso associando la sua forza impositiva con un
complesso culto dell’amore : i rapporti con i potenti del regno si
configuravano spesso come relazioni amorose, per cui i cortigiani le si
rivolgevano in termini da cui trapelavano amore (per la donna) e
venerazione (per la madonna inglese).
Sul fronte della politica religiosa, perseguì una via media. Aliena
dal fanatismo della sorella, lontana dai cattolici tanto quanto dai calvinisti
inglesi, designati con il nome di puritani, pretese che il popolo si
uniformasse anche solo esteriormente alla religione anglicana, e aderisse
alla Church of England – la cui dottrina fu espressa dai Trentanove
Articoli (1563) – che divenne il pilastro della potenza della regina. Nei
confronti dei cattolici, definiti recusants, o ‘coloro che ricusano’ le
pratiche liturgiche della chiesa anglicana, ella inizialmente mantenne un
atteggiamento conciliante, ma si irrigidì dopo la cattolica Rivolta del Nord
o Northern Rising (1569), che represse con violenza, e ancor di più dopo
la scomunica papale (1570), che autorizzava (ma inutilmente!) gli inglesi
cattolici a non riconoscerla come monarca. La situazione si fece più
19
complessa quando la cattolica regina di Scozia, Mary Stuart, figlia di
James V e cugina di Elizabeth – costretta, dall’indignazione popolare
provocata dalle sue avventure erotico-criminali, a lasciare la Scozia, dove
divenne re il figlio di lei James, di appena un anno – cercò rifugio in
Inghilterra (1569). Dopo un’accoglienza abbastanza benevola, Elizabeth di
fatto la fece incarcerare per timore di congiure ‘papiste’, volte a deporla e
ad affidare il trono a lei, Mary Stuart, discendente da una sorella di Henry
VIII. Quando poi si provò che in realtà era stata coinvolta in un complotto
contro la vita di Elizabeth, il parlamento decretò la sua morte e la regina
inglese, pur tra mille remore, diede corso alla sentenza. La morte di Mary
non turbò troppo il ventunenne James VI of Scotland, a cui era stata fatta
balenare la prospettiva della successione al trono inglese, ma provocò la
reazione di Filippo II di Spagna, che rivendicava il trono in quanto vedovo
di Maria Tudor. La guerra anglo-spagnola, fino a quel momento limitata
a incursioni inglesi nei porti iberici e ad attacchi dei pirati ai convogli
reduci dal Nuovo Mondo con il loro carico d’oro e di preziosi, fu dichiarata
apertamente. Nella primavera 1588 Filippo allestì una grande flotta,
l’Invincibile Armata, con il compito di trasportare in Inghilterra le truppe
spagnole di stanza nei Paesi Bassi e con esse invadere l’isola: il re quindi
contemplava una conquista militare, non navale. A fine luglio la flotta
entrò nella Manica, dove le navi inglesi, agili, tecnicamente superiori e
meglio armate, con la complicità di condizioni meteorologiche avverse agli
spagnoli, ebbero la meglio sui pesanti galeoni iberici che, disastrati e ridotti
numericamente alla metà, tornarono in patria circumnavigando da nord le
isole britanniche. In un’epoca in cui le calamità erano interpretate come
segni del giudizio di Dio, fu difficile astenersi dal concludere che il Dio
degli Eserciti aveva volto le spalle a Madrid, e l’Armata fu ironicamente
liquidata con il detto “Venne, vide e fuggì” (“She came, she saw, she fled”).
A quel punto l’Inghilterra avrebbe potuto sferrare il colpo di grazia alla
Spagna; tuttavia non lo fece e la guerra anglo-spagnola continuò, sporadica
e a sorti alterne, fino al trattato di Londra del 1604, firmato dal successore
di Elizabeth, James Stuart.
Il regno di Elizabeth coincise con una fase importante dello
sviluppo economico inglese, importante ma non indolore. Il fronte
agricolo presentava luci e ombre. Registrò, infatti, inquietudine,
irrequietezza e forti recriminazioni dovute al diffondersi delle enclosures.
Ci fu chi (Philip Stubbs) scrisse – ricordando che un personaggio
dell’Utopia (1516) di Thomas More sarcasticamente commenta come in
20
Inghilterra le pecore divorino gli uomini – che “i ricchi divorano i poveri
come gli animali l’erba” (“rich men eat up poor men as beasts eat grass”)
poiché di fatto le enclosures, come si è visto, riducevano i poveri alla fame.
Tuttavia, se le recinzioni distrussero il sistema dei campi aperti, le terre
recintate che furono trasformate in arativi videro moltiplicarsi la
produttività del terreno, per cui non si registrò carenza di scorte alimentari
in quel periodo. Un’eccezione si verificò negli anni ’90 in cui un seguito
di estati piovose portò a una drastica riduzione dei raccolti, al conseguente
aumento dei prezzi delle derrate alimentari e quindi a un impoverimento
generale, complicato da sporadiche comparse di peste ed esacerbato dalle
pesanti tassazioni per motivi militari. In altre parole portò alla carestia,
che provocò rivolte extraurbane e urbane, seguite da punizioni governative
esemplari: un’eco di tutto ciò si coglie in due punti di A Midsummer
Night’s Dream, nel monologo di Titania circa le conseguenze dei disastri
naturali nella vita umana e nell’ansiosa discussione degli artigiani sulle
possibili reazioni dei potenti al loro spettacolo teatrale.
Il governo di Londra, che pure si compiaceva dei campi arati, si
diede coerentemente da fare per contenere le recinzioni a fini di pascolo,
che causavano disoccupazione, abbandono delle campagne e mendicità, e
lo fece con leggi severe, che furono tuttavia disattese nel secolo successivo.
Non si poteva del resto andare contro la Storia.
Il decollo dell’industria fu il fattore principale dell’economia del
periodo. In seguito all’ondata di rifugiati protestanti dalle Fiandre e dalla
Francia, nacquero nuovi mestieri e gli stessi vecchi impieghi ricevettero
nuovo impulso. Sorsero l’industria del pizzo e della filatura della seta, la
fabbrica del vetro, della pergamena, degli aghi. L’industria tessile si
diversificò (industria della lana, del lino e della canapa) e si diffuse nei
centri urbani, ma venne praticata anche nelle campagne, dove i contadini
si procuravano la lana ai mercati, la filavano in casa e negli stessi mercati
vendevano il tessuto. Si affermarono inoltre l’industria navale e quella del
cuoio, mentre guadagnarono terreno l’industria estrattiva e quella, già
consolidata, della pesca (con imposizione dei giorni di magro, fish days).
Comparve allora per la prima volta sul palcoscenico dell’economia inglese
la figura del protocapitalista, fosse egli un mercante che si arricchiva o un
apprendista che diventava artigiano e poi metteva in piedi una piccola
industria destinata a crescere. Costoro erano abili imprenditori:
maneggiavano con disinvoltura il denaro, chiedevano prestiti, difendevano
gli interessi della categoria (pensando soprattutto ai propri), e infine
21
investivano il ricavato dell’industria e del commercio nella terra: la corsa
al profitto, infatti, andava di pari passo con la corsa alla terra, che
significava prestigio e spesso comportava un titolo nobiliare.
Gli anni conclusivi del regno, che pure videro la conquista
dell’Irlanda, gettano un’ombra sul governo di Elisabetta, contrassegnati
come furono da un’economia in regresso e da un generale impoverimento,
dallo scontento popolare per l’accentuata prassi regia della vendita di
monopoli, da una diffusa evasione (le tasse erano stabilite in base alla sola
dichiarazione del contribuente) e da una palese corruzione a livello
burocratico – condizioni, queste, che si tradussero in un condiviso stato
d’animo di ansia e pessimismo. Naturalmente l’assenza di un erede,
alimentando intrighi e ispirando le più diverse supposizioni, aumentava
l’inquietudine a tutti i livelli.
Il Seicento
Introduzione
22
’500, come abbiamo visto, consentiva alle famiglie un secondo introito. Le
condizioni economiche dei salariati (wage-earners) erano comunque
precarie e numerose famiglie dovettero ricorrere a quei sussidi pubblici la
cui entità spesso mise a dura prova le risorse della corona.
Caratteristica di questo periodo fu l’arricchimento della
borghesia, a spese dei ceti più alti e di quelli più bassi. Nella prima parte
del secolo, perpetuando un costume elisabettiano, i piccoli proprietari
terrieri, i mercanti, i floridi artigiani, che non possedevano lo status di
“nobile” come i membri della gentry, ambivano di entrare a far parte della
piccola nobiltà e tal scopo acquistavano appezzamenti terrieri. Questa
frazione di società, che si andava vieppiù affermando, non era però
riconosciuta come gentry dai gentiluomini di campagna che per
distinguersi dai neo-gentiluomini coniò il termine squirearchy (collettività
di tali gentiluomini) e attribuì ai suoi membri quello di signori di campagna
(squires). Verso la fine del secolo, invece, mentre si riduceva la smania del
titolo nobiliare, conquistava sempre maggior rilievo l’alta borghesia, che
investiva nello sfruttamento della terra, nelle attività commerciali e nei
prestiti alla corona: si affermano così i grandi mercanti (prince merchants).
Di pari passo alla crescita della borghesia, si verificò la crescita
delle città che prosperavano per il loro potenziato ruolo in ambito
commerciale. Diversamente da quanto avveniva in Francia in cui accanto
a Parigi (350.000 abitanti) si riscontravano altri centri urbani popolosi, in
Inghilterra Londra primeggiava in un quasi deserto: la città, infatti,
superava il mezzo milione di abitanti (e diventava così la prima città
europea), ma gli altri centri urbani erano rimasti, quanto a numero di
abitanti (non più di 25.000), delle stesse dimensioni del ’500.
Nelle città fece la sua comparsa il negozio, che sostituì le
bancarelle presenti nei mercati. Con una differenza però: mentre sulla
bancarella era messo in vendita ciò che il proprietario aveva coltivato o
fabbricato, nel negozio venivano offerti prodotti di vario genere che
provenivano da lontano, anche da molto lontano.
Un tratto specifico del Seicento fu, infatti, il potenziamento dei
traffici con i paesi extraeuropei grazie alle attività della Compagnia delle
Indie Orientali (East India Company) e di altre compagnie commerciali
(trading companies) a regime monopolistico. Accanto al potenziamento
dei traffici si verificò nel Seicento anche il fenomeno dell’espansione
coloniale, con la conseguente emigrazione di cittadini inglesi e
importazione di prodotti indigeni, dal grano al tabacco. Di fatto a un
23
insediamento nel Nuovo Mondo gli inglesi, sia pure in vistoso ritardo
rispetto a spagnoli e francesi, avevano pensato già in età elisabettiana, per
desiderio sia di emulare la Spagna, che in Centro e Sud America aveva
trovato dovizia di metalli preziosi e fondato un impero colossale, sia di
porre un freno al dilatarsi di tale impero e di acquisirne, se possibile, uno
proprio. Negli anni ’80 del ’500 Sir Walter Raleigh, uomo d’armi e di
cultura, favorito di Elisabetta, aveva cercato – in buona sostanza con i suoi
soli mezzi – di fondare in una parte dell’America del Nord chiamata
Virginia (in onore di Elisabetta, la regina “vergine”) una colonia
permanente a Roanoke Island quale punto di partenza di un progetto
imperiale. I tempi non erano maturi e le risorse troppo limitate perché
l’operazione giungesse a buon fine. Ciò che non riuscì a Raleigh riuscì
invece, vent’anni dopo, alla Compagnia della Virginia (Virginia
Company) che, potendo contare su ben più cospicui investimenti di nobili
e borghesi, fondò nella stessa Virginia a Jamestown nel 1607 un
insediamento destinato a resistere nel tempo, nonostante le sciagure
iniziali e l’alto tasso di mortalità. La seconda colonia permanente in
America fu creata nel 1620 dai Padri Pellegrini (Pilgrim Fathers), dopo
un arduo viaggio sul mitico Mayflower, a Plymouth nel New England. I
Pilgrim Fathers raggruppavano sia persone mosse dagli stessi impulsi dei
coloni della Virginia (cioè il desiderio di lavoro e di terra nonché
l’aspettativa di crearsi una vita migliore), sia i separatisti puritani, definiti
con il termine Non conformists, che allude a quanti non si uniformavano
alle dottrine e ai riti della Church of England. A costoro, infatti, premeva
in prima battuta sottrarsi alle vessazioni religiose che li affliggevano in
patria e praticare in libertà il proprio culto. Le due colonie furono
fondamentalmente agricole – nonostante la volontà di Londra di installarvi
attività industriali – e contrassegnate da scambi con gli indiani e da
esportazioni verso l’Inghilterra.
I primi Stuart
24
Uomo tra i più colti d’Europa, aveva già scritto trattati sulla stregoneria,
sul consumo del tabacco e due, più importanti, in cui teorizzava lo stato
assoluto, quello il cui sovrano deriva il proprio potere da Dio e, esente
(absolutus) da ogni controllo da parte del parlamento, a Dio soltanto
risponde. Giacomo, teorico dell’assolutismo, fu tuttavia tanto prudente da
non sovvertire i tradizionali rapporti tra il sovrano e il parlamento, ad
esempio sul fronte delicato dell’imposizione delle tasse, e, pur tra
temporanee tensioni, governò con il consenso delle due Camere. Egli
coltivò il nobile sogno di unire in modo sostanziale i regni di Gran
Bretagna a livello politico, economico e religioso, ma i tempi non erano
maturi: l’introduzione di una bandiera comune, la Union Jack, e una
parziale fusione economica furono i soli risultati a cui pervenne. Avrebbe
inoltre desiderato tramite un concilio unire tutte le chiese europee e porre
fine ai conflitti religiosi, ma anche questo lungimirante proposito fallì.
Sul fronte religioso James – pur figlio della cattolica Mary Stuart e
cresciuto nella Scozia calvinista e presbiteriana (secondo il
presbiterianesimo, la Chiesa non doveva avere un’organizzazione
episcopale ma essere retta dagli anziani, in greco ‘i presbiteri’) – una volta
diventato re d’Inghilterra aderì all’anglicanesimo. Ciò scontentò sia i
cattolici, i quali organizzarono nel 1605 la famigerata Congiura delle
Polveri (Gunpowder Plot) che, se non fosse fallita, avrebbe potuto
destabilizzare lo Stato, sia i puritani. Costoro lasciarono l’Inghilterra alla
volta dell’Olanda, mossi da avversione all’episcopalismo sintetizzato
nell’aforisma di Giacomo, “Niente vescovi, niente re” (“No bishop, no
king”), fermi nel valore della libertà di coscienza e convinti del diritto dei
fedeli di eleggere i propri parroci. Ricordiamo che la Chiesa anglicana era
retta da una struttura verticale assai rigida in cui il re nominava i vescovi e
costoro controllavano i parroci, mentre i fedeli erano tenuti ad usare un
unico libro di culto, il Libro della preghiera comune (Book of Common
Prayer). La stretta interdipendenza tra l’episcopato e la monarchia indusse
Giacomo a difendere a spada tratta i suoi vescovi e i vescovi ad accettare
la teoria del diritto divino e a predicare incondizionata obbedienza alla
corona. Al di là di ogni diatriba, comunque, l’evento religioso più
significativo del regno del primo sovrano Stuart fu la pubblicazione della
versione autorizzata della Bibbia (Authorized Version of the Bible) nel
1611: frutto di oltre un quinquennio di lavoro condotto da cinquanta
studiosi, essa soppiantò tutte le altre versioni del Testo e si impose in
Inghilterra fino alla fine dell’Ottocento.
25
Sul fronte politico James, convinto che una guerra ideologica
avrebbe trascinato il continente in un generalizzato conflitto di religioni, fu
un sincero amante della pace e volle ergersi a paciere d’Europa. Appena
salito al trono, firmò con la Spagna il trattato di Londra del 1604, che
pose fine alla lunga ostilità anglo-spagnola. La pace, però, non riscosse
unanime consenso poiché i fautori della politica elisabettiana la
considerarono un tradimento, ma aprì la strada alla colonizzazione della
Virginia. L’avversione del re alla guerra da un lato lo indusse a caldeggiare
l’alleanza con la Spagna tramite il matrimonio tra l’erede Carlo e l’Infanta
– matrimonio che non andò in porto (tra la gioia degli inglesi) per le
esorbitanti richieste imposte da Madrid e per il rifiuto della Spagna ad
aiutare il genero di Giacomo Federico, Elettore del Palatinato, a recuperare
il Palatinato stesso da cui era stato espulso. Dall’altro, lo convinse a non
schierarsi con determinazione a fianco dei protestanti in quella che sarebbe
diventata la guerra dei Trent’Anni e ad aderirvi soltanto per riparare ai
torti (egli disse) commessi a danno dei suoi figli, Elizabeth Stuart e suo
marito Federico. Comunque l’aver trascinato l’Inghilterra nel conflitto è
imputato a demerito del sovrano inglese.
In ambito finanziario James I ebbe un solo, costante problema, la
carenza di risorse. Egli era indotto a spendere sia perché generoso,
specialmente verso i favoriti, sia perché riteneva che così si dimostrasse la
munificenza regia, sia perché le tre corti intorno a cui ruotava la vita
monarchica (quella di Giacomo, quella della moglie e quella del figlio
primogenito, che pure morì prematuramente) rappresentavano un onere
non indifferente. Fu anche per assicurarsi la ricca dote dell’Infanta che egli
progettò il ‘matrimonio spagnolo’ (the Spanish match), pur inviso ai
sudditi. Di norma, per far fronte alle difficoltà finanziarie egli procedette
alla vendita di titoli nobiliari (compreso quello di ‘baronetto’, da lui stesso
creato), come del resto aveva fatto, ma con molto minore frequenza, la
regina Elisabetta.
I lati deboli della sua personalità emergono sotto il profilo
individuale: la sua latente omosessualità lo indusse a circondarsi di
favoriti e la sua imprudenza a promuoverli ad alte cariche,
indipendentemente dalle loro capacità, e ad elargire loro monopoli quanto
mai invisi alla gente, e alla borghesia in particolare. Senza contare che una
corte nota per gli scandali – non solo quelli legati ai favoriti – non poteva
non alienare al sovrano la simpatia dei sudditi.
26
Quando morì, gli successe il secondogenito, Charles (il
primogenito Henry, forte personalità che rappresentava la continuazione
degli ideali elisabettiani, era stato stroncato diciottenne dalla febbre
tifoidea). Charles I (1625-1649) non fu come il padre un teorico
dell’assolutismo, ma governò inflessibilmente da sovrano assoluto. Nei
primi anni di regno sciolse tre volte il parlamento e dal 1629 non lo
convocò per oltre dieci anni, reggendo il Paese da solo, con un ‘governo
personale’ (personal rule). Negli anni di personal rule, pur mancando
l’unico organo deputato a concedere la riscossione delle imposte, se la cavò
abbastanza bene poiché anzitutto pose fine alle guerre con Spagna e
Francia, principali fonti di uscite, poi ridusse le spese della corte e infine
reperì le indispensabili risorse finanziarie grazie a una serie di espedienti,
alcuni peraltro illegali. Obbligò i piccoli proprietari ad accettare il titolo di
cavaliere, che comportava esborso di denaro, concesse monopoli che pure
gli portarono denaro, estese a tutto il regno certe tasse concepite
inizialmente per poche città, impegnò persino i gioielli della Corona. Per
contro, lati positivi del suo governo si riscontrano nei provvedimenti in
favore dei poveri, degli orfani e dei disoccupati, nonché nel mecenatismo
che lo spinse ad accogliere artisti di fama europea quali il fiammingo Van
Dyck, a cui si devono splendidi ritratti del re. Il regno di Charles I si
contraddistinse per le tensioni sul fronte religioso e politico. La moglie di
lui, Henrietta Maria, principessa francese cattolica, che egli sposò appena
asceso al trono, si circondava di gesuiti e di emissari della Chiesa di Roma,
mentre Carlo, pur anglicano convinto, amava il cerimoniale fastoso di
quest’ultima e condivideva con il padre la stretta alleanza tra la corona e
l’altare. Questo duplice fatto e la nomina di William Laud ad arcivescovo
di Canterbury suonarono come campanelli di allarme all’orecchio dei
puritani, che chiedevano un più netto distacco dal cattolicesimo e
osteggiavano le teorie di Laud – seguace a sua volta di quelle del teologo
olandese Arminio, molto vicino al cattolicesimo nel rifiuto delle
predestinazione, nella valorizzazione delle ‘buone opere’ (works) e nella
propensione per la solennità del cerimoniale.
27
pretesero di imporre alla Scozia calvinista e presbiteriana la liturgia e
l’organizzazione e piscopale dell’Inghilterra in nome della conformità
religiosa, cioè, in questo caso, dell’assoluta unità tra Stato e Chiesa. Dopo
un paio d’anni di vane trattative, il ricorso alla forza parve l’unica
soluzione possibile. Tuttavia gli scozzesi, fieri delle proprie tradizioni,
animati da un profondo spirito di indipendenza e da un radicato
puritanesimo, resistettero. Si combatterono allora le cosiddette Guerre dei
Vescovi (Bishops’ Wars), 1639-40. Il re, messo in difficoltà una prima
volta, dovette convocare il parlamento che, rimasto in seduta poche
settimane (aprile-maggio 1640), passò alla storia come Parlamento Breve
(Short Parliament). Il re avrebbe voluto che le Camere subito prendessero
in esame le sue richieste di sussidi per la guerra, ma esse pretesero di
sottoporre al re, per prima cosa in apertura dei lavori, le proprie
rimostranze, di cui il sovrano rifiutò di occuparsi giudicandole eccessive.
A questo punto il parlamento negò i sussidi per la guerra e il re lo sciolse
immediatamente. Deciso a portare avanti il conflitto da solo, non riuscì, a
corto di denaro com’era, a mettere insieme un vero esercito e fu sconfitto,
mentre l’Inghilterra veniva invasa fino a Newcastle. Charles I fu perciò
costretto nello stesso 1640 a riconvocare il parlamento – ricordato come
Parlamento Lungo (Long Parliament) poiché rimase in seduta fino al
1653, avendo ottenuto dal re che esso, ed esso soltanto, avrebbe potuto
decretare il proprio scioglimento. Il clima era teso, ma il parlamento – il
cui elemento trainante era la Camera Bassa – non pensava affatto di
muovere guerra al sovrano. Voleva soltanto discutere di ciò che non
funzionava: l’assolutismo, lo strapotere dei vescovi, le tasse illegali.
Davanti alla rigidità del monarca, l’assemblea di Westminster in poco
tempo impose misure nuove: si liberò degli elementi chiave favorevoli al
re (Laud fu arrestato nel 1641 e giustiziato quattro anni dopo), abolì la
censura (il che diede avvio a una pubblicistica di denuncia dai toni violenti
e talora scurrili che, unitamente alla predicazione puritana, impedì ogni
tentativo di mediazione a cui i lord e i moderati sarebbero stati favorevoli),
soppresse i tribunali, come quello della Camera Stellata (Star Chamber)
che giudicava i delitti contro la sovranità del re, dichiarò illegali le imposte
introdotte nell’ultimo decennio, ordinò la chiusura dei teatri (1642) e
avocò a sé alcuni dei poteri prima esercitati dal sovrano.
Il fatto preoccupò gli irlandesi, da sempre cattolici, i quali,
temendo venisse introdotta in Inghilterra e imposta loro una legislazione
anticattolica, nel 1641 insorsero, massacrando diverse migliaia di
28
protestanti. La rivolta, che in Inghilterra e in Scozia fu ritenuta esito di un
complotto per eliminare i coloni inglesi dell’Ulster e definita ‘massacro’
(massacre), venne raccontata con insistenza sulle atrocità perpetrate dai
ribelli e guardata con inquietudine, quale prodromo di una restaurazione
cattolica in Inghilterra, tanto più che parve che il re vi fosse implicato.
A Londra si pensò allora che bisognasse mettere in piedi un
esercito per combattere gli irlandesi: ma chi lo doveva guidare? Il re era
guardato con grande sospetto: e se avesse usasse l’esercito destinato alla
lotta in Irlanda contro l’Inghilterra stessa? L’incertezza diede slancio alla
teoria dei complotti che generò panico, alimentò il timore di alleanze del
re con potenze cattoliche (Spagna e papato) e rinverdì la memoria della
Congiura delle Polveri. Nel frattempo il puritanesimo aveva assunto precisi
connotati politici, con il netto prevalere dell’ala estremista. La situazione
peggiorò perché il re cercò di riprendere il controllo. Nel gennaio del 1642
egli andò di persona con una scorta armata alla Camera Bassa (dove
nessuno mai dei suoi antenati era entrato) con l’intento di arrestare cinque
parlamentari accusati di alto tradimento, ma la manovra fallì: i cinque,
avvertiti per tempo, avevano trovato rifugio nella City e il re dovette battere
in ritirata. I cinque rientrarono trionfalmente in parlamento pochi giorni
dopo.
Davanti al gesto di Carlo Londra insorse e il re lasciò la capitale
(gennaio 1642), deciso a risolvere il problema con la forza. Mentre
chiamava a raccolta i suoi fidi, il parlamento, a sua volta, cercò di mettere
insieme un esercito. Gran parte della popolazione, unita nell’odio contro i
cattolici, non era però politicamente schierata e sperava ardentemente che
la guerra civile fosse evitata, che si arrivasse a una soluzione di
compromesso o che, per lo meno, tutto si risolvesse in un’unica battaglia.
Inizialmente le due fazioni si divisero in base a principi di natura religiosa:
con il re stavano gli anglicani e i cattolici; con il parlamento i nemici
dell’episcopato, gli anticattolici, più o meno accaniti, i fautori di una chiesa
evangelica che desse importanza alla predicazione e alla disciplina morale,
oltre che sociale, cioè i puritani. Anche il tema del governo giocò un ruolo
di primo piano nella guerra: con il re si schierarono i fautori
dell’assolutismo (sul modello francese), con il parlamento i suoi avversari.
Le due fazioni si distinsero anche per opposti interessi economici: con il
re si allinearono molti aristocratici, parte della gentry, i grandi proprietari
terrieri (indagini locali dimostrano che le famiglie più abbienti erano
spesso divise tra le due fazioni, il che rese la situazione particolarmente
29
drammatica); con il parlamento si disposero gli elementi forti
dell’economia, cioè l’altra parte della gentry, qualche nobile non allineato,
la porzione più numerosa della borghesia dei traffici, delle libere
professioni e dell’artigianato, i piccoli proprietari terrieri. E il popolo?
Militava con la forza prevalente nella regione in cui abitava, con il re nel
nord-ovest, con il parlamento nel sud-est.
La guerra (di fatto le guerre furono due) scoppiò nell’agosto del
1642, tra incredulità e sgomento generale, e si tradusse in una serie di
scaramucce, di assedi e di incursioni con poche grandi battaglie. All’inizio
delle ostilità l’esercito regio, il cui nerbo era rappresentato dalla cavalleria
patrocinata dai nobili (Cavaliers furono infatti denominati i seguaci del
re), perse l’occasione di infliggere una sonora sconfitta alle truppe
parlamentari (chiamati Roundheads, ovvero Teste rotonde, dove il
nomignolo allude al taglio dei capelli, tenuti corti in contrasto con la moda
del tempo, in auge presso i nobili); poi le sorti continuarono alterne per
anni. Il re era forte nelle regioni di centro, nel sud-ovest, poi nel nord; il
parlamento dominava nel sud-est, la parte più ricca e avanzata del paese, e
controllava i porti. Nell’esercito parlamentare si mise in luce Oliver
Cromwell, gentiluomo di campagna dotato di grande talento organizzativo
e di saldissima fede calvinista, che già si era distinto in parlamento. Costui
approntò alla metà degli anni ’40 l’Esercito di Nuovo Modello (New
Model Army), religiosamente motivato, disposto a una ferrea disciplina,
forte della convinzione che la carriera si costruisse sul merito,
regolarmente pagato con il denaro che affluiva dalla City – mentre, per
contro, le truppe regie, con il passare del tempo e la riduzione drastica delle
rendite dei nobili, finirono per non essere più motivate e sciogliersi. Nel
marzo del 1646 l’ultimo esercito rimasto a Charles fu sconfitto. A maggio
il re si arrese agli scozzesi – alleati dei parlamentari – i quali, dopo un
periodo di trattative ricattatorie, lo consegnarono al parlamento di Londra
(febbraio 1647). Negli ultimi tempi del conflitto, che si protrasse fino al
1648, – mentre il re continuava a intavolare trattative ora con il parlamento,
ora con gli scozzesi nella speranza di dividere gli avversari – il popolo
espresse una sempre più vasta rimostranza contro le violenze e le
distruzioni della guerra, accomunando nel risentimento generale l’una e
l’altra parte, ree entrambe di tassazioni, multe, confische e violenza. Di
fatto per vincere, il parlamento aveva dovuto assegnare ai propri
rappresentanti poteri assoluti, talvolta in pieno contrasto con la legge.
Aveva dovuto inoltre promettere agli scozzesi che la Church of England
30
sarebbe stata riformata sia con l’introduzione del sistema presbiteriano e di
un nuovo manuale di culto, sia con l’abrogazione delle grandi festività
cristiane – proposta che non era piaciuta agli inglesi. Per di più in
parlamento proliferavano le sette – variamente denominate ma accomunate
sotto l’etichetta di Non conformists o Dissenters – tra cui quella dei
presbiteriani, che volevano imporre il culto e la gerarchia calvinista, e
quella degli indipendenti, guidata da Cromwell, che sosteneva ampia
tolleranza religiosa per tutti, salvo che per i cattolici, e propugnava libertà
di coscienza e di associazione religiosa. Da queste sette, caratterizzate
dall’eccezionale partecipazione delle donne, nacquero movimenti
religiosi destinati a radicarsi nella società anglosassone, come i quaccheri
(Quakers, coloro che ‘tremano’ davanti a Dio) e i battisti (Baptists,
convinti che il battesimo vada somministrato agli adulti), mentre erano
evidenti agli stessi contemporanei i legami tra le sette e i movimenti
politici: i livellatori (Levellers), più moderati, che si prefiggevano di
‘livellare’ le distinzioni sociali rivendicando la sovranità popolare, e i più
radicali zappatori (Diggers), così denominati perché comparsi sulla scena
dissodando terre comuni incolte, che propugnavano l’abolizione della
proprietà privata.
La guerra non aveva risolto niente. Alla fine delle ostilità il
parlamento si trovò di fronte a due uniche alternative: o capitolare davanti
a un re, inaffidabile nel comportamento, e quindi accettare il suo ripristino
sul trono, o toglierlo di mezzo, affrontando l’ignoto di una situazione senza
precedenti. Solo un’esigua minoranza di parlamentari era favorevole alla
seconda soluzione. Ma l’esercito marciò su Londra ed epurò il parlamento:
metà dei parlamentari, i realisti e i moderati, furono arrestati e molti dei
non arrestati boicottarono l’assemblea mutilata, il così detto Parlamento
Troncone (Rump Parliament). La decisione di processare il re fu presa da
un numero assai limitato di parlamentari, che avocò a sé tutti i poteri. Il re
fu processato, dichiarato reo di alto tradimento e messo a morte nel gennaio
1649: la dignità e il coraggio con cui Charles affrontò l’esecuzione fece di
lui, nell’opinione pubblica, un martire. Il fatto suscitò immenso scalpore in
Europa – mai prima di allora un re era stato giustiziato in nome della
sovranità popolare –, mentre l’immagine del re martire fu consacrata dalla
sua autodifesa, Eikon Basiliche (L’immagine del re), sul cui frontespizio
appare il sovrano devotamente e mestamente inginocchiato in preghiera. Il
testo incontrò uno strepitoso successo editoriale in tutto il continente e
provocò ondate di indignazione verso coloro che avevano messo a morte
31
l’'unto' del Signore. Il parlamento affidò la risposta all’apologia di Carlo al
poeta e trattatista John Milton che in due scritti, Eikonoklastes e Pro
populo anglicano defensio, demistifica la monarchia, potere di natura quasi
superstiziosa, e rivendica il diritto di ogni popolo libero di deporre e punire
i tiranni.
Il conflitto si era concluso nel giro di pochi anni con la vittoria dei
parlamentari, la messa a morte del re, l’esilio e la perdita dei beni di quasi
tutti i suoi sostenitori, e la proclamazione della Repubblica unita
d’Inghilterra, Scozia e Irlanda (Commonwealth).
Dall’una e dall’altra parte la guerra era stata un orrore . Le
truppe si erano acquartierate in alloggi di civili requisiti, tra disordine e
rapine. La violenza aveva trionfato ovunque. I furti erano stati all’ordine
del giorno. Gli spostamenti di truppe avevano distrutto i raccolti. Per di
più, il cattivo tempo dei tardi anni ’40 aveva provocato gravi danni
all’agricoltura e quindi causato l’aumento dei prezzi dei generi alimentari
che, insieme alle tasse pesanti, aveva innescato una recessione gravissima
per i più poveri.
Che cosa fu la Rivoluzione inglese?
Così scrive Christopher Hill (1940) in quello che ancora oggi è
considerato un classico sull’argomento:
the English Revolution was a great social movement like the French
Revolution of 1789. The state power protecting an old oder that was
essentially feudal was violently overthrown, power passed into the hands
of a new class [la borghesia], and so the freer development of capitalis m
was made possible. The Civil War was a class war, in which the
despotism of Charles I was defended by the reactionary forces of the
established Church and conservative landlords.Parliament beat the King
because it could appeal to the enthusiastic support of the trading and
industrial classes in town and countryside, to the yeomen [piccoli
proprietari terrieri] and progressive gentry and to wider masses of the
population […]
32
Ma come mai Carlo I perse l’appoggio di tutte quelle forze sociali?
Perché non seppe conciliare gli interessi della borghesia con quelli
dell’aristocrazia come aveva fatto Elizabeth, e ripeté accentuandoli gli
errori paterni. James I, privo del carisma di Elisabetta, colto ma di
carattere chiuso, incline a pratiche che suscitavano indignazione (vendita
dei titoli nobiliari, favore accordato a persone immeritevoli), non si era
fatto amare dal popolo, si era alleato all’aristocrazia terriera non
imprenditoriale, agli elementi parassitari dello stato (spesso avidi
cortigiani), alla Chiesa anglicana (“no Bishop no King”). Il figlio Charles
I aveva rafforzato attraverso l’arcivescovo Laud l’alleanza con la Chiesa –
una Chiesa vicina a quella cattolica, almeno negli aspetti esteriori, odiosa
agli anglicani – e favorito l’aristocrazia. Del resto, l’una e l’altra
dipendevano dal re. L’aristocrazia aveva bisogno del sovrano per ottenere
sia gli incarichi per i figli cadetti, sia i monopoli – quei monopoli che
garantivano lauti profitti senza nessuno sforzo produttivo, ma che
imbrigliavano l’economia, facendo venir meno la concorrenza. Quanto alla
Chiesa, essa si appoggiava al re come al solo baluardo in grado di
difendere le sue proprietà, concupite dalla gentry imprenditoriale; in
compenso, come si è detto, sosteneva la monarchia attraverso la
predicazione, raccomandando il rispetto della gerarchia e valorizzando
l’operato del sovrano. La borghesia (e in genere le classi medio-alte) che
odiava i monopoli, il parassitismo e il cattolicesimo, non poté che
schierarsi con il parlamento.
La guerra poteva essere evitata?
Secondo una scuola di pensiero, non poteva essere evitata perché
rappresentò l’esito di uno scontro tra gli interessi del nascente capitalismo
e un sistema di governo ancorato al Medioevo. Secondo un’altra scuola di
pensiero, avrebbe potuto essere evitata perché fu dovuta a una serie di
sciagurati errori, primo fra tutti l’adozione da parte del sovrano di un
comportamento ora atto a generare incertezza e sospetto (in quali veri
termini si poneva il re con il papato?), ora chiaramente anticostituzionale
(come il tentato arresto in parlamento dei membri della Camera Bassa). In
ogni caso, al centro della guerra c’erano due problemi squisitamente
moderni, la gestione del potere e il rapporto tra Stato e Chiesa.
Chi era il puritano?
In prima istanza, secondo il significato religioso, puritano era colui
che auspicava una riforma della Chiesa più accentuata in direzione
anticattolica, per una compagine religiosa più pura, svincolata dal potere
33
politico, ostile al teatro e al piacere, tesa a valorizzare l’interiorità e
l’integrità morale, incline a un culto semplice in chiese sguarnite di
paramenti e prive di immagini sacre. Quale calvinista di rigida osservanza,
il puritano credeva nella predestinazione e nel patto di salvezza promesso
da Dio ad Abramo ed esteso alla comunità degli eletti. Queste idee, sia pure
con netti distinguo, circolavano nell’Europa riformata, anche se un lontano
precedente inglese del movimento puritano (e, per molti aspetti, dello
stesso Lutero) si può individuare in John Wycliffe (XIV secolo), primo
fautore della traduzione della Bibbia in vernacolo, il quale, con i suoi
seguaci, i Lollardi, si batté contro la corruzione della Chiesa romana –
venditrice di indulgenze, amante di arredi lussuosi e di immagini sacre, che
ispiravano l’idolatria –, predicò il ritorno a una Chiesa precostantiniana e
alla povertà evangelica, professò il valore assoluto delle Scritture, integrate
dalla Tradizione, e credette nella predestinazione.
In seconda istanza, sul fronte politico, puritano era colui che si
opponeva a una gestione della cosa pubblica basata sulla gerarchia e
sull’episcopato – e queste idee già serpeggiavano in età elisabettiana,
quando i puritani fecero la loro comparsa sulla scena politica inglese. Nel
linguaggio comune, infine, il termine era usato dai conformisti con valore
spregiativo per connotare i faziosi, gli scontenti, i contrari a ogni gerarchia.
Ritenendo che le Scritture, depositarie delle fede, dovessero essere
trasmesse, spiegate e insegnate, i puritani annettevano al pulpito, luogo
della predicazione, un’importanza superiore a quella dell’altare, luogo
della liturgia, e si attenevano alla prassi di prendere appunti durante
l’ascolto dei sermoni. La predicazione costituiva l’unico comune mezzo
di salvezza (“the only ordinary means of salvation”) e giustificava
l’auspicio che la parola di Dio fosse portata fino negli angoli più remoti del
Paese. Se la fede dava la salvezza, un segno dell’approvazione di Dio si
poteva cogliere nel successo economico, esito di un tenace impegno nel
lavoro. Ecco perché tanti puritani – la gente che si dà da fare (“the
industrious sort of people”), avversa agli sprechi, all’ostentazione,
all’indolenza, al piacere, strenuamente convinta della dignità del lavoro,
animata da profondo senso del dovere e della disciplina – uscirono per lo
più dai ranghi della piccola, media o alta borghesia. Ecco perché il
puritanesimo tanto contribuì alla nascita del capitalismo.
34
nell’omonimo primogenito di Charles I il nuovo re, salutato come Charles
II all’indomani della morte del padre. Si tornò quindi alle armi. Charles II,
sconfitto, fuggì in Francia, la Scozia fu dall’esercito integrata nella Gran
Bretagna, l’Irlanda cattolica fu soggiogata tra feroci massacri di civili –
evento senza precedenti nella storia d’Inghilterra, che segnò l’origine
dell’odio degli irlandesi per l’Inghilterra stessa – e l’Olanda fu coinvolta
in una guerra navale che, pur intervallata da periodi di pace, si sarebbe
protratta per vent’anni. Oltre che in lotte esterne il Paese fu impegnato in
lotte interne contro le sette, che avevano intenzioni molto diverse sul modo
di gestire la cosa pubblica: alcune volevano il diritto di voto per tutti i
maschi, altri un regime comunistico, altri ancora una repubblica di santi
che preparasse il ritorno del Cristo. Quando nel 1649 insieme alla persona
del re caddero la monarchia, la Camera Alta e la Church of England, molte
cose sarebbero dovute cambiare, ma così non fu. Rimase una chiesa
nazionale, a cui il fedele non era obbligato ad aderire, purché versasse le
decime (in tal modo si tornò alla liturgia anglicana e al rispetto delle grandi
festività cristiane); il Rump Parliament governò rispettando le autorità
locali fino al 1653 e l’esercito continuò ad essere il perno del regime. Nel
frattempo Cromwell si trasformava in un despota, pronto a sciogliere il
parlamento e a imporre tasse illegali per mantenere l’esercito e la marina,
ormai essenziali alla politica espansionistica dell’Inghilterra.
Dal 1653 alla morte (1658) egli resse l’Inghilterra come lord
protettore e capo dell’esecutivo, mentre il Long Parliament era stato
sostituito da un nuovo parlamento, composto in prevalenza da puritani
indipendenti. Anche se la libertà religiosa era assicurata a tutti, tranne che
ai cattolici e ai fautori dell’episcopalismo, il protettorato fu di fatto una
dittatura militare. Esso fu segnata da un espansionismo aggressivo che,
vuoi per le operazioni belliche (compresa quella contro la Spagna, a cui fu
strappata l’isola di Giamaica, futuro fulcro della tratta degli schiavi, o
quella contro l’Olanda, che venne alla fine sconfitta), vuoi per i trattati
commerciali (stipulati con il Portogallo e i paesi baltici), costituì la ripresa
dell’espansione marittima e commerciale iniziata sotto Elizabeth e
inaugurò l’era dell’imperialismo britannico.
Tornando per un momento a Cromwell, si può pensare che, se
fosse stato un po’ meno rigido, avrebbe forse potuto instaurare un governo
duraturo. Ma era un calvinista ortodosso e in più un conservatore dal
punto di vista sociale. Convinto di avere un dovere da compiere per volontà
divina, non si curava delle libertà civili e legali, incarcerava senza
35
processo, imponeva tasse per decreto. Paradossalmente, a lui, regicida, fu
offerta la corona, ma gli fu offerta – paradosso nel paradosso – per limitare
il suo debordante potere. Tuttavia, considerando che le restrizioni erano
estranee alla missione che pensava gli fosse stata affidata da Dio, Cromwell
rifiutò la corona. Finché visse, ebbe l’appoggio della gentry di campagna
e, ovviamente, dell’esercito. Era infatti Cromwell uno strano ibrido, tra il
radicale religioso e il conservatore sociale, tra il gentiluomo di campagna
e il soldato di professione, nel contempo fonte di stabilità ma anche, per
incapacità di scendere a compromessi, di instabilità.
36
satirico di John Dryden Absalom and Achitofel. L’Exclusion Crisis fu
provocata dal tentativo del partito whig (a cui si accenna qui sotto),
fondato proprio in quegli anni insieme al partito tory, di indurre il
sovrano, che non aveva figli legittimi (ma …17 figli illegittimi), ad
escludere dalla successione il fratello James, cattolico dichiarato,
adducendo come pretesto un inesistente complotto cattolico ai danni della
vita di Charles II, che mirava a consegnare il trono al fratello. Carlo,
comunque, reagì energicamente e Giacomo venne confermato erede al
trono.
Due parole, prima di continuare, sui partiti politici emersi dalla
Exclusion Crisis. Essi furono qualificati attraverso nomignoli non
proprio… celebrativi loro attribuiti dai rispettivi avversari: il termine whig,
di origine scozzese, indicava i presbiteriani più fanatici; il termine tory, di
origine irlandese, significava ‘sicari prezzolati’, banditi di strada. Nel gir o
di un paio di decenni i partiti assunsero caratteristiche precise: i whigs, o
liberali, erano coinvolti direttamente nei grandi traffici e nel potenziamento
economico dei terreni agricoli e godevano dell’appoggio di capitalisti e
industriali; i tories, o conservatori, erano nobili di campagna, poco
entusiasti del principio della sovranità popolare, spesso simpatizzanti della
causa Stuart. Inoltre i whigs erano favorevoli alla libertà religiosa e
sostenevano che nessun governo potesse rimanere in carica se non
aveva il consenso del parlamento – principio, questo, fondamentale che
regge tutti i sistemi parlamentari oggi esistenti; i tories, invece, erano aperti
difensori della Chiesa anglicana contro le minoranze dei nonconformisti e
sostenitori della teoria del diritto divino.
L’evento più significativo, a livello socioculturale, del regno di
Charles II fu la costituzione nel 1662 dell’Accademia nazionale delle
scienze, la Royal Society. L’anno più clamoroso fu, mi pare, il 1665-1666,
in cui si verificarono la vittoria navale all’inizio della seconda guerra
anglo-olandese, di cui serba memoria l’apertura del trattato dialogico di
John Dryden Of Dramatick Poesy e la prima parte del suo poema Annus
Mirabilis (che di fatto tratta delle tre battaglie contro l’Olanda del 1665-6),
una grave epidemia di peste (the Great Plague), l’ultima nella storia
inglese, ritratta in A Journal of the Plague Year di Daniel Defoe, e il
famoso incendio di Londra (Great Fire of London), suggestivamente
ricordato nelle pagine del Diary di Samuel Pepys (Pi:ps) e prospettato in
chiave retorica nella seconda parte del poema di Dryden Annus Mirabilis
– incendio che nel giro di una settimana distrusse gran parte della capitale.
37
Quando Charles II morì, il Paese accolse senza proteste l’avvento
del cattolico James II (1685-1688), ormai cinquantenne, sposato da dieci
anni in secondo matrimonio, senza figli, poiché tutto lasciava presumere
che il trono sarebbe passato alla figlia Maria, protestante, avuta dal
precedente matrimonio, e al marito di lei, William III of Orange, campione
europeo del protestantesimo. Tuttavia nel 1688 a Giacomo nacque un
figlio, che diede adito alle preoccupazioni di quanti vedevano nell’erede la
minaccia del perpetuarsi di una dinastia cattolica. Allora i capi whig e tory
si accordarono per sollecitare un intervento di William of Orange,
statolder d’Olanda, al fine di salvare la religione protestante dalle mire di
James che aveva apertamente favorito i cattolici. Senza esitare Guglielmo
organizzò una spedizione militare che sbarcò in Inghilterra nel novembre
1688, mentre James II, vistosi isolato in seguito alla diserzione delle sue
truppe e dei suoi ministri, fuggì in Francia, presso Luigi XIV. Il pronto
intervento di William si spiega alla luce della sua speranza di avvalersi
delle forze inglesi per muovere guerra alla Francia, il cui strapotere
minacciava l’Europa e in prima istanza l’Olanda da cui William proveniva.
Il suo esercito non si scontrò mai con quello di James: infatti la sua è
definita rivoluzione gloriosa (Glorious Revolution), non solo perché
avvenne senza spargimento di sangue e con il consenso della maggior parte
della popolazione, ma anche perché poteva essere giustificata come
restaurazione della legalità violata da James II. Teorico della rivoluzione
gloriosa fu il filosofo John Locke, i cui Due trattati sul governo, scritti in
gran parte prima della rivoluzione, sottolineano che il doppio potere, cioè
il potere diviso tra parlamento e sovrano, è sicuro ed efficiente.
Il parlamento, dichiarato il trono vacante e quindi elettivo, offrì la
corona congiuntamente a William of Orange e a Mary II Stuart (1689-
1702). Pose nel contempo precise condizioni espresse nella Carta dei
Diritti (Bill of Rights) del febbraio 1689, che sancì il passaggio dalla
monarchia assoluta alla monarchia costituzionale e affermò il concetto
dell’esistenza di un contratto tra re e parlamento. Nel Bill of Rights si
fissavano i limiti posti alla monarchia (l’attività legislativa spetta al re e al
parlamento, il re non può esentare nessuno dall’osservanza della legge, né
mantenere un esercito in tempo di pace senza il consenso del parlamento;
il parlamento, convocato almeno ogni tre anni, è liberamente eletto e ha
totale libertà di discussione; nessun cattolico può essere re), mentre si
ribadivano i diritti inalienabili dei cittadini.
38
Il regno di William e Mary fu contrassegnato dalla lotta a Luigi
XIV di Francia, leader del cattolicesimo, protettore di James II e,
soprattutto, fautore di una politica espansionistica. La guerra, combattuta
da un’intera coalizione antifrancese (la Lega d’Augusta), proseguì tra sorti
alterne e si concluse con un trattato di pace (pace di Ryswick, Olanda,
1697) che pose freno alle ambizioni egemoniche francesi e segnò la
supremazia dell’Inghilterra sui mari. Il conflitto anglofrancese inoltre
obbligò l’Inghilterra – importante novità – a costruire un robusto apparato
fiscale, amministrativo e finanziario alla cui gestione contribuì in misura
essenziale la creazione della Banca d’Inghilterra (Bank of England) nel
1694, mentre di pari passo si veniva costituendo una solida burocrazia
centrale e periferica, fino a quel momento quasi inesistente. Nel contempo
le manifatture e i traffici continuarono ad espandersi, il che pose le basi
per la “rivoluzione industriale” del Settecento.
Già prima della morte di William nel 1702 (Mary era deceduta nel
1694 ed egli non aveva eredi), fu il parlamento nel 1701 con l’atto di
Successione (Act of Settlement) ad assegnare il trono a Anne (1702-1714),
secondogenita di James II – a scapito di James Francis Edward, figlio
tardivo di James II, riconosciuto dall’anziano Luigi XIV quale sovrano
legittimo d’Inghilterra – e poi alla dinastia tedesca degli Hannover,
protestante e imparentata per ramo femminile con James I. Fissando
l’ordine di successione, l’atto conferma l’importanza determinante che il
parlamento rivestiva nella vita politica del Paese.
Durante il regno di Anna si verificò un’altra importante trasformazione di
ordine costituzionale. Dal 1603 Scozia e Inghilterra, pur unite sotto la
stessa dinastia, erano due stati distinti, con capitali e parlamenti separati. Il
Trattato di Unione (Treaty of Union) del 1707 portò all’unificazione
dell’Inghilterra e della Scozia e creò il Regno Unito di Gran Bretagna
(the United Kingdom of Great Britain) che attribuì agli scozzesi
rispettivamente 16 e 45 nuovi posti nelle due Camere dell’unico
parlamento di Londra. La Scozia, però, forte del suo orgoglio nazionale e
spirito di indipendenza, nel giro di quarant’anni si rivoltò due volte contro
l’Inghilterra, a favore del pretendente Stuart, che riuscì a occupare
Edimburgo e a invadere l’Inghilterra finché non subì una dura sconfitta.
Essa segnò la fine della causa giacobita e un periodo di disgrazia per i
tories, sospettati di aver appoggiato lo Stuart.
Alla morte di Anna, come era stato previsto dall’Act of Settlement,
la corona passò a George I Hannover (1714-1727), nonostante
39
l’insurrezione degli scozzesi, che sostenevano la dinastia Stuart. George I
(come del resto suo figlio), di lingua e cultura tedesca, delegò l’attività
governativa agli esponenti whig di cui uno, Robert Walpole , rimase in
carica come primo ministro ininterrottamente per un ventennio, dal 1721
al 1742. Si creò a quell’epoca il governo di gabinetto, secondo il quale il
compito di governare un Paese fu svolto, in nome e per conto del re, da un
primo ministro e dai suoi collaboratori.
La dinastia Hannover occupò il trono d’Inghilterra durante tutto il
Settecento, un’età fondamentale nella storia del Paese in virtù delle sue
‘rivoluzioni’: demografica, agricola e industriale.
40
Questo cambiamento creò complementarietà tra l’allevamento del
bestiame e la cerealicoltura. Il progresso si fece più marcato allorché si
diffusero attrezzi di lavoro più efficienti come la seminatrice e il coltivatore
trainato da un cavallo di Jethro Tull, nonché l’aratro interamente in ferro
introdotto nel 1771, e si avviarono pratiche agricole più razionali, illustrate
nei testi di agronomia, come quelli dello stesso Tull e i famosi resoconti
dei viaggi attraverso l’Inghilterra di Arthur Young (1768-1770), fitti di dati
sulla conduzione delle proprietà agricole e traboccanti di entusiasmo per la
nuova agricoltura.
Un altro settore che realizzò notevoli progressi nel ’700 fu
l’allevamento del bestiame : poiché con il crescere della popolazione
occorrevano più latte, di rado bevuto allo stato naturale ma trasformato in
burro e formaggio, ma anche più carne e più lana, ci si preoccupò di
migliorare la qualità degli animali, favorendone l’aumento di peso e di
dimensioni.
Fu comunque nell’industria che si verificarono i progressi più
rilevanti. Anche la rivoluzione industriale (la prima, per non confonderla
con la seconda, che ebbe luogo nell’Ottocento) sperimentò un lungo
periodo di incubazione. L’inizio si può infatti collegare alle filature
casalinghe di età elisabettiana, insediate nei villaggi e nei piccoli centri
urbani, che continuarono nel Seicento, nonostante il basso livello di
produttività, gli alti costi e il ridotto raggio di domanda e offerta. Dopo la
Restaurazione, tuttavia, l’Inghilterra, prima in Europa, avviò quel processo
di lenta durata, tra continuità e discontinuità, che l’avrebbe portata nel ’700
non soltanto a una totale ristrutturazione della produzione manufatturiera
(nella quale alla filatura della lana si sostituì quella del cotone, con risultati
sbalorditivi dacché la materia prima smise di essere importata, ma fu
prodotta direttamente nelle colonie americane – quelle che l’Inghilterra
avrebbe perso nel 1781, alla fine della guerra di indipendenza) – ma anche
a una profonda trasformazione nell’ambito minerario ed edile. Ciò dipese
dalle molteplici invenzioni e innovazioni introdotte nel processo
lavorativo (quali l’invenzione della spoletta volante nel 1733 e l’impiego
della macchina a vapore nel 1775), da uno stretto rapporto tra industria e
tecnologia, dall’investimento di capitali cospicui, dalla nuova
organizzazione del lavoro che progressivamente sostituì alla produzione
domestica quella eseguita nella fabbrica. Essa, a sua volta, creò una
tipologia urbana e sociale fino a quel momento inedita, cioè la città
41
industriale moderna e la classe dei salariati proletari, in parte costituita
dagli emarginati di un tempo, i poveri e i vagabondi.
In tal modo il cerchio si chiude: come le enclosures generarono,
nell’arco di due secoli, la ‘rivoluzione’ agraria, decretando il successo della
classe imprenditoriale e la miseria degli emarginati, le vittime delle
enclosures stesse alimentarono la ‘rivoluzione’ industriale, distribuendo
opulenza agli uni e sofferta indigenza agli altri.
Parte I
Introduzione
42
con la poesia. Prima di venire alla ribalta alla corte di Enrico VII
d’Inghilterra, la poesia ha compiuto un cammino secolare in Europa che
pare opportuno delineare in pochi tratti essenziali. In I.1 si considera
l’evoluzione della poesia greca e latina 1 , si segnalano le traduzioni inglesi
dei testi poetici dell’antichità redatte tra l’inizio del ’500 e la fine del ’6002 ,
si suggerisce con qualche esempio come le opere classiche, nell’originale
o in traduzione, abbiano inciso sugli scritti inglesi del periodo preso in
esame. In I.2 un rapido panorama delle letterature in volgare apre la strada
alla disamina di alcuni momenti della poesia inglese del XVI e XVII
secolo.
I.1 L’evoluzione dei generi poetici dalle origini alla comparsa dei
linguaggi volgari
In Grecia la letteratura, prima in ordine di tempo in Europa, nasce
in forma poetica – con la poesia epica, la poesia didascalica e la poesia
lirica, corale o monodica. La poesia all’inizio si diffuse per via orale; poi
tra la fine del V e l’inizio del IV secolo a.C. (il grande momento del teatro
greco) incominciò ad affermarsi la prassi di usufruire della letteratura in
forma scritta. Il pubblico, che prima ascoltava l’aedo cantare, ora legge o,
meglio, ascolta una persona alfabetizzata che legge a un gruppo di astanti.
La lettura inizia come lettura pubblica, ad alta voce, poi, ma solo nella tarda
antichità, diventa individuale e silenziosa.
1 A Del Corno, 1993, Conte, 1992, e Citroni et alii, 1997, si devono le osservazioni
qui riportate. A questi testi si rimanda per indagini su temi ed autori.
2 I dati sono desunti dalla New Cambridge Bibliography, I, 1974: 2175-2179, e II,
1971: 1487-1502.
3 Come è noto, l’Iliade canta l’episodio cruciale e definitivo della guerra tra greci
e troiani intorno alla città di Troia (chiamata anche Ilio), mentre l’Odissea racconta
il ritorno di Ulisse (in greco Odisseo) da Troia alla nativa Itaca e la sua successiva
riconquista del trono, minacciato dai pretendenti della moglie Penelope.
43
Omero, massimo poeta dell’antichità. I poemi epici, composti in esametri,
cantano le gesta degli eroi in cui si incarnano i valori condivisi della
comunità e hanno valenza corale. Materia dell’epica sono le battaglie, gli
assedi, i duelli; i protagonisti sono eroi posti in situazioni che mettono alla
prova la loro tempra. Nell’epica si sfidano due eserciti, due popoli, due eroi
di segno opposto, talvolta portatori di ideologie contrastanti. I luoghi e il
tempo della vicenda sono di norma riconoscibili; il tono è serio, alta la
tensione morale, alto lo stile. In età ellenistica, nel III secolo a.C., il genere
epico riemerge con le Argonautiche di Apollonio Rodio. Il poema narra la
leggenda di Giasone, il suo sofferto viaggio con gli Argonauti verso la
favolosa Colchide, ad est del mar Nero, il recupero del vello d’oro e il
lungo, travagliato ritorno in patria degli eroi. Se l’impresa in Colchide è
parallela a quella dei greci a Troia, i viaggi per mare con cui l’impresa si
apre e si conclude risentono dell’influsso dell’Odissea. Centrale alla
vicenda, l’amore passionale e totalizzante della tormentata Medea per
Giasone, che già nel poema si profila destinato a un epilogo devastante.
Anche la letteratura latina inizia con l’epica e, non a caso, con
una versione dal greco. I latini, bilingui, furono i primi traduttori (Porter,
1993: 132) e nella traduzione videro un mezzo per potenziare e arricchire
la lingua nativa. Nel III secolo a.C., quando nasce il teatro di Plauto, Livio
Andronico stende la traduzione dell’Odissea, operazione fondamentale sia
perché mette a disposizione della latinità un testo base della cultura greca,
sia perché offre una versione che mantiene “la qualità artistica del
modello” (Conte, 1992: 28). A fine secolo il Bellum Poenicum di Nevio
affronta un argomento di storia romana quasi contemporanea, la prima
guerra punica, ma in un’ampia digressione tratta anche del viaggio di Enea
e della fondazione di Roma, associando in tal modo storia e mito, viaggi e
guerra. Dei due poemi, scritti nel verso latino arcaico, il saturnio, restano
soltanto frammenti. Nel II secolo a.C. compare il maggior testo epico
anteriore all’Eneide, gli Annales di Ennio, che associano lo stile e i moduli
espressivi omerici, partendo dal verso, l’esametro, a un tema nazionale, la
storia di Roma, raccontata in ordine cronologico attraverso le imprese di
eroi chiamati a interpretare le virtù dell’intero popolo romano. Nell’era di
Ottaviano Augusto (per convenzione racchiusa tra la seconda metà del I
secolo a.C. e i primi decenni dell’era cristiana) l’epica latina continua
nell’intento storico-celebrativo degli Annales e raggiunge la più matura
L’Odissea appartiene al genere dei nóstoi, poemi che cantano il ritorno di singoli
eroi greci alla terra d’origine.
44
espressione artistica con l’Eneide, l’ultima e più impegnativa opera di
Virgilio, morto nel 19 a.C. Oggetto del poema, il peregrinare di Enea nel
Mediterraneo dopo la caduta di Troia, alla ricerca della nuova patria
destinatagli dagli dei, l’arrivo nel Lazio, riconosciuto come terra promessa,
la lotta con i Latini (che richiama le guerre civili da cui Ottaviano era uscito
vincitore) e l’esaltazione della missione di Roma nel mondo. Di segno
opposto rispetto all’Eneide, mitica e celebrativa, la Pharsalia del
giovanissimo Lucano, composta in epoca neroniana (54-68 d.C.) intorno
alla guerra civile tra Cesare e Pompeo – il cui scontro definitivo era
avvenuto appunto nella piana di Farsàlo – denuncia “il rovinoso tracollo
della libertas repubblicana” (Citroni, 1997: 557), deplora l’atrocità della
guerra fratricida e ostentatamente condanna il regime imperiale. In epoca
flavia (69-96 d.C.) l’epos storico continua con il vasto poema di Silio
Italico Punica, al centro del quale si staglia, quale eroe negativo, Annibale,
sconfitto da Scipione, e con la Tebaide (92 d.C.) di Stazio, che nel trattare
delle lotte tra i figli di Edipo, Eteocle e Polinice, con il loro spaventoso
esito di rovina e di orrore e nell’indicare in Teseo una via di uscita dalla
catastrofe, segue “a distanza”, con umile rispetto, il modello virgiliano. Un
nuovo genere di epos, diverso dall’epico-guerresco tradizionale, era stato
proposto da Ovidio nelle Metamorfosi, ma di ciò si parlerà più avanti.
45
poeta didascalico è il vate chiamato a dire la verità religiosa e morale. Il
pubblico dell’epica, molto vasto, comprende quello delle corti e quello dei
mercati, che si raduna intorno a cantori, aedi, rapsodi. Il pubblico del
poema didascalico, pure vasto, è più omogeneo: agli uomini di corte poco
importa sapere come o quando si semini il grano.
La poesia didascalica, nella sua doppia valenza religioso-filosof ica
e precettistico-morale, ritorna nella letteratura latina del I secolo a.C., dove
trova massima espressione nel De rerum natura di Lucrezio e nelle
Georgiche di Virgilio. Il De rerum natura illustra i principi della filosofia
epicurea, dalla fisica all’antropologia alla cosmologia, indagando i
fenomeni naturali (fulmini e terremoti) e gli aspetti più importanti della
vita dell’uomo, dalla nascita alla morte all’amore. Le Georgiche, ispirate
ad un alto progetto morale che riflette l’ideologia augustea – costruita sulla
pace, sulla sicurezza e, pur nascendo da una rivoluzione, sul “ritorno al
passato, alle tradizioni della res publica” (Citroni, 1997: 308) – cantano
l’etica del lavoro agricolo, il labor improbus del colonus che è anche arte:
se in una lotta dura e incessante il contadino piega la natura alle proprie
necessità, con vari artifici (ad esempio, l’innesto) la modifica a proprio
vantaggio. Le Georgiche non danno voce solo al lavoro, ma anche alla
gioia di vivere in un ambiente sereno, lontano dagli affanni della città, nel
rispetto della natura, della famiglia e delle tradizioni. Accanto a scritti
didascalici impegnati ne coesistono altri di genere più lieve, come il ciclo
di precettistica amorosa (Ars amatoria, Remedia amoris, Medicamina
faciei) di Ovidio, spiritoso e ironico “regista della relazione erotica”
(Conte, 1992: 277) – ruolo plausibile in una società pacificata e prospera.
Un posto a sé occupa l’Ars poetica (o Epistula ad Pisones) di Orazio, di
ispirazione aristotelica, che diventerà il punto di riferimento per i teorici
del neoclassicismo europeo tra ’500 e ’600. L’opera espone i principi
ispiratori della poesia augustea: l’ideale di un’arte equilibrata e composta;
la volontà di miscere utile dulci, per cui lo scritto deve dare piacere e, al
tempo stesso, perseguire fini morali; la necessità che al talento (o ingenium,
simile al wit di Lyly) si associ il mestiere (ars), caratterizzato da un
paziente labor limae; l’importanza della coerenza stilistica, o decorum.
46
alla poesia giambica e all’elegia (che gli antichi non consideravano
“lirica”), la lirica (o melica) corale, per coro e con danze dei coristi, e la
lirica (o melica) monodica, per una sola voce.
La poesia giambica, così detta dal metro che la contraddistingue,
ruota intorno all’invettiva e all’irrisione, ma accoglie anche altri temi,
l’eros, la poesia e il vino. L’autore più significativo è Archiloco (VII secolo
a.C.), affascinante coagulo di passione e saggezza, odio e amore. Scrisse
poesia giambica a Roma il giovane Orazio degli Epodi (30 a.C.) che
riprende, addolcendolo, lo spirito aggressivo di Archiloco.
L’elegia, chiamata così dal metro che la connota, in Grecia è
impiegata in occasioni pubbliche (per incitare all’eroismo con lo spartano
Tirteo) e private (per evocare il senso doloroso della precarietà della vita
con Mimnermo). A Roma, in età augustea, si caratterizza invece in senso
apertamente soggettivo e sarà quindi esaminata più avanti.
La lirica corale 4 era legata a particolari occasioni, come feste
religiose o sportive, e si rivolgeva a una comunità più ristretta rispetto a
quella dei fruitori dell’epica, ma pur sempre abbastanza vasta, anche se
condizionata dalla specificità dell’evento oggetto del canto. Massimo
rappresentante della lirica corale, famoso per gli epinici e noto per i suoi
arditi, inimitabili passaggi verbali, è Pindaro (V secolo a.C.). I temi della
lirica corale furono ripresi nella letteratura latina da Orazio, le cui Odi
“romane” riflettono l’ideologia nazionale (la lode del principe pacificatore,
la denuncia del lusso, la celebrazione delle antiche virtù morali e civiche,
la bellezza del morire per la patria), raggiungendo punte di vibrante
tensione per un pubblico di raffinati intenditori: Odi profanum vulgus.
47
carattere apparentemente soggettivo che costituisce la cifra di buona parte
della poesia oggetto di questo studio. Annota Del Corno (1993: 79),
riferendosi alla melica greca:
Quando l’autore dice “io”, ciò non significa necessariamente che
traduca in parole poetiche un’esperienza da lui realmente vissuta,
ma che egli tratta una situazione che può essere anche immaginaria
secondo la dimensione intellettuale e sentimentale che ha scoperto
in se stesso.
L’osservazione di Del Corno vale per tutta la lirica, da Wyatt a Donne a
Drayton.
Affermatasi tra il VII e il VI secolo a.C., la lirica monodica greca
tratta di politica, dei piaceri del bere in ambiente conviviale e soprattutto
d’amore, vissuto in dimensione “prepotentemente soggettiva” (Del Corno,
1993: 100). Inizia con Saffo, prima a rivendicare la soggettività dell’amore
nel quale si realizza la potenzialità dell’individuo, e con Alceo, famoso per
i carmi conviviali e i feroci canti politici; continua e si conclude nel V
secolo con Anacreonte, che canta l’amore, il simposio e la fugacità della
giovinezza. Essa si rivolge a una cerchia ristretta di fruitori, individui di
pari cultura o di pari status sociale, con interessi affini (come nel caso
dell’etería di Alceo), oppure a un gruppo di fanciulle che (come nel caso
del tíaso5 di Saffo) vengono iniziate alla vita sponsale da una donna più
anziana.
In età ellenistica (dal III al I secolo a.C.) la poesia greca, che si
affida ormai esclusivamente alla parola scritta e alla prassi della lettura
individuale, accentua sia la dimensione privata nell’attenzione ai
sentimenti quotidiani, sia il gusto per l’antico, l’erudito e il difficile, sia il
carattere specificamente letterario, mirando alla perfezione formale e
prediligendo componimenti brevi, quali l’epigramma e il racconto
mitologico breve, o epillio. E’ dunque una poesia elitaria che, con
l’impeccabile scrittura di Callimaco (il tenace catalogatore della biblioteca
di Alessandria d’Egitto), incontrò grande favore a Roma. Callimaco e gli
alessandrini, con la loro attenzione al quotidiano e il gusto per un
linguaggio elegante e colto, esercitarono di fatto un profondo influsso sui
poetae novi dell’età di Cesare (78-44 a.C.), che praticano una lirica
amorosa raffinata ed elitaria, tesa alla valorizzazione del privato – nel totale
disinteresse per la politica e per la tradizione nazionale. Massimo
48
esponente della corrente neoterica è Catullo, sensibile a tutti gli affetti,
cantore dell’eros mondano e trasgressivo, dell’amicizia intensa, quasi
erotica, aperto alle piccole vicende quotidiane – la morte di un passero, la
gioia di vivere e amare, il furto di un fazzoletto, l’inaspettato ritorno di un
amico fraterno, un invito a cena 6 . Nei Carmina Catullo propone una poesia
ora leggera e garbata, ora sofferta (incentrata sulla tormentata passione per
Lesbia), ora elegante e dotta (impegnata nell’epillio e nell’epitalamio), ora
mordace e graffiante. In età augustea (30 a.C.-14 d.C.), dopo le guerre civili
succedute all’omicidio di Cesare, quando Ottaviano Augusto si fa garante
di pace e di ordine e Roma vede una straordinaria fioritura di capolavori,
la lirica monodica trova ampio spazio. Come si è detto, l’elegia augustea
ha carattere fortemente autobiografico ed è anzitutto poesia d’amore,
spesso poesia del servitium amoris di un io lirico prigioniero di una
passione frustrata e degradante. Con Tibullo, la cui generazione conosce i
guasti della guerra civile, l’elegia ora canta un amore minacciato dal
tradimento, ora ricrea un mondo idillico di vita campestre, semplice,
serena, fedele ai ritmi della natura, dedita a un sentimento appagato e
appagante. Con Properzio guarda all’amore, basato sulla fedeltà e la
dedizione, come a un valore assoluto, anche se l’ideale si scontra con la
realtà dell’affascinante e tirannica Cinzia, a cui il poeta destina un vero e
proprio canzoniere. Con l’Ovidio degli Amores (20 a.C.) ironizza sui
valori augustei e fa dell’amore un lusus, un gioco, “analizzato con il filtro
dell’ironia e del distacco intellettuale” (Conte, 1992: 286); quando, però, il
poeta viene esiliato sul Mar Nero, l’elegia dei Tristia e delle Epistulae ex
Ponto torna ad essere poesia autobiografica del lamento (sull’asperità del
clima e degli abitanti, sulle pene della solitudine) e strumento apologetico
con cui Ovidio spera di “ammorbidire la durezza del principe” (Citroni,
1997: 432), che l’aveva relegato in una regione periferica e selvaggia
dell’impero.
Le Odi, o Carmina (i primi tre libri editi nel 23 a.C., il IV forse nel
13), consacrano la grandezza di Orazio e la sua originalità rispetto ai
modelli greci (Alceo, Saffo, Anacreonte), che egli rivisita secondo la
sensibilità propria e l’ethos del suo tempo. Il poeta, che parla in prima
persona rivolgendosi ad un interlocutore amico in “una situazione di
simposio” (Citroni, 1997: 374), canta – eccezion fatta per le odi civili –
6 Il tema, introdotto dalla lirica alessandrina, ritorna spesso n ella poesia latina e
trova echi felici anche nella poesia giacomiana (si veda, ad esempio, Inviting a
Friend to Supper di Ben Jonson).
49
l’amore, l’amicizia, il banchetto. Esalta l’immortalità della poesia ed esorta
al carpe diem, a cogliere cioè le gioie del momento, nella consapevolezza
che la vita è effimera e il piacere caduco. Celebra la saggezza del giusto
mezzo, dell’aurea mediocritas, che sola conduce alla felicità. Medita
sull’equilibrio interiore 7 dell’intellettuale che, mentre rifugge dagli eccessi
e persegue un ideale di pacata serenità, coraggiosamente si batte contro il
dolore della vita, allo scopo di “trasformare l’inquietudine e l’amarezza in
accettazione del destino” (Conte, 1992: 247): pulvis et umbra sumus.
Dopo una poesia consacrata all’eros Ovidio affronta il mondo del
mito e della storia sia nelle Heroides (Le eroine), dolenti monologhi
d’amore in forma di lettere, scritte da donne famose, da Didone a Medea a
Saffo, sia nelle Metamorfosi, più di ogni altra opera poetica classica letta,
ammirata, imitata nell’Inghilterra elisabettiana. Vasto poema narrativo in
esametri, quasi una sorta di enciclopedia del mito, composto nei primi anni
dell’era cristiana, le Metamorfosi sono costituite da circa 250 vicende 8
indipendenti, mitico-storiche, talora narrate ad incastro (la storia nella
storia nella storia) che condividono lo stesso tema, l’amore e la
metamorfosi (comune a A Midsummer Night’s Dream, d’ora in poi indicato
come MND), cioè la trasformazione di esseri umani in piante, animali,
statue: in un universo instabile e fluido “gli uomini vivono un’esistenza
incerta, in balia del caso o del capriccio divino, continuamente impigliat i
in un gioco di apparenze e di illusioni” (Citroni, 1997: 428).
Mentre nello stesso III secolo a.C. ritorna in auge il poema epico
con le Argonautiche di Apollonio Rodio, discepolo e poi irriducibile
avversario di Callimaco, nel II secolo fiorisce la poesia bucolica di
Teocrito, gli Idilli, dove la mestizia si alterna all’umorismo, il pathos
all’ironia. Teocrito canta l’amore, spesso frustrato o infelice, situandolo in
una cornice arcadica, consolatoria ed illusoriamente realistica, adatta al
pubblico urbano e cosmopolita per cui la poesia era stata pensata. Agli
Idilli di Teocrito e ai principi della poetica di Callimaco si rifanno le
egloghe (o ‘pezzi scelti’) incluse nelle Bucoliche (o [canti] di pastori) di
Virgilio. Esse ruotano intorno al motivo del locus amoenus, abitato da
pastori dediti all’amore, alla musica e all’agone canoro. L’idealizzato
ambiente pastorale si turba quando vi irrompono eventi del mondo reale
50
come l’esproprio delle terre o quando insorge, incontrollabile, la passione
d’amore.
excrucior. (Odio e amo. Forse vuoi sapere perché mi comporto così. / Non lo so,
ma mi accorgo che ciò accade, e mi strazio.)
11 Il testo delle Saturae di Lucilio ci è pervenuto in stato frammentario.
51
capace sia di far sentire il punto di vista del poeta tramite il resoconto di
un’esperienza individuale, d’amore e non, sia di muovere aspre critiche nei
confronti del degrado dei valori e dei costumi tradizionali, sia infine di
trattare di problemi letterari, in polemica con i generi ‘alti’. Erede di
Lucilio, Orazio di lui ripropone sia la vena aggressiva – risolvendola però
in chiave morale, non tanto di attacco al singolo (che pure si riscontra) ma
di analisi disincantata dei vizi e delle stoltezze della società – sia l’elemento
autobiografico (Ibam forte via Sacra…12 , nella quale l’io lirico incontra un
seccatore questuante di cui non riesce a liberarsi). Persio (età di Nerone,
54-68 d.C.), giovane aspramente polemico e permeato di moralità stoica,
torna a una satira d’impronta luciliana, in cui scompare l’individualità del
poeta per far posto a una visione radicale del bene e del male e a un
impegno intransigente di denuncia e di smascheramento. Con Giovenale
(età di Nerva e Traiano, 96-117 d.C.) la satira tocca la punta più alta della
indignatio: gli uomini, irrimediabilmente depravati e mostruosi, meritano
soltanto disgusto e un’esasperata invettiva espressa da una mente lucida e
disperante – non troppo diversa da quella di Jonathan Swift, che ora
immagina gli uomini degradati a livello bestiale nel quarto viaggio dei
Gulliver’s Travels (I viaggi di Gulliver) (1726), ora suggerisce nella
Modest Proposal (Modesta Proposta) (1726) che il problema dell’estrema
povertà in Irlanda venga risolto vendendo i neonati dei poveri come cibo
per le mense dei ricchi.
52
più agevole per diffondere il messaggio di fede e per controbattere le
accuse dei pagani. In latino furono tradotti i testi sacri, fra cui il Nuovo
Testamento nella celeberrima Vulgata di S. Gerolamo (384), e redatte varie
Apologie. I principali componimenti poetici, principalmente d’origine
africana, furono raccolti nella Anthológia Latina, il cui ‘pezzo’ più bello è
il Pervigilium Veneris (La veglia in onore di Venere), inno alla dea della
fecondità, all’amore, alla primavera, alla natura. Negli ultimi due secoli,
da Costantino alla caduta dell’impero d’Occidente (306-476), che vedono
il trionfo del cristianesimo e il declino dell’impero, la poesia risulta sempre
minoritaria rispetto alla prosa. Un solo poeta merita una menzione,
Claudiano. Uomo di corte, felice connubio di Oriente e di Occidente, di
paganesimo e di ritualità orfica, piacque al romantico T. S. Colerige che lo
qualificò “primo dei moderni” (Conte, 1992: 519).
53
I.1.7 Le traduzioni dei poeti classici in Inghilterra nel ’500-’600
54
rane) e gli Epigrammi. Un lavoro immenso e diseguale, di cui si discute
ancora se sia stato condotto da Chapman sull’originale o, come è più
probabile, su un testo latino. Più avanti nel secolo John Ogilby redasse una
nuova stesura dell’Iliade (1660) a cui aggiunse nel 1665 quella
dell’Odissea. Negli anni ’70 fu la volta del filosofo Thomas Hobbes a
impegnarsi nella trasposizione dei poemi omerici, mentre Alexander Pope
volse in inglese l’Iliade tra il 1715 e il 1720 e l’Odissea tra il 1725 e il
172616 .
Se la conoscenza del greco era confinata tra pochi eletti, il latino,
insegnato a scuola, era assai più accessibile. Questa è una, ma non la sola,
ragione per cui nel Cinquecento Virgilio fu promosso a icona della cultura
letteraria classica. La sua carriera di poeta, pastorale e campestre prima,
poi epico, cantore delle glorie nazionali, fu considerata paradigmatica,
come dimostra il fatto che Spenser ne abbia seguito le orme17 . Virgilio
attrasse una schiera di traduttori18 . A cominciare dall’Eneide, già nel
Medioevo modello di scrittura epica. Con la sua Eneados il poeta scozzese
Gavin Douglas attuò la prima versione inglese, o piuttosto scozzese, di un
testo classico (1553). Più significativa quella di un altro poeta, Thomas
Howard, conte di Surrey, che si concentrò sul II e il IV libro. La
traduzione, comparsa postuma nel 1557, lo stesso anno della Tottel’s
Miscellany 19 (L’antologia di Tottel) riveste grande importanza storica
poiché Surrey espresse l’esametro dattilico di Omero con il blank verse
(pentametro giambico non rimato) che, una volta reso più duttile, plastico
e potente da Marlowe, sarebbe diventato il metro del dramma e dell’epica
inglesi. A quella di Surrey seguirono altre versioni parziali del poema fino
a quella, integrale, di Thomas Phaer[’feiə] e Thomas Twyne, edita nel
1573. I libri I, II e IV del poema continuarono ad attrarre gli studiosi, ma
bisognò aspettare la fine del Seicento per imbattersi in una nuova, mirabile
traduzione, dovuta al poeta e drammaturgo John Dryden20 , che fu data alle
55
stampe, insieme alle Bucoliche e alle Georgiche, nel volume The Works,
pubblicato nel 1697, nel 1698 e più volte nel corso del ’700. Insomma,
l’epos virgiliano fu avvertito come esemplare, anche se la progressiva
diffusione della Poetica di Aristotele21 , ignota per gran parte del Medioevo,
rinnovò il prestigio di Omero.
Rimanendo sempre all’interno del genere epico, il primo libro del
poema Pharsalia (Le vicende di Farsalo) di Lucano, volto in inglese da
Christopher Marlowe 22 , uscì postumo nel 1600, suscitando interesse in
un’Inghilterra memore dei guasti delle guerre delle Due Rose. Tradotto per
intero dal poeta e cortigiano Sir Arthur Gorges, apparve nel 1614 e ancora
nel 1627, questa volta trasposto da Thomas May, un intellettuale
repubblicano, sul quale il tema del bellum civile dovette esercitare un
richiamo notevole. Trascorse quasi un secolo prima che Nicholas Rowe,
drammaturgo ed editor shakespeariano, proponesse la propria versione
della Pharsalia (1718)23 . Infine, dei dodici libri della Tebaide di Stazio, i
primi cinque uscirono in inglese, ad opera di Thomas Stephens, soltanto
nel 1648.
Passando ora al genere didascalico, Le opere e i giorni di Esiodo,
translated elaborately out of Greek (accuratamente tradotti dal greco) da
George Chapman, apparvero con il titolo, non casuale, The Georgicks of
Hesiod, mentre la Teogonia uscì nel 1727, volta da William Broome, che
la chiamò The Battle of the Gods and Titans. Dei sei libri che compongono
il poema De rerum natura di Lucrezio – sempre osteggiato dalla Chiesa
per l’epicureismo materialistico, ma entrato con Dante e Chaucer nel
contesto culturale europeo – John Evelyn, famoso per il suo Diary, tradusse
il solo primo libro (1656) e John Dryden nelle Sylvae (1685) non si spinse
oltre una resa parziale. Tra le due date, nel 1682 comparve la traduzione
completa del poema per mano, forse, di Thomas Creech.
La prima versione delle Georgiche di Virgilio si ebbe nel 1589 per
merito di Abraham Fleming. Seguì nel 1628 quella di Thomas May, che si
56
cimentò anche con la Pharsalia di Lucano. Un’altra ancora, di alto livello,
fu stesa da Dryden e inserita nelle Works di Virgilio (1697).
Tra i poemetti erotico-didascalici di Ovidio il primo ad essere
volto in inglese e pubblicato, anonimo, con l’originale a fronte, fu l’Ars
amandi (1513). Ripeté l’impresa nel 1612 il drammaturgo Thomas
Heywood, che tre anni prima aveva tradotto passi dei tre scritti ovidiani.
Ai Remedia amoris si applicarono F. L. (1600), Sir Thomas Overbury
(1620) e John Carpenter (1636). Nella seconda metà del Seicento e oltre,
la produzione erotica di Ovidio rinnovò il successo degli anni precedenti:
l’Ars amandi impegnò Francis Wolferston (1661) e forse Thomas Hoy
(1682), finché non uscì, nel 1709, insieme ai Remedia Amoris, in una
miscellanea by several eminent hands (per mano di diversi eminenti
scrittori) (Dryden, Congreve, Tate), che nel ’700 fu riedita di continuo.
Infine, il poemetto didascalico più influente dal punto di vista
normativo, l’Ars Poetica (L’arte poetica) di Orazio, fu pubblicato nel
1567, con le Epistole e le Satire, nella versione di Thomas Drant e nel 1640
in quella, postuma, di un latinista d’eccezione, Ben Jonson, prima che
proponessero le proprie nel 1680 e nel 1681 rispettivamente il conte di
Roscommon, primo estimatore del Paradise Lost di Milton, e John
Oldham, giovane intellettuale della Restaurazione, apprezzato da Dryden.
Nel campo della lirica, Anacreonte dovette attendere a lungo
prima di essere preso in esame. Alcuni passi, resi in inglese dal poeta
Thomas Stanley, apparvero nel 1651, seguiti nel 1682 da Anacreon done
in English (Anacreonte volto in inglese), per mano di un quartetto di
traduttori, di cui John Oldham è il più noto. Callimaco fu tradotto
nell’avanzato ’700, mentre passi di Catullo, Tibullo e Properzio uscirono
nel 1686 in una raccolta anonima e le Elegie di Tibullo furono incluse negli
Epistolary Poems del drammaturgo Charles Hopkins, dati alle stampe nel
1694.
Quanto alla poesia bucolica, sei dei trenta idilli di Teocrito giunti
fino a noi comparvero anonimi in inglese nel 1588 e un’altra selezione per
mano di Sir Edward Sherburne fu stampata nel 1651. Thomas Creech
presentò i suoi Idylliums nel 1684, anno in cui Dryden contribuì con una
versione parziale dello scritto teocriteo alla Tonson’s Miscellany. Per
contro, le Bucoliche di Virgilio vennero ripetutamente volte in inglese in
età elisabettiana e giacomiana a partire dal 1575, quando ne uscì la versione
completa di Abraham Fleming. Della raccolta di egloghe gli studiosi
produssero traduzioni parziali o complete e le pubblicarono insieme alla
57
versione inglese ora delle Georgiche (come fece lo stesso Fleming, 1589),
ora di qualche satira di Giovenale (è il caso di John Biddle, 1634). Il XVII
secolo si chiuse con la stampa dell’intero corpus virgiliano, le Works
(1697): esse, come si è detto, si devono a Dryden, che nella resa delle
Georgiche eccelle.
Orazio, di cui nel ’500 si tradussero solo le satire e l’Ars poetica,
fece meno presa sulla cultura inglese rispetto a Ovidio, che trovò subito
schiere di traduttori volonterosi. Alcune Odi di Orazio furono trasposte
forse da John Ashmore (1621) e da un imprecisato Sir T. H., probabilmente
Thomas Hawkins (1625, 1631, 1652), che nel 1635 e nel 1638 le diede alle
stampe con testo a fronte. Una prima versione completa delle Odi e degli
Epodi (1638) si deve a Henry Rider, una seconda (1653) a Barten Holyday.
La poesia di Ovidio connessa al mito sollecitò la creatività di molti. Con le
Heroides si misurarono George Turbervile (1567), Wye Saltonstall (1636)
e John Sherburne (1639). Singole storie delle Metamorfosi in inglese
furono date alle stampe prima e dopo che comparisse sul mercato nel 1567
la celebre versione, per mano di Arthur Golding, di tutti i quindici libri
(preceduta da una parziale nel 1565) che, grazie all’agile versificazione,
andò incontro a un vasto successo editoriale 24 e consacrò il poema di
Ovidio quale opera classica più letta in Inghilterra – insieme alle tragedie
di Seneca, ispiratrici del dramma di vendetta. Con la versione delle
Metamorfosi si cimentò, dopo John Brinsley (1618), anche George
Sandys, che redasse la propria traduzione in America 25 , tra il 1621 e il
1626, anno della pubblicazione. L’opera fu più volte edita, sì che non si
avvertì la necessità di una nuova traduzione sino alla fine del secolo,
quando il drammaturgo Nahum Tate con alcuni collaboratori ne propose
un’altra (1697).
Il genere elegiaco, amoroso o nostalgico, piacque agli elisabettiani,
che esercitarono la loro abilità di traduttori soprattutto su Ovidio. Marlowe
tradusse, con risultati diseguali e in tempi diversi, singoli componimenti
degli Amores ovidiani, mentre J. D., forse Sir John Davies, ne propose una
versione completa (c. 1597), edita più volte nel ’600. Nel 1683 e nel 1697
della raccolta comparvero due versioni parziali, la prima anonima, la
24 E’ la versione di Golding che Quince ebbe sotto mano nella stesura di Pyramus
and Thisbe, il dramma nel dramma presente in MND.
25 Sandys era stato inviato in Virginia come tesoriere della Virginia Company nel
58
seconda per mano di Thomas Ball. Altri affrontarono, invece, le elegie
dell’esilio. Thomas Churchyard traspose in inglese i primi tre dei cinque
libri dei Tristia, usciti tre volte negli anni ’70 del ’500; W. S., forse Wye
Saltonstall, ne fornì una versione completa nel 1633, riedita nel 1637;
Zachary Catim un’altra ancora nel 1639. Poi nessun altro tentativo fino al
1713, quando uscì la traduzione di T. P. A Saltonstall si deve anche la resa
delle Epistulae ex Ponto (1639, 1640). Di Tibullo si è già detto.
Anche il genere epigrammatico incontrò il favore degli inglesi,
che trovarono nell’epigramma, variamente inteso, uno strumento
espressivo consono alle loro esigenze. Come modello, assunsero gli
Epigrammi di Marziale, che comparvero ripetutamente, sempre in
traduzioni parziali. Incominciò Timothy Kendall, la cui versione (1577) fu
proposta tre volte nell’arco di ottant’anni; continuarono Thomas May
(1629), R. Fletcher (1656) con il suo Ex otio negotium (Dall’ozio
l’impegno), James Wright (1663), un traduttore anonimo (1689) e Henry
Killigrew (1689), fratello del celebre uomo di teatro della Restaurazione.
Data l’ampiezza dell’opera, non stupisce che anche la tarda versione di
James Elphinston (1782) sia incompleta.
Affine al genere epigrammatico, il polivalente genere satirico non
mancò di attirare adepti, né la produzione satirica latina di invogliare i
traduttori. Si impegnarono in versioni parziali delle satire di Orazio
Thomas Drant (1566) e Sir John Beaumont (1629), che ad esse aggiunse la
seconda delle sei satire di Persio (1629) e la decima delle sedici satire di
Giovenale. La versione di satire ed epistole oraziane comparve sia nella
fortunata raccolta di Thomas Creech (1684, 1688, 1711 e oltre),
comprensiva delle Odi, sia in quella pluriedita di Samuel Dunster (1709,
1712, 1729 e oltre). Barten Holiday volse il suo interesse alle sei satire di
Persio (1616), la cui versione uscì più volte nella prima metà del secolo a
Oxford e a Londra. Ad essa fece seguito nel 1719 la resa in prosa di Henry
Eelbeck. Sir Robert Stapleton, a sua volta, si dedicò all’intero corpus
satirico di Giovenale, che fu stampato nel 1647 e nel 1660, corredato di
notes and annotations. A Dryden si deve la trasposizione inglese delle
satire di Giovenale e Persio (1693), costantemente ripubblicata durante il
Settecento.
59
A questo punto, per esaurire il discorso introduttivo, basterà
individuare in qualche poeta del nostro percorso di studio i segni più vistosi
lasciati dalla classicità, a livello di contenuto e occasionalmente di
immagini, avvalendoci in quest’ultimo caso di studi specialistici. Nel
nostro programma prevalgono componimenti lirici e passi epici, mentre la
poesia bucolica, elegiaca, epigrammatica, satirica è presente in misura
molto contenuta. Poiché nel genere lirico il sonetto, d’incontestata origine
italiana, fa la parte del leone, è forse opportuno soffermarsi sul genere
epico.
Il genere epico, massima espressione letteraria rinascimentale, fu
abbracciato da Spenser nel Cinquecento, da Milton nel Seicento. Tuttavia,
mentre Milton aderisce totalmente all’epica eroica di stampo omerico con
una vicenda sostanzialmente compatta, un tema unitario, pochi personaggi
centrali, Spenser si collega non solo ai classici e al Tasso per gravità
d’impegno morale e didascalico, ma anche al repertorio romanzesco
dell’Ariosto, con l’arabesco di mille vicende, la pluralità dei motivi e dei
personaggi, il gioco ad incastro degli episodi. Tra i classici, Virgilio è
influenza dominante in Spenser e Milton. Del resto l’età elisabettiana, sul
cui gusto le traduzioni di Chapman intervennero tardi26 , predilesse il poeta
mantovano. Saranno i romantici ad esaltare Omero: il sonetto di Keats, On
first looking into Chapman’s Homer, proclama la vertigine emotiva del
giovane poeta nell’affacciarsi allo sterminato mondo di Omero.
Già nel I secolo d.C. Virgilio era il poeta latino per eccellenza –
classico e precristiano (v. sopra, nota 13). Il Medioevo lo vide come un
vate e un santo (Dante ne fa il suo mentore), interpretò i suoi scritti in
chiave allegorica, ne sottolineò la pluralità dei livelli di lettura, li corredò
di commenti. Nell’Inghilterra rinascimentale Edmund Spenser duplicò
addirittura il percorso letterario a cui allude Virgilio nei quattro versi
proemiali dell’Eneide – giudicati autentici anche se espunti (Virgilio,
1995: 572) – incominciando, come Virgilio, con il genere pastorale
(Bucoliche e Shepheardes Calendar) che si presta alla disamina di
problemi sociali, politici e morali e concludendo con il genere poetico più
alto, l’epica (Eneide e Faerie Queene), che Spenser associa al genere
cavalleresco. E’ comunque difficile stabilire se certe tecniche narrative o
26 Ben pochi inglesi, salvo Ben Jonson e lo stesso Spenser – cresciuto alla
Merchant Taylors’ School dove, sulle orme della scuola umanistica di St Paul’s,
si insegnava accuratamente il greco – erano in grado di leggere il greco omerico
nell’originale.
60
certi espedienti retorici giungano a Spenser e poi a Milton, pur miglior
grecista, attraverso Virgilio o attraverso Omero. E’ opinione frequente che
gli inglesi si siano accostati a Omero tramite Virgilio e che abbiano assunto
come modello un Virgilio ‘omerizzato’, sul quale peraltro non poterono
non incidere Ariosto e Tasso. Nella Faerie Queene, comunque, il rimando
a Virgilio è esplicitato fin dalla lettera a Sir Walter Raleigh premessa ai
primi tre libri del poema (1590) nella quale, però, sono citati quali punti di
riferimento (I have followed) anche Omero, Ariosto e Tasso. Nella lettera
Spenser dichiara di aver scelto di narrare la storia di Re Artù, anzi del
principe Artù, eccellente per virtù e talento, seguendo i poeti “antichi”, da
un lato Omero e Tasso, che hanno incarnato la virtù pubblica e quella
privata in eroi diversi (rispettivamente Agamennone e Goffredo, Ulisse e
Rinaldo), dall’altro Virgilio e Ariosto, che hanno calato l’una e l’altra in
un unico eroe (Enea e Orlando). Lo scopo celebrativo della consolidata
potenza di Roma e di quella in progress dell’Inghilterra, l’eulogia di
Ottaviano e la lode di Elisabetta, costruite entrambe su un passato mitico e
su complesse genealogie, il concetto di quest, o ricerca, che sottende
l’erranza di Enea come gli itinerari dei cavalieri spenseriani, la
programmata divisione dell’opera in dodici libri, oltre ai numerosissimi
riferimenti all’Eneide che costellano l’intera produzione poetica di Spenser
(Hughes, 1929), segnalano il legame speciale che il poeta inglese instaurò
con il suo principale modello. Tuttavia nel XII canto del II libro – oggetto
di analisi più avanti – l’incantatrice Acrasia si rivela palese reminiscenza
di Circe (Odissea, X) oltre che dell’Armida tassesca, mentre
l’imprigionamento suo e del suo ultimo paramour per mezzo di una rete
ricorda il modo in cui Vulcano cattura gli amanti Venere e Marte nelle
Metamorfosi (4, 171-84).
Nello stesso XII canto della Faerie Queene il viaggio per mare di
Sir Guyon verso la dimora di Acrasia, irto d’ insidie e ostacolato da mostri
allegorici, possiede movenze classiche (Odissea, Eneide, Argonautiche),
integrate dal ricordo del viaggio di Carlo e Ubaldo al Giardino di Armida
nella Gerusalemme liberata. Inoltre la descrizione del naufragio di una
goodly ship (Faerie Queene, II.xii.19) evoca, nella pluralità dei dettagli, il
resoconto del recente affondamento dell’ammiraglia di una flotta inglese
diretta in America (Rossi, 1988: 117-9). Passato e presente, letteratura alta
e letteratura minore, allegoria e realismo, morale e politica, s’incrociano
nel vasto campo del poema spenseriano.
61
Il discorso su Milton, eccellente grecista, induce a cercare nel
Paradise Lost echi di Omero, al pari di Milton autore di un’epica eroica,
piuttosto che quelli di Virgilio, come Spenser autore di un’epica nazionale
celebrativa. Per Omero, il poeta per antonomasia, il poeta cieco, Milton
non poteva non nutrire un’inclinazione particolare. Non a caso lo ricorda
in III.35 come il blind Maeonides27 . Revard coglie nel Paradise Lost
reminiscenze lessicali e situazionali dell’Iliade e sottolinea un’analogia di
fondo – di cui metto in luce solo i punti salienti – tra le parti conclusive dei
due poemi. In entrambe il sentimento centrale è l’ira e la tecnica narrativa
è di stampo teatrale. Anche l’antefatto immediato presenta qualche affinità
nei due testi. Patroclo ottiene di combattere senza l’amico, Eva di lavorare
nel Giardino da sola; entrambi ignorano i moniti altrui, trasgrediscono, per
desiderio di gloria o ansia di conoscenza, e vanno incontro alla fine,
causando in modo indiretto o diretto la fine altrui. Veniamo ora al fatto in
sé. Achille, inconsolabile per la morte di Patroclo e animato da un’ira
incontenibile verso chi l’ha ucciso, decide di vendicarlo. Benché sappia
che alla vendetta seguirà subito dopo la propria morte, l’eroe non si sottrae
a una sorta di imperativo categorico. Quindi scatena il suo furore contro i
troiani ed Ettore. Quando questi è ucciso, incrudelisce sul suo corpo. La
sua irrefrenabile collera non risparmia nessuno, tranne il vecchio Priamo,
che lo supplica, abbracciandogli le ginocchia, di restituirgli il corpo del
figlio. Sull’altro fronte Adamo, disperato per il misfatto di Eva, in totale
libertà di scelta 28 decide di mangiare il frutto e di condividere la sorte di
lei, anche se l’atto dovesse comportare la morte. Tuttavia, al risveglio dopo
una notte di lussuria, infierisce contro Eva, l’insulta, la scaccia, l’umilia.
Si placa solo dopo che questa, abbracciandogli le ginocchia – con il
classico atteggiamento del supplice – tra le lacrime implora il suo perdono.
“Milton follows the ancient poet in bringing his Adam and Eve to a
Homeric crisis – in breaking the wrath of Adam with pity, and making
possible the closure of the final books” (Revard, 2002: 33). Quanto alle
reminiscenze virgiliane di cui il poema è ricco, segnalerei soltanto quella
che a Porter sembra la più significativa. La domanda con cui Satana
conclude l’allocuzione finale ad Eva, Or is it envy, and can envy dwell / In
27 Si credeva che la Meonia, antico nome della Lidia (regione dell’Asia Minore),
fosse patria di Omero. Per le connessioni tra Milton e i classici, in particolare
Omero, si vedano Porter, 1993 e Revard, 2002.
28 I poemi sono molto diversi, ma li accomuna “the ethic of free choice that each
poet has made an indispensable component of his epic” (Revard, 2002: 25).
62
heav’nly breasts? 29 (IX, 729-30), corrisponderebbe all’interrogativo che la
voce parlante si pone nella protasi dell’Eneide, avendo considerato le
fatiche a cui Enea, l’eroe giusto, è stato sottoposto: Tantaene animis
celestibus irae? 30 (I,11)
questo egli [fa]. Oc, dal pronome hoc, diventa avverbio affermativo (così, sì).
32 Il roman indica un’opera scritta nel vernacolo francese. Il Roman de Troie, ad
esempio, è un lungo poema francese sulla guerra di Troia, in cui compare per la
prima volta la storia di Troilo e Cressida, ripresa da Chaucer e da Shakespeare.
63
gesta, in cui entra in gioco il meraviglioso, si ispirano all’amor cortese33 ,
invincibile tensione amorosa, di necessità extramatrimoniale, per una
donna inavvicinabile, oggetto del desiderio e destinataria dell’omaggio e
della dedizione assoluta del cavaliere poeta. Il roman compare dunque
nella Francia del Nord e da qui si diffonde in Inghilterra. I romanzi più
appassionanti appartengono al ciclo bretone, che illustra le avventure di re
Artù34 (simbolo della resistenza dei celti, insediati nel Galles e in
Cornovaglia, alle invasioni degli angli e dei sassoni), della moglie di lui,
Ginevra, e dei cavalieri della Tavola Rotonda, quali Lancillotto, che ama
Ginevra, e Perceval, che va alla ricerca del Santo Gral. Eroi, questi, dei
poemi di Chrétien de Troyes (vissuto nella seconda metà del XII secolo),
il più noto scrittore di romanzi bretoni in versi. Per concludere
l’argomento, vorrei ricordare un bel poema arturiano inglese, Sir Gawayn
and the Green Knight (circa 1375), in versi allitterativi (v. sotto, nota 40),
storia di una debolezza, una caduta, un castigo, un pentimento e un riscatto,
e un celebre eroe dello stesso ciclo, Tristano, protagonista della prima
grande narrazione inglese in prosa 35 .
riconoscerlo figura storica del VI s ecolo d.C. Nella Faerie Queene l’eroe,
emblema della magnificence, o magnanimità, fugacemente compare in ogni libro
per soccorrere i cavalieri in difficoltà, in tal modo raggiungendo quella completa
formazione nelle virtù aristoteliche che lo rende degno di sposare Gloriana, la
regina delle Fate.
35 Mi riferisco alla Morte D’Arthur (fine ’400) di Sir Thomas Malory, imponente
raccolta di leggende arturiane, tra cui quella di Tristano e Isotta. Costui, per via di
un filtro magico, s’innamora di Isotta, promess a sposa dello zio di Tristano, e lei
di lui. Né il matrimonio d’Isotta, né l’esilio e il successivo matrimonio di Tristano
spengono l’antica passione e i due vanno incontro a una morte tragica. Tristano è
l’unico personaggio del ciclo arturiano che compaia nella Faerie Queene (VI
libro): emblema del giovane cresciuto lontano dalla corte ma cortese per natura e
per educazione, si contrappone ai cortigiani colpevoli di estrema scortesia (in
Spenser la Corte è ambivalente, fonte di grandezza come di corruzione) e si allinea
con i cavalieri della gentleness.
64
I.2.1 Il Medioevo: la poesia lirica e la poesia didascalica in Francia
e in Inghilterra
intorno ad Albi, preoccupando sia il papa, sia la monarchia capetingia. Poiché fallì
l’azione dei predicatori e dei legati pontifici, Innocenzo III bandì una crociata che
portò a stermini di massa (1209), mentre Gregorio IX istituì il nefasto tribunale
dell’Inquisizione (1233). Esito: l’eresia fu estirpata ad altissimo prezzo e il Sud
della Francia fu sconvolto per quasi vent’anni.
65
Pearl, poemetto elegiaco-allegorico in versi allitterativi che, attraverso
l’espediente del sogno, canta lo strazio di un padre per la morte della
figlioletta di due anni.
La grande poesia didascalica europea nasce nel Duecento in
Francia. Celeberrimo il vasto poema Roman de la Rose (XIII secolo) di
Guillaume de Lorris e Jean de Meung. Esso racconta il sogno del
protagonista che s’innamora di una rosa (fiore da sempre investito di una
forte carica simbolica), è sottoposto a varie prove, soffre ma alla fine riesce
a cogliere il fiore, immagine della donna amata. Il poema descrive in veste
allegorica e in prospettiva laica l’amore perfetto. In Inghilterra la poesia
didascalica nasce più tardi, nel Trecento – il secolo della Peste Nera (1348)
che decimò il Paese ed esacerbò i conflitti sociali conducendo alla
Peasants’ Revolt38 (Rivolta dei contadini) (1381) e al movimento dei
lollardi39 . Essa si configura come poesia religiosa e di protesta sociale.
Lo attesta il lungo poema allegorico di William Langland The Vision of
Piers Plowman (Il sogno di Pietro l’aratore) – massima espressione del
Middle English Alliterative Revival40 – che passa in rassegna i mali della
società e i peccati del mondo, promuovendo la salvezza dell’uomo.
66
I.2.2 Il capolavoro del Trecento e le ballate del Quattrocento
67
accompagnate da un ritornello. Di carattere prevalentemente tragico,
raccontano drammi familiari, gesta di fuorilegge come Robin Hood,
oppure eventi locali. Il pathos si comunica attraverso un linguaggio facile
e orecchiabile.
precedente, come sosteneva lo storico svizzero Jacob Burckhardt che aveva fatto
proprie le dichiarate prese di distanza degli umanisti italiani dai precedenti ‘secoli
bui’. Oggi si coglie una sostanziale continuità tra Umanesimo e Medio Evo,
attestata, in Inghilterra ad esempio, da una stessa concezione dell’universo e d ella
società. Pur nella continuità con il Medio Evo, l’Umanesimo segna un momento
di assoluta novità, caratterizzato da una diversa concezione sia della cultura, per
cui la dignità di una disciplina si misura non sull’argomento ma sul rigore
metodologico con cui viene scandagliata, sia dell’uomo, di cui si esplora non solo
la dignità ma il ruolo sociale, e la cui natura è vista risiedere nella cultura.
68
326), che tuttavia creò le premesse di una straordinaria fioritura di
capolavori a fine ’500 e nel secolo successivo45 .
Gli umanisti inglesi non vissero l’entusiasmo del ritrovamento di
antichi codici, sepolti nelle biblioteche di monasteri e conventi, della
trascrizione e appassionata messa a confronto dei testi per accertare, in base
alla nascente filologia, la lezione presumibilmente più vicina all’originale.
Condivisero, invece, l’esigenza di un rinnovamento morale e intellettuale,
il convincimento che la rigenerazione dell’uomo passasse attraverso gli
studia humanitatis, l’insofferenza verso i grandi sistemi filosofici
medievali, il bisogno d’imprimere alla cultura una svolta in direzione
pragmatica. Non a caso avvertirono la centralità del problema scolastico-
culturale, che pose le humanae litterae alla base della formazione
dell’individuo, in quanto unico strumento capace di rinnovare l’uomo e di
promuoverne la dignità. Intanto la stampa a caratteri mobili46 diffuse – tra
un pubblico alfabetizzato in lenta ma costante crescita – opere della
classicità note e ignote al Medioevo, magari alterate dagli amanuensi
perché difformi dall’ideologia cristiana, o non rettamente intese. Gli
auctores latini e greci, studiati secondo una concreta prospettiva storica nel
loro tempo e nel loro contesto47 , passati al vaglio della filologia, imitati e
interiorizzati, avrebbero plasmato l’individuo nuovo. Maestri di umanità,
avrebbero distolto l’uomo dall’attenzione ai grandi sistemi metafisico-
teologici e incanalato il suo interesse verso l’interiorità e la morale. Maestri
dell’agire, avrebbero dimostrato l’inanità dell’otium contemplativo e
ascetico, innescando una volontà di azione virtuosa che avrebbe recato
gloria e ricchezza al singolo e allo Stato.
L’Umanesimo inglese parve infrangersi sugli scogli della Riforma
e dello scisma da Roma; invece imboccò un corso sotterraneo, durante il
quale mescolò le sue acque a quelle dell’Umanesimo rinascimentale
europeo, del rinnovamento erasminiano – destinato a trovare voce “potente
69
e addirittura prepotente” in Lutero (Reale e Antiseri (1996) [1993]: 75) –,
dello scetticismo di Montaigne (la conoscenza è soggettiva, la verità
irraggiungibile), dell’aristotelismo etico e politico.
Torniamo ora a Thomas Wyatt. Provvisto di una solida cultura
umanistica e di una buona conoscenza delle lingue (latino, francese,
italiano e forse spagnolo), operò alla corte di Enrico VIII, passando da
posizioni di prestigio (diplomatico in Francia e nei Paesi Bassi,
ambasciatore in Spagna) al carcere. Due volte imprigionato alla Torre, nel
1536 corse il rischio di essere giustiziato, insieme all’infelice regina Anna
Bolena e ad alcuni suoi presunti amanti. Si salvò, forse grazie ai buoni
uffici di un politico potente, come si salvò anni dopo, quando finì di nuovo
alla Torre, imputato di alto tradimento.
Wyatt fu tipico poeta di corte. Le corti europee erano ambienti
infidi, caratterizzati da lotte di potere, da intrighi, inclusi quelli sessuali, e
da una forte competitività tra i cortigiani per conquistare prima
l’attenzione, poi il favore del sovrano o di qualche potente. A tal fine
occorrevano comportamento impeccabile (magari con qualche atto
audace), abilità ippica, cultura, garbo e sagacia nel conversare, eleganza
nel vestire, capacità letteraria, nonché sprezzatura48 , dote precipua del
cortigiano di Baldassarre Castiglione49 . Come suggerisce Heale, le corti
potevano risultare pericolose anche per la virilità dell’individuo: il
cortigiano, chiamato ad assumere un atteggiamento cortese, quindi a fare
musica, a intrattenere e corteggiare le dame, a scrivere versi in loro onore,
correva il rischio di diventare effeminato. Inoltre, tenuto costantemente
sotto controllo, doveva saper fingere, ora mostrando di sé certi aspetti, ora
celandoli. Wyatt di professione fu diplomatico, il che lo portò a imparare
ancor meglio l’arte della finzione, quasi attoriale, con il self-display,
l’attitudine ad esibire le proprie qualità, e il self-concealment, la capacità
di celare certe componenti del proprio io – a seconda delle circostanze.
48 Per sprezzatura si intende la capacità di fare ciò che si fa senza fatica o s forzo
palesi. Tale apparente disinvoltura è una delle facce della finzione che il
comportamento di corte richiede. Il termine si potrebbe rendere con aristocratic
carelessness o con nonchalance.
49 Il Cortegiano (1528), che si prefigge di definire le norme comportamentali del
70
A cinquant’anni di distanza la situazione a corte non sarebbe
cambiata granché. Così Spenser tratteggia in Mother Hubberds Tale (Il
racconto di mamma Hubberd) le frustrazioni, la precarietà, gli assilli della
vita del cortigiano nell’età di Elisabetta: le sua condizione è un inferno e
un inferno la corte stessa, anche se hai, ironia della sorte, il favore del
monarca.
What hell it is, in suing long to bide:
To loose good dayes, that might be better spent;
To wast long nights in pensive discontent;
To speed to day, to be put back to morrow;
To feed on hope, to pine with feare and sorrow;
To have thy Princes grace, yet want her Peeres;
To have thy asking, yet waite manie yeeres;
To fret thy soule with crosses and with cares;
To eate thy heart through comfortlesse dispaires;
To fawne, to crowche, to waite, to ride, to ronne,
To spend, to give, to want, to be undonne (896-906).50
50 Spenser, 1966 [1947]: VIII, 129. Che inferno dover continuare a implorare e
implorare, / perdere giorni proficui che potrebbero essere meglio spesi, / sprecare
lunghe notti in pensoso scontento, / avanzare oggi per retrocedere domani, /
nutrirsi di speranza e macerarsi nella paura e nel dolore, / avere il favore della tua
regina, ma non quello dei suoi grandi, / ottenere ciò che chiedi solo dopo anni e
anni di attesa, / tormentarti l’anima con crucci e affanni, / mangiarti il fegato con
angosce sconsolate, / scodinzolare e accucciarsi, servire, cavalcare, correre /
spendere, dare, aver bisogno e trovarsi rovinato.
Le traduzioni, ove non sia diversamente indicato, sono mie.
51 In inglese speaking voice o I-pronoun oppure persona, termine latino che
71
petrarchesca in un sentimento di delusione e d’amarezza, che si esprime
ora nel lamento, ora nell’invettiva, ora nel sarcasmo.
Wyatt ha il merito storico di aver introdotto il sonetto di Petrarca52
in Inghilterra, traducendone alcuni, tratti dalle Rime, riscrivendone altri
e componendone altri ancora, del tutto originali – specchio, questi ultimi,
dell’ambiente della corte inglese e della personalità dell’autore.
Introducendo il sonetto, Wyatt concorse alla formazione in Inghilterra
dello spirito umanistico – che, da un lato, vede l’uomo al centro
dell’universo, lo prospetta misura di tutte le cose e lo descrive ansioso di
conoscenza, di gloria e di potere, mosso da volontà di autoaffermazione,
dal desiderio di plasmare il proprio destino, e che, dall’altro, intende
recuperare, insieme ai testi, le virtù e le norme estetiche della classicità ,
senza rinunciare per questo all’impiego della lingua nazionale .
72
a chiare lettere sta scritto:
‘Noli me tangere, poiché a Cesare appartengo,
e, benché sembri mansueta, sono selvaggia con chi pretende di tenermi.’
58 “Una candida cerva sopra l’erba / verde m’apparve, con duo corna d’oro, / fra
due riviere, all’ombra d’un alloro, / levando ’l sole a la stagione acerba. / Era sua
vista sì dolce* superba, / ch’i’ lasciai per seguirla ogni lavoro: /come l’avaro che
’n cercar tesoro / con diletto l’affanno disacerba. / “Nessun mi tocchi – al bel collo
d’intorno / scritto avea di diamanti et di topazi –: / libera farmi al mio Cesare
parve”. / Et era ’l sol già volto al mezzo giorno, / gli occhi miei stanchi di mirar,
non sazi, / quand’io caddi ne l’acqua*, et ella sparve.” (Petrarca, 1982: 246). *
dolce = dolcemente * acqua = pianura
59 Si veda I.5.2.
60 Wyatt riprende forse la leggenda a cui allude il sonetto di Petrarca, secondo la
quale trecento anni dopo la morte di Cesare fu trovato un cervo con un collare su
cui figurava la scritta: “Noli me tangere, Caesaris sum”. In Petrarca, tuttavia,
Cesare è Dio, in Wyatt è Enrico VIII. Forse, invece, dato che solo la prima parte
del motto è riportata in latino, il poeta inglese riprende le parole rivolte dal Cris to
a Maria Maddalena subito dopo la Resurrezione (Giov. 20, 17).
73
presenza muta, ella conta per il collare indiamantato – segno di un’aurea
schiavitù.
La vicenda è semplice ed esemplare. L’io lirico ha partecipato a
una sfida di caccia, ma ben presto è finito nella retroguardia e poi, anche
se il desiderio è rimasto, ha dovuto desistere dalla battuta: troppa la fatica
(travail, fainting, wearied mind), troppa la frustrazione (vain, in a net I seek
to hold the wind, in vain). Non solo perché la cerva fugge, ma perché è
proibita. Appartiene a Cesare, che l’ha dichiarata sua, intoccabile, tramite
una scritta incisa su un collare incastonato di diamanti. Il sonetto ruota
dunque intorno a una metafora venatoria, che si adatta perfettamente
all’ambiente di corte. La cerva (hind prima, poi deer) oggetto delle brame
dei cacciatori è la donna (dear, caro/a, è omofono di deer), oggetto di
desiderio. I cacciatori/corteggiatori partecipano numerosi alla battuta –
compreso il poeta, o meglio la sua persona, rappresentata da un io poetico
maschile, che si rivolge a un uditorio esclusivamente maschile. Il sonetto
si configura inizialmente – e apparentemente – come un invito teso a
convincere, poi come un atto di complicità o solidarietà maschile, che
diventa infine un monito amaro, teso a dissuadere. Anche se ci fosse un
vincitore, costui si troverebbe ad avere a che fare con una cerva selvatica,
una donna cioè non disposta a venire incontro ai desideri dell’amante, né a
essere sua per sempre.
74
Sia ringraziata la fortuna se prima è stato diverso,
e venti volte meglio. Ma una volta in particolare ricordo65
in veste sottile, bella a vedersi66 ,
quando il mantello sciolto le cadde dalle spalle
mi prese tra le braccia lunghe e sottili
e infine67 dolcemente mi baciò,
a bassa voce sussurrando: “Ti piace, amore?”
65 La frase inglese è ellittica del verbo: ciò rende più pregnante il ricordo.
66 array = outfit, abito (si veda la descrizione di Acrasia nella Faerie Queene),
guise = modo, ma anche modo di fare.
67 therewithal = therewith: besides. Tuttavia tradurrei con infine.
68 broad = fully.
69 L’espressione è chiaramente sarcastica.
75
volontà o per natura). Esse hanno cercato l’io lirico, poi lo hanno piantato
in asso, aspirando ad altri amori. Sono comunque loro ad aver preso
l’inziativa. Lui è rimasto passivo.
Nella seconda stanza l’io lirico, amareggiato per l’abbandono,
rievoca un momento di gratificazione erotica, un’esperienza del passato –
tanto bella da sembrare un sogno – quando una di loro spontaneamente gli
si offerse. L’esperienza è sostanzialmente visiva. L’immagine femminile
– di cui l’occhio maschile coglie l’abbigliamento trasparente e morbido, le
spalle nude e le braccia sottili – domina la scena. Tutto in lei è delicato
(thin), bello (pleasant), elegante (long and small). Anche in quella
circostanza la donna è attiva: lei giunge e si spoglia, lei prende l’uomo tra
le braccia e lo bacia, lei gli pone una domanda. I ruoli tradizionali sono
invertiti. La donna, che dovrebbe lasciarsi sedurre, qui è seduttrice, mentre
l’uomo, deposto il ruolo del seduttore, è in uno stato di totale inerzia e
abbandono.
Nella terza stanza l’io lirico torna alla realtà e alle sue amare
considerazioni. E’ stato sedotto e abbandonato per via della sua gentleness,
dove il termine indica sia la sua condizione di gentleman (gentle = well-
born, belonging to the class of ‘gentlemen’, OED), sia per eufemismo la
sua eccessiva docilità (gentle = tame, easily managed, esp. of an animal,
OED). Al lato opposto si situa la donna, su cui si appunta ora il
risentimento dell’io lirico. Costei lo ha lasciato in un modo strano. Bontà
sua, gli permette di cercare altre donne, mentre lei si abbandona alla
newfangleness70 . L’io poetico commenta con ironia, se non con sarcasmo,
di essere stato trattato ‘con cortesia’ – se interpretiamo kindely derivato
dall’aggettivo kind, gentile – ma, di fatto, secondo natura (kindely =
naturally, da kind = specie, natura), secondo cioè la natura di quelle
creature mutevoli, capricciose, inaffidabili che sono le donne.
La donna in questione è la dama di corte, prodotto della cultura
cortese. Come la corte stessa, è affascinante, ma pericolosa per la virilità
maschile. Oggetto di desiderio, ammalia e tradisce 71 . In questo contesto
l’io lirico si presenta come un individuo deluso e sconfitto che alla fine del
song si scopre pronto ad assumere di nuovo un ruolo attivo (solo però a
76
livello conoscitivo, ‘mi piacerebbe sapere’, non operativo, ‘farò questo e
quello’), come suggerisce la sarcastica battuta finale. Per concludere: nella
I stanza l’uomo, persona del poeta – forse celando l’aggressività sotto
un’apparente mitezza – è in attesa dell’attenzione altrui; nella II la sua
immobile remissività gli regala un felice momento erotico; nella III la
passività di lui induce lei ad abbandonarlo ed egli, sentendosi vittima di un
tradimento legato alla gentleness, trasforma la sua inerzia in aggressività
verbale nei confronti di chi l’ha lasciato.
77
nell’industria; la concezione della nobiltà quale frutto di virtù, non esito di
lignaggio. A ciò si aggiungano, specifici del mondo inglese, il forte
impulso nazionalistico, l’avversione al cattolicesimo, la volontà di
guadagnare al Paese lo status di grande potenza, l’incipiente ascesa della
borghesia che smussò la rigidità delle divisioni sociali.
Queste caratteristiche si riscontrano ora nei personaggi storici
elisabettiani, ora nelle creature letterarie, ora in entrambi. Qualche
esempio. Coscienti della dignità umana furono sia i martiri dell’una e
dell’altra fede, sia la duchessa di Amalfi72 nell’omonima tragedia di
Webster, sia le creature umane di Milton. L’ansia di vita attiva e la volontà
di servire lo Stato segnarono la vita di Sidney; la concezione della virtù
come forza che induce all’azione anima i cavalieri spenseriani; il desiderio
di lasciare un segno nella storia si coglie nel diario di un navigatore che,
pur nell’insuccesso della spedizione, proclama con fierezza di essersi
spinto là dove nessun altro era arrivato; si coglie anche nelle parole, di
segno opposto, pronunciate dal marloviano Tamburlaine the Great che,
diventato padrone del mondo tripartito, alle soglie della morte si strugge di
non aver potuto conquistare ciò che non si conosceva ancora, l’America:
And shall I die, and this unconquered? (Marlowe, 1973: I, II Tamburlaine,
V,iii,150). La smania di potere e di ricchezza è insita in tutti gli uomini di
corte, Raleigh in testa, ma percorre anche le creature della finzione, l’astuto
Volpone73 e lo spregiudicato Alchimista74 di Ben Jonson, oltre al
machiavellico Barabas di The Jew of Malta di Marlowe che, privato della
sua fortuna, Infinite riches in a little roome (Marlowe, 1973: I, I,i,37),
ordisce una terribile catena di vendette. Segno di stigmatizzabile grandezza
in queste figure teatrali, nei personaggi degli scritti borghesi di Thomas
Deloney il desiderio d’oro si esprime come desiderio di profitto per il
singolo e di benessere per la comunità, venendo così ricondotto nell’ambito
sua capacità sia di arricchirsi sfruttando la cupidigia dei suoi presunti eredi, sia di
dominarli e farsi beffe di loro.
74 Il falso alchimista e astrologo, dal significativo nome di Face, usa la dimora del
suo padrone per attirarvi uno stuolo di uomini creduli e succubi che vi lasciano
oro e credibilità.
78
del lecito e del socialmente proficuo – felice auspicio di un capitalismo
borghese capace di realizzare le istanze della collettività.
In Inghilterra, dove passato e presente trovano di norma un
accettabile modus vivendi, il Rinascimento si configura quale amalgama
straordinario di vecchio e di nuovo, di indigeno e di straniero, di centripeto
e di centrifugo, di popolare e di aristocratico, come si cercherà di
dimostrare. Esso trova il proprio epicentro nella corte. Faro per il Paese,
sede del potere e della cultura, la corte si identifica con Elisabetta,
affascinante, colta, capace di instaurare intorno a sé il culto dell’amore. Se
a corte si scrive per compiacere la sovrana e averne l’appoggio, nel Paese
si scrive per ogni sorta di finalità, ma ci si preoccupa di catturare la
benevola attenzione di qualche potente, magari dello stesso monarca, con
dediche altamente eulogistiche. Il mecenatismo, infatti, è l’unica
condizione che garantisca allo scrittore sicurezza economica, difesa dai
rivali, protezione dalla censura. Lo scrittore professionista non esiste, non
esiste il concetto di plagio, non esistono i diritti d’autore né, tanto meno, la
libertà di stampa.
Chi non può contare sull’aiuto di un mecenate, cede il proprio
manoscritto, di solito per quattro soldi, al printer (stampatore) o al
publisher (editore)75 , che lo passa al bookseller (libraio). Molti autori
campano alla meno peggio scrivendo ballate, che si vendono nelle fiere e
agli angoli delle strade, pamphlets di contenuto ortodosso o copioni per il
teatro, che è alla costante ricerca di testi da mettere in scena 76 . Il commercio
librario è gestito dalla Stationers’ Company 77 (1557) che esercita una
smerciavano libri da bancarelle, o stations) fu costituita con patente reale nel 1557
da Maria Tudor e rimase attiva fino al 1709, quando il parlamento approvò il
Copyright Act, che conferiva a un autore o stampatore diritto esclusivo su un’opera
per un certo tempo. La Compagnia era incaricata di autorizzare la stampa dei
manoscritti. Il Registro della Compagnia, riportando il titolo dei testi abilitati alla
pubblicazione, è fonte di preziose informazioni bibliografiche, anche se non tutti
79
censura preventiva per conto del governo, intesa a reprimere i seditious
libels e gli scritti diffamatori che violano le norme delle autorità religiose
e laiche o ledono il buon nome delle istituzioni. Autori, editori/stampatori,
booksellers si preoccupano di controllare gli scritti di cui sono in vario
modo responsabili, onde non essere perseguiti con multe, incarcerazioni,
mutilazioni78 . I gesuiti, incaricati dalla Santa Sede di mantenere vivo il
cattolicesimo in Inghilterra, si sottraggono alla rete della censura
stampando all’estero; poi, complici i correligionari, fanno circolare
clandestinamente i libri vietati. “Censura e mecenatismo sono la minaccia
e il premio mediante i quali il potere e il privilegio cercano di orientare e
condizionare la voce della letteratura dell’epoca Tudor, sospingendola
verso il conformismo ideologico” (Ferrara, 1996: 370).
Prima di occuparci di Marlowe e del suo celebre song, è opportuno
ricordare che l’età elisabettiana vede nascere e crescere una produzione
poetica (specialmente femminile) di grande interesse che, rimasta
manoscritta per secoli e portata alla luce tra la fine dell’800 e il ’900,
illumina circa le condizioni di vita, i sentimenti, le speranze e i dolori della
gente comune. Tale poesia, di provenienza per lo più borghese79 , è ancora
in buona parte esclusa dalla letteratura canonica.
i testi che vi figurano furono editi, mentre lo furono testi non licenziati per la
stampa, quindi non iscritti al Registro. La censura agì con severità proporzionata
alla gravità degli eventi politici
78 Un esempio clamoroso di intervento ai danni di drammaturghi che avevano
80
modesti natali ma di ottima cultura universitaria, divenne informatore del
governo. Accusato di ateismo, fu processato e rilasciato. Morì neppure
trentenne nel corso di una rissa, scatenata (pare) allo scopo di eliminarlo.
Oltre che un grande drammaturgo, Marlowe fu un poeta
importante dell’età elisabettiana. Lo attesta l’incompiuto81 poemetto
erotico Hero and Leander. Esso trae spunto da un epillio di Museo (VI
secolo d.C.) che racconta il tragico amore di due giovani. Poiché essi
abitano sulle opposte sponde dell’Ellesponto, Leandro ogni notte, guidato
da una luce accesa dall’amata, attraversa lo stretto a nuoto per giungere da
lei, finché, in una notte di tempesta, viene scagliato sugli scogli e muore.
Disperata alla vista del corpo senza vita, Ero si suicida gettandosi in mare.
Marlowe racconta in modo ironico e umoristico la parte iniziale della
vicenda, che si conclude con la prima notte d’amore.
Qui tuttavia interessa una lirica di Marlowe, che ci trasporta in un
mondo completamente diverso da quello di Wyatt.
testo, addirittura nello stesso dialogo, possono trovarsi insieme, alternandosi, you,
your, yours e thou/thee, thy, thine. You denota un discorso formale, tra sconosciuti
o tra persone di rango, comunque non intime; è inoltre il pronome con cui
l’inferiore si rivolge al superiore. Thou, invece, indica un discorso informale, tra
81
e mille fragranti mazzolini di fiori,
coi fiori ti farò un copricapo e una gonna,
ricamata tutta di foglie di mirto;
un mantello della lana più bella
tolta ai nostri agnelli leggiadri,
babbucce foderate contro il freddo
con fibbie dell’oro più puro,
una cintura di paglia e gemme d’edera
con fermagli di corallo e borchie d’ambra.
Se queste delizie ti convincono,
vieni a vivere con me e sii il mio amore.
Per tuo piacere i giovani pastori86
danzeranno e canteranno ogni mattina di maggio:
se questi piaceri sollecitano la tua mente,
allora vivi con me e sii il mio amore.
82
venga con lui e si lasci amare. Alle gioie del luogo si aggiunge una proposta
di vita lontanissima dalla realtà quotidiana, fatta di canti, di balli e d’amore
su un letto di petali di rosa 89 . A ciò si aggiunge la gioia dei doni che l’io
lirico offrirà alla donna: mazzolini di fiori anzitutto, ma anche un
cappellino, una gonna, un mantello, babbucce foderate, una cintura –
confezionati con materiali tratti dal mondo naturale che li circonda.
Tuttavia le vesti semplici ed essenziali, necessarie alla vita rustica, sono
impreziosite da accessori d’oro, di corallo e d’ambra. Come se l’io lirico
sentisse che per conquistare le donne del suo tempo la bellezza della natura
e doni modesti non sarebbero bastati: occorreva quell’oro, esecrato dai
bucolici, segno della realtà dei tempi90 . Egli abita il mondo pastorale, ma a
quel mondo non appartiene integralmente. I suoi doni sono sofisticati nei
loro preziosi complementi, gli uccelli del suo mondo non cantano le solite
‘wild’ o ‘sweet’ notes, ma addirittura madrigali. Sotto la semplicità e la
leggiadria serpeggia il compiacimento dell’artificio. E il pastore – che forse
non è pastore del tutto – rimane in attesa di una risposta da parte di lei.
I. 5 I canzonieri
dell’argento, dei metalli preziosi che giungono dal centro -sud del continente
americano.
91 La raccolta dei poems di Wyatt e Surrey si deve all’editore Richard Tottel, che
83
appartengono, infatti, i Sonetti di Shakespeare, benché editi nel 1609,
quelli di Michael Drayton, anche se la stesura definitiva, con il titolo Idea,
uscì nel 1619, e gli Amoretti (1595) di Spenser, oltre a una quindicina di
canzonieri minori.
Il sonetto inglese d’età elisabettiana non è lo strumento di
un’effusione d’amore. O, meglio, non è solo quello. E’ di fatto lo strumento
che il poeta usa per la propria autopromozione, nella speranza di farsi
notare da qualche potente (magari dalla stessa regina che, come si è detto,
incoraggiava i cortigiani ad impiegare un vocabolario d’amore 93 per dare
voce alle loro speranze e alle loro vicessitudini94 ). Ogni canzoniere
racconta una vicenda d’amore, in cui si alternano gioie e speranze, gelosie
e frustrazioni. Tuttavia la vicenda d’amore talora allude a una diversa
realtà: l’amore dell’io lirico per la donna corrisponde alla devozione del
poeta per l’uomo di potere che può aiutarlo a fare carriera e che egli cela
dietro la figura dell’amata. Le speranze dell’io lirico di essere
contraccambiato dalla donna esprimono le ambizioni del poeta, desideroso
di entrare nelle grazie dell’aristocratico, mentre la gelosia e l’ansia che egli
manifesta nei confronti di altri corteggiatori sono i sentimenti dietro i quali
il poeta dà voce all’invidia per un rivale o al timore di essere da questi
scalzato nel favore del potente. Infine la gioia dell’io lirico perché la donna
gli sorride, lo incoraggia, si dimostra disponibile, oppure la sua
frustrazione davanti alla freddezza di lei rispecchiano, rispettivamente, la
soddisfazione di chi vede riconosciuti i propri meriti o l’amarezza di chi
constata di non essere apprezzato e magari si vede costretto a dire addio
alle ambizioni personali95 .
93 Non è un caso che la moda del canzoniere sia finita quando salì al trono Giacomo
I, i cui interessi erano di natura filosofico-politica.
94 Quando Sir Christopher Hatton, amico e mecenate di Spenser, era all’estero per
84
Quando Philip Sidney (1554-1586) scrisse i sonetti di Astrophel
and Stella, circa nel 1582, era un giovane aristocratico, appartenente a una
famiglia di alto prestigio, che aveva coltivato grandi speranze ed era stato
amaramente deluso su ogni fronte: economico, sociale e politico. Non
aveva ereditato le proprietà degli zii né il titolo nobiliare; dopo un inizio
brillante in diplomazia, era stato giudicato un protestante estremista,
ambizioso e irresponsabile, e quindi tenuto lontano dagli incarichi
importanti a cui ambiva. Infine era incappato nell’ira della regina quando,
in una lettera pubblica, si era permesso di ‘consigliarle’ di evitare il
matrimonio (che non si sarebbe mai realizzato) con il duca di Alençon, ed
era stato per tale sfrontatezza allontanato dalla Corte (1579).
‘Stella’ a cui professa amore ‘Astrophel’ (etimologicamente
l’amante di Stella) fu nella realtà storica Lady Rich, una donna sposata,
‘astro’ della corte di Elisabetta. Nel contempo la destinataria del
canzoniere assurge, come Anna Bolena per Wyatt, a simbolo delle
ambizioni impossibili, degli “unattained and unattainable social and
political goals” del giovane (Marotti, 1977: 400). Magistralmente Sidney
cela dietro al linguaggio d’amore episodi, situazioni e sensazioni della sua
esperienza di cortigiano smanioso di affermarsi.
85
costei, figlia di Natura, si sottraeva alle percosse dello Studio patrigno
e i piedi101 altrui sembravano estranei sulla mia strada.
Così, mentre, gravido della voglia di parlare ma impotente negli spasimi
del travaglio,
mordevo la penna negligente e mi percuotevo la testa per la rabbia,
«Sciocco,» mi disse la Musa, «guarda nel tuo cuore e scrivi».
101 feet = piedi metrici, il piede essendo la più piccola unità ritmica di un verso.
102 Norton Anthology, 2001: 447.
86
innominata, prevede che la propria, unica mossa (la scrittura) innescherà
nella destinataria della scrittura stessa tutta una serie di reazioni
concatenate secondo una logica quasi matematica, presentate tuttavia, per
prudenza o per scaramanzia, come ipotetiche (might). Pianificata la
strategia che presume vincente, l’io lirico si è subito concentrato sugli
strumenti per realizzarla, le parole – parole di dolore straziante. Così
straziante, così sincero (l’autoironia trionfa) che per esprimerlo ha dovuto
mettersi a tavolino, studiare argomentazioni suasive e consultare gli scritti
altrui in cerca di spunti, refrigerio per il cervello surriscaldato dallo sforzo
compositivo. Tutto inutile: le parole arrancano, la metrica suona falsa. Solo
a questo punto egli si rende conto del motivo del disastro: manca il
supporto dell’ispirazione, che nulla ha da spartire con la ricerca di parole
ad effetto o con l’imitazione. Una metafora legata al parto propone
l’immagine grottesca dell’io lirico, ansioso di dare alla luce la sua creatura
(la poesia d’amore), ma prigioniero delle doglie, impotente. Gli viene
allora in soccorso la Musa che, con un atteggiamento materno tra il
compatito e l’affettuoso, gli suggerisce di guardare nel suo cuore, dove si
trova l’immagine di Stella, e di scrivere in base ad essa – essendo la donna
amata e l’amore stesso fonte di poesia.
Sotto sotto Sidney ha giocato con il lettore: non prenda costui alla
lettera l’espressione amorosa dear She o l’iperbolicamente comico
blackest face of woe. Il poeta ha certo un obiettivo da raggiungere, una
grace [to] obtain, che tuttavia con il sentimento ha forse poco da spartire.
La situazione politica, in una corte retta da una donna nubile, corteggiata e
narcisista, impone che egli mascheri l’obiettivo sotto la veste
convenzionale del discorso amoroso.
87
Amoretti – pubblicato nel 1595 insieme all’Epithalamion 103 , il
canto che egli compose per le nozze con Elizabeth104 – condivide con gli
altri canzonieri non solo un forte senso di ammirazione per l’amata che si
sposa al desiderio, ma anche un vivo umorismo, che investe sia l’io lirico
supplice, sia la donna che scherza sull’amore di lui.
But when I pleade, she bids me play my part,
and when I weep, she says tears are but water:
and when I sigh, she says I know the art,
and when I wayle, she turnes her selfe to laughter.105
(son. 18)
103 Spenser rinnova il genere (per le origini, si veda p. 47, n. 4), facendo dell’io
lirico il cantore dell’epitalamio stesso, tradizionalmente recitato da uno spettatore
della cerimonia.
104 L’io lirico, qui del tutto identificabile con il poeta storico, si dichiara felice che
mia parte, / quando piango, mi dice che le lacrime non sono che acqua, / quando
sospiro, dice che so fingere proprio bene, / e quando gemo, si mette a ridere.”
106 Norton Anthology, 2001: 431.
107 chace = chase.
108 beguile = to deprive someone of something by fraud. La felice resa italiana va
88
non cercò di fuggire, ma rimase ferma, senza paura,
finché non l’ebbi presa tra le mani, ancora semitremante,
e non l’ebbi legata stretta, con il suo benestare.
Strana cosa mi parve vedere un animale selvatico
catturato così facilmente e per sua stessa volontà avvinto.
(son. 67)
111
Si vedano qui sopra nota 58 (Petrarca) e I.3 (Wyatt).
112Una curiosità: Drayton nacque nella stessa contea di Shakespeare, il
Warwickshire, un anno prima di lui, e morì nello stesso anno di Donne.
89
tre sovrani: Elisabetta Tudor, che venerò e rimpianse, Giacomo I Stuart,
con cui ebbe rapporti conflittuali, e il figlio di lui, Carlo I. Tuttavia l’amore
alla sua terra, le amicizie, l’imitazione di Spenser, massimo poeta dell’età
in cui regnò la regina vergine, il fatto stesso di aver composto un
canzoniere, indicano in Drayton un elisabettiano di sentimenti e di
cultura. Non a caso il suo nome è accostato a quello di Richard Hakluyt113 .
Come Hakluyt nei tre volumi delle Principal Navigations (1598-1600)
celebrò le glorie dell’Inghilterra marinara raccogliendo i resoconti dei suoi
naviganti ed esploratori, così Drayton nell’ampio poema Poly-Olbion
(1622) descrisse le bellezze dell’Inghilterra (campi, ruscelli, valli con i loro
animali) e al tempo stesso ne raccontò il passato remoto e recente – quello
dei fauni e delle ninfe, quello dei santi, infine quello degli eroi e dei
navigatori elisabettiani.
Sulle orme di Spenser Drayton divenne portavoce di una poesia
pubblica, per un verso eroico-storica, sorretta da una marcata
istanza patriottica, per l’altro satirica, permeata da una forte carica
etica. Infatti celebra l’Inghilterra nella bellezza del suo paesaggio
e nella nobiltà del suo passato, denuncia la società
postelisabettiana, chiusa in un’ottusità volgare, tesa al profitto e
alla carriera di corte, prigioniera di una irreversibile età del ferro
[…], canta la speranza di gloria futura per le generazioni nate nelle
terre d’oltre oceano. (Rossi, 1996: 74)114
Oggetto specifico di questo studio è però un sonetto del suo
canzoniere Idea (composto in momenti successivi e pubblicato in versione
90
definitiva nel 1619). Di questo sonetto notiamo la vena antiromantica,
ironica e colloquiale tipica già della poesia di Wyatt e delle sonnet
sequences elisabettiane.
91
e Innocenza. Sorretto dalla fede e riconciliato con Dio (ritrovata cioè
l’antica innocenza), egli è ormai prossimo al trapasso. Eppure persino in
questo momento estremo, se l’amata lo volesse, potrebbe riportarlo da
morte a vita. Il sonetto proclama dunque non la volontà di separarsi ma il
bisogno estremo che l’io lirico ha della donna amata. Se lei lo lasciasse
come egli auspica, l’uomo, in cui si incarna la passione, morirebbe. Per
contro, anche a un passo dalla morte, lei potrebbe restituirgli la vita.
Nella prima parte il tono distaccato e la composta dignità sotto cui
si nasconde il dramma dell’addio, si contrappongono al tono più
partecipato della seconda, anche se il discorso si appesantisce per il
riferimento a personaggi allegorici. Nelle quartine si nota la presenza di
due pronomi principali: I (con me, myself e my) e we (con our), oltre a
either per neither, nessuno dei due. Ciò attesta che il problema di cui la
persona parla è un problema suo (I) e della coppia (we, either). Il lessico,
formato da una netta prevalenza di termini monosillabici e da qualche
bisillabo (cancel, either, former, retain), testimonia il registro del
linguaggio parlato. L’inizio e la conclusione della prima parte sono in
chiave negativa dal punto di vista grammaticale (no help, no more, not
seen) e dal punto di vista semantico (part, I have done, forever, cancel, not
[…] one jot). Nel mezzo, la positività di una separazione netta che diventa
liberazione. Ma è tutto un inganno o un’illusione, a cui subentra, nella
seconda parte del sonetto, un esame dei fatti più realistico (l’io lirico sa che
se perderà la donna, ne morirà), anche se costruito come un’allegoria. Di
fatto Passione, Fede e Innocenza compongono un gruppo allegorico che
potrebbe figurare in un dipinto oppure ergersi su un monumento sepolcrale.
Il distico finale segna la sorprendente, miracolistica terza svolta nel
sonetto: prima l’addio, poi la morte, infine la resurrezione. Potenza
dell’amore!
118 Sull’argomento riporto la lezione della dott. Paola Baseotto: “La dimensione
etica, filosofica e civica della Temperanza nel II libro della Faerie Queene di
Spenser”.
92
a Londra nel 1552 e studiò a Cambridge, dove conseguì il doppio titolo
accademico e acquisì una vasta cultura, che permea tutte le sue opere,
specialmente The Faerie [’feəri] Queene (La Regina delle Fate), poema
epico-cavalleresco che celebra – e nel contempo critica – la regina. Uomo
d’azione oltre che letterato, si legò al circolo del conte di Leicester, favorito
di Elisabetta, e venne inviato in Irlanda in qualità di segretario del viceré
dell’Irlanda, deputato a governare il Paese in nome della regina. In Irlanda
trascorse l’intera esistenza, amando il Paese e detestando gli abitanti.
Tornò a Londra nel 1590 per presentare a Elisabetta, e pubblicare, i primi
tre libri della Faerie Queene e forse nel 1596 per dare alle stampe i primi
sei libri del poema. Nel 1599 nel corso di una rivolta il suo castello fu dato
alle fiamme. Egli fuggì allora a Londra con la famiglia e poco dopo si
spense.
La Faerie Queene nasce al seguito per un verso dei poemi epici,
Odissea ed Eneide (parte odissiaca), per l’altro dei poemi cavallereschi, o
romanzi, italiani, dall’Orlando innamorato di Boiardo (1483) all’Orlando
furioso (1516) di Ariosto. Questi poemi, coniugando eroismo e amore,
elementi della storia ed elementi del meraviglioso, narrano le avventure di
singoli cavalieri, proiettate su uno sfondo geografico esteso dall’Europa
all’Asia, all’epoca della guerra tra i franchi di Carlomagno e i musulmani
– ragione per cui sono talora denominati epico-cavallereschi119 .
Quello di Spenser, si è detto, è un poema epico-cavalleresco.
Dedicato a Elisabetta, celebra la gloria nazionale e imperiale inglese ed
esalta il protestantesimo, denigrando la corruzione della Chiesa di ’Roma.
Il poema, incompiuto, è composto da sei libri e dal frammento di un
settimo. Ogni libro è diviso in dodici canti (il termine “canto” è usato qui
per la prima volta in inglese), composto da un numero variabile di “stanze”
di nove versi ciascuna (otto pentametri giambici e un esametro giambico).
La Spenserian stanza è una forma poetica nuova, con rime interne, molto
musicale. Quanto al lessico, Spenser utilizza termini arcaici che danno al
poema una patina di antico, e conia neologismi.
Ogni libro è dedicato all’illustrazione di una virtù: il I illustra la
santità (Holinesse), il II la temperanza (Temperance), il III la castità
(Chastity), il IV l’amicizia (Friendship), il V la giustizia (Justice) e il VI la
119Nel ’500-’600 il poema epico si trsformò nel poema eroico, più severamente
codificato e di stampo celebrativo, come la Gerusalemme liberata (1581) del
Tasso. Alla Faerie Queene (1590,1596) di Spenser, poema epico-cavalleresco, si
contrappone il Paradise Lost (1667) di Milton, poema eroico.
93
cortesia (Courtesy). Le vicende del protagonista di ogni libro rivelano il
lungo e difficile cammino (quest) verso la conoscenza della dimensione
etica e sociale della virtù e verso l’acquisizione dell’energia psicologica e
spirituale necessaria per praticarla.
Gli eroi all’inizio dell’avventura sono uomini comuni, imperfetti e
peccatori. Alla fine raggiungono la perfezione. In tal modo si offrono come
modello al lettore. Scopo del poema, come Spenser dichiara in una lettera
a Sir Walter Raleigh (favorito di Elisabetta 120 ), pubblicata con i primi tre
libri, è to fashion a gentleman in vertuous and gentle discipline. Chi è
chiamato a incarichi di responsabilità nel Paese deve mirare alla
perfezione, essere ottimo cristiano e suddito leale, pronto a combattere in
nome della fede, della patria e della regina 121 . Il poema che intende
plasmare il perfetto uomo di corte ha dunque valenza didascalica. La
virtù per Spenser è una realtà attiva. Gli eroi e le eroine della Faerie
Queene sono persone d’azione, il cui eroismo emerge ed è messo alla prova
nel corso di conflitti che hanno dimensione fisica, psicologica, spirituale
ma anche storica. I personaggi rappresentano individui impegnati in
avventure e, al tempo stesso, incarnano idee, vizi e virtù. La Faerie Queene
ha dunque, come la Divina Commedia, carattere allegorico ed esprime,
come la Divina Commedia, continui riferimenti alla realtà storico-politica
del tempo.
La Temperanza
94
Quanto al cristianesimo, esso recepisce la visione classica della
temperanza come purificazione dalle passioni e autocontrollo, ma la
imputa alla grazia divina e la annovera tra le virtù cardinali: prudenza,
fortezza, giustizia e, appunto, temperanza. L’Umanesimo valorizza la
temperanza come dominio di sé e la pone al centro della riflessione sulla
figura ideale del gentiluomo, chiamato a grandi responsabilità politiche,
etiche e sociali. Questo aspetto ritorna tale quale in Spenser. Spenser critica
la contemporanea degenerazione dell’ideale cavalleresco – per cui si dava
importanza all’etichetta o si coltivava un malinteso senso dell’onore che
induceva gli uomini a ingaggiare duelli per tutelare la propria reputazione
– e suggerisce che il cavaliere debba fungere da esempio, dominare le
passioni e convogliare l’energia in azioni altruistiche in difesa dei deboli,
della Chiesa e dello Stato.
La temperanza consiste, dunque, nel controllo delle passioni –
specie l’ira e il desiderio – mediante l’uso della ragione. In effetti i primi
sei canti del II libro trattano del controllo delle emozioni legate all’ira; gli
altri sei esaminano il controllo delle emozioni legate alla concupiscenza,
a una sensualità vissuta senza freni e sterile, fine a se stessa. La temperanza
va esercitata nei confronti sia del nemico interiore (la natura corrotta
dell’uomo dopo il peccato originale), sia del nemico esterno (il mondo
corrotto).
Le passioni
Guyon
95
Il nome deriva da uno dei fiumi del Paradiso, quello associato alla
virtù della temperanza. L’etimologia suggerisce l’immagine di un lottatore,
quale in effetti egli è. Guyon si muove accompagnato dal Palmer122 , che
rappresenta la ragione legata alla fede cristiana. Quando il Palmer non è
con lui, Guyon è privo della capacità di distinguere il bene dal male –
attività esercitata dalla ragione – e quindi commette errori. La quest di
Guyon consiste nel vendicare la morte di Amavia e quella del suo sposo,
causate da Acrasia: non a caso il II libro si apre con la descrizione degli
effetti devastanti dell’intemperanza, che uccide prima lo sposo di Amavia,
poi Amavia stessa.
122 I palmer [’pa:mə] erano pellegrini reduci dalla Terra Santa, così chiamati
perché tenevano in mano un ramo di palma, simbolo della fede.
123 Il nome deriva dal greco: assenza di controllo, incontinenza.
96
realizza nel matrimonio, dove la pratica della sessualità crea la vita. Nel
giardino di Acrasia tutto è immerso in una stasi innaturale. Non esiste il
ciclo delle stagioni. La primavera perenne immobilizza la natura in uno
stato di sterilità (pur ammantata di bellezza), poiché solo l’avvicendarsi
delle stagioni consente la vita.
Spenser, tuttavia, tratteggiando il Bower, crea un tale trionfo di
colori, profumi, suoni ed evoca un luogo di tale incanto che i lettori e molti
critici sono stati disturbati dalla distruzione per mano di Guyon di un luogo
così pieno di fascino. Peraltro anche Guyon è attratto all’inizio dalle delizie
del Bower, ragione per cui deve intervenire il Palmer a richiamare
all’ordine gli occhi vaganti (quindi desiderosi) di lui. Perché mai il Bower
deve essere distrutto? Uno dei peccati più gravi nell’ottica protestante è
l’ozio, il disimpegno. Giunti nel Bower, i cavalieri sono tentati di
abbandonare la loro quest per non affrontare la fatica e il dolore. Anche
Guyon. La stasi che regna nel giardino contagia gli uomini d’armi che vi
rimangono, dimentichi della loro missione. Acrasia crea illusioni. Il Bower
è una di queste. Spenser ricorda al lettore che lì tutto è falso, prodotto
dall’immaginazione che ci fa vedere ciò che vogliamo vedere. Il Bower
deve essere distrutto perché inibisce l’azione e si sostituisce ad essa.
Guyon funge da strumento di Dio. La sua furia devastatrice suggerisce il
Giudizio Universale. Acrasia, in quanto fonte delle passioni, non può e non
deve essere uccisa. Le passioni non vanno eliminate, ma tenute a freno.
La vittoria di Guyon su Acrasia simboleggia il controllo dell’uomo sulle
passioni e la consapevolezza che la base di ogni azione morale consiste
nella capacità di vedere le cose per quello che sono.
Stanza 58
Il più bel paradiso che esista sulla terra
si offre al suo morigerato sguardo.
Là125 tutti i piaceri abbondano, anzi sovrabbondano126 ,
e nessuno invidia la felicità che gli altri procurano127 :
i fiori dai colori smaglianti, gli alberi che svettano verso l’alto,
97
le valli create per l’ombra, le alture per l’ampio respiro128 ,
i tremuli boschetti, il ruscello cristallino che vi scorre accanto 129 ,
e ciò che aggiunge grazia a tutte le opere belle,
l’arte, che tutto aveva plasmato130 , non appariva da nessuna parte.
Stanza 59
Si sarebbe pensato (con tale abilità le parti incolte
e neglette si mescolavano a quelle coltivate131 )
che Natura avesse per capriccio imitato
Arte e che Arte di ciò si dolesse con Natura;
così, cercando di superarsi a vicenda,
l’una rendeva più bello l’operato dell’altra.
In tal modo, pur differendo negli intenti, si accordavano sul fine;
con la loro soave diversità tutte e due concorrevano
nell’ornare il Giardino di ogni possibile varietà.
Stanza 60
Nel mezzo del Giardino sorgeva una fontana
del materiale più prezioso che ci possa essere al mondo;
così pura e scintillante che si poteva vedere
l’argentea corrente scorrere in ogni piccolo scavo.
In maniera sopraffina era dappertutto132 intarsiata
di immagini strane e di forme di fanciulli nudi,
di cui alcuni parevano con vivace allegria
volare in giro, abbandonandosi133 a giochi d’amore 134 ,
mentre gli altri si bagnavano nelle liquide gioie.
[…]
128 Spazio (in vetta alle alture) in cui si respira a pieni polmoni.
129 by (adverb) = near, close at hand.
130 wrought è participio passato arcaico di to work, ancora oggi usato in wrought
98
Stanza 77
Su un letto di rose era distesa 135 ,
come spossata per la calura o pronta per un dolce peccato,
ed era vestita 136 , o piuttosto svestita,
di un velo137 leggero di seta e d’argento
che non nascondeva 138 affatto la sua pelle d’alabastro,
anzi la mostrava ancora più bianca, se più bianca poteva essere.
Tela più fine Aracne 139 non può filare,
né le reti140 sottili che spesso vediamo intrecciate
di rugiada riarsa dal sole, più leggere si librano nell’aria.
Stanza 78
Il suo petto di neve si offriva nudo al pronto assalto
di famelici occhi che non si potevano141 mai saziare,
e per lo sfinimento della sua ultima dolce fatica
stillava qualche goccia 142 più chiara del nettare
che le scendeva lungo il seno come pura perla d’Oriente
e i suoi begli occhi, sorridendo dolcemente di piacere,
fanciulla lidia, famosa per la sua abilità nel lavorare la lana. Conscia della propria
bravura, non riconosceva l’inevitabile superiorità della dea della tessitura, Atena.
Così, quando questa le propose una sfida, la presuntuosa fanciulla accettò. Le due
lavorarono con accanimento, Atena rappresentando sulla tela scene di eroi
trionfanti, Aracne (come colta da un mesto presagio) ricamando scene di sopruso
degli dei ai danni dei mortali. L’opera di Aracne era impeccabile, ma la dea,
furibonda, fece a brandelli la tela e colpì la fanciulla sul capo. Per il dolore e
l’umiliazione Aracne corse a infilare la testa in un nodo scorsoio. Atena la sorresse
per impedirle di morire, ma la destinò a penzolare per sempre, trasformandola in
ragno.
140 nets = reti; si tratta ovviamente delle ragnatele.
141 n’ote = not, avv. negativo; qui occorre sottintendere could, quindi could not.
142 Sono gocce di sudore.
99
attenuavano143 i raggi di fuoco con cui trafiggeva144
i deboli cuori, pur senza ucciderli145 , simile alla luce delle stelle
che, brillando sulle onde silenziose, sembra più luminosa ancora.
Stanza 79
Il ragazzo che le dormiva accanto sembrava
un nobile giovane 146 di onorevole rango,
sì che era molto penoso vederlo
deturpare in modo così sconcio la sua nobiltà.
Aristocratico aspetto e amabile grazia,
miste a virile gravità 147 , trasparivano
pur nel sonno dal suo volto perfetto,
e sulle tenere labbra una morbida 148 peluria
era appena 149 spuntata e portava fiori di seta.
100
è ridimensionato dal giudizio morale del poeta intorno a un’arte che, non
palesandosi come artificio, inganna.
Nella strofa 59 Spenser dapprima segue Tasso (XVI.10.1-4), poi
elabora un pensiero personale. I primi due versi amplificano la sintetica
visione di Tasso, “sì misto il culto è col negletto”, per dire poi che
sembrava che la Natura avesse voluto imitare l’Arte (mentre, secondo
l’estetica classica, condivisa dal ’500, era l’Arte ad imitare la Natura). Fin
qui Spenser segue la falsariga del Tasso. Poi aggiunge che sembrava che
l’Arte si fosse risentita (repine) di ciò con la Natura e che le due fossero
entrate in competizione. Esito di questa gara, la straordinaria varietà del
Giardino. L’idea di ‘gara’, tuttavia, va contro l’ideale di armonia. Quindi,
se la gara è un disvalore, il risultato della gara deve essere negativo.
La strofa 60 è dedicata alla descrizione della fontana che sorge nel
mezzo del Giardino – costruita con materiali preziosi e over-wrought di
amorini impegnati in wanton toys. I termini ribadiscono gli aspetti negativi
del Bower, cioè l’eccesso e la lascivia, mentre l’immagine suggerisce la
pericolosità del luogo.
Le strofe successive – che meriterebbero di essere lette
attentamente – ci introducono al personaggio di Acrasia. La maga si trova
in un luogo appartato e ombroso, accanto al suo new lover che dorme after
long wanton 150 joys. Nel Bower tutto è sfinimento, passività, stasi – in
contrapposizione alla vitalità ed energia di Guyon. Nel Bower non esiste il
tempo, né la vita, né la storia. C’è una languida inattività, preludio di
morte.
Nella strofa 77 trionfa l’affascinante visione del corpo di Acrasia,
abbandonata su un letto di petali di rosa. Ritornano immagini di languore
(faint) e di piacere (pleasant sin), a cui si aggiungono visioni di leggerezza
(i petali, il sottile velo di seta, la ragnatela che si muove al vento), di luce
(l’argento, le gocce di rugiada), di biancore (silver, alabaster, white) e di
calore (heat, scorched). Ma nel quadro di seducente bellezza, attraverso la
figura mitica dell’infelice Aracne, si insinua un’idea di colpa e di morte.
La strofa 78, che tratteggia il seno e gli occhi di Acrasia, presenta
un tessuto iconografico analogo a quello della strofa precedente.
Suggerisce la perfezione attraverso immagini di circolarità (i seni, le gocce
di sudore, le perle, gli occhi), di candore (snowy breast), di dolcezza (sweet
toil, sweet smiling), di piacere (delight), che si accompagnano a immagini
101
d’acqua (drops, moistened, waves) e di fuoco (fiery), coronate da immagini
di luce (clear, pearls, fiery, starry light, sparkling, bright). Neppure da
questo quadro, concluso da versi di estrema suggestione, è assente una nota
di pericolosità, suggerita dalle immagini della preda, della fame
insoddisfatta, della ferita.
Il fascino creato intorno ad Acrasia deve essere ridimensionato
perché il lettore trovi moralmente accettabile l’azione devastatrice di
Guyon. Ecco perché nella strofa 79 (e nella strofa 80) Spenser presenta il
giovane amante di lei dimentico di sé, delle sue responsabilità, del suo
impegno di cavaliere – l’armatura appesa ad un albero. Tutto è immerso
nell’inerzia. E’ il momento della cattura di Acrasia, imprigionata in una
rete, cui segue la distruzione del Bower. Sulla distruzione del Bower i
pareri degli studiosi sono contrastanti. Nel ’500, come ricorda la dott.
Baseotto, l’atto era considerato senz’altro legittimo: i teologi approvavano
la giusta collera quando era esercitata per amore della virtù. Oggi alcuni
critici lo giustificano vedendo nella devastazione di Guyon l’esito di una
missione di “giusta vendetta”, di distruzione del male; altri sono disturbati
da quella che pare una misura eccessiva, contraria alla virtù della
temperanza che Guyon incarna; altri ancora pensano che Spenser in veste
di moralista non può che sancire la distruzione del Bower, ma che come
poeta non può non dolersene: il mondo del Bower, l’ha creato egli stesso.
Ora qualche nota in appendice alle considerazioni della dott.
Baseotto sul tema. Essendo incompiuta e costruita sulle avventure di
diversi cavalieri, ognuno dei quali è protagonista di un libro, la Faerie
Queene può apparire disorganica. Non è così. E’ anzi un poema
spiccatamente unitario. Che genere di unità possiede? Sintetizza
acutamente Bayley (1971: 152): “the unity of atmosphere, tone, sensibility,
emotion and purpose, though not of structure”. Il poema coniuga la serietà
e l’impegno morale tipici dell’epica – inerenti alla concezione stessa della
letteratura in età elisabettiana 151 – con il fantastico, il favoloso, l’esotico, il
magico tipico del romance. Il mondo del romance è popolato di mostri,
giganti, maghi e incantatrici che coesistono con i brave knights, impegnati
in missioni che comportano un viaggio per terra o per mare, con ladies in
distress, da soccorrere, proteggere o vendicare. Nel viaggio i cavalieri sono
aggrediti, spesso sconfitti, umiliati o sviati dal loro compito, ma riescono
a completare il loro cammino di formazione e a concludere la loro
102
missione, seppure talora non compiutamente. Ad esempio, il cavaliere
emblema della Cortesia non riesce ad eliminare il mostro che attacca e
distrugge il buon nome degli onesti: l’uomo spenseriano, pur forte delle
sue virtù, vive comunque in un mondo segnato dal peccato originale.
La Faerie Queene ebbe molto successo al momento della
pubblicazione (1590, 1596). Di fatto, in età elisabettiana il romance
incontrava un favore enorme presso il pubblico, che si esprimesse sia sotto
forma di ballate 152 , di romanzi d’amore e d’avventura in versi (come The
Faerie Queene) o in prosa (come Arcadia di Sidney), sia infine come
genere teatrale (le ultime opere di Shakespeare sono per l’appunto
romances, cioè drammi romanzeschi).
Per motivi di genere letterario ci siamo concentrati su Amoretti e
The Faerie Queene, ma le due opere non costituiscono l’intera produzione
poetica di Spenser. Egli pubblicò nel 1579 – data convenzionalmente
assunta per indicare l’avvio della grande letteratura elisabettiana – The
Shepheardes [’ʧepəds] Calendar [’kælində] (Il calendario del pastore).
Raccolta di egloghe sul modello virgiliano, il Calendar gli consentì di
trattare temi diversi (l’amore, la religione, la poesia) alternando la satira
all’elegia, l’elogio al lamento. Mentre era già impegnato nella stesura della
Faerie Queene, compose i Complaints (Lamenti), editi nel 1591. Il più
interessante, Mother Hubberds Tale (Il racconto di mamma Hubberd),
costituisce un’amara satira degli abusi della Chiesa e un’imprudente,
sofferta denuncia delle condizioni di servilismo e di umiliazione a cui è
sottoposto il gentiluomo di corte. Il lungo passo, in cui al ritratto del
cortigiano virtuoso segue l’elenco bruciante delle angherie a cui egli è
esposto, fotografa una triste realtà che Spenser aveva, almeno
parzialmente, sperimentato.
103
manierismo 153 , con un termine che la storia delle idee ha mutuato dalla
critica d’arte 154 ed esteso alla produzione letteraria e musicale. Il
manierismo, fenomeno quanto mai variegato e contradditorio, è
caratterizzato da un prevalente atteggiamento anticlassicistico e
antinaturalistico ed è segnato non tanto dalla comparsa di nuove idee ma
dalla “accumulated and irresistible pressure of old and new ones” (Bush,
1990 [1962]: 29), dallo scontro tra vecchio e nuovo. E’ l’età del dubbio,
della crisi, del pessimismo, segnata dalla concezione della vanità della
vita, della pochezza dell’uomo, del tempo che tutto divora. E’ l’età del
“gioco ininterrotto di attrazione e repulsione tra opposti, arte-natura,
imitazione-creazione, […] delle forme irrisolte della rappresentazione
visiva o scritta” (Patey, 1996: 15-16). E’ l’età delle domande senza
risposta: se il cosmo è infinito, se la terra è un punto insignificante
nell’universo, che senso hanno la venuta del Cristo e la redenzione
dell’umanità? Se ci sono più mondi, alcuni forse abitati, Cristo avrà redento
anche quelli? Domande di allora, domande di sempre.
In una realtà di crisi la scrittura trova la sua cifra nel paradosso e
nel grottesco, e si vela di ambiguità.
Se in Italia si assume, per convenzione, quale data d’inizio del
manierismo il 1527, anno del sacco di Roma, e se ne coglie la fine all’inizio
del barocco, in Inghilterra esso incomincia a manifestarsi sul finire del ’500
e continua fino all’avvento del neoclassicismo, con la Restaurazione
(1660).
John Donne [d˄n], uno dei massimi poeti della letteratura inglese,
nacque nel 1572 da famiglia cattolica. Tra i suoi ascendenti figura
l’umanista Thomas More, che venne giustiziato da Enrico VIII per essersi
rifiutato di sottoscrive l’Act of Supremacy (1534) e proclamato santo nel
Novecento. In età elisabettiana i cattolici venivano ostacolati nelle loro
aspirazioni di carriera, i membri del clero erano perseguitati, torturati e
messi a morte, soprattutto dacché si scoprirono complotti cattolic i
legati alla regina scozzese Maria Stuarda. Il giovane Donne si rese
153 Come spiega Burke, 1989: 89, il termine indica la tendenza a dare particolare
risalto alla ‘maniera’, cioè allo stile, e ad aspetti della creazione artistica quali
“l’originalità, la difficoltà tecnica, l’abilità, l’eleganza e lo spirito”.
154 Artista manierista, pronto a rifiutare le convenzioni in nome della forza
espressiva, è Michelangelo. E con lui Cellini, mentre Vasari nelle Vite esprime i
principi dell’estetica manierista (Patey, 1996: 8-12).
104
conto subito che l’adesione al cattolicesimo comportava molti problemi:
non solo non poté conseguire il titolo accademico perché avrebbe dovuto
sottoscrivere l’Act of Supremacy, ma vide anche morire in carcere suo
fratello, reo di aver dato ospitalità a un sacerdote cattolico. Negli anni ’90
maturò il suo strappo dal cattolicesimo e la sua adesione alla Church of
England. L’adesione all’anglicanesimo non fu solo una questione di
opportunismo. Con la Riforma del 1517 l’unità cristiana era andata in
frantumi, erano sorte fedi nuove e la gente, smarrita, si domandava quale
fosse la fede vera, dove stesse la verità. Donne fu tra questi. Gettandosi a
capofitto nello studio della teologia, mosso da un autentico desiderio di
certezze, cercò di orientarsi nella pluralità di dogmi, dottrine e confessioni
contrastanti, come attesta la III Satira155 (composta forse nel 1597) che
affronta il tema scottante di quale sia la religione vera, se la cattolica, la
luterana o l’anglicana, se sia legittimo l’atteggiamento dello scettico (non
crede in nessuna) o dell’eclettico (le accetta tutte). Benché il cammino
verso la Verità, che dimora in vetta ad una huge hill, / Cragged, and steep
(79-80)156 , preveda una lenta ascesa, lungo mille tornanti, la persona
raccomanda al lettore di cercare comunque la fede vera, Seek true religion
(43). Donne credette di averla individuata nell’anglicanesimo.
Negli anni giovanili, forse poco prima dell’adesione
all’anglicanesimo, egli scrisse anche poesia scanzonata, goliardica, come
l’Epithalamion Made at Lincolnes Inne 157 , dove la vicenda d’amore si
colora di sensualità e di dissacrante ironia: il matrimonio è una questione
di sesso e di soldi158 . Un altro, più clamoroso esempio è fornito da un’elegia
erotica di sapore ovidiano, Elegie 19: To his Mistris Going to Bed 159 , in cui
l’uomo si trova già a letto, in attesa che lo raggiunga l’amata, impegnata a
di Londra.
158 Rivolgendosi alle giovani londinesi, l’io lirico così le apostrofa: Daughters of
London, you which bee / Our Golden Mines, and furnish’d Treasurie, / You which
are Angels, yet still bring with you / Thousands of Angels on your mariage daies
[…] (13-6). Figlie di Londra, voi che siete / le nostre miniere d’oro e il nostro ben
fornito Tesoro, / voi che siete angeli e per di più portate con voi / migliaia di
angeli* nel giorno delle nozze […].
* monete da 10 scellini.
159 Norton Anthology, 2001: 617-8.
105
svestirsi forse dietro un paravento. Dopo un inizio plateale, esplosivo, egli
pilota con la fantasia le diverse fasi dello spogliarello, scandendole con
allegra impazienza: Off with that girdle…Unpin that spangled
breastplate…Unlace your self…Off with thar happie busk…Your gown
going off…160 e via di seguito. Poi immagina l’amplesso in un passo di
fortissima teatralità; infine considera le analogie tra le gioie dei sensi e il
rapimento mistico. Ecco il passo di bruciante emozione in cui il piacere
dell’amplesso è paragonato all’entusiasmo per l’esplorazione e la
conquista del Nuovo Mondo161 :
Licence my roving hands, and let them go,
Before, behind, between, above, below.
O my America! my new-found-land,
My kingdom, safeliest when with one man manned162 ,
My mine of precious stones, my empery163 ,
How blest am I in this discovering thee! 164
03.
162 manned: to man = to furnish a fort or a ship with men (OED).
163 empery = empire.
164 Da’ licenza alle mie mani vagabonde e lasciale andare / davanti, dietro, in
mezzo, sopra, sotto. / Oh mia America! mia Terranova, / regno mio, tanto più
sicuro quando è difeso da un uomo solo, / mia miniera di pietre preziose, impero
mio, / quanto sono felice di averti scoperto!
165 Donne, 1968: 100. Entrambi vestiti d’aria, giacciamo in un’unica terra, / noi
106
stesso pose ben presto fine alla sua brillante carriera sposando di nascosto
la nipote minorenne del suo datore di lavoro, Ann More. Il matrimonio era
valido, ma provocò uno scandalo e Donne perdette l’impiego. Per molti
anni la coppia – a cui si aggiunse uno stuolo di bambini – sopravvisse tra
mille difficoltà solo grazie all’aiuto degli amici. Unico conforto in una
situazione di grande penuria, l’amore tra i due, così forte da consentire
loro di tener testa alle difficoltà. Mentre cercava con ogni mezzo e senza
successo un impiego stabile, Donne continuò a studiare e a scrivere con
fortissima determinazione, concentrandosi su problemi di natura religiosa.
Partecipò alla polemica anticattolica, iniziata dopo il Gunpowder Plot
(1605)166 , con vari scritti, il moderato Pseudo-Martyr (Il presunto martire)
e la satira antigesuita Conclave Ignatii, ma ciò non gli impedì di coltivare
anche la poesia d’amore e la poesia religiosa. Procedette così nella stesura
dei Songs and Sonnets (Canzoni e rime167 ), già iniziati negli anni ’90, e
compose gli Holy Sonnets (Rime sacre), espressione del suo tumultuoso
rapporto con Dio.
Nel 1611 pubblicò An Anatomie of the World (L’autopsia del
mondo) che rivela lo smarrimento dell’intellettuale del primo Seicento,
perso in un universo i cui punti di riferimento sono venuti meno con
l’avvento della “nuova scienza”, la new philosophy. L’universo tolemaico,
geocentrico, finito, perfetto e comprensibile, stava sgretolandosi sotto i
colpi sia della teoria di Copernico, riconosciuta valida nel primo ’600, sia
del pensiero di intellettuali come Giordano Bruno, che sosteneva
l’universo infinito e in costante rinnovamento, sia delle tesi di astronomi
come Keplero, che dimostrò che il moto dei pianeti non avviene lungo
orbite circolari ma ellittiche, o come Galileo, che scoprì le macchie solari,
segno che la teoria di Aristotele relativa all’incorruttibilità dei cieli non era
valida. L’universo ‘moderno’ quindi appariva eliocentrico, infinito,
imperfetto, inconoscibile, dominato dall’assurda geometria dell’ellisse.
Ma anche il mondo terracqueo si era enormemente dilatato con la scoperta
addirittura di un nuovo continente, mentre l’unità cristiana era finita per
sempre. Tutte queste realtà creavano angoscia e perdita del senso
d’identità.
166 Come sappiamo (v. p. 25), la congiura (plot) delle polveri (gun powder)
(novembre 1605), di matrice cattolica, mirava a far esplodere il parlamento in una
circostanza in cui era presente anche il re. Sventata, provocò l’inasprimento delle
pene contro i cattolici e il riavvicinamento tra il re e il parlamento.
167 Sonnet qui significa componimento d’amore.
107
Nel frattempo, constatando che la speranza di un impiego pubblico
non si concretizzava e venendo incontro alle sollecitazioni di Giacomo I
che lo voleva membro della Chiesa, Donne – pur proclamandosi indegno
di prendere gli ordini – fu ordinato sacerdote (1615). Subito cessarono i
problemi economici ed egli raccolse onori e riconoscimenti. La tragedia
che lo colpì nel 1617 con la morte della moglie amatissima accentuò la sua
vocazione. In breve divenne un predicatore molto apprezzato e poi decano
della cattedrale di S. Paolo. Nello spazio antistante la cattedrale egli recitò,
con autentico talento retorico, i suoi maggiori sermoni. Il problema del
rapporto con Dio, pur molto rasserenato, conobbe negli ultimi anni ancora
qualche sussulto. Pronunciato il suo ultimo sermone, Death’s Duel (Duello
con la morte), a febbraio del 1631, si preparò alla morte, che lo colse un
mese dopo.
168 Norton Anthology, 2001: 602-3. Attenzione alla grafia di Donne e, con lui, di
molti scrittori del tempo: la s del genitivo sassone è unita alla parola che la precede
senza apostrofo (Kings=King’s); ladies può essere il plurale di lady o il genitivo
(= lady’s); parole che oggi terminano in consonante (son) hanno una e finale e il
raddoppio della consonante (sonne); la desinenza del passato dei verbi deboli (-
ed) è spesso sostituita da t (blest=blessed) o da ’d (dignifi’d=dignified); le
consonanti doppie finali sono spesso ridotte a semplici (wil=will); la e finale
sonora è scritta ee (bee=be). Sono comuni all’epoca la desinenza -th invece di -s
alla III persona singolare e la desinenza –st per la II persona del presente e del
passato, spesso preceduta da apostrofo (saw’st=[you] saw). Si ricordino le
contrazioni ’tis per it is, ere per before, o’r per over, Ile per I will. Si ricordi inoltre
che nel ’500-’600 but significava spesso soltanto, che still significava non ancora
come oggi, ma sempre, che le grafie then e than erano intercambiabili. (Donne,
1968: 83-4)
169 Secondo la leggenda, alcuni giovinetti di Efeso si rifugiarono in una caverna
108
Era così. Tranne questo, tutti i piaceri sono fantasia.
Se mai ho visto bellezza
che ho desiderato e posseduto, non è stato che un sogno di te.
Galeno (II secolo d.C.), secondo cui la salute si basava sul perfetto equilibrio dei
quattro umori che si credeva componessero il corpo umano.
174 to slacken = to become less intense.
109
sentimenti, sia per la concezione di un amore che nasce nell’atto sessuale
ma trascende la sessualità, configurandosi come unione delle anime , è
ricollegabile all’amore di John per Ann. Nella poesia d’amore di Donne si
individuano immediatamente due filoni: quello di una poesia erotica –
erotica fino al blasfemo, come già attesta l’Elegia XIX – contrassegnata da
spregiudicatezza, libertinismo e gusto del paradosso, e quello definito da
Grierson (grande studioso di Donne) serio, che celebra l’amore in quanto
sentimento profondo e misterioso. L’amore coinvolge l’uomo e la donna
nella loro totalità e reciprocità, unisce l’aspetto sensuale e quello
spirituale, così creando il microcosmo perfetto degli amanti, alternativo al
mondo della vita quotidiana, e conferisce immortalità. La poesia di Donne
è altissima sia quando celebra l’amore appagato e corrisposto, sia quando
vibra di una straziante nota di dolore, provocato dalla separazione fisica (si
vedano le due liriche di commiato, i valedictory poems), sia quando
rinnega l’amore.
Per parlare d’amore Donne ricorre a un linguaggio colloquiale,
legato all’esperienza quotidiana ma arricchito dai riferimenti alle diverse
realtà della sua vastissima cultura filosofica, teologica e letteraria (la
scienza, la geografia, la religione, i viaggi ma anche Petrarca, Ovidio,
Galeno, S. Tommaso).
Il titolo The Good Morrow potrebbe tradursi Il Nuovo Giorno, il
giorno che dà inizio a una Vita Nuova. La lirica ha la forma della mattinata,
dell’aubade, il canto che l’io lirico rivolge all’amata al risveglio. Racconta,
infatti, di un risveglio che è fisico ma soprattutto spirituale e celebra un
amore corrisposto e felice. Due i concetti chiave: l’idea di un amore che
muove dalla sfera sessuale (I strofa) a quella spirituale (II strofa) e crea una
realtà separata e superiore rispetto al mondo; l’idea di un amore
appagato e reciproco – antitetico, dunque, a quello dei canzonieri, per lo
più contrassegnato dalla perdita o dalla rinuncia, dalla gelosia o
dall’abbandono, dalla speranza che cede alla frustrazione.
Il song consta di tre stanze. La scena, una camera da letto. I due
sono insieme dopo la prima (forse) notte passata insieme. L’io lirico parla
per sé e per lei. Nella I strofa osserva che il loro amore trascende tutte le
esperienze passate. Nella II lo misura contro le più famose imprese del suo
tempo e lo proclama ad esse superiore; nella III considera la perfezione del
loro sentimento, perfezione garante di immortalità.
La I stanza muove da una domanda semplice, formulata in un
linguaggio e in un tono colloquiale. L’accento cade su did, collocato
110
all’inizio del verso. L’accostamento thou 175 and I suggerisce che il song
tratterà del problema della coppia. La strofa ruota sulla contrapposizione
tra la vita prima e dopo l’incontro e tale contrapposizione genera stupore
negli stessi amanti. L’io lirico è sorpreso nel constatare quanto sia stata
irrilevante la loro vita prima che si incontrassero e sintetizza la comune
esperienza pregressa in tre verbi che indicano inconsapevolezza infantile
(weaned e sucked) e rozza volgarità (snorted). Prima di incontrarsi, i due
erano immaturi (lo suggerisce anche l’avverbio childishly), si
accontentavano di piaceri grossolanamente sensuali; erano tagliati fuori dal
mondo e dalla vita (come i giovinetti di Efeso che dormivano nella
caverna). It was so: tre monosillabi segnano la consapevolezza acquisita di
un passato senza senso. Le cose sono andate così, considera l’io lirico,
implicando che ora sono cambiate: i due sono cresciuti, hanno superato la
fase del banale, volgare rapporto erotico (dei country pleasures), si sono
svegliati alla vita, sono usciti dalla caverna dei sensi. Ancora riflettendo
sul passato, la voce parlante constata che i piaceri di un tempo erano solo
fancies inconsistenti e le donne desiderate e possedute erano solo un dream
irreale, un’inconsistente e vaga anticipazione di lei, la donna destinataria
del song.
L’annuncio trionfante della nuova realtà d’amore trova spazio
nella II strofa. L’inizio, nella mollezza un po’ languida del verso, segna la
radiosa serenità degli amanti, mentre souls, a fine verso, sottolinea la
sacralità del momento. Prima ha parlato il corpo, ora parla l’anima.
L’amore ha provocato un risveglio delle anime da una realtà di sonno e di
inconsistenza, da una notte di immaturità. Il nuovo giorno comporta una
nuova consapevolezza dell’io e dell’altro, nonché la scoperta della
insignificante relatività del mondo. I due si guardano e nei loro occhi non
c’è paura (ispirata dalla gelosia), né timore di abbandono o d’infedeltà.
Nello sguardo trovano totale appagamento né sentono il bisogno di vedere
altro: niente li attrae più di se stessi. Il senso di totale appagamento si
riflette nell’immagine della stanzetta che diventa l’equivalente
dell’universo. Ed essa è, come appare dai versi successivi, un luogo
tagliato fuori dall’affanno e dall’agitazione che contrassegnano il mondo.
Gli amanti preferiscono il loro microcosmo – formato da se stessi nella
stanzetta – al macrocosmo in dilatazione, che pure svela le meraviglie di
mondi sconosciuti (l’America, l’Estremo Oriente, le regioni nordiche).
175 thou, diversamente dal formale you, suggerisce l’intimità del rapporto.
111
Anzi alla dilatazione del mondo si contrappone la concentrazione della
stanza, alla fatica di quanti si affannano a scoprire e a mostrare si
contrappone la quieta serenità degli amanti, la cui esperienza è ben più
ricca ed eccitante di quella di navigatori e cartografi. Tanto più che ognuno
dei due è un mondo e ha nell’altro un mondo.
Ecco perché il poeta, mentre ripercorre le fasi dei viaggi di scoperta
– andare, informare, conquistare – ognuna delle quali aveva
suscitato tanto entusiasmo tra i contemporanei, prende
ironicamente le distanze dal fenomeno e davanti ad esso assume
un atteggiamento di condiscendente sufficienza che l’uso
concessivo del verbo sottolinea. (Rossi, 1996: 180)
La III stanza si apre sullo sguardo degli amanti. I primi due versi
sono semplici, il concetto insolito ma comprensibile. Nella vicinanza
dell’abbraccio ognuno vede il proprio volto riflesso sulla pupilla dell’altro,
mentre i volti stessi rivelano la sincerità dell’amore. Poi il pensiero si fa
complesso, perché l’io lirico si rifà alla realtà cosmografica evocata nella
II stanza. Distesa sulla pupilla, l’immagine del volto assume la forma di un
emisfero, mentre il volto richiama la forma del cuore. L’io lirico si chiede
dove si possano trovare due emisferi migliori dei loro occhi, visto che essi,
diversamente dagli emisferi che compongono il mondo, non conoscono né
gelo né declino. La perfezione degli emisferi diventa allora simbolo della
fusione perfetta degli amanti. L’idea della perfetta fusione induce l’io
lirico a formulare, con mossa audace, la teoria dell’immortalità degli
amanti stessi. Secondo le teorie di Galeno, la salute dipendeva dalla
perfetta commistione dei quattro umori che formavano il corpo: sangue,
bile, bile nera, catarro. La malattia insorgeva quando un elemento
prevaleva sugli altri. Immortali erano soltanto le realtà pure, non commiste
(come l’anima), o quelle composte in modo perfettamente omogeneo. In
base a questo assunto, il primo implicito, il secondo esplicito, l’io lirico
può affermare l’immortalità degli amanti, perché il loro amore è il risultato
della fusione delle anime in una realtà unica, quindi pura, non commista,
oppure perché è il risultato dell’unione di due entità separate (thou and I),
ma identiche per intensità d’amore, quindi perfettamente omogenee. Forse
l’elemento più significativo di questa e di altre liriche di Donne è che qui
è l’amore a conferire immortalità e non la poesia, come aveva dichiarato
Orazio e come Shakespeare, tra gli altri, aveva ribadito nei Sonetti.
112
The Canonization 176
“La canonizzazione”
113
Così i due sessi formano184 un’unica cosa neutra.
Noi moriamo e risorgiamo come lei185 , e ci dimostriamo
per via di questo amore misteriosi.
Composto nel o dopo il 1603, quando regnava già Giacomo I (king’s image
al v. 7 lo prova), il song appartiene alla maturità del poeta, periodo a cui
andrebbe comunque ascritto per la complessa articolazione e la varietà di
toni. L’intensità del sentimento che lo sottende fa pensare sia stato ispirato
da Ann More, ma la mancanza di riferimenti certi impedisce di leggerlo in
chiave autobiografica. Il tema è la celebrazione dell’amore che lega l’io
lirico alla donna.
114
In fact, «The Canonization» seems to take up the job of analyzing
and justifying Donne’s love at the point where «The Good-
Morrow» leaves off. […] The world which has been renounced is
now obtruding its claims on the surety of the love: its voice is heard
strongly in the poem and its practical demands must be answered.
The poem is a dramatization of this personal problem in a tough
and hard-fought debate between John Donne and the World. (Hunt,
1956: 72)190
In sintesi: l’amore tra l’io lirico e la sua donna merita che si rinunci al
mondo (I strofa), ma non incide sulle sorti del mondo (II strofa). Gli
amanti, a cui il mondo impedisce di vivere d’amore, sono destinati a morire
a causa di tale sentimento perfetto (III strofa). Tuttavia, morendo da martiri
dell’amore, saranno santificati, quindi venerati dalle generazioni future, e
il loro amore servirà da modello per chiunque ami nei secoli a venire.
The Canonization è contrassegnato da fortissima teatralità. La
prima parte si gioca sul duello verbale tra l’io lirico e un adversarius, un
amico o una persona di buon senso. Costui, personaggio muto, idealmente
prima della I e della III strofa, solleva obiezioni circa il rapporto d’amore
tra i due, anzi sostiene che è una sciagura. La teatralità della risposta si
coglie nell’uso degli imperativi, nel vigore esasperato del discorso e nella
stessa imprecazione iniziale, mentre quello di chiudere ogni stanza con la
parola love è solo un artificio (un vezzo?). Il song registra un mutamento
di tonalità nella III e IV strofa, quando la spregiudicata energia delle prime
due cede il passo a una pacatezza e a una serietà inaspettate, che
accompagnano la meditazione finale. Registra anche una variazione di
struttura che, lineare nelle prime stanze, si fa progressivamente più
complessa nella III e nella IV, in corrispondenza con la maggior
complessità del pensiero.
Il titolo riprende una convenzione poetica che equipara l’amore al
culto religioso: se i cattolici proclamano la santità di creature perfette, nella
religione laica sono gli amanti – espressione del sentimento perfetto – ad
essere santificati. All’inizio, tuttavia, nulla lascia supporre che la lirica sarà
la celebrazione dell’amore spirituale. Nelle prime due strofe trionfa il gusto
del dettaglio realistico. L’una, sul versante privato, allude alla realtà
quotidiana, legata a questioni di malattia, di vecchiaia, di denaro, di cultura,
115
di carriera, di omaggio ai potenti. L’altra, sul versante pubblico, accenna a
problemi di commercio, di alluvioni, di gelate primaverili, di calura estiva,
di epidemie, di guerra, di contese giudiziarie. L’andamento del discorso,
realistico nella I strofa, si fa deliberatamente antipetrarchesco nella
seconda, dove i topoi della poesia amorosa (tempeste di sospiri, diluvi di
lacrime, geli e ardori del cuore) sono accostati alle preoccupazioni pratiche
del mondo.
Dall’avvio della I strofa capiamo che l’adversarius ha criticato l’io
lirico per il suo amore sconsiderato. Questi dapprima impreca e lo zittisce,
poi conviene con lui che l’amore lo ha ridotto proprio male, malato,
prematuramente vecchio, senza un soldo. Però fa capire – ponendo you in
posizione fortemente accentata dopo il verbo – che quanto preme agli altri
(soldi e carriera) a lui non interessa affatto. Nella II strofa, dove la nota
ironica è più marcata, dichiara che il suo amore non danneggia nessuno e
che il mondo va avanti lo stesso, anche se i due si amano: il loro rapporto
è una questione esclusivamente privata.
Tra la II e la III strofa bisogna presupporre un altro intervento
dell’adversarius, che malinconicamente osserva come l’erotismo sfrenato
stia distruggendo gli amanti. L’io lirico non protesta: ammette la natura
sessuale del rapporto, riconosce che li degrada agli occhi della gente (lo
suggerisce il termine fly), li consuma come candele, li divora (to die ha il
duplice significato di morire e fare l’amore). Tuttavia l’inattesa evocazione
dell’aquila e della colomba imprime una svolta alla canzone. Simboli
rispettivamente di forza e di mitezza, di attività e di passività, di
mascolinità e di femminilità, esprimono il carattere eccezionale di un
amore in cui i contrari si uniscono in armoniosa unità. Il successivo
accenno alla fenice 191 accentua la valenza arcana del rapporto: i due,
unendosi, formano un unico essere che trascende i sessi – misterioso,
immortale e propagatore di vita. Poiché nel Medioevo e nel Rinascimento
la fenice era associata all’amore spirituale e all’amicizia tra Cristo e gli
uomini, l’allusione lascia intendere che l’amore, nato da un rapporto
sessuale, diventa unione spirituale.
Nella IV strofa l’io lirico dà ragione all’adversarius su un unico
punto, che essi sono destinati a morire perché il mondo non consente al
loro amore di vivere. Ma ben presto si prende la sua rivincita. Se essi
moriranno per fedeltà al loro amore spirituale, la loro morte sarà come
191 Il mitico uccello rinasce dalle proprie ceneri sempre uguale a se stesso, riunisce
in sé una doppia sessualità e da solo perpetua la specie.
116
quella dei santi e dei martiri, che muoiono avendo rinunciato ai valori del
mondo. Quindi, come i santi e i martiri, saranno canonized. La IV strofa è
costruita su un gioco di contrapposizioni tra il funerale fastoso dei grandi
(con catafalchi e mausolei) e quello modesto degli amanti (deposti in urne
o cappelle), tra il monumento superbo che accoglie le spoglie degli
individui famosi e l’urna o la cappelletta in cui giacciono gli amanti, tra la
storia (chronicle) e la storia di un santo (legend), tra la storia e la poesia
(hymns). Se tomb, hearse, chronicle rappresentano il destino dei grandi,
legend, verse, sonnet, rooms, well-wrought urn, hymns esprimono il
destino degli amanti. L’amore li ha chiamati alla santità, all’immortalità
sancita dalla poesia, alla venerazione di generazioni intere.
La preghiera, oggetto della V strofa, getta luce sulla natura
straordinaria del loro rapporto. Esso non è ciò che sembra, un’unione fisica,
catastrofica sotto tutti i punti di vista. E’ un’unione spirituale, è sacralità
(reverend), rinuncia al mondo (hermitage), appagamento (peace). Nella
sua totalità ingloba sia l’anima del mondo, la sua spiritualità, sia la sua
realtà fisica. Il concetto è reso attraverso l’immagine dello sguardo
reciproco. Mentre gli amanti si guardano con intensità, ognuno trova
nell’altro il mondo intero. Infatti, secondo un concetto caro al
Rinascimento, l’uomo è un microcosmo, un mondo in miniatura, per cui,
quando l’immagine dell’uno si riflette sulla pupilla dell’altro, quest’altro
vede non solo l’immagine dell’amato ma anche un condensato del mondo
– paesi, città, corti.
La preghiera si conclude con una supplica rivolta dagli amanti
futuri agli amanti del song perché, dall’alto della loro santità, ottengano da
Dio che il loro amore si reincarni e possa fungere da modello a chi ama.
L’amore-modello è dunque assimilato all’Idea platonica, nel suo carattere
soprasensibile e assoluto.
117
così infatti sono
pregne di te;
frutto di molto dolore, di altro dolore emblemi –
quando una lacrima cade, cadi anche tu, impressa su di lei193 ,
così, su sponde diverse, tu ed io non siamo più nulla.
E’, questo, un valedictory poem scritto forse nel 1611, alla vigilia
della partenza di Donne per un viaggio in Europa al seguito di Sir Robert
Drury, che gli aveva offerto un impiego temporaneo. Composta da tre
stanze con versi di varia lunghezza, è la più dolente delle poesie di
commiato. Ispirata da un’ansia dolorosa al pensiero del distacco dall’amata
e alla lugubre prospettiva di un imminente naufragio, la lirica è costruita
intorno a un gioco di immagini strettamente concatenate, anzi si può dire
che si risolva tutta quanta in immagini. Il linguaggio è semplice, sommessa
118
la teatralità dell’incipit, supplice e commosso l’uso frequente
dell’imperativo. Pianto, dolore, nulla, morte segnano il clima della
canzone. L’intensità della pena induce a ricondurre il poem a un autentico
distacco del poeta Donne dalla moglie amatissima.
L’io lirico sta per intraprendere un viaggio e chiede all’amata di
poter piangere davanti a lei nel tempo che precede la partenza. La richiesta
di pour forth tears implica la richiesta di dare libero sfogo ai sentimenti.
Come in The good morrow, l’immagine della donna si rispecchia negli
occhi di lui, quindi anche nelle sue lacrime. Esse, che nella loro rotondità
richiamano le monete dove era raffigurato il volto del sovrano, acquistano
un enorme valore in quanto sono pregne dell’amata, che vive in quelle
lacrime. Tuttavia, espressione di molto dolore, ne annunciano altro.
Quando infatti una lacrima cade a terra e si dissolve, con lei cade e si
dissolve anche l’immagine della donna. Quando essi saranno separati, su
lidi diversi – il viaggio dunque prevede un tragitto per mare – cesserà ogni
riflesso dell’uno nelle lacrime dell’altra ed essi, non vivendo più in quelle
lacrime, saranno ridotti a nulla. Piangere, allora, non servirà: le lacrime di
chi è solo sono sterili.
Nella seconda strofa la rotondità della lacrima, che aveva evocato
l’immagine della moneta e della gravidanza, richiama al pensiero di chi
parla una palla. La palla in sé significa poco, è un nulla, ma se su di essa
un artigiano demiurgo incolla le mappe dei continenti, la palla si trasforma
in un globo, in un tutto. Analogamente la lacrima su cui si è impresso il
volto dell’amata – colei che per l’io lirico equivale al mondo (si vedano
The Good Morrow, 17-18, e The Canonization, 41-44) – diventa essa stessa
un mondo. A questo punto l’amata incomincia a piangere. Allora le lacrime
di lei, miste a quelle dell’io lirico, sommergono il mondo sotto un secondo
diluvio universale. Esse scendono dal cielo, heaven, ma il cielo dell’io
lirico è l’amata stessa. Quindi le lacrime di lei, per amara ironia, dissolvono
“il mio cielo”, cioè lei stessa o, meglio, il microcosmo che la sua immagine
aveva creato in ogni lacrima di lui.
Nella strofa finale l’io lirico rivolge una accorata supplica alla
donna perché contenga il pianto e i sospiri, onde non induca gli elementi
naturali a trarre esempio da lei e a far affondare il veliero su cui egli
viaggerà. Più potente della luna che esercita la sua forza sulle maree,
l’amata attira a sé mari interi, rischiando di mettere a repentaglio la nave,
mentre i fitti sospiri potrebbero indurre i venti a scatenarsi. L’idea della
119
morte, già suggerita da fall, nothing, overflow, dissolve, appare in tutta la
sua evidenza nell’ultima strofa, racchiusa tra dead e death.
La lirica si impone all’attenzione del lettore anzitutto per il
susseguirsi di conceits. La sfericità della lacrima richiama la moneta,
l’effigie del sovrano impressa sulla moneta rinvia all’immagine del volto
dell’amata impressa sulla lacrima, la lacrima rotonda che porta l’amata
suggerisce il ventre gravido. La lacrima priva dell’immagine cara è la palla,
entrambe di per sé realtà di nessun valore. Tuttavia, quando sulla palla
vengono incollate le mappe dei continenti, essa diventa il mondo, da un
nulla diventa il tutto. Per analogia, la lacrima di lui diventa un mondo
quando reca, riflesso in sé, il volto dell’amata, epitome del mondo, e da
nulla diventa tutto. Il diluvio, le cui piogge precipitano dal cielo, sommerge
il mondo, come il pianto congiunto dei due travolge quello creato
dall’immagine della donna sulle lacrime di lui. La rotondità della lacrima
richiama la rotondità delle sfere cosmiche, le sfere richiamano il cielo della
Luna. Se la luna provoca le maree, la donna, più potente della luna, attira
a sé mari interi. L’idea evoca di nuovo il prossimo viaggio per mare,
mentre l’immagine del globo nella seconda strofa e quella della tempesta
di sospiri nella terza ribadiscono l’inscindibile unità degli amanti.
Il song non si risolve certo soltanto in un raffinato gioco di
immagini tutto intellettuale. Ispirato dallo strazio di un’imminente
separazione, dà corpo al dolore con espressioni molto struggenti.
120
Simile a una città usurpata 202 , che spetta ad un altro203 ,
mi sforzo di farti entrare, ma invano.
La ragione, tuo viceré in me, dovrebbe difendermi,
ma è prigioniera e si dimostra debole o infida.
Eppure ti amo con tutto il cuore e vorrei essere amato,
ma sono promesso sposo204 al tuo nemico.
Divorziami allora, sciogli o spezza di nuovo quel nodo,
portami da te, imprigionami, perché,
a meno che tu non mi faccia schiavo, io non sarò mai libero,
né sarò mai casto, a meno che tu non mi violenti.
121
anzi che Egli lo faccia prigioniero o schiavo, condizione essenziale per la
sua libertà, e che lo violenti, condizione essenziale per la sua purezza.
Come si è visto, il sonetto si gioca sull’antitesi, tipica della
sensibilità manierista e di un poeta che pensa in termini di contrasto.
L’azione ‘morbida’ intrapresa da Dio contrasta con l’azione violenta che
l’io lirico auspica: Dio non bussi ma sfondi, non aliti ma travolga, non brilli
ma arda, non aggiusti ma ricrei. Altre antitesi si riscontrano tra libertà e
prigionia, castità e stupro (dove ravish suggerisce, oltre alla violenza
carnale, il rapimento mistico). Il sonetto si gioca anche sul paradosso: per
risorgere l’io lirico va buttato a terra, per essere libero va imprigionato, per
essere casto va violentato. Dal componimento emergono il concetto,
tipicamente medievale, dell’anima contesa tra Bene e Male e l’immagine,
tipicamente manieristica, dell’amore di Dio e per Dio come realtà
passionale, sensuale. Se per poesia religiosa si intende quella che esprime
lo sforzo dell’uomo di adeguarsi a una volontà superiore, quella di Donne
è sicuramente poesia religiosa. Non verte intorno a dispute dottrinali, ma
si incentra sull’uomo – non l’uomo astratto, bensì l’individuo (il poeta
stesso?), diviso tra l’aspirazione a una realtà più alta e il coinvolgimento
nelle cose del mondo, torturato dal terrore di essere dannato ma aggrappato
alla speranza di un Dio che perdona e riscatta.
Settecento. Fu poeta, e le sue satire in versi hanno ottenuto nel XX secolo viva
attenzione critica; fu saggista, e i suoi saggi (sulla felicità, l’ansia, il dolore, la
fama, l’amicizia…) riflettono il virile pessimismo che contrassegna la sua visione
della vita. Fu, però, anzitutto un lessicografo e, in quanto autore del primo
Dictionary of English Language (1755), occupa una posizione di straordinario
rilievo nella cultura inglese. Qui egli elenca i lemmi dell’inglese, li illustra (a volte
con notazioni ironiche) e li correda di esempi tratti dai più diversi autori. Compose
anche un romanzo filosofico, un libro di viaggi e le Lives of English Poets,
capolavoro di critica letteraria, nel quale compaiono le considerazioni sui poeti
metafisici.
122
S. Lewis, affermando in modo tranchant che i Songs and Sonnets sono
poesie d’amore in cui manca…l’amore.
Al centro della poesia metafisica – affermò Dr Johnson – sta il wit,
l’ingegno, sorta di discordia concors, che consiste nella scoperta di occulte
analogie in realtà totalmente diverse (l’amore e il compasso, l’atto
sessuale e la conquista dell’America, la lacrima e la moneta, la lacrima e
la palla). Le analogie individuate dal wit creano dei conceits,
straordinarie metafore i cui termini (l’amplesso e la conquista
dell’America, la lacrima e il mondo ecc.), secondo Johnson, sono yoked by
violence together207 in una poesia aspra e irregolare dal punto di vista
metrico. Di fatto la poesia metafisica è sì aspra, dissonante, irregolare, ma
lo è perché dà voce ai mille contrasti del mondo in cui vive il poeta, ed è
poesia difficile perché esprime un mondo difficile. Poesia innovativa,
trascura la tradizione recente: non serba traccia dell’armonia di Spenser,
rifiuta la moda dei canzonieri, il mito, le descrizioni paesaggistiche, ignora
il motivo del carpe diem, contesta i topoi della poesia d’amore. Si
compiace, invece, di immagini insolite , desunte da ogni ramo dello scibile
(chimica, filosofia, astronomia, letteratura di viaggi, teologia…) e le
accosta ad espressioni dell’uso quotidiano. In folgoranti conceits come
nelle allusioni alle molte facce della vita e della cultura del suo tempo, John
Donne dà prova del suo wit che, pur cerebrale, non altera la sincerità dei
sentimenti espressi (ira, disprezzo, amore, dolore…). Il wit, cioè il gioco
dell’ingegno, è un modo intellettuale nuovo, qualche volta disturbante, di
cui egli si serve per dilatare a dismisura la realtà, con un’operazione
analoga a quella di Persio (v. I.1.4), che “distorce il linguaggio poetico
tradizionale col gioco ardito e tortuoso dei nessi sorprendenti e delle
metafore inattese” (Citroni, 1997: 552).
Nata in età elisabettiana, la poesia di Donne possiede la potente
carica teatrale tipica della sensibilità del tempo, che si manifesta nel modo
– tenero, brusco o irriverente – in cui l’io lirico si pone come interlocutore
di qualcun altro. Poesia complessa, fu criticata nel ’600, apprezzata e
criticata insieme nel ’700 da Dr Johnson, ignorata nell’800, ad eccezione
di Coleridge, e scoperta nel XX secolo. Uno dei massimi poeti e critici del
’900, T. S. Eliot, la sentì in sintonia con il proprio tempo – un’età, quella
tra le due guerre mondiali, di ansie e incertezze – e, correggendo Johnson,
osservò che nella poesia metafisica le idee strane non sono forzosamente
123
accostate bensì united. Caduto il divario tra pensiero e sensazione,
continua Eliot, con i poeti metafisici il pensiero si fa sensazione, la
sensazione si fa pensiero. Donne, cioè, ora usa immagini di grande
evidenza fisica per esprimere concetti metafisici, ora esprime sensazioni
fisiche con il linguaggio delle dispute filosofiche, ora esplora il sentimento
con operazioni raziocinanti. In questo quadro il wit non è una forma di
narcisismo intellettuale, ma un mezzo per esplorare il mondo, attraverso
l’accostamento, quindi l’unione, di realtà eterogenee.
124
sarebbe protratto (secondo Eliot) fino al ’900. Intanto però il ’900 studiò il
pensiero di Milton, il suo background culturale, per scoprire che il Milton
umanista meritava più attenzione che non il Milton puritano. Oggi egli ci
appare come l’ultimo esponente dell’Umanesimo cristiano, di quella
tradizione cioè che aveva assemblato la cultura classica a quella cristiana
creando un’espressione cristallina e complessa.
Milton nacque nel 1608 da famiglia agiata a Londra, non lontano
da quella taverna, Mermaid Tavern, in cui Shakespeare e Jonson avevano
i loro incontri, le loro libagioni e le loro schermaglie. Ampie letture e studi
approfonditi, propiziati da un padre che aveva individuato le potenzialità
del figlio, furono seguiti da un impegno assai intenso a Cambridge. Qui il
giovane conseguì il doppio titolo accademico, divenne un grande latinista
e scrisse il suo primo capolavoro, l’ode On the Morning of Christ’s Nativity
(1629), nonché i poemetti gemelli L’Allegro e Il Penseroso. Dopo i sette
anni universitari, Milton ne trascorse altri sei [a]t my father’s house in the
country: sollevato da incombenze pratiche, s’immerse di nuovo nello
studio e nella lettura, preparandosi a quella missione di poeta che si
andava delineando in modo sempre più netto nella sua mente. In quegli
anni compose un masque 208 pastorale, Comus, che rivela il suo interesse
per la figura del tentatore, destinato ad esprimersi compiutamente
nell’immagine di Satana del Paradise Lost, e Lycidas, un’elegia pastorale
che, per un verso, commemora un ex compagno di corso209 , poeta e
neodocente a Cambridge, frutto esemplare “of the true university,
producing shepherds to guide the nation” (Brown, 1995: 51), per l’altro
attacca il clero corrotto, che non si cura del suo gregge e non lo protegge
dal “lupo feroce” del cattolicesimo. Dopo lo studio, il Grand Tour. Tra il
1638 e il 1639 Milton trascorse quindici mesi in Italia, accolto con calore
da studiosi e intellettuali che lo incoraggiarono a seguire la sua vocazione.
125
A Firenze incontrò Galileo, anziano e cieco – vittima eccellente
dell’oscurantismo controriformista – che Milton avrebbe ricordato due
volte nei suoi scritti.
Ritornato a Londra, fondò una scuola e seguì con appassionata
attenzione le lotte tra il re e il parlamento, tra anglicani e puritani, che
culminarono nel 1649 con la messa a morte di Carlo I e l’instaurazione del
Commonwealth. Schierato dalla parte puritana, accettò la carica di
Segretario del Consiglio di Stato, nonostante un grave indebolimento della
vista che lo avrebbe reso cieco a quarant’anni210 . Per vent’anni, dal 1641
al 1660, rinunciò alla poesia, pur componendo diciotto211 dei suoi ventitre
sonetti – “diciotto piccoli capolavori nella loro apparente banalità
occasionale” (Bignami, 1990: 59)212 – per scrivere trattati prosastici213 . Tali
trattati, dibattendo temi d’attualità, contribuirono ad elaborare concetti che
stavano emergendo: la tolleranza religiosa, la separazione tra Chiesa e
Stato, il contratto sociale, il diritto alla rivolta – tutto mediato nei termini
retorici del puritanesimo, in base ai quali l’Inghilterra è il nuovo Israele
e gli inglesi devono mirare all’instaurazione di una comunità di Santi. Lo
scritto più famoso è l’Areopagitica, orazione di stampo classico in difesa
sia della libertà di stampa e di parola, sia della tolleranza religiosa in
nome della forza invincibile della ragione e della verità. Gli altri affrontano
temi diversi: il governo della Chiesa (la diatriba con i vescovi fu serrata),
il divorzio (ad esempio in The Doctrine and Discipline of Divorce214 ), la
210 Milton, pur giovane e impegnato nella politica e nella scrittura, sopportò la
cecità con grande dignità e con il coraggio che gli veniva dalla fede.
211 Due dovrebbero essere ricordati: When I Consider How My Light Is Spent (più
tardi denominato On His Blindness), intensa riflessione sul modo in cui Milton,
ormai cieco, possa servire il Signore, e On the Late Massacre in Piedmont,
sferzante invettiva ispirata dal massacro perpetrato dai cattolici ai danni degli
evangelici valdesi.
212 Per un’analisi sottile dei sonetti si veda Bignami, 1989: 233-40.
213 In un passo di uno dei primi trattati, The Reason of Church Government, Milton
dichiara con franchezza e un pizzico di autoironia che nella scrittura in prosa egli
ha the use, as I may account, but of my left hand. Di fatto i trattati successivi
esprimono una prosa alta e appassionata.
214 Gli scritti sul divorzio non furono ispirati dalle “disavventure coniugali”
(Bignami, 1990: 45) dell’autore. Piuttosto, gli fornirono l’occasione per esprimere
la sua meditata concezione del matrimonio, da cui emerge una prospettiva “assai
moderna […] che vede nell’istituzione matrimoniale “conforto e delizia
dell’uomo” […] piuttosto che l’occasione legalizzata della perpetuazione della
126
politica. Tra questi ultimi il più clamoroso è Pro Populo Anglicano
Defensio (1651), apologia del regicidio215 , che ebbe risonanza in tutta
Europa.
Impegnato fino all’ultimo nella difesa del Commonwealth, con la
Restaurazione (1660) Milton corse il rischio concreto di subire pesanti
ritorsioni da parte monarchica. Se la cavò con una breve incarcerazione,
cui seguì l’amnistia. Ritiratosi a vita privata, si dedicò esclusivamente alla
poesia. Nel 1667 uscì Paradise Lost, incominciato alla fine degli anni ’50;
nel 1671 videro la luce Paradise Regained, poema epico in quattro libri, in
cui la resistenza di Gesù alle tentazioni di Satana è lo strumento con cui il
paradiso è riconquistato, nonché il closet drama 216 con struttura
neoclassica e rispetto delle unità, Samson Agonistes, Sansone il Lottatore
(the Wrestler). Milton si spense serenamente nel 1674.
specie” (Ibid.). Sta di fatto che Milton sposò una giovane quasi illetterata, di
famiglia filomonarchica, che non poteva offrirgli quella “opportuna e felice
conversazione” che costituiva, a suo avviso, “il principale e più nobile fine del
matrimonio” (cit. in Ibid.) Comprensibilmente questa prima unione fu per lui fonte
d’amarezza e delusione.
215 Per uno studio approfondito dei trattati si veda Bignami, 1990: 31-61.
216 Il closet drama è la tragedia da leggere, non da rappresentare. Tali sono le
127
profezia, Dio potrebbe aver creato un nuovo mondo e una nuova specie,
called Man (II, 347)217 , a Lui cara. Se ciò fosse vero, l’ostilità contro Dio
potrebbe esprimersi conquistando quel nuovo mondo oppure guadagnando
le nuove creature alla causa infernale o infine nuocendo loro [b]y force or
subtlety (II, 358) – come di fatto accadrà. Satana si offre di andare a
verificare se la profezia corrisponda a verità. Con l’approvazione ammirata
dei compagni lascia l’inferno e vola attraverso il Caos verso l’Eden, dove
porterà a compimento la sua missione.
Dalla seconda parte del III libro in poi l’attenzione si concentra su
Adamo ed Eva che vivono sereni ed operosi nell’Eden. E’ nell’Eden che si
colloca la quasi totalità delle azioni successive – con qualche puntata in
Cielo e qualche lungo intermezzo narrativo. Il punto nodale si verifica nel
IX libro, quando Eva, determinata a imporre ad Adamo la propria volontà,
si separa da lui. Satana, entrato nel corpo di un serpente, la trova sola e
attua la sua tentazione: proclamando che il frutto dell’Albero della
Conoscenza (Tree of Knowledge) la renderà simile a Dio, la convince a
mangiare il fair fruit (IX, 763). Adamo, sapendo che Eva è ormai doomed,
perduta, per amore di lei mangia anch’egli il frutto proibito218 . E’ la
seconda caduta, esito di disobbedienza al volere di Dio. E i due devono
lasciare l’Eden.
Lo scopo del poema consiste nel dimostrare come Dio agisca con
giustizia nei confronti dell’uomo. Il racconto si basa su una interpretazione
eterodossa della dottrina cristiana e su una riscrittura del mito dell’Eden.
La posizione antitrinitaria di Milton gli consente di rappresentare il Figlio
di Dio subordinato al Padre : nell’offrirsi con eroica generosità di salvare
il genere umano, Egli si dimostra figlio di Dio [b]y merit more than
birthright (III, 309). Tuttavia alla base del poema sta la fede nel libero
arbitrio contro la teologia della predestinazione, condivisa dalla maggior
parte dei puritani. Il valore del libero arbitrio si coglie sia nel dialogo tra il
Padre e il Figlio, quando il Figlio liberamente sceglie di salvare l’umanità,
sia nella disputa tra Abdiel (l’angelo fedele a Dio) e Satana, che precede la
decisione degli angeli ribelli di passare alla rivolta aperta, sia nell’intera
vicenda di Eva. Esso trova massima espressione nello splendido dialogo
tra Satana ed Eva alla fine del quale Eva sceglie di mangiare il frutto,
perfettamente conscia di ciò che fa. La libera scelta muove dalla
conoscenza e implica maturazione. Giustamente Iannáccaro (1993: 32)
128
sottolinea che “la crescita spirituale dell’uomo” figura tra i temi centrali
del poema e aggiunge:
Tutto ciò che Adamo ed Eva sperimentano in prima persona nel
Paradiso Terrestre, l’insegnamento che traggono dai racconti di
Raffaele e […] di Michele, concorre ad una sorta di educazione
che si basa, in prima analisi, sulla conoscenza; soltanto grazie alla
conoscenza è infatti possibile mettersi in condizione di operare
delle scelte consapevoli fra il bene e il male.
129
IV libro: Satana, l’orgoglioso capopopolo che ha arringato con
successo i compagni e ha mostrato loro la sua invincibile volontà di
rivincita, appare per l’unica volta tormentato dal dubbio, dall’orrore della
sua condizione di essere infernale, dopo essere stato la più bella creatura
del Cielo. Lo sconfitto che si è atteggiato a vincitore, ora si scopre triste.
Dopo una splendida allocuzione al Sole – in cui rivela la sua personalità
frantumata – procede verso l’Eden. Qui vede Adamo ed Eva, nudi e
bellissimi, e dai loro discorsi apprende dell’albero della Conoscenza e del
frutto proibito. Progetta allora di tentarli, suscitando nei loro spiriti more
desire to know (523)220 , anche andando contro il divieto divino. Scoperto
da due angeli, è scacciato dall’Eden; tuttavia, trasformatosi in rospo (toad),
ispira ad Eva un sogno inquietante.
V libro: Eva, turbata, racconta il sogno ad Adamo che la rassicura.
I due pregano e iniziano il lavoro nel Giardino quando arriva l’arcangelo
Raffaele ad avvertirli di un pericolo imminente. Egli raccomanda loro
l’ubbidienza, poi racconta della guerra intrapresa dagli angeli ribelli. Il
racconto si conclude nel VI libro, con il Figlio che spinge i ribelli fino al
limite del Paradiso, li fa precipitare attraverso il Caos e li sprofonda
nell’inferno.
VII libro: Raffaele racconta poi della creazione dell’universo, che
si era conclusa con la creazione dell’uomo. Raccomanda ancora di non
mangiare il frutto – pena la morte.
VIII libro: Adamo narra ciò che ricorda dal momento in cui fu
creato, soprattutto del suo desiderio di compagnia e della supplica a Dio
perché gli desse una compagna. Ciò portò alla creazione di Eva.
L’arcangelo Raffaele si allontana con un’ultima raccomandazione: stand
fast; to stand or fall / Free in thine own arbitrament it lies (640-1)221 .
IX libro: Satana entra nel corpo di un serpente. Trova Eva sola
poiché costei, dopo molta insistenza, ha persuaso Adamo a lasciarla
lavorare nel Giardino separata da lui, onde possa dimostrare la propria
capacità di resistere a una eventuale tentazione. Il serpente, prima
lusingandola, poi facendole credere che diventerà come Dio raggiungendo
una conoscenza totale, la induce a mangiare del frutto proibito: her rash*
hand in evil hour / Forth reaching to the fruit, she plucked, she eat (780-
130
1)222 . Inebriata, Eva porta il frutto ad Adamo che, per amore ma conscio
della trasgressione terribile, lo addenta.
X libro: Adamo ed Eva confessano la loro colpa al Figlio di Dio
che pronuncia la sentenza. Satana torna all’inferno, dove lui e gli altri
angeli sono trasformati in serpenti. Dopo un’aspra discussione tra Adamo
ed Eva, i due si riconciliano e invocano il perdono.
XI libro: Nonostante l’intercessione del Figlio, Dio decreta che
essi lascino l’Eden e manda Michele ad attuare l’ordine. I due si lamentano
e supplicano. Michele svela loro le conseguenze del peccato originale.
XII libro: Michele racconta della futura venuta del Messia e
Adamo si rallegra che tanto bene possa venire dal suo peccato. Eva è
confortata da un sogno che le annuncia un bene futuro. Decisi ad obbedire,
i due lasciano l’Eden, mano nella mano 223 .
131
con piacere nello stesso momento ritornò anch’essa, con in risposta
sguardi
di simpatia e di amore. Là sarei rimasta a guardare227
fino ad ora e avrei sofferto con vano desiderio
se una voce non mi avesse ammonito: “Ciò che vedi,
bella creatura, ciò che vedi laggiù è soltanto te stessa,
con te è venuta e con te se ne va. Ma seguimi,
e ti condurrò dove non un’ombra aspetta 228
la tua venuta e i tuoi dolci abbracci, ma colui
di cui tu sei l’immagine. Tu lo avrai,
inseparabilmente tuo; a lui genererai
moltitudini simili a te, e per questo229 sarai chiamata
madre del genere umano”. Che altro avrei potuto fare
se non230 seguire subito la guida invisibile 231 ?
Poi232 ti vidi, bello davvero e alto,
sotto un platano; eppure mi sembrasti meno bello,
meno dolcemente attraente 233 , meno amabilmente gentile
di quella levigata immagine d’acqua. Ti volsi le spalle
e tu allora seguendomi gridasti: “Ritorna, Eva,
che sei così bella 234 . Da chi fuggi? Sei di colui da cui fuggi.
Sei la sua carne, le sue ossa. Per farti esistere ti ho dato
una parte del mio fianco235 , vicinissima al cuore,
mia vita sostanziale, per averti accanto a me,
d’ora in poi mio prezioso, inseparabile 236 conforto.
Ti cerco come parte dell’anima mia e ti proclamo
altra metà di me.” Con mano gentile
nulla.
232 Trasformiamo la congiunzione (till = finché) in avverbio.
233 winning sta per winningly, cioè funge da avverbio dell’aggettivo soft.
234 Sanesi suggerisce questo ampliamento.
235 Bisogna sottindere something premesso a [o]ut of my side
236 OED ci informa che individual ha acquisito il significato di inseparable nel
132
prendesti la mia mano. Cedetti. Da allora capisco
che la bellezza è superata dalla grazia virile
e dalla saggezza, che è la sola veramente bella.”
133
di rassegnazione. Solo dopo aver ceduto capirà che tale atto è stato per il
suo bene. A mio avviso, tuttavia, non di scelta si tratta ma di obbedienza.
L’episodio rivela che Eva è narcisista: quindi nel libro IX Satana
le parlerà facendo leva sulla sua bellezza. E’ egocentrica – quindi sarà
sensibile alle lodi e agli omaggi verbali di Satana. Ha rinunciato alla sua
volontà per ben due volte: sarà quindi pronta non solo ad opporsi ad Adamo
che vorrebbe tenerla accanto a sé, ma a credere al Serpente quando questi
le dirà che le sue pulsioni conoscitive, la sua volontà di sperimentare e di
sovvertire sono legittime.
vv. 568-588241
“Imperatrice di questo bel mondo, splendida Eva,
mi è facile dirti tutto
134
ciò che comandi ed è giusto che tu sia ubbidita 242 .
Dapprima ero come gli altri animali che pascolano
sull’erba da te calpestata. I miei pensieri erano vili243 e bassi244
come il mio pasto, non mi preoccupavo d’altro se non del cibo
o del sesso e non comprendevo245 nulla di elevato,
finché un giorno, vagando per i prati, mi capitò
di vedere a una grande distanza un albero stupendo,
carico di frutti dai colori bellissimi e vari,
porpora246 e oro. Mi avvicinai per osservarlo,
quando un aroma fragrante, sprigionandosi247 dai rami,
grato al mio appetito, piacque ai miei sensi
più del dolcissimo profumo del finocchio248 o delle mammelle
di pecore249 o capre stillanti latte la sera,
non ancora succhiate da agnelli e capretti intenti al gioco.
Per soddisfare l’acuto desiderio250
di assaggiare quelle bellissime mele, decisi
di non attendere oltre. Subito la fame e la sete,
persuasori potenti, acuiti dal profumo
di quell’albero allettante, mi spinsero ad agire 251 .”
135
rettile addormentato, in un soliloquio dà voce al suo inner grief (97),
l’intimo strazio di una creatura esclusa dal cielo e dalla terra.
[H]e is shown reflecting aloud on the beauties of the new-reached
earth, which greatly appeal to him and which move him, once
again, to unrestrained envy for the new world, created to be given
to the human pair (Bignami, 2005: 243).
Tanto più bella è la terra, in cui vorrebbe trovare rifugio, tanto maggiore
cresce in lui il tormento. Privato della felicità, si prefigge di rendere infelice
la creatura con cui Dio ha sostituito gli angeli ribelli e per cui ha creato
[m]agnificent this world (152). Invidia, ambizione, spirito di vendetta
ispireranno l’agire di Satana.
In un altro punto dell’Eden, il mattino successivo, Eva strappa ad
Adamo il permesso di lavorare da sola nel Giardino. Un lungo dialogo, dai
toni molto naturali, in una scena tutta domestica, precede la resa di Adamo.
Inizialmente Eva osserva che porre ordine nella vegetazione lussureggiante
sta diventando un compito impegnativo e che la lontananza tra i due,
evitando gli sguardi, i sorrisi, i conversari, renderebbe il lavoro più
proficuo. Adamo è però contrario alla separazione, non solo perché Dio
vuole che il lavoro sia un piacere, non una coercizione, ma perché teme
che qualcosa possa capitare ad Eva, severed from me 253 (252). Il malicious
foe254 (253) che li minaccia potrebbe più facilmente aggredirli, essendo essi
disgiunti. Quindi supplica Eva di non lasciarlo: in caso di pericolo, la
moglie trova sicurezza e protezione accanto al marito, oppure con lui
rischia il peggio. L’obiezione di Eva è netta. Del nemico era al corrente,
ma non avrebbe mai pensato che Adamo potesse dubitare di lei, della sua
fermezza, della sua lealtà e del suo amore nei confronti di Dio e di Adamo
stesso. Questi insiste sull’opportunità di evitare l’offensiva del nemico,
poiché l’aggressione tentata disonora chi ne è oggetto. Inoltre l’aggressore,
chiunque egli sia, è astuto e pericoloso, visto che è riuscito a sedurre gli
angeli: forse potrebbe, per invidia, attentare al loro amore. Eva ribatte con
forza che non si può vivere nel timore, che la fede e la virtù vanno messe
alla prova e che, se essi respingessero l’attacco, otterrebbero double
honour (352) e il favore di Dio. Adamo compie un estremo tentativo. Non
fa leva sulla tenerezza, ma sfodera argomenti filosofici che non incidono
su Eva – sensibile al fascino del bello, ma poco incline alla razionalità,
136
portata a confondere apparenza e realtà. Adamo considera che il free will
di cui l’uomo è dotato è soggetto alla ragione e che la ragione, sedotta dalle
apparenze, può essere ingannata. Seek not temptation 255 (364),
raccomanda, e aggiunge: se Eva vuole dimostrare la sua fermezza, dimostri
anzitutto la sua capacità di ubbidire, thy obedience (378). Ma non la
trattiene. Lei sfila dolcemente la mano dalla mano di lui e si allontana,
promettendo di tornare per mezzogiorno ad approntare il pranzo, mentre
Adamo la segue con trepidazione e le lancia richiami che restano
inascoltati.
Nel dialogo Adamo si conferma espressione dei valori dogmatico-
mistici che rappresentano, nota Cappuzzo (1972: 149), la componente
medievale della cultura di Milton, mentre la componente rinascimentale ,
materialistica, satanica e pagana, si incarna in Eva, individualista,
irrequieta, capricciosa, ansiosa di sperimentare. La voce autoriale esprime
grande rimpianto per l’innocenza di Eva, grande pena per lei che va, sola
e senza sospetto, verso il disastro.
L’attenzione si concentra di nuovo su Satana, la cui conflittualità
interiore ne fa un personaggio tragico. Del resto il libro IX, costruito in
massima parte da dialoghi e soliloqui, ha la struttura di un dramma
classico: l’azione si svolge in diversi punti di un unico luogo e nell’arco di
poche ore, quasi in tempo reale. Di questo dramma Satana è il grande
regista e il grande interprete, motore dell’azione. Egli cerca Eva, sperando
di trovarla sola. La vede, veiled in a cloud of fragrance256 (425), entro un
cespuglio di rose, mentre sorregge i fiori cadenti – lei, il fiore più bello,
privo di sostegno, ignara della tempesta imminente (431-33). Vive allora
un momento di struggimento. Per un attimo scompaiono in lui odio,
invidia, desiderio di rivalsa: la bellezza e la qualità angelica di Eva operano
un miracolo, sia pure effimero. Subito dopo, per reazione, si scatena in lui
un odio maggiore, nascosto sotto una parvenza d’amore (492). Cerca di
attirare l’attenzione di lei prima con lo sguardo, poi con i movimenti del
capo e del collo, in una ‘danza’ di corteggiamento che si avvale del
linguaggio corporeo. Solo alla fine ricorre alla parola, dimostrandosi
grandissimo retore, capace di mettere in azione anche i sensi – propri e, di
rimando, altrui.
255 Non farti indurre in tentazione. Sanesi traduce: Non sfidare la tentazione.
256 velata in una nube di profumo.
137
Sotto le mentite spoglie del serpente, per parlare ad Eva, creatura
di rango superiore, Satana ricorre alla strategia della deferenza e
dell’adorazione, che coinvolge il senso della vista (see, gaze, behold). La
deferenza traspare da un’immagine (awful brow) e dal simulato timore che
ella possa adirarsi o dispiacersi. L’adorazione si manifesta nella lode della
sua bellezza spirituale (wonder, heaven’s mildness, celestial beauty), che
suscita in lui un moto di sensualità (insatiate, with ravishment beheld),
mentre il cenno alla solitudine che accomuna entrambi e l’uso di thou, thee,
thy tendono a creare tra i due una sottile complicità. Con il discorso iniziale
Satana si prefigge di sottolineare l’altissimo valore di Eva (thee all things
living gaze on) e di farla sentire degna di un rango ancora più alto
(universally admired, a goddess […] adored and served / By angels
numberless), screditando nel contempo la sua attuale condizione di reclusa
(In this enclosure wild, these beasts among […] Who sees thee?),
defraudata del diritto alla lode unanime. Cerca così di far nascere in lei
nuove aspirazioni e semina dubbi circa l’operato di Dio.
Il piano procede. Eva si sorprende che il serpente parli e gli chiede
come mai possegga quella prerogativa.
Eccoci ora ai vv. 568-588.
Satana, dopo una nuova dichiarazione di deferenza (empress) e di
ammirazione (resplendent), le racconta la propria storia. Essa si articola in
un passato remoto (come era il serpente in origine, secondo un ritratto
connotato dall’aggettivo low), un passato prossimo (che cosa gli è capitato
un giorno: le congiunzioni till e when introducono gli eventi chiave della
metamorfosi) e il presente (il ritratto è ora connotato da high). Le azioni
che hanno portato il serpente a mangiare il frutto sono state stimolate dai
sensi: la vista lo ha spinto ad andare verso l’albero, di cui ha colto la
bellezza (goodly) e la dovizia di frutti [r]uddy and gold; l’olfatto ha
stimolato in lui un sharp desire, quello – del tutto legittimo – di soddisfare
la fame e la sete; il gusto lo ha inebriato.
Nell’ultimo passo la tentazione si farà irresistibile, esprimendosi
come potenziamento delle facoltà conoscitive. Eva si dimostrerà sensibile
non alle iperboliche lodi del serpente ma alla possibilità di acquisire ciò
che manca a lei e ad Adamo, il bene supremo della conoscenza, senza la
quale nulla si possiede.
Eva si consegna al lettore come un personaggio a tutto tondo, di
sorprendente modernità nel suo desiderio di imporre, dopo alcune rinunce,
la propria volontà (chiede e ottiene di separarsi da Adamo, di lavorare sola)
138
e di rivendicare il desiderio di essere almeno pari, se non superiore, al suo
compagno nell’ambito della conoscenza – un ambito in cui era stata
discriminata.
257 Fu John Wilmot, conte di Rochester (1647-1680), detto “the Libertine” per la
sua vita sfrenata (tra donne e alcol), fu non solo poeta interessante – alcuni studiosi
lo considerano l’ultimo dei metafisici – ma anche scrittore sia di satire sociali e
letterarie, sia di lampoons (versi satirici di impianto comico) uno dei quali investì
il sovrano: He never said a foolish thing, / And never did a wise one (Non disse
mai una cosa sciocca e non ne fece mai una saggia) (cit. in Bertinetti, 2004: 106).
139
sua incoronazione compose versi celebrativi, a cui altri seguirono,
compresa nel 1685 un’ode pindarica in occasione della morte del sovrano.
Un analogo cambiamento di rotta si verificò sul fronte religioso. Cresciuto
in una famiglia puritana e allievo dell’università di Cambridge, pure di
impronta puritana, quando divenne un sostenitore della monarchia e della
causa degli Stuart – a cui fu sempre fedele, come attesta l’ode in onore
della nascita del figlio di Giacomo II (1688) – , spostò le sue simpatie dal
puritanesimo alla fede anglicana di cui difese la via media in Religio Laici.
Infine, una volta salito al trono il cattolico Giacomo II, aderì al
cattolicesimo e cattolico rimase fino alla fine dei suoi giorni, perdendo
titoli e prebende e mantenendosi con l’imponente attività di traduttore e di
critico. Da cattolico, compose il lungo poema The Hind and the Panther
(La cerva e la pantera), favola allegorica di tipo esopico258 in cui difende
la religione di Roma ma cerca, nel contempo, di conciliare gli interessi
politici degli anglicani e dei cattolici. Molti altri componimenti in versi
scrisse Dryden (al poemetto Annus Mirabilis del 1667 si è già alluso259 )
che nel 1670 fu nominato Poeta Laureato (ovvero poeta cesareo) con il
compito, tipico di quella incombenza, di scrivere intorno ad eventi o a
personalità pubbliche.
A questo punto due parole soltanto sull’attività di Dryden come
poeta satirico. La sua satira più felice è espressa dal poemetto eroicomico
Absalom and Achitophel del 1681. L’episodio storico che il poemetto
illustra è quello legato alla Exclusion crisis260 , in cui i whigs, guidati dal
conte di Shaftesbury, tentarono – senza successo – di indurre Carlo II ad
escludere dalla successione al trono il fratello Giacomo, di fede cattolica,
e a indicare il prossimo futuro sovrano nel figlio illegittimo di Carlo, il
duca di Monmouth, giovane, bello, popolare e...protestante. Dryden, che
naturalmente stava dalla parte dei tories e della legalità, accolse la richiesta
di Carlo II di scrivere su quello spinoso problema e allo scopo adattò alla
situazione l’episodio biblico della ribellione di Assalonne, amato figlio di
re Davide, al padre – per istigazione del perfido Achitofel.
140
Il poemetto è famoso sia per l’umorismo ironico che sottende i
passi più famosi, sia per i magistrali ritratti dei personaggi coinvolti nella
vicenda (è celebre il ritratto di Shaftesbury-Achitofel, personalità
contorta, ma brillante, di un genio traviato, della ‘corruptio optimi’ più
che di vera e propria malvagità, o di malignità meschina, Daiches, 1986:
774-5), sia infine per l’episodio della tentazione di Assalonne da parte di
Achitofel, che segue molto da vicino la scena del Paradise Lost in cui
Satana tenta Eva.
141
Parte II
Introduzione
142
II. 1 The theory of drama
The term theatre comes, through the Latin theatrum, from the
Greek théatron (= place for viewing), which derives from the verb
theáomai = I look at (something), I behold. The term drama comes from
the Greek verb dráo = I do. Consequently if theatre implies something
visual, drama implies something done. Drama is mimetic: it ‘imitates’ life.
As the definition goes, drama is a mimetic action unfolding itself in the
present263 and in the presence of an audience. Drama is unique among the
arts because in order to make its story visible it requires the mediation of
human beings.
The term drama is often used to denote both the text and the
dramatic production, but the written text should be called dramatic text and
the text performed theatrical text or performance text. The former is written
for the stage264 , the latter is produced on the stage (Elam, 1988: 10).
pubblico.
143
that is not all. Performances of the same play by the same actors in the
same theatre change – maybe only imperceptibly – from night to night.
That happens for at least two simple reasons: 1) the audience changes every
night (tonight reactive and attentive, tomorrow passive or inattentive, today
younger, tomorrow middle-aged…) and so the collective response to the
play267 changes, too and the response in turn influences the actors’
performance; 2) the actors’ physical and psychological conditions are not
always the same, which may influence their acting.
The written text is, we said, unchangeable and static, but when the
words on the page become words spoken by living people (the actors)
for the benefit of other living people (the audience), the range of
differences268 gets exceedingly wide: literary art is mono-medial (based,
as it is, on the linguistic code alone), while representational art is multi-
medial, making use of various codes 269 , linguistic, acoustic and visual.
Drama is both things, literary art and representational art. As literary
art, it is a fiction270 made out of words, with plot, characters and dialogues.
But it is a fiction performed, or acted out271 , rather than narrated. If in most
novels a narrator, standing between the story and the reader, introduces and
explains the events and characters, in most plays nothing stands between
the stage and the audience: characters come up, speak, act – without any
comment on anybody’s part outside the fiction itself.
Once critics believed the written text alone was worth studying,
but over the last sixty years many critics have given more importance to
the performance and declared that “the only adequate analysis of drama
must be the analysis of performance” (Short, 1989: 139). We should say
that both the written text and the performance are to be closely studied, as
they create “a powerful intertextuality” (Ibid.), each text bearing traces of
the other272 . A play is therefore both literature and literature performed.
voices) on one side and choreography (movement and costume) on the other
contribute towards the meaning of the performance.
270 fiction = storia.
271 to perform, act out = to stage = mettere in scena.
272 poiché ogni testo serba tracce dell’altro.
144
It corresponds to the written or printed text. We have playtexts in
front of us. What do they tell us? Let’s first have a close look at the
frontispiece. It tells us the author’s name, the title of the play and the name
of the publishing house. Inside we may find a Preface and/or an
Introduction by the editor (il curatore). Then we come to the playtext
proper (vero e proprio). It opens with the list of the names 273 of all the
dramatis personae, namely the figures that appear in the play, while
backstage characters do not274 . Each name is followed by the character’s
role, his characteristics or his parental links with other characters275 .
Occasionally the text specifies the place where the play is set (in TT, below
the list of the characters, we read “An uninhabited Island”). Then it
introduces acts and scenes. Additional information may come from the
playwright’s dedication and preface 276 . The play may be introduced by a
prologue and end with an epilogue. Then the play proper begins. It is made
up of dialogues, monologues, soliloquies and asides. A monologue is a
long speech which a character addresses to one or more people on stage, a
soliloquy is a speech which a character, alone on stage, speaks to
him/herself or to the audience, an aside (a parte) is a short comment which
a character makes while listening to somebody’s words. Soliloquies and
asides are conventions277 allowing a character to think aloud. Dialogues,
273 Some names define a figure (personaggio) before his or her appearance on
stage (Pfister, 1988: 194): for example, the name Caliban, an anagram for
Cannibal, serves as a sort of ‘label’ (etichetta) for the character of The Tempest,
while referring to Montaigne’s essay “Des Cannibals”, which is one of the sources
of the play.
274 Here most examples meant to illustrate the elements of drama will be drawn
from Shakespeare’s Othello, The Tempest, Julius Caesar, Hamlet and MND. Fro m
now onwards the plays will be referred to as Oth, TT, JC, Ham and MND.
275 In Ham’s dramatis personae the protagonist’s name is followed by his role,
Shakespearian age, because drama had not yet acquired the status of “serious”
literature. When Ben Jonson included dedications, prologues and stage directions
in the edition of his dramas, collected – with his non-dramatic verse – under the
imposing title Works (1616), he did something absolutely new.
277 A convention is an unspoken agreement between author and reader/audience.
145
monologues and soliloquies are usually introduced by stage directions
(indicazioni di scena, didascalie), conventionally written in italics
(corsivo). Dialogues, monologues, soliloquies and asides make up the
primary text, that is the text which is meant to be spoken; all the rest –
title, inscriptions, dramatis personae, stage directions – make up the
secondary text, that is the segment of the text which is not meant to be
spoken.
146
know from Oberon’s words to Puck (MND, II,i,249-58) what the place
where Titania usually sleeps looks like. Stage directions also mention:
Plays are usually divided into acts; each act has one or more
scenes. MND has considerably few scenes, two in each of the first four
acts, one in the fifth, which implies that the plot is closely knit up279 . Act
divisions proper were quite uncommon in Shakespeare’s age – but
Elizabethan plays have natural breaks that clearly show where an act comes
to its end – and were written only by later editors280 . The dramatist
responsible for introducing the five-act structure in England was Ben
Jonson. Then, from the Restoration onwards, most English plays were
divided into five acts281 , while nowadays playwrights are allowed to divide
their plays into any number of acts they like. A scene is one of the sections
into which an act is divided. A scene can include several french scenes or
episodes (Pfister: 1988, 96-7).
curtain, while before 1750 the curtain was raised after the prologue (which was
spoken on the forestage) and only dropped at the end of the play.
147
Every dramatic text is founded on a story, that has been previously
recounted282 . If Greek tragedies are based on events belonging to Greek
mythology, most Shakespeare’s plays are inspired by previously existing
stories drawn from any possible source (legends, history and narratives).
King Lear and Cymbeline enact the stories of legendary English sovereigns
which were told by Geoffrey of Monmouth in Historia Regum Britanniae
(XII cent.); Julius Caesar, Antony and Cleopatra and Coriolanus are
founded on still older sources, Plutarch’s Parallel Lives (I century A.D.283 );
Othello and Measure for Measure are based on two of Giovan Battista
Giraldi Cinzio’s tales collected in the Ecathommíti (= one hundred stories)
(1565).
The term plot (meaning the scheme of events in a play or any work
of fiction) translates the Greek term mythos as it appears in Aristotle’s
Poetics284 . The plot is the soul of a tragedy. Tragic plots can be either
simple or complex. They are complex when the hero’s fall occurs through
peripéteia, a reversal of fortune from prosperity to disaster, which often
coincides with anagnorisis, the recognition of truth.
In a classical tragedy the plot includes 1) the introduction, which
shows what the situation is about at the beginning of the play; 2) the
development, when the situation evolves and complications arise; 3) the
crisis, or point of crisis, when something important happens throwing new
light on the situation, or when a character finds himself in a distressing 285
situation; 4) the dénoument, when the plot untangles286 ; finally 5) the
first concerning tragedy and epic, the second, which is definitely lost, concerning
comedy. Its aim is descriptive rather than prescriptive: it is more concerned with
“what a tragedy is like if it is true to type” (Wallis and Shepherd, 1998: 74) than
with what a tragedy should be. We are indebted to Aristotle’s treatise for such
concepts as mimesis (imitation), catharsis (purgation or, better, “emotional
release”, Ibid.), peripéteia (reversal from one state of affairs to its opposite),
hamartía (tragic flaw or error of judgement), húbris (overwhelming pride).
285 distressing from distress, or mental pain = very painful.
286 untangle = remove the knots (nodi) = risolversi.
148
resolution or end. The ending can be satisfactory when all conflicts and
contradictions are resolved: satisfactory ending is typical of classical
drama. The ending is unsatisfactory when the problems debated in the
tragedy (or some of them) do not find any proper answer. Unsatisfactory
ending is typical of modern drama, such as Beckett’s Waiting for Godot,
where at the end everything returns to where it started. In Italian we would
speak of tragedia aperta.
A plot is to be whole: it has to have a beginning, a middle and an
end, and possess unity, which is essential since it is its formal coherence
that makes the story intelligible. Aristotle’s ideals of completeness, unity
and closed structures (structures having a convincing conclusion) were
openly rejected in the 20th century by Bertolt Brecht through the anti-
Aristotelian dramaturgic theories287 of his epic theatre.
As Del Corno (1993: 160-2) explains, tragedy springs from an
inexorable conflict – which in the Greece of the V and IV centuries B.C.
appeared to take place between liberty and necessity. Having built their
culture on man’s capacity to fashion his destiny, the Greeks became
progressively aware that 1) even the most resolute man, acting for the right
reasons, is often defeated by events and 2) an action undertaken for one
specific purpose often brings about the opposite effect, so that man’s
efforts are thwarted (frustrati), causing him enormous suffering. In the 5th
and 4th centuries B.C. the Greeks resorted to tragedy as the best way of
exorcizing their sense of frustration and explaining both the mystery of
life – where men are ruined or condemned without being guilty of anything
– and the grief (dolore) that afflicts everybody. To do so the Greeks
ascribed the responsibility for men’s destiny to the metaphysical power of
the gods or Fate.
The tragic heroes’ freedom of choice is therefore mere illusion.
They are conditioned from Above (dall’Alto), by inscrutable divine
decrees: they believe they can act, but they are actually acted upon288 .
They commit crimes not out of personal wickedness (malvagità) –
although some of them are moved by immoderate pride (hubris) – but
287 Aristotle rejects episodic forms of plot where events succeed one another
without necessity. On the contrary Brecht favours them in his epic theatre (epic
meaning narrative or anti-dramatic), characterized by lack of unity, a string of
seemingly disconnected events and “open endings”.
288 Credono di poter controllare le proprie azioni, ma di fatto sono condizionati
dall’alto.
149
because of ignorance, of an error of judgement (hamartía), which is the
result of human fallibility, or of their fathers’ or forefathers’ crimes. Such
ancient crimes lie at the origin of the hero/heroine’s guilty acts (azioni
colpevoli).
What distinguishes Greek tragedy from modern tragedy, is that in
most Greek plays the ultimate responsibility for men’s errors does not lie
with them but with the gods. The hero knows that the action he is going to
undertake is wrong, that he will be punished, but he cannot help doing it,
since he is driven by an invincible power. Therefore man is not actually
responsible for his actions, as his freedom of choice is only apparent.
Just one example . Clytemnestra (in Aeschylus’s Agamemnon)
kills Agamemnon, her husband, acting out of a human sentiment of hatred
for him, who had sacrified their daughter Iphigenia for political reasons.
Yet Clytemnestra is conditioned in her bloody choice by the fact that she
belongs to the Atrids’ family. The members of the Atrids’ family are the
prisoners of an unbreakable chain of revenge which haunts (ossessiona)
them after Atreus’s first crime: in order to punish his brother for seducing
his wife, Atreus, Agamemnon’s father, had murdered two of his brother’s
sons and served them as a meal to him. Agamemnon’s son, Orestes, can
only choose between two equally evil options, either murdering his mother
or disobeying Apollo, who has ordered the murder, having a miserable
death and leaving his father unavenged.
The ultimate power determining man’s destiny belongs to the gods
or Fate – who eventually may decide, in their unintelligible designs, to save
the hero after all his suffering (as in the case of Orestes) or to have him
sanctified (as in the case of Oedipus). In a hostile, indecipherable world
man’s greatness lies in the heroic acceptance of his fate .
On the contrary, in Elizabethan tragedy – and in modern drama at
large – man is responsible for his actions : his faults depend on him alone,
on his being blind to reality, as happens with Shakespeare’s heroes
(Lombardo, 1996; Paschetto, 1988: 93-105).
150
original circumstance is first made worse by errors and adversities, then
finds a happy solution through a twist289 in the course of events. In other
words, something happens to put things right.
The formula of Shakespeare’s comedy is similar to the one that
English Renaissance derived from the New Comedy of the Greek
playwright Menander and the Latin ones, Plautus and Terence. In the plot
of both Greek and Latin comedy a young man loves a young woman who
loves him. They face 290 opposition either from the father, an older and
richer rival or “the pimp291 who owns the girl” (Frye, 1957: 165). Obstacles
multiply, but in the end the young lovers get what they want, often through
an unexpected recognition. Comedy therefore dramatizes a transition from
one society to another, which appears not only better than the former but
also exemplary. The new world is marked292 by freedom – freedom that
expresses itself in the voluntary bond293 of marriage and makes itself
visible through a wedding, a social event (such as a shared meal) or some
act of reconciliation. Comedy is thus a rite of passage, marking the
beginning of adulthood for characters who will be able to renew society.
Shakespeare followed the dramatic pattern that Frye calls drama of the
green world. The action begins in a city or court where adults or laws are
severe or unjust. The hero and/or the heroine leave that threatening294 place
and move into another world (a forest, a pastoral landscape or a mountain
where a rich lady is expecting the right man). The green world is beset295
with trials296 and dangers, but it allows the young people to reach their aim
and become more responsible, ready to play their roles in society. The
green world four comedies (one of them being MND) are characterized by
“double setting[s]” (Hawkins, 1967: 65), four other comedies are single
setting comedies: the action occurs in just one place 297 , where natives live
151
and foreigners arrive or rather intrude. Finally the two remaining comedies
(The Taming of the Shrew, for instance) combine both patterns 298 .
As Frye convincingly argues, the comic plot can develop in two
ways: either by emphasizing the action of the blocking characters (fathers
and rivals, opposing young people’s wishes,) who are dull and selfish, or
by placing greater stress on recognition, reconciliation or a change of heart.
In the first case we have satiric or realistic comedy, mainly critical,
pessimistic and didactic. The greatest author of satiric comedies is Ben
Jonson, who emphasizes error and limitation in human behaviour. In the
second case we have romantic comedies, whose dark, problematic sides
do not dispel their benevolent atmosphere. The greatest author of romantic
comedies is William Shakespeare . Jonson’s satiric comedies are much
more akin to Shakespeare’s tragedie than to his comedies 299 . We shall
briefly deal with satiric and romantic comedies again while talking about
Elizabethan drama.
The protagonists of romantic comedies are usually young people
involved in love affairs and often caught in fantastic or exaggerated
situations, as happens to MND’s four Athenian lovers.
152
them; in the second they have to rely on “second-hand information”, on
what a character says. The narrated strategy may apply to an action taking
place off-stage at the same time as the action on-stage – which enhances303
the suspense:
in JC, I,ii Brutus and Cassius start talking about Brutus himself
but, on hearing Flourish and shout, their conversation moves on to
what is then taking place off-stage, as they fear the people may
choose Caesar for their King.
It may also apply to the action that took place before the beginning of the
story:
in TT, I,ii Prospero, Miranda’s father, recounts to his daughter
what happened in Milan before they were expelled twelve years
before and how they came to the island.
Any narrated action should either add important details or reveal the
character’s perspective.
In 20th -century drama an episodic narrative tendency has been
expressed by Bertolt Brecht’s epic theatre 304 , which is characterized by a
sequence of independent scenes, the presence of choruses and narrators,
the technique of prologues and epilogues, the use of captions 305 – which
encourages an attitude of critical distance in the audience. Critical distance
is the opposite of the empathy that, according to Aristotle, classical Greek
drama raised in the audience.
II.1.10 Characters
(=cartello informativo) which describes the picture or explains what point the story
has reached.
153
The relationship between plot and character (or dramatic figure306 )
is only too evident: the concept of action implies an active subject and,
conversely, the concept of character, being an active subject, implies the
notion of action. Dramatic characters make up the dramatis personae (=
the masks of drama, from the Latin term persona meaning mask), that is
the set of all figures that appear in a play – including minor characters who
may speak only once and all the non-speaking figures (senators and
attendants in Oth, mariners in TT).
According to their importance in the text, characters can be
classified major or minor, central or peripheral. The general criterion
for dividing them into major and minor is the length of time spent on stage
and the number of lines spoken, but there are exceptions: in TT, for
instance, Caliban only speaks about a hundred lines but he is, no doubt, a
central character, the most important after, or with, Prospero. The hero or
heroine of a play is its protagonist307 . The second major character is
technically called deuteragonist.
As to the way they are conceived, characters are either simple, flat
or mono-dimensional, when they are defined by very few distinguishing
features, or complex, round308 and multi-dimensional, when they are
plausible and psychologically convincing. Tragedies, above all major
tragedies, display a number of complex, multi-dimensional dramatis
personae, which hardly happens in comedies of action. MND, for instance,
rests upon the interplay of various groups of characters (men of power,
courtiers, young gentlefolks, artisans, fairies); its design is so skilfully
patterned that it can be enjoyed for its own sake and character analysis,
carried out through language, is subordinated to the plot.
Characters are either static (those who do not change in the course
of the story) or dynamic. Dynamic characters learn and change: they either
306 Pfister (1988: 160-1) chooses to adopt the term ‘dramatic figure’ rather than
the more common ‘character’ or ‘person’ in order “to establish a terminological
counterweight to [the] tendency to discuss dramatic figures as if they were peopl e
or characters from real life”.
307 The word comes from the Greek prótos (= first) and agonistés (= actor or
combatant, from agón = struggle) – the protagonist being the ‘first’ actor (or
leading actor) and the actor being ‘one who struggles’, “with his adversary, or
Fate, or his inner nature” (Wallis and Shepherd, 1998: 98).
308 The much-quoted distinction between flat and round characters is to be ascribed
to Forster, 1927.
154
change in themselves or change their situation. In MND Egeus is static as
he never changes his opinion about his daughter’s marriage. In TT Antonio
and Sebastian are static as they do not repent of their crimes, whereas all
major characters, from Prospero to Caliban, do. Ariel is dynamic too: not
only does he feel pity but he also moves from the state of servant to
freedom.
Characters also vary according to their plot function, that is to the
role or roles309 they play in the plot. Drama needs a hero, or subject of the
quest (quest being the aim he wants to achieve), an object of the quest (a
man, a woman or a thing), a helper and an antagonist or opponent. In this
case characters are seen as actants.These roles will be pointed out in the
analysis of MND.
309 Such roles were identified by Vladimir Propp in his famous Morphology of
Folktale (1928). His analysis serves for narratives and drama as well, since
dramatic texts are themselves quest narratives.
310 diversa conoscenza e consapevolezza di come stiano le cose.
311 bring about (to) = to cause.
155
funeral oration which he pronounces over Caesar’s body in JC, III,iii is
meant to be ironic for its fictional receivers, the Roman mob (plebe), even
if we know that Brutus is essentially a man of honour.
156
In Inghilterra veri e propri spettacoli teatrali si ebbero a partire dal
Trecento. I primi (mystery plays), organizzati in cicli, inscenavano episodi
delle Scritture con personaggi quali Erode, Maria, il Cristo, i pastori, i
soldati… ed avevano carattere prevalentemente realistico; i secondi
(morality plays) ruotavano intorno alla lotta tra il Bene e il Male per la
conquista dell’anima dell’uomo (psicomachia) e, avvalendosi di
personaggi quali le Virtù, i Vizi e poi Mankind, Everyman, God, Death…,
possedevano carattere allegorico. Nel Cinquecento comparvero gli
interludes, o moralità laiche, spettacoli brevi che riguardavano “la vita
sociale, la politica, problemi filosofici e psicologici […]”(Anzi, 1997: 21).
Sull’onda degli interludi fu composto il primo dramma storico, King John
(ca.1538) di John Bale. Nelle grammar school e nelle università, intanto,
si rappresentavano opere di autori classici, che diedero avvio alla
commedia inglese, mentre l’influsso di Seneca e di Machiavelli plasmò la
tragedia. Da Seneca il teatro inglese desunse i temi – d’origine greca –
della vendetta tra consanguinei e dell’ineluttabilità del destino, i
personaggi del fantasma e del messaggero, il gusto del sensazionale,
dell’orrifico, del sovrannaturale, il linguaggio retorico e sentenzioso. Da
Machiavelli, mal interpretato, trasse il motivo della finzione, il
personaggio dell’orditore d’inganni e di delitti, che diventerà il villain (il
malvagio) della tragedia, e l’immagine dell’Italia come terra di ogni
nequizia. La prima tragedia regolare inglese, scritta in blank verse nel 1562
(quando già regnava Elisabetta, 1558-1603), è Gorboduc, che affronta il
tema politico della successione al trono a cui gli inglesi, memori dei disastri
delle guerre delle Due Rose, erano molto sensibili.
Siamo ormai nell’era elisabettiana312 , quando si costruiscono i
primi edifici consacrati alle rappresentazioni drammatiche pubbliche 313 . Il
panorama del teatro è quanto mai ricco e variegato, ed è un peccato doverlo
ridurre alle sole linee essenziali. Sul fronte della commedia si affermano
le commedie romanzesche o romantiche di tipo shakespeariano, che
dibattono il tema dell’amore tra i giovani, amore contrastato e poi
felicemente risolto, e quelle realistiche o sociali d’impronta jonsoniana 314 ,
312 Uno spaccato chiaro ed esauriente della vita teatrale elisabettiana è in Anzi,
1997: 46-75.
313 Molti drammaturghi scrivevano per i teatri pubblici; qualcuno, come John Lyly,
solo per i teatri privati o per la corte, qualcun altro, come Shakespeare, sia per i
teatri pubblici e privati, sia per la corte.
314 Le inaugurò Ben Jonson, il grande amico e rivale di Shakespeare.
157
che denunciano le debolezze, le manie e, nelle commedie mature, i vizi
della società, mentre la commedia di corte (in cui si impose John Lyly,
con trame delicate, scrittura elegante e una felice mescolanza di elementi
romantici e realistici), recitata da ragazzi, predilige vicende mitologiche,
pastorali o storiche, di argomento amoroso e spesso di impostazione
allegorica, con ampio spazio lasciato alla musica e al canto. Nella tragedia
si distinguono, secondo la proposta di Doran (1972) [1954], diversi filoni:
la tragedia di vendetta, che nasce, sulla scia di Seneca, con The Spanish
Tragedy di Thomas Kyd, e trova il proprio coronamento in Hamlet; la
tragedia che inscena la caduta dei grandi, il cui prototipo è Tamburlaine
The Great di Christopher Marlowe (grandissimo precursore di
Shakespeare); la tragedia d’intrigo all’italiana m(nella quale talora
confluisce la tragedia di vendetta), il cui esempio più eclatante è forse The
Jew of Malta dello stesso Marlowe; il dramma storico, che attesta
l’interesse degli inglesi per la propria storia, il proprio passato, esito della
Riforma anglicana e del crescente nazionalismo dell’età elisabettiana;
infine, audacemente diversa dalla tragedia ortodossa, la tragedia
domestica, che inscena drammi familiari di ambientazione realistica
inglese, i cui protagonisti, appartenenti alla classe media, spesso
commettono un delitto “for greed or love” (Id.: 143).
Il dramma storico e la storiografia prosastica rappresentano
l’orgogliosa ‘spinta centripeta’ che si contrappone alla ‘spinta centrifuga’
inaugurata con le traduzioni di testi classici ed europei e attestano il
ripiegamento degli inglesi su se stessi dopo l’apertura verso mondi diversi,
la classicità e l’Europa.
158
l’imponente volume317 in folio non recava come titolo ‘Works’ o ‘Plays’
ma Comedies, Tragedies, Histories.
Secondo Melchiori (1976-1991), le commedie, che il
drammaturgo compose dall’inizio della sua carriera fino al 1604, si
possono disporre in tre gruppi. Le prime in ordine cronologico sono dette
eufuistiche, perché imitano il linguaggio sofisticato e colto della prosa di
John Lyly, autore appunto di Euphues, or the Anatomy of Wit (1578)318 ,
oppure sperimentali, perché Shakespeare si cimenta con il suo mezzo
espressivo, lo ‘sperimenta’, ne studia i meccanismi. Famose, Love’s
Labour’s Lost, celebrazione e presa in giro del linguaggio alto di Lyly, e
The Taming of the Shrew, in cui l’autore si avvale per la prima volta
dell’espediente del play within the play (commedia nella commedia /
dramma nel dramma) che trova massima espressione in Hamlet (1600-01)
e in MND. Le seconde, tra cui l’incantevole Twelfth Night, sono chiamate
commedie romantiche o romanzesche, e al loro interno è presente il filone
delle festive comedies (commedie festose) a cui appartiene MND. Di tono
gioioso, inscenano storie d’amore e d’avventura tra giovani. A ridosso
delle tragedie Shakespeare scrisse tre dark comedies o problem plays,
commedie oscure o drammi dialettici (la più famosa, Measure for
Measure, 1604) che, pur nel lieto fine, si accostano alle tragedie per la
palpabile presenza del male. Si può cogliere un’anticipazione di queste
ultime commedie in The Merchant of Venice (1596-98), amara denuncia di
un mondo ignaro del concetto di misericordia e di giustizia.
Come le commedie, le tragedie di Shakespeare furono composte
dai primordi della sua attività al 1606 e, al pari delle commedie, sono tra
di loro eterogenee. Titus Andronicus, cruenta tragedia di vendetta di
stampo senechiano, fu redatta all’inizio della sua carriera, quando il
drammaturgo scrisse anche Romeo and Juliet, la tragedia lirica
dell’infelice amore degli star-crossed lovers (innamorati avversati dalle
stelle). Agli anni ’90 appartengono le due tetralogie di histories o drammi
storici, che affrontano il tema del potere quale si riflette nella storia inglese
da Riccardo II a Enrico VII319 . I Roman plays, o drammi classici – tra cui
317 Una curiosità: il prezzo variava da 15 scellini per il volume non rilegato, a 20
scellini per il volume rilegato.
318 Su Lyly si veda III.2.
319 Di fatto le histories comprendono anche i chronicle plays, d’impronta
159
Julius Caesar e Antony and Cleopatra –, dedicati alle vicende della
romanità, s’intrecciano cronologicamente alle ‘grandi tragedie’, Hamlet,
Othello, Macbeth e King Lear, a cui da sempre è associato il nome di
Shakespeare.
I romances, il cui capolavoro è The Tempest, sono invece
tragicommedie, composte nell’ultima fase compositiva di Shakespeare, dal
1608 al 1613. “Incantesimi e magie, perdite e ritrovamenti, lunghi viaggi,
rivelazioni e apparizioni costellano queste ultime prove shakespeariane,
compendi, anche, di tutta l’esperienza teatrale precedente […]”(Anzi,
1997: 138). I protagonisti – individui di mezza età – commettono una colpa
che porta alla disgregazione della famiglia. Con il pentimento e il dolore
espiano il peccato d’origine e sono alla fine perdonati. Il perdono coincide
con la ricostituzione della famiglia.
Per sintetizzare le caratteristiche del teatro elisabettiano e
shakespeariano, mi avvalgo ancora di quanto scrive Anzi (Id., 47):
Le caratteristiche intrinseche più salienti di tutto il dramma
elisabettiano, quelle che lo connotano come unico e originale e lo
differenziano dal teatro contemporaneo del resto d’Europa, sono
essenzialmente due: il suo legame con la tradizione teatrale
autoctona, e il suo ignorare le regole classiche mescolando
elementi comici ed elementi tragici e muovendosi liberamente
nello spazio e nel tempo.
1977: 39) distruttivo, messo in moto dall’umana smania di potere. Il tardo Henry
VIII è il risultato della collaborazione di Shakespeare con John Fletcher.
160
che imputa piogge, esondazioni e perdita dei raccolti320 alle conseguenze
dell’aspro dissenso scoppiato tra lei stessa e il suo regale marito. Inoltre la
costante preoccupazione degli artigiani – impegnati ad allestire uno
spettacolo teatrale per le nozze di Teseo, duca d’Atene – di non spaventare
con le armi o turbare con spettacoli cruenti l’augusto pubblico davanti a
cui reciteranno, pena la vita!, con ogni probabilità contiene una concreta
allusione alle sommosse artigiane di Londra nel 1595 e dell’Oxfordshire
nel 1596 che, irruenti ma in sé non troppo pericolose, furono punite con
esemplare, terribile severità dal governo.
Rappresentato più volte con successo, MND fu stampato in
formato in quarto nel 1600, ristampato nel 1619 e inserito nell’in folio del
1623, la cui pubblicazione venne curata – morto Shakespeare nel 1616 –
da due attori della sua compagnia, Heminges e Condell.
Esso si colloca a cavallo tra le commedie eufuistiche o
sperimentali e le commedie romanzesche, nello specifico quelle
denominate festive comedies. Appartiene al filone eufuistico per certe
sofisticazioni del linguaggio, tanto ricco di tropi (anafore, ossimori,
antitesi, parallelismi) da suonare artificioso, evidente soprattutto in certi
dialoghi tra i giovani amanti. Può essere etichettato come lavoro
sperimentale, poiché il drammaturgo si cimenta sia con un elevato numero
di trame, sia con l’espediente del play within the play che, diversamente da
quanto accade in The Taming of the Shrew o in Hamlet, percorre l’intero
dramma ed è articolato in tutte le sue fasi321 . Basato sul tema dell’amore e
dell’avventura, MND può agevolmente situarsi tra le commedie
320 Gli anni ’90 furono un periodo negativo per l’agricoltura, con estati piovose e
scarsi raccolti, in seguito ai quali salì alle stelle il prezzo del grano. Nello stesso
periodo, alla carestia si aggiunsero il declino dell’industria tessile, causato dallo
stato di belligeranza con la Spagna che limitava le esportazioni verso il Continente,
l’aumento delle tasse dovuto alla guerra stessa, un grave processo inflativo e una
diffusa disoccupazione. Su questo argomento si veda Leinwand, 1986: 11-30 e
qui, p. 21.
321 L’esperimento è di fatto molto ben riuscito. Le trame sono splendidamente
161
romanzesche, mentre appartiene a buon diritto al filone delle festive
comedies, poiché evoca i riti d’amore dell’inizio estate.
322 Le citazioni sono desunte dall’edizione Arden, 2001 [1979], Harold F. Brooks
(ed.). Non viene fornita la traduzione dei passi citati poiché è facile per lo studente
procurarsi la versione di Marcello Pagnini con testo a fronte, edita da Garzan t i
(2006) [1991].
323 Per un’esaustiva storia della fortuna critica del Sogno si veda J. e R. Kennedy,
1999.
162
conflittuale di MND là dove l’opposizione degli amanti alla legge d’Atene
anticipa sia il diverbio tra Oberon e Titania, sia l’antagonismo tra
imagination e understanding offerto da Piramo e Tisbe 324 e dal dialogo tra
Teseo e Ippolita in V,i,1-27. Quanto alla resa teatrale, il romantico William
Hazlitt ritenne il Sogno inadatto al palcoscenico perché troppo etereo. Altri
si schierarono al suo fianco o sottolinearono, invece, le difficoltà della
messa in scena: come rendere naturale, ad esempio, il comportamento di
Bottom, una volta che sul suo capo sia stata poggiata una testa d’asino?
Il ’900 si interessò molto a Bottom, ne colse l’amabilità, la fantasia,
il carattere proteiforme, ma anche l’ambiguità, degna di un Minotauro
comico. Cessando gradualmente di leggere il Sogno come una favola lieta,
gli studiosi ne intravidero i lati contradditori e oscuri, soprattutto per
quanto riguarda le scene nel bosco, regno delle pulsioni inconfessate, e il
rapporto amoroso, la cui equivoca ambivalenza fu di fatto scoperta nel
Novecento: in proposito, G. Wilson Knight parlò addirittura di atmosfera
da incubo (1971 [1932]: 142). Ma fu soprattutto l’intervento rivoluzionar io
di Jan Kott (1964) a porre l’accento sul brutale erotismo della vicenda, che
vede i personaggi dare nella selva libero sfogo a desideri repressi. Dopo
Kott, il cui giudizio, pur tra qualche contestazione, ha cambiato l’approccio
interpretativo al Sogno 325 , i critici hanno riconosciuto e approfondito i lati
bui della commedia: qualcuno ha avvertito una vena di morte sotto la
comicità di superficie. Gli elementi sado-masochistici, i conflitti, la
violenza latente o dichiarata, sono emersi tutti dalla riflessione critica
dell’ultimo secolo. Alcuni studiosi hanno colto il nucleo dell’opera
nell’incostanza dei giovani e identificato il tema centrale nella follia e
pericolosità dell’amore romantico, considerando di conseguenza
Shakespeare favorevole all’istituzione del matrimonio quale garanzia di
stabilità sociale. Secondo questa linea interpretativa, il simbolo della
società coesa sarebbe Teseo, il cui discorso The lunatic, the lover, and the
poet (V,i,7-17) esprimerebbe la visione disincantata del poeta di Stratford
sull’amore e sull’arte.
Gli studi del ’900 hanno messo in luce anche il motivo della
discordia concors, per cui l’antagonismo e la labirintica confusione che
regnano nella foresta si risolvono alla fine in consenso e amicizia.
163
Un’indagine fondamentale è stata condotta da C.L. Barber (1959: cap. VI):
confrontando i riti festivi elisabettiani con le commedie di Shakespeare, lo
studioso ha ricostruito il percorso dei personaggi da uno stato di
coercizione imposto dalla società ad una festosa liberazione da vincoli e
doveri, alla quale segue una matura consapevolezza dei rapporti tra
individuo e natura. Nello specifico, MND celebrerebbe i riti della
fecondazione in prospettiva di una vita più piena. D.P. Young (1965) è
stato il primo a dedicare attenzione al mondo magico quale mezzo per
capire i rapporti tra arte e realtà, mentre J.L. Calderwood (1971) ha messo
a fuoco il ruolo di Oberon quale “playwright within the play”.
Una volta riconosciuto che i drammi di Shakespeare posseggono
una valenza metateatrale , che cioè riflettono non solo su temi morali,
sociali o politici ma anche sul teatro, i suoi strumenti, il suo linguaggio, il
rapporto ad esso inerente tra finzione (il teatro è un ‘far per finta’) e verità,
MND si è offerto come affascinante e complesso campo di indagine.
La critica femminista, affermatasi negli ultimi trent’anni del
secolo scorso, nel suo interesse per i rapporti uomo-donna e per i problemi
di genere326 , sottolinea la presenza nella commedia di un marcato regime
patriarcale, ossessivo nel caso di Egeo, benevolo ma impositivo nel caso
di Teseo, tirannico nel caso di Oberon. Soffermandosi inoltre sul tema dei
rapporti femminili (tra Ermia ed Elena, tra Titania e la sua devota), constata
che all’interno della coppia l’uomo non è disposto a rinunciare mai alle sue
prerogative egemoniche, né ai suoi desideri, e che le unioni eterosessuali –
coronate dall’integrazione sociale – comportano l’esclusione di amicizie
femminili. Lo comprova l’innaturale silenzio tra Ermia ed Elena, che
restano in scena per quasi tutto il V atto senza pronunciare parola, come se
avessero delegato ad altri i propri pensieri. Quanto al rapporto tra Titania
e l’innominata votaress indiana, il fatto che Oberon sottragga il bambino a
Titania implica che la coppia si possa ricomporre soltanto se la donna
rinuncia alla propria volontà e se si spezza definitivamente il legame tra lei
e l’amica indiana – legame che si perpetuava nel piccolo orfano327 di cui
Titania si prendeva cura.
326 Per ‘genere’ si intende l’insieme sia delle caratteristiche che una società, in una
qualsiasi era storica, attribuisce agli uomimi e alle donne, sia dei ruoli e dei
comportamenti che riconosce loro.
327 Il bambino è orfano di madre, ma non di padre, al quale nessuno pensa di
restituirlo (II,i,22).
164
Mentre ufficialmente rende omaggio alla regina Elisabetta, il play
afferma la preponderanza sociale del potere maschile. Critici dell’ambito
storico-culturale ritengono che la commedia, pur inscenando una vicenda
astorica, alluda ai problemi della Londra di fine secolo e colgono in essa (e
in generale nel teatro di Shakespeare) soprattutto un’analisi dei rapporti di
potere. Essi vedono MND ora come lo strumento per mezzo del quale
Shakespeare svelerebbe le strategie con cui l’autorità mantiene il potere –
e in tal caso criticherebbe la gestione governativa del potere stesso –, ora,
invece, come lo strumento con cui appoggerebbe la politica dei Tudor, tesa
al mantenimento dell’ordine costituito.
Pur nelle varie interpretazioni, gli studiosi tutti concordano sul
fatto che il Sogno sia il primo capolavoro comico shakespeariano. Un
capolavoro anzitutto per la sicurezza della struttura in cui si intrecciano
con somma maestria ben quattro trame: la trama con funzione di cornice
(frame plot o background plot), relativa alle nozze imminenti di Teseo e
Ippolita, quella dei giovani innamorati, il plot degli artigiani teatranti e
quello delle creature del bosco, le fate con la loro sovrana Titania e i folletti
con il loro re Oberon, affiancato dal suo jester and lieutenant Puck
(Brooks, 2001: 2). Le quattro trame partono separate (o quasi), si
intersecano, si interrompono, si riprendono in un crescendo di suspense per
confluire nella fase finale del V atto. Se le vicende degli innamorati, degli
artigiani e delle fate sono condizionate dagli incantesimi operati da Oberon
e Puck, ogni singola storia contiene un elemento che risulta determinante
per un’altra. E’ Egeo con la sua inflessibilità a spingere i ragazzi alla fuga
nel bosco, è il matrimonio di Teseo a innescare negli artigiani il desiderio
di recitare a corte, è Puck con il suo intervento su Bottom a creare il
‘mostro’ di cui si innamora Titania, è ancora Puck con il suo errore ad
alterare i rapporti tra i giovani, è Teseo a sancire il lieto fine con la
decisione di associare alle proprie nozze quelle delle due coppie ateniesi, è
Oberon a benedire i neosposi. All’unitarietà della commedia concorre,
oltre alla struttura molto salda, una fitta rete di immagini e di termini
ricorrenti. L’immagine più suggestiva è quella della luna, che compare
trenta volte (più che in qualsiasi altro dramma di Shakespeare) e funge da
cerniera tra la trama romanzesca e la trama comica, tra la verginità ideale
di Elisabetta e l’ideale del matrimonio, perseguito fin dalle prime battute
del Sogno328 , mentre l’imagery della natura (bosco o campagna che sia),
165
talora calata in paragoni, lascia nel lettore la sensazione di una irripetibile
bellezza. Il termine che più spesso ricorre (ben quaranta volte) è eyes,
quasi sempre collegato all’amore; quello più incisivo è translate, poco
frequente in Shakespeare, usato qui tre volte (più che in qualsiasi altro
play), a suggerire il cambiamento.
Concorrono a creare il capolavoro sia la perfetta aderenza di ogni
personaggio al proprio codice comportamentale e linguistico, sia la felice
sintesi che la commedia realizza tra elementi eterogenei: la ricercatezza
della corte e la bellezza della selva, le traversie degli amanti e gli imprevisti
degli artigiani, l’astuzia di Oberon e l’inventiva di Puck, la sofisticata
raffinatezza di Titania e la rustica semplicità di Bottom, e, inoltre, il visibile
e l’invisibile, il magico e il quotidiano, il sogno e la veglia, la mitologia e
il folklore.
II.2.3.2 Le fonti
329 Per un’ampia disamina del problema delle fonti si veda Id.: lviii-lxxxviii.
330 Vasto romanzo latino d’avventure, concepito anche come romanzo
d’iniziazione alla saggezza, fu scritto da Apuleio (II secolo d.C.) che, si noti, era
166
trasformato in asino, pur mantenendo il raziocinio umano. Sul finire delle
sue peripezie anche l’asino-Lucio dovrebbe congiungersi con una donna,
ma riesce a fuggire e dopo atti di purificazione, preghiere e rituali recupera
la forma umana. Alcuni eventi significativi e la nota ironico-comica
accostano lo scritto di Apuleio (pure intitolato Metamorfosi) alla storia
narrata da Ovidio.
Il plot cornice rinvia a uno dei Canterbury Tales, The Knight’s
Tale331 , che racconta dell’amore di due amici, prigionieri di Teseo, per
Elena, sorella della moglie di lui, Ippolita. Il racconto di Chaucer, che può
aver suggerito a Shakespeare i nomi di alcuni personaggi, si apre con le
feste che accompagnano il ritorno in patria del ‘duca’ d’Atene Teseo dopo
la vittoria sulle Amazzoni, di cui l’eroe aveva sposato la regina, Ippolita.
Il comune tripudio è però turbato dall’angoscioso lamento di una schiera
di vedove che piangono la mancata restituzione dei corpi degli sposi caduti
nella guerra contro il tiranno di Tebe, Creonte. Il buon duca, impietosito,
le rincuora e volge immediatamente il suo esercito contro la città di Tebe.
E’ proprio il complesso mito di Teseo, trattato da Ovidio332 ,
Plutarco333 e Seneca 334 , ad ispirare l’intera commedia 335 : “The mere
presence of Theseus in MND makes the whole of the Theseus myth
available” (Holland, 1994: 151). La teoria, brillantemente elaborata da
Holland, spiegherebbe la scelta sia del nome della sposa di Teseo
(Shakespeare preferì Ippolita ad Antiope), sia di quello del padre di Ermia,
Egeo (che nel mito è il padre di Teseo); caricherebbe di ironia tragica
alcune battute e conferirebbe un significato più ampio a certi personaggi336 .
valso del suo aiuto per uccidere il Minotauro e liberare Atene dal tributo di sangue
dovuto a Minosse, abbandonò l’infelice sull’isola di Nasso.
333 Nelle Vite Parallele (I secolo d.C.) sono posti a confronto Teseo e Romolo.
334 Il mito di Teseo è alla base di varie tragedie, dalla Phaedra di Seneca, isprata
Antony and Cleopatra (dalla conferenza di Anna Anzi del 18 aprile 2007).
336 Anche Nuttall, 2000: 49-59 riconosce la centralità del mito di Teseo nel Sogno,
167
Di fatto l’opera è al centro di una ricca trama di miti. Quelli centrali e
corposi di Teseo, con i suoi trascorsi amorosi, di Ippolita, di Piramo e
Tisbe, si collegano ad altri, evocati attraverso i nomi dei personaggi –
Apollo e Dafne, Tereo e Filomela, Ercole, Cadmo – mentre sullo sfondo si
muove Venere, aleggia Cupido, si intravede la sagoma del Minotauro,
balugina l’ombra del misero Ippolito337 , trionfa o si vela lo splendore di
Febe-Luna-Ecate.
II.2.3.3 I temi
conclude con l’invito dello stesso Teseo, Sweet friends, to bed (V,i,354).
339 dote (to) + on = to be infatuatedly fond of (OED).
340 Il malapropism comporta l’involontario uso improprio di una parola per
un’altra: dall’errore nasce la comicità. Durante le prove di Pyramus and Thisbe gli
artigiani incorrono in questi buffi errori, che occasionalmente compaiono anche
nella loro parlata.
168
alla messa in scena stessa di uno spettacolo che un gruppo di artigiani
intende recitare a corte in occasione delle nozze ducali. L’opera, The most
lamentable comedy, and most cruel death of Pyramus and Thisbe (La
tristissima commedia e la crudelissima morte di Piramo e Tisbe), è stata
scritta dal carpentiere Quince. Il tema è tragico, il testo ora
melodrammatico ora involontariamente comico. Ciò fornisce il motivo
primo per cui la recitazione, supportata da un testo debole e giocata su toni
enfatici da attori sprovveduti, risulti – contro le loro intenzioni – comica,
come sarebbe intuibile anche senza una battuta di Filostrato (V,i,69-70) o
i commenti dell’augusto pubblico (V, passim). Nel contempo la vicenda
degli artigiani, seguendo il processo teatrale in tutte le sue fasi, svela i
meccanismi, le strategie e gli espedienti del palcoscenico, conferendo a
MND un interessante valore documentario. In ossequio alla prassi del
teatro elisabettiano, infatti, il testo di Quince è la drammatizzazione di una
storia già narrata e subisce variazioni nel corso delle prove, risultando alla
fine diverso da quello concepito in origine, mentre lo spettacolo si
conclude, come accadeva di frequente, con una danza. Il drammaturgo si
fa anche regista, suggeritore e interprete, appiana le difficoltà e procura gli
oggetti scenici. Gli attori, dilettanti ingenui ed entusiasti, si preoccupano
che il ruolo sia loro congeniale, conoscono l’importanza del tono di voce,
si confrontano con i problemi del trucco, propongono e ottengono
modifiche al copione, e, naturalmente, recitano anche parti femminili.
Poiché l’opera si rappresenta a corte, entra in gioco anche il censorio
Master of the Revels 341 , che controlla come funzioni il testo in scena 342 e
ne modifica il titolo343 . Il pubblico, seduto a distanza ravvicinata dagli
341 Il Master of the Revels era un funzionario responsabile degli spettacoli di corte,
tenuto a controllare che non contenessero nulla di offensivo o di sovversivo.
342 I saw [it] rehears’d (V,i,68) e I have heard it over (77).
343 Filostrato, censore degli spettacoli di corte, ha ammesso Pyramus and Thisbe
alla rosa dei testi tra i quali Teseo opererà la sua scelta (our play is preferred,
IV,ii,36-7, esclama Bottom, con slancio prematuro). Ha cambiato però il titolo, da
The most lamentable comedy […] of Pyramus and Thisbe (I,ii,11-2) a A tedious
brief scene of young Pyramus and his love Thisbe (V,i,56-7). Come osserva Sestito
(1991: 47), la nuova dicitura sminuisce l’opera, degradandola da commedia a
scena breve e noiosa, e “[mettendone] in luce l’incoerenza sul piano formale”.
Concordo con Sestito, ma interpreto l’aggettivo tedious, spesso riferito a discorsi
o resoconti, nel significato primo di prolisso (OED), poiché più paradossale risulta
il binomio lungo-breve. Mi pare inoltre che l’incoerenza formale che la studiosa
169
attori, commenta l’azione e dialoga con loro. Questi dati dimostrano la
valenza metateatrale di Pyramus and Thisbe, messa in risalto dallo
sdoppiamento di Bottom. Quando, per non creare panico tra il pubblico,
questi consiglia di spiegare in un prologo che le spade non fanno male, che
Piramo non si uccide, che anzi I, Pyramus, am not Pyramus, but Bottom
the weaver (III,i,19-20), dà risalto alla “dualità del ruolo dell’attore
[brechtiano, ma non solo!] come veicolo segnico scenico par excellance,
[…] mentre […] ribadisce la sua presenza fisica e sociale” (Elam, 1988:
17).
La trama, l’autore e gli attori, inoltre, rivestono particolare
interesse per alcuni elementi specifici. Pyramus and Thisbe, palese
rivisitazione di Romeo and Juliet, di poco anteriore al Sogno, duplica in
versione tragica il plot comico degli innamorati fuggitivi di MND: questo
fatto funziona sia a livello interno, offrendo ai giovani ateniesi occasione
per riflettere sulle possibili conseguenze di un amore ribelle, sia a livello
esterno, ampliando la portata della commedia shakespeariana, che in tal
modo racconta la stessa vicenda con conclusioni opposte. Quince, poi, è
figura singolare poiché, come vedremo, adombra William Shakespeare,
secondo la felice intuizione di Taylor, 2003. Gli attori sono esperti delle
cose del mondo, come attesta la loro somma cautela 344 circa ciò che si può
– o non si può – fare o dire a teatro, ma del tutto ignari delle convenzioni
teatrali, scettici circa la capacità evocativa della parola (la loro) e la
capacità creativa della fantasia (quella degli spettatori), del tutto
inconsapevoli della loro modesta attitudine attoriale. Elementi, questi, che
consentono a Shakespeare di ironizzare benevolmente su un mondo a cui
egli stesso appartiene.
Anche il potere rappresenta un tema non secondario nel play.
Esercitato senza esclusione di colpi dalle tre figure maschili egemoni,
Egeo, Teseo e Oberon, nelle vesti l’uno di padre-padrone, l’altro di
vincitore sul campo e di sposo autoimpostosi, il terzo di marito
riscontra nell’espressione very tragical mirth sia già nel sintagma originale, most
lamentable comedy.
344 La prudenza era un fattore importantissimo a teatro. Se ne sarebbe reso conto
lo stesso Shakespeare quando nel 1601, alla vigilia dell’insurrezione del conte di
Essex (Norton Anthology, 2001: 336), inscenò Richard II (1597), la tragedia di un
re deposto, su richiesta dei rivoltosi, che contavano sul play come aiuto alla loro
causa. Il fatto provocò la furia di Elisabetta che, alla luce dell’insurrezione, si era
identificata con il sovrano deposto.
170
abbandonato e defraudato, è praticato, inconsapevolmente e
involontariamente, anche da Teseo e dalla sua corte nei confronti degli
artigiani, che si accingono a recitare il loro dramma. Essi non paventano
l’arbitrio di una possibile censura del testo per demeriti letterari – censura
preventiva che, di fatto, Filostrato tenta inutilmente di imporre quando
invita Teseo a cassare il dramma, insulso e risibile. Aprioristicamente
orgogliosi della loro produzione (I,ii,13-4) e fieri della propria competenza
attoriale (Id., 22-3 e IV,ii,7-13), temono piuttosto – sulla scorta, pare,
dell’esperienza altrui – le inevitabili, tremende ritorsioni contro i
responsabili di una messa in scena troppo realistica ed anticonvenzionale.
345Wilson, 2004: 127-8 vede nell’aspersione dei letti nuziali con la rugiada, attuata
da Oberon, un ricordo della benedizione del talamo di stampo cattolico.
171
II.2.3.4 I personaggi
346Su questo punto, che non sarà oggetto di analisi dettagliata, si veda Mcguire,
1996.
172
statiche nell’assoluta fedeltà ai loro amori originari, ma dinamiche poiché
rompono la propria lunga amicizia, se diamo questo significato
all’ininterrotto silenzio che scende su di loro durante l’intero V atto.
Lisandro e Demetrio, per la volubilità amorosa e la mutevolezza dei
rapporti interpersonali (da gelidi a ostili, da ostili ad amichevoli), rientrano
senz’altro nella categoria dei personaggi dinamici. Egeo fa da corollario
alle coppie giovani, ma è di fatto il motore della storia. La sua presenza
risulta forte in I,i, poiché il suo lungo monologo fotografa un problema dal
quale scaturisce un dialogo vivace e matura una decisione di fuga; risulta
invece debole in IV,i quando l’uomo, arroccato sulle sue posizioni di cieco
patriarcato, viene messo a tacere.
La trama degli artigiani pone Bottom come personaggio
centrale e dinamico, Quince come semicentrale e statico nella sua
costante bonomia, gli altri come pittoresche figure periferiche. Bottom può
considerarsi centrale sia per il suo doppio ruolo, di artigiano-attore e di
amante suicida, sia per la sua avventura-disavventura nel bosco. E’
dinamico perché, pur mantenendo intatta la sua ingenuità, si apre a
un’esperienza superiore di cui riconosce l’eccezionalità. Alla sua mente la
confusa notte d’amore con la Regina delle fate appare a most rare vision
(IV,i,203), un sogno past the wit of man to say what dream it was (204-5),
tutto suo (my dream), sconfinato per profondità (it hath no bottom, 215),
tale per cui soltanto un poeta può dargli veste di parole. Bottom pensa
allora a Quince, a cui chiederà di raccontarlo in una ballata. Bottom, il
tessitore, ha precorso i tempi, pervenendo a una concezione precocemente
romantica dell’arte quale unico mezzo per esprimere l’indicibile
soggettivo. Eppure l’artista non sarà lui, ma l’intellettuale del gruppo.
La trama magica si regge su due personaggi centrali e dinamici,
Oberon e Titania, uno semicentrale e statico, Puck, e uno stuolo di deliziosi
caratteri periferici, le fatine. Che Oberon sia un major character, è
evidente: da marito autoritario e vendicativo, si confronta con Titania, da
pietoso soccorritore di una fanciulla respinta, è coinvolto nelle
vicessitudini degli amanti, da protettore di Teseo, interviene (invisibile)
alle sue nozze. E’ dinamico poiché da nemico di Titania le ritorna amico.
Titania è figura semicentrale poiché, pur invaghendosi di Bottom-asino,
non sa di essere coinvolta nella vicenda dei teatranti, e non lo è in quella
degli innamorati, ma dinamica perché, dopo la lunga ed aspra contesa con
Oberon, si riconcilia con lui. Puck è personaggio centrale, o quasi: pur
essendo soltanto il braccio destro di Oberon, svolge un ruolo di primo
173
piano nella sorte degli amanti e in quella di Titania; è tuttavia statico, in
quanto servo obbediente, costantemente in vena di scherzi, più o meno
gradevoli, e di commenti ironici.
Più facile distinguere i personaggi semplici da quelli complessi.
Semplici sono i personaggi periferici o statici: tra questi Egeo, il senex
iratus, esempio perfetto di stock figure 347 . Eticamente complessi, cioè
“consisting of conflicting behaviours” (Wallis and Shepherd, 1998: 18),
sono tutti gli altri.
Anche per studiare i personaggi in quanto attanti, a seconda cioè
dei ruoli che ricoprono in MND, è opportuno analizzare una trama dopo
l’altra. Nel plot cornice l’eroe, soggetto della quest, è Teseo, l’oggetto
Ippolita. Teseo non è aiutato né contrastato da nessuno. Nella seconda
trama, per quanto riguarda i rapporti familiari, l’eroe – o antieroe – è Egeo
e l’oggetto della quest Ermia, di cui vuole piegare la volontà; inizialmente
egli ha due antagonisti, Ermia stessa e Lisandro, e due aiutanti, Demetrio
e Teseo, che alla fine diventano suoi antagonisti. Per quanto riguarda,
invece, i rapporti di coppia, Ermia ed Elena, Lisandro e Demetrio sono
rispettivamente soggetto e oggetto della doppia quest amorosa. Demetrio è
inizialmente soggetto di una ricerca che ha come oggetto Ermia e trova in
Egeo un helper – in Egeo, si noti, non in Teseo, che sa dei trascorsi del
giovane (I,i,111) – ed è oggetto della quest di Elena. Ermia e Lisandro si
imbattono subito in una serie di opponents: non solo Egeo e Teseo, ma,
inaspettatamente, anche Elena, che rivela a Demetrio il loro piano di fuga.
Nel bosco Lisandro diventa soggetto di una prima quest erotica il cui
oggetto è Ermia, che riesce a vanificarla (II,ii,40-64). Quando poi è segnato
nel sonno da Puck con il succo magico, diventa protagonista di una quest
spasmodica che investe Elena, mentre Puck assurge ad antagonista di
Ermia. Elena, sempre innamorata di Demetrio, si sottrae a Lisandro. Ermia,
abbandonata, va in cerca di Lisandro, che diventa destinatario di una quest
molto triste. Demetrio continua nella sua quest di Ermia ma, nel momento
in cui per stanchezza si addormenta, Puck asperge del succo incantatore
anche le sue palpebre, ragione per cui, quando viene svegliato da Lisandro
ed Elena, si innamora di Elena, nuovo oggetto della sua quest. Puck è ora
l’aiutante di lui e di lei. Tuttavia Elena, che fino a poco tempo prima non
era oggetto di alcuna quest, scoprendosi ora obiettivo di due quest rivali,
si sente schernita, zimbello del gioco crudele dei ragazzi (III,ii,145-6), e
347Personaggio generico, “held in stock for repeated use” (Wallis and Shepherd,
1998: 13).
174
diventa opponent di entrambi. Compare allora Ermia che ha raggiunto
l’oggetto della sua ricerca, Lisandro. Inaspettatamente egli la respinge. A
questo punto Elena si persuade che i voltafaccia amorosi nascondano una
beffa congiunta e vede nell’amica l’aiutante dei ragazzi e la propria
antagonista. Quindi Elena insulta Ermia. Costei, pesantemente ingiuriata
anche da Lisandro, si avventa contro Elena, ora sua diretta antagonista, e
la minaccia. Intanto i ragazzi, entrambi soggetti di una quest con identico
obiettivo, si preparano a un duello, segno del loro dirompente antagonismo.
Tuttavia Oberon, tramite Puck, suo helper, fa in modo che i due si cerchino
senza mai incontrarsi, in una quest reciproca e frustrante. Nel frattempo le
fanciulle – preda anch’esse di un violento antagonismo – verrebbero alle
mani se Elena non se la desse a gambe. In seguito, grazie alla regia di Puck,
ora helper dei giovani tutti, i ragazzi, sfiniti dall’inseguimento, piombano
nel sonno l’uno vicino all’altro e poco dopo le fanciulle, esauste, fanno lo
stesso nell’identico luogo. Allora Puck scioglie l’incantesimo di Lisandro,
lasciando che esso si perpetui per Demetrio. Alla fine le coppie sono
perfettamente assortite: le eroine hanno raggiunto l’oggetto delle rispettive
ricerche e i ragazzi pure, con il felice sconcerto di Demetrio. Il doppio
matrimonio è però di nuovo osteggiato da Egeo, antagonista ora delle due
coppie. In loro aiuto interviene definitivamente Teseo, helper degli
innamorati e opponent del senex iratus, ad annunciare le nozze dei quattro
ateniesi (IV,i,180).
Nella terza trama l’intero gruppo degli artigiani è soggetto della
quest, l’oggetto essendo la recita a corte. Durante le prove nel bosco loro
antagonista è Puck, che appioppa a Bottom una testa d’asino e disperde i
suoi compagni. A corte loro antagonist è Filostrato, che deride il dramma,
loro helper Teseo, che lo impone. Se durante la recita il pubblico con i suoi
ironici commenti appare loro antagonista, Teseo con le sue benevole
osservazioni è palesemente loro aiutante.
La trama magica, infine, presenta due quest opposte: dell’una è
soggetto Oberon e oggetto Titania e il bimbo indiano; dell’altra eroina è
Titania, oggetto il piccolo, che ella vorrebbe tenere per sé, antagonista
Oberon. Nell’espletamento della duplice quest, Puck è helper di Oberon e
opponent di Titania; le fatine, per contro, sono aiutanti della Regina,
devote ma poco valide. Quando torna la pace tra i coniugi, Oberon e Titania
condividono il proposito di benedire gli sposi, che sono dunque oggetto
della loro quest.
175
II.2.3.5 Il linguaggio
348 Filostrato, Master of the Revels alla corte di Atene, altererà il titolo del play,
ma manterrà il vezzo dell’ossimoro: A tedious [a cui, come ho già detto, attribuisco
il significato di ‘lungo’] brief scene […] very tragical mirth (V,i,56-7), che
sorprende e diverte Teseo: Merry and tragical? Tedious and brief? […] How shall
we find the concord of this discord? (58-60).
176
seconda scena, relativa alle prove nel bosco (III,i,1-97), è costruita, pare,
intorno allo stesso ossimoro: la lucida preoccupazione degli artigiani di
non creare panico tra gli spettatori si trasforma nella follia di chi pretende
che significante e significato coincidano, mentre l’ordinato avvio delle
battute del dramma si sgretola contro l’imperizia degli attori e si squilibra
sotto l’impatto sconvolgente di una testa d’asino, che trasforma l’uomo
Bottom in un ibrido inquietante. Nella terza, consacrata alla recitazione
vera e propria (V,i,108-340), inizialmente le parole si ribaltano in un totale
nonsenso per un vizio di lettura mal scandita, poi spiegano e rassicurano.
In seguito s’innalzano ai vertici del soliloquio comicamente
melodrammatico, si acquietano nel dialogo infarcito di errori e di artifici,
infine precipitano nella disperazione che ora, inopinatamente, commuove,
ora suscita pena e riso.
Dal punto di vista linguistico il play si dipana dunque all’insegna
della polifonia.
349 In The Winter’s Tale (1609) Perdita accenna alla festa della tosatura e alle
Whitsun pastorals (IV,iv,134) che si collocano nel cuore dell’estate. Il May-game,
i giochi d’amore a cui si abbandonavano i giovani specialmente, ma non solo, nel
mese di maggio, giochi legati ai riti della fertilità e alla trasgressione erotica,
rappresentavano una consuetudine invalsa in tutto il Paese.
350 La notte di Piramo e Tisbe è, invece, illuminata dalla luna e dalle stelle.
351 Come osserva Krieger, 1996: 41, Demetrio lascia intendere che “now that he is
outside the city, he is not bound by its laws, and […] therefore may rape […]
Helena”, che ha commesso l’imprudenza di leave the city (II,i,215) e di
avventurarsi di notte in luoghi deserti con chi non l’ama ma potrebbe approfittare
di lei.
177
norma i potenti, gli amanti, i genitori degli amanti e gli stessi artigiani, e la
selva, sede degli impulsi, dell’irrazionalità, della violazione della norma,
frequentata, se non abitualmente abitata, da fate ed elfi con i rispettivi
sovrani. Nella selva, per motivi e in tempi diversi, finiscono tutti i
personaggi, con la sola eccezione di Filostrato. Il ritorno dei giovani dalla
selva ad Atene esprime il ritorno all’ordine costituito, dopo i tumulti della
passione. Non a caso la commedia inizia con Teseo e si conclude con
Oberon – entrambi personaggi dell’ordine che pilotano l’azione verso il
lieto fine. Le scene nella selva costituiscono il dream a cui allude il titolo,
ma forse l’intera commedia è un sogno (Brooks, 2001: xcii).
Marca di MND, l’ambivalenza, che ne connota gli elementi
chiave, la luna e la selva, mentre l’ambiguità permea i personaggi e la
commedia stessa.
352 La mitologia informa che Teseo, alla morte del padre Egeo, divenne re di Atene.
Ciò si verificò quando l’eroe – reduce da Creta, dove aveva ucciso il Minotauro,
mostro mezzo uomo e mezzo toro rinchiuso nel labirinto – per una dimenticanza
(il mancato dispiegamento delle vele bianche, segno dell’impresa vittoriosa)
provocò il suicidio del padre affranto. Teseo possedette molte donne e molte ne
abbandonò, ma compì anche imprese eroiche e diede ad Atene buone leggi. Si
sposò più volte, una volta con un’amazzone, di nome Antiopa o Ippolita, e da lei
ebbe un figlio, Ippolito, per il quale la seconda sposa di Teseo, Fedra, concepì un
178
personaggi mitologici, di cui uno ricopre anacronisticamente il ruolo di
‘duca’ e risulta quindi omologo di un governante dell’epoca Tudor, a cui
lo accomuna anche la passione per il teatro e per la caccia. Dalle battute
iniziali apprendiamo che Teseo ha sconfitto in battaglia Ippolita
infliggendole injuries, ma che ora, innamoratosi di lei, si propone di
sposarla con un apparato solenne e fastoso, With pomp, with triumph and
with revelling. L’eroe non vede l’ora che avvengano le nozze, destinate ad
essere celebrate quattro353 giorni dopo la scena a cui stiamo assistendo. Il
tema del matrimonio emerge fin dalla prima riga. L’intervallo temporale
che separa i due dalle nozze è da entrambi misurato sulla luna. Teseo sente
nemica la old moon, che non si decide a tramontare (lo segnalano i termini
negativi step-dame e dowager354 ), mentre Ippolita pensa piuttosto al
novilunio e, da cacciatrice e guerriera qual è, traduce l’idea dell’esile
spicchio astrale che brillerà la notte delle loro nozze, nella delicata
immagine di un silver bow. Teseo considera il tempo in chiave negativa
(tempo lento), Ippolita in chiave positiva o neutra: i giorni passano in fretta
come passano in fretta le notti, occupate dai sogni. Con la ripresa di termini
analoghi (l’apace di Teseo corrisponde al quickly di Ippolita) o identici
(moon), le due battute si completano, mentre dream fa qui capolino e
annuncia la lunga serie di sogni – incubi, fantasticherie, visioni – che
costellano l’opera.
Congedato Filostrato, che deve preparare la gioventù ateniese alla
festa, Teseo fa ad Ippolita una dichiarazione costruita su tre verbi in
sequenza allitterativa, i primi due ambivalenti, il terzo univoco: woo
(corteggiare con le parole, qui con la spada), win (sconfiggere in guerra e
conquistare in amore) e wed, sposare. Non è dato sapere se l’amazzone –
vissuta in una società che disprezza gli uomini ed ora posta nell’umiliante
condizione di prigioniera, isolata dalle compagne – sia favorevole alle
nozze, visto che non risponde alla dichiarazione di Teseo se non con
un’osservazione sul passare del tempo, di segno opposto a quella del futuro
sposo. Dal testo non trapelano i sentimenti di Ippolita, ragione per cui ogni
lettore – e, a maggior ragione, ogni regista – darà la propria interpretazione
ossessivo amore incestuoso – che provocò il suicidio della matrigna e la morte del
giovane.
353 I quattro giorni si riducono, di fatto, a tre.
354 Dowager ha per Teseo senso negativo: è la donna anziana che co nsuma il
patrimonio di un giovane erede. Per Lisandro, che con questo termine qualificherà
la zia benefica presso cui intende cercare asilo (I,i,157), ha invece senso positivo.
179
in base all’unica battuta di lei. Tenerezza schiva o pacata rassegnazione?
La commedia si apre all’insegna dell’ambiguità. Un lettore può
tranquillamente convivere con le ambiguità del testo, ma un regista è
indotto a proporre subito un’interpretazione, destinata a tradursi nei gesti,
nei toni, nei movimenti degli attori.
Il colloquio che ha introdotto il plot cornice, cioè le prossime nozze
tra due adulti, viene interrotto dall’arrivo di Egeo con la figlia Ermia e i
due pretendenti di lei, Demetrio e Lisandro. L’arrivo dei tre fa decollare il
secondo plot, quello dei giovani innamorati. Questa parte della scena porta
avanti il tema delle nozze e dell’amore; nel contempo getta luce sulla
società patriarcale – nella quale l’uomo (padre, maestro, marito,
magistrato, signorotto) detiene un’autorità totale sulla donna. Egeo giunge
da Teseo colmo di collera perché Ermia rifiuta di sposare Demetrio, il
giovane che egli ha scelto per lei. L’anziano gentiluomo accusa Lisandro
di aver “stregato” 355 il cuore di Ermia con versi, canzoni al chiaro di luna,
piccoli doni insignificanti356 , e di avere in lei trasformato l’obbedienza
dovuta al padre in stubborn harshness. Chiede quindi a Teseo che, se la
figlia non si piegherà al suo volere, in qualità di duca egli applichi la legge
in vigore ad Atene, cioè mandi la fanciulla a morte. Nella sua lunga battuta
Egeo si rivolge al Duca in tono deferente, a Demetrio con cordialità, a
Lisandro con irata indignazione, poi di nuovo al Duca in tono deciso.
Tipico personaggio modellato sul senex iratus della commedia latina,
pretende di decidere il destino della figlia: la considera sua proprietà e
sente che è dovere di lei ubbidirgli. Se l’accusa di stregoneria e di furto
mossa a Lisandro anticipa quella che il padre di Desdemona, Brabanzio,
indirizzerà ad Otello (Othello, I,iii,60-4), la minaccia di morte echeggia
solo ad Atene: strumento di coercizione previsto dalla legge.
Senza rispondere a Egeo, Teseo si rivolge a Ermia. In qualità di
governante, non può che essere dalla parte della legge, quindi accreditare
una (cupa) visione della famiglia 357 secondo cui il padre, che ha plasmato
355 Di fatto, non sarebbe più logico incolpare Ermia di avere “stregato” prima
Lisandro, poi Demetrio? L’idea emergerà dalle parole di Elena.
356 Trifles è usato anche da Titania per definire i piccoli doni che la sua devota le
180
il figlio come cera, ha il potere di [t]o leave the figure, or disfigure 358 it. Il
tono di Teseo è pacato, ma l’immagine è sinistra. Quando, per provocare
la reazione di Ermia, egli formula un apprezzamento su Demetrio, la
fanciulla con prontezza volge la battuta del Duca in favore di Lisandro.
Teseo non ribatte ma, in linea con la visione tradizionale, osserva che, nel
caso di due pretendenti di pari valore, il parere del padre è determinante.
La sommessa obiezione di Ermia, I would my father look’d but with my
eyes, indica la sua aspirazione a un matrimonio frutto di una scelta
personale, accettata dal padre. La battuta di Ermia e la successiva
osservazione del Duca, Rather your eyes must with his judgement look,
impostano il tema dell’amore e del matrimonio sull’insanabile contrasto
tra l’esperienza dei sensi, che coinvolge il cuore 359 , e la ragione. Di
immaginazione nessuno parla finché Elena, a fine scena, non osserverà che
Love looks not with the eyes, but with the mind (234): negando quanto
afferma Ermia, evocherà come fonte d’amore la mente, intesa quale sede
non del raziocinio ma della fantasia (Dent, 1983: 126).
A questo punto Ermia, raccogliendo tutto il suo coraggio e stupita
della sua stessa audacia che contrasta con il suo pudore verginale, chiede
di sapere quanto di peggio le potrebbe capitare qualora rifiutasse di sposare
Demetrio. Nella sua volontà di conoscere, Ermia dimostra fin d’ora
un’indole forte e risoluta. Teseo avanza una seconda possibilità, in
alternativa alla morte: la vita monacale 360 . Incidentalmente, non sappiamo
se questa seconda opzione sia sfuggita ad Egeo, se sia stata da lui
deliberatamente esclusa oppure se non rappresenti una soluzione escogitata
sui due piedi dal Duca.
Da ciò che il Duca lascia intendere, il convento è chiaramente
punitivo in quanto comporta una serie di limiti e di privazioni: la livery
implica una cancellazione d’individualità, la reclusione (mew’d) va contro
le aspirazioni di chiunque, specialmente di un giovane, lo shady cloister, i
faint hymns, la cold fruitless moon 361 rappresentano la materializzazione
358 disfigure = to mar the figure of, to deform, deface (OED). Quince usa il termine
in III,i,54 come malapropism per figure.
359 Di parere contrario Dent (1983: 126), secondo cui l’amore di Ermia nasce da
della castità, quindi fruitless. E’ suggestivo pensare che a Diana spetti il merito di
aver salvaguardato la verginità di Ermia ed Elena nella selva.
181
dello stato malinconico ed esangue di ogni barren sister. Teseo riconosce
le qualità eccelse (thrice blessed) di chi vive in castità, ma fa pendere il
piatto della bilancia in favore delle gioie sponsali362 attraverso
un’immagine involontariamente struggente della donna, il cui destino
prevede due sole possibilità, la manipolazione fino a essere consumata, sia
pure per un nobile scopo363 , o una rinsecchita solitudine fino alla morte,
coronata dalla beatitudine. Nell’800 questo passo (67-78) fu tagliato in
tutte le produzioni teatrali tranne una, per ragioni di anacronismo o, più
probabilmente, in quanto rivelatore della “its [del dramma] profoundly
Catholic spirituality, its realistic distinction between married life as
“earthliern happy” and monastic life as “blessed” (Beauregard, 2001: vol.
5.3. 249), anzi thrice blessed.
Con sorprendente energia, sottolineata dal fatto che Ermia riprende
l’uno dopo l’altro i verbi usati da Teseo a fine battuta (grow, live, die), la
fanciulla proclama la sua determinazione a non darsi se non a colui che ella
accetterà spontaneamente. I versi fotografano la presa di posizione della
giovane donna: la verginità le appartiene, è un suo diritto (my virgin
patent364 ); l’uomo è l’autorità (lordship, sovereignty) che impone, in ogni
caso, un giogo. Se il giogo è unwished, lo spirito di lei non intende
piegarvisi.
Dopo che Teseo ha invitato Ermia a riflettere, la discussione si
riaccende. Egeo ribadisce di voler destinare Ermia, sua esclusiva proprietà,
a Demetrio. Lisandro dichiara di non valere meno del rivale dal punto di
vista sociale ed economico, confermando in tal modo quanto il
lettore/spettatore aveva già intuito, cioè che l’atteggiamento possessivo del
padre è semplicemente “a demonstration of his own power” (Dreher, 1986:
51). Inoltre Lisandro segnala davanti a tutti che, prima di invaghirsi di
Ermia, Demetrio amava un’altra, Elena, che tuttora lo ama alla follia: she,
sweet lady, dotes, / Devoutly dotes, dotes in idolatry / Upon this spotted
and inconstant man. Teseo, che della cosa aveva sentito parlare, consiglia
comunque ad Ermia di adeguarsi alla volontà paterna. Ippolita, rimasta fino
a questo punto in composto silenzio, ha ora una reazione muta ma
242) si legge: The Rose […] beeing distilled yeeldeth sweete water […].
364 virgin patent = entitlement to virginity (OED: patent sb. 5) in Brooks, 2001:
10, n. 80.
182
chiaramente percepibile (se d’indignazione o di dolore, non è dato sapere)
che provoca la sorpresa di Teseo: what cheer, my love? (122). Poi questi
esce, con Ippolita, Egeo e Demetrio.
Inizia qui la seconda sequenza (128-225). Rimasti soli, i ragazzi
parlano della loro triste situazione. Dopo la domanda iniziale di Lisandro,
How now, my love?, che si collega a quella rivolta da Teseo a Ippolita, il
discorso investe il loro amore. Avvalendosi dei topoi della poesia
petrarchista – guance pallide, tempeste di lacrime – e della tradizione
romantica, Lisandro considera che [t]he course of true love never did run
smooth, esposto com’è a sciagure che lo rendono breve, violento, effimero.
Su questo punto le parole di Lisandro perdono il tratto artificiale e retorico,
tutto anafore e sticomitie365 , che spesso caratterizza i dialoghi degli
innamorati, e malinconicamente prospettano l’amore proprio come
apparirà nel corso della vicenda, momentaneo e labile. Al tempo stesso,
esse delineano “a bleak picture of human beings adrift in a cruel
universe”(Rixon, 2000: 4): il quadro, a mio avviso, è fin troppo “bleak”
per una commedia come MND, in cui the jaws of darkness non si
spalancano se non per finta.
Or, if there were a sympathy in choice,
War, death, or sickness did lay siege to it,
Making it momentany as a sound,
Swift as a shadow, short as any dream,
Brief as the lightning in the collied366 night, […]
And, ere367 a man hath power to say ‘Behold!’,
The jaws368 of darkness do devour it up […] (141-8)
365 Le sticomitie (da stichos, verso, e mythos, discorso) sono battute di forte
impatto drammatico, presenti nel teatro greco e latino, ognuna delle quali
corrisponde ad un verso.
366 collied = blackened (da to colly = blacken with coal-dust).
367 ere = before (conj. and prep.).
368 jaws = fauci.
183
sorprendentemente, investono l’infedeltà maschile: un’oscura preveggenza
o soltanto un’amabile presa in giro?
Giunge ora Elena, che si rivolge all’amica Ermia in una lunga
battuta, impostata sul formale you. Questo fatto e le concise obiezioni di
Ermia, nelle quali la fanciulla non usa mai il pronome di seconda persona,
suggeriscono che il clima è teso, con una interlocutrice sul fronte
accusatorio, l’altra in posizione difensiva. Elena lamenta il suo destino di
donna abbandonata da chi (Demetrio) si è aperto a un nuovo amore, che si
incarna proprio nell’amica d’infanzia. Come apprendiamo da Ermia (che
si rivolge ad Elena con il soave appellativo di sweet playfellow), le due
fanciulle si conoscono dal tempo dei giochi e delle confidenze, quando,
incontrandosi nella selva, si raccontavano i loro segreti. Sul motivo del
reciproco ancient love (III,ii,215) ritornerà Elena nel III atto, in versi
carichi di struggimento e fitti di immagini legate alla natura, allorché,
davanti alle profferte amorose di Lisandro e di Demetrio, si crederà oggetto
di una congiura messa in atto da Ermia e su di lei riverserà la sua
disillusione.
Torniamo al I atto. Quando incomincia a parlare, Elena è tutta
recriminazione e dolore. La si direbbe mossa da invidia inconscia, che si
esprime come sofferta ammirazione per Ermia. Non le importa la qualifica
di fair che l’amica le attribuisce, poiché
Demetrius loves your fair369 : O happy fair!
Your eyes are lode-stars370 , and your tongue’s sweet air
More tuneable than lark to shepherd’s ear
When wheat is green, when hawthorn buds 371 appear. (182-5)
369 In questo caso fair ha valore di sostantivo. La frase, molto concisa, sta per
‘Demetrius, who is in love with you, thinks you are fair (not me)’.
370 lode-star = stella polare. La metafora non suggerisce solo la luminosità degli
184
con un verbo, translate 372 , molto pregnante poiché suggerisce l’idea di
qualcuno che, pur continuando ad essere se stesso, non lo è più, in quanto
portato fuori di sé (trans-latus).
Ermia ha l’impressione che l’amica la ritenga responsabile
dell’innamoramento di Demetrio e che lo attribuisca al comportamento
studiato (art) di lei. Quindi si difende affermando di aver fatto di tutto per
scoraggiarlo, senza esito. L’uso dei correlativi the more…the more,
premessi a stati d’animo opposti, indica che non c’è via d’uscita. Demetrio
e Ermia sono in un vicolo cieco, prigionieri di una situazione beffarda: più
Demetrio sta appresso ad Ermia che non lo vuole, più in lei cresce
l’avversione nei suoi confronti; più Elena adora Demetrio che la detesta,
più questi la disdegna:
Her. The more I hate, the more he follows me.
Hel. The more I love, the more he hateth me. (198-99).
esibisce il suo sapere segnalando le diverse varietà di primule che la selva ospita:
la primrose, o Primula vulgaris (I,i,215), la cowslip, o Primula veris (II,i,10 e 15)
e l’oxlip (II,ii,250), “a natural hybrid between these” (OED).
185
affida all’uso del confidenziale thou/thy 375 , e dopo l’augurio,
involontariamente ironico, di Lisandro che la coppia Elena-Demetrio si
leghi in un reciproco doting, la giovane donna resta sola a meditare su se
stessa, su Demetrio e sull’amore – nella terza sequenza.
E’ lucida Elena nel mettere a fuoco il concetto centrale del suo
lungo soliloquio (226-251): l’amore giudica non con gli occhi ma con la
facoltà, del tutto priva di giudizio 376 , dell’immaginazione; in essa risiede
la capacità metamorfica (o anamorfica) dell’amore stesso, che nobilita ciò
che è vile. Elena considera anzitutto che l’amore è soggettivo: non si basa
sulla prova oggettiva dei sensi, ma sulle fantasie della mente, motivo per
cui Cupido è detto cieco. Non guarda con gli occhi, non vede come stanno
le cose; guarda con la fantasia, irragionevole e fallace. Se l’amore
guardasse con gli occhi, Demetrio si accorgerebbe che lei è bella quanto
Ermia. Invece, dacché il suo sguardo si è posato su Ermia, egli ha
letteralmente perso la testa. Ciò ha innescato una reazione uguale e
contraria in Elena: And as he errs, doting on Hermia’s eyes, / So I,
admiring of his qualities. Demetrio sbaglia perché le ha preferito una
donna bella quanto lei, Elena sbaglia perché si annulla nell’ammirazione
di quegli aspetti di lui che equivalgono a [t]hings base and vile. L’amore
irrazionale è infantile, mutevole e spergiuro – e la vicenda puntualmente lo
dimostrerà. Dopo queste malinconiche considerazioni, Elena
sconsideratamente progetta di rivelare a Demetrio il piano dei fuggitivi per
avere la gratitudine di lui. In questo momento non pensa che sta per tradire
l’amica.
Il doting è la ‘marca’ del secondo plot. L’infatuazione non è tipica
dell’amore maturo, del love, ma dell’amore unilaterale che deborda
nell’eccesso – stigmatizzato nel Rinascimento. Del doting saranno vittime
Lisandro e Demetrio quando muteranno l’oggetto d’amore, e la stessa
Regina delle fate.
375 Circa l’uso di thou/thy invece di you/your si veda nota 85. Dopo un periodo di
‘guerra fredda’, al momento dell’addio l’atmosfera si rasserena, almeno sul fronte
di Ermia, più generosa forse perché intravede una soluzione al suo problema.
376 Più avanti (II,ii,119-21) Lisandro giustificherà la sua improvvisa passione per
186
I protagonisti di questa scena hanno problemi analoghi a quelli dei
giovani della Londra di fine ’500. Anche in Inghilterra vigeva il regime
patriarcale che assoggettava moglie e figli, domestici e apprendisti, alla
volontà del pater familias, del householder. Anche i giovani della upper
class erano condizionati dalla famiglia nella scelta del partner; anch’essi,
pur di sottrarsi a nozze sgradite, meditavano la fuga d’amore e il
matrimonio clandestino, con tutti i rischi economici e sociali che le nozze
segrete comportavano377 . Unica differenza: a Londra non era comminata le
pena di morte a chi disobbedisse al padre.
377 Per essere incorso in un matrimonio segreto John Donne finì in carcere, perse
il lavoro e potè campare soltanto grazie all’aiuto economico degli amici.
378 Il folletto Puck parlerà di loro in termini allegramente sprezzanti: A crew of
patches*, rude mechanicals (III,ii,9) e that barren sort (13). Filostrato, più
concreto, ne parla come di hard-handed men che mai hanno lavorato di mente ma
che now have toil’d their unbreath’d memories (V,i,72-5). E’ proprio quest’ultima
osservazione che induce Teseo, rispettoso di simpleness and duty (83), a scegliere
la loro commedia come spettacolo nuziale.
*patch (forse dall’italiano ‘pazzo’) = clown, fool, cioè buffone.
379 Il nome Quince è di solito associato ai cunei usati dai carpentieri. Il termine,
tuttavia, attraverso il suo secondo significato di ‘mela cotogna’, rientra in una ricca
e insospettata rete di sensi connessi al matrimonio, alla sessualità e alla
generazione. Illustra questo aspetto il dotto, gradevole articolo di Parker, 2003.
187
loro l’argomento del testo che ha scritto per le nozze del Duca, spiegare il
ruolo dei personaggi e assegnare le parti. Gli artigiani di Atene (un
carpentiere, un tessitore, un aggiustamantici, uno stagnino, un falegname e
un sarto) hanno nomi comicamente associati al mestiere 380 , parlano in
prosa con un lessico incerto e dimostrano una buona dose di ingenuità –
come spesso accade ai personaggi ‘bassi’ del teatro di Shakespeare.
Quince ha concepito un interlude, The most lamentable comedy,
and most cruel death of Pyramus and Thisbe. Come mai lo strano ossimoro
‘tristissima commedia’, dato che quella di Quince – lo proclama il titolo
stesso – è un’autentica tragedia, che prevede la morte di due giovani? 381
Come mai nessuno della compagnia solleva perplessità sul fatto che una
commedia sia qualificata most lamentable? Quest’ultimo punto si spiega
facilmente: gli artigiani sanno poco di teatro, ma si fidano ciecamente di
Quince, l’intellettuale del gruppo: il tessitore Bottom, affascinato dal titolo,
è sicuro che il lavoro è ottimo e divertente. L’enigmatica espressione
“commedia tristissima” potrebbe forse spiegarsi con il desiderio
dell’autore Quince di scrivere una tragedia facendola passare per
commedia, genere più adatto a festeggiamenti nuziali; oppure, secondo il
frequente parere critico, con l’intenzione di Shakespeare di ammiccare al
titolo della tragedia Cambyses (ca.1570) di Thomas Preston che
incomincia con A Lamentable Tragedie Mixed Ful of Pleasant Mirth […].
Quanto a Quince e alla sua produzione artistica, il problema mi
pare sia stato felicemente – forse definitivamente – chiarito da un saggio
di Taylor, 2003, che sintetizzo. Quince sa il latino (III,i,189 e V,i,162), il
che non sorprende visto il genere di istruzione che il buon padrone di
bottega impartiva agli apprendisti. Il suo dramma è una traduzione
imperfetta ma abbastanza fedele della vicenda di Piramo e Tisbe quale è
narrata nelle Metamorfosi (IV,51-166). Due giovani, il cui amore è
contrastato dalle famiglie, riparano separatamente, di notte, in un bosco.
Qui un leone lacera e insanguina il manto di Tisbe, che fugge. Piramo trova
380 Dopo quello di Quince (nota 379) un altro esempio: il tessitore si chiama
Bottom. Il termine significa “the lowest part of anything”, ma anche “a clew [a
ball] on which to wind thread” (OED, 1 e 13), cioè ‘fondo’ e ‘rocchetto’. In
IV,i,214-5 il personaggio parlerà della propria visione come ‘Bottom’s Dream’,
because it hath no bottom.
381 Il testo è tragico, anche se, contro le intenzioni dell’autore, la recitazione
188
il mantello, pensa Tisbe morta e si suicida. Giunge poco dopo la fanciulla
che si uccide sul corpo di lui.
Quella di Quince è una traduzione redatta con il testo di Ovidio
sotto gli occhi. Lo comprovano le strutture latineggianti, con gli aggettivi
posposti ai nomi e i predicati a fine frase, i numerosi calchi e, soprattutto,
le varianti e gli adattamenti. Ad esempio, là dove Ovidio scrive che
l’incontro tra gli innamorati avviene ad Lunae radios, Piramo esclama:
Sweet moon, I thank you for your sunny beams (V,i,261). Shakespeare fa
in modo che Quince incorra nel buffo errore non soltanto per strappare al
pubblico un sorriso, ma per segnalare alla parte colta dell’audience le
modalità di composizione del dramma. Quince ha lavorato sul testo
originale, per tradurre il quale è ricorso al dizionario standard dell’epoca,
il Thesaurus Linguae Romanae & Britannicae (London, 1565) di Thomas
Cooper, il quale dà comedie come sinonimo di interlude e A beame of the
sunne come primo significato di radius. Nel V atto, poi, quando lo
spettatore ascolta la versione definitiva di Pyramus and Thisbe, si rende
conto che, nelle ore intercorse tra la prova nel bosco (III,i) e la messa in
scena a palazzo, Quince ha riscritto il testo: frettolosamente, ma pur sempre
con il dizionario a portata di mano. Restano alcune incongruenze, a
dimostrare – come fu detto di Shakespeare – che Quince non è un latinista
di gran vaglia, che insomma “[he] ha[s] small Latine”. L’ipotesi di Taylor,
del tutto condivisibile, è quindi che nell’artigiano drammaturgo
Shakespeare, che certo il latino lo sapeva bene, “is caricaturing himself and
exaggerating his faults” (Id.: 60). Non è tutto. Osservando che Quince
riscrive il testo nelle poche ore tra la prova e la recita, e considerando i
tratti caratteriali e operativi del personaggio – la bonarietà, il garbo, la
disponibilità interlocutoria e, nel contempo, il piglio direttivo e
l’atteggiamento professionale – Taylor crede di riconoscere nel
personaggio il ritratto del suo creatore, al pari di Quince attore, regista e
drammaturgo ritenuto di rapida mano.
Incomincia qui la parte più deliziosamente comica della scena. La
prospettiva della recita esalta gli artigiani, a partire da Bottom, il tessitore.
A lui Quince attribuisce il ruolo del protagonista, un amante che si uccide
per amore. Bottom promette che la sua recitazione farà versare fiumi di
lacrime, anche se il ruolo a lui più congeniale sarebbe quello del tiranno –
189
e ne dà prova con una roboante esibizione improvvisata 382 . Il giovane Flute,
l’aggiustamantici, a cui Quince assegna la parte di Tisbe, l’amata di
Piramo, ha qualche obiezione ad interpretare un ruolo femminile per via
della barba incipiente. Quince gli suggerisce allora di usare una maschera.
Non l’avesse mai detto! L’idea della maschera invoglia Bottom a proporsi
anche per il ruolo di Tisbe, assicurando che la sua voce si farebbe in tal
caso sottile sottile. Quince non gli bada. Assegna le parti dei genitori dei
giovani, riservando per sé quella del padre di Tisbe, e propone a Snug il
ruolo del leone. Costui, tardo nell’apprendere ma scrupoloso, vuole la parte
scritta383 per impararla a dovere. Quando Quince lo tranquillizza (dovrà
solo ruggire!), Bottom si offre con baldanza anche per il ruolo del leone
(nel ruggito simile al tiranno), sicuro che la sua performance piacerebbe
enormemente. Quince, però, lo fa ragionare: se facesse il leone too terribly,
spaventerebbe le dame – e questo basterebbe per farli impiccare tutti
quanti. Bottom è d’accordo, ma assicura che sarebbe in grado di ruggire as
gently as any sucking dove 384 . Quince allora con pazienza gli spiega che
solo lui ha le caratteristiche estetiche e le capacità attoriali adatte al ruolo
del protagonista, bell’uomo, aristocratico, per bene – quindi you must
needs385 play Pyramus (82). Lusingato, Bottom cede. Risolto anche il
problema della barba, non resta a Quince che raccomandare ai compagni
che imparino la parte per la sera successiva, quando s’incontreranno nel
bosco, a mile without the town 386 , by moonlight, per le prove. Dove
esattamente? At the Duke’s oak. Il bosco sta assumendo una posizione di
primo piano. Se esso rappresenta la destinazione degli artigiani, questi
stato assai costoso, il copione veniva suddiviso in tante parti quanti erano gli attori
e ogni parte copiata separatamente. Il testo trascritto, cioè, conteneva soltanto le
battute del singolo interprete, ognuna preceduta dalla cue, cioè dalle parole con
cui terminava il discorso immediatamente precedente (si veda IV,i,199-20 0 ).
Nell’udire la cue l’attore recitava il suo pezzo (Egan, 2003: 27).
384 OED segnala che il primo esempio di sucking riferito ad un uccello, nel
190
forse incontreranno i fuggitivi. Così sospetta – e si aspetta – il
lettore/spettatore.
La scena, nel disordine degli interventi e nella sovrapposizione
delle voci, è molto godibile e ci trasporta in un clima di chiassosa allegria
ben diverso da quello dapprima compassato, poi angoscioso, infine teso e
mesto della scena precedente. Diverte per l’ingenuità degli artigiani: essi
sono persuasi di essere attori così abili e convincenti che l’audience non
sarà in grado di cogliere la differenza tra il falegname Snug in costume da
leone e un leone autentico. Fa sorridere per il lessico strampalato di Bottom
quando sfoggia un linguaggio non suo o incespica in paroloni che non
conosce, quando usa aggravate invece di ‘moderate’, suo esatto opposto,
obscenely per ‘seemly’, anche se, in questo caso, l’errore (we may rehearse
most obscenely) involontariamente corrisponde alla verità.
La scena ha anche funzione metateatrale. Come si è visto, contiene
una riflessione – ironica e divertente – sul teatro, sui ruoli femminili recitati
dagli attori più giovani, sui problemi del timbro di voce, del trucco e del
reperimento degli oggetti scenici. Infine Pyramus and Thisbe ricorda,
come viene concordemente sottolineato, la tragedia, quasi coeva al Sogno,
Romeo and Juliet (1595), dove due giovani si amano contro il volere
parentale, si trovano di nascosto e, sbagliando i tempi di un incontro, si
suicidano – lei sul cadavere di lui. Anche la vicenda di Ermia e Lisandro
si riflette in una certa misura in quella di Romeo e Giulietta: senza
l’intervento di Oberon e la decisione di Teseo come si sarebbe conclusa la
loro storia? D’altronde un finale tragico non sarebbe stato in sintonia con
una commedia concepita per un matrimonio.
387 Nel racconto di Chaucer The Merchant’s Tale, all’interno dei Canterbury Tales,
figurano quali sovrani delle fate Plutone e Proserpina. Nella commedia Endimion
(1591) di John Lyly le fatine, della dimensione di Peaseblossom o Cobweb, sono
al servizio della regina Cynthia. Anche un intero, divertente poemetto, Nimphidia
(1627) di Michael Drayton, ci immerge nel mondo delle fate. Si veda I.5.3, nota
114.
191
lungo discorso di Mercutio su Queen Mab, levatrice delle fate (I,iv,53-94),
anticipa la fantasia fatata del Sogno, e alla fine della sua carriera porterà di
nuovo in scena uno spirito dell’aria, Ariel, in The Tempest, affine a Puck
per qualche tratto, ma più complesso e più amabile.
In MND la trama magica s’intreccerà con grande naturalezza alle
altre due (quella degli innamorati e quella degli artigiani) e alla fine si
salderà anche alla prima 388 .
La scena si può dividere in quattro french scenes. La prima,
costruita sul dialogo tra una fairy e Puck, che ci fa entrare nel mondo delle
piccole creature e ci informa circa la terribile disputa tra Oberon e
Titania389 , narrata da Puck, portavoce di Oberon. La seconda inscena il
conflitto, la cui origine è attribuita a Titania che ribadisce il suo rifiuto di
cedere a Oberon il ragazzino oggetto di contesa, e mette in luce la collera
di Oberon, che ingiunge a Puck di procurargli il mezzo, un fiore magico,
con cui punire la sposa ostinata. La terza, imperniata su Demetrio e Elena
giunti nel bosco, ci fa assistere allo scontro verbale tra i due, in presenza
dell’invisibile Oberon. La quarta verte sugli ordini che Oberon impartisce
a Puck, quando questi ritorna con il fiore.
Il mondo delle fate è percorso dalle stesse tensioni e dagli stessi
conflitti del mondo degli umani, è retto dalla stessa gerarchia, è
analogamente maschilista. Fate ed elfi si muovono sullo sfondo suggestivo
e insidioso della selva, ma visitano anche il vicino mondo agreste e
percorrono terre esotiche. Gli spiriti del Sogno, tuttavia, sono diversi dalle
analoghe creature della tradizione nordica, maligne abitatrici della notte.
Oberon stesso proclamerà la differenza: But we are spirits of another sort
(III,ii,388), liberi di muoversi anche di giorno, privi di ogni caratteristica
sinistra.
Nel Sogno la selva, connaturale alle aeree creature, si apre su
slarghi fioriti, dove tutto è umanizzato e tutto è prezioso. Le primule hanno
388 Del resto, le due trame trovano già in questa scena un punto d’intersezione, in
quanto Oberon e Titania dichiarano di essere venuti ad Atene in occasione delle
nozze di Teseo e Ippolita.
389 Titania è chiamata da Puck Fairy Queen (III,i,74). Essendo già stati pubblicati
192
vesti d’oro, lentiggini purpuree come rubini, orecchie su cui brilla una
perla. Oro e rubini esaltano lo splendore dei fiori, la perla accentua la
liquida luminosità della rugiada. Una nota analoga si riscontra anche nel
bellissimo passo I know a bank where the wild thyme blows (II,i,249-56),
che tratteggia il luogo in cui Titania trascorre la notte: un tripudio di fiori
e di colori (dove neppure il serpente rappresenta una minaccia visto che la
sua pelle si trasforma in abito per le fatine), sede di danze e di piacere.
Eppure a tratti la selva-giardino assume la parvenza di un nuovo Bower of
Bliss, regno di sfrenata sessualità.
Il più evidente dei dati fiabeschi degli esserini del bosco sono le
minuscole dimensioni. Una mansione delle fate è infatti quella di stillare
gocce di rugiada nelle primule, mentre gli elfi, quando hanno paura, si
rifugiano into acorn-cups (II,i,31). Le fate minori agli ordini di Titania,
cioè Peaseblossom, Cobweb, Moth e Mustardseed390 , vanno immaginate
piccine come bimbetti, ma non possiamo non attribuire statura adulta a
Titania, che abbraccia Bottom senza disagio, e a Oberon, suo sposo – tanto
più che nella rappresentazione scenica i registi si avvalgono sempre più
spesso della tecnica del doubling 391 , affidando il ruolo di Oberon allo stesso
attore che recita la parte di Teseo e quello di Titania alla stessa attrice che
impersona Ippolita. Le contraddizioni (in questo caso una felice
bidimensionalità, piccolo-grande) convivono agevolmente nell’opera
d’arte, in cui la fantasia non è tenuta a sottostare a una ragionevole
uniformità.
Fate ed elfi hanno la prerogativa di essere invisibili (II,i,186) e di
muoversi con fulminea velocità: la fatina vola swifter than the moon’s
sphere (I,ii,7), Puck392 promette a Oberon di put a girdle round about the
earth / In forty minutes (I,ii,135-6), Titania osserva, in un bellissimo distico
rimato, We the globe can compass soon, / Swifter than the wandering moon
(IV,i,96-7).
193
Le dimensioni e la velocità motoria degli spiritelli hanno creato
problemi ai registi, specialmente in passato: come rendere credibili sulla
scena creature che possono nascondersi in un guscio di ghianda? Come
suggerirne la rapidità di spostamento? Per trecento anni a impersonare le
fate furono chiamati i bambini, poi si ricorse a giovinetti biancovestiti e/o
a fanciulle in tutù. Oggi ci si avvale di adulti, la cui leggerezza, eleganza e
aerea velocità sono affidate a trapezi, funi e macchine sceniche, che
tuttavia possono compromettere l’impressione di magia.
Le creature fatate posseggono marcati aspetti umani: conoscono
l’amore, il tradimento, il capriccio, la vendetta, la collera, la prepotenza e
la ripicca, persino il sadismo, ma sono anche capaci di compassione e di
generosità. Le burle sgradevoli di Puck, che spaventa le ragazze, vanifica
la fatica della massaia impegnata a fare il burro, svia i viaggiatori dalla
strada maestra, sembrano i tiri mancini di un monello che si diverte a creare
scompiglio, a seminare disagio, a confondere. La stessa lite tra Oberon e
Titania richiama un alterco tra marito e moglie, che prima si rinfacciano i
tradimenti recenti e remoti, poi si contendono la prole.
Il dialogo spumeggiante tra la Fatina e Puck rivela la personalità
dei due attraverso le attività in cui sono impegnati: lei tra erba, fiori e
rugiada, lui tra campagna e villaggio, tra zangole e tini di fermentazione;
entrambi creature della notte, entrambi vagabondi, lei velocissima nel volo,
lui velocissimo anche nelle metamorfosi vocali393 .
L’incontro tra Obe ron e Titania avviene al chiaro di luna, ma
nulla ha di romantico. I due anzitutto si rivolgono accuse reciproche
d’infedeltà. La disputa è scaturita da un atto di insubordinazione di lei, che
Titania non ha difficoltà ad ammettere: I have forsworn his bed and
company. L’abbandono del talamo viola le prerogative dello sposo, donde
l’irritazione di Oberon: am not I thy lord? Titania – dialetticamente la più
agguerrita dei due – con prontezza gli rinfaccia che, se egli fosse il suo
signore, lei dovrebbe essere la sua lady, quindi avere il rispetto che come
moglie le compete. Ma Oberon è un superficiale donnaiolo (se così si può
dire di uno spirito). E Titania, sarcastica, ricorda un’avventura di lui –
l’eroe! – in un mondo arcadico a fare il ‘pastorello’ con una pastora, poi ne
spiega la presenza ad Atene come atto di omaggio all’androgina, coturnata
Ippolita, your warrior love (71). Oberon, a sua volta, attribuisce a Titania
la responsabilità di aver allontanato Teseo – del quale è innamorata – dalle
393 Si veda l’azione di Puck onde scongiurare il duello tra Demetrio e Lisandro.
194
molte creature da lui sedotte e abbandonate. Il battibecco è squallido (o lo
sarebbe, se non fosse comico) e getta un’ombra sull’istituzione del
matrimonio. Dal battibecco escono ridimensionati i personaggi adulti, dal
passato non proprio limpido.
L’affondo, lo sferra Titana nei confronti di un Oberon non solo
geloso ma ‘rompiscatole’, che ha sistematicamente disturbato gli svaghi
delle fate, le loro danze nella natura. La tensione tra i due – riconosce
Titania con sincero rammarico – ha per di più causato un profondo
squilibrio nel mondo sublunare: ha sconvolto la terra, alterato il corso delle
stagioni394 , seminato carestie, provocato nebbie, alluvioni e gelo, che
hanno ucciso il grano sul nascere, causato la moria degli animali, cosparso
la terra di carogne, annullato i sani passatempi festosi395 .
Oberon sarebbe pronto a comporre il dissenso se Titania gli
consegnasse il little changeling396 boy di cui egli vorrebbe fare il proprio
henchman, ovvero il proprio paggio speciale. Su questo punto, tuttavia,
Titania è irremovibile e in un passo commovente, di grande suggestione
lirica, spiega il motivo per cui non può, o non vuole, separarsi dal fanciullo.
Set your heart at rest:
The fairy land buys not the child of me.
His mother was a votress of my order;
And in the spiced Indian air, by night,
Full often hath she gossip’d by my side,
And sat with me on Neptune’s yellow sands
Marking th’embarked traders397 on the flood:
When we have laugh’d to see the sails conceive
And grow big-bellied with the wanton398 wind
394 In un mondo irriconoscibile per le sue anomalie non è uno scherzo , ma il segno
di uno sconvolgimento totale che sul capo esile e gelido del vecchio Inverno
compaia [a]n odorous chaplet of sweet summer buds (II,i,110).
395 Il quadro desolante delle condizioni umane tracciato da Titania contiene una
topical allusion che consente di ascrivere la composizione di MND agli anni 1595-
96. Su questo punto si veda p. 165.
396 changeling = a person (esp. a child) or thing surreptitiously put in exchange for
another (OED, 1561): the mortal child stolen by the fairies who left their own in
exchange. Si tratta dunque di un/a bambino/a scambiato/a. Pagnini traduce con
refurtiva.
397 embarked trader = mercante salito a bordo; per estensione la nave stessa.
398 wanton = scherzoso, lascivo.
195
Which she, with pretty and with swimming gait
Following (her womb then rich with my399 young squire),
Would imitate, and sail upon the land
To fetch me trifles, and return again
As from a voyage rich with merchandise.
But she, being mortal, of that boy did die;
And for her sake do I rear up her boy;
And for her sake I will not part with him. (121-37)
399 L’affetto di Titania trapela dal possessivo: il bimbo, ancora nel ventre materno,
era già suo.
400 To gossip qui significa to talk idly, senza la connotazione negativa che il verbo
196
rich with merchandise, frutto di scambi vantaggiosi di cui sono fieri. Le
donne non hanno bisogno di affannarsi perché posseggono un altro, e
superiore, genere di ricchezza, la possibilità di dare la vita. Il racconto si
chiude di colpo su una nota di morte (il parto, simbolo di femminilità,
rompe l’unione amicale) e una più forte nota d’amore. Titania vuole
crescere il bambino for her sake, per amore di colei che ha amato. Il
rapporto omoerotico qui si sublima. Ma le amicizie femminili nel Sogno
non sono destinate a durare perché l’uomo le rompe. Ippolita è stata
separata dalle compagne da un elemento mortifero, tipicamente maschile,
come la guerra; Titania ha perso l’amica e perderà ciò che le resta di lei, il
bambino, per via di Oberon; Ermia ed Elena scopriranno che le ambite
unioni sponsali avranno spezzato il loro antico legame.
Oberon, adirato e deciso a punire l’intollerabile insubordinazione
della moglie, chiede a Puck di portargli un fiore magico, di cui gli racconta
la storia – storia di una verginità violata. In una notte soffusa di sottile
erotismo (la sirena sul dorso di un delfino401 , il suo canto soave, le stelle
cadenti) entra in azione Cupido, armato d’arco e di freccia. Egli vuole
colpire una vergine imperiale (la regina Elisabetta) e lancia contro di lei il
suo dardo di fuoco (simbolo della potenza sessuale). Ma il fuoco della
freccia si spegne nei raggi della luna, cold e watery, protettrice della castità,
e la vergine si allontana, fancy-free, assorta in casti pensieri. La freccia
continua la sua traiettoria fino a cadere su un piccolo fiore [b]efore milk-
white, now purple with love’s wound (167). Il dardo, che non colpisce la
vergine, destinata a rimanere immune dai piaceri e dalle pene d’amore,
estranea all’autorità maschile, colpisce però un fiore. L’atto violento si
rende visibile nella metamorfosi che il suo colore subisce, da bianco a
scarlatto402 . Il fiore si chiama love-in-idleness (168), opportunamente reso
in italiano con pensée, viola del pensiero, anche se, come segnala Pagnini,
la traduzione non trasmette le connotazioni di idleness nel suo significato
di ozio, vanità e follia – termine che ben si addice all’irrazionalità
dell’amore nella selva. Il succo del fiore asperso sulle palpebre di un
Tisbe raccontata da Ovidio, per cui, investite dal sangue di Piramo che fu
contemporaneamente assorbito dalle radici, le more del gelso divennero rosso
cupo: purpureo tingit pendentia mora colore.
197
dormiente (spiega Oberon) lo farà madly dote, follemente innamorare,
della prima creatura su cui, al risveglio, cadrà il suo sguardo.
Al monologo di Titania indirizzato a Oberon e incentrato su una
madre mortale, una votaress che appartiene all’Oriente 403 , si contrappone
il monologo di Oberon a Puck, che associa la storia del fiore alla vicenda
di una vergine impervia all’amore, an imperial404 votaress, d’Occidente. I
monologhi sono entrambi espressioni di ricordi e di “myths of origin”
(Montrose, 1996: 127). Come osserva Montrose, Titania racconta la
genealogia del bambino, figlio dell’amica, per giustificare la sua
determinazione a tenerlo con sé; Oberon costruisce l’eziologia del fiore,
del quale si servirà per strapparle il bambino.
Mentre Puck vola in cerca del fiore, Oberon, in un soliloquio inteso
a chiarire la situazione al pubblico, progetta di spargerne il succo sugli
occhi di Titania addormentata, sì che si invaghisca della prima cosa che
vedrà, be it […] lion, bear, or woolf, or bull, oppure una scimmia o un
gorilla (180-1). Solo quando avrà acconsentito a cedergli il ragazzino, la
libererà dall’incantesimo con un antidoto erbaceo. La riflessione
spregiudicata e crudele di Oberon – indifferente al destino di Titania, anzi
quasi sadicamente compiaciuto che possa incapricciarsi di una belva – è
interrotta dalla comparsa di Demetrio, seguito da Elena. Invisibile, egli ne
ascolta la conversazione. L’arrivo della fanciulla con il suo incoercibile
amore, e del giovane che la respinge, introduce una seconda nota di
tensione nel magico mondo arboreo.
Demetrio, preoccupato soltanto di incontrare Lisandro per
ucciderlo, fa di tutto per liberarsi di Elena che gli sta alle calcagna. Il
rapporto tra i due si manifesta subito nel tono delle rispettive battute e
nell’uso del pronome personale. Nella sua perpetua e vana supplica Elena
rivela una totale, masochistica subordinazione a Demetrio a cui si rivolge
con il pronome you, segno della distanza che la separa dall’ex innamorato
e della propria sensazione d’inferiorità. Per contro Demetrio non nasconde
403 L’Oriente è collegato sia a Titania per via della votaress e del bimbo indiano,
sia a Oberon, a cui Titania chiede: Why art thou here, / Come from the farthest
step of India […]? (II,i,68-9).
404 Il titolo d’imperatrice conferito ad Elisabetta si giustificava poiché il suo regno
comprendeva più paesi, almeno nominalmente. Già l’edizione del 1590 del
massimo poema del tempo, la Faerie Queene di Spenser, proclamava la regina The
most high, mightie and magnificent Empresse, […] Elizabeth, by the grace of God,
Queene of England, Fraunce, and Ireland, and of Virginia […].
198
il fastidio che suscita in lui la devozione di Elena e le si rivolge in modo
brusco e sgarbato, che passa anche attraverso l’impiego di thou/thee. Si
ripete qui – rovesciata – la situazione tra Ermia e Demetrio di cui Ermia
aveva parlato a Elena in I,i: più Ermia respingeva Demetrio, più questi le
stava appresso.
I frown upon him; yet he loves me still.
I give him curses, yet he gives me love.
The more I hate, the more he follows me. (I,i,194,196,198)
Ora più Demetrio scaccia Elena, più lei lo segue; più le manifesta
avversione, più lei lo colma d’amore. Disposta a subire ogni angheria pur
di stargli accanto, Elena sarebbe felice di farsi cane adorante di un padrone
che lo percuote. L’irritazione di Demetrio si trasforma allora in minaccia:
Tempt not too much the hatred of my spirit (II,i,211), dice, sibillino.
Lontano dalla città, sede della legge e del controllo, egli potrebbe perfino
approfittare della notte e del luogo deserto per abusare di lei. Elena, però,
né si preoccupa – bellissima la sua nobile risposta, che conta sul codice
morale del ragazzo: Your virtue is my privilege (220) – né si ritrae.
Demetrio, esasperato, la pianta in asso, minacciando di lasciarla to the
mercy of wild beasts, poi addirittura di do thee mischief in the wood (237).
Elena erompe allora in un’amara considerazione intorno a un mondo alla
rovescia, dove Apollo fugge e Dafne405 insegue, la cerva caccia la tigre, la
donna corteggia l’uomo. Ella però questo mondo lo sfida, continuando a
inseguire l’amato, anche se ciò dovesse costarle la vita.
Elena – si legge spesso nelle pagine dei critici – è ridicola, priva di
dignità, patetica, lacrimosa. Così pensavo anch’io. Tuttavia, riflettendo su
questa scena, mi è parso di cogliere un volto nuovo del personaggio.
Prigioniera di un assoluto che fa di Demetrio tutto il mondo, parla talora
con accenti che ricordano la poesia di Donne406 e, comunque, dimostra una
statura ben superiore a quella del suo insopportabile ex spasimante, quasi
405 Dafne, leggiadra vergine figlia di Gea (la Terra), stava cogliendo fiori sulle
pendici del Parnaso, sacro ad Apollo e alle Muse. Apollo la vide e la volle. Dafne
fuggì atterrita ma, vinta dallo sforzo, stava per soccombere quando la sua
invocazione di aiuto indusse la madre ad accoglierla nel suo seno. Là dove Dafne
scomparve, crebbe l’alloro, dalle foglie lucide e aromatiche.
406 A Demetrio che le parla della selva come di un mondo deserto, Elena risponde
con una battuta di esemplare semplicità: Nor does this wood lack worlds of
company, / For you, in my respect, are all the world (223-4).
199
eroica. Con un’ultima pesante minaccia, a cui Elena risponde con una
dolente constatazione circa la disparità tra l’universo maschile e quello
femminile, Demetrio si allontana, mentre lei, in un brevissimo soliloquio
racchiuso nella convenzionalità del distico rimato, dichiara il proposito di
follow thee – finalmente recuperando tramite l’uso del pronome un
rapporto paritetico con Demetrio. La battuta in cui afferma di essere
disposta To die upon the hand I love so well (244), segna il connubio di
amore e morte che ben si addice al lato patetico del personaggio. Oberon,
che ha casualmente ascoltato il colloquio, s’intenerisce e decide di porre
fine al contrasto d’amore.
Sta per iniziare lo spettacolo diretto dal regista Oberon con Puck
in veste di aiuto regista. La tragicommedia della selva – che fa da
contraltare all’interludio di Quince – coinvolge Titania, le fate e Bottom da
un lato, i quattro ateniesi dall’altro. Oberon, da direttore oculato, controlla
gli eventi, impedisce i possibili disastri – che le amiche si accapiglino e i
ragazzi vengano a un duello – e indirizza le varie situazioni verso il lieto
fine, compresa quella che lo riguarda. Alla fine sarà lui a guadagnarci più
di tutti: otterrà il fanciullo indiano, riavrà l’amore di Titania e la presenza
di lei al suo fianco, e si imporrà quale prestigioso signore del bosco, capace
di ristabilire l’armonia tra le giovani coppie. Sul lato dei perdenti
troveremo, invece, Titania, costretta a rinunciare al bambino e alla sua
indipendenza, e le ragazze ateniesi che con il prolungato silenzio
dell’ultimo atto segnaleranno la fine della loro amicizia.
Nell’ultimo episodio Oberon spiega a Puck come agirà con Titania
addormentata e gli ordina di cercare l’ateniese sdegnoso che respinge
l’amore di [a] sweet Athenian lady (260). Quando l’avrà trovato (e lo
riconoscerà facilmente dalla foggia degli abiti), asperga i suoi occhi del
magico succo, preoccupandosi che la prima cosa su cui cadrà il suo sguardo
al risveglio sia la fanciulla. Il tutto avvenga (raccomanda Oberon) prima
dell’alba.
Si conclude qui quella parte del play che funge da premessa,
rapida e chiara, alla pluralità delle azioni. Le vicende sono iniziate e
convergono tutte verso il giorno dei nobili sponsali: le fate sono giunte ad
Atene per benedire le nozze, gli artigiani preparano lo spettacolo per quei
revels che Filostrato deve organizzare ed è nel giorno delle nozze ducali
che Ermia, se fosse rimasta ad Atene, avrebbe dovuto prendere la sua grave
decisione. Inoltre la vicenda già si situa sotto gli auspici della luna. I
motori dei plot silvestri (Oberon e Puck, entrambi ascoltatori non visti dei
200
discorsi altrui, entrambi pronti ad interferire nelle altrui vicende) sono già
entrati in azione; i personaggi sono già abbastanza caratterizzati – anche
attraverso il linguaggio. La premessa contiene in nuce l’intera commedia.
201
smarrire anche il senso del limite e del rispetto) e suggerisce a Ermia di
trascorrere la notte nel bosco, in attesa dell’alba. La proposta, del tutto
plausibile, trova Ermia consenziente. Subito la fanciulla individua il suo
giaciglio su un rialzo erboso (bank) e invita Lisandro a cercarsi, a sua volta,
un posticino dove riposare. Lisandro avanza qualche obiezione, come a
dire: “E’ notte, siamo soli e liberi, abbiamo voglia di stare insieme – One
turf […] / One heart, one bed, two bosoms, and one troth (40-1) – poi
domani, alla luce del giorno, lasceremo prevalere la ragione e
riprenderemo il viaggio.” Ermia è d’accordo sul passare la notte nel bosco
– ma su nient’altro. Forse memore dei riti di maggio, Lisandro dichiara
apertamente che vorrebbe dormire accanto a lei, ma Ermia, pur protestando
amore con un affettuoso vocativo, my dear, lo prega di spostarsi un poco:
Lie further off yet; do not lie so near (43). La distanza la rassicura; la
vicinanza la preoccupa. Il giovane cerca di persuaderla che le sue
intenzioni sono del tutto innocenti e spiega il senso della battuta precedente
con un discorso artificioso, che si conclude con un pun sul verbo to lie –
giacere e mentire. A Ermia, sempre lucida, non sfuggono le intenzioni
recondite di Lisandro, come dimostrerà il suo prossimo sogno (II,ii,144 e
segg.), e commenta con ironia gentile: Lysander riddles very prettily (52).
Proprio per questo non rinuncia al suo sonno separato. La forza di Ermia,
già emersa nella scena con Teseo, viene qui ribadita. Gli ultimi versi della
french scene si caricano a posteriori di ironia: Ermia si augura che l’amore
di Lisandro abbia fine solo con la morte e Lisandro conferma di slancio.
Non passeranno molte ore e l’ardente Lisandro avrà perso la testa per
un’altra.
Puck entra in scena per un breve ma importante intermezzo. In un
soliloquio in tetrametri dal ritmo saltellante (65-82) riferisce allo spettatore
– con cui chi recita un soliloquio ha un rapporto di speciale complicità – di
aver cercato ovunque un ateniese nel bosco senza trovarlo. Dove tutto è
night and silence, matura la sorpresa: Who is there? (69). Gli abiti ateniesi
di Lisandro e la lontananza tra i due giovani addormentati – dovuta certo
al fatto (interpreta Puck) che la poverina durst not lie / Near this lack-love
(75-6) – inducono il folletto in errore. Senza esitare spreme il succo sugli
occhi del ragazzo, poi vola da Oberon.
In questa scena convulsa ecco la fulminea comparsa di Demetrio e
di Elena, che lo segue in corsa affannosa. Lo stato d’animo dei due non è
cambiato se non nel fatto che l’uso di thou sulle labbra di Elena denota
l’abbandono delle formalità, per stanchezza o nell’illusione di stabilire un
202
rapporto paritetico oppure nel ricordo dell’intimità passata. Fatica inutile.
Demetrio non può più sopportare la presenza di Elena, esasperante nella
sua idolatria 408 , ed è deciso a procedere da solo nella selva. Il suo obiettivo
è chiaro: trovare Ermia e uccidere Lisandro. Quindi esce di scena. Sul posto
restano due mortali e una fata addormentati, e una ragazza stremata e
affranta. Elena ancora una volta si autocommisera: sta facendo la cosa
sbagliata, invidia gli occhi luminosi di Ermia e piange la propria poca
bellezza (I am as ugly as a bear, 93)409 . La poverina è ancora più depressa
che alla fine del I atto. Forse si è pentita di aver svelato il segreto
dell’amica, tanto più che Demetrio continua a respingerla. Al colmo dello
scoramento, muovendosi nel buio, incespica nel corpo di Lisandro.
Massima la sorpresa di lei. Il suo primo pensiero è che Lisandro
possa essere morto: Dead, or asleep?410 (100), si domanda. Non vedendo
sangue o ferite, si rincuora e lo sveglia. Su Lisandro l’effetto del succo
magico è immediato: non appena incontra lo sguardo di Elena, si scopre
folle di un nuovo amore. Le sue esclamazioni enfatiche proclamano un
sentimento retoricamente esasperato (And run through fire for thy sweet
sake! 102) in una eulogia sopra le righe (Transparent Helena! 103); le sue
parole costruiscono concetti lambiccati e artificiosi, ma non trasmettono
amore. Lisandro poi sciorina minacce contro Demetrio: il rivale in amore
che poco prima aveva trattato con ironia sorniona (You have her father’s
love, Demetrius, / Let me have Hermia’s; do you marry him, I,i,93-4), è
diventato un nemico mortale. Elena, sorpresa per il cambiamento di
Lisandro, si preoccupa che egli non se la prenda con il misero Demetrio,
colpevole solo di un amore non corrisposto, e gli parla con la tenerezza
paziente di una madre. L’osservazione finale, Hermia still loves you; then
be content (109), provoca la vivace reazione di Lisandro, che riprende
l’ultima parola di Elena (content) per contraddirla. Qui il discorso si fa
terra. Di fatto, mentre Elena non ha dubbi sull’identità del corpo, Trinculo ha una
perplessità radicale: What have we here, a man or a fish? Dead or alive? (TT,
II,ii,24-5), e conclude che si tratta di un pesce, di un pesce strano.
203
naturale. La gioia di un tempo ora appare tedio, la corvina, aggressiva
bellezza di Ermia (raven) scompare davanti alla grazia morbida e bionda
di Elena (dove)411 . Lisandro deve però fornire una spiegazione per un
cambiamento così radicale, ed eccolo lanciarsi in una comica disquisizione
(in rime baciate) sul contrasto tra ragione e pulsione, reason e will. E’ il
suo raziocinio (reason) di uomo maturo ed equilibrato che lo sprofonda
nell’ammirazione degli occhi di lei, in cui si leggono Love’s stories, written
in love’s richest book (121). L’ultima immagine, bella ma convenzionale,
segnala che il pacato Lisandro farnetica sotto l’effetto (ignoto a Elena)
della magica droga. In Elena cresce lo sconcerto. L’infelice si sente – e
continuerà a sentirsi – oggetto di scherno, vittima di un’ignobile burla,
ordita da un essere crudele che si accanisce contro una creatura già provata
da una ripulsa (132). Quindi si allontana, senza notare la presenza di Ermia
addormentata.
Prima di seguirla, Lisandro si arresta un momento a riflettere sul
suo nuovo impulso d’amore. Egli capisce solo di non capire. Tutto si è
capovolto: colui che con tanto ardore chiedeva di dormire accanto a Ermia,
ora si augura che lei non gli venga mai più vicino. Lisandro cerca il bandolo
della matassa in una serie paragoni412 che trasmettono un’idea carnale,
peccaminosa e pericolosa dell’amore. Il giovane parla a ruota libera, quasi
delirando. Non nomina più Ermia, come se fosse cancellata per sempre. Il
pensiero è per Elena, che egli ha eletto a propria domina e, da cavaliere,
411 Qui compare la prima differenza fisica e caratteriale tra le due amiche: l’una
bruna, l’altra bionda, l’una forte, l’altra dolce. Ulteriori differenze emergono in
III,ii, dove Ermia è definita scura e di bassa statura, Elena alta e con lunghe gambe.
Ciò fa presumere che i Lord Chamberlain’s Men, la compagnia con cui lavorava
Shakespeare, disponesse di attori con tali caratteristiche, poiché differenze
analoghe si riscontrano anche in As You Like It tra Celia e Rosalind e in Much Ado
About Nothing tra Hero e Beatrice. Stansbury (1982: 57-63) dimostra
l’individualità del linguaggio degli amanti: Elena è debordante nei suoi discorsi
(con un soliloquio al suo attivo) e per natura dipendente; Ermia è concisa, diretta,
controllata. Elena è molto parca di espressioni tenere nei confronti dell’amato ,
Ermia le usa in continuazione. Elena non si abbandona a un tono confidenziale nei
confronti dell’amica a cui si rivolge sempre con you, Ermia una volta le si rivolge
con il più intimo thou, ma passa a you quando le due litigano nel bosco. Si veda
anche oltre, p. 218, in cui Elena rievoca con commozione i momenti felici della
loro unione.
412 Ermia è simile a un eccesso di cibo dolcissimo che lo stomaco ora trova
204
muove alla sua ricerca. La vicenda sta imprigionando gli innamorati in un
gioco perverso, tragico e grottesco, in cui ognuno dei quattro si troverà a
inseguire o a cercare qualcuno e/o ad essere inseguito o cercato da qualcun
altro.
Alla fine dell’atto il palcoscenico si svuota, lasciando solo due
donne addormentate, Titania ed Ermia. Quest’ultima, all’improvviso, parla
nel sonno o piuttosto grida il suo affanno e invoca aiuto. In sogno – l’unico
autentico sogno della commedia – un serpente strisciante le si è annidato
nel seno, le rode il cuore e lui, Lisandro, sat smiling at his cruel prey (148)
Nell’implorare il soccorso dell’amato si sveglia tremante. L’incubo è
finito, ma ne incomincia un altro. Lisandro non è accanto a lei. I suoi
richiami disperati, che si affidano a una incalzante sequenza di domande,
esclamazioni e invocazioni, non ottengono risposta. Sola nel bosco, di
notte, Ermia è sopraffatta dall’angoscia, terrorizzata, invasa da pensieri di
morte. La sua quest va in due possibili direzioni: Either death or you I’ll
find immediately (155).
Il dramma di Ermia non tocca Titania. Dice la didascalia: Titania
remains lying asleep.
Il sogno si spiega alla luce del precedente dialogo con Lisandro, che
verteva sulla necessità della separation e sul pericolo della vicinanza .
Lisandro si era dichiarato innocente di ogni pensiero men che casto, ma il
suo insistere con frasi arzigogolate non era piaciuto a Ermia. L’ambigua
205
dichiarazione For lying so, Hermia, I do not lie era rimasta in fondo ai suoi
pensieri. La fanciulla non si interroga sul senso del sogno, nel quale
Lisandro incarna sia il serpente, simbolo dell’apparato genitale maschile e
della doppiezza, emblema delle pulsioni negate, sia se stesso, ma ricorda
l’incongruità angosciosa del suo sorriso. Di fatto è facile interpretare quel
ghigno come il segno del sarcastico compiacimento del giovane per ciò che
il serpente (ovvero egli stesso) sta commettendo, lo stupro di Ermia.
Norman Holland – noto critico di scuola psicoanalitica – si domanda come
Ermia, dopo aver scoperto di essere stata lasciata sola da Lisandro, possa
avere ancora fiducia in lui.
206
implicitamente comporterebbe un suicidio fuori scena, hidden, raccontato
da qualche personaggio. Bottom, che ha sollevato il problema, ha pronta la
soluzione: un prologo spiegherà che le spade impugnate dagli attori non
sono pericolose (we will do no harm with our swords, 17), che Piramo non
muore e che, anzi, non è neppure Piramo, bensì Bottom the weaver. Come
si è detto, l’ansia degli artigiani di rassicurare il nobile pubblico che nulla
di tragico o di rischioso è in corso, ha fatto pensare agli studiosi che questo
dettaglio intendesse richiamare agli spettatori londinesi la recente serie di
sommosse di apprendisti e artigiani che, giudicate assai temibili negli
ambienti governativi, erano state represse con ferocia415 . In questa
prospettiva si giustificano le righe 70-73 in I,ii in cui lo spavento (fright) e
le urla di terrore (shriek) sono poste in correlazione con il verbo impiccare
(hang). Poiché analogo terrore sortirà, secondo Snug, la presenza di un
leone sul palcoscenico (il leone che metterà in fuga Tisbe, lacerandone il
mantello), occorrerà un secondo prologo che rassicuri l’audience che il
leone non è un leone e supplichi le dame di non spaventarsi.
L’aspetto più francamente comico della situazione consiste nel
fatto che i mechanicals sono persuasi di possedere doti attoriali eccelse e
di rendere talmente verosimile la scena da scatenare il panico tra gli
spettatori – mentre, come già possiamo intuire, tutto sono tranne che buoni
attori.
Quince è d’accordo, ma avverte come impellenti altri problemi di
natura pratica: come creare nel corso dello spettacolo una notte di luna o
portare in scena un muro? Le soluzioni sono suggestive: si pensa di leave
the casement of the great chamber window, where we play, open (52-3) in
attesa che vi entri un raggio di luna, oppure di chiedere a un attore di
disfigure416 la parte di Moonshine (57), di incarnare cioè ‘the Man in the
Moon’ con tanto di fascina e lanterna 417 . Queste brevi notazioni
confermano la qualità lunare della commedia, in cui il pallido corpo
celeste illumina, protegge e piange. Un altro problema riguarda il muro,
415 I disordini a Londra ebbero luogo nel giugno 1595: l’ultimo, il 29 giugno, vide
un’ampia partecipazione di artigiani, apprendisti e tessitori, e fu sedato dopo
diversi giorni. Il fatto preoccupò molto il governo, che procedette all’atroce
esecuzione di cinque manifestanti per impiccagione e smembramento.
416 Abbiamo qui un innocuo malapropism di Quince, che usa disfigure nel
significato di figure. Molto inquietante, invece, l’uso dello stesso verbo in I,i,51.
417 In TT un europeo si farà passare per the man in moon con fascina e lanterna per
suggestionare un primitivo.
207
che dovrà essere presente in scena, visto che Piramo e Tisbe si parlano
attraverso una fenditura (cranny, 66) aperta nel muro stesso. Il problema è
serio. Secondo Bottom, un attore dovrà raffigurare Wall, imbrattandosi di
plaster o loam (64) e tenendo indice e medio aperti per dare l’idea della
fessura che consente il colloquio degli innamorati. Questa sequenza
conferma ancora una volta l’ingenuità degli attori, ignari delle
convenzioni teatrali, della suspension of disbelief 418 . Dapprima
provvedono perché uno spettacolo realistico, scambiabile per vero anche
in virtù della competenza artistica degli attori, non sconvolga il pubblico –
situazione da evitare a ogni costo: la resa scenica non deve creare ansia.
Quanto poi all’assillo di essere aderenti al testo (“ci sarà la luna quella sera,
visto che gli innamorati si incontrano al chiaro di luna?” Sì, no, forse. In
ogni caso, basterà far entrare da una finestra un raggio di luna?), essi non
hanno fiducia nella capacità della parola di evocare una realtà concreta e
decidono di rendere tutto visibile e tangibile: l’impalpabile raggio di luna
si concretizzerà nell’uomo con la lanterna, la grezza pesantezza del muro
si calerà in un attore impiastrato di malta, indice e medio divaricati a
significare la fessura galeotta. La situazione è comica, ma la comicità è
ancora più marcata in quanto esito della serietà e dell’impegno con cui il
gruppo discute questi problemi.
L’arrivo di Puck annuncia una svolta imminente nella situazione,
poiché egli non è mai passivo o inerte. Il folletto nota con sdegno che alcuni
volgari hempen homespun419 sbraitano near the cradle of the Fairy Queene
(74) e, accortosi che stanno facendo teatro, si accinge a fungere da
spettatore o, magari, da attore. Il breve momento delle prove è esilarante
sia per il testo, che trabocca di retorica amorosa, sia per i clamorosi errori
in cui incorrono gli attori, sia per gli spazientiti interventi del regista.
Bottom è impegnato in un duetto con Tisbe; poi, come da copione, esce
temporaneamente di scena. Tisbe, sola sul palcoscenico d’erba, decanta le
lodi di Piramo in un breve soliloquio, quanto mai comico nella sequenza
di superlativi. Quando Bottom rientra pronunciando la sua soave battuta,
non sa di avere sul capo una testa d’asino, esito dell’intervento malizioso
casa (home).
208
di Puck420 . A quella vista i compagni si impauriscono, convinti che la
metamorfosi sia effetto di stregoneria, e fuggono disordinatamente.
Bottom non capisce il motivo dello scompiglio e crede che i compagni
vogliano fargli uno scherzo per spaventarlo. Il rapido, divertente scambio
di battute tra Snout e Bottom e l’intervento preoccupato di Quince
interessano perché sottolineano il cambiamento, Thou art changed e Thou
art translated, di cui Bottom non ha né avrà mai coscienza. Per dimostrare
di non essere turbato dalla piega che hanno preso gli eventi, egli decide di
darsi un contegno cantando. Il canto (non le urla di Ermia) sveglia Titania.
Costei, posando lo sguardo421 su di lui, s’innamora alla follia dello strano
essere, mezzo uomo mezzo animale – novello Chirone – e gli si rivolge
con versi di preghiera e di lode. Tutto del gentle mortal (132) – quindi
Bottom le appare più uomo che asino, e forse più ‘gentle-man’ che non
man – l’ha conquistata: la voce, la bellezza e la potenza della virtù (ma
dove l’avrà vista, Titania, la potenza della virtù?) ed ella si precipita a
giurare di amarlo. Bottom è sorpreso, ma non si scompone. La situazione
è molto divertente. Titania vezzeggia Bottom, in cui vede una creatura di
rara grazia e bellezza, mentre Bottom scorge in lei solo una signora
dall’atteggiamento un po’ strano. Lei loda in versi, lui conversa in prosa;
lei professa amore, lui filosofeggia. L’ironica considerazione di Bottom,
reason and love keep little company together nowadays (136-7), si applica
a tutte le situazioni del bosco. Con palese buon senso Bottom vuol dire:
“Se ti sei innamorata di me, vuol dire che ‘sei fuori di testa’”. Tuttavia,
quando egli esprime con una garbata circomlocuzione il desiderio di
lasciare il bosco per tornare a casa, le parole di Titania suonano
apertamente minacciose: Thou shalt remain here, whether thou wilt or no
(146), tanto più che la Regina dichiara la sua potenza di spirit of no
common rate (147). E’ questo “[t]he sinister side of Titania’s
possessiveness” (Montrose, 1996: 106). La minaccia è condita con
dichiarazioni d’amore, offerta di delizie 422 e la promessa di purge thy
mortal grossness, di renderlo cioè immortale. Bottom tace. Nella pausa di
silenzio recupererà il suo mirabile aplomb. Titania ingiunge a quattro fatine
209
dai nomi deliziosi che ne suggeriscono la leggerezza e le minute
dimensioni, di trattare Bottom con ogni riguardo. Per metà amante, per
metà bambino, sarà scortato a destinazione e nutrito di albicocche, uva,
fichi, bacche, miele; avrà per lanterne notturne le “cosce” delle api rivestite
di cera, che attingeranno luce dagli occhi delle lucciole; e per ventagli le
alucce delle farfalle, to fan the moonbeams from his sleeping eyes (166).
La vena sadica, già emersa, si rinnova in questo passo, che presenta il
doting come pensiero totalizzante, a cui tutto va sacrificato.
Dopo un simpatico scambio di battute e di argute presentazioni tra
Bottom e le fatine, Titania impartisce l’ordine definitivo: Lead him to my
bower (190). Sarà quella di Titania un’alcova in cui si consumerà un amore
bestiale, come legge Kott, o, piuttosto, un’alcova resa impermeabile alla
sessualità dall’innocenza di Bottom? Gli studiosi sono divisi su questo
punto. Non risolve l’ambiguità, mi pare, anzi la accentua la successiva
constatazione di Titania, che ruota intorno a un’immagine struggente di
pianto universale:
The moon, methinks, looks with a watery eye,
And when she weeps, weeps every little flower,
Lamenting some enforced chastity. (191-3)
Questa scena, che si snoda per quasi 500 versi, è la più estesa e la
più spettacolare della commedia. Comprende un numero elevato di french
scenes: 1) Puck informa Oberon sugli accadimenti nel bosco ed Oberon,
all’ingresso di Demetrio ed Ermia, si rende conto che Puck ha compiuto la
magia sull’uomo sbagliato; 2) Ermia aggredisce Demetrio, convinta che
abbia ucciso Lisandro, poi esce di scena, mentre Demetrio, esausto, si
addormenta; 3) Oberon spedisce Puck a cercare Elena e asperge del succo
magico le palpebre del dormiente; al seguito di Puck, entrano Lisandro,
che professa amore ad Elena, ed Elena; 4) subito dopo, Demetrio si sveglia,
scorge Elena e le rivolge parole appassionate, mentre Elena si sente
210
schernita dalla doppia profferta d’amore . 5) Con l’arrivo di Ermia (177)
la situazione diventa esplosiva, il misunderstanding totale: Elena sospetta
che Ermia abbia congiurato con i ragazzi ai suoi danni, i due si contendono
l’amore di Elena, Ermia è oggetto dell’aggressività di Lisandro (256-270),
le ragazze si insultano e minacciano di venire alle mani, i ragazzi si sfidano
a duello per il possesso di Elena. 6) Elena fugge per sottrarsi all’ira di
Ermia; 7) Oberon spiega a Puck come impedire il duello, gli ordina di
applicare agli occhi di Lisandro un antidoto che lo riporti ad Ermia e
programma la propria azione presso Titania. 8) Come da copione, i ragazzi
si cercano senza incontrarsi finché, sfiniti, non si addormentano; nello
stesso posto giungono, separatamente, le fanciulle che, vinte dalla
stanchezza, si addormentano anch’esse; Puck applica l’antidoto a Lisandro
e conclude la scena anticipando il lieto fine.
Puck riferisce a Oberon ciò a cui gli spettatori hanno già assistito,
ma colora gli eventi, già noti, con tonalità molto comiche. Se la qualifica
degli artigiani quali patches, rude mechanicals / That work for bread upon
Athenian stalls (9-10) vuole essere irrisoria, la presentazione di Bottom
quale shallowest thick-skin of that barren sort (12) è, oltre che irrisoria, del
tutto fuori luogo: come dimostrerà la sua reazione all’avventura con la
Regina delle fate, Bottom non è né sciocco né insensibile alla sua
straordinaria esperienza.
Puck descrive ad Oberon la fuga disordinata degli artigiani in
modo molto vivace, attraverso il gustoso paragone tra gli uomini e uno
stormo di uccelli che, alla vista di un rapace o al rumore di uno sparo, si
disperdono in volo and madly sweep the sky (23). Colti da distracted fear
(31), sospesi tra terrore e follia, i poveretti cadono, gridano, invocano aiuto,
si lacerano gli abiti sui rovi – tutto per intervento di Puck423 che,
ovviamente, si è divertito un mondo.
Un effetto inatteso dell’azione di Puck, riferito con soddisfazione
dal folletto, è che Titania si sia innamorata di un monster (6), nello
specifico di un ass (34) – il che sorprende piacevolmente Oberon – mentre
sul fronte degli amanti, a dire di Puck, il problema è risolto. Tuttavia
Oberon si rende conto che qualche cosa non ha funzionato quando entrano
in scena Ermia e Demetrio: lei carica di odio e di disperazione al pensiero
che questi abbia ucciso Lisandro, lui affranto per le accuse che può solo
423 L’azione di Puck anticipa quella di un altro spirito, Ariel, servo di Prospero in
TT, che tormenta tre poveracci spingendoli per fetide paludi, incalzandoli tra spini
e rovi, confondendoli e spaventandoli a morte.
211
negare, e ridotto a una condizione prima di furia incoerente, poi di
rassegnato dolore. I due intrecciano un dialogo rovente, fitto di figure di
morte, con una significativa allusione da parte di Ermia al serpente (71-3).
Dopo che costei pianta in asso Demetrio, il quale rinuncia a
seguirla e si addormenta sotto il peso degli affanni, Oberon rimprovera
Puck per l’errore di identità e lo spedisce a cercare, swifter than the wind
(94), la pallida Elena nel bosco, al fine di riportarla dov’è Demetrio, sui
cui occhi egli intanto applicherà il succo del fiore. Puck, ligio agli ordini,
torna poco dopo e dietro di lui compaiono Lisandro ed Elena. Intuendo che
ben presto due uomini corteggeranno la stessa donna, il folletto pregusta il
piacere di assistere a their fond pageant (114). E così è.
Con l’arrivo degli innamorati la metrica cambia: il verso breve
rimato delle creature magiche cede al distico rimato dalla cui artificiosità
affiora qualche verità amara (132-3). Lisandro dichiara ad Elena un amore
fatto di lacrime e giuramenti, mentre Elena, scandalizzata dal repentino
voltafaccia di lui, pensa che in realtà egli non ami nessuna delle due. Nel
breve dialogo, punteggiato di termini legati al dileggio e al giuramento, si
inserisce Demetrio che, al risveglio, professa amore ad Elena: O Helen,
goddess, nymph, perfect, divine! / To what, my love, shall I compare thine
eyne? (137-8). Il tono è esaltato, ma l’ironia della rima lo spegne. Demetrio
di Elena magnifica gli occhi, le labbra e la bianca mano, che tenta invano
di baciare. La situazione sarebbe patetica se non fosse grottesca, comica
se non fosse penosa: non per lo spettatore, che dispone della totale
conoscenza degli eventi, ma per i personaggi, gli uni conduttori, gli altri
vittime di un gioco spinto all’eccesso, fino al punto di essere crudele.
Elena, non si sa se più confusa o più adirata, si sente motivo dell’altrui
merriment (146): convinta di essere a parole oggetto dell’amore dei rivali,
ma in realtà da entrambi sdegnata, si professa vittima di un indegno
dileggio (168), mentre incomincia a serpeggiare una certa tensione tra i
ragazzi (175).
La commedia si fa ancora più implacabilmente assurda quando
giunge Ermia. Felice di aver riconosciuto la voce di Lisandro, rimane
sbalordita e incredula quando questi dichiara amore ad Elena e odio a lei.
A questo punto Elena, al colmo dell’esasperazione, ritiene che Ermia abbia
ordito una congiura con i due per prendersi gioco di lei. L’indignazione
all’idea che l’amica l’abbia tradita le detta un passo straordinario per
212
universale verità, che ricostruisce con commossa partecipazione il comune
passato delle fanciulle, confermando un precedente ricordo di Ermia424 :
424 And in the wood, where often you and I / Upon faint primrose beds were wont
to lie, / Emptying our bosoms of their counsel sweet […] (I,ii,214-6).
213
squarcio prodotto nel tessuto della loro amicizia e ne attribuisce la causa
all’indegna alleanza con il sesso opposto: And will you rent our ancient
love asunder / To join with men in scorning your poor friend? (215-6).
Il resoconto della schizofrenica situazione di Elena, prima ignorata
da Lisandro e detestata da Demetrio, ora oggetto delle veementi profferte
di entrambi, porta Ermia a credere che Lisandro si stia veramente
prendendo gioco di Elena. Questi, tuttavia, prima si rivolge ad Elena con
l’invocazione My love, my life, my soul, fair Helena, poi (257-64)
bombarda Ermia con una scarica di insulti, che feriscono la sua femminilità
(you Ethiope, tawny Tartar), e di metafore rovesciate, che rinnegano il suo
amore (loathed medicine, hated potion), mentre il toccante sforzo di lei per
trattenerlo scatena una sequela di ripulse, espresse in monosillabi vibranti
come schiaffi (Away, Hang off, Out, Out, hence), a cui si aggiunge
addirittura un gesto di violenza 425 . Dal comportamento del giovane Ermia
prende coscienza di una realtà sconvolgente, il ripudio. Da tale realtà tenta
di difendersi con una serie di domande senza risposta, prima che il senso
della propria e dell’altrui identità non incominci a vacillare: Am I not
Hermia? Are you not Lysander? (273). Altrettanto dolorosa la solitudine
di Elena, “priva dell’unico appiglio, Hermia, che le impediva di perdere il
senso di sé” (Sestito, 1991: 50), e oggetto di incomprensibili, maligne
dichiarazioni d’amore. Davanti al definitivo rifiuto di Lisandro, Ermia si
scaglia contro Elena, a cui imputa il furto d’amore. Nel bosco la fanciulla
amata da due pretendenti è rifiutata da entrambi e quella sdegnata dai due
è contesa: un mondo crudelmente rovesciato.
Dopo una parte dolce-amara del play, ne incomincia un’altra
apertamente comica, in cui Shakespeare esplora quella forma di umorismo
legato alle acide ingiurie che si scambiano due jeunes filles en fleur.
All’insulto di Ermia Elena risponde con un altro insulto, You puppet426 you!
(288), a cui Ermia, bassa di statura, si mostra particolarmente sensibile .
Costei prontamente reagisce con un affronto di segno opposto, thou
214
painted maypole 427 (296), e con la minaccia di cavare gli occhi alla rivale.
Elena invoca l’intervento dei ragazzi in sua difesa, protesta la propria
ingenuità e codardia – ma non manca di sottolineare di nuovo la modesta
statura di Ermia (304). L’ira di quest’ultima è palpabile. Elena, delle due
la più timorosa, cerca di ammansirla, ammettendo la propria responsabilità
nella trafugazione del segreto della fuga, e supplica di essere lasciata
andare: al pari di Bottom, vorrebbe solo porre fine alla sua avventura. La
rissa verbale continua. Voci femminili e maschili si intrecciano. Elena non
perde occasione per alludere alla statura di Ermia (325), che si inferocisce.
Lisandro appoggia Elena, aggiungendo alle sue le proprie contumelie
all’indirizzo di Ermia – nanerottola, minimo, bacca, ghianda. L’attenzione
dei ragazzi è tutta per Elena e Lisandro propone che un duello sancisca
whose right, / Of thine or mine, is most in Helena. (336-7). La battuta
conferma il clima maschilista della commedia – emerso sia nel dialogo tra
Teseo e Ippolita come in quello tra Egeo, Teseo, Ermia e i suoi pretendenti,
sia nel rapporto tra Oberon e Titania – e segnala l’arroganza di chi non si
pone neppure il problema di ciò che la donna voglia o non voglia.
Demetrio concorda sul duello e i due lasciano la scena. Elena pure
l’abbandona, e in tutta fretta: Your hands than mine are quicker for a fray:/
My legs are longer though, to run away. (341-2). Esce anche Ermia,
confusa: I am amazed (344). Il verbo amaze si collega sia a maze,
sostantivo, in uso già nel tardo Middle English, nel significato di labirinto,
sia a maze, verbo impiegato già a fine ’400 nel senso di to perplex. Di fatto
la selva è un labirinto, fisico e spirituale, che stupisce e confonde. La selva
non si apre su qualche cosa di nuovo: la casa della zia non viene raggiunta.
Dalla selva si può solo tornare ad Atene, percorrendo in senso inverso il
cammino intrapreso, come capiterà a quanti vi si sono avventurati.
Analogamente l’amore romantico, che si identifica con la selva delle
pulsioni sconsiderate, non conduce a traguardi inediti. Gli innamorati
ritorneranno sui propri passi alla città, alla legge, al matrimonio, garante
dell’ordine e della gerarchia. Stupiti e lieti. Lieti finché la società
patriarcale non si farà di nuovo opprimente.
La lunga sequenza, che nella prima parte ha messo in luce la
pietosa situazione di Elena il cui vittimismo trova qui ampia
giustificazione, nella parte finale offre allo spettatore, catturato dall’arguto
rimbalzo di insulti grotteschi, un momento di puro divertimento. Su tanta
427 maypole = a high pole (palo) for the merrymakers to dance round on May-day.
215
comicità getterebbe ombra l’imminente duello dei ragazzi se non si sapesse
che la situazione non sfugge al controllo di Oberon, regista dello spettacolo
nel bosco.
La sequenza successiva vede protagonisti Oberon e Puck. Questi
reagisce al rimprovero di Oberon per il recente errore di identità, non solo
attribuendone la responsabilità ad Oberon stesso ma spavaldamente
sostenendo che il litigio conseguente all’errore I esteem a sport (353).
L’atteggiamento spontaneo e faceto del servo nei confronti del padrone
contrasta con quello timoroso e deferente dello spirito Ariel nei confronti
del mago Prospero in TT; d’altro canto, l’indulgenza di Oberon si
contrappone alla severità di Prospero, che tuttavia è più generoso di epiteti
affettuosi all’indirizzo del servo.
Onde scongiurare il duello, Oberon ordina a Puck di avvolgere i
rivali nella nebbia, di sviarli l’uno dall’altro duplicandone le voci428 , e di
stancarli in un vano, duplice inseguimento finché non cadano
addormentati. A questo punto Puck applichi a Lisandro l’antidoto che lo
riporterà al primo amore. L’esito dell’operazione sarà che, al risveglio, gli
innamorati, convinti di aver sognato, torneranno ad Atene With league
whose date till death shall never end (373). L’ottimismo di Oberon ben si
addice alle nozze per cui è stato pensato il Sogno, ma i disincantati lettori
del XXI secolo vi colgono tutt’al più un augurio.
L’ultimo verso suscita qualche perplessità. Chi sono i lovers la cui
amicizia durerà tutta la vita? A tutta prima si penserebbe ai quattro giovani,
ma è specificatamente dei ragazzi che Oberon sta parlando. Loro hanno
mutato oggetto d’amore, loro hanno pensato a un duello risolutivo. Una
volta ristabilito l’equilibrio di coppia, potranno – garantisce Oberon –
ripristinare un’amicizia duratura. Ma le fanciulle? L’amicizia è stata
violata dalla rivelazione di un segreto e, più ancora forse, da quei graffianti
commenti di ordine estetico a cui il sesso femminile è particolarmente
sensibile. Come è già stato osservato, nel lungo silenzio innaturale che
accompagnerà la loro presenza in scena per tutto il quinto atto, si può
cogliere il segno di un dialogo definitivamente concluso.
Al termine del suo discorso, Oberon informa Puck che, mentre
questi sarà impegnato a impedire il duello, egli risolverà il problema con
428 In TT, III,ii, Ariel, invisibile come Puck, confonde tre personaggi impegnati in
un iroso battibecco imitando la voce di uno dei tre, che taccia ora l’uno ora l’altro
di bugiardo, con effetti di grande comicità.
216
Titania: ottenuto il ragazzino indiano, la libererà dall’incantesimo and all
things shall be peace (377) – dal suo punto di vista, naturalmente.
Il dibattito successivo tra Oberon e Puck potrebbe sembrare una
divagazione, che distoglie temporaneamente l’attenzione dello spettatore/
lettore dalla vicenda principale e interrompe il ritmo molto sostenuto della
commedia. Di fatto esso intende dare risalto alle qualità positive degli
spiriti del bosco, altro punto in cui si rivela l’ambiguità della commedia.
Ai progetti che Oberon ha delineato, Puck contrappone la necessità che
tutto venga realizzato in fretta poiché la notte volge al termine: quando il
giorno si avvicina e la stella del mattino si accende di luce, i fantasmi e gli
spiriti dannati devono fare ritorno ai loro luoghi di origine, i cimiteri e their
wormy beds429 (384). Secondo Puck, che della notte ha una visione
costantemente cupa e cimiteriale 430 , essi apparterrebbero dunque a quella
categoria di creature immateriali a cui è vietata la luce del giorno. Allora
Oberon, rassicurante, dichiara, But we are spirits of another sort (388) e
spiega con un’immagine suggestiva, tutta luce e colore, che egli può
liberamente muoversi sulla terra fino al mattino inoltrato431 . Se il dialogo
di fatto sottolinea la distanza che separa gli spiriti ‘buoni’, liberi di
muoversi nella natura, dagli spiriti dannati o penitenti, soggetti a vincoli, il
discorso solare, mediterraneo di Oberon dialetticamente contrasta con la
visione cupa, nordica del folletto432 . Oberon dunque si presenta come
spirito ‘buono’. Ciò è confermato dalla sua compassione verso la dolente
Elena, dal proposito di mettere ordine nel disordine delle coppie, dalla
disponibilità a benedire i neosposi (V atto). Oberon è però anche colui che
mal tollera le scelte indipendenti della moglie, è insensibile al dramma
dell’umanità vittima di una natura sconvolta, e persegue impietoso i suoi
scopi vendicativi. Puck, poi, è lo spirito shrewd and knavish (II,i,33) solito
perseguire i suoi scherzi maligni e le sue burle grossolane per divertimento
proprio e sollazzo altrui (Id.: 35-57). Aver ora disperso i teatranti [ t]hrough
429 E’ ciò che fa il fantasma di re Amleto, che scompare all’avvicinarsi del giorno.
430 Si veda un passo della canzone di Puck che fa da cerniera tra l’ultima battuta
di Teseo e l’ingresso delle fate (V,i,363-8).
431 Egli è libero di spostarsi a suo piacere dal mattino [e]ven till the eastern gate,
all fiery- red, /… / Turns into yellow gold his [Neptune’s] salt green streams (391-
3).
432 All’avvicinarsi del giorno i ghosts riparano nei churchyards, mentre i [d]amned
spirits, dei suicidi o degli annegati, costretti a for aye consort with black -brow’d
night, ritornano ai loro wormy beds (381-7).
217
bog, through bush, through brake, through brier (III,i,102) e averli visti in
this distracted fear (III,ii,31) è stato per lui un autentico svago. Infine il
ricordo delle menomazioni inflitte per volere di Titania alle creaturine della
natura, conferma che una vena crudele alligna anche nell’animo degli
spiriti ‘buoni’.
Puck, fiero di essere fear’d in field and town (III,ii,398), esegue gli
ordini di Oberon. Il suo intervento trasforma l’inseguimento e la frustrante
ricerca dell’avversario da parte di Lisandro e Demetrio in una comica
sarabanda senza esito. I due si chiamano, si interrogano, si insultano, si
minacciano finché, come spesso accade nella selva oscura del Sogno, non
si accasciano spossati, rinviando i propositi bellicosi al giorno dopo. Nello
stesso luogo in cui giacciono i ragazzi, l’uno poco lontano dall’altro,
giungono, l’una dopo l’altra, Elena ed Ermia, entrambe afflitte e sfinite. Le
poche parole che pronunciano prima di piombare nel sonno segnano,
un’altra volta, la differenza tra le due. Più addolorata che stanca, Elena, in
sintonia con il suo pessimismo quasi morboso di eterna perdente, vorrebbe
che il sonno [s]teal me awhile from mine own company (436), liberandola,
almeno temporaneamente, da se stessa. Ermia, invece, sente più il fardello
di un corpo umido di guazza e segnato dai rovi che non il peso
dell’afflizione e, prima di addormentarsi, rivolge un pensiero e una
preghiera a Lisandro duellante.
Quando tutti i giovani dormono, Puck applica l’antidoto a
Lisandro, accompagnando l’operazione con brevi, saltellanti versi rimati
che si concludono con una previsione affidata alla saggezza un po’ ruvida
dei proverbi. Nella sostanza, all shall be well (463).
Finisce qui l’analisi di MND. Poche parole soltanto sugli ultimi due atti.
Atti IV e V: la conclusione
218
sussurrando: O how I love thee! How I dote on thee! (44). Bottom non
commenta né reagisce e i due si addormentano.
A Oberon, che ha visto tutto, si affianca Puck. Invertendo la
situazione di III,ii,6-34, è Oberon a riferire a Puck il pregresso a cui lo
spettatore non ha assistito: i rimproveri e il sarcasmo di Oberon nei
confronti di Titania – che aveva cinto di fiori il capo di Bottom433 – avevano
umiliato la Regina al punto di indurla a cedere subito alla richiesta dello
sposo circa il piccolo indiano, che una fata aveva condotto to my bower434
in fairy land (60). Oberon, soddisfatto e impietosito, è ora pronto, con un
antidoto floreale, a liberare la sposa dall’incantesimo – incantesimo che, al
risveglio, lascia in lei uno strascico di orrore – mentre Puck sfila la testa
d’asino dal capo di Bottom. I sovrani del bosco celebrano la rinnovata
amicizia con una danza; poi si allontanano, mentre giacciono a terra,
addormentati, Bottom e i quattro ateniesi.
E’ ormai l’alba. Sul posto giungono Teseo, Ippolita e il seguito,
Egeo incluso, per una battuta di caccia: lui fiero dei suoi segugi latranti, lei
memore del soave concento di una muta cretese 435 . Teseo parla di armonia,
Titania pensa ancora al passato. Il loro arrivo desta i giovani. Il Duca è
sorpreso della metamorfosi avvenuta in loro, ora uniti da una nuova gentle
concord (142). Lisandro confessa la fuga d’amore. La notizia scatena l’ira
di Egeo, che si appella al Duca e chiede la solidarietà di Demetrio. Ma
Demetrio spiega che, per qualche magia a lui ignota, il suo amore per
Ermia è svanito ed egli si scopre di nuovo innamorato di Elena, a cui
promette amore e fedeltà. Teseo decide allora di ignorare la volontà di
Egeo e propone che le coppie siano unite in matrimonio in the temple, by
and by, with us (179). E’ forse a questo punto che Ippolita, giorni addietro
433 Titania aveva avuto nei confronti del changeling un comportamento simile a
quello adottato nei confronti di Bottom. Alludendo alla contesa tra Titania e
Oberon per il possesso del bimbo, Puck aveva riferito: she perforce witholds the
loved boy, / Crowns him with flowers, and makes him all her joy (II,i,26-7 ).
Shakespeare pensa soltanto a un amore di stampo materno o intuisce che, se
possessivo e totalizzante, esso si mescola a una sotterranea attrazione?
434 Bottom era stato condotto al bower di Titania, dove i due avevano trascorso la
notte; il fanciullo indiano viene ora condotto al bower di Oberon. L’uso dello
stesso termine suggerisce uno dei dark sides della commedia.
435 La battuta segnala in Ippolita un’indipendenza di giudizio e una fedeltà ai
ricordi che fanno di lei una sposa anomala nella società patriarcale.
219
turbata dal triste futuro che si prospettava per Ermia436 , accetta l’amore di
un Teseo salvifico: l’affettuoso vocativo, My Theseus, in apertura
dell’ultimo atto, lo confermerebbe
All’uscita del corteo ducale, i giovani esprimono il loro confuso,
stupito smarrimento in brevi battute con cui cercano di dare un contenuto
a these things (186, 188), ora sfuocate come scoloranti paesaggi, ora
sdoppiate, ora contraddittorie, ora sospese tra sonno e sogno. Nulla è certo:
tutto sembra. Seem e [m]ethinks, già comparsi sulle labbra di Demetrio e
Ermia, ritornano nelle battute di Elena e di Demetrio. Dei quattro, Elena è
la più straniata:
So methinks;
And I have found Demetrius like a jewel,
Mine own, and not my own. (189-91)
Le fa eco Demetrio:
Are we sure
That we are awake? It seems to me
That yet we sleep, we dream. […] (191-3) (il corsivo è mio)
220
prepared for them that love him.” E segue: “But God hath revealed them
unto us by his Spirit […]” (The Bible, 1997). L’incespicare o il trasporre
parole è tipico di Bottom, ma ciò non incide sulla sua istintiva intuizione.
L’artigiano è arrivato in un territorio nel quale i gentiluomini di corte non
sono riusciti a penetrare. Alla luce di ciò che immediatamente segue
nell’epistola di Paolo, il messaggio disarticolato di Bottom rappresenta “a
revaluation of those ‘unpresentable’ members of society, normally mocked
as fools and burdened like asses” (Patterson, 1996: 191), a cui lo Spirito
rivela le somme verità 437 . Bottom, che sta al ‘fondo’ della piramide sociale,
risale al vertice, in virtù della sua capacità intuitiva.
Nella seconda scena, che si svolge ad Atene, forse in una piazza,
gli artigiani si consultano, scorati per l’assenza di Bottom, quando questi
improvvisamente compare, salutato da una gioia corale. Diviso tra
l’ambizione di raccontarsi e il desiderio di tenere segreta la sua esperienza
o, semmai, di affidarla a una ballata che Quince potrebbe comporre,
Bottom – l’eroe del giorno – scavalca Quince negli ordini che impartisce
ai compagni. Lo giustifica il fatto che egli è latore di una grande notizia:
our play is preferred (36-7). In realtà la scelta del Duca non è ancora
avvenuta, ma il fatto di sapere che l’opera è stata ammessa alla selezione
finale, galvanizza tutti.
Il V atto è costituito da un’unica, lunghissima scena. La cerimonia
nuziale si è conclusa, la sera sta per calare.
L’atto presenta alcuni punti interessanti: il colloquio tra Teseo e
Ippolita che ruota sull’eventualità di credere o non credere alla fantasia, la
scelta della pièce da mettere in scena, la recita, l’ascesa degli sposi alle
stanze da letto, la benedizione impartita da Oberon alle coppie, l’epilogo
di Puck.
Il dialogo tra Teseo e Ippolita segna forse il punto più significativo
dell’atto. Ne esaminiamo un breve tratto. All’osservazione di Ippolita,’Tis
strange, my Theseus, that these lovers speak of (1), Teseo risponde:
More strange than true. I never may believe
These antique fables, nor these fairy toys.
Lovers and madmen have such seething brains,
Such shaping fantasies, that apprehend
More than cool reason ever comprehends.
The lunatic, the lover, and the poet
437
La conclusione della studiosa è diversa dalla mia: la sua citazione termina con
“whose energies the social sysem relies on”.
221
Are of imagination all compact […] (2-8)
222
Parte III
Introduzione
223
autentica che la Compagnia della Virginia si guardò bene di darla alle
stampe, preferendo far circolare relazioni meno schiette e più rassicuranti.
E Robinson Crusoe non prende forse le mosse proprio dal resoconto di
Alexander Selkirk, pubblicato nel 1714 sull’Englishman da Steele, che
narra di un uomo abbandonato su un’isola disabitata del Pacifico, dove
sopravvisse per anni prima di essere tratto in salvo?
Per procedere secondo un’impostazione analoga a quanto è stato
fatto nella I e nella II parte, il lavoro intorno agli argomenti centrali sarà
preceduto da un profilo sull’evoluzione della prosa nel ’500 e da una rapida
sintesi sulla prosa del Seicento. Il discorso sui viaggi richiederà qualche
ampliamento sul fronte storico, che sarà posto nell’Appendice.
224
III. 1 La prosa umanistica
225
sferzante alle istituzioni europee; il secondo, costituito da un lungo
monologo del viaggiatore filosofo Itlodeo, presenta uno stato
diametralmente opposto a quelli europei nei costumi, nelle istituzioni e
nella morale, dove sono banditi la proprietà privata, il denaro e la guerra
d’aggressione, dove il lavoro è misurato ma esteso alla totalità della
popolazione, dove la libertà di culto, il benessere e il tempo libero sono
assicurati a tutti e l’oro è adibito alla fabbricazione di oggetti infamanti. Il
testo esprime l’idea di uno stato perfetto di regime comunistico – idea
semi-rivoluzionaria che l’autore riveste di un latino 442 sapiente e raffinato.
La scrittura latina nel ’500 apparenta More ai dotti europei, tra cui
naturalmente Erasmo da Rotterdam con il suo scritto satirico Encomium
Moriae (1511) (L’encomio della pazzia), che dà il là a un corrosivo attacco
alle autorità ecclesiastiche e laiche grazie al felice espediente
dell’inversione ironica, in base al quale ciò che la Pazzia loda è di fatto
meritevole di biasimo. Il latino, del resto, rivestiva ancora grande
importanza. Insegnato nelle scuole superiori443 e nelle università, era la
lingua della diplomazia, del diritto, della scienza, della filosofia, la lingua
di quanti ambivano di essere letti anche al di fuori dei confini nazionali o
aspiravano a porsi, nel furore delle polemiche innescate dalla Riforma,
super partes, a tal fine ricorrendo all’idioma universale. La lingua
dell’antica Roma avrebbe mantenuto la sua posizione di primato come
mezzo di comunicazione internazionale fino ad oltre la metà del XVII
secolo, tanto più che era assai forte “the resistance of many people
educated in the tradition of Latin scholarship to turn to English and
popularize knowledge” (Fisiak, 1993: 93). I detentori di un sapere
specifico, del resto, non erano ansiosi di metterlo a disposizione della
comunità attraverso l’impiego del volgare.
Ma i tempi stavano cambiando. Avvertendo le carenze dell’idioma
nazionale, povero nel lessico e inadeguato nelle strutture, Sir Thomas
Elyot [’eliət] si espresse esclusivamente in inglese, proprio allo scopo di
potenziare la lingua natia e di promuoverne la dignità. Traduttore dal greco
e autore di un popolare manuale di medicina, scrisse il celebre trattato
sull’educazione e la politica The Governor (1531), volto a suggerire quale
226
dovesse essere la formazione ideale del potenziale funzionario pubblico444
che, fungendo da anello di congiungimento tra il re e il popolo, era
chiamato a ricoprire un ruolo di prestigio e di alta responsabilità.
Ultimo degli umanisti e tutor della principessa Elisabetta, Roger
Ascham [’æskəm] è ricordato per il Toxophilus (1545), vivace dialogo tra
“l’amante del tiro con l’arco” e “l’amante dei libri”, e per lo Schoolmaster
(1570), noto per l’invito dell’autore a rinunciare al viaggio in Italia, luogo
di altissima cultura ma impregnato di peccato. La valenza didascalica che
ispira la letteratura del Cinque-Seicento si esprime già in questi manuali.
227
(Pustianaz, 1995: 122) sulle quali il Governo, in un periodo di vivaci
tensioni, faceva affidamento per la salvaguardia dell’ordine pubblico. La
verifica che le Scritture fossero rettamente intese si imponeva anche per
un’altra ragione, riconducibile al fatto che il lettore, sommerso dalle
plurime interpretazioni avanzate dal cattolicesimo, aveva perso contatto e
dimestichezza con il textus. Era arrivato ormai il momento di aiutarlo a
comprendere la Parola. Perché essa giungesse limpida e corretta allo spirito
del lettore, occorreva affiancarle una scritturalità secondaria che gli
insegnasse a mettere a fuoco ciò che dal testo egli doveva imparare,
superando la “superstiziosa idolatria della lettera” (Pustianaz, 1996: 446).
Prefazioni, glossari, note a margine, open texts di assoluta chiarezza445
dovevano ergersi a steccati di un rassicurante percorso guidato.
Sorse allora il dilemma se la Parola fosse o non fosse sufficiente
alla trasmissione del messaggio. Al dilemma seguì il dibattito. Quanti
erano fiduciosi nella “utopia della lettura spiritualistica” (Pustianaz, 1995:
132), auspicavano una Bibbia tradotta con tale limpidezza da rendere
superflui i paratesti, dal momento che la Parola si comunicava al credente
tramite lo Spirito. Quanti, invece, avvertendo la complessità della scrittura
biblica, confidavano nell’ausilio dei paratesti, risolsero il dilemma
presentando il testo secondario come “un signum che indica una res più
grande” (Id.: 125) a cui il signum conduce.
Imperativo categorico che sovrintese alle traduzioni, agli scritti
secondari esplicativi e ai testi devozionali fu la perspicuità del linguaggio.
Si usino, raccomandavano i riformati, a cominciare da Tyndale, una
terminologia semplice, un idioma vicino a quello della gente comune, un
ritmo scorrevole. E l’imperativo fu rispettato.
La versione dal greco del Nuovo Testamento redatta da William
Tyndale [tindl]446 , esule in Germania da un’Inghilterra ancora cattolica,
servì come base alla stesura della prima Bibbia inglese in versione
integrale, edita nel 1535 (dopo lo scisma di Enrico VIII del 1534) per mano
di Miles Coverdale che completò il lavoro di Tyndale basandosi sulla
Vulgata e sulla Bibbia di Lutero, nonché sulle parti del Vecchio
Testamento tradotte da Tyndale. Rivista nel 1539 da Coverdale, approvata
da Enrico VIII e lussuosamente stampata, la Great Bible figurò in tutte le
chiese. All’inizio del regno di Elisabetta, il clero produsse la Bishops’ Bible
228
(La Bibbia dei vescovi), che rimase il testo ufficiale finché Giacomo I non
ne ordinò una nuova versione. L’opus magnum fu affidato a un gruppo di
quasi cinquanta studiosi e teologi tra i più esperti. Essi lavorarono in
gruppi, scambiandosi le rispettive traduzioni e sottoponendo le proposte a
un comitato di redazione che, conscio delle proprie responsabilità,
procedette a una accurata revisione. Nel 1611 l’opera fu pronta. Essa si
basava fondamentalmente sulla versione di Tyndale, con il suo linguaggio
semplice e vigoroso. Tuttavia i traduttori secenteschi impressero al
linguaggio – ovviamente mutato nella grafia – un’eleganza e un ritmo
nuovi. The King James Bible, o Authorized Version, che restò in uso fino
alla fine dell’Ottocento, divenne un testo fondamentale della liturgia e una
potente forza ispiratrice della stessa letteratura inglese.
And when ye praye, bable 447 not But when ye pray, use not
vain
Moche, as the heathen do: for repetitions as the heathen do: for
they thincke that they shall be they think that they shall be
herde, for their moche heard for their much
bablynges sake. Be ye speaking. Be not ye
not lyke them therefore […]448 therefore like unto them.
229
salted risulta un po’ greve, mentre gli estensori della Authorized Version
preferiscono espressioni più formali (wherewith), anche di origine latina
(vaine repetitions, savour), e cercano di evitare il cumulo di termini affini
introducendo un sinonimo appropriato. La versione più recente, inoltre,
risulta più fluida e scorrevole.
I decenni centrali del XVI secolo furono occupati, sulle orme del I
libro di Utopia, da testi di critica economica e sociale che, sotto forma di
trattati o di sermoni, di supplications o di lamentations (Pustianaz, 1996:
447-9), denunciano i guasti della società 449 . Il linguaggio, piano, lucido,
accessibile, insomma il sermo humilis, vuole trasmettere un messaggio
privo di ambiguità.
Ecco un passo tratto da un famoso sermone Of the Plough [plau],
(Dell’aratro), predicato nel 1548 da Hugh Latimer [’lætimə] pochi anni
prima che egli fosse arso come eretico. Esso attesta il vigore del linguaggio ,
di uso quotidiano, qui costruito su una serie di icastiche, sferzanti
interrogative retoriche. Tema: gli uomini di chiesa fanno di tutto tranne che
occuparsi della Chiesa. Dopo aver segnalato con palese ironia gli impegni
mondani dei prelati (alcuni seguono le faccende del re, altri siedono nel
Privy Council [’privi kaunsl]450 o in Parlamento, altri ancora controllano la
zecca), Latimer lascia esplodere la sua indignazione:
Is this their duty? Is this their office? Is this their calling? Should
we have ministers of the church to be comptrollers of the mints? Is
this a meet office for a priest that hath cure of souls? Is this his
charge? I would here ask one question: I would fain know who
controlleth the devil at home at his parish, while he controlleth the
mint? […]451 .
III.1.2 Le altre traduzioni
230
Nell’Inghilterra del ’500 si tradussero opere in prosa, spesso con
l’ausilio di versioni intermedie, latine per i testi greci, francesi e italiane
per i latini. Sorprende comunque che sia stato ignorato l’intero corpus
tragico greco452 . Si tradussero anche testi moderni, come il Cortegiano di
Castiglione ad opera di Sir Thomas Hoby (The Courtyer, 1561) e i Saggi
di Montaigne, volti in inglese da John Florio (Essayes, 1603).
Le versioni dei testi in prosa venivano incontro al desiderio del
lettore di entrare, per ragioni diverse (l’informazione, la curiosità, il
profitto, il modello), in contatto con gli originali. Anch’esse si
prefiggevano di potenziare il vernacolo, perché diventasse uno strumento
adatto alla comunicazione in ogni ramo del sapere, in grado di affiancarsi
al latino e alle più autorevoli lingue europee. L’attività di traduzione fu
incoraggiata sia dal desiderio di ripristinare i valori dell’etica classica –
che, uniti a quelli dell’etica cristiana, avrebbero concorso alla
trasformazione della società – sia dall’ambizione di suggerire nuovi
modelli comportamentali453 . La traduzione dunque non rappresenta
soltanto un validissimo esercizio linguistico, ma contiene una proposta
educativa.
Per valutare, pur sommariamente, quanto dello spirito e del
contenuto di un testo greco rimanga in un testo inglese del ’500 che da esso
prende spunto, leggiamo la battuta di un personaggio, Porzia, della Life of
Brutus, appartenente alle Vite Parallele di Plutarco, tradotte da Sir Thomas
North (1579), e confrontiamola con la battuta corrispondente del
medesimo personaggio nel Julius Caesar [’dζuliəs ’si:zə] shakespeariano.
I being, o Brutus, […] the daughter of Cato, was married unto thee;
not to be thy bed-fellow and companion in bed and board only, like
a harlot, but to be partaker also with thee of thy good and evil
fortune. […] I confess that a woman’s wit commonly is too weak
to keep a secret safely […] And for myself I have this benefit
moreover, I am the daughter of Cato and wife of Brutus454 . (il
corsivo è mio)
non per esserti soltanto compagna di letto e di mensa al pari di una prostituta, ma
231
Shakespeare, chiaramente suggestionato dalla vivacità della
pagina di Plutarco come dallo stile teatrale del moralista greco, scrive:
[…] Am I your self / But, as it were, in sort or limitation, / To keep
with you at meals, comfort your bed, / And talk to you sometimes?
Dwell I but in the suburbs / Of your good pleasure? If it be no
more, / Portia is Brutus’ harlot, not his wife.[…] If this [that I am
your true and honourable wife, as Brutus has just said] were true,
then should I know this secret. / I grant I am a woman; but withal
/ A woman that Lord Brutus took to wife; / I grant I am a woman;
but withal / A woman well reputed, Cato’s daughter.455 (Julius
Caesar, II,i,282-95). (il corsivo è mio)
anche per condividere la tua buona o mala sorte […] Ammetto che la mente di una
donna è considerata troppo fragile per mantenere un segreto […], ma io ho questo
vantaggio in più: sono figlia di Catone e moglie di Bruto.
455 Sono forse te stesso / ma soltanto per modo di dire o ad ore, / per farti
compagnia a pranzo, riscaldarti il letto / e parlarti ogni tanto? Abito solo nei
sobborghi / del tuo piacere? Se non c’è altro, allora / Porzia è la puttana di Bruto,
non sua moglie. La traduzione è di Sergio Perosa (Shakespeare, 1978).
232
per loro il momento di entrare nella competizione imperiale – tanto
inevitabile quanto sciagurata.
Se le traduzioni rappresentano l’apertura dell’Inghilterra verso una
realtà altra rispetto alla propria (la classicità, l’Europa), le opere storiche o
cronachistiche segnano invece la riflessione dell’Inghilterra su se stessa, la
ricerca della propria identità nello studio del passato, nazionale o locale.
Gli anni 1560-80 videro fiorire una ricca produzione di scritti storici,
cronachistici e geografico-descrittivi, alcuni in latino, come la Britannia
(1587) di William Camden [’kæmdən], altri in inglese, come le Chronicles
(1577) di Raphael Holinshed. Gli uni e gli altri rispondevano alla duplice
finalità di impedire che eventi del passato cadessero nell’oblio e di esaltare
l’Inghilterra quale nazione fiera, indipendente da ingerenze straniere,
depositaria della vera fede. La forte urgenza patriottica ci introduce nel
cuore dell’età elisabettiana.
di talento.
459 L’anno dopo, nel 1579, uscì la prima importante opera di Spenser, The
233
strutturata intorno a una serie di incontri, non mira a costruire figure a tutto
tondo, anche se Euphues, coinvolto in una vicenda di maturazione, e
Lucilla con la sua fragilità e mutevolezza avrebbero avuto le carte in regola
per diventare i primi personaggi della fiction inglese. Mira piuttosto a
dibattere temi molto sentiti in età elisabettiana, quali il contrasto tra
gioventù e vecchiaia, amore e amicizia, fedeltà e incostanza (la fickleness
di Wyatt), sincerità e ipocrisia, ma anche tra love, lust e dotage 461 . E mira,
in prima battuta, a imporre un nuovo linguaggio
Euphues inaugurò di fatto un nuovo modo di scrivere, l’eufuismo,
che rimase in auge quindici anni. Esso si caratterizza per chiarezza
espressiva, eleganza formale e ricchezza di ornamenti retorici – quasi
ogni passo è costruito su parallelismi e antitesi, allitterazioni e assonanze,
mentre le catene di domande retoriche si sprecano. Si distingue inoltre per
una marcata esibizione di cultura letteraria, scientifica o
pseudoscientifica, di origine classica o medievale, oppure semplicemente
fasulla, inventata – atta comunque a corroborare una tesi, a portare avanti
un argomento.
all’amico la fidanzata Lucilla, che a sua volta lo lascia per un altro. La misoginia
del giovane esplode. Dopo uno scambio di lettere amare Euphues e Philautus si
riconciliano, abbandonando la fedifraga al suo (tristissimo) destino. Euphues,
amareggiato, emerge dal proprio dotage e decide di consacrarsi alla conoscenza di
Dio. Prima di tornare ad Atene, scrive per Philautus un trattatello in cui lo mette
in guardia contro le donne e lo invita a una vita edificante in campagna. Da Atene,
riconosciuti gli errori di una gioventù malspesa e ribelle, stende alcune lettere, in
cui dà voce alla propria nuova saggezza, maturata con l’esperienza, e mette per
iscritto i suoi pensieri pedagogici, liberamente parafrasando Sull’educazione dei
figli di Plutarco. Nell’ultima lettera annuncia il suo viaggio in Inghilterra, oggetto
di Euphues and His England. In questa seconda parte il tema centrale è l’amore,
con la valorizzazione del mondo femminile, e il vero protagonista è Philautus .
Durante il viaggio Philautus ascolta tre storie, di cui due consacrano la figura del
prodigal son e la terza racconta della vita di corte, di amori non corrisposti o
tragici. A Londra Philautus, impermeabile alla morale dei racconti, si imbarca in
un love affair che non va a buon fine. Tra una rottura d’amicizia e l’altra, tra lunghi
dibattiti su questioni d’amore, il romanzo-trattato si conclude, lasciando Philautus
felicemente sposato e Euphues melanconicamente solo, dedito alla vita
contemplativa. Nella lettera indirizzata alle donne italiane celebra l’Inghilterra, la
sua regina, il mondo aristocratico.
461 E’ probabile che Euphues abbia influenzato MND a livello non solo linguistico
ma tematico.
234
L’eufuismo si offre come modello di prosa d’arte 462 , ma nel
contempo si propone come strumento didascalico. Mentre illustra la
concezione elisabettiana della realtà – in cui sostanza e forma, essere e
apparire non coincidono – addita il percorso seguendo il quale l’uomo di
talento raggiunge la maturità morale, la saggezza. Lyly considera che
anche l’uomo più dotato di wit può essere tratto in inganno dalle apparenze
e incorrere in grossolani errori di giudizio. Soltanto l’esperienza gli
consentirà di imparare a distinguere ciò che sembra da ciò che è. Il wit da
solo non basta perché l’uomo sia portato a maturare scelte morali; per
arrivare alla saggezza il talento deve nutrirsi di esperienza. L’esperienza,
pur fonte di dolore e di disillusione, è “the true teacher of a ready wit”
(Hunter, 1962: 53). La parabola della persona matura muove quindi da una
natura ‘ben fatta’ alla capacità di discernimento morale, passando
attraverso esperienze costellate di errori e di pentimenti.
L’anziano Eubulus trasmette un messaggio di prudenza a Euphues
per fargli intravedere a quali pericoli si esponga l’eccellenza stessa del suo
ingegno:
Alas Euphues by how much the more I love the highe climbinge
of thy capacitie, by so muche the more I feare thy fall. The fine
christall is sooner crazed463 then the hard marble, the greenest
Beeche burneth faster then the dryest Oke, the fairest silke is
soonest soyled, and the sweetest wine tourneth to the sharpest
vineger, the pestilence doth most ryfest464 * infect the cleerest
complection, and the Caterpiller cleaveth unto the ripest fruite, the
most delicate wit is allured with small enticement into vice […]465
(Lyly, 1967: I, 189).
462 Volendo collocare la prosa di Lyly entro i genera dicendi, indicati da Cicerone
nell’Orator, cioè lo stile sublime volto a suadēre (convincere) e flectere (suscitare
le passioni), lo stile piano o umile, volto a docēre (insegnare, informare) e a
probare (dimostrare, sostenere una tesi con argomenti validi) e lo stile medio ,
volto a delectare (produrre una piacevole sensazione estetica), la
classificheremmo in quest’ultimo ambito, poiché si imponeva per concinnitas,
l’elegante raffinatezza che suggestionava gli elisabettiani.
463 crazed: to craze = to break (here: with a partial fracture, Lyly, 1967: 331).
464 ryfest: da rife (adj.): frequent, widespread (of infectious deseases); (adv.):
frequently.
465 Ahimè, Euphues, quanto più apprezzo l’ascesa del tuo ingegno, tanto più temo
la tua caduta. Il cristallo sottile s i crepa prima del marmo compatto, il faggio più
verde brucia più in fretta della quercia più secca, la seta più bella si macchia prima,
235
Salvo il primo e l’ultimo, gli esempi tratti dalla realtà naturale costruiscono
un mondo alla rovescia, dove non si hanno certezze se non attraverso una
verifica attenta. L’idea baconiana è nell’aria, espressa in un linguaggio che
stordisce pur di farsi ammirare. Osserviamolo. Le frasi correlative sono
impostate secondo un perfetto bilanciamento tra ripetizioni (by how much
the more, by so much the more) e contrapposizioni (love vs fear, high
climbing vs fall). Nel secondo periodo le prime due proposizioni ruotano
intorno a due comparativi avverbiali (sooner, faster): nella prima i due
termini di paragone sono costituiti da un aggettivo e un sostantivo che il
lettore recepisce come antitetici (fine vs hard, christall vs marble), nella
seconda i termini di confronto sono affini nei sostantivi (nomi di due
piante) ma antitetici negli aggettivi, entrambi superlativi relativi (the
greenest vs the driest). Le quattro frasi successive parlano per assoluti, in
una catena ininterrotta di superlativi.
Tuttavia Euphues, impervio ai consigli del gentiluomo, ribatte che
le osservazioni da lui avanzate sembrano efficaci, ma sono in realtà
debolissime. Per illustrare il principio che oppone l’apparenza alla sostanza
Lyly si vale di una “unnatural history […] testify[ing] to a paradoxical
universe” (Houppert, 1975: 17), come risulta dal passo successivo:
But as the Camelion thoughe hee have most guttes, draweth least
breath, or as the Elder tree thoughe hee bee fullest of pith, is
farthest from strength, so though your reasons seeme inwardly to
your selfe somewhat substantial […] yet beyng well wayed466
without, they be shadowes without substaunce, and weake without
force.467 (Lyly, 1967: I, 194)
il vino più dolce si trasforma nell’aceto più aspro, l’epidemia molto spesso deturpa
la pelle più luminosa, il bruco si insinua nel frutto più maturo, l’ingegno più sottile
è con ben poche lusinghe attratto verso il vizio.
466 well wayed = wellweighted, da to weight = pesare.
467 Come il camaleonte, pur possedendo viscere amplissime, respira pochissimo e
il sambuco, pur quanto mai colmo di linfa, è quanto mai privo di forza, allo stesso
modo le tue ragioni, sebbene ti sembrino valide esaminate interiormente,
soppesate esteriormente sono ombre senza sostanza, deboli senza forza.
236
la struttura del periodo, costruito su frasi correlative. Nelle prime due i
soggetti sono separati dai verbi da frasi concessive in cui soggetti uguali
reggono verbi opposti (have, be) seguiti da superlativi (most, fullest),
mentre i verbi delle correlative sono seguiti da superlativi, l’uno
aggettivale (least), l’altro avverbiale (farthest), che si appoggiano a
sostantivi monosillabici. La frase principale, introdotta da so, è subito
interrotta da una concessiva il cui perno è seem. Seem si contrappone a be,
predicato della principale, come inwardly si contrappone a without,
substantial a without substance, weak a without force.
Per concludere: ciò che rende unico lo stile di Lyly è
l’organizzazione del discorso intorno ad una inesorabile catena di figure
retoriche che sorprende e travolge il lettore.
L’eufuismo influenzò molti intellettuali, tra cui, oltre a Thomas
Lodge e Robert Greene, lo stesso Shakespeare, come abbiamo constatato
dal linguaggio retorico con cui talora comunicano gli innamorati del MND,
e Philip Sidney nella lussureggiante prosa di Arcadia. Il romance
pastorale468 , ambientato nell’omonima regione della Grecia, tratta di
problemi politici (il dovere del buon sovrano) e morali (la ragionevolezza
e l’autocontrollo, fattori decisivi nella vita dell’uomo), calati nella storia di
un’umanità segnata dal peccato originale, debole, insensata, esposta alle
passioni, stolta. Una lingua ben più sobria Sidney impiega nella Defence
of Poetry (1595), in cui egli proclama la superiorità della letteratura rispetto
alla filosofia e alla storia come mezzo per inculcare la virtù, ironizza sulla
libertà di tempo e di luogo del teatro contemporaneo e prevede la nascita
di una grande poesia nazionale, pur nel desolante panorama delle lettere
inglesi del tempo.
Svolto il suo compito storico, l’eufuismo si attenuò e scomparve.
Aveva comunque sollecitato gli intellettuali a cercare modi nuovi di
scrivere in prosa. Una presa di coscienza del problema emerge dal discorso
colto, caleidoscopico e virtuosistico – impiegato spesso per fini parodici o
burleschi – di Thomas Nashe (1567-1601): un discorso a tratti
deliberatamente caotico, quasi a significare il disordine del mondo a cui
solo l’arte può porre rimedio. Ammiratore di Lyly e suo compagno nella
468 Dell’opera esistono tre stesure: l’una, lineare e completa (‘Old’ Arcadia), che
circolò manoscritta e fu scoperta solo nel ’900, l’altra, incompiuta (‘New’
Arcadia), più complessa e drammatica, risultato della revisione dell’autore, edita
nel 1590, e la terza, composita, che la sorella di Sidney pubblicò nel 1593
assemblando le due precedenti.
237
battaglia antipuritana 469 , Nashe è l’autore di The Unfortunate Traveller (Il
viaggiatore sfortunato) (1594), per metà cronaca, per metà storia (come
egli stesso lo definisce), per metà romance, per metà racconto picaresco
(come lo definiscono gli studiosi). Esso si snoda intorno a una miriade di
episodi, orribili o grotteschi, al centro dei quali si colloca la figura di un
paggio inglese, Jack Wilton, protagonista di un disastroso viaggio in Italia ,
sentina di iniquità, di corruzione, di peccato.
469 Quando, alla fine degli anni ’80, i militanti puritani attaccarono con i loro
caustici pamphlets l’episcopato, simbolo della gerarchia ecclesiale che essi
osteggiavano, le autorità governative ingaggiarono Nashe, Lyly e Greene perché
rispondessero per le rime ai detrattori. La battaglia si concluse nel giro di due anni,
con arresti, processi e condanne a morte dei ‘sovversivi’.
470 goodly = of good appearance, agg. spesso riferito alle navi,‘belle’ in quanto di
238
poi si distende in frasi lineari, come le prime punteggiate di dettagli:
On the fourth day of September, under nine degrees 472 , we lost
sight of the north star. We came to anchor three or four leagues
west and by south of the Cape de Tres Puntas. (Id.: 67)
239
O ancora, il diarista del viaggio di Gilbert [’gilbət] così prepara il lettore al
naufragio della nave ammiraglia 479 :
The evening was faire and pleasant, yet not without token480 of
storme to ensue, and most part of this Wednesday night, like the
Swanne that singeth before her death, they in the Admiral, or
Delight481 , continued in sounding the Trumpets, with Drummes
and Fifes, also winding482 the Cornets, Haughtboyes: and in the
end of their jolitie, left with the battell483 and ringing of dolefull
knels.484 (Rossi, 1986: 147)
Qualsiasi viaggio di un certo peso nelle diverse aree del globo (in
Africa e in Medio Oriente, in Russia e in Persia, intorno al globo e in
America) e le imprese piratesche o belliche ai danni della Spagna furono
raccontati ora in relazioni sommarie, ora in resoconti articolati.
Per quanto riguarda il Nuovo Mondo, tuttavia, mentre in Europa la
letteratura di viaggio seguì la scoperta, in Inghilterra la ‘scoperta’ e la
letteratura che da essa muove furono precedute dalla letteratura di
propaganda. Ciò è comprensibile, visto che l’Inghilterra si affacciò al
palcoscenico americano, per finalità di arricchimento e di espansione, con
479 Il capitano era quel Humphrey Gilbert che si inabissò sventolando Utopia e
ripetendo l’aforisma di Itlodeo.
[480 token = sign, mark.
481 Delight è il nome, ben augurante, della nave ammiraglia.
482 to wind = to sound a wind-instrument.
483 battell = battle: beating.
484 Propongo per questo passo suggestivo la bella traduzione di Marenco (1990:
114): La serata era calma e bella, tuttavia con una minaccia di tempesta nell’aria.
Per tutta la sera di quel mercoledi gli uomini dell’ammiraglia, ossia della Delight,
continuarono a suonare trombe, tamburi e pifferi, dando fiato anche a cornette e
oboi, come il cigno che canta prima di morire; e alla fine si allontanarono,
concludendo la loro festa col battere e risuonare di lugubri rintocchi.
240
vistoso ritardo rispetto alle potenze iberiche e alla Francia. Solo negli anni
’70 l’esclusione inglese dalle grandi possibilità d’oltre Atlantico fu
avvertita come un problema. Per ovviare al ‘problema’ si composero
trattati e trattatelli. Essi attinsero informazioni sull’America da testi
stranieri (tradotti a partire da metà Cinquecento) e le innestarono su un
messaggio ideologico di forte impronta nazionalistica, per farne uno
strumento promozionale . Nacque così la letteratura di propaganda, legata
al nome di Richard Hakluyt [’hæklu:t]. Essa ruota intorno a questi punti
principali:
l’Inghilterra era giunta tardi sugli oceani rispetto ad altre potenze,
ma poteva e doveva entrare in lizza con loro, tanto più che, in quanto paese
simbolo del protestantesimo, aveva il dovere morale di contrastare
l’avanzata della Spagna cattolica in Europa e nel Nuovo Mondo;
il viaggio e l’insediamento in terra americana rispondevano a
finalità altissime: conoscitive (per il disvelamento dell’ignoto),
missionarie (per la diffusione della vera fede), politiche (per il
contenimento dello strapotere spagnolo), etico-sociali (per le possibilità di
lavoro e di autorealizzazione offerte ai poveri e ai diseredati), economiche
(per le occasioni di profitto individuali e nazionali), patriottiche (per la
difesa e la gloria dell’Inghilterra).
In che cosa si differenziano questi due sottogeneri di letteratura
prosastica? La letteratura di viaggio, frutto di lavoro sul campo, poggia su
testimonianze oculari; la letteratura di propaganda, esito prima di un
impegno dinamico (il reperimento di testi o di testimonianze), poi di un
lavoro a tavolino, si basa sullo studio e l’analisi di elementi trasmessi da
altri. L’una, pur fitta di dati esperiti, accoglie l’utopia e il mito485 ; l’altra,
costruita su documenti, si sottrae al mito ma crea l’utopia 486 . Entrambe si
aprono all’elemento avventuroso, ma l’una racconta l’avventura dell’oggi,
l’altra prospetta quella futura o futuribile. Entrambe rispondono al comune
241
ideale di magnificare l’Inghilterra, l’una attestando la perizia marinara e la
virtù coloniale dei suoi uomini, l’altra tacitando quanti in Europa
criticavano l’infingarda sedentarietà degli inglesi e spingendo i compatrioti
all’azione, in nome della gloria passata e dei diritti presenti487 . Entrambe
sono ispirate da una pulsione fortissima, scatenata dall’oro spagnolo: la
diaristica vuole documentare che l’oro esiste in America anche in zone non
occupate dalla Spagna, la propaganda vuole dimostrare che esso deve
esistere, ma che non è poi così necessario a fronte di tante altre ricchezze
presenti nel Nuovo Mondo. La letteratura di viaggio celebra l’eroe e rende
grazie alla Provvidenza; la letteratura di propaganda crea l’eroe e gli
assegna in primo luogo un compito missionario. Entrambe eurocentriche,
fanno risuonare la nota epica, l’una quando sottolinea i pericoli e le fatiche
a cui si espongono i navigatori o segnala il mistero con cui si confrontano,
l’altra quando chiama l’Inghilterra a una missione salvifica per il Paese
(che potenzierà la flotta, si libererà della popolazione in eccesso e degli
‘indesiderati’, si procurerà i costosissimi prodotti mediterranei, smercerà i
manufatti) e per gli indigeni (che riceveranno il dono della fede e della
civiltà, le “perle del Cielo” contro le perle della terra). L’immagine
unknowen seas, and long navigations 488 (Rossi, 1986: 83), desunta dal
resoconto di un viaggio nordico, indica con orgoglio la mansione immane
dei navigatori rinascimentali, mentre la scrittura di propaganda,
minimizzate le difficoltà del viaggio, esalta i doveri e i compiti che
aspettano gli inglesi, una volta sbarcati in America.
487 La gloria passata si evince dalle informazioni di viaggi inglesi nel mondo, a
partire da prima dell’anno 1000, offerte dai resoconti collezionati nelle Principal
Navigations di Hakluyt; i diritti inglesi al Nordamerica sono ricondotti da Hakluyt,
nel Discourse on Western Planting (cap. XVIII), alla presa di possesso di
Terranova da parte di Caboto nel 1497.
488 mari ignoti e lunghe navigazioni.
242
quel mondo lontano sono sconosciuti il denaro, la proprietà privata, il ferro
ma non il senso morale, e la gente seeme to lyve in the golden worlde,
without toyle 489 (Rossi, 1986: 74), in una terra ubertosa, egli duplica alcune
caratteristiche della civiltà di Utopia e anticipa alcuni dati,
suggestivamente irrealistici, del propagandistico resoconto di Barlow490
del 1584.
L’America è fin d’ora iscritta entro i parametri del mito. Lo
conferma la relazione, tradotta negli stessi anni, del colono francese Jean
Ribault, in estatica contemplazione della Florida, which never yet broken
with plough yrons, bringeth forth al things according to his first nature 491
(Id.: 76), e della sua gente, gentile e generosa. Intanto il libro di Thomas
More si materializza sullo sfondo dell’Atlantico: il diarista che narra la
scomparsa in una tempesta di Sir Humphrey Gilbert, reduce da Terranova,
segnala che egli si inabissò pronunciando un aforisma del viaggiatore
filosofo Itlodeo (Id.: 148) e agitando un libro che teneva in mano –
indiscutibilmente Utopia.
Per contro, nelle storie della conquista del Messico e del Perù,
tradotte negli anni ’80, la scrittura sull’America avrebbe offerto occasione
per sciogliere un inno alla virtù del conquistador, a cui il Nuovo Mondo si
offriva come ideale campo d’azione, irto di pericoli ma rutilante d’oro.
Gli anni ’70 videro la stampa dei primi resoconti di navigatori
inglesi492 che documentano le spedizioni nelle zone più settentrionali del
continente, alla ricerca del passaggio a Nord-Ovest. I diari raccontano di
esperienze drammatiche, tra tempeste, nebbie impenetrabili, iceberg
mostruosi che imprigionano o disperdono la flotta, mentre la terra brulla
respinge gli inglesi, e gli eschimesi – che si cibano di carne cruda e
preferiscono il suicidio all’approccio con il bianco – li disgustano e li
sgomentano.
Nel decennio successivo, prima che decollassero i Roanoke
[rəuə’nəuk] Voyages [’voidζiz] (Viaggi all’isola di Roanoke), finanziati da
489 sembra vivere nel mondo dell’età dell’oro, che ignora la fatica.
490 Si veda qui III.2.3.
491 che, pur mai violata dal ferro dell’aratro, produce ogni cosa secondo la sua
primigenia natura.
492 La letteratura di viaggio appartiene a due filoni che corrispondono agli obiettivi
principali dell’espansione inglese, cioè la ricerca del passaggio a Nord-Ovest,
poiché arrivare in Asia era ancora un obiettivo prioritario, e la lotta alla Spagna.
Ad essa si affianca la letteratura coloniale.
243
Raleigh [’ro:li, ’ra:li], Richard Hakluyt493 redasse due opere intese a
spronare gli inglesi all’azione : i Divers Voyages (Viaggi vari) (1582), che
raccolgono relazioni di viaggiatori europei in America, tra cui quella di
Ribault a cui si è appena accennato, e il Discourse [’disko:s] on Western
Planting (Discorso sull’insediarsi in terre occidentali)494 , che fu composto
su richiesta di Raleigh mentre era in corso il viaggio ricognitivo in Virginia
da cui sarebbero scaturiti i Roanoke Voyages.
Nel Discourse Hakluyt articola un programma coloniale preciso.
Esso muove da un conclamato ideale missionario (portiamo Cristo ai
pagani), ma ben presto lo contamina con interessi politici: la
colonizzazione inglese deve rappresentare una rivalsa della nuova Chiesa
contro il cattolicesimo e, parimenti, un freno all’espansione spagnola nel
Nuovo Mondo, tanto più che l’impero di Madrid, come attesta Las
Casas495 , ha eretto a legge il delitto e la barbarie. Hakluyt illustra con
passione le risorse del Nordamerica, che aspettano di essere valorizzate
dall’operosità umana. Il quadro delle ricchezze americane, “proposto
secondo una dimensione non d’ingorda economia capitalistica, ma di
rinascimentale attivismo” (Rossi, 1986: 112), incoraggia una
colonizzazione di popolamento, quanto mai utile a un Paese come
l’Inghilterra, gravato da un eccesso demografico496 che genera
493 Richard Hakluyt [’Hæklu:t] (1552-1616), uomo di chiesa, “dedicò la sua vita
allo studio e alla diffusione della geografia” (Marenco, 1966: I, 53). Non viaggiò
al di là di Parigi, ma impegnò tutte le sue energie nel raccogliere, tradurre, far
tradurre e pubblicare materiale italiano, spagnolo, francese e inglese relativo a
spedizioni esplorative per mare e per terra, nonché alla colonizzazione americana.
Convinto che gli inglesi fossero in clamoroso ritardo rispetto agli altri europei
nelle imprese marittime e coloniali, li sollecitò ad entrare nell’agone prima che
fosse troppo tardi. E’ facile dire, nel terzo millennio, che gli inglesi, purtroppo,
risposero all’appello.
494 Composto nel 1584, rimase inedito fino al 1877.
495 Nel 1583 era uscita la traduzione della Brevísima relación (1552) del frate
270).
244
disoccupazione. Una colonia rappresenterà la soluzione vincente ai
problemi nazionali, non solo religiosi e politici, ma economici (con
l’importazione di olio, vino, legname e l’esportazione di pannilana, abiti,
cappelli497 e di bazzecole varie, specchietti e perline, gradite ai primitivi) ,
e sociali (darà lavoro ai disoccupati tanto in America quanto in Inghilterra ,
svuoterà le carceri degli infelici spinti al crimine dalla miseria, favorirà la
ripresa dell’artigianato e della manifattura).
Per concludere l’esame della scrittura propagandistica, occorre
ricordare l’opus magnum del grande geografo – le Principal Navigations,
edite nel 1589 in un volume, nel 1598-1600 in tre volumi in folio – che
diede un fortissimo impulso alla scoperta e alla colonizzazione . La
raccolta di documenti hakluitiana si distingue dalle Navigazioni e viaggi
(1550-1559) di Giovan Battista Ramusio: alla finalità intellettuale e
cosmopolitica dell’opera italiana si contrappone la valenza marcatamente
pragmatica e patriottica dell’opera inglese. Nella Prefazione per il lettore
premessa al primo volume dell’edizione definitiva, Hakluyt parla con
orgoglio e commozione della propria fatica di collezionista, tesa “a
riportare alla luce memorie sepolte, a sottrarre testimonianze recenti a un
inevitabile destino di oblio, a conferire unità al frammentario […]”
“compie un’audace equivalenza tra il proprio eroismo di ricercatore,
misurato in fatica e spesa […] e l’eroismo di navigatori e azionisti, pesato
per gli uni in termini di pericoli e difficoltà, per gli altri in termini di
sacrifici finanziarin.” (Rossi, 1986: 186-7)
497E’ strano che gli inglesi pensassero veramente di esportare ‘cappelli’ tra gli
amerindi, anche se “[h]ats were everyday wear in Shakespearean England” (Gurr,
1993: 12).
245
Come si diceva, il documento498 concerne il viaggio ricognitivo
condotto nel 1584 verso quella zona dai confini incerti e dall’immensa
estensione chiamata Virginia [və:’dζinjə]. In anni di tensione anglo-
spagnola non fu subito dato alle stampe poiché avrebbero potuto gettare
luce sui progetti espansionistici dell’Inghilterra. Fu incluso, invece, nella
prima edizione delle Principal Navigations (1589) di Hakluyt. Il
documento è molto piacevole a leggersi, con belle descrizioni di luoghi e
vivaci storie di incontri. Le prime, non collegate al mondo indigeno,
rendono in modo del tutto plausibile la bellezza e la ricchezza del Nuovo
Mondo che verranno confermate da relazioni successive. I racconti dei
contatti con gli amerindi, pur deliziosi, non danno l’impressione di
ricostruzioni del tutto fedeli ma, piuttosto, di trascrizioni idealizzate, quasi
una proiezione dei desideri del diarista. E non solo del diarista. Dato che il
viaggio era stato finanziato da Raleigh, è plausibile immaginare – come
suggerisce uno dei massimi esperti dell’espansione europea in America e,
in particolare, dei Roanoke Voyages, David B. Quinn – che questi abbia
modificato parzialmente la stesura originale per accentuare il glamour
della terra oggetto delle sue mire. Gli studiosi ormai concordano nel
ritenere la relazione di Barlow un documento “ideologizzato, scritto come
contributo a una campagna di promozione coloniale”(Marenco, 1990:
342).
A livello formale, il resoconto si struttura come una cronaca
imperniata sulla progressiva presa di contatto degli inglesi con l’area, non
molto estesa, delle loro esplorazioni, due isole del Pamlico Sound, al largo
della Carolina del Nord, e con i loro abitanti. Il linguaggio rende con
naturalezza i profili del paesaggio ed espone con molteplicità di dettagli
– piacevolmente realistici, ma non sempre necessariamente veritieri – la
cultura del posto, oggetto dell’aperta ammirazione del diarista.
Il paragrafo centrale di p. 122 dei Documenti e quello successivo
raccontano l’approdo sull’isola di Hatteras e la presa di possesso del
territorio:
Il 2 luglio [1584] ci trovammo in acqua bassa, dove avvertimmo
un profumo così intenso come se fossimo stati in un bel499 giardino
traboccante di ogni sorta di fiori profumati, dal che capimmo che
498 Il resoconto figura in F. Rossi (a cura di) “Documenti di viaggio”, CUEM, 2007
e in “Supplemento didattico”, CUEM, 2008-09.
499 delicate = pleasant.
246
la terra non poteva essere lontana. Mantenendo un’attenta
vigilanza e procedendo con la velatura allentata 500 , il 4 luglio
arrivammo a una costa che supponemmo fosse quella del
continente. La percorremmo per 120 miglia inglesi prima di
trovare un’entrata o un fiume che si gettasse in mare. Entrammo,
non senza qualche difficoltà, nel primo luogo che ci si offerse e
gettammo l’ancora a circa tre tiri di archibugio dall’imboccatura
della rada, a sinistra della stessa.. Dopo aver ringraziato Dio per
averci fatto arrivare sani e salvi, armammo le nostre scialuppe e
andammo a fare una ricognizione della terra e a prenderne
possesso […].
Fatto ciò, secondo il cerimoniale tipico di queste imprese,
ispezionammo la terra intorno a noi. Dove sbarcammo, era
sabbiosa e bassa verso il pelo dell’acqua, ma così piena di uva che
la semplice risacca 501 la sommergeva. Di uva trovammo una tale
abbondanza – là come ovunque nell’isola, sulla sabbia e sul suolo
verde, sulle colline e nelle pianure, su ogni piccolo cespuglio e
sulla cima di alti cedri, lungo cui si arrampicava – che penso non
esista al mondo una profusione pari a questa. Io stesso che ho
visitato le regioni d’Europa più ricche di viti, constato una
differenza indescrivibile.
[Salendo sulla cima delle colline, gli inglesi si rendono conto di
essere sbarcati su un’isola]. Dalla collina su cui eravamo,
osservammo le valli piene di splendidi pini502 . Quando
scaricammo gli archibugi, uno stormo di gru (in maggior parte
bianche) si levò in volo sotto di noi, con un clamore raddoppiato
dall’eco, come se un esercito avesse gridato tutto insieme.
L’evento centrale a cui allude Barlow consiste nella presa di possesso che
segue alla presa di visione. Il vedere si traduce nell’immediato possedere.
Poi si procede all’esplorazione della zona vicina all’approdo. Nel primo
capoverso la visione di un mondo felice è anticipata là dove il diarista
247
riferisce che l’America si annunciò attraverso un profumo inebriante; poi
si concretizza nei dettagli che compongono il primo quadro paesaggistico:
we viewed the land about us […] sandie and so full of grapes. Nella
descrizione, che procede dalla riva del mare alle colline, dal basso (il pelo
dell’acqua) all’alto (la cima delle piante), la nota prevalente è quella
dell’entusiasmo. L’entusiasmo di Barlow davanti alla profusione di viti
(che fanno pensare a un clima mediterraneo) dapprima gli suggerisce la
visione di un paesaggio quasi colto nell’atto del generare , poi gli detta
una considerazione che ricorre spesso nelle descrizioni del Nuovo Mondo,
che cioè le forze intatte della natura americana fanno apparire trascurabili
le decantate meraviglie del Vecchio Mondo e stabiliscono un nuovo, e più
alto, termine di paragone naturale ed estetico. La nota dell’abbondanza
– di selvaggina come di alberi of excellent smell and qualitie 503
(Documenti: 123) – risuona fin dall’inizio del resoconto e lo percorre tutto.
L’altro capoverso descrive con incisività e precisione il levarsi in
volo di un immenso stormo di gru bianche, disturbate dal fragore degli
spari. Il loro strepito corale pare a noi, lettori del terzo millennio, segno del
dolore della natura per una pace condannata a finire.
Il resoconto narra poi del primo faccia a faccia con gli indigeni.
Uno di loro incontra sulla terraferma i compagni di Barlow che lo
conducono a bordo, non forzatamente ma with his owne good liking 504
(Ibid.). A bordo gli vengono dati in dono a shirt, a hat & some other
things505 e gli vengono offerti vino e cibo, which he liked very wel506 (Ibid.).
L’indigeno fece allora ritorno alla sua barca, in mezz’ora la colmò di pesce,
quindi divise il pescato tra le due navi inglesi. Civiltà dell’indigeno e
abbondanza di risorse: che cosa si può volere di più?
A questo segue un secondo incontro, con il fratello del re, di fatto
un capo tribù. E’ un incontro ufficiale:
Il giorno dopo si avvicinarono alla nostra nave svariate barche. In
una c’era il fratello del re, accompagnato da quaranta o cinquanta
uomini, fisicamente prestanti e nel comportamento composti e
civili come qualsiasi europeo. L’indiano si chiamava
248
Granganimeo, il re Wingina e il paese Wingandacoa, ora Virginia
in onore di Sua Maestà. Venne da noi in questo modo. Lasciò le
barche insieme […], un po’ lontano dalle navi accanto alla
spiaggia, e, seguito da quaranta uomini, camminò lungo la riva del
mare fino al luogo antistante le nostre navi. Quando arrivò nel
punto stabilito, i suoi servi stesero per terra una lunga stuoia: egli
sedette e quattro dei suoi compagni fecero altrettanto all’altra
estremità della stuoia.Il resto degli uomini si dispose in piedi
intorno a lui, ma a una certa distanza. Quando arrivammo da lui
sulla spiaggia con le nostre armi, egli non si mosse e neppure uno
degli altri quattro. Non diede segno di temere 507 che gli facessimo
del male ma, rimanendo seduto immobile, ci fece cenno di venire
a sedere accanto a lui – il che noi facemmo. Appena ci fummo
sistemati, diede segni di gioia e di benvenuto: si battè la testa e il
petto, poi fece lo stesso con noi, per indicare che eravamo tutti
uguali, sorridendo e dimostrando nel miglior modo possibile la sua
simpatia e la sua amicizia. Dopo che ci ebbe rivolto un lungo
discorso, gli offrimmo diverse cose, che accettò con
manifestazioni di gioia e di gratitudine. Intanto nessuno dei suoi
osava dire una parola; soltanto i quattro che sedevano all’altro capo
della stuoia si parlavano molto piano all’orecchio. (Documenti:
124)
507mistrust (to) = to have doubts about something. Letteralm.: mai sospettò che
qualche male potesse venirgli da noi.
249
non è dunque diverso sulle due sponde dell’Atlantico e il mondo dell’alta
gerarchia indiana non ha nulla da invidiare a quello europeo, tanto più che
“nessun popolo al mondo porta maggior rispetto al re, alla nobiltà e a chi
governa” (Id.: p. 126).
Alla fase dei doni segue quella degli scambi. Gli inglesi
apprezzano la possibilità di fare affari, si compiacciono della propria
scaltrezza nel baratto e sorridono dell’ingenuità altrui. Barlow non
nasconde l’inequità degli scambi, ma pare darla per scontata. Registra con
soddisfazione che gli indigeni erano ben lieti di cedere venti pelli per un
“lucente piatto di stagno” da appendere al collo a mo’ di scudo o cinquanta
pelli per un “bollitore di rame”, né immagina che i nativi si sarebbero resi
conto ben presto della disparità di valore tra ciò che davano e ciò che
acquisivano.
Le descrizioni etnografiche che si susseguono nella relazione (Id.:
125-7) tendono a sottolineare l’affinità tra inglesi e indiani, che
condividono il codice comportamentale e persino il codice etico: il senso
della gerarchia, la dignità dei capi, il rispetto e l’obbedienza loro tributati,
ma anche la gratitudine, la schiettezza, il rispetto della parola data. Il senso
dell’ospitalità emerge dal delizioso racconto del modo in cui la moglie di
Granganimeo accolse un gruppo di inglesi tra cui Barlow, in missione
perlustrativa nel Pamlico Sound (Id.: 127-9) Ella abitava nell’isola di
Roanoke, in “un villaggio di nove case di cedro, fortificate da pali aguzzi
per difendersi dai nemici, nel quale si entrava tramite un tornello
sapientemente costruito” (Id.: 127): descrizione, questa, confermata dai
disegni che eseguì il colono John White durante la sua permanenza in
Virginia l’anno successivo. Nel vedere gli stranieri la donna “corse loro
incontro accogliendoli in modo molto festoso e amichevole”, impartendo
ordini perché la barca fosse tirata in secco, gli ospiti trasportati a spalle
all’asciutto e i remi ritirati for feare of stealing 508 (Id.: 128) – forse perché
‘tutto il mondo è paese’. In casa le cortesie raddoppiano: mentre gli inglesi
si asciugano davanti al fuoco – acceso nella utter roome (Ibid.), la stanza
cioè più vicina all’ingresso (altro dettaglio confermato dai disegni di
White) – le donne lavano loro gli abiti, le calze e i piedi. Poi il pranzo, nella
inner roome – una delle cinque stanze che compongono la casa, più interna
rispetto alla precedente, ma non la più interna, destinata, quest’ultima, alla
custodia dell’idolo, of whome they speake incredible things509 (Ibid.). La
250
donna ha preparato un vero festino, con carne, cacciagione e pesce cucinati
in vari modi (sodden510 , roasted, boyled), brodo, tuberi, frutta e
furmentie 511 . Il pranzo è interrotto dalla comparsa di alcuni cacciatori,
ancora armati di arco e frecce. La vista degli uomini preoccupa gli inglesi,
per cui la donna, osservando il loro mistrust512 , fa scacciare i malcapitati
fuori dal villaggio. Calando il buio, vorrebbe trattenere gli ospiti, ma essi
rifiutano, con suo vivo dispiacere. Dà loro comunque la cena, cotta a metà,
da consumare in barca. Quando li vede allontanare l’imbarcazione dalla
riva, il dispiacere si rinnova: she perceiving our jelousie, was much
grieved 513 (Id.: 129). Tuttavia manda uomini e donne a passare la notte
sulla spiaggia di fronte all’imbarcazione. Infine, incominciando a piovere,
fa pervenire agli inglesi cinque stuoie di protezione e rinnova la sua
preghiera perché trascorrano la notte in casa. Inutilmente. A questo punto
Barlow sente il bisogno di spiegare i motivi della diffidenza propria e dei
compagni, ma nel contempo riconosce che essa era ingiustificata, poiché
“non esiste al mondo, per quanto abbiamo sperimentato noi, gente più
buona e gentile” (Ibid.). L’affernazione ribadisce quanto il diarista aveva
poco prima dichiarato: We found the people most gentle, loving and
faithfull, voide of all guile 514 and treason, and such as live after the maner
of the golden age.515 (Id.: 128)
Il brano disegna l’interno di una casa indigena, con le stanze
adibite ad usi diversi, il focolare, la panca appoggiata alle pareti, il
vasellame, l’idolo conservato nel recesso più nascosto; illustra il
modo in cui si esercita l’ospitalità indigena, annotando gesti di
tradizione universale e di antico valore sacrale, come la lavanda
dei piedi; tributa riconoscimento alla qualità della cucina, segno
fa immediatamente pensare che, mentre il capo indiano non ebbe timore degli
inglesi in armi, gli inglesi si spaventarono. Egli rimase immobile; loro si protesero
verso le armi. Tutto comprensibile.
513 rendendosi conto dei nostri sospetti, si addolorò molto.
514 guile = deceit (inganno).
515 Trovammo la gente molto affabile, affettuosa e leale, ignara del concetto di
inganno e tradimento, come coloro che vivono secondo i costumi dell’età dell’oro .
251
indiscusso di civiltà (si pensi, per contrasto, al disgusto dei
viaggiatori davanti all’abitudine eschimese di consumare carne e
pesce crudi) e infine tratteggia la figura di una impareggiabile
padrona di casa. Donna di rango, circondata da stuoli di persone ai
suoi comandi, accoglie gli stranieri come amici di vecchia data, li
colma di premure materne, ne compatisce sospetti e apprensioni,
cercando di rimuoverne le cause. (Rossi, 1986: 155)
fatica o sforzo.
252
dipingere le terre del futuro insediamento e i loro abitanti con i colori più
rosei, le tinte più affascinanti. L’aveva già fatto Colombo; ora lo ripete
Barlow. Il mito, però, si sgretola a contatto con la storia, che impone le sue
leggi, come quella di cancellare i toponimi indigeni e di sostituirli con nomi
tratti dalla cultura dei coloni: non più Wingandacoa ma Virginia.
L’innocenza finisce quando nell’isola di Hatteras gli spari degli inglesi
disperdono le gru vocianti o quando un piatto di stagno è valutato venti
pelli.
522 La terra migliore sotto la volta del cielo […] il territorio più bello al mondo.
Così la qualifica Thomas Hariot, il matematico e scienziato membro della
spedizione del 1585, che compose il True Report of Virginia (1588), il documento
più attendibile ed esauriente sull’area nota agli inglesi, che completa e suffraga i
disegni di John White, membro della stessa spedizione.
253
1618)523 , uomo d’azione costretto all’inazione, distolse i suoi pensieri dalla
Virginia per concentrarli tutti sul mitico, ricchissimo impero di El
Dorado524 , sede di una seconda civiltà inca, situato ad est delle Ande, tra i
bacini dell’Orinoco e del Rio delle Amazzoni. Le informazioni
documentarie ottenute da Raleigh negli anni ’80-’90 circa i numerosi
tentativi compiuti dagli spagnoli per raggiungere El Dorado
progressivamente restrinsero il campo al grande altopianodella Guiana
(che oggi corrisponde alla zona meridionale del Venezuela), raggiungibile
via terra, attraverso le foreste costiere, o via fiume, dal bacino dell’Orinoco
(Quinn, 1973 [1947]: 129).
L’oro sudamericano diventò per Raleigh un’idea totalizzante e
ossessiva, corroborata da un odio viscerale per gli spagnoli. Se i metalli
preziosi del Centro e Sudamerica avevano reso potente e temibile il
254
sovrano di Spagna, l’oro di El Dorado, superiore ai tesori fino a quel
momento scoperti nel Nuovo Mondo, avrebbe reso invincibile l’Inghilterra
e danneggiato irreparabilmente la rivale; se, però, fosse stata la Spagna ad
impossessarsene, la sua potenza sarebbe diventata ineguagliabile.
Occorreva dunque precedere Madrid nella conquista della Guiana – che,
pur essendo pensata altra rispetto a El Dorado, con esso si confondeva, in
esso sfumava. Una conquista che avrebbe richiesto un’azione a largo
raggio, patrocinata dallo stato.
Il progetto richiedeva, in primo luogo, che se ne sapesse di più sulla
collocazione di El Dorado e sul modo in cui lo si potesse raggiungere.
Dopo aver inviato nel 1595 una missione ricognitiva che riportò
pochissime informazioni, salpò Raleigh stesso, alla testa di una spedizione
esplorativa, finanziata da molti supporters. Egli contava di arrivare a
Manoa, capitale di El Dorado, e di riportarne un quantitivo d’oro
sufficiente a convincere il governo circa l’opportunità di un intervento di
conquista, ma anche a riguadagnare a se stesso il favore di Elisabetta.
L’uomo d’armi e di cultura inseguiva un mito, è vero, ma un mito non privo
di plausibilità in un’Europa che vedeva giungere dall’America ricchezze
sterminate.
Nella sua relazione egli racconta l’impresa. Attraversò l’Atlantico,
giunse nell’isola di Trinidad, di fronte alla foce dell’Orinoco, distrusse la
postazione spagnola ivi insediata e catturò un anziano gentiluomo, Berreo,
che più di tutti era informato su El Dorado. Lasciate le navi a Trinidad, su
agili barche leggere si avventurò nel delta immenso e tentacolare
dell’Orinoco, dove l’intrico di isole e isolotti disorientava le stesse guide
indiane. Percorse poi un tratto del grande fiume dal quale si scorgeva la
scarpata sul cui altopiano doveva trovarsi El Dorado. Nel corso della
navigazione instaurò buoni rapporti con gli indigeni, presentandosi come
nemico acerrimo degli spagnoli ed emissario di una potente regina disposta
a difenderli dalla rapace malvagità iberica, riscosse simpatia e trovò
consensi al progetto di alleanza antispagnola. Indi si immise su un affluente
dell’Orinoco, il Caroni, nella speranza di individuare un passaggio
attraverso la scarpata, ma fu bloccato da cascate invalicabili. Aveva seguito
il percorso di Berreo e, come lui, si era trovato di fronte a un ostacolo
insormontabile. Riguadagnò allora il delta dell’Orinoco, dove altri capi
indiani si offrirono come alleati nella lotta agli spagnoli e ai feroci abitanti
di El Dorado, qualora fosse tornato con più uomini e mezzi.
255
Fu, quello di Raleigh, un viaggio senza vittime, ma lungo,
faticosissimo, travagliato da cronica penuria di cibo, tormentato da una
calura soffocante. Sia la navigazione fluviale tra vortici, correnti, secche,
scogli e una portata d’acqua sommamente variabile nel corso della
giornata, sia la marcia, spada alla mano, attraverso foreste intricate, sia
infine il clima caldo-umido che guastava il cibo, inzuppava gli abiti di
sudore e drenava le energie di chi era impegnato ai remi o nell’aprirsi un
varco tra la vegetazione, misero a dura prova la resistenza degli uomini. A
ciò si aggiunga la costante frustrazione di dover fronteggiare un miraggio,
El Dorado, che arretrava di pari passo al penosissimo avanzare degli
uomini, e di non poter mettere le mani sull’oro che, presente ovunque e
ovunque visibile, sfuggiva loro.
A questo punto Raleigh volse le prue verso l’Inghilterra. Fu un
triste ritorno: senza oro e senza certezze suffragate da prove. Per
convincere l’opinione pubblica e la Regina che la Guiana meritava
un’azione di conquista e che El Dorado avrebbe regalato all’Inghilterra ,
con l’oro, il predominio in Europa, scrisse il più complesso e affascinante
resoconto di viaggi, The Discoverie of the Large, Rich, and Beautifull
Empire of Guiana [gai’ænə], edito nel 1596525 , poi incluso nelle Principal
Navigations (1598-1600) di Hakluyt.
La Discoverie è interessante sia sul piano storico sia su quello
letterario. Secondo Holmes, 2005, essa propone un modello coloniale
alternativo a quello spagnolo, non di assoggettamento ma di alleanza, non
di rapina ma di scambio. Il modello, che si intravede anche nella relazione,
era stato elaborato in un documento anonimo, Of the Voyage for Guiana,
edito solo nel 1928 (Ralegh, 1928)526 . Gli inglesi, in quanto alleati degli
256
indigeni, si impegnavano a rifornire i nativi di armi e ad addestrarli all’uso,
ad aiutarli a riconquistare il Perù e ad instradarli verso la civiltà .
Chiedevano, in cambio, il riconoscimento formale dell’autorità di
Elisabetta e la possibilità sia di estrarre minerali e perle da fiumi e miniere ,
sia di insediare colonie in zone fertili del Paese. Alla luce dello spirito del
tempo (e del passo Per concludere […], citato a p. 264), è plausibile leggere
nella proposta di ‘scambio’ un esempio dell’ipocrisia europea, anche se
dalla Discoverie emergono una profonda indignazione per la brutalità
spagnola in America, ampiamente condivisa in Inghilterra, e una spiccata
benevolenza verso gli indigeni, sentiti come individui, la cui nota centrale
non è l’alterità rispetto agli europei, ma la somiglianza. Si veda, ad
esempio, quanta attenzione e umana simpatia traspaiono da questo ‘portrait
of a lady’:
[…] in all my life I have seldome seene a better favoured527
woman. Shee was of good stature, with blacke eyes, fat of body,
of an excellent countenance 528 , her haire almost as long as her
selfe, tied up againe in pretie knots 529 , and it seemed shee stood not
in that awe of her husband as the rest530 , for shee spake and
discoursed, and dranke among the gentlemen and captaines, and
was very pleasant, knowing her owne comelinesse, and taking
great pride therein. I have seene a Lady in England so like to her,
as but for the difference of colour, I would have sworne might have
beene the same.531 (Rossi, 1986: 180)
attraente: era piuttosto alta, con occhi neri, ben pasciuta e con un bellissimo
portamento; i capelli, lunghi quasi fino ai piedi, erano ripresi e intrecciati con
grazia, e pareva che non avesse quel timore del marito che dimostravano gli altri,
perché parlava e discorreva, e beveva in mezzo ai gentiluomini e ai capitani con
modi assai piacevoli, conscia delle proprie attrattive e orgogliosa di saperle usare.
La somiglianza con una gentildonna da me vista in Inghilterra era tale, che se non
fosse stato per la pelle di differente colore avrei giurato si trattasse della medesima
persona.
257
clima o il valore dei prodotti (zucchero e coloranti, cotone e pepe), lo fa
per adeguarsi a una tematica consueta. Raleigh esprime il suo pensiero
autentico, da mercantilista ante litteram, là dove afferma: Where there is
store of gold, it is […] needlesse to remember other commodities for
trade532 (Id.: 179) Del resto una frase rivelatrice dichiara, senza mezzi
termini, il fine ultimo dell’impresa, accuratamente celato agli indigeni: as
yet our desire of gold, or our purpose of invasion is not knowen to them of
the empire […]533 . (Hakluyt, 1962 [1908]: VII, 335)
La Discoverie è, inoltre, il primo documento inglese a illustrare il
processo di insediamento attraverso un discorso di genere 534 . Ecco un passo
famoso della Discoverie (Documenti: 347), nella traduzione di Marenco
(1990: 540):
Per concludere, la Guiana è una terra la cui verginità non è stata
ancora mai violata, mutata o piegata con la forza; la sua
superficie535 non è ancora stata lacerata, né la virtù generatrice e il
sale del suolo esauriti dalle coltivazioni; le tombe non sono mai
state aperte per cercarvi oro, le miniere mai forzate a colpi di
maglio, gli idoli sacri mai rovesciati e trascinati fuori dai templi.
Non è mai stata invasa da alcun esercito agguerrito, né l’ha
conquistata alcun principe cristiano proclamandola sua.
532 Dove c’è oro in abbondanza, è di fatto superfluo ricordare altri prodotti utili per
il commercio (Id.: 539).
533 Poiché invece il nostro desiderio di oro e il nostro piano di conquista non sono
258
indigeni e delle cose di loro proprietà, e controllò che i suoi facessero lo
stesso. Esso si sarebbe effettuato al momento della conquista: uno stupro
realizzato da uomini ma ordinato da una regina che si fregiava della sua
verginità.
Dal punto di vista letterario, la Discoverie si presenta come un
ampio resoconto, preciso e documentato536 , articolato in una serie di storie
entro la storia che potenziano la dimensione diegetica dell’opera. La
storia cornice è quella raccontata da Raleigh. Essa ospita, al suo interno, le
vicende di quanti hanno tentato di raggiungere, o hanno raggiunto, El
Dorado: sette spagnoli, tutti puntualmente nominati, accomunati da un
obiettivo fallito e da una successiva tragedia, il fantomatico Juan Martinez,
di cui si parlerà in seguito, e lo stesso Berreo che, reduce da una sequela di
fallimenti, supplicò Raleigh di desistere dall’impresa per le troppe e troppo
grandi difficoltà che essa comportava.
Scritta per fini suasori, non convinse nessuno (se non i lettori, che
ne decretarono il successo con la richiesta di due ristampe), perché
proponeva un’impresa dubbia537 anzitutto, troppo rischiosa e non
commisurata ai modesti risultati probatori raggiunti dal viaggio
esplorativo.
Elementi fiabeschi, gentili o orrifici, si affacciano dalle pagine
della Discoverie. E’ la volta ora dei bellissimi indigeni costretti dalle piene
del fiume ad abitare aeree città costruite sugli alberi, ora di un’intera
nazione di raccapriccianti acefali che, confermando i fabulistici racconti di
Mandeville538 , are reported to have their eyes in their shoulders, and their
mouthes in the middle of their breasts, and that a long traine of haire
groweth backward betweene their shoulders 539 , ora delle Amazzoni ornate
ciuffo di capelli che gli cresce sul dorso, fra le spalle (Marenco, 1990: 522).
539 John Mandeville è il presunto autore di un’opera in anglo-normanno della metà
del Trecento, Travels, che si offre come resoconto dei viaggi dell’autore in
259
d’oro, che rinverdiscono la tradizione di donne fiere e marziali. Suona
fiabesca anche la storia di chi, per primo, raggiunse Manoa, lo spagnolo
Juan Martinez: costui, in punto di morte, rivelò di aver trascorso sette mesi
nella città inca, ospite dell’imperatore, e di averla lasciata carico di doni,
di cui fu poi depredato540 .
A ben vedere, contro le intenzioni di Raleigh, la Discoverie si
snoda come un romance o come una fiaba 541 , che, analizzata con gli
strumenti di Vladimir Propp (Morfologia della fiaba, 1966) contempla un
eroe quale soggetto della quest (Raleigh, io narrante), un luogo e una cosa
quali oggetti della quest (El Dorado e l’oro), un aiutante dell’eroe (Berreo)
e alcuni antagonisti (il fiume, la foresta, il clima). Come quella di Calidore,
il cavaliere della Cortesia, eroe del VI libro della Faerie Queene, la quest
di Raleigh è avviata ma non portata a termine. El Dorado arretra di pari
passo al penosissimo avanzare degli uomini, sempre vicina, sempre
beffardamente irraggiungibile. Gli indigeni assicurano che è a pochi giorni
di cammino, appena al di là di una cerchia di monti. Gli inglesi credono e
continuano ad andare avanti, finché lo scrosciare di una immensa cascata
non pone definitivamente fine alla ricerca. Anche l’oro elude chi lo cerca
– e lo cerca con una tensione resa ancora più forte dalla necessità di tenerla
nascosta, onde non compromettere l’esito di una eventuale spedizione
futura. Il metallo riluce dai monili degli indigeni, accende dei suoi bagliori
le pietre dei colli, giace nel letto dei fiumi, all’interno delle tombe, dietro
le pareti inviolabili dei monti, ma si sottrae a Raleigh o inganna i suoi
uomini con il fasullo luccichio della pirite. Per rispetto dei nativi, per
mancanza di strumenti, per assenza di tempo, sull’oro egli non può mai
mettere le mani, anzi, onde convincere gli amerindi che il metallo non lo
interessa affatto, distribuisce monete con l’effigie di Elisabetta. Come
emerge da questa pagina bellissima (Documenti: 327),
Mai vidi una terra più bella, vedute più varie, colline più
gradevolmente sparse qua e là nelle vallate, il fiume serpeggiante
diviso in tanti rami, le pianure circostanti, sgombre da cespugli e
piante spinose, erano coperte di un’erba verde e piana, il suolo di
per punizione, in una canoa alla deriva sul fiume, fu intercettato da alcuni abitanti
della Guiana, e condotto, bendato, di città in città fino alla capitale.
541 Così è stata letta in Rossi, 1986: 180-2.
260
sabbia dura agevole a percorrersi a piedi o a cavallo, con i cervi
che attraversavano ogni sentiero, e gli uccelli che verso il tramonto
cantavano su ogni albero mille melodie diverse, e gru e aironi dalle
penne bianche, rosso scuro e rosato, appollaiati sulla riva del
fiume, mentre l’aria era rinfrescata da una gradevole brezza di
levante e ogni pietra che ci chinavamo a raccogliere prometteva
all’aspetto oro e argento (Marenco, 1990: 521) (il corsivo è mio),
542 Il saggio – che in età moderna nasce, e raggiunge il massimo delle sue
261
modo nasca e si propaghi l’errore e compila un “calendario degli errori
popolari” che si verificano nei diversi ambiti conoscitivi. Se Bacon e
Browne con la loro fiducia nella conoscenza reagiscono ai dubbi e allo
scetticismo dell’Età della Crisi, riporta a un clima di incertezza la
popolarissima, enciclopedica Anatomy of Melancholy (Autopsia della
malinconia) (1621) di Robert Burton (1577-1640). Meglio di qualsiasi
altra opera del tempo, il trattato di Burton spiega lo stato di smarrimento
che colse gli intellettuali con l’attacco al sistema astronomico tolemaico,
quando, come aveva scritto John Donne nel 1611, new Philosophy calls all
in doubt543 . L’Anatomy analizza una delle forme abnormi di squilibrio della
psiche, quella ‘Elizabethan malady’544 che, unendo anima e corpo in un
rapporto biunivoco, affliggeva gli intellettuali quando “l’acedia […]
paralizza[va] l’attività del corpo e della mente” (Anzi, 2000: 87). La
singolarità di Burton, ironico – e pietoso – osservatore dell’umana follia
oltre che grande erudito, emerge anche dal linguaggio, esasperante
coacervo di citazioni latine, di riferimenti, di nomi, per il quale egli fa
candidamente ammenda nella prefazione, nonché dal bellissimo
frontespizio dell’opera, dove una serie di riquadri presenta, in forma
emblematica, gli attributi e i sintomi della malinconia.
Scrive in latino Thomas Hobbes (1588-1679), ma compone in
inglese il suo capolavoro, Leviathan (Il Leviatano)545 (1651), che nasce da
una visione drammaticamente pessimistica dell’uomo, essere per natura
asociale, egoista, violento, teso solo alla propria autoconservazione. Nel
Leviatano Hobbes fa l’apologia del governo assolutistico (assolutistico non
per diritto divino ma per patto sociale, stipulato dai sudditi tra di loro546 ),
quale unico mezzo a disposizione degli uomini per sottrarsi alla ferocia
dello stato di natura, dove impera la guerra di tutti contro tutti. John Locke
(1632-1704), segnando l’avvento di una concezione democratica della
filosofia, lontana da ogni dogmatismo e improntata alla ragionevolezza,
ma che nelle Scritture designa (già nella pagina del Libro di Giobbe, 40-41) un
mostro terribile e potentissimo – è in Hobbes metafora dello s tato, che accentra in
sé tutti i poteri.
546 I sudditi si accordano per demandare tutti i propri diritti a chi governa (s ovrano
o assemblea).
262
scrive in inglese, e in un inglese accessibile, tutte le sue opere principali,
tra cui il famoso Treatises of Government (Trattati sul governo) (1690),
che confuta la teoria del diritto divino, rifiuta il concetto di un sovrano al
di sopra della legge, dichiara che l’autorità poggia su un contratto
(revocabile) tra i sudditi e chi li governa e che la divisione dei poteri
garantisce lo stato di diritto, proclama gli uomini liberi e uguali.
Il linguaggio di Locke è, si diceva, accessibile e fluido. Del resto,
già dal primo Seicento e ancor di più dopo la fondazione della Royal
Society (1662), la scrittura prosastica inglese si avvale per lo più 547 di un
linguaggio lineare, vigoroso, flessibile, chiaro che tende a farsi leggere da
tutti. Lo dimostrano l’ampia letteratura di viaggi548 , che ha come sfondo
l’Europa, l’Oriente, l’America e coniuga realismo e romance, i diari e gli
epistolari che, registrando eventi quotidiani, ci consentono di seguire la
vita della gente ora negli anni relativamente tranquilli di inizio secolo, ora
in quelli devastanti della Guerra Civile, e che quindi rappresentano forse
la produzione più viva di questo periodo.
Non un diario, ma comunque il testo squisitamente personale di un
uomo che pone al centro del discorso se stesso, il proprio temperamento,
la propria fede, la propria professione di medico, è rappresentato dalla
Religio Medici (1642) di Sir Thomas Browne, che proclama i valori
supremi della tolleranza, della libertà e della carità cristiana.
Nel periodo della rivoluzione e del Commonwealth (1640-1660,
anche se di fatto le ostilità tra re e parlamento iniziarono nel 1642) lo
scontro tra le parti si esprime, naturalmente, anche per via letteraria. Per
vent’anni, come si è visto, John Milton compose pamphlets a sostegno
della causa puritana. Nell’Areopagitica 549 (1644), appassionata arringa di
stampo classico in difesa della libertà di stampa, egli si batte contro la
censura preventiva dei libri, da poco reintrodotta, convinto che la verità
263
emerga solo dal libero dibattito e che l’uomo debba essere libero di
distinguere tra i libri buoni e cattivi. La virtù è autenticata soltanto dopo
essere stata sottoposta a prove, come è accaduto (dice Milton) a Guyon, il
cavaliere della Temperanza, che nella caverna di Mammone 550 e nel Bower
of Bliss fu tentato ma seppe resistere. Il concetto ritornerà nella perorazione
di Eva ad Adamo perché le consenta di correre il rischio di esporsi, da sola,
alla tentazione: And what is faith, love, virtue, unassayed […]? (Paradise
Lost, IX, 335).
Dopo che Carlo I fu messo a morte, lo scontro letterario tra i
sostenitori del Parlamento e quelli della Corona si fece ancora più aspro.
Bastino un paio di esempi. Il popolarissimo Eikon Basilike (Ritratto del
Re), che, edito poco giorni dopo l’esecuzione, si presenta come il resoconto
dei pensieri e delle preghiere del sovrano martire, trovò immediata,
puntuale confutazione nell’Eikonoklastes (L’iconoclasta) di Milton, uscito
nello stesso 1649. Alla ideologia filomonarchica e assolutistica espressa da
Hobbes nel Leviathan del 1651 si contrappose la dottrina filorepubblicana
di The Tenure of Kings and Magistrates (Il contegno dei re e dei
magistrati), nel quale Milton dimostrò che il potere del sovrano dipende
dal popolo e che il popolo è legittimato a deporre e mandare a morte il
sovrano se i magistrati non vi abbiano provveduto551 .
Il ritorno sul trono di Carlo II nel 1660, mentre lasciò Milton
amareggiato ed esposto a pericoli di rappresaglie, pose fine a questo
dibattito, pur aprendone di nuovi, religiosi e politici552 , ma non vide il
tramonto degli ideali puritani, consegnati alla storia della letteratura
dall’opera popolarissima di John Bunyan (1628-1688), The Pilgrim’s
Progress (Il viaggio del pellegrino) (1678). Nell’impostazione onirica e
allegorica (narra di una visione avuta in sogno dall’io narrante), il testo
rinvia alla tradizione medievale; nella struttura del viaggio, pellegrinaggio
scandito da pericoli e tentazioni, richiama l’esperienza di Guyon, l’eroe del
II libro della Faerie Queene ; nel linguaggio semplice, immediato e
realistico si proietta verso il romanzo.
550 Nella caverna del dio della ricchezza Guyon è sottoposto alle tentazioni
dell’oro, dell’ambizione e dell’orgoglio (Faerie Queene, II, vii).
551 Nel decennio del Commonwealth ai pamphlets filomonarchici rispose sempre
264
Il ripristino della monarchia dopo l’esilio di Francia e l’influenza
della corte comportarono, sul fronte letterario, da un lato la satira del
fanatismo e la sua sconfitta ad opera di un wit che corrisponde, almeno in
Dryden, alla fantasia, dall’altro l’adesione agli ideali di eleganza,
compostezza, equilibrio, razionalità tipici del Grand Siècle.
L’immediata riapertura dei teatri – rimasti chiusi dal 1642 per
volontà di un parlamento che si era fatto interprete dell’avversione puritana
a ogni forma di spettacolo – ebbe come conseguenza che, in attesa di testi
nuovi, venissero portati in scena i drammi elisabettiani. Essi, peraltro, non
rispondendo a un modello culturale che privilegiava la regolarità, il decoro,
la verisimiglianza e la raffinatezza, dovettero essere ampiamente
modificati, anzi ‘migliorati’. Shakespeare stesso, emblema del teatro
inglese, fu una presenza scomoda nella Restaurazione: gli si riconoscevano
grandezza e originalità, ma gli si imputavano irregolarità e cattivo gusto.
Chi mise a fuoco i problemi del teatro con chiarezza, onestà critica e
indipendenza di giudizio fu John Dryden (1631-1700), riconosciuto
capostipite della critica inglese. Nel suo capolavoro Of Dramatic Poesie,
An Essay (Saggio sulla Poesia drammatica) (1668), costruito sul modello
del dialogo ciceroniano553 , quattro personaggi espongono i meriti
rispettivamente del teatro antico e di quello moderno, del dramma francese
e di quello inglese contemporanei. Composto da Dryden in difesa della
propria produzione teatrale, il saggio addita, quali inevitabili punti di
riferimento, i grandi del passato, da Shakespeare a Jonson a Fletcher. Di
Shakespeare non si limita a fare l’elogio, ma tenta di “definire […] la sua
grandezza di poeta” (Lombardo: 1960: 160). In un passo famoso554 scrive:
Di tutti i poeti moderni, e forse antichi, fu colui che aveva l’animo
più grande e capace di tutto abbracciare555 . […] Chi lo accusa di
avere avuto scarsa cultura, gli fa la lode maggiore: egli era
naturalmente colto; per leggere la Natura non aveva bisogno dei
libri come occhiali; guardava dentro e la trovava. […]
553 Se il dialogo platonico si caratterizza per i frequenti scambi di opinione tra gli
interlocutori, il dialogo ciceroniano procede per ampie sezioni didascaliche
affidate agli interlocutori stessi.
554 Norton Anthology, 2001: 913.
555 Capace di cogliere le personalità più diverse, egli prospetta una visione totale
della realtà.
265
Se l’intuizione di Dryden aprì la strada alla grande critica del ’700, la
Restaurazione (1660-1700), con i suoi ideali e i suoi dibattiti, preparò
l’avvento dell’Illuminismo. L’epoca del primato della ragione come
strumento di conoscenza, del diritto naturale e della tolleranza,
dell’avversione al fanatismo, al dispotismo e alle religioni “positive”, della
libertà di critica alla tradizione, fu in Inghilterra l’era della prosa.
266
III. 4 Il novel, Daniel Defoe e Robinson Crusoe
556 Human Understanding, Bk iii, Ch. 10, Sect. xxiii, citato in Ian Watt, 1957: 33.
267
picaresco, nel finale ambientato in una Roma gravida di orrori, a Jack of
Newburie (?1597-?1600) di Thomas Deloney, apoteosi dell’artigiano
laborioso e saggio, che si costruisce una fortuna –, poi i resoconti di viaggi,
di esplorazioni e d’insediamenti coloniali, assemblati in monumentali
raccolte, in terzo luogo sia la letteratura dell’underworld, gustosa
illustrazione delle modalità con cui il sottobosco della microcriminalità
londinese truffava i campagnoli arrivati in città, sia le relazioni scritte dai
condannati a morte in attesa dell’esecuzione, infine le memorie e i diari
puritani, in cui il peccatore o, più spesso, la peccatrice racconta la propria
conversione oppure mette a nudo il proprio io sottolineando qualsiasi
deviazione dal retto sentiero con propositi di catarsi personale, di
ammaestramento per se stesso, di monito per il lettore.
Tracce dei precursori del novel si colgono nel primo557 romanzo
inglese, il Robinson Crusoe (1719) di Daniel Defoe (1660-1731): esso è
anzitutto un resoconto di viaggio e di avventure, poi la storia di un
individuo costretto a una vita precaria, esposto a pericoli e a timori, che,
rendendosi conto delle proprie colpe e della benevolenza divina, cambia il
suo modo di concepire l’esistenza; infine si configura come l’apoteosi
dell’inglese della middle class che, posto in condizioni di vita proibitive su
un’isola deserta e sperduta, con tenacia, ingegno e straordinaria manualità,
domina l’ambiente avverso e lo fa proprio.
Esaminiamo rapidamente i principali eventi della vita –
movimentata e a fasi alterne – del suo creatore, Daniel Defoe. Questi
nacque a Londra nel 1660 da un’agiata famiglia di commercianti, sul fronte
religioso dissidenti (dissenters) – termine che denota l’appartenenza a una
setta di non conformists, separatisi dalla Church of England nel desiderio
di modificare la chiesa di stato in senso più marcatamente protestante.
Impedito, in quanto dissenter, di frequentare l’università, ricevette
un’ottima educazione presso una scuola di taglio moderno, con ampio
spazio dedicato alle lingue, alla scienza e alla filosofia del tempo. Dopo
557 Sono tra coloro che non ritengono si possa considerare romanzo realistico
borghese Oroonoko, or The History of the Royal Slave (Oroonoko, o la storia dello
schiavo reale) (1688) di Aphra Behn – nonostante sia presentato come il resoconto
dell’esperienza di prima mano di un eye-witness (testimone oculare) – per i troppi
elementi tipici del romance che esso presenta: l’idealizzazione degli eroi del bene
che rischia l’inverosimiglianza, l’esasperazione delle situazioni, il cumulo di
orrori in contrapposizione all’idea aprioristica dell’esistenza di un mondo utopico
perfetto.
268
aver pensato di abbracciare la carriera ecclesiastica, si buttò a capofitto nel
mondo degli affari e dell’imprenditoria, conseguendo esiti alterni, ora
disastrosi ora fortunati, per poi svolgere altre disparate mansioni, tra cui
quella di agente segreto per conto del governo. La sua attività centrale
quale scrittore estremamente prolifico (il numero di opere a lui ascritte
arriva quasi a 400) si svolse, però, nell’ambito della pamphlettistica e del
giornalismo, soprattutto politici (le sue simpatie andavano ai whig) ed
economici, spesso di piglio polemico o satirico. Lo attesta The Shortest
Way with the Dissenters (Il modo più facile per sbarazzarsi dei
“dissenzienti”) (1702), in cui, attaccando la politica degli estremisti
conservatori nei confronti dei dissidenti, ironicamente suggeriva di
adottare provvedimenti radicali nei confronti di questi ultimi – opera che
gli attirò le critiche dell’una e dell’altra parte, lo portò in carcere e lo espose
alla gogna. A The Shortest Way fece seguito un intenso impegno
giornalistico negli anni (1704-1713) in cui egli redasse, praticamente da
solo, il settimanale politico-economico A Review of the Affairs of France
(Rivista degli affari di Francia), che dimostra le sue doti di pensatore
politico e di esperto di economia. Rendendosi tuttavia conto che il pubblico
sarebbe stato attratto da argomenti più leggeri, dedicò una sezione del
settimanale, intitolata ‘Mercure Scandale’, al commento delle notizie del
giorno, a considerazioni intorno a usi e costumi – assurgendo da questo
punto di vista a predecessore del giornalismo salottiero e moralistico di
Richard Steele e Joseph Addison558 . Negli anni 1713-14, quando infuriava
la polemica tra i sostenitori whig dell’avvento degli Hannover al trono
d’Inghilterra e quelli del ramo giacobita (tutti tories), rappresentato da
Giacomo Edoardo, figlio di Giacomo II, Defoe scrisse dei pamphlets
contro i giacobiti. L’ascesa di Giorgio I nel 1714 portò alla formazione di
un nuovo governo whig, a favore del quale Defoe si adoperò energicamente
– prima di dedicarsi alla narrativa per quella che fu la sua carriera più
brillante. Nel 1719, quando aveva quasi sessant’anni, scrisse The Life and
Strange Surprizing Adventures of Robinson Crusoe (La vita e le strane,
sorprendenti avventure di Robinson Crusoe), epica dell’uomo che trascorre
ventotto anni su un isola deserta e che, grazie a un impegno indefettibile e
a un altrettanto indefettibile senso pratico, domina la natura e crea per sé
condizioni di vita accettabili. Il successo fu tale che vi fece seguito, a breve
558 Steele e Addison, che composero e diressero rispettivamente The Tatler (Il
chiacchierone) e The Spectator (Lo spettatore), due periodici di inizio ’700, sono
da considerarsi i veri inventori del genere giornalistico.
269
distanza, The Farther Adventures of Robinson Crusoe (Le ulteriori
avventure di Robinson Crusoe). Nel giro di pochissimi anni, mentre
continuava infaticabile la sua attività di trattatista che si protrasse fino alla
morte (1731), sulla falsa riga di Robinson Crusoe Defoe compose una serie
di autobiografie immaginarie, dichiarate veritiere e rese tali, agli occhi
dell’affascinato lettore, dal vigore della scrittura e dal cumulo di dettagli
realistici con cui costruisce un’illusione di realtà: Captain Singleton
(1720), che racconta le avventure di un pirata, Moll Flanders (1722), storia
di una ladra deportata in Virginia, dove diventa la ricca proprietaria di una
piantagione, A Journal of the Plague Year (La peste di Londra) (1722),
racconto intenso e drammatico della Great Plague (grande pestilenza)
londinese del 1664-5, attribuito a un abitante della capitale, Colonel Jack
(1722), imperniato su un ladro e disertore che, spedito in Virginia, diventa
un ricco colono, Roxana (1724), storia di una donna che conclude in
prigione una vita di intrighi ed inganni, e Memoirs of a Cavalier (Memorie
di un cavaliere) (1724), resoconto delle imprese militari di un gentiluomo
inglese del Seicento, coinvolto nelle guerre continentali e successivamente
nella Rivoluzione inglese.
Come si è accennato sopra, ispirò il capolavoro di Defoe, Robinson
Crusoe, il resoconto di una straordinaria avventura, capitata a uno
scozzese, tale Alexander Selkirk – che nel corso di una spedizione piratesca
era stato abbandonato su di un’isola al largo del Cile dove era vissuto
quattro anni in totale solitudine – e resa di pubblico dominio dal giornalista
e drammaturgo Richard Steele.
Il romanzo di Defoe rappresenta anzitutto una risposta alle
opportunità che offriva il mercato librario del primo Settecento. Fu scritto
infatti per ragioni squisitamente economiche, concepito in modo di venire
incontro alle richieste dei lettori – tra cui il numero di alfabetizzati era
molto cresciuto – e prospettato quale autobiografia – Written by Himself
(Robinson Crusoe, 2003: 1), dove l’espressione sigilla il lungo frontespizio
– condita di elementi strange e surprizing559 , che intervengono a coronare
l’epilogo, quasi ossimorico, della vicenda dell’eroe, strangely deliver’d by
Pyrates. Elementi strani a incominciare dalla situazione di partenza, quella
di un uomo (di cui sono indicate provenienza e occupazione) che trascorse
ventotto anni all alone, come si dichiara enfaticamente, su di un-inhabited
Island (l’espressione accentua il senso di solitudine) – che, in nome della
559Non viene fornita la traduzione dei passi tratti da Robinson Crusoe poiché la
versione del romanzo è facilmente reperibile.
270
precisione realistica, viene subito localizzata sugli atlanti del tempo, al
largo della costa americana, near the mouth of the Great River Oroonoque
(chissà che Defoe non abbia scelto quel fiume nel ricordo dell’eroe
eponimo del racconto di Aphra Behn, Oroonoko!). La solitudine dell’eroe
è ribadita nelle righe successive del frontespizio: Having been cast on
Shore by Shipwreck, where-in all the Men perished but himself, dove nel
dramma corale si delinea una sorte di miracolosa, elitaria sopravvivenza.
L’autenticità dell’opera è posta in evidenza nella Prefazione: a just history
of fact senza any appearance of fiction in it (3), in ottemperanza alla
convinzione puritana che soltanto le storie autentiche potessero avere corso
di stampa. Nella stessa prefazione si evidenzia la finalità morale e
didascalica dell’opera, concepita come esemplare to the instruction of
others e chiamata a justify and honour the wisdom of Providence: altra
ragione che, in ottica puritana, autorizza la pubblicazione dell’opera.
Il romanzo, che si apre sull’irrequieta gioventù dell’io narrante e
ne segue le varie tappe per costruirne il carattere, si definisce subito come
l’autobiografia di un uomo anziano, che rievoca il passato. Le prime pagine
affrontano la diatriba tra il giovane Robinson di York, la cui unica
aspirazione è quella di cercare il senso della propria vita sul mare, e i
genitori, che gli prospettano un’esistenza sicura e ordinata nella fascia
sociale in cui egli è cresciuto. Il ragazzo non ascolta e in un’ora nefasta si
imbarca. A questo punto egli si connota come il ribelle, sordo a consigli e
suppliche – che tuttavia la sensibilità moderna rivaluta come l’individuo
contrario a farsi tracciare la vita da altri. Le prime navigazioni sono
funestate da tempeste e terrori per il neofita, che nel rischio sgrana voti e
promesse per poi puntualmente rimangiarseli. Tra superficiale baldanza e
irrisolutezza dei propositi Robinson è tentato di fare ritorno a casa, ma lo
trattengono l’orgoglio e la smania incoercibile di migliorare le sue
condizioni economiche, the wild and indigested notion of raising my
fortune (15). Il figliol prodigo sogna libertà da una vita precostituita e,
insieme, ricchezza. Un viaggio fortunato (in cui egli apprende l’arte
nautica e quella della mercatura) lo conferma nei suoi ambiziosi progetti,
ma la spedizione successiva si conclude con un disastro, che lo riduce
schiavo di un avventuriero – piccolo assaggio (commenta il narratore, che
si preoccupa di stimolare la curiosità del lettore e la sua empatia) di future
sciagure: but a taste of the misery I was to go thro’ (17). Se la schiavitù
rivela l’elasticità di Robinson nell’adattarsi a circostanze sfavorevoli, gli
eventi successivi ne denotano la capacità di premeditazione e
271
l’avvedutezza, mentre ne confermano la mentalità utilitaristica. Grazie a
un piano astuto fugge dalla schiavitù su una barca con un giovane
musulmano, Xuri, veleggia lungo l’Africa, dove incontra belve e autoctoni,
viene intercettato da una nave portoghese e condotto in Brasile. Lascia
allora il mare per occuparsi di una piantagione di canna da zucchero in una
prospettiva di vantaggi economici; per denaro si separa dal giovane moro,
devoto compagno di fuga; per desiderio di profitto si impegna anni dopo
in una spedizione schiavistica. Il personaggio, ormai costruito nei suoi
tratti essenziali – che troveranno conferma nel seguito della storia – è
pronto per la vicenda essenziale con cui si conclude la prima parte del
romanzo (un romanzo, si noti, senza scansione in capitoli, salvo per la
breve parentesi del diario, Journal): una tempesta equatoriale spinge la
nave fuori rotta, l’arena su una secca e induce gli uomini, atterriti e
disorientati, a calarsi in una scialuppa che si rovescia consegnando tutti alla
morte – tutti, salvo Robinson.
Inizia qui la parte più appassionante e famosa del romanzo, quella
in cui Robinson faticosamente supera l’orrore e il terrore connaturati
all’ambiente ignoto e potenzialmente pericoloso grazie a un impegno
improbo ma gratificante: anzitutto recupera dalla nave – che i flutti hanno
spinto verso riva – quanto può servire alla vita (cibo, capi di abbigliamento,
attrezzi, vele, gomene, semi, armi, munizioni, assi…) ma anche posate,
carta, inchiostro, la Bibbia e persino alcune monete; poi con una vela e
qualche palo si costruisce un riparo, all’interno del quale pone un’altra
tenda per proteggersi dalla violenza delle piogge; poi scava una grotta
attigua come cantina (cellar, 49) per le provviste (provisions) e with
inexpressible labour (62) circonda il tutto con una fitta palizzata. Nel
frattempo, esplora l’isola, fabbrica vasellame e rudimentali candele, tiene
un diario in cui annota gli avvenimenti accaduti dall’arrivo nell’isola –
ripetendo nella prima parte in modo conciso quanto il lettore già conosce
dalla versione originale dei fatti – , sperimenta un terremoto e si ammala.
Terrorizzato al pensiero delle proprie condizioni di malato abbandonato a
se stesso, to be sick, and no help (70), scosso da una febbre altissima che
lo strema, si rivolge confusamente a Dio, si riconosce creatura
peccaminosa e bruta, incapace di temere Dio come di essergli grato e,
ispirato da un passo della Bibbia, per la prima volta prega. E’ il momento
della conversione, che modifica il suo approccio alla realtà. Robinson è ora
in grado di valutare non soltanto la precarietà e miseria del suo stato di
prigioniero dell’isola, ma anche la sua condizione di creatura privilegiata:
272
è salvo in un ambiente privo di pericoli, che ora gli appare like a planted
garden (80), è solo in un luogo di cui peraltro è signore, I was king and
lord (Ibid.), e in cui si sente di chiamare home (Ibid.) la sua tenda e la sua
grotta. [B]y hard labour and constant application (85) – motivo, questo,
che ritorna più volte e spiega il successo dell’impresa, a cui Robinson
guarda con legittimo orgoglio – modifica l’ambiente, lo adatta alle proprie
esigenze, lo addomestica: semina, si costruisce una ‘seconda’ casa
(country-house, 82) in un luogo ameno, riesce ad addomesticare, e ad
allevare, un piccolo gregge di capre, che lo forniscono di carne e latte, da
cui ricava burro e formaggio. Non che il dolore e la desolazione non lo
affliggano periodicamente davanti a quella che torna ad apparirgli, nel
quotidiano, an uninhabited wilderness (90), ma una forza nuova lo
possiede: la fede nell’immancabile soccorso divino. E’ questa forza che gli
fa intravedere una felicità inattesa, pur nell’abisso di solitudine e di
abbandono: it was possible for me to be more happy in this forsaken
solitary condition, than […] in any other particular state in the world (91).
Non che non manchino motivi di scoraggiamento: dopo aver costruito con
a prodigious deal of pains (102) una barca nella speranza di lasciare l’sola
per il continente che si intravede all’orizzonte, scopre di non poterla
mettere in acqua per la distanza dal mare e per il dislivello, e quando, anni
dopo, ne fabbrica una più piccola e si avventura sulle onde, l’impresa
rischia di trasformarsi in tragedia.
Quindici anni dopo l’arrivo nell’isola, un periodo di angoscia si
abbatte su Robinson quando, nei suoi vagabondaggi quotidiani, scorge
sulla sabbia l’orma di un piede umano nudo. Poiché ritiene che l’orma non
possa essere che quella di un nemico, domande senza risposta si
accavallano nella sua mente, ipotesi assurde lo sconvolgono, il terrore di
presenze ostili lo divora, il suo antico desiderio di umana compagnia si
trasforma in un incubo. La lettura della Bibbia in prima istanza, poi la
sicurezza progressivamente accertata di essere solo sull’isola lo
rincuorano, mentre si impegna con energia nel mimetizzare e rafforzare la
sua dimora, che ora egli chiama il suo castello (my castle, 122). Due anni
più tardi ha la conferma che l’isola è occasionalmente visitata da indigeni
che vengono a compiervi sacrifici umani e atti di cannibalismo, segno –
pensa Robinson che non ha letto Montaigne – della massima
degenerazione umana: in una zona lontana da quella in cui egli vive,
scopre, infatti, i miseri resti di corpi umani che suscitano in lui un’ondata
di disgusto, una sensazione fisica di orrore. Da quel momento egli elabora
273
progetti su progetti onde riuscire ad avvistare tempestivamente gli
antropofagi, porre in salvo la vittima ed eliminare i cannibali (Crusoe
possiede un vero arsenale di armi), anche se il pensiero di uccidere gente
che non gli aveva fatto del male lo disturba profondamente. Nel frattempo,
adotta norme di sicurezza: per non correre il rischio di essere individuato
né usa più il fucile né accende più il fuoco, in previsione di un assalto
potenzia le difese e dispone strategicamente le armi, mentre si fa strada
nella sua mente l’idea che salvare una vittima del disumano banchetto,
certo un prigioniero dei cannibali, potrebbe procurargli uno schiavo (to get
a savage into my possession; and, if possible, it should be one of their
prisoners, 157) come aiuto e compagnia. Passa più di un anno prima che
la presenza indigena si concretizzi e per un gioco di circostanze favorevoli
il piano di Robinson va in porto: la vittima fugge, Robinson la intercetta e
la salva. Il selvaggio manifesta infinita gratitudine e con gesti eloquenti si
professa suo schiavo. Avendolo salvato di venerdì (per non perdere
coscienza del tempo e disporre di un calendario con finalità pratiche e
spirituali, da sempre egli ha segnato su un palo con delle tacche il
succedersi dei giorni), Robinson gli impone il nome di Friday e si fa
chiamare Master, padrone. Poi, poco a poco, lo introduce nella sua vita e
ai punti chiave della cultura europea (il cibo, gli abiti, l’avversione
all’antropofagia, l’uso delle armi, le manovre nautiche) per scoprire che
never man had a more faithful, loving, sincere servant than Friday was to
me (165). Il rapporto tra i due non diventa mai paritetico, anche se lo
schiavo è ben presto promosso a companion (166); tuttavia in poco tempo
evolve in un legame di affetto reciproco, quasi parentale. Nel frattempo la
comunicazione si realizza in misura soddisfacente, sebbene
approssimativa, al punto che Robinson con sua viva gratificazione riesce
ad accostare Friday al cristianesimo e a fare di lui a good Christian, anzi a
much better than I (174). Gli racconta poi la sua storia e gli parla
dell’Inghilterra. Il rapporto costruito sulla conversazione (poco importa
che Friday si esprima in broken English, 175) made – annota Robinson –
the three years which we liv’d there together perfectly and compleatly
happy (174). La felicità si realizza nella wilderness.
La prospettiva di lasciare l’isola, che ha frequentemente trovato
spazio nei pensieri di Robinson, si fa più assillante quando Friday informa
Robinson che sul continente vivono, in pace con gli indigeni, uomini
barbuti e vestiti. Dopo aver invano cercato di persuadere Friday a separarsi
da lui e a tornare tra la sua gente su una piroga che Robinson si impegna a
274
costruirgli, questi capisce che il suo destino e quello dello schiavo-
compagno sono inscindibilmente legati. Lasceranno l’isola insieme alla
volta del continente. Alla vigilia della partenza un avvenimento sconvolge
il progetto. Una ventina di selvaggi giunge sull’isola per il consueto rito
sacrificale, ma questa volta tra le vittime figura anche un europeo. Il fatto
provoca la reazione violenta di Crusoe che, imitato da Friday, compie una
strage e libera l’uomo, uno spagnolo. Libera poi l’altra vittima potenziale,
che si rivela essere il padre di Friday. La gioia di Friday, le sue affettuosità,
la sua dedizione al genitore commuovono Robinson. Quando questi
apprende dallo spagnolo che una piccola comunità iberica, priva di nave e
di risorse, conduce una vita miserrima sul continente (l’America), egli
pensa sia possibile, coalizzando le forze, costruire una imbarcazione che
consenta a tutti la salvezza e pone quale unica condizione di essere
considerato la massima autorità nell’impresa. Lo spagnolo e il padre di
Friday andranno a trattare sulla fattibilità della spedizione. A una settimana
di distanza uno strano, rocambolesco avvenimento segna la svolta
definitiva della vicenda. Con audacia ed ingegno Robinson consente al
capitano di un vascello inglese, la cui ciurma si era ammutinata, di
impadronirsi della nave e di sedare la rivolta: in cambio lui e Friday
saranno condotti in Inghilterra, mentre gli spagnoli reclutati sul continente
americano rimarranno sull’isola – dove Robinson ha provveduto ad
ampliare i coltivi e a potenziare il gregge. Tutto puntualmente si verifica.
Egli parte, dopo essere rimasto sull’isola ventotto anni.
Rientra quindi in Inghilterra, dove la sua famiglia è quasi estinta.
Si reca poi con Friday a Lisbona dove incassa gli altissimi proventi della
sua piantagione brasiliana. Non potendo trasferirsi in Brasile per la vita, a
causa della differenza di credo religioso (egli è puritano, il Brasile
cattolico), vende la piantagione ricavandone una cifra enorme che in parte
distribuisce a quanti gli hanno fatto del bene. Tornando in patria via terra,
si imbatte sui Pirenei in un enorme branco di lupi affamati, che finiscono
sterminati anche grazie all’aiuto di Friday. A York provvede ai pochi
parenti superstiti, si sposa, ha tre figli ma, alla morte della moglie, è attirato
ancora una volta dal mare e dal desiderio di rivedere la ‘sua’ isola. Lo
aspettano quindi altre avventure che saranno forse oggetto – si dichiara al
termine del volume – di un nuovo resoconto.
Robinson Crusoe è più che un personaggio della fiction, pur tanto
famoso presso un lettorato internazionale di ogni età da imporre il proprio
nome a scapito del nome del suo autore. Come è stato più volte ricordato,
275
è un mito, simbolo of human achievement and enterprise (Watt, 1975:
313). Concepito inizialmente come the ordinary man placed in the most
extraordinary circumstances (Bell, 1996: 30), si manifesta nel corso della
vicenda non come ‘l’uomo comune’560 , everyman costretto a vivere in
solitudine, bensì come il vir, l’uomo dalle doti straordinarie di ingegno,
coraggio (il coraggio si evince dalle molte volte in cui egli trasmette il suo
terrore per riuscire poi a dominarlo), tenacia e intuizione politica, un vir
calato in una situazione estrema, che apre alla sorpresa, al pericolo,
all’angoscia, che sbalordisce e ottunde.
Il testo è affascinante nella sua parte centrale, quella che riguarda
la permanenza di Robinson sull’isola. Non sorprende quindi che proprio
questa sezione dell’opera sia stata alle origini di tanti rifacimenti e
rivisitazioni fino ad oggi, fino al film Castaway di Robert Zemeckis del
2000 e al romanzo Foe di Coetzee del 2003. Se nel Settecento Robinson
Crusoe fu letto come romanzo d’avventure con finalità didascaliche,
destinato peraltro a solleticare lo spirito acquisitivo dei commercianti
(ricordiamo che Robinson non è tanto un mariner come si definisce nel
frontespizio quanto un trader), nell’Ottocento fu apprezzato in chiave
imperialistica, per cui Robinson assurse a paradigma dell’uomo bianco,
espressione di una civiltà superiore, destinato a fare da mentore al ‘buon
selvaggio’, a proteggerlo dai ‘cattivi selvaggi’ antropofagi, ad avviarlo alla
civiltà. Nel Novecento poi ad esso si guardò come a un ideale terreno di
discussione non soltanto in merito alle politiche colonialistico-espansive
dell’Europa ma circa il rapporto del bianco con il ‘diverso’, per scoprire,
inaspettatamente, la superiorità etica e morale del primitivo.
E l’isola? E’ una presenza discreta e schiva di cui l’io narrante parla poco
se non per qualificarla inospitale e selvaggia, desolate place (51) e horrid
island (52) e poi riconciliarsi lentamente con lei: l’equivalente, parrebbe di
intuire, della presenza femminile che nel romanzo è quasi assente. Esotica
come dislocazione geografica, non ha tuttavia nessun tratto esotico, salvo
il clima: non nutre animali strani o feroci, ma capre, tartarughe, lepri, volpi,
pappagalli; non ospita piante singolari o insolite, ma viti, tabacco, agrumi
selvatici e alberi di specie indeterminata; non offre bellezze inedite, ma
colpi d’occhio familiari di flowers and grass (87) su cui Robinson
raramente indugia. Uno dei pochi passi che suggeriscono la partecipazione
560Alcuni studiosi, per contro, ritengono che Robinson incarni l’uomo comune,
con cui il lettore è portato i identificarsi, chiamato a fare ciò che chiunque altro, al
posto suo, avrebbe fatto.
276
emotiva dell’io narrante delinea un paesaggio aperto, in prossimità di un
colle dal cui pendio sgorga a little spring of fresh water: là the country
appeared so fresh, so green, so flourishing, every thing being in a constant
verdure, or flourish of Spring, that it look’d like a planted garden (80). Qui
si respira l’aria del resoconto di Arthur Barlow il quale, avvicinandosi al
continente americano ancora nascosto allo sguardo dei naviganti, ha la
sensazione di trovarsi in un giardino fiorito. La bellezza è da tutti declinata
in senso economico. Gli elisabettiani accompagnavano le note sull’amenità
del paesaggio del Nuovo Mondo a sistematici commenti circa la possibilità
di sfruttarne il suolo e i prodotti, ma non è che brillassero per operosità o
intraprendenza. Robinson, invece, non disserta – guarda e agisce. Se
Barlow si estasia davanti alle viti che si arrampicano fino alla sommità
degli alberi, di fronte all’abbondanza di viti cariche di grappoli di una parte
dell’isola Robinson, resosi conto di non poter trasportare l’uva fino alla sua
dimora, subito pensa di far seccare i grappoli in loco per ottenere un
alimento facilmente trasportabile e fruibile in ogni momento dell’anno. E’,
quella di Robinson, dunque un’isola ‘domestica’, dove le fonti di acqua
dolce sono a portata di mano e i boschi fitti ma agevolmente percorribili,
dove le spiagge rocciose si alternano agli arenili e le erbose vallate si
succedono alle erte colline, dove si può cacciare, pescare, allevare capre,
seminare e mietere – accumulare scorte e garantirsi la sopravvivenza.
277
di espressione della narrativa in prosa”, che merita di essere “indagato
anche come fenomeno di mercato”, e prende in esame le tipologie narrative
che gli studiosi del ’900 hanno rintracciato per spiegare l’origine del
fenomeno novel. Infine percorre la vita, l’attività pubblica, la saggistica di
Defoe prima di analizzarne i romanzi.
A questo saggio aggiungo le seguenti pagine, tratte da un secondo
studio, di Marialuisa Bignami, “Daniel Defoe e l’arte del narrare”, Studi
settecenteschi, 5, 1984, pp. 33-48. Così scrive l’autrice:
278
emblematico dal naufrago Robinson che prende a redigere un diario. Esso
si inserisce anche naturalmente nella tradizione del diario puritano a cui il
credente affidava la storia della propria anima e della propria coscienza,
quale testimonianza veritiera e inconfutabile fonte di sicurezza per sé e per
i posteri. Ma quanto poca certezza di verità in Crusoe, pronto con la penna
in mano di fronte al foglio bianco, aperto a tutte le possibilità.
L'episodio da lui scelto come banco di prova è proprio il primo,
quello del naufragio e dello sbarco sull'isola: esso ci viene narrato una
prima volta "oralmente", si suppone, da Robinson vecchio che dà voce ai
suoi ricordi, ed è un racconto di grande effetto retorico — e su questo
elemento converrà tornare —:
After we had row'd, or rather driven about a League and a Half, as
we reckon'd it, a raging Wave, Mountain-like, came rowling a-stern of us
[...] it took us with such a Fury, that it overset the Boat at once; and
separating us as well from the Boat, as from one another, gave us not time
hardly to say, O God! for we were all swallowed up in a Moment [...] tho'
I swam very well, yet I could not deliver my self from the Waves as to
draw Breath, till that Wave having driven me, or rather carried me a vast
Way on towards the Shore, and having spent it self, went back, and left me
upon the Land almost dry, but half-dead with the Water I took in.562
Quando poi il naufrago ha risolto i più urgenti problemi della
sopravvivenza, e si è costruiti un tavolo ed una sedia, egli si ricorda di
penne ed inchiostro trovati sul relitto e decide di por mano alla impegnativa
opera di redigere un diario, ben sapendo che un conto è raccontare, ma ben
altro è dar dignità scritta alla propria storia. E infatti egli ci chiarisce che
cosa sarebbe accaduto se egli avesse scritto senza una piena coscienza della
compostezza richiesta, ma anche della qualità definitiva dello scritto, che
per sua natura incarna una scelta e preclude tutte le altre. Questo è il testo
scartato:
And now it was when I began to keep a Journal of every Day's
Employment, for indeed at first I was in too much Hurry, and not only
Hurry as to Labour, but in too much Discomposure of Mind, and my
Journal would ha' been full of many dull things: For Example I must have
said thus. Sept. the 30th. After I got to Shore and had escap'd drowning,
instead of being thankful to God for my Deliverance, having first vomited
562 D. Defoe, Robinson Crusoe, ed. by J.D. Crowley, Oxford 1972, p. 44. Tutte le
citazioni saranno tratte da questa edizione.
279
with the great Quantity of salt Water which was gotten into my Stomach,
and recovering my self a little, I ran about the Shore, wringing my Hands
and beating my Head and Face, exclaiming at my Misery, and crying out,
I was undone, undone, till tyr'd and faint I was forc'd to lye down on the
Ground to repose, but durst not sleep for fear of being devour'd [p. 69].
Se dunque Robinson avesse iniziato a scrivere appena sbarcato, il
racconto sarebbe riuscito assai male («full of dull things», noioso per il
lettore). Notiamo anche che questo resoconto dello sbarco contiene
particolari sgradevolmente realistici, quali la menzione dell'acqua
vomitata, che non compariranno più nel vero « Journal ». Finiamo quindi
con l’avere tre versioni della fatidica giornata del 30 settembre, giorno
dell'inizio della cattività di Robinson sull'isola: la prima, quella che può
apparire — o che Defoe vuol farci credere — "immediata" o "a viva voce",
la seconda quella che sarebbe stata la versione dei fatti se Robinson si fosse
messo a scrivere subito "a caldo", ed infine abbiamo il passo, composto e
un po’ freddo, che apre « The Journal », uno dei rarissimi titoli di parti o
capitoli che appaiano nell'opera narrativa di Defoe:
September 30, 1659. I poor miserable Robinson Crusoe, being
ship-wreck’d, during a dreadful Storm, in the offing, came on Shore on this
dismal unfortunate Island, which I call’d the Island of Despair) all the rest
of the Ship's Company being drowned, and my self almost dead [p. 70].
Defoe è sempre molto attento al suo pubblico borghese e di
conseguenza quando vuol sottolineare la forma assai composta ed
organizzata che ìl testo scritto deve assumere per acquisire il suo valore di
comunicazione e, se stampato, di merce, fa riferimento ad una struttura
espressiva come quella del diario, alla quale la pratica religiosa allenava
costantemente il puritano e che era uno dei pochi libri ammessi nella sua
casa; ma allo stesso tempo non vi è dubbio che con le tre versioni egli
voglia significare che non esiste il resoconto veritiero della realtà che i
puritani andavano cercando in ogni scritto.
Privo come è di una tradizione di fiction a cui rivolgersi, egli si
trova dunque di fronte al problema di dare una struttura ai suoi romanzi,
problema a cui finirà col dare soluzioni di carattere stilistico, alternando il
registro realistico per dare verisimiglianza alla narrazione e quello retorico,
letterario o biblico, per sottolineare i passi esemplari della sua storia. Ma il
fondamentale empirismo della cultura in cui Defoe si era formato, la sua
appartenenza ad una classe di mercanti usi a scambiare oggetti, la sua
qualità di puritano abituato a far caso ad ogni dettaglio del reale, questi
280
fattori tutti assieme lo portano soprattutto ad elaborare una scrittura assai
fattuale di cui vorremmo esaminare ora qualche elemento.
Defoe non ha mai visitato i luoghi esotici in cui ambienta molte
delle sue storie e sa di non essere in grado di rendere credibili le sue
creature su quegli sfondi: esse acquistano invece una veridicità ed una
realtà a tutto tondo se viste su sfondi famigliari all'autore e al suo lettore,
quelli della vita domestica quotidiana vicini agli sfondi urbani londinesi in
cui Defoe soprattutto eccelle. In mezzo a cumuli sterminati di dettagli in
apparenza determinanti, in realtà banali e ripetitivi, intesi a non farci mai
alzare lo sguardo dalle minuzie del quotidiano alla ricerca di più vasti
panorami, il lettore attento rinviene passi in cui Defoe lo mette in guardia
sul fatto che egli qui troverà solo ciò che serve a definire un mondo morale
e psicologico, non paesaggi ammirati per se stessi:
[...] I shall therefore say very little of all the mighty places, desert
countries, and numerous people I have yet to pass through, more than
relates to my own story, and which my concern among them will make
necessary [p. 256],
ci ammonisce Defoe nella parte asiatica delle Fartber Adventures,
la cui ambientazione realistica avrebbe richiesto un impossibile sforzo di
documentazione. Il cenno è retoricamente particolarmente abile, vuol farci
credere che l'autore sa molto di più di quanto ci dica, ma che sceglie questa
reticenza e sobrietà per mere ragioni di economia narrativa.
[…]
Defoe, che ad una prima lettura sembra quindi scrivere una parola
dopo l'altra, senza variazioni né stacchi, semplicemente facendo uso di una
tecnica di giustapposizione, in realtà ha in mente sin dall'inizio un disegno
generale, che molto lentamente si fa strada sotto la registrazione di un reale
apparentemente appiattito: si tratta a volte di un richiamo a distanza, come
il denaro trovato da Robinson sul relitto e mai realmente dimenticato, o di
scelte che appaiono preliminari al romanzo come la decisione di trattare
una stessa materia contemporaneamente in un'opera saggistica ed in
un'opera narrativa. Pensiamo alla pubblicazione quasi simultanea del
Journal of the Plague Year e di Due Preparations for the Plague nel 1722,
o di Memoirs of a Cavalier e di The History of the Wars of His Late Majesty
Charles XII King of Sweden563 nel 1720, quasi Defoe si sentisse libero di
563La prima edizione di quest'opera è del 1715, ma Defoe ne pubblicò una seconda
« With a Continuation to the Time of his Death » (continuazione di ben 153
pagine), a nostro parere intenzionalmente perché uscisse in concomitanza con il
281
creare personaggi e vicende di fantasia solo quando avesse consegnato ad
un parallelo testo storico o scientifico i fatti — nell'un caso la storia della
peste, nell'altro le gesta di un esemplare re svedese.
Per cogliere il disegno strutturale delle opere di Defoe, dobbiamo
allora percepire il fatto che, se la sua fondamentale prassi narrativa è quella
di sommergere il lettore di dettagli verisimili per convincerlo a sentirsi a
casa sua ai tropici come in un vicolo di Londra, tuttavia a volte egli sente
il bisogno di dare corpo a riflessioni ed osservazioni che costituiscano uno
stacco e richiamino l'attenzione del lettore su alcune necessarie
puntualizzazioni: all'interno di quelle soluzioni stilistiche a cui si è
accennato, abbiamo allora alcuni passi di registro non realistico, retorico,
in cui Defoe adotta intenzionalmente uno stile che imita i modelli che la
sua formazione culturale gli ha proposto — la Bibbia innanzitutto, poi i
classici, filtrati forse attraverso gli esempi rinascimentali di Milton e
Marvell.
Si potrebbe far cenno alla qualità letteraria dell'elogio a Fairfax in
Memoirs of a Cavalier 564 con la sua baconiana retorica dei bilanciamenti:
ma, nella stessa tradizione di imitazione dei classici, si colloca, come più
interessante, il passo del rinvenimento del denaro sul relitto della nave con
cui Robinson è arrivato dal Brasile alla sua isola. La scena che porterà a
questo significativo ritrovamento sembra iniziare col solito tono fattuale
(«I had been now thirteen Days on Shore, and had been eleven Times on
Board the Ship » [p. 56]); ma, preparandosi al dodicesimo viaggio,
Robinson si accorge che il tempo sta cambiando (« I found the Wind begin
to rise » [p. 57]), segno premonitore per noi della fine imminente
dell'episodio del relitto, così come del fatto che oramai il naufrago ha
recuperato tutto ciò che gli servirà per ricostruirsi una vita civile sull'isola,
per tenersi lontano dalla regressione allo stato selvaggio. Ancora la
spedizione sembra destinata ad un risultato oramai scontato (« I found two
or three Razors, and one Pair of large Sizzers, with some ten or a Dozen of
good Knives and Forks » [p. 57]), quando da un ultimo cassetto, mai
romanzo: le due opere infatti sono pubblicizzate assieme sul « Post -Boy » del 24
maggio 1720.
564 « I never saw a Man of a more pleasant, calm, curteous, down-right, honest
Behaviour in my Life; and, for his Courage and Personal Bravery in the Field, that
we felt enough of. No Man in the World had more Fire and Fury in him while in
Action, or more Temper and Softness out of it » (Memoirs of a Cavalier, cit., p.
265).
282
rovistato prima, spuntano « about Thirty six Pounds value in Money, some
European Coin, some Brasil, some Pieces of Eight, some Gold, some
Silver » [p. 57]. Sin qui l'elenco è proseguito senza stacchi, forchette e
pezzi d'argento semplicemente giustapposti in una lista di oggetti tanto
accurata quanto indifferente al loro valore venale: ma a questo punto il
narratore sente il bisogno di andare a capo, e di sottolineare anche con una
particolare espressione del viso il discorso che sta per essere pronunciato:
I smil'd to my self at the Sight of this Money, O Drug! Said I aloud,
what art thou good for, Thou art not worth to me, no not the taking off of
the Ground, one of those Knives is worth all this Heap, I have no Manner
of use for thee, e'en remain where thou art, and go to the Bottom as a
Creature whose Life is not worth saving. However, upon Second Thoughts,
I took it away [p. 57].
Se dovessimo giudicare questo passo secondo il metro del
resoconto fattuale sin qui adottato, il sorriso piuttosto spunterebbe assai
divertito sulle nostre labbra di lettori, esterrefatti di fronte al naufrago nudo
e solo sul relitto, che, con la tempesta in arrivo, declama ad alta voce la sua
invettiva. Perché in effetti di questo si tratta: è il tono assai serio di una
esercitazione letteraria su una virtù conosciuta a scuola, il disprezzo dei
beni del mondo, messa in bocca al mercante borghese. Ad alta voce egli
condanna dunque la droga che travia l'uomo a perire nell'abisso, ma, chiuse
delle immaginarie virgolette, ci comunica di averlo poi preso, quel denaro
che ritroveremo puntualmente al suo posto dopo ventotto armi, due mesi e
diciannove giorni:
When I took leave of this Island, I carry'd on board for Reliques,
the great Goat's-Skin-Cap I had made, my Umbrella, and my Parrot; also I
forgot not to take the Money, I formerly mention'd, which had laìn by me
so long useless, that it was grown rusty, or tarnish’d, and could hardly pass
for Silver, till it had been a little rubb'd and handled [p. 278].
Di nuovo le monete sono inserite in un piatto elenco di oggetti —
quel bagaglio assai modesto che Robinson porta con sé — irriconoscibili
sino a che l'uso proprio a cui sono destinate, la manipolazione, non
restituisca all'argento lo splendore originario che lo distingue da elementi
più banali. Nella apparente trascuratezza della tecnica compositiva di
Defoe, in quell'affiancare oggetti ed episodi minuti, emerge ora un disegno,
un richiamo che tiene unita la vicenda del naufrago dall'inizio alla fine, dal
momento in cui il denaro viene messo da parte in attesa del bisogno a
quello in cui, rientrando nel mondo civile, il bisogno appunto si fa presente.
283
II naufrago stesso era stato portato alla sua triste destinazione in
uno dei passi più alti di tutta la prosa di Defoe, addirittura di potenza
biblica, ispirato quindi ad una retorica diversa da quella letteraria. La nave
con cui Robinson è partito dal Brasile ha fatto naufragio ed i pochi
superstiti cercano di raggiungere la riva con una scialuppa; converrà ora
vedere più per esteso il passo a cui si è già fatto cenno:
After we had row'd, or rather driven about a League and a Half, as
we reckon'd it, a raging Wave, Mountain-like, came rowling a-stern of us,
and plainly bad us expect the Coup de Grace. In a word, it took us with
such a Fury, that it overset the Boat at once and separating us as well from
the Boat, as from one another, gave us not time hardly to say, O God! for
we were all swallowed up in a Moment.
Nothing can describe the Confusion of Thought which I felt when
I sunk into the Water; for tho’ I swam very well, yet I could not deliver my
self from the Waves so as to draw Breath, till that Wave [...] left me upon
the Land almost dry […] I saw the Sea come after me as high as a great
Hill [...]
The Wave that came upon me again, buried me at once 20 or 30
Foot deep in its own Body; and I could feel my self carried with a mighty
Force and Swiftness [...] finding the Water had spent it self [...] I [...] took
to my Heels, and run with what Strength I had farther towards the Shore.
But neither would this deliver me from the Fury of the Sea, which came
pouring in after me again, and twice more I was lifted up by the Waves,
and carried forwards as before, the Shore being very flat [pp. 44-5].
Nessun intervento è permesso agli uomini dentro o contro la furia
degli elementi scatenati {«row'd, or rather driven»), ma soprattutto passivo
di fronte agli eventi è Robinson, vera immagine dell'eletto "colpito" dal
favore della divinità che lo isola da tutto e da tutti per sottoporlo ad una
prova che lo porterà alla salvezza. Ed infatti l'onda, una sola e di
dimensioni bibliche, gli toglie il respiro e la capacità di pensare, gli fa
compiere passivamente tutti i movimenti, separandolo dai compagni e
trascinandolo a riva, non senza averlo debitamente umiliato infliggendogli
la percezione della propria impotenza. Nulla di reale o di realistico ha
quest'onda che incarna la mano di Dio: essa cerca il naufrago da salvare,
lo preleva dalla sua scialuppa, lo trascina in mare e lo rincorre sino a riva
per assicurarsi che egli si trovi, stremato ma salvo, nel luogo dove potrà
compiersi il suo riscatto.
284
Molti modi sperimenta dunque Defoe di disporre il materiale
narrativo e la riflessione morale, ma sempre attorno alla fondamentale
unità della vita del protagonista. Un protagonista — nel senso di un
individuo da seguire dall'infanzia alla vecchiaia — manca tuttavia al
Journal of the Plague Year, che non solo in questo presenta elementi
strutturali autonomi; in mancanza di una vita cui fare riferimento, un anno
viene fatta durare 565 la historia calamitatum di quella amata città di Londra,
indomita protagonista corale, per conto della quale il sellaio Henry Foe con
filiale pietà tiene un diario. Abbiamo dunque, caso unico nella breve
stagione narrativa di Defoe, uno sdoppiamento del consueto personaggio
del protagonista-narratore che, da vecchio, ripercorre la propria vita e dà
voce alla sua storia, pur con qualche lieve variazioni da un romanzo
all'altro: Robinson e Singleton vecchi mettono ordine nei loro ricordi, per
Moll e il Cavaliere l'autore finge il ritrovamento dì un manoscritto, mentre
Jack inizia a scrivere le sue memorie prima della fine delle sue avventure
e quindi la stesura degli ultimi episodi risulterebbe contemporanea agli
avvenimenti narrati. Qui invece Londra è la protagonista, Henry Foe il
narratore.
[…]
La brevità della stagione narrativa di Defoe non ci permette di
cogliere un suo vero e proprio sviluppo stilistico, anche se non è difficile
percepire un affinarsi dei suoi strumenti espressivi: se in Robinson Crusoe
egli ci dà un senso di unità e compattezza attraverso la tripartizione delle
avventure prima, durante e dopo il soggiorno sull'isola, circondando l'isola
stessa con un mare di storie che ne fanno risaltare la qualità di esperienza
determinante per il protagonista, in vari altri romanzi è proprio la semplice
biografia dell'eroe narratore a costituire l'unico elemento di unità. Un più
sofisticato elemento narrativo affianca questa vita in Moll Flanders, ed è il
sapiente uso del tempo; ora affrettato, ora rallentato, esso ci porta dentro la
coscienza di lei e di lì ci fa partecipare alla sua storia. Più unitario, più
compatto infine Roxana, benché apparentemente incompiuto; attraverso
una trama di metafore ed immagini, che ben si tiene per tutto il romanzo,
saldamente esso mostra il sistema di valori che, a ben guardare, è presente
sotto a dettagli ed avventure, oggetti ed episodi in tutta l'opera narrativa di
Defoe.
565 Come è noto, nella realtà storica, la peste non occupò solo l’anno 1665, a cui si
riferisce il romanzo, ma si protrasse sino all’estate 1666, quando la città fu
finalmente liberata dal contagio dal grande incendio.
285
Appendice storica
L’atlantizzazione, i viaggi inglesi in America, la colonizzazione
L’atlantizzazione
566 In passato i mercanti arabi trasportavano le merci dei paesi d’Oriente nei porti
della Persia, dell’Arabia e dell’Africa orientale. Da qui – via mar Rosso o via terra
– esse giungevano nei porti dell’Egitto o della Siria, a Costantinopoli o sul Mar
Nero, dove erano prelevate da veneziani o genovesi. Da Venezia o da Genova i
prodotti arrivavano, via terra o via mare, nei centri di smercio. Una volta pervenuti
a destinazione, avevano però raggiunto, comprensibilmente, prezzi esorbitanti. I
mercanti europei si erano già posti il problema di come procurarsi le merci a prezzi
inferiori, evitando le molte mediazioni dei trasportatori, e avevano accarezzato
l’idea di rifornirsi direttamente nei paesi d’origine, ma il progetto era parso
irrealizzabile. Tuttavia, quando l’impero ottomano chiuse la tradizionale via delle
spezie occupando il Nordafrica e il Medio Oriente, apparve indispensabile cercare
286
giungere in Oriente, dove acquistare quei prodotti quanto mai richiesti sui
mercati europei. L’Atlantico era la via obbligata. Lo si poteva percorrere
verso sud per immettersi nell’oceano Indiano, come fecero i portoghesi con
Diaz e da Gama alla fine del ’400, oppure si poteva puntare verso ovest,
come fece la Spagna con Colombo. Quest’ultima scelta non fu un totale
salto nel buio visto che tutti erano convinti della sfericità della terra, anche
se nessuno l’aveva mai dimostrata.
Nei settant’anni che vanno dal 1480 al 1550 il Portogallo fondò in
Oriente un vasto impero commerciale e annetté il Brasile. Circa nello
stesso periodo la Spagna ottenne risultati di maggiore prestigio con una
strategia diversa, mandando Colombo verso le Indie lungo la via
occidentale. Egli sbarcò su una terra che ritenne fosse la propaggine
estrema dell’Asia e che soltanto Vespucci avrebbe dimostrato essere un
mundus novus. Tale mundus novus si profilava come un ostacolo
imprevisto, una barriera inattesa sulla rotta verso le terre delle spezie, però
aveva ricchezze tali da invogliare gli spagnoli a insediarvisi. Ed ecco che
in cinquant’anni la Spagna occupò con Cortéz il Messico e il
Centroamerica, con Pizarro e Almagro parte del Sudamerica, creando –
con azioni spregiudicate e crudeli che causarono quasi un genocidio – un
impero immenso, ricchissimo d’oro e d’argento. Nel frattempo Magellano,
un portoghese al soldo della Spagna, cercò la via alle Indie verso occidente.
Nel corso di un viaggio (1519-22) che costò molte vite, percorse
l’Atlantico in direzione sud, attraversò lo stretto che da lui prese il nome e
si avventurò nel Pacifico immenso – lungo una rotta su cui non si trovarono
isole dove fare scalo per rifornimenti di cibo e di acqua e per riparazioni ai
velieri – fino alle Filippine, dove fu ucciso dagli indigeni. La spedizione
entrò poi nell’oceano Indiano, doppiò il capo di Buona Speranza e risalì
l’Atlantico fino a Sanlúcar. Era stata compiuta la prima
circumnavigazione del globo che aveva dimostrato sperimentalmente la
sfericità della terra. Il secondo a “porre una cintura intorno al mondo”, per
usare l’espressione di Puck (MND, II,i,175), sarà un inglese, Sir Francis
Drake (1577-1580), che portò in patria enormi ricchezze sottratte agli
spagnoli con azioni piratesche.
L’atlantizzazione fu l’esito della volontà espansiva di un’Europa
cresciuta dal punto di vista demografico, economico e tecnologico, nella
287
quale si andava affermando una cultura mercantilistica, individualistica e
mondana, in grado di superare il conflitto medievale tra religione e profitto.
Dal 1450 in poi, ma soprattutto nel Cinquecento, si era registrato
in Europa un netto incremento demografico, dovuto al diradarsi di
epidemie e carestie. La crescita demografica implicò un aumento della
domanda di derrate alimentari, a cui si fece parzialmente fronte con
l’ampliamento dei coltivi, anche attraverso le recinzioni (v. sotto), con le
bonifiche567 , con l’introduzione di piante alimentari nuove o quasi (il riso
e poi, importati dall’America, il mais, il pomodoro e la patata), con
l’estensione delle aree di pesca (quella individuata da portoghesi e inglesi
nei Banchi di Terranova si rivelò molto ricca). Comportò anche la crescita
della domanda di manufatti, quindi lo sviluppo dell’industria tessile 568 .
Questo fatto indusse i proprietari terrieri a procedere alla recinzione delle
aree comuni569 al fine di adibirle a pascolo, proficuo sia per la forte
richiesta di lana, sia per l’impiego di scarsissima mano d’opera, oppure
all’agricoltura intensiva, già praticata in alcune (poche) aree europee.
Poiché la domanda di generi alimentari e di prodotti industriali era
superiore all’offerta, crebbero i prezzi e poiché l’aumento dei prezzi si
verificò in un regime di salari stabili570 , aumentarono anche i profitti delle
classi imprenditoriali. La crescita dei profitti favorì l’espansione
dell’Europa. Anche lo sviluppo tecnologico fu determinante, perché fornì
agli europei i mezzi con cui affrontare gli oceani: le navi aumentarono il
numero degli alberi, la dimensione delle vele e il tonnellaggio,
migliorarono la strumentazione di bordo, potenziarono l’artiglieria.
Il mondo si dilatava e le sue zone ignote o inesplorate si riducevano
a poco a poco. L’accresciuta conoscenza del mondo aiutò l’espansione e
l’espansione migliorò la conoscenza del mondo. Mappe più precise e
per i poveri dei villaggi che si trovarono nella necessità di emigrare verso le città,
dove finirono per ingrossare le fila dei masterless men, uomini senza padrone,
costretti all’accattonaggio o alla delinquenza. Il fenomeno, con le sue devastanti
conseguenze sociali, fu denunciato da Thomas More nell’Utopia.
570 I salari erano stabili per via dell’aumento dell’offerta di mano d’opera, legato
all’incremento demografico.
288
aggiornate sostituirono quelle arcaiche, mentre la cosmografia e la
cosmologia si separarono gradualmente dalla filosofia e acquisirono
dignità di scienze. Gli uomini, scoprendo che il mondo era più ampio e
diverso da quello postulato in passato – un testo ‘sacro’ quale la Geografia
di Tolomeo prospettava l’oceano Indiano chiuso da una cintura di terre –,
incominciarono a nutrire dubbi circa l’attendibilità delle conoscenze degli
antichi, mai prima messe in aperta discussione.
Queste considerazioni spiegano, come si è già detto, la crisi
dell’intellettuale, già innescata sul fronte religioso. Catapultato in un
universo infinito ed eliocentrico, antitetico a quello in cui avevano creduto
i suoi padri, e in un mondo terracqueo in cui all’improvviso era comparso
un continente vasto come l’Eurasia, l’uomo fu costretto a rivedere i propri
giudizi sul venerato sapere del passato. Da qui muove la ‘rivoluzione’
operata, a cavallo tra ’500 e ’600, da molti pensatori tra cui Francis Bacon.
Pur nel grande rispetto per gli Antichi, Bacone cercò una via alla
conoscenza che si basasse sull’indagine sperimentale, umile, paziente,
ripetuta, e sul metodo induttivo, senza sottomettersi alla filosofia
tradizionale, specialmente alla logica aristotelico-scolastica, nella
convinzione che la verità sia filia temporis.
L’atlantizzazione fu resa possibile anche dalla mutata temperie
spirituale. L’uomo si scoprì individuo, vir, desideroso di lasciare il suo
segno nel mondo agendo 571 . Smanioso di dilatare gli orizzonti conoscitivi,
avido di gloria e di ricchezza, venne attirato dall’immanente più che dal
trascendente. In tale cultura immanentistica l’avere perse ogni
connotazione negativa ed ispirò grandi gesta e altrettanto grandi
nefandezze. Ciò traspare dai progetti commerciali dei portoghesi come
dalla rapacità dei conquistadores, che si diedero al saccheggio
indiscriminato e allo sfruttamento selvaggio delle genti e delle risorse del
Nuovo Mondo. In ambito politico la smania dell’avere si tradusse
nell’avvento della cultura mercantilistica, secondo cui la potenza di uno
stato si misura sulla quantità d’oro che possiede 572 , lo stato è sollecitato a
potenziare le esportazioni, a contenere le importazioni, a proteggere
l’industria nazionale.
571 Si ricordi che la virtù degli eroi della Faerie Queene si traduce non in
contemplazione ma in azione.
572 Il concetto è esplicitato nella Discoverie di Raleigh.
289
Durante il regno di Enrico VII (1485-1509) si intravedono le
prime timide premesse dello sviluppo dell’Inghilterra come potenza
marinara e si verificano le condizioni per cui in età elisabettiana il Paese
rivendicherà il diritto al Nordamerica per priorità di scoperta.
L’esito dei primi due viaggi di Colombo indusse Enrico VII a
promuovere un viaggio esplorativo, concedendo al veneziano Giovanni
Caboto e ai suoi figli il diritto, sancito da lettere patenti, di navigare in
qualsiasi mare e di annettere qualsiasi terra non occupata da cristiani (i non
cristiani non erano ritenuti ‘in grado’ di avanzare diritti su una terra). Nel
1497 con una sola nave e un equipaggio di neppure venti uomini Caboto si
spinse verso ovest seguendo una rotta settentrionale, molto più breve di
quella di Colombo. Dopo cinquanta giorni di navigazione arrivò forse a
Terranova. Trovò banchi di merluzzo, constatò la presenza di fittissime
foreste, rinvenne tracce di insediamenti umani, ma non incontrò autoctoni.
Al ritorno in Inghilterra fu accolto con grande entusiasmo (e con
l’elargizione di una pensione da parte del parsimoniosissimo Enrico VII):
al pari di Colombo, egli era certo di essere giunto in Asia, probabilmente
in qualche lembo settentrionale del Catai. Nel 1498 il veneziano attuò un
secondo viaggio, esplorativo e commerciale, con un modesto
finanziamento del re e il supporto dei mercanti di Londra e di Bristol, che
allestirono cinque navi stivandole di pannilana (unico prodotto inglese
esportabile) da scambiare con gli asiatici. Una nave disertò in Irlanda.
Delle altre, e di Giovanni stesso, non si seppe più nulla.
Passarono dieci anni. Nel 1507 il cartografo tedesco
Waldseemüller denominò il nuovo mondo America in onore di chi per
primo l’aveva riconosciuta ‘mondo nuovo’. Ma l’America, come si è detto,
appariva solo come un fastidioso ostacolo sulla via dell’Oriente – un
ostacolo che andava aggirato con la scoperta di un passaggio d’acqua che
portasse dall’Atlantico all’altro oceano (innominato), quello su cui si
affacciava il Catai. Cercò questo passaggio a Nord-Ovest il figlio di
Giovanni Caboto, Sebastiano, ma, all’imboccatura della baia di Hudson,
fu respinto dagli iceberg. Tornato in Inghilterra, scoprì che il nuovo re,
Enrico VIII, non era interessato ai viaggi oceanici, ragione per cui
Sebastiano passò al servizio della Spagna. Enrico VIII, occupato da
problemi di politica estera, interna e matrimoniale, non sponsorizzò viaggi,
ma potenziò la flotta. Inoltre, con la Dissolution of the Monasteries (la
confisca, come si è detto, da parte dello Stato delle proprietà delle Chiesa),
290
creò le premesse per lo slancio economico della nuova classe
imprenditoriale che, vedendo crescere i profitti, fu disposta a rischiare
capitali anche nelle imprese oceaniche. Comunque per mezzo secolo i
viaggi inglesi furono una sequela di fallimenti. Gli inglesi mancavano di
esperienza e di informazioni, perché nessun documento di viaggio
straniero era stato tradotto in inglese. L’assenza di traduzioni rappresentò
un grave ostacolo al progresso marittimo dell’Inghilterra.
Durante i regni di Edoardo VI e di Maria Tudor l’ambito delle
navigazioni e delle esplorazioni si estese, ma non in direzione americana:
Maria, sposata a Filippo II di Spagna, si guardò bene dall’incoraggiare
viaggi verso le terre di occupazione spagnola. Gli inglesi raggiunsero la
Guinea, soggetta al monopolio portoghese, e la Russia di Ivan il Terribile.
In epoca elisabettiana, invece, nel quadro del generale
potenziamento politico ed economico dell’Inghilterra, l’espansione
marittima trovò nuovi traguardi, mettendo in atto progetti dapprima solo
confusamente concepiti. Essa si realizzò sia negli anni della guerra non
dichiarata alla Spagna, sia in quelli della guerra aperta, e mirò a violare il
monopolio spagnolo. La guidò l’intraprendenza di uomini come Francis
Drake573 e Walter Raleigh574 , la pilotò l’intelligenza duttile, e prudente fino
all’ipocrisia, della regina
Negli anni ’60 incominciano i viaggi schiavistici. Finché
Hawkins575 cattura neri in Africa, li vende agli spagnoli in Centroamerica
– che ne hanno bisogno per rimpiazzare la mano d’opera indigena decimata
dalla malattie e dai ritmi massacranti di lavoro – e se ne torna indisturba to
in patria, significa che l’Inghilterra è ancora in pace con la Spagna.
L’ultimo viaggio (1568), però, si conclude con un attacco armato degli
triangolare tra Inghilterra (da cui partiva con un carico di liquori), Guinea (dove
cedeva il liquore in cambio di schiavi) e Caraibi (dove cedeva gli schiavi in cambio
di oro).
291
spagnoli agli inglesi – primo sintomo delle ostilità tra i due paesi. Negli
stessi anni incomincia la pirateria nella Manica ai danni delle navi
spagnole, che genera ulteriori tensioni con la Spagna: se Elisabetta,
nell’opinione di Madrid, protegge i pirati sottobanco, Madrid compie
aperte azioni di ritorsione contro i mercanti inglesi in Spagna. La pirateria
continua negli anni ’70 nell’Atlantico, guidata da Francis Drake. Durante
la circumnavigazione del globo (1577-80) egli attacca i convogli spagnoli
nell’oceano Pacifico, dove si sentivano del tutto al sicuro da possibili
razzie, e porta in patria un immenso bottino che concorre allo sviluppo
economico del Paese. Queste azioni dimostrano all’Europa che
l’Inghilterra sta diventando una potenza marinara di prim’ordine. Gli anni
’70 videro anche spedizioni alla ricerca del passaggio a Nord-Ovest che,
complicate dalla scoperta di un minerale supposto aurifero, si tradussero in
uno smacco totale. Esse tuttavia ispirarono interessanti resoconti, da cui
emergono lo stupore degli inglesi davanti agli eschimesi, il coraggio di
questi ultimi e la spregiudicatezza operativa dei bianchi.
I tempi erano però maturi per imprese in cui all’interesse
esplorativo-commerciale si aggiungesse un fine nuovo, quello coloniale.
Siamo negli anni ’80. L’Inghilterra si sentiva gravata da un esubero
demografico. Inoltre cercava nuovi mercati dove esportare i pannilana e da
cui importare prodotti mediterranei (o, in genere, europei), poiché il
commercio con il Continente era diventato difficile per lo stato di
belligeranza con la Spagna. Fu allora (o, meglio, qualche anno prima) che
si fece strada nel circolo di Hakluyt l’idea di un insediamento in America,
al di fuori della zona d’influenza spagnola. Esso doveva accogliere la
popolazione in eccesso – tra cui i senza lavoro, i carcerati e quanti, cattolici
o puritani, creavano preoccupazione alle autorità –, sfruttare le risorse
indigene, commerciare con gli autoctoni, cercare l’oro e una via d’acqua al
Pacifico.
Dopo un primo viaggio fallito guidato da Humphrey Gilbert, Sir
Walter Raleigh [’ro:li, ’ra:li] si pose alla testa del movimento. Tra il 1584
e il 1590 inviò – verso una terra che Elisabetta aveva permesso fosse
chiamata Virginia in suo onore – cinque spedizioni. La spedizione
ricognitiva, stabilendo che la Virginia era una terra dell’età dell’oro,
incoraggiò la colonizzazione. La seconda, del 1585, stanziò un gruppo di
292
inglesi sull’isola di Roanoke 576 , da cui essi rientrarono in Inghilterra dopo
un solo anno, segnati dagli stenti e scoraggiati per il mancato arrivo di
rifornimenti. La terza spedizione, di soccorso, giunse a Roanoke subito
dopo la partenza dei coloni e affidò a una ventina di uomini l’impossibile
compito di mantenere la continuità di insediamento, che sola sanciva il
diritto alla terra. La quarta, del 1587, non trovando traccia degli inglesi
(probabilmente sterminati dagli indiani), lasciò sul luogo del vecchio
stanziamento un gruppo di cento persone (tra cui una bimba neonata,
Virginia) a cui furono promessi rifornimenti nel giro di brevissimo tempo.
L’impegno, tuttavia, non poté essere onorato, perché nel 1588 la pressante
minaccia della Invencible Armada indusse il governo a vietare che
qualsiasi nave si allontanasse dalle acque territoriali inglesi. Quando la
quinta spedizione giunse in Virginia nel 1590, la colonia non esisteva più,
era scomparsa. Con la Lost Colony (nome con cui essa passò tristemente
alla storia) si concluse la proto-colonizzazione inglese.
I viaggi coloniali dell’età elisabettiana, i cosiddetti Roanoke
Voyages, non raggiunsero lo scopo che si erano prefissi, anzi finirono in
tragedia, per la cronica insufficienza di mezzi (nonostante lo sforzo
dell’unico finanziatore, Sir Walter Raleigh), l’inadeguato supporto del
governo, la qualità non eccelsa dei partecipanti, la minaccia sempre
incombente della Spagna. Fallirono anché perché i coloni furono chiamati
a due compiti inconciliabili. L’uno prevedeva un impegno stanziale per
l’incivilimento e la conversione degli autoctoni, gli scambi interetnici, lo
sfruttamento delle risorse, l’agricoltura, la pesca e la caccia in funzione
dell’immediato sostentamento; l’altro comportava, invece, un impegno
itinerante per la ricerca del passaggio al Pacifico e, last but not least, il
reperimento di giacimenti di oro.
Nonostante l’insuccesso, i Roanoke Voyages rappresentano
l’indispensabile premessa alla colonizzazione dell’età giacomiana. Essi
indicarono nella continuità dei rapporti con l’Inghilterra e in una più
incisiva tensione dei coloni ad assicurarsi i mezzi di sopravvivenza le
condizioni indispensabili a garantire una pur minima riuscita.
Negli anni ’90 Sir Walter Raleigh, colpevolmente stornando
l’attenzione dalla Virginia, coltivò il sogno di El Dorado, l’impero
ricchissimo d’oro che fabulazioni indigene e documenti spagnoli situavano
sull’altopiano della Guiana (l’odierno Venezuela). Avendo perso il favore
576Dal nome dell’isola, indicato quasi di sfuggita nel resoconto di Barlow, i viaggi
degli anni ’80 saranno chiamati Roanoke Voyages.
293
di Elisabetta 577 , Raleigh accarezzò la possibilità di individuare la posizione
di El Dorado – alla cui ricerca gli spagnoli erano impegnati da anni – e di
trovare oro, al fine sia di riacquistare la benevolenza della regina (e con
essa il potere), sia di indurre il governo a una spedizione di conquista del
mitico impero. Il viaggio, attuato nel 1595, portò Raleigh dal delta
dell’Orinoco alle cascate sul fiume Caroni578 . Neppure in questa occasione
si conseguirono i risultati sperati. El Dorado non fu raggiunto, l’oro non fu
trovato, la proposta di intervento militare nella zona non fu accolta. E a
ragione: investendo un’area su cui la Spagna vantava diritti, l’operazione,
organizzata non da un singolo ma dal governo, avrebbe comportato la
ripresa della guerra aperta. Sulla spedizione di Raleigh in Guiana579 si
chiude la carrellata dei viaggi cinquecenteschi.
In anni di stasi operativa, la stampa delle Principal Navigations
(1598-1600) di Richard Hakluyt rinnovò l’interesse nei confronti del
Nordamerica che forse già ospitava, o comunque meritava di ospitare, una
colonia inglese. Gli inglesi, peraltro, continuarono a gestire spedizioni
‘private’, finanziate da piccoli gruppi di investitori, mentre i francesi, forti
di una patente reale, riuscirono, col tempo, a insediarsi lungo il San
Lorenzo.
La colonizzazione
577 Raleigh, il grande favorito di Elisabetta, perse la sua protezione quando sposò
di nascosto una damigella di corte (1592). Dopo una breve prigionia alla Torre, fu
relegato nella sua proprietà di Sherborne. Qui accarezzò il sogno di El Dorado.
578 Secondo V.T. Harlow, autore di un’ampia introduzione alla edizione della
294
economico che accompagnò i primi anni del regno di Giacomo, favorì il
progetto americano.
Di fatto la colonizzazione vera e propria iniziò dopo che furono
fondate, in base a un charter (carta costitutiva) reale, due società per azioni,
che nel 1609 si sarebbero fuse in una sola, la Virginia Company. La vendita
delle azioni ad un numero elevato di acquirenti, aristocratici e borghesi,
consentì di reperire i fondi necessari per sostenere lo sforzo coloniale:
armare cioè le flotte e dotare gli uomini delle risorse indispensabili ad
affrontare la vita in una terra selvaggia, a tratti vergine.
Alla fine del 1606 un centinaio di inglesi, a bordo di tre piccole
navi, lasciarono Londra alla volta della Chesapeake Bay, a nord del
Pamliko Sound, dove si sperava di trovare qualche superstite della Lost
Colony. Esplorata la baia, risalirono il fiume a cui imposero il nome di
James River, alla ricerca di un luogo adatto all’insediamento. Lo trovarono
in una penisola paludosa che, per contro, offriva buone possibilità di
pascolo e agevole controllo dei movimenti sul fiume. Là fondarono un
forte, nucleo di Jamestown. Era il 1607, anno da cui si suole datare l’inizio
della storia degli Stati Uniti.
Dopo un anno di inerzia, malattie e turbolenze, nel 1608-09 il
capitano John Smith resse Jamestown con pugno di ferro, ottenendo
risultati sul fronte interno e su quello indiano. Quando, però, una grave
ferita lo costrinse a rientrare in Inghilterra, fu sostituito alla guida della
colonia da un uomo debole, incapace di imporre la disciplina e di stabilire
buoni rapporti con gli indigeni. L’insediamento vacillò. Intanto nel giugno
1609 la Virginia Company, decisa a procedere verso una colonizzazione di
popolamento, aveva inviato in Virginia un’imponente spedizione di nove
navi e seicento uomini. Il caso volle che i capi della spedizione e quelli,
futuri, della colonia, nonché il testo delle direttive stabilite dalla
Compagnia per la conduzione di Jamestown, viaggiassero tutti sulla nave
ammiraglia, la Sea Venture. A luglio, nel corso di un violento uragano, essa
naufragò al largo delle Bermude. Il resto della flotta approdò tristemente a
Jamestown dove la colonia, già in condizioni precarie, fu ben presto allo
sbando. Mentre una nave recava a Londra la luttuosa notizia
dell’inabissamento della Sea Venture, in Virginia il piccolo insediamento,
senza risorse, senza direttive, senza guida autorevole, affrontò l’inverno
del 1609-1610. Fu un’epoca atroce, la peggiore nella storia di Jamestown:
gli indiani rifiutarono ogni rapporto commerciale e gli inglesi si
abbandonarono ad episodi di cannibalismo. La situazione era così disperata
295
che non la risolse l’arrivo inatteso, nel maggio del 1610, degli ex naufraghi
delle Bermude che, scampati tutti quanti al mare, avevano trascorso
l’inverno su un’isola dell’arcipelago e raggiunto Jamestown su barche di
loro costruzione. I neoarrivati, compresi i capi, considerando le condizioni
della colonia troppo compromesse, decisero di tornare in patria. Ed erano
già imbarcati quando giunse, con incredibile tempestività, una poderosa
spedizione di soccorso. La colonia resistette, la storia non cambiò corso.
Una nave fece subito vela verso l’Inghilterra per comunicare la
notizia del naufragio miracoloso. L’entusiasmo fu grande e rapida la
pubblicazione di documenti sul naufragio e sulle condizioni della colonia.
La notizia raggiunse anche William Shakespeare. Egli lesse i rapporti
ufficiali ma, grazie ad amici che aveva nel Consiglio della Virginia
Company, prese anche visione di una relazione segretata, la lettera del
colono William Strachey a una dama non identificabile, nella quale il
drammatico racconto della tempesta, quasi in presa diretta, e la descrizione
della vita dei naufraghi su un’isola disabitata precedono la franca,
impietosa disamina dello stato della colonia. L’evento clamoroso ispirò al
drammaturgo di Stratford una delle sue opere più grandi e più ricche, The
Tempest, che annovera quali uniche fonti sicure i documenti della Virginia
Company e la lettera inedita di Strachey580 .
La colonia proseguì a fasi alterne. Conobbe un periodo di
floridezza nel 1614, quando il colono John Rolfe ottenne da un incrocio
una qualità di tabacco che conquistò il mercato inglese e quindi risollevò
le sorti della precaria economia di Jamestown. Sperimentò un periodo di
pace quando lo stesso Rolfe sposò la figlia del grande capo Powatan,
Pocahontas, avvenimento che migliorò sensibilmente i rapporti tra le etnie.
Un altro periodo di benessere si verificò tra la fine del secondo decennio e
l’inizio del terzo, quando crebbe l’esportazione di tabacco, si promossero
colture alternative (olivo, gelso, vite), si introdussero le prime istituzioni
democratiche. Tuttavia, nonostante le continue ondate migratorie, la
colonia non cresceva: frequenti epidemie e difficoltà di acclimatamento
mantenevano alto il tasso di mortalità.
Nel 1622, quando agli inglesi sembrava di aver raggiunto un
modus vivendi accettabile con gli indiani, questi, in un disperato tentativo
di difendere le proprie terre dai progressivi ampliamenti dei coltivi di
tabacco e, nel contempo, di salvaguardare la propria cultura e la propria
296
identità, sferrarono un improvviso assalto contro gli insediamenti inglesi
che si erano sviluppati a una certa distanza l’uno dall’altro. In un solo
giorno un quarto dei coloni fu massacrato. La risposta inglese fu altrettanto
violenta e il processo di integrazione razziale stroncato sul nascere. Il
massacro non sradicò la colonia, ma fece nascere in Inghilterra un nuovo
concetto di colonizzazione , intesa non più in funzione antispagnola, ma
anti-indigena581 . Intanto a Londra gli investimenti senza ritorno, la
gestione caotica, i dissensi nel corpo direttivo travolsero la Virginia
Company, che nel 1624 si vide revocare la carta costitutiva. La colonia
passava in tal modo sotto il diretto controllo della Corona.
297
Opere citate
Anzi A. (1997), Storia del teatro inglese dalle origini al 1660, Einaudi,
Torino.
Anzi A. (2000), “Iago o della malinconia”, Memoria di Shakespeare, a cura
di A. Lombardo, Bulzoni, Roma, pp. 85-100.
Babb L. (1951), The Elizabethan Malady. A Study of Melancholia in
English Literature from 1580 to 1642, Michigan State College Press, East
Lansing.
Barber C.L. (1959), Shakespeare’s Festive Comedy: A Study of Dramatic
Form and its Relation to Social Custom, Princeton U.P., Princeton.
Baruzzo B. (1993), “Le Metamorfosi di Ovidio e MND di W. Shakespeare:
il linguaggio come gioco di forme”, Textus VI, pp. 77-104.
Baseotto P. (2004), Fighting for God, Queen and Country: Spenser and
the Morality of Violence, Arcipelago, Milano.
Bate J. (1999) [1993], Shakespeare and Ovid, Oxford U.P., Oxford.
Baugh A.C. (1950), A Literary History of England, Routledge & Kegan
Paul, London.
Bayley P. (1971), Edmund Spenser: Prince of Poets, Hutchinson
University Library, London.
Beauregard D. (2001), “Shakespeare on Monastic Life: Nuns and Friars in
Measure for Measure”, Religion and the Arts, 5.3, pp. 249-72.
Bell I. A. (1996), “Crusoe’s Women: Or, the Curious Incidentof the Dog
in the Night-Time”, in L. Spaas e B. Stimpson (eds.), Robinson Crusoe:
Myths and Metamorphoses, Macmillan, London, pp. 28-44.
298
Bennett H.S. (1965), English Books and Readers: 1558 to 1603,
Cambridge U.P., Cambridge.
Bertinetti P. (2004), Breve storia della letteratura inglese, Piccola
Biblioteca Einaudi, Torino.
La Bibbia: traduzione interconfessionale in lingua corrente (1985), Elle
Di Ci, Leumann (To).
The Bible: Authorized King James Version with Apocripha (1997), R.
Carroll e S. Prickett (eds), Oxford U.P., Oxford.
Bignami M. (1984), “Daniel Defoe e l’arte del narrare”, Studi
Settecenteschi, 5, pp. 33-48.
Bignami M. (1989), “Milton’s sonnets and the dignity of English poetry”,
in S. Rossi e D. Savoia (a cura di), Italy and the English Renaissance,
Unicopli, Milano, pp. 233-40.
Bignami M. (1990), Il progetto e il paradosso: saggi sull’utopia in
Inghilterra, Guerini, Milano.
Bignami M. (2005), “Satan speaks: public speeches and private utterances
in John Milton’s Paradise Lost”, in D. Borgogni e R. Camerlingo (a cura
di), Le Scritture e le riscritture: discorso religioso e discorso letterario in
Europa nella prima età moderna, E.S.I., Napoli, pp. 231-46.
Bignami M. (2006), “La prosa nell’età della Restaurazione: il novel e
l’opera di Defoe”, in Materiale didattico letteratura inglese I anno,
CUEM, Milano, pp. 1-27.
Brown C.C. (1995), John Milton: A Literary Life, Macmillan, London.
Burke P. (1989), Il Rinascimento, il Mulino, Bologna, traduz. di R. Minuti
da The Renaissance, 1987, Macmillan, London.
Bush D. (1990) [1962], The Oxford History of English Literature: The
Early Seventeenth Century, 1600-1660, Clarendon Press, Oxford.
Calderwood J.L. (1971), Shakespeare Metadrama, University of
Minnesota Press, Minneapolis.
Cappuzzo M. (1972), Il ‘Paradise Lost’ di John Milton, Adriatica, Bari.
Carrol W. (1985), The Metamorphoses of Shakespearean Comedy,
Princeton U.P., Princeton.
Citroni M, Consolino F.E., Labate M., Narducci E. (1997), Letteratura di
Roma antica, Laterza, Firenze.
Conte G.B. (1992) [1987], Letteratura latina, Le Monnier, Firenze.
Daiches D. (1986), Storia della Letteratura Inglese, 2 voll., Garzanti,
Milano.
299
Defoe D. (2003) [2001], Robinson Crusoe, J. Richetti (ed.), Penguin
Classics, London.
Del Corno D. (1993) [1988], Letteratura greca, Principato, Milano.
Dent R.W. (1983), “Imagination in MND” [1964], in A. Price (ed.),
Shakespeare: MND, Macmillan, London, pp. 124-42.
Donne J. (1968), Selected Poems Death’s Duel, a cura di G. Melchiori,
Adriatica, Bari.
Egan G. (2003), “Theatre in London”, in S. Wells and L. C. Orlin (eds),
Shakespeare, Oxford U.P., Oxford.
Elam K. (1988), Semiotica del teatro, Universale Paperbacks, il Mulino,
Bologna (1980, The Semiotics of Theatre and Drama, Methuen, London).
Esslin M. (1988), The Field of Drama, Methuen, London.
Ferrara F. (1996), “Letteratura e comunicazione nell’epoca Tudor”, in F.
Marenco (a cura di), Storia della civiltà letteraria inglese, 4., I, Il
Medioevo. Il Rinascimento. Il Seicento, UTET, Torino, pp. 361-377.
Ferroni G. 2000 (1991), Storia della Letteratura italiana:I, Dalle origini
al Quattrocento, II, Dal Cinquecento al Settecento, Einaudi, Milano.
Fisiak J. (1993), An Outline History of English, I: External History, Kantor
Wydawniczy Saww, Poznan.
Forster E.M. (1927), Aspects of the Novel, Penguin, Harmondsworth.
Fuller M.C. (1993), “Ralegh’s Fugitive Gold: Reference and Deferral in
The Discoverie of Guiana”, in S. Greenblatt (ed.), New World Encounters,
University of California Press, Berkeley, Los Angeles, Oxford, pp. 218-
240.
Garavaglia G. (1998), Storia dell’Inghilterra moderna, Cisalpino, Milano.
Greenblatt S. (1984) [1980], Renaissance Self-Fashioning: From More to
Shakespeare, University of Chicago Press, Chicago and London.
Gurr A. (1993), Shakespeare’s Hats, Bulzoni, Roma.
Hakluyt R. (1962) [1908], The Principal Navigations (1598-1600), in
Voyages, J. Masefield (ed.), 8 voll., Everyman, London.
Hakluyt R. (1972), Voyages and Discoveries, J. Beeching (ed.), Penguin,
Harmondsworth.
Hakluyt R. (1966), I viaggi inglesi 1494-1600, a cura di F. Marenco,
traduzione e introduzione, Longanesi, Milano.
Heale E. (1998), Wyatt, Surrey & Early Tudor Poetry, Longman, London
and New York.
Heale E. (1999) [1987], The Faerie Queene, Cambridge U.P., Cambridge.
300
Hill C. (1940), The English Revolution 1640, Lawrence &Wishart,
London.
Holland N.N. (1996), “Hermia’s Dream”, in R. Dutton (ed.), MND,
Macmillan, New Casebooks, London, pp. 61-83.
Holland P. (1994), “Theseus’ Shadows in MND”, Shakespeare Survey 47,
pp. 139-51.
Holmes J. (2005), “The Guiana Projects: Imperial and Colonial Ideologies
in Ralegh and Purchas”, Literature & History, 14, pp. 1-13.
Houppert J.W. (1975), John Lyly, Twaine, Boston.
Hughes M.Y. (1929), Virgil and Spenser, University of California Press,
Berkeley, Cal.
Hunt C. (1956), Donne’s Poetry, Yale U.P., New Haven.
Hunter G.K. (1962), John Lyly: The Humanist as Courtier, Routledge and
Kegan Paul, London.
Iannáccaro G. (1993), “La virtù militante in Milton: il cammino del
cristiano da Eva ai sonetti”, Acme XLVI, pp. 27-35.
Kelsey H. (1998), Sir Francis Drake, The Queen’s Pirate, Yale U.P., New
Haven and London.
Kennedy J. and R. (1999), MND, in B. Vickers (ed.), Shakespeare: The
Critical Tradition, Athlone Press, London and New Brunswick, NJ.
Kott J. (1977) [1964], “Titania e la testa d’asino”, in Shakespeare nostro
contemporaneo, Feltrinelli, Milano (trad. ital. di Vera Petrelli da Szkice o
Szekspirze, Warszawa 1961), pp. 211-34.
Krieger E. (1996), “MND”, in R. Dutton (ed.), MND, Macmillan, New
Casebooks, London, pp. 38-60.
Leinwand T.B. (1986), “‘I believe we must leave the killing out’:
Deference and Accomodation in MND”, Renaissance Papers, pp. 11-30.
Locatelli A. (1991), “‘How shall we find the concord of this discord?’: Le
aporie del senso in MND”, in M. Tempera (a cura di), MND dal testo alla
scena, CLUEB, Bologna, pp. 61- 75.
Lombardo A. (1961) (a cura di), Samuel Johnson: Preface to Shakespeare,
Adriatica, Bari.
Lombardo A. (1996), L’eroe tragico moderno: Faust, Amleto, Otello,
Donzelli, Roma.
Lyly J. (1967) [1902], Euphues: the Anatomy of Wit, in R.W. Bond (ed.),
The Complete Works of John Lyly, 3 voll., I, Clarendon Press, Oxford.
301
MacCaffrey W. (1961), “Place and Patronage in Elizabethan Politics”, in
S.T. Bindoff et alii (eds), Elizabethan Government and Society, Athlone
Press, London, pp. 95-126.
Mcfarland T. (1972), Shakespeare’s Pastoral Comedy, University of North
Caroline Press, Chapel Hill.
Marenco F. (a cura di) (1990), Nuovo Mondo: gli inglesi, 1496-1640, I
Millenni, Einaudi, Torino
Marotti A.F. (1977), “«Love is not Love»: Elizabethan Sonnet Sequences
and the Social Order”, ELH 49, pp. 396-420.
Melchiori G. (a cura di) (1976-1991), Teatro completo di Shakespeare, 9
tomi, Meridiani, Mondadori, Milano.
Milton J.(1994), Paradiso perduto, a cura di R. Sanesi, saggio introduttivo
di F. Kermode, Mondadori, Milano.
Montrose L.A. (1996), “‘Shaping Fantasies’: Figurations of Gender and
Power in Elizabethan Culture”, in R. Dutton (ed.), MND, Macmillan, New
Casebooks, London, pp.101-138.
Montrose L. (1993), “The Work of Gender in the Discourse of Discovery”,
in S. Greenblatt (ed.), New World Encounters, University of California
Press, Berkeley, Los Angeles, Oxford, pp. 177-217.
More T. (1979), Utopia (1516), a cura di L. Firpo, Guida, Napoli.
New Cambridge Bibliography of English Literature, 1974 e 1971, I (600-
1660) e II (1660-1800), G. Watson e G.D. Pickles (eds), Cambridge U.P.,
Cambridge.
The Norton Anthology: English Literature (2001) [1962], M.H. Abrams
and S. Greenblatt (eds), Norton, New York and London.
Norbrook D. (1984), Poetry and Politics in the English Renaissance,
Routledge, London.
Nuttall A. D. (2000), “MND: Comedy as Apotrope of Myth”, Shakespeare
Survey 53, pp. 49-59.
Parker P. (2003), “(Peter) Quince: Love Potions, Carpenter’s Coigns and
Athenian Weddings”, Shakespeare Survey 56, pp. 39-54.
Paschetto A. (1988), “Othello. L’amore che non vede”, in A. Anzi e P.
Caponi (a cura di), Othello: voci, echi, risonanze, CUEM, Milano, pp. 93-
105.
Patey C. (1996), Manierismo, Bibliografica, Milano.
Perosa S, (1978), La tragedia di Giulio Cesare, in G. Melchiori (a cura di),
Teatro completo di Shakespeare, V, Meridiani, Mondadori, Milano.
302
Petrarca F. (1982) [1964], Canzoniere, a cura di G. Contini, Einaudi,
Milano.
Pfister M. (1988) [1977], The Theory and Analysis of Drama, Cambridge
U. P., Cambridge.
Porter W.M. (1993), Reading the Classics and “Paradise Lost”,
University of Nebraska Press, Lincoln and London.
Pustianaz M. (1995), Per una letteratura giustificata: Scrittura e
letteratura nella testualità della prima Riforma in Inghilterra (1525-1550),
Le Lettere, Torino.
Pustianaz M. (1996), “Tra Umanesimo e Riforma: la letteratura del primo
Cinquecento”, in F. Marenco (a cura di), Storia della civiltà letteraria
inglese, I: Il Medioevo, il Rinascimento, il Seicento, UTET, Torino, pp.
431-450.
Quinn D.B. (1973) [1947], Ralegh and the British Empire, Penguin,
Harmondsworth.
Raleigh W. (1928), The Discoverie of Guiana, V.T. Harlow (ed.),
Argonaut Press, London.
Reale G./ Antiseri D. (1996) [1993], Il pensiero occidentale dalle origini
ad oggi, II, La Scuola, Brescia.
Revard S.P. (2002), “Milton, Homer, and the Anger of Adam”, Milton
Studies 41, pp. 18-37.
Rixon P. (2000), “MND”, in K. Ryan (ed.), Shakespeare: Texts and
Contexts, Macmillan, London
Rossi F. (1986-96), L’idea dell’America nella cultura inglese (1500-1625),
3 voll., I: Diaristica e storiografia, II, Letteratura e teatro del ’500, III:
Letteratura e teatro del primo Seicento, Adriatica, Bari.
Sanders A. (2001), Storia della letteratura inglese, a cura di A. Anzi, 2
voll., Mondadori Università, Milano (1996, The Short Oxford History of
English Literature, Clarendon Press, Oxford).
Sestito M. (1991), “The most lamentable comedy of MND”, in M. Tempera
(a cura di), MND dal testo alla scena, CLUEB, Bologna, pp. 41-59.
Shakespeare W. (2001) [1979], A Midsummer Night’s Dream, H.F. Brooks
(ed.), Methuen, Arden, London.
Shakespeare W (1991), Sogno di una notte di mezza estate, a cura di M.
Pagnini, introduzione di N. d’Agostino, Garzanti, Milano.
Shakespeare W. (1963) [1912], The Winter’s Tale, J.H.P. Pafford (ed.),
Methuen, Arden, London.
303
Short M. (1989), “Discourse Analysis and the Analysis of Drama”, in R.
Carter and P. Simpson (eds), Language, Discourse, and Literature,
Routledge, London and New York.
Skeat W.W. (ed.) (1875), Shakespeare’s Plutarch, Macmillan, London.
Stansbury J. (1982), “Characterizartion of the Four Young Lovers in
MND”, Shakespeare Survey 35, pp. 57-63.
Stone L. (1965), The Crisis of the Aristocracy: 1558-1641, Clarendon
Press, Oxford.
Taylor A.B. (2003), “«When everything seems double»: Peter Quince, the
Other Playwright in MND”, Shakespeare Survey 56, pp. 55-66.
Todorov T. (1584), La conquista dell’America Il problema dell’”altro”,
Einaudi, Torino.
Virgilio (1995), Eneide, a cura di E. Oddone, prefazione di B. Placido.
Economica Feltrinelli, Milano.
Wallis M. and Shepherd S. (1998), Studying Plays, Arnold, London.
Watt I. (1957), The Rise of the Novel, Penguin, Harmondsworth.
Young D.P. (1966), Something of Great Constancy. The Art of MND, Yale
U.P., New Haven.
304