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Lagado studi

Collana di testi universitari


diretta da Giuseppe Sertoli & Fabio Cleto

3
In copertina: elaborazione di un disegno di Seth Fisher
Il logo della collana Lagado è tratto dalle illustrazioni alla prima edizione (1726)
dei Viaggi di Gulliver di Jonathan Swift
FABIO CLETO

Per una definizione del discorso camp

ECIG
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© 2006 Fabio Cleto

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e-mail: ecig@clu.it
I Edizione 2006 – ISBN 88-7544-062-X

Stampato da PRIMA – Genova, per conto della ECIG


Indice

Premessa v

Parte Prima. Esuberanza (Sullo stato della questione) 1

1. La nozione di camp. Introduzione a un’architettura sghemba 3


2. Tradimenti, 1954-1964 23
3. Tradimenti, 1964-1994. Le origini e altre questioni 63

Parte Seconda. Tirando le fila 99

4. Le origini e altre questioni – ulteriori alterità 101


5. Sulle intersezioni di camp e postmoderno 125
6. Logica e spazio del dissenso 145
6.1. Perversioni 145
6.2. Il grado secondo, l’élite del margine, e la violenza della verità 164
7. Altri tradimenti (con una chiave contorta per un’architettura
sghemba) 193

Parte Terza. Appunti per una genealogia della scrittura camp 229

8. Le origini discorsive, I. Il secondo dopoguerra 231


8.1. Sfida controculturale e crisi censoria 231
8.2. Pop Art e underground statunitense 242
8.3. Indici (e istanze) di postmodernità 249
9. Le origini discorsive, II. A ritroso 263
9.1. Dal secondo dopoguerra alla fin de siècle vittoriana,
e ritorno 263
9.2. Le origini del bricolage camp e il processo ‘Oscar Wilde’ 277
9.2. In nome di Wilde 285
10. Epilogo? Ovvero, il ritorno di ‘Edna’ 297

Bibliografia 307
Premessa

Questo lavoro deriva dalla ricerca che ho condotto, sotto la supervisione


di Giuseppe Sertoli, nell’ambito del dottorato in Anglistica (consorzio di
Genova, Milano, Torino e Perugia), VIII ciclo, negli anni 1993-1996. Nel
mandarla a stampa ho preferito non intervenire significativamente sul
testo, o anche solo aggiornarne i riferimenti bibliografici, per limitarmi
alla correzione dei refusi: mi pare che il lavoro abbia una sua natura defi-
nita, per così dire ‘storica’ (nel mio percorso di ricerca così come nella
tradizione di studi sull’argomento) almeno quanto il suo impianto vuole
essere storicizzante. I suoi limiti, in altri termini, coincidono con il suo
valore documentario. Un ripensamento che valorizzi e tenga conto delle
istanze critiche emerse negli anni più recenti – compreso Camp: Queer
Aesthetics and the Performing Subject, il volume che ho curato nel 1999 per
Edinburgh University Press e per University of Michigan Press – e del
successivo articolarsi della mia ricerca, dovrà produrre un lavoro radical-
mente diverso. Colgo l’occasione per ringraziare di cuore Giuseppe Ser-
toli per i preziosi consigli, e il sostegno che non ha mai fatto mancare
durante il dottorato, e negli anni che sono seguiti.
Parte Prima

Esuberanza
(Sullo stato della questione)
1

La nozione di camp.
Introduzione a un’architettura sghemba

In Concerning the Eccentricities of Cardinal Pirelli (1926) di Ronald Firbank,


il protagonista – cardinale spagnolo le cui eccentricità sessuali e religiose
gli vanno procurando la condanna da parte delle somme autorità eccle-
siastiche – si aggira inquieto nella propria dimora:

It was certainly incredible how he felt immured.


Yet to forsake the Palace for the Plaza he was obliged to stoop to creep.
With the Pirelli pride, with resourceful intimacy he communed with
his heart: deception is a humiliation; but humiliation is a Virtue – a
Cardinal, like myself, and one of the delicate violets of our Lady’s
crown… Incontestably, too, – he had a flash of inconsequent insight,
many a prod to a discourse, many a sapient thrust, delivered ex
cathedrâ, amid the broken sobs of either sex, had been inspired, before
now, by what prurient persons might term, perhaps, a ‘frolic’. But away
with all scruples! Once in the street in mufti, how foolish they became.
Disguised as a caballero from the provinces or as a matron (disliking
to forgo altogether the militant bravoura of a skirt), it became possible
to combine philosophy, equally, with pleasure. […]
Although a mortification, it was imperative to bear in mind the con-
sequences of cutting a too dashing figure. Beware display. Vanity once
had proved all but fatal: ‘I remember it was the night I wore ringlets
and was called “my queen”’.
And with a fleeting smile, Don Alvaro Pirelli recalled the persistent
officer who had had the effrontery to attempt to molest him: ‘Stalked
me the whole length of the Avenue Isadora!’1

Ci confrontiamo con un brano che esemplifica alcuni degli elementi ca-


ratterizzanti il fenomeno irriducibile, contraddittorio e stratificato, che –
con termine ampiamente intraducibile – viene in lingua inglese denomi-
1
Ronald Firbank, Concerning the Eccentricities of Cardinal Pirelli, in The Complete
Ronald Firbank, London: Duckworth, 1961, pp. 650-51.
4 ESUBERANZA

nato camp. Al contempo aggettivo (camp; campy, o ancora campish), ag-


gettivo sostantivato (camp) o sostantivo astratto deaggettivale (campness,
campiness), verbo intransitivo (to camp) e transitivo (to camp something up),
marcato dalla maiuscola o meno, il lemma non trova in effetti adeguata
1
corrispondenza in altre lingue, benché, come si vedrà oltre, il francese se
camper e l’italiano campeggiare (nell’accezione teatrale, quale predominio
di un attore sull’intera scena, in un rapporto privilegiato con il pubblico)
siano stati indicati fra le sue possibili radici etimologiche. Esistono infatti
solo parziali corrispondenze – campeggiare, appunto, o diva, in italiano; se
camper o folle in francese, con diva e folle intesi nella loro accezione speci-
ficamente omosessuale – ma non un singolo lemma che renda conto del-
2
la molteplicità di piani sui quali si articola camp.
L’assenza di un termine specifico, chiaramente, non nega l’esistenza,
al di fuori del mondo anglofono, delle molteplici prassi cui il camp stesso
riferisce; se la sottocultura omosessuale europea e sudamericana, ad esem-
pio, si configura in significativa consonanza con la scena camp anglo-
americana, in ambito strettamente artistico istanze eclatanti del fenome-
no – in termini di modalità, oltre che di oggetto, di rappresentazione –
sono fra i molti gli italiani Luchino Visconti e Alberto Arbasino, i francesi
Philippe Jullian, Jean Cocteau e Jean Genet, lo spagnolo Pedro Almodó-
var e il tedesco Rainer Werner Fassbinder, i romanzi del barocco sudame-
ricano (Severo Sarduy, Manuel Puig, Lezama Lima e Carlos Fuentes), o
1
La questione dell’etimo verrà affrontata nel capitolo 7.
2
È in ragione di questa latitanza che gli interventi sull’argomento al di fuori del
mondo anglofono ricorrono puntualmente al lemma inglese: si confrontino in tal sen-
so Gillo Dorfles, Il Kitsch. Antologia del cattivo gusto, Milano: Gabriele Mazzotta, 1968,
pp. 291-292; Jacques Sternberg, Les Chefs-d’oeuvres du Kitsch, Paris: Planète, 1971; Flo-
rencio Segura, “?Un centenario ‘camp’? El genio alegre de los hermanos Quintero”,
Razon y Fé, 6, 1971, pp. 17-21; Gianni Buttafava, “Il travestitismo a teatro”, in Gillo
Dorfles et alii, Gli uni e gli altri, Roma: Arcana, 1976, pp. 31-35; Patrick Mauriès, Second
manifeste camp, Paris: Seuil, 1979; Giuseppe Merlino, “Camp”, Anglistica-AION, XXVI,
1-2, 1983, pp. 123-132; Maria Del Sapio, Alice nella città. Note su arte e stili metropolitani,
Pescara: Tracce, 1988, pp. 23, 83-86; Paolo Landi, “Kitsch, Camp, Snob”, in Lo snobi-
smo di massa, Milano: Lupetti, 1991, pp. 35-40; Mary Makris, “Reflexiones sobre una
Ofelia sin Hamlet”, Estreno, XIX, 1, 1993, pp. 6-7; Tommaso Labranca, “Trash, Camp
& Kitsch”, in Andy Warhol era un coatto. Vivere e capire il trash, Firenze: Castelvecchi,
1994, pp. 31-36; Alejandro Yarza, “Un canibal en Madrid: El altar y la estetica Kitsch/
Camp en Entre tinieblas de Pedro Almodóvar”, RLA: Romance Languages Annual, 6,
1994, pp. 624-632; Vieri Razzini, “Qualcosa sul Camp”, in Marina Ganzerli, Loredana
Leconte e Giovanni Minerba (a cura di), Da Sodoma a Hollywood, Torino: L’altra comu-
nicazione, 1995, pp. 61-65; H. Brandhorst, “Das Leben als Theater. Camp als Perfor-
manz von queer Identitäten”, Forum Homosexualität und Literatur, 24, 1995; Svetlana
Boym, “Kitsch i Sozialisticeskij Realizm”, NLO, 15, 1995, pp. 54-65.
INTRODUZIONE A UN’ARCHITETTURA SGHEMBA 5

nel mondo slavo figure come Vaslav Nijinski, Anna Pavlova e Sergej
Djaghilev dalla scena dei Ballets Russes, oppure come Alla Nazimova ed
1
Erté. Rimane un problema aperto il fatto che queste figure si siano in-
scritte in un quadro angloamericano, rimandando esplicitamente al ter-
2
mine inglese, esercitando la propria attività nel mondo anglofono, o an-
cora interagendo con il quadro di intelligibilità che costruisce il camp
come fenomeno culturale, venendo cioè decodificati in relazione a – e a
partire da – un sistema di articolazione dei segni che afferisce alla cultura
anglosassone. È pertanto arduo determinare quanto tale quadro di intel-
ligibilità sia intervenuto nel percepire una valenza camp in ciò che poteva
non essere riconducibile alle stesse matrici all’interno della cultura d’ori-
gine. Si pone cioè ad attenzione il problema che si vedrà essere esplicita-
to dall’estetica camp, vale a dire l’imprescindibile sovrapposizione di sog-
getto percipiente e oggetto percepito, di oggetto di lettura e soggetto let-
tore, con la sovrastruttura di precomprensioni che quest’ultimo porta al
testo, a ‘pervertire’ la progettualità originaria, deviandola verso esiti non
3
programmati né prevedibili, ossia a demistificare il mito dell’origine. Vo-
1
Lo stesso Andy Warhol (al secolo Andrew Warhola), la cui Pop Art ha segnato di
fatto la prassi camp statunitense più di ogni altra produzione artistica nel secondo do-
poguerra, era di origini europee. In merito alla qualità camp degli artisti sopra citati si
possono consultare Philip Core, Camp: The Lie that Tells the Truth, New York: Dalilah,
1984, pp. 52-54, 90-91; Ronald Schwartz, “Cobra Meets the Spiderman: Two Examples
of Cuban and Argentinian ‘Camp’”, in Rose S. Minc and R. Marylin Frankenthaler
(eds.), Requiem for the ‘Boom’ – Premature? A Symposium, Montclair: Montclair State
College, 1980, pp. 137-149; Alejandro Yarza, op. cit.; Paul Julian Smith, Laws of Desire:
Questions of Homosexuality in Spanish Writing and Film, 1960-1990, Oxford: Clarendon,
1992; Pascale Gaitet, “The Politics of Camp in Jean Genet’s Our Lady of Flowers”,
L’Esprit Créateur, XXXV, 1, printemps 1995, pp. 40-49; Richard Dyer, “Reading Fass-
binder’s Sexual Politics”, in Tony Rayns (ed.), Fassbinder, London: British Film Insti-
tute, 1979; Johannes von Moltke, “Camping in the Art Closet: The Politics of Camp
and Nation in German Film”, New German Critique, 63, Fall 1994, pp. 77-106; Patrick
Mauriès, op. cit., p. 26; Pamela Bacarisse, “Chivalry and ‘Camp’ Sensibility in Don Qui-
jote, With Some Thoughts on the Novels of Manuel Puig”, Forum for Modern Language
Studies, XXVI, 2, 1990, pp. 127-143.
2
È il caso, ad esempio, di Pedro Almodóvar e di Alberto Arbasino. Per quanto ri-
guarda il cineasta spagnolo si vedano le interviste riportate in Marcia Pally, “The Poli-
tics of Passion: Pedro Almodóvar and the Camp Esthetic”, Cinéaste, XVIII, 1, 1990, pp.
32-35, 38-39. Arbasino, peraltro, parla esplicitamente di camp e del proprio debito nei
confronti della scena angloamericana in varie sedi: cfr. Alberto Arbasino, Off-off, Milano:
Feltrinelli, 1968, pp. 139, 200, 216, 230, 257; Id., Sessanta posizioni, Milano: Feltrinelli,
1971, passim; e Id., “Nota 1978”, in Super-Eliogabalo, Torino: Einaudi, 1978, p. 350.
3
Si precisa fin da ora un presupposto fondamentale di questo lavoro, così come – si
ritiene – del suo oggetto di studio: il termine mito viene qui inteso nell’accezione bar-
thesiana, attraverso la quale si indica la sfera della semiotica connotativa, il significato
6 ESUBERANZA

lendo arginare una questione che condurrebbe ben oltre i confini di que-
sta ricerca, basti in definitiva osservare in questa sede come la latitanza
del termine ostacoli un inserimento dei numerosi fattori afferenti alla fe-
nomenologia camp in un sistema d’intelligibilità: in una tradizione, una
1
teoria e una prassi storica.
Torniamo pertanto al brano dal Concerning the Eccentricities of Cardinal
Pirelli firbankiano, e alla sua ascrivibilità al camp. L’esibizionismo che
impregna di sé sia l’utilizzo di un linguaggio massimamente stilizzato sia
l’erraticità del periodare e del pensiero messo in scena (“he had a flash of
inconsequent insight”), si coniuga al compiacimento per il sofisma attra-
verso il quale i termini di positività e negatività risultano invertiti e la
mendacità è resa pratica tanto virtuosa quanto edificante: “deception is a
humiliation; but humiliation is a Virtue”. Ne emerge un paradossale vir-
tuosismo, grazie al quale la virtù e i suoi correlati (onestà, temperanza,
castità, rettitudine, ecc.) sono sovrapposti al loro opposto: all’abilità cioè
tecnica di manipolare i segni e le architetture di pensiero verso la pratica
della disonestà, dell’intemperanza, della perversione, della menzogna e
dell’eterodossia. Un virtuosismo che proprio in ragione di tale ambiguità
non promuove, in ultima analisi, un coinvolgimento emotivo del lettore,
una sua illusione nei confronti dell’autenticità (verosimiglianza, sincerità,
rimando im-mediato alla realtà) del testo narrativo o della qualità argo-
mentativa – evidentemente pretestuosa, e accattivante in quanto tale – del
Cardinal Alvaro Narciso Hernando Pirelli. L’ostentazione di sé – inscritta

di secondo grado, la mistificazione in ovvio (ciò-che-va-da-sé, aproblematica assun-


zione di un ‘dato di fatto’ e di una rappresentazione collettiva), in quella pretesa natu-
ralità universale, al di là della storia, che maschera una pratica – ratificante un ordine
ideologico e una normalizzazione – precisamente collocabile in un dato spazio e tem-
po storico. Il rimando è, ovviamente, ai saggi raccolti in Roland Barthes, Mythologies,
Paris: Seuil, 1957, e in particolare al saggio conclusivo “Le mythe, aujourd’hui” (1956),
pp. 213-268. Nel corso di questo lavoro si evidenzierà infatti come l’intera impresa del
camp sia riconducibile a una pratica di mitologia e di mitografia, il che risulta coerente
con quanto osservato, sia pure senza articolarne le complesse implicazioni, da Andy
Medhurst a proposito della raccolta barthesiana: “what is that but a series of camp re-
adings? Name one heterosexual male theorist who could display such interest in wres-
tling, washing powders and Greta Garbo”. Andy Medhurst, “That Special Thrill: Brief
Encounter, Homosexuality and Authorship”, Screen, XXXII, 2, 1991, p. 207. Questa af-
fermazione non chiude la questione del rapporto fra camp e scrittura barthesiana:
semplicemente, la apre.
1
Tale circoscrizione di campo ha quale immediata ricaduta una circoscrizione della
validità di quanto segue: lo studio del camp che si va proponendo è insomma limitato
alla sfera angloamericana, e non ha pretese di funzionalità per gli ambiti culturali che
eccedono questa sfera.
INTRODUZIONE A UN’ARCHITETTURA SGHEMBA 7

già nel nome del protagonista e teatralizzata nel suo agire così come nel
suo stile di pensiero – si duplica insomma nell’esibizione dell’inganno te-
stuale (e del sé come menzogna, artificio o maschera), volta a promuovere
una fruizione all’insegna del sorriso complice: in altre parole, un apprezza-
mento inscindibile dalla consapevolezza di teatrale inautenticità del te-
sto, dell’argomentazione e del sé. Il lettore stesso è invitato cioè ad adot-
tare una sorta di pensiero travestito, a fingere di collaborare con la perfor-
mance o a collaborare fingendo di credere in essa; in questa paradossale dia-
lettica si può riconoscere a pieno diritto una tipica declinazione del camp.
Se il brano, in tal senso, denuncia una campiness, è dunque anche in
virtù del fatto che in esso ‘campeggia’ la figura dell’eccentrico sacerdote.
Don Alvaro Narciso Hernando Pirelli è egli stesso un camp (nella forma
nominale camp indica in effetti sia il fenomeno nel suo complesso sia
l’individuo che ne partecipa), poiché ripropone la modalità esistentiva –
all’insegna della sprezzatura aristocratica e ricercatezza del sofisticato
esteta che assume le vesti del trickster – riconducibile al modello sette-
centesco del virtuoso. Un antecedente storico di grandissimo rilievo per il
1
soggetto camp novecentesco, il virtuoso, sul quale si scatenava la stig-
matizzazione dei pensatori autorizzati dalla nascente egemonia borghe-
se, in ragione della vacuità ‘intrinseca’ alla sua sfrontata e narcisistica au-
toreferenzialità, che opponeva all’integrità del soggetto borghese – e del-
le sue fondamenta gnoseologiche – un’effeminatezza di stampo aristo-
cratico e, con essa, una pseudoconoscenza che dissociava gusto, maniere
e morale trovando la propria ragion d’essere, il proprio oggetto e il pro-
2
prio fine in se stessa. In breve, in ragione di quel riprovevole orgoglio che
il virtuoso mutuava dalla nobiltà (dalla rappresentazione derogatoria che
della nobiltà offrivano i critici borghesi, nel processo di ratificazione di un
nuovo equilibrio fra le classi e di un nuovo, corrispondente, ordine di na-

1
Questo è quanto sostiene persuasivamente, in una eccellente ricognizione della
semiotica della postura e dell’abbigliamento aristocratico nell’Inghilterra tardorinasci-
mentale, Thomas A. King, “Performing ‘Akimbo’: Queer Pride and Epistemological
Prejudice”, in Moe Meyer (ed.), The Politics and Poetics of Camp, London: Routledge,
1994, p. 23-50. Che il virtuoso sia figura centrale nell’iconografia camp emerge anche,
seppure in modo impressionistico, in Mark Booth, Camp, London, Quartet, 1983, passim.
2
Thomas King riporta le esplicite dichiarazioni, fra il 1710 e il 1714, di Anthony Ashley
Cooper, che contrapponeva al dispendio, tanto ricercato quanto ingannevole, del vir-
tuoso, l’attività critica del soggetto borghese: il gusto si esercitava correttamente solo
attraverso “the antecedent Labor and Pains of CRITICISM”, che conduceva alla natura
delle cose, poiché “in the very nature of Things there must of necessity be the Founda-
tion of a right and wrong TASTE”. Cfr. Thomas King, op. cit, pp. 35-36.
8 ESUBERANZA

1
turalità), e che lo separava da Dio evacuandone la dimensione interiore.
Il sofisma del cardinal Pirelli, non a caso, è sollecitato e legittimato
dall’orgoglio della stirpe: “with the Pirelli pride, with resourceful inti-
macy he communed with his heart”. L’abilità retorica del personaggio
trova la propria matrice nel privilegio conferito a un sé che annulli la di-
mensione interiore e privata per costituirsi in quanto spettacolo, quale
pura esteriorità, o che – come rende esplicito il personaggio firbankiano
– renda la sua stessa interiorità, his heart, scenario per il dispiegarsi di un
sofisticato inganno: e la sofisticatezza rimanda etimologicamente proprio
al sofisma, al sottile e ingannevole teatrino messo in scena da Pirelli. Il
valore – la virtù – di cui si fa portatore il cardinale è insomma, come veniva
addebitato ai virtuosi, un antivalore, una pura funzione del palco sociale
e del sociale in quanto palco (una funzione insomma del luogo che si oc-
cupa su di esso, della relazione che il performer intrattiene con lo spetta-
tore nell’economia dello spettacolo – ha valore chi campeggia sulla scena,
chi si impone all’attenzione del pubblico, a prescindere dal suo ‘valore
2
intrinseco’), nella radicale operazione demistificatoria del palco medesimo
cui ci introduce Pirelli ricordando come “many a prod to a discourse, many
a sapient thrust, delivered ex cathedrâ, amid the broken sobs of either
sex, had been inspired, before now, by what prurient persons might
term, perhaps, a ‘frolic’”. È significativo infatti che ex cathedrâ Pirelli ri-
1
Alla fallacia, in merito al fondamento gnoseologico di cui nella nota precedente,
King fa corrispondere la vacuità del virtuoso, il cui narcisistico orgoglio lo separa dal
primo oggetto e fine di conoscenza, Dio. L’orgoglio è il peccato primigenio, padre di
tutti i vizi, perversione del libero arbitrio in quanto promuove l’opposizione fra sé e
Dio, il rifiuto di un disegno divino, e – attraverso questo rifiuto – l’evacuazione del sé:
“[i]n turning away from God, the proud man perversely abandoned his proper self;
pride was therefore the origin and epitome of the Augustine concept of sin as priva-
tion. The proud man’s excessive concern with himself actually recreated him as lacking
being”. Ibidem, pp. 31-32. L’argomentazione di King è a ogni modo riconducibile a
quanto osservato da Jonathan Dollimore sulla concettualizzazione agostiniana di pec-
cato come privazione in “Augustine: Perversion and Privation”, in Sexual Dissidence:
Augustine to Wilde, Freud to Foucault, Oxford: Clarendon, 1991, pp. 131-147.
2
Il virtuoso, così come il cortigiano che scatenava la vis polemica di Samuel Butler,
“[i]s a cipher, that has no value himself but from the place he stands in. […] His busi-
ness is only to be seen” (cit. in Thomas King, op. cit., p. 37). Dal che King conclude:
“The courtier and the virtuoso shared the same psychic makeup according to their crit-
ics; they were at once overly concerned with themselves and unable to know them-
selves, embodying excess but manifesting emptiness” (ibidem). Sulla virtus tardorina-
scimentale quale funzione del ruolo sociale più che del rimando agli eterni valori della
natura umana si veda anche Jonathan Dollimore, “Antony and Cleopatra (c. 1607): Vir-
tus Under Erasure”, in Radical Tragedy: Religion, Ideology and Power in the Drama of
Shakespeare and His Contemporaries, London: Harvester Wheatsheaf, 1984, pp. 204-217.
INTRODUZIONE A UN’ARCHITETTURA SGHEMBA 9

corra a quelle che definisce le proprie ‘marachelle’ come geniali spunti


per il sermone, poiché in quest’ultimo si esautora Dio della propria auto-
revolezza: alla presenza divina quale fonte della rettitudine viene sosti-
tuita l’assenza d’interiorità del trasgressore quale fonte della deviazione.
Questo valore spurio coincide con quello di cui sono depositari coloro
che nel pionieristico studio di Esther Newton sulla scena omosessuale
nordamericana sono stati significativamente chiamati “camps or virtuoso
1
verbal clowns”, quei precieux, maestri nell’investire la parola prima an-
cora che la gestualità e il dato sartoriale quale catalizzatore d’attenzione,
che si sono andati distribuendo tanto sulla scena dei locali frequentati da
travestiti quanto nel mondo dell’entertainment e sul palco dell’Alta Cultu-
2
ra, dispiegando la logica paradossale dell’inganno esibito che si è vista at-
tuata nel Cardinal Pirelli impegnato, letteralmente, a irretire il lettore in una
trama di complicità, a intrattenerlo nell’ inganno testuale e performativo.
Intrinsecamente connessa a questo atto di performance da avanspet-
tacolo, e in particolare alla complicità che esso presuppone nella propria
fruizione, è del resto, nel brano firbankiano, l’allusione alla clandestinità
del sottobosco omosessuale offerta dai riferimenti in codice (“a Cardinal,
like myself, and one of the delicate violets of our Lady’s crown…”, con
violet che invita fortemente la lettura quale sinonimo gergale del soggetto
3
omosessuale), dalle insinuazioni velate (“amid the broken sobs of either
sex”), dal travestimento e in particolare dalle incursioni cardinalizie nelle
1
Esther Newton, “Note to the Reader”, in Mother Camp: Female Impersonators in
America (1972), Chicago: University of Chicago Press, 1979, p. xx.
2
Una mappa di questa distribuzione coincide in effetti con la mappa della “traditio-
nal gay male culture” qual è stata presentata da Derek Cohen e Richard Dyer: “[i]n
literature, the characteristic mode of gay cultural production has been that of the mi-
nor literati […]. The arts of opera, ballet, certain painters and sculptors and antiques,
have for so long been though of as gay preserves […]. These arts have, like that of the
minor literati, an ambiguous place in bourgeois high culture. Recognised as Art, and
subsidised as such, there is still a strong current of opinion that does not quite take
them seriously as Art […]. Not all traditional gay male culture is highbrow, however.
Show business traditions, especially cabaret and musicals (stage and screen), are part
of the canon. […] Finally, somewhere between highbrow Art and showbiz come the
areas of ‘taste’, such as couture, coiffure, interior decoration and so on.” Derek Cohen
and Richard Dyer, “The Politics of Gay Culture”, in Gay Left Collective (eds.), Homo-
sexuality: Power and Politics, London: Allison & Busby, 1980, pp. 175. In ognuno di
questi ambienti, si vedrà, il modello è quello offerto dal preziosismo (verbale, corporeo
e vestimentario) di Oscar Wilde. Se nella sfera della Cultura la centralità di Wilde come
signore del linguaggio è ormai pressoché ovvia, essa lo è meno nell’ambito della sotto-
cultura omosessuale. Ma questa centralità risulterà giustificata in (e da) questo lavoro.
3
Cfr. Bruce Rodgers, The Queen’s Vernacular: A Gay Lexicon, San Francisco: Straight
Arrow, 1972, p. 165.
10 ESUBERANZA

strade cittadine, “disguised as a caballero from the provinces or as a ma-


tron (disliking to forgo altogether the militant bravoura of a skirt)”, e dal
ricordo di una di queste, dall’esito quanto mai ambiguo: “I remember it
was the night I wore ringlets and was called ‘my queen’”. Si tenga pre-
sente che queen, al pari della sua versione italiana regina, denota anche
una delle figure di immediata evidenza nella fenomenologia camp, l’omo-
1
sessuale marcatamente effeminato: il cardinale si dibatte cioè fra la rico-
noscibilità e il mascheramento, che si sovrappongono nella pratica del
travestimento (travestirsi è, in questo caso in modo evidente, un esporsi
e celarsi al tempo stesso, un segnalare un sé celato o un dispiegare un sé
interamente prodotto dalla/nella superficie, e che esprime solo la falsità
del vuoto), oscillando così fra trasgressività aperta (“away with all scru-
ples! Once in the street in mufti, how foolish they became”) e occulta-
mento della stessa (“it was imperative to bear in mind the consequences
of cutting a too dashing figure. Beware display. Vanity once had proved
all but fatal”), fra desiderio dell’uscire allo scoperto e consapevolezza del
rischio – all’epoca, negli anni Venti, giudiziario oltre che in termini di
2
stigmatizzazione sociale – che l’esibizione di sé (di un sé, di per sé, tra-
3
sgressivo) comporta.
Riferimenti in codice, insinuazioni e travestimento, effeminata raffina-
tezza, edonismo ilare, portamento affettato e vacua ostentazione d’este-
riorità: tutto sembra parlare l’omosessualità del protagonista. Ma il bra-
no, e il romanzo nella sua interezza, non ci informano sulle pratiche ses-
suali del Cardinale o sulla sua concreta partecipazione a una comunità
esplicitamente codificata dal desiderio. Né si era in grado di farlo, si po-
1
Cfr. ivi, pp. 164-165.
2
Sebbene il caso giudiziario fosse stato chiuso trent’anni prima, non si era ancora
spenta l’eco dei processi Wilde del 1895, il cui effetto – come si avrà modo di discutere
nel corso di questo lavoro – si sarebbe protratto per la gran parte del nostro secolo in
misura ben superiore a quello di una semplice cause célèbre. La depenalizzazione del-
l’omosessualità in Gran Bretagna avvenne peraltro solamente nel 1967, con il Sexual
Offences Act che autorizzò la sua pratica fra persone di età superiore ai ventuno anni.
Tale restrizione, superiore rispetto a quella posta sui rapporti eterosessuali (nel 1967,
legali al compimento dei sedici anni), è stata portata ai diciotto anni solo nel febbraio
1994, accogliendo (ma solo parzialmente) le sollecitazioni in tal senso da parte della
Comunità Europea. Sulla legislazione in merito alle pratiche omosessuali si può con-
sultare Leslie Moran, The Homosexual(ity) of Law, London: Routledge, 1996.
3
La soggettività omosessuale non è di per sé trasgressiva in quanto astrattamente,
metastoricamente eversiva, ma lo è nella misura in cui l’orizzonte culturale in cui la
soggettività di un Pirelli si inserisce prescriveva una modalità di costituzione della sog-
gettività stessa, e dell’ordine dei meccanismi di autoregolazione sociale implicata da
quest’ultima, fondata sull’esclusione dell’Altro omosessuale.
INTRODUZIONE A UN’ARCHITETTURA SGHEMBA 11

trebbe ribattere, a causa della censura che su queste pratiche si produce-


va nell’Inghilterra della prima metà del nostro secolo, impedendo la di-
retta rappresentazione di passioni e desideri esclusi dalla Legge; o anco-
ra, adducendo l’inesistenza al tempo di una cultura omosessuale autoco-
stituita, articolata su modalità esplicite di relazione e spazi di socializza-
zione all’insegna di una identità collettiva da presentare sulla scena pub-
blica, vale a dire quella cultura che si è venuta producendo a partire dagli
1
anni Settanta sulla scorta dei movimenti di liberazione gay.
La chiave di lettura in termini di censura, tuttavia, non estenua la
complessità dell’indice di riconoscimento, del my queen pronunciato, non
si dimentichi, dal persistent officer ricordato dal cardinale mentre, ‘sfron-
tato’, lo ‘molestava’ seguendolo lungo l’intero viale Isadora: indice di ri-
conoscimento pronunciato, in ultima analisi, da un personaggio non iden-
tificato, potenzialmente riconducibile quindi tanto al rappresentante del-
la Legge quanto al trasgressore, a colui che di fatto potrebbe celare a sua
volta una figura per così dire en travesti, a seconda della particolare enfasi
posta sulle parole durante l’atto di lettura (a seconda cioè del grado di
complicità e di ammiccamento che vi si produce).
La censura è attivata sì, nel ricordo dell’episodio, dalla consapevolezza
dei rischi insiti nella riconoscibilità, ma in una chiave ben più stratificata
e ambigua, quella offerta dal ricorso alla nozione di closet, la metafora spa-
2
ziale utilizzata come categoria analitica per indicare la segretezza della
1
Il termine cultura viene qui inteso non tanto nella sua tradizionale accezione valu-
tativa e prescrittiva, bensì nell’accezione analitica, che denota i sistemi di significazione
attraverso i quali una data organizzazione sociale comprende se stessa e l’altro da sé.
Più che alla nozione assunta, ad esempio, nell’articolo citato di Cohen e Dyer – nella
quale per cultura gay si intendono gli aspetti della cultura (nell’accezione valutativa)
offertisi a una fruizione da parte del soggetto omosessuale, o che da questi è stata in
prima battuta prodotta –, essa riferisce dunque ai “patterns of behavior and belief
common to members of a society. It is the rules for understanding customary behavior.
Culture includes beliefs, norms, values, assumtions, expectations, and plans for action.
It is the framework within which people see the world around them, interpret events
and behavior, and react to their perceived reality”. James P. Spradley and Michel A.
Rynkiewich, “The Concept of Culture”, in James P. Spradley and Michel A.
Rynkiewich (eds.), Nacirema: Readings on American Culture, Boston: Little, 1975, p. 7.
Questa accezione coincide con quella che sottende a un ampio spettro di orientamenti
critici degli ultimi trent’anni quali lesbian and gay studies, studi culturali, studi postcolo-
niali, materialismo culturale e neostoricismo, e trova in Raymond Williams e Stuart
Hall i suoi propositori di maggiore rilievo. Cfr. Raymond Williams, Culture, Glasgow:
Fontana, 1981; Stuart Hall, Dorothy Hobson, Andrew Lowe and Paul Willis (eds.),
Culture, Media, Language, London: Hutchinson, 1980; Alan Sinfield, Cultural Politics—
Queer Reading, London: Routledge, 1994; Francis Mulhern, Culture, ibidem, 1996.
2
George Chauncey sottolinea la validità della nozione di closet quale categoria anali-
12 ESUBERANZA

condizione omosessuale dominante fino alla fine degli anni Sessanta. Il


closet, inteso come dialettica fra “the known and unknown, the explicit
1
and the inexplicit around homo/heterosexual definition”, indica infatti la
dimensione tutta privata in cui isolamento e invisibilità si coniugavano
nell’impedire l’articolazione di un’identità collettiva gay e talora persino
la stessa accettazione di sé come soggetto ‘diverso’, offrendo alla cultura
dominante (fondata sull’eterosessualità prescrittiva) un impareggiabile
strumento di gestione o di repressione delle pratiche sessuali eterodosse,
e del modello esistentivo e sociale radicalmente alternativo che queste –
2
se non altro potenzialmente – implicavano.
La censura, intesa come atto di repressione di una parte inaccettabile
dell’io, è funzionale alla costituzione del soggetto omosessuale all’inse-
gna della segretezza del closet, al soggetto insomma privato – al contem-
po intimo e mutilato di una parte integrante di sé. In questo senso non è
illegittimo leggere nella sovrapposizione fra Legge e trasgressione messa
in gioco dal persistent officer, e nel pericolo dal quale il cardinale si impo-
ne di guardarsi, un Altro da sé che teatralizza il conflitto insito nella sog-
gettività cardinalizia, il timore di riconoscimento come timore di ricono-
scimento di sé e del proprio desiderio: in definitiva, il timore di quello che
si è venuto chiamando il coming out, lo ‘uscire fuori’ (dal Palazzo, e
dall’edificio culturale della segretezza) e parlare il nome – nella fortunata
formula di Lord Alfred Douglas – del “Love that dare not speak its na-
3
me”. Il timore, in altri termini, di quella fatalità (“vanity once had pro-
ved all but fatal”), di quella dissoluzione del sé, che l’esperienza deviante
comportava rispetto al senso profondo d’identità, allo statuto ratificato di
4
sé e al ruolo sociale che a questo corrispondeva.
Il coming out, che oggigiorno fa riferimento al momento di piena presa
di coscienza di sé e di esplicitazione pubblica della propria ‘diversa’ iden-

tica, e non quale categoria storica, poiché il termine non aveva effettiva operatività du-
rante gli anni cui la categoria fa riferimento. Cfr. George Chauncey, Gay New York: The
Making of the Gay Male World, 1890-1940, London: HarperCollins, 1995, p. 6.
1
Eve Kosofsky Sedgwick, Epistemology of the Closet (1990), Harmondsworth: Pen-
guin, 1994, p. 3.
2
Sull’ambiguità del closet, dispiegata nell’analisi della scrittura di Henry James, Melville,
Nietzsche, Proust e Wilde, è imprescindibile il volume citato di Eve Kosofsky Sedgwick.
3
Alfred Douglas, “Two Loves”, The Chameleon, 1, 1894, p. 28.
4
Sulla fatalità dell’esperienza omosessuale nei confronti del proprio senso di identi-
tà, e della stessa nozione di soggettività, in relazione allo specifico di Oscar Wilde e di
André Gide, ha pagine illuminanti Jonathan Dollimore, “Wilde and Gide in Algiers”,
in Sexual Dissidence, cit., pp. 3-18.
INTRODUZIONE A UN’ARCHITETTURA SGHEMBA 13

1
tità, nel caso del cardinal Pirelli, e della cultura del suo tempo, corri-
sponde peraltro allo scenario cui ci introduce la ricognizione storiografica
della scena omosessuale metropolitana a cavallo fra i due secoli di Geor-
ge Chauncey, la quale evidenzia la necessità di sostituire al coming out of
the closet il coming out into the gay world, quale utilizzo storico della locu-
2
zione. La privazione della privatezza (il closet), e il regime di conoscenza
che la sottende, veniva abbandonato attraverso un vero e proprio ‘debut-
to’ – modellato per via parodica su quello delle debuttanti nell’Alta So-
3
cietà – nella società dei cultural peers, ossia dei ‘pari rango’ omosessuale.
Il Cardinal Pirelli, insomma, si muove nel closet solo nella misura in
cui egli resiste alla persecuzione/tentazione del persistent officer, e in cui
resiste il riconoscimento del proprio desiderio: nella misura in cui, in de-
finitiva, sembra evitare di articolarsi in un pieno accesso alla propria ses-
sualità, intendendo con ciò accesso alla sottocultura omosessuale, a quel-
la che con altra metafora spaziale veniva indicata come il gay world, che
4
già al tempo si distribuiva in spazi sociali e in ritualità collettive. La dimen-
sione pubblica dell’eversività cardinalizia esiste infatti solo in coincidenza
con quella interiore, in quell’io ‘privato’ che è anche un io scisso, soggetto
1
I due fattori – presa di coscienza ed esplicitazione – sono stati storicamente sovrap-
posti nel corso degli anni Settanta di questo secolo, allorché l’articolazione dell’at-
tivismo gay promosse un’identità pubblica a scapito di quella ‘privata’ (il closet) cui del
resto, come si vedrà, viene fatto in larga misura corrispondere il fenomeno camp della
prima metà del Novecento. Closet e coming out sono così strettamente legati, pur rim-
piazzandola, alla dicotomia fra covert e overt homosexual che Maurice Leznoff e W. A.
Westley avevano strutturato in “The Homosexual Community”, Social Problems, 3,
1956, pp. 257-263. Sul coming out sono utili Dennis Altman, Homosexual: Oppression
and Liberation, New York: Outerbridge & Dienstfrey, 1971; e Jeffrey Weeks, Coming
Out: Homosexual Politics in Britain from the Nineteenth Century to the Present, London:
Quartet, 1977.
2
George Chauncey, op. cit., p. 7.
3
Ivi, pp. 7-8.
4
Il volume citato di Chauncey è senza dubbio fra gli studi più esaurienti, documen-
tati e intelligenti sulla costituzione del gay world, con specifica attenzione alla sua parte
maschile. Altri studi di storiografia gay, di analoga utilità, sono Jeffrey Weeks, op. cit.;
Id., Sex, Politics and Society: The Regulation of Sexuality Since 1800, London: Longman,
1981; Kenneth Plummer (ed.), The Making of the Modern Homosexual, London: Hut-
chinson, 1981; David F. Greenberg, The Construction of Homosexuality, Chicago: Uni-
versity of Chicago Press, 1988; David Halperin, One Hundred Years of Homosexuality
and Other Essays on Greek Love, London: Routledge, 1989; e Martin Duberman, Martha
Vicinus and George Chauncey (eds.), Hidden from History: Reclaiming the Gay and Les-
bian Past, New York: New American Library, 1989; Allan Bérubé, Coming Out Under
Fire: The History of Gay Men and Women in World War Two, New York: Free Press,
1990; e Neil Miller, Out of the Past: Gay and Lesbian History from 1869 to the Present,
New York: Vintage, 1995.
14 ESUBERANZA

diviso fra i cui frammenti si distribuiscono i ruoli di attore e spettatore, di


trasgressore e di complice all’insegna del sorriso (“with a fleeting smile,
Don Alvaro Pirelli recalled the persistent officer”). L’unico accesso alla
dimensione propriamente sociale rappresentato dal gay world, ha luogo
nella pagina e attraverso di essa: attraverso la ‘cultura’ di fruizione che
essa presuppone, con il lettore che si costituisce quale spettatore della
1
cerimonia di debutto – vale a dire, il testo – del Cardinal Pirelli.
Se il camp della prima metà del nostro secolo viene dunque, nella
gran parte dei casi, ricondotto alla condizione omosessuale censurata, al
gioco di nascondere e di ammiccare la cui funzione è il riconoscimento
solo per i pari grado, esso risulta una forma ben più ambigua di quanto
evidenzi una semplice chiave censoria di matrice repressiva. (Lo stesso
closet è stato del resto oggetto di un profondo ripensamento, che lascia le
proprie tracce nelle considerazioni precedenti, così come la segretezza
che avrebbe imposto la condizione di sotterfugio dell’omosessuale pro-
dottosi attraverso una performance in chiave camp. All’essenzialismo
dell’ipotesi repressiva che promuoveva negli anni Settanta il coming out,
si è venuto sostituendo un costruzionismo che indica nel closet una mo-
dalità di costruzione della soggettività, e nella secrecy un regime di sapere
basato – come ogni sapere – sull’ignoranza, tanto ingenua quanto strate-
2
gica, piuttosto che sulla sua negazione. Il segreto omosessuale diviene
1
Fin troppo agevole, e in ultima analisi poco fruttuosa, una lettura del Cardinale in
senso autobiografico, in ragione dell’omosessualità di Ronald Firbank cui peraltro non
corrispondeva né una sua partecipazione diretta alla società omosessuale dell’epoca
qual è descritta ad esempio da Chauncey, né notizia certa di sue relazioni omosessuali.
Cfr. Ifan Kyrle Fletcher (ed.), Ronald Firbank: A Memoir, London: Duckworth, 1930;
Miriam J. Benkovitz, Ronald Firbank: A Biography, New York: Knopf, 1969; Brigid Bro-
phy, Prancing Novelist: A Defence of Fiction in the Form of a Critical Biography in Praise of
Ronald Firbank, London: Macmillan, 1973. Sebbene la lettura in chiave biografica sia un
dato ricorrente della decodifica ‘di sabotaggio’ che il camp mette in gioco (decodifica
che si discuterà nel corso del capitolo 6), il problema sembra porsi piuttosto in relazio-
ne alla ambigua posizione del soggetto omosessuale e della scrittura gay (per quanto si
sia consapevoli della problematicità stessa di definizione di una ‘scrittura gay’) nella
prima parte del nostro secolo.
2
L’abbandono della tesi repressiva è stato senza dubbio promosso in sede teorica
dal lavoro di Michel Foucault, e in particolare dal primo volume della Histoire de la se-
xualité, nel quale la sessualità viene indicata come l’oggetto, a partire dal secolo scorso,
di una proliferazione di discorsi la cui funzionalità, nel caso specifico, era quella di ‘par-
lare’ l’omosessuale per gestirlo attraverso una tipizzazione e una griglia indiziaria (cfr.
sezione 9.2). Il silenzio cui si fa corrispondere il closet, in questo quadro, viene restituito
alla sua piena significatività e messo in relazione non opposta bensì integrata al dicibi-
le e al conoscibile, e pertanto ai modelli di potere e di relazione che sulla dicotomia
detto/inespresso si sono fondati. Cfr. Michel Foucault, La volonté de savoir, Paris: Gal-
INTRODUZIONE A UN’ARCHITETTURA SGHEMBA 15

così un segreto ‘aperto’, un segreto che consentiva di essere riconoscibili


non solo – e non tanto – dal soggetto desiderante ‘complice’, bensì dalla
stessa cultura dominante che a sua volta padroneggiava il codice e la se-
miotica omosessuale: il soggetto inquisitorio era così in grado di gestire
l’eversività attraverso la sua riconoscibilità ghettizzante piuttosto che at-
1
traverso la repressione). Significativamente, riportando l’intervista rila-
sciatale nel 1974 da Charles Ludlam – il principe di quel Theatre of the
Ridiculous che fu istanza esemplare del camp newyorkese fra anni Ses-
santa e Settanta – Kate Davy evince lo “operating principle of Camp”
nello spazio di una contraddizione. Ludlam affermava che il proprio tea-
tro fosse “not an expression of homosexuality and, at the same time, that
it represents a form of coming out. […] This is Ludlam’s way of disman-
tling prejudice, of gesturing toward a new vision, of negotiating a par-
tially closeted, partially out-of-the-closet […] stance, a stance played out
in the contradiction of Camp”.2
Il camp sarebbe insomma sia un indice di omosessualità sia del suo
occultamento, non un’espressione omosessuale e al tempo stesso una
forma di coming out, di pro-duzione del soggetto omosessuale nella fase in
cui questo non parlava per sé bensì era parlato dalla cultura dominante
limard, 1976. Il ‘costruzionismo’ di questa prospettiva teorica, nelle parole di Alan Sin-
field, si traduce nella prassi come campo di possibilità che si danno al soggetto: “con-
structionism means that it is hard to be gay until you have some kind of slot, however
ambiguously defined, in the current framework of ideas.” Alan Sinfield, The Wilde
Century: Effeminacy, Oscar Wilde and the Queer Moment, London: Cassell, 1994, p. 17.
Sinfield prosegue, significativamente, esemplificando su Teleny, il romanzo apparso
anonimo nel 1893 (alla cui stesura verosimilmente Oscar Wilde contribuì in modo de-
terminante), nel quale si mette in scena un’iniziazione alla sottocultura omosessuale,
vale a dire un coming out nell’accezione sopra presentata. Il dibattito fra essenzialismo
e costruzionismo gay, e l’articolarsi di quest’ultimo, è ben testimoniato in Edward
Stein (ed.), Forms of Desire: Sexual Orientation and the Social Constructionist Controversy,
New York: Garland, 1990.
1
L’apertura del segreto è quanto consente di gestire la soggettività e il confine fra
pubblico e privato costituendoli in modo artificioso: la sua funzione sociale “is not to
conceal knowledge, so much as to conceal the knowledge of the knowledge”. D. A.
Miller, “Secret Subjects, Open Secrets” (1985), in The Novel and the Police, Berkeley:
University of California Press, 1988, pp. 205-206. In tal senso la (omo)sessualità non è
solo costituita come intollerabile nella sfera del pubblico, ma prodotta nella sfera stessa
del privato. Oltre al saggio di Miller, di primo riferimento su questa problematica è Eve
Kosofsky Sedgwick, op. cit. Si è cercato di riproporre in questa sede la complessità della
dialettica parlando di soggetto privato come esito di una depauperazione e al contempo
come interiore, ‘chiuso’ – più che in sé, in un regime di conoscenza nei confronti del
quale non si dispone un’alterità liberatoria se non nell’interstizio della trasgressione.
2
Kate Davy, “Fe/Male Impersonation: The Discourse of Camp” (1992), in Moe
Meyer (ed.), op. cit., p. 140-141.
16 ESUBERANZA

che lo postulava quale soggetto inautentico e illegale (i due termini sono


mutualmente determinati). Si confrontino le parole di Richard Dyer, se-
condo cui il camp costituì, per il soggetto omosessuale, “a kind of going
public or coming out before the emergence of gay liberationist politics
1
(in which coming out was a key confrontationist tactic)”, e si rilevi l’am-
biguità del going public or coming out resi così omologhi. E non senza ra-
gioni. Se il coming out è – si è visto – storicamente declinato fra la dimen-
sione di confronto diretto con la cultura dominante e quella dell’inizia-
zione alla società dei pari, il going public potrebbe essere riconducibile,
prima ancora che alla dimensione di confronto (in quanto forma di o-
stentazione del ‘segreto aperto’), a quel paradigma della segretezza (del-
la doppia vita: camp è ciò che consente di non essere riconosciuti da chi
ha intenti censori, e di stabilire un legame con altri trasgressori) che nega
2
il confronto. Quale che sia la risoluzione di questa ambiguità, essa non è
senz’altro l’espressione diretta della soggettività omosessuale. Anche ac-
cogliendo uno sguardo che intende il camp come forma culturale prima-
riamente omosessuale, la ‘questione espressiva’ ne emerge come pro-
blematizzata: nelle parole di David Bergman, “Camp is the mode in
which coding is most self-consciously played with and where the appa-
rent emptying of self-expression is most conspicuous. […] Thus the
avoidance of ‘self-expression’ becomes paradoxically a powerful expres-
sion of gay selfhood.”3
L’espressione del sé omosessuale passerebbe attraverso un esercizio
di reticenza, e il camp si offrirebbe in tal senso solo nella misura in cui
censura la soggettività e la sua enunciazione, ossia come modalità e-
spressiva obliqua, indiretta e fondamentalmente esoterica. In ultima ana-
lisi dunque ‘inespressivo’ di omosessualità, né sua diretta rappresenta-
zione, il camp della prima metà del Novecento sembra insomma disporsi
in costante ma indiretta referenza all’eversività sessuale, la quale non è
sua condizione necessaria né sufficiente benché sia implicata secondo
modalità sfuggenti, che non soggiaciono alla risoluzione deterministica
1
Richard Dyer, “Judy Garland and Gay Men”, in Heavenly Bodies: Film Stars and So-
ciety, London: Macmillan, 1986, p. 115.
2
Un’analoga contraddittorietà del camp emerge nelle parole di Jeffrey Weeks allor-
ché afferma che “‘[c]amp’ is not just a vehicle of communication between peers, but a
way of presenting the self to the straight [si legga ‘eterosessuale’] world”. Jeffrey Weeks,
Coming Out, cit., p. 42.
3
David Bergman, “Strategic Camp: The Art of Gay Rhetoric”, in Gaiety Transfigured:
Gay Self-Representation in American Literature, Madison: University of Wisconsin Press,
1991, p. 105.
INTRODUZIONE A UN’ARCHITETTURA SGHEMBA 17

insita nell’affermazione che il camp sia omosessuale, e che l’omosessua-


lità sia camp (con il primo termine quale ragion d’essere del secondo).
Il ‘travestimento’ psichico cui il brano firbankiano invita il lettore (il
fingere di collaborare con la performance o il collaborare fingendo di
credere in essa, si diceva), del resto, così come quello sartoriale cui fa ri-
corso il cardinale, partecipa di un più ampio valore di riflessione sul rap-
porto tra intellettuale e massa riscontrabile nel gioco camp delle parti,
indipendente dal fattore omosessuale, o se si vuole dipendente solo per
la logica di appropriazione delle strategie del subordinato da parte della
cultura dominante che si avrà modo di discutere oltre.
L’oppressione claustrofobica del Cardinal Pirelli nell’aristocratico iso-
lamento del Palazzo e delle vesti religiose, infatti, e l’esilarante senso di
liberazione che gli suscita il coniugarsi (ma si tratta unicamente, beninte-
so, di un preteso coniugarsi, all’insegna del travestimento) con la folla,
sono rappresentativi dell’ambiguo rapporto che il camp è venuto intrat-
tenendo con la cultura di massa. Il ricorso alla nozione di camp è stato
storicamente effettuato per designare – oltre che la modalità esistentiva o
lo stile artistico massimamente barocchi ed elaborati degli esteti fin de
siècle, e quindi della tradizione periferica che percorre l’intero Novecen-
1
to, ai quali si è accennato nelle pagine precedenti e che negli anni recen-
ti sono stati riletti in chiave di formazione culturale gay – quell’apprezza-
mento snobistico dei prodotti popolari o afferenti al cattivo gusto picco-
lo-borghese, che durante gli anni Cinquanta e Sessanta si è imposto in
termini controculturali.
Se all’epoca si apprezzava ciò che si sapeva essere considerato volgare
dall’intellighenzia istituzionale, il camp si sarebbe poi sempre più carat-
terizzato come forma nostalgica di recupero del Kitsch, del démodé e dei
fallimenti estetici in genere, offrendosi quale nuovo mercato con innu-
merevoli produzioni programmaticamente improntate a un’estetica del-
l’osceno, dell’imperfetto e dell’eccessivo. A questa dispersione dell’ever-
sività del gusto camp, che gli studi gay hanno teso a fare coincidere con
la popolarizzazione del camp negli anni Sessanta al di fuori della sua
stretta circolazione omosessuale, è corrisposta un’impresa autodefinitasi
di reclaiming, vale a dire di riappropriazione da parte della comunità gay,
1
Un’utile panoramica di questa tradizione periferica, sebbene poco analitica rispetto
alla sua complessità in termini di stratificazioni storiche e di località delle specifiche
istanze, è offerta in Thomas Whissen, The Devil’s Advocates: Decadence in Modern Lite-
rature, Westport: Greenwood, 1989. Alla tradizione medesima è peraltro dedicata in
larga misura la Terza Parte di questo lavoro.
18 ESUBERANZA

la quale è andata recuperando le proprie formazioni culturali, fra le quali


il camp risulta centrale. Questa riappropriazione si colloca all’interno di
un più ampio progetto di ridefinizione di sé che passa attraverso l’inter-
rogazione della Storia, della propria storia e di quella dei rapporti intrat-
tenuti con la cultura dominante, eterosessuale, patriarcale e omofobica;
progetto volto alla definizione della propria identità di ‘diversi’, all’arti-
colazione di un’agenda politica antiomofobica e, in tale quadro, al recu-
pero della trasgressività del camp omosessuale dispersa nel processo di
1
sua desessualizzazione.
Il camp si configura pertanto, più che come genere artistico, movi-
mento o fenomeno culturale unitario, quale coacervo di manifestazioni il
cui tratto distintivo è stato indicato in una commistione variabile – volon-
taria, o meno – di umorismo, ironia, estetismo, teatralità e giustapposizio-
ne di elementi incongrui, attivati in una qualche relazione, sia pur in ab-
2
sentia, con la soggettività omosessuale. Nel corpus anche solo stretta-
mente artistico del camp è infatti possibile accomunare, come è stato fat-
to nel corso degli ultimi trent’anni, i tardo esteti (si pensi anche solo a
Oscar Wilde, Frederick Rolfe, Aubrey Beardsley, Max Beerbohm, Ronald
Firbank, i fratelli Sitwell, Evelyn Waugh) con il realismo di Angus Wil-
son, il popolarissimo romanzo rosa di Barbara Cartland, il pulp erotico,
horror e fantascientifico, e i raffinati giochi intertestuali di Gore Vidal; il
teatro dissacratorio di Joe Orton con quello d’intrattenimento di Noël
Coward e con Tennessee Williams; la fotografia ‘amatoriale’ di Wilhelm
Von Gloeden con quella patinata di Robert Mapplethorpe; il Liberty con
la cosiddetta Flea Market School, l’Art Déco con la Pop Art; in architettu-
ra, l’orientalismo esorbitante del Royal Pavilion a Brighton con il po-
stmoderno di Philip Johnson e con le chiese rococò; nella sfera musicale,
Pergolesi e Mozart con David Bowie, i Velvet Underground di Lou Reed

1
Esemplare in tal senso, in quanto estrema radicalizzazione di un’atteggiamento che
segna gli interventi critici fin dai primi anni Settanta (di cui si dirà nei prossimi capito-
li), è Moe Meyer, “Reclaiming the Discourse of Camp”, in Moe Meyer (ed.), op. cit., pp.
1-22. Si riprenderà specificamente la questione nei capitoli 6 e 7.
2
Le categorie di umorismo, ironia, estetismo, teatralità e incongruità, in specifico rap-
porto alla formazione culturale omosessuale, sono state proposte in Esther Newton,
op. cit., pp. 106-109, e in Jack Babuscio, “Camp and the Gay Sensibility”, in Richard
Dyer (ed.), Gays and Film, London: British Film Institute, 1977, pp. 41-48. Il saggio di
Babuscio e il quinto capitolo del volume di Newton (“Role Models”) sono stati ristam-
pati in David Bergman (ed.), Camp Grounds: Style and Homosexuality, Amherst: University
of Massachusetts Press, 1993, pp. 19-53. Le categorie stesse, e il rapporto con la sog-
gettività omosessuale, riceveranno maggiore attenzione nelle prossime pagine.
INTRODUZIONE A UN’ARCHITETTURA SGHEMBA 19

con Marc Almond; nella danza, i Ballets Russes con Lindsay Kemp e con
Michael Clark; nel cinema, i film di terz’ordine con i classici del bianco e
nero, i kolossal hollywoodiani con il cinema underground, le maschere
androgine, supremamente fascinatorie, di Marlene Dietrich e Greta Gar-
bo con l’ostentata femminilità di Marylin Monroe e la femminilità ‘fallica’
di Mae West, la fragilità psicofisica di Bette Davis e Judy Garland con
1
l’obesità di una Divine, superstar en travesti dei film di John Waters.
L’esemplificazione che precede, così come del resto la resistenza alla
definizione che si metteva in gioco nella lettura del brano firbankiano,
risulta com’è ovvio sorprendente, se non irritante, per la propria appa-
rente gratuità; gratuità che non pertiene tanto all’esemplificazione, quan-
to all’indefinito attivarsi della referenza di cui essa dà solo testimonianza
(parziale, del resto: la gratuità del riferimento, e l’irritazione che si produ-
ce in chi non partecipi del medesimo gusto, è una parte innegabile del-
l’aristocraticismo camp). L’incalzare esemplificatorio testimonia insom-
ma la cifra del camp, quell’eccetera che nelle parole di Giuseppe Merlino
– in uno dei rarissimi contributi italiani sull’argomento che mutuava
l’asistematicità (o la sistematica allusività) degli interventi critici ‘storici’
sull’argomento – “segnala la necessaria inconcludenza e la mobilità del
2
camp”. I riferimenti possibili, infatti, per quanto sconcertanti nell’oscilla-
zione fra pragma e arte, fra Alta Cultura e paccottiglia, proliferano pres-
soché indefinitamente, da ogni epoca e luogo (una qualità camp è stata
riscontrata in Petronio, Caravaggio e Pontormo, e persino nella retorica
3
di De Gaulle, Hitler e Mussolini), producendo in ultima analisi quello
1
Una sorta di ‘dizionario enciclopedico’ del camp è offerto in Philip Core, op. cit.;
specificamente dedicati alla tradizione cinematografica sono invece P. Roen, High
Camp: A Gay Guide to Camp and Cult Films, Vol. 1, San Francisco, Leyland 1994, e Ra-
ymond Murray, “Camp”, in Images in the Dark: An Encyclopedia of Gay and Lesbian Film
and Video, Philadelphia: TLA, 1994, pp. 467-478. Di analoga utilità, in quanto riferita a
una matrice camp, è peraltro anche la gran parte delle voci in Keith Howes, Broad-
casting It: An Encyclopaedia of Homosexuality on Film, Radio and TV in the UK 1923-1993,
London: Cassell, 1993.
2
Giuseppe Merlino, op. cit., p. 123.
3
Per i riferimenti a Petronio, Caravaggio, Pontormo, De Gaulle e Mussolini come
partecipi dell’estetica camp si vedano ad esempio Cecil Wooten, “Petronius and
Camp”, Helios, XI, 2, 1984, pp. 133-139; Philip Core, op. cit., pp. 48, 149; e Vieri Razzi-
ni, op. cit., p. 64. I testi citati nella nota precedente si avvalgono di un ampio apparato
iconografico: utile in questa prospettiva è anche Armin Kratzert (a cura di), Camp: Ni-
jinsky, Hitler, Sexfilme, Rosenkavalier, Jugendstillampen, David Bowie, Caravaggio, De
Gaulle, Greta Garbo, Jesus, Oscar Wilde, Rokokokirchen – und mehr!, Frankfurt: Dinu Po-
pa, 1987 (e non è superfluo rilevare come il titolo di quest’ultimo volume risulti di per
sé eloquente in merito all’eterogeneità del corpus).
20 ESUBERANZA

1
che sembra essere solamente “[u]n catalogo della Decorazione Assoluta”.
Un trionfo dell’eterogeneità dei materiali, questo, che, oltre a contribuire
significativamente a una radicale indefinibilità del corpus di riferimento,
riflette di volta in volta l’incapacità o la non volontà – che dalle prime te-
stimonianze sull’argomento si protrae fino agli interventi critici più re-
centi – di rendere meno sfuggente il termine stesso, la sua referenza, il
suo significato e utilizzo, contribuendo alla frustrazione di chi desideri
postulare una intrinsecità fenomenologica, che possa giustificare un con-
senso non riducibile, qual è tutto sommato ancor oggi, all’affermazione
2
di esuberanza del camp rispetto a ogni definizione totalizzante.
Motore, principio e fine della riflessione critica, l’esuberanza si è ri-
percossa sulla riflessione stessa in una duplice veste. Da un lato, essa è
venuta caratterizzando il panorama critico degli ultimi trent’anni, che si
configura secondo modalità assolutamente babeliche. Dall’altro, essa è
stata oggetto di un processo di gestione critica, di riduzione sistematica
dell’evanescenza e mobilità che segnalano in primissima battuta il camp
nella sua configura estetica e fenomenologica. È a questa gestione che i
prossimi capitoli saranno dedicati, nel costante richiamo a consapevolez-
za della dimensione di per sé babelica del camp. L’impresa di gestione
dell’esuberanza, si vedrà, coincide con un gesto di ‘tradimento’ su più
livelli dell’esuberanza stessa. Si cercherà dunque di evidenziare i limiti o,
se si preferisce, la fallimentarietà di questi tentativi di amministrazione,
ma non con il semplice intento di screditarli, bensì in quanto movimento
necessario – si ritiene – per un tentativo di definizione di una problematica
a partire da un’inalienabile presa d’atto del suo essere irriducibile, “nei-
3
ther a consistent theoretical perspective, nor a certain group of artifacts”.
1
Giuseppe Merlino, op. cit., p. 123.
2
Nelle parole di Patrick Mauriès, “une définition, comme disent les mathématiques,
‘exacte’ du camp semble destinée à rester pour toujours en souffrance”. Patrick
Mauriès, op. cit., p. 65. Fra i contributi recenti si vedano ad esempio John A. Degen,
“Camp and Burlesque: A Study in Contrasts”, Journal of Dramatic Theory and Criticism,
1, 1987, p. 87; Joseph P. Goodwin, “There’s No Version like Perversion”, in More Man
than You’ll Ever Be: Gay Folklore and Acculturation in Middle America, Bloomington:
Indiana University Press, 1989, p. 38; Jonathan Dollimore, Sexual Dissidence, cit., p.
310; David Bergman, “Introduction”, in David Bergman (ed.), op. cit., pp. 4-5; Alexan-
der Doty, “Queerness, Comedy and The Women”, in Kristine Brunovska Karnick and
Henry Jenkins (eds.), Classical Hollywood Comedy, London: Routledge, 1995, p. 335.
Quale eccezione si propone Moe Meyer, op. cit., la cui radicale definizione del fenome-
no in senso normativo verrà discussa (e contestata) nel capitolo 7.
3
Mark Finch, “Sex and Address in Dynasty”, Screen, 27:6, November-December
1986, p. 36.
INTRODUZIONE A UN’ARCHITETTURA SGHEMBA 21

Tradimento e fallimento, le due categorie sono infatti un tutt’uno con


la nozione stessa di camp, e non esclusivamente perché essi sembrano
inscritti nella sua stessa configurazione estetica (come si avrà modo di
verificare). È attraverso queste due categorie ‘negative’ che si è articolata
la riflessione critica, e che va ripensato il camp. Per rappresentare la dupli-
ce esuberanza che sembra caratterizzare il camp – esuberanza referenzia-
le ed esuberanza della prospettiva che si è esercitata su (e attraverso) di
esso – è infatti opportuno, più che cristallizzare l’oggetto del discorso in
una forma di stabilità che neghi il proprio tradimento, restituire il camp
alla sua complessità di stratificazioni storiche e discorsive, che di volta in
volta gli interventi critici sono stati spinti a ridurre. Benché frustrante,
questa scelta si dimostrerà imprescindibile nella restituzione di dicibilità
critica – nel tentativo di definizione, che passa dunque attraverso il rico-
noscimento delle ragioni e modalità della indefinibilità – nei confronti di
una problematica la quale dunque si annuncia fin d’ora come un’archi-
tettura priva di fondamenta. Come architettura cioè, senz’altro, sghemba.
2

Tradimenti, 1954-1964

L’elusività del camp è riconducibile a molteplici fattori, il primo dei quali


sembra essere la mancanza di una cristallizzazione critica, dettata dalla
sua circolazione in larga misura ascrivibile alla logica sottoculturale che
l’ha gestita in prima battuta, o a quella evanescente della moda culturale
di cui il camp ha goduto in una intensissima stagione a cavallo fra gli anni
Sessanta e Settanta: i lati opposti di una medesima estraneità alle istitu-
zioni della critica. La straordinaria popolarità goduta dal camp all’epoca
lo avrebbe consumato in accordo al suo statuto di mero fenomeno di co-
stume, che doveva perdere significatività una volta scemata l’attenzione
dei mezzi di comunicazione di massa. È stato dunque solo a partire dalla
seconda metà degli anni Ottanta – con il diffondersi dei cultural studies,
dei lesbian and gay studies e quindi della queer theory, vale a dire una volta
mutate radicalmente le istituzioni della critica, l’eleggibilità dell’oggetto
1
di studio e la nozione stessa di critica – che la riflessione si è rivolta alla
questione in modo cospicuo, avvalendosi di strumenti la cui sofisticatez-
za non ha tanto ridotto quanto evidenziato la complessità del fenomeno,
accentuata senza dubbio anche dall’inestricabilità delle rappresentazioni
1
Non si dà in questa sede la possibilità di articolare il percorso e la configurazione di
tali orientamenti critico-teorici, la cui ridotta circolazione in Italia non ne consente
un’assunzione scontata ma la bibliografia sui quali (in larga misura angloamericana) è
a ogni modo ormai estremamente estesa. Fra i numerosi volumi che introducono agli
studi culturalisti sono particolarmente efficaci Graeme Turner, British Cultural Studies:
An Introduction, Boston: Unwin Hyman, 1990; Patrick Braintlinger, Crusoe’s Footprints:
Cultural Studies in Britain and in America, London: Routledge, 1990, e Simon During
(ed.), The Cultural Studies Reader, ibidem, 1993. Di primaria utilità per un’introduzione
ai lesbian and gay studies è Henry Abelove, Michèle Aina Barale and David M. Halperin
(eds.), The Lesbian and Gay Studies Reader, ibidem, 1993, e utile rassegna è Marco Pu-
stianaz, “Teoria gay e lesbica”, in Donatella Izzo (a cura di), Teoria della letteratura.
Prospettive dagli Stati Uniti, Roma: Nuova Italia Scientifica, 1996, pp. 109-129. In meri-
to mi permetto inoltre di rimandare al mio “‘Oscar Wilde’ e i materialisti”, Nuova Cor-
rente, XLIII, 117, 1996, pp. 19-72.
24 ESUBERANZA

che si erano affastellate nei decenni precedenti.


Il vocabolo camp trova la prima attestazione accreditata solamente nel
1
1909, nel lessico dello slang tardovittoriano curato da J. Redding Ware, a
indicare una gestualità ostentata ed eccessiva, di cui è dato riconoscere,
retrospettivamente, una matrice omosessuale: “Camp (Street). Actions
and gestures of exaggerated emphasis. Probably from the French. Used
chiefly by persons of exceptional want of character. ‘How very camp he
is’”.2 La valenza che si attribuiva al termine era di fatto gergale, da mean-
dro urbano, e in una qualche misura ‘cospiratoria’ in quanto dotata delle
connotazioni d’illegalità cui si accennava. Non sorprende pertanto che si
sia dovuto attendere la metà degli anni Cinquanta (nonostante non
3
manchino sporadici riferimenti nel frattempo) perché il vocabolo uscisse
dai dizionari che ne testimoniano la circolazione ‘da trivio’ per accedere,
in quanto argomento degno di interesse intellettuale, a uno spazio legit-
timato dalla cultura istituzionale, il romanzo The World in the Evening di
Christopher Isherwood. Legittimato, certo, in quanto spazio periferico:
questa operazione avviene ai margini della Cultura, relegata a pochi pa-
ragrafi di un romanzo, e pure di un romanzo minore dell’altrettanto ‘mi-
4
nore’ Isherwood. Il riferimento, tuttavia, è altamente significativo in
questa sede poiché inaugura l’impresa tanto di definizione quanto di di-
stinzione all’interno del magma testuale e teorico, impresa che coincide
con l’accesso della nozione alla dimensione ‘pubblica’ della discussione
culturale, e che ha segnato l’intera tradizione di studi.
Attraverso la voce del protagonista, Isherwood evidenzia due ‘livelli’ di
1
J. Redding Ware, Passing English of the Victorian Era: A Dictionary of Heterodox Eng-
lish, Slang, and Phrase, London: George Routledge, 1909. Il dizionario di Ware è in ef-
fetti un aggiornamento del monumentale John S. Farmer and W. E. Henley, Slang and
Its Analogues, Past and Present: A Dictionary, Historical and Comparative, of the Hetero-
dox Speech of All Classes of Society for More than 300 Years, 7 voll., ibidem, 1905.
2
J. Redding Ware, op. cit., p. 61.
3
Si vedano ad esempio Carl Van Vechten, “Ronald Firbank”, Double Dealer, III, April
1922, pp. 185-186; Robert Duncan, “The Homosexual in Society”, Politics, I, 7, 1944,
pp. 209-211; e Roger Fulford, Osbert Sitwell, New York: Longmans, Green & Co., 1951,
p. 20. Diversi utilizzi del termine su riviste o altre sedi ‘non accademiche’ sono pure
indicati, sub voce ‘camp’, dal supplemento del 1972 allo Oxford English Dictionary, vol.
1, Oxford: Clarendon, 1972, p. 421-422.
4
Ciò non è sorprendente, né forzato, qualora si accordi credito alla tesi cultural-
materialista, secondo la quale la letteratura rappresenta una categoria la cui minor po-
tenzialità eversiva nel pragma rispetto ad altre istituzioni o pratiche sociali ha promosso
una maggiore tolleranza da parte del potere nei confronti delle istanze eterodosse che
si sono articolate entro i suoi confini. Il che vale a maggior ragione per la letteratura
‘minore’. Cfr. Alan Sinfield, Cultural Politics – Queer Reading, cit.; e The Wilde Century, cit.
TRADIMENTI, 1954-1964 25

camp: da un lato si colloca un Low Camp, esemplificato da “a swishy little


boy with peroxided hair, dressed in a picture hat and a feather boa, pre-
tending to be Marlene Dietrich”, e praticato nei circoli omosessuali
(“Yes, in queer circles they call that camping”); dall’altro vi è invece uno
High Camp:

High Camp is the whole emotional basis of the Ballet, for example, and
of course of baroque art. You see, true High Camp always has an un-
derlying seriousness. You can’t camp about something you don’t take
seriously. You are not making fun of it; you’re making fun out of it.
You’re expressing what’s basically serious to you in terms of fun and
artifice and elegance. Baroque art is largely camp about religion. The
Ballet is camp about love.1

Lo High Camp presiede all’esemplificazione di Isherwood, che include –


oltre al balletto e all’arte barocca – Mozart, El Greco e Dostoevskij (“the
founder of the whole school of modern Psycho-Camp which was later
2
developed by Freud”), a totale scapito della fenomenologia di chiara
matrice omosessuale cui invece rimanda il Low Camp (“it’s all very well
in its place, but it’s an utterly debased form”). Lo High Camp è “some-
3
thing much more fundamental”, una sorta di versione metastorica di
camp, che si rintraccia nel museo dell’Alta Cultura a partire dal particola-
rissimo rapporto che instaura fra serietà soggiacente e frivolezza ostenta-
ta, proponendo artificio, eleganza e divertimento eccitato quali parados-
sali criteri di articolazione di una serietà eccentrica che si esprime attra-
verso un processo di inversione dei cardini costitutivi della ‘serietà’ bor-
ghese, e del suo canone culturale.
La distinzione fra Low Camp e High Camp vacilla già nel momento in
cui viene articolata. Grazie a essa possiamo forse distinguere l’universo
del drag, del travestitismo clandestino che domina la scena dei circoli
omosessuali, dai riferimenti propriamente artistici (tanto da Alta Cultura
quanto da cultura popolare) che, s’è visto, occupano larga parte del ca-
none camp (la stessa Marlene Dietrich, nel Low Camp, è inclusa non in
quanto Marlene Dietrich bensì in quanto sua grottesca imitazione). L’ele-
mento in base al quale si discrimina la versione ‘fondamentale’, tuttavia,
non è indicato se non nella dimensione espressiva della paradossale ‘se-
rietà’. Nel rimandare a un criterio di ordine squisitamente psicologico
1
Christopher Isherwood, The World in the Evening, London: Methuen, 1954, p. 125.
2
Ivi, p. 126.
3
Ivi, p. 125.
26 ESUBERANZA

viene meno cioè ogni possibilità di individuare una definita referenza, e il


criterio stesso risulta essere in definitiva interamente ludico, quasi pre-
sieduto da una logica da private joke, che non si dispone in alcuna misura
a uno sguardo analitico benché la sua funzione, sostiene Isherwood, sia
proprio quello di strumento d’analisi:
‘It seems such an elastic expression’.
‘Actually, it isn’t at all. But I admit it’s terribly hard to define. You
have to meditate on it and feel it intuitively, like Lao-Tze’s Tao. Once
you’ve done that, you’ll find yourself wanting to use the word when-
ever you discuss aesthetics or philosophy or almost anything. I never
can understand how critics manage to do without it’.1

Ripostulato come termine critico, afferente a una valenza estetica o filo-


sofica, imprescindibile nell’analisi di “almost anything”, lo High Camp
sembra convergere sul secondo termine della distinzione fra drag queen e
camp tout court qual è suggerita, quasi vent’anni dopo, da Esther Newton:

While all female impersonators are drag queens in the gay world, by
no means are all of them ‘camps’. Both the drag queen and the camp
are expressive performing roles, and both specialize in transformation.
But the drag queen is concerned with masculine-feminine transforma-
tion, while the camp is concerned with what might be called a philoso-
phy of transformations and incongruity. Certainly the two roles are in-
timately related, since to be a feminine man is by definition incongru-
ous. But strictly speaking, the drag queen simply expresses the incon-
gruity while the camp actually uses it to achieve a higher synthesis.2

La ricognizione di Newton disegna una dialettica in cui la drag queen opera


analogamente allo “swishy little boy with peroxided hair” isherwoodiano,
mentre il camp tout court raggiunge una “higher synthesis”, in cui rie-
3
cheggia la valenza ‘fondamentale’ dello High Camp. Tuttavia, nel brano
citato, quello che Isherwood indica quale High Camp appare come “in-
timately related” al suo opposto, quel Low Camp che ne costituirebbe
“an utterly debased form”. Questo non solo poiché, come ricorda Newton,
1
Ivi, p. 126.
2
Esther Newton, op. cit., pp. 104-105.
3
In un volume originariamente apparso nel 1975, C. A. Tripp suggerisce che “‘High
camp’ is that which presents several different duplicities at a time, especially when
they operate on different levels. These double-entendres become especially high camp
when they are syncopated into a unified whole, or are put at the service of some still
larger duplicity.” C. A. Tripp, The Homosexual Matrix, New York: New American Li-
brary, 1987, p. 176.
TRADIMENTI, 1954-1964 27

entrambi sono legati a una prassi o una filosofia dell’incongruità e della


trasformazione: soprattutto, poiché entrambi afferiscono alla dimensione
omosessuale – il che non ci spiega peraltro perché il barocco o Mozart
vengano indicati dal personaggio di Isherwood fra gli exempla che con-
durranno l’interlocutore alla ‘comprensione’ del concetto. L’omosessua-
lità negata o taciuta nello High Camp emerge del resto in “On His Queer-
ness”, un brano poetico dello stesso Isherwood, che è qui opportuno ri-
portare nella sua interezza:

When I was young and wanted to see the sights,


They told me: ‘Cast an eye over the Roman Camp
If you care to,
But plan to spend most of your day at the Aquarium–
Because, after all, the Aquarium–
Well, I mean to say, the Aquarium–
Till you’ve seen the Aquarium you ain’t seen nothing’.
So I cast an eye over
The Roman Camp–
And that old Roman Camp,
That old, old Roman Camp
Got me
interested.
So that now, near closing-time,
I find that I still know nothing–
And am not even sorry that I know nothing–
About fish.1

L’obliquità che caratterizza la presentazione dello High Camp, e che lo


contrappone alla banalità della degenerazione in chiave Low Camp, ri-
sulta qui direttamente investita tanto sul piano del rappresentazione
quanto su quello del rappresentato – il “Roman Camp” opposto allo “Aqua-
rium”. E in effetti la tendenza al mimetismo, al sotterfugio, all’allusione,
al fraintendimento programmatico e al travestimento sono elementi che
caratterizzano buona parte del camp in quanto corpus testuale e pro-
spettiva teorica (e oltre si avrà modo di evidenziare il diffusissimo ricorso
camp alla parodia, al pastiche e ad altre forme citazionali), ma che si rin-
tracciano nell’utilizzo stesso del termine, il quale non di rado si mimetiz-
za attraverso un ricorso a puns che giocano sulla polisemia del termine:
1
Christopher Isherwood, “On His Queerness”, originariamente pubblicata in Exhu-
mations, London: Methuen, 1966, e ristampata in Philip Larkin (ed.), The Oxford Book
of Twentieth-Century English Verse, Oxford: Clarendon, 1973, p. 358.
28 ESUBERANZA

se qui ci confrontiamo con un Roman Camp, non è infrequente imbattersi


in locuzioni come holiday camp, summer camp o camp follower, caricati di
1
una tipica allusività camp.
Il Roman Camp di cui ci parla “On His Queerness” è agevolmente iden-
tificabile nella sfera omosessuale, contrapposta allo Aquarium popolato
da “fish” – e fish, una volta di più, è termine dello slang gay con il quale
2
si indica la vulva o, per sineddoche, la donna (perlopiù eterosessuale).
La ‘sbirciata’ al Roman Camp è consentita all’io narrante, come la tradi-
3
zione dei colleges britannici attesta ampiamente, qualora sia occasionale
e discreta: la ‘gran parte del giorno’ dev’essere infatti dedicata allo Aqua-
rium della vita eterosessuale, quell’Aquarium dal quale la voce narrante è
invece definitivamente distratto. Se ciò apparisse pretestuoso, basti in
ultima analisi ricordare il titolo del brano poetico, in cui campeggia la
queerness che ha come suo primo significato l’omosessualità stigmatizza-
ta, e che fa della voce narrante – in virtù della formula di deferenza di cui
4
il titolo si dà quale parodia – una voce regale, una voce regina.
Quella fra High e Low Camp, in ultima analisi, è una distinzione che
non separa. Isherwood, più che proporla a beneficio di chi voglia impos-
sessarsi del codice camp, non fa altro in effetti che registrare, codificandola,
un’opposizione probabilmente già in circolazione nei termini ‘triviali’ di
cui s’è detto, il che giustifica la confusione testimoniata, ad esempio, dal
fatto che la medesima opposizione fosse operativa nel mondo dello spet-
1
Una fra le prime attestazioni del termine appare come Camp Fire Cameos quale tito-
lo del quinto capitolo di Angus Wilson, Hemlock and After, London: Secker & Warburg,
1952. Nel 1992 Simon Drew ha poi intitolato Camp David un volume (apparso per i
tipi dello Antique Collectors’ Club) di disegni e versi parodici: “Camp David” sovrap-
pone al noto toponimo statunitense una versione en travesti (chioma ossigenata, fiori,
borsetta e sguardo languido) dell’opera di Michelangelo.
2
Cfr. Bruce Rodgers, op. cit., p. 81.
3
Si consultino in proposito Martin Green, Children of the Sun: A Narrative of ‘Deca-
dence’ in England after 1918, London: Constable, 1977; e Alan Sinfield, The Wilde Cen-
tury, cit., pp.130-156 et passim.
4
Alla specifica valenza camp della scrittura di Christopher Isherwood sono dedicati
Peter Thomas, “‘Camp’ and Politics in Isherwood’s Berlin Fiction”, Journal of Modern
Literature, V, 1, February 1976, pp. 117-130, e l’eccellente Linda Mizejewski, Divine
Decadence: Fascism, Female Spectacle, and the Makings of Sally Bowles, Princeton: Prince-
ton University Press, 1992. In entrambi i testi l’attenzione è rivolta ai romanzi berlinesi
di Isherwood, con particolare enfasi sul racconto “Sally Bowles” incluso in Goodbye to
Berlin (London: Hogarth, 1939), e sulle sue riscritture teatrali e filmiche. “On His Que-
erness” non ha ricevuto finora particolare attenzione critica, benché sia stata inclusa
da Philip Larkin nello Oxford Book of Twentieth-Century English Verse, opera di rilevante
diffusione editoriale. Né si ha la presunzione di averne qui offerto un’analisi, in un
paragrafo: l’utilizzo che se n’è fatto è puramente funzionale alla questione in oggetto.
TRADIMENTI, 1954-1964 29

tacolo con valenze palesemente contrapposte: se High Camp vi indicava


una pratica di travestitismo, di drag, che nel 1965 era giudicata una “va-
nishing art”, il Low Camp era destinato a essere “around for a while”, e si
distingueva non solo perché non prevedeva la pratica del travestitismo
vestimentario, ma anche “by its sublety. It is characterized not by blatant
swishiness but by the fussy old-maidishness and the bitchiness that one
1
associates with, say, Edward Everett Horton”. In questo caso, si ha l’im-
pressione che lowness e highness afferiscano non tanto alla maggiore o
minore complessità della campiness, quanto alla sua maggiore, o minore,
discrezione e sottigliezza: come dire, il Low Camp è low perché ‘sussur-
2
rato’, a differenza di quello ostentato (“blatant”: High) di una drag queen.
La mobilità dei termini opposti da Isherwood risulta ancor più eviden-
te qualora ci si rivolga al Random House Dictionary of the English Language
pubblicato nel 1966, che definisce camp mutuando l’opposizione fra High
e Low Camp ma in direzione ulteriormente diversa da quelle incontrate
finora, rimandando cioè a un’inappropriatezza stilistica o a una spropor-
zione fra forma e contenuto, in cui il discrimine fra High e Low coincide
con il grado di consapevolezza della inappropriatezza o sproporzione.
Nella sua versione nominale, camp sarebbe

an ironic or amusing quality present in an extravagant gesture, style or


form, esp. when inappropriate or out of proportion to the content that
is expressed. When the inappropriate relationship of form and content
is used self-consciously or knowledgeably it is considered to be on a
high level (high camp); however, when used unself-consciously, un-
knowledgeably, or inadequately it is considered to be on a low level
(low camp).3

1
George Frazier, “Call It Camp”, Holiday, November 1965, p. 19. Nel presentare le
due categorie, Frazier si affida in effetti ad Alvis Davis, columnist del New York Post, in
un intervento privo di estremi, di cui non è stato possibile prendere visione.
2
Il termine swish, o swishy, che troviamo qui nella “blatant swishiness” dopo averlo
incontrato in Isherwood (“a swishy little boy with peroxided hair”) indica di per sé,
nello slang gay, “effeminate, tinged with homosexuality”, o “to overplay homosexual
gestures”, Bruce Rodgers, op. cit., pp. 192-193. L’ostentazione dell’omosessualità (lo
overplaying) lo caratterizza, secondo C.A. Tripp (op. cit., pp. 166-177), fra le principali
categorie dell’effeminatezza gay, accanto a Nelly, Blasé e Camp, come caratterizzata
dall’eccesso di segni femminei. Va da sé che l’utilizzo da parte di Tripp della categoria
di Camp sia molto più circoscritto rispetto al suo utilizzo storico, che comprende, co-
me testimonia l’esempio in questione, anche lo Swish.
3
Sub voce ‘camp’, in Jess Stein (ed.), The Random House Dictionary of the English Lan-
guage, New York: Random House, 1966, p. 214.
30 ESUBERANZA

La chiave per questa fluidità d’utilizzo sembra essere la ‘clandestinità’ di


circolazione di cui si diceva, il che giustifica inoltre perché l’opposizione
fra High e Low Camp, invece di essere rimpiazzata dalle distinzioni che a
essa si sono andate succedendo con maggior fortuna critica, abbia conti-
nuato a essere utilizzata con valenze che oscillavano di volta in volta fra
1
quelle qui prese in esame, o caricandosi di altre, elusive sfumature.
A intervenire fra l’opposizione registrata da Isherwood e quella ripor-
tata dal Random House Dictionary of English Language era stata la pubblica-
zione nell’autunno 1964 del saggio di Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”,
2
sulle autorevoli pagine della Partisan Review, saggio destinato a segnare
lo statuto della nozione (la sua stessa configurazione, la sua precaria ‘le-
3
gittimità’ in quanto oggetto critico, e la moda che ne scaturì) e a proiet-
tare la sua autrice all’attenzione dell’intellettualità newyorkese e dei mass
media, facendo di Sontag una figura di primo piano sotto il nome di
4
“Miss Camp” o di “the Camp Girl”. L’immediata eco di cui godette l’in-
tervento di Sontag si ripercosse sulla circolazione quotidiana del termine,
sovrapponendosi alla distinzione fra High e Low Camp (di cui Sontag,
peraltro, non dà notizia) e contribuendo alla generale impresa di ‘tradi-
mento’ del camp stesso che si inizia a delineare.
Proponendosi di discutere “the sensibility […] that goes by the cult
name of ‘Camp’”, Sontag osserva in apertura che “Camp is esoteric –
something of a private code, a badge of identity even, among small ur-
ban cliques. Apart from a lazy two-page sketch in Christopher Isher-
wood’s novel The World in the Evening (1954), it has hardly broken into
1
Recentemente Chuck Kleinhans ha fatto ricorso alla distinzione per sostenere che
“high Camp aims for the seamless illusion of female impersonation, while low Camp
accepts the deconstructed gender presence of drag queens”. Chuck Kleinhans, “Tak-
ing Out the Trash: Camp and the Politics of Parody”, in Moe Meyer (ed.), op. cit., p.
189. Ancor più fluido e indefinito è stato l’utilizzo dei termini dicotomici nella stampa,
che perdura a tutt’oggi. Basti in merito l’esempio di Michael Billington, “Highs and
Lows of Camp”, The Guardian, 16 January 1993, p. 29.
2
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, Partisan Review, XXXI, 4, Fall 1964, pp. 515-530;
ristampato quindi in Against Interpretation and Other Essays, New York: Farrar, Straus
& Giroux, 1966, pp. 275-292 (da cui le citazioni nel testo).
3
In quanto contributo propriamente espositivo della ‘natura’ del camp, in virtù del
fatto che esso è in larga misura responsabile della circolazione critica della nozione nei
successivi trent’anni, si darà qui all’intervento di Sontag uno spazio superiore a quello
che investe i suoi aspetti strettamente funzionali alla problematica in esame (la ‘esube-
ranza’ del camp e il suo ‘tradimento’).
4
È William White a informare come “Sontag was labeled the Camp girl and Miss
Camp for her spreading of the camp ‘philosophy’”. William White, “‘Camp’ as Adjec-
tive: 1909-1966”, American Speech, XLI, 1, February 1966, pp. 71.
TRADIMENTI, 1954-1964 31

1
print. To talk about Camp is therefore to betray it”. I termini utilizzati,
significativamente, sono cult name, esoteric, private code e badge of identity.
L’enfasi non è tanto, o solo, sulla clandestinità omosessuale di cui il camp
sarebbe indice (come il ricorso a badge of identity, o anche a private code,
potrebbe spingere a pensare), bensì sulla inarticolabilità del camp in
quanto discorso esoterico (in chiave analoga a quella che Isherwood sug-
geriva affermando che per impadronirsi del codice fosse necessario “me-
ditate on it and feel it intuitively, like Lao-Tze’s Tao”), e riconducibile al
suo essere una sensibility. Sensibilità che – tradotta in veste intelligibile,
vale a dire articolata in termini comprensibili al di fuori del culto clande-
stino – rischiava di essere irrigidita allo statuto di ‘idea’: “[a] sensibility is
almost, but not quite, ineffable. Any sensibility which can be crammed
into the mold of a system, or handled with the rough tools of proof, is no
2
longer a sensibility at all. It has hardened into an idea”.
È in ragione di ciò che Sontag adotta sia uno stile paratattico, che tra-
duce nella disarticolatezza dei 58 ‘appunti’ che compongono il saggio la
resistenza della ‘sensibilità’ alla consequenzialità espositiva del linguag-
gio saggistico, sia la scelta di offrire in apertura un elenco degli oggetti
camp come forma di sua presentazione per exempla più che per argo-
3
mentazione. L’ineffabilità del camp qual è teorizzata da Sontag risulta

1
Susan Sontag, op. cit., p. 275. In effetti la nozione aveva avuto una diffusione a
stampa superiore rispetto a quanto si riconosca in questo passaggio. Ad alcuni testi in
tal senso si è già fatto rimando in apertura di capitolo; si confrontino inoltre Richard
Mayne, “Needlework”, New Statesman, 17 August 1962, p. 207; Julian Mitchell, “Dot
Dot Dot”, Spectator, 17 August 1962, pp. 222-223; e Donald Webster Cory, The Homo-
sexual and His Society: A View From Within, New York: Citadel, 1963. La stessa Sontag
aveva fatto ricorso alla nozione in “Happenings: An Art of Radical Juxtaposition”, ori-
ginariamente apparso in The Second Coming (nel 1962), e ristampato in Susan Sontag,
Against Interpretation and Other Essays, cit., pp. 263-274. In tutti questi interventi, a
ogni modo, si fa ricorso alla nozione senza offrirne un’analisi, e in tal senso il ‘tradi-
mento’ è solo parziale.
2
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 276.
3
“To snare a sensibility in words, especially one that is alive and powerful, one must
be tentative and nimble. The form of jottings, rather than an essay (with its claim to a
linear, consecutive argument), seemed more appropriate for getting down something
of this particular fugitive sensibility”. Ivi, pp. 276-277. L’elenco degli oggetti camp si
trova alle pagine 277-278. Questa duplice scelta, di annotazione e di esemplificazione
paratattica, segnerà gli interventi successivi, tanto da essere in diverse occasioni ripro-
posta. Si vedano ad esempio Richard Dyer, “It’s Being so Camp as Keeps Us Going”,
The Body Politic, X, 36, September 1977, pp. 11-13, ristampato in Richard Dyer, Only
Entertainment, London: Routledge, 1992, pp. 135-147 (da cui le prossime citazioni nel
testo); Patrick Mauriès, op. cit.; Philip Core, op. cit.; Mark Booth, op. cit., p. 15-16; Giu-
seppe Merlino, op. cit.; e Paul Roen, op. cit.
32 ESUBERANZA

insomma la sua condizione d’essere, intrinseca al suo darsi in quanto


‘sensibilità’ (non lo si può articolare interamente entro i confini dell’in-
1
telligibile). Ma anche intrinseca al suo prodursi come oggetto di culto e
come codice privato (non lo si deve articolare in un codice condiviso dai
più), pena il ‘tradimento’ che la stessa Sontag confessa di attuare nel
momento in cui lo consegna alla pagina a stampa, la quale per statuto
eccede la capacità di controllo della sua circolazione da parte dello scri-
vente (incapace dunque di eleggere l’interlocutore, o di modulare la mole
e la qualità dell’informazione preservando il ‘piacere necessario’ della
clandestinità che presiede alla nozione). Si va cioè disegnando un’ambi-
guità per cui all’ineffabilità venata di misticismo – il camp è esoterico,
come il Tao – si contrappone un’ineffabilità priva di portata metafisica. In
chiave materialista, se si vuole, il camp era ineffabile poiché parlarlo si-
gnificava tradirlo e tradirsi come gruppo segreto (clandestino rispetto alla
norma sessuale o, in quanto categoria estetica, eversivo rispetto alle isti-
tuzioni del sapere), disperdendo un codice di per sé elitario che dell’elita-
rietà faceva un cardine tanto nella gratuità dei riferimenti quanto nell’as-
senza di confronto diretto con le categorie che criticava. E al ‘tradimento’
del camp parteciperà l’intero corpus di scrittura critica sull’argomento, a
parziale esclusione degli interventi che, in accordo a quanto già si evi-
denziava a proposito di Isherwood, nel proporre il camp come oggetto
d’indagine lo mettevano in gioco come stile critico e come soggetto lin-
2
guistico. Tradire il camp corrisponderà allora al tentativo di dominare la

1
L’utilizzo da parte di Sontag del termine sensibilità, pertanto, presuppone la parzia-
le inintelligibilità del camp rimandando alla presunta ineffabilità della dimensione in-
teriore, quella dimensione del feeling che il culto settecentesco della sensibilità testi-
monia ampiamente nelle opere di Henry Mackenzie, Richard Brinsley Sheridan e Lau-
rence Sterne, e nel quale riveste un ruolo cruciale l’effeminatezza che nel nostro secolo
è risultata ascritta all’omosessualità camp. Si consulti in proposito Alan Sinfield, The
Wilde Century, cit., pp. 84-108. In seconda (e più significativa) battuta l’utilizzo riman-
da, implicitamente, alla dicotomia fra sensibile e intelligibile che dominava l’universo
intellettuale greco. Cfr. Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant in Les Ruses de l’intel-
ligence. La mètis des Grecs, Paris: Flammarion, 1974, p. 11. Nell’irrisolta oscillazione fra
sensibile e intelligibile si colloca, nella splendida analisi di Detienne e Vernant, la mètis,
l’intelligenza dell’inganno, analogamente al camp che, nelle parole di Sontag, è “al-
most, but not quite, ineffable”. Di ciò il saggio di Sontag sembra peraltro non essere
consapevole, come testimonia il fatto che oltre faccia riferimento ad altre due ‘sensibi-
lità’, di cui a breve, alle quali Sontag contrappone quella camp e che interamente si
sono consegnate all’intelligibilità e alla sua controparte istituzionale, la dicibilità critica.
2
Esemplari in tal senso sono i lavori, precedentemente citati, di Philip Core, Armin
Kratzert, Patrick Mauriès e Giuseppe Merlino. Fra i contributi recenti rientrano pie-
namente in questa categoria Scott Long, “Useful Laughter: Camp and Seriousness”,
TRADIMENTI, 1954-1964 33

sua esuberanza inquadrandola in griglie arbitrariamente esclusive, le


quali reinvestivano sul camp la logica stessa dell’arbitrio che lo caratte-
rizza (si tornerà su questo punto nel capitolo 6).
Riprendiamo “Notes on ‘Camp’”, per evidenziare come si correli alla
definizione data nel 1966 dal Random House Dictionary of the English Lan-
1
guage. Nel collocare questa “particular fugitive sensibility” all’interno del
più ampio spettro culturale, Sontag la configura quale “terza sensibilità”,
interamente presieduta dall’estetico a scapito del morale: “Camp is the
consistently aesthetic experience of the world. It incarnates a victory of
2
‘style’ over ‘content’, ‘aesthetics’ over ‘morality’, of irony over tragedy”. La
terza sensibilità offerta dal camp, secondo Sontag, supererebbe sia la ‘sen-
sibilità’ dell’Alta Cultura, di stampo moralista e valutativo, sia quella del-
l’avanguardia, la cui serietà si produce invece nella “tension between mo-
3
ral and aesthetic passion”, e in una frammentarietà strutturale il cui fine

is not that of creating harmonies but of overstraining the medium and


introducing more and more violent, and unresolvable, subject-matter.
[…] Clearly, different standards apply here than to traditional high cul-
ture. Something is good not because it is achieved, but because an-
other kind of truth about the human situation, another experience of
what it is to be human – in short, another valid sensibility – is being re-
vealed. And third among the great creative sensibilities is Camp: the
sensibility of failed seriousness, of the theatricalization of experience.
Camp refuses both the harmonies of traditional seriousness, and the
risks of fully identifying with extreme states of feeling.4

Southwest Review, 74, Winter 1989, ristampato come “The Loneliness of Camp” in Da-
vid Bergman (ed.). op. cit., pp. 78-91; Andrew Travers, “An Essay on Self and Camp”,
Theory, Culture & Society, X, 1, February 1993, pp. 127-143; e in genere la scrittura criti-
ca di Wayne Koestenbaum. Di quest’ultimo si vedano in particolare “Opera and Ho-
mosexuality: Seven Arias”, Yale Journal of Criticism, V, 1, 1991, pp. 235-254; The
Queen’s Throat: Opera, Homosexuality, & the Mystery of Desire (1993), London: Penguin,
1994; e “Wilde’s Hard Labor and the Birth of Gay Reading”, in Joseph A. Boone and
Michael Cadden (eds.), Engendering Men: The Question of Male Feminist Criticism. Lon-
don: Routledge, 1990.
1
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 277.
2
Ivi, p. 287.
3
Ibidem.
4
Ibidem. “Another valid sensibility”: si confronti supra, la nota 1 a p. 32. La differen-
za saliente fra le tre sensibilità è dunque quella del loro grado di ‘validità’, ossia – ri-
formulando – il loro statuto pubblico (legittimità e ratificazione sociale), in quanto vei-
colo della ‘verità dell’umano’.
34 ESUBERANZA

La lettura da parte di Sontag della prima e seconda ‘sensibilità’ è viziata


da una vistosa semplificazione: è discutibile infatti ridurre l’Alta Cultura
a un principio di serietà o di armonia, così come l’esperienza delle avan-
guardie (quali avanguardie?) alla tensione drammatica dell’incompletezza
e irresolutezza del subject-matter. L’elemento decisivo, a ogni modo, è
l’apprezzamento della fallimentarietà come fondante il terzo polo esteti-
co costituito dal camp. Quanto era intervenuto fra il 1954 e il 1966, quan-
to insomma il dizionario registra nella rinnovata opposizione fra High e
Low Camp, era la distinzione fra naïve e deliberate Camp, fra camp come
intenzionalmente prodotto (di alto livello, High perché volontario) e co-
me invece frutto di un fallimento (e dunque volgare, Low) delle inten-
1
zioni. Ma da Sontag, peraltro, l’opposizione fra camp volontario e camp
involontario è disposta a totale privilegio del secondo termine, il quale
dei due è la variante ‘pura’: “Pure camp is always naïve. Camp which
2
knows itself to be Camp (‘camping’) is usually less satisfying”.
In seconda battuta, va sottolineato come, ancor più che da Isherwood,
il camp sia da Sontag visto non quale modalità esistentiva, riconducibile
a quella condizione omosessuale che sembra denunciata nell’attestazione
da elemento dello slang tardovittoriano, bensì quale estetica; è infatti in
questa chiave – come terza estetica – che il confronto con la prima e la
seconda ‘sensibilità’ riconfigura il camp. Ciò, beninteso, nonostante Son-
tag non si esprima in tal senso: al contrario, il critico predilige la chiave
del taste, in quanto forma eccentrica di articolazione di gusto; e il camp
sarebbe promosso da una “improvised self-elected class, mainly homo-
3
sexuals, who constitute themselves as aristocrats of taste”. Nel radicaliz-
1
A rischio di incrementare la sensazione caotica che il camp di per sé produce con
chi si confronti con esso: non è legittimo ritenere Sontag la sola responsabile della
nuova distinzione, la quale infatti trovava immediatamente a livello massmediale un
corrispettivo nell’opposizione fra active camp (operativo nelle modalità del deliberate
Camp) e passive camp (del tutto analogo al naïve Camp). Si vedano in proposito Tho-
mas Meehan, “Not Good Taste, Not Bad Taste: It’s ‘Camp’”, New York Times Maga-
zine, 21 March 1965, pp. 30-31; e George Melly, “Active e Passive Camp Schools”, Ob-
server Review, 30 November 1969, p. 33. Ma non è dato sapere se quest’ultima fosse
una ‘traduzione’ della distinzione di Sontag, o se a sua volta non facesse altro che re-
gistrare una distinzione già circolante nella sottocultura o nel ‘trivio’ camp.
2
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 282. Quella registrata dal dizionario può
sembrare dunque una distorsione della dicotomia fra High e Low Camp. Si ritiene
tuttavia che la duttilità della circolazione sottoculturale (intendendo qui con ‘sottocul-
turale’, come s’è detto, la marginalità rispetto alle istituzioni del sapere) possa avere
prodotto un particolare utilizzo dell’opposizione che non era tanto una degenerazione
quanto una ‘normale’ riarticolazione della stessa.
3
Ivi, p. 290.
TRADIMENTI, 1954-1964 35

zare il suggerimento di Isherwood, nei confronti del quale peraltro non


riconosce alcun debito, “Notes on ‘Camp’” non nega la particolare pre-
gnanza che l’elemento omosessuale ha storicamente rivestito nel camp;
semplicemente, però, la mette in secondo piano rispetto alla specifica
struttura estetica del camp:

The peculiar relation between Camp taste and homosexuality has to be


explained. While it’s not true that Camp taste is homosexual taste,
there is no doubt a peculiar affinity and overlap. […] [H]omosexuals,
by and large, constitute the vanguard – and the most articulate audi-
ence – of Camp. […] Nevertheless, even though homosexuals have
been its vanguard, Camp taste is much more than homosexual taste
[…] one feels that if homosexuals hadn’t more or less invented Camp,
someone else would.1

Sontag non nega insomma, come le sarebbe stato addebitato in diverse


occasioni, che gli omosessuali abbiano “more or less invented Camp” e
che ne siano storicamente stati “its vanguard”: ma il critico, con strategia
2
che ha immediatamente offerto il fianco ad accuse di ‘espropriazione’,
afferma che ormai il camp esubera in larga misura la sua origine e la sua
stessa ‘avanguardia’ storica, precisamente nel configurarsi quale estetica
che (d)enuncia una particolare condizione dello stato culturale in cui il
saggio si inserisce.
Nel confrontarsi con una referenza quanto mai esuberante, in osse-
quio al gusto camp dell’eccesso, Sontag ricorre quindi a un’esemplifi-
cazione che la rispecchia: si va con amabile indifferenza dai musical dei
primi anni Trenta di Busby Berkeley a Tallulah Bankhead, da Edwige
Feullière alla cantante pop cubana La Lupe, e il “Canone” del camp
comprende così le lampade Tiffany e Ronald Firbank, Aubrey Beardsley e
il King Kong di Merian Cooper e Ernest Schoedsack (1933), i fumetti di
Flash Gordon e gli abiti femminili degli anni Venti, per concludersi con
3
gli “stag movies seen without lust”, giustapposti in una medesima lista
1
Ivi, pp. 290-291.
2
Newton riporta l’irritazione di un female impersonator intervistato dopo la lettura
del saggio di Sontag: “He was college educated, and perfectly able to get through it.
He was enraged (justifiably, I felt) that she had almost edited homosexuals out of
camp”. Esther Newton, op. cit., p. 106n12. Ripercorrere le successive accuse di espro-
priazione da parte di Sontag significa ripercorrere, in gran parte, la bibliografia secon-
daria sul camp. Basti dunque consultare gli interventi più recenti, che basano su que-
sto punto il nodo decisivo della propria impostazione argomentativa, contenuti so-
prattutto in Moe Meyer (ed.), op. cit.
3
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 278.
36 ESUBERANZA

nientemeno che ai film di Luchino Visconti. La strategia adottata in que-


st’impresa, come ha sottolineato Gregory Bredbeck, è riconducibile a una
pratica antica, che gestisce l’elusività “through the most basic theoretical
1
strategy derived from Aristotle, division and classification”. La distinzio-
ne fra naïve e deliberate Camp, rispetto a quella fra High e Low Camp, ne
emerge così quale più ‘docile’, vale a dire come ben più utile per aggirarsi
nella bebele del corpus di riferimento, proprio in quanto frutto di una
logica ‘estranea’ al codice camp, della logica di ‘tradimento’ del codice
che la stessa Sontag anteponeva alla sua ‘analisi’.
L’‘essenza’ del camp sarebbe “its love of the unnatural: of artifice and
2
exaggeration”, che presiede a una “vision of the world in terms of style –
3
but a particular kind of style”. Il particolarissimo criterio stilistico del
4
camp – il “degree of artifice, of stylization” – rimpiazza in effetti come
criterio valutativo l’ordine della Bellezza nell’apprezzamento “of the ex-
5
aggerated, the ‘off’, of things-being-what-they-are-not”. Non è impre-
scindibile, peraltro, che l’artificiosità sia programmatica: se così non è, si
dà spazio alla produzione di camp involontario. Ciò che determina il naïve
camp è infatti la percezione di artificio (di ‘stilizzazione’, teatralità o in-
congruità) in prodotti che pure si propongono come naturali, verosimili,
e che come tali vengono generalmente fruiti. La fruizione camp, a ogni
modo, non censura l’ingenuità di tali prodotti bensì l’apprezza – e pro-
prio in ragione della loro eccessiva falsità, di quella che Sontag chiama
6
“seriousness that fails”, dello squilibrio tra intenzioni e risultati: l’affer-
mazione supremamente camp, quella che ne mette in scena la logica,
7
sarebbe “it’s good because its awful”.
Siamo già in grado di evincere da “Notes on ‘Camp’”, come nel vol-
gere di qualche anno avrebbero apertamente teorizzato Esther Newton e
Jack Babuscio, che il camp involontario si offra primariamente in quanto
relazione, la quale – almeno parzialmente – mette in crisi la distinzione
8
tra soggetto e oggetto. L’oggetto sul quale si esercita l’ironia non pre-
1
Gregory W. Bredbeck, “B/O – Barthes’s Text/O’Hara’s Trick: The Phallus, the Anus,
and the Text”, PMLA, CVIII, 2, March 1993, p. 275.
2
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 275.
3
Ivi, p. 279.
4
Ivi, p. 277.
5
Ivi, p. 279.
6
Ivi, p. 283.
7
Ivi, p. 292.
8
Parzialmente: benché Sontag riconosca che la “Camp vision” si applichi con irrive-
renza, il critico newyorkese afferma: “True, the Camp eye has the power to transform
TRADIMENTI, 1954-1964 37

scinde infatti mai dal ruolo esplicitamente rivestito dal soggetto perci-
piente. Il camp può pertanto essere rintracciato ovunque, a patto che il
fruitore non venga coinvolto, non rispetti le intenzioni e il contesto che
consensualmente si presuppongono caratterizzare l’oggetto in questione.
Il camp presuppone una distanza che consenta di cogliere il grado di ar-
tificiosità (la qualità di artefatto) dello stesso. Nelle parole di Oscar Wil-
de, appropriatamente utilizzate quali epigrafe da Sontag, “one must have
a heart of stone to read the death of Little Nell” – l’eroina del dickensiano
The Old Curiosity Shop, il cui tragico epilogo provocò nel secolo scorso una
1
straordinaria partecipazione popolare – “without laughing”. Ma il di-
stacco del camp partecipa di un cinismo paradossalmente appassionato,
il cui trasporto ‘affettivo’ è il presupposto dell’entusiasmo nel momento
stesso in cui questo corrisponde all’entusiasmo e all’eccesso di intenzioni
inscritte nel processo di produzione dell’oggetto, o del soggetto, camp:

What is extravagant in an inconsistent or an unpassionate way is not


Camp. Neither can anything be Camp that does not seem to spring
from an irrepressible, a virtually uncontrolled sensibility. Without pas-
sion, one gets pseudo-Camp – what is merely decorative, safe, in a
word, chic. […] Camp taste identifies with what it is enjoying. People
who share this sensibility are not laughing at the thing they label as ‘a
camp’, they are enjoying it. Camp is a tender feeling.2

Si confrontino in tal senso le parole di Isherwood: “you are not making


fun of it: you are making fun out of it”.
Il corpus magmatico del camp, insomma, non accomuna altro che ele-
menti sottoposti a una percezione la quale – irriverente nei confronti del-
le categorie e dei dati culturali, e pronta a negare ogni carattere oggettivo
al rapporto fra testo e fruitore, oltre che alla valutazione estetica che ne
deriva – si proietta sull’altro da sé, lo spiazza dalla sua contestualità e in-
tenzionalità d’origine. Nel promuovere il distacco appassionato un ruolo
fondamentale, dice Sontag, è giocato dal tempo, che agevola la presa di
distanza nel momento stesso in cui consente una ri-valutazione di stampo
nostalgico:
experience. But not everything can be seen as Camp. It’s not all in the eye of the be-
holder.” Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 277. Specifica attenzione al camp
quale prodotto dalla relazione fra soggetto lettore e oggetto di lettura venne dedicata
in prima battuta da Esther Newton, op. cit., p. 105, e da Jack Babuscio, op. cit., pp. 40-
41, i cui interventi verranno affrontati nel prossimo capitolo.
1
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 291.
2
Ivi, pp. 284, 291-292.
38 ESUBERANZA

Time may enhance what seems simply dogged or lacking in fantasy


now because we are too close to it, because it resembles too closely our
own everyday fantasies, the fantastic nature of which we don’t per-
ceive. We are better able to enjoy a fantasy as fantasy when it is not our
own. […] This is why so many of the objects prized by Camp taste are
old-fashioned, out of date, démodé. It’s not a love of the old as such. It’s
simply that the process of aging or deterioration provides the necessary
detachment – or arouses a necessary sympathy.1

O ancora, estendendo l’intuizione di Sontag, un ruolo determinante è


rivestito dallo spazio che, interposto fra il soggetto percipiente e il conte-
sto d’origine dell’oggetto, attiva la medesima logica attraverso ad esem-
pio il ricorso alla fascinazione dell’esotico che non è scindibile, in questo
caso, dalla consapevolezza della sua ‘innaturalità’. La salienza di tempo e
spazio nella produzione di camp fa sì che il ‘canone’ del camp, quell’as-
surdo canone che giustappone Beardsley ai fumetti di Flash Gordon, sia
– per sua stessa natura – evanescente e localizzato, ossia destinato a una
2
incessante riformulazione. Al passare del tempo, o al mutare della rela-
zione spaziale, corrisponderà necessariamente una variabilità nella rela-
zione che produce il camp come qualità di un oggetto, e quindi una mu-
tazione del canone camp: “[o]f course, the canon of camp can change.
Time has a great deal to do with it. […] But the effect of time is unpre-
dictable. Maybe ‘Method’ acting (James Dean, Rod Steiger, Warren
3
Beatty) will seem as Camp some day as Ruby Keeler’s does now”.
Quale frutto di una decodifica ‘eccentrica’ si rende insomma conto
dell’inclusione del grottesco, dell’eccessivo, del cattivo gusto piccolo-
4
borghese o della paccottiglia in genere, nel canone del camp. Come
1
Ivi, p. 285.
2
Questa è la ragione per cui non vi è accordo sull’inclusività della referenza camp,
neppure fra coloro che lo assumono quale formazione culturale specificamente gay,
postulando cioè un elemento fondativo che da Sontag viene messo in secondo piano
in favore del principio estetico che presiederebbe al camp. Significativa in tal senso
l’aspra polemica sulla campiness di John Wayne suggerita da Richard Dyer e ferma-
mente negata da Andrew Britton nella seconda metà degli anni Settanta. Cfr. Richard
Dyer, “It’s Being so Camp as Keeps Us Going”, cit.; e Andrew Britton, “For Interpreta-
tion: Notes Against Camp”, Gay Left, 7, Winter 1978/79, pp. 11-14.
3
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 285. Trent’anni dopo, infatti, il canone ha
subito una variazione, con l’ingresso di figure precedentemente escluse, tanto da spin-
gere John Godfrey a proporlo come costitutivo di un “nuovo camp”. Cfr. John Go-
dfrey, “The New Camp”, Face, December 1992.
4
In questa chiave si giustifica anche l’inclusione degli “stag movies” nel canone
camp, in quanto film in cui lo spettatore, abbandonato dalla tensione erotica, è in gra-
TRADIMENTI, 1954-1964 39

quest’estetica dell’orrendo comprenda poi la prassi che fa della sofisticata


raffinatezza la propria insuperabile cifra, ossia, come i film di Visconti
abbiano un qualcosa da spartire con gli “stag movies”, sebbene legitti-
mati dall’ essere “seen without lust”, è presto giustificato nel momento
in cui si ricorre al camp intenzionale. L’artificiosità, il privilegio dello stile
sul contenuto, che sono nel camp involontario attivati dalla decodifica,
possono essere praticati consapevolmente, e risultare così ascrivibili a un
programma estetico: e in questo caso si avrà il camp intenzionale di un
Oscar Wilde, di un Visconti, di un Beardsley e della tradizione estetiz-
zante del Novecento.
Quello che Sontag indica come camp intenzionale si delinea infatti
quale atteggiamento di assoluto privilegio della forma sul ‘messaggio’:
“For Camp art is often decorative art, emphasising texture, sensuous sur-
1
face, and style at the expense of content”. Un atteggiamento eccentrico,
esibizionistico e ludico il cui fine primo è “to dethrone the serious. Camp
is playful, anti-serious. More precisely, Camp involves a new, more com-
plex relation to ‘the serious’. One can be serious about the frivolous
2
about the frivolous, frivolous about the serious”.
Nella mutua conversione fra serietà e frivolezza si attua un depoten-
ziamento della serietà dello stesso soggetto camp intenzionale, che si
produce dunque in un atteggiamento massimamente autoconsapevole,
al tempo stesso narcisistico e autoironico, volto a promuovere una visio-
ne amorale, acritica e ‘apolitica’, all’insegna del totale disimpegno e della
visione ‘comica’ del mondo: “Camp proposes a comic vision of the
world. But not a bitter or polemical comedy. If tragedy is an experience
of hyperinvolvement, comedy is an experience of underinvolvement, of
3
detachment”. E in effetti, in termini destinati a un profondo ripensa-
mento tutt’ora in corso (si confronti la Parte Seconda di questo lavoro),
Sontag indicava – prima ancora, o di pari passo alla mancanza di ‘serietà’
da parte del soggetto camp – il suo privilegio del frivolo e dello stile a
scapito del contenuto (del ‘messaggio’) quale ragion d’essere del disim-

do di cogliere l’aspetto teatrale (e ridicolo, da parodia di una prestazione ‘ginnica’)


della sessualità esasperatamente enfatizzata.
1
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 278. Anche qui Sontag è in linea con Isher-
wood quando afferma che “you can’t camp about something you don’t take seriously.
[…] You are expressing what’s basically serious to you in terms of fun and artifice and
elegance”.
2
Ivi, p. 288.
3
Ibidem.
40 ESUBERANZA

pegno, della scelta acritica e apolitica: “[t]o emphasize style is to slight


content, or to introduce an attitude which is neutral with respect to con-
tent. It goes without saying that the Camp sensibility is disengaged, de-
1
politicized – or at least apolitical”. L’apoliticità del camp sarebbe in-
somma un tutt’uno con il rifiuto camp della valutazione in accordo a un
criterio contenutistico e morale:

Camp taste is, above all, a mode of enjoyment, of appreciation – not


judgement. Camp is generous. It wants to enjoy. It only seems like
malice, cynicism. (Or, if it is cynicism, it’s not a ruthless but a sweet
cynicism.) Camp taste doesn’t propose that it is in bad taste to be seri-
ous; it doesn’t sneer at someone who succeeds in being seriously dra-
matic. What it does is to find the success in certain passionate failures.2

La spinta disimpegnata e acritica, la sospensione del giudizio, sono rese


fondamentali: ciò di cui troviamo testimonianza del resto nell’esuberante
referenza e nello stesso paradossale ‘canone’, in cui, s’è detto, il sublime
e il triviale si giustappongono in un’accozzaglia indefinita all’insegna del
principio d’irresponsabile in-differenza.
In tale dato fondamentale si rintraccia anche quell’elemento relegato
in secondo piano da Sontag, la parziale sovrapposizione e affinità del gu-
sto camp con il ‘gusto’ omosessuale. Questo, in effetti, emerge anche
laddove non è dichiarato, impregnando all’atto pratico quella che è pro-
posta come una sensibilità propriamente contemporanea (“unmistakably
3
modern, a variant of sophistication but hardly identical with it”), indi-
pendente dall’orientamento sessuale. Commentando uno dei topoi ricor-
renti dell’iconografia camp – l’androgino, che la cui valenza camp è rin-
tracciata dalle “swooning, slim, sinuous figures of pre-Raphaelite pain-
ting and poetry” alla “haunting androgynous vacancy behind the perfect
4
beauty of Greta Garbo” – Sontag non può fare a meno di esporsi in ter-
mini che sembrano denunciare più di quanto il critico verosimilmente
intendesse sostenere:

Camp taste draws on a mostly unacknowledged truth of taste: the


most refined form of sexual attractiveness (as well as the most refined
form of sexual pleasure) consists in going against the grain of one’s

1
Ivi, p. 277.
2
Ivi, p. 291.
3
Ivi, p. 275.
4
Ivi, p. 279.
TRADIMENTI, 1954-1964 41

sex. What is most beautiful in virile men is something feminine; what


is most beautiful in feminine women is something masculine…1

È difficile non percepire un’apologia dell’omosessualità, di pari passo alla


sua pregnanza nel camp, nel sostenere che la “most refined form of sexual
pleasure” risieda nel “going against the grain of one’s sex”. La fenome-
nologia camp sembra offrire peraltro un appiglio a Sontag nel momento
in cui rileva che “[a]llied to the Camp taste for the androgynous is some-
thing that seems quite different but isn’t: a relish for the exaggeration of
2
sexual characteristics and personality mannerisms”. Si pensi anche solo,
fra gli esempi offerti dalla stessa Sontag, all’eccessiva, rutilante e grotte-
scamente maestosa femminilità di Jayne Mansfield e Jane Russell; o
all’altrettanto eccessiva mascolinità di Steve Reeves e Victor Mature.
L’oscillazione fra le categorie sessuali o la loro enfatizzazione, in ultima
analisi implosiva, producono un medesimo stato di crisi, che si traduce
nella metafora del mondo-come-teatro, e del sé-come-interpretazione-
di-un-ruolo: “Camp sees everything in quotation marks. It’s not a lamp,
but a ‘lamp’; not a woman, but a ‘woman’. To perceive Camp in objects
and persons is to understand Being-as-Playing-a-Role. It is the farthest
3
extension, in sensibility, of the metaphor of life as theatre”.
Forma culturale eminentemente citazionale, di secondo grado, il camp
disprezza cioè ogni essenza e ogni naturalità: il soggetto è apprezzato
per la sua performance e per le sue rappresentazioni, ed è in ultima ana-
lisi reso omologo a esse. Quando però Sontag si sofferma sul rapporto
fra camp e omosessualità, la metafora della vita-come-teatro – così come
l’insistenza sull’irresponsabilità inscritta nella pulsione acritica – tornano
a essere pregnanti in chiave di eversività della pratica sessuale. Pur ne-
gando la coincidenza fra camp e gusto omosessuale, Sontag è spinta a
concedere che “[o]bviously, its metaphor of life as theater is peculiarly
suited as a justification and projection of a certain aspect of the situation
of homosexuals. (The Camp insistence on not being ‘serious’, on playing,

1
Ibidem.
2
Ibidem.
3
Ivi, p. 280. Va tuttavia sottolineato come la metafora della vita quale teatro sia rin-
tracciabile fin dal theatrum mundi medievale. Ciò che differenzia la teatralità camp è
l’assenza della Divina Provvidenza quale ‘regista’ dell’azione, e del conseguente ri-
mando a una volontà superiore che presieda i movimenti degli ‘attori’. Sul theatrum
mundi medievale e sulla distanza fra questo e la teatralità sociale contemporanea è an-
cora assai utile Elizabeth Burns, Theatricality: A Study of Convention in the Theatre and in
Social Life, London: Longman, 1972, pp. 8-22.
42 ESUBERANZA

1
also connects with the homosexuals’s desire to remain youthful.)”
La concessione ha una duplice implicazione, di cui solo la seconda è –
ma indirettamente – esplorata da Sontag. La prima è che la metafora
della vita-come-teatro sarebbe funzionale alla “situazione omosessuale”
nella misura in cui questa è clandestina, vale a dire nel closet, ossia in uno
2
stato di covertness. Il trasgressore dovrebbe essere irriconoscibile per so-
pravvivere entro i confini del contratto sociale: egli sviluppa dunque
un’acuta consapevolezza dei codici comportamentali attraverso i quali ci
si ‘costruisce’ come soggetto eterosessuale, e vive la condizione sociale,
appunto, come un palco sul quale si inscena una rappresentazione dei
3
ruoli sessuali e dei ruoli sociali tout court. La teatralità (la consapevolezza
di teatralità) camp, in breve, sarebbe giustificata dalla consapevolezza gay
dell’attività recitativa nella quotidianità, fondata sulla necessità di sfuggi-
re al riconoscimento eterosessuale attraverso un codice altamente esclu-
sivo. Questa è insomma la tesi del camp come prodotto dal passing for
straight (il ‘passare’ per eterosessuale), che avrebbe dominato gli inter-
venti critici in chiave gay nei vent’anni successivi alla pubblicazione di
“Notes on ‘Camp’”. Basti ripensare a quanto sosteneva David Bergman
in merito all’espressione obliqua dell’omosessualità come prerogativa del
camp, a quella forma cioè di reticenza che nel silenzio trova la propria pa-
radossale forma di espressione (“thus the avoidance of ‘self-expression’
becomes paradoxically a powerful expression of gay selfhood”). Alla tesi
del passing si correla del resto un altro appunto di Sontag in merito allo
specifico utilizzo di camp come predicato verbale, che enfatizza la dupli-
cità del comportamento e del linguaggio camp, altrettanto funzionale al
riconoscimento fra covert homosexuals e in genere alle persone dalla ‘dop-
pia vita’:

To camp is a mode of seduction – one which employs flamboyant


mannerisms susceptible of a double interpretation; gestures full of du-
plicity, with a witty meaning for cognoscenti and another, more imper-
sonal, for outsiders. Equally and by extension, when the word becomes
a noun, when a person or a thing is ‘a camp’, a duplicity is involved.

1
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., pp. 290-291.
2
Sull’opposizione over/covert homosexual si veda supra la nota 1, a p. 13.
3
‘Egli sviluppa’: l’utilizzo del maschile non è né casuale né ingenuo. La teorizzazione
del camp in questa chiave è stata storicamente presieduta dalla varietà maschile
dell’omosessualità. Solo negli ultimi anni, come si vedrà oltre (cfr. il capitolo 4), si è
andata sviluppando una riflessione sul camp in chiave lesbica.
TRADIMENTI, 1954-1964 43

Behind the ‘straight’ public sense in which something can be taken,


one has found a private zany experience of the thing.1

Si noti l’utilizzo – come livello primo di comprensione oltre il quale si


cela il significato rivolto esclusivamente agli ‘intenditori’ – di straight, il
cui significato comprende, accanto alla linearità retta, l’eterosessualità (la
‘rettitudine’ comportamentale: la normalità). Il fatto che Sontag inserisca
straight fra virgolette marca al di là di ogni ragionevole dubbio l’attiva-
zione di entrambe le valenze del termine.
La seconda implicazione, che investe l’irresponsabilità camp, la sua
mancanza di ‘serietà’, emerge in relazione al ‘distacco’, all’in-differenza,
che Sontag riconduce alla ‘distanza sociale’ di matrice aristocratica – di
un’aristocraticità ‘autocostituita’ – del camp, che in tal senso si configura
come un dandismo nell’epoca della cultura di massa (“Detachment is the
prerogative of an elite; and as the dandy is the 19th century surrogate for
the aristocrat in matters of culture, so Camp is the modern dandyism.
Camp is the answer to the problem: how to be a dandy in the age of
2
mass culture”). Parlando della parziale sovrapposizione fra gusto omo-
sessuale e sensibilità camp, Sontag ricorre all’analoga (a suo avviso) so-
vrapposizione fra soggettività ebraica e liberalismo. Entrambe le sovrap-
posizioni sarebbero da ricondursi a un comune desiderio, ancorché de-
clinato in un’opposta strategia, di integrazione:

The reason for the flourishing of the aristocratic posture among homo-
sexuals also seems to parallel the Jewish case. For every sensibility is
self-serving to the group that promotes it. Jewish liberalism is a gesture
of self-legitimization. So is Camp taste, which definitively has some-
thing propagandistic about it. Needless to say, the propaganda oper-
ates in exactly the opposite direction. The Jews pinned their hopes for
integrating into modern society on promoting the moral sense. Homo-
sexuals have pinned their integration into society on promoting the
aesthetic sense. Camp is a solvent of morality. It neutralizes moral indig-

1
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 281. Il camp in tale quadro corrisponderà
al linguaggio, oltre che agli altri codici semiotici di comportamento, di matrice omoses-
suale fino alla fine degli anni Sessanta. Significativamente, la grande maggioranza dei
lemmi contenuti nel dizionario sopracitato di Bruce Rodgers (apparso nel 1972), e in
particolare quelli che giocano sulla polisemia allusiva, sono inseriti con l’indicazione
“(camp)”. Lo stesso volume, nella ristampa apparsa nel 1979 come Gay Talk: A (Some-
times Outrageous) Dictionary of Gay Slang, era definito in quarta “a camp thesaurus”.
2
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 288. Sulla ‘distanza sociale’ della tradi-
zione dandistica si può consultare Giovanna Franci, Il ‘sistema’ del dandy. Wilde-
Beardsley-Beerbohm, Bologna: Pátron, 1977, pp. 22-30.
44 ESUBERANZA

nation, sponsors playfulness.1

Riformulando, nei termini che avrebbero segnato gli interventi critici nei
successivi trent’anni: distaccata, indifferente alla drammaticità e all’im-
pegno critico che l’esistenza borghese impone quali parametri della par-
tecipazione al consorzio civile, l’aristocraticità camp promuove l’accetta-
zione da parte della società borghese perché segnala l’inoffensività della
trasgressione camp. Invocando un principio ludico e di abolizione del
‘contenuto’, il camp intende essere accettato come gioco, come dato pu-
ramente ‘estetico’, che ha in sé il proprio destino di giullare, nei confronti
del quale la soggettività borghese esplode nella risata che dichiara ad un
tempo la sua operatività, la sua accettazione, e i suoi limiti: nelle parole
di Kate Davy, “the wink of Camp (re)assures its audience of the ultimate
2
harmlessness of its play, its palatability for bourgeois sensibilities”. Il
camp sarebbe, in ultima analisi, acritico, lieto di accettare lo spazio che la
società borghese concede proprio perché, tutto sommato, si tratta solo di
‘un gioco’ (e di un gioco, dice Sontag, presieduto da un sentimento tene-
ro), di ‘una finzione’ di eversività, che non merita e non invoca la risposta
censoria: in una parola, il camp sospende la risposta giudiziaria, in paral-
lelo con la risposta critica che il camp quale categoria estetica non pre-
supporrebbe né in chi la pratichi né in chi si confronti con essa.
Il che apre immediatamente la questione del ‘fallimento’ di “Notes on
‘Camp’”, che va di pari passo con il suo ‘tradimento’. La chiave di lettura
che nel disimpegno, nel privilegio del significante e della superficie, nel-
l’elitarismo e nello svilimento della ‘serietà’, individua un desiderio e una
strategia di integrazione con la società borghese risulta immediatamente
inoperativa se confrontata con l’esperienza di Oscar Wilde, cui il saggio
di Sontag è dedicato, autore delle otto epigrafi che il critico nordameri-
cano inserisce fra i suoi ‘appunti’, e indicato nella stessa sede fra i primi
3
“conscious ideologists” del camp. Ipotizzare che il camp sia stato lo
strumento di integrazione per un Wilde, condannato ai lavori forzati e
consegnato al silenzio culturale per decenni, così come sostenere che
l’estetica wildiana promuovesse una risata tollerante da parte della società

1
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 290.
2
Kate Davy, op. cit., p. 145.
3
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 281. Il secondo conscious ideologist del
camp sarebbe Ronald Firbank (1886-1926), il cui lavoro è successivo e, almeno in par-
te, epigonico rispetto a quello di Wilde. Quest’ultimo, secondo Sontag, sarebbe dun-
que il primissimo “ideologo consapevole” del camp.
TRADIMENTI, 1954-1964 45

borghese, significa denunciare immediatamente i limiti del suggerimento


di Sontag. Non dimentichiamo che, fin dai dibattimenti processuali che
lo videro protagonista nel 1895, la riprovazione della trasgressività ses-
suale di Wilde passò attraverso – e si esercitò a un tempo con – lo stigma
nei confronti della sua lezione estetica, la cui eversività venne posta in
stretta correlazione a quella sessuale. Come ha avuto modo di sostenere
Jonathan Dollimore,

One of the many reasons why people were terrified by Wilde was be-
cause of a perceived connection between his aesthetic transgression
and his sexual transgression. ‘Inversion’ was being used increasingly to
define a specific kind of deviant sexuality inseparable from a deviant
personality. […] Hence in part the animosity and hysteria directed at
Wilde during and after his trial. He was attacked by the press (in the
words of one editorial) for subverting the “wholesome, manly ideals of
English life”. Moreover his “abominable vices […] were the natural
outcome of his diseased intellectual condition”. Sexual perversion is
inseparable from intellectual and moral corruption.1

La condanna giudiziaria si esercitò insomma tanto sulla pratica sessuale


quanto su quella estetica, che risulta dunque essere molto meno inoffen-
siva di quanto “Notes on ‘Camp’” ipotizza.
L’affermazione di Sontag si giustifica solo se storicizzata. Lo statuto di
Oscar Wilde, nel 1964, corrispondeva al ruolo marginale cui era relegato
nel canone e nella storia culturale degli English studies, in quanto figura
minore, epigono dell’estetismo francese, ultimo anello della tradizione
romantica e massimo rappresentante con Beardsley di quel decadenti-
smo il cui interesse risiedeva principalmente nella dimensione degenera-
2
tiva dell’epoca vittoriana. Un eccentrico, in ultima analisi, che poteva
essere accolto nel canone solo riconoscendo la sua sostanziale sterilità
culturale, minimizzando cioè quella significatività e proficuità estetica
alla luce delle teorie critiche contemporanee che invece vengono sottoli-

1
Jonathan Dollimore, Sexual Dissidence, cit., p. 67.
2
Basti considerare la collocazione di Wilde nelle storie letterarie. Nella Penguin Guide
to English Literature, ad esempio, a Wilde erano dedicate solo poche pagine, condivise
peraltro con Rudyard Kipling (cui va la gran parte dell’attenzione critica) all’interno
della ‘ultima fase’ dell’epoca vittoriana. Cfr. Allan Rodway, “The Last Phase”, in Boris
Ford (ed.), The New Penguin Guide to English Literature (aggiornamento della Penguin
Guide del 1958), vol. 6, London: Penguin, 1982, pp. 385-403. Analoga sorte tocca a
Wilde nelle poche parole dedicategli da David Daiches in A Critical History of English
Literature, U.S.: Ronald Press, 1968.
46 ESUBERANZA

1
neate con vigore nel recupero in corso negli ultimi anni.
In seconda battuta, indipendente dalla questione omosessuale, il ri-
mando da parte di “Notes on ‘Camp’” alla qualità aristocratica del di-
stacco camp risulta problematico se posto in relazione con quella che
viene indicata come la portata ‘democratica’ del medesimo distacco e in-
differenza. Parlando della valenza transizionale di Oscar Wilde nella storia
del gusto snobistico di matrice dandistica, Sontag afferma:

Wilde himself is a transitional figure. The man […] could never depart
too far in his life from the pleasures of the old-style dandy […]. But
many of his attitudes suggest something more modern. It was Wilde
who formulated an important element of the Camp sensibility – the
equivalence of all objects – when he announced his intention of ‘living
up’ to his blue-and-white china, or declared that a door-knob could be
as admirable as a painting. When he proclaimed the importance of the
necktie, the boutonniere, the chair, Wilde was anticipating the democ-
ratic esprit of Camp.2

Come lo spirito di in-differenza (“the equivalence of all objects”) possa


essere al tempo stesso un’istanza democratica e aristocratica non risulta in
alcuna misura spiegato da Sontag, che del resto presenta la contraddi-
zione senza inquadrarla come tale, senza cioè ricondurla alla logica della
contraddittorietà che presiede al camp.
La ‘fallimentarietà’ di Sontag non si limita alla chiave di lettura appli-
cata alla sovrapposizione di aristocratico distacco, amoralità, e irrespon-
sabile disprezzo del contenuto nella direzione di un anestetico morale
1
Nel 1968 Richard Ellman era consapevole dell’eresia professata sostenendo che
Wilde “laid the basis for many critical positions which are still debated in much the
same terms, and which we like to attribute to more ponderous names”. Richard El-
lman, “Introduction”, in Richard Ellman (ed.), The Artist as Critic: Critical Writings of
Oscar Wilde (1968), London: W. H. Allen, 1970, p. x. Al contrario, oggigiorno la plausi-
bilità di questa affermazione va risultando confortata da un novero crescente di inter-
venti autorevoli. Fra i più significativi in questa direzione si possono consultare Jona-
than Dollimore, “Wilde’s Transgressive Aesthetic and Contemporary Cultural Poli-
tics”, in Sexual Dissidence, cit., pp. 64-73; Eve Kosofsky Sedgwick, “Wilde, Nietzsche,
and the Sentimental Relations of the Male Body”, in Epistemology of the Closet, cit., pp.
131-181; Richard Dellamora, Masculine Desire: Aestheticism, Sexual Politics, and Tradi-
tion, Chapel Hill: University of North Carolina Press, 1990; Regenia Gagnier, Idylls of
the Marketplace: Oscar Wilde and the Victorian Public, Stanford University Press, Stan-
ford 1986; Linda Dowling, Language and Decadence in the Victorian Fin de Siècle, Prince-
ton: Princeton University Press, 1986; e Regenia Gagnier (ed.), Critical Essays on Oscar
Wilde, New York: G. K. Hall, 1991. Sul recupero della lezione estetica di Wilde per la
teoria critica contemporanea mi permetto inoltre di rimandare a Fabio Cleto, op. cit.
2
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 289.
TRADIMENTI, 1954-1964 47

che avrebbe promosso l’integrazione omosessuale, o alla contraddizione


fra posizionamento aristocratico e spirito democratico dell’equivalenza
camp fra tutti gli oggetti. “Notes on ‘Camp’” non fornisce una ragione
alla presenza nel camp dell’omosessualità, che viene indicata come –
“più o meno” – l’origine del fenomeno per poi essere sottratta del pro-
prio valore fondativo e determinante in quanto origine, lasciando spazio
a una sostanziale irrisolutezza: “if homosexuals hadn’t more or less in-
vented Camp, someone else would”. Fortemente problematico è inoltre
il ricorso alla definizione del camp quale ‘gusto’, così come lo è quello già
discusso alla ‘sensibilità’. Intendere il camp come gusto rimanda infatti,
sia pure indirettamente, a una preferenza la quale, nel caso della supposta
‘origine’ omosessuale che Sontag – ambiguamente ed en passant – rico-
nosce, risulta discutibile se non apertamente dannosa in termini di stig-
ma sociale per chi pratichi questo ‘gusto’. Toccando il problema con la
consapevolezza dell’attivismo gay degli anni recenti, Cynthia Morrill os-
serva infatti che la scelta di Sontag “suggests that personal volition de-
termines one’s choice to engage Camp” e che ciò implica il pericolo –
“well known in the current political moment” – della ‘preferenza’ per
lesbiche e gay: “i.e. the attendant implication that preferences can be
1
corrected or cured”.
Se la questione della preferenza implicata dal ‘gusto’ camp è spinosa
2
in chiave di politica culturale, problematica in senso assoluto è la volon-

1
Cynthia Morrill, “Revamping the Gay Sensibility: Queer Camp and dyke noir”, in
Moe Meyer (ed.), op. cit., p. 117. Questo problema emergeva del resto già con Oscar
Wilde perché, nelle parole di Dollimore, “by the time of Wilde, homosexuality could
be regarded as rooted in a person’s identity and as pathologically pervading all aspects
of his being. As such the expression of homosexuality might be regarded as the more
intentionally insidious and subversive”. Jonathan Dollimore, Sexual Dissidence, cit., p.
67. Il problema investe non solo il pericolo di ‘correggibilità’ di un gusto, bensì più ge-
neralmente le implicazioni in chiave teorica dell’opposizione fra costruzionismo ed
essenzialismo (in breve, di quanto si dia la possibilità di una ‘preferenza’ all’interno del
quadro costruzionista che sempre più domina gli studi sul camp).
2
Toccando la specifica questione della strategia sottoculturale attraverso la quale
scardinare i dispositivi di potere che realizzano la marginalizzazione omosessuale, A-
lan Sinfield ha evidenziato tanto i limiti quanto i relativi vantaggi strategici della dupli-
ce ipotesi – genetica o acquisita, volontaria o meno – cui è in larga misura riconducibile
il dibattito sulle cause dell’omosessualità. Cfr. Alan Sinfield, “Subcultural Strategies”,
in The Wilde Century, cit., pp. 176-212. In tal senso, Sinfield accoglie l’invito di Jona-
than Dollimore a ripensare come l’essenzialismo – ad esempio, di André Gide – possa
essersi disposto quale strategia ancor più destabilizzante rispetto al costruzionismo
esemplificato da Oscar Wilde. Cfr. Jonathan Dollimore, “Wilde’s Transgressive Aes-
thetic and Contemporary Cultural Politics”, cit.
48 ESUBERANZA

tarietà che Sontag attiva parlando di deliberate Camp, di camp intenzio-


nalmente prodotto. La rigidità oppositiva fra naïve e deliberate si traduce
infatti in una ripartizione netta, ed evidentemente forzata e strumentale,
fra chi – deliberate(ly) Camp(ing) – padroneggia le modalità del proprio
intervento e la scena interpretativa, e chi invece – paradossale ‘responsa-
bile’ involontario del naïve Camp – è interamente determinato nella pro-
pria configurazione estetica dal fruitore.
L’ipotesi che sottende la proposta di Sontag risulta inaccettabile, og-
gigiorno, all’interno di un quadro epistemico dominato dalla prospettiva
costruzionista, in cui gli elementi di determinazione si distribuiscono
tanto sul soggetto fruitore quanto sull’oggetto di fruizione; si può infatti
semplicemente osservare, come ha fatto Alan Sinfield, che della com-
plessità di matrici che si attivano nel camp (volontario) non sia necessa-
riamente consapevole colui che si fa portatore dei suoi indici, in quanto
“younger users today need not be aware of all this. They are camp be-
1
cause other gay boys are camp”: come dire, costituendosi la soggettività
all’interno di un campo di possibilità date, attivare le nozioni di ‘scelta’ o
di ‘piena consapevolezza’, sia pur implicitamente, significa immediata-
mente esporsi a un ‘fallimento’.
L’opposizione presuppone del resto, nella variante intenzionale, quel-
la soggettività interamente padrona di sé e del proprio ruolo nelle rela-
zioni sociali che è riconducibile alla ‘prima sensibilità’ delineata da Son-
tag, la sensibilità dell’Alta Cultura liberal-umanista, nei confronti della
2
quale veniva articolata la ‘sensibilità’ camp. In chiave testuale, è noto, il
quadro epistemologico liberal-umanista articola una prassi ermeneutica
in cui intenzione autoriale e significato/contenuto sono assolutamente
3
inscindibili, il che segnala l’immediata inefficacia della chiave intenzionale
1
Alan Sinfield, The Wilde Century, cit., p. 156.
2
La questione dell’intenzionalità come cardine della soggettività borghese (liberal-
umanista), e della sua testualità (mimetico-espressiva), può essere assunta come suffi-
cientemente nota per consentire qui un semplice richiamo. Per un approfondimento
della questione posta dalla ‘capacità’ di un testo o del soggetto di padroneggiare la
scena interpretativa, e per una rassegna dei (ri)posizionamenti polemici dello struttu-
ralismo e del post-strutturalismo in merito, mi permetto di rinviare al mio “Verso una
rinascita dell’autore?” Nuova Corrente, XLI, 114, 1994, pp. 295-332.
3
Per un’esposizione esemplare di tale assunto, riformulato con la sofisticatezza po-
lemica della risposta ai teorici della ‘morte dell’autore’, si possono consultare John Rei-
chert, Making Sense of Literature, Chicago: University of Chicago Press, 1977; P. D. Juhl,
Interpretation: An Essay in the Philosophy of Literary Criticism, Princeton: Princeton
University Press, 1980, Geoffrey Strickland, Structuralism or Criticism? Thoughts on How
We Read, Cambridge: Cambridge University Press, 1981. Una lettura non vincolabile ai
TRADIMENTI, 1954-1964 49

all’interno di una sensibilità che troverebbe, secondo Sontag, la propria


ragion d’essere proprio nel disprezzo del contenuto, e delle intenzioni.
La problematicità della questione attivata dall’opposizione fra naïve e
deliberate Camp emerge del resto già nel paragrafo immediatamente suc-
cessivo alla sua presentazione:

The pure examples of Camp are unintentional; they are dead serious.
The Art Nouveau craftsman who makes a lamp with a snake coiled
around it is not kidding, nor is he trying to be charming. He is saying,
in all earnestness: Voilà! the Orient! Genuine Camp – for instance, the
mumbers devised for the Warner Brothers musicals of the early thirties
[…] by Busby Berkeley – does not mean to be funny. Camping – say,
the plays of Noel Coward – does. It seems unlikely that much of the
traditional opera repertoire could be such satisfying Camp if the melo-
dramatic absurdities of most opera plots had not been taken seriously
by their composers. One doesn’t need to know the artist’s private in-
tentions. The work tells all. (Compare a typical 19th century opera with
Samuel Barber’s Vanessa, a piece of manufactured, calculated Camp,
and the difference is clear.)1

Non è necessario rimarcare che non risulti affatto chiaro – dato il costante
riferimento alla intentio auctoris da parte di Sontag nella sua esemplifica-
zione e nella categoria stessa di deliberate Camp – in che misura le inten-
zioni dell’artista siano prescindibili, e come l’opera denunci le ‘proprie’
2
intenzioni nella loro interezza incondizionata. La frattura logica che
scandisce il passaggio finale espone la precarietà dell’affermazione di
Sontag: il repertorio operistico tradizionale non potrebbe risultare così
confini dell’intenzionalismo ‘puro’, ma estremamente attenta nella propria rilettura
polemica dell’anti-intenzionalismo di Roland Barthes, Jacques Derrida e Michel Fou-
cault, è quella offerta da Seán Burke, The Death and Return of the Author: Criticism and
Subjectivity in Barthes, Foucault and Derrida, Edinburgh: Edinburgh University Press,
1992. Ma si veda anche Seán Burke (ed.), Authorship: From Plato to the Postmodern – A
Reader, ibidem, 1995.
1
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 282.
2
Questo problema investe più in generale gli approcci ‘scientifici’ alla testualità che
hanno cercato di prescindere dal ruolo autoriale (inesorabilmente inscritto nel testo,
come hanno avuto modo di sostenere gli intenzionalisti, ovvero riconducibile al pro-
cesso stesso di decodifica e alla mole di precomprensioni testuali che l’orizzonte epi-
stemico configura). Si veda in proposito il mio, già citato, “Verso una rinascita dell’au-
tore?”. Ciò non significa, beninteso, che in questa sede si sposi la tesi intenzionalista,
la quale a sua volta ha ampiamente dimostrato i propri limiti; e si avrà modo di evi-
denziare oltre come l’ipotesi promossa dal camp in quanto oggetto d’indagine sia
quella che riconduce la ‘presenza’ autoriale all’atto di decodifica. Suggerire il problema
significa solo, in questo caso e in questa sede, mostrare la fallimentarietà del saggio di
Sontag nel suo tentativo ordinatore.
50 ESUBERANZA

marcatamente camp “if the melodramatic absurdities of most opera plots


had not been taken seriously by their composers. One doesn’t need to
know the artist’s private intentions”; un’affermazione, quella di Sontag,
che nella propria conclusiva assertività (“Compare a typical 19th century
opera with Samuel Barber’s Vanessa, a piece of manufactured, calculated
Camp, and the difference is clear”) denuncia di per sé l’opacità – più che
la chiarezza – della differenza fra naïve e deliberate Camp qualora si dele-
gittimi il valore discriminante di intenzione e ‘messaggio’ autoriali.
Anche l’opposizione che sembra ‘addomesticare’ in modo decisivo
l’esuberanza fenomenologica risulta essere, come già quella proposta da
Isherwood, inadeguata alla complessità del camp e sostanzialmente pre-
caria. Il naive Camp, inteso come un’attività di decodifica in relazione ad
alcuni fenomeni culturali, è infatti inscindibile dal deliberate Camp inteso
quale performance, governato com’è quest’ultimo dalla consapevolezza
di sé e dalla teatralità dell’agire e dell’essere, che insiste sul carattere arti-
ficioso di ogni interazione sociale. Entrambe le modalità di camp sono
infatti presiedute in varia misura dalle categorie di travestimento e ma-
schera, e dal ruolo che sia la fruizione sia la performance, come la lettura
del brano firbankiano mostrava in apertura, riveste in esse.
Riprendiamo il passaggio in cui Sontag indica il carattere citazionale,
ironico e teatrale, del camp: “Camp sees everything in quotation marks.
It’s not a lamp, but a ‘lamp’; not a woman, but a ‘woman’. To perceive
Camp in objects and personas is to understand Being-as-Playing-a-Role.
It is the farthest extension, in sensibility, of the metaphor of life as thea-
ter.” La nozione di individuo si dissolve per lasciare spazio al dominio
della maschera quale paradossale ‘essenza’ dell’umano, che nel pensare
il mondo come teatro è posto in grado di considerarsi in quanto prodotto
degli sguardi altrui. In quanto oggetto di una decodifica camp, l’uomo (o
la donna, nell’esempio di Sontag) in quanto attore è destinato ad assu-
mere in(de)finiti ruoli, ma è contestualmente sprovvisto di una identità
esistentiva ‘profonda’ che non corrisponda alla sua negazione: all’ideale
sommatoria cioè dei personaggi ai quali si è prestato il volto, in un’ope-
razione di recita che omologa la personalità a una successione di personae
sul palco dell’esistenza. Ma risulta di immediata evidenza che la chiave
di lettura camp si applica, in questo caso, sul camp come oggetto di de-
codifica attraverso una sovrapposizione del camp come gesto performa-
tivo, che estende il proprio statuto teatrale al mondo intero. Volontario o
TRADIMENTI, 1954-1964 51

meno che sia, il camp afferma in ultima analisi il totale predominio della
Cultura sulla Natura (svilita o negata).
La significatività del tardo estetismo come momento di riflessione sul-
lo statuto ‘teatrale’ dell’essere, attraverso la scrittura di Oscar Wilde, Au-
1
brey Beardsley e Max Beerbohm, risulta evidente nel momento in cui
avviciniamo il camp-come-performance (deliberate Camp). Il camp-come-
fruizione (naïve Camp) si configura a sua volta come fenomeno che trova
le proprie radici nella tradizione estetizzante, poiché risolve il mondo in
un fatto estetico e mette in crisi la distinzione fra arte (stile, teatro) e vita:

Camp is […] the love of […] of things-being-what-they-are-not. The


best example is in Art Nouveau, the most typical and fully developed
Camp style. Art Nouveau objects, typically, convert one thing into
something else: the lighting fixtures in the form of flowering plants, the
living room which is really a grotto. A remarkable example: the Paris
Métro entrances designed by Hector Guimard in the late 1890s in the
shape of cast-iron orchid stalks.2

O ancora:
Camp is the triumph of the epicene style. (The convertibility of ‘man’
and ‘woman’, ‘person’ and ‘thing.’) But all style, that is, artifice, is, ul-
timately, epicene. Life is not stylish. Neither is nature.3

Il camp, pur nell’essere proposto come categoria stilistica, è dunque evi-


denziabile in oggetti, persone, situazioni (“Not only is there a Camp vi-
sion, a Camp way of looking at things. Camp is as well a quality discove-
4
rable in objects and the behaviour of persons”), tutti fattori che il camp
stesso ama sovrapporre, traslare e dislocare l’uno sull’altro in un inces-
sante esercizio di rimando. Esso presuppone un’esistenza collettiva, ri-
tuale e performativa, nella quale è lo stesso oggetto a essere messo in
scena, per così dire, personificato (attraverso, ad esempio, la teatralizza-
zione delle sue modalità fallimentari di produzione, o attraverso l’attribu-
zione di intenzioni ‘altre’) e ‘travestito’. Al contempo, la persona risulta a
sua volta, si è visto, un oggetto d’arredo, una maschera, che si traveste di
altre intenzioni, o di un’irriducibile ambiguità d’intenzioni, rispetto a

1
Ancora ottimo su Wilde, Beardsley e Beerbohm in merito a questi aspetti è il volu-
me citato di Giovanna Franci.
2
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 279.
3
Ivi, p. 280.
4
Ivi, p. 277.
52 ESUBERANZA

quanto dichiarato. Ed entrambi, oggetto e soggetto, sono resi ‘situazio-


ne’, scena teatrale, partecipando a un medesimo gioco delle parti in cui è
costante il rimando a un copione improvvisato e privatissimo e a un
pubblico – foss’anche in absentia, ossia ascrivibile al soggetto che si ricono-
sce come soggetto plurale, edificio abitato dai codici culturali, determinato
da essi e dallo ‘sguardo altrui’ – di fronte al quale entrambi si esibiscono.
In definitiva, se il naïve Camp è segnalato da un’artificiosità evidenzia-
ta (o indotta), che necessita di uno sguardo esterno che ne riconosca il
carattere grottesco e che ne dissolva la serietà, il deliberate Camp è pro-
dotto dall’autoconsapevolezza del soggetto che se ne fa portatore, dal-
l’estendere lo sguardo del soggetto teatrale all’altro da sé; ovvero, dal ri-
volgere a se stessi quel medesimo sguardo che si adotta nell’avvicinarsi
all’altro da sé. Chi è coscientemente camp si propone come autocaricatu-
ra, attraverso un atteggiamento parodico del ‘reale’ che non esclude dal
palco la propria stessa persona. Ciò giustifica un dato imprescidibile nel
camp (sia intenzionale sia involontario): che esso, secondo quanto rico-
nosce la stessa Sontag, oscilli instancabilmente “between parody and
1
self-parody”, benché – com’è ovvio alla luce di quanto riportato sulla
‘tenerezza’ del ‘sentimento’ – “[s]uccessful Camp […] even when it re-
2
veals self-parody, reeks of self-love”. L’ambiguità del posizionamento
del soggetto, che traveste la propria irridenza di valenze encomiastiche e
la propria ‘affettuosità’, o amor proprio, di cinismo e di autoderisione, si
esercita insomma nel momento in cui si rintraccia un camp involontario
a partire da un atteggiamento di camp intenzionale che investe il sogget-
to stesso prima ancora che – o di pari passo a – l’altro da sé.
Il camp-come-decodifica non prescinde, in ultima analisi, da un ele-
mento di performance: da parte dell’oggetto, la cui decodifica evidenzia
una sua performance ‘fallimentare’, e da parte del soggetto, la cui deco-
difica è di per sé un gesto di performance, con tanto di pubblico e di nar-
cisismo allusivo e ammiccante. Viceversa, il camp-come-performance
non esclude – bensì presuppone – un elemento di decodifica (del sé e del
mondo, nella direzione del palco teatrale e del fallimento o precarietà
delle intenzioni). Il fallimento dell’opposizione fra naïve e deliberate Camp
non si limita, una volta di più, al fatto che essa – suo malgrado – non op-
ponga sostanzialmente due tipi di camp bensì due aspetti inestricabil-
mente correlati di un fenomeno irriducibili a categorie definibili e a loro
1
Ivi, p. 282.
2
Ivi, p. 283.
TRADIMENTI, 1954-1964 53

volta in grado di definire. L’opposizione fallisce anche nella misura in cui


non rende conto di altre modulazioni che, pur pienamente categorizzabili
come camp, non appartengono a pieno titolo né all’uno né all’altro ‘tipo’.
Qualche esempio, offerto da Sontag o dal corpus di riferimento, eviden-
zierà il problema.
Di per sé il rimando all’intenzione autoriale – negato ma nondimeno
reso imprescindibile dalla distinzione di Sontag – offre, anche se aperta-
mente recuperato al di là della sua contraddittorietà rispetto all’evacua-
zione contenutistica e alla messa in crisi dell’intenzionalità tout court,
tutt’al più una illusione di chiarezza. Si pensi all’esempio di Sontag del-
l’artista liberty, che ‘crea’ un prodotto camp (naïve) nel momento in cui
produce un orientalismo quanto mai stereotipato proponendosi, con se-
riosità ingenua, di rappresentare e di ‘restituire’ l’Oriente (“He is saying,
in all earnestness: Voilà! the Orient!”). Il caso del Liberty è particolar-
mente ambiguo, e non è affatto riducibile a un mero fallimento delle in-
tenzioni, come dimostra chiaramente l’ironia del Liberty grafico e narra-
tivo, sostanzialmente ‘perverso’ e in modo deliberato (o comunque non
involontario), di Aubrey Beardsley, che Sontag non a caso inserisce nel
canone del camp.
L’ambiguità del Liberty lascia le proprie tracce nello stesso “Notes on
‘Camp’”, il quale registra – come si è già avuto modo di riportare – che il
travestitismo liberty, quel travestitismo che ne fa “the most typical and
fully developed Camp style”, sia riconducibile a un programma estetico,
e non a un esercizio di decodifica: “Art Nouveau objects, typically, con-
vert one thing into something else: the lighting fixtures in the form of
flowering plants, the living room which is really a grotto”. Se questo caso
sembra apertamente spostare il Liberty dal naïve Camp al deliberate
Camp, l’esempio del Royal Pavilion di Brighton ripropone il sospetto che
l’eccesso non sia un effetto di programmazione, per il suo orientalismo di
maniera e per quella qualità da ‘sublime grottesco’ tutt’altro che oggetti-
va, che ad esempio Reginald Hill evidenziava nella Basilica di San Marco
in Venezia, affermando che fosse “absurd, impossible, and beautiful be-
yond comprehension, as if Michelangelo, Christopher Wren, Walt Di-
1
sney, and God had sat in committee to build it”. Ed è la stessa Sontag a
riconoscere apertamente la problematicità del Liberty:

1
Reginald Hill, Another Death in Venice, New York: New American Library, 1987, p.
118 (cit. in Robert F. Kiernan, Frivolity Unbound: Six Masters of the Camp Novel, New
York: Continuum, 1990, p. 149).
54 ESUBERANZA

A full analysis of Art Nouveau […] would scarcely equate it with Camp.
But such an analysis cannot ignore what in Art Nouveau allows it to be
experienced as Camp. Art Nouveau is full of ‘content’, even of a political-
moral sort; it was a revolutionary moment in the Arts, spurred on by a
utopian vision (somewhere between William Morris and the Bauhaus
group) of an organic politics and taste. Yet there is also a feature of the
Art Nouveau objects which suggests a disengaged, unserious, ‘aes-
thete’s’ vision. This tells us something important about Art Nouveau –
and about what the lens of Camp, which blocks out content, is.1
Indicare l’elemento chiarificatore nell’intenzione autoriale sembra in-
somma tradursi in un semplice rinvio del problema; e il fatto che una
“full analysis of Art Nouveau […] would scarcely equate it with Camp”
finisce con il qualificare l’identificazione del camp in chiave, s’è detto,
dilettantistica, da gioco di società. Una giustificazione che a sua volta
non costituisce ragione sufficente per la richiesta, avanzata da Sontag, di
rilevanza del camp come fenomeno imprescindibile nel panorama cultu-
rale degli anni Sessanta, e più in genere della cultura del Novecento, li-
mitandosi a indicarla come accettabile nella sua sostanziale marginalità o
irrilevanza: “such an analysis cannot ignore what in Art Nouveau allows
it to be experienced as Camp”; senza dichiarare a cosa, concretamente,
corrisponda questo je-ne-sais-quoi, e come il Liberty si disponga rispetto
al suo elemento ‘secondario’ attivato attraverso “the lens of Camp”.
Un altro esempio, ora, attinto dalla galleria delle dive hollywoodiane
che costituiscono una navata per molti versi centrale nell’architettura del
camp novecentesco. In Sunset Boulevard, il film vincitore di due premi
Oscar (sceneggiatura e colonna sonora), diretto da Billy Wilder per la Pa-
ramount Pictures e distribuito nelle sale cinematografiche statunitensi
nel 1950, una straordinaria Gloria Swanson indossa le vesti di Norma
Desmond, ormai dimenticata diva del cinema muto la quale, isolata
1
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 281. Si è qui parlato di Liberty in quanto
etichetta italiana corrispondente all’internazionale Art Nouveau. Ma questa scelta de-
nuncia anche un ulteriore problematicità dell’esempio di Sontag: uno sguardo più at-
tento alle specificità delle sue diverse articolazioni nazionali e storiche (Art Nouveau,
Liberty, Jugendstil, Stile Floreale, Modern Style), oltre che della singola prassi artistica
(quanto vale per Beardsley non vale ovviamente per Henry Van de Velde, né l’opera di
Antoni Gaudì è assimilabile senza mediazioni radicali a quella di Charles Rennie Ma-
ckintosh), rende la categorizzabilità in quanto oggetto camp ancor più instabile e di-
scutibile, rimandando a un’unitarietà, in termini di implicazioni estetiche, politiche e
morali, dello stile immediatamente delegittimata dallo sguardo alle specifiche articola-
zioni. Sulla diversità dello stile nelle singole istanze europee, con attenzione anche ai
singoli artisti e ai singoli media utilizzati, si può consultare Jeremy Howard, Art Nouveau:
International and National Styles in Europe, Manchester: Manchester University Press, 1996.
TRADIMENTI, 1954-1964 55

nell’abitazione altrettanto in sfacelo che ne duplica l’io e che è al tempo


stesso un monumento alla divinità nell’oblio, in preda alla psicopatologia
del declino, e coadiuvata dal devoto maggiordomo Max, irretisce in una
trama di dipendenza economica e quindi passionale Joe Gillis (interpre-
tato da William Holden), uno scrittore fallimentare di soggetti cinemato-
grafici, affinché presieda alla stesura da parte di Norma di una sceneg-
giatura in cui la diva tornerà a calcare la scena cinematografica nelle vesti
di Salomé. Il film si costruisce attraverso la narrazione retrospettiva di
Gillis che la conclusione vedrà ucciso da Norma, la quale ottiene così la
sua restituzione al set e al limelight nella famosa scena della discesa dalla
scalinata di fronte alle telecamere dei giornalisti accorsi per documentare
l’episodio, di cui si fa ‘regista’ il maggiordomo dopo essersi rivelato co-
me, effettivamente, l’ex-marito di Norma e il regista dei film che l’ave-
1
vano consacrata a diva. Il finale stabilisce in modo inequivoco lo statuto
fittizio del film, narrato da quel corpo privo di vita la ripresa del quale
aveva aperto il film stesso, producendo di pari passo allo ‘svelamento’
del giallo una ‘opacizzazione’ del film stesso.
La messa in crisi dei confini fra reale e fittizio che presiede alla sce-
neggiatura si declina peraltro su una molteplicità di piani: Gloria Swan-
son era in prima persona, nel 1950, una diva sul viale del tramonto; il
maggiordomo-regista è interpretato da Erich von Stroheim, il quale –
oltre a essere stato il marito della Swanson – aveva effettivamente diretto
la diva in Queen Kelly, il classico del 1929 che del resto viene proiettato
nel ‘museo’ privato di Norma, quella villa in sfacelo dedicata al culto di
un sé inesorabilemente relegato alla dimensione del passato; fra i ‘reperti’
che popolano la villa museale appaiono alcune figure spettrali, una delle
quali è riconoscibile come Buster Keaton; e il regista cui si rivolge Norma
per proporre la sceneggiatura della Salomé è interpretato da Cecil B. De-
Mille, il quale aveva diretto la Swanson durante gli anni che l’avevano
2
vista protagonista del set hollywoodiano.
Il confronto fra Norma Desmond e la scena hollywoodiana nell’epoca

1
Il finale pone Sunset Boulevard in aperta consonanza con Whatever Happened to Baby
Jane? di Robert Aldrich (1962), altro film di chiara matrice camp, in cui il personaggio
impersonato da Bette Davis è restituito alla divinità dello stardom perduto nella famosa
scena conclusiva sulla spiaggia, in coincidenza con il suo completo sfacelo giudiziario e
mentale (e la sua ‘riabilitazione’ agli occhi dello spettatore).
2
DeMille è del resto indicato da Sontag – accanto a Loie Fuller, Gaudí, Crivelli e De
Gaulle – come esemplare della “Camp […] glorification of ‘character’”. Susan Sontag,
“Notes on ‘Camp’”, cit., p. 285.
56 ESUBERANZA

del sonoro in definitiva teatralizza in via di mise en abyme l’ansia di decli-


no della grande industria cinematografica nordamericana, a fronte della
crescente popolarità del mezzo televisivo, e della riarticolazione delle
1
proprie stesse modalità di produzione filmica. Nelle maglie di questa
riflessione metaculturale, di fianco all’incongruità del rapporto fra i due
protagonisti (per l’inversione sull’asse dell’età e del ruolo prescritto dal
genere sessuale: è l’anziana diva a mantenere e a costringere il giovane
scrittore alla sostanziale schiavitù della dipendenza economica) e alla
generale atmosfera di decadenza – sia nel disfacimento psichico di Nor-
ma, della casa e del mondo che ciò rappresenta metaforicamente, sia nei
2
riferimenti al paradigma della decadenza fin de siècle – si colloca lo speci-
fico sapore camp del film. Ma ciò che ci interessa è lo specifico problema
posto da Norma Desmond, vale a dire dall’elemento che può spingere a
categorizzarla come naïve o come deliberate Camp.

1
È Andrew Ross a sottolineare la qualità elegiaca del film per l’epoca del muto, e le
valenze autoreferenziali che questo tributo comporta, riportando lo scambio fra i pro-
tagonisti in apertura: “Joe Gills […], the young, down-on-his-luck scriptwriter and
heel, recognizes the mark of movie history beneath the faded glamour of Norma De-
smond […]: ‘You used to be in silent pictures. You used to be big.” Desmond shoots
back: “I am big. It’s the pictures that got small.’” Andrew Ross, “Uses of Camp”, in No
Respect: Intellectuals and Popular Culture, London: Routledge, 1989, p. 138. Un’analoga
operazione metanarrativa in relazione al sistema di produzione dell’industria cinema-
tografica nordamericana è adottata in The Player, diretto da Robert Altman nel 1992.
2
Che Norma Desmond ambisca a interpretare Salomé è in questo senso significati-
vo, e non solo per il ruolo di seduttrice che questa figura rappresenta esemplarmente:
nel corso del Novecento britannico, la rappresentazione di Salomé, in quanto epitome
della decadenza, è inscindibile dalla sorte di Oscar Wilde che nel 1893 ne aveva pro-
dotto la mise en scène teatrale la cui clandestinità per alcuni decenni (si dovrà attendere
il 1931 per avere la prima rappresentazione autorizzata dalle autorità sulla morale
pubblica) duplica specularmente quella di Wilde, il cui recupero alla rappresentabilità –
attraverso versioni filmiche e rappresentazioni del suo corpus teatrale – avverrà solo a
partire dal secondo dopoguerra, quando del resto viene prodotto Sunset Boulevard (si
confronti in merito la Terza Parte di questo lavoro). Il riferimento a Salomé è reso an-
cor più marcato dalla colonna sonora di Franz Waxman, che è interamente costruita a
partire dall’opera di Richard Strauss basata sul testo wildiano. Non è poi irrilevante
sottolineare come l’elegia del cinema muto intrinseca all’esistenza cinematografica di
Norma Desmond si carichi di una valenza di elogio camp per lo statuto specificamente
artificioso del prodotto filmico, minimizzato dalla pletora di ‘indici di realtà’ offerti dal
cinema parlato al suo esordio negli anni Trenta. Nelle parole di Edgar Morin, “il cine-
ma parlato rompe l’equilibrio tra reale e irreale che si era stabilito nel cinema muto. La
verità concreta dei rumori, la precisione e le sfumature delle parole, benché in parte
controbilanciate […] dalla magia delle voci, delle canzoni e della musica, determinano
un clima ‘realistico’. Proprio qui ha origine la disapprovazione dei cineasti per la nuova
invenzione che, a loro avviso, sottrae incanto al film”. Edgar Morin, Le Star (1957), Mi-
lano: Olivares, 1995, pp. 38-39.
TRADIMENTI, 1954-1964 57

Applicando le categorie proposte da Sontag, Norma Desmond sembra


riconducibile solo al naïve Camp, in quanto la produzione di un effetto
camp da parte sua va di pari passo al fallimento delle sue intenzioni:
grande diva del passato, vive all’insegna di uno statuto estinto del pro-
prio sé che si traduce in grottesco. Per recuperare i riflettori e le prime
pagine dei giornali, può solo ricorrere all’assassinio, al caso giudiziario e
clinico. Al contempo, è il suo stesso essere – la grande diva – a costituirla
come soggetto e oggetto di una fruizione camp. Norma Desmond è
camp perché vive, anche nella solitudine negletta della propria abitazio-
ne, sotto i riflettori della psiche (disturbata). In tal senso, la sua teatralità
è esibita e in ultima analisi ‘intenzionale’, di un’intenzionalità assoluta-
mente ambigua, come lo è peraltro ogni intenzionalità: è lei stessa a co-
struirsi nella quotidianità come la attrice, o forse a essere costruita a pro-
pria volta dal sistema di produzione economica dello star-system, che nel-
la fase del cinema muto ne aveva strutturato il senso d’identità. Che Nor-
ma non sia più una diva agevola, tutt’al più, un’assunzione di coscienza
di questo statuto: il declino strania, denuncia l’artificio insito nella natu-
ralezza e nel senso ‘profondo’ di identità della stella cinematografica. La
consapevolezza teatralizzata dalla performance e dalla fruizione camp è
solo promossa da questa esibizione di artificio, ma non costituita da essa.
Il caso risulta differente qualora non si pensi a Norma Desmond bensì
a Gloria Swanson, che nel vestire i panni della diva indossa di fatto i
propri, dando luogo a una sottile autoparodia e alla definitiva sovrappo-
sizione fra persona e personaggio che si è riconosciuta come elemento
del camp. O qualora si pensi all’intero Sunset Boulevard, che dispone
numerosi dispositivi di autoconsapevolezza in tal senso. La questione
non si pone però in chiave di intenzionalità, bensì – al limite – in termini
di autoconsapevolezza: Gloria Swanson, e la Paramount Pictures, non
decidono, ovviamente, il proprio declino, ma neppure in ultima analisi le
modalità di confronto con esso: semmai, lo registrano, mettendo in sce-
na un atteggiamento al tempo stesso autoironico e autocompiaciuto che
è l’esito del sistema di produzione (economica e della soggettività) che li
aveva prodotti, entrambi, come star-system e come diva. Si tratta insom-
ma di un’autoconsapevolezza che esclude la piena padronanza delle
proprie intenzioni e dell’altro da sé, per rivolgersi invece al proprio statu-
to di costrutto culturale, come attore sulla scena del reale, e come pro-
dotto all’interno di – e da – un’economia culturale.
Norma Desmond crede, e Gloria Swanson finge, di essere ciò-che-non-
58 ESUBERANZA

sono-più (“Camp is the love of the exaggerated, the ‘off, of things-


being-what-they-are-not”, dice Sontag), vale a dire ancora ‘una’ grande
diva; nel corso del film, nel corso dell’esibizione di un essere ciò-che-
non-sono-più, Desmond e Swanson divengono ciò-che-non-sono, quale
gesto estremo di travestimento che omologa a sé la ‘realtà’ dietro la ma-
schera. Il paradosso del film risiede nel fatto che sia la Swanson sia Norma
Desmond, nel mettere in scena con abilità straordinaria il proprio falli-
mento, si ri-creano come stelle (nel film, e al di fuori di esso), all’insegna
della propria matrice camp; e nel fatto che l’opposizione ‘crede’ vs. ‘finge’
risulta fondamentalmente minata (quanto può un personaggio ‘credere’
se non attraverso la finzione narrativa, e quanto a sua volta può ‘fingere’
un’attrice all’interno di un prodotto che abolisce il principio di realtà al
quale sia possibile contrapporre la finzione?). Da dive del set in quanto
imprescindibili elementi nell’economia del contratto attore-industria-film-
spettatore, entrambe ridivengono dive, ma all’interno di un nuovo con-
tratto, che prevede il degrado (o la fallimentarietà) come criterio valutati-
vo. Entrambe sono riconsacrate ‘grandi attrici’ perché interpretano il
proprio declino in quanto attrici. L’esempio di Sunset Boulevard mostra
insomma come gli elementi di intenzionalità, di (auto)consapevolezza e
di involontarietà siano nella produzione del camp talmente inestricabili,
su più piani e contraddittori, che una distinzione fondata sul rimando a
esse risulta sostanzialmente inoperativa.
Quanto evidenziato in Sunset Boulevard investe più in genere lo stuolo
di divi e divine che, s’è detto, costituisce una presenza diffusa e ricorren-
te nella tradizione del camp. Se Norma Desmond resiste alla propria ca-
tegorizzazione in quanto naïve o deliberate Camp, altrettano avviene per
quanto riguarda, fra i molti, Greta Garbo, Marlene Dietrich, Valentino,
Victor Mature, James Dean, Jayne Mansfield, Maria Montez, Joan Cra-
wford, Bette Davis, Barbara Stanwick, Judy Garland, Joan Collins, Mar-
ylin Monroe, Tallulah Bankhead, Alla Nazimova o Mae West, in una sor-
ta di galleria dei modelli femminili offerti dallo star-system novecentesco
che trova nella cantante e attrice Madonna la sua più contemporanea
1
manifestazione.
La galleria in questione si offre attraverso un massimo di ambiguità:
non è dato discernere infatti con sicurezza quanto le singole figure faces-
sero ricorso consapevole alle strategia di fascinazione del camp (che passa
1
La scelta dei nomi è puramente esemplificativa: la lista dei nomi che si potrebbero
inserire è ingestibile, e si configura in accordo alla proliferazione della referenza camp.
TRADIMENTI, 1954-1964 59

dal grottesco all’androgino, dall’enfatizzazione dei tratti stereotipici della


mascolinità e della femminilità al distacco aristocratico e alla posa divisti-
ca, esposta come tale), se si trovassero ad articolare loro malgrado tale
strategia (come ipotizza Sontag allorché, per sottolineare che “[p]ersons
can even be induced to camp without their knowing it”, sottolinea “the
1
way Fellini got Anita Ekberg to parody herself in La Dolce Vita”), o se
invece si trovassero a essere solo l’involontario esito di una decodifica
camp. Il che, peraltro, si apre ulteriormente a una duplice possibilità: è
legittimo infatti chiedersi se si tratti, in quest’ultimo caso, di una decodi-
fica che evidenzia il grottesco e l’artificioso (come invita a pensare l’in-
clusione, ad esempio, di un Victor Mature), oppure se sia riconducibile
alla sorta di omaggio – sia pure ilare ed en travesti – di cui dava testimo-
nianza Isherwood descrivendo “a swishy little boy with peroxided hair,
dressed in a picture hat and a feather boa, pretending to be Marlene Die-
trich”. La ricerca prodottasi nel corso degli ultimi trent’anni insegna che
le quattro ipotesi sopra presentate rifiutano di stabilizzarsi in un quadro
definit(iv)o, offrendo elementi sempre più complessi alla lettura della
matrice d’intervento delle figure in esame, una lettura semplicistica delle
quali le può consegnare come semplice (o ‘puro’, direbbe Sontag) naïve
Camp (si pensi anche solo, fra le figure che hanno ricevuto recentemente
2
particolare attenzione, a Mae West e a Madonna).
Se quella fra High e Low Camp era una distinzione che non opponeva,
1
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 283. L’esempio di Sontag reinveste
l’intenzionalità sul regista; perlopiù, tuttavia, di questa costituzione involontariamente
autoparodica può essersi offerto come ‘causa’ l’orizzonte culturale in cui il sistema di
produzione della soggettività, oltre che del dato ‘artistico’, si inseriva.
2
In questa direzione documentaria va parte del lavoro più interessante sul camp. Su
Mae West si possono consultare Marybeth Hamilton, The Queen of Camp: Mae West,
Sex and Popular Culture, London: HarperCollins, 1996, in particolare le pp. 216-231; e
Andrea J. Ivanov, “Mae West Was Not a Man: Sexual Parody and Genre in the Plays
and Films of Mae West”, in Gail Finney (ed.), Look Who’s Laughing: Gender and Com-
edy, Langhorne: Gordon and Breach, 1994, pp. 275-297. Incentrato sul ricorso consa-
pevole alle strategie del camp di Mae West, e quindi di Madonna, come paradigmatico
del dissenso al femminile nei confronti della costruzione culturale della ‘femminilità’ è
invece Pamela Robertson, Guilty Pleasures: Feminist Camp from Mae West to Madonna,
Durham: Duke University Press, 1996. Altri studi interessanti sono Sonya Andermahr,
“A Queer Love Affair? Madonna and Lesbian and Gay Culture”, in Diane Hamer and
Belinda Budge (eds.), The Good, The Bad and the Gorgeous: Popular Culture’s Romance
with Lesbianism, London: Pandora, 1994, pp. 28-40; Douglas Kellner, “Madonna, Fash-
ion, and Identity”, in Shari Benstok and Suzanne Ferriss (eds.), On Fashion, New
Brunswick: Rutgers University Press, 1994, pp. 159-182; e Andrew Ross, “This Bridge
Called My Pussy”, in Lisa Frank and Paul Smith (eds.), Madonnarama: Essays on Sex
and Popular Culture, Pittsburgh: Cleis, 1993, pp. 47-64.
60 ESUBERANZA

quella suggerita da Sontag si offre come opposizione che non distingue,


o meglio che distingue solo attraverso una lente di ingrandimento a tota-
le scapito del riconoscimento del rapporto intrattenuto fra i diversi ele-
menti di una sistematica osmosi. E la mancanza di distinzione non è ad-
debitabile solo al fatto che i due poli rifiutano la discriminazione inscritta
nel loro essere tali: essa si rintraccia anche all’interno dei due poli. Nel
corpus del deliberate Camp vanno inseriti Oscar Wilde, Noël Coward, Lu-
chino Visconti, ma anche il cinema della scena underground statunitense
che va dagli anni Quaranta agli anni Sessanta (con figure quali Jack Smith,
Kenneth Anger, Gregory Markopoulos e i fratelli Kuchar), e persino un
John Waters, regista di uno stuolo di film – da Mondo Trasho (1969) a
Multiple Maniacs (1970), da Pink Flamingos (1972) a Female Trouble (1974),
da Desperate Living (1977) a Polyester (1981), da Hairspray (1988) a Serial
Mom (1994) – univocamente costruiti all’insegna del ripugnante e del ri-
1
fiuto estetico. Nel naïve Camp, viceversa, trovano spazio Norma Desmond,
Anita Ekberg e gli “stag movies seen without lust”, il Liberty e il Kitsch
2
più ‘adorabilmente’ sfatto.
Privo di collocazione all’interno delle due categorie, ciò di cui Sontag
indica come antecedenti della sensibilità – di cui peraltro parteciperebbe-
ro pienamente. Questo è il caso dei preraffaelliti, di Pontormo, Rosso,
Caravaggio, Georges de la Tour, dello Euphuism di Lyly, di Pope, Con-
greve, Walpole, dei précieux francesi, di Pergolesi, Mozart, dell’estetismo
3
di Burne-Jones, Pater, Ruskin e Tennyson. Anche in questo caso, l’eco di
Isherwood risuona distintamente, ma – mentre la distinzione offerta dal-
lo scrittore conservava apertamente la dimensione ludica del camp, giu-
stificando in tal chiave l’inclusione di Freud, Mozart e Dostoevskij – la
contraddittorietà di questa inclusione rispetto al tentativo di articolazione
nel quadro dell’intelligibilità risulta palese. Altrove nel saggio, come si è

1
Basti pensare alla suprema ambizione di Divine, l’obeso travestito protagonista del-
la gran parte dei film di Waters, in Pink Flamingos: quella di essere l’indiscutibile regina
del ripugnante, “the filthiest person alive”. A tal scopo si riscrive la tradizionale vicen-
da di rivalità fra famiglie della provincia in una lotta senza esclusioni di colpi, e
l’affermazione di Divine quale queen of filth coincide con la coprofagia esibita nel finale.
2
In effetti è lo stesso rimando, insito nella categoria di naïve Camp, alla dimensione
psicologica del soggetto percipiente – alla sua ‘sensibilità’, che guarda il mondo attra-
verso “the lens of Camp” – quale costitutiva in larga misura della qualità camp di un
oggetto, ad accomunare Sontag a Isherwood nella propria fallimentarietà definitoria.
Pur negando che la responsabilità della decodifica sia solo del fruitore, Sontag non sa
indicare quale sia la qualità ‘intrinseca’ al camp, quanto lo definisca e lo determini.
3
Cfr. Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., pp. 279- 281.
TRADIMENTI, 1954-1964 61

già riportato, quella camp è indicata come sensibilità tipicamente con-


temporanea, “unmistakably modern”, per incontrare i primi “conscious
ideologists” della quale bisogna attendere Oscar Wilde e Ronald Firbank
e la loro risposta al problema “how to be a dandy in the age of mass cul-
ture”. O ancora, all’appunto 43 Sontag afferma: “The traditional means
for going beyond straight seriousness – irony, satire – seem feeble today,
inadequate to the culturally oversaturated medium in which contempo-
rary sensibility is schooled. Camp introduces a new standard: artifice as
1
an ideal, theatricality”.
La commedia della Restaurazione, i précieux francesi, il manierismo e
quant’altro appartiene al corpus del camp non sembrano trovare giustifi-
cazione all’interno di una macrocategoria che si caratterizza attraverso il
superamento dei “traditional means for going beyond straight seriou-
sness” attraverso il nuovo standard funzionale al “culturally oversatura-
ted medium in which contemporary sensibility is schooled”. Non la tro-
vano neppure qualora li si riferisca alla sottocategoria del naïve Camp, a
meno che quest’ultima risulti inclusiva in modo completamente acritico,
producendo – nell’includere ogni referente – una sostanziale irrilevanza
della categoria stessa. La proliferazione della referenza, l’esuberanza del
camp, insomma, è semplicemente suddivisa da Sontag in due blocchi,
peraltro instabili fra di loro e al loro interno, ma non per questo legitti-
mamente amministrata (poiché non legittimamente amministrabile).
Qui, in conclusione, risiede lo specifico ‘tradimento’ di Sontag: più
ancora che nel rendere vulgata il camp, nel costruire griglie di inclusione
ed esclusione arbitrarie, nel suo ricorrere (come suggerisce Gregory Bre-
dbeck) al ‘metodo aristotelico’ di suddivisione e scomposizione a fronte
di un fenomeno che assume a propria logica l’autocontraddizione siste-
matica, simultanea e consapevole (“it’s good because it’s awful”). Il pro-
blema è stato affrontato direttamente da Cynthia Morrill, riprendendo
l’intuizione di Bredbeck in termini sui quali è opportuno soffermarsi, e su
cui si avrà modo di tornare:
It is through Sontag’s demand for a stabilized definition of Camp that
its destabilizing function can be seen. […] In trying to divide and con-
quer Camp, Sontag describes Camp’s disinterest in difference; Camp
resists establishing the critical distance necessary for separating state-
ments, objects, and behaviors. But her Aristotelian methodology seeks
to produce such critical difference through its creation of a classificatory
1
Ivi, p. 288.
62 ESUBERANZA

scheme wherein something becomes present because it is not some-


thing else, and conversely, something which cannot be differentiated
cannot ‘be’. This is not to say that Camp envisions all objects as homo-
geneous, that all things are the same; rather, Sontag’s essay correctly
(if unknowingly) reveals the ‘trouble’ with Camp as a destabilization of
the relation between things.1

Nel criticare la strategia stabilizzatrice di Sontag, la stessa Morrill implici-


tamente (e anch’ella forse unknowingly) recupera in sostanza il suggeri-
mento di Sontag nella direzione di un camp come attività all’insegna
dell’in-differenza, del “disinterest in difference”, e del posizionamento
acritico (“Camp resists establishing the critical distance necessary for se-
parating statements, objects, and behaviors”). Il ‘vizio’ di Sontag corri-
sponderebbe cioè al tentativo di imporre un’atteggiamento critico (Son-
tag “seeks to produce such critical difference”) su un fenomeno che, nelle
parole già citate di Sontag, suggerisce la “equivalence of all objects”.
L’ipotesi dell’in-differenza camp postulata da “Notes on ‘Camp’” è spin-
ta a ritorcersi sul suo atteggiamento di gestione, sulla differenza imposta
da Sontag; e il tentativo di superare “Notes on ‘Camp’” sembra debba
passare attraverso il riorientamento polemico, destabilizzante, delle sue
stesse indicazioni. Morrill sostiene correttamente che la strategia di Son-
tag, volta a “resolve the discursive contradictions of Camp”, abbia “bur-
2
dened subsequent critical discussion”; ma ciò si applica – ben più di
quanto si dimostri consapevole Morrill e l’intero volume che ospita il suo
saggio – anche agli interventi degli ultimi anni, ivi compresi gli interventi
3
che compongono il volume stesso.
L’ipotesi che presiede a questo lavoro, a ogni modo, è che l’indiffe-
renza camp sia di un genere particolarissimo, un genere che potenzial-
mente promuove sia una messa in crisi della differenza sia la sua radica-
lizzazione. La messa in crisi potrà risolversi nell’indifferenza oppure in
una differenza radicale, secondo logiche che non sono inscrivibili nel
camp-come-oggetto né nel camp-come-oggetto-critico. Ma ciò risulterà
essere, almeno in parte, l’esito dei ‘tradimenti’ e del peso che “Notes on
‘Camp’” ha avuto sul dibattito critico. È per articolare e accreditare que-
sta ipotesi che le prossime pagine saranno dedicate agli interventi – ai
‘tradimenti’ – della fase critica successiva.
1
Cynthia Morrill, op. cit., p. 115.
2
Ibidem.
3
Il volume in questione è il citato The Politics and Poetics of Camp, a cura di Moe Me-
yer, apparso nel 1994, di cui si dirà estesamente nel capitolo 7.
3

Tradimenti, 1964-1984
Le origini e altre questioni

Le considerazioni offerte da Susan Sontag erano destinate a segnare lo


statuto del camp negli anni a seguire. A tutt’oggi il camp viene inteso
1
come “either a style of performance or a mode of perception”, formula-
zione in cui l’eco della distinzione fra naïve e deliberate Camp è evidente.
Al tempo stesso, al confronto con i problemi posti da “Notes on ‘Camp’”
è riconducibile l’intera impresa critica sulla questione.
La riflessione successiva al saggio di Sontag si è infatti distribuita su
tre versanti. In primo luogo, nel quadro delle riviste di grande respiro
commerciale che hanno gestito il camp come moda culturale. Nel volge-
re di pochi mesi periodici come New Statesman, Time, Life, lo Observer, il
New York Herald Tribune, Art News e il New York Times dedicarono al camp
ampi articoli, quando non la prima pagina (è il caso del supplemento il-
2
lustrato allo Observer), facendone il proprio oggetto, o un imprescindibile
1
David Bergman, “Camp”, in Claude J. Summers (ed.), The Gay and Lesbian Literary
Heritage: A Reader’s Companion to the Writers and Their Works, From Antiquity to the
Present, New York: Henry Holt, 1995, p. 131.
2
Cfr. Anon., “Taste: ‘Camp’”, Time, 11 December 1964, p. 55; Jan Harold Brunvand,
“Camp and After”, New Statesman, 4 December 1964, pp. 894-895; Tom Wolfe, “The
Girl of the Year”, New York Herald Tribune (Sunday supplement), 6 December 1964;
George Frazier, “Call It Camp”, Holiday, November 1965, pp. 12, 16-19, 21-23; Tho-
mas Hess, “J’accuse Marcel Duchamp”, Art News, LXIII, 10, 1965, pp. 44-45, 52-54;
Thomas Meehan, “Not Good Taste, Not Bad Taste: It’s ‘Camp’”, New York Times
Magazine, 21 March 1965, pp. 30-31; Lil Picard, “Camp oder die nimmermüde Phanta-
sie”, Die Welt, 9 December 1965; Id., “From ABC to Camp Art: New York Report”, Das
Kunstwerk, XIX, 5-6, 1965; pp. 58-59; Goodman Ace, “The Second Caesarian”, Satur-
day Review, 12 February 1966, p. 8; Val Adams, “Discoteque Frug Party Heralds Bat-
man’s Film and TV Premiere”, New York Times, 13 January 1966, p. 79; Shana Alexan-
der, “Don’t Change a Hair for Me, Batman”, Life, 4 February 1966, p. 21; Anon., “Holy
Flypaper”, Time, 28 January 1966, p. 61; Ronald Bryden, “Spies Who Came into
Camp”, Observer Colour Supplement, 7 August 1966, pp. 5-8; Paul E. Cuneo, “Of Many
Things”, America, 7 May 1966, pp. 635; Jack Gould, “Too Good to Be Camp”, New
64 ESUBERANZA

elemento in relazione a fenomeni culturali apparentemente tanto in-


compatibili quanto una mostra di Marcel Duchamp e la serie televisiva
mandata in onda nel 1966 dal network statunitense ABC, parallelamente
1
alla distribuzione del film, tratta dai fumetti di Batman. Si tratta di una
riflessione all’insegna dell’alta notiziabilità del fenomeno (“Nowadays,
no literary review or posh Sunday supplement can manage for long wi-
thout […] this indispensable and compendious monosyllable”, riportò il
2
New Statesman), che mette in gioco un tradimento di primo grado sul
piano denunciato da Sontag nel momento in cui consegnava la nozione
alla pagina a stampa (“to talk about Camp is […] to betray it”).
In seconda battuta, il camp trova circolazione negli spazi legittimati
dall’istituzione della critica attraverso l’applicazione meccanica delle ca-
tegorie suggerite da Sontag, con una strategia che in larga misura – uni-
tamente alla circolazione massmediale di cui sopra – ha determinato la
sostanziale prescindibilità del camp in quanto issue oltre che come stru-
mento d’analisi, e che ne ha ostacolato una piena presa di coscienza del-
la sua complessità e rilevanza. Fra gli anni Settanta e Ottanta il camp si è
consegnato quale griglia di lettura, ad esempio, di Cervantes, Petronio,
Tennessee Williams, Philip Johnson, Jacques Offenbach, Gore Vidal,
Arch Connelly, Noel Coward, Lytton Strachey, Ronald Firbank, Thomas
3
Love Peacock, E. F. Benson, P. G. Wodehouse e Ivy Compton-Burnett:

York Times, 23 January 1966, Section 1, p. 17; Eda J. LeShan, “At War With Batman”,
New York Times Magazine, 15 May 1966, p. 112; Tom Prideux, “The Whole Country
Goes Superman”, Life, 11 March 1966, p. 23; Sylvie Reice, “The Swinging Set”, Detroit
News, 13 February 1966, p. 5; John Skow, “Has TV – Gasp! – Gone Batty?”, Saturday
Evening Post, 7 May 1966, p. 12; Judy Stone, “Caped Crusader of Camp”, New York
Times, 4 January 1966, p. 15; Robert E. Terwilliger, “The Theology of Batman”, Catholic
World, November 1966, p. 127; e Howard Thompson, “TV Heroes Stay Long”, New
York Times, 25 August 1966, p. 42.
1
La serie televisiva, prodotta da William Dozier, e con Adam West nei panni del su-
pereroe incappucciato e Burt Ward in quelli del fedele compagno Robin, fu presentata
nel gennaio 1966, unitamente al film – Batman, The Movie, interpretato dagli stessi
West e Ward, con Lee Meriwether (“Donna Gatto”), Cesar Romero (“Joker”), Burgess
Meredith (“il Pinguino”) e Frank Gorshin (“l’Enigmista”) – diretto da Leslie H. Mar-
tinson per la Twentieth Century Fox, e prodotto sempre da William Dozier. A essa
fanno riferimento gli articoli, citati nella nota precedente, di Ace, Adams, Alexander,
Cuneo, LeShan, Prideux, Skow, Stone, Terwilliger, Thompson e l’anonimo del Time
del 28 gennaio 1966. La mostra di Duchamp è presentata nell’articolo di Thomas
Hess, di cui sempre alla nota precedente.
2
Denis Shaw, “Camp”, New Statesman, 2 June 1967, p. 759.
3
Gli esempi non esauriscono la mole di interventi in questa direzione. A ogni modo,
si fa specifico riferimento a Charles Jencks, “‘The Candid King Midas of New York
Camp’: A Neo-Hysterical Account of the Life and Work of Philip Johnson”, AAQ, V, 5,
LE ORIGINI E ALTRE QUESTIONI 65

operazioni, queste, che spesso non aggiungevano salienza all’oggetto di


lettura, limitandosi a una semplice rinominazione del già noto. Formulata
quale dimensione estetica – che della ‘estetica’ non aveva però il caratte-
re programmatico, sistematico e organico (sia pure nella disarticolazione
giustificata da un’estetica del disorganico e della sistematica contraddit-
1
torietà) – la nozione di camp risultava applicabile all’architettura, alle
arti figurative, al cinema, alla letturatura, alla danza, al teatro e alla musica
(classica o popolare, indifferentemente), senza peraltro produrre esiti di
una qualche proficuità critica. Alle intuizioni di Sontag si rispondeva con
l’inclusione di ulteriori ‘oggetti camp’, senza investirli in un progetto che
non fosse l’edificazione di una sorta di ‘enciclopedia’ del camp, quale si
configura quel Camp: The Lie That Tells the Truth di Philip Core, apparso
nel 1984 e anticipato di pochi mesi da Camp di Mark Booth nella veste di
2
primo volume angloamericano interamente dedicato all’argomento.
Il lavoro di Core in particolare, del resto, si propone già nella veste edi-
toriale quale operazione che tende al gift-book (carta patinata, raffinatez-
za nella grafica e nelle illustrazioni, assenza di apparato bibliografico e di
note, ecc.), come operazione cioè che riformula un contributo critico in
accordo alla logica del mercato extra-accademico. Sia gli articoli sia i vo-
lumi giustificano in ultima analisi la sostanziale indifferenza delle istitu-
zioni della critica rispetto al camp, dimensione estetica inesorabilmente
limitata nella propria rilevanza dal proprio statuto afferente alla cultura
1973, pp. 27-42; Id., Modern Movements in Architecture, Harmondsworth: Penguin,
1973; Hilton Kramer, “New Art of the 70’s in Chicago: Visual Bluster and Camp Sen-
sibility”, New York Times, 14 July 1974, Section 2, p. 19; Michael Wood, “You Can’t Go
Home Again” (1974), in Paul Barker (ed.), Arts in Society: A “New Society” Collection,
London: Fontana, 1977, pp. 21-30; C. Ray Smith, Supermannerism: New Attitudes in
Post-Modern Architecture, New York: Dutton, 1977; Alexander Faris, Jacques Offenbach,
London: Faber, 1980; Robert F. Kiernan, Gore Vidal, New York: Frederick Ungar, 1982;
Michael Kohn, “Arch Connelly”, Arts Magazine, LVI, 10, 1982, p. 15; Hilton Kramer,
“Postmodern: Art and Culture in the 1980s”, New Criterion, I, 1, 1982, pp. 36-42; John
Lahr, Coward the Playwright, London: Methuen, 1982; William J. Free, “Camp Ele-
ments in the Plays of Tennessee Williams”, Southern Quarterly, XXI, 2, 1983, pp. 16-23;
Cecil Wooten, “Petronius and Camp”, Helios, XI, 2, 1984, pp. 133-139; Robert F. Kier-
nan, Noel Coward, New York: Ungar, 1986; Robert F. Kiernan, Frivolity Unbound, cit.;
Pamela Bacarisse, op. cit.; Barry Spurr, “Camp Mandarin: The Prose Style of Lytton
Strachey”, English Literature in Transition, XXXIII, 1, 1990, pp. 31-45.
1
La programmaticità che la dimensione estetica implica risulta peraltro enfatizzata
nell’unico volume apparso finora al di fuori del mondo anglofono, il citato Second ma-
nifeste camp di Patrick Mauriès che si pone infatti in esplicita derivazione rispetto al
primo ‘manifesto camp’ di Sontag.
2
Cfr. Philip Core, op. cit. e Mark Booth, op. cit. Il primo volume in assoluto è infatti
quello di Patrick Mauriès, apparso nel 1979 per i tipi delle edizioni Seuil.
66 ESUBERANZA

di massa; e non sembra arbitrario identificare in questa seconda modalità


di circolazione un ulteriore ‘tradimento’ del camp, della sua complessa
stratificazione – accennata nel capitolo 1 – di Alta Cultura e cultura po-
polare, storia delle pratiche sessuali e dei dispositivi di potere che si sono
esercitati su di essa.
La principale modalità d’esistenza della nozione, quella che l’avrebbe
definitivamente imposta quale oggetto di riflessione accademica tra la se-
conda metà degli anni Ottanta e gli anni Novanta, doveva peraltro coin-
cidere con la sua veste apparentemente meno ‘accademica’, con il più
recente stadio cioè di un processo di ripensamento dell’istituzione della
1
critica. Il terzo versante di riflessione successivo all’intervento di Sontag
risiede infatti nella radicale enfatizzazione dell’omosessualità in quanto
spazio legittimato, origine, ragion d’essere e determinazione dello stesso.
Interventi ascrivibili ai gay studies, alla gender theory e quindi alla queer
theory hanno recuperato la significatività del camp attraverso una sovrap-
posizione del soggetto critico e dell’oggetto d’indagine (evidenziando il
camp come problema ci si costituiva come identità e prospettiva critica, e
articolando una prospettiva il camp ne risultava posto in rilievo rispetto
ad altre problematiche).
Questi interventi hanno puntualmente additato la mancanza di anali-
si critica nei confronti del camp fino alla seconda metà degli anni Ottan-
ta, o la sua riduzione a fenomeno di costume negli anni Sessanta, come
effetto della censura sulle istanze omosessuali, oppure come effetto della
sua desessualizzazione, vale a dire della configurazione del camp come
estetica indipendente dal fattore sessuale, svincolata cioè dalla sottocul-
tura che avrebbe prodotto il camp in prima battuta. L’elusività della ‘sen-
sibilità’ camp, e la conseguente scelta da parte di Sontag di articolarla
attraverso la disarticolatezza degli appunti numerati, ad esempio, sareb-
bero in questa prospettiva riconducibili alla strategia omofobica dell’as-
senza di confronto con la natura omosessuale della sensibilità stessa. As-
senza che si darebbe come condizione della parziale articolabilità del

1
In merito mi permetto di rinviare al mio, già citato, “‘Oscar Wilde’ e i materialisti.
Appunti sulla scena critica radicale in Gran Bretagna”. Ma si vedano senz’altro i saggi
contenuti nel citato Teoria della letteratura, a cura di Donatella Izzo, di Stefano Rosso
(“La decostruzione”, pp. 31-56), Donatella Izzo (“La teoria della critica femminista”,
pp. 57-88), Giorgio Mariani (“La critica marxista e il New Historicism”, pp. 89-108),
Marco Pustianaz (“Teoria gay e lesbica”, pp. 109-130), Daniela Daniele (“Multicultu-
ralismo e teorie postcoloniali”, pp. 131-158), Maria Cristina Iuli (“I cultural studies”,
pp. 159-184), e l’introduzione della stessa Izzo (pp. 11-30).
LE ORIGINI E ALTRE QUESTIONI 67

camp nella sfera pubblica, legittimato attraverso i criteri censori della di-
1
scorsività dominante. A partire da un’accusa di tradimento della ‘vera
natura’ del camp, si è venuto producendo cioè quello che si intende de-
costruire come, a sua volta, un tradimento dell’esuberanza del camp, va-
le a dire un tentativo – che si traduce immediatamente in contraddizioni
malcelate e in un costante oscillare dei cardini di stabilità sui quali esso
stesso fa affidamento – di sua cristallizzazione in un corpus di riferimen-
to dato e incontestabile, e in una prospettiva teorica organica. Ed è al
duplice tradimento, articolato a partire dal camp come questione prima-
riamente estetica, oppure sotto l’egida della sua specificità gay, che pos-
sono essere ricondotti gli interventi in sede critica che giungono fino allo
stato attuale della questione.
Fin dal 1965 è dato riscontrare, parallelamente all’articolazione di
spazi editoriali e della presa di coscienza gay che porterà alla fine del de-
cennio alla nascita del Gay Liberation Front negli Stati Uniti, interventi
che postulano il camp in tale chiave, studiandolo come costitutivo della
2
“genuine homosexual culture” o come forma di gestione dello stigma
3
all’insegna dell’ilarità. È tuttavia necessario attendere che si spenga l’eco
della popolarità massmediale del camp e di Sontag nelle vesti di “Miss
Camp” per vedere l’apparizione, fra il 1972 e il 1977, dei lavori a opera di

1
L’accusa di de-omosessualizzazione come funzionale all’articolabilità ‘razionale’
(che può essere peraltro letta come funzionale all’aspetto censorio della sfera pubblica)
è formulata in D. A. Miller, “Sontag’s Urbanity”, October, 49, Summer 1989, p. 93.
2
Dennis Altman, op. cit., p. 141.
3
Si vedano i seguenti interventi apparsi fra il 1963 e il 1977: Donald Webster Cory,
The Homosexual and His Society: A View From Within, New York: Citadel, 1963; Anon.,
“The Homosexual in America”, Time, 21 January 1966, pp. 40-41; Harford Montgom-
ery Hyde, The Love that Dared not Speak Its Name: A Candid History of Homosexuality in
Britain, Boston: Little, Brown, 1970; Mike Silverstein, “God Save the Queen”, Gay
Sunshine, November 1970; Dennis Altman, op. cit.; Laud Humphreys, Out of the Closet:
The Sociology of Homosexual Liberation, Englewood Cliffs: Prentice-Hall, 1972, pp. 70-
73; Barry Conley, “The Garland Legend: The Stars Have Lost Their Glitter”, Gay News,
13, 1972, pp. 10-11; Bruce Rodgers, op. cit.; Jeffrey Escoffier, “Breaking Camp”, Gay
Alternative, 4, 1973, pp. 6-8; Arthur Evans, “How to Zap Straights”, in Len Richmond
and Gary Noguera (eds.), The Gay Liberation Book, San Francisco: Ramparts, 1973, pp.
111-115; John H. Gagnon and William Simon, Sexual Conduct: The Social Sources of
Human Sexuality, Chicago: Aldine, 1973; Richard Dyer, “It’s Being so Camp as Keeps
Us Going”, cit.; Noel Purdon, “Gay Cinema”, Cinema Papers, 10, 1976, p. 118; Vito
Russo, “Camp”(1976), in Martin P. Levene (ed.), Gay Men: The Sociology of Male Ho-
mosexuality, New York: Harper & Row, 1979, pp. 205-210; Jeffrey Weeks, Coming Out,
cit.; Edmund White, “Camping”, in Charles Silverstein and Edmund White, The Joy of
Gay Sex, New York: Crown, 1977, p. 36-38. La bibliografia successiva al 1977 è ben più
ampia; altri interventi saranno segnalati laddove pertinenti.
68 ESUBERANZA

Esther Newton e Jack Babuscio, che si proponevano di sistematizzare


tale prospettiva in una tassonomia e in una serie di categorie di ricono-
1
scibilità. Gli interventi di Newton e Babuscio sono significativi peraltro
non solo per la loro volontà di sistematizzazione, bensì perché compen-
diano l’atteggiamento, e la problematicità, della gran parte delle letture
in chiave specificamente gay, ed è in questa duplice valenza che verran-
no qui affrontati.
Restituendo il camp alla dimensione di travestimento e gioco di su-
premazia/seduzione linguistica nella sfera della sottocultura omosessuale
statunitense (si confronti in merito il capitolo 1), Newton lo segnala co-
me uno stile centrale a quella sfera, di cui sarebbe, del resto, un indice di
immediata e inequivocabile evidenza: “[d]rag and camp are the most re-
presentative and widely used symbols of homosexuality in the English
speaking world. […] As camp style represents all that is most unique in
the homosexual subculture, the camp is the cultural and social focus of
2
the majority of male homosexual groups”.
1
Esther Newton, op. cit.; e Jack Babuscio, op. cit. Quest’ultimo intervento recupera di
fatto uno scritto apparso l’anno precedente con il titolo “Celebrating Camp”, Gay
News, 91, 25 March-7 April 1976, pp. 17-18. E lo stesso intervento apparirà in
un’ulteriore rielaborazione come “The Cinema of Camp” in Gay Sunshine Journal, 35,
Winter 1978, e ristampata quindi in Winston Leyland (ed.), Gay Roots: Twenty Years of
Gay Sunshine (An Anthology of Gay History, Sex, Politics and Culture), San Francisco:
Gay Sunshine Press, 1991, pp. 431-449. Le citazioni nel testo fanno riferimento a ogni
modo alla redazione del 1977.
2
Esther Newton, op. cit., pp. 100, 56. È significativo che l’intero volume di documen-
tazione della sottocultura del travestitismo nordamericano, di cui solo una parte è spe-
cificamente dedicata alla scena camp (il quinto capitolo, “Role Models”), porti il titolo
Mother Camp: Female Impersonators in America. Se nel 1972 il drag – o il cross-dressing,
in parziale sovrapposizione con il drag – era confinato allo studio sociologico, sono
ormai sempre più numerosi i testi che ne hanno indagato la storia e le implicazioni
teoriche all’interno della più generale economia simbolica della cultura occidentale
(con particolare attenzione, com’è ovvio, alla cultura angloamericana). Fra i testi più
significativi in merito vanno senz’altro consultati Rebecca Bell-Metereau, Hollywood
Androgyny, New York: Columbia University Press, 1985 (seconda edizione ampliata,
ibidem 1993), e Marjorie Garber, Vested Interests: Cross-Dressing and Cultural Anxiety,
London: Routledge, 1992. Ma si vedano anche Peter Ackroyd, Dressing Up – Transves-
tism and Drag: The History of an Obsession, London: Thames & Hudson, 1979; Annie
Woodhouse, Fantastic Women: Sex, Gender and Transvestism, London: Macmillan, 1989;
Vern L. Bullogh and Bonnie Bullogh, Cross Dressing, Sex and Gender, Philadelphia:
University of Pennsylvania Press, 1993; Leslie Ferris (ed.), Crossing the Stage: Controver-
sies on Cross-Dressing, London: Routledge, 1993; Roger Baker, Drag: A History of Female
Impersonation in the Performing Arts, London: Cassell, 1994; F. Michael Moore, Drag!
Male and Female Impersonators on Stage, Screen and Television – An Illustrated History,
McFarland & Co., U.S., 1994; Jean-Claude Suarez, Hollywood Drag, Thomasson-Grant,
U.S., 1994; Lesley Gordon, Aspects of Gender: Study of Cross-Dressing Behaviour, Old-
LE ORIGINI E ALTRE QUESTIONI 69

Il camp, in sostanza, è qui inteso sia come singolo performer omoses-


suale, sia come performance degli indici di omosessualità, e a sua volta
indice di essa. Il rimando alla sottocultura omosessuale, e l’impianto so-
ciologico dell’analisi di Newton, non chiariscono a ogni modo l’ambi-
guità della caratterizzazione in quanto stile, come nel passaggio riporta-
to, oppure quale gusto, che emerge quando – spostandosi dal referente
nominale al camp nella variante di sostantivo astratto deaggettivale –
Newton ne propone una dereferenzializzazione radicale rispetto a Son-
tag, ad un tempo con la sua definitiva ‘(ri)omosessualizzazione’:

Camp is not a thing. Most broadly it signifies a relationship between


things, people, and activities or qualities, and homosexuality. In this
sense, ‘camp taste’, for instance, is synonimous with homosexual taste.
Informants stressed that even between individuals there is very little
agreement on what is camp because camp is in the eye of the beholder,
that is, different homosexuals like different things, and because of the
spontaneity and individuality of camp, camp taste is always changing.1

L’elemento di determinazione si sposta completamente dall’oggetto al


soggetto, che nel proprio posizionamento culturale non solo determina
la possibilità d’esistenza della campiness ma ne costituisce anche la ra-
gione, o la causa, ultima. Il rimando da parte di Sontag a una valenza
2
‘oggettiva’ del camp (“It’s not all in the eye of the beholder”) viene in-
somma negato nel modo più esplicito, in favore del ruolo fruitivo, della
relazione che si instaura fra l’oggetto di percezione e il soggetto fruitore,
univocamente omosessuale, che tuttavia nella propria molteplicità (lo
‘sguardo omosessuale’ corrisponderebbe alla sommatoria degli sguardi
dei diversi soggetti omosessuali, che si sono andati esercitando anarchi-
camente in tal senso) giustifica la intrinseca mutevolezza e instabilità del
corpus di riferimento. Siamo cioè di fronte a un elemento di determina-
zione che sembra gestire solo parzialmente il camp nella sua indefinita
referenza, data l’assenza di un codice stabile e univoco all’interno del
quale si eserciti lo ‘sguardo gay’. Prosegue tuttavia Newton:

ham: L. Gordon, 1995; Richard Ekins and David King (eds.), Blending Genders: Social
Aspects of Cross Dressing and Sex Changing, London: Routledge, 1996; J. J. Allen, Man in
the Red Velvet Dress: Inside the World of Cross Dressing, Birch Lane Press, U.S., 1996;
Richard Ekins, Male Femaling: Grounded Approach to Cross-Dressing and Sex-Change,
London: Routledge, 1996.
1
Ivi, p. 105.
2
Cfr. supra, la nota 8 a pagina 36.
70 ESUBERANZA

While camp is in the eyes of the homosexual beholder, it is assumed


that there is an underlying unity of perspective among homosexuals
that gives any particular campy thing its special flavor. It is possible to
discern strong themes in any particular campy thing or event. The
three that seemed most recurrent and characteristic to me were incon-
gruity, theatricality, and humor. All three are intimately related to the
homosexual situation and strategy. Incongruity is the subject matter of
camp, theatricality its style, and humor its strategy.1

Le tre categorie di riconoscibilità del camp – incongruità, teatralità e umo-


rismo – possono essere riconosciute o ‘create’ da parte del soggetto o-
mosessuale nella costituzione dell’oggetto camp:

Camp usually depends on the perception or creation of incongruous jux-


tapositions. Either way, the homosexual ‘creates’ the camp, by pointing
out the incongruity or by devising it. For instance, one informant said
that the campiest thing he had seen recently was a Midwestern foot-
ball player in high drag at a Halloween ball. He pointed out that the
football player was trying to be a lady, and so his intent was not camp,
but that the effect to the observer was campy. […] This is an example of
unintentional camp, for the campy person or thing does not perceive
the incongruity. […] Created camp also depends on transformations
and juxtapositions, but here the effect is intentional. The most concrete
examples can be seen in the apartments of campy queens, for instance,
in the idea of growing plants in the toilet tank.2

Ci si confina insomma alla sfera strettamente omosessuale; si indica un


referente stabile al camp (variante nominale: l’individuo) e una derefe-
renzializzazione radicale del camp (variante nominale: il fenomeno, stile
o gusto che sia); e si sostituisce alla referenzialità confusiva del camp di
Sontag e Isherwood (distribuito fra Alta Cultura e paccottiglia) un corpus
apparentemente più omogeneo nella sua trivialità (il giocatore di football
travestito per la notte di Halloween, la coltivazione delle piante d’appar-
tamento in un luogo non demandato a tale pratica), depotenziato delle
valenze di estetica contemporanea o di superamento delle ‘due sensibili-
tà’ borghese e avanguardistica. Nonostante ciò, ci troviamo ancora all’in-
terno del regime di opposizione fra naïve e deliberate Camp proposto da
Sontag (riformulato semplicemente come intentional vs. unintentional), e
alla sua problematicità che si è affrontata nel capitolo precedente.
Prendiamo a ogni modo in esame le tre categorie di riconoscibilità del
1
Esther Newton, op. cit., p. 106.
2
Ivi, pp. 106-107.
LE ORIGINI E ALTRE QUESTIONI 71

camp, quelle categorie che – costituendo l’unitarietà di prospettiva, “in-


timately related to the homosexual situation and strategy”, che ‘crea’ il
camp – dovrebbero renderlo gestibile: l’incongruità quale subject matter,
la teatralità come stile, e lo humour come strategia. La giustapposizione
di elementi incongrui (sul piano di “high and low status, youth and old
age, profane and sacred functions and symbols, cheap and expensive ar-
1
ticles”) sarebbe di fatto funzione di una soggettività di per sé incongrua,
2
che orienta il proprio desiderio in direzione per così dire ‘inappropriata’.
La teatralità si modula su tre livelli: in primo luogo, essa si esercita sulla
matrice stilistica del camp (“Importance tends to shift from what a thing
is to how it looks, from what is done to how it is done”). Quindi, sulla
forma drammatica, performativa, che è di tutto il camp, sia intenzionale
sia inintenzionale (“In the case of the football player, his behavior was
transformed by his audience into a performance”). E infine, nel rimando
all’essere-come-interpretazione-di-un-ruolo e alla vita-come-teatro, che
già Sontag suggeriva. La categoria della teatralità in quanto elemento
stilistico del camp sarebbe insomma totalmente riconducibile alla que-
stione, già accennata nel capitolo 2, del camp come promosso dalla con-
sapevolezza di artificiosità dei ruoli sociali che la necessità del passing for
straight produce nel soggetto omosessuale (nella sua fase pre-liberazioni-
sta, e nella sua variante covert). È a questo terzo livello, osserva Newton,
che “drag and camp merge and augment each other”, ben oltre la signi-
ficatività dell’inappropriatezza – dell’incongruità – insita nell’indossare
gli apparati vestimentari che sono ‘proprietà’ dell’altro sesso:

The covert homosexual must in fact impersonate a man, that is, he


must appear to the ‘straight’ world to be fulfilling (or not violating) all
the requisites of the male role as defined by the ‘straight’ world. [..]
[H]omosexuals ‘passing’ are playing men; they are in drag. This is the
larger implication of drag/camp. In fact, gay people often use the word
‘drag’ in this broader sense, even to include role playing which most
people simply take for granted: role playing in school, at the office, at
parties, and so on. In fact, all of life is role and theatre – appearance.3

Se dunque “[g]ay people know that sex-typed behavior can be achieved,


4
contrary to what is popularly believed”, il drag si traduce – se caricato di
1
Ivi, p. 107.
2
Ibidem.
3
Ivi, p. 108.
4
Ivi, p. 103.
72 ESUBERANZA

una specifica valenza camp – in una prassi di recitazione dei diversi ruoli
sociali e dei diversi codici che afferiscono ad essi. Esempio vistoso di ciò è
del resto Paris is Burning di Jennie Livingston (1990), lungometraggio
ambientato nella scena newyorkese delle houses, i locali popolati da tra-
vestiti afro- e latinoamericani, nelle quali i drag balls sono intesi ad eleg-
gere le ‘regine’ di varie categorie, da “Evening Wear” a “Executive” a
1
“Best Dressed Butch Queen”.
Lo humour sarebbe, coerentemente con quanto precede, la strategia
di confronto con la condizione ‘incongrua’, e oppressa, del soggetto omo-
2
sessuale:
camp is a system of humor. Camp humor is a system of laughing at
one’s incongruous position instead of crying. That is, the humor does
not cover up, it transforms. […] The camp is a homosexual wit and
clown; his campy productions and performances are a continuous
creative strategy for dealing with the homosexual situation, and, in the
process, defining a positive homosexual identity. As one performer
summed it up for me, “Homosexuality is a way of life that is against
alla ways of life, including nature’s. And no one is more aware of it
than the homosexual. The camp accept his role as a homosexual and
flaunts his homosexuality. He makes the other homosexuals laugh; he
makes life a little brighter for them. And he builds a bridge to the
straight people by getting them to laugh with him”.3

Nelle parole di Newton, e in quelle del performer intervistato, risuona


chiaramente la tesi del camp come solvente morale, come strategia di
integrazione del soggetto stigmatizzato nella società che sancisce lo
stigma dell’incongruenza e dell’estraneità alla legge di natura (“he builds
a bridge to the straight people by getting them to laugh with him”).
Questa concezione del camp come strategia di integrazione presuppone
del resto l’accettazione, o interiorizzazione, dello stigma, di pari passo al
‘ruolo’ omosessuale: “[b]y accepting his homosexuality and flaunting it,
1
Intorno a Paris is Burning si vedano le note contenute in Paul Roen, op. cit., p.152, e
in Keith Howes, op. cit., p. 595. Si confronti inoltre quanto riportato dal lessico gay di
Bruce Rodgers sub voce ‘drag’: “1. clothing of opposite sex 2. (camp) any robe or uni-
form worn as a costume […] 3. (camp) clothing in general”. Bruce Rodgers, op. cit., p.
67. È la chiave camp, insomma, quella cioè che si attiva al punto 2 e 3, a determinare la
valenza generalmente ‘teatrale’ del drag.
2
Si tratta insomma della dinamica attorno alla quale nel volgere di qualche anno lo
storico del cinema Richard Dyer avrebbe incentrato il proprio primo intervento
sull’argomento – lo it’s so camp as keeps us going. Cfr. Richard Dyer, “It’s So Camp as
Keeps Us Going” (1977), cit.
3
Esther Newton, op. cit., pp. 109-110.
LE ORIGINI E ALTRE QUESTIONI 73

the camp undercuts all homosexuals who won’t accept the stigmatized
identity. Only by fully embracing the stigma itself can one neutralize the
1
sting and make it laughable”.
Al tempo stesso, prosegue il testimone, questa valenza di trasforma-
zione dello stigma in un elemento di coesione, sia fra gli stigmatizzati sia
tra questi e gli stigmatizzatori, risulta in ultima analisi ben più determi-
nante rispetto all’orientamento sessuale: “Now homosexuality is not camp.
But you take a camp, and she turns around and she makes homosexual-
2
ity funny, but not ludicrous; funny, but not ridiculous”. Come si coniu-
ga, se non per contraddizione, quest’ultima tesi – l’omosessualità non è
camp – con quella, precedentemente riportata, dello stesso testimone, in
cui si sosteneva che il camp accetta e ostenta la propria omosessualità?
Il problema, come si ha avuto modo di affermare nelle pagine prece-
denti, risede nel fatto che di per loro camp e omosessualità non coinci-
dono, che l’uno non determina l’altro. Mentre nella prima frase riportata
il testimone parla di camp come strategia semiotica dell’omosessuale,
nella seconda frase egli fa riferimento al camp come strategia di gestione
3
di un’oppressione (“She’s sort of made light of a bad situation”), al camp
nella sua dimensione ‘estetica’ qual era presentata da Isherwood: si giu-
stappongano, in tal senso, “she makes homosexuality funny, but not lu-
dicrous; funny, but not ridiculous”, con le parole da The World in the Eve-
ning: “you’re not making fun of it; you’re making fun out of it. You are
expressing what’s basically serious to you in terms of fun and artifice and
elegance”. Si fa dunque qui riferimento al camp quale modalità di irrisio-
ne complice, che volge in play – in copione teatrale e in struttura ludica –
sia il soggetto che se ne fa portatore, sia gli altri ‘attori’ che con questi
condividono il palco sociale:

By focusing on the outward appearance of role, drag implies that sex


role and, by extension, role in general is something superficial, which
can be manipulated, put on and off again at will. The drag concept im-
plies distance between the actor and the role or ‘act’. But drag also
means ‘costume’. This theatrical referent is the key to the attitude to-
ward role playing embodied in drag as camp. Role playing is play; it is
an act or show. […] The double stance toward role, putting on a good
1
Ivi, p. 111.
2
Ivi, p. 110. Il pronome utilizzato dal testimone – “she” – rimanda di fatto a un tra-
vestito, al quale all’interno della sottocultura omosessuale ci si riferisce rigorosamente
con il femminile, vale a dire con il ruolo assunto.
3
Ivi, p. 111.
74 ESUBERANZA

show while indicating distance (showing that it is a show) is the heart


of drag as camp.1

Newton inquadra insomma il camp nella sua analogia con il soul all’in-
terno della sottocultura afroamericana, registrandolo come sistema di
humour afferente a un gruppo sociale oppresso che trasforma una nega-
2
tività in elemento di coesione e d’identità. Benché la definizione offerta
dalla sociologa nordamericana sembri affermare l’esclusività del camp in
tal senso (“camp is in the eye of the homosexual beholder”), la sua opera-
tività all’interno della sottocultura risulta essere all’atto pratico un elemen-
to che descrive e definisce la sottocultura, ma che non è da essa definito
nelle sue caratteristiche intrinseche. Come qualche anno dopo avrebbe
sostenuto Richard Dyer in un pezzo dedicato al culto per l’icona camp
Judy Garland, il camp rimane indefinibile, benché sia chiaramente “a defi-
3
ning feature of the male gay subculture”: la pratica di definizione prevede
insomma il camp come ‘agente’ (fattore di definizione storica) e la sotto-
4
cultura come ‘agita’, ma i due termini dell’azione non sono reversibili.
Il quadro sociologico di Newton offre una definizione del problema
nella misura in cui lo circoscrive alla sfera sottoculturale, ed esclude la sua
operatività nella dimensione latamente culturale e artistica. Quale suo
pendant va dunque inteso l’intervento di Jack Babuscio, che riformula e
applica le categorie suggerite da Newton perlopiù alla produzione (e ri-
cezione) cinematografica. La derivatività di Babuscio impone dunque che
i problemi posti da entrambi i saggi vadano affrontati a un tempo, e che
sia proprio attraverso la loro sovrapposizione che i problemi stessi emer-
1
Ivi, p. 109.
2
Ivi, p. 105. Un’analogo suggerimento emergeva del resto in Dennis Altman, op. cit.,
p. 141; e in Laud Humphreys, “Camp and Soul”, in op. cit., pp. 70-73. Nelle pagine
successive, Newton suggerisce la proficuità di un’analisi comparativa del “camp hu-
mor with the humor system of other oppressed people (Eastern European Jewish, Ne-
gro, etc.)”. Ivi, p. 109n19. Questo suggerimento è stato parzialmente raccolto da Ste-
phen O. Murray, “Ritual and Personal Insults in Stigmatized Subcultures: Gay, Black,
Jew”, Maledicta, VII, 1983, pp. 189-211. Queste considerazioni si giustificano alla luce
del fatto che la griglia attraverso cui è stata storicamente inquadrata la sottocultura gay
fin dal suo coming out degli anni Settanta, come ha ricordato Alan Sinfield, è quella
offerta dal modello etnico. Cfr. Alan Sinfield, “Diaspora and Hybridity: Queer Identi-
ties and the Ethnicity Model”, Textual Practice, X, 2, Summer 1996, pp. 271-293.
3
Richard Dyer, “Judy Garland and Gay Men”, in Heavenly Bodies: Film Stars and So-
ciety, London: Macmillan, 1986, p. 178.
4
Il che vale anche per altre letture gay del fenomeno. Dennis Altman, ad esempio,
sostiene a proposito del gayworld che “[i]n Australia, and to a lesser extent Britain, that
world is known as camp”. Dennis Altman, op. cit., pp. 30-31.
LE ORIGINI E ALTRE QUESTIONI 75

gano a chiarezza.
Da un lato Babuscio propone un’ulteriore griglia di riconoscibilità,
prodotta a partire dalle medesime premesse di Newton, cui corrisponde
una tassonomia della presenza camp: “[f]our features are basic to camp:
1
irony, aestheticism, theatricality and humour”. Dall’altro, tuttavia, Babu-
scio propone una determinazione che il saggio di Newton promuove ma,
in ultima analisi, non legittima:

The term camp describes those elements in a person, situation or activ-


ity which expresses, or are created by, a gay sensibility. […] People
who have camp, e.g. screen ‘personalities’ such as Tallulah Bankhead
or Edward Everett Horton, or who are in some way responsible for
camp – Busby Berkeley or Josef von Sternberg – need not be gay. The
link with gayness is established when the camp aspect of an individual
or thing is identified as such by a gay sensibility.2

Qui non si tratta di descrivere, come fa Newton, una valenza del camp
assunta a fuoco d’attenzione. Qui il termine è spinto a indicare univoca-
mente quanto prodotto dalla gay sensibility che condivide con il camp lo
spazio del titolo del saggio: e il camp nel suo complesso, sia pur nello
specifico cinematografico, sarebbe ascrivibile a “some of the ways in
3
which individual films, stars and directors reflect a gay sensibility”.
Quando però Babuscio si confronta, in apertura, con una definizione del-
la sensibilità stessa, le sue caratteristiche si fanno evanescenti. La gay
sensibility è indicata come “a creative energy reflecting a consciousness
that is different from the mainstream; a heightened awareness of certain
human complications of feeling that spring from the fact of social op-
pression; in short, a perception of the world which is coloured, shaped,
4
directed and defined by the fact of one’s gayness”.
Il camp emergerebbe quale risposta a un orizzonte culturale che pola-
rizza l’esistente in una dicotomia di naturale e innaturale:

Present-day society defines people as falling into distinctive types. Such


a method of labelling ensures that individual types become polarized.
A complement of attributes thought to be ‘natural’ and ‘normal’ for
members of these categories is assigned. Hence, heterosexuality =
normal, natural, healthy behaviour; homosexuality = abnormal, unnatu-
1
Jack Babuscio, op. cit., p. 41.
2
Ivi, pp. 40-41.
3
Ivi, p. 40. Il titolo del saggio, ricordiamolo, è “Camp and the Gay Sensibility”.
4
Ibidem.
76 ESUBERANZA

ral, sick behviour. Out of this process of polarization there develops a


twin set of perspectives and general understandings about what the
world is like and how to deal with it. For gays, one such response is camp.1

Da cui conseguirebbe l’identificazione, che va di pari passo con l’eser-


cizio di una sensibilità gay, con il polo ‘innaturale’ e stigmatizzato in
quanto tale. Il brano riportato mostra peraltro come già in apertura latiti
in buona sostanza l’elemento di totale determinazione: “one such re-
sponse is camp”, scrive Babuscio. Una, e solo una, risposta, che non este-
nua dunque le possibilità di espressione della gay sensibility a fronte di
uno stato culturale: e allora l’elemento di determinazione produrrà rispo-
ste diverse, ed è questa differenza che risulta trascurata nel momento in
cui si postula la gayness quale ragione univoca della risposta.
In seconda battuta, il ricorso alla nozione di ‘sensibilità gay’ porta con
sé tutta la problematicità del rimando al camp-come-sensibilità che e-
mergeva – lo si è visto – in “Notes on ‘Camp’”. Pur indicando una ‘causa
primigenia’ alla creazione/percezione del camp, Babuscio non ne risolve
dunque la configurazione. Se il rimando a una sensibilità da parte di
Sontag rendeva conto dell’intrinseca instabilità e indefinibilità del camp
(“to snare a sensibility in words, especially one that is alive and powerful,
one must be tentative and nimble”), ancor più problematica è l’artico-
lazione di una sensibilità gay quale causa primigenia del camp. In merito,
Jonathan Dollimore pone lucidamente i termini della problematicità
stessa, sia pur riferendola al saggio di Sontag nel quale, come s’è visto, la
2
sensibility non è caricata di una simile specificità:

is this sensibility transcultural, or historically rooted in the (varying) his-


tories of the representation of homosexuality? Is it a direct expression,
or an indirect expression of its repression and/or sublimation? Is it de-
1
Ibidem.
2
Jonathan Dollimore, Sexual Dissidence, cit., pp. 307-308. Dollimore in effetti so-
vrappone – senza dichiararlo – al saggio di Sontag l’utilizzo da parte di George Stei-
ner, Dennis Altman e Michael Bronski della nozione di ‘sensibilità omosessuale’, che è
dato tuttavia riscontrare in modo articolato nel saggio di Jack Babuscio. Si vedano
George Steiner, “Eros and Idiom” (1975), in On Difficulty and Other Essays, Oxford:
Oxford University Press, 1978, pp. 95-136; Dennis Altman, The Homosexualization of
America, the Americanization of the Homosexual, Boston: Beacon, 1982; Michael Bronski,
Culture Clash: The Making of Gay Sensibility, Boston: South End, 1984. Prima ancora
che a questi ultimi due testi, i quali raccolgono semplicemente una proposta di per sé
problematica senza evidenziarne i limiti, e al testo di Steiner, nel quale la questione del
camp è solamente accennata, le considerazioni che seguono si esercitano su Babuscio, il
cui intervento appare, in una prima redazione, pochi mesi dopo quello di Steiner.
LE ORIGINI E ALTRE QUESTIONI 77

fined in terms of the sexuality of (say) the individual or artist who ex-
presses or possesses it – and does that mean that no non-homosexual
can possess/express it?1

La serie di interrogativi posti da Dollimore rimanda, in ultima analisi, a


un’elusività della gay sensibility perché essa non presuppone una coeren-
za dell’aggettivazione che dovrebbe definirla. Il soggetto gay, di cui la
sensibilità sarebbe espressione o proprietà, non è postulabile senza in-
correre immediatamente nella facile accusa – questa ‘soggettività gay’
non si è definita, né si definisce a tutt’oggi, intrinsecamente, quale dato
essenziale e transtorico. Riformulando: se il camp è in the eye of the (gay)
beholder, esso è in the I of the (gay) beholder; si tratta insomma di determi-
nare ciò cui si fa corrispondere questo ‘io omosessuale’, cosa lo caratte-
rizzi e lo definisca. E, senz’altro, chi ha fatto ricorso alla nozione di gay
sensibility non si è effettivamente confrontato con la questione e con le
sue implicazioni, riferendosi esplicitamente a un quadro epistemico in
cui la sensibilità faccia riferimento organico a uno statuto essenzialista,
oppure costruzionista, della soggettività (eye e I).
Dollimore va ben oltre nella sua polemica, suggerendo che “there is a
sense in which the very notion of a homosexual sensibility is a contradic-
2
tion in terms”. È il camp stesso a suggerire questa contraddittorietà, af-
ferma Dollimore, esistendo proprio “in terms of that contradiction – of a
parodic critique of the essence of sensibility as conventionally under-
stood”. Il critico si concentra sulla valenza parodica e secondaria del
camp, quell’aspetto che da Sontag era solo accennato, che Newton e Ba-
buscio – analogamente alla prima fase degli studi gay nel settore – tra-
scurano, e che la gender theory ha ritenuto proficuo (vale a dire, funziona-
le al proprio costituirsi in quanto ‘teoria’: in quanto prospettiva) enfatiz-
zare nel corso degli anni Ottanta. In quanto tale, il camp è stato al tempo
stesso indicato come l’essenza della sensibilità omosessuale, e come “vir-
tually the opposite: the quintessence of an alienated, inadequate sensibi-
3
lity”. Dollimore prosegue, indicando che il camp in questo senso

undermines the categories which exclude it, and does so through par-
ody and mimicry. But not from the outside: this kind of camp under-
mines the depth model of identity from inside, being a kind of parody
and mimicry which hollows out from within, making depth recede into
1
Jonathan Dollimore, Sexual Dissidence, cit., p. 308.
2
Ibidem.
3
Ivi, p. 310.
78 ESUBERANZA

its surfaces. Rather than a direct repudiation of depth, there is a per-


formance of it to excess: depth is undermined by being taken to and
beyond its own limits.1

Il camp nelle sue valenze parodiche evacuerebbe la soggettività del pro-


prio carattere di profondità attraverso una parodia della profondità stes-
sa, attraverso un’esibizione della stratificazione di superfici (in superfici)
di cui si compone la profondità del soggetto: era quanto si è riscontrato a
proposito del Cardinal Pirelli nel brano firbankiano di cui nel capitolo 1.
Il camp-come-sensibilità implicherebbe dunque il proprio opposto, vale
a dire la decostruzione della ‘sensibilità’ tout court, con le sue implicazio-
ni in chiave di una profondità che si esprime attraverso (e/o che possie-
2
de) la sensibilità. E Dollimore ne trae le conclusioni: “it is misleading to
say that camp is the gay sensibility; camp is an invasion and subversion
3
of other sensibilities, and works via parody, pastiche, and exaggeration”.
L’elemento di determinazione del camp offerto in apertura da Babuscio
rimane dunque sfuggente, benché limitato – definito – dall’aggettiva-
zione ‘gay’; la causa non si concede a una determinazione. Si giustifica il
sospetto che l’argomentazione di Babuscio, e il suo tentativo di produ-
zione di gestibilità critica del camp, si fondi su una tautologia, e per giun-
ta su una tautologia viziata nel rapporto fra i suoi termini: camp sarebbe
tutto ciò che è prodotto dalla gay sensibility, e quanto alla richiesta di de-
finizione di quest’ultima la si indica come ciò che ha, fra le sue possibili
4
(ma non necessarie) espressioni, il camp.
1
Ivi, pp. 310-311.
2
Cfr. supra, la nota 1 a pagina 32.
3
Ivi, p. 311. Può sembrare che la conclusione di Dollimore censuri la nozione di
‘sensibilità gay’ come fondante il camp, ma non la sensibilità tout court, in quanto og-
getto dell’‘invasione’ parodica del camp. La chiave sta invece nel fatto che la ‘invasio-
ne’ camp sia sovversiva (“camp is an invasion and subversion of other sensibilities”),
vale a dire fondamentalmente decostruttiva delle premesse ontologiche della sensibili-
tà/soggettività profonda.
4
Si confrontino le parole di Esther Newton in un saggio del 1993: “The
camp/theatrical sensibility is, however, only one of two major gay sensibilities. By con-
trast, the ‘egalitarian/authentic’ gay perspective springs directly from middle-class
democratic and bourgeois ideology”. Esther Newton, “Conviviality and Camp”, in
Cherry Grove, Fire Island: Sixty Years in America’s First Gay and Lesbian Town, Boston:
Beacon, 1993, p. 85. È a questa seconda ‘sensibilità’, all’insegna della propria autentici-
tà e dell’appropriazione dei valori dominanti in favore del subordinato, che si può far
corrispondere – come ha fatto splendidamente Jonathan Dollimore, contrapponendo-
lo alla strategia dell’inversione e del decentramento proposta da Oscar Wilde – lo sta-
tuto della soggettività omosessuale in André Gide. Cfr. Jonathan Dollimore, “Wilde
and Gide in Algiers”, in Sexual Dissidence, cit., pp. 3-18.
LE ORIGINI E ALTRE QUESTIONI 79

Se la causa fondante della percezione/creazione camp non risulta de-


finita, Babuscio indica nondimeno una serie di categorie inerenti all’og-
getto e dunque determinanti la riconoscibilità del camp e la sua gestibili-
tà critica: ironia, estetismo, teatralità e humour. L’ironia sarebbe da ri-
condurre alla giustapposizione e sovrapposizione di elementi incongrui:
maschile/femminile, giovinezza/maturità, sacro/profano, spirito/corpo,
1
status alto/basso. Gli esempi di queste oscillazioni assiomatiche vanno
dal citato Sunset Boulevard a Queen Christina di Rouben Mamoulian, reci-
tato dall’androgina Greta Garbo, dalla versione cinematografica di The
Picture of Dorian Gray del 1945 (per la regia di Albert Lewin) a The Roman
Spring of Mrs. Stone (1961), diretto da José Quintero e basato sull’omo-
2
nimo romanzo di Tennessee Williams. Ma soprattutto, com’è chiaro alla
luce di quanto precede, l’ironia sarebbe riconducibile all’esercizio di una
‘sensibilità gay’, dato che “[a]t the core of this perception of incongruity
3
is the idea of gayness as a moral deviation.”
Lo humour, altra categoria di riconoscibilità, si correla alle medesime
ragioni fondanti l’ironia, poiché risulterebbe “from an identification of a
strong incongruity between an object, person or situation and its con-
4
text”. La finalità dello humour sarebbe però di stampo coesivo fra sog-
getti stigmatizzati, in quanto strategico “means of dealing with a hostile
environment and, in the process, of defining a positive identity”. Eviden-
te la funzionalità per il soggetto omosessuale, il cui humour – quale
“chosen means of dealing with the painfully incongruous situation of
gays in society” – si articola principalmente nel “bitter-wit” che esprime
5
“an underlying hostility and fear”, impregnato di “[s]elf-pity and an a-
ching sense of loss”, e che troverebbe una rappresentazione cinemato-
grafica esemplare in film come Staircase (diretto da Stanley Donen nel
6
1969), The Boys in the Band (di William Friedkin, 1970) e The Killing of
7
Sister George, diretto da Robert Aldrich nel 1969.
Ciò di cui non si rende conto, a ogni modo, è come uno humour impre-
1
Jack Babuscio, op. cit., p. 41.
2
Intorno ai film citati si possono consultare nella medesima prospettiva le note con-
tenute in Paul Roen, op. cit., pp. 159-161, 171-173, 212-214; e in Keith Howes, op. cit.,
pp. 622, 656.
3
Jack Babuscio, op. cit., p. 41.
4
Ivi, p. 47.
5
Ivi, p. 48.
6
Ibidem.
7
Intorno ai tre film citati si possono consultare Paul Roen, op. cit., pp. 42-43, 202; e
Keith Howes, op. cit., pp. 81-82, 427, 778.
80 ESUBERANZA

gnato di autocommiserazione possa costituire uno strumento di costitu-


zione di una “positive identity”; cui si aggiunge il fatto, di per sé proble-
matico, che due categorie distinte come ironia e humour si sovrapponga-
no per motivazioni, funzionalità ed elementi strutturali (“[t]he comic e-
1
lement is inherent in the formal properties of irony”, scrive Babuscio).
Se ciò non bastasse, l’indicare una categoria ironico-comica, all’insegna
dell’inversione e del decentramento della serietà, come caratteristica del-
l’intero corpus referenziale del camp, e delle sua stesse modalità di arti-
colazione, esclude una significativa parte di camp che si declina sul regi-
stro della acuta drammaticità, come riconosce Babuscio a margine della
sua tassonomia di riconoscibilità. L’esempio proposto è quello del cine-
ma di Rainer Werner Fassbinder, e in particolare di Die bitteren Tränen
der Petra von Kant (1972), che mette in scena il melodramma della liaison
lesbica, che si tinge di sadomasochismo nella propria teorizzazione della
possessività assoluta e morbosa, fra una stilista (Margit Carstensen) e la
proletaria interpretata da Hanna Schygulla, le quali si muovono in un
universo interamente presieduto dalla logica dell’artificio:

The artificiality is the camp aspect of Bitter Tears. A highly theatrical-


ised world devoid of the very passions that constitute its subject is pro-
vided by the director’s formalised, almost Racinian dialogue; his elabo-
rate, carefully calculated compositions locked into theatrical tableaux;
the anachronistic costumes and mask-like makeup that reflect the psy-
chological situation or the characters; the comic pop/classical music
references – the incongruous juxtaposition of Verdi, the Platters, and
the Walker Brothers; the stylised performances and ritualised division
of the film into five acts, each heralded by the heroine’s chnge of dress
and wig; the expressive lighting effects that emphasise a world of mas-
ters and servants, predators and victims; and, generally, the formalised
editing style which makes the most of the film’s single set – a studio
apartment that is dominated by a huge brass bed, a wall-sized mural-
with-male-nude that bears ironic witness to the action below, and a
scattered group of bald-pated mannequins whose poses are continu-
ously rearranged as commentary on their human counterparts.2

Benché totalmente modulato sul piano della drammaticità, sia pur grot-
tesca, a totale esclusione della modalità comico-ironica, Die bitteren Trä-
nen der Petra von Kant risulta senz’altro camp in virtù della sua artificiosi-
tà totalizzante, ossia della sua teatralità. Quest’ultima è peraltro un’altra
1
Jack Babuscio, op. cit., p. 47.
2
Ivi, p. 49.
LE ORIGINI E ALTRE QUESTIONI 81

categoria evidenziata da Babuscio, che si prenderà in esame fra poco: il


cinema di Fassbinder ripropone dunque un’oscillazione fra le categorie,
una loro inarrestabile osmosi che pur consentendo l’inclusione di tutto e
del contrario di tutto (ciò che non è comico, nell’esempio, è però teatrale:
ciò che non appartiene a una categoria appartiene a un’altra categoria, e
questa seconda comprende in definitiva l’alterità della prima) delegittima
le categorie stesse. Al di là delle categorie di riconoscibilità, l’inclusione
nel camp della passione ‘perversa’ o incongrua (per ragioni di genere
sessuale e di classe sociale, ma soprattutto della modalità di rappresenta-
zione della passione stessa), sembra giustificarsi per il suo rimando al-
l’attivarsi della ‘sensibilità gay’:

Such themes as these carry a special resonance for the gay sensibility.
As outsiders, we are forced to create our own norms; to impose our
selves upon a world which refuses to confront the arbitrariness of cul-
tural conventions that insist on sexual loyalty, permanence and exclu-
sive possession.1

Il che conforta il sospetto che l’argomentazione e la ricognizione stessa


di Babuscio, così come in genere di coloro che hanno letto il camp in
chiave di formazione culturale specificamente gay, siano viziate da una
sostanziale tautologia e da determinismo: il camp comprende anche
quanto escluso dalle (esuberante le) categorie di riconoscibilità, a patto
che esprima o possieda le qualità della sensibilità gay; ma in questo caso
non si capisce perché il camp non comprenda ogni forma di espressione
2
omosessuale: in breve, perché camp e omosessualità non coincidano.
L’estetismo, a sua volta, caratterizzerebbe il camp su tre livelli: “as a
view of art; a view of life; and as a practical tendency in things or per-
3
sons”. Del primo e secondo livello sarebbe massimamente rappresenta-
1
Ivi, p. 50.
2
Il cinema di Fassbinder non può essere relegato al ruolo di ‘eccezione che conferma
la regola’: esso è invece esemplare di un’intera modalità di camp. Basti pensare anche
a Brief Encounter, il film diretto da David Lean nel 1945 su sceneggiatura di Noël Co-
ward, di cui sarà realizzato un rifacimento apertamente gay nel 1990 (il cortometraggio
Flames of Passion, diretto da Richard Kwietniowski), il fulcro del quale è costituito dalla
patetica e intensa drammaticità del romance eterosessuale fugace, rassegnato e medio-
cre, che facilmente si è consegnato a una fruizione gay: “Brief Encounter […] is a text
which explores the pain and grief caused by having one’s desires destroyed by the
pressures of social convention and it is this set of emotions which has sustained its
reputation in gay subcultures”. Andy Medhurst, op. cit., p. 204. Ma si veda anche Rich-
ard Dyer, Brief Encounter, London: British Film Institute, 1993.
3
Jack Babuscio, op. cit., p. 42.
82 ESUBERANZA

tiva l’estetica e la figura pubblica di Oscar Wilde, la cui “opposition to


puritan morality” renderebbe il camp “subversive of commonly received
standards”. La lezione wildiana, peraltro, configura il camp come

assertion of one’s self-integrity – a temporary means of accomodation


with society in which art becomes, at one and the same time, an in-
tense mode of individualism and a form of spirited protest. And while
camp advocates the dissolution of hard and inflexible moral rules, it
pleads, too, for a moral of sympathy.1

Il camp è insomma sia una prassi sovversiva, sia un mezzo di negozia-


zione (di ‘accomodamento’) con la società: due affermazioni la cui appa-
rente contraddittorietà sembra trovare giustificazione qualora si aggiun-
ga alla già affrontata tesi del camp-come-strumento-di-integrazione-gay
(e Babuscio ripropone anche la tesi del ‘distacco’ camp, ma indirizzando-
2
lo polemicamente verso i “conventional standards”) la consapevolezza
della protesta che soggiace alla medesima istanza di accettazione.
L’estetismo del camp si articolerebbe quindi nella sua dimensione es-
capista, nel “movement away from contemporary concerns into realms
3
of exotic and subjective fantasies” e nel privilegio delle “sensuous sur-
faces, textures, imagery and the evocation of mood as stylistic devices”.
Questi elementi renderebbero conto della particolare consonanza che il
camp intrattiene con alcuni generi cinematografici, e in particolare con i
film horror, benché – una volta di più, si deve rinunciare alla stabilità –
non con tutti: “only those which make the most of stylish conventions for
expressing instant feeling, thrills, sharply defined personality, outrageous
and ‘unacceptable’ sentiments, and so on”. E gli esempi comprendono
lavori come Cat People (1942) di Jacques Tourner, il Dr. Jekyll and Mr.
Hyde (1932) di Rouben Mamoulian, Invasion of the Body Snatchers (1956)
di Don Siegel, The Seventh Victim (1943) di Mark Robson e The Black Cat
(1934) di Edgar G. Ulmer, vale a dire tutti quei lavori nei quali “the psy-
chological issues stated or implied, along with the sources of horror, […]
4
relate to some significant aspect of our [gay] situation and experience”.

1
Ibidem. Sull’individualismo wildiano come portatore di una radicale critica nei
confronti dello stato culturale che dell’individualismo faceva il proprio cardine è luci-
damente introduttivo Jonathan Dollimore, Sexual Dissidence, cit., pp. 8-10.
2
Jack Babuscio, op. cit., p. 42.
3
Ivi, p. 43.
4
Ibidem. Altri generi che sono particolarmente funzionali alla prospettiva camp (o
meglio, gay) qual è suggerita da Babuscio sono catalogati e discussi da Paul Roen: oltre
LE ORIGINI E ALTRE QUESTIONI 83

Al terzo livello dell’estetismo, quello della tendenza pratica in cose e


persone, il camp “emphasises style as a means of self-projection, a con-
1
veyor of meaning and an expression of emotional tone”. Esso sarebbe
cioè costitutivo di un senso di identità plausibile – a fronte di una società
che nega validità al soggetto omosessuale – attraverso le categorie stig-
matizzate, come l’eccesso, lo stile e l’apparenza (abiti, arredi ecc.) privi di
contenuto: il che renderebbe conto del perché “musical comedy, with its
high budgets and big stars, its open indulgence in sentiment, and its
emphasis on atmosphere, mood, nostalgia and the fantastic, is, along
2
with horror, a film genre that is saturated with camp”. Anche in questo
caso, è inevitabile registrare una sovrapposizione fra due categorie – esteti-
smo e humour – che denuncia nuovamente il regime di osmosi cui ap-
partengono categorie la cui finalità sarebbe invece quella di distinguere il
camp da ciò che non è tale in virtù del loro essere, in prima istanza, di-
stinguibili: se lo humour era indicato come funzionale alla definizione di
una “positive identity”, l’estetismo che presiede alla scelta di enfatizzare
il ruolo di abiti e arredi, ad esempio, sarebbe riconducibile a un “means
of asserting one’s identity, as well as a form of justification in a society
3
which denies one’s essential validity”.
Il ‘distacco’, quel distacco di cui Sontag evidenziava la matrice aristo-
cratica, caratterizzarebbe inoltre secondo Babuscio la categoria dell’este-
tismo. Esemplificando sulla pop art di David Hockney, che risulta così – a
4
differenza di quanto sosteneva Sontag – pienamente partecipe del ‘gu-
sto’ camp, Babuscio suggerisce una lettura della figura della maschera
particolarmente funzionale alla sensibilità gay:

When the world is a rejecting place, the need grows correspondingly


strong to project one’s being – to explore the limits to which one’s per-
sonality might attain – as a way of shielding the inner self from those
on the outside who are too insensitive to understand. It is also a

allo horror, il melodramma, il musical, la action adventure, la commedia, il western, il


cliffhanger serial, il J. D. film e il noir. Cfr. Paul Roen, op. cit., pp. 9-19. L’intero volume
di Roen è dedicato a una ricognizione dei maggiori esempi di queste categorie cine-
matografiche.
1
Jack Babuscio, op. cit., p. 43.
2
Ivi, p. 44.
3
Ibidem.
4
“[O]ne may compare Camp with much of Pop Art, which – when it is not just
Camp – embodies an attitude that is related, but still very different. Pop Art is more
flat and more dray, more serious, more detached, ultimately nihilistic”. Susan Sontag,
“Notes on ‘Camp’”, cit., p. 292.
84 ESUBERANZA

method whereby one can multiply personalities, play various parts, as-
sume a variety of roles – both for fun, as well as out or real needs.1

In questo senso, vale a dire come metodo attraverso il quale si può mol-
tiplicare il numero di personalità sfuggendo all’inquisizione omofobica,
2
l’estetismo si sovrappone alla quarta categoria – la teatralità. Quest’ul-
tima enfatizza quanto già accennato da Sontag, e articolato da Newton,
sul passing for straight, formulando chiaramente il principio ‘artistico’ che
presiede alla dimensione esistentiva nel closet: “[t]he art of passing is an
acting art: to pass is to be ‘on stage’, to impersonate heterosexual citizenry,
3
to pretend to be a ‘real’ (i.e. straight) man or woman”. L’esperienza del
passing – “often productive of a gay sensibility”: spesso, ma non sempre –
diviene così un acting straight, volto a preservare dal riconoscimento
pubblico la soggettività deviante rispetto ai “culturally standardised ca-
nons of taste, behaviour, speech, etc. that are generally associated with
the male and female roles as defined by the society in which we live”.
Sarebbe quest’esperienza a giustificare “the enthousiasm of so many
in our community for certain stars whose performances are highly charged
with exaggerated (usually sexual) role-playing”; in breve, a giustificare la
loro qualità camp. L’esemplificazione giunge copiosa, a investire la galle-
ria delle star di cui si diceva, divisa in due sezioni principali: quella occu-
pata da coloro che “seem (or are made to seem) fairly ‘knowing’, if not
self-parodying, in their roles”, che comprende Jayne Mansfield, Bette
Davis, Anita Ekberg nel felliniano La dolce vita, Mae West e Cesar Rome-
ro; e quella occupata da coloro che sono “apparently more ‘innocent’ or
4
‘sincere’”: e gli esempi comprendono Jane Russell, Raquel Welch, Mamie
van Doren, Jennifer Jones, Johnny Weismuller e Ramon Novarro.
L’esemplificazione, e i presupposti che la sottendono, sembra sempli-
ficare nel momento stesso in cui di fatto essa denuncia l’instabilità che era
già di Sontag, da cui proprio la Anita Ekberg de La dolce vita era indicata
come esempio di camp involontario. Il rimando alla funzionalità della
fruizione in chiave omosessuale, peraltro, implica nella stessa argomen-
tazione di Babuscio la problematicità della consapevolezza che si eviden-
ziava in Sontag, ma questa volta sul piano della fruizione:

1
Jack Babuscio, op. cit., p. 43.
2
È superfluo enfatizzare quanto questa oscillazione fra le categorie di fatto delegit-
timi la funzionalità di griglia di riconoscibilità offerta dalle stesse.
3
Ivi, p. 45.
4
Ivi, p. 46.
LE ORIGINI E ALTRE QUESTIONI 85

Finding such stars camp is not to mock them, however. It is more a


way of poking fun at the whole cosmology of restrictive sex roles and
sexual identifications which our society uses to oppress its women and
repress its men – including those on screen. This is not to say that
those who appreciate the camp in such stars must, ipso facto, be politi-
cally ‘aware’; often, they are not. The response is mainly instinctive;
there is something of the shock of recognition in it – the idea of seeing
on screen the absurdity of those roles that each of us is urged to play
with such a deadly seriousness.1

La chiave suggerita da Babuscio nell’apprezzamento dei divi e delle divi-


ne risiede principalmente in un’istintiva identificazione fra soggetto e og-
getto di fruizione, che giustifica una confusione dei piani fra realtà (il
pragma, la realtà sottesa nella finzione cinematografica) e finzione (la
narrazione cinematografica e lo statuto artificioso, innaturale, della sog-
gettività che esubera, eccede, le prescrizioni di genere). Sarebbe in tal
senso che si giustifica un clamoroso esempio, quello offerto dal culto gay
2
per Judy Garland, estremamente problematico rispetto all’assunto dell’ar-
tificiosità che presiede all’apprezzamento di matrice camp. Scrive Babuscio:

Garland’s popularity owes much to the fact that she is always, and
most intensely, herself. Allied to this is the fact that many of us seem
able to equate our own strongly-felt sense of oppression (past or pre-
sent) with the suffering/loneliness/misfortunes of the star both on and
off the screen. Something in the star’s personality allows for an empa-
thy that colours one’s whole response to the performer and the per-
formance. As Vicki Lester in Cukor’s A Star is Born (1954), but, espe-
cially, as the concert singer in Ronald Neame’s I Could Go on Singing
(1962), Garland took on roles so disconcertingly close to her real-life
situation and personality that the autobiographical connections actu-
ally appeared to take their roll on her physical appearance from one
scene to the next. Such performances as these solified the impression,
already formed in the minds of her more ardent admirers, of an integ-
rity arising directly from out of her great personal misfortunes.3

1
Ibidem.
2
Intorno al culto per Judy Garland si vedano altresì Richard Dyer, “Judy Garland
and Gay Men”, cit.; Barry Conley, op. cit.; Michael Bronski, “Judy Garland and Others:
Notes on Idolization and Derision”, in Karla Jay and Allen Young (eds.), Lavender Cul-
ture, New York, 1978; e Wade Jennings, “The Star as Cult Icon: Judy Garland”, in J. P.
Telotte (ed.), The Cult Film Experience: Beyond All Reason, Austin: University of Texas
Press, 1991, pp. 90-101.
3
Jack Babuscio, op. cit., pp. 46-47.
86 ESUBERANZA

L’apprezzamento camp, che celebra l’ablazione dell’io nelle superfici of-


ferte dalla successione interpretativa dei vari ruoli sociali (e cinematogra-
fici), trova la propria alterità legittimata come, a sua volta, camp. Judy
Garland sarebbe tale perché “she is always, and most intensely, herself”;
perché “Garland took on roles so disconcertingly close to her real-life
situation and personality that the autobiographical connections actually
appeared to take their roll on her physical appearance from one scene to
the next”; perché conferma nell’interpretazione di un ruolo cinemato-
grafico la propria condizione esistentiva e il proprio io: invece di negarne
lo statuto profondo, le interpretazioni di Garland offrirebbero l’impres-
sione “of an integrity arising directly from out of her great personal mis-
fortunes”. Il camp-come-passing, funzionale alla situazione omosessuale,
e l’identificazione fra spettatore e spettacolo, rendono così conto sia di
una prassi che abolisce l’io e la drammaticità in un eccesso di teatralità e
di finzione, sia di una prassi diametralmente opposta, che recupera la
drammaticità attraverso l’apparente derisione, e che promuove l’identi-
ficazione fra attore e situazione autobiografica (sia dell’attore stesso sia
dello spettatore, a sua volta un attore sulla scena della vita), e la integrità
di entrambi gli ‘attori’.
La tesi del camp come acting art omosessuale corrisponde a una ma-
crocategoria sulla quale convergono numerose problematiche storiche e
teoriche, ivi compresa quella della sovrapposizione – storicamente atte-
stata in modo quanto mai ampio – fra omosessualità e sensibilità artisti-
1
ca, che si è diffusa a livello di vulgata sino ai nostri giorni. Il camp in tal
senso viene fatto corrispondere a un codice segreto, il cui fondarsi sullo
eye of the beholder distingue fra chi ‘sa’ e chi ‘non sa’. Nel 1983 Philip
Core scriveva:
There are two things essential to camp: a secret within the personality
which one ironically wishes to conceal and to exploit, and a peculiar
way of seeing things, affected by spiritual isolation, but strong enough
1
Per la teatralità omosessuale come esito del passing for straight si può consultare
Kenneth Plummer, Sexual Stigma: An Interactionist Account, London: Routledge & Ke-
gan Paul, 1975, pp. 176-177, nel quale si registrava una sorta di ‘luogo comune’ che
lascia le proprie tracce nelle concettualizzazioni del camp. I rapporti fra creatività e
perversione all’interno di un quadro psicoanalitico, che ne evidenzia la correlazione
‘fondamentale’ in termini di dimensione psichica essenziale, sono invece l’oggetto di
Janine Chasseguet-Smirgel, Creativity and Perversion, London: Free Association, 1985.
Fortemente critico nei confronti della prospettiva freudiana sulla correlazione essen-
ziale fra creatività e perversione sono invece Jonathan Dollimore, Sexual Dissidence,
cit., e Alan Sinfield, The Wilde Century, cit.
LE ORIGINI E ALTRE QUESTIONI 87

to impose itself on others through acts or creations. Camp depends on


where as well as how you pitch it. In some senses it is in the eye of the
beholder. While their motives may be clear to the camp, their resultant
actions remain marked but mysterious to the observer. While camp is
now often a joke or pose among gays, it is not without serious value
because it originated as a Masonic gesture by which homosexuals
could make themselves known to each other during periods when
homosexuality was not avowable. Besides being such a signal, camp
was and remains the way in which homosexuals and other groups of
people with double lives can find a lingua franca.1

Benché l’omosessualità sia anche qui indicata come il principale regime


d’esistenza del camp, l’accento si sposta però sul camp come linguaggio,
come codice e lingua franca – “an instrument at once revealing and de-
2
fensive” – per persone con un segreto “which one ironically wishes to
conceal and to exploit”, e con una doppia vita.
Prima di procedere all’esame dei limiti insiti nel camp come codice-
per-persone-dalla-doppia-vita, è opportuno segnalare due problemi evi-
denziabili in relazione a quanto già osservato nelle pagine precedenti. In
primo luogo, è evidente la frizione fra questa ipotesi e quella del camp-
come-ostentazione-dell’omosessualità che appariva nelle parole del te-
stimone di Newton, e che si evidenziava già nel capitolo 1. In seconda
battuta, va poi registrata la contraddizione insita nel collocare la ‘serietà’
del camp nella sua valenza ‘massonica’ per la soggettività omosessuale
covert, mentre al tempo stesso la tesi della passing art implica – lo si è vi-
sto in Babuscio – una strategia di integrazione nella società eterosessuale
e, soprattutto, eterosessista, fondata cioè su un modello comportamenta-
le – costitutivo della soggettività ‘appropriata’ – che prevede la promo-
zione di una eterosessualità ‘compulsiva’. Ciò era quanto evidenziava
negli stessi anni Vito Russo a partire dalla tesi del camp-come-passing,
ossia dalla ‘visione duplice’ nei confronti della cultura che spingerebbe il
3
soggetto omosessuale verso una “camp expression”. Se infatti, a partire

1
Philip Core, op. cit., p. 9. Nei medesimi termini si è espresso Joseph Goodwin: in
quanto mezzo volto a discriminare chi appartiene a un medesimo gruppo sociale, il
linguaggio camp – o “gay argot” – è una forma di comunicazione esoterica, così come
altri aspetti del “gay folklore” analogamente basati su una “shared and secret knowle-
dge”. Joseph P. Goodwin, More Man than You’ll Ever Be: Gay Folklore and Acculturation
in Middle America, Bloomington: Indiana University Press, 1989, p. 29.
2
Philip Core, op. cit., p. 9.
3
Vito Russo, “Camp”(1976), in Martin P. Levene (ed.), Gay Men: The Sociology of
Male Homosexuality, New York: Harper & Row, 1979, p. 208.
88 ESUBERANZA

dalle medesime premesse, nel 1984 Michael Bronski avrebbe potuto so-
stenere – in polemica con Sontag – non solo una valenza politica bensì
1
persino progressista del camp, per Russo il camp come formazione cul-
turale omosessuale covert rimane fondamentalmente apolitico, poiché
chiude l’eversività in un ‘ghetto’ comunicativo:

because it deals only frivolously with the roles we’ve been assigned
and entails no criticism of them, [camp] is totally apolitical. Even con-
scious ‘camping’ cannot be used politically, because that would mean
opening the ranks to the masses to achieve a wide understanding and
destroy the sensibility. Usually when this happens, the sensibility be-
comes a marketable ‘idea’ functioning in an entirely different sense.2

La frivolezza e il disimpegno indicati da Sontag – il camp come stru-


mento di accettazione da parte della società borghese – sono riproposti
nel medesimo passaggio in cui è evidente l’allusione polemica all’appro-
priazione eterosessuale promossa da quell’intervento, che indicava già i
rischi del trasformare una ‘sensibilità’ in una ‘idea’ qualora la si articolasse
razionalmente a beneficio dei più. L’unico modo di utilizzare politica-
mente il camp sarebbe dunque secondo Russo quello di distruggerlo nel-
la sua intima essenza di codice esoterico – ma l’esperienza di Sontag a-
vrebbe rivelato come da questa operazione si sia prodotta una moda cul-
turale più che uno strumento politico. La segretezza del codice camp, in
quanto limite politico, andrebbe di pari passo con la sua configurazione
come strategia di performance e fruizione gay (qual è stata affrontata at-
traverso Newton e Babuscio), che prevede un’identificazione fra soggetto
e oggetto in quanto ugualmente portatori dello stigma dell’innaturalità:
“[i]f, however, the essence of camp is its love of the unnatural […], the
more ‘natural’ gay people become vis-à-vis society, the less likely we are
to use camp as a means of communication or to be seen as camp figures.
3
With the surfacing of gay people, the need for a ‘code’ will disappear”.

1
“Because it has been used by gay people as a means of communication and sur-
vival, camp is political. And because it contains the possibility of structuring and en-
couraging limitless imagination – to literally create a new reality – it is not only politi-
cal, but progressive”. Michael Bronski, op. cit., p. 43. Sull’inconsistenza della logica che
deriva la qualità progressista dall’esercizio di una “limitless imagination” non è neces-
sario soffermarsi. I suggerimenti più sostanziosi nella direzione di un camp di per sé
progressista saranno esaminati nel corso della Seconda Parte.
2
Vito Russo, op. cit., p. 208.
3
Ivi, p. 210. L’affermazione di Russo va inquadrata all’interno delle riflessioni pro-
mosse dall’attivismo gay degli anni Settanta, che in buona misura (benché non nella
LE ORIGINI E ALTRE QUESTIONI 89

L’affermazione di Russo sottolinea i limiti politici insiti nell’accetta-


zione dello stigma, che sarebbero inscindibili dal camp come strategia di
1
integrazione gay. È paradossale, tuttavia, che il camp come strategia in-
tegrativa vada abbandonato in favore di una posizione più antagonista
che coincide del resto con l’integrazione sotto l’egida della naturalezza
(“the more ‘natural’ gay people become vis-à-vis society…”), e che l’inte-
grazione del camp sia equiparata a un processo di ghettizzazione e di
comunicazione clandestina. Questo per evidenziare come rimanga un’irri-
solta ambiguità pur nella relativa chiarezza che sembra offerta dalla tea-
tralità camp in quanto codice discriminante fra iniziati ed esclusi.
Quali che siano le sue (contraddittorie) implicazioni in chiave di poli-
tica culturale, la tesi della acting art risulta di per sé ambigua. Essa, è vero,
sarebbe confortata dall’utilizzo, all’interno della sottocultura omosessua-
le, del femminile – pronome, o nome proprio – per riferirsi a soggetti tra-
2
vestiti (in termini vestimentari, o più latamente psicologici). Questa
prassi può essere ricondotta al paradigma della teatralità in una duplice
chiave: quella dell’omologazione della persona al suo ruolo (l’uomo en
travesti è dunque una ‘donna’), oppure al passing for straight. Nelle parole
di Michael Bronski,

What is sometimes referred to as ‘camp talk’ – especially gay men re-


ferring to one another with women’s names and pronouns – evolved
as a coded, protected way of speaking about one’s personal or sexual
life. If one man were to be overheard at a public dinner table saying to

loro totalità) hanno decretato l’obsolescenza del camp come strategia di affermazione
omosessuale. Vito Russo si è del resto imposto fra i maggiori storici del cinema omo-
sessuale – fra i suoi lavori il fondamentale The Celluloid Closet: Homosexuality in the
Movies, New York: Harper & Row, 1981, da cui è stato tratto nel 1995 un film diretto
da R. Epstein e J. Friedman – in una fase in cui interessarsi di rappresentazione omo-
sessuale, ancor più che oggi, significava automaticamente avere un ruolo attivista.
1
Significativamente Babuscio osservava, in relazione allo stigma dell’innaturalità, la
sua assunzione da parte del soggetto gay, vale a dire l’accettazione della rappresenta-
zione che il dominante offre del dominato nella pratica di propria legittimazione in
quanto dominante: “[b]ecause masculinity and femininity are perceived in exclusively
heterosexual terms, our social stereotype (and often, self-image) is that of one who
rejects his or her masculinity or femininity”. Jack Babuscio, op. cit., p. 45. E in modo
ancor più esplicito Babuscio osserva che l’umorismo camp sia “squarely based on the
tacit acceptance of the hegemony of heterosexual institutions”. Ivi, p. 48.
2
Bruce Rodgers riporta diffusamente questo utilizzo di nomi femminili nel suo
“camp thesaurus”. Cfr. Bruce Rodgers, op. cit., passim. Si confronti anche supra la nota
2 a pagina 73.
90 ESUBERANZA

another: “You’ll never guess what Mary said on our date last night”,
nothing would be thought of it.1

In questo senso sarebbe dato leggere, ad esempio, quell’invito alla co-


municazione indiretta che nel 1955 – in pieno regime cioè di omosessua-
lità covert – W. H. Auden formulava in “The Truest Poetry is the Most
Feigning”:

If half-way thorugh such praises of your dear,


Riot and shooting fill the streets with fear,
And overnight as in some terror dream
Poets are suspect with the New Regime,
Stick at your desk and hold your panic in,
What you are writing may still save your skin:
Re-sex the pronouns, add a few details,
And, lo, a panegyric ode which hails
(How is the Censor, bless his heart, to know?)
The new pot-bellied Generalissimo.2

L’invito a travestire il destinatario della scrittura poetica, in questo caso, è


3
dal femminile (“your Beatrice”) al maschile del “new pot-bellied Gene-
ralissimo”. Il componimento, tuttavia, si è offerto per ovvie ragioni – non
ultima, l’omosessualità dell’autore – a una decodifica che leggeva nel re-
sexing the pronouns un travestimento di secondo grado: dal femminile
della Beatrice audeniana al maschile del Generalissimo, e dal maschile
dell’oggetto di desiderio omosessuale al femminile legittimato dalla so-
4
cietà censoria del desiderio stesso. Il clima di terrore, e il sospetto del
“New Regime” nei confronti dei poeti, possono plausibilmente essere
letti come rappresentazione indiretta – quella rappresentazione indiretta,
5
“subtle, various, ornamental, clever”, ossia most feigning che il brano pro-
muove, paradossalmente, come indicativo di una pratica autenticamente
poetica – del regime di repressione (o di gestione marginalizzante all’in-
segna dello stigma) che la società britannica della prima parte del secolo

1
Michael Bronski, op. cit., p. 43.
2
W. H. Auden, “The Truest Poetry is the Most Feigning” (1955), in Collected Shorter
Poems 1927-1957, London: Faber and Faber, 1966, p. 315.
3
Ibidem.
4
Questa è la lettura che Alan Sinfield offre in Literature, Politics and Culture in Po-
stwar Britain, Oxford: Basil Blackwell, 1989, pp. 67-68, e che riprende in Cultural Poli-
tics–Queer Reading, cit., pp. 60-61.
5
W. H. Auden, op. cit., p. 315.
LE ORIGINI E ALTRE QUESTIONI 91

decretava nei confronti del soggetto omosessuale, costretto così al re-sexing


pronominale fra le numerose pratiche volte a ‘passare’ per eterosessuale.
Nel medesimo senso di cui il testo audeniano sarebbe evidente rap-
presentazione letteraria il linguaggio camp si sovrappone – come ha sug-
gerito nel 1977 Jeffrey Weeks – al Polari, il linguaggio usato a metà Otto-
cento dalle compagnie dei teatranti girovaghi e dei vagabondi, che sarebbe
in parte sopravvissuto sotto forma di elementi di uno slang altamente
esoterico, “known only to a few homosexuals”, mentre “a large number of
1
words are absorbed into the daily vocabulary of homosexuals”. Al livello
esoterico superiore trovano spazio parole come bona (‘buono’, ‘attraen-
te’), varda (‘guarda’), omee (‘uomo’) e polonee (‘donna’); sul piano più vul-
gato del codice, significativamente, si colloca proprio la sovraestensione
2
del femminile – come ad esempio in Marianne, Nancy, auntie e queen – che
si è vista invocata come legittimazione del camp quale codice di passing.
La stabilità offerta dal camp-come-codice (codice linguistico, o più la-
tamente vestimentario e gestuale), e quella correlata della teatralità come
funzione del passing, risultano tali se rimandano a un rapporto definito –
e in ultima analisi univoco – fra interno ed esterno, superficie e profondi-
tà. Il codice è gestibile se l’elemento apparente (il significante) presup-
pone la propria ‘finzione’ in chiave univocamente riferita a una verità (il
significato) mascherata; la teatralità come funzione del passing presup-
pone un’analoga univocità tra la maschera pubblica (la soggettività ete-
rosessuale) e la reale identità (la soggettività eversiva) celata, che solo chi
detiene il codice esoterico è in grado di decodificare. Questa duplice ma
congruente stabilità si scontra peraltro con la complessità del rapporto
interno/esterno e apparenza/profondità, e delle implicazioni di quest’ul-
timo in termini di politica culturale, che la pratica del drag, nella sua spe-
cifica chiave camp, offre alla ricognizione di Newton. Il travestitismo
camp (linguistico e/o vestimentario) può infatti configurare il codice eso-
terico come innaturale, accettando lo stigma sociale, la ghettizzazione e il
disimpegno che si sono visti essere addebitabili in modo esplicito dai de-
1
Jeffrey Weeks, Coming Out, cit., p. 42. Il Polari, che appare anche nella forma palari
o parlari, sarebbe derivato dal Parlyaree, intorno al quale è ancora valido Eric Partri-
dge, “Parlyaree: Cinderella among Languages”, in Here, There and Everywhere, Lon-
don: Hamish Hamilton, 1948, pp. 116-125. Una buona introduzione al Polari è offerta
in Ian Hancock, “Shelta and Polari”, in Peter Trudgill (ed.), Language in the British Isles,
Cambridge: Cambridge University Press, 1984, pp. 384-403; utili sono anche Peter
Burton, “The Gentle Art of Confounding Naffs: Some Notes on Polari”, Gay News,
120, 1979, p. 23, e Keith Howes, op. cit., pp. 627-628.
2
Jeffrey Weeks, Coming Out, cit., p. 42.
92 ESUBERANZA

trattori, oppure fra le pieghe discorsive degli interventi apologetici. Al


tempo stesso, il travestitismo può assumere valore critico nel momento
in cui esso è spinto a veicolare uno statuto di artificiosità sui ruoli sessuali
in genere, ivi compresi quelli eterosessuali di ‘uomo’ e ‘donna’:

Ultimately, all drag symbolism opposes the ‘inner’ or ‘real’ self (subjec-
tive self) to the ‘outer’ self (social self). […] Thus drag in the homosex-
ual subculture symbolizes two somewhat conflicting statements con-
cerning the sex-role system. The first statement symbolized by drag is
that the sex-role system really is natural: therefore homosexuals are
unnatural […]. The second symbolic statement of drag questions the
‘naturalness’ of the sex-role system in toto; if sex-role behavior can be
achieved by the ‘wrong’ sex, it logically follows that is is in reality also
achieved, not inherited, by the ‘right’ sex. Anthropologists say that sex-
role behavior is learned. The gay world, via drag, says that sex-role be-
havior is an appearance; it is ‘outside’. It can be manipulated at will.1

Le modalità di accettazione dello stigma, del camp cioè come pratica acriti-
ca di integrazione gay attraverso la costituzione di un ghetto, o di affer-
mazione di quest’innaturalità totalizzante, vale a dire della portata critica
(se non sovversiva) del travestitismo camp, a loro volta, sono ambigue,
irriducibili nella loro duplicità a una qualsiasi univocità (quella che nello
specifico assume il rapporto fra i piani della ‘doppia vita’ come stabile):

Drag symbolizes both these assertions in a very complex way. At the


simplest level, drag signifies that the person wearing it is a homosex-
ual, that he is a male who is behaving in a specifically inappropriate
way, that he is a male who places himself as a woman in relation to
other men. In this sense it signifies stigma. At the most complex, it is a
double inversion that says ‘appearance is an illusion’. Drag says, ‘my
“outside” appearance is feminine, but my essence “inside” [the body]
is masculine’. At the same time it symbolizes the opposite inversion:
‘my appearance “outside” [my body, my gender] is masculine but my
essence “inside” [myself] is feminine’.2

Di fianco alle sue valenze di pratica che accetta lo stigma, il travestitismo


implica (o meglio, può implicare) una doppia inversione, che rimanda ai
diversi piani dell’opposizione interno/esterno ed esteriorità/interiorità.
Ma anche nel correlato ontologico del drag, peraltro, vale a dire nella tea-
tralità camp come passing art, non è illegittimo far corrispondere all’este-
1
Esther Newton, op. cit., pp. 100, 103.
2
Ivi, p. 103.
LE ORIGINI E ALTRE QUESTIONI 93

riorità del travestimento psichico, gestuale e linguistico un’interiorità,


quella omosessuale, che a sua volta si costituisce – in quanto soggettività
inautentica, priva dello spessore ontologico nel quale si riconosce la sog-
gettività borghese (si confronti quanto osservato nel capitolo 1 a proposi-
to del virtuosismo del Cardinal Pirelli firbankiano) – come esteriorità che
conduce a un’interiorità assente.
Interno ed esterno, superficie e profondità si inseguono in un gioco di
mise en abyme, in una successione potenzialmente indefinita di relazioni
in ultima analisi superficiali e reversibili, il che rende instabili proprio i
fattori invocati come elementi di stabilizzazione del camp: il codice, de-
potenziato della sua caratteristica di univocità (e dunque di gestibilità),
sia pur arbitraria; il paradigma della teatralità camp come acting art; e in-
fine le implicazioni in chiave di politica culturale che si sono sopra ac-
1
cennate. È infatti a partire da questo gioco di mise en abyme, e dalla so-
stanziale irrisolutezza delle implicazioni del drag, che Carole-Anne Tyler
ha potuto negli anni più recenti suggerire che il camp sia sovversivo
dell’identità borghese, dei suoi fondamenti ontologici e del suo orizzonte
epistemico, e in quanto tale consegnarsi quale strumento progressista
funzionale a chi è escluso dall’orizzonte stesso, e che al tempo stesso pos-
sa risultare uno strumento apolitico e disimpegnato il quale conferma il
2
fondamento ontologico, l’orizzonte epistemico e la stigmatizzazione.
Questa irrisolutezza delle implicazioni del drag, chiaramente, può es-
sere ridotta radicalmente qualora si prediliga la prima implicazione: che
l’esteriorità sia manipolabile a piacimento, e che l’omosessuale si collochi
in una posizione incongrua, di per sé ‘innaturale’. Il passing può essere
inteso come maschera che cela un’autenticità, restaurando così stabilità
all’origine del camp-come-passing art e univocità al codice. L’argomen-
tazione di Babuscio, e più in genere dei teorici ‘aproblematici’ del camp-
come-passing, sembra rimandare infatti a un essenzialismo e a un’auten-

1
Si confrontino le letture che si sono offerte in questo lavoro, a partire dalla questio-
ne della teatralità, in relazione al Cardinal Pirelli di Ronald Firbank (nel capitolo 1), a
Sunset Boulevard di Billy Wilder (nel capitolo 2), e all’audeniano “The Truest Poetry is
the Most Feigning”: tutti e tre gli esempi propongono questo gioco di mise en abyme, di
confusione irriducibile fra realtà e finzione, più che una definizione ultima dei rapporti
fra verità e finzione (recitazione). La questione sarà ripresa e articolata mggiormente
nel corso della Seconda Parte.
2
Cfr. Carole-Anne Tyler, “Boys Will Be Girls: The Politics of Gay Drag”, in Diana
Fuss (ed.), Inside/Out: Lesbian Theories, Gay Theories, New York: Routledge, 1991, pp.
32-70. Su queste posizioni si colloca esplicitamente anche Alan Sinfield, The Wilde
Century, cit., pp. 176-212.
94 ESUBERANZA

ticità del soggetto gay (e della sua ‘sensibilità’). Un’autenticità non di-
chiarata, e in frizione del resto con l’apologia camp dell’artificiosità intesa
quale strategia di costituzione di un’identità polemica a fronte di un pro-
cesso di delegittimazione da parte della cultura dominante. È in questa
chiave che si giustifica infatti la contraddittorietà insita nell’indicare nel
camp tanto un codice per persone dalla doppia vita quanto, nelle parole
di Babuscio, una “assertion of one’s self-integrity”.
Due modalità ontologiche reciprocamente esclusive – integrità dell’io,
e duplicità dello stesso – possono insomma essere spinte non solo a con-
vivere, ma persino a fondarsi l’un l’altra. L’instabilità preclusa dalla scelta
di cui sopra (la prima delle implicazioni potenziali), ritorna a scardinare
l’univocità del codice, e a riproporre con clamorosa evidenza l’esube-
ranza del camp sia come corpus di riferimento sia in prospettiva teorica,
perché, come ha sostenuto Richard Dyer, il camp-come-sensibilità gay
“holds together qualities that are elsewhere felt as antithetical: theatrica-
lity and authenticity […] intensity and irony, a fierce assertion of extreme
1
feeling with a deprecating sense of its absurdity”. La considerazione di
Dyer prende le mosse dal caso del culto gay per Judy Garland, di cui si è
visto sopra il profilo problematico in chiave di modalità esistentive del
camp, dello statuto del soggetto (teatrale, artificioso, ma anche assolu-
tamente autobiografico), del paradossale rapporto del camp con la serie-
tà (presupposta e al contempo erosa, detronizzata e al contempo riaffer-
mata), e della paradossalità insita nella raison d’être della fascinazione per
Garland del soggetto gay. Quelle indicate sono dunque senz’altro quali-
ties del camp, è vero, ma sono soprattutto dei campi di possibilità, e degli
elementi di definizione – o, nel caso specifico, di assenza di definizione.
La tesi del camp-come-passing art, a ogni modo, non sopravvive se
giustapposta allo stesso travestitismo del drag nelle sue specifiche valen-
ze di visibilità. La drag queen, infatti, è tale solo se il gioco di travestimen-
to è riconoscibile, se cioè risultano ad un tempo ostentati i segni di fem-
minilità e il sesso biologico maschile; questa è del resto la condizione
d’essere delle duplici implicazioni evidenziate da Newton. Si potrebbe
ribattere immediatamente che nella fase clandestina dell’omosessualità
(vale a dire, fino alla fine degli anni Sessanta) la visibilità della drag queen
era limitata, per così dire circoscritta entro il ‘cordone sanitario’ della sfe-
ra sottoculturale cui era confinata, e che ciò preserva dunque la validità
(peraltro già minata dalle considerazioni che precedono) del modello di
1
Richard Dyer, “Judy Garland and Gay Men”, cit., p. 154.
LE ORIGINI E ALTRE QUESTIONI 95

1
camp in quanto codice esoterico. Ciò di cui il modello non rende assolu-
tamente conto, però, è la perpetuazione della pratica stessa nella fase suc-
cessiva, quando cioè l’omosessuale avrebbe adottato quale strategia di
confronto con la cultura dominante, e quale strategia di lotta per i diritti
civili, l’esibizione di un travestitismo ostentato e irridente, di pari passo
alla costituzione di un’omosessualità all’insegna degli indici di naturali-
2
tà. Proponendosi sulla scena pubblica in quanto soggetto travestito, in-
naturale, stigmatizzato e stigmatizzabile, e proprio per questo intento a
promuovere una contestazione degli assunti dello stigma, la drag queen
contemporanea ha un effetto immediato di delegittimazione nei con-
fronti del camp inteso primariamente come una passing art.
Quanto alla convergenza fra teatralità, ‘sensibilità artistica’ e omoses-
sualità che è stata ascritta al medesimo paradigma del acting straight se
non a una totalmente insondabile ‘predisposizione innata’ alla creatività,
una possibile chiave di lettura è quella, derivata da Sontag, che indica nel
camp la strategia di integrazione – di parziale legittimazione, all’insegna
dell’intrattenimento e della futilità – nella società borghese, poiché, nelle
parole di Dyer, “[m]astery of style and wit has been a way of declaiming
3
that gays have something distinctive to offer society”:

Gay men have made certain ‘style professions’ very much theirs (at any
rate by association even if not necessarily in terms of the numbers of
gays actually employed in these professions) – hairdressing, interior
decoration, dress design, ballet, musicals, revue. These occupations
have made the life of society as a whole more elegant and graceful, and
the show-biz has provided the world at large with many pleasant eve-
nings. At the same time hairdressing, interior decoration and the rest
are clearly marked with the camp sensibility – they are style for style’s
sake, they don’t have ‘serious’ content (a hairstyle is not ‘about’ any-
thing), they don’t have a practical use (they’re just nice), and the actual
forms taken accentuate artifice, fun and occasionally outrageousness –
[…] all the paraphernalia of a camp sensibility that has provided gay
men with a certain legitimacy in the world.4

1
Anche questa risposta si affida a una lettura quanto mai riduttiva della questione
della ‘visibilità’ omosessuale nella prima parte del secolo.
2
La presa di coscienza del camp e del drag come strategia politica negli Stati Uniti
nel corso degli ultimi quindici anni costituisce il motore della rilettura del fenomeno
operata fra gli altri da Moe Meyer, di cui si dirà nelle prossime pagine.
3
Richard Dyer, “It’s So Camp as Keeps Us Going”, cit., p. 138.
4
Ibidem.
96 ESUBERANZA

Questa chiave rifiuta di fornire una ragione, se non circostanziale (stru-


mentale all’accettazione da parte del potere costituito), alla convergenza
di creatività (anche quella ‘alta’), dimensione teatrale dell’essere e omo-
sessualità; e Alan Sinfield ha peraltro rilevato efficacemente la loro im-
mediata contraddittorietà:

An essential link between homosexuality and theater is sometimes


proposed, but the project eludes precise definition. […] [W]hile all
people play social roles, homosexuals are likely to be aware of ‘passing’
[…]. This may be true for some discreet homosexuals, but such acting
and drama are precisely not like theater, where the audience is ex-
pected to appreciate that a performance is taking place. More often,
and in contradiction to the ‘passing’ theory, homosexuals are simply
supposed to be histrionic, flamboyant.1

Anche in questa sfera la teatralità omosessuale oscilla fra l’atto di finzio-


ne e la teatralità istrionica – di chiara matrice camp – che ostenta la (pro-
pria) finzione, e che presuppone il riconoscimento di tale dato prima anco-
ra che che l’efficacia della performance d’inganno (il passing for straight).
L’ambiguità del rimando alle intenzioni del performer esemplificata so-
pra dall’inclusione di Anita Ekberg in entrambe le categorie di camp (vo-
lontario e inconsapevole) è insomma un’ambiguità che investe l’intera
categoria di teatralità qual è proposta da Newton, Babuscio e in genere
dai teorici del camp-come-passing: la finzione, l’innaturalezza, l’artificio
esibiti, ostentati, flaunted, sono sovrapposti con la finzione di naturalezza
premiata da successo (il passing). Sinfield consegue da questa contraddi-
zione che il legame fra teatro e omosessualità sia solo un effetto contin-
gente, culturalmente costruito, della “mundane fact that theater and illi-
2
cit sexual activity are likely to occupy the same inner-city territory”,
3
condivisione di territorio attestata almeno dalla fine del secolo scorso.
Benché meno ‘appagante’ – nel suo antideterminismo – le ansie di riso-
luzione, Sinfield privilegia insomma un’approccio materialista alla que-
stione, che non fornisce un dato ontologico fondativo al perché la legitti-

1
Alan Sinfield, “Private Lives/Public Theater: Noël Coward and the Politics of Ho-
mosexual Representation”, Representations, 36, Fall 1991, p. 43.
2
Ivi, p. 44.
3
Nella sua affermazione Sinfield si affida a Rupert Croft-Cooke, Feasting with Pan-
thers: A New Consideration of Some Late Victorian Writers, London: W. H. Allen, 1967,
pp. 264-270; Harford Montgomery Hyde, op. cit., pp. 229-233; Jeffrey Weeks, Coming
Out, cit., p. 37; e a Peter Burton, Parallel Lives, London: GMP, 1985, pp. 28-29.
LE ORIGINI E ALTRE QUESTIONI 97

mità delle pratiche omosessuali si sia concentrata nei medesimi territori


urbani che ospitavano i teatri – e la loro eccentrica popolazione.
La proposta di Sinfield può essere del resto criticata poiché non forni-
sce una ragione al “mundane fact that theater and illicit sexual activity
are likely to occupy the same inner-city territory”. Questo mundane fact, a
sua volta, potrebbe infatti essere il risultato di una convergenza ‘intrinse-
ca’ fra teatro, teatralità/artisticità e pratica sessuale eversiva. Ma sembra
senz’altro preferibile una chiave che operi a partire dalla tipizzazione, nel
secondo Ottocento, dell’omosessuale-come-invertito – anima muliebris in
corpore virili inclusa – che investiva su quest’ultimo le prerogative cultu-
rali della sfera femminile, fra cui (inestricabile dallo svilimento che essa
comporta se intesa a una marginalizzazione dal potere nel pragma) la
creatività. Come ha sostenuto altrove lo stesso Sinfield, la correlazione
fra omosessualità e creatività artistica è precisamente collocabile in senso
1
storico: essa sarebbe cioè da ricondursi alla costruzione culturale otto-
centesca dell’arte come prerogativa del soggetto femminile (cui si oppo-
neva la prerogativa maschile nell’extrafinzionale), e alla intersezione di
questo costrutto con quello dell’omosessuale come soggetto effeminato,
che si avrà modo di discutere oltre in relazione alla figura di Oscar Wilde,
l’esito dei processi al quale nel 1895 fu di ratificare presso l’opinione
pubblica tale intersezione – in breve, lo stereotipo dell’omosessuale co-
me soggetto ‘artistico’, decadente, estetizzante, istrionicamente e aristo-
craticamente improduttivo (cfr. la sezione 9.2).
La configurazione del territorio cittadino in quanto spazio di esistenza
legittima dell’eversività sessuale può risultare in tal senso l’effetto a sua
volta di un processo di costruzione culturale, che lo segnalava come
l’unico spazio ‘appropriato’ per soggetti così ‘intrinsecamente’ costituiti.
Un suggerimento di quest’ordine, è chiaro, suggerisce una direzione di
ricerca, una serie di questioni aperte, più che una ragione fondativa. La-
sceremo per il momento la serie di questioni così irrisolta, per avvicinare
ulteriormente la configurazione politica oltre che estetica del camp – per
definire cioè le modalità di tale irrisolutezza, ossia per (ri)definire il camp
nel suo complesso.

1
Alan Sinfield, The Wilde Century, cit., pp. 84-85.
Parte Seconda

Tirando le fila
4

Le origini e altre questioni –


ulteriori alterità

La parte precedente si è chiusa con l’ipotesi materialista di Alan Sinfield


sulle intersezioni fra teatro e omosessualità, offerta quale risposta esem-
plare all’elusività di un principio ‘intrinseco’ nel correlarsi dei due fattori,
e alla contraddittorietà della tesi del passing. La risposta di Sinfield pre-
suppone peraltro un riconoscimento della irriducibile instabilità dell’ori-
1
gine omosessuale del camp, e una sua radicale messa in crisi. La stessa
Esther Newton, vent’anni dopo la pubblicazione dell’intervento che pro-
muoveva uno sguardo al camp come passing art, ha avuto modo di soste-
nere con lucidità una tesi che si è andata avvicinando all’antidetermini-
smo di Sinfield. Quanto sembra registrabile, in definitiva, è una conver-
genza – priva di carattere fondativo – fra omosessualità e arti performative:

Historically, there has been a fundamental attraction between per-


forming arts and gay people which has shaped these arts and the
evolving gay subculture in Europe and America. Camp/theatrical sen-
sibility sprang from the anti-Puritanism of the Elizabethan and Resto-
ration London theatrical scene and the underground world of prostitu-
tion, and descended through the late nineteenth-century Symbolist
and Aesthetic movements as represented (especially in the English-
speaking world) by the life and work of Oscar Wilde. The camp/thea-
trical sensibility is associated with the greater dramatism and more ex-
pressive gender roles of the upper and lower classes, as opposed to the
restraint – not to say dullness – of middle-class domestic life. It sided with

1
Non è irrilevante sottolineare come Sinfield sia dichiaratamente gay, e senz’altro
fra i più significativi critici all’interno dei gay studies angloamericani (cfr. il mio, già
citato, “‘Oscar Wilde’ e i materialisti. Appunti sulla scena critica radicale in Gran Bre-
tagna”). Ciò libera il campo da eventuali accuse di ‘espropriazione’ del camp dal suo
spazio originario e legittimo di circolazione, da parte della cultura dominante e specifi-
camente eterosessuale/eterosessista.
102 TIRANDO LE FILA

anti-bourgeois royalism and also with the demi-monde.1

Al di là del sommario profilo storico proposto, sul quale si avrà modo di


tornare, quello che risulta interessante è ancora una volta la specificità
dello statuto attribuito al camp.
Newton ripropone, è vero, la nozione di ‘sensibilità’, ma questa è ri-
formulata come camp/theatrical sensibility, quella sensibilità che risulterebbe
“the historic core of gay male camp” e – novità non da poco rispetto agli
interventi degli anni Settanta – “cousin to lesbian butch/femme identi-
2
ties”. Se il modello per la soggettività gay maschile è Oscar Wilde, quel-
1
Esther Newton, “Conviviality and Camp” (1993), cit., pp. 84-85. L’intervento è de-
dicato al Cherry Grove, una sorta di ‘oasi’ per la comunità omosessuale statunitense
già durante gli anni Cinquanta, costituitasi interamente in accordo alla modalità esi-
stentiva e alla ritualità di aggregazione di chiara matrice camp.
2
Ivi, p. 85. Nel testo del 1972, coerentemente alla prospettiva che avrebbe dominato
gli interventi critici per oltre vent’anni in modo totalizzante, e in modo parziale fino ai
giorni nostri, Newton registrava la sostanziale assenza del lesbismo nel camp: la rap-
presentazione teatrale di The Killing of Sister George, da cui sarà tratta la versione cine-
matografica di Robert Aldrich già citata, ospitava una figura lesbica la quale si configu-
rava come “a very rare bird, a lesbian camp” (presenza eccezionale, del resto confinata
a una nota di rimando a piè di pagina, e, significativamente, opera di un autore teatra-
le di sesso maschile, Frank Marcus). Esther Newton, Mother Camp, cit., p. 100n1.
Quanto alle “’butch/femme identities” cui fa riferimento Newton, l’opposizione fra
butch e femme rinvia all’assunzione – in accordo alla logica del drag – dei ruoli di genere
(mascolini, e femminili) attorno ai quali si sono andate polarizzando le identità lesbi-
che. Per un’eccellente lettura dell’opposizione medesima, che la registra in relazione al
camp, si veda senz’altro Sue-Ellen Case, “Toward a Butch-Femme Aesthetic”, Discour-
se, XI, 1, Fall/Winter 1988-89, pp. 55-73. Altri lavori che investigano la sovrapposizione
di formazione culturale lesbica e di camp si sono incentrati primariamente sul cinema
e sulla musica popolare. Si confronti a ogni modo lo sparuto (se paragonato a quello
sul camp maschile) numero di interventi, tutti peraltro apparsi negli anni Novanta:
Danae Clark, “Commodity Lesbianism”, Camera Obscura, 25-26, January/May 1991,
pp. 181-201; Kate Davy, op. cit.; Cynthia Morrill, op. cit.; June L. Reich, “Genderfuck:
The Law of the Dildo”, Discourse, XV, 1, 1992, pp. 112-127; Andrea Weiss, Vampires
and Violets: Lesbians in the Cinema, London: Cape, 1992; Lynda Hart and Peggy Phelan
(eds.), Acting Out: Feminist Performances, Ann Arbor: University of Michigan Press,
1993 (in particolare Kate Davy, “From Lady Dick to Ladylike: The Work of Holly
Hughes”, pp. 55-84, e Lynda Hart, “Identity and Seduction: Lesbians in the Main-
stream”, pp. 119-137); Patricia J. Smith, “‘You Don’t Have to Say You Love Me”: The
Camp Masquerades of Dusty Springfield”, in David Bergman (ed.), op. cit., pp. 185-
205; Teresa De Lauretis, The Practice of Love: Lesbian Sexuality and Perverse Desire,
Bloomington: Indiana University Press, 1994; Diane Hamer and Belinda Budge (eds.),
The Good, The Bad and the Gorgeous: Popular Culture’s Romance with Lesbianism, Lon-
don: Pandora, 1994 (in particolare Rosa Ainley and Sarah Cooper, “She Thinks I Still
Care: Lesbians and Country Music”, pp. 41-56; Sonya Andermahr, “A Queer Love
Affair? Madonna and Lesbian and Gay Culture”, pp. 28-40; Rosanne Kennedy, “The
Gorgeous Lesbian in LA Law: The Present Absence?”, pp. 132-141; e Yvonne Tasker,
ULTERIORI ALTERITÀ 103

lo offertosi a queste identità sarebbe rappresentato da Marguerite Rad-


clyffe Hall, l’autrice di quel The Well of Loneliness la cui pubblicazione aveva
nel 1928 dato luogo a un caso giudiziario per la sua diretta rappresenta-
1
zione del lesbismo. L’inserimento di un aggettivo come theatrical, in so-
stituzione del gay che caratterizzava la formula precedente, produce un
significativo spostamento di attenzione nella ricerca di una causa, ragion
d’essere e spazio legittimo per la sensibilità, che risulta infatti essere as-
sociata primariamente alla scena teatrale londinese, alla dimensione under-
ground metropolitana, ai “more expressive gender roles of the upper and
lower classes”, al realismo antiborghese e al demi-monde. Questi spazi sono
dunque sovrapposti a un regime di plausibilità delle pratiche sessuali
(tanto maschili quanto femminili) eversive, ma non per ragioni intrinseche:

Because only the performing arts offered the conjunction of a relatively


safe social space and the power of ‘make-believe’, the camp sensibility
and its queen-centered social organization […] had long predominated
in gay life.2

L’enfasi sul make-believe fa riecheggiare la tesi del passing, ma il contesto


latamente teatrale in cui si inquadra la qualità camp del make-believe, e
l’indicazione del teatro come ‘porto franco’ per l’eversività, sottraggono
“Pussy Galore: Lesbian Images and Lesbian Desire in the Popular Cinema”, pp. 172-
183); Tamsin Wilton (ed.), Immortal, Invisible: Lesbians and the Moving Image, London:
Routledge, 1995 (in particolare Louise Allen, “Salmonberries: Consuming kd lang”, pp.
70-84; Paula Graham, “Girl’s Camp? The Politics of Parody”, pp. 163-181; Tamsin
Wilton, “Introduction: On Invisibility and Mortality”, pp. 1-19; Id., “On Not Being
Lady Macbeth: Some (Troubled) Thoughts on Lesbian Spectatorship”, pp. 143-162).
1
Il romanzo fu messo al bando nonostante l’appello di intellettuali del calibro di Ar-
nold Bennett, E. M. Forster, Leonard e Virginia Woolf. Perché The Well of Loneliness
venga ripubblicato bisognerà attendere il 1949. Intorno al caso Hall si possono consul-
tare Michael Baker, Our Three Selves: Life of Radclyffe Hall, London: Gay Men’s Press,
1986; Adam Parkes, “Lesbianism, History, and Censorship: The Well of Loneliness and
the Suppressed Randiness of Virginia Woolf’s Orlando”, Twentieth-Century Literature,
XL, 4, Winter 1994, pp. 434-460; e Leigh Gilmore, “Obscenity, Modernity, Identity:
Legalizing The Well of Loneliness and Nightwood”, Journal of the History of Sexuality, IV,
4, April 1994, pp. 603-624. Sulla rilevanza di Radclyffe Hall (caso giudiziario e figura
letteraria) nel processo di costituzione delle identità lesbiche Esther Newton era inter-
venuta più distesamente in “The Mythic Mannish Lesbian: Radclyffe Hall and the
New Woman”, Signs, IX, 4, Summer 1984, pp. 557-575. Intorno alla sua rilevanza nella
specifica tradizione letteraria si consultino invece Catharine R. Stimpson, “Zero De-
gree Deviancy: The Lesbian Novel in English”, Critical Inquiry, VIII, 2, Winter 1981,
pp. 363-379; e Gillian Whitlock, “‘Everything is Out of Place’: Radclyffe Hall and the
Lesbian Literary Tradition”, Feminist Studies, XIII, 3, Fall 1987, pp. 555-582. La rilevanza
di Wilde per l’omosessualità maschile nel Novecento sarà affrontata nel dettaglio oltre.
2
Esther Newton, “Conviviality and Camp” (1993), cit., p. 85.
104 TIRANDO LE FILA

all’omosessualità il suo potere di determinazione. Attorno a questo ele-


mento di sicurezza in quanto raison d’être della centralità del teatro nella
cultura gay e nel camp in genere si incentrerebbe, secondo un testimone
riportato da Newton, la fascinazione del make-believe e della ritualità ag-
gregante per soggetti stigmatizzati:

Thoughtful Grovers like Bob Adams were well aware of the reasons for
the profound appeal of theater and for the supremacy of theatricality in
Grove life. Yes, he had met writers and painters in the Grove in the fif-
ties, but above all everyone loved ‘the theater, the theater’.
EN: Now why was it the theater?
BA: Gee. Well it’s make-believe, isn’t it? – number one.
EN: But so is fiction.
BA: Yes, yes, but you are It. The writer is invisible. You don’t meet as
many friends writing a novel as appearing in a play [he laughs]… I
think it was the community feeling of play that is the theater, and the
laughter and fantasy world and costumes.1

Tanto lo sguardo teorico quanto la testimonianza ‘partecipe’ del camp


omosessuale promuovono in ultima analisi, volontariamente o meno,
l’omosessualità come effetto più che come causa del fenomeno.
Sulla scorta dei fallimenti storici sull’argomento, l’assertività in chiave
gay è venuta lasciando spazio negli anni Ottanta e Novanta a posizioni
apodittiche, che postulano l’esclusività gay senza confrontarsi con
l’esuberanza del camp; posizione che coincide del resto con una latitanza
del camp come fuoco d’attenzione critica e come istanza di per sé pro-
blematica. Non è un caso che in questi anni (vale a dire fino al 1993) non
appaiano volumi interamente dedicati al camp in questa specifica dire-
zione, mentre proliferano articoli e saggi che fanno ricorso alla nozione
2
senza confrontarsi con la sua elusività. Questo in virtù del fatto che, nelle
1
Ivi, p. 86 (ellissi nell’originale). Sul Grove di cui nel brano si confronti supra, la nota
1 a pagina 102.
2
Dei volumi di Philip Core e Mark Booth, pubblicati fra il 1983 e il 1984, si è già det-
to circa la loro estraneità alla prospettiva apertamente omosessuale, o di ‘rivendicazio-
ne’ in tal senso. Il Second manifeste camp di Patrick Mauriès, che peraltro ha avuto una
circolazione trascurabile nel mondo anglofono, affronta analogamente la questione in
termini di estetica ‘pura’. Nel 1987 Armin Kratzert cura in volume in Germania
sull’argomento (op. cit.), ma lo risolve in una traduzione di “Notes on ‘Camp’” corre-
data da un ampio apparato iconografico e da una brevissima postfazione. Il volume
citato di Robert Kiernan appare nel 1990, ma esso nega interamente la rilevanza omo-
sessuale del fenomeno. Nel 1992 viene dato alle stampe il volume di Linda Mizejewski
sulle riscritture dello isherwoodiano “Sally Bowles”, un’ampia parte del quale è dedi-
cato alla questione teorica del camp. Bisogna però attendere il 1993 perché David Ber-
ULTERIORI ALTERITÀ 105

parole di Gregory Bredbeck, “the problematic issue of camp […] is, of


course, only a problem when it is an issue. […] [I]t is something under-
1
stood perfectly until articulated”. Si poteva fare ricorso critico alla nozione,
in altri termini, assumendo le categorie e gli assunti che si sono qui e-
semplificati attraverso i lavori di Newton e Babuscio, a patto di tacerne la
problematicità (o i ‘tradimenti’: la fallimentarietà di definizione negata).
A questo atteggiamento corriponde, in parziale alternativa, un proce-
dere argomentativo meno ‘decisivo’, che ripropone in altra chiave la ne-
cessità di tentativeness teorizzata da Sontag (“To snare a sensibility in
words, especially one that is alive and powerful, one must be tentative
and nimble”). Allorché David Bergman introduce, trent’anni dopo la
pubblicazione di “Notes on ‘Camp’”, il primo volume dedicato al camp
in prospettiva teorica gay, egli premette al ‘punto sulla questione’ il rico-
noscimento della fondamentale resistenza alla definizione del camp, che
andrebbe di pari passo – giustificandolo più ancora di quanto faccia la
correlazione con la sottocultura gay – con il silenzio delle istituzioni della
critica: “[o]ne reason for resistance to a discussion of camp was the pro-
2
blem of defining it”, afferma Bergman, confortando questa problemati-
cità attraverso le parole di Charles Ludlam (quel principe della scena
camp teatrale di New York al quale si è accennato nel capitolo 1), il quale
invitava a rinunciare all’impresa definitoria nel momento in cui dichiara-
3
va, draconianamente, “I don’t think camp can be defined”.
Da parte sua, un critico autorevole come Jonathan Dollimore introdu-
ceva le pagine dedicate al camp nel suo Sexual Dissidence (1991), a partire
dalla nozione di sensibilità gay (cfr. il capitolo 3), dichiarando la consa-
pevolezza della parzialità della propria lettura rispetto all’esuberanza del
camp stesso: “[t]he definition of camp is elusive as the sensibility itself,
4
one reason being simply that there are different kinds of camp”. La lati-
gman curi il primo volume (Camp Grounds: Style and Homosexuality, cit.) interamente
consegnato alla prospettiva, benché in larga misura costituito da saggi precedente-
mente apparsi singolarmente, il che sottrae una valenza di progettualità organica al
volume stesso. Articoli, saggi e parti di volumi che nel corso degli anni Ottanta e No-
vanta hanno fatto un ricorso strategicamente aproblematico alla nozione in chiave
omosessuale sono troppo numerosi per essere elencati a piè di pagina.
1
Gregory W. Bredbeck, op. cit., p. 275. Si noti l’eco delle parole di Sontag intorno al-
la parziale articolabilità di una ‘sensibilità’, di cui si è detto nel capitolo 2.
2
David Bergman, “Introduction”, in David Bergman (ed.), op. cit., p. 4.
3
Charles Ludlam, “Camp”, in Steven Samuels (ed.), Ridiculous Theatre–Scourge of
Human Folly: The Essays and Opinions of Charles Ludlam, New York: Theatre Commu-
nications Group, 1992, p. 227.
4
Jonathan Dollimore, Sexual Dissidence, cit., p. 310.
106 TIRANDO LE FILA

tanza di un principo organico che fondi il fenomeno complessivo risulte-


rebbe cioè giustificata all’insegna della suddivisione, o suddivisibilità, in
‘vari tipi’; un’affermazione, questa, che ripropone all’atto pratico un so-
1
spetto dell’essenzialismo altrove contestato da Dollimore. L’idea di una
varietà di ‘tipi’ può indicare un’intrinsecità, seppur dispersa in una mol-
teplicità di principi organici; e sono proprio questi diversi principi a non
essere del resto definiti da Dollimore. Una volta di più, insomma, il prin-
cipio è latitante, la suddivisibilità è suggerita ma non realizzata; e l’affer-
mazione di Dollimore si carica in definitiva di valenze tattiche, intese a
delimitare, arbitrariamente, il campo della propria riflessione per evitare
di confrontarsi con il camp come issue, in quanto cioè problema: “there
are different kinds of camp. I am concerned here with that mode of camp
2
which undermines the categories which exclude it”.
D’altro canto, David Bergman non può evitare di suggerire un’altra
griglia di categorie di riconoscibilità, sulle quali esisterebbe un consenso
critico. Nella configurazione delle categorie si esprime peraltro, in termini
espliciti o meno, il già discusso riconoscimento d’elusività della nozione,
e l’ingestibile disaccordo fra gli interventi critici che si sono andati eserci-
tando nel tentativo di ‘addomesticare’ l’elusività stessa:
Still I would like to point out the areas where there is some agreement.
First, everyone agrees that camp is a style (whether of objects or of the
way objects are perceived is debated) that favors ‘exaggeration’, ‘arti-
fice’, and ‘extremity’. Second, camp exists in tension with popular cul-
ture, commercial culture, or consumerist culture. Third, the person
who can recognize camp, who sees things as campy, or who can camp
is a person outside the cultural mainstream. Fourth, camp is affiliated
with homosexual culture, or at least with a self-conscious eroticism
that throws into question the naturalization of desire.3
1
Al pari di Alan Sinfield, con il quale peraltro ha nel corso degli anni Ottanta artico-
lato un’attiva collaborazione di scrittura, Dollimore si muove infatti all’interno del
quadro teorico del materialismo culturale, che ha fatto dell’anti-essenzialismo un prin-
cipio indiscutibile della propria impresa critica (e polemica nei confronti delle istitu-
zioni degli English studies). Mi permetto di rinviare in proposito ai miei “‘Oscar Wilde’
e i materialisti. Apputi sulla scena critica radicale in Gran Bretagna”, cit., e “Promemoria
sulla critica radicale in Gran Bretagna”, Nuova Corrente, XLIII, 118, 1996, pp. 235-313,
sezione che raccoglie la traduzione di due saggi a mano di Sinfield e Dollimore.
2
Jonathan Dollimore, Sexual Dissidence, cit., p. 310. Sembra essere quasi l’esito di un
profondo ripensamento l’utilizzo, nel secondo periodo parzialmente riportato qui, di
mode in luogo del precedente kind. Nel prosieguo dell’argomentazione, a ogni modo,
Dollimore ricorre nuovamente a kind, il che rende l’ambiguità fra i due termini un’am-
biguità completamente irrisolta, che se non altro denuncia la precarietà della categoria.
3
David Bergman, “Introduction”, cit., pp. 4-5.
ULTERIORI ALTERITÀ 107

Il resoconto di Bergman minimizza in effetti la portata del disaccordo,


della differenza critica, che si è qui invece programmaticamente eletta a
guida prospettica. I quattro punti di convergenza critica, infatti, minimiz-
zano (come ormai da ‘tradizione’) la problematicità, e non è necessario
soffermarsi a lungo per evidenziarne il fallimento e la parzialità, che del
resto risultano previsti dalla tentativeness delle indicazioni.
Il camp sarebbe uno stile dell’esagerazione, dell’artificio e dell’estremità,
il che riduce drasticamente la questione posta dal suggerimento che il
camp sia una relazione fra soggetto e oggetto, irriducibile a una qualsiasi
inerenza stilistica. Il camp esisterebbe poi “in tension with popular cultu-
re, commercial culture, or consumerist culture”. Questo punto di conver-
genza (dal ruolo assolutamente centrale, come si avrà modo di verificare
nel prosieguo di questo lavoro) è solo parzialmente tale, perché esso ri-
sultava accennato da Sontag e completamente trascurato dai teorici della
specificità gay del camp; e Bergman indica un principio assolutamente
evanescente, quello di ‘una certa tensione’ che peraltro non viene definita.
Quindi, il camp sarebbe l’esclusiva di una soggettività estranea alla cen-
tralità culturale; un’affermazione che, oltre a non essere determinante,
nega (implicitamente) l’esistenza del camp distribuitosi a partire dagli
anni Sessanta anche all’interno della centralità culturale – basti pensare
in tal senso allo stesso “Notes on ‘Camp’”, prodotto da una figura, Susan
Sontag, in buona misura riconducibile alla centralità del suo sistema cul-
turale, in quanto intellettuale newyorkese.
Si potrebbe leggere in queste parole un’eco del risentimento circolato
nelle comunità omosessuali per la ‘espropriazione’ da parte di Sontag e
della cultura dominante, cui si accennava nei capitoli 2 e 3, risentimento
che si tradurrebbe nel ribadire l’autenticità del solo camp omosessuale,
se non fosse per due ragioni che è lo stesso Bergman a indicare. Da un
lato, vi è la problematica tensione con la cultura consumistica, che ha
presieduto anche al camp omosessuale come partecipe del processo di
produzione – economica e culturale – borghese. Questo è un aspetto sul
quale si tornerà, in quanto dato di prim’ordine, nel corso di questo lavo-
ro. Basti qui ricordare il ruolo che figure come Lovelace, Pee Wee Her-
man, Kenneth Williams e la serie dei film Carry On nella Gran Bretagna
del secondo dopoguerra, o più recentemente Richard Simmons – vale a
dire tutte figure di omosessuali che hanno fatto ricorso al camp come
modalità di rappresentazione ‘marginale’ che però veniva fruita e ap-
108 TIRANDO LE FILA

prezzata dalla cultura dominante – hanno avuto nello show business an-
1
gloamericano. Dall’altro lato, la significativa riformulazione da parte di
Bergman della questione omosessuale quale ultimo punto di ‘convergen-
2
za’ fra i critici.
Il camp infatti sarebbe “affiliated with homosexual culture, or at least
with a self-conscious eroticism that throws into question the naturaliza-
tion of desire”. Esso non è dunque determinato da una sensibilità gay di
sorta, ma si trova ad essere solamente ‘affiliato’ alla cultura omosessuale.
L’utilizzo di affiliated da parte di Bergman è eloquente, ben oltre forse le
intenzioni del critico: le origini etimologiche del termine, infatti (dal lati-
no tardo affiliatus, ‘figlio adottivo’), escludono la ‘paternità biologica’ gay.
Le origini del camp sono altrove (dove, non è indicato), e solo attraverso
un processo culturale – per così dire, di ‘adozione’– esso sarebbe stato
ricondotto alla paternità omosessuale.
Se ciò non bastasse, oltre a negare implicitamente l’origine omoses-
suale, Bergman ne riduce anche la presenza ‘circostanziale’ nel fenome-
no camp, affermando che – se non altro – il camp sia affiliato a un “self-
conscious eroticism that throws into question the naturalization of desire”.
Il dato fondamentale con il quale si è andato culturalmente correlando il
camp sarebbe insomma un’autoconsapevolezza del desiderio (e, si impli-
ca, del genere) come partecipe di un processo di costruzione culturale,
all’interno della quale quella gay sarebbe un’istanza non totalizzante: e-
leggere questa specifica posizione a esclusiva del camp significa insom-
ma rimuovere altre forme di analoga, benché distinta, consapevolezza.
Quanto sotteso dall’affermazione di Bergman rinvia, una volta di più,
a un nodo di dibattito critico più che a una piattaforma consensuale, vale

1
Intorno agli artisti citati si possono consultare Margaret Thompson Drewal, “The
Camp Trace in Corporate America: Liberace and the Rockettes at Radio City Music
Hall”, in Moe Meyer (ed.), op. cit., pp. 149-181; Andy Medhurst, “Carry On ‘Camp’”,
Sight and Sound, II, 4, 1992, pp. 16-19; Bruce La Bruce, “Pee Wee Herman: The Homo-
sexual Subtext”, CineAction!, 9, Summer 1987, pp. 3-6; Constance Penley, “The Cabi-
net of Dr. Pee-Wee: Consumerism and Sexual Terror”, Camera Obscura, 17, May 1988,
pp. 133-153; Alexander Doty, “The Sissy Boy, The Fat Ladies, and the Dykes: Queer-
ness and/as Gender in Pee-Wee’s World”, Camera Obscura, 25-26, January-May 1991,
pp. 125-143; Rhonda Garelick, “Outrageous Dieting: The Camp Performance of Rich-
ard Simmons”, Postmodern Culture, VI, 1, September 1995 – Postmodern Culture è una
rivista elettronica (indirizzo htp: <pmc@jefferson.village.virginia.edu>), e l’articolo in
questione appare in forma ipermediale, con immagini e video clips..
2
Inutile rimarcare che anche questa riformulazione non sia in effetti un punto di
consenso critico, come è chiaro alla luce delle pagine precedenti, e come emergerà
ulteriormente nelle prossime pagine.
ULTERIORI ALTERITÀ 109

a dire alla lettura delle implicazioni in chiave di politica culturale della


pratica camp. Nel capitolo 3 si è visto – attraverso la lettura delle posi-
zioni ‘storiche’ sull’argomento – che il camp poteva essere indicato come
prassi di ghettizzazione per la soggettività gay, di sua integrazione, op-
pure ancora di sovversione che attraverso la propria innaturalità pro-
muove uno straniamento delle modalità di costituzione della soggettività
tout court. È solo a quest’ultima possibilità di lettura che si dedica l’atten-
zione di Bergman nell’indicare un consenso critico, poiché è su di esso
che gli interventi critici in chiave gay a partire dalla seconda metà degli
anni Ottanta, parallelamente allo sviluppo della prospettiva queer, si so-
no indirizzati. In tal quadro lo spessore critico del camp – quello spessore
decisamente negato da “Notes on ‘Camp’” e da buona parte degli inter-
venti successivi – non si sarebbe reso agevolmente identificabile poiché
esso si esprime in maniera indiretta, obliqua, vale a dire attraverso una
strategia di matrice parodica, quella strategia che da Dollimore veniva
eletta a proprio (parziale) campo d’indagine (cfr. il capitolo 3).
Il camp infatti si pone in rapporto ambiguo con la soggettività borghe-
se, straight, e con la cultura di massa, di cui mutua i tratti doxastici per
promuovere l’implosione di generi, stereotipi, categorie e stili attraverso
una duplice strategia. La sovversività del camp passerebbe attraverso la
giustapposizione di matrici culturali conflittuali attraverso il pastiche, o
nello spingere all’oscillazione le categorie, come nel sistematico ricorso al
travestitismo e all’androginia. In alternativa, ma secondo la medesima
logica, il camp esaspera fino all’inverosimiglianza gli stereotipi, ad esem-
pio in un eccesso di ‘mascolinità’ o di ‘femminilità’ (vale a dire, dei codici
e dei segni che culturamente connotano entrambi); o ancora, nell’adot-
tare un modello artistico per enfatizzarne il carattere formulaico.
Il camp attinge cioè a piene mani ai dati culturali evidenziandone la
convenzionalità nel momento stesso in cui li proclama imprescindibili:
esso è ‘parassitario’ come ogni forma secondaria, citazionale, e la sua va-
lenza critica si esercita dall’interno, in un paradossale rapporto di compli-
1
cità critica con la doxa. La complicità del camp era quanto emergeva già
nelle parole di Babuscio, allorché affermava che “[b]ecause masculinity
1
Si intende qui ovviamente ‘doxa’ nell’accezione barthesiana (che ha presieduto alle
riflessioni angloamericane in merito, di cui si dirà oltre), con la quale si indica
“l’Opinion publique, l’Esprit majoritaire, le Consensus petit-bourgeois, la Voix du Na-
turel, la Violence du Préjugé”. Roland Barthes, Roland Barthes par Roland Barthes, Paris:
Seuil, 1975, p. 51. Quell’opinione, in altre parole, che nella propria consensualità natu-
ralizza un ordine storicamente localizzato, e ideologicamente determinato, e che
110 TIRANDO LE FILA

and femininity are perceived in exclusively heterosexual terms, our social


stereotype (and often, self-image) is that of one who rejects his or her
masculinity or femininity”; e che l’umorismo camp sia “squarely based
1
on the tacit acceptance of the hegemony of heterosexual institutions”.
Da cui conseguirebbe che “Camp, in fact, is a product of oppression, a
2
creative means of dealing with an identity that is loaded with stigma”.
Una forma di gestione dello stigma e di contestazione dello stesso che si
declina, in altri termini, proprio in quanto prodotto dell’oppressione che
non può in ultima analisi prescindere da essa, e che dunque – presuppo-
nendola – la rafforza nel momento stesso in cui la mette in crisi. È preci-
samente per queste ragioni che si è potuto criticare il camp in quanto
formazione culturale sostanzialmente conservatrice, perché esso attinge-
rebbe proprio allo stigma, alla rappresentazione che del subordinato of-
3
fre la cultura dominante, per articolarsi come modalità esistentiva. Ma è
per le medesime ragioni che risulta possibile – come viene sostenuto in
larga misura negli ultimi anni, con posizione che risuona del resto nel
‘punto sulla questione’ di Bergman – leggere la rappresentazione camp
come prassi sovversiva, quale forma cioè di espressione, sia pur indiretta,
di un dissenso attraverso l’ostentazione irridente (la trasmutazione di
4
segno da negativo a ‘positivo’) dello stigma.
Questa logica può essere esemplificata attraverso l’evoluzione storica
di un nodo di dibattito sul camp – quello della rappresentazione della
femminilità – che investe sia lo specifico del soggetto femminile sia, indi-
rettamente, la soggettività gay maschile (nel suo statuto medico di sog-
gettività ‘invertita’, in quanto tipologia umana all’insegna della anima
5
muliebris in corpore virili inclusa). Gli interventi degli ultimi anni, infatti,

vent’anni prima di Roland Barthes par Roland Barthes lo stesso autore demistificava nel
già citato Mythologies.
1
Cfr. supra, la nota 1 a pagina 89.
2
Jack Babuscio, “Celebrating Camp”, Gay News, 91, 25 March-7 April 1976, p. 17.
3
Vito Russo, si ricordi, sosteneva che il camp “deals only frivolously with the roles
we’ve been assigned and entails no criticism of them”. Cfr. supra, la nota 1 a pagina
89. In questa direzione si sono decisamente espressi, in una fase decisiva per il proces-
so di liberazione gay, Jeffrey Escoffier, “Breaking Camp”, Gay Alternative, 4, 1973, pp.
6-8; e Andrew Britton, “For Interpretation: Notes Against Camp”, Gay Left, 7, Winter
1978/79, pp. 11-14.
4
Lo stesso Jeffrey Escoffier, della cui critica al camp come strategia conservatrice si è
detto alla nota precedente, è venuto ripensando in questa chiave il problema. Cfr. Jef-
frey Escoffier, “Sexual Revolution and the Politics of Gay Identity”, Socialist Review,
XV, 4-5, July-October 1985, pp. 113-153.
5
Ci si riferisce qui alle tappe della scientia sexualis fra fine Ottocento e primo Novecento,
ULTERIORI ALTERITÀ 111

hanno ripensato quanto nel corso degli anni Settanta appariva quale rap-
presentazione politicamente sospetta del femminile e della ‘femminilità’
omosessuale, vale a dire la lettura delle implicazioni politiche del camp
che ne ha fortemente limitato la circolazione critica all’interno dei movi-
menti attivisti tanto gay quanto femministi, che si trovavano uniti dal
comune rifiuto delle strategie camp in quanto fondate su una rappresen-
1
tazione (auto)derogatoria. Fu del resto la stessa Susan Sontag, dieci anni
dopo aver pubblicato “Notes on ‘Camp’” e avere promosso la (e benefi-
ciato della) esplosione della camp mania a livello massmediale, a confes-
sare in un’intervista l’imbarazzo della propria ‘sensibilità femminista’ in
relazione a una supposta complicità della misoginia camp con l’ordine
2
patriarcale della cultura.
Per recuperare una validità politica delle strategie di rappresentazione
camp, Sontag sviluppava l’affermazione avanzata in “Notes on ‘Camp’”
3
intorno alla dimensione citazionale che presiede al camp. Nell’atto di

con le teorizzazioni di Karl Heinrich Ulrichs, Richard von Krafft-Ebing, Havelock Ellis
e infine Sigmund Freud, i quali postulavano una fondamentale essenzialità a giustifi-
cazione della polarità maschile/femminile. L’omosessuale ne emergeva come bizzarrìa
della natura, come forma di ‘ermafroditismo psichico’ o come anima muliebris corpore
virili inclusa, in cui si coniugavano i due termini (maschile e femminile) normalmente
distinti. Si ratificava così in sede scientifica l’equivalenza fra effeminatezza e omoses-
sualità maschile che trovò in Gran Bretagna il clamoroso esempio di Oscar Wilde. Cfr.
Alan Sinfield, “Speaking Its Name”, e “Freud and the Cross-sex Grid”, in The Wilde
Century, cit., pp. 109-129, 161-175. Il volume di Sinfield è presieduto peraltro dalla tesi
che lo stigma sull’omosessualità si sia storicamente articolato attraverso un termine –
effeminatezza – caricato di connotazioni derogatorie nei confronti delle donne. Ciò giu-
stifica la richiesta da parte di Sinfield di una convergenza fra le varie istanze marginali
in chiave di etnia o sessualità, in quanto costellazioni di un medesimo sistema di pote-
re. Sulla ‘inversione’ omosessuale ha inoltre pagine illuminanti anche Jonathan Dolli-
more, Sexual Dissidence, cit.
1
Nelle parole di Elaine Showalter, “traditionally, drag has been the minstrel show of
a virulent misogyny, a cruel travesty of the feminine. I found that being a woman
spectator at drag shows, from the Black Cap in London to Provincetown, was some-
times a humiliating experience”. Elaine Showalter, Sexual Anarchy: Gender and Culture
at the Fin de Siècle, (1990) London: Virago, 1992, p. 166.
2
Cfr. Robert Boyers and Maxine Bernstein, “Women, the Arts and the Politics of
Culture: An Interview with Susan Sontag”, Salmagundi, 31-32, Fall 1975-Winter 1976,
pp. 29-48; ristampato come “The Salmagundi Interview” in Elizabeth Hardwick (ed.),
A Susan Sontag Reader, Harmondsworth: Penguin, 1987, pp. 327-346 (da cui le citazi-
oni nel testo). La posizione di Sontag in merito viene ricondotta all’ambivalenza del
critico rispetto al camp, ambivalenza già dichiarata nell’articolo del 1964: “I am strongly
drawn to Camp, and almost as strongly offended by it”. Susan Sontag, “Notes on
‘Camp’”, p. 276.
3
“Camp sees everything in quotation marks. It’s not a lamp, but a ‘lamp’; not a
woman, but a ‘woman’. To perceive Camp in objects and persons is to understand
112 TIRANDO LE FILA

negazione della Natura, il camp porterebbe ad attenzione l’esercizio nel-


la quotidianità di una codifica e decodifica presiedute dall’ordine cultura-
le in cui il soggetto si inserisce:

the parodistic rendering of women […] usually left me cold. But I can’t
say that I was simply offended. For I was often amused and, so far as I
needed to be, liberated. I think that the camp taste for the theatrically
feminine did help undermine the credibility of certain stereotyped
femininities – by exaggerating them, by putting them between quota-
tion marks. Making something corny of femaleness is one way of cre-
ating distance from the stereotype. Camp’s extremely sentimental rela-
tion to beauty is no help to women, but its irony is: ironizing about the
sexes is one small step toward depolarizing them. In this sense the dif-
fusion of camp taste in the early sixties should probably be credited
with a considerable if inadvertent role in the upsurge of feminist con-
sciousness in the late 1960s.1

Il ‘distacco’ camp, la sua sistematica irresponsabilità, possono risultare –


oltre che una scelta di disimpegno – uno strumento progressista in quan-
to pratica (o promozione) di distacco dal già-dato, in quanto cioè forma
di straniamento. Una demistificazione, quella camp, che già si indicava
nel quadro del camp-come-passing art, attraverso la quale si sarebbe po-
tuta storicamente conseguire una consapevolezza dell’artificiosità – della
stereotipizzazione – della ‘femminilità’, e di quanto è culturalmente co-
2
struito come l’esito di un ordine divino o naturale. È precisamente que-
sta strategia di straniamento della costruzione culturale, a partire dalla
riproposizione parodica della costruzione stessa, che conferisce al camp
una valenza critica indiretta, sfuggente, ambiguamente ‘sovversiva’, in-
tendendo sovversiva in alternativa a ‘rivoluzionaria’, in quanto forma di
complicità critica e non di attacco da una posizione di (supposta o pro-
clamata) alterità assoluta.

Being-as-Playing-a-Role”.
1
Susan Sontag, “The Salmagundi Interview”, cit., p. 339. Sulla posizione di Sontag in
merito alle rappresentazioni camp del femminile è utile Pamela Robertson, “‘The
Kinda Comedy that Imitates Me’: Mae West’s Identification with the Feminist Camp”,
Cinema Journal, XXXII, 2, Winter 1993, pp. 57-72.
2
La demistificazione camp delle categorie culturali come prassi apprezzabile anche
in termini di correttezza politica non è confinabile agli anni recenti. Fuori dal coro, in
tal senso si erano espressi anche Mike Silverstein e Richard Dyer nella prima metà
degli anni Settanta. Cfr. Mike Silverstein, “God Save the Queen”, Gay Sunshine, No-
vember 1970; e Richard Dyer, “It’s so Camp as Keeps Us Going”, cit. Queste letture
lasciano le proprie tracce nell’intervento di Jack Babuscio, secondo il quale il camp
promuoverebbe un distacco dai valori convenzionali.
ULTERIORI ALTERITÀ 113

A partire da una delle possibili implicazioni del travestitismo camp si è


potuto così affermare la sovversività radicale del drag nei confronti della
stabilità, identità e profondità naturale del soggetto che ha avuto un ruo-
lo così decisivo nella costruzione del potere borghese, patriarcale e an-
drocentrico. Una fra le figure più influenti della teoria critica queer e del
femminismo contemporaneo, Judith Butler, si è apertamente espressa in
questa direzione:

The replication of heterosexual constructs within sexual cultures both


gay and straight may well be the inevitable site of the denaturalization
and mobilization of gender categories. The replication of heterosexual
constructs in non-heterosexual frames brings into relief the utterly
constructed status of the so-called heterosexual original. Thus, gay is to
straight not as copy is to original, but, rather, as copy is to copy. The
parodic repetition of ‘the original’ […], reveals the original to be noth-
ing other than a parody of the idea of the natural and the original.1

La riproposizione dei tratti stilistici dell’originale – riproposizione in sen-


so di ripetizione, e di riposizionamento contestuale – priva l’originale del
proprio statuto di originalità/originarietà, dando luogo a un processo di
straniamento che rende il drag (la copia di una copia) assolutamente cen-
trale in quelli che Butler chiama “subversive bodily acts”, gli atti perfor-
mativi che si costituiscono come indici stilistici di un’identità costituita in
chiave superficiale più che di profondità ontologica – ma in questo caso di
un’identità sovversiva, perché straniante la ‘fondamentale superficialità’
2
che caratterizza il modello di soggettività ‘profonda’.
Ne consegue che, se il camp risultava censurabile in una prospettiva
di femminismo storico, o in una prospettiva di liberazionismo gay di stam-
po essenzialista, che ne censuravano la rappresentazione derogatoria
della femminilità (per le femministe) o l’assunzione di una femminilità
1
Judith Butler, Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity, London:
Routledge, 1990, p. 31.
2
In altre parole, “in imitating gender, drag implicitly reveals the imitative structure
of gender itself – as well as its contingency”. Ivi, p. 137. “Subversive Bodily Acts” è il
titolo del terzo capitolo del volume citato, che articola sia la dinamica di straniamento
riassunta nella frase riportata, sia la teoria della performatività che ha reso Butler cele-
bre nello spettro della teoria critica contemporanea. Cfr. ivi, pp. 79-149. Significativo il
rilievo che Butler dà nella propria argomentazione a Mother Camp di Esther Newton
(pp. 136-137), la quale vi aveva sostenuto che “if sex-role behavior can be achieved by
the ‘wrong’ sex, it logically follows that it is in reality also achieved, not inherited, by
the ‘right’ sex”. Esther Newton, Mother Camp, cit., p. 103. Ma si confronti anche supra,
il capitolo 3.
114 TIRANDO LE FILA

parodica quale marchio di identità (per l’attivismo gay della prima ora),
esso è inquadrabile – nei termini suggeriti da Andrew Ross – “as a much
earlier, highly coded way of addressing those questions about sexual dif-
1
ference which have engaged non-essentialist feminists in recent years”.
In altre parole, il camp può essere inserito da un lato fra le condizioni che
hanno promosso il cosiddetto second-wave feminism, altrimenti chiamato
historicism of gender, e la demistificazione della womanhood quale costrut-
to culturale, e dall’altro come premessa indispensabile per l’analogo ap-
proccio costruzionista alla soggettività gay, latamente ascrivibile al pen-
siero queer, che ha dominato gli interventi degli ultimi dieci anni sulla
scorta del tempestivo Between Men: English Literature and Male Homoso-
2
cial Desire di Eve Kosofsky Sedgwick.
Tale ripensamento delle implicazioni del camp ha avuto l’effetto di tra-
sformare lo statuto del camp, e al contempo si configura quale esito della
riarticolazione stessa della nozione di camp, della sua storia, teoria e
3
prassi. Come diversi lavori hanno avuto modo di segnalare nel corso de-
gli ultimi anni, la gender parody e la parodic mimicry sono stati fra i primi
4
strumenti di produzione di un dissenso al femminile. Il suggerimento
che sottende questa prospettiva si basa su un sostanziale recupero di
quello afferente alla feminine masquerade, quale emerge da uno storico
saggio di Joan Riviere, nel quale si proponeva già nel 1929 una seminale
teoria che investiva propriamente lo statuto performativo e imitativo del
5
femminile. Nella masquerade il soggetto femminile imita la ‘autentica’

1
Andrew Ross, “Uses of Camp” (1988), in No Respect: Intellectuals and Popular Cul-
ture, New York: Routledge, 1989, p. 161.
2
Cfr. Eve Kosofsky Sedgwick, Between Men: English Literature and Male Homosocial
Desire, New York: Columbia University Press, 1985. Si avrà modo di soffermarsi sulla
configurazione del queer nelle prossime pagine.
3
Il rapporto di determinazione fra i due termini va inteso come biunivoco: se il ri-
pensamento delle implicazioni politiche ha promosso una riarticolazione dello statuto
del camp e della sua configurazione storica, è anche la riarticolazione a giustificare un
ripensamento delle implicazioni.
4
Fondamentale in tal senso è Mary Ann Doane, The Desire to Desire: The Woman’s
Film of the 1940s, Bloomington: Indiana University Press, 1987. Ma si vedano anche
Mary Russo, The Female Grotesque: Risk, Excess and Modernity, New York: Routledge,
1994; Efrat Tseëlon, The Masque of Femininity: The Presentation of Woman in Everyday
Life, London: Sage, 1995; e in particolare Pamela Robertson, Guilty Pleasures: Feminist
Camp from Mae West to Madonna, cit., pp. 10-22.
5
Joan Riviere, “Womanliness as Masquerade” (1929), in Victor Burgin, James Don-
ald and Cora Kaplan (eds.), Formations of Fantasy, London: Methuen, 1986, pp. 35-61.
Una puntuale lettura del saggio di Riviere è offerta da Stephen Heath, “Joan Riviere
and the Masquerade”, contenuto nel volume citato a cura di Victor Burgin, James Do-
ULTERIORI ALTERITÀ 115

femminilità, assumendo una maschera che denuncia l’elemento di fin-


zione insito nell’idea stessa di ‘autentica femminilità’, e la vacuità che si
nasconde oltre la maschera della costruzione di identità. L’ostentazione
degli indici di femminilità evacua insomma la femminilità di carattere
intrinseco, essenziale e transtorico – di autenticità.
La consonanza della parodic mimicry femminile con la pratica del drag,
nelle sue valenze decostruttive della naturalità di genere e di ruolo socia-
le, risulta così di immediata evidenza. Ma le due prassi non possono es-
sere sovrapposte senza rilevare una significativa dissonanza: il drag ri-
manda al (o presuppone il) contrasto fra superficie e profondità, e non
abolisce semplicemente la seconda; è nella frizione contraddittoria fra i
due piani che si produce l’effetto squisitamente camp del travestimento,
e non nel passing, ossia nella felicità della performance (dell’inganno); o
meglio, la felicità risiede proprio nella sua decostruzione. Questa frizione
fonda l’incongruità (una categoria ricorrente, si ricorda, del camp) quale
premessa inalienabile della decostruzione, ossia della promozione di
consapevolezza dello statuto culturalmente costruito del piano di super-
ficie e del suo rapporto con il dato biologico. Gli esempi che in tal senso
Newton riporta in Mother Camp sono univoci: alla fine dello spettacolo in
drag – cui Newton dedica un capitolo del suo volume – il performer ab-
bandona le vesti femminili, a richiamare a consapevolezza della audience
1
la propria ‘natura’ biologica.
La produzione propriamente ‘artistica’ del camp è spesso riconducibi-
le alla medesima logica: una trasposizione evidente di questa prassi sot-
toculturale è la rappresentazione della Salomé wildiana messa in scena e
recitata nel 1977 al London Roundhouse da Lindsay Kemp, in cui il bal-
lerino si liberò, nell’ultima sequenza della danza di seduzione, dell’intero
apparato vestimentario (i ‘sette veli’) che ne faceva una Salomé en trave-
2
sti. Questa permanenza del sesso biologico come orizzonte epistemico è
del resto quanto giustifica l’implicazione per così dire ‘conservatrice’ del
drag, che procede di pari passo a quella della misoginia che ne struttura

nald e Cora Kaplan. Il saggio venne recuperato e riorientato nel quadro dei film studies
da Mary Ann Doane in “Film and the Masquerade: Theorizing the Female Spectator”
(1982), e in “Masquerade Reconsidered: Further Thoughts on the Female Spectator”
(1988-89), ristampati in Femmes Fatales: Feminism, Film Theory, Psychoanalysis, New
York: Routledge, 1991, pp. 17-43.
1
Cfr. Esther Newton, “Two Shows”, in Mother Camp, cit., pp. 59-96.
2
Cfr. Katharine Worth, Oscar Wilde, New York: Grove Press, 1983, pp. 66-68; ed
Elaine Showalter, op. cit., pp. 166-168.
116 TIRANDO LE FILA

le strategie di rappresentazione: che dietro l’apparenza si celi, in ultima


analisi, una natura, sia pur contraddetta dall’artificio camp e dalla sua
celebrazione dell’incongruità.
Nella pratica della feminine masquerade, al contrario, il rimando al pia-
no di profondità come contraddittorio della superficie vestimentaria vie-
ne meno. “In opposition to drag”, riassume Pamela Robertson,

the surprise and incongruity of same-sex female masquerade consists


in the identity between she who masquerades and the role she plays –
she plays at being what she is always already perceived to be. This
might consist in the exaggeration of gender codes by the ‘right’ sex, in
a female masquerade of femininity or a male masquerade of masculin-
ity, similar to lesbian ‘femme’ role-play or the hyperbolic masculiniza-
tion of gay ‘macho’ Levi’s-and-leather culture.1

L’autoparodia consapevole denuncierebbe lo stereotipo parodiato in un


rimando fra due piani, resi espliciti in quanto tali, di artificiosità coerente.
In questa paradossale congruenza fra il piano di finzione e il piano di
‘naturalità’ decostruita si collocherebbe dunque, secondo le teoriche del-
la feminine masquerade, la superiore sovversività della medesima rispetto
al drag della sfera strettamente gay. Va rilevato a ogni modo che, in que-
sta prospettiva, con ‘drag’ si intenda solo il travestitismo di genere ses-
suale, mentre il drag di stampo camp, lo si è visto, afferisce a tutti i ruoli
sociali, all’idea stessa di ‘uniforme’ che si fa coincidere con la dimensione
sociale del soggetto, a fronte peraltro di un’abolizione della sfera ‘privata’
di naturalità im-mediata.
Significativamente, inoltre, la nozione di camp contiene anche
l’enfatizzazione dei ruoli same-sex cui allude Robertson nel brano sopra
riportato. Questo infatti è lo spazio del feminist camp secondo Robertson,
quella tradizione che “runs alongside – but is not identical to – gay
camp”, con il quale condivide lo statuto di “oppositonal modes of per-
2
formance and reception”. Al di là della dialettica fra teoriche della female
mimicry e promotori della sovversività del travestitismo, quello che risul-
ta significativo è dunque il fatto che il camp ne risulti da un lato trasfor-
mato nella sua configurazione storica, che esubera la stretta provincia del
camp omosessuale maschile, e quella più ampia dell’omosessualità tout
court, e dall’altro riprodotto come particolare strategia sovversiva, a pre-

1
Pamela Robertson, Guilty Pleasures, cit., p. 12.
2
Ivi, p. 9.
ULTERIORI ALTERITÀ 117

scindere dall’orientamento sessuale di chi lo pratichi (o meglio, a pre-


scindere dal determinismo o dalla esclusività gay).
Ciò rende conto insomma di come il camp, così riarticolato, possa es-
sersi consegnato come strumento di critica su e per donne (etero tanto
quanto omosessuali): in breve, di come esso sia – nelle parole riportate di
David Bergman – “affiliated […] with a self-conscious eroticism that
throws into question the naturalization of desire”. Ma ciò presuppone un
camp inteso nella sua sola valenza di artificio straniante e sovversivo, a
discapito tanto della sua implicazione compromissoria, quanto del suo
rimando alla paradossale ‘autenticità’ gay di cui s’è detto, al fatto cioè
che il camp coniughi – come osservava Richard Dyer – “theatricality and
authenticity […] intensity and irony, a fierce assertion of extreme feeling
1
with a deprecating sense of its absurdity”. Anche limitandosi dunque a
un solo aspetto del camp, rimane peraltro da determinare il fuoco d’at-
tenzione di questo spettro di interventi critici, che hanno assunto il camp
quale oggetto d’indagine in un più ampio progetto di politica culturale.
Rimane cioè da determinare se sia più sovversivo – e quindi più ‘autenti-
camente’ portatore della caratteristica che si assume a definizione del
camp – il camp gay nella sua variante maschile, come ha spinto a ritenere
Judith Butler, il camp femminista come sembra indicare Pamela Robert-
son, o ancora il camp lesbico.
Da un lato infatti la stessa Butler, che argomentava diffusamente in
2
Gender Trouble (1989) la sovversività del travestitismo gay, successiva-
mente riconoscerà che la sovversività dello stesso sia limitata solo “to the
extent that it reflects on the imitative structure by which hegemonic
gender is itself produced and disputes heterosexuality’s claim on natu-
3
ralness and originality”. Dall’altro si potrebbe replicare alle teoriche del-
la superiore sovversività del same-sex female mimicry che anche questa è
solo potenziale, e facilmente riconducibile a (o gestibile attraverso) lo
stereotipo. La parodia dello stereotipo necessita di una decodifica che
riconosca l’eccesso stereotipico, sia pur ‘intenzionale’, ed è (stato) preci-
samente un compito della cultura dominante quella del non riconoscere
un determinato invito alla decodifica ‘sovversiva’. La teoria lesbica ha

1
Cfr. supra, la nota 1 a pagina 94.
2
Judith Butler, op. cit.
3
Judith Butler, Bodies that Matter: On the Discursive Limits of ‘Sex’, London:
Routledge, 1993, p. 125.
118 TIRANDO LE FILA

infatti indicato nella propria particolare prassi camp l’intero potenziale


eversivo del camp tout court: Secondo Kate Davy, ad esempio,

instead of realizing the promise and threat of its subversive potential


for imagining and inscribing an ‘elsewhere’ for alternative social and
sexual realities, the wink of Camp (re)assures its audience of the ulti-
mate harmlessness of its play, its palatability for bourgeois sensibilities.
When the butch-femme subject winks, phallocratic culture is not reas-
sured. Camp is neither good nor bad, it is just more or less effectively
deployed. In the context of gay male theatre and its venues, Camp is
indeed a means of signaling through the flames, while in lesbian per-
formance it tends to fuel and fan the fire.1

Anche in questo caso, l’affermazione di superiore sovversività del camp


lesbico risulta viziata da una vistosa riduzione del problema a un sempli-
ce confronto fra la reazione – in un tempo e in uno spazio astratto – di
un non meno astratto ‘pubblico borghese’ esposto a un’altrettanto inde-
finita performance di camp gay, maschile o femminile. La reazione bor-
ghese al camp di Oscar Wilde, si è già osservato, offre una chiave di let-
tura diametralmente opposta; e un caso di repressione giudiziaria così
2
severa non si riscontra nella tradizione lesbica. Che la soggettività lesbica
abbia disturbato, e disturbi, l’ordine borghese più di quella gay maschile
pare fuor di dubbio: e il silenzio – anche legale – che in Gran Bretagna ha
sempre caratterizzato la gestione borghese della pratica lesbica ne è
3
un’evidente conferma. Ma il silenzio che si è esercitato sulla modalità
esistentiva lesbica, e quindi sulle rappresentazioni camp funzionali a es-
1
Kate Davy, “Fe/Male Impersonation: The Discourse of Camp”, cit., p. 145.
2
La censura nei confronti di The Well of Loneliness di Radclyffe Hall (di cui si è detto
supra, nella nota a pagina 103) non è assimilabile a quella esercitatasi su Wilde, in
quanto primariamente indirizzata al testo, cui si rimproverava la rappresentazione del
lesbismo, del resto articolata attraverso i criteri discorsivi della cultura dominante (es-
senzialismo e alto grado di mimeticità della rappresentazione), quei criteri che invece
risulterebbero invertiti e dislocati dalla rappresentazione camp. Si vedano in proposito
Jonathan Dollimore, Sexual Dissidence, cit., pp. 48-63, e Id., “The Dominant and the
Deviant: A Violent Dialectic”, Critical Quarterly, XXVIII, 1-2, Spring-Summer 1986, pp.
179-192. Il che non significa, ovviamente, che nella rappresentazione mimetico-
essenzialista della Hall non si dia una matrice camp, in virtù del carattere da feuilleton
perverso analizzato in Vita Fortunati, “Un feuilleton lesbico: The Well of Loneliness di
Radclyffe Hall”, in Paola Colaiacomo et alii (a cura di), Come nello specchio. Saggi sulla
figurazione del femminile, Torino: La Rosa, 1980, pp. 51-73. Nel caso di Wilde, tuttavia,
erano gli insegnamenti estetici stessi, nella loro ‘perversa’ portata camp, a essere sotto
accusa di pari passo alla perversità della specifica pratica sessuale del loro propositore
(si confronti quanto osservato in merito nel capitolo 2).
3
Si consulti in proposito Leslie Moran, op. cit.
ULTERIORI ALTERITÀ 119

sa, denuncia in ultima analisi una diversa strategia di gestione rispetto a


quella produzione di discorsi (patologizzanti o criminalizzanti) che si è
esercitata invece sulla controparte maschile; il che, al tempo stesso, ne ha
fortemente limitato la capacità di sovversione, se non la potenzialità.
Come dire: non si dà effettiva sovversione in uno stato di silenzio assolu-
to all’interno della cultura dominante.
Qualora ci si muova all’insegna della sovversività (tutta potenziale)
del camp lesbico, un limite meno immediato è posto dal fatto che il camp
è stato culturalmente costruito come prerogativa dell’omosessualità ma-
schile, il che pone la variante lesbica in posizione secondaria, marginale
all’interno di una posizione già costituitasi in quanto margine. Un chiaro
esempio giunge da un cortometraggio indipendente britannico, Fireworks
Revisited (diretto e interpretato da Beverley Zalcock nel 1994), che al fine
1
di suggerire “possibilities for ‘lesbian camp’ through parody” si pone in
rapporto evidentemente citazionale nei confronti di un grande classico
del cinema underground, quel Fireworks (1947) il cui autore – Kenneth
Anger – è stato consacrato quale figura di primissimo piano del camp che
dominava la scena underground statunitense fra gli anni Quaranta e
2
Sessanta. La questione del rapporto fra camp di matrice omosessuale
maschile e femminile (quanto il secondo sia derivativo rispetto al primo,
e quanto si sia articolato indipendentemente o parallelamente a esso)
non è stato per il momento affrontato dalla critica angloamericana. Si è
però potuto osservare, come ha fatto Paula Graham, che il ricorso alla
nozione di camp per fare riferimento alla prassi di rappresentazione pa-
rodica lesbica si offra al rischio di elidere paradossalmente la presenza e
specificità lesbica, riproponendo cioè il problema storicamente eviden-
ziato nell’utilizzo prima (negli anni Settanta e Ottanta) di gay e poi (negli
3
anni più recenti) di queer:
Oppositional reading strategies develop in response to specific, if over-
lapping, forms of oppression. To apply terms such as camp or queer to
lesbian reading practices is more likely to obscure both the diversity
and the specificity of the practices themselves, as well as the power-

1
La frase è attinta dalla scheda tecnica del cortometraggio, presentato all’interno
della rassegna “Classic Avant-Garde / Queer Cult – Spirit of the Underground”, tenu-
tasi presso il cinecircolo LFMC (Camden Town, Londra), il 18 agosto 1995.
2
Sulla scena underground si confronti la sezione 8.2.
3
Intorno al ripensamento che le comunità omosessuali hanno prodotto sull’utilizzo
storico dei termini di autonominazione si può consultare Richard Dyer, “In a Word” (1991),
in The Matter of Images: Essays on Representation, London: Routledge, 1993, pp. 6-10.
120 TIRANDO LE FILA

relations which structure them, than to facilitate a productive diversity


of cultural reading and aesthetic practices.1

Questo il paradosso: oltre a caricarsi di un (supposto) maggior grado di


sovversività, il camp rischia di negare il soggetto lesbico nel momento in
2
cui questo soggetto faccia ricorso alle sue strategie. Il che dimostra come
i tentativi di porre degli spartiacque (in termini di sovversività, ma anche
di configurazione stessa) fra camp femminista (same-sex female mimicry),
camp gay maschile e camp lesbico si offra immediatamente ad accuse di
‘tradimento’, data la condizione osmosica di queste tre varianti.
Il problema investe in genere le riflessioni sulla sovversività del camp
come suo dato caratterizzante. Parlare di ‘camp sovversivo’ presuppone
infatti un conseguimento della ‘sovversione’, della sfida portata a un or-
dine costituito che ha degli effetti nel pragma, che agisce sull’ordine stes-
so, che può resistere solo a condizione di una brutale reazione o di un
riassestamento di sé (in breve di una negoziazione con le istanze sovver-
sive). Presupporre la sovversività come dato intrinseco al camp, benché
essa possa trovare diversi casi storici a proprio conforto, trascura senz’al-
tro sia la specificità della risposta (reazione o negoziazione), sia innume-
revoli altri casi in cui una pratica eversiva non ha apportato un’effettiva
reazione di sorta da parte dell’ordine costituitosi. In breve, il camp sotto-
pone ad attenzione un problema che ha investito la teoria culturale con-
temporanea nel suo complesso, nel momento in cui si è confrontata con
la possibilità di un’operazione critica che riconosca la propria strumenta-
lità politica. In un brano ormai famoso, Jonathan Dollimore così sintetiz-
za la posizione materialista al riguardo, che le considerazioni precedenti
1
Paula Graham, “Girl’s Camp? The Politics of Parody”, cit., p. 180. È parzialmente
in relazione alla marginalizzazione della soggettività lesbica insita nell’utilizzo di gay
(con il quale si farebbe riferimento ad entrambi i sessi, ma che all’atto pratico esclude il
lesbismo) che si è venuto imponendo l’utilizzo, assolutamente dominante nell’ultimo
decennio, di queer (intorno al quale ci si soffermerà nel capitolo 7). Tuttavia anche
questo termine è maggiormente ascritto all’omosessualità maschile, riproponendo di
fatto il problema della maggior visibilità del maschile sul femminile, e Kate Davy os-
serva in relazione all’utilizzo contemporaneo che “[q]ueer’s inclusive, universalizing
move vis-à-vis fellow-traveling outsiders tends to, once again, ensure that lesbian se-
xuality will remain locked out of the visible”. Kate Davy, “From Lady Dick to Ladylike:
The Work of Holly Hughes”, in Lynda Hart and Peggy Phelan (eds.), Acting Out:
Feminist Performances, Ann Arbor: University of Michigan Press, 1993, p. 78.
2
Ciò non significa che Graham non ricorra alla ‘costruzione contestata’ del camp, sia
in termini di strategia di lettura (l’articolo da cui il brano è tratto esamina in questa
chiave film come Red Sonja (1985), Johnny Guitar (1953) e Seven Women (1966)), sia di
performance, avendo partecipato alla produzione del cortometraggio di Bev Zalcock.
ULTERIORI ALTERITÀ 121

hanno in una qualche misura annunciato: “nothing can be intrinsically


or essentially subversive in the sense that prior to the event subversive-
ness can be more than potential; in other words it cannot be guaranteed
1
a priori, independent of articulation, context and reception”. Nulla può
aprioristicamente essere valutato come sovversivo – né il camp gay ma-
schile, né quello femminista, e neppure quello lesbico. Al solito, in ultima
analisi, sembra che le riflessioni sull’argomento abbiano trascurato la
2
questione della storicità e località dell’oggetto di indagine.
Una soluzione sarà allora quella di pensare il camp, nella sua dimen-
3
sione di strumento di contestazione del dato culturale, non come strate-
gia di per sé sovversiva bensì come strategia del dissenso. Tale soluzione
consente infatti di delineare le implicazioni politiche di una data prassi,
nella consapevolezza che l’esito di un’eversività possa tradursi in un pa-
radossale processo di preservazione di sé da parte dell’ordine costituito.
Quest’ultimo sarebbe infatti in grado, secondo i teorici del ‘contenimen-
to’, di reinvestire le sfide portate dall’alterità sovversiva in una strategia
di vigilanza dei confini fra lecito e illecito, e di rifunzionalizzare le istanze
marginali in un progetto di preservazione dell’ordine stabilito (vale a dire
4
il rapporto fra le parti sociali, fra dominante e subordinato). In una pro-
spettiva simile, è immediato indicare la diffusione del camp in quanto
formazione culturale specificamente omosessuale, a partire dagli anni
Sessanta, all’interno della cultura dominante, come un tipico effetto di
contenimento di una prassi sovversiva attraverso la sua cooptazione a
5
parte integrante dell’ordine. In seconda, ma non meno significativa bat-
tuta, è possibile sostenere che l’eccesso, l’artificio e la frivolezza, vale a

1
Jonathan Dollimore, “Shakespeare, Cultural Materialism, and the New Histori-
cism”, in Jonathan Dollimore and Alan Sinfield (eds.), Political Shakespeare: New Essays
in Cultural Materialism, Manchester: Manchester University Press, 1985, p. 13.
2
Si tornerà nelle prossime pagine sulla storicità e sulla storia nel/del camp.
3
Una soluzione, dunque, parziale.
4
Questa posizione è stata ascritta, con una qualche forzatura, al neostoricismo nor-
damericano, e in particolare al suo maggiore esponente – Stephen Greenblatt – che ne
avrebbe offerta un’esposizione di spiccata persuasività in “Invisible Bullets: Renaissance
Authority and Its Subversion, Henry IV and Henry V” (1981), in Jonathan Dollimore
and Alan Sinfield (eds.), Political Shakespeare, cit., pp. 18-47. Lo stesso Greeblatt ha
peraltro decisamente rifiutato, negli anni successivi, questa lettura intrinsecamente
frustrante del proprio saggio e della propria prospettiva teorica. Cfr. Id., Learning to
Curse: Essays in Early Modern Culture, London: Routledge, 1990, pp. 164-166. Posizioni
analoghe, a ogni modo, emergono anche all’interno dei gay studies: si veda in tal senso
D. A. Miller, The Novel and the Police, cit.
5
Tale risulta in buona sostanza la tesi di Moe Meyer, di cui si dirà nel capitolo 7.
122 TIRANDO LE FILA

dire i termini che più immediatamente vengono attivati dal camp come
pratica e come fenomeno, risultino funzionali alla definizione di un ordi-
ne di equilibrio, di autenticità e di serietà – in breve, che il camp si ponga
come strumento, in quanto spazio di negatività, per una affermazione
(più che per una decostruzione) della norma e della positività. In questo
secondo caso, il camp parteciperebbe della logica del contenimento, par-
tecipando delle strategie che il potere dispiega nel processo di autolegit-
timazione e autoriproduzione, le quali in una qualche misura presuppon-
gono la sovversione (il centro postula un margine: la giustizia necessita
della criminalità, la sovranità delle pulsioni eversive). Una sovversione così
1
ineluttabilmente contenuta poiché resa “the very condition of power”.
Senza entrare nello specifico della dialettica che ha contrapposto teo-
rici dell’inesorabile contenimento e sostenitori di una radicale sovversivi-
2
tà di alcune prassi, la direzione che sembra preferibile in merito al camp
coincide con la scelta – da parte dei propositori di una possibilità di sov-
versione, se non della sua inesorabilità – di caratterizzare una data mo-
dalità di rappresentazione (tanto in fase di codifica quanto di decodifica:
3
la formula di re-presentation contiene entrambi) come dissidente, a pre-
scindere cioè secondo direttive materialiste dall’inesorabilità (verso un
4
esito di sovversione o di contenimento) come intrinsecamente data. Tale

1
Stephen Greenblatt, “Invisible Bullets: Renaissance Authority and Its Subversion,
Henry IV and Henry V”, cit., p. 45.
2
Mi permetto di rinviare, per un approfondimento, ai miei “‘Oscar Wilde’ e i mate-
rialisti” e “Promemoria sulla critica radicale in Gran Bretagna”, citt. Ma si vedano
senz’altro, per un inquadramento articolato del neostoricismo nordamericano (cui si
ascrive la tesi del ‘contenimento’), Barbara Gastaldello (a cura di), “Il neostoricismo”,
numero monografico de L’Asino d’oro, 8, 1993; e Vita Fortunati e Giovanna Franci (a
cura di), Il neostoricismo, Modena: Mucchi, 1996.
3
Per queste ragioni re-presentation, nella quale ‘presentazione’, ‘ripresentazione’ e
‘rappresentazione’ denunciano la propria inestricabilità, è formula assolutamente po-
polare nella critica ricontestualizzante dell’ultimo quindicennio. Una fra le riviste più
significative dell’intero spettro critico, diretta da Stephen Greenblatt e largamente ri-
conducibile al neostoricismo, porta significativamente quale nome Representations.
4
Sulla scelta, operata all’interno del materialismo culturale britannico, di parlare di
dissidence piuttosto che di subversion, oltre che per una introduzione alla dialettica fra
sovversione e contenimento e al confronto fra materialismo culturale e nostoricismo, si
vedano Jonathan Dollimore, “Introduction to the Second Edition”, in Radical Tragedy:
Religion: Ideology and Power in the Drama of Shakespeare and His Contemporaries (1984),
London: Harvester Wheatsheaf, 1989, pp. xi-lxviii; e Alan Sinfield, Faultlines: Cultural
Materialism and the Politics of Dissident Reading, Oxford: Clarendon, 1992, pp. 29-51.
Non è irrilevante rilevare che Sinfield, in The Wilde Century, cit., proponga uno sguar-
do ambivalente al camp (e che uno sguardo analogo al camp, seppur implicitamente,
venga rivolto da Dollimore in “Different Desires: Subjectivity and Transgression in
ULTERIORI ALTERITÀ 123

fondamentale ambiguità in termini di rapporto fra intenzioni (sovversive


o reazionarie) e loro realizzazione si coniuga del resto nel camp con
quella che è stata chiamata la sua complicità critica, il suo carattere se-
condario, citazionale, dipendente da quelle stesse strutture che peraltro –
potenzialmente – sovverte, o sovversivo di ciò che del resto presuppone.
Il che pone ad attenzione un’altra dimensione problematica di assoluto
rilievo che si pone attraverso il ricorso alla nozione di camp – la sua qualità
‘postmoderna’, alla cui complessità saranno dedicate le prossime pagine.

Wilde and Gide”, Textual Practice, 1, 1, Spring 1987, pp. 48-67) in quanto strategia di
emancipazione – valida hic et nunc – per la sottocultura gay nella Gran Bretagna degli
anni recenti.
5

Sulle intersezioni di camp e postmoderno

Al suo emergere all’attenzione pubblica negli anni Sessanta, il camp ri-


sulta frequentemente sovrapposto alla nozione di postmoderno, nozione
con la quale condivide numerosi elementi della propria configurazione
tanto storica quanto fenomenologica (si confronti in tal senso la Parte Ter-
za). In ambito architettonico e di arti figurative, ad esempio, si fa ricorso
al camp per denotare pratiche che altrimenti vengono chiamate – e che
con gli anni verranno codificate come – postmoderne, dall’opera di Ro-
1
bert Venturi a quella di Philip Johnson. Il ricorso a postmodern a discapi-
to di camp risulterà negli anni sempre più marcato, ma non è infrequente
incontrare in testi dedicati al primo riferimenti en passant al secondo, tal-
volta utilizzato – secondo quanto riporta Matei Calinescu – come sino-
nimo del primo in chiave negativa, in ragione della loro comune com-
promissione con la cultura popolare (“the popular code that it conspi-
cuously uses can also make postmodernism look very much like kitsch or
2
camp, with which its adversaries deliberately identify it”). E in effetti il

1
Si confrontino in merito i lavori precedentemente citati di Charles Jencks, C. Ray
Smith e Hilton Kramer (di cui supra, alla nota 3 di pagina 65).
2
Matei Calinescu, Five Faces of Modernity: Modernism, Avant-Garde, Decadence, Kitsch,
Postmodernism (1977) Durham: Duke University Press, 1987, p. 312. Riferimenti en pas-
sant al camp come partecipe della Zeitgeist postmoderna si offrono in Ihab Hassan,
“POSTmodernISM: A Paracritical Bibliography”, New Literary History, III, 1, Fall 1971,
pp. 5-30; Leslie A. Fiedler, Cross the Border, Close the Gap, New York: Stein and Day,
1972, pp. 61-85; Linda Hutcheon, The Politics of Postmodernism, London: Routledge,
1989, p. 10; Sabine Hake, “‘Gold, Love, Adventure’: The Postmodern Piracy of Ma-
dame X”, Discourse, XI, 1, Fall-Winter 1988-89, pp. 88-110; Henry Kariel, The Desperate
Politics of Postmodernism, Amherst: University of Massachussetts Press, 1989, p. 65;
Ingeborg Hoesterey, “Introduction: Postmodernism as Discursive Event”, in Ingeborg
Hoesterey (ed.), Zeitgeist in Babel: The Postmodernist Controversy, Bloomington: Indiana
University Press, 1991, pp. XII, XIV; Jeff Weinstein, Jim Fouratt, Vito Russo, Kate Mil-
lett, Arthur Bele, Edmund White and Bertha Harris, “Extended Sensibilities”, in Rus-
sell Ferguson, William Olander, Marcia Tucker and Karen Fiss (eds.), Discourses: Con-
126 ESUBERANZA

‘luogo’ di più clamorosa sovrapposizione fra camp e postmoderno è


senz’altro la diffusione del pop nel secondo dopoguerra – si pensi anche
solo alla Pop Art di Andy Warhol, che a partire dagli anni Sessanta rese
le due estetiche (camp e pop) praticamente sinonimiche, o al Batman te-
levisivo e cinematografico di cui s’è detto in apertura del capitolo 3, nel
quale il gusto pop e l’allusività omosessuale di squisita matrice camp ri-
vestono un ruolo dal quale si è potuto prescindere, fino agli anni Novan-
1 2
ta, solo attraverso un’esercizio di ‘clamorosa’ censura.
Il rapporto fra camp e postmoderno è uno dei nodi più problematici –
e in quanto tale interessanti, in un approccio di riconoscimento della
problematicità come pointe critica – che si impongono all’attenzione di
chi affronti la configurazione storico-teorica del camp, e si avrà modo di
tornare a più riprese su di esso. In relazione a quanto si va osservando,
tuttavia, è sufficiente registrare la particolarissima consonanza che i due
termini vivono circa la possibilità di dissidenza e di critica, e circa la com-
promissione come inestricabile dalla possibilità stessa – vale a dire, quanto
precedentemente chiamato la ‘complicità critica’ del camp. La prassi camp

versations in Postmodern Art and Culture, New York: New Museum of Contemporary
Art and MIT Press, 1992, pp. 130-155; e Jim Collins, “After the End of Early Postmod-
ernism: The Pragmatics of Excess”, in Architectures of Excess: Cultural life in the Age of
Information, London: Routledge, 1995, pp. 1-29. Altri riferimenti più sostanziali saran-
no presentati oltre.
1
Se ne è potuto prescindere, peraltro, solo in sede critica, vale a dire in quelle istitu-
zioni del sapere che hanno latamente escluso sia il camp sia la questione e prospettiva
omosessuale dall’ordine di rilevanza critica.
2
I principali lavori che hanno indagato la qualità camp e gay di Warhol e di Batman
in aperta contestazione di tale censura sono Patrick S. Smith, Andy Warhol’s Art and
Films, Ann Arbor: UMI Research Press, 1986; Peter Wollen, “Raiding the Icebox”, in
Michael O’Pray (ed.), Andy Warhol: Film Factory, London: British Film Institute, 1989,
pp. 14-27; Roberta E. Pearson and William Uricchio (eds.), The Many Lives of the Batman:
Critical Approaches to a Superhero and His Media, London: Routledge, 1991 (in particolare
Andy Medhurst, “Batman, Deviance and Camp”, pp. 149-163; Lynn Spigel and Henry
Jenkins, “Same Bat Channel, Different Bat Times: Mass Culture and Popular Memory”,
pp. 117-148); Steven Shaviro, The Cinematic Body, Minneapolis: University of Minne-
sota Press, 1993; Richard Meyer, “Warhol’s Clones”, The Yale Journal Of Criticism, VII,
1, 1994, pp. 79-109; Van M. Cagle, Reconstructing Pop/Subculture: Art, Rock, and Andy
Warhol, London: Sage, 1995; Jennifer Doyle, Jonathan Flatley, and José Esteban Mu-
ñoz (eds.), Pop Out: Queer Warhol, Durham: Duke University Press, 1996 (in particolare
Jennifer Doyle, Jonathan Flatley, and José Esteban Muñoz, “Introduction”, pp. 1-19;
Mandy Merck, “Figuring Out Andy Warhol”, pp. 224-237; Sasha Torres, “The Caped
Crusader of Camp: Pop, Camp, and the Batman Television Series”, pp. 238-256; Simon
Watney, “Queer Andy”, pp. 20-30; Thomas Waugh, “Cockteaser”, pp. 51-77); Juan
Suárez, Bike Boys, Drag Queens, and Superstars: Avant-Garde, Mass Culture, and Gay
Identities in the 1960s Underground Cinema, Bloomington: Indiana University Press, 1996.
SULLE INTERSEZIONI DI CAMP E POSTMODERNO 127

si offre infatti come istanza esemplare della tendenza postmoderna alla


manipolazione intertestuale di convenzioni multiple e stratificate. Non
risulta in tal senso forzato sovrapporre quanto Sontag osservava sul cita-
zionismo e sull’autocontraddittorietà camp con una precisa definizione
del postmoderno offerta da uno dei suoi studiosi più influenti, Linda Hut-
cheon: il postmoderno sarebbe caratterizzato da una forma di

self-conscious, self-contradictory, self-undermining statement. It is


rather like saying something while at the same time putting inverted
commas around what is being said. The effect is to highlight, or ‘high-
light’, and to subvert, or ‘subvert’, and the mode is therefore a ‘know-
ing’ and an ironic – or even ‘ironic’ – one. Postmodernism’s distinctive
character lies in this kind of wholesome ‘nudging’ commitment to
doubleness, or duplicity.1

“Camp sees everything in inverted commas”; “It’s good because it’s awful”,
scriveva infatti Sontag. Prosegue Hutcheon:

In many ways it is an even-handed process because postmodernism


ultimately manages to install and reinforce as much as undermine and
subvert the conventions and presuppositions it appears to challenge.
Nevertheless, it seems reasonable to say that the postmodern’s initial
concern is to de-naturalize some of the dominant features of our way
of life; to point out that those entities that we unthinkingly experience
as ‘natural’ (they might even include capitalism, patricarchy, liberal
humanism) are in fact ‘cultural’; made by us, not given to us.2

Anche questo sommario resoconto delle implicazioni politiche – di poli-


tica della rappresentazione – ascrivibili al postmoderno si offre a un’im-
mediata analogia con quanto osservato nelle pagine precedenti sulla pa-
rodia camp, nella sua veste potenzialmente sovversiva. È evidente infatti
che il postmoderno secondo Hutcheon risulta definito in primissima bat-
tuta dal suo aspetto metarappresentativo e parodico, in quanto “exten-
ded repetition with critical distance that allows ironic signalling of diffe-
3
rence at the very heart of similarity” – con tutto il portato d’ambiguità
che la parodia comporta.
1
Linda Hutcheon, op. cit., p. 1.
2
Ivi, pp. 1-2.
3
Linda Hutcheon, A Theory of Parody: The Teachings of Twentieth-Century Art Forms,
New York: Methuen, 1985, p. 7. E in The Politics of Postmodernism Hutcheon scrive che
“[p]arody – often called ironic quotation, pastiche, appropriation, or intertextuality – is
usually considered central to postmodernism, both by its detractors and its defenders”.
128 ESUBERANZA

La parodia – analogamente al suo indissociabile correlato camp, il pa-


radosso – ha infatti in sé una fondamentale duplicità, una scissione fra
valore oppositivo e di coesistenza, segnalata del resto già dall’elemento
caratterizzante παρα (παρωδια, composto di παρα e di ωδη, ‘canto’, e
παραδοξος, composto di παρα e di δοξα) che significa, è noto, sia ‘con-
tro’ sia ‘accanto’ o ‘rassomigliante’. Dall’etimo di parodia e di paradosso
emergono dunque un controcanto e una contro-opinione, una voce dis-
sonante che peraltro postula ciò che contesta; una voce che risulta in sin-
tonia dunque – sia pur per contrasto – con la voce dominante o con la
doxa, e che in essa e a partire da essa trova la propria matrice stilistica
1
oltre che politica. Hutcheon ne consegue che “parody is doubly coded in
2
political terms: it both legitimizes and subverts that which it parodies”;
lo spessore critico del postmoderno sarebbe infatti “a strange kind of cri-
tique, one bound up, too, with its own complicity with power and domi-
nation, one that acknowledges that it cannot escape implication in that
3
which it nevertheless still wants to analyze and maybe undermine”.
Come ogni forma di parodia, e come la manipolazione postmoderna
del già-dato che strania la culturalità del ‘naturale’, il camp implica infatti
sia l’autorità sia la trasgressione, rimandando al sé parodiante e al paro-
diato (e al rapporto d’osmosi fra i due termini) in un processo che può
dunque tradursi in un rafforzamento dell’oggetto parodiato e perpetuarne
la fondamentale ‘validità’, oppure (ma l’alternativa non esclude necessa-
riamente uno dei due termini opposti: anzi, li fa convivere) promuoverne
l’obsolescenza, demistificarlo e ‘invertirlo’ quale passo imprescindibile
per una politica di cambiamento culturale, politica che si esercita nella
consapevolezza della necessità di operare dall’interno di una data gerar-
4
chia culturale per modificare la gerarchia stessa.

(cit., p. 93). Intorno a questo e ad altri aspetti del postmoderno nel resoconto di Hu-
tcheon si veda anche, della stessa autrice, A Poetics of Postmodernism: History, Theory,
Fiction, London: Routledge, 1988. Per un’eccellente introduzione alla parodia si veda
Margaret A. Rose, Parody: Ancient, Modern, and Postmodern, Cambridge: Cambridge
University Press, 1993.
1
Per il rimando all’etimo di parodia come indicativo della sua intrinseca duplicità si
veda Linda Hutcheon, A Theory of Parody, cit., pp. 32-33, 54-55 et passim. Sul para-
dosso di matrice camp si può consultare Gregory Woods, “‘Absurd! Ridiculous! Dis-
gusting!’ Paradox in Poetry by Gay Men”, in Mark Lilly (ed.), Lesbian and Gay Writing:
An Anthology of Critical Essays, London: Macmillan, 1990, pp.175-198.
2
Linda Hutcheon, The Politics of Postmodernism, cit., p. 101.
3
Ivi, p. 4.
4
L’inversione delle gerarchie binarie quale passo imprescindibile per una ristruttura-
zione dell’ordine è quanto peraltro suggerito dalla decostruzione di Jacques Derrida
SULLE INTERSEZIONI DI CAMP E POSTMODERNO 129

L’intersezione fra camp, parodia (nella stratificata valenza della stessa)


e discorsività postmoderna offre dunque una chiave risolutiva alla confi-
gurazione del primo termine. Nel risolvere (o meglio evidenziare) una
problematicità, l’intersezione pone tuttavia a sua volta altri problemi di
non trascurabile portata. Da un lato vi è l’immediata questione della sto-
ricità delle categorie utilizzate. Postmoderno e parodia sembrano infatti
convivere in simbiosi, senza delegittimarsi vicendevolmente; proporre la
consonanza con il camp, peraltro, significa attivare una dimensione sto-
rica – il postmoderno e la sua qualità parodica, appunto – in relazione a
un’altra categoria la cui configurazione storica è non solo più evanescen-
te, ma anche senz’altro precedente. Pur senza chiamare in causa gli ante-
cedenti indicati da Sontag nel Settecento, limitandosi cioè alla prima at-
testazione accreditata del termine nel dizionario di Redding Ware del
1909 (cfr. il capitolo 2), il camp come fenomeno culturale precede di al-
meno metà secolo l’emergere del postmoderno sia nella teoria sia nella
prassi culturale. Il che apre una questione di ampia dimensione, che non
è risolvibile con frettolosità, come è stato fatto – a partire dalla nozione di
postmoderno presieduta dal suo aspetto parodico – sostenendo che il
camp sia non tanto una forma di quanto il postmoderno per eccellenza,
una versione avant la lettre ma in ultima analisi ‘fondamentale’, e in quanto
tale ‘originaria’ dello stesso, di cui il postmoderno quale lo conosciamo
sarebbe l’esito quale banale derivazione o sovraestensione all’interno della
1
cultura eterosessuale e borghese.

quale strategia politica. Cfr. Jacques Derrida, Positions, Paris: Minuit, 1972, pp. 18-22. A
questo suggerimento si rifà peraltro Jonathan Dollimore nell’evidenziare la contempo-
raneità della lezione di Oscar Wilde, nella sua strategia camp di inversione, per la poli-
tica culturale in un paradigma postmoderno. Cfr. Jonathan Dollimore, “Wilde’s Trans-
gressive Aesthetic and Contemporary Cultural Politics”, cit., pp. 64-68; e Id., “The
Dominant and the Deviant: A Violent Dialectic”, cit. Non è irrilevante rilevare come
Derrida abbia affrontato esplicitamente la questione dell’uso delle virgolette per indi-
care un’appropriazione ambigua di un termine o di una rappresentazione (quelle vir-
golette che sono indicate da Sontag come un tratto distintivo del camp, e da Hutcheon
del postmoderno), ribadendone l’imprescindibilità in questa chiave. Cfr. Jacques Derrida,
“Resoconti e constatazioni concernenti neologismi, neoismi, postismi, parassitismi e
altre piccole sismicità” (1990), in Andrea Carosso (a cura di), Decostruzione e/è America.
Un reader critico, Torino: Tirrenia Stampatori, 1994, pp. 305-326.
1
Questo emerge ad esempio nella boutade di Andy Medhurst secondo il quale “po-
stmodernism is only heterosexuals catching up with camp”. Andy Medhurst, “Pitching
Camp”, City Limits, 10-17 May 1990, pp. 18-19. In un intervento scritto nei mesi suc-
cessivi per una sede meno popolare (la rivista di studi cinemtografici Screen), Medhurst
correggerà la forma ma non la motivazione della propria proposta, mitigando peraltro
130 ESUBERANZA

In seconda battuta, sovrapporre camp e postmoderno risulta funzionale


solo a patto che si trascuri, al solito, la complessità della configurazione
teorica di entrambi. Per evidenziare questo riduzionismo può essere utile
riprendere un intervento che ha segnato le riflessioni sul postmoderno in
prospettiva marxista, nel quale Fredric Jameson disegna un panorama
dello stato culturale contraddistinto da elementi che afferiscono di fatto
1
alla fenomenologia camp. Significativamente, al fine di argomentare la
valenza deleteria della “logica del tardo capitalismo”, che si esprime in
un’abolizione del referente, in cui “[t]he world […] momentarily loses its
depth and threatens to become a glossy skin, a steroscopic illusion, a
2
rush of filmic images without density” che investe la soggettività tardo-
capitalista evacuandola di senso, di realtà e di possibilità di dissenso, egli
ricorre alla nozione di camp proposta da Sontag, e la sovrappone alla
tradizionale categoria del sublime in quello che diviene “something like
3
a camp or ‘hysterical’ sublime”.
L’analisi di Jameson, nella sua specifica pertinenza camp, investe tre
aspetti correlati: la messa in crisi delle gerarchie culturali ed estetiche,
l’evacuazione di interiorità del soggetto, e di carattere fondativo del reale,
e infine la questione della Storia e della manipolazione dei codici interte-
stuali in un ‘eterno presente’ all’insegna della spettacolo e dell’irrespon-
sabilità critica. In apertura Jameson evidenzia infatti lo stato culturale
contemporaneo come partecipe di una “rise of aesthetic populism” – di
quella retorica populista di cui sarebbe esemplare istanza in architettura
il lavoro di Robert Venturi, che indicava un modello estetico nel sublime
4
aberrante del Capitale, Las Vegas – la cancellazione del confine fra cul-
tura alta e commerciale, e “the emergence of new kinds of texts infused
with the forms, categories and contents of that very Culture Industry so
5
passionately denounced by all the ideologues of the modern”. È in quel
degrado estetico denunciato nella prima metà del secolo dai Leavis, dal

fortemente l’assertività della stessa. Cfr. Andy Medhurst, “That Special Thrill: Brief
Encounter, Homosexuality and Authorship”, cit., p. 207.
1
Fredric Jameson, “Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capitalism”, New
Left Review, 146, July-August 1984, pp. 53-92. L’intervento è stato successivamente
ampliato in un volume, apparso come Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capi-
talism, Durham: Duke University Press, 1991.
2
Ivi, p. 76-77.
3
Ivi, p. 77.
4
Ivi, p. 54. Il riferimento è a Robert Venturi, Denise Scott Brown and Steven Izenour,
Learning from Las Vegas, Cambridge: MIT Press, 1972.
5
Fredric Jameson, “Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capitalism”, cit., p. 54.
SULLE INTERSEZIONI DI CAMP E POSTMODERNO 131

New Criticism nordamericano, da Adorno e dalla Scuola di Francoforte,


che peraltro si è precedentemente visto essere ascrivibile al camp, che il
postmoderno trova non solo la principale fonte d’ispirazione, ma anche
la propria stessa configurazione estetica:

The postmodernisms have in fact been fascinated precisely by this


whole ‘degraded’ landscape of schlock and kitsch, of TV series and
Readers’ Digest Culture, of advertising and motels, of the late show
and the grade-B Hollywood films, of so-called paraliterature with its
airport paperback categories of the gothic and the romance, the popu-
lar biography, the murder mystery and science-fiction or fantasy novel:
materials they no longer simply ‘quote’, as a Joyce or a Mahler might
have done, but incorporate into their very substance.1

In breve, la canonizzazione o istituzionalizzazione di un fenomeno cul-


turale i cui fermenti avevano segnato le avanguardie, il passaggio cioè da
tensione delle avanguardie con la cultura di massa all’omologazione di
cultura alta e commerciale, ha fatto sì che la produzione artistica si sia
integrata alla produzione di merci in genere, e che abbia perso la propria
dimensione critica nei confronti del Capitale. Gli esempi cui ricorre Ja-
2
meson (‘Schlock’ e Kitsch, serie televisive, pubblicità, paraletteratura e
film hollywoodiani di second’ordine), così come la trasvalutazione dei
valori insita nel paradossale apprezzamento del degrado – che viene e-
letto a propria matrice, incorporato dai lavori ascrivibili al camp inten-
zionale “into their very substance” –, sembrano peraltro riferirsi al cor-
pus di riferimento e alla configurazione dell’estetica camp quali si sono
descritti finora prima ancora che al postmoderno, di cui questa sembra
3
essere una testimonianza puramente derogatoria. Quando Matei Cali-
nescu, come s’è sopra riportato, afferma che camp viene utilizzato quale
sinonimo in chiave negativa di postmodernism, egli sembra in effetti rife-
rirsi implicitamente alla critica mossa da Jameson.
Come quel ‘postmoderno’ che viene generalmente esteso a compren-
dere le riflessioni di Jean-François Lyotard, Jacques Derrida e Michel
1
Ivi, p. 55.
2
Schlock è termine jiddish che indica le merci fallate vendute a prezzo ridotto. Con-
divide con la categoria di Kitsch la valutazione negativa di ‘lavoro di second’ordine’,
copia degenerata di un originale valido in quanto tale e in quanto ‘effetto realizzato’.
3
Quale introduzione alle stratificazioni del termine postmoderno, oltre ai volumi pre-
cedentementi menzionati, è efficace Matei Calinescu, “On Postmodernism” (1986), in
op. cit., pp. 265-312, che offre una prospettiva storica sulla problematica in relazione a
fattori attivati dall’analisi di Jameson quali le avanguardie e il Kitsch.
132 ESUBERANZA

Foucault (spesso frettolosamente intesi quali suoi ‘teorici’), si ponga in


relazione al panorama culturale additato da Jameson è solo di indiretta
evidenza, e legato a una più ampia riflessione sullo statuto ontologico del
soggetto e del reale che si correla al primo spunto polemico sulla dege-
nerazione dell’estetico. Il postmoderno jamesoniano, e la sua pertinenza
per una riflessione sul camp, non si limita infatti al rapporto intrattenuto
da teorie e prassi postmoderne con la cultura di massa. Il postmoderno
1
disegnato da Jameson (e, sulla scorta di questi, dalla critica marxista) addi-
2
ta infatti quali propri “constitutive features” – e quale ragion d’essere di
una simile connivenza fra intellettualità e stato culturale – gli effetti della
scomparsa nella teoria tanto quanto nella prassi postmoderna del ‘model-
lo di profondità’, rimpiazzato da

a new depthlessness, which finds its prolongation both in contempo-


rary ‘theory’ and in a whole new culture of the image or the simula-
crum; a consequent weakening of historicity, both in our private rela-
tionship to public History and in the new forms of our private tempo-
rality […]; a whole new type of emotional ground tone […] which can
be best grasped by a return to older theories of the sublime […].3

Il rifiuto del modello di profondità si articola in un’abolizione della profon-


dità ermeneutica, e in quella di “at least four other fundamental depth
models”, vale a dire

the dialectical one of essence and appearance (along with a whole


range of concepts of ideology or false consciousness which tend to ac-
company it); the Freudian model of latent and manifest, or of repres-
sion (which is of course the target of Michel Foucault’s programmatic
and symptomatic pamphlet La Volonté de savoir); the existential model
of authenticity and inauthenticity, […] and finally […] the great oppo-
sition between signifier and signified. [S]uffice it merely to observe that
here too depth is replaced by surface, or by multiple surfaces (what is
1
Si vedano ad esempio Dan Latimer, “Jameson and Postmodernism”, New Left Re-
view, 148, 1984, pp. 116-127, e Terry Eagleton, “Capitalism, Modernism and Postmod-
ernism”, New Left Review, 152, 1985, pp. 60-73. Si è scelto il saggio di Jameson non
solo perché a esso sono riconducibili le riflessioni successive, ma per la sua esplicita
correlazione di postmoderno e camp. Con ciò si evidenzia come non si intenda qui
risolvere un problema – quello della teoria, storia e prassi postmoderna – che eccede
vistosamente le ambizioni, i confini e le presunzioni di questo lavoro, quanto affron-
tarlo nella limitata benché significativa misura in cui esso si correla al fuoco d’indagine
del lavoro stesso.
2
Fredric Jameson, “Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capitalism”, cit., p. 58.
3
Ibidem.
SULLE INTERSEZIONI DI CAMP E POSTMODERNO 133

often called intertextuality is in that sense no longer a matter of


depth).1

Le parole di Jameson sembrano dirette alla teoria altresì indicata come


‘post-strutturalista’. Esplicito ad esempio il riferimento a Michel Foucault
(e implicito quello a Jacques Lacan), cui si addebita la messa in crisi del
modello freudiano di profondità psichica, e alle teorie post-saussuriane
2
della testualità articolate all’insegna della ‘crisi del segno’. La cultura
dell’immagine, di cui nella citazione precedente, sembra riconducibile
nella prassi alla cultura massmediale, e nella teoria alla condiscendenza
(apologetica o rassegnata che sia) che i pensatori del simulacro – da Guy
3
Debord a Jean Baudrillard, da Paul Virilio a Mario Perniola – sono venuti

1
Ivi, p. 62.
2
Utili introduzioni alla ‘crisi del segno’ messo in gioco dalle teorie post-saussuriane
sono Terence Hawkes, Structuralism and Semiotics, London: Methuen, 1977; Richard
Harland, Superstructuralism: The Philosophy of Structuralism and Post-Structuralism,
London: Methuen, 1987; Jonathan Culler, Structuralist Poetics: Structuralism, Linguistics,
and the Study of Literature, London: Routledge & Kegan Paul, 1973; Id., The Pursuit of
Signs: Semiotics, Literature, Deconstruction, ibidem, 1981; Id., On Deconstruction: Theory
and Criticism after Structuralism, Ithaca: Cornell University Press, 1982; e Catherine
Belsey, Critical Practice, London: Methuen, 1980. Al ripensamento della lezione freu-
diana (cui sui ascrive l’ipotesi repressiva che lascia le proprie tracce in Norman Brown
e in Herbert Marcuse) accreditabile al costruzionismo di Michel Foucault si è accenna-
to nel corso del capitolo 1.
3
Il postmoderno delineato da Jameson sembra sotto diversi aspetti riconducibile allo
Zeitgeist che emerge negli scritti di Jean Baudrillard, che indica nella condizione iperre-
ale della contemporaneità una condizione all’insegna dello ‘sciopero degli eventi’, del-
la totale abolizione del referente in favore della dimensione simulacrale totalizzante e
degli abissi superficiali dei mass media. Fra gli scritti di Baudrillard basti prendere vi-
sione, in merito, di Simulacres et simulation, Paris: Galilée, 1981. Non a caso, infatti,
Jameson non manca di registrare con stizza quanto viene celebrato come “inaugura-
tion of a whole new type of society, […] designated consumer society, media society,
information society, electronic society or ‘high tech’ and the like”. Fredric Jameson,
“Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capitalism”, cit., p. 55. Inserendosi in
un comune terreno di riflessione aperto da Guy Debord (intorno al quale è eccellente
introduzione critica Anselm Jappe, Debord, Pescara: Tracce, 1992) e segnato negli anni
più recenti da Paul Virilio (ad esempio in L’horizon négatif. Essai de dromoscopie, Paris:
Galilée, 1984) e da Mario Perniola (di cui si veda in particolare La società dei simulacri,
Bologna: Cappelli, 1983), la differenza fra Baudrillard e la teoria marxista risiede nel
maggior nichilismo (o rassegnazione, o valenza apocalittica – assente peraltro anche in
Debord, Virilio e Perniola) del primo, e di enfasi. Se Baudrillard indica la massmediali-
tà come causa prima della degenerazione simulacrale, per Jameson è la logica culturale
del tardo capitalismo a perpetuarne il dominio attraverso la massmedialità (strumento
e non causa, dunque). Per entrambi, a ogni modo, così come del resto per Debord,
rimane un orizzonte di normalità con il quale si confronta l’appiattimento della con-
temporaneità, quell’orizzone che gli apologeti del postmoderno negano sostenendo
134 ESUBERANZA

offrendo in relazione alla medesima cultura e alle sue implicazioni.


L’indebolimento della storicità è d’altro canto riconducibile alla pratica
postmoderna di montaggio – sulla falsariga di un palinsesto o di uno
zapping televisivo – della varietà di stili storicamente e localmente etero-
genei, paradossalmente legittimata in sede teorica dal ‘crollo delle meta-
narrazioni’ registrata da Lyotard, o dallo storicismo anti-fondativo e anti-
1
metafisico delle epistemi foucaultiane.
Ma le considerazioni di Jameson sono investibili in via diretta sul camp,
di cui Dollimore avrebbe descritto nell’arco di qualche anno la strategia
di sovversione del “depth model of identity from inside, being a kind of
parody and mimicry which hollows out from within, making depth rece-
2
de into its surfaces”. La messa in crisi del modello di profondità sembra
infatti centrale al camp, la cui metafora della vita-come-teatro, si è visto,
si produce in una concettualizzazione dell’essere-come-ruolo, la somma-
toria di una serie di superfici – ‘maschile’ e ‘femminile’, ad esempio – che
si affastellano in modo contraddittorio (fra loro, nel caso del drag, o fra di
esse e la costruzione culturale della femminilità ‘naturale’, nel caso della
female mimicry). Nel camp così come nel postmoderno di Jameson si as-
siste infatti a una pratica e a una teoria articolate all’insegna della ‘morte
del soggetto’ – quella morte del soggetto predicata negli anni Sessanta
3
da Derrida, Barthes e Foucault – che si traduce in una soggettività per-
formativa e circostanziale, privata di un’àncora trascendente o ‘profonda’;

che tutto, a prescindere dall’intervento dei mezzi di comunicazione di massa, sia sem-
pre-già culturale, implicato in una prassi (e in una politica) di rappresentazione.
1
Si allude, ovviamente, a Jean-François Lyotard, La Condition postmoderne. Rapport
sur le savoir, Paris: Minuit, 1979, e a Id., Le Postmoderne expliqué aux enfants. Correspon-
dance 1982-1985, Paris: Galilée, 1986. L’impianto teorico dello storicismo di Michel
Foucault, diviso in fase archeologica e genealogica, emerge chiaramente in Les mots et
les choses. Une archéologie des sciences humaines, Paris: Gallimard, 1966, e nel citato La
volonté de savoir.
2
Si confronti supra, la nota 1 a pagina 78.
3
La ‘morte del soggetto’ promossa all’interno dello strutturalismo francese si inter-
seca, nelle teorizzazioni del periodo, con la ‘morte dell’autore’ in ambito letterario, che
si è ricondotta in prima battuta alle proposte avanzate in Roland Barthes, Sur Racine,
Paris: Seuil, 1963; Id., “La mort de l’auteur” (1967), in Le bruissement de la langue. Essais
critiques IV, Paris: Seuil, 1984, pp. 61-67; Pierre Macherey, Pour une théorie de la produc-
tion littéraire, Paris: François Maspero, 1966, pp. 83-84; Jacques Derrida, “Signature
événement contexte”, in Marges de la philosophie, Paris: Minuit, 1972, pp. 365-393; Id.,
Positions, cit.; Michel Foucault, L’archeologie du savoir, cit., ; e Id., “Qu’est-ce qu’un au-
teur?” Bulletin de la societé française de de philosophie, 63, 1969, pp. 73-104. Sul dibattito
sono utili Seán Burke, op. cit., e David Carroll, The Subject in Question: The Languages of
Theory and the Strategies of Fiction, Chicago: University of Chicago Press, 1982.
SULLE INTERSEZIONI DI CAMP E POSTMODERNO 135

in altri termini, in quella soggettività che Terry Eagleton avrebbe descritto –


sulla scorta di Jameson – nei termini di “a dispersed, decentred network
of libidinal attachments, emptied of ethical substance and psychical inte-
riority, the ephemeral function of this or that act of consumption, media
1
experience, sexual relationship, trend or fashion”.
Jameson ricorre alle teorie del sublime per descrivere il paradossale
2
connubio di “euphoria and self-annihilation” che la soggettività contem-
poranea mette in gioco nel confrontarsi con il brave new world dell’este-
tico quotidiano, vale a dire dell’appiattimento del reale e del sé in un dato
estetico, bidimensionale o ‘testuale’, con una “complacent (yet delirious)
3
camp-following celebration” – in breve, per descrivere quello che, ri-
spetto al sublime di Edmund Burke e di Kant, è divenuto un “camp or
hysterical sublime”. Questo sublime si articola attraverso una sostanziale
perdità di realtà, che si ripercuote sul soggetto disperso, esitante “as to
4
the breath and warmth of these polyester figures” che l’arte contempo-
ranea elegge a proprio matrice sia sul piano del rappresentato che sul
piano della rappresentazione. L’esempio principe di Jameson a seguito
dell’estetica architettonica di Venturi è, significativamente, Diamond Dust
Shoes (1980) di Andy Warhol, posto in contrasto con le ‘scarpe contadi-
ne’ di Van Gogh che promuovono un approccio ermeneutico, “in the
sense in which the work in its inert, objectal form, is taken as a clue or a
5
symptom for some vaster reality which replaces it as its ultimate truth”.
Al contrario, la serigrafia di Warhol impone un atteggiamento comple-
tamente post-metafisico e per così dire post-ermeneutico all’insegna del-
la propria dichiarata e serena vacuità:

Warhol’s Diamond Dust Shoes evidently no longer speaks to us with any


of the immediacy of Van Gogh’s footgear: indeed, I am tempted to say
that it does not really speak to us at all. Nothing in this painting organ-
izes even a minimal place for the viewer, who confronts it at the turn-
ing of a museum corridor or gallery with all the contingency of some
inexplicable natural object. On the level of content, we have to do with
what are now far more clearly fetishes, both in the Freudian and in the
Marxian sense (Derrida remarks, somewhere, about the Heideggerian
Paar Bauernschuhe, that the Van Gogh footgear are a heterosexual pair,

1
Terry Eagleton, op. cit., p. 145.
2
Fredric Jameson, “Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capitalism”, cit., p. 62.
3
Ivi, p. 85.
4
Ivi, p. 76.
5
Ivi, p. 59.
136 ESUBERANZA

which allows neither for perversion nor for fetishization).1

Non solo gli oggetti ‘acrilici’ di Warhol non ci parlano con l’immedia-
tezza di quelli ‘modernisti’ di Van Gogh: non ci parlano affatto, chiusi nel
proprio autoreferenziale, eterno presente di contingenza spettacolarizzata.
Prosegue Jameson:

Here, however, we have a random collection of dead objects, hanging


together on the canvas like so many turnips, as shorn of their earlier
life-world as the pile of shoes left over from Auschwitz, or the remain-
ders and tokens of some incomprehensible and tragic fire in a packed
dancehall. There is therefore no way to complete the hermeneutical
gesture, and to restore to these oddments the whole larger lived con-
text of the dance hall or the ball, the world of jetset fashion or of glam-
our magazines.2

Il postmoderno ha, in altre parole, rinunciato alla profondità che l’ap-


proccio ermeneutico presuppone: come avrebbe scritto Eagleton, “confi-
dently post-metaphysical, [it] has outlived all that fantasy of interiority,
3
that pathological itch to scratch surfaces for concealed depths”. Ma la
perdita di profondità ermeneutica e di realtà vissuta si produrrebbe attra-
verso la sostanziale de-contestualizzazione del s/oggetto dalla sua storia.
Quello che in architettura viene chiamato historicism, scrive Jameson, è
all’atto pratico un gesto di rimozione della Storia, che si attua attraverso

the random cannibalization of all the styles of the past, the play of ran-
dom stylistic allusion, and in general what Henry Lefebvre has called
the increasing primacy of the ‘neo’. This omnipresence of pastiche is,
however, not incompatible with a certain humor (nor is it innocent of
all passion) or at least with addiction – with a whole historically original
consumers’ appetite for a world transformed into sheer images of itself

1
Ivi, pp. 59-60. Jacques Derrida affronta la rappresentazione di Van Gogh – a partire
dalle parole di Martin Heidegger in “Der Ursprung des Kunstwerkes” (1935/36), in
Holzwege, Frankfurt am Main: Vittorio Klostermann, 1980, pp. 1-72 – in La vérité en
peinture, Paris: Flammarion, 1978. Utile sulla rappresentazione stessa, in una prospetti-
va che si colloca sulla lignée Heidegger-Derrida, è Flint Schier, “Van Gogh’s Boots: The
Claims of Representation”, in Dudley Knowles and John Skorupski (eds.), Virtue and
Taste: Essays on Politics, Ethics and Aesthetics, Oxford: Blackwell, 1993, pp. 176-199.
2
Ivi, p. 60. La significatività dell’esempio è suggerita dal fatto che la serigrafia war-
holiana è stata scelta per la copertina del volume derivato dal saggio in questione e
aperto proprio dall’analisi del contrasto fra le due rappresentazioni. Cfr. Fredric
Jameson, Postmodernism or, the Cultural Logic of Late Capitalism, cit., pp. 6-16.
3
Terry Eagleton, op. cit., p. 143.
SULLE INTERSEZIONI DI CAMP E POSTMODERNO 137

and for pseudo-events and ‘spectacles’ (the term of the Situationists).1

Il regime cannibalistico di stili e di pseudo-eventi, privati di contesto, di


referenza e di valore d’uso a totale beneficio del valore di scambio, si tra-
duce in uno dei tratti costitutivi dello Zeitgeist postmoderno e del camp, il
2
saccheggio indiscriminato legittimato dalla “nostalgia mode” consumisti-
ca che caratterizza la contemporaneità, dalla rifunzionalizzazione del pas-
sato intesa al mercato della spettacolarità e del ‘nuovo’ che attinge al pas-
sato quale fosse una sorta di ‘grande magazzino’. In “Notes on ‘Camp’”,
cui Jameson del resto rimanda quale formulazione esemplare della nozio-
ne-chiave per rappresentare la contemporaneità degenere, Sontag inter-
viene sulla questione del rapporto intrattenuto dal camp con la Storia per
evidenziare che “the relation of Camp taste to the past is extremely sen-
3
timental”, e che
so many of the objects prized by Camp taste are old-fashioned, out-of-
date, démodé [because] the process of aging or deterioration provides
the necessary detachment – or arouses a necessary sympathy. […]
Time liberates the work of art from moral relevance, delivering it to the
Camp sensibility. […] What was banal can, with the passage of time,
become fantastic.4

La centralità della nostalgia mode nel camp è tale per cui, nell’indicare la
principale ragion d’essere del camp del secondo dopoguerra, con i suoi
mercatini delle pulci, moda rétro e apprezzamento di massa delle dive
cinematografiche d’altri tempi, Andrew Ross sostiene alla fine degli anni
Ottanta che l’effetto camp si produca
when the products […] of a much earlier mode of production, which
has lost its power to dominate cultural meanings, become available, in
the present, for redefinition according to contemporary codes of taste.
[…] In liberating the objects and discourses of the past from disdain
and neglect, camp generates its own kind of economy. Camp, in this
respect, is the re-creation of surplus value from forgotten forms of labor.5

Le parole di Ross sono dirette alla dinamica del camp nella cultura an-
gloamericana fra gli anni Cinquanta e Sessanta, ma essa, come afferma
1
Fredric Jameson, “Postmodernism, or the Cultural Logic”, cit., pp. 65-66.
2
Ivi, p. 66.
3
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 280.
4
Ivi, p. 285.
5
Andrew Ross, “Uses of Camp”, cit., pp. 139, 151.
138 ESUBERANZA

Sontag, sembra riscontrabile nell’intera tradizione del camp. L’intervento


della distanza temporale fra soggetto percipiente e oggetto percepito, si
ricorderà, agiva secondo Sontag quale dato imprescindibile nella perce-
zione della innaturalezza, dell’eccesso e dell’incongruità che Sontag e la
gran parte dei critici a lei successivi sostengono essere la premessa inalie-
nabile nella costituzione – se non nel riconoscimento – di una campiness.
Ciò avverrebbe in ragione del fatto che la distanza temporale libera
l’oggetto da considerazioni di ordine morale, e che essa promuove il di-
stacco e/o la partecipazione necessari al camp quale modalità fruitiva e di
relazione con l’altro da sé. In altri termini, il tempo agirebbe funzional-
mente al principio di irresponsabilità, di aristocratico distacco – quel di-
stacco che può paradossalmente tradursi in una partecipazione ‘eccessi-
va’, la cui esorbitanza denuncia in effetti uno scollamento emotivo – e di
sospensione del giudizio critico che si evidenziava nel capitolo 2 quale
logica che sottende, prima ancora che il camp, lo statuto del camp sugge-
rito da Sontag. Il che risulta sorprendentemente funzionale alla tesi di
1
Jameson, che della “abolition of critical distance” fa un cardine del post-
moderno in quanto logica del tardo capitalismo, e della “complacent (yet
2
delirious) camp-following celebration of this aesthetic new world”. Il
distacco aristocratico del camp risulta infatti solo un effetto di una più
radicale sospensione della distanza critica, la quale presuppone una re-
sponsabilità analitica, un impegno di differenziazione, di categorizzazio-
ne e gerarchizzazione, un rispetto del contesto storico e delle intenzioni
che l’inversione camp – lo si è visto – nega a fondamento di sé.
In questo quadro si inserisce secondo Jameson il rapporto dei testi con
il loro passato stilistico, vale a dire la parodicità postmoderna, che a dif-
ferenza della parodia tradizionale presuppone (quale conseguenza della
scomparsa del soggetto individuale) la “increasing unavailability of the
3
personal style”, e non rimanda ad alcuna profondità normalizzante, tra-
ducendosi in pastiche o ‘parodia vuota’:

In this situation, parody finds itself without a vocation; it has lived, and
that strange new thing pastiche slowly comes to take its place. Pastiche
is, like parody, the imitation of a peculiar mask, speech in a dead lan-
guage: but it is a neutral practice of such mimicry, without parody’s ul-
terior motives, amputated of the satiric impulse, devoid of laughter and

1
Fredric Jameson, “Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capitalism”, cit., p. 85.
2
Ibidem.
3
Ivi, p. 64.
SULLE INTERSEZIONI DI CAMP E POSTMODERNO 139

of any conviction that alongside the abnormal tongue you have mo-
mentarily borrowed, some healthy linguistic normality still exists. Pas-
tiche is thus blank parody, a statue with blind eyeballs: it is to parody
what the other interesting and historically original modern thing, the
practice of a kind of blank irony, is to what Wayne Booth calls the ‘sta-
ble ironies’ of the 18th century.1

La blankness della parodia postmoderna che Jameson indica con il termi-


ne pastiche, la sua sostanziale vacuità (in chiave di intenzioni, censorie o
meno che siano, o di ‘contenuto’ morale) la colloca in straordinaria con-
vergenza con l’estrema indecidibilità della parodia camp, di cui si sono
già accennate le potenzialità tanto polemiche quanto accomodanti, pro-
gressiste così come conservatrici se non addirittura reazionarie.
Il che porta a verificare i limiti della sovrapposizione operata da Jame-
son, e attraverso questa di quella operata in genere dalla riflessione criti-
ca sul camp, fra camp e postmoderno. Quanto precedentemente osser-
vato circa l’indecidibilità della parodia di matrice camp riconosceva tutta-
via in quest’ambiguità un versante critico – talora eletto a elemento riso-
lutore di tale ambiguità, a scapito delle valenza conservatrice – che Jame-
son non rintraccia nel postmoderno (né, peraltro, nell’utilizzo che fa del-
la nozione di camp). Il problema risulta di immediata evidenza qualora si
rivolga l’attenzione all’obbiettivo polemico che presiede alla riflessione di
stampo umanista di Jameson. Per sintetizzare la prassi postmoderna del
pastiche, dello storicismo ridotto a pratica, per così dire, di shopping e del
soggetto evacuato di senso, egli ricorre al concetto – di derivazione pla-
tonica – di simulacro, “the identical copy for which no original has ever
2
existed”. Quella copia identica di un originale assente che troverebbe una
corrispondenza nella cancellazione del soggetto autentico e della “real
3
history” nel ‘testualismo’ della prassi postmoderna e della sua legittima-
zione post-strutturalista – “[i]n faithful conformity to post-structuralist
1
Ivi, p. 65. Nel lavoro di Hutcheon (i citati A Theory of Parody, A Poetics of Postmoder-
nism e soprattutto The Politics of Postmodernism), che in larga misura può essere inteso
come una contestazione della lettura di Jameson del postmoderno come estetizzazio-
ne/testualizzazione depoliticizzante del reale, i termini parody, pastiche e travesty sono
(in questo quadro, significativamente) intercambiabili. Per una lettura sistematizzante
delle differenze fra queste modalità rappresentative, che registra anche la sovrapposi-
zione con elementi come ironia, citazione e allusione si vedano Mirella Billi, op. cit., pp.
33-78, e Paola Splendore, op. cit., pp. 55-72. Intorno alla riarticolazione di statuto della
parodia cui (con una qualche superficialità) accenna Jameson è estremamente utile
Margaret A. Rose, Parody: Ancient, Modern and Postmodern, cit.
2
Fredric Jameson, “Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capitalism”, cit., p. 66.
3
Ivi, p. 68.
140 ESUBERANZA

linguistic theory, the past as ‘referent’ finds itself gradually bracketed,


1
and then effaced altogether, leaving us with nothing but texts”.
Non è necessario qui ricorrere ai resoconti, apologetici o rassegnati, di
ineludibilità che i teorici del simulacro hanno proposto, né problematiz-
zare la rappresentazione che del testualismo post-strutturalista e dell’arte
2
postmoderna offre Jameson. Il paradosso che si disegna a fronte di tale
condanna del simulacro in quanto copia di un originale assente emerge
immediatamente se si confrontano le parole di Jameson con le analoghe
parole di Judith Butler, volte tuttavia ad asserire la sovversività radicale
del gay drag, cui si ascriveva l’implicazione che “gay is to straight not as
3
copy is to original, but, rather, as copy is to copy”. Nella ripetizione/ri-
contestualizzazione dell’originale, nella sua valenza di copia che demisti-
fica lo statuto di copia del naturale, vale a dire esattamente nei termini del
simulacro censurato da Jameson, si collocherebbe proprio l’opposto dello
spettro jamesoniano – la potenzialità sovversiva del camp e della sogget-
tività marginale che si edifica attraverso e in esso.
Il discredito gettato sul postmoderno attraverso la sovrapposizione
con il camp, risulta inoltre delegittimato allorché si tenga presente che il
camp, nelle parole di Sontag, “effaces nature, or else contradicts it ou-
4
tright”. Nel sistematico atto di cancellazione o di contraddizione della
natura il camp rivela cioè un interesse, sia pur polemico, nei confronti del-
la natura stessa – e dei suoi correlati: la profondità, la stabilità e la serietà
(quella serietà che del resto si è visto già nella pagina isherwoodiana es-
5
sere trasvalutata ma, o dunque, non completamente rimossa). Il para-
1
Ivi, p. 66.
2
Per i teorici del simulacro si confronti supra, la nota 3 a pagina 113; quale introdu-
zione al ‘testualismo’ post-strutturalista (sintetizzabile nella celebre affermazione der-
ridiana, spesso abusata, che “il n’y a pas de hors-texte”), oltre alle considerazioni of-
ferte in relazione all’arte postmoderna da Hutcheon nei citati A Poetics of Postmoder-
nism e The Politics of Postmodernism, si veda l’eccellente (e ben più analitico nonché
problematico rispetto a Jameson) Maurizio Ferraris, La svolta testuale. Il decostruzioni-
smo in Derrida, Lyotard, gli ‘Yale Critics’, Milano: Unicopli, 1986, pp. 103-132.
3
Cfr. supra, la nota 1 a pagina 113.
4
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 280.
5
Dopo avere evidenziato le strategie wildiane di messa in crisi del modello di pro-
fondità che sono state ascritte al paradigma postmoderno, scrive ad esempio Jonathan
Dollimore: “[i]f his transressive aesthetic anticipates post-modernism to the extent
that it suggests a culture of the surface, the decentred and the different, it also antici-
pates modernism in being not just hostile to, but intently concerned with, its opposite:
depth and exclusive integration as fundamental criteria of identity”. Jonathan Dollimo-
re, Sexual Dissidence, cit., pp. 72-73. Considerazioni che possono almeno in parte esse-
re sovraestese al camp come fenomeno nel suo complesso: Dollimore evidenzia infatti
SULLE INTERSEZIONI DI CAMP E POSTMODERNO 141

dosso disegnato nel paragrafo precedente risulta accresciuto, peraltro, da


tale presupposizione di profondità: basti infatti riprendere quanto prece-
dentemente osservato in merito al rimando – nel camp omosessuale – al
dato biologico (il sesso, oltre la superficie del ruolo di genere), che sarebbe
invece completamente negato dal camp-come-female mimicry (almeno
secondo i teorici apologeti di quest’ultima modalità di camp). Il rimando
al dato biologico si configura sia come elemento potenzialmente conser-
vatore, che àncora la menzogna a un principio profondo di verità e natu-
ralità che conferma la doxa borghese, sia come contraddetto e demistifi-
cato dalla superficie (secondo Butler), sia ancora come assente (secondo
Jameson), e funzionale all’ordine tardocapitalista proprio in virtù della
sua assenza.
A questa fondamentale problematicità, che dal camp si estende alle
teorizzazioni circa la sua sovversività e a quelle che lo attivano in relazio-
ne al postmoderno, se ne correlano altre in veste di corollario. Jameson
1
indicava infatti nel “waning of affect” – attivato dalla “commodification
of objects” che trova un clamoroso esempio nelle star mercificate di
Andy Warhol, “stars […] who are themselves commodified and tran-
sformed into their own image” – un tipico aspetto del rapporto fra sog-
gettività postmoderna e il suo contesto, le sue rappresentazioni e il suo
abdicare da atteggiamenti critici di sorta. Il distacco camp, e la reificazio-
ne del soggetto inscritta nel suo travestimento e nella sua prassi ‘virgo-
lettante’ – “Camp is the triumph of the […] convertibility of ‘man’ and
2
‘woman’, ‘person’ and ‘thing’” – si coniugano peraltro con una parteci-
pazione emotiva che non è riducibile alla irrisione di sé e dell’oggetto
‘eccessivamente’ apprezzato. “What is extravagant in an inconsistent or
unpassionate way is not Camp. Neither can anything be Camp that does
not seem to spring from an irrepressible, a virtually uncontrolled sensi-
bility. Without passion, one gets pseudo-Camp – what is merely decora-
3
tive, safe, in a word, chic”, scriveva infatti Sontag.

la preoccupazione di Wilde nei confronti della profondità e della “exclusive integration


as fundamental criteria of identity” come una preoccupazione sovversiva – sovvertire
la profondità significa (pre)occuparsene, e non prescinderne pacificamente. Questa
‘preoccupazione’ vale per il camp come discorso sovversivo, ma non per il camp come
discorso ‘conservatore’, o totalmente alieno da questioni di profondità in accordo a
quanto suggerisce Jameson.
1
Fredric Jameson, “Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capitalism”, cit., p. 61.
2
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 280.
3
Ivi, p. 284. La divergenza fra postmoderno e camp può giustificarsi alla luce dell’esclu-
sione da parte di Sontag della Pop Art dal camp, benché la Pop Art “when it is not just
142 ESUBERANZA

La produzione (costituzione/riconoscimento) di camp presuppone una


dialettica indecidibile fra distacco e partecipazione, fra identificazione e
straniamento; e il postmoderno disegnato da Jameson privilegia unica-
mente uno dei due termini. È a partire dalla chiave di lettura della massi-
ficazione offerta da Jameson e da Jean Baudrillard, applicandola a una
forma di testualità apparentemente funzionale in toto alla chiave stessa
qual è la serie televisiva di Dynasty prodotta negli anni Ottanta, che Jane
Feuer evidenzia il loro fallimento a fronte di una decodifica del testo di
matrice camp:

ultimately neither of these senses of the postmodern captures the dou-


ble-edged quality of […] the camp sensibility in which blank mimicry
and a critical edge may coexist. That is to say, we are observing both
subcultural appropriation and postmodern pastiche at the same time
and from within the same sensibility.1

La chiave appropriata a un testo come Dynasty sarebbe offerta secondo


Feuer dal postmoderno di Hutcheon, in cui la parodia, benché blank, si
carica di una valenza critica nei confronti della trasparenza rappresenta-
tiva della testualità e nella coerenza organica della soggettività borghese
– quella trasparenza e organicità rimpianta dall’Altro speculare dell’ordi-
ne borghese, il marxismo umanista che presiede alla lettura jamesoniana
del postmoderno. E in effetti la crisi della profondità che legittimava in
senso transtorico l’ordine epistemologico del vero, l’ordine etico del giu-
sto e l’ordine ontologico del naturale può essere indicata quale fonte di
un inedito pluralismo, che dell’instabilità intrinseca a un’estetica del
2
cambiamento e della deperibilità fa il proprio cardine.
I limiti della proposta di Jameson in merito alla pratica del pastiche
stilistico emergono qualora si accolgano ad attenzione esempi storici del-

Camp […] embodies an attitude that is related, but still very different [because] Pop
Art is more flat and more dry, more serious, more detached, ultimately nihilistic”. Ivi,
p. 292. L’esclusione da parte di Sontag è tuttavia di per sé molto incerta, e alla luce
delle precedenti considerazioni illegittima.
1
Jane Feuer, “Reading Dynasty: Television and Reception Theory”, South Atlantic
Quarterly, 88, 1989, pp. 455-456.
2
È in questa direzione che viene ad esempio proposta un’apologia della scomparsa
del modello di profondità in Ihab Hassan, “Pluralism in Postmodern Perspective”, Cri-
tical Inquiry, XII, 4, 1986, pp. 503-520. Significativi, nel medesimo senso, i riferimenti al
camp che lo stesso Hassan – in una pratica che peraltro si offre a conferma delle criti-
che di cannibalismo onnivoro e irresponsabile mosse da Jameson alla cultura postmo-
derna – inserisce in relazione al transeunte postmoderno in “POSTmodernISM: A Para-
critical Bibliography”, cit.
SULLE INTERSEZIONI DI CAMP E POSTMODERNO 143

la medesima prassi, nei quali il ricorso al pastiche assume immediata va-


lenza polemica nei confronti dell’ordine del gusto, e dell’ordine culturale
che lo sottende. In un storico lavoro del 1979 che ha definitivamente a-
perto le porte dello studio accademico allo studio della cultura popolare,
Dick Hebdige ha affrontato le modalità di investimento di ‘significato’,
da parte delle sottoculture giovanili fra gli anni Cinquanta e Settanta,
nelle superfici vestimentarie e nel corpo, intesi come oggetto di esercizio
di potere – i luoghi sui quali il potere si dispiega, postulandoli quali espres-
sione ‘trasparente’ dell’interiorità, nell’amministrazione delle soggettività
e dell’ordine sociale – e dunque di inscrizione di una eventuale pratica
1
del dissenso. Quello che Jameson ascrive al pastiche tardocapitalista, vale
a dire all’affastellarsi consumistico di stili eterogenei privati della inten-
zione censoria, di vita vissuta e di una “healthy linguistic normality”, ri-
2
sulta profondamente affine alla “conspicuous consumption” che Hebdi-
ge riscontra nelle sottoculture giovanili degli anni Settanta. Il termine
proposto da Hebdige è bricolage, con il quale si indica l’utilizzo delle
merci per edificare significati e saperi locali, e identità provvisorie – in
breve, l’utilizzo rituale di codici vestimentari ‘secondari’, importati da e
stravolti rispetto alla loro contestualità, “to mark the subculture off from
3
more orthodox cultural formations”.
L’esempio offerto dalle sottoculture giovanili nel secondo Novecento
mostra una rifunzionalizzazione dissidente dei codici disposti dalla cul-
tura dominante a ratificazione di sé, e della logica stessa di costituzione
della soggettività borghese all’insegna del valore di scambio più che del
valore d’uso. Siamo insomma all’interno della dinamica di complicità cri-

1
Dick Hebdige, Subculture: The Meaning of Style, London: Methuen, 1979. Quello di
Hebdige può essere considerato un caposaldo dei cultural studies, i quali tuttavia si erano
venuti articolando fin dagli anni Cinquanta grazie al lavoro di Raymond Williams e di
Stuart Hall, che con il gruppo del Centre for Contemporary Cultural Studies della
University of Birmingham si rivolgeva alla cultura popolare della scena urbana post-
industriale in alternativa allo studio dell’Alta Cultura, e al disegno sociopolitico da esso
surrettiziamente promosso. Si veda in merito Maria Cristina Iuli, op. cit. La qualità di
‘caposaldo’ del volume di Hebdige è in larga misura prodotta dal suo essere apparso
nella collana New Accents, pubblicata da Methuen e da Routledge a partire dalla se-
conda metà degli anni Settanta, che ha reso accessibili (per impostazione introduttiva,
e per il basso costo dei volumi pubblicati al suo interno) un ampio novero di sollecita-
zioni teoriche a un mercato accademico in significativa espansione. Cfr. il mio “‘Oscar
Wilde’ e i materialisti. Appunti sulla scena critica radicale in Gran Bretagna”, cit.
2
Dick Hebdige, Subculture: The Meaning of Style, cit., p. 103.
3
Ibidem. Hebdige propone queste parole in relazione a punks e skinheads, ma esse
possono venir estese alle controculture giovanili in genere.
144 ESUBERANZA

tica che Hutcheon evidenzia quale prerogativa dell’arte postmoderna, e


che si attiva in primo luogo in merito al rapporto intrattenuto – in un
quadro camp così come in una prospettiva postmoderna – dall’arte con il
proprio ‘altro’, il commercio. Se in chiave marxista si censura la com-
promissione di entrambi con le modalità di produzione economica e
simbolica borghese, secondo Hutcheon l’arte postmoderna “does not
deny that it is implicated in capitalist modes of production, because it
knows it cannot. Instead it exploits its ‘insider’ position in order to begin
a subversion from within, to talk to consumers in a capitalist society in a
1
way that will get us where we live, so to speak”. Non nega la propria
partecipazione, di cui riconosce una sostanziale imprescindibilità; ma
proprio attraverso questa partecipazione denuncia – strania, rivela –
l’operatività totalizzante delle “capitalist modes of production”, e quanto
2
artista e spettatore siano partecipi di queste modalità. Estendendo il post-
moderno di Hutcheon a comprendere la ritualità sottoculturale si può
peraltro evidenziare come la partecipazione alle dinamiche del Capitale
possa costituirsi, all’insegna della logica di riproduzione/ricontestualiz-
zazione che Judith Butler indicava nel travestitismo omosessuale, come
modalità locale di sovversione. Località che comporta una presa di coscien-
za di quanto, in un dato spazio e tempo, ossia all’interno di un dato mileu
(sotto)culturale, una pratica reazionaria possa tradursi in un’inversione di
segno di portata contestatrice. Ed è al particolare rapporto di ‘perversione’
insito nella ri-produzione camp che si rivolgerà ora l’attenzione.

1
Linda Hutcheon, The Politics of Postmodernism, cit., p. 114.
2
Si confronti in merito la Parte Terza.
6

Logica e spazio del dissenso

Quanto precede si produce in un invito. Un invito alla localizzazione dei


saperi e delle pratiche di manipolazione dei codici; ed è alla luce di tale
urgenza che è utile riprendere l’argomentazione di Jameson. Nel com-
mentare il Diamond Dust Shoes warholiano Jameson lo contrappone, s’è
visto, alla rappresentazione di Van Gogh, “a heterosexual pair, which
allows neither for perversion nor for fetishization”. Al contrario, se ne in-
ferisce, il simulacro warholiano promuove una dimensione rappresenta-
tiva di sé e del mondo all’insegna della vacuità e dello sradicamento dalla
Storia: Diamond Dust Shoes rappresenta “a random collection of dead ob-
jects, hanging together on the canvas like so many turnips, as shorn of
their earlier life-world as the pile of shoes left over from Auschwitz, or
the remainders and tokens of some incomprehensible and tragic fire in a
packed dancehall”. Ne emerge insomma una modalità rappresentativa
che – a differenza della ‘coppia eterosessuale’ di Van Gogh – fa un pro-
prio elemento distintivo della perversione, del feticismo e della morte: in
breve, della violenza interpretativa che si esercita polemicamente a parti-
re da (e su) la “healthy linguistic normality” rimpianta da Jameson. Ine-
vitabile a questo punto ripensare le critiche marxiste al feticcio postmo-
derno e alla decontestualizzazione ‘acritica’ della rappresentazione camp
in un’ottica – quella sessualmente eterodossa, quale la si è venuta pre-
sentando – che della perversione e stortura della Storia ha fatto il proprio
marchio d’identità attraverso un ambiguo processo di accettazione e di
reinvestimento sovversivo dello stigma. È a quest’ottica, e in quest’ottica,
che si intende rivolgere lo sguardo al camp nelle prossime sezioni.

6.1. Perversioni
Il contesto che sembra non emergere da Diamond Dust Shoes non emerge
146 ESUBERANZA

perché la prospettiva di Jameson esclude una contestualità che per sua


natura è mobile e clandestina, modellata parodicamente (o, se si preferi-
sce, per mezzo di un pastiche irriverente) sulla nozione stessa di contesto
– e dei suoi correlati: l’intenzione autoriale (che presiede ad esempio alla
parodia cui Jameson oppone il pastiche postmoderno), e la Storia organi-
ca, di stampo umanista, il cui compito è stato proprio quello di rimuovere
l’alterità che ne mina i principi stessi di legittimazione. Qualche esempio
chiarirà le possibilità e le implicazioni del dissenso che sembrano essere
inscritte nel camp. Nei capitoli precedenti si è visto che la relazione in-
trattenuta dal camp (in quanto soggetto linguistico, e in quanto fenomeno
comunicativo) è strutturato dall’ambiguità, che ricorre sistematicamente
ad allusioni e a puns – nelle parole di Sontag – “with a witty meaning for
1
cognoscenti and another, more impersonal, for outsiders”, che distingue
fra chi sa e chi non sa (o non deve) riconoscere un’alterità eversiva “[b]e-
2
hind the ‘straight’ public sense in which something can be taken”. Evi-
dente sembra in tal senso, si osservava nel capitolo 2, la funzionalità per
la soggettività omosessuale clandestina, che attraverso il camp come co-
dice di riconoscimento avrebbe formulato la propria modalità (e persino
la propria possibilità) esistentiva.
Tale dinamica, tuttavia, è attiva anche all’interno della sottocultura
omosessuale, nella quale il camp (soggetto) è colui che attraverso la su-
premazia linguistica – vale a dire, il gioco di trasformazione e d’incon-
gruità di cui l’innuendo e il pun sono la versione strettamente verbale della
“philosophy of tranformation and inconguity” che caratterizza secondo
3
Newton il camp della sottocultura travestita – afferma la propria centra-
4
lità nel medesimo spazio sottoculturale. L’intendimento, la comprensio-
ne camp passa dunque attraverso un gioco di deliberato fra-intendimento
– in un memorabile scambio fra Ada Leverson e Somerset Maugham,
quando il secondo si scusò nel lasciare anzitempo il ricevimento organiz-
zato dalla Leverson giustificandosi con un “I must keep my youth”,
5
quest’ultima replicò: “Oh, but you should have brought him”.

1
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 281.
2
Ibidem.
3
Esther Newton, Mother Camp, cit., p. 105.
4
“Humor is the campy queen’s weapon. A camp queen in good form can come out
on top (by group consensus) against all competition”. Ivi, p. 111. È questa estrema agi-
lità verbale che distingue il camp, e che rende conto del perché “camps are very often
the center of primary group organization”. Ivi, p. 105.
5
Lo scambio è riportato in Philip Core, op. cit., p. 122.
LOGICA E SPAZIO DEL DISSENSO 147

La logica del fraintendimento deliberato è del resto costitutiva, lo si è


visto, del camp in sede di pura decodifica, per quanto questa sia distin-
guibile dal camp-come-performance. Apprezzare il fallimento delle in-
tenzioni significa, in ultima analisi, fraintendere deliberatamente il testo,
caricandolo di intenzioni e di sensi che non appartengono né all’autore
né al testo limitato interpretativamente dal suo legittimo contesto. Que-
sta logica di deliberato fraintendimento giustificherebbe le letture che
dell’irresponsabilità e dell’in-differenza camp fanno la ragion d’essere
nel proprio apprezzamento o rifiuto. Benché nel corso dei capitoli prece-
denti si sia dato maggior spazio alle rivendicazioni di sovversività del
camp, l’esempio di Jameson ricorda come – al di fuori della sfera stretta-
mente omosessuale, e anche qui solo entro i limiti dell’attivismo queer, di
cui si dirà nelle prossime pagine – il camp sia letto in larga misura come
pratica astoricizzante, apolitica, acritica e amorale, in accordo al suggeri-
1
mento di Sontag. Basti in tal senso riportare le esplicite parole di Robert
Kiernan, il quale nel 1990 poteva scrivere che la celebrazione camp del
frivolo ne costituisca la più intima essenza, la quale invita “a sophistica-
ted, amoral mode of laughter that recognizes it might be critical but e-
lects to be uncritically affectionate, not in a spirit of perversity but for the
2
psychic relief that such amorality and such release of affection afford”.
Un esempio oltremodo sintetico di ciò sarebbe la famosa frase, utiliz-
zata da Sontag quale epigrafe ai suoi appunti sul camp, in cui Wilde af-
fermava che “[o]ne must have a heart of stone to read the death of Little
Nell” – l’eroina del dickensiano The Old Curiosity Shop, la cui morte (in-
terminabile e melodrammatica quant’altre mai) provocò nel secolo scor-
3
so una partecipazione popolare senza precedenti – “without laughing”.

1
“Camp is a solvent of morality. It neutralizes moral indignation, sponsors playful-
ness”; “it goes without saying that the Camp sensibility is disengaged, depoliticized –
or at least apolitical”. Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., pp. 290, 277.
2
Robert F. Kiernan, Frivolity Unbound, cit., p. 16. Il camp è in questo senso “not only
amoral and ahistorical, it would seem; it is also arational”. Ivi, p. 149.
3
Cit. in Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 291. La pubblicazione di The Old
Curiosity Shop avvenne, com’è noto, in forma seriale sulle pagine di Master Humphrey’s
Clock fra l’aprile 1840 e il febbraio 1841. È la stessa forma seriale, di pari passo al gene-
rale eccesso di sentimentalismo e sensazionalismo melodrammatico che ne fa un ‘caso
a parte’ anche all’interno dell’opera dickensiana, a rendere conto dell’interminabile
decesso di Little Nell, e della straordinaria partecipazione emotiva che essa provocò
presso il pubblico – Dickens scrisse all’epoca di essere “inundated with imploring let-
ters recommending poor little Nell to mercy”. Cit. in Malcolm Andrews, “Introduc-
tion”, in Charles Dickens, The Old Curiosity Shop, Harmondsworth: Penguin, 1972, p.
16. E Andrews scrive che “[t]he public reception to these two chapters [nei quali si
148 ESUBERANZA

O ancora, attingendo sempre all’esemplificazione di Sontag, gli “stag


1
movies seen without lust”, che trovarono una legittimazione estetica
‘deliberata’ fra gli anni Sessanta e Settanta nei film di Andy Warhol e so-
prattutto di Russ Meyer, autentico culto camp con il suo soft-core ironico.
Se Warhol proponeva una sorta di ‘pornografia fredda’, ironicamente
distaccata, in lavori come Blow Job (1964) e come Blue Movie (1968), Meyer
costruiva l’intera propria produzione filmica – si ricordino, fra i più noti,
Lorna (1964) Vixen! (1968), Beyond the Valley of Dolls (1970), Supervixens
(1975) e Beneath the Valley of the Ultravixens (1979) – a partire dalla gram-
matica della pornografia (reificazione del corpo, perversione e feticismo,
sessualità ipertrofica, costruzione paratattica e priva di direzione, di senso)
in una tensione da cold porn fun all’insegna della valenza straniante
dell’eccesso che già Sontag evidenziava quale valenza ambiguamente
2
critica insita nella rappresentazione camp del femminile.
L’atteggiamento di legittimazione di un degrado estetico si coniuga
insomma con una potenziale legittimazione del degrado etico, all’insegna
di un estetismo che, sulla scorta dell’esperienza tardoromantica, distacca
la rappresentazione ‘artistica’ da questioni di stampo morale (“There is
no such thing as a moral or immoral book. Books are well written, or
badly written. That is all”; “Any preoccupation with ideas of what is right
3
or wrong in conduct shows an arrested intellectual development”), e rein-
veste arte e vita in una dimensione presieduta dalla spettacolarità: “Camp
is the consistently aesthetic experience of the world. It incarnates a victory
of ‘style’ over ‘content’, ‘aesthetics’ over ‘morality’, of irony over trag-
4
edy”. Acritico e disimpegnato, irresponsabile e indifferente: in-differente
a, alla drammaticità e alla propria partecipazione alle responsabilità col-

descrive la malattia del personaggio] is now as notorious as the death itself. Crowds
gathered on the quayside in New York awaiting the news of Nell’s fate. […] Lord Jef-
frey, the austere critic of The Edinburgh Review, was found in tears – ‘little Nelly; Boz’s
little Nelly, is dead’”. Ivi, p. 27.
1
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 278.
2
Sul cinema ‘pornografico’ di Warhol si veda in particolare Stephen Koch, “Blow-
Job and Pornography”, in Stargazer, cit., pp. 47- 58. Su Russ Meyer è utile consultare
Giancarlo Carlotti (a cura di), Russ Meyer. Un erotomane abbondante, Bologna: Granata,
1993, che ospita interventi critici di Luigi Cabri, Riccardo Esposito, Leonardo Gandini,
Denny Lugli, Andrea Novarin, un’intervista al regista raccolta da Marc Toullec e una
documentata filmografia.
3
Oscar Wilde, “Preface to The Picture of Dorian Gray”, in The Complete Works, cit., p.
17; Id., “Phrases and Philosophies for the Use of the Young” (1894), in The Complete
Works, cit., p. 1205.
4
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 287
LOGICA E SPAZIO DEL DISSENSO 149

lettive; ma anche, dunque, in-differente da – dalle istituzioni di potere,


omologo cioè ai suoi dispositivi di vigilanza e alle sue rappresentazioni.
Il camp, funzionalmente al postmoderno à la Jameson, inscrive ogni
oggetto nel regime dello spettacolo: sessualità, reificazione, oppressione,
tragedia diventano materia di intrattenimento (“Camp and tragedy are
1
antitheses”), e non è dato distinguere, guardando gli oggetti sradicati dalla
loro Storia e collocati sullo scaffale da supermercato dell’in-differenza, se
essi siano “the pile of shoes left over from Auschwitz, or the remainders
and tokens of some incomprehensible and tragic fire in a packed dance-
hall”. L’Altro da sé è funzionale solo a una glorificazione del sé, che vi si
impone quale soggetto che campeggia sulla scena interpretativa: Wilde
scriveva che “[t]he highest, as the lowest, form of criticism is a mode of
autobiography”, e che “[e]ven the disciple has his uses. He stands behind
one’s throne, and at the moment of one’s triumph whispers in one’s ear
2
that, after all, one is immortal”. E in un insuperabile esempio di proie-
zione dell’io sull’Altro da sé, che rifunzionalizza l’apogeo sacrale del-
l’Alta Cultura in direzione tanto narcisistica quanto avvilente per l’icona
artistica, il maggior discepolo di Wilde – Ronald Firbank – spinge la pro-
tagonista del suo primo romanzo ad affermare che “the habit of putting
glass over an oil painting […] makes always such a good reflection, par-
ticularly when the picture’s dark. Many’s the time I’ve run into the Na-
tional Gallery on my way to the Savoy and tidied myself before the Vir-
3
gin of the Rocks…”.
Come questa prassi di irriverenza e autocelebrazione snobistica si in-
vesta di una portata radicale che Jameson non rintraccia nel postmoder-
no, si spiega alla luce delle implicazioni del fraintendimento deliberato di
matrice camp all’interno di un dato stato culturale, che si esercita tanto
sullo spessore morale quanto sul conseguimento estetico. L’apprezza-
mento camp del degrado inerente al Kitsch e allo Schlock, ad esempio, si
fonda su una forma, più che di inversione dei canoni estetici, di dissenso
rispetto alla inerenza della negatività. Nella ri-valutazione che porta un
oggetto da Kitsch a camp, vi è un grado di consapevolezza – per quanto
‘inconsapevole’ – del confronto con le gerarchie culturali che decretano il
carattere fallimentario rispetto a un ‘originale’ realizzato, che al contrario

1
Ibidem.
2
Oscar Wilde, “Preface to The Picture of Dorian Gray”, cit., p. 17; Id., “Phrases and
Philosophies for the Use of the Young”, cit., p. 1205.
3
Ronald Firbank, Vainglory (1915), in The Complete Ronald Firbank, cit., p. 173.
150 ESUBERANZA

1
coniuga felicemente intenzioni, esiti e orizzonte culturale. Quello che si
è sempre indicato come esistenza relazionale del camp, il suo essere in
the eye of the beholder, va ripensato come confronto determinato fra lo I
(l’identità ideologicamente e storicamente costituita) dell’osservatore e
quello dell’osservato, oggetto e soggetto che sia: in breve, un confronto
fra formazioni ideologiche, fra posizionamenti all’interno della cultura, fra
tradizioni e configurazioni ontologiche, canoni estetici ed etici che costrui-
scono la soggettività dell’osservatore così come l’identità dell’osservato.
Ciò che interviene nella produzione di camp, sia in fase di riconosci-
mento che di performance, è il deliberato rifiuto di cooperare, in termini
interpretativi, con l’orizzonte culturale che prescrive un ordine di natura-
lità (nel caso della performance), e con l’oggetto – con le intenzioni
dell’autore, con il suo contesto storico, e al tempo stesso con il contesto
di prescrittività estetica ed etica che ne sancisce il valore morale e la si-
gnificatività estetica hic et nunc. Quello camp è in altre parole un rifiuto di
rispetto nei confronti delle regole che la tradizione liberal-umanista ha
eletto quali fondative della ‘corretta’ interpretazione. Gli stag movies, si
ricordi, appartengono al canone camp solo se “seen without lust”: priva-
to dell’eccitazione che il film invoca a propria ‘corretta’ fruizione, lo spet-
tatore si colloca su una posizione di decodifica – volontaria o meno: non
è dato scegliere di collaborare, in questo caso in modo evidente – di so-
stanziale dissenso, il che configura paradossalmente una decodifica
‘scorretta’ quale decodifica ‘politicamente corretta’ solo nella misura in
cui non collabora, salvo però apprezzare il film per il suo fallimento, e
ricadere dunque nella ‘scorrettezza’, ma di una matrice evidentemente
2
più ambigua. Nello scambio fra Ada Leverson e Somerset Maugham,
Leverson evinse dalla scusa di Maugham, consapevolmente forzandolo,

1
Fra le riflessioni imprescindibili sul Kitsch, Ludwig Giesz, Phenomenologie des Kitsches,
Heidelberg: Rothe Verlag, 1960; Umberto Eco, “La struttura del cattivo gusto”, in Apo-
calittici e integrati. Comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa, (1964), Milano:
Bompiani, 1994, pp. 65-130; Gillo Dorfles, Il Kitsch. Antologia del cattivo gusto, Milano:
Gabriele Mazzotta, 1968; Jacques Sternberg, op. cit.; Hermann Broch, Philosophische
Schriften I. Kritik, Frankfurt am Main: Suhrkamp, 1975; Id., Schriften zur Literatur 2.
Theorie, ibidem, 1977.
2
La political correctness che si presuppone in questo caso è quella classica, che identi-
fica nella pornografia una rappresentazione – prima ancora che esteticamente falli-
mentaria – eticamente riprovevole per la sua mercificazione della sessualità. In breve,
si presuppone la posizione anti-pornografica, pro-censura, che può essere ascritta al (o
a parte del) pensiero femminista. Ma la questione stessa della ‘correttezza politica’ in
merito alla pornografia è ben più complessa, ovviamente.
LOGICA E SPAZIO DEL DISSENSO 151

un significato omosessuale (“Oh, but you should have brought him”)


che le intenzioni del suo autore non comprendevano affatto.
La differenza fra questo e l’esempio precedente è sottile, e relativo alla
loro località spazio-temporale, o in altri termini culturale. Lo scambio fra
Leverson e Maugham, che esemplifica il camp-come-performance, avvie-
ne all’interno di una collettività camp – il party – la quale prevede il gioco
di schermaglia verbale funzionalmente a un’aggregazione: vi è pertanto
una complicità che coincide con la momentanea superiorità di Leverson,
la quale si consacra così ‘regina’ dello spazio e del tempo circoscritto dai
limiti del ricevimento. Negli stag movies – o in generale nel camp-come-
decodifica – il rapporto è di stampo disgiuntivo: vi si dispiega infatti una
pratica che si fonda sulla superiorità del soggetto camp, che aristocrati-
camente disprezza sia le regole di legittimità interne all’oggetto di fruizio-
ne sia quelle che ne ratificano il valore estetico e morale. Al tempo stesso
questa pratica riconosce la propria complicità con quanto disprezzato: la
consapevolezza, in altre parole, della propria partecipazione (sia pur sov-
versiva) alle medesime strategie che costituiscono un potere di rappre-
sentazione, ovvero la consapevolezza che dissenso e consenso emergono
dalla medesima struttura, dal medesimo ordine culturale – da cui il para-
dossale e ambiguo apprezzamento, inscindibile dalla derogazione.
Camp intenzionale e camp inintenzionale presentano dunque una
versione legittimata, all’interno di uno spazio e di un tempo marginale
(così come è marginale, secondaria, citazionale e parassitaria la decodifi-
ca) di ‘misinterpretazione’, ma in chiave ben distante dalla trascendenza
agonistica ed interamente interpersonale postulata ad esempio dalla teo-
ria della necessaria, ineludibile e onnipresente misinterpretation di un Ha-
rold Bloom quale fondamento di una teoria della prassi poetica così co-
1
me di una teoria del confronto fra la scrittura critica e quella poetica. Ri-
sulta infatti ben più funzionale ricorrere ai modelli che, nel determinare
le funzioni della ‘corretta’ interpretabilità, indicano ciò che non va pro-
dotto nel rapporto fra fruitore e testo. Quella camp sembra infatti straor-

1
“Poet’s misinterpretations of poems are more drastic than critics’ misinterpreta-
tions or criticism, but this is only a difference in degree and not at all in kind. There are
no interpretations but only misinterpretations, and so all criticism is prose poetry”.
Harold Bloom, The Anxiety of Influence: A Theory of Poetry, New York: Oxford Univer-
sity Press, 1973, pp. 94-95. La dimensione personalissima dell’agone bloomiano sem-
bra essere presieduta da una dimensione camp (Bloom-come-regina, insomma), sia
pur inintenzionale; ma alla lettura della modalità interpretativa del camp non giova il
modello ‘critico’ offerto dallo stesso Bloom.
152 ESUBERANZA

dinariamente in sintonia con ciò che Wayne Booth – opponendolo al cri-


tical understanding – chiama il critical overstanding, in cui il lettore si so-
vrappone al testo e all’intenzione del suo autore (si pone, per così dire,
snobisticamente al di sopra), abbandonando la posizione sottomessa che
1
il rapporto di comprensione modellato su quello didattico impone. O
ancora, facendo ricorso al ben più sofisticato modello semiotico proposto
da Umberto Eco a limitare l’interpretabilità di un testo, il camp promuove
una ‘decodifica aberrante’ che non rispetta non solo l’intenzione autoria-
le ma nemmeno il contesto storico di produzione di un testo, e l’enciclo-
2
pedia linguistica e storica che il testo – la intentio operis – presuppone.
Basti un esempio ‘inattaccabile’ nella sua ovvietà, proposto dallo stesso
Eco; per contrastare il relativismo sfatto di parte del reader-response criti-
cism e la pratica decostruzionista nordamericana, Eco ribatte che “ogni atto
di lettura è una transazione difficile fra la competenza del lettore (la cono-
scenza del mondo condivisa dal lettore) e il tipo di competenza che un da-
3
to testo postula per essere letto in maniera economica”. Un lettore “sen-
sibile e responsabile” si asterrà dunque “dal leggere il verso A poet could
not but be gay come farebbe un lettore contemporaneo se il verso si trovas-
4
se su Playboy”. Un lettore altrimenti motivato può “certamente usare il
testo di Wordsworth per una parodia, per mostrare come un testo possa
venir letto in riferimento a diversi quadri culturali, o per fini strettamente
personali […], ma se voglio interpretare il testo di Wordsworth devo ri-
5
spettare il suo sfondo culturale e linguistico”; uno sfondo, cioè, nel quale
gay poteva riferirsi a una licenziosità di sorta, ma senz’altro non all’omo-
sessualità che lo sfondo contemporaneo comprende. Il lettore altrimenti
motivato è sostanzialmente un lettore acritico, che attiva una deviazione
6
nella decodifica la quale risulta così essere una “sovrainterpretazione”, un
1
Wayne Booth, Literary Understanding: The Power and Limits of Pluralism, Chicago:
Chicago University Press, 1979.
2
Umberto Eco, I limiti dell’interpretazione, Milano: Bompiani, 1990. I limiti coincidono
con quelli imposti alla decodifica da “una ricerca del quadro culturale in cui inserire il
messaggio”. Ivi, p. 9. D’altro canto non è arduo evidenziare uno spettro di intentio auc-
toris insito nel rimando da parte di Eco al quadro culturale di produzione più che di
ricezione, così come del resto nei modelli di Lettore e Autore Modello proposti in Lec-
tor in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi, Milano: Bompiani, 1979.
Basti riprendere quanto sostengo in “Verso una rinascita dell’autore?”, cit.
3
Umberto Eco, I limiti dell’interpretazione, cit., p. 110.
4
Ibidem.
5
Ivi, p. 111.
6
Sulla sovrainterpretazione è anche estremamente utile Umberto Eco, Interpretazione
e sovrainterpretazione. Un dibattito con Richard Rorty, Jonathan Culler e Christine Brooke-
LOGICA E SPAZIO DEL DISSENSO 153

eccesso rispetto ai criteri di economia comunicativa, o nei termini di Ma-


1
ria Corti una lettura che non produce “felicità interpretativa”.
Al lettore acritico in questione va ricondotto il lettore camp quale lo si
è visto, irresponsabilmente dedito al ludico e al dispendio comunicativo,
distaccato nel proprio snobismo dal rispetto della Storia e del contesto, e
dalle condizioni di legittimità che questi impongono. Lo scambio fra Le-
verson e Maugham (“I must keep my youth” – “Oh, but you should have
brought him”) autorizza a pensare che un lettore camp, nell’avvicinare il
verso di Wordsworth, non possa fare a meno di pensare che A poet could
not but be gay sia una ‘inequivocabile’ allusione – al tempo stesso una
‘denuncia’ della ‘degenerazione’ insita nello statuto del poeta nel primo
Ottocento, e una ancor più clamorosa ‘confessione’, per dirla grossa, del
rapporto con Samuel Taylor Coleridge. Un lettore camp non potrà in-
somma leggere il verso senza adottare il principio del paradosso: senza
esplodere in una risata o increspare le labbra in un sorriso sornione e in-
sinuante, che cerca una paradossale complicità con Wordsworth nell’ac-
comunarlo a sé e alla ‘aristocratica’ comunità della devianza.
La decodifica camp mette (volge) in gioco – nei termini suggeriti da
Eco – un radicale predominio della intentio lectoris, che usa il testo paro-
dicamente, “per mostrare come un testo possa venir letto in riferimento
2
a diversi quadri culturali, o per fini strettamente personali”. Ciò non si-
gnifica che la decodifica stessa prescinda dalla intentio auctoris, e dal ri-
corso alle informazioni di stampo biografico che rientrano clandestina-
mente anche nei modelli interpretativi – si pensi anche solo al New Criti-
cism angloamericano – costruiti su un approccio interamente ‘scientifico’
o ‘testuale’ (ossia dall’indagine della intentio operis come estrapolabile da
3
un’analisi delle strutture tutte interne al testo). Come si è ampiamente

Rose, a cura di Stefan Collini, (1992), Milano: Bompiani, 1995, che ripropone le Tanner
Lectures tenute da Eco al Clare Hall di Cambridge del 1990, e nel quale la proposta di
rispetto della Storia è sollecitata e criticata da molteplici prospettive. In particolare è
interessante, nella chiave che si va qui attivando, l’intervento di Jonathan Culler (“In
difesa della sovrainterpretazione”, pp. 133-150).
1
Cfr. Maria Corti, Principi della comunicazione letteraria, Milano: Bompiani, 1976.
2
Il camp come attività di misreading deliberato è indicato, sia pur senza articolarne
pienamente le implicazioni in termini di strategia di rappresentazione ‘perversa’, an-
che in Linda Mizejewski, op. cit., e in Scott Long, “The Loneliness of Camp” (1989), in
David Bergman (ed.), op.cit., pp. 78-91.
3
Mi permetto di rinviare, in merito alla persistenza di proficuità del dato biografico
anche nei modelli che dichiarano di prescinderne, ai miei, già citati, “Verso una rina-
scita dell’autore?”, e “Biografia, ideologia, autor-ità interpretativa (con un caso esem-
plare)”, nei quali si danno anche numerose informazioni bibliografiche sul dibattito in
154 ESUBERANZA

visto nelle pagine precedenti, la stessa configurazione di camp intenzio-


nale e inintenzionale rimanda alla consapevolezza autoriale, e la decodi-
fica delle numerose icone camp – ad esempio, di una Judy Garland – tro-
va un dato imprescindibile nella frizione fra personaggio pubblico e sua
vita privata (il ‘personaggio’ non meno teatrale ma afferente al privato).
In quella che al solito può essere intesa – questa volta, a livello di pura
decodifica di un testo – come un’implicazione conservatrice del camp, un
suo rimando a una dimensione extrafittizia che nella propria univocità
determina il ‘vero’ significato testuale e la ‘vera’ identità personale, il
camp presuppone la rilevanza dell’autorialità e della biografia, ma nella
misura in cui questa crea una complicità e rivela un’alterità destabiliz-
zante: in breve, la presuppone ma attraverso una logica del dissenso.
Il che giustifica perché le figure artistiche che sono state ascritte alla
fenomenologia camp (da Oscar Wilde ad Andy Warhol, per menzionare
i più noti: ma si confronti in merito la Parte Terza) siano in larga misura
più note per la loro dimensione biografica – per il loro ‘personaggio pub-
blico’ – che per le loro produzioni artistiche. L’investimento camp sulla
personalità pubblica, come si avrà modo di verificare più diffusamente
oltre, partecipa in effetti di un più ampio regime di produzione pubblici-
tario della soggettività artistica, nel quale la popolarità e le valenze iconi-
che (di ‘divinità’) del prodotto artistico sono inestricabili da quelle del
soggetto che le ha prodotte. Tale investimento, che partecipa dunque pie-
namente delle modalità di produzione borghese (il camp-come-pratica-
reazionaria, dunque), si articola tuttavia come inversione dell’ordine ge-
rarchico prescritto dall’umanesimo essenzialista e dal suo pendant di isti-
1
tuzionalità letteraria nel corso del Novecento, gli English studies. I criteri
di legittimità interpretativa postulati dagli English studies ponevano l’au-
tore come depositario del significato testuale, e la sua biografia come
strumento secondario ma imprescindibile nella sua funzionalità di ‘servi-
zio’ all’interpretazione ‘responsabile’. L’irresponsabilità camp, al contra-
rio, si produce in un rimando alla biografia-come-funzione-interpretativa
dell’autorità autoriale che demistifica l’autore e la sua autorità come ope-
re: come costruzioni culturali prodotte sia in fase di codifica che di deco-
difica, prodotto di un processo mitopoietico attrverso il quale si governa
– arbitrariamente e tendenziosamente – l’interpretazione, il significato, e

questione. Ma si veda senz’altro in prima battuta, nella medesima direzione,


l’eccellente Seán Burke, op. cit.
1
I cui assunti verranno esaminati a breve a partire dalla lezione di Matthew Arnold.
LOGICA E SPAZIO DEL DISSENSO 155

attraverso questi si costruisce un ordine di naturalità che pervade le ge-


1
rarchie extrafinzionali.
La logica del dissenso dispiegata sul dato biografico reinvestito pole-
micamente contro la biograficità dell’interpretazione umanista giustifica,
d’altro canto, perché un genere che frequentemente ospita lavori di ma-
trice camp sia proprio quello della biografia – una biografia che, al solito,
si configura tuttavia come rifiuto estetico e documentario presso le auto-
rità di entrambi (in quanto oggetto estetico e in quanto documento). Alla
fine degli anni Settanta, intervenendo in difesa di un genere – la biogra-
fia, appunto – a fronte degli attacchi portati dalla gran parte degli orien-
tamenti critici che si articolavano polemicamente nei confronti degli En-
glish studies, l’autorevole biografo Leon Edel ha precisato in apertura che
2
“we need not concern ourselves with ‘camp’ biographies”. Con la suffi-
cienza derogatoria insita nel ricorso da parte di un rappresentante
dell’autorità culturale al lemma camp, Eden indica le biografie altrimenti
3
ascritte al paradigma del postmoderno, dedicate a
the ephemeral figures of movie stars, dope addicts, Boston stranglers;
they belong to certain kinds of life histories written by journalists in
our time. They belong in a wax works. They are documentary and often
vividly mythic; they are more related to the photographic, the visual
moment, the changing world of entertainment or crime, the great and
flourishing field of interminable gossip disseminated by the media. This
is quite distinct, as we know, from serious artistic biographical and pic-
torial quests to capture the depths and mysteries of singular greatness.4

Le parole di Edel richiamano quelle di Jameson, con le quali condividono


5
lo spregio per questi “painted portraits […] that are mere façades”, nei
quale l’estensore declina la “biographical responsibility” che corrisponde
non alla mera presentazione di una sequela di eventi, direbbe Jameson,
6
“shorn of their earlier life-world”, bensì alla “ability to interpret”. Edel
1
Per un’analisi di un caso esemplare – Ronald Firbank – tanto della fenomenologia
camp quanto della rilevanza del dato biografico nell’interpretazione, che demistifica
l’autore-come-effetto più che come causa di un regime ideologico della testualità, mi
permetto di rinviare al mio “Biografia, ideologia, autor-ità interpretativa”, cit.
2
Leon Edel, “The Figure Under the Carpet”, in Marc Pachter (ed.), Telling Lives: The
Biographer’s Art, (1979) Philadelphia: University of Pennsylvania Press, 1981, p. 18.
3
Sulla biografia nella postmodernità, oltre ai testi di cui nella nota 3 a pagina 153, si
vedano i saggi raccolti in William H. Epstein (ed.), op. cit.
4
Leon Edel, op. cit., p. 18.
5
Ibidem.
6
Ibidem. Nel panorama del ‘degrado’ cui attinge l’arte postmoderna, significativa-
156 ESUBERANZA

scrive, è ovvio, da un punto di vista profondamente distante da quello di


Jameson: il biografo rientra infatti pienamente in quella che si può indi-
care la tradizione liberal-umanista, che della profondità, coerenza ed or-
ganicità della figura autoriale, oltre che latamente individuale, transtori-
camente espressiva di una Verità dell’Umano, ha fatto un proprio cardi-
ne. Ma la distanza si riduce significativamente all’insegna di un comune
rimando alla necessità di ristabilire una profondità al soggetto e al testo,
che conseguentemente si riconsegnerebbero alla dimensione metafisica
e ermeneutica negata dalla testualità e soggettività postmoderne.
La prassi camp risulta invisa dunque sia a una lettura marxista orto-
1
dossa, sia al suo opposto speculare, la tradizione critica umanista. Ciò si
giustifica alla luce di quanto sostenuto a proposito del camp come strate-
gia del dissenso, che si esercita nei confronti delle gerarchie culturali e
delle ortodossie. Sia Jameson che Edel possono essere intesi, in tal senso
(cioè da chi voglia sostenere una radicale sovversività del camp), come
mossi alla loro critica dal fatto che la valenza camp insita nelle pratiche
disprezzate sovverte i principi che costituiscono l’uno e l’altro come auto-
rità culturali – i principi cioè che presiedono all’umanesimo essenzialista
e al marxismo come dottrine fra loro antagoniste ma ugualmente struttu-
rate (e strutturanti) in criteri e gerarchie di autorità/autorevolezza. Quel-
l’autorità che peraltro viene dall’uno investita sull’autorità autoriale, sulla
Verità dell’Umano e della Natura di cui l’autore è garante in virtù della
sua eccezionalità esperienziale, e dall’altro sulla dialettica fra struttura e
sovrastruttura, sulla ragione economica delle energie e dei processi storici.
Il camp, si diceva, fa ricorso al dato biografico in questa prospettiva.
Se si ricerca un testo esemplare sia di quanto escluso dall’interesse del
biografo ‘responsabile’ di cui parla e cui si rivolge Edel, sia della biograficità
della decodifica camp, questo può essere indicato in Hollywood Babylon di
2
Kenneth Anger, il classico del famoso regista underground. Nel rico-

mente, Jameson (p. 55) inserisce fra l’altro anche la “popular biography” che è pro-
gramma-ticamente esclusa dall’attenzione del ‘serio biografo’ edeliano.
1
Si precisa infatti che Jameson rientra pienamente nell’ortodossia marxista, poiché le
sue critiche non sono sottoscrivibili automaticamente all’interno di prospettive post-
marxiste (che cioè si configurano al contempo come esito e superamento del marxismo
classico) quali sono, ad esempio, i cultural studies, il materialismo culturale britannico e
il neostoricismo statunitense. In questi ultimi, infatti, le sollecitazioni ‘testualiste’ e la
problematizzazione della Storia come univocamente data (quello che si può indicare, à
la Jameson, come ‘indebolimento della Storia’) sono ampiamente accolte.
2
Kenneth Anger, Hollywood Babylon, New York: Bell, 1981. La prima edizione del te-
sto fu pubblicata ‘clandestinamente’ a Parigi nel 1975. Ad Anger si è già accennato, e
LOGICA E SPAZIO DEL DISSENSO 157

struire l’ambiente e i personaggi che hanno contraddistinto lo scenario


hollywoodiano tra il 1915 e la fine della Hollywood Age con gli anni Ses-
santa, Anger ne segue i meandri della perversione, della meschinità, del
segreto collettivo e personale, dissacrando le icone più care allo establish-
ment hollywoodiano così come all’intera identità statunitense che inve-
stiva (e investe) queste icone di statuto sacrale e di strumento di autorati-
fica. Da Roscoe ‘Fatty’ Arbuckle a Charlie Chaplin, da Rodolfo Valentino
a Gloria Swanson, da Joan Crawford a Buster Keaton, da Jean Harlow a
Mae West, da Errol Flynn a Jayne Mansfield, da Marylin Monroe a Sharon
Tate: una significativa porzione della galleria di icone camp (vale a dire,
icone collettive che diventano camp in virtù della decodifica promossa da
Anger) è accomunata da vicende di droga, scandali sessuali, sfruttamen-
to e violenza. Gli psicodrammi, i suicidi e gli omicidi, gli scandali politici
a sfondo sessuale presiedono così all’esistenza stessa del ‘mondo dorato’
hollywoodiano, (apparentemente) avulso dalla realtà e dalla Storia, e al
contempo investito di una valenza di strumento di ratificazione – nell’im-
maginario collettivo – della realtà e della Storia come ‘naturalmente’ dati.
Questi dati di avvilimento totalizzante sono riportati da Anger con mor-
bosa e compiaciuta attenzione, secondo la logica e il registro dello scan-
dalismo e del pettegolezzo, attingendo in questa imponente ricostruzio-
ne ai periodici popolari – tanto più investiti di autorevolezza quanto più
‘strillati’ – prima ancora che ai documenti accreditati di una qualche au-
torevolezza storica nelle sedi istituzionali.
In effetti, scandalismo e pettegolezzo sono per molti versi inestricabili
dal fenomeno camp: dalla sua configurazione, dalla sua scrittura e dalla
1
sua stessa logica di rappresentazione. Inestricabili non solo in termini
negativi: quelli cioè che si potrebbero evincere ad esempio dallo ‘scanda-
lo’ omosessuale per antonomasia – i processi Wilde del 1895, e la loro
rappresentazione tanto sui periodici popolari quanto nella coscienza col-
2
lettiva nel corso del Novecento – oppure dal timore del pettegolezzo che
il soggetto camp, inteso come ‘omosessuale taciuto’ o come ‘persona
dalla doppia vita’, nutre nei confronti della voce pubblica incontrollata.
Se questi termini negativi sono riconducibili al determinismo omoses-
suale che si è visto nella sua precarietà, e alla presenza di una ‘vera natu-
sul suo lavoro si tornerà nella Parte Terza.
1
Al pettegolezzo nella Recherche proustiana è ad esempio specificamente dedicato, in
sede critica, Gregory Woods, “High Culture and High Camp: The Case of Marcel
Proust”, in David Bergman (ed.), op. cit., pp. 121-133.
2
Si confronti in merito la Parte Terza.
158 ESUBERANZA

ra’ che il camp, almeno potenzialmente, mette in crisi, un’inestricabilità è


riconducibile non (solo) alla chiave censoria bensì anche a quella costru-
zionista, che nello scandalo e nel pettegolezzo trova le cifre di
un’ostentazione straniante di portata analoga a quella, ad esempio, della
demistificazione del ‘femminile’ che ha occupato il capitolo 4.
Il soggetto camp si costituisce infatti in tal senso come maschera pub-
blica, una maschera che – priva di interiorità – esiste solo in quanto og-
getto di uno sguardo altrui, così come del resto l’oggetto camp è tale solo
in virtù di una fruizione: della relazione che ne produce la campiness. È a
questa dimensione relazionale che ludicamente afferisce la possibilità di
costituzione di una comunità camp, informata da quella che Andy War-
hol chiamava la propria “Social Disease”, con la quale indicava una con-
dizione esistentiva presieduta dalla socialità compulsiva e dall’arbitrio del
fraintendimento deliberato eletto a ‘gioco di società’: “I have to go out
every night. If I stay home one night, I start spreading rumours to my
dogs. Once I stayed home for a week and my dogs had a nervous break-
1
down”. Relazione sociale e pettegolezzo sono – all’interno di questa lo-
gica – un tutt’uno: la necessità di interagire con l’altro da sé dichiarata da
Warhol è inscindibile dall’offrirsi all’arbitrio che presiede alla ‘reputazione’
sia come suo oggetto sia come soggetti attivi nel medesimo gioco di so-
cietà. Il che partecipa del generale impianto costruzionista che sembra
promosso dal camp, poiché la reputazione, come osserva Alan Sinfield, è
“by definition a social construct, concerned entirely with one’s standing
2
in the eyes of other”, e in tal senso esemplare dell’imprescindibile inte-
rattività di linguaggio e realtà, del loro essere funzioni della condivisione
3
all’interno di un particolare gruppo sociale. Esistere, all’interno di una lo-

1
Cit. in Mark Booth, op. cit., p. 76. La social disease warholiana trova un parallelo sor-
prendente nella ‘Boheara’ di Ronald Firbank, che segna l’Alta Società di Clemenza (nel
quale imperversa il Cardinal Pirelli di cui nel capitolo 1) quale malattia di moda (e della
moda), “the new and fashionable epidemic”. Ronald Firbank, Concerning the Eccentrici-
ties of Cardinal Pirelli, cit., p. 660. E Paul Rudnick, meglio noto come sceneggiatore ci-
nematografico e grande ‘regina’ della scena camp newyorkese degli anni Ottanta e
Novanta, intitolerà Social Disease il proprio romanzo apparso per Knopf nel 1986.
2
Alan Sinfield, Faultlines, cit., p. 29.
3
Il costruzionismo di tale prospettiva è senz’altro da ricondursi alle medesime pre-
messe che hanno presieduto alla sua articolazione in sede critica: la linguistica saussu-
riana e la sua cooptazione da parte della critica radicale, sulla quale ha pagine di alta
efficacia introduttiva Catherine Belsey, op. cit. Il che non significa che il camp sia da
pensare quale esito di una prospettiva post-saussuriana: la storia delle istanze critiche
che si possono evincere dalla rappresentazione camp, e quella delle istanze critiche che
LOGICA E SPAZIO DEL DISSENSO 159

gica camp, significa partecipare di un processo di violenza, prendere parte


volontariamente o meno a un gioco di rappresentazione parziale – incom-
pleta e tendenziosa, da una posizione, in favore di e contro una posizione.
La questione della ‘memoria storica’, qual è messa (volta) in gioco
dalla rappresentazione ‘irresponsabile’ di matrice camp, rientra in questa
medesima logica. Quella che Jameson indica come prassi di pastiche, in-
fatti, al pari della generale irriverenza camp nei confronti della memoria
storica che il suo citazionismo (“Camp sees everything in quotation
marks”) comprende e presuppone, sembra sfruttare un’ambiguità che si
può evidenziare – per impercettibile forzatura – da un pur sommario
confronto etimologico. La memoria è attivata infatti sì dall’etimo di men-
zione (dal latino mentio -onis, affine a mens mentis (‘mente’, ‘memoria’),
ma anche dalla menzogna, che pure proviene – attraverso il (non attesta-
to) mentionia – dal latino classico mentiri. Quest’ultimo, a sua volta, deri-
va infatti da mens mentis (con il valore di ‘inventare con la mente’ e quin-
di ‘fingere’). Il nodo semantico afferente alla memoria comprende dun-
que l’alterità della falsa memoria che è attivato nella citazione ‘responsa-
bile’ e nella rappresentazione storica ‘autorevole’. Ciò che può essere e-
vinto dalla rappresentazione camp della soggettività e del suo fonda-
mento in termini di identità storica (con Storia, tradizione e memoria
come depositari della identità di una cultura e del soggetto che ne parte-
cipa) è una dichiarazione di diffidenza totalizzante eletta a gioco di socie-
tà: ricordare significa mentire – mentire a sé, e su di sé, o se si preferisce
tradire l’im-mediatezza di questi e della Storia che è assunta quale depo-
sitaria della sua identità.
Affidarsi come fa esemplarmente Kenneth Anger, nella ricerca di fonti
per una ricostruzione storiografica, ai giornali scandalistici e al pettego-
lezzo, comporta pertanto un’implicazione sovversiva: l’enfatizzare, o il
riconoscere, le dinamiche di costruzione dello statuto pubblico di un sog-
getto e dello sfondo storico che lo ospita – in breve, sottoporre a radicale
interrogazione le modalità di costituzione delle ‘fonti d’autorità’ interpreta-
tiva, siano queste l’autorità autoriale o del contesto storico-linguistico,
attraverso l’enfasi sulla parzialità autoritaria di rappresentazione che inter-
1
viene nella costituzione delle ‘fonti d’autorevolezza’. L’irresponsabilità
hanno trovato una legittimità intellettuale nel corso del nostro secolo, sono ovviamen-
te differenti. Si tornerà a ogni modo sulla questione.
1
Autorevolezza, autorità e autorialità sono del resto profondamente interconnesse,
come argomenta persuasivamente Edward Said in Beginnings: Intention and Method
(1975), New York: Columbia University Press, 1985, pp. 83-84.
160 ESUBERANZA

camp è insomma al tempo stesso potenzialmente critica e presieduta dal


piacere della trasgressione dei vincoli di liceità – potenzialmente critica
proprio in ragione della sua trasgressività. Il piacere della trasgressione
infatti è l’elemento che produce la complicità camp, e la ragione per cui,
all’interno della storiografia ‘perversa’ di Anger, campeggia un editoriale
del Los Angeles Examiner (periodico sottotitolato, con fiera compostezza,
A Paper for People who Think), il quale stigmatizzava con retorica veterote-
stamentaria la ‘spregevole’ pratica del pettegolezzo, di cui era del resto sta-
to oggetto il proprietario del periodico, che disattende le inalienabili pre-
1
messe di responsabilità, imparzialità, rispetto della Verità e della Persona.
Il fatto che Anger accolga, paradossalmente, con fierezza e compiaci-
mento, la stigmatizzazione lanciata dall’editoriale del Los Angeles Exami-
ner, esemplifica il rapporto che il camp instaura con l’ordine di normalità.
Il camp instaura infatti, lo si è visto, un rapporto ambivalente con le pro-
prie condizioni fruitive (ed esistentive), discriminando coloro che si muo-
vono lungo le coordinate della fruizione camp da coloro che, non essen-
do partecipi di una medesima prospettiva, risultano esclusi dal gioco di
fraintendimento programmatico o di assunzione di maschere mutate di
segno. L’ironia, la parodia e l’irresponsabilità del camp agiscono con va-
lenza affiliativa, come modalità d’intesa, di riconoscimento e d’esclusione
– con l’esclusione quale imprescindibile specchio dell’aggregazione. A
questa operazione di fra-intendimento programmatico sembra corri-
spondere la costituzione di un regno arbitrario, all’insegna dell’inver-
2
sione in forte consonanza con il carnevalesco bachtiniano, nel quale la
normalità può apparire come assente (si pensi a quanto scrive Jameson
sull’assenza di una “healthy linguistic normality” nel sublime isterico del
camp). Tuttavia, gli esclusi dal gioco di fraintendimento e di assunzione
di maschere mutate di segno sono re-inclusi in forma simbolica, vale a
dire inclusi solo in quanto ‘reagente’, quel principio di normalità (di Na-

1
L’editoriale – “Gossip, Hidden Channel of Malicious Evil”, Los Angeles Examiner, 23
January 1938, riprodotto in Kenneth Anger, op. cit., pp. 248-249 – è da ricondursi a
William Randolph Hearst, magnate della stampa e produttore cinematografico, le cui
vicende (un omicidio sul suo yacht provocò un caso sui giornali dell’epoca, e diede
luogo a una proliferazione di voci sul suo conto) sono riportate nel volume di Anger
alle pagine 139-152, 264-267.
2
La consonanza fra camp e carnevalesco bachtiniano – clamorosa ad esempio nella
inversione delle gerarchie, nella paradossalità irridente, nella lingua fortemente allusi-
va alla volgarità sessuale, e soprattutto nella dimensione di ‘trasgressione autorizzata’
che è possibile ascrivere al camp – è bene registrata in David Bergman, Gayety Transfi-
gured, cit., pp. 111-114, e in Linda Mizejewski, op. cit., p. 63.
LOGICA E SPAZIO DEL DISSENSO 161

tura, di Verità, e di Legge), la cui ideologia evocata costituisce la premessa


al piacere sottilmente trasgressivo del ludico camp, che la presuppone
nel momento stesso in cui la sovverte.
Per quanto artificioso, frivolo, effimero e ‘irrealistico’, il camp può as-
sumere insomma un valore di critica delle dinamiche di potere culturale
che si esercitano negli assunti sulla naturalità delle categorizzazioni e
della narrazione storica, promuovendo un atteggiamento dissenziente
che – sulla scorta dell’affermazione wildiana per cui “the way of parado-
1 2
xes is the way of truth” – attraverso la menzogna “afferma la verità”,
vale a dire che al contempo può postulare (e rafforzare) l’ordine della Ve-
rità contraddetta, e rivelare lo statuto fittizio e ideologicamente determi-
nato del Consenso, quale che sia: “[a] truth ceases to be true when more
3
than one person believes in it”, sosteneva Wilde. È in questa duplice pro-
spettiva che risulta necessario inquadrare le affermazioni che indicano
4
nel camp uno storicismo ‘istrionico’: quello camp è uno storicismo che –
nello spettacolarizzare il Passato – denuncia il potere delle (e nelle) rap-
presentazioni, evidenziando la contingenza (la storicità) di quanto viene
proposto come naturale e dunque transtorico. Un valore polemico, que-
sto, cui dà voce Oscar Wilde nella sua famosa difesa del senso critico in
The Critic as Artist; allorché Gilbert, rimproverato dal ‘serio’ Ernest di
non rispettare la realtà e la Storia, avvicinandole come fossero “a crystal
ball” da manipolare a proprio piacimento (“You hold it in your hand,
and reverse it to please a wilful fancy”), replica: “[t]he one duty we owe
5
to history is to re-write it”.
Il confronto fra testo e soggetto della decodifica, fra questi e Storia,
contesto e ‘senso comune’, è di fatto un confronto fra ortodossia ed ete-
rodossia. Basti in tal senso giustapporre The Critic as Artist con il saggio
di Matthew Arnold – The Function of Criticism at the Present Time, apparso
nel 1864 – che in larga misura è stato indicato come esemplare, se non
costitutivo, dei principi critici ‘responsabili’ e ‘seri’ che si sono ascritti alla
tradizione liberal-umanista e in particolare alla loro versione istituzionale
6
nel corso del Novecento, gli English studies. Cardine per Arnold è il disinte-

1
Oscar Wilde, The Picture of Dorian Gray, in The Complete Works, cit., p. 43.
2
“The Lie that Tells the Truth”, che riprende un’autodefinizione di Jean Genet, è
non a caso il sottotitolo del volume citato di Philip Core.
3
Oscar Wilde, “Phrases and Philosophies for the Use of the Young”, cit., p. 1205.
4
Philip Core, op. cit., p. 7.
5
Oscar Wilde, “The Critic as Artist” (1890), in The Complete Works, cit., p. 1023.
6
Cfr. Matthew Arnold, “The Function of Criticism at the Present Time” (1864), in R.
162 ESUBERANZA

resse del critico – non inteso come indifferente disprezzo della responsa-
bilità, bensì in quanto presupposto del riconoscimento della differenza –
rispetto alla propria parzialità e alle proprie “ulterior, political, practical
1
considerations […] which criticism has really nothing to do with”. Il di-
sinteresse coincide, in ultima analisi, con il rispetto dell’oggetto critico, a
prescindere dalla propria presenza che è volta solo a registrare, non a de-
formare: in breve, “to retain an intimate and lively consciouness of the
2
truth of what one is saying”. Funzione e fine del critico, e della decodi-
fica responsabile, sono dunque “a disinterested endeavour to learn and
propagate the best that is known and thought in the world”, volto a dis-
cernere ciò che va eletto a principio di cultura da ciò che va trascurato, o
in ambito strettamente letterario “for the sake of establishing an author’s
place in literature, and his relation to a central standard (and if this is not
3
done, how are we to get at our best in the world?”).
L’irriverenza camp nei confronti dei cardini interpretativi posti dalla
serietà responsabile della tradizione liberal-umanista (ma anche, lo si è
visto, nei confronti dell’ortodossia marxista) emerge dal processo di in-
versione e di spiazzamento che al contrario Wilde invoca quali costitutivi
del senso critico: la persona dotatane, al pari dello storico degno di que-
sto nome, è impegnata ad offrire “an accurate description of what has
4 5
never occurred”, a descrivere “the object as in itself it really is not”, o
ancora a evincere dal testo “a message far other than that which was put

H. Super (ed.), Matthew Arnold: Letters & Essays in Criticism, Ann Arbor: University of
Michigan Press, 1962, pp. 258-285. Giustapporre i due saggi è giustificato dal fatto che
“The Critic as Artist” nasce come tipico confronto polemico di Wilde proprio di “The
Function of Criticism at the Present Time”, e con gli assunti critici e le implicazioni
ideologiche che questo definisce: il titolo con il quale apparve la prima redazione del
saggio wildiano è infatti “The True Function and Value of Criticism”, The Nineteenth
Century, XXVIII, 161, July 1890, pp. 123-147.
1
Ivi, p. 270.
2
Ivi, p. 283.
3
Ibidem.
4
Oscar Wilde, “The Critic as Artist”, cit., p. 1015.
5
Ivi, p. 1030. Il saggio di Matthew Arnold si apriva, viceversa, sull’affermazione – af-
fermazione che chiudeva la seconda lecture di “On Translating Homer” (1861), in R. H.
Super (ed.), The Complete Prose Works of Matthew Arnold: On The Classical Tradition.
Ann Arbor: University of Michigan Press, 1960, p. 140 – che “[o]f the literature of
France and Germany, as of the intellect of Europe in general, the main effort, for now
many years, has been a critical effort; the endeavour, in all branches of knowledge,
theology, philosophy, history, art, science, to see the object as it really is”. Matthew
Arnold, “The Function of Criticism at the Present Time”, cit., p. 258.
LOGICA E SPAZIO DEL DISSENSO 163

1
into its lips to say”, poiché “the highest criticism is that which reveals in
2
the work of Art what the artist had not put there”. È nel rapporto con-
sapevole di ostentazione di sé, nella teatralità camp del gioco di ruoli ca-
ratterizzante ogni interazione sociale, che si esercita tanto in fase di pro-
duzione quanto di fruizione – vale a dire nell’opposto della neutralità me-
diatica invocata da Arnold – che si colloca il senso critico: “the highest
[…] form of criticism is a mode of autobiography”, come si è già riporta-
to, ma anche “there is no fine art without self-consciousness, and self-
3
consciousness and the critical spirit are one”.
È in rispetto di questo diritto alla irriverenza, all’insubordinazione nei
confronti dell’arbitrio dei codici interpretativi, allo overstanding, alla sur-
codifica e al fra-intendimento deliberato, che “the aesthetic critic rejects
these obvious modes of art that have but one message to deliver, and
seeks rather for such modes as […] make all interpretations true, and no
4
interpretation final”. L’arte perfetta aspira infatti alla condizione della
musica, la quale è perfetta perché non può rivelare il suo “ultimate
5
secret”; il Significato e la Verità coincidono con un segreto vuoto, con
“the secret that Truth is entirely and absolutely a matter of style”, un ef-
fetto retorico delle superfici che si affastellano a edificare – all’insegna
dell’artificio – un principio di veridicità (un principio demistificato quale
6
effetto, dunque); e in arte l’unica verità coincide con quella delle ma-
schere che si affastellano indefinitamente: “[a] Truth in art is that whose
7
contradictory is also true”.
L’opera d’arte camp, insomma, analogamente al soggetto presieduto
dal medesimo orizzonte ontologico, è non tanto – nella famosa formula
suggerita da Umberto Eco – un’opera ‘aperta’ quanto un’opera vuota:
un’opera che riconosce cioè la propria fondamentale decentratezza, e che
in quanto tale si consegna indefinitamente all’interpretazione nella con-
sapevolezza dell’arbitrio insito nell’arrestarsi del processo interpretativo,
e che vive tale consapevolezza in chiave ludica, traducendo la propria
mancanza di potere sulle condizioni di ricezione in un paradossale van-
taggio, la maggior visibilità (“[d]iversity of opinion about a work of art

1
Ivi, p. 1029.
2
Ivi, p. 1058.
3
Ivi, p. 1020.
4
Ivi, p. 1031.
5
Ibidem.
6
Oscar Wilde, “The Decay of Lying” (1889), in The Complete Works, cit., p. 981.
7
Oscar Wilde, “The Truth of Masks” (1885), in The Complete Works, cit., p. 1078.
164 ESUBERANZA

1
shows that the work is new, complex, and vital”), e il riscontro che ap-
partiene al regime pubblicitario, mercificato e prostituito, dal quale l’arte
2
nel Novecento non prescinde – al limite, in chiave camp, lo ostenta.

6.2. Il grado secondo, l’élite del margine, e la violenza della verità

La decodifica di matrice camp, in definitiva, presuppone un esercizio di


inversione, perversione, tradimento e uso del testo – o se si preferisce
una violenza sul testo, che può essere esercitata su un oggetto ‘inconsa-
pevole’, oppure su un oggetto che si offre a questo gioco di violenza in-
terpretativa quale modalità necessaria di cooptazione. “I live in terror of
3
not being misunderstood”, scriveva Wilde: il terrore di non essere frain-
tesi, al solito, può essere letto come timore di essere riconosciuti al di là
della maschera del passing for straight, il timore di vedersi scoperti nella
propria identità clandestina, e specificamente omosessuale. Il che può
essere applicato anche all’affermazione wildiana a proposito del Lord
Goring di An Ideal Husband (1895): “[h]e is fond of being misunderstood.
4
It gives him a post of vantage”, analogamente al piacere del travesti-
mento (di sé, e del pensiero), all’esibizione mascherata che – nelle parole
di Jean Starobinski – può rappresentare “un état de puissance supérieu-
re: agir sur le spectateur, séduire l’auditoire, mais sans être atteint par le
5
regard du public”.
È tuttavia possibile evidenziare nell’affermazione wildiana una valen-
za ben più destabilizzante, che rimuove i principi stessi di profondità or-
ganica che la tesi del passing in ultima analisi non intacca. La perversione
camp sembra esercitarsi infatti in prima battuta sulla nozione stessa di
identità, che è riformulata in termini performativi e locali. Il terrore di non
essere fraintesi coinciderà con il desiderio di promuovere un fra-
intendimento, un intendimento fra persone (nell’accezione teatrale del
termine) che si costituiscono, si rappresentano e si articolano su un grado
secondo del discorso – e che in questa perversione del discorso, della Sto-
1
Oscar Wilde, “Preface to The Picture of Dorian Gray” (1890), cit., p. 17.
2
Si confronti in merito, oltre alle considerazioni sulla tensione con la cultura popola-
re e consumistica di cui sopra, la Parte Terza.
3
Oscar Wilde, “The Critic as Artist”, cit., p. 1016.
4
Oscar Wilde, An Ideal Husband, in The Complete Works, cit., p. 488.
5
Jean Starobinski, “Stendhal pseudonyme” (1951), in L’Oeil vivant, Paris: Gallimard,
1961, p. 220.
LOGICA E SPAZIO DEL DISSENSO 165

ria, della modalità interpretativa, delle gerarchie culturali e dell’identità


‘di primo grado’ evidenziano un’elitarietà inclusiva ed esclusiva (lo si è
visto: non si dà inclusività che non escluda). Il “post of vantage” di cui
parla Wilde, e lo “état de puissance supérieure” starobinskiano, corri-
sponderanno allora a una dimensione teatrale, a un luogo che potrà esse-
re fisico (lo spazio del teatro, e la sottoculturalità che questo ha storica-
mente ospitato) o tutto mentale, nel quale il fraintendimento è funziona-
le alla costituzione di un’aristocrazia ‘invertita’ e perversa – a un’aristo-
crazia, per così dire, del margine, negletta dalla ratifica sociale, che nel
paradossale privilegio della comunicazione perversa e del reverse snob-
bery (forma secondaria e suprema di snobismo in quanto metasnobismo:
forma di privilegio nei confronti di quanto derogato dalle gerarchie cul-
turali, vale a dire dall’aristocrazia di gusto propriamente costituita) trova
la propria ragion d’essere.
La questione della qualità al tempo stesso elitaria (e paradossalmente
tale), e di ‘secondo grado’, implica una specifica valenza della dimensio-
ne ironica del camp, che si correla del resto con quanto precedentemente
affrontato in merito sia alla sua valenza postmoderna che parodica. Fun-
zionalmente a quanto finora proposto, è utile affrontare la questione a
partire dal ruolo rivestito dall’ironia nel dibattito sul ruolo autoriale
nell’interpretazione, per evidenziarne le implicazioni nel quadro del dis-
senso che si sta ascrivendo al camp nel suo complesso. Il dissenso del
camp, lo si è visto, si esercita in primo luogo rispetto alla fonte d’autorità,
o alla fonte tout court, che si esprime e si esercita sul testo: overstanding il
testo significa insomma rifiutare il modello di sottomissione (understan-
ding) all’autorità e all’autorevolezza autoriale.
Fin da A Rhetoric of Irony di Wayne Booth, che ne ha codificato alla fi-
ne degli anni Sessanta le modalità in forte correlazione con l’analisi reto-
rica della testualità proposta nel 1961 e con il critical understanding quale
correttezza interpretativa, l’ironia – unitamente ad altre forme ‘oblique’
come la parodia e la satira – è stata infatti considerata un caso paradig-
1
matico nella costruzione di un modello della comunicazione. Secondo
gli intenzionalisti, l’ironia richiederebbe infatti un rigore di correttezza
interpretativa che imponga al lettore di rifiutare il piano superficiale del
1
Wayne Booth, A Rhetoric of Irony, Chicago: University of Chicago Press, 1974. Bo-
oth analizza infatti l’ironia nella prospettiva interpretativa, costituendola quale esem-
pio della teoria offerta in Id., The Rhetoric of Fiction, ibidem, 1961. Una teoria generale
della ironia è offerta invece in D. C. Muecke, The Compass of Irony, London: Methuen,
1969, e in Id., Irony and the Ironic, ibidem, 1970.
166 ESUBERANZA

testo, in favore di un secondo livello inespresso corrispondente all’auten-


tico significato testuale. Ciò imporrebbe un inevitabile rimando all’autore
(implicito o empirico), il quale si scosta spesso in modo radicale dal nar-
ratore disseminando il testo di indizi che dovrebbero orientare la lettura
oltre le dichiarazioni di questi. Si tratta di indizi che comprendono la
contraddittorietà stilistico/concettuale all’interno dell’opera singola, o
delle altre produzioni dell’autore, o ancora dell’orizzonte culturale cui
appartiene l’autore stesso: in tutti questi casi, non è difficile riconoscere
la ‘presenza’ autoriale quale campo di coerenza e/o di contestualizzazio-
1
ne storica che caratterizza l’intenzionalismo (dichiarato, o surrettizio).
Attraverso questa strategia, sarebbe possibile colpire ironicamente il nar-
ratore, un terzo referente (ci si avvicina qui alla satira) oppure il lettore
2
stesso, in una versione d’ironia prossima al sarcasmo.
Gli anti-intenzionalisti hanno invece evidenziato l’interdiscorsività
dell’ironia, la quale sarebbe fondata su una serie di rimandi intertestuali,
3
o di citazioni. A conforto di questa ipotesi, inoltre, verrebbe il fatto che
la teoria di Booth si applica soprattutto alle stable ironies (all’insegna di
un ‘mascheramento aperto’ e di una decodifica univoca), mentre le un-
stable ironies, diffuse nel nostro secolo, la mettono in crisi poiché “the au-
thor refuses to declare himself, however subtly, for any stable proposi-
4
tion”. In particolare, quella postmoderna si configura, oltre che come
‘instabile’ (poiché non consente di determinare gli assunti che muovono
le parole, di contro all’ironia ‘stabile’ in cui il rapporto tra la ‘falsità’ del
primo livello e l’autenticità semantica del secondo è univoco e agilmente
5
disambiguabile), quale ironia ‘sospensiva’ (frammentaria e contradditto-

1
Mi permetto di rinviare, in merito al rimando all’autore e all’intenzionalismo insito
nelle invocazioni di rispetto della Storia o dell’Opera, al mio “Verso una rinascita
dell’autore?”, cit.
2
Tra coloro che che rimandano alla comunicazione obliqua, o indiretta, quale istanza
dell’autorità autoriale e della necessità di contestualizzazione storica, oltre a Booth, si
vedano P. D. Juhl, op. cit., pp. 64-65; J. Reichert, op. cit., p. 64; Margaret A. Rose, Pa-
rody//Metafiction, cit., pp. 112-113; e Stanley Fish, “Biography and Intention”, in Wil-
liam Epstein (ed.), op. cit., pp. 11-12.
3
Una discussione dell’ironia citazionale è offerta in Marina Mizzau, L’ironia. La con-
traddizione consentita, Milano: Feltrinelli, 1984, pp. 64-71.
4
Wayne Booth, A Rhetoric of Irony, cit., p. 240.
5
Il termine suspensive irony è stato proposto, in opposizione alla disjunctive irony che
caratterizzerebbe il modernismo (frammentaria ma tendente a una ricomposizione), in
Alan Wilde, Horizons of Assent: Modernism, Postmodernism, and the Ironic Imagination,
Baltimore: Johns Hopkins University Press, 1987. Per la distinzione tra stable e unstable
irony si veda invece Wayne Booth, A Rhetoric of Irony, cit. Sulle problematiche del-
LOGICA E SPAZIO DEL DISSENSO 167

ria), di pari passo alla quale sembra andare la fine contemporanea della
rigida distinzione tra i generi, il che diviene significativo alla luce della
tesi di E. D. Hirsch – l’intenzionalista per eccellenza – secondo la quale
l’autore determina il significato e il ‘genere intrinseco’ del testo con un
1
medesimo gesto.
2
In quanto equivalente discorsivo della travestimento, l’ironia presenta
un’ambiguità di analoghe valenze e di pari potenzialità. L’ironia può
configurarsi infatti quale discorso di secondo grado che obliquamente
veicola – esprime – un’interiorità, sia pur dissimulata. Al pari della ma-
schera del passing, può cioè configurarsi come codice a suo modo investi-
to di una dimensione segreta (la Verità testuale, l’intenzione autoriale, la
Natura soggiacente), di per sé stabile e decriptabile in quanto tale. Que-
sta implicazione dell’ironia – come peraltro si osservava a proposito del
suo equivalente psichico ed esistentivo – si traduce in una pratica che
può essere indicata come reazionaria o come ‘modernista’, che al dato
superficiale fa corrispondere un dato profondo, inequivocabile qualora si
disponga una corretta interpretazione. Sono questa correttezza e questa
espressività, ripostulate da una nozione di ironia ‘stabile’, ad avere spinto
parte della critica più recente a rifiutare la nozione di camp-come-
modalità-ironica in favore del camp-come-parodia, di cui si è sopra evi-
denziata la radicale ambiguità che all’interno del medesimo orientamen-
to critico si fa coincidere con la sovversività radicale del camp. Cynthia
Morrill, ad esempio, sostiene che

Insofar as an ironic voice or writing dissembles in discourse as a means


to reveal a ‘true’ meaning, the operations of irony can be seen to fix
meaning in a binary system of difference. By speaking the opposite in

l’ironia – oltre al volumi già citati – è eccellente Linda Hutcheon, Irony’s Edge: The The-
ory and Politics of Irony, London: Routledge, 1994.
1
E. D. Hirsch, Validity in Interpretation, New Haven: Yale University Press, 1967, p.
101. Va peraltro osservato come, anche in tale prospettiva, l’autore non venga comple-
tamente amputato dall’attività interpretativa. L’oscillazione tra i generi e la reticenza
testuale possono infatti essere ascritte a una deliberata strategia autoriale. L’ironia cita-
zionale, a sua volta, non esclude necessariamente l’autore, il quale rimane quale ‘luo-
go’ di flusso delle citazioni: una menzione, infatti, assume valenze tanto diverse quan-
to lo sono i contesti in cui viene inserita, da cui l’interesse del determinare chi e perché
(in quale direzione, dunque) citi. Così conclude del resto Marina Mizzau, affermando
come si faccia sempre riferimento alla “competenza comunicativa (linguistica, paralin-
guistica, socioculturale, ideologica) dei parlanti, e alla competenza interpersonale, cioè
alla conoscenza reciproca delle rispettive competenze”. Marina Mizzau, op. cit., pp. 24-25.
2
“L’ironie”, scrive ad esempio Jean Starobinski, “n’est rien d’autre que la quintes-
sence spirituelle du masque”. Jean Starobinski, op. cit., p. 209.
168 ESUBERANZA

order to expose an asserted standard, irony relies upon establishing a


critical distance (and therefore a critical difference) between an osten-
sible standard and a point of commentary. […] The stabilizing quality
of irony, then, contradicts the destabilizing effect ascribed to ‘camp-as-
masquerade’. The use and deployment of irony in ‘camp role playing’
can only produce a reification of (hetero)sexual difference since irony
cements difference into a binary sets of standards and commentaries.
[…] Clearly, the notion of Camp as ironic role playing falls short of any
destabilizing function.1

L’effetto stabilizzante dell’ironia procede di pari passo con l’affermazione


implicita di uno standard e di un ordine di normalità, che il camp inteso
come modalità parodica non presupporrebbe, così come del resto la dif-
ferenza critica postulata dall’ironia sarebbe in effetti esautorata dalla
prassi camp. L’affermazione di Morrill, e la prospettiva entro la quale il
critico muove le proprie critiche, attivano la problematicità che si è pre-
cedentemente affrontata in merito alle implicazioni politiche del camp: il
camp sarebbe presieduto dall’indifferenza critica, e ogni tentativo di insi-
nuare un principio di differenza – pace Jameson – è destinato a depoten-
ziarne le potenzialità radicali. La potenzialità sovversiva del camp-come-
masquerade, che sarebbe incompatibile con la chiave ironica, non risulta
in effetti tale se, come affermava Sontag nel 1975 nell’intervista che po-
neva ad attenzione il potenziale di dissenso esplorato dalle teoriche della
female mimicry, “Camp’s extremely sentimental relation to beauty is no
help to women, but its irony is: ironizing about the sexes is one small
2
step toward depolarizing them”. Questo perché l’ironia non presuppone
semplicemente, come sostiene Morrill, un principio di normalità – quella
“healthy linguistic normality” e quella “vocation” rimpiante da Jameson
– o un’interiorità (una sincerità) autoriale che attraverso l’ironia, sia pur
obliquamente, si esprime e restituisce una rappresentazione fondamen-
talmente mimetica. L’ironia in quanto equivalente discorsivo del trave-
stimento può anche mettere in crisi le nozioni di autenticità, interiorità e
sincerità che l’intenzionalismo dogmatico, e il rifiuto di Morrill, presup-
pongono. Ed è in questa veste che l’ironia camp può essere assunta.
L’ironia camp rimanda infatti sia alla modalità citazionale sia, almeno
in parte, a quella ‘referenziale’ o ‘di situazione’, nella quale si presuppo-
ne la necessità di due degli elementi ironici – “la sede dell’ironia, e

1
Cynthia Morrill, op. cit., pp. 114-115.
2
Cfr. supra, la nota 1 a pagina 112.
LOGICA E SPAZIO DEL DISSENSO 169

1
l’osservatore che percepisce come ironica la situazione” – a prescindere
dal terzo elemento, l’oggetto di irrisione, significativamente ricollocato su
uno dei due elementi citati. Quest’ultimo può infatti coincidere con la
sede dell’ironia, oppure con il locutore, in una modalità altamente pros-
sima all’autoironia. Nel camp inintenzionale l’oggetto di irrisione è in-
scindibile dalla sede dell’ironia (il testo su cui si esercita la decodifica
‘perversa’), e solo attraverso questo si colpiscono le modalità di produ-
zione del testo pervertito. Non è necessario, si ricorderà, che le allusioni
o il ‘secondo livello’ ironico siano compresi dalle intenzioni autoriali. Nel
camp deliberato, viceversa, l’ironia investe il locutore camp, nel quale il
fruitore è invitato a partecipare al medesimo gioco. Locutore, fruitore e
sede dell’ironia risultano così sovrapposti in un medesimo ‘luogo’ ironi-
co. In entrambe le tipologie ironiche (citazionale e referenziale), peraltro,
l’intenzionalità autoriale sopravvive solo a costo di una radicale rinego-
ziazione rispetto allo statuto sacrale dell’autorità autoriale e al paradigma
mimetico-espressivo, che la tradizione critica liberal-umanista ha eletto a
2
categoria di validità dell’artistico.
In tal senso può essere utile ripensare alla qualità di ‘secondo grado’
che investe l’ironia e il costituirsi discorsivo (oltre che esistentivo) del
camp. Il secondo grado del linguaggio, nel suggerimento di Roland Bar-
thes, coincide con l’autoconsapevolezza (del linguaggio nel linguaggio:
“J’écris: ceci est le premier degré du langage. Puis, j’écris que j’écris: c’en
est le second degré”), la mise en abyme potenzialmente infinita ad ogni
3
luogo verbale fra i suoi strati discorsivi. Ma il “second degré”, scrive Barthes,

est aussi une façon de vivre. Il suffit de reculer le cran d’un propos,
d’un spectacle, d’un corps, pour renverser du tout au tout le goût que
nous pouvions en avoir, le sens que nous pourrions lui donner. Il existe
des érotiques, des esthétiques du second degré: (le kitsch, par exem-
ple). Nous pouvons même devenir des maniaques du second degré: re-
jeter la dénotation, la spontaneité, le babil, la platitude, la répétition
innocente, ne tolérer que des langages qui témoignent, même légère-
1
Marina Mizzau, op. cit., p. 20.
2
Degno d’attenzione è il fatto che Linda Hutcheon – pur evidenziando che
l’intertestualità parodica desacralizzi l’autore e l’etica romantico-capitalista “that made
literature into a commodity to be owned by an individual” – non prescinda da un enco-
ded intent nella decodifica della parodia stessa. Il che le suggerisce che “[p]erhaps the
time has come to rethink our modernist anti-Romanticism.” Linda Hutcheon, A Theory
of Parody, cit., pp. 4-5, 84. È un ripensamento, insomma, a essere promosso, più che
un riallineamento su posizioni intenzionaliste di stampo mimetico-espressivo.
3
Roland Barthes, Roland Barthes par Roland Barthes, cit., p. 70.
170 ESUBERANZA

ment, d’un pouvoir de déboîtement: la parodie, l’amphibologie, la cita-


tion subreptice.1

Le parole di Barthes possono essere riferite, senza forzatura alcuna, al


2
camp. Il camp, che apprezza quanto negletto dai canoni estetici ed etici,
è di fatto un recupero ironico, e – appunto – di secondo grado rispetto
alla im-mediatezza del ‘bello’, del ‘giusto’ e del ‘vero’. Barthes indica nel
Kitsch un’estetica del secondo grado, in quanto estetica del fallimento e
della derivatività a fronte del successo dell’originale imitato. Il camp rien-
tra pienamente nella scelta di investimento di valore nel secondario e nel
derivativo (“Nous pouvons même devenir des maniaques du second dé-
gré”). Il camp come modalità esistentiva è pure riconducibile al secondo
grado barthesiano, attraverso l’investimento di sé sul registro del rifiuto
della denotazione e della spontaneità, della totale assunzione dei linguaggi
secondari (la parodia, l’anfibologia, la citazione surrettizia), e di uno sno-
bismo – di per sé implicante una posizione di secondo grado: il rifiuto del
gusto di massa – che nel suo essere reverse è, per così dire, un ‘secondo
grado al quadrato’, un gusto che rifiuta di stabilizzarsi (foss’anche in se-
condarietà) innalzando il processo di derivatività: lo snobismo estremo,
insomma, che si articola nel ‘rifiuto del rifiuto’ del gusto di massa.
Questo movimento linguistico e personale di stampo ludico sui gradi
3
del discorso – “on peut appeler ce jeu: bathmologie” – viene indicato da
Barthes come una scienza “inouïe, car elle ébranlera les istances habi-
tuelles de l’expression, de la lecture et de l’écoute (‘vérité, ‘réalité’, ‘sin-
cerité’); son principe sera une secousse: elle enjambera, comme on saute
4
une marche, toute expression.”. Una scienza, la bathmologia, che è un
gioco (ludicamente destabilizzante i principi della sincerità: della mimesi
realistica e dell’espressione), insomma, e che non condivide l’intento or-
dinatrice della ‘scienza’ nei confronti dei gradi n del discorso per parteci-
pare pienamente del suo ‘oggetto di studio’. Nella più sistematica appli-
1
Ivi, pp. 70-71. Sul grado secondo nell’enunciazione ironica si veda Marina Mizzau,
op. cit., pp. 75-81.
2
Barthes, le cui riflessioni sono particolarmente funzionali alla fenomenologia e alla
teoria del camp, non è mai intervenuto esplicitamente sull’argomento. È significativo
tuttavia registrare come il compito di confronto con il camp sia stato assunto da Patrick
Mauriès, figura molto vicina al critico francese, il cui citato Second manifeste camp rap-
presenta del resto il primo volume in assoluto ad essere dedicato all’argomento, e da
Renaud Camus, il cui lavoro da ‘bathmologo’ di cui si dirà a breve è largamente ricon-
ducibile a un dispiegarsi della logica camp.
3
Roland Barthes, Roland Barthes par Roland Barthes, cit., p. 71.
4
Ibidem.
LOGICA E SPAZIO DEL DISSENSO 171

cazione di tale ‘scienza’, proposta nel 1980 da Renaud Camus in Buena


Vista Park – un volume che può peraltro essere inteso come esercizio di
1
stile in chiave camp –, il bathmologo risulta caratterizzato dal fatto che

il n’est pas sincère. Qu’il n’est pas militant, et ne peut soutenir une
cause que provisoirement. Qu’il n’y tient pas. Que sa volonté d’être
ambigu est plus forte que son désir d’être compris. Il n’explique jamais
[…], ou bien ses explications sont contradictoires.2

La moltiplicazione dei gradi in una serie indefinita di livelli in cui il ba-


thmologo si produce, sia pur scandita da Camus con precisione analitica
di stampo tassonomico, trova il proprio principio di elusivilità nel deside-
rio di ambiguità che supera l’intenzione di offrire un quadro di intelligi-
bilità o di gestione dei piani discorsivi fra loro contraddittori.
L’esempio di bathmologia che apre Buena Vista Park percorre infatti la
logica dei piani discorsivi che spinge un condannato alla fucilazione ad
accettare, o a rifiutare, la benda demandata a coprirne gli occhi. Quella
che appare come un’opzione alternativa, riconducibile a una semplice
opposizione binaria (accettazione vs. rifiuto) si traduce in un gioco di ri-
mandi nel quale i piani si sovrappongono potenzialmente all’infinito. La
complessità dell’articolazione di Camus, e l’irriducibile sovrapposizione
dei livelli di ironia e di snobismo che investono gli otto ‘gradi’ in cui pro-
lifera l’opposizione primaria, giustificano il fatto che qui si riproduca l’in-
tero brano:

1) Le condamné à mort accepte le bandeau, parce qu’on le lui pro-


pose et qu’il ne songe pas à le refuser.
2) Le condamné à mort refuse le bandeau, parce qu’il est courageux
et veut voir la mort en face […].
3) Le condamné à mort accepte le bandeau parce que la position 2 lui
paraît ridiculement banale, et fastidieuse cette tradition éculée du
condamné à mort qui refuse le bandeau pour montrer qu’il est coura-
geux et peut regarder la mort en face.
4) Le condamné à mort refuse le bandeau, bien qu’il soit tout à fait
d’accord avec la position 3, parce que ça l’intéresse de voir ce qui se
passe.
1
Renaud Camus, Buena Vista Park, Paris: Hachette, 1980. Come ci informa Camus in
quarta di copertina, il volume trae il proprio titolo dal giardino pubblico di San Franci-
sco – senz’altro la città che negli anni recenti si è offerta quale spazio privilegiato per la
comunità gay nordamericana, e per la formazione culturale camp di specifica matrice
omosessuale – nel quale è stato scritto.
2
Ivi, p. 45.
172 ESUBERANZA

5) Le condamné à mort accepte le bandeau, parce qu’il craint que la


position qu’il aurait eu tendence à adopter, la quatrième, ne soit
confondue avec la seconde, et que sa simple préférence pour une ab-
sence de bandeau ne passe pour une démonstration ridicule à ses yeux
d’héroïsme codifié.
6) Le condamné à mort refuse le bandeau, parce que la position 5, au
moment où il va s’y ranger, lui paraît témoigner d’un souci exagéré de
l’opinion des observateurs, et qu’il lui est indifférent que ceux-ci, et
l’Histoire éventuellement, confondent sa simple préférence avec une
démonstration de courage stéréotypé.
7) et II. 1) Le condamné à mort accepte le bandeau, parce que toutes
les précédentes tergiversations, auxquelles il s’est rapidement livré, lui
paraissent absurdes, et vulgaire leur affectée subtilité, qu’on lui pro-
pose le bandeau et que le plus simple est de l’accepter.
II. 2) Le condamné à mort refuse le bandeau parce que, revenu à II.
1), il n’en préfère pas moins affronter la mort sans bandeau, et qu’il n’a
pas l’intention de négliger sa simple préférence pour le seul souci de
démontrer, ne serait-ce qu’à ses propres yeux, qu’il est bien au-delà
des banales subtilités de la bathmologie avant la lettre.1

L’esempio in questione in una qualche misura sintetizza l’operazione di


messa in scena della mobilità bathmologica che occupa l’intero Buena
Vista Park. Ma per quanto modulato, com’è evidente nell’esempio ripor-
tato, attraverso una prassi di sistematico ‘tradimento’ del desiderio di
ambiguità che costituisce il bathmologo in quanto tale, ciò che emerge
dal lavoro di Camus è un riconoscimento di tale ambiguità come irridu-
cibile, e del fraintendimento come logica che presiede alla bathmologia.
Da un lato infatti, afferma Camus, nel fraintendimento cui si consegna
2
l’ironia bathmologica (“Le bathmologue habite le malentendu”) trova la
propria ragion d’essere la rassegnazione alla riduzione della complessità
cui può corrispondere la sconfitta retorica (“[l]a subtilité bathmologique
n’est jamais une arme de victoire: si vous êtes au niveau 8, pour
3
l’habitant de niveau 7 vous serez toujours au niveau 6”); dall’altro è le-
gittimo chiedersi quanto la ‘superiorità’ sui gradi del discorso corrispon-
da a una sostanziale complicità con quanto irriso (o ‘superato’ di un gra-
do): “[a]u niveau 8, est-on plus près des tenants du niveau 7, dont les
positions sont contraires aux vôtres, ou de ceux du niveau 6, dont elles
4
sont apparemment les mêmes?”
1
Ivi, pp. 15-16.
2
Ivi, p. 23.
3
Ivi, p. 43.
4
Ibidem.
LOGICA E SPAZIO DEL DISSENSO 173

La logica del gioco bathmologico, è evidente, è nient’altro che la logi-


ca del camp quale lo si è disegnato. Sarebbe senza dubbio ridondante
offrire qui un’analisi serrata dei piani di convergenza fra la bathmologia e
la prassi camp, che investono all’atto pratico l’intero dispiegarsi del pere-
grinare di Camus sulla gradualità discorsiva e sulle molteplici concretiz-
1
zazioni di tale stile di pensiero, oltre che esistentivo. Basti registrare che
la specifica funzionalità del modello bathmologico emerge dall’esempio
riportato qualora si rilevino le sue implicazioni in chiave di strategie di
rappresentazione di sé e di posizionamento rispetto all’altro da sé. Le
diverse posizioni discorsive assunte dal condannato alla fucilazione non
esprimono, è chiaro, una sincerità – che anzi viene progressivamente
minata man mano che ci si innalza sui gradi – o una interiorità di sorta.
Si tratta dunque di un posizionamento, e di una soggettività, mascherati,
di un mascheramento che non rinvia a un principio interiore di normalità
falsificabile bensì a un’interiorità come stratificazione di ‘maschere’ cui
corrispondono i singoli gradi del discorso intesi quali finzioni esistentive.
La posizione di volta in volta assunta dal protagonista dell’esempio si
definisce snobisticamente in opposizione al livello precedente, con stra-
tegia che comporta un’apparente ‘discesa’ al livello ancora precedente; e
il superamento della posizione precedente si fonda su una sostanziale
incorporazione della medesima quale principio di distinzione – “3) Le
condamné à mort accepte le bandeau parce que la position 2 lui paraît
ridiculement banale, et fastidieuse cette tradition éculée du condamné à
mort qui refuse le bandeau pour montrer qu’il est courageux et peut re-
garder la mort en face” –, al pari di ogni snobismo di primo grado che
pure non si riconosce nella propria fondamentale secondarietà. In altri
termini, il camp articola quale propria cifra esistentiva, stilistica e discor-
siva, la mobilità sul ‘grado n’ che suggerisce un’estetica, un’etica,
un’ontologia e una comunicazione presieduti dalla serialità e dalla ripeti-
tività, ossia dalla ricontestualizzazione violenta che in ambito artistico ha
trovato in Andy Warhol il proprio maggiore, o semplicemente il più noto,
2
fautore.

1
Non è irrilevante notare a margine che Camus, nel descrivere la diffusione del ‘se-
condo grado’ nella cultura francese degli anni Settanta, elenchi camp, Kitsch e rétro fra
i suoi dispositivi di massa, e rimandi esplicitamente al volume citato di Patrick Mauriès
per il “manque de conviction” che caratterizza il bathmologo. Ivi, pp. 19, 45-46.
2
Si tornerà sull’estetica della ripetitività in relazione a Warhol, nella sua portata de-
mistificante, nella sezione 8.2.
174 ESUBERANZA

Che la ‘comunicazione’ camp, svincolata da un mero modello espres-


sivo, si articoli negli interstizi del fraintendimento quale spazio costituti-
vo di un ‘incontro’ possibile e instabile al tempo stesso fra soggettività
marginali e secondarie, risulta chiaro se si pensa tale comunicazione
quale partecipe di un processo di cooptazione alla complicità, di fra-
intendimento cioè che scatta fra soggettività che si muovono sul medesi-
mo grado del discorso, offrendosi all’incomprensione da parte di coloro
che non si situano su di esso quale elemento imprescindibile di differen-
ziazione e dunque di ‘identità’ o ‘comunanza/complicità’. L’identità e la
comunità camp sono insomma presieduti da un esercizio estetico di por-
tata del tutto analoga a quella, evanescente e priva di spessore, che carat-
terizza la Moda, costantemente implicata in un gioco di reinvestimento
di ‘valore’ nel dimenticato, e di costituzione di una élite arbitraria fonda-
ta sul gioco di società dello j’aime/je n’aime pas.
Proprio allo j’aime/je n’aime pas – formula di pari circolazione rispetto
alle colonne dello in and out che occupano le riviste patinate dell’industria
del glamour – Roland Barthes ha del resto dedicato uno dei frammenti
della propria autobiografia en travesti, che evidenzia la portata enigmati-
ca, distintiva e aggregativa ad un tempo, insita in una dichiarazione di-
sarmante di ‘gusto’ (arbitrario, personalissimo e in quanto tale al di là
della critica) o in una prassi ‘frivola’ di costituzione delle categorie di
1
moda. E proprio all’insegna dello j’aime/je n’aime pas si costituisce una
delle figurazioni che presiedono, nella prospettiva che si va qui sugge-
rendo, al camp: il party. Quest’ultimo si costituisce infatti quale spazio di
un elitarismo momentaneo, e solo parzialmente riconducibile all’élite di
potere ‘reale’; e l’intera storia della socialità compulsiva – la suddetta “So-
cial Disease” warholiana – che risulta una delle mappe costanti di ‘pre-
2
senza’ camp nella cultura, può essere ripensata in tale chiave. Una chia-
ve che trova se si vuole il proprio manifesto nei party popolati nella Eton
degli anni Venti dalle “Bright Young Things” di Brian Howard, il quale li
organizzava distribuendo inviti nei quali si indicavano, oltre al luogo, da-
ta e ora del ricevimento, e al ‘tema’ della serata in maschera, una lista di

1
“J’aime, je n’aime pas: cela n’a aucune importance pour personne; cela, apparem-
ment, n’a pas de sens. Et pourtant tout cela veut dire: mon corps n’est pas le même que le
vôtre. Ainsi, dans cette écume anarchique des goûts et des dégoûts, sorte de hachurage
distrait, se dessine peu à peu la figure d’une énigme corporelle, appelant complicité ou
irritation”. Roland Barthes, Roland Barthes par Roland Barthes, cit., p. 121.
2
Particolare attenzione alla ricorrenza del party nella fenomenologia camp è dedica-
ta in Thomas Reed Whissen, op. cit.
LOGICA E SPAZIO DEL DISSENSO 175

j’accuse e di j’adore, che riproponeva in altri termini la logica arbitraria di


costituzione del gruppo di ‘invitati’ – ed essere invitati significava esclu-
dere altre figure, le figure non desiderate di cui con feroce ironia si ren-
1
deva pubblica, di pari passo a quella degli ‘eletti’, la lista.
La comunanza camp è dunque nient’altro che una comunanza di ma-
schere, e la comunicazione camp un’effetto aggregativo o disgregativo,
complice o irritante, che si produce a partire dalla posizione dell’enun-
ciato e del suo soggetto sui gradi del discorso. La sottigliezza bathmolo-
gica, sostiene Camus, non offre vittorie retoriche, perché chi è superato
non riconoscerà tale superamento (“si vous êtes au niveau 8, pour l’habi-
tant de niveau 7 vous serez toujours au niveau 6”); da cui la funzionalità
per un esercizio di potere che si conchiude in un elitarismo tutto privato.
Ma tale sconfitta è tale “à moins que ce ne soient les témoins qui dans ce
2
cas-là aient décidé de la victoire”. La sconfitta può insomma tradursi in
una vittoria (parziale e legata ai limiti retorici dello spazio di scambio di-
scorsivo) qualora vi siano astanti complici, che partecipano del medesi-
mo party: e il party potrà ridursi, al limite, al singolo soggetto camp che,
come emergeva nel brano firbankiano citato in apertura, “conferisca con
il proprio cuore” e insceni una rappresentazione nella quale è egli stesso
attore e pubblico complice – è egli stesso, per così dire, lo spazio e l’anima
del party.
Basti ripensare in tal quadro all’atteggiamento che il camp promuove
nei confronti dello stigma: accettandolo lo reinscrive su un altro piano
discorsivo; così facendo lo muta di segno e lo reinveste come strumento
di aggregazione, e in quanto tale di offesa nei confronti di quella cultura
che in prima battuta – o meglio, sul ‘grado primo’ del discorso – produce
la stigmatizzazione. Fra gli esempi di bathmologia prodotti da Camus si
incontra anche l’insulto come strumento di riconoscimento di una com-
plicità: “[l]e comble du non-racisme, donc, serait de pouvoir traiter un
3
ami noir de dirty nigger”; o ancora, “[e]st-ce que ça m’amuserait qu’un
4
ami hétéro me traite de sale pédé? Oui, les deux ou trois premières fois”.
1
Uno di questi inviti è riprodotto in Mark Booth, op. cit., p. 73, nel quale si dà anche
ampia notizia dell’irriverenza dei party cui partecipavano le Bright Young Things. La
presenza del party nella fenomenologia camp non è riducibile alla prassi mondana, e
trova ad esempio nella scrittura di Carl Van Vechten, Ronald Firbank, Aldous Huxley,
Evelyn Waugh, Tom Wolfe e Gore Vidal i suoi casi più clamorosi e immediati in termi-
ni sia di stile che di oggetto di rappresentazione.
2
Renaud Camus, op. cit., p. 43.
3
Ivi, p. 28.
4
Ibidem.
176 ESUBERANZA

Come dire: quel queer che è circolato nel Novecento quale strumento di
stigmatizzazione, in quanto insulto, per il soggetto omosessuale, può es-
sere stato un paradossale strumento di aggregazione, o di riconoscimen-
to, fra coloro che partecipavano in prima persona dello stigma o che più
semplicemente non partecipavano del grado di discorso stigmatizzante –
e attraverso questo a un ordine, a un dettato, culturale.
Oltre ad indicare le modalità di articolazione del linguaggio e della
soggettività sul grado secondo che presiedono al camp e che sono svi-
luppate da Camus quale esercizio di – e sulla – bathmologia, Barthes of-
fre peraltro una straordinaria chiave a quanto si evidenziava, nelle pagine
precedenti, come indecidibile ambiguità del camp, che coniuga qualità
antitetiche – nelle parole riportate di Richard Dyer, “theatricality and au-
thenticity […] intensity and irony, a fierce assertion of extreme feeling
1
with a deprecating sense of its absurdity”. Ma anche che coniuga il di-
sprezzo e la distanza cinica con l’apprezzamento e il coinvolgimento. La
chiave è anche qui la secondarietà, insita nella ‘trasgressione della tra-
sgressione’:
Libération politique de la sexualité: c’est un double transgression, du
politique par le sexuel, et réciproquement. Mais cela n’est rien: imagi-
nons maintenant de réintroduire dans le champ politico-sexuel ainsi
découvert, reconnu, parcouru et libéré… un brin de sentimentalité: ne
serait-ce pas la dernière des transgressions? la transgression de la
transgression? Car en fin de compte ce serait l’amour: qui reviendrait:
mais à une autre place.2

Il camp si articola attraverso un’oscillazione inarrestabile fra i due registri


del cinismo e del sentimentalismo, e coniuga così qualità antitetiche in
un processo presieduto dall’inafferrabilità elitaria dei processi di rappre-
3
sentazione (linguistici ed esistentivi).
Il grado secondo sul quale si colloca il fenomeno del camp nel suo
1
Cfr. supra, la nota a pagina 94.
2
Roland Barthes, Roland Barthes par Roland Barthes, cit., p. 70.
3
Nel medesimo volume Barthes scrive: “j’étais content d’avoir publié (endossant la
niaiserie apparente de la remarque) que ‘l’on écrit pour être aimé’; on me rapporte que
M.D. a trouvé cette phrase idiote: elle n’est en effet supportable que si on la consomme
au troisième degré: conscient de ce qu’elle a d’abord été touchante, et ensuite imbécile,
vous avez enfin la liberté de la trover peut-être juste (M.D. n’a pas su aller jusque-là).”
Ivi, pp. 107-108. Ed è su questo terzo piano che si rende possibile a Barthes proporre
nel 1978, in piena epoca di antiromanticismo e di contestazione dei costrutti di gestio-
ne della sessualità ed emotività, lo straordinario Fragments d’un discours amoureux, Pa-
ris: Seuil, 1978.
LOGICA E SPAZIO DEL DISSENSO 177

complesso rende conto anche del perché la modalità ironica del camp
possa averlo caratterizzato come codice stabile, nel quale a un primo li-
vello di enunciazione corrisponde un secondo livello di intrinseca natu-
ralità. Barthes non manca infatti di registrare come l’esistenza al secondo
grado risulti eversiva solo a patto che il processo di oscillazione e di stra-
tificazione discorsiva sia inarrestabile – che cioè il ‘grado secondo’ si tra-
duca in un movimento più che in una rinnovata stabilità, sia pure secon-
daria: che ci si muova insomma dal secondo al terzo, e poi al quarto li-
vello, per tornare a ritroso, e così via in indefinita mobilità.
Dès qu’il se pense, le langage devient corrosif. A une condition cepen-
dant: qu’il ne cesse de le faire à l’infini. Car si j’en reste au second de-
gré, je mérite l’accusation d’intellectualisme […]; mais si j’ôte le cran
d’arrêt (de la raison, de la science, de la morale), si je mets
l’énonciation en roue libre, j’ouvre alors la voie d’une déprise sans fin,
j’abolis la bonne conscience du langage.1

Il Kitsch quale estetica del secondo grado è in tal senso un effetto d’irri-
gidimento au second degré, in quanto ratificato culturalmente come tale:
come prodotto derivativo e inefficace. Il Kitsch insomma non sembra
minacciare la ‘buona coscienza del linguaggio’, perché al contrario risulta
postulato dal processo stesso di costituzione della buona coscienza me-
desima. Prodotto inautentico, insincero e fallimentare, il Kitsch costitui-
sce senza dubbio uno strumento di sanzione della soglia di autenticità,
sincerità e successo, e con essa dell’autorità culturale che – investita del
potere di discriminazione fra originale e copia – decreta i principi opera-
tivi nella codifica di autenticità, sincerità e successo. Non si dà successo
senza fallimenti cui contrapporlo, autenticità senza inautenticità, sinceri-
tà senza menzogna.
Il camp, in quanto ad esempio prodotto da una ‘maniacalità del
Kitsch’, che trasforma un secondo grado in oggetto di culto dalle para-
dossali valenze di originalità, può essere inteso come versione legittima
di bathmologia, perché pone in gioco indefinitamente la mobilità sui
gradi del discorso. Ma il rischio di irrigidimento sul grado secondo inve-
ste anche il camp, qualora sia inteso o messo in pratica come codice sta-
bile. Basti pensare in tal senso alla stabilità presupposta dal camp-come-
passing, o al camp come codice di articolazione di una soggettività omo-
sessuale che attraverso di esso si esprime, sia pur indirettamente, sulla

1
Roland Barthes, Roland Barthes par Roland Barthes, cit., p. 71.
178 ESUBERANZA

scena dei discorsi della cultura dominante. In entrambi i casi il secondo


grado del camp risulta un codice, che per quanto più o meno ‘segreto’
mantiene saldo il rapporto fra significante e significato, e che perciò ri-
sulta decodificabile una volta che se ne siano apprese le regole arbitrarie.
Estendendo lo sguardo al camp del secondo dopoguerra, in accordo alle
critiche mosse in prospettiva gay, il camp può essere stato appropriato
dalla cultura dominante come codice omosessuale eliminando però l’ag-
gettivazione eversiva: l’appropriazione sarà del codice, appunto, che nel-
le sue valenze ironiche – come del resto emerge dalle considerazione di
Cynthia Morrill sopra riportate – si consegna a una stabilità intrinseca e a
un portato culturale, a sua volta, stabilizzante (si tornerà sul problema
nelle prossime pagine).
Questo, brevemente, a partire dall’estetica del secondo grado. Ma esi-
ste anche, afferma Barthes nel brano riportato, una erotica di secondo
grado, ed è in tale dimensione che può essere ripensato il rapporto fra
rappresentazione camp e perversione delle gerarchie estetiche. Le scarpe
‘moderniste’ di Van Gogh, sosteneva Jameson, rappresentano una ‘cop-
pia eterosessuale’, che promuovono e consentono un approccio erme-
neutico, volto al recupero del significato e della Storia che le ha prodotte.
La rappresentazione camp, al contrario, è feticista e perversa: non pro-
muove (anche se può consentire) una decodifica teleologica intesa alla
produzione di significato, con l’autore o il ‘segreto testuale’ nella veste
del telos – del fine, e della fine, d’interpretazione.
La mancanza di ‘vocazione’ nel camp – intendendo con tale vocazione
sia il distacco da una forma di commitment politico, morale ed estetico (la
‘responsabilità’), che presiede al rifiuto da parte del primo attivismo gay
cui si è accennato, sia all’assenza di senso (di direzione e di significato)
che si correla al suo statuto di forma degenerata o inautentica del lin-
guaggio e dell’essere, che prescinde da qualsivoglia mimesi o espressività
personale – trova la propria cifra dunque in una sessualità, e in una te-
stualità, intese alla perversione, alla seduzione più che alla riproduzione.
Una sessualità ‘deviata’ che corrisponde cioè a una testualità altrettanto
deviata dai principi di (ri)produzione semantica, che attraverso questa
deviazione semantica rifiuta la ri-produzione ideologica che la teoria cul-
turale degli ultimi vent’anni ha additato nel processo di costruzione di un
Significato, di un criterio morale ed estetico, di una Storia e di un contesto
1
legittimamente riconducibili al testo.
1
Momento fondamentale nella diffusione in ambito angloamericano delle teorie che
LOGICA E SPAZIO DEL DISSENSO 179

Non si dà qui la possibilità di affrontare nel dettaglio le complesse


convergenze di sessualità e testualità, di sesso, conoscenza e verità, che
hanno ossessionato fin dalla metafora biblica del peccato originale la cul-
1
tura occidentale, e la cui complessità supera enormemente le ambizioni
di questo lavoro. Sulla scorta del lavoro di Michel Foucault in La volonté
2
de savoir, tuttavia, è stato possibile evidenziare un processo, a partire dal
secolo scorso, di gestione della sessualità attraverso un investimento su
di essa del principio di Verità e autenticità (personale), di pari passo
all’articolazione dello statuto del corpo sessuato come depositario della
3
più intima essenza dell’individuo. La devianza sessuale corrispondereb-
be in questa prospettiva a una deviazione dai principi di verità, giustizia e
autenticità che coincidono con quanto ascritto alla normalità. La sovrap-
posizione risulta a ogni modo di evidente pertinenza nel camp, a pro-
posito del quale Jonathan Dollimore ha riconosciuto come “it renders
4
gender a question of aesthetics”, mentre Harold Beaver ha sostenuto
che “art and sex are analogous activities since both are projections of
fantasy”, e che “[t]heir mutual term ‘camp’ reveals as much a sexual as
an aesthetic norm of indirection, self-protection, and speculative irre-
5
sponsibility”. Bastino a conforto di tale pertinenza le parole di Wilde che
riconosceva così le intersezioni di perversione estetica, semantica, stilisti-
ca ed ideologica, e perversione del desiderio sessuale: “what paradox was
to me in the sphere of thought, perversity became to me in the sphere of

investono la lettura, e la costruzione di significato, di valenze politico-ideologiche, è


senz’altro il citato Critical Practice di Catherine Belsey, che nel 1980 imponeva ad at-
tenzione, estendendole allo specifico letterario, le teorie di Luis Althusser e Michel
Foucault, di pari passo alla critica barthesiana.
1
E non solo. Basti pensare alla filosofia tantrica.
2
Michel Foucault, La volonté de savoir, cit. Al problema si è peraltro già accennato
nelle pagine precedenti.
3
Foucault attivò direttamente la questione anche curando le memorie di Adélaïde
Herculine Barbin, un ermafrodito della metà del secolo scorso, in Herculine Barbin dite
Alexina B., Paris: Gallimard, 1978.
4
“Common in aesthetic involvement is the recognition that what seemed like mi-
metic realism is actually an effect of convention, genre, form, or some other kind of
artifice. For some this is a moment of disappointment in which the real, the true and
the authentic are surrendered to, or contaminated by, the factitious situated at the
point of emergence of the artificial from the real, culture from nature – or rather when
and where the real collapses into artifice, nature into culture; camp restores vitality to
artifice, and vice versa, deriving the artificial from, and feeding it back into or as, the
real”. Jonathan Dollimore, Sexual Dissidence, cit., pp. 311-312.
5
Harold Beaver, “Homosexual Signs (In Memory of Roland Barthes)”, Critical Inquiry,
VIII, 1, Autumn 1981, p. 106.
180 ESUBERANZA

1
passion”. Il soggetto ‘invertito’ è tale perché il suo pensiero si modula
sulla pratica dell’inversione, e il suo pensiero è tale perché prodotto ‘na-
turalmente’ da un soggetto che vìola – nella propria stessa configurazio-
ne ontologica – i principi di normalità.
È in ragione di tale convergenza che del resto negli anni recenti si è
venuto riconcettualizzando la pratica e il desiderio sessuale non come
prodotti da un’insopprimibile pulsione libidinale, in accordo alla teoria
del desiderio come manque, bensì come forma di ‘dissidenza’ che si eser-
2
cita a livello del desiderio. Il dissenso nei confronti dei principi di nor-
malità, che li denuncia come un effetto di cultura più che di natura, di
3
normalità (prescrittiva, più che neutralmente descrittiva), si eserciterà
dunque tanto nella sfera del desiderio sessuale quanto nella sfera del-
l’estetico e della legittimità ermeneutica – in breve, nei confronti degli
imperativi che presiedono alla cooperazione fra testo e lettore quali si
sono sopra brevemente presentati: l’intenzione autoriale, ovvero lo sfondo
culturale e linguistico cui originariamente si (ri)conduce il testo. In base a
quanto affermato nelle pagine precedenti, non è irragionevole sostenere
che la collaborazione con i criteri di legittimità ermeneutica risulti in tal
senso essere, per usare una metafora agonistica, un vendere il territorio
al ‘nemico’. Il tradimento delle intenzioni ‘originarie’ e il travestimento
psichico della decodifica camp (il collaborare fingendo di credere, il cre-
dere fingendo di collaborare, il rifiutare sia credenza che collaborazione,
fingendo entrambi) corrisponderanno allora a una pratica del doppio gioco.
Se si vuole inquadrare il camp come codice, questo sarà allora sì tale –
ma di un genere che può sovvertire lo statuto stesso di ‘codice di relazio-
ne’: quello statuto che cioè prevede un sistema arbitrario, ma stabilmente
tale, nel quale un significato è raggiungibile in modo legittimo applican-
do le regole interne al codice stesso. Il codice camp è invece secondario,
e funzionale a un’operazione di sabotaggio dei segni e dei codici primari,
demistificati come codici non di relazione bensì di sanzione. Esso promuove
il conseguimento, più che di un sapere positivo, affermativo, di un sapere
negativo (che evince “an accurate description of what has never oc-

1
Oscar Wilde, De Prufundis, cit., p. 466.
2
“Sexual Dissidence” è ad esempio il titolo del volume citato di Jonathan Dollimore,
che assume tale chiave a prospettiva di lettura della storia della perversione, e della
sovrapposizione fra epistemologia, ontologia e sessualità, cui si è qui solo accennato.
3
“[I]f gender is socially constituted so too is desire. Desire is informed by the same
oppressive constructions of gender that we would willingly dispense with. Desire is of
its ‘nature’ saturated by the social”, scrive Dollimore in Sexual Dissidence, cit., p. 325.
LOGICA E SPAZIO DEL DISSENSO 181

curred”; “the object as in itself it really is not”; “what the artist had not
1
put there”). Esso insomma si configura come un codice di dis-senso, che
sabota i presupposti del senso – nella teatralizzazione di un sapere inter-
rogativo – negando, e/o deviando, i presupposti medesimi in quanto pre-
2
supposti del con-senso: del ‘senso comune’. La decodifica irrispettosa
dei limiti dell’interpretazione, scrive Eco, corrisponde a un uso del testo,
non alla sua interpretazione. E quella camp promuoverà allora un ‘uso’
del testo che di fatto sovverte – ma dall’interno – la logica di produzione
semantica, simbolica e culturale borghese: la logica cioè del dominio del
valore di scambio su quello, sì, d’uso (“It is a very sad thing that nowa-
days there is so little useless information”, in una delle celebri boutades
3
wildiane).
Qualora la metafora sessuale venga utilizzata per disegnare il rapporto
fra lettore e testo, quella camp sarà senza dubbio una decodifica come
stupro – irrispettosa delle intenzioni dell’autore e del suo testo, dei codici
di decenza e di responsabilità collettiva, improduttiva semanticamente (o
produttiva di un parto indesiderato, e in quanto tale ‘mostruoso’), che
usa in chiave criminale. Si è visto che il distacco camp è stato in larghis-
sima misura inteso come forma di disimpegno acritico, un sollievo psi-
chico indotto dalla sospensione dei valori di giudizio critico, di discrimine
e di intendimento morale; ed è in questa veste che Sontag poveva addi-
tare nel camp un solvente della morale che aveva storicamente agevolato
l’integrazione omosessuale nella società borghese. Ma in base a questo
s’è venuto evidenziando il camp può essere inteso – più che (o invece
che, semplicemente) come atteggiamento acritico – come atteggiamento
ipercritico, che nell’aspetto ludico della sovrainterpretazione (altra cate-
goria stigmatizzata, si ricorderà, dai vincoli di legittimità interpretativa)
addita una valenza critica nei confronti dell’economia linguistica, finali-
sticamente intesa alla produzione.
La “conspicuous consumption” dei segni borghesi da parte delle sotto-
1
Le frasi in questione sono quelle, precedentemente citate, dal wildiano The Critic as
Artist, cui si è qui aggiunta l’enfasi.
2
In altri termini, l’ontologia, l’etica e l’ermeneutica camp presuppongono una a-
teologia o contro-teologia, nella quale lo erring in quanto ‘errare’ (peregrinare senza
direzione o senso) ed ‘errore’ (la deviazione dai principi e dal fine della Verità) si so-
vrappongono nella costituzione di una modalità esistentiva e linguistica di stampo op-
positivo. Sull’errare si veda, oltre a Jonathan Dollimore, Sexual Dissidence, cit., Mark C.
Taylor, Erring: A Postmodern A/theology, Chicago: University of Chicago Press, 1984.
3
Oscar Wilde, “A Few Maxims for the Instruction of the Over-Educated”, cit., p.
1203 (corsivo mio).
182 ESUBERANZA

culture giovanili, sostiene Hebdige (cfr. il capitolo 5), è investita nella co-
stituzione di un senso d’identità alternativo alle formazioni culturali or-
todosse. La “conspicuous consumption” del camp può partecipare del
medesimo processo, nel quale il dispendio, l’eccesso di consumo e la vio-
lenza si consegnano come funzionali a (e indicativi di) una eterodossia, o
se si vuole di una ‘para-dossia’, che procede a un tempo con la ‘parafilia’
(l’anormalità insita nella devianza compulsiva) delle pratiche sessuali e –
attraverso queste – delle modalità di relazione testuale. È proprio in
quanto estetica dello ‘stupro’ testuale, della violenza interpretativa e rap-
presentativa, che al camp si può del resto addebitare una complicità radi-
cale con il sistema patriarcale (la metafora dello stupro è in tal senso esem-
plare: e si pensi anche solo alla rappresentazione ‘sospetta’ della femmi-
nilità in chiave camp). Ma lo ‘stupro’ camp può essere inteso – alla luce
di quanto si è detto in merito alla portata straniante delle rappresenta-
zioni camp (del femminile e tout court) – come una più ‘radicale’ articola-
zione della teatralizzazione demistificante dell’effettiva violenza che si
cela oltre la (o all’interno della) facciata rispettabile e legittima della pras-
si e teoria liberal-umanista di interpretazione obiettiva, nella quale il cri-
tico responsabile restituisce semplicemente una versione oggettiva (af-
fermativa e positiva, in quanto ‘non negativa’) del sé e del mondo. Della
prassi e teoria cioè che presuppone il distacco e un disimpegno del criti-
co, ma nella direzione di una neutralità arnoldiana, di una im-parzialità
rispettosa della piena trascendenza immanente del testo. Lo stupro camp
può insomma straniare quella che non risulterà forse azzardato chiamare
la violenza della verità: la violenza interpretativa che presiede alla costitu-
zione di una imparzialità del soggetto percipiente, e la violenza – questa
volta, ben più concreta – che essa è venuta legittimando attraverso i di-
spositivi della normalità: del naturale, del giusto e del vero.
La metafora dello stupro è operativa anche se confrontata con la posi-
zione femminista (o con parte di essa) circa le implicazioni della porno-
grafia, e in particolare delle sue versioni ‘estreme’ (parafiliche). Per anni
stigmatizzata in quanto maschilista versione di una femminilità reificata,
la pornografia è stata negli anni più recenti investita di un (potenziale)
valore liberatorio della sessualità femminile, e attraverso questo di un
(sempre potenziale) portato straniante nei confronti della violenza extra-
1
fittizia da parte dell’ordine patriarcale della cultura. In prima battuta la
1
Si veda in proposito Nadine Strossen, In Defense of Pornography: Free Speech & The
Fight for Women’s Rights, New York: Simon & Schuster, 1995, nel quale – oltre ad arti-
LOGICA E SPAZIO DEL DISSENSO 183

pornografia può infatti assumere una valenza liberatoria del desiderio


(femminile), che si carica di particolare pregnanza in relazione ad altre
modalità di desiderio prive di legittimità e di rappresentazione (come a
tutt’oggi, in larga misura, è quello omosessuale), in virtù della quale si dà
1
una possibilità di ri-conoscimento di sé alle soggettività marginali. In rela-
zione alle pratiche parafiliche, quindi, la messa in scena di una devianza
può denunciare l’arbitrio e la normatività implicita della filìa di primo
grado. È in questa valenza che Kaja Silverman ha inquadrato la pratica
parafilica che maggiormente riproduce le relazioni erotiche come rela-
2
zioni di potere e di violenza: il sadomasochismo. Tale rapporto, e tale
desiderio, vengono infatti letti come presieduti da una intrinseca teatrali-
tà, da una masquerade di portata demistificante: il masochista infatti

acts out in an insistent and exaggerated way the basic conditions of


cultural subjectivity, conditions that are normally disavowed; he loudly
proclaims that his meaning comes to him from the Other, prostrates
himself before the Gaze even as he solicits it, exhibits his castration for
all to see, and revels in the sacrificial basis of the social contract. The
male masochist magnifies the losses and divisions upon which cultural
identity is based, refusing to be sutured or recompensed. In short, he
radiates a negativity inimical to the social order.3

Ciò che Silverman evidenzia in merito al masochista (maschile) può es-


sere esteso al rapporto di violenza che la rappresentazione camp instaura
sia in termini di suo oggetto sia di sua modalità di codifica e di decodifi-
ca. E si ricordi, in tal senso, l’inclusione da parte di Sontag – che da bat-
tuta sconcertante va assumendo una significatività di prim’ordine – degli
4
“stag movies seen without lust” nel canone del camp. In quanto modali-
tà rappresentativa di sé e del mondo a grado secondo, il camp mette in
colare un’accusa nei confronti di ogni forma di censura, ivi compresa quella che si e-
sercita sul pornografico – si offre un’utile rassegna delle diverse posizioni assunte nel
corso degli anni dal movimento femminista, e della polemica tutt’ora di grande attulità
nel confronto fra istanze censorie e pro-pornografia.
1
Non a caso, uno dei casi più incontestabili di ‘proficuità’ politica della rappresenta-
zione pornografica cui la Strossen (di cui alla nota precedente) fa riferimento è quello
della circolazione e funzionalità della medesima all’interno della sfera omosessuale
(tanto maschile quanto femminile).
2
Kaja Silverman, “Masochism and Male Subjectivity”, Camera Obscura, 17, May
1988, pp. 31-66.
3
Ivi, p. 51
4
È in termini congruenti con la percezione demistificante del camp che Sontag, pe-
raltro, descriverà l’immaginario pornografico. Cfr. “The Pornographic Imagination”
(1967), in Elizabeth Hardwick (ed.), op. cit., pp. 205-234.
184 ESUBERANZA

crisi o demistifica l’originarietà, in consonanza con quanto s’è visto so-


stenere Judith Butler sul travestitismo omosessuale: “gay is to straight not
as copy is to original, but, rather, as copy is to copy. The parodic repeti-
tion of ‘the original’ […], reveals the original to be nothing other than a
1
parody of the idea of the natural and the original”. Il che vale anche in
merito alla legittimità interpretativa: la riproduzione parodica dell’origi-
nale in versione esplicitamente secondaria – l’esplicita sovrapposizione
violenta dell’interprete sull’interpretato, o la complicità irresponsabil-
mente ludica della violenza fra soggetti camp – demistifica la secondarie-
tà insita nelle modalità interpretative di ‘primo grado’ ossia ‘naturali’. In
altri termini: la parzialità ermeneutica camp sta all’imparzialità liberal-
umanista non come grado secondo rispetto a un grado primo, bensì co-
me grado secondo di un grado sempre-già, a sua volta, secondo.
La sfera epistemologica, al pari di quella ontologica, estetica ed etica,
risulta investita dalla strategia camp volta – nelle parole già riportate di
Dollimore – a minare “the depth model of identity from inside, being a
kind of parody and mimicry which hollows out from within, making
depth recede into its surfaces. Rather than a direct repudiation of depth,
there is a performance of it to excess: depth is undermined by being
2
taken to and beyond its own limits”. La profondità testuale, e il ‘respon-
sabile’ tentativo/desiderio – con Jameson – “to complete the hermeneu-
tical gesture, and to restore to these oddments the whole larger lived
3
context”, non sono dunque semplicemente assenti nel camp, bensì ne-
gati, parodiati (sia pur attraverso una parodiacità “without vocation”), e
spinti all’implosione, al collasso delle superfici – delle costruzioni cultu-
rali e del potere che si esercita su, e attraverso, di esse – su loro stesse in
un esercizio di dis-senso sulle (e delle) medesime.
La strategia di evacuazione dall’interno dei cardini fondanti il giudizio
critico si ripercuote, risulta ormai evidente, sulle sue istituzioni, e in pri-
ma battuta sulla costituzione del camp come corpus assolutamente di-
sorganico di riferimento, e come ‘canone pervertito’. Matthew Arnold
scriveva infatti che la responsabilità del critico risiede in un principio di
discernimento e di differenziazione, in “a disinterested endeavour to le-
4
arn and propagate the best that is known and thought in the world”. Il

1
Judith Butle, Gender Trouble, cit., p. 31.
2
Jonathan Dollimore, Sexual Dissidence, cit., pp. 310-311.
3
Fredric Jameson, “Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capitalism”, cit., p. 60.
4
Ivi, p. 61.
LOGICA E SPAZIO DEL DISSENSO 185

‘meglio’ in questione era indicato come l’esito del confronto fra la singo-
la istanza artistica e la sua “relation to a central standard (and if this is
1
not done, how are we to get at our best in the world?)”. È nel confronto
parodico con le modalità di costituzione di questa ‘élite di primo grado’,
e con il central standard arnoldiano, che si articolano l’aristocraticismo,
l’élite di secondo grado e lo standard marginale del camp.
In uno dei ricorrenti tentativi di fornire una definizione al camp (di cui
è ovvia la fallimentarietà, alla luce di quanto si è osservato nei primi capi-
toli di questo lavoro), Mark Booth ha sostenuto che “to be camp is to
present oneself as being committed to the marginal with a commitment
2
greater than the marginal merits”. La definizione di Booth risulta signifi-
cativa se svincolata dalle sue velleità definitorie e in ultima analisi ‘acriti-
3
che’. “A commitment greater than the marginal merits”: la definizione
ribadisce in effetti il valore trascurabile dell’oggetto d’apprezzamento camp
come dato naturale, e incontestabile in quanto tale; il central standard ri-
sulta così riaffermato, o meglio assolutamente dispensato da contesta-
zione di sorta. Risulta cioè significativa se riorientata alla descrizione del-
la marginalità camp nella costituzione di un para/dossale élite del margi-
ne, di una contro-centralità marginale e secondaria che demistifica la
centralità degli standard e dell’identità borghese dotata di carattere pro-
fondo, stabile e transtorico.
Il ricorso alla nozione di marginalità rende infatti conto dell’investi-
mento di valore nel fallimento estetico e morale, vale a dire del marginale
rispetto alla centralità dello standard liberal-umanista. Ma anche dell’in-
vestimento di valore nelle superfici: nella marginalità, cioè, in quanto e-
steriorità – lo stile a scapito del contenuto, l’apparenza sulla sostanza, la
maschera e la performance sull’identità profonda, la surcodifica rappre-
sentativa sulla restituzione im-mediata, la contingenza e località del sog-
getto sull’essenza che fonda una profondità trascendente dello stesso, a
prescindere dalle complesse dinamiche di (auto)definizione, di differen-
ziazione e di processualità della costruzione culturale all’interno di cui il
soggetto è localizzato. Nell’eleggere la marginalità a centro, a standard di
valore culturale, il camp teatralizza insomma una doppia conoscenza, un
doppio processo polemico, poiché apprezza ciò che culturalmente è de-
1
Fredric Jameson, “Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capitalism”, cit., p. 61.
2
Mark Booth, op. cit., p. 18.
3
In accordo alla definizione data da Booth, ad esempio, non è dato distinguere fra
camp e banalissimo ‘cattivo gusto’, fra atteggiamento ludico e/o demistificante e pau-
perità di capitale culturale. In ragione di ciò, la ‘definizione’ non definisce alcunché.
186 ESUBERANZA

cretato – dalle autorità estetiche, e attraverso un processo autoritario –


come marginale, ciò che è privo di valore estetico, semantico e morale
nel senso comune: il ‘comune’ (in quanto ‘normale’ e ‘neutrale’) senso im-
posto dalla doxa delle autorità culturali – siano queste le autorità intellet-
tuali oppure il loro ‘braccio armato’, il corpo medioborghese che attra-
verso un’adozione dei dettami autoritari si ratifica socialmente.
È in questa rifunzionalizzazione che può trovare un valore polemico e
critico quella nostalgia mode che si correla con la pratica di pastiche vitu-
perata da Fredric Jameson. “In liberating the objects and discourses of
the past from disdain and neglect, camp generates its own kind of econ-
omy”, scrive Andrew Ross in un brano già citato; e “Camp, in this re-
1
spect, is the re-creation of surplus value from forgotten forms of labor”. Il
camp come élite del margine recupera il margine della Storia, ciò che è
negletto e dimenticato, e lo rifunzionalizza come indice di una collettività
che nel recupero e reinvestimento del negletto riconosce se stessa come
l’esito spurio di una Storia e di una Cultura, come l’esito cioè marginale
della Storia funzionale alla centralità degli standard e all’eternità dei valori.
In tal senso la questione della nostalgia attiva il problema della cano-
nonicità, e di come il camp si confronti con un’istituzione (il canone, ap-
punto) il cui statuto coincide con la serie di testi sui quali una cultura, e il
soggetto che si riconosce organicamente in essa, fondano la propria identi-
tà. Riprendendo il canone proposto da Sontag (si confronti il capitolo 2),
l’eterogeneità dei materiali giustapposti segnala una cultura e soggettivi-
tà di per sé eterogenea, disorganica e contraddittoria in quanto fondata –
più che sull’indifferenza dei materiali – su una polemica in chiave ludica
nei confronti dei principi di differenza stabiliti dalle gerarchie culturali,
che impongono, ad esempio, di non giustapporre per alcuna ragione Lu-
chino Visconti e i film pornografici in modo paritario. Gli esempi che un
canone letterario camp suggerirà (si confronti la terza parte di questo la-
voro) non troveranno coincidenze di rilievo con la Grande Tradizione
2
leavisiana, o per rifarsi a un caso recente ed esemplare, con il Canone
3
Occidentale proposto (ossia imposto) da Harold Bloom: in breve, con il

1
Kate Davy, “Fe/Male Impersonation”, cit., p. 145.
2
Si allude, ovviamente, a F. R. Leavis, The Great Tradition (1948), nel quale il criterio
di greatness coincide con la centralità di standard arnoldiana, e della tradizione critica
liberal-umanista. È in evidente opposizione a questi principi che si formulerà un cano-
ne del camp che rispetti le sollecitazioni teoriche del camp stesso, e che non imponga
criteri da esso contestati e in ultima analisi delegittimati.
3
Il riferimento è a Harold Bloom, The Western Canon, New York: Harcourt Brace, 1994.
LOGICA E SPAZIO DEL DISSENSO 187

canone umanista quale si è venuto articolando per assunti ed esiti, ben-


ché quest’ultimo si configuri sotto molti aspetti come un’operazione
camp (di stampo inintenzionale, ovviamente). Il privilegio verrà conferito
1
alle scritture dei ‘minori’, e nel rapporto fra letteratura e altre forme cul-
turali quali il cinema, la televisione o la musica pop, esso apparterrà al
termine di volta in volta gerarchicamente inferiore. L’Alta Cultura rien-
trerà solo a patto che essa si offra a una ‘perversione’, nella quale le ra-
gioni di apprezzamento saranno altre – ossia parafiliche – rispetto a quel-
le che ne codificano lo statuto all’interno della cultura dominante.
La lettura, la rappresentazione e la canonicità in chiave camp sono in
effetti riconducibili a un processo di straniamento della costruzione di
icone culturali attraverso l’articolazione di una eterodossia, di una varietà
divergente (e ‘diversa’, con tutte le sovrapposizioni con l’omosessualità
che la diversità implica) di religione – nell’accezione etimologica, in quan-
to cioè modalità di relazione, di riconoscimento e di appartenenza. Non
a caso è a partire dall’esempio di Divine, il travestito obeso protagonista
dei film di John Waters cui si è fatto precedentemente riferimento, che
Eve Kosofsky Sedgwick e Michael Moon hanno teorizzato il prodursi di
un divinity effect per un soggetto che transvaluta lo stigma (un doppio
stigma, per Divine: dell’omosessualità e dell’obesità) in un segno di alte-
rità sublime e, appunto, ‘divino’, al di là delle categorie di normalità ‘uma-
na’ (il camp come non-umano), nel momento in cui si organizza, attra-
verso la partecipazione collettiva degli ‘eletti’ interlocutori, come oggetto
2
di devozione e di ritualità alternativa. E in tal senso va inquadrata
l’affermazione del testimone di Esther Newton che si riportava in apertu-
ra del capitolo 4, la quale privilegiava il teatro (e la teatralità) come spa-
zio e modalità di relazione all’insegna del make believe poiché “[y]ou
don’t meet as many friends writing a novel as appearing in a play”, e per
il “community feeling of play that is the theater, and the laughter and
fantasy world and costumes”. O ancora, va inquadrata la fruizione di se-
condo grado del cinema di cui parla Renaud Camus nel suo esercizio di

Di Bloom-come-regina (inintenzionale) si è già peraltro detto in una nota.


1
Due esempi su tutti: Ronald Firbank, che da autore assolutamente irrilevante nelle
storiografie letterarie diviene figura per molti versi imprescindibile, e lo stesso Oscar
Wilde, che il canone umanista ha reso mero epigono dell’esperienza romantica, e che il
contro-canone camp inquadra come costitutivo dei principi del camp medesimo.
2
Cfr. Michael Moon and Eve Kosofsky Sedgwick, “Divinity: A Dossier. A Perform-
ance Piece. A Little-Understood Emotion”, Discourse, XI, Fall-Winter 1990-91, pp. 12-
39. Sulla ‘divinità’ camp si tornerà nella sezione 9.3.
188 ESUBERANZA

bathmologia, quando scrive che “[j]’ai dans la tête autant d’impressions


1
de certains films que d’amis avec lesquels je les ai vus”.
In breve, la divinità camp si traduce nel centro attorno al quale si di-
spone l’operatività di un party – di quel party di cui si è sopra evidenziata
la valenza di figurazione; ed è in questa forma di divinità pagana, o di
élite dell’innaturale, che la testualità letteraria e il criterio di selezione
2
canonica opereranno in chiave camp. Religiosità ed elitarismo di secon-
do grado sono in tal senso due cifre della logica travestita del camp, e
della sua modalità parodica e ironica. L’ironia camp, si è detto, opera
come modalità ad un tempo di accomunamento e di esclusione, attraver-
so l’imposizione di un discrimine fra chi percepisce (e trascura in quanto
tale) un semplice non-senso, e chi è in grado di afferrare e approvare, per
così dire, il senso ‘pervertito’ (la direzione deviante) del non-senso, fra
chi si muove sul grado primo del discorso (o su un grado secondo irrigi-
ditosi) e chi su muove indefinitamente sui piani del discorso.
Il camp è elitario perché crea un’aristocrazia travestita, che – in dis-
senso con quanto ratificato quale Verità divina, della Natura, o sempli-
cemente della consensualità che governa il consorzio civile – impone i
propri criteri paradossali ed eterodossi di plausibilità in termini di bellezza
(l’osceno), di priorità (il secondario) e significatività (l’apparente privo-
3
di-senso, ossia il dissenso). In tal senso, l’élite è radicalmente connessa
1
Renaud Camus, op. cit., p. 75. Un caso clamoroso, e significativo per la propria dif-
fusione rituale, è costituito dal Rocky Horror Picture Show, di cui si dirà più diffusamen-
te nel capitolo 10.
2
Tale prassi elitaria in senso paradossale ha profonde implicazioni in termini di poli-
tica culturale e di statuto della letterarietà. La desacralizzazione implicata dell’arte,
come si vedrà nella Terza Parte di questo lavoro, si correla infatti a una messa in crisi
dell’elitarismo tradizionale promosso dalla (e fondato sulla) nozione di Cultura umani-
sta (vale a dire dell’elitarismo di primo grado), e del suo impianto di religiosità disloca-
ta sull’artistico. È sulla scorta di questa messa in crisi che Alan Sinfield afferma che
“[l]iterary culture is like going to church, football matches, popular or classical con-
certs; like having gnomes in your garden, health foods in your kitchen, punk records in
your bedsit or gold-plated taps in your bathroom. It is developed by certain groups in
ways that enable them to identify thmselves through it; to others it is a matter of indif-
ference and, to some, an object of detestation”. Alan Sinfield, “Introduction”, in Alan
Sinfield (ed.), Society and Literature, 1945-1970, London: Methuen, 1983, p. 6. Sul rap-
porto fra religiosità e cultura letteraria si vedano, nel medesimo volume, gli interventi
di Sinfield dedicati a “Varieties of Religion” (pp. 87-117) e a “The Theatre and Its Au-
diences” (pp. 173-197); e l’eccellente Chris Baldick, The Social Mission of English Criti-
cism, 1848-1932, Oxford: Clarendon, 1983.
3
Sulle implicazioni di un ordine alternativo di plausibilità, e sul processo costitutivo
della plausibilità medesima, si può consultare Alan Sinfield, Faultlines, cit., un capitolo
del quale è ospitato nel mio “Promemoria sulla critica radicale in Gran Bretagna”, cit.
LOGICA E SPAZIO DEL DISSENSO 189

con la sua marginalità, e l’umorismo camp rimanda inesorabilmente –


prima ancora che o di pari passo alla irresponsabilità come solvente della
morale – alla esclusione di coloro che rappresentano il principio di norma-
lità. L’inversione si esercita così nella paradossale elezione a s/oggetti di
culto – alla ‘divinità pagana’ – di coloro che, normalmente, si collocano ai
margini del corpo sociale, e in quanto tale non detengono potere ‘legit-
timo’ e autonomo di rappresentazione, mentre coloro che sono ideologi-
camente centrali e dominanti sono tradotti allo statuto di marginalità e
devianza. Sono cioè esclusi dal processo di rappresentazione e dai dispo-
sitivi di costituzione del sapere dall’ordine di plausibilità interno all’ari-
stocrazia travestita, o banalmente dalla comprensione: spogliati del potere
ermeneutico e delegittimati nel proprio potere pragmatico – nella (par-
ziale) misura in cui, foucaultianamente, i dispositivi di sapere e di potere
1
sono inestricabili fra loro.
Il camp è concettualizzabile, insomma, in quanto sapere del margine,
con genitivo oggettivo e soggettivo. Sapere del margine in quanto moda-
lità di rappresentazione del margine da parte della cultura dominante
(l’evacuazione di senso, l’innaturalità, l’inautenticità, lo stigma che ne rati-
ficano lo statuto periferico e ‘di limite’). E sapere del margine in quanto
modalità di rappresentazione secondaria che si dispone al marginale,
modalità di rappresentazione di sé e della relazione che il secondario
stabilisce con l’originario: il riconoscersi cioè quale effetto di un processo
di costruzione culturale e di modellizzazione discorsiva, parodiando il
processo stesso di costituzione delle gerarchie culturali, e restituendo alla
cultura dominante le sue responsibilità di compromissione con una par-
zialità rappresentativa (con un carattere inesaustivo di sostanziale ten-
2
denziosità) cui si deve, in ultima analisi, lo stigma della vacuità.
Ripensare il camp quale sapere del margine spinge a caratterizzarne la
politicità, per utilizzare una formula ampiamente diffusa nella critica cul-

1
Parziale misura perché l’equazione fra sapere e potere rischia di trascurare
l’eventualità che una mancanza di conoscenza si trasformi in una forma di potere, co-
me ha mostrato splendidamente Eve Kosofsky Sedgwick in “Privilege of Unknowing”,
Genders, 1, March 1988, pp. 102-124. L’intera storia della critica liberal-umanista può
essere indicata in questa prospettiva come un esempio di negazione dei saperi (margi-
nali ed eterodossi) che si è coniugata con un esercizio di potere interpretativo.
2
Sul processo di costituzione di naturalità e profondità come basato su un parallelo
processo di evacuazione della soggettività ideologicamente non organica, esemplificato
a partire dalla rappresentazione dell’aristocrazia da parte della nascente egmonia bor-
ghese, è imprescindibile Thomas King, op. cit., che si è utilizzato nella lettura del brano
firbankiano condotta nel capitolo 1.
190 ESUBERANZA

1
turale degli anni recenti, come una “politics of dissident reading”. È un
dissenso, s’è detto, come deviazione del desiderio sessuale, ermeneutico
ed estetico, che si esercita nella sovversione degli ordini di plausibilità
delle tre sfere tanto del presente quanto del passato. Sovversione che
scaturisce di fatto dalla sovrapposizione forzata fra i due piani temporali,
e dalla frizione che questa produce. Recuperare il Kitsch tardovittoriano e
rifunzionalizzarlo come marchio d’identità eversiva, come è avvenuto
all’interno delle controculture giovanili degli anni Sessanta (e specifica-
mente dei Mods: si confronti il capitolo 8), significava infatti porsi in con-
trasto con la dinamica del consumo capitalista e con la logica stessa di
produzione di autorità culturale (l’élite ‘centrale’) che la dinamica pre-
suppone, rafforza e investe nella ratifica di sé – sia pur a partire da esse.
L’opposizione tra codici estetici/comportamentali di naturalità e codici
desueti (e dunque ‘innaturali’: il Kitsch), e la scelta di costituirsi all’inse-
gna del secondo termine, vengono cioè caricate di un valore oppositivo
ironico (di un’ironicità, è ovvio, al ‘secondo grado’). Un valore insito nel
recuperare proprio il passato di ciò che si contesta, proprio le scorie del
capitalismo e della grandezza borghese. Recuperare il Kitsch tardovitto-
riano significa porsi in contrasto con il presente che ne decreta l’obsole-
scenza, ma anche con il passato – e del passato si recupera infatti il mo-
mento deteriore, il Kitsch tardovittoriano appunto, vale a dire la ‘cultura’
piccolo-borghese e filistea che i Matthew Arnold stigmatizzavano – ma
che in ultima analisi postulavano nella definizione di un principio di ‘Ve-
ra (o Alta) Cultura’, e di se stessi quali depositari del principio medesimo.
Ma ripensare il camp quale sapere del margine significa anche ricono-
scere, e confrontarsi con, lo spettro del ‘contenimento’. Significa cioè ri-
conoscere che la trasgressività – localmente determinata da una soglia
trasgredita – possa essersi venuta alienando dalle pratiche del margine in
uno stato culturale dominante che si dà non più come pienezza e profon-
dità organica, bensì come cultura delle superfici e, a sua volta, del margi-
ne. Il ‘sapere del margine’ corrisponderà allora a un innegabile – benché
non totalizzante – processo di appropriazione del margine, che questa volta
vedrà il margine non come soggetto d’azione (attraverso l’appropriazione
delle modalità dominanti e il loro riorientamento trasgressivo in via pa-
rodica), bensì come soggetto agito: attraverso l’appropriazione delle mo-

1
Sulla politica della lettura del dissenso, che presiede ad esempio al materialismo
culturale britannico, si prenda visione del citato Faultlines di Alan Sinfield (il cui titolo
è, significativamente, Cultural Materialism and the Politics of Dissident Reading).
LOGICA E SPAZIO DEL DISSENSO 191

dalità marginali da parte della cultura dominante e il loro riorientamento


contenitivo; attraverso cioè la riformulazione di sé da parte del dominan-
te in una modalità di dominazione dispersa, diffusa, che proprio nella
sistematica alienazione di senso (nel dis-senso istituzionale) trova la
propria più formidabile strategia di indefinita, in quanto implicita, sottile
e indiretta, affermazione. Ed è da questo ‘spettro’ che prenderà le mosse
il prossimo capitolo.
7

Altri tradimenti
(con la chiave contorta per un’architettura sghemba)

Ripensare il camp come sapere del margine significa in ultima analisi ri-
proporre a urgenza la questione del carattere postmoderno del camp, e
in particolare della straordinaria consonanza con il processo di ripensa-
mento della Storia, del Soggetto e della rappresentazione (in fase di pro-
duzione così come interpretativa), che la teoria culturale angloamericana
è venuta producendo a partire dai tardi anni Settanta. Si è detto sopra,
ad esempio, che la rappresentazione camp è presieduta da un’enfasi di
parzialità, da una sua esibizione istrionica; e tanto il neostoricismo nor-
damericano quanto il materialismo culturale britannico muovono a parti-
re dalla consapevolezza dell’ineludibilità di questo posizionamento par-
zializzante in ogni processo rappresentativo, e in particolare nella costitu-
1
zione di una Storia e di un contesto.
Una Storia, quella affermatasi in sede critica, che enfatizza il carattere
ideologico e fittizio (mendace) della narrazione, l’esercizio di potere insi-
to in essa, e la dinamica interpretativo-valutativa che presiede alla sua
2
formulazione e legittimazione. La problematizzazione della Storia e del-
le modalità rappresentative ascrivibile alla teoria culturale contempora-
nea sembra cioè avvalorare la significatività del camp per la gender theory
(si confronti il capitolo 4), quella significatività che Andrew Ross riscon-
tra affermando che il camp vada inteso “as a much earlier, highly coded
way of addressing those questions about sexual difference which have
3
engaged non-essentialist feminists in recent years”.
1
Intorno alla problematizzazione contemporanea della Storia, con particolare riferi-
mento al testualismo neostoricista, si vedano i già citati lavori a cura di Barbara Gastal-
dello, e di Vita Fortunati e Giovanna Franci.
2
Un potere che peraltro non si manifesta in modo egemonico, bensì attraverso una
pluralità di interpretazioni determinate da differenti patrimoni ideologici.
3
Andrei Ross, “Uses of Camp”, cit., p. 161.
194 TIRANDO LE FILA

Ciò evidenzia come, di fatto, la paradossalità del camp e il suo ‘irre-


sponsabile’ gioco delle parti, apparentemente giustificativi di un mero
statuto ludico (e inoffensivo in quanto tale), siano venuti trovando nella
high theory di stampo radicale una paradossale legittimazione – il che
conforta lo sguardo alla valenza potenzialmente critica insita nell’irre-
sponsabilità camp, che spinge a problematizzare ad esempio quanto cul-
turalmente ratificato come ‘limite dell’interpretazione’. Basti riprendere
l’esempio estremo di decodifica aberrante (proposto nel capitolo 6), che
evinceva dal verso wordsworthiano A poet could not but be gay un’allusione,
tanto più ilare quanto più assurda, al rapporto omoerotico fra Wor-
dsworth e Coleridge. Una conferma all’innegabile legittimazione delle
implicazioni critiche insite nella rappresentazione camp giunge, qualora
se ne percepisse l’urgenza, dalla plausibilità che – sulla scorta della lettu-
ra offerta da Wayne Koestenbaum dell’erotica che presiede alla scrittura
letteraria collettiva – una simile insinuazione, irriguardosa, dissacrante,
trascurabile nella sua quintessenziale stupidità, può oggi riscuotere sulla
1
scena accademica angloamericana.
Tuttavia, l’enfasi e lo spazio che si sono assegnati nelle pagine prece-
denti (nel capitolo 5) all’intervento di Jameson – che potrebbero risultare
semplicemente prodotte a loro volta dalla nostalgia per un codice e
un’autorità stabile di cui il critico marxista è verosimilmente il maggior
rappresentante – sono volti a ricordare, a fronte di questo stuolo di indici
che promuovono una lettura del camp come partecipe di una portata in-
trinsecamente ‘sovversiva’, lo spettro del ‘contenimento’ (cfr. il capitolo
5) o la possibile rivalutazione del camp in una trasgressività legittimata
dalle strategie di gestione dell’eversività da parte della cultura dominan-
te. È ben vero, ricorda Jameson, che il soggetto organico, profondo, si
configura storicamente come il cardine dell’ideologia borghese, e che tale
costruzione di naturalità integra e transtorica ha autorizzato le pratiche
di dominazione che da più parti si addebitano a tale ordine culturale. Tut-
tavia, la ‘morte del soggetto’, o il decentramento di questi e della Storia,
non vanno automaticamente avvalorati di un’intrinseca sovversività. Se il
modello di profondità si è disposto in chiave funzionale alla fase ‘classica’
dell’ordine borghese, la sua onnivora messa in crisi da parte della cultura

1
Proprio al rapporto omoerotico della collaborazione fra Wordsworth e Coleridge è
dedicato il terzo capitolo – “The Marinere Hath his Will(iam): Wordsworth’s and Cole-
ridge’s Lyrical Ballads” – di Wayne Koestenbaum, Double Talk: The Erotics of Male Lite-
rary Collaboration, New York: Routledge, 1989, pp. 71-111.
ALTRI TRADIMENTI 195

1
postmoderna denuncia quest’ultima come una “cultural dominant”, vale
a dire come la modalità di (auto)rappresentazione culturale propria del
tardo capitalismo, del capitalismo postindustriale che nella vacuità e nel
decentramento troverebbe uno straordinario strumento di dominazione.
La trasgressività, del camp o di quant’altro, esiste quale funzione di un
limite e di una norma (e la trasgressione della trasgressione, si ricorderà,
può consistere nel ritorno a ritroso, o nell’innalzamento esponenziale,
2
sui gradi del discorso). Qualora tale normalità si sia riarticolata su basi
performative, su una sostanziale assenza di profondità, le strategie che
potevano essere eversive nella fase classica della borghesia non sarebbe-
ro più tali. E in effetti risulta discutibile la posizione di chi identifica nelle
prassi del postmoderno una costante d’eversività e di valore critico: non si
può ritenere che un intero stato culturale sia così diffusamente trasgressi-
vo o eversivo, mentre l’ordine, la gerarchia fra dominante e dominato,
rimane sempre uguale a sé, pur a fronte di un mutamento delle condi-
zioni e modalità storiche di controllo.
Chi, come Linda Hutcheon, argomenta (con persuasività, peraltro) la
portata demistificante del postmoderno sembra in effetti mosso da un
desiderio di recupero all’arte di quella valenza critica nei confronti delle
modalità di produzione borghese riconducibile, prima ancora che al po-
stmoderno, agli ideologi del moderno. A ciò si aggiunge una significativa
distanza, in merito alla dimensione ‘democratica’ – quella dimensione
anti-elitaria che, con la celebrazione della cultura popolare da parte di
Leslie Fiedler, ha segnato le prime riflessioni apologetiche sul postmoder-
3
no – che l’arte modernista, e le avanguardie storiche, negavano a proprio
fondamento. In seconda battuta va registrata la distanza fra la valenza
critica del postmoderno e quella del modernismo in relazione al fatto che
la categoria di postmoderno invade l’extra-artistico mettendone in crisi la
distinzione con l’artistico. Lo Zeitgeist postmoderno è infatti presieduto
dalla ‘testualizzazione’ del reale, oltre che dal rifiuto delle gerarchie fra
forme e mezzi artistici da un lato, e cultura popolare dall’altro. Anche qui
la questione della ‘democraticità’ è determinante, ed essa si offre anche a
un’ulteriore precisazione sul rapporto fra camp e postmoderno.
A partire dalla rilevanza che il camp, o la “camp/theatrical sensibility”
1
Fredric Jameson, “Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capitalism”, cit., p. 55.
2
Imprescindibile sulle modalità della trasgressione, oltre a Jonathan Dollimore, Sex-
ual Dissidence, cit., è l’eccellente Peter Stallybrass and Allon White, The Politics and Po-
etics of Transgression, London: Methuen, 1986.
3
Si tornerà su Fiedler e sulla questione della ‘democraticità’ nella Parte Terza.
196 TIRANDO LE FILA

(cfr. il capitolo 4) detiene per la formazione culturale omosessuale, Esther


Newton ha sostenuto che essa non estenui lo spettro della sottocultura
omosessuale: vi è una seconda formazione, diffusasi sulla scorta dei mo-
vimenti di liberazione gay, la “‘egalitarian/authentic’ gay perspective, that
1
springs directly from middle-class democratic and bourgeois ideology”.
Il camp si oppone sì all’autenticità (ossia all’autenticità aproblematica, se
è vero che l’autenticità risulta nel camp presupposta, recuperata, o co-
niugata con il suo opposto), ma soprattutto all’elemento ‘democratico’,
egalitarian, cui corrisponde anche in termini strutturali nell’opposizione
suggerita da Newton (“camp/theatrical sensibility” vs. “egalitarian/au-
thentic sensibility”: il vs. contrappone theatrical ad authentic, e camp a
egalitarian). Il camp infatti, sia pur nella messa in crisi delle distinzioni
gerarchiche, non passa attraverso una pratica democratica bensì attraver-
so – lo si è visto nel capitolo precedente – la costituzione di una contro-
élite, riconoscendo l’imprescindibilità di una gerarchia e di un esercizio
2
di potere, o di un confronto polemico con essi. Di un confronto polemico
modulato attraverso lo straniamento delle gerarchie e del potere pro-
mosso dall’enfasi iperbolica e e dall’inversione dei termini gerarchici, più
che da una loro abolizione.
Questa distanza fra camp e postmoderno (o fra rappresentazioni di
entrambi) evidenzia un problema interno allo sguardo apologetico rivol-
to da Hutcheon allo straniamento del già-dato culturale come totalizzan-
te nel secondo. Lo straniamento, e con questo la possibilità di sovversio-
3
ne, ne emergono infatti come interamente potenziali. Il problema posto
1
Esther Newton, “Conviviality and Camp”, cit., p. 85. L’opposizione fra camp/thea-
trical sensibility ed egalitarian/authentic sensibility non è confinabile agli ultimi trent’an-
ni. In questa opposizione è infatti inquadrabile, ad esempio, il confronto fra Wilde e An-
dré Gide qual è proposto da Jonathan Dollimore in “Different Desires: Transgression
and Subjectivity in Wilde and Gide”, cit., o quello fra l’estetica wildiana e l’etica sugge-
rita da un Edward Carpenter, di cui si ricorda il fondamentale – ed eloquente in rela-
zione a quanto si va osservando – Towards Democracy, (1883-1902) London: Swan
Sonnenschein, 1911. Resta il fatto che tale opposizione diventerà vistosa solo attraverso i
movimenti di liberazione gay che recuperano al loro imporsi il modello carpenteriano. Si
veda in proposito Alan Sinfield, The Wilde Century, cit., pp. 130-160.
2
Sulle valenze differenzianti dell’aristocraticismo nella sovrapposizione fra camp e
postmoderno è utile Andrew Ross, “Uses of Camp”, cit.
3
Il che ripropone a validità la posizione materialista sull’opposizione fra contenimento
e sovversione: nel brano citato di Dollimore, “nothing can be intrinsically or essentially
subversive in the sense that prior to the event subversiveness can be more than poten-
tial; in other words it cannot be guaranteed a priori, independent of articulation, con-
text and reception.” Jonathan Dollimore, “Shakespeare, Cultural Materialism, and the
New Historicism”, cit., p. 13.
ALTRI TRADIMENTI 197

dallo straniamento come dimensione critica del postmoderno oltre che


del camp è cioè quello della consapevolezza, con tutto il portato di ambi-
1
guità che questa ha alla luce di una prospettiva costruzionista. È legitti-
mo chiedersi infatti, a fronte dei proclami di demistificazione dei costrutti
culturali, in quale misura determinate forme culturali impregnate di iro-
nia instabile possano circolare fruitivamente all’interno di una cultura
nella quale i dispositivi di sapere prevedono una disomogeneità radicale,
nel corpo sociale, della capacità di intervento sui, e di gestione dei, codi-
ci. La demistificazione, ad esempio, che già Sontag indicava nella rappre-
sentazione eccessiva della ‘femminilità’ camp, può non essere affatto tale
se i fruitori, paradossalmente, identificano nella vacuità – nella pura e-
sornatività: in breve, nello stereotipo sessista della femminilità – il ‘legit-
timo’ e ‘naturale’ ruolo delle donne, e se non hanno alcuna intenzione (o
2
possibilità) di ripensare le proprie posizioni. La pornografia parafilica
può sì essere una demistificazione, ma può anche essere fruita al ‘grado
primo’ del discorso, e in quanto tale essere investita nel processo di rati-
fica sociale, di perpetuazione di una pratica reazionaria. Il dissenso, di cui
nel capitolo precedente si è sottolineata la pregnanza in relazione al camp,
può essere come s’è evidenziato un’efficace strategia di resistenza per chi
sia privo del potere di rappresentazione ‘affermativa’; ma esso può risul-
tare anche una forma culturale la cui irresponsabilità, nel contestare
l’autorità per principio e in modo totalizzante, la spinge al cortocircuito, a
mordersi la coda in un gioco di abolizione della proposività – e non solo
della proposività di oppressione, bensì anche di quella polemica nei con-
fronti dell’oppressione attiva. Il che finisce con il disegnare una totale
vacuità di senso e direzione che può consegnarsi come strategia straordi-
nariamente funzionale alla reazione conservatrice, o anche solo al man-
tenimento dell’ordine costituito (di un ordine, sì, paradossalmente costi-
3
tuito sul disordine).

1
Al problema della ‘consapevolezza’ in chiave costruzionista si è già accennato nel
capitolo 2 a proposito della distinzione fra camp intenzionale e inintenzionale.
2
Il che giustifica come le rappresentzioni camp possano essere state, in date fasi e
spazi della storia del Novecento, promosse e fruite all’interno della cultura dominante
che non per questo è stata spinta ad alcun ripensamento di sé. Esemplare in tal senso
il caso della ‘femminilità’ di una Mae West, che oltre a essere un’icona del pubblico
conservatore nel 1971 fu intervistata come ‘regina del camp’ da Playboy, sulla cui rap-
presentazione politicamente discutibile non sembrano esservi dubbi. Cfr. Robert C.
Jennings, “Mae West: A Candid Conversation With the Indestructible Queen of Vamp
ad Camp”, Playboy, January 1971, pp. 74-78.
3
Si confronti la nota 3 alla pagina precedente. Nel materialismo culturale la scelta è
198 TIRANDO LE FILA

È senz’altro plausibile sostenere che camp e postmoderno si siano di-


sposti quali veicoli di distribuzione di un sapere al di fuori delle sedi e
delle modalità di trasmissione istituzionali (e non è un caso che l’acca-
demia angloamericana, lo si è visto, abbia articolato quanto suggerito dal
camp, ad esempio, solo negli anni recenti). Ma è anche vero che questa
circolazione rimaneva, e rimane, fortemente elitaria (per quanto contro-
elitaria, si è detto, essa riproduce parodicamente le strutture di costitu-
zione del privilegio), e in quanto tale di una sovversività se non altro li-
mitata. La differenza fra camp e postmoderno sta, al solito, nell’elitari-
smo a sua volta demistificato del camp, il che renderebbe quest’ultima
formazione culturale meno velleitaria rispetto al postmoderno, e dunque
strategia più spendibile in un panorama che rimane fortemente caratte-
rizzato da una disparità dei capitali (e dei diritti) culturali. Ma a questa
affermazione non è difficile ribattere come anche ciò (la demistificazione
dell’elitarismo) rimanga all’interno della logica ‘elitaria’ di cui sopra, e
come il postmoderno – in virtù della sua maggiore applicabilità: il suo
carattere cioè più ‘democratico’ – si sia dunque disposto, a sua volta, come
strategia più efficace. La questione rimane insomma quanto mai aperta,
e rischia di rimanerlo indefinitamente se si configurano tali categorie –
camp, postmoderno, efficacia strategica, ecc. – a prescindere dal loro ap-
plicarsi concreto, hic et nunc, che ne possa definire la configurazione, gli
orientamenti e gli esiti.
Hal Foster ha speso parole efficaci nel disegnare un’opposizione – a
partire dalla quale è legittimo collocare le rappresentazioni che Jameson
e Hutcheon, ad esempio, hanno prodotto – fra un “postmoderno di rea-
zione” (o “neo-conservatore”) e un “postmoderno di resistenza”, che “ari-
ses as a counter-practice not only to the official culture of modernism but
1
also to the ‘false normativity’ of a reactionary postmodernism”. Alla luce
di questa e delle precedenti considerazioni vanno dunque inquadrate le
proposte del postmoderno e del camp come pura forma di resistenza
(che, essendo divenuti il postmoderno e il ‘sublime isterico’ camp una
‘dominante culturale’, risulta una chiave assolutamente inoperativa) o
come pura forma di conservazione (che trascura parte delle concretizza-

stata quella di privilegiare il termine dissidence, poiché meno determinato in chiave di


esito, rispetto a subversion o a containment. E la stessa dissidence, lo si è appena sostenu-
to, non è di per sé ‘progressista’ ma può al contrario partecipare delle condizioni di
ratifica di un ordine fondato sull’instabilità e sull’assenza di senso.
1
Hal Foster, “Postmodernism: A Preface”, in Hal Foster (ed.), Postmodern Culture,
London: Pluto, 1985, p. xii.
ALTRI TRADIMENTI 199

zioni, orientate alla resistenza), per privilegiare al contrario uno sguardo


che indichi entrambe le chiavi di lettura non come esclusiva caratteristica
definitoria del fenomeno bensì come locale e contingente. Gli esiti, ma
persino le motivazioni e le modalità di determinate strategie, non sono
infatti inscritti originariamente e definitivamente (con l’origine a deter-
minare le finalità) in una pratica e in una teoria.
L’indecidibile ambiguità dell’a priori in termini di configurazione, ma
anche di esiti reazionari o sovversivi, che presiede al camp in particolare
rapporto con la sua sovrapposizione allo Zeitgeist postmoderno, è stata di
fatto negli anni recenti affrontata attraverso un recupero della prassi di
‘tradimento’ che si è evidenziata nella prima parte di questo lavoro. Si è
detto nel capitolo 3 che nel corso degli anni Ottanta l’atteggiamento del-
la saggistica – a fronte della latitanza di un principio organico e fonda-
mentale – coincide in larga misura con l’elusione del problema di defini-
zione: con la sospensione della pratica di differenziazione che si è vista
caratterizzare ogni confronto con il camp-come-issue. Si evitava cioè di
confrontarsi con la problematicità della nozione postulandola come un
dato tanto noto quanto indefinibile (o sufficientemente noto da non ri-
chiedere definizioni di sorta); e tale approccio legittimava un ricorso alle
distinzioni già proposte, a prescindere dalla loro precarietà.
La strategia di distinzione viene peraltro riproposta in chiave binaria
da Jonathan Dollimore allorché, affrontando la scrittura di Joe Orton (di
cui si dirà nella sezione 8.1), riscontra l’inefficacia della tesi di Sontag se-
condo la quale il camp opererebbe quale anestetico della morale funzio-
nale all’integrazione omosessuale nella società borghese in virtù della
1
propria in-differente apoliticità e disimpegno. La reazione del pubblico
borghese al teatro ortoniano fu peraltro di segno opposto, tanto che ri-
cordando la prima rappresentazione di What the Butler Saw (marzo 1967)
Stanley Baxter, che interpretava la pièce, descrive l’astio incontenibile dif-
fuso nella platea: “[i]t was a battle royal. The anger really came through
at the curtain calls. The gallery wanted to jump on the stage and kill us
2
all”. Dollimore – il quale sceglie, come si è riportato nel capitolo 4, di limi-
tare la propria attenzione al camp parodicamente destabilizzante perché
1
Jonathan Dollimore, Sexual Dissidence, cit., pp. 315-318. Le pagine di Dollimore ri-
prendono in effetti parte di un saggio dato alle stampe con il titolo “The Challenge of
Sexuality”, in Alan Sinfield (ed.), Society and Literature 1945-1970, London: Methuen,
1983, pp. 51-85.
2
Cit. in John Lahr, Prick Up Your Ears: The Biography of Joe Orton, London: Allen
Lane, 1978, p. 333.
200 TIRANDO LE FILA

una definizione totalizzante è delegittimata dall’esistenza di “different


1
kinds of camp” – ne consegue che il camp ortoniano, nella sua “anarchic
2
irresponsibility”, si configuri come “a kind of delinquent black camp”
che agisce sullo spettatore “as a solvent of morality – but it does this to
3
provoke rather than disarm moral indignation”.
L’esempio ortoniano dimostra comee non sia legittimo estrapolare
un’inerenza conservatrice (ma dunque neppure sovversiva) di una data
prassi a priori dalla sua articolazione nella stratificata composizione di
una data cultura. Ciò che Dollimore non registra nella descrizione del
“delinquent black camp” ortoniano, peraltro, è la diversa operatività del-
le strategie ascrivibili al camp all’interno della cultura nel suo complesso.
La parodia (camp) può essere aggressiva o integrativa a seconda del rap-
porto istituito con le forme parodiate, ma anche della fruizione attivata
dalle diverse parti sociali: nel brano citato, Baxter prosegue affermando
che “[t]he occasion had the exhilaration of a fight. The auditorium was
4
divided. The gods hating us and the rest on our side”. È nella diversa
reazione della platea che si situa la lezione del camp ortoniano per la
configurazione ontologica del camp tout court: ciò che è provocatorio qui
e ora può non esserlo in un altro ‘qui e ora’, nel quale risulta disarmante;
e può non esserlo nel medesimo qui e ora se modifichiamo la configura-
zione dei partecipanti e degli esclusi, per così dire, dal ‘party’.
L’opposizione fra ‘camp’ e ‘black camp’, nell’evidenziare una falli-
mentarietà di Sontag in merito al camp come anestetico della morale,
ripostula invece all’atto pratico il suggerimento di Sontag di identità
‘profonda’ del camp in senso disarmante. L’esempio di Orton non spin-
ge infatti Dollimore ad evincerne una radicale ridefinizione del fenome-
no rispetto alla chiave di ‘apoliticità’, bensì a giustapporre al kind definito
da Sontag un altro kind, “a kind of delinquent black camp”, che non in-
tacca la validità del modello formulato a partire dal, e applicato sul, pri-
mo kind dell’anestetico morale come strumento d’integrazione. Inoltre, il
camp ortoniano è un camp aggettivato – black camp – il che lo rende, di
fatto, secondario rispetto al termine non marcato. Il ‘black camp’ è un
kind al pari del ‘camp’ analizzato da Sontag, e in quanto tale sembra es-
1
Jonathan Dollimore, Sexual Dissidence, cit., p. 310.
2
Ivi, p. 318.
3
Ibidem. A partire dalla definizione della blackness offerta da Dollimore l’esempio di
Kenneth Anger di cui al capitolo 6. rientrerebbe senza dubbio in questa categoria. Ma
anche, e qui già insorge una precarietà, quello di un Oscar Wilde.
4
Cit. in John Lahr, op. cit., p. 333.
ALTRI TRADIMENTI 201

sere accolto in condizione agerarchica rispetto a esso; ma uno dei due, la


variante non marcata, sembra in effetti la versione fondamentale, origi-
naria, dell’altro. Il camp tout court sembra dunque ribadito come intrinse-
1 2
camente apolitico, conservatore, e ben accetto dalla cultura borghese;
mentre il black camp ne sarebbe la versione, o il ‘tipo’, derivato in chiave
aggressiva, sovversiva, e in ultima analisi ‘impegnata’, sia pur attraverso
il disimpegno, ad aggredire l’ordine di moralità borghese.
Quanto emerge implicitamente dalla distinzione di Dollimore risulta
apertamente teorizzato da due interventi apparsi fra il 1989 e il 1994, ac-
comunati, al di là delle macroscopiche differenze di statuto scientifico
(per estensione, sede, ambizioni del progetto), dalla distinzione fra un
camp originario e un camp derivativo. Quando Paul Rudnick e Kurt An-
derson nel 1989 prendono parte con un breve articolo al numero dedica-
3
to alla questione dell’ironia del popolare periodico statunitense Spy, si
confrontano con quella che sembra essere una straordinaria diffusione
della modalità ironica – la “Irony Epidemic” – che va sotto il nome di
camp sulla scena statunitense della fine degli anni Ottanta: “[t]his is the
era of the permanent smirk, the knowing chuckle, of jokey ambivalence
4
as a way of life”. Il secondo intervento appare invece per i tipi della pre-
stigiosa casa editrice Routledge, e raccoglie a cura di Moe Meyer – che
firma la programmatica introduzione – una serie di articoli accomunati
da un progetto di definizione della “poetica e politica del camp” presie-
5
duto dalla rivendicazione in chiave omosessuale del fenomeno.
Rudnick e Anderson stigmatizzano la diffusione a opera di Susan
6
Sontag di un fenomeno “patented by gay men” al di fuori della sua cir-
colazione originaria:

1
Il sospetto che l’atteggiamento di Dollimore implichi una matrice essenzialista era
già stato articolato nel capitolo 4.
2
Che la versione primaria del camp coincida per Dollimore con l’anestetico della
morale predicato da Sontag risulta poi clamorosamente contraddittorio con quanto
altrove sostenuto a proposito di Oscar Wilde, la cui estetica trasgressiva (e altamente
aggressiva nei confronti della morale borghese), e la cui brutale condanna da parte
delle istituzioni aprono il volume dal quale le considerazioni sul camp – introdotte a
partire da Wilde, del resto – sono tratte.
3
Paul Rudnick and Kurt Anderson, “The Irony Epidemic: How Camp Changed from
Lush to Lite”, Spy, March 1989, pp. 93-98.
4
Ivi, p. 94.
5
Moe Meyer (ed.), op. cit. Al volume di è già fatto diffuso (benché rapido) riferimen-
to nei capitoli che precedono.
6
Paul Rudnick and Kurt Anderson, op. cit., p. 94.
202 TIRANDO LE FILA

Sontag’s essay was like a thrilling, open-ended mother’s excuse note


for a whole generation of gifted children. She gave her imprimatur to a
jolly, perverse sensibility that was, back then and in the main, homo-
sexual and male, a sensibility that embraced pop junk as well as the
high culture obligatories. A campy outlook, Sontag announced, per-
mitted refined people to wander happily through an unrefined world.
During the Sixties, irony was camp, camp was irony.1

Sulla scorta di tale diffusione, che avrebbe investito anche l’architettura


con Robert Venturi e l’arte con Andy Warhol, e avrebbe dominato la pro-
duzione televisiva degli anni Cinquanta e Sessanta, e quindi “the Hol-
2
lywood nostalgia productions of the 1970s”, sarebbe possibile disegnare
un’opposizione fra il “True Camp” che, prevalentemente omosessuale,
“lampoons and adores”, e un “Camp Lite” che “reflexively eulogizes and
3
coddles”; la ripetizione e diffusione del ‘True Camp’ a mera modalità
ironica, di ‘virgolettatura’ della propria responsabilità, ha insomma com-
portato una perdita di autenticità dello stesso, e ha prodotto il ‘Camp Li-
te’. Il paradosso insito in questa perdita di autenticità risiede nel fatto
che, da segnale di eversività, il camp sarebbe divenuto un indice di con-
formismo orientato unicamente all’appropriazione di uno statuto privile-
giato del soggetto. In breve, quell’indice di patrimonio culturale ed eco-
nomico perseguito dal neoliberismo reaganiano:

Victims of the Irony Epidemic do not dread commitment – they fear


uncoolness. Those who practice Camp Lite are usually unsettled by
anything, truly, weirly campy […]. The Reagan years have been Camp
Lite incarnate, […] Air quotes abound nowadays. Air quotes eliminate
responsibility for one’s actions, for one’s choices. […] Camp Lite uses
irony as an anesthetic, an escape route.4

La chiave proposta da Rudnick e Anderson è di un facile sociologismo,


che identifica nel disimpegno degli anni Ottanta la ‘perversione’ dell’au-
tenticità camp (“In a few years, a generation’s perpetual frown had be-
5
come a perpetual smirk”).
Al di là della facilità di tale chiave di lettura, le considerazioni sono
utili nel proporre ad attenzione come, all’atto pratico, lo snobismo e

1
Ibidem.
2
Ivi, p. 95.
3
Ivi, p. 96.
4
Ivi, p. 98.
5
Ivi, p. 95.
ALTRI TRADIMENTI 203

l’irresponsabilità postulati dal dissenso che presiede all’ironia camp pos-


sano tradursi in una pratica reazionaria – non solo perché non impegna-
ta in un radicale intervento di riequilibrio delle gerarchie culturali, ma
anche perché apertamente cooptata da una cultura reazionaria, che non
legge la rappresentazione a un ‘grado primo’ ma ha appreso ad articolar-
si sulla mobilità dei piani del discorso, e a investire questa mobilità come
indice di capitale simbolico, come indice cioè di appartenenza, in quanto
membri della nuova aristocrazia economica e culturale, al gioco (di e)
della società privilegiata. La normalità trasgredita dal secondo grado del
camp può coincidere non più con i depositari dell’ordine di naturalità
borghese, bensì con quanto è normale nel senso del banale, del medio-
borghese, vale a dire con quanto è necessario come principio di distin-
zione attraverso la quale si costituisce la classe privilegiata recentemente
costituita (la sofisticatezza e il fascino dell’innaturalità come marchio del
privilegio afferente al nuovo potere economico più che dell’eterodossia).
Lo snobismo camp, da reverse, torna a essere tutto sommato straight, o
comunque di una reverseness significativamente riorientata. In breve, si è
modificato il corpo sociale che trova nel ‘party’ il proprio spazio esisten-
1
tivo, il proprio regime d’identità, e il segno di un privilegio di sorta.
Benché le considerazioni di Rudnick e Anderson non siano trascurabi-
li, a prescindere dal registro e dalla sede attraverso cui sono proposte (e
basterebbe in tal senso registrare la sorprendente sovrapposizione degli
esempi di costoro con quelli di un ben più autorevole Jameson allorché
disegna il panorama del “camp or hysterical sublime”), il problema solle-
citato dall’intervento in questione – quale sia il punto decisivo nella di-
stinzione fra il ‘True Camp’ e il ‘Camp Lite’ o la “Irony Epidemic” – ri-
mane sostanzialmente eluso. La distinzione è infatti riconducibile a due
matrici – storica e sessuale – che dimostrano immediatamente la propria
parzialità. Lo spartiacque degli anni Sessanta è di evidente stampo fun-
zionalistico, e addebitabile al facile sociologismo da rivista popolare che
divide le ‘sensibilità’ in decenni; e non a caso la griglia di esempi che
Rudnick e Anderson propongono in chiusura contiene riferimenti sia per
il ‘True Camp’ sia per il ‘Camp Lite’ tratti dall’intero arco novecentesco,
dalla contemporaneità così come dal passato. L’elemento saliente sem-
1
A ciò si correla del resto un diverso regime di gestione della sessualità, che non è –
è evidente – affatto assimilabile a quello della prima parte del Novecento. Le pratiche
parafiliche o più latamente ‘perverse’ costituiscono ormai una porzione quanto mai
significativa, se non pervasivo, all’interno delle rappresentazioni che circolano nella
cultura dominante. Si tornerà su questo aspetto nel capitolo conclusivo di questo lavoro.
204 TIRANDO LE FILA

bra dunque essere quello dell’orientamento omosessuale, che – per


quanto confortato da un articolo apparso nel 1993, nel quale si celebrava
1
lo “Straight Camp”, il camp eterosessuale (“Straight Camp is not about
2
the blurred distinctions between gay and straight”) articolato sui miti
più biechi del neoliberismo nordamericano, da Ross Perot alla business
class – non è tuttavia totalizzante: se il vero camp è “a kind of gay soul”,
3
esso può essere “homo- or heterosexual”; non è totalizzante, né è dun-
que operativo come ragion d’essere ‘profonda’ dell’autenticità.
Il problema è insomma quello annoso che si è visto nel capitolo 3, e
che viene riproposto non appena l’urgenza di definizione del camp riap-
pare all’orizzonte critico; e il medesimo problema investe anche il pro-
getto coordinato da Meyer nel 1994, a partire dalla tesi di Ph.D. redatta
dallo stesso Meyer presso la Northwestern University, la cui pubblica-
4
zione è annunciata in quarta di copertina. Nel saggio introduttivo, Me-
yer disegna le coordinate funzionali alla definizione della poetica e politi-
ca del camp, coordinate che coincidono con una distinzione binaria fra
‘Camp’ (la versione marcata dall’iniziale maiuscola, che si è vista circola-
re indifferentemente da quella non marcata), e la variante ‘camp’ (inizia-
le minuscola), altresì indicata come ‘Pop camp’, ‘residual camp’ o “camp
5
trace”. Il ‘Camp’ corrisponderebbe secondo Meyer allo statuto originario,
fondamentale, eversivo e intenzionale della pratica parodica (ma non ironi-
ca), che si sarebbe sviluppato a partire dalla lezione di Oscar Wilde e che
attraversa l’intero Novecento “as the total body of performative practices
and strategies used to enact a queer identity, with enactment defined as

1
Anon., “Viva Straight Camp”, Esquire, CXIX, 6, June 1993, pp. 92-95.
2
Ivi, p. 92.
3
Paul Rudnick and Kurt Anderson, op. cit., p. 94, 96.
4
La tesi in questione – The Wild(e) Body: Camp Theory, Camp Performance, (di cui è
disponibile un abstract in Dissertation Abstracts International, LV, 1, July 1994, p. 84A),
discussa nel dicembre 1993 e supervisionata da Margaret Thompson Drewal, il cui
contributo (“The Camp Trace in Corporate America: Liberace and the Rockettes at
Radio City Music Hall”, pp. 149-181) è del resto centrale all’opera collettiva del 1994 –
è stata consultata avvalendosi del servizio della UMI Dissertation Services. In quanto
lavoro in via di pubblicazione, e in quanto utilissimo pendant al volume del gennaio
1994 (di cui denuncia peraltro le precarietà critiche), la consultazione si è rivelata –
prima ancora che giustificata – preziosa.
5
Cfr. Moe Meyer, “Introduction: Reclaiming the Discourse of Camp”, cit. L’utilizzo
di Meyer si sovrappone dunque polemicamente a quello di altri critici, e a quello che
qui si è fatto e si farà di camp, Camp, pop camp ecc. Qui e altrove, quando l’utilizzo
producesse eventuali fraintendimenti, si farà ricorso alle categorie di Meyer specifican-
done con la virgolettatura la provenienza specifica.
ALTRI TRADIMENTI 205

1
the production of social visibility”.
Il ‘Pop camp’ trova invece le proprie origini nel saggio di Sontag e
nella diffusione degli anni Sessanta, in quanto versione inoffensiva e a-
politica, cooptata e ricostituita dal sistema di produzione borghese della
s/oggettività. In questa operazione si indica di fatto una perversione di
secondo grado della formazione discorsiva del camp – perversione che si
esercita nel depotenziamento di una pratica a sua volta fondamental-
mente perversa, e che si configura come ‘traccia’ dell’originale ‘Camp’,
una volgare copia ‘residuale’, “a strategy of un-queer appropriation of
queer praxis whose purpose […] is the enfusement of the un-queer with
the queer aura, acting to stabilize the ontological challenge of Camp
through a dominant gesture of reincorporation”. Una traccia cioè non
più di stampo simulacrale (la copia di un originale assente), ma ben più
chiaramente intesa quale effetto di una brutale appropriazione ad altre
finalità e circolazioni. Meyer ne consegue, a fronte del riconoscimento
dell’indefinibilità che ha segnato l’intera riflessione critica (e che trovava
nell’affermazione da parte di Dollimore dell’esistenza di “different kinds
of camp” la strategia funzionale anche in chiave gay alla dicibilità critica
della nozione), che “there are not different kinds of camp. There is only
2
one. And it is queer”.
In effetti, l’opposizione binaria proposta da Meyer si configura come
opposizione fra una versione ‘pura’ (che coincide con la performatività
omosessuale) e una versione spuria (il ‘Pop camp’ degli anni Sessanta, il
Kitsch recuperato e quant’altro ascrivibile all’inintenzionalità della campi-
ness), che in effetti inverte la gerarchia suggerita da Sontag allorché indi-
cava che “Pure Camp is always naïve” e che “Camp which knows itself
3
to be Camp (‘camping’) is usually less satisfying”. Nell’invertire l’ordine
di priorità – inversione cui corrisponde il reclaiming – si evidenzia come il
processo di depoliticizzazione e di disimpegno promosso dallo statuto
sontaghiano del camp coincida con la sostanziale elisione della soggetti-
vità che (si) produce (attraverso) il ‘Camp’ in quanto corpus di strategie
performative investite nella produzione di visibilità di una soggettività
queer. Rimodellato come estetica e come modalità ironica (quella modali-
4
tà ironica cui si rimprovera un effetto stabilizzante), il ‘Camp’ si trasfor-
1
Ivi, p. 5.
2
Ibidem.
3
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 282.
4
Si confronti il capitolo 5, e in particolare il brano ivi citato di Morrill, il quale nega il
camp-come-modalità-ironica e conclude affermando che “the notion of Camp as iro-
206 TIRANDO LE FILA

merebbe in qualcosa d’altro, vale a dire in una serie di referenti privi


d’ambiguità nella loro campiness, e in una griglia di riconoscibilità stabile
e oggettiva: il ‘Pop camp’, sovrapposto al Kitsch, allo Schlock, e in genere
a tutto ciò che si è incluso nella referenza ‘apolitica’ del camp sulla scorta
di “Notes on ‘Camp’”.
La valenza critica e politica del ‘Camp’ coinciderebbe in ultima analisi
con l’essenza del ‘Camp’ stesso, e con l’elemento fondativo della pro-
spettiva, peraltro a sua volta fondato dalla valenza critica e dall’essenza
del ‘Camp’ in quanto suo campo di possibilità esistentiva (i tre aspetti si
fondano insomma l’un l’altro). Tale elemento fondativo sarebbe il queer –
“there are not different kinds of camp. There is only one. And it is queer”
– che aggettivando il ‘Camp’ ne costituisce l’inalienabile premessa, eli-
minata la quale si produce un qualcosa di fondamentalmente diverso. Per
definire il ‘Camp’, per indicarne la portata critica, è necessario dunque
definire l’elemento aggettivante e la sua premessa fondamentale; e la ve-
rifica di configurazione di tale premessa ci avvicina al ‘tradimento’ insito
nell’operazione di Meyer – ‘tradimento’ che si esercita sul camp nel mo-
mento in cui ‘tradisce’, nella propria definizione, l’elemento a sua volta
definitorio del ‘Camp’.
In apertura Meyer precisa il proprio utilizzo del lemma queer, che ap-
pare derivato dalla circolazione del lemma stesso sulla scena critica an-
gloamericana degli ultimi dieci anni quale strategia di superamento dei
1
limiti posti dai gay and lesbian studies:

What I would offer as a definition of queer is one based on an alterna-


tive model of the constitution of subjectivity and of social identity. The
emergence of the queer label as an oppositional critique of gay and
lesbian middle-class assimilationism is, perhaps, its strongest and most
valid aspect. In the sense that the queer label emerges as a class cri-
tique, then what is opposed are bourgeois models of identity. What
‘queer’ signals is an ontological challenge that displaces bourgeois no-
tions of the Self as unique, abiding and continuous while substituting

nic role playing falls short of any destabilizing function”. Il brano di Morrill è in tal
senso esplicito, e non a caso è estrapolato da un saggio compreso dalla raccolta curata
da Meyer. Meyer, peraltro, sostiene in modo più articolato nel corso della propria tesi
dottorale che il vizio di Sontag sia da ricondursi da un lato alla lettura del camp come
ironia, e dall’altro alla sua riduzione a una sequenza di oggetti. Cfr. The Wild(e) Body:
Camp Theory, Camp Performance, cit., passim.
1
Mi permetto di rimandare in merito al mio “‘Oscar Wilde’ e i materialisti. Appunti
sulla scena critica radicale in Gran Bretagna”, cit. Utile introduzione è anche Marco
Pustianaz, op. cit.
ALTRI TRADIMENTI 207

instead a concept of the Self as performative, improvisational, discon-


tinuous, and processually constituted by repetitive and stylized acts.1

In contrasto con il sistema binario dei gay and lesbian studies, formatosi a
partire dal pensiero della differenza sessuale di matrice femminista, la
prospettiva queer – consacrata, appunto, come queer theory sulla scena
critica – è presieduta da un modello costruzionista dell’identità, che in-
quadra contro ogni suggerimento essenzialista sia l’asse del sex sia quello
2
del gender quali esiti di un’interpellazione ideologica.
In quanto riconducibile ad una matrice essenzialista, la dicotomia fra
gay and lesbian si offre a una (facile) dismissione in quanto partecipe di
un “middle-class assimilationism”, che si appropria delle modalità costi-
tutive della soggettività borghese – unica, stabile e profonda – per ricon-
figurare il soggetto gay e lesbico a partire dalle medesime premesse. Alla
luce di questa considerazione, non è arbitrario inserire quanto emerso
nella parte precedente sulla fallimentarietà delle posizioni storiche pro-
dotte dalla collettività gay (cfr. il capitolo 3), nella fallimentarietà intrin-
seca all’essenzialismo dei gay studies. Il queer, viceversa, si edifica all’in-
segna degli atti di ‘performatività’ teorizzati da Judith Butler, i gesti stiliz-
zati di messa in scena di un’identità più che di sua espressione (si con-
3
fronti quanto già evidenziato nel capitolo 4).
Coerentemente a tali premesse ontologiche, nell’ambito della teoria
critica, alla queer theory è stato ascritto il lavoro di indagine sullo spettro
delle sessualità e sul loro rapporto con i processi di significazione, con gli
apparati ideologici e con la cultura dominante che si articola attraverso
una gerarchizzazione in sistemi binari. Il lemma stesso queer è ricco di
implicazioni e di sfumature storico-teoriche che è opportuno inquadrare
brevemente. Al contempo forma aggettivale, nominale e verbale, il lem-
ma queer – derivato dal germanico quer (obliquo, storto, traverso) – ha in
effetti una complessa storia che trascende abbondantemente il suo utiliz-
1
Moe Meyer, “Introduction: Reclaiming the Discourse of Camp”, cit., pp. 2-3.
2
La chiave della ‘interpellazione ideologica’ rende chiara la matrice althusseriana e
foucaultiana di tale costruzionismo, che esplicita l’ambiguità del subjectus. I ‘classici’ in
tale senso sono senz’altro Louis Althusser, “Idéologie et appareils idéologiques
d’Etat”, La pensée, 151, 1970, e Michel Foucault, “The Subject and Power”, postfazione
a Hubert L. Dreyfus and Paul Rabinow, Michel Foucault: Beyond Structuralism and Her-
meneutics, Chicago: University of Chicago Press, 1982, pp. 214-232.
3
E Judith Butler, non a caso, è fra i maggiori esponenti – unitamente a Eve Kosofsky
Sedgwick, Teresa de Lauretis e Jonathan Dollimore – della queer theory. Sulla performa-
tivity sono estremamente utili anche i saggi raccolti in Andrew Parker and Eve Ko-
sofsky Sedgwick (eds.), Performativity and Performance, New York: Routledge, 1995.
208 TIRANDO LE FILA

zo contemporaneo, affondando le proprie radici nell’underworld elisabet-


1
tiano. Prestando credito allo Oxford English Dictionary, il lemma entra
stabilmente nel lessico inglese nel corso del Settecento, con valenza di
‘perverso’, ‘trasversale’, o ‘storto’. In quanto sostantivo queer indica
1. Strange, odd, peculiar, eccentric, in appearance or character. Also, of
questionable character, suspicious, dubious. […] 2. Not in a normal
condition. […] 3. Queer Street: An imaginary street where people in dif-
ficulties are supposed to reside; hence, any difficulty, fix, or trouble,
bad circumstances, debt, illness etc.2

E in quanto predicato verbale, “1. trans. a. To quiz or ridicule; to puzzle.


b. To impose on, swindle, cheat. […]. 2. To spoil, put out of order. […] 3.
3
To put (one out); to make (one) feel queer”.
L’origine dal germanico quer sembra accreditare la ‘trasversalità’ e la
‘stortura’ quali caratteri per così dire fondamentali della nozione. Estre-
mamente interessante è anche la chiave in termini di inautenticità sug-
gerita, ad esempio, dalle attestazioni a partire dal secolo scorso di queer
4
money – ‘denaro contraffatto’. Eccentrico, anticonvenzionale e pertur-
bante le prescrizioni doxastiche, queer sarebbe insomma il soggetto inau-
tentico, instabile, che si insinua clandestinamente nelle strutture del Ca-
pitale e nell’economia del consorzio sociale, e che – data l’attestazione di
5
on the queer quale “not quite honest or straight” – destabilizza la ‘retti-
tudine’ inscritta nell’ortodossia (ορϑοδοξια: composto di ορϑος, ‘retto’,
e δοξα), insinuando un principio di devianza nella normalità.
6

Sarà solo a partire dalla fine del secolo scorso che queer – oltre a con-
servare le connotazioni di cui sopra – segnalerà in accezione fortemente
offensiva l’omosessuale effeminato, vale a dire la modalità esistentiva
1
Si vedano in merito le attestazioni riportate in Ermanno Barisone, op. cit.
2
Sub voce ‘queer’, in The Oxford English Dictionary, vol. VIII, Oxford: Clarendon,
1933, p. 41.
3
Ivi, p. 42.
4
Ibidem. Il supplemento allo Oxford English Dictionary, vol. III, Oxford: Clarendon,
1982, p. 972, offre attestazioni di queer money fin dal 1740.
5
Sub voce ‘queer’, nel supplemento del 1961 allo Oxford English Dictionary del 1933.
Oxford: Clarendon, 1961, p. 151. E ancora: “on the queer: living dishonestly; spec. en-
gaged in the forging of currency”. Sub voce ‘queer’, in The Oxford English Dictionary,
(1933), cit., p. 42.
6
Quale verbo: “a. Also, with a person as object, to spoil the reputation of, to put (a
person) in bad odour (with someone); to spoil (a person’s) undertaking, chances, etc.
[…] b. to queer the pitch: to interfere with or spoil the business (of a tradesman or
showman)”. Sub voce queer, nel supplemento allo Oxford English Dictionary del 1982,
cit., p. 972.
ALTRI TRADIMENTI 209

1
presieduta (costruita a partire) dal modello di Oscar Wilde. È sulla scorta
di questo affastellarsi di senso, più o meno consapevole, che si ricorre in
genere alla nozione di queer, e che il termine trova la propria circolazione
attuale sia all’interno dell’attivismo omosessuale come forma di recupero
2
polemico di una eteronominazione (a fronte dell’autonominativo gay),
sia all’interno degli studi culturali dove la consapevolezza della politicità
di ogni rappresentazione si associa a una scelta di contrapposizione all’es-
sere straight (retto, corretto, coerente, affidabile, normale e, ‘dunque’, e-
terosessuale, possibilmente coniugato con prole) che comprende tutte le
3
devianze pur nel rispetto del loro specifico situarsi nella cultura.
Va tuttavia rilevato come latiti un effettivo consenso sull’inclusività del
termine queer: se infatti da un lato viene prevalentemente inteso che la
queerness non sia prerogativa dell’omosessuale maschio effeminato, non
tutti accolgono le devianze estranee allo specifico lesbico e gay. La confi-
gurazione stessa del termine, il suo probabile etimo e la sua storia, sem-
brano però legittimarne un utilizzo inclusivo, quello rivendicato da un
Alan Sinfield o da un Alexander Doty, che prescinde dall’esclusività gay
e lesbica nell’affermare che “the terms ‘queer readings’, ‘queer discour-
ses’ and ‘queer positions’ […] are attempts to account for the existence
and expression of a wide range of positions within culture that are ‘que-
4
er’ or non-, anti-, or contra-straight”. È in questa accezione estesa che è
possibile accogliere sotto l’egida della queerness l’intero apparato rappre-
sentativo di stampo parodico che nel capitolo 4 si è ascritto alla female o
same-sex mimicry, poiché – nelle parole di Pamela Robertson – in quanto
“explanatory term connoting a discourse or position at odds with the
5
dominant symbolic order”, queer abilita “not only gay men, but also hete-

1
Per le attestazioni di queer in questa accezione bisogna peraltro attendere il citato
supplemento del 1982, il che denuncia – oltre che una ‘secondarietà’ della nozione – il
clima di censura o di ‘segreto aperto’ (cfr. capitolo 1) nel quale l’omosessuale ha preso
corpo nel nostro secolo. Lo si poteva insultare, ma il dizionario ufficiale della Lingua
Inglese non ne poteva registrare neppure l’esistenza quale oggetto di stigma.
2
Sulla circolazione autonominativa di gay negli anni Venti si veda Alan Sinfield,
“Private Lives/Public Theater”, cit.
3
Il che non significa che tale tendenza ‘inclusiva’ non si offra ad accuse di cancella-
zione delle specifiche particolarità devianti, e strategie d’intervento. Basti riprendere
quanto osservato supra, nella nota 1 a pagina 120.
4
Alexander Doty, Making Things Perfectly Queer: Interpreting Mass Culture, Minnea-
polis: University of Minnesota Press, 1993, p. 3. Sul ricorso alla nozione di queer quale
strategia di convergenza fra modalità di lettura analogamente subordinate si sofferma
Alan Sinfield nella prefazione a Cultural Politics–Queer Reading, cit., pp. vii-xi.
5
Pamela Robertson, Guilty Pleasures, cit., p. 10.
210 TIRANDO LE FILA

rosexual and lesbian women, and perhaps heterosexual men, to express


their discomfort with and alienation from the normative gender and sex
1
roles assigned to them by straight culture”.
È insomma nel generale processo – promosso dalla queerness – di de-
costruzione del ‘vero’, del ‘naturale’, del ‘serio’ e dell’‘autentico’, o del-
l’identità stabile e coerente del soggetto borghese, che risulta legittimo se
non auspicabile rinunciare a una prospettiva univocamente orientata ad
asserire la decodifica e l’esistenza gay – a una prospettiva che cioè perda
di vista l’inevitabile partecipazione delle strategie omofobiche a un più
ampio atteggiamento discriminante in chiave xenofoba, classista e miso-
gina – per identificare al contrario una piattaforma di aggregazione stra-
tegica dei diversi côté sottoculturali, dalla quale sabotare le molteplici op-
posizioni binarie (maschile/femminile e naturale/artificiale, ma anche
privato/pubblico, innocenza/esperienza, progresso/decadenza, identi-
2
tà/differenza, ecc.) funzionali a un comune disegno subordinante.
Quello queer è in tal senso, a sua volta, un sapere del margine, un
pensiero dell’in-differenza (perché opposto al pensiero della differenza
sessuale), il quale si consegna funzionalmente a una demistificazione –
queer come strange, e dunque to queer come ‘straniare’ – che produce (o
ri-conosce la) differenza tra le superfici delle costruzioni culturali più che
fra le profondità delle essenze individuali e collettive.
Quanto si è venuti fin qui registrando sul camp ne segnala la straordi-
naria convergenza con il queer: l’etero- o paradossìa, la deviazione dalla
(e della) straightness, la modulazione sui piani dell’ironia in quanto piani
di inespressività personale, il valore interrogativo e puzzling, la sostanzia-
le inautenticità clandestina, lo statuto elusivo e instabile, il valore di tra-
smutazione di valore dello stigma che il recupero dell’eteronominativo

1
Ivi, pp. 9-10. Benché qui si sottoscriva in larga misura la posizione di Sinfield, Doty
e Robertson sul queer, e vi si fondi anzi una teoria del camp, non si condividono le pa-
role di Doty e Robertson sulla valenza espressiva di disagio che ascrivono al queer. Que-
sto, e il camp con esso, vanno ripensati come indici e strumenti di una divergenza per-
formativa, e non come l’espressione di un’interiorità.
2
“[T]he placement of the boundaries in a particular society affects not merely the
definitions of those terms themselves – sexual/nonsexual, masculine/feminine – but
also the apportionment of forms of power that are not obviously sexual. These include
control over the means of production and reproduction of goods, persons, and mean-
ings”. Eve Kosofsky Sedgwick, Between Men, cit., p. 22. Sull’omofobia come effetto di
un sistema di opposizioni binarie che si traduce anche in altre forme discriminatorie si
vedano anche le pagine in Id., Epistemology of the Closet, cit., pp. 67-90; e in Jonathan
Dollimore, Sexual Dissidence, cit., pp. 233-275.
ALTRI TRADIMENTI 211

1
queer comporta, e persino l’aristocraticismo del queer, sono singoli tas-
selli di una generale convergenza. Convergenza legittimata dall’osserva-
zione di Gregory Woods – in un breve intervento dal significativo titolo
di “Notes on Queer” (nel quale è evidente l’eco del saggio di Sontag, di
cui mutua anche l’ordine paratattico e numerato delle notes) – per cui
“[q]ueer culture is not a novelty. It must recognise the debt it owes to
previous gay cultures; in particular, it has inherited the structures and
2
stratagems of Camp”. Quanto osservato da Woods indica una derivati-
vità della queer culture dal camp in termini di attivismo, ma anche impli-
citamente di modalità di lettura critica: la queer theory, di cui s’è detto so-
pra, va insomma intesa quale modalità di legittimazione (e di istituziona-
lizzazione) dei suggerimenti ‘ipercritici’ e destabilizzanti offerti dalla sto-
3
ria e dalla teoria del camp.
Ma riprendiamo la proposta di definizione di Moe Meyer. Le pratiche
queer possono dunque essere ascritte a una “critique of a more vast and
comprehensive system of class-based practices of which sex/gender is
4
only a part”, riconosce Meyer, e in tal senso risultano significative le
considerazioni, a mano di Thomas King, che aprono il volume sulla rap-
presentazione stigmatizzante che i pensatori borghesi del Settecento of-
frivano del rapporto fra aristocrazia, sodomia, e sistemi segnici dell’effe-
5
minatezza. Meyer ne consegue, opportunamente, che

1
Il modello wildiano che presiede al queer come derogazione dell’omosessuale ha
infatti marcate implicazioni in termini di ceto sociale: esemplare in tal senso l’acri-
monia della classe operaia per gli ‘oscarwile’ [sic], e il fatto che la queerness escludesse
il soggetto di pratiche omoerotiche appartenente alla lower class. Si confronti in propo-
sito Alan Sinfield, The Wilde Century, cit., pp. 130-160. E non a caso il Marchese di
Queensberry, un anno prima dei processi che codificarono la queerness di Oscar Wilde
come indice d’omosessualità, rivolse a mò di insulto l’epiteto di ‘Snob Queers’ a un
gruppo di notabili londinesi. Richard Ellman, Oscar Wilde: A Biography, London:
Hamish Hamilton, 1987, p. 426. È per questa ragione che Meyer afferma nel brano
sopra riportato che “the queer label emerges as a class critique”, basandosi in questa
affermazione su Thomas A King, op. cit. Si riprenderà immediatamente la questione.
2
Gregory Woods, “Notes on Queer” (1992), in This is No Book: A Gay Reader. Not-
tingham: Mushroom Publications, 1994, p. 92.
3
Si confronti quanto osservato in apertura di questo capitolo sulla legittimazione
delle istanze del camp come modalità di lettura critica. Gli elementi di convergenza fra
camp e queer non devono peraltro spingere a considerare le due nozioni omologhe: al
contempo, è estremamente utile registrare la loro sovrapposizione, anche in chiave
storica, al fine di articolarle entrambe criticamente.
4
Moe Meyer, “Introduction: Reclaiming the Discourse of Camp”, cit., p. 3.
5
Cfr. Thomas A. King, op. cit. Al lavoro di King ci si è rifatti per il capitolo 1, cui si
rimanda per la rappresentazione stigmatizzante medesima, e in particolare per il rap-
212 TIRANDO LE FILA

Broadening the scope of the queer critique in this manner also consti-
tutes a radical challenge to the entire concept of an identity based
upon sexual orientation or sexual desire because the substitution of a
performative, discontinuous Self for one based upon the unique indi-
vidual actually displaces and voids the concept of sexual orientation it-
self by removing the bourgeois epistemological frames that stabilize
such identifications. Queer sexualities become, then, a series of impro-
vised performances whose threat lies in the denial of any social identity
derived from participation in those performances. As a refusal of sexu-
ally defined identity, this must also include the denial of the difference
upon which such identities have been founded. And it is precisely in
the space of this refusal, in the deconstruction of the homo/hetero bi-
nary, that the threat and challenge to bourgeois ideology is queerly
executed.1

L’idea stessa che le pratiche sessuali fondino l’identità personale, che il


sesso costituisca lo spazio dell’intima essenza e l’appartenenza tipologica
dell’individuo, è (secondo quanto suggerisce Foucault) un effetto discorsivo,
che il camp – in quanto queer – destabilizza, e che trova la propria origine
a un tempo con l’accezione derogatoria dell’omosessuale e con i processi
Wilde del 1895 (si confronti la sezione 9.2) che la codificarono. Non a caso
prima dei processi, riporta Wayne Koestenbaum, queer significava nient’al-
tro che la propria stessa indecidibilità: “[t]he uncertainty of the word’s
meaning helps it designate incomplete knowledge: ‘queer’ signifies an
illogical stab of doubt, the sensation of wavering between two interpreta-
tions – a hesitation that marks […] the horror that comes from not being
2
able to explain away an uncanny doubleness”. Queer denotava insomma
una pura incertezza segnica, un vacillare ermeneutico fra le superfici te-
3
stuali, così come un’incertezza, una vacuità e un’inautenticità ontologica.
Nessun ‘tradimento’ sembra profilarsi all’orizzonte tracciato da Me-
yer. Il cerchio si chiude: abbiamo infine una chiave, sia pur ‘contorta’,
che consente l’accesso al camp come architettura ‘sghemba’ in quanto
architettura queer. Un tradimento però riemerge, e risiede nel fatto che
Meyer propone una chiave di lettura per una definizione del camp (“I
define Camp as the total body of performative practices and strategies
porto instaurato fra vacuità e orgoglio, elementi che il capitolo precedente dovrebbe
avere inquadrato nell’orizzonte epistemico e ontologico presupposto dal camp.
1
Moe Meyer, “Introduction: Reclaiming the Discourse of Camp”, cit., p. 3.
2
Wayne Koestenbaum, Double Talk, cit., p. 147.
3
Il carattere inautentico e ontologicamente ‘assente’ del queer è splendidamente in-
dagato in Sue-Ellen Case, “Tracking the Vampire”, Differences, III, 2, 1991, pp. 1-20.
ALTRI TRADIMENTI 213

used to enact a queer identity, with enactment defined as the production


1
of social visibility”) che distattende clamorosamente le premesse ‘sghem-
be’. La decostruzione del binarismo omo/eterosessuale che si indica fra i
primi terreni di esercizio del queering nei confronti dell’ordine epistemico
e ontologico borghese è infatti, all’atto pratico, abortita dalla lettura di
Meyer, più che praticata. Con queer, infatti, Meyer mette in gioco esclusi-
vamente la circolazione (parziale, del resto) che il lemma ha avuto nel
corso del Novecento, vale a dire l’accezione derogatoria dell’omosessua-
2
lità maschile: e, in chiave ancor più discutibile, non distingue fra il queer
in quanto tale e il gay come identità collettiva autonominata.
Questo ‘travestimento’ da parte di Meyer emerge attraverso un con-
fronto con la tesi dottorale redatta a un tempo con il saggio in questione,
e attraverso un confronto con le ambizioni e la struttura stessa del lavoro
di definizione teorico-storiografico proposto. La sfida ontologica del que-
er viene infatti ascritta nella tesi – all’interno di un brano riprodotto ver-
batim nel saggio a stampa – al “‘Camp’, or gay parody”, così definito “the
total body of performative practices and strategies used to enact a gay
3
identity, with enactment defined as the production of social visibility”. Il
che significa “that all gay identity performative expressions are circulated
within the signifying system that is Camp. In other words, gay identity is
inseparable and indistinguishable from its processual enactment, or
4
Camp”. L’utilizzo da parte di Meyer di queer altro non è insomma che
un ‘gay’ en travesti: ma non di una gayness che si articola attraverso il tra-
vestimento (la gayness della drag queen), bensì di una semplice rinomina-
zione in termini di queerness della omosessualità come formazione tran-
storica (“all gay identity performative expressions are circulated within the
signifying system that is Camp. In other words, gay identity is insepara-
ble and indistinguishable from its processual enactment, or Camp”).
In tal senso, l’appropriazione da parte di Sontag altro non sarebbe in
effetti che un’espropriazione del ‘Camp’ dalla soggettività gay (gay, pe-
raltro maschile, e non queer) che ne costituisce l’unico legittimo fonda-
mento, come emerge inequivocabilmente dalle parole – questa volta tratte
5
dal volume a stampa, all’insegna del ‘Camp’ come queer – del supervisore
1
Moe Meyer, “Introduction: Reclaiming the Discourse of Camp”, cit., p. 5.
2
È a questa accezione che si è fatto riferimento, del resto, nelle pagine che precedono.
3
Moe Meyer, The Wild(e) Body, cit., pp. vi, x. I corsivi sono miei.
4
Ivi, p. x.
5
Si è fatto qui riferimento alla tesi dottorale perché questa rende quanto mai esplici-
ta l’accezione parzializzante dell’utilizzo di queer da parte di Meyer, ma l’impressione è
214 TIRANDO LE FILA

del lavoro dottorale di Meyer, Margaret Thompson Drewal, che annun-


ciano uno studio della desessualizzazione delle pratiche ‘Camp’ da parte
di Liberace, il noto performer statunitense la cui omosessualità emerse
alla consapevolezza pubblica solo dopo la sua morte, avvenuta nel 1987:

what happens when Camp performance is detached from its gay iden-
tity and that identity is displaced or put under erasure? Or, from an-
other angle, if gay signifying practices serve to critique dominant het-
erosexist and patriarchal ideology through inversion, parody, travesty,
and the displacement of binary gender codes, then what happens
when those practices are severed from their gay signifier and put into
the service of the very patriarchal and heterosexist ideology of capital-
ism that Camp politics seeks to disrupt and contest? […] When corpo-
rate capitalism appropriates Camp in its own interests and then poses
as its signifier, then the representation bears only the residue of Camp
politics. Detached in this way from a gay subject position, Liberace’s
performances constituted what Moe Meyer calls residual camp or “the
camp trace”.1

Ciò che fonda il ‘Camp’ in quanto critica, vale a dire in quanto modalità
politica, è il suo essere dispiegato in un contesto e da una soggettività
gay. Eliminando l’aggettivazione, si eliminano politicità, intenzionalità ed
eversività, e con questi e il carattere ‘originale/originario’ del ‘Camp’.
Il ‘Camp’ come parodia gay rimanda infatti secondo Meyer alla nozione
di parodia instabile, postmoderna, come manipolazione di codici interte-
stuali di intrinseca portata politica, suggerita da Hutcheon: “[w]hen par-
ody is seen as process, not as form, then the relationship between texts
becomes simply an indicator of the power relationships between social
agents who wield those texts, one who possesses the ‘original’, the other
2
who possesses the parodic alternative”. Ciò che Meyer si propone, in
definitiva, è di invertire l’asse del potere rappresentativo e restituire l’aura
di originalità al ‘Camp’ come discorso specificamente gay. Ma il rivendi-
care un’esclusività gay significa riproporre, sia pur in termini invertiti, la
logica dell’originarietà/originalità che si sostiene di voler destabilizzare, e
3
che il queer in senso esteso delegittima. Tale operazione dispiega in ef-
fetti a sua volta una deviazione rispetto alla manipolazione intertestuale

prodotta anche dal solo lavoro già apparso a stampa.


1
Margaret Thompson Drewal, op. cit., pp. 149-150.
2
Moe Meyer, “Introduction: Reclaiming the Discourse of Camp”, cit., p. 10.
3
Il ‘Camp’ (gay), ricordiamo, sarebbe l’originale, e il ‘Pop camp’ (etero), sarebbe solo
una brutta copia, un falso funzionale al Capitale e all’ideologia borghese.
ALTRI TRADIMENTI 215

postmoderna evidenziata dalla stessa Hutcheon, la quale decreta il venir


meno, attraverso lo straniamento dei processi produttivi, della “Benjami-
nian ‘aura’ with its notions of originality, authenticity, and uniqueness,
and with these go all the taboos against strategies that rely on the parody
1
and reappropriation of already existing representations”. All’atto prati-
co, dunque, il quadro epistemico proposto da Meyer non è altro che –
nelle parole dello stesso Meyer già citate – il quadro epistemologico bor-
ghese delegittimato dal queer, nel suo portato di

radical challenge to the entire concept of an identity based upon sexual


orientation or sexual desire because the substitution of a performative,
discontinuous Self for one based upon the unique individual actually
displaces and voids the concept of sexual orientation itself by removing
the bourgeois epistemological frames that stabilize such identifications.
[…] As a refusal of sexually defined identity, this must also include the
denial of the difference upon which such identities have been founded.
And it is precisely in the space of this refusal, in the deconstruction of
the homo/hetero binary, that the threat and challenge to bourgeois
ideology is queerly executed.

L’identità profonda, che coincide con la dimensione dell’orientamento


sessuale stabile inscritto nel binarismo omo/eterosessuale, risulta infatti
ribadita nel momento in cui l’origine e la configurazione legittima – pri-
maria e autentica – del ‘Camp’ è indicata nell’omosessualità transtorica
2
della gayness. Sostituire a gay il più fashionable e ‘spendibile’ (sulla scena
accademica) queer, definendo la gayness quale effetto di un processo di
costituzione performativa di identità, sembra infatti solo riconducibile
all’imposizione di un principio performativo (e dunque instabile) come,
paradossalmente, origine stabile del fenomeno e ragion d’esser di una
identità fenomenologica altrettanto stabile e unitaria (“there are not dif-
ferent kinds of Camp. There is only one”). Se non il principio dell’orienta-
mento sessuale, infatti, non si vede cosa costituisca l’unitarietà organica
della gayness proposta da Meyer: non di certo la performatività qual è

1
Linda Hutcheon, The Politics of Postmodernism, cit., p. 35.
2
A questa applicazione di un quadro epistemologico borghese, stabilizzante in modo
arbitrario e impositivo, è riconducibile del resto la questione della intenzionalità del
‘Camp’. Questo è tale solo se intenzionale e originale, e pertanto proprietà di un indi-
viduo (gay) – le categorie sono di fatto presiedute da una matrice borghese, la destabi-
lizzazione queer della quale passa attraverso una radicale interrogazione delle categorie
medesime, più che di un loro semplice reinvestimento sul queer che di fatto depotenzia
quest’ultimo nel suo portato critico.
216 TIRANDO LE FILA

suggerita dal critico americano, il cui investimento nella teoria contem-


poranea risiede proprio nella valenza straniante della identità profonda e
stabile della soggettività ‘naturale’ o borghese, resa anch’essa un effetto
di ripetizione di indici stilizzati (“gay is to straight not as copy is to origi-
nal, but, rather, as copy is to copy”, nelle parole di Judith Butler già citate
nel capitolo 4). Il ‘Camp’ è gay in quanto performativo; ma se anche il
non-gay è performativo (in modo più o meno riconosciuto), non si vede
perché il ‘Camp’ debba escludere il non-gay.
In particolare, il processo di esclusione, da parte di Meyer, della feno-
menologia pop o Kitsch dal ‘Camp’ – in quanto partecipe del processo di
espropriazione dalla soggettività gay messo in gioco da Sontag che si
produce, appunto, in un ‘Pop camp’ – trascura in ultima analisi le impli-
cazioni più propriamente radicali del quadro epistemologico decostruito
in chiave queer. Si è detto sopra che postmoderno e camp si sovrappon-
gono, fra l’altro, in relazione alla cultura popolare, accolta paritariamente
– e quindi trasgressivamente, in virtù della problematizzazione che ciò
1
investe sull’ordine gerarchico – alle esperienze dell’Alta Cultura. Il ri-
vendicare una politicità della prassi artistica postmoderna passa infatti,
suggerisce Hutcheon, attraverso il mettere in crisi i principi di autorità
culturale che decretano il privilegio dell’Alta Cultura, e che creano un ef-
fetto di ‘aura’ – prerogativa dell’oggetto unico, originale, nel quale si di-
spone l’interiorità personale e autentica dell’artista – quale intrinseco solo
alla Vera Arte. Il Kitsch si consegna invece come prodotto secondario,
derivativo, falso, mera copia (non simulacrale) di un originale presente in
quanto Arte – da cui la trasgressività che presiede al gusto camp per il
secondario e il derivativo, per il Kitsch e per il pop: in breve, per il seriale
anteposto all’originale, che denuncia lo statuto di ‘copia’ dell’originale.
Questa portata eversiva della serialità artistica, del pop e del Kitsch,
mina, in altri termini, la logica del binarismo originale/secondario che
investe il quadro epistemologico borghese nella sfera delle sessualità. È
in ragione di tale consonanza che si giustifica la straordinaria sovrappo-
sizione storica (vale a dire priva di senso di determinazione univoca) di
gusto omosessuale e di cultura popolare, che la tradizione del camp te-
stimonia ampiamente e che Meyer nega. Basti pensare al caso clamoroso

1
E di camp come chiave di accesso alla relazione di portata eversiva instaurata fra
postmoderno e pop parla Angela McRobbie in “Postmodernism and Popular Culture”,
Journal of Communication Inquiry, 10, 1986, pp. 108-116; e in Postmodernism and Popular
Culture, London: Routledge, 1994.
ALTRI TRADIMENTI 217

di Andy Warhol e della Pop Art in genere, nel quale devianza sessuale,
1
serialità e pop sono inestricabili all’insegna del camp. Del camp cioè in
quanto queer – ma nel senso di ‘valuta contraffatta’ nell’ordine dello
scambio culturale. Come riconosce Meyer, lo si è già detto, la relazione
fra testo primario e testo secondario “becomes simply an indicator of the
power relationships between social agents who wield those texts, one
who possesses the ‘original’, the other who possesses the parodic alter-
native”. Ma Meyer, pur rifacendosi alla parodia postmoderna qual è di-
segnata da Hutcheon, trascura questa valenza eversiva, in un processo
che sembra dunque riconducibile solo alla costituzione di un’originalità/
originarietà gay, di pari passo a quella del critico ‘Moe Meyer’ – in quanto
detentore, non dichiarato, del principio di originalità/originarietà del
‘Camp’ – come nuova autorità culturale, o nuova ‘star’ sulla scena acca-
demica nordamericana, cui venga riconosciuto il potere culturale del cri-
2
tico come arbiter del Giusto e del Vero.
Il problema del reclaiming di Meyer, e della tesi ‘forte’ che racchiude, è
in definitiva che Meyer rivendica al tempo stesso troppo e troppo poco per
il camp. Da un lato lo sovraestende a tutta l’identità gay, il che costringe
lo stesso Meyer a virtuosismi di dubbia felicità critica nel corso della tesi
dottorale per dimostrare come persino l’omosessualità essenzialista, arti-
colatasi in aperta polemica con il modello esistentivo camp e queer
(nell’accezione storica, limitata alla sola prima metà del secolo), appar-
3
tenga alla categoria del ‘Camp’. Dall’altro la categoria esclude tutto ciò
che non è gay in senso stretto, lesbiche comprese, perché il modello è
prodotto a partire da, e con finalità nella, omosessualità maschile. Anche
1
Sarà Warhol appartenente al ‘Camp’ in virtù della sua omosessualità, benché com-
promesso con il Pop? Per affrontare la convergenza fra devianza sessuale e cultura
popolare offrono risposte meno facilmente riduzioniste o deterministe i testi citati su-
pra, nella nota 2 a pagina 126. Ma si vedano anche Paul Burston and Colin Richardson
(eds.), A Queer Romance: Lesbians, Gay Men and Popular Culture, London: Routledge,
1995; Tamsin Wilton (ed.), op. cit.; e Diane Hamer and Belinda Budge (eds.), op. cit.
2
Potere culturale, e contrattuale sul mercato delle cattedre statunitensi: in breve, un
potere economico. Come dire, il queer meyeriano è anch’esso significativamente com-
promesso con la logica del Capitale, salvo non dichiararsi tale.
3
Il ‘fondamento’ di quest’affermazione si troverebbe secondo Meyer nel brano da
The World in the Evening che si è affrontato nel capitolo 2. Lo High Camp sarebbe in-
somma l’omosessualità non marcata in senso femmineo, mentre alla modalità marcata
corrisponderebbe il Low Camp. Non è necessario soffermarsi sulla pretestuosità di
questa lettura: basti riprendere il brano isherwoodiano, nel quale nulla la conforta. Né
la conforta l’utilizzo storico del lemma camp, mai attestato per indicare l’omosessualità
‘naturale’ promossa storicamente da un Edward Carpenter, un André Gide, o dagli
attivisti del Gay Liberation Front.
218 TIRANDO LE FILA

se Meyer si guarda bene dal ricorrere al determinismo gay, un sospetto


di determinismo – sia pur ‘clandestino’ o ‘travestito’ – pare insomma più
che giustificato. Il determinismo di Meyer emerge anche in relazione al
ruolo rivestito da Sontag nella ‘espropriazione’ del ‘Camp’. Questa av-
verrebbe come ricaduta immediata e diretta – straight, per così dire – del-
la pubblicazione di “Notes on ‘Camp’”. È ragionevole pensare invece che
lo stesso “Notes on ‘Camp’” partecipi di un più ampio processo culturale
nel quale determinate istanze potevano riscuotere l’attenzione e l’inte-
resse di un critico autorevole ed eterosessuale, e di una rivista come Par-
tisan Review. È difficile infatti accreditare una tesi che avvalori un singolo
saggio di poche pagine – peraltro apparso su una rivista di circolazione
limitata – di una così radicale trasformazione della politica culturale
dell’intero Occidente.
Meyer riconosce in effetti che “in order to reclaim Camp-as-Critique,
the critique silenced by the 1960s, which finds its voice solely when spo-
ken by the queer, we cannot reverse the process of banishment by eject-
ing the un-queer from the discourse. That kind does not belong to the
1
queer”. Un tentativo di espungere il non-queer (ossia, il non-gay) è
proprio ciò che presiede alla definizione di Meyer (“there are not diffe-
rent kinds of Camp. There is only one. And it is queer”). Il queer non ha
tuttavia il potere di escludere, perché appunto non prevede un orizzonte
di proprietà di sé e del ‘proprio’ discorso, che di per sé esiste in quanto
secondario, copia di un originale assente. E a fronte di ciò, risulta eviden-
te la fallimentarietà di chi, come Meyer, risponde a un’intrinseca instabi-
lità, performatività, vacuità profonda del queer, utilizzando le medesime
strategie (e nella medesima direzione) che la cultura dominante tardovit-
toriana ha dispiegato nel gestire l’eversività, che era segnica prima anco-
2
ra che sessuale, del queer per antonomasia – di Oscar Wilde.
1
Moe Meyer, “Introduction: Reclaiming the Discourse of Camp”, cit., p. 10.
2
Non è irrilevante sottolineare come Meyer parli, a proposito del ‘Camp’, di un suo
queer signified quale suo unico legittimo signified, e dell’omosessuale quale unico legit-
timo referente: “‘Notes on Camp’ complicated the interpretations by detaching the si-
gnifying codes from their queer signified. […] By removing, or at least minimizing, the
connotations of homosexuality, Sontag killed off the binding referent of Camp – the
Homosexual – and the discourse began to unravel as Camp became confused and con-
flated with rhetorical and performative strategies such as irony, satire, burlesque, and
travesty; and with cultural movements such as Pop”. Moe Meyer, “Introduction: Re-
claiming the Discourse of Camp”, cit., p. 5, 7. La queerness, lo si è detto, investe peral-
tro non solo l’asse del gender, ma più latamente le strutture segniche, il rapporto di
dominazione che va a un tempo con le gerarchie sessuali e quelle non specificamente
sessuali, e che si esercita in primissima istanza sulla costituzione di naturalità nel segno
ALTRI TRADIMENTI 219

Il conforto ‘decisivo’ alla propria tesi prodotto da Meyer sarebbe del


resto il fatto universalmente accettato dai commentatori che, come si ri-
portava nel capitolo 2, la prima attestazione del lemma camp risalga al
1909 nel dizionario di slang tardovittoriano curato da J. Redding Ware,
apparso quale aggiornamento – con i ‘nuovi conii’ – di un lavoro di John
1
Farmer e W. H. Henley, in sette volumi apparsi fra il 1890 e il 1905. Meyer
ne deriva, in modo un poco affrettato, che il lemma sia entrato nella lin-
gua inglese negli anni intercorsi fra i due dizionari, e verosimilmente nei
2
primi anni della decade. Questa precisa collocazione storica del nuovo
conio linguistico, e la sua caratterizzazione sia in fase definitoria ‘da di-
zionario’, sia di circolazione nello underworld teatrale urbano, spingono
Meyer a identificare l’origine del camp nell’origine del soggetto omoses-
suale come ‘tipo umano’ in Gran Bretagna, vale a dire nei processi a Wil-
de del 1895 (si confronti la sezione 9.2). In quei processi cioè che costitui-
rono il paradigma indiziario di riconoscibilità dell’omosessuale-come-
tipo, rendendolo identificabile perché articolato sul piano dell’effeminata
teatralità wildiana.
Poco importa, potrebbe insomma ribattere Meyer, che l’omosessualità
non sia la ragione od origine profonda del camp: essa lo è come effetto
discorsivo. Essendo nati il camp e l’omosessuale-come-tipo ad un tempo,
i due sono inestricabili: e quello che può essere inteso come un’applica-
zione di un quadro epistemologico borghese è in realtà un necessario
inquadramento di un fenomeno costituitosi come effetto del quadro epi-
stemologico stesso. Questa risposta, che tace il problema dell’inclusione
dell’omosessualità ‘naturale’ (formulata su basi ontologiche radicalmente
opposte a quelle di Wilde come tipo umano), o dell’esclusione di tutto
ciò che non sia gay e maschile, sembra riconciliare la chiave proposta di
Meyer con un criterio di operatività. Sembra, ma per un attimo soltanto: il
tempo cioè di verificare che esiste almeno una attestazione precedente a
quella del dizionario di J. Redding Ware. Nel 1869, una lettera inviata da
Frederick Park a Lord Arthur Clinton recita:

(nei suoi rapporti fra significante, significato, e referente). Con il postulare in chiave
fondamentale un queer (vale a dire, qui, gay) signified e un Homosexual referent, non si fa
altro che stabilizzare in codice consensuale una chiave articolata sulla crisi dei codice,
dei segni, e attraverso questi delle gerarchie culturali.
1
Si confronti supra, la nota 1 a pagina 24.
2
Moe Meyer, “Under the Sign of Wilde: An Archaeology of Posing”, in Moe Meyer
(ed.), op. cit., p. 75.
220 TIRANDO LE FILA

I should like to live to a green old age. Green did I say? Oh, ciel! The
amount of paint that will be required to hide that very unbecoming
tint. My campish undertakings are not at present meeting with the
success they deserve. Whatever I do seems to get me into hot water
somewhere. But n’importe. What’s the odds so long as you’re happy?
Believe me,
your affectionate sister-in-law,
Fanny, Winifred, Park.1

Il contesto, anche qui, sembra in effetti parlare l’omosessualità dello scri-


vente, e con ciò confortare la tesi di Meyer: le connotazioni ‘perverse’ del
verde, l’utilizzo aristocratico, effeminato e poseur del francese, la rinomi-
nazione di sé al femminile (‘Fanny’). L’identità di Frederick Park, tuttavia,
risulta nel quadro costruzionista di Meyer non riconducibile all’omoses-
suale-come-tipo-umano inaugurato dai processi Wilde del 1895. Il caso
di Frederick Park è stato citato dalla critica come eloquente perché, pro-
cessato nel 1871 con Ernest Boulon per sodomia (il reato di omosessuali-
tà ancora non esisteva), venne assolto nonostante fosse interamente ri-
conducibile agli indici di ‘colpevolezza’ che furono codificati con i pro-
cessi Wilde. Può darsi, sì, che Park abbia commesso atti di sodomia, o
che partecipasse di un gusto same-sex, e che fosse queer in accezione sto-
rica (“Whatever I do seems to get me into hot water somewhere”: si con-
frontino le definizioni di queer di cui sopra), ma ciò non ne fa un omoses-
suale in senso normativo (medico-legale), o un queer nel senso post-
2
wildiano investito da Meyer sulla configurazione del ‘Camp’.
Uno dei più nitidi suggerimenti del camp risiede nel fatto che nei fal-
limenti e/o ‘tradimenti’ della complessità si dia un luogo di costituzione
del sapere oppositivo che emerge dalla storia e dalla teoria del camp

1
Cit. in Neil Bartlett, Who Was That Man? A Present for Mr. Oscar Wilde, London:
Serpent’s Tail, 1988, p. 168. Una seconda attestazione sarebbe disponibile secondo A.
St. John Grahame in un pamphlet del “little-known Nonconformist radical Jacob Ca-
dley” – The Feet of Men, del 1849 – di cui non si è peraltro resa possibile la consultazio-
ne (il volume non è disponibile nelle maggiori biblioteche britanniche, in cui si è com-
piuta la ricerca, né alla Library of Congress di Washington). Affidandosi a A. St. John
Grahame, il pamphlet conterrebbe una precoce attestazione del lemma “in its present
context”. A. St. John Grahame, “Camp”, New Statesman, 16 June 1967, p. 833. Dato che il
“present context” di camp non è, come s’è visto, affatto privo d’ambiguità, questa si
ripercuote in via immediata sulla (eventuale) precoce attestazione.
2
Questa è in breve la tesi di Alan Sinfield, che in The Wilde Century, cit., investiga la
circolazione delle sessualità e dei costrutti identitari britannici in chiave cultural-
materialista sulla scorta della Histoire de la sexualité foucaultiana. La questione occupe-
rà per esteso la sezione 9.2.
ALTRI TRADIMENTI 221

stesso. E il fallimento di un’impresa di definizione normativa qual è quel-


la di Meyer spinge ad articolare una chiave, questa volta appropriata-
mente contorta e ‘debole’, funzionale allo (e rispettosa dello) statuto di-
scorsivo del camp – intendendo discorsivo in opposizione alla rigidità
stabile del codice (che può essere ricondotto a ‘proprietà’, quella proprietà
che l’approccio normativo di Meyer all’atto pratico ripropone) – che con-
senta l’accesso all’architettura ‘sghemba’ in quanto queer del camp. È
sufficiente reinvestire le critiche alla normatività di Meyer e del suo uti-
lizzo di camp come queer, avanzate nelle pagine precedenti a partire dalla
consapevolezza di ciò che costituisce il queer, vale a dire il suo malessere
(o non-essere) disorganico, il suo principio di falsificazione e ambigua
sovversione, la sua stortura e devianza. Si tratta cioè di pensare il camp –
in quanto queer – come un sapere travestito, come un sapere del margi-
ne, del dissenso e della mobilità sui piani del discorso, in accordo a
quanto visto nel capitolo 6.
La ‘sfida ontologica’ del queer alle modalità costitutive del subject bor-
ghese va insomma intesa come esercitantesi in prima battuta sul camp
come subject-matter, al camp come proprietà di una prospettiva critica, e
come architettura stabile, con fondamenta profonde che ne ancorìno la
circolazione legittima a un ordine di gravità – di ‘serietà’ senz’altro, ma
1
anche di tendenza alla stabilizzazione verso un centro di profondità. Il
principio di incongruità che si riscontra, su più piani, nella fenomenologia
del camp, va ri-conosciuto come prerogativa del camp in quanto pro-
blematica e costruzione storico-teorica, che delegittima pertanto le vel-
leità di identificazione di una unitarietà organica che gestisca la fonda-
1
In linea con quanto osservato precedentemente sulla rivendicazione di Meyer come
rivendicazione di una (personalissima) autorità culturale di matrice tutta borghese, va
registrato il suo lamento nei confronti del fatto che la rimozione della gayness abbia
reso il camp un terreno indagabile in termini di, e un modello analitico investibile su,
“art history, carnival theory, feminist theory, film and television, theater, literary the-
ory, Marxist theory, Popular Culture, and even psychoanalytic. Sontag’s erasure of the
queer vacated the subject position so that it became available for general occupation”.
Moe Meyer, The Wilde Body: Camp Theory, Camp Performance, cit., p. 13. Siamo di fron-
te a un paradosso apparente: si lamenta il fatto che diverse prospettive, che estenuano
l’intero scenario critico angloamericano, si siano esercitate sul camp, e che vi identifi-
chino dei punti di salienza (o interesse) critica. La spiegazione al paradosso sta nella
rivendicazione di proprietà dell’argomento – il ‘Camp’ è gay, e solo la prospettiva gay
può avvicinarlo, possederlo criticamente, e investirlo sul mercato accademico. Non è
necessario rimarcare come ciò partecipi pienamente del processo di partage che fou-
caultianamente si può indicare quale strategia borghese di vigilanza dei discorsi, e che
la queer theory, almeno nelle sue premesse e ambizioni enunciate, scardina fondamen-
talmente.
222 TIRANDO LE FILA

mentale dis-organicità, esuberanza, ec-centricità, mobilità ed evanescen-


za, della ‘questione’. Una prima applicazione del riconoscimento di que-
erness del camp investirà pertanto le griglie dicotomiche, attraverso la
quale si è tentato di gestire la problematica.
Lo ‘stato della questione’ il cui disegno ha presieduto al percorso fin
qui tracciato può essere infatti riassunto in una serie di opposizioni, for-
mulate all’interno di una logica binaria. Da un lato si sono incontrate ca-
tegorie prodotte per evidenziare un dato primario all’interno della feno-
menologia camp, , come ‘naive’ vs. ‘deliberate Camp’; ‘camp’ vs. ‘non-
camp’; ‘pure’ vs. ‘camp spurio’; ‘True Camp’ vs. ‘Camp lite’, ‘black camp’
vs. ‘camp’, per giungere fino al meyeriano ‘Camp’ vs. ‘Pop camp’. Dall’al-
tro opposizioni la cui finalità è quella della descrizione del camp nelle sue
modalità operative, e nei suoi effetti all’interno della cultura in quanto
strategia rappresentativa: camp-come-sensibilità vs. camp-come-stile/
gusto; camp-come-omosessualità vs. camp-come-dimensione estetica;
camp-come-innaturalità/inautenticità vs. camp-come-naturalità/autenti-
cità; camp-come-codice segreto vs. camp-come-ostentazione; camp-
come-indice di visibilità/riconoscibilità vs. camp-come-indice di invisibi-
lità/irriconoscibilità (il passing); camp-come-espressione omosessuale vs.
camp-come-reticenza (l’obliquità della comunicazione) omosessuale;
camp-come-prassi aristocratica vs. camp-come-prassi democratico; camp-
come-ironia vs. camp-come-parodia; camp-apolitico vs. camp-politico;
camp-progressista vs. camp-reazionario. La serie, che comprende e or-
dina uno stuolo di tasselli fra loro correlati, potrebbe essere estesa inde-
finitamente. Pensare il camp come queer suggerirà dunque di decostruire
tali opposizioni binarie, di investire cioè la trasversalità della queerness
sull’edificio del camp – il che coincide del resto con quanto si è cercato di
offrire nel percorso che ci ha accompagnato fin qui. Il camp sarà, in altri
termini, non relegabile a un solo polo originario, bensì distribuito su en-
trambi, ossia nel movimento oscillante e indecidibile che impone la sua
trasversalità (e infatti queer “signifies an illogical stab of doubt, the sensa-
tion of wavering between two interpretations – a hesitation that marks
[…] the horror that comes from not being able to explain away an un-
1
canny doubleness”, afferma Koestenbaum).
Una seconda applicazione del ripensamento del camp in chiave di
queerness investe il problema della stessa origine linguistica della nozio-
ne. A fronte del riconoscimento di una incertezza sull’origine etimologica
1
Wayne Koestenbaum, Double Talk, cit., p. 147.
ALTRI TRADIMENTI 223

del lemma fin dal suo emergere all’attenzione pubblica, diverse ipotesi
sono state formulate nel tentativo di postulare un’elemento fondativo di
sorta. Si va così dalla versione più accreditata, che fa derivare camp dal
francese se camper, a quella che indica nell’italiano campeggiare una pos-
1
sibile fonte. I suggerimenti si sono fatti negli anni sempre più confusi e
contraddittori, riproducendo del resto la confusività dello ‘stato della
questione’ che si è disegnato nei capitoli precedenti.
Tale confusione emergeva già quasi nella sua interezza nella rubrica
delle lettere al New Statesman del giugno 1967, sulla scorta della richiesta
di chiarimenti in proposito da parte di un lettore: da un fantasioso ‘Josiah
Camp’, “[a] more than usually flamboyant and precious 18th-century
English actor” che avrebbe lasciato un’indelebile, pesante (e inverosimi-
le) eredità nel linguaggio, a un altrettanto sospetto ‘KAMP’, acronimo di
“Known As Male Prostiture”, diffuso “on certain files in the Los Angeles
Police Department at one time”. Ma si incontra anche una più complessa
derivazione avanzata da Michael Allen: “[i]n the days when actors wan-
dered from village to village they often lived rough in tents. This was
camping. When one actor moved in to share the tent of another he was
2
said to be camping with him”; per finire quindi con l’ancora più artico-
lato suggerimento di Pat Raymond:

The original derivation must be from either fight or field, the two cun-
current in the field of battle – Latin campus […], Greek kepos – garden.
An Army would pitch on this site, the fight itself being on a campania,
plain, which gave us campaign. Camp in Middle English was battle,
kampf in German. Champagne as an area is named from the Italian for
plain and we get everything from champagne itself to champion to
champing at the bit. And quaint and akimbo – crooked. So camp: a
bubbly, emotive word for something quaint and (still legally) crooked.3

Per quanto la sede da cui sono stati proposti non spinga a caratterizzare
tali suggerimenti come autorevoli al di là di ogni ragionevole dubbio, la
ricerca ‘scientifica’ non ha prodotto esiti radicalmente distanti. In parti-
1
A questi etimi si è accennato nel capitolo 1. Se camper è stato proposto in prima
battuta da Alan Brien, “Camper’s Guide”, New Statesman, 23 June 1967, pp. 873-874,
mentre campeggiare fu indicato tre anni più tardi da Harford Montgomery Hyde, The
Love that Dared not Speak Its Name: A Candid History of Homosexuality in Britain. Boston:
Little, Brown, 1970, p. 22.
2
Cfr. Desmond Chawdhry, Raymond Allen, e Michael Allen, “Camp”, New States-
man, 9 June 1967, p. 796.
3
Cfr. Pat Raymond, “Camp”, ibidem.
224 TIRANDO LE FILA

colare, la proposta di origine teatrale e quella geografico-militare, che del


resto si correlano intuitivamente ai più accreditati se camper o campeggiare,
possono essere recuperate dal loro statuto di boutade, qualora si registri
che – come informano Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant nello splen-
dido Les Ruses de l’intelligence – la radice *kamp si applica in greco “à ce
1
qui est courbe, pliable, articulé”, inserendosi nell’apparato dell’irridu-
cibile ambiguità della mètis (la ‘intelligenza dell’inganno’ cui è dedicato
l’intero volume) del pensiero greco:
Les traits essentiels de la mètis que nos analyses ont dégagé: souplesse
et polymorphie, duplicité et équivoque, inversion et retournement, im-
pliquent certaines valeurs attribuées au courbe, au souple, au tortueux,
à l’oblique et à l’ambigu, par opposition au droit, au direct, au rigide et
à l’univoque.2

Camp: quaint e akimbo, se camper e campeggiare (o ancora, si può aggiun-


gere, campire, in senso pittorico). Senza voler improvvisare una ricerca
etimologica che richiederebbe competenze e spazi di riflessione che qui
non si dispongono, è possibile tuttavia registrare una costante presenza
nelle lingue romanze (latino, italiano, francese), e – possibilmente deri-
vate attraverso queste ultime – nelle lingue germaniche (tedesco e ingle-
se) di un nesso lessicale riconducibile alla radice *kamp e presieduto
dall’ambiguità, dalla stortura e dalla deviazione, dall’eccentricità e dall’in-
versione. In altre parole, camp come queer: camp come queer in quanto
modalità esistentiva e comunicativa – di gestione degli spazi territoriali,
del corpo, e dell’economia del contratto sociale – indiretta, obliqua e se-
condaria, instabile e improvvisata in relazione a una strategia di confronto
con l’altro da sé; e non ‘banalmente’, dunque, in quanto omosessualità.
Le varie ricostruzioni etimologiche messe in gioco sono cioè da inten-
dersi quali esercizi – promossi dall’instabilità della nozione, e da un atti-
varsi della logica ‘violenta’ del camp stesso – di una sovrapposizione del
presente sul passato, all’insegna dell’interesse interpretativo, dell’inter-
esse quale ‘esistenza relazionale’ dell’oggetto-così-come-è arnoldiano che il
camp demistifica, o in altri termini ostenta. Le varie proposte di deriva-
zione vanno insomma intese quali effetti di uno statuto della nozione, e
di una specifica costruzione di essa da parte di uno specifico posizio-
namento nella cultura e nell’ideologia.
1
Marcel Detienne et Jean-Pierre Varnant, op. cit., p. 55.
2
Ibidem. Alla mètis greca si è già accennato affrontando la questione del camp come
sensibilità supra, nella nota 1 a pagina 32.
ALTRI TRADIMENTI 225

Si è visto nel capitolo 3 che una delle ragioni fondanti la tesi di camp-
come-passing art, o come codice di riconoscimento fra soggetti omoses-
suali, è quella che indica la convergenza fra camp stesso e Polari, il lin-
guaggio usato a metà del secolo scorso dalle compagnie dei teatranti gi-
rovaghi e dei vagabondi, che avrebbe lasciato un’eredità lessicale nel
gergo del sottobosco omosessuale del nostro secolo. La circolazione del
camp in una dimensione teatrale, e itinerante, consente di ripensare la tesi
del passing in una chiave (a sua volta ‘contorta’) che prescinde dal deter-
minismo sessuale. Il camp ne emerge – a livello di subject e di configura-
zione ontologica della problematica – come un esercizio di passing art
nella direzione della teatralizzazione di un’identità performativa e transi-
toria, che non investe la mendacia verso l’inganno dell’altro da sé bensì
1
la riconosce quale principio costitutivo della ‘identità’: un soggetto, e il
discorso che lo teorizza e lo costituisce in quanto tale, come soggetto e
discorso nomadici, per riprendere una fortunata formula che Rosi Brai-
dotti postula, sulla scorta di Deleuze e Guattari, quale figurazione centra-
2
le nel panorama culturale contemporaneo.
In tal senso va inquadrata la mobilità sui piani discorsivi che nel capi-
tolo precedente si è ascritta alla logica camp: mobilità che si modula –
com’è tipico delle popolazioni nomadi – per itinerari ricorrenti e circolari
sui ‘luoghi’ discorsivi della doxa, ‘impropriamente’ occupati dal nomade
attraverso messe in scena o teatralizzazioni dello spazio nel ‘party’ degli
apparati effimeri. (Con ‘apparati effimeri’ si fa qui riferimento alla pratica
– impostasi nell’architettura urbana fra gli anni Settanta e Ottanta del
Novecento – di costituzione di esibizioni ricreative o culturali, altamente
spettacolari e di breve durata, giustapposta – e opposta – alle attività e agli
3
spazi istituzionali e ‘permanenti’.) Lungi dall’essere spazi esclusivi del-
1
Il passing quale lo si intende qui è prossimo alla nozione avanzata da Anna Camaiti
Hostert, Passing. Dissolvere le identità, superare le differenze, Firenze: Castelvecchi, 1996.
Il volume in questione è di fatto dedicato agli sviluppi della teoria femminista italo-
americana; ma tale accezione di passing è accreditata dallo Oxford English Dictionary,
che ne evidenzia l’origine dal latino con la valenza di movimento “the primary significa-
tion was thus ‘to step, pace, walk’, but already in IIth c. OF. it had come to denote
progression or moving on from place to place”. Sub voce ‘Pass’, in The Oxford English
Dictionary (1933), cit., p. 521.
2
Cfr. Rosi Braidotti, Nomadic Subjects, New York: Columbia University Press, 1994.
Braidotti attinge ovviamente, anche se non senza forzature e semplificazioni, alle ri-
flessioni sul rizoma e sulla nomadologia avanzate da Gilles Deleuze et Félix Guattari
raccolte in Mille Plateaux: Capitalisme et schizophrénie II, Paris: Minuit, 1980.
3
Si veda in proposito Leone Podrini, Materiale e immateriale. L’effimero nell’architet-
tura contemporanea, Roma: Maggioli, 1995. Il termine stesso giunge dalla tradizione dei
226 TIRANDO LE FILA

l’omosessuale, camp e queer (e il camp come queer) andranno intesi come


processi discorsivi la cui gestione borghese è passata attraverso l’imposi-
zione di un significato e un referente omosessuale in via legale e sessuo-
logica (cfr. la sezione 9.2), e che dunque comprendono l’omosessualità
come ‘ala’, per così dire, del proprio edificio senza fondamenta, costruito
sulla ‘sabbia’ delle intersezioni discorsive ed epistemiche.
Lo ‘stato della questione’ che si è ripercorso ‘a tappe’ per evidenziare
come esso non sia ricostruibile se non, appunto, a ‘tappe epistemiche’
(orizzontali, e non in profondità), risulta essere d’altro canto – lo si è
ampiamente visto – quanto di meno statico si possa ipotizzare: in breve,
lo stato della questione ‘camp’ è un’ebollizione, un paradigma dell’esube-
ranza. Se il camp ‘è’ qualcosa, è la negazione della profondità dell’essere:
non un codice stabile, ma un discorso a sua volta prodotto dalla conver-
genza e dalla frizione con e fra altri discorsi; non un’architettura stabile e
profonda, come si annunciava già in conclusione al capitolo 1, bensì
un’architettura sghemba: queer, priva di fondamenta. Priva di fondamen-
ta non in quanto falsa problematica (costruzione priva di ragion d’essere
e d’interesse critico), bensì in quanto problematica della falsità, come
prodotta dall’affastellarsi agerarchico di una serie di ‘apparati effimeri’ –
gli apparati effimeri della incessante riarticolazione, sia in chiave di refe-
renza, sia in termini di prospettiva, di un discorso nomadico.
È sulla scorta di questa chiave contorta, e di questa architettura
sghemba, che vanno rigettate quelle rivendicazioni di ‘politicità’ e di
‘proprietà’ del camp come legate a una sua esclusiva modalità di circola-
zione, che Meyer evidenzia in modo clamoroso benché esse non siano
confinabili al suo progetto. Se una premessa inalienabile presiede al po-
stmoderno di Hutcheon e alle riflessioni testualiste sulla Storia e sulla
rappresentazione, questa altro non è che la politicità di ogni rappresenta-
zione e del gioco di appropriazione/espropriazione che questa presup-
pone. Rilevare il che significa evidenziare una clamorosa ingenuità insita
nel progetto di definizione del ‘Camp’ in opposizione alla sua ‘replica’
estetizzata e ‘dunque’ disimpegnata. Anche il sostenere una versione
pregna di portato politico a fronte di una versione disimpegnata, denun-

fasti rinascimentali e barocchi, con il loro largo impiego di apparati effimeri quali fuo-
chi d’artificio, scenografie fittizie, archi di trionfo ecc. Utili per l’inquadramento di que-
sta tradizione sono Maurizio Fagiolo dell’Arco e Silvia Carandini (a cura di), L’effimero
barocco, Roma: Bulzoni, 1978, e Marcello Fagiolo e Maria Luisa Madonna (a cura di),
Barocco romano e barocco italiano. Il teatro, l’effimero, l’allegoria, Roma: Gangemi, 1985.
ALTRI TRADIMENTI 227

1
cia in ultima analisi un’ingenuità che era già di Sontag: vale a dire, il so-
stenere che una forma culturale ‘apolitica’ non sia comunque implicata
in una prassi politica e in una progettualità ideologica. In breve, che esi-
sta un qualcosa che non sia sempre-già-politico, foss’anche il disimpe-
2
gno politico o il dis-interesse. Configurare il camp come parodia post-
moderna, come queer, come ‘party’ o architettura sghemba, significa in-
somma delegittimare l’originalità, la proprietà esclusiva e le prerogative
(o finalità) politiche come intrinsecamente date, siano queste conserva-
trici o sovversive.
La complessità politica, oltre che più latamente ontologica, del camp
dipende pertanto dalla sua stratificazione storico-epistemica, ossia da
come si sono costituiti storicamente degli ‘effetti camp’ – cosa si sia inte-
so con il lemma camp, e che cosa (in termini referenziali) sia stato ascritto
ad esso. Nell’avvicinare una categoria nomade, risulta imprescindibile
localizzarne la configurazione, identificare cioè le comunità che facevano
(un diverso) ricorso ad essa: in breve, determinare chi aveva accesso, e da
quale ‘porta’, al ‘party’ – chi partecipava in veste di ‘invitato’? E con quale
fancy-dress? Chi partecipava invece in quanto ‘escluso’? E com’era evocato
parodicamente dagli eletti, con quale maschera era cioè anch’egli/ella
presente, sia pur in absentia? E come si poneva il party nomadico rispetto
alle culture dominanti, istituzionali e ‘permanenti’? In quale grado di
complicità o di eversività? Quali elementi del party nomade sono stati
cooptati dalla cultura dominante, e come quest’ultima si è riarticolata? E
quali sono le responsabilità di compromissione del party rispetto ad un
riassestamento della cultura istituzionale?
La complessità politica della questione non può essere ridotta attra-
verso un comodo passepartout. Questo perché non è possibile prescinde-
re, oltre che dalla complessità intrinseca alla nozione, dal ruolo che il ge-
sto interpretativo del critico gioca nel determinare la configurazione
dell’architettura sghemba. Bisognerà insomma riconoscere la propria
1
Ingenuità che del resto costituisce in prima istanza il motore della lettura ‘politiciz-
zante’ di Meyer quando afferma che “in order to reclaim Camp-as-Critique, the criti-
que silenced by the 1960s,” sia necessario riproporre ad attenzione la queerness del
camp. Alla luce della riconfigurazione polemica del queer che si è qui offerta, sia Son-
tag sia Meyer partecipano della medesima ingenuità.
2
Nulla – con buona pace di Matthew Arnold – può essere indicato come ‘apolitico’,
come ‘politicamente disimpegnato’ o ‘disinteressato’. Questa posizione coincide per-
lopiù con una naturalizzazione in ‘senso comune’ fortemente sospetta, oppure più
apertamente come forma di conservatorismo, se non di aperta reazionarietà – una for-
ma dunque, che ci piaccia o meno, di impegno politico.
228 TIRANDO LE FILA

parzialità, il proprio inter-esse; e a partire da ciò definire su quale specifi-


co ‘party’, su quale specifica serie di apparati effimeri, e con quali finalità,
si intenda intervenire. Rinunciare, in altri termini, alle generalizzazioni e
riconoscersi come soggetti storici in una pratica storicamente configura-
bile (la critica culturale, ad esempio), su un subject-matter a sua volta sto-
rico. Si tratterà insomma di seguire l’esempio di Gregory Bredbeck, che
in apertura del proprio saggio sulla ‘origine’ del camp omosessuale defi-
nisce – a fronte dei tradizionali interrogativi “that overtly desire a deter-
minism and degree of definition that betray Camp itself” – il proprio par-
ziale utilizzo, la propria parziale analisi, la propria parziale prospettiva, e
rifiuta di proporre “a ‘universalised’ Camp, some type of framework that
will explain every form of Camp to every person. Rather, I am only con-
1
cerned with Camp as it meets these three conditions”. La chiave contorta
corrisponderà, fra gli esempi critici a disposizione, allo “Uses of Camp”
di Andrew Ross, che analizza la configurazione, gli usi e gli interessi
coinvolti dalla circolazione discorsiva – del discorso camp, e del suo rap-
2
porto con le altre discorsività – nel secondo dopoguerra.
Qui si conclude l’avvicinamento al camp in quanto problematica teo-
rica. Nella prossima parte si cercherà di offrire alcuni spunti di analisi
della genealogia della testualità camp, a partire dal riconoscimento della
parzialità del tracciato storico che si disegnerà. Più specificamente, rico-
noscendo che il percorso è presieduto da uno sguardo volto a identificare
le matrici camp che sono intervenute nella costituzione di una testualità
letteraria camp. Se, come affermava Wilde, “the one duty we owe to hi-
3
story is to re-write it”, si ritiene che un ripensamento della storia lettera-
ria del Novecento possa trarre giovamento attraverso l’applicazione
dell’intelligenza strutturale dell’economia culturale del nostro secolo che
il camp-come-discorso consente e promuove.

1
Gregory W. Bredbeck, “Narcissus in the Wilde: Textual Cathexis and the Historical
Origins of Queer Camp”, in Moe Meyer (ed.), op. cit., p. 52.
2
Andrew Ross, “Uses of Camp”, cit.
3
Oscar Wilde, “Phrases and Philosophies for the Use of the Young”, cit., p. 1205.
Parte Terza

Appunti per una genealogia della scrittura camp


Una versione breve della Parte Terza è apparsa come “Camp: l’estetismo nella cultura di
massa” in Franco Marenco (a cura di), Storia della civiltà letteraria inglese, Vol. 3,
Torino: UTET, 1996, pp. 529-69.
8

Le origini discorsive, I
Il secondo dopoguerra

Le difficoltà di identificazione delle ‘origini’ del camp, sulle quali ci si è


ampiamente soffermati nelle pagine che precedono, suggeriscono, nell’in-
tento di abbozzarne un profilo storico, di rivolgere nuovamente lo sguar-
do al momento in cui esso irrompe sulla scena pubblica. Nel secondo
dopoguerra prende infatti forma un paradigma culturale in cui il camp
riveste un ruolo di assoluto rilievo, e nel quale è legittimo identificare
una concomitanza di fattori (quali l’articolazione della cultura di massa e
delle riflessioni sul ‘ruolo’ o ‘identità’ di genere sessuale, della moderna
società dello spettacolo e del postmoderno) che – intersecandosi con es-
so, e offrendosi come quadri discorsivi funzionali alla sua diffusione –
determinano in qualche misura il configurarsi, oltre che della nozione,
1
del suo stesso percorso storico.

8.1. Sfida controculturale e crisi censoria

Gli anni Cinquanta e Sessanta assistono sia in Gran Bretagna sia negli
Stati Uniti a un processo di radicale crisi dei cardini fondanti le istituzio-
ni. L’allargamento dell’istruzione universitaria a ceti sociali la cui forma-
zione era in precedenza penalizzata, l’emergere delle sottoculture giova-
nili, il clima di liberazione sessuale e di costume contribuiscono a dise-
gnare un panorama di straordinaria effervescenza, all’interno del quale le
nozioni tradizionali di autorità culturale dovevano subire un’aggressione
2
di portata epocale.
1
Sulla significatività del camp nel panorama culturale dell’epoca, oltre ovviamente a
“Notes on ‘Camp’”, è imprescindibile Andrew Ross, “Uses of Camp”, cit. Estrema-
mente utili sono anche i vari interventi che appaiono al tempo sui periodici, di cui s’è
detto in apertura del capitolo 3.
2
Si veda Alan Sinfield, Literature, Politics and Culture in Postwar Britain, cit.
232 GENEALOGIA DEL CAMP

In questo periodo, il ricorso alla nozione di camp viene effettuato in-


discriminatamente, a indicare la complessità di fenomeni controculturali
che si facevano portatori di contestazione tanto nel costume quanto nel-
l’ambito specificamente intellettuale, e la nozione stessa diventa di fatto
1
intercambiabile con quella di cultura pop. Questa è l’epoca della ‘Swing-
ing London’, eccitata dai ritmi popolari e sconcertanti degli Who, dei
Rolling Stones e dei Kinks, testimone di una pulsione trasgressiva nella
Moda (la minigonna di Mary Quant, l’infantile androginia di Twiggy) e
nella musica stessa, come segnalava il nome programmaticamente as-
sunto dai Kinks, i quali in “A Dedicated Follower of Fashion” celebrava-
no la conquista da parte delle masse giovanili di uno spazio di dominio
culturale, oltre che di una ‘riconoscibilità’ funzionale alla costituzione di
un senso d’identità (d’appartenenza e d’esclusione) e di un potere di
2
rappresentazione di sé e del mondo, senza precedenti.
La diffusione del camp – all’insegna di quanto era considerato devian-
za e messa in crisi delle distinzioni gerarchiche – trova un possente allea-
to nell’interrogazione promossa durante questi anni sulla sfera della ses-
sualità, a partire dalla pubblicazione negli Stati Uniti dei Rapporti Kinsey
tra il 1948 e il 1953, per poi toccare l’istituzione della censura in seguito
alla prima pubblicazione completa di Lady Chatterley’s Lover di D. H.
3
Lawrence nel 1960. Le riflessioni sul gender role proposte fra il 1957 e la
fine del decennio successivo partecipano di una medesima temperie di
1
Della sovrapposizione fra pop e camp negli anni Sessanta offrì per primo un reso-
conto George Melly, Revolt into Style: The Pop Arts in Britain (1970), Oxford: Oxford
University Press, 1989. Il contributo di Melly ha un puro valore di documentazione
storica: maggiormente analitico è peraltro Jennifer Doyle, Jonathan Flatley, and José
Esteban Muñoz (eds.), op. cit.
2
Intorno alla scena controculturale della musica pop dell’epoca è estremamente utile
la ricognizione storicografica offerta da Iain Chambers, Urban Rhythms: Pop Music and
Popular Culture, London: Macmillan, 1985, e da Dick Hebdige, Subculture: The Meaning
of Style, London: Methuen, 1979. Si vedano inoltre Jon Savage, “The Enemy Within:
Sex, Rock and Identity”, in Simon Frith (ed.), Facing the Music, New York: Pantheon,
1989, e Van M. Cagle, Reconstructing Pop/Subculture: Art, Rock, and Andy Warhol, Lon-
don, Sage, 1995.
3
La pubblicazione priva di censure di Lady Chatterley’s Lover diede luogo a un caso
giudiziario nel 1960, registrato in C. H. Rolph (ed.), The Trial of Lady Chatterley, Har-
mondsworth: Penguin, 1961, e in Charles Rembar, The End of Obscenity: The Trials of
“Lady Chatterley”, “Tropic of Cancer” and “Fanny Hill”, London: André Deutsch, 1969,
pp. 15-160. Sul processo, e più in generale sulla contestazione degli assunti di naturali-
tà o di ordine transtorico portata sul terreno della sessualità dagli anni Sessanta si con-
sultino Jonathan Dollimore, “The Challenge of Sexuality”, in Alan Sinfield (ed.),
Society and Literature 1945-1970, London: Methuen, 1983, pp. 51-85; e Jeffrey Weeks,
Sex, Politics and Society: The Regulation of Sexuality since 1800, cit., pp. 249-272.
LE ORIGINI DISCORSIVE, I 233

ripensamento della sessualità come dato naturale e fondativo del compor-


tamento sociale che si fa corrispondere quale sua altrettanto ‘naturale’
1
espressione.
D’altro canto, le stesse controculture giovanili attivavano un processo
di liberazione sessuale e promuovevano una prassi (e una contro-
ideologia) in cui il confine tra femminile e maschile – nell’abbigliamento,
ma soprattutto nei ruoli sociali – risultasse di fatto oscillante. La tenden-
za a una prassi meno costrittiva prenderà via via corpo, conducendo alla
2
prima depenalizzazione dell’omosessualità, sia pur vincolata, nel 1967.
Non a caso è in questi anni che Quentin Crisp – la cui dedizione camp al
trucco e al travestimento esibito (“I wore make-up at a time when even
3
on women eye-shadow was sinful”) lo aveva esposto negli anni prece-
denti la guerra a gravi vessazioni – raggiunge la fama con l’autobiografia
4
The Naked Civil Servant, di cui sarebbe stata realizzata in seguito anche
una versione televisiva, per poi diventare un’istituzione omosessuale nel
corso degli anni Ottanta, una presenza costante nei programmi televisivi
popolari, ‘incoronata’ infine nel ruolo della regina-travestito Elisabetta I
nell’Orlando cinematografico diretto da Sally Potter nel 1992.
L’allentarsi dei vincoli censorî promuove in quegli anni una rappre-
sentabilità senza precedenti del travestitismo e dell’omosessualità – si
pensi anche solo a film come The Victim (1961) di Basil Dearden, o a do-
cumentari come The Queen (1968) di Frank Simon –, oltre che la parziale

1
L’espressione stessa gender role appare per la prima volta in John Money, J. G.
Hampson and J. L. Hampson, “Imprinting and the Establishment of Gender Roles”,
Archives of Neurology and Psychiatry, 77, 1957, pp. 333-336. Al lavoro di John Money è
anche riconducibile l’espressione gender identity – distinta rispetto al ruolo (la dimen-
sione pubblica della sessualità) in quanto esperienza privata dello stesso – nel glossario
a John Money and Anke H. Ehrhardt (ed.), Man and Woman / Boy and Girl: The Differen-
tiation and Dymorphism of Gender Identity from Conception to Maturity, Baltimore: Johns
Hopkins University Press, 1972. Un’altra figura imprescindibile della riflessione dell’epo-
ca in merito è senz’altro Robert J. Stoller, cui si deve Sex and Gender, London: Hogarth,
1968. Fra gli studi che ricostruiscono questo panorama di riflessioni quali premesse alla
ricerca contemporanee di possono consultare John Money, Gendermaps: Social Con-
structionism, Feminism, and Sexosophical History, New York: Continuum, 1995; Gilbert
Herdt (ed.), Third Sex, Third Gender: Beyond Sexual Dimorphism in Culture and History,
New York: Zone, 1994; e David T. Evans, Sexual Citizenship: The Material Construction
of Sexualities, London: Routledge, 1993. Utili nella loro veste introduttiva sono in que-
sta direzione Stephanie Garrett, Gender, London: Tavistock, 1987; e Maria Nadotti,
Sesso e genere, Milano: Il Saggiatore, 1996.
2
Cfr. Leslie Moran, op. cit.
3
Quentin Crisp, The Naked Civil Servant, London: HarperCollins, 1985, p. 5.
4
L’autobiografia di Crisp apparve nel 1968 per i tipi della Jonathan Cape di Londra.
234 GENEALOGIA DEL CAMP

rimozione dello stigma dalle vicende che avevano condannato Oscar Wil-
de al carcere, di cui sono testimonianza i due film apparsi in Gran Breta-
gna nel 1960 (Oscar Wilde di Gregory Ratoff, e The Trials of Oscar Wilde
1
di Ken Hughes).
Questo clima di sollecitazione in ogni prospettiva, e il panorama ur-
bano che nel 1964 si sarebbe trasferito negli Stati Uniti con la cosiddetta
‘British Invasion’, prediligeva forme di cultura manifestamente popolari e
2
di consumo in quanto opposte ai canoni stabiliti del ‘buon gusto’. Tele-
visione, musica rock e revivalismo consumistico si offrivano a una frui-
zione fondamentalmente anti-intellettualistica, che privilegiava l’intrat-
tenimento e l’eccitazione alla seriosità che all’epoca si faceva coincidere
con la cultura ‘alta’, con le avanguardie storiche nelle arti e – in ambito
3
letterario – con il canone e le metodologie del New Criticism.
I gruppi giovanili che popolavano Londra – Teds e Mods – rivolgeva-
no il loro sguardo al passato, in una riscoperta di stili (l’abbigliamento
edoardiano dei Teds, il diffuso gusto per l’oggettistica di epoca vittoriana
che alimentava i Mods e con questi il fiorire di Carnaby Street e di innu-
merevoli ‘mercatini delle pulci’), in un revivalismo insomma che trovava
la propria ragion d’essere nella disillusione polemica verso le gerarchie
sociali e culturali dell’epoca. Il cospicuo successo riportato da The Boy
Friend, la commedia musicale di Sandy Wilson del 1953 dalla quale sarà
tratto vent’anni dopo l’omonimo film di Ken Russell con protagonista
Twiggy, poggiava sull’omaggio ai cliché più estenuati del musical anni
Venti (nel rifacimento di Russell saranno le coreografie caleidoscopiche
della Hollywood anni Trenta di Busby Berkeley), nella quale si inscenava

1
Intorno ai film citati si vedano le considerazioni in Rebecca Bell-Metereau, op. cit.,
pp. 117-118.
2
Tale ‘invasione’ è registrata in “The Girl of the Year” di Tom Wolfe, un’intervista con
Baby Jane Holzer (‘superstar’ della Factory di Andy Warhol) apparsa nel supplemento
domenicale del New York Herald Tribune del 6 dicembre 1964, ristampata in Tom Wol-
fe, The Kandy-Kolored Tangerine-Flake Streamline Baby, New York: Farrar, Straus & Gi-
roux, 1965, pp. 157-169, e quindi in The Purple Decades, ibidem, 1982, pp. 99-110.
3
Si confronti in merito Andreas Huyssen, After the Great Divide: Modernism, Mass
Culture and Postmodernism, London: Macmillan, 1988, pp. 164-165. È peraltro in questi
anni che si avvia sia negli Stati Uniti sia in Gran Bretagna il ripensamento dell’istitu-
zione della critica – cui l’emergere della nozione di camp a opera di Sontag sembra per
molti versi riconducibile – che lascia profonde tracce nel panorama critico contempo-
raneo. Sulla trasformazione che il secondo dopoguerra impone ai criteri di legittimità
del ‘farsi critico’, oltre che in Literature, Politics and Culture in Postwar Britain, cit., Alan
Sinfield si sofferma in Cultural Politics–Queer Reading, cit. Una rassegna della trasfor-
mazione epocale in questione è offerta nel mio “‘Oscar Wilde’ e i materialisti”, cit.
LE ORIGINI DISCORSIVE, I 235

una finishing school il cui ‘perfezionamento’ consiste unicamente nella


1
ricerca di “That certain thing called ‘The Boy Friend’”. Attraverso un
pastiche pressoché indistinguibile dagli originali i cui stili erano mutuati
(l’ironia è tanto più efficace quanto meno ‘decidibile’, vale a dire quanto
più elitaria) e una fruizione nostalgica di un’epoca irrecuperabile, era
possibile – secondo le strategie del camp – abbracciare l’arte popolare
con un distanziamento temporale (si celebrava il démodé) e ideologico
rispetto tanto alla seriosità dell’intellighenzia quanto alla cultura borghe-
se, di cui si avvilivano le istituzioni (nello specifico, l’apparato educativo
e il romance matrimoniale). Una celebrazione insomma del genere che –
nell’enfatizzarne il carattere stereotipico – lo ‘svuota’ dall’interno.
La sfida portata dalle controculture degli anni Sessanta alla tipizza-
zione sessuale, esemplificata in modo vistoso nell’androginia della gran
parte degli idoli musicali del tempo (la ‘regina’ dei Mods Dusty Sprin-
gfield, i già menzionati Kinks che in “Lola” inneggiavano alla intercam-
biabilità dei generi sessuali, Mick Jagger, e poi Alice Cooper, i Velvet
Underground, le New York Dolls e soprattutto le maschere asessuate as-
sunte da David Bowie), non evitò ovviamente di produrre un atteggia-
mento reazionario, identificabile in quel trionfo degli stereotipi che è il
film di spionaggio e in particolare la serie di James Bond, la cui iperma-
2
scolinità si confronta con modelli altrettanto marcati di femminilità.
Lo statuto di spia in lotta con le forze del Male si offriva a una perce-
zione camp per più di una ragione. Da un lato, il registro fumettistico dei
film di Bond denunciava la loro artificiosità, tanto nella costruzione ci-
nematografica quanto nella messa in scena e nella netta (infantile) divi-
sione tra Bene e Male. In seconda battuta, la demonizzazione dell’impero
sovietico da parte delle democrazie occidentali produsse un discorso
fondato su facili teorizzazioni psicologiche in cui marxismo, omosessuali-
tà e predisposizione allo spionaggio (al tradimento dell’Alleanza Atlantica)
3
risultavano sovrapposti. La condizione gay, infatti, richiedeva una falsità
d’atteggiamento attraverso la quale era possibile insinuarsi come ‘nemico’
1
Sandy Wilson, The Boy Friend: A Musical Play, London: French, 1961, p. 4.
2
Sui film di James Bond in relazione al travestitismo si sofferma Rebecca Bell-
Metereau, op. cit., pp. 145-146. Interamente dedicato al ‘mito’ di James Bond, e alle sue
implicazioni politiche, è Tony Bennet and Janet Woollacott (eds.), Bond and Beyond:
The Political Career of a Popular Hero, London: Macmillan, 1987.
3
Una ricognizione puntuale della sovrapposizione fra omosessualità e predisposi-
zione al ‘tradimento’ operata diffusamente nel secondo dopoguerra è disponibile in
Alan Sinfield, “Queers, Treachery and the Literary Establishment”, in Literature, Poli-
tics and Culture in Postwar Britain, cit., pp. 60-85.
236 GENEALOGIA DEL CAMP

nel consorzio civile, in posizione analoga a quella della spia. La prassi


sovietica, con la sua enfasi sulle uniformi asessuate, era letta quale opzione
estetizzante e manifestamente gerarchica in alternativa alla Libera Società
occidentale. È significativo in questo senso che James Bond si scontri con
spie en travesti e omosessuali in From Russia with Love (1963) e in Gol-
dfinger (1964). Solo il ricorso in difesa della Patria alle medesime strategie
di travestitismo spionistico legittimava l’infrazione dei tabù di promiscui-
tà – infrazione che tuttavia salvaguardava i vincoli di eterosessualità.
L’occhio camp si attivava nella sovversione di tali vincoli, e della legit-
timità di questa trasgressione autorizzata. Se in film come Modesty Blaise
(1966) di Joseph Losey e Casino Royal (1967, girato a più mani) si parodia-
va il mito tingendolo di grottesco in un ‘eccesso’ di mise en scène, tale per-
cezione ‘deviata’ dell’agente di controspionaggio presiede a lavori come
la serie The Man from C.A.M.P. di Victor Banis (sotto il nom de plume Don
1
Holliday), il film Spy on the Fly diretto da Ray Harrison con il gruppo
underground del Gay Girls Riding Club alla fine degli anni Sessanta e
2
“Bond Strikes Camp”, il racconto di Cyril Connolly apparso nel 1962.
Nel romanzo di Banis l’acronimo C.A.M.P. indica una organizzazione
segreta che, pur modellata su quella in cui operava Bond, è presieduta da
un oscuro burattinaio di nome ‘High Camp’ e volta proprio alla promo-
zione dell’omosessualità. Il film di Harrison sminuisce (e perverte) l’agente
007 in ‘agente 0069’, costringendolo per ragioni di stato a travestirsi in
abiti femminili, per chiudersi con la ‘conversione’ dell’eroe in un travesti-
to a tempo pieno. In “Bond Strikes Camp”, infine, Bond è convocato dal
capo M che fa appello al suo patriottismo, incaricandolo di insinuarsi fra
le trame di un complotto comunista sotto le mentite spoglie di ‘Gerda
Blond’, per lusingare così i desideri omosessuali del regista del complotto
e sabotarne la missione eversiva. Nuova Mata Hari con licenza di uccide-
re (ma armato di pistola ad acqua), B(l)ond scoprirà che il comunista da
irretire altri non è che M. Da tale gioco di travestimenti e fraintendimenti
emerge una totale sovversione dell’intersecarsi di marxismo, tradimento
della Patria e omosessualità cui si accennava poc’anzi: l’appello all’amor
patrio auspica una pratica omosessuale che non è prerogativa del sociali-
smo reale bensì delle istituzioni occidentali. Il tradimento, inoltre, non è

1
Il primo degli otto romanzio che compongono la serie appare come Don Holliday,
The Man from C.A.M.P., Los Angeles: Leisure Books, 1966.
2
Cyril Connolly, Bond Strikes Camp, Sherval Press, 1963 (ma effettivamente apparso
alla fine del 1962).
LE ORIGINI DISCORSIVE, I 237

perpetrato dall’omosessuale bensì dall’eterosessuale Bond, che spingerà


1
M al suicidio per impadronirsi della sua carica. La celebrazione camp
della cultura di massa (con relativa presa di distanza) si offriva insomma
come strumento sovversivo nei confronti degli edifici ideologici del tempo.
Ancor più radicata nella tensione epocale fra istanze libertarie e ten-
denze reazionarie fu l’opera di Joe Orton. Il teatro ortoniano recupera la
raffinata vivacità delle battute wildiane e i modelli del teatro del Seicento,
giustapponendoli a un linguaggio urbano, per così dire ‘triviale’, composto
di formule prosaiche attinte da rotocalchi, pubblicità, gerghi popolari, soap
operas televisive e film di second’ordine, in un pastiche in cui l’artificio
levigatissimo risolve ogni distinzione tra linguaggio teatrale (‘alto’) e
quotidiano. La trasgressività della commistione di registri risulta peraltro
partecipe di una più ampia iconoclastia il cui umorismo ‘nero’, beffardo e
grottesco, intacca ogni forma di autorità e di dogmatismo che si spaccia
quale ordinamento naturale delle cose. L’esercizio di potere da parte del-
le istituzioni viene presentato come sopruso, e corroso attraverso una ri-
sata tanto amara quanto eversiva. Si veda in Loot (1966) lo scambio fra
Truscott – l’autorità di polizia – e il giovane che, sospettato di aver preso
parte a una rapina, è stato brutalmente percosso:
TRUSCOTT. What were you suspected of?
DENNIS. The bank job.
TRUSCOTT. And you complain you were beaten?
DENNIS. Yes.
TRUSCOTT. Did you tell anyone?
DENNIS. Yes.
TRUSCOTT. Who?
DENNIS. The officer in charge.
TRUSCOTT. What did he say?
DENNIS. Nothing.
TRUSCOTT. Why not?
DENNIS. He was out of breath with kicking.2

La ‘naturalezza’ con la quale viene proposto questo scambio di battute


contrasta con l’evidente assurdità (la qualità di non-senso) della situa-
1
La sovversione in chiave camp del ‘mito’ di Bond è significativa per il suo ruolo
nell’economia culturale degli anni Sessanta. La copertina dedicata al camp dal sup-
plemento illustrato dello Observer annunciava infatti un intervento di Ronald Bryden –
“Spies who Came Into Camp” – interamente dedicato alla funzionalità sovversiva del-
la secrecy camp per il fenomeno di Bond e dei film di spionaggio che proliferano du-
rante la Guerra Fredda.
2
Joe Orton, Loot, in The Complete Plays, London: Methuen, 1988, pp. 245-246.
238 GENEALOGIA DEL CAMP

zione, mettendo in crisi i quotidiani presupposti di normalità e liceità. Il


gusto ortoniano dell’assurdo corrode le autorità che più si celano dietro
una maschera di rispettabilità e utilità sociale, come nel caso della medi-
cina psichiatrica, il cui appello all’autorevolezza della scientificità nascon-
deva un volontà inquisitoria, categorizzante, e prescrittiva (‘poliziesca’) di
un ordine di naturalità nella quale la devianza andava recuperata. Il dot-
tor Rance in What the Butler Saw (1969) è ad esempio un sovrintendente
1
psichiatrico oltre che – nelle sue parole – “a representative of order”, e
in quanto tale desideroso di affermare la norma-lità a fronte dei promo-
2
tori “of chaos”. La strategia ortoniana sottopone l’autorità a un processo
di inversione, coinvolgendola suo malgrado nella ‘perversione’ omoses-
suale che essa cerca di sanare, come allorché Rance affronta due perso-
naggi (Nick e Geraldine) il cui travestimento lo inganna sull’identità ses-
suale degli stessi:

RANCE. (He nods to Geraldine) Were you present when Dr Prentice


used this youth unnaturally?
NICK. What is unnatural?
RANCE (To Mrs Prentice). How disturbing the questions of the mad
can be. (To Nick). Suppose I made an indecent suggestion to you? If
you agreed something might occur which, by and large, would be re-
garded as natural. If, on the other hand, I approached this child – (He
smiles at Geraldine) – my action could result only in a gross violation of
the order of things.3

Pienamente in sintonia con il clima contestatorio degli anni Sessanta, il


camp ortoniano abbatte ogni idolo culturale dell’establishment e ogni ta-
bù, compreso quello della sacralità dei morti: in Loot, una bara risulta de-
semantizzata nel venire utilizzata come nascondiglio del ‘malloppo’ che
dà il titolo alla commedia. Orton mette cioè in scena l’indicibile (una ba-
ra è essenzialmente null’altro che un contenitore), il rimosso, e così facen-
do smaschera chi, come McLeavy sempre in Loot, “[a]s a good citizen
4
[ignores] the stories which bring officialdom into disrepute”.
L’aperta messa in scena da parte di Orton di una sessualità priva di vin-
coli non ha infatti una volontà o un effetto di coinvolgimento erotico del-
lo spettatore, bensì una finalità destabilizzante nei confronti dell’ordine

1
Joe Orton, What the Butler Saw, in The Complete Plays, cit., p. 417.
2
Ibidem.
3
Ivi, p. 416.
4
Joe Orton, Loot, cit., p. 217.
LE ORIGINI DISCORSIVE, I 239

sociale. Un’aggressione portata dalla parola enunciata sul palco in quanto


maggiormente irrefutabile, attraverso un soggetto (il sesso) che più di
1
altri si offriva quale elemento di disturbo rispetto ai criteri di autenticità.
L’eccesso ortoniano si applica infatti scardinando ogni forma ideologica
(ogni ruolo e ogni dogma), sia questa metaforizzata nell’Azienda di The
Good and Faithful Servant (1967), dove tutto è forzato entro griglie la cui
rigidità ne denuncia l’insensatezza, o nel villaggio estivo di The Erping-
ham Camp (1966), in cui il dionisiaco irrompe a devastare la solidità del
buon senso e del luogo comune. L’ambigua celebrazione del potere e
dell’ordine che lo rappresenta si risolve in una strategia fondamental-
mente anarchica e amorale (ma non per questo acritica o astoricizzante).
Nel brevissimo arco di tempo che segnò l’attività di Orton, dal succes-
so di Entertaining Mr. Sloane (1964) alla morte avvenuta nel 1967 per ma-
no del compagno Kenneth Halliwell, il teatro ortoniano si fece sempre
più aggressivo, sfruttando in termini pubblicitari l’indignazione del pub-
2
blico conservatore. A tale indignazione Orton stesso contribuì diretta-
mente nel suo più felice travestimento, quello di ‘Edna Welthorpe (Mrs)’,
una maschera epistolare con la quale nel 1958 si era rivolto a un reve-
rendo chiedendo l’autorizzazione a mettere in scena nella Heath Street
Baptist Church Hall, con il titolo “The Pansy” (‘La checca’), una pièce che
3
invocava “greater tolerance on the subject of homosexuality”. Dal 1964
in poi Edna si sarebbe insinuata, con effetti ancor più deflagranti, nella
società benpensante ‘adottandone’ la causa. Così si rivolgerà alle pagine
del Daily Telegraph per condannare il successo di Entertaining Mr. Sloane,
contribuendo – unitamente agli altri noms de plume ortoniani (Peter Pin-
nell, John Carlsen, Donald H. Hartley, Alan Crosby) – ad alimentare il
dibattito sulla moralità di Orton e, paradossalmente, la sua popolarità:

1
Cfr. Jonathan Dollimore, Sexual Dissidence, cit., pp. 315-318; e Alan Sinfield, “Who
Was Afraid of Joe Orton?” In Joseph Bristow (ed.), Sexual Sameness: Textual Differences
in Lesbian and Gay Writing, London: Routledge, 1992, pp. 170-186.
2
La vita di Joe Orton, analogamente a quella di altre figure della fenomenologica ar-
tistica camp, ha finora attratto l’attenzione dei critici ancor più dell’opera letteraria,
rendendo la seconda del tutto inscindibile dalla prima. Su Orton si possono consultare
Simon Shepherd, Because We’re Queers: The Life and Crimes of Kenneth Halliwell and Joe
Orton, London: Gay Men’s Press, 1989; Christopher Bigsby, Joe Orton. London:
Methuen, 1982; e Maurice Charney, Joe Orton, London: Macmillan, 1984; e John Lahr,
Prick Up Your Ears: The Biography of Joe Orton, London: Allen Lane, 1978.
3
Lettera del 2 novembre 1958, in John Lahr (ed.), The Orton Diaries, London: Me-
thuen, 1986, p. 274.
240 GENEALOGIA DEL CAMP

Sir – As a playgoer of forty years standing, may I say that I heartily


agree with Peter Pinnell in his condemnation of “Entertaining Mr.
Sloane”.
I myself was nauseated by this endless parade of mental and physical
perversion. And to be told that such a disgusting piece of filth now
passes for humour!
Today’s young playwrights take it upon themselves to flaunt their
contempt for ordinary decent people. I hope that the ordinary decent
people of this country will shortly strike back!
Yours truly,
Edna Welthorpe (Mrs)1

Il camp ortoniano partecipa di quella congiuntura irripetibile che sono gli


anni Sessanta, nella dialettica tra una possibilità senza precedenti di con-
testazione delle autorità e una isterica resistenza delle stesse, tra affer-
mazione di sé e riprovazione altrui, nell’eccitazione che riempie lo spazio
propriamente trasgressivo, di sovversione e di superamento del limite.
‘Edna Welthorpe’ è in questo senso una maschera attraverso la quale en-
tra sul palco il principio evocato di norma-lità, in un gesto che – pur su-
premamente artificioso e ‘teatrale’ – dissolve la separazione tra teatro e
realtà sociale in cui esso si inserisce.
L’ilarità si scatena in quanto elemento aggregante per una parte del
pubblico che gode dell’indignazione altrui, in quanto cioè produttore di
una comunità che si definisce in rapporto d’alterità rispetto all’Ordine
identificabile nelle ‘Edna Welthorpe’ che, escluse dalla comprensione del
testo, percepiscono in questa esclusione una strategia sovversiva delle
gerarchie e dei privilegi di fruizione sia del testo sia della realtà esterna.
Quanto veniva offerto al pubblico londinese era una sorta di nonsense
pervertito e devastante, come rivelano le parole di un autorevole e con-
servatore critico teatrale, Harold Hobson: “Orton’s terrible obsession
with perversion, which is regarded as having brought his life to an end [a
causa della perversa liaison con Kenneth Halliwell] and choked his very
talent, poisons the atmosphere of the play. And what should have been a
2
piece of gaily irresponsible nonsense becomes impregnated with evil”.
Un Male, questo, che non è difficilmente riscontrabile nella messa in crisi
di un’ulteriore gerarchia, quella tra arte ‘alta’ e produzioni dallo statuto
1
Ivi, p. 283. ‘Peter Pinnell’ è la maschera epistolare con la quale Orton si rivolse in
prima battuta al Daily Telegraph, aprendo il ‘dibattito’ sulla moralità del teatro ortoniano.
2
La recensione di Hobson apparve sulle pagine di Christian Science Monitor il 19
marzo 1969, ed è citata in Jonathan Dollimore, Sexual Dissidence, cit., p. 316.
LE ORIGINI DISCORSIVE, I 241

commerciale, realizzata da Orton nell’utilizzo del pastiche ‘urbano’ cui si


accennava precedentemente, nello sfruttamento promozionale dell’indi-
1
gnazione pubblica, e nel ricorso a forme d’arte popolare.
Più ancora che nella crisi dei confini tra alta cultura e cultura popolare,
l’aggressività ortoniana si esplicita peraltro nell’oscillazione tra arte e vi-
ta, fra Teatro e realtà sociale, come evidenzia ‘Edna’ con le sue invettive
“against plays in general and this travesty of the free-society […] in par-
2
ticular”. Le tradizionali accuse di stampo borghese nei confronti del tea-
tro e dell’omosessualità quale forieri di menzogna e inautenticità risulta-
no cioè reinvestite contro la sana ‘Edna’, la quale altri non è che un omo-
sessuale travestito da benpensante, contro la ‘sincerità’ e la rispettabilità
di cui ella si fa ad un tempo portatrice (“Yours truly, Edna Welthorpe
(Mrs)”, si firma immancabilmente la maschera ortoniana). La devianza
risulta così essere solo un edificio ideologico, creato da una ‘normalità’
parimenti inautentica.
Tale sovraestensione del principio di artificiosità è di fatto inscritta nel
testo stesso, il quale – come si osservava – si compone di brandelli di già-
detto ed è popolato da pure sagome, esplicitamente fittizio e metateatra-
le: “[w]hat has just taken place is perfectly scandalous and had better go
3
no farther than these three walls”, osserva Truscott in Loot. Lo spazio
privato (le quattro pareti domestiche, ma pure la dimensione ‘chiusa in
sé’ del testo teatrale) e quello pubblico (le tre pareti della scena, ma an-
che la ‘realtà’ esterna a essa e al testo) si confondono, la façade dell’Or-
dine è dichiarata tale e svuotata. L’iconoclastia del camp si esprime cioè
in una pulsione anarchica che non contrappone ai ‘valori’ dell’ideologia
borghese un altro ordine morale, a una falsa autenticità un’altra – più
‘vera’ – autenticità. Essa sovverte il criterio stesso di Ordine e di autenti-
cità attraverso una parodia ‘vuota’, una parodia priva di presupposti mo-
ralizzatori e normalizzanti. Ciò che se ne evince è che il percorso euristi-
co conduce solamente a una Verità coincidente con il suo opposto, la
Menzogna: che l’Essenza dell’umano è un artificio, la sua Natura una
formazione culturale, la Realtà teatro e finzione.

1
All’apice della carriera, tra il 1966 e il 1967, Orton rielaborò uno sketch pornografi-
co scritto nel 1960 per la rivista Oh! Calcutta!, stese la sceneggiatura di un film (mai
realizzato) dei Beatles, e presentò in veste televisiva The Good and Faithful Servant.
2
John Lahr (ed.), The Orton Diaries, cit., p. 289.
3
Joe Orton, Loot, cit., p. 271.
242 GENEALOGIA DEL CAMP

8.2. Pop Art e underground statunitense

Il panorama urbano degli anni Sessanta inglesi, come si diceva, si sareb-


be imposto nel 1964 anche negli Stati Uniti, dove la diffusione del camp
si segnala specificamente per la scena underground, con i film prodotti
da Andy Warhol (in larga parte per la regia di Paul Morrissey) e con
quelli diretti da Jack Smith, Kenneth Anger, Gregory Markopoulos e i
fratelli Kuchar, e nel teatro con John Vaccaro, Ronald Tavel, Charles Lu-
1
dlam e il Theatre of the Ridiculous.
La prassi del camp statunitense otteneva inoltre una legittimazione
nella teoria della cultura che andava prendendo corpo. Il saggio di Susan
Sontag doveva infatti inserirsi nel fervore polemico scatenatosi sulla di-
stinzione tra high e low culture, trovando un significativo conforto nell’esal-
tazione della cultura pop da parte di Leslie Fiedler (esaltazione sovversiva
degli standard e del Canone, volto al recupero di una ‘controtradizione’ e
2
al processo di democratizzazione culturale). La stessa Sontag avrebbe
affrontato direttamente la questione in “One Culture and the New Sen-
sibility”, aggredendo l’ipotesi di un sostanziale privilegio dell’Alta cultura
su quella popolare o di massa (ipotesi riconducibile alla definizione di una
‘cultura’ in senso proprio da parte di Matthew Arnold nel secolo scorso)
3
alla luce delle pratiche artistiche contemporanee. Il privilegio stesso si
sarebbe fondato sulla distinzione di matrice romantica tra arte individua-
1
Alla scena underground sono dedicati alcuni fra i primi lavori che accolgono la no-
zione di camp. Fra i contributi più recenti sono eccellenti ricognizioni – oltre agli storici
Stefan Brecht, Queer Theatre: The Original Theatre of the City of New York, Frankfurt am
Main: Surhkamp, 1978, e Raffaele Milani, Il cinema underground americano, Firenze:
D’Anna, 1978 – Richard Dyer, “Underground and After”, in Now You See It: Studies on
Lesbian and Gay Film, London: Routledge, 1990, pp. 108-173; Jack Stevenson, Desperate
Visions 1: Camp America: John Waters, George & Mike Kuchar, London: Creation, 1996; e
Juan Suárez, Bike Boys, Drag Queens, and Superstars: Avant-Garde, Mass Culture, and
Gay Identities in the 1960s Underground Cinema, Bloomington: Indiana University Press,
1996. Sul cinema di Andy Warhol si vedano Patrick S. Smith, Andy Warhol’s Art and
Films, Ann Arbor: UMI Research Press, 1986; Michael O’Pray (ed.), Andy Warhol: Film
Factory, London: British Film Institute, 1989; Stephen Koch, Stargazer: The Life, World
and Films of Andy Warhol, London: Marion Boyars, 1991; Steven Shaviro, “Warhol’s
Bodies”, in The Cinematic Body, Minneapolis: University of Minnesota Press, 1993, pp.
201-240; e Jennifer Doyle, Jonathan Flatley, and José Esteban Muñoz (eds), op. cit.
2
Una sintesi retrospettiva del proprio lavoro in questo senso è offerta da Leslie Fie-
dler in What Was Literature? Class Culture and Mass Society, New York: Simon &
Schuster, 1982.
3
Susan Sontag, “One Culture and the New Sensibility” (1965), in Against Interpreta-
tion and Other Essays, cit., pp. 293-304. La definizione arnoldiana, ovviamente, è da
rintracciarsi in Culture and Anarchy: An Essay in Political and Social Criticism (1869).
LE ORIGINI DISCORSIVE, I 243

le (‘unica’, e rivolta a un pubblico di pari istruzione) e arte seriale, pro-


dotta in modo collettivo e fruibile dai più. L’arte contemporanea si pro-
poneva a ogni modo come massimamente impersonale e all’insegna del-
la commistione fra sapere artistico e tecnologico, abbracciando del resto
quella ‘riproducibilità tecnica’ che aveva decretato, nella teorizzazione di
1
Walter Benjamin, la perdita di ‘aura’ dell’opera d’arte.
La ‘nuova sensibilità’ che Sontag andava teorizzando – in ampia so-
2
vrapposizione a quella presentata nell’intervento sul camp – propone
una concezione dell’arte che si riconosce esplicitamente come operazio-
ne stilistica, e in quanto tale tecnica, priva di un ‘contenuto’ da recuperare
3
quale espressione personale dell’artista. La crescente dignità che veniva
conferita al cinema (in precedenza escluso dalla ‘artisticità’ poiché popo-
lare e commerciale), e le tendenze tanto nelle arti (con lo happening, il
collage, e con figure come Jasper Johns, Roy Lichtenstein e Andy Warhol,
ma prima ancora con gli objets trouvés di Marcel Duchamp, il cui trave-
stimento sotto il nome di Rrose Sélavy nella celeberrima immagine di
Man Ray del 1920 ne fa una delle maggiori figure cui il camp del secondo
dopoguerra rivolge lo sguardo alla ricerca della propria tradizione),
quanto nella musica (con John Cage e Karlheinz Stockhausen) e nel ro-
manzo (con il nouveau roman francese e il postmoderno nordamericano),
enfatizzavano il ruolo del fruitore, la cancellazione della posizione asso-
luta assunta dall’artista nella creazione e il carattere tecnico dell’operare
artistico, a scapito dei residui di romanticismo che sopravvivevano attra-
verso il mantenimento della divisione fra ‘due culture’, o fra ‘cultura’ e
4
‘non-cultura’.
1
Il riferimento è ovviamente a quanto teorizzato da Walter Benjamin in Das Kunst-
werk im Zeitalter seiner technischen Reproduzioerbarkeit, Frankfurt: Suhrkamp, 1955.
2
L’esemplificazione è infatti in larga misura comune ai due saggi, che non a caso
verranno raccolti (unitamente a “Against Interpretation”, cui si accennerà oltre) nel
medesimo volume – Against Interpretation and Other Essays – nel 1966. E in “Notes on
‘Camp’” Sontag scriveva che “Camp – Dandyism in the age of mass culture – makes
no distinction between the unique object and the mass-produced object. Camp taste
transcends the nausea of the replica” (cit., p. 289).
3
La new sensibility si configura come una sintesi in una prassi artistica che supera
polemicamente l’opposizione fra cultura scientifica e umanista proposta (o registrata)
da C.P. Snow nel noto The Two Cultures and the Scientifical Revolution, Cambridge:
Cambridge University Press, 1959.
4
Susan Sontag, “One Culture and the New Sensibility”, cit. Due anni più tardi la ri-
vista Aspen (fascicoli 5 e 6) avrebbe ospitato, in un numero monografico a cura di Brian
Docherty sulla fine della separazione tra high e low culture, articoli di Alain Robbe-
Grillet, Michel Butor, Marcel Duchamp, John Cage e della stessa Sontag, e con essi la
primissima redazione de “La mort de l’auteur” di Roland Barthes, in cui il crollo dei
244 GENEALOGIA DEL CAMP

La sovrapposizione di camp e pop che viene effettuata nel corso degli


anni Sessanta è per molti versi criticabile. Il camp, si è detto, presuppone
un valore elitario anche se marginale: esso mantiene una gerarchia di
valori, seppur invertiti, e non auspica un Canone ‘democratico’ bensì la
sovversione della canonicità, il che giustifica chi ha sostenuto che l’espres-
1
sione pop camp sia una contraddizione in termini. Tuttavia, le istanze che
emergono in Fiedler e Sontag contribuiscono, oltre che a disegnare un
clima culturale propizio alla diffusione del camp (il quale non distingue,
tanto nella sua prassi artistica quanto nel suo apprezzamento, tra pro-
2
dotti ‘originali’ o unici, e seriali o derivativi), a comprendere come la Pop
Art abbia più di altri fattori rivestito un ruolo determinante nella configu-
razione del camp del secondo dopoguerra.
In Andy Warhol l’anti-romanticismo raggiunge la sua manifestazione
estrema, in produzioni artistiche all’insegna di un massimo di reificazio-
ne e deperibilità. Intitolando Thirty Are Better than One (1963) una ripro-
duzione seriale della Gioconda, Warhol praticava una dissacrazione sotto
molti aspetti analoghi a quelli che fra il 1919 e il 1965 Duchamp propo-
neva con la sua duplice elaborazione del dipinto (elaborazione che, nel-
l’aggiungere i famosi baffi e la sigla ‘L.H.O.O.Q.’, per poi ‘rasare’ i baffi
stessi, colpiva tanto lo statuto sacrale dell’opera quanto l’attività criptolo-
gica, la quale svelava un segreto avvilente: elle a chaud au cul), adottando
tuttavia l’affermazione del quantitativo sul qualitativo (‘trenta sono meglio
di uno’) quale strategia provocatoria. L’aura benjaminiana risultava deva-
stata nella dissoluzione dei confini tra arte e pubblicità, nella riproduzio-
ne (potenzialmente infinita) delle scatole di zuppa Campbell, di bottiglie
di Coca-Cola e dell’emblema del commercio, il Dollaro, in una celebra-
zione critica della mercificazione/secolarizzazione artistica contro la qua-
le a partire dalla fine del conflitto gli intellettuali si erano sempre più vi-
vacemente scagliati (“[c]ulture has become […] a thing to be consumed,
3
like the latest cocktail biscuit”, lamentava Richard Hoggart nel 1961).
La Pop Art afferma in sostanza ciò che la ‘decenza’ impone di tacere o

privilegi autoriali era visto quale premessa anti-autoritaria e (trattandosi di un cardine


dell’ideologia post-rinascimentale) di fatto anti-borghese. Sul numero monografico di
Aspen, e sulla poco nota prima pubblicazione de “La mort de l’auteur”, si veda Molly
Nesbit, “What Was an Author?”, Yale French Studies, 73, 1987, pp. 229-257.
1
George Melly, Revolt into Style, cit., pp. 192-193.
2
Cfr. la nota 2 alla pagina precedente, e la Seconda Parte.
3
Richard Hoggart, “Mass Communication in Britain”, in Boris Ford (ed.), The Pelican
Guide to English Literature: The Modern Age, (1961) Harmondsworth: Penguin, 1979, p. 462.
LE ORIGINI DISCORSIVE, I 245

negare, vale a dire che la condizione artistica – sia essa ‘alta’ o di massa –
non prescinde dal regime economico, e nel fare ciò evidenzia l’ipocrisia
della museificazione borghese: “Pop Art knows that art is a commodity,
and doesn’t care; or, perhaps, it despises earlier art for pretending that it
could escape. It refuses the exalted isolation of art and the solemnity of
1
the gallery”. Una percezione camp, insomma, come peraltro emerge
nell’intervista a Tom Wolfe contenuta in Superstar (1990), il lungome-
traggio su Warhol girato da Chuck Workman, dove si sostiene che quella
cui appartiene Warhol stesso sarebbe una generazione artistica la quale,
di poco successiva a chi identificava nella società americana un luogo o-
scenamente commercializzato, rivolse lo sguardo alla stessa società af-
fermando “oh, it’s so horrible that I love it” (si confrontino le parole,
pressoché identiche, di Sontag sullo “ultimate Camp statement” del
2
camp: “it is good because it is awful”).
Siamo di fronte insomma a una celebrazione camp, la cui smodatezza
ne fa una forma ambiguamente critica. In Gran Bretagna, la Pop Art di
Richard Hamilton pure si offriva come pratica marcatamente camp: basti
pensare a Just What is It that Makes Today’s Homes So Different, So Appea-
ling? (1956), in cui il collage giustappone due figure i cui tratti stereotipici
di genere sessuale sono oltremodo enfatizzati (i muscoli ridondanti del
culturista, la posa del personaggio femminile che si stringe il seno in un
parossismo di ‘sensualità’), in un interno abitativo interamente costituito
da immagini pubblicitarie (il magnetofono, l’aspirapolvere con tanto di
scritta che decanta le superiori prestazioni, l’emblema della casa automobi-
listica Ford) e dominato da un quadro che incornicia una rivista di fumetti,
pubblicità a sua volta del true love e del romance matrimoniale. Il tutto in
un decorativismo citazionale che tende parodicamente a un massimo di
‘bellezza’ – in termini commerciali sinonimo di effetto spettacolare, di éclat.
Il valore di interrogazione che si può evidenziare nella Pop Art rispet-
to alla secolarizzazione della Cultura si attiva anche nella celebrazione
warholiana del divismo. Di fatto, il divismo quale metafora della condi-
zione estetica nella cultura di massa caratterizza buona parte dei lavori
che sono stati categorizzati come camp, o che si sono offerti a un apprez-
zamento da parte della comunità che ha promosso il camp, come testi-

1
Alan Sinfield, Literature, Politics and Culture in Postwar Britain, cit., p. 285.
2
Al rapporto che la Pop Art intrattiene con la cultura consumistica è dedicato Chris-
tin J. Mamiya, Pop Art and Consumer Culture: American Super Market, Austin: University
of Texas Press, 1992.
246 GENEALOGIA DEL CAMP

monia del resto la popolarità che riscuotevano fra gli omosessuali le dive
1
del grande schermo. La celebrazione critica si articola in due percorsi, il
primo dei quali è l’ossessiva riproduzione delle immagini che incarnano
il principio del divismo, con le note serigrafie di – fra i molti – Marilyn
Monroe, Liz Taylor, Warren Beatty e Elvis Presley. In questa categoria
possono essere fatte rientrare anche le scatole di Campbell, le Coca-Cola
e lo Empire State Building di New York, che Warhol dichiarò di voler tra-
sformare in una star nel ‘kolossal’ dal titolo Empire (1964), un piano se-
2
quenza (a camera fissa) della durata di otto ore. Ciò che Warhol ottiene
con questa operazione metarappresentativa (l’arte non attinge alla realtà
bensì alle sue rappresentazioni, vale a dire alle icone culturalmente am-
mantate di un ruolo ‘mitologico’, siano esse le star di una Hollywood fit-
tizia che popola l’immaginario collettivo o il simbolo della supremazia e
identità nazionale costituito dal più famoso grattacielo del tempo), è un
effetto di svuotamento delle immagini, le quali venendo riprodotte in se-
rie risultano scollate da quanto è socialmente ratificato quale loro signifi-
cato, memoria e referenza.
La seconda strategia si produce in una sorta di controdivismo, vale a
dire nell’edificazione di una ‘industria’ (la Factory) esplicitamente volta a
rendere ‘superstar’– termine reso popolare dallo stesso Warhol – figure
(Joe Dallesandro, Baby Jane Holzer, Holly Woodlawn, Candy Darling,
Edie Sedgwick, Viva, Mario Montez, Ingrid Superstar e Ultra Violet) che
tanto nella esistenza privata quanto sullo schermo si caratterizzavano per
una prassi in cui si assommavano travestitismo, omosessualità, ermafro-
ditismo e dedizione alle droghe – vale a dire, una serie di indici/effetti di
devianza. Come indicano i nomi stessi assunti da attori quali Holly Wood-
lawn e da Mario Montez (omaggio alla Maria Montez stella del cinema
di serie B degli anni Quaranta, apprezzato negli anni Sessanta per l’effet-
to inintenzionalmente camp), il culto che attiva l’arte di Warhol (così come
i film di George e Mike Kuchar, di Jack Smith e più tardi di John Waters)
prende forma in un rapporto ambiguo con lo star-system di Hollywood,
di cui vengono mutuate le dinamiche per eroderne le fondamenta.
Warhol rende infatti celebri – innalza allo statuto ‘divino’, d’icona cul-
turale – i ‘rifiuti’ della civiltà borghese, invertendo i canoni ed eviden-
ziando i meccanismi attraverso i quali il soggetto risulta culturalmente
determinato. In quella che si configura come la più estrema celebrazione
1
Si confronti in merito la Prima Parte.
2
Cfr. Stephen Koch, op. cit., p. 78.
LE ORIGINI DISCORSIVE, I 247

della società dello spettacolo, nella quale la fama venendo resa accessibi-
le a tutti è dichiarata massimamente vacua e deperibile (“in futuro ognu-
no avrà il proprio quarto d’ora di celebrità”, nella nota formula di War-
1
hol), l’individualismo risulta esplicitamente inserito in un apparato di
produzione economica, il quale esautora la ‘divinità’ dell’attore rivelan-
dolo idolo di cartapesta, omologo alla locandina che lo promuove, e nel
fare ciò demistifica il ‘mito’ borghese della personalità e del soggetto au-
2
tonomo, padrone di sé e agente della Storia. Le superstar di Warhol so-
no infatti maschere inespressive, corpi privi di sfumature psicologiche e
apparentemente di una qualsiasi attività cerebrale; esse evidenziano co-
me il divismo abbia una funzione sociale sostanzialmente ‘religiosa’ (si
pensi al lessico afferente alla celebrità: culto, divi e divine, e via dicendo),
in altre parole di creazione di Consenso: l’unica ‘aura’ che sopravvive
all’impatto della Pop Art è dunque – incompatibilmente con la nozione
benjaminiana – un fenomeno dell’immaginario che viene pianificato e
realizzato attraverso meccanismi promozionali e di gestione dei canoni
3
estetici: del capitale simbolico e del capitale economico.
L’impresa warholiana attiva il grado di artificio che si nasconde nella
naturalità, attraverso la riflessione suscitata dall’iper-realismo parados-
salmente ‘irrealistico’ della Pop Art (irrealistico poiché devasta la serie di
convenzioni che vanno sotto il nome di mimesi o rappresentazione reali-
stica), e nella coincidenza tra identità del soggetto e sua apparenza o
performance. Esemplarmente in tal senso, il lungometraggio di Warhol
che porta il significativo titolo Camp (1965) mette in scena una sorta di
teatrino in studio, in cui diverse superstar (Paul Swan, Baby Jane Holzer,
Mar-Mar Dopnyle, Jodie Babs, Tally Brown, Jack Smith, Fu-Fu Smith,
Tosh Carillo, Mario Montez e Gerard Malanga) sono invitate a esibirsi
4
per un tempo dato secondo il modello del varietà televisivo. L’utilizzo
arbitrario dello zoom, la staticità della macchina da presa, la pressoché

1
Cit. in Rainer Crone, Andy Warhol, Milano: Mazzotta, 1972, p. 32.
2
Sulla demistificazione warholiana dell’individualismo borghese ha parole efficaci
Andrew Ross, “Uses of Camp”, cit., pp. 166-168. Sulla valenza ‘sacrale’ della ‘divinità’
cinematografica è altresì specificamente utile Edgar Morin, op. cit.
3
Questa è la lettura del divismo offerta, significativamente, in prospettiva gay da Ri-
chard Dyer, Stars, cit., pp. 68-70, e sullo specifico warholiano da Steven Shaviro, op.
cit., pp. 220-224.
4
Il film, pressoché irrecuperabile, non ha ricevuto attenzione critica negli studi sul
cinema warholiano. Le informazioni tecniche sono state desunte dalla recensione alla
‘prima’ del lavoro: Thom Andersen, “Film: Camp, Andy Warhol”, Artforum, IV, 10, Ju-
ne 1966, p. 58.
248 GENEALOGIA DEL CAMP

totale assenza di editing e le condizioni sfavorevoli cui sono esposti gli


attori, sono volti a promuovere uno straniamento nello spettatore rispet-
to sia al film stesso sia al modello televisivo evocato. L’effetto che si ot-
tiene guardando Camp è la consapevolezza dell’esibizione nella sua estre-
ma pateticità, causa il fallimentare tentativo degli attori di coinvolgere lo
spettatore nell’illusione della recita: in breve, la percezione dell’attore in
1
quanto tale.
Il paradosso che si disegna tra ostentazione di sé e fallimento del po-
tere fascinatorio partecipa di una più ampia portata di riflessione sulla
natura reificata e performativa del soggetto che è di tutto Warhol: quan-
do nel corso del film Tally Brown afferma che “none of us are really
camping, we’re all playing ourselves”, ciò che emerge è in effetti un’af-
fermazione contraddittoria, in cui l’identità del soggetto-attore è reso
omologo a un gesto recitativo (“interpretiamo noi stessi”). La negazione
di mendacità chiamata in causa dal riferimento all’atto camp nella prima
parte dell’affermazione risulta cioè immediatamente minata dalle parole
successive, in cui performance e soggetto emergono come inestricabili.
L’evocazione del modello televisivo, così come di quello hollywoodiano
in altre opere, si caratterizza infine come partecipe della strategia di attri-
buzione alla ‘naturalità’ della medesima vacuità di cui si fa portatore il
soggetto camp: “[i]f you want to know all about Andy Warhol, just look
at the surface: of my paintings and films and me, and there I am: there’s
2
nothing behind it”. Una vacuità che giustifica l’interesse warholiano u-
3
nicamente per “the surface of things” e la delegittimazione dell’attività
intesa a recuperare il ‘significato’, criptato dall’autore e recuperabile co-
me fosse un gioiello in uno scrigno: “[t]here’s nothing really to under-
4
stand in my work”.

1
Un effetto, questo, che caratterizza anche le interviste riportate nella rivista di War-
hol (Interview) o nel ‘romanzo’ a (1968), pura trascrizione di un colloquio tra lo stesso
Warhol (celato dietro al nome Drella, una contrazione di ‘Dracula’ e ‘Cinderella’ con la
quale l’artista era noto nell’ambiente underground) e la superstar Ondine.
2
Gretchen Berg, “Nothing to Lose: An Interview with Andy Warhol” (1967), in Mi-
chael O’Pray (ed.), op. cit., p. 56.
3
Ivi, p. 54.
4
Ivi, p. 61. Per un primo approccio alla paradossale ‘filosofia della vacuità’ di Andy
Warhol sono imprescindibili i due ‘manifesti’ Andy Warhol, The Philosophy of Andy
Warhol (From A to B and Back Again), New York: Harvester/HBJ, 1975; e Andy Warhol
and Pat Hackett, POPism: The Warhol Sixties, San Diego: Harvester/HBJ, 1990.
LE ORIGINI DISCORSIVE, I 249

8.3. Indici (e istanze) di postmodernità

Le osservazioni sulla negazione di autonomia e stabilità del soggetto,


sulla messa in crisi delle gerarchie e autorità culturali, sulla diffusione
della cultura di massa e sull’esplicita mercificazione del fatto artistico so-
no state ascritte alla tipologia del postmoderno, categoria alla quale del
resto si riferiscono teoricamente fra i primi Susan Sontag e Leslie Fiedler.
Nonostante il dibattito sul postmoderno si configuri in termini almeno
articolati e problematici quanto sono babelici quelli finora offerti dalla
1
teoria del camp, e nonostante il rapporto tra le due nozioni non abbia
ancora ricevuto un’analisi dettagliata, è legittimo isolare alcune caratteri-
stiche che indicano nel camp un fenomeno culturale partecipe della tem-
perie postmoderna. L’utilizzo parodico di codici e registri dissonanti, l’iro-
nia di irriducibile ambiguità e la sistematica autocontraddittorietà; l’umo-
rismo ‘nero’, il citazionismo barocco e l’intersecarsi di piani temporali
nella pratica del pastiche; la ‘estetizzazione’ del quotidiano, il privilegio
del transitorio e delle superfici (del linguaggio, della realtà e del soggetto);
l’interrogazione delle distinzioni di genere (tanto artistico quanto sessua-
le) e del modello ermeneutico di profondità; la natura relazionale (per-
formativa, decentrata e contingente) del soggetto e del testo, l’inversione
dei canoni e il rapporto paradossale di complicità critica con l’industria
culturale: tutti elementi comuni che giustificano chi ha indicato nella dif-
fusione del camp una tra le manifestazioni più precoci e significative
2
dell’emergere del paradigma postmoderno.
D’altro canto, l’enfasi posta dal camp sulle superfici (del linguaggio,
della realtà e del soggetto), unitamente al crollo della dimensione perso-
nalistico-sacrale dell’opera d’arte e dell’ermeneutica di matrice romanti-
ca, trovava già nella “erotics of art” (polemicamente opposta all’attività
critico-interpretativa poiché anelante alla pura, sensuale esteriorità) che
veniva invocata da Sontag nel corso del 1964, anno di apparizione di
“Notes on ‘Camp’”, della ‘British Invasion’ e dell’imporsi della Pop Art,
una legittimazione teorica che avrebbe segnato lo svilupparsi delle rifles-
1
Per un’introduzione al dibattito stesso si veda Stefano Rosso, “Aspetti del dibattito
sul postmoderno nella critica statunitense”, in Vita Fortunati e Giovanna Franci (a cura
di), L’ansia dell’interpretazione. Saggi su ermeneutica, semiotica e decostruzione, Modena:
Mucchi, 1989, pp. 229-261.
2
Si confronti il capitolo 5. Può sembrare che il dibattito sul postmoderno presenti
maggiori complessità rispetto a quello sul camp, ma si ritiene che questa impressione
sia da ricondurre unicamente alla maggior ‘visibilità’ della categoria di postmoderno, e
non a una sua intrinseca, superiore, problematicità.
250 GENEALOGIA DEL CAMP

1
sioni sul postmoderno. In prospettiva più ampia, l’impresa di Sontag
sembra assumere particolare significatività qualora venga messa in relazio-
ne con l’operazione di privilegio del significante che in quegli anni veniva
condotta in Francia da Roland Barthes, Jacques Lacan e Jacques Derrida,
e con lo storicismo anti-essenzialista, anti-teleologico e anti-positivistico
che andava elaborando Michel Foucault, imprese queste le quali vengo-
no spesso indicate tra i fattori che più di altri hanno determinato la co-
2
scienza postmoderna in chiave teorica oltre che nella prassi artistica.
Questa consonanza tra camp e postmoderno trova inoltre – lo si è vi-
sto nel capitolo 6 – nella peculiarità ironica, dalla marcata qualità nonsen-
sical sconfinante nel black humour, un elemento di particolare conforto.
Se quella postmoderna si configura infatti quale ironia ‘sospensiva’ o ‘in-
stabile’, quella che informa di sé l’estetica camp – come già osservava
Sontag – parteciperebbe del “oversaturated medium in which contempo-
3
rary sensibility is schooled”, producendosi in una irriducibile ambiguità
all’insegna dell’autocontraddizione deliberata e sistematica (“it is good
because it’s awful”), e suscitando quella sensazione di parodia ‘vuota’
discussa nella Parte Seconda. Il camp, si diceva, non critica le strutture
ideologiche opponendo loro un’alternativa coerente e persuasiva: pen-
siero debolissimo e instancabilmente oscillante, esso non risparmia al-
cunché dall’erosione ironica, il che ha offerto il fianco a critiche analoghe
a quelle che – soprattutto in prospettiva marxista – sono state mosse alla
4
cultura postmoderna.
A segnalare in modo evidente una postmodernità del camp, inoltre, è
l’esibizione dell’artificio e il rapporto problematizzato fra reale e fittizio,
elementi partecipi di una condizione epocale – quella del secondo dopo-
guerra – che non pensa più la rappresentazione quale specchio fedele del
mondo, e che promuove un radicale ripensamento del carattere mimetico
e referenziale del linguaggio. Un ripensamento affermatosi nell’ambito
teorico con strutturalismo, ricerche semiologiche e post-strutturalismo, e
1
Susan Sontag Sontag, “Against Interpretation”, in Against Interpretation and Other
Essays, cit., pp. 3-14. Nel medesimo volume si veda anche “On Style” (pp. 15-36), ap-
parso l’anno seguente.
2
Una scelta di testi che hanno segnato la teoria del postmoderno, da Fiedler, Sontag
e Irwing Howe a Ihab hassan e William Spanos, fino agli interventi più prossimi a noi
(a mano di Jean-François Lyotard, Fredric Jameson, Terry Eagleton, Linda Hutcheon e
Jean Baudrillard) è disponibile in Patricia Waugh (ed.), Postmodernism: A Reader, Lon-
don: Edward Arnold, 1992, pp. 31-47.
3
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 288.
4
Si confronti il capitolo 5.
LE ORIGINI DISCORSIVE, I 251

in quello artistico con testi – designati dall’etichetta di metafiction, talora


utilizzata anche in alternativa a quella di ‘narrativa postmoderna’ – che
mettono esplicitamente in scena il proprio costituirsi e le proprie condi-
1
zioni d’essere. O ancora con testi (biografie e autobiografie fittizie, gli
articoli di new journalism, il cosiddetto factual novel) in cui i confini tra re-
soconto storico e narrazione ‘creativa’ sono resi massimamente incerti e
labili, tanto da promuovere formule quali faction (incrocio di fact e fiction)
e factoids (i ‘fatti’ che attraverso i media assumono valenza ‘iperreale’), o
giustificare paradossi – diffusissimi nella scrittura postmoderna – come
quello offerto da John Barth, in cui si afferma che “Art is as natural an
2
artifice as Nature; the truth of Fiction is that Fact is fantasy”. In breve,
operazioni in cui il ricorso a parodia e pastiche contribuisce alla demistifi-
cazione dei procedimenti testuali e dei ‘miti’ (originalità, trasparenza, au-
tonomia) sui quali si fonda lo statuto borghese della scrittura, attivando
una consapevolezza della mediazione che presiede a ogni testimonianza
– sia essa artistica, scientifica oppure storica – di naturalità.
Già nel lavoro svolto da Angus Wilson fin dai primi anni Cinquanta,
di cui si è perlopiù rilevata la qualità mimetica e satirica, non è arduo ri-
scontrare una dimensione metanarrativa di per sé problematizzante i ca-
3
ratteri di stabilità presupposti dalla lettura in chiave di mimesi satirica. Il
romanzo più complesso e accreditato (No Laughing Matter, apparso nel
1967) ricorre infatti solo superficialmente alle procedure realistiche che
caratterizzano le prime opere, da Hemlock and After (1952) a Anglo-Saxon
Attitudes (1956). In questo resoconto delle vicende della famiglia Matthews
dall’inizio del secolo fino all’anno di pubblicazione dell’opera, i frequenti
rimandi alla realtà extrafittizia vengono fatti interagire con diverse ‘spie’

1
Oltre ai lavori che hanno studiato la parodia postmoderna (di cui nel capitolo 5), la
quale si sovrappone al procedimento di mise en abyme (si confronti l’esplicito Margaret
A. Rose, Parody // Metafiction. An Analysis of Parody as a Critical Mirror to the Writing
and Reception of Fiction, London: Croom Helm, 1979), eccellenti studi in merito sono
Lucien Dällenbach, Le récit spéculaire. Essai sur la mise en abyme, Paris: Seuil, 1977;
Linda Hutcheon, Narcissistic Narrative: The Metafictional Paradox, Waterloo: Wilfrid
Laurier University Press, 1980; e Patricia Waugh, Metafiction: The Theory and Practice of
Self-Conscious Fiction, London: Methuen, 1984. Sulla narrativa postmoderna, oltre alle
considerazioni disponibili in studi di più ampia prospettiva – quali in particolare Linda
Hutcheon, A Poetics of Postmodernism, cit.; Id., The Politics of Postmodernism, cit., e a
Brian McHale, Constructing Postmodernism, London: Routledge, 1992 – si veda Brian
McHale, Postmodernist Fiction, London: Methuen, 1987.
2
John Barth, Chimera, New York: Random House, 1972, p. 246.
3
Si vedano ad esempio i saggi raccolti in Jay L. Halio (ed.), Critical Essays on Angus
Wilson, Boston: Hall, 1985.
252 GENEALOGIA DEL CAMP

di autoreferenzialità. Il romanzo si apre teatralmente, elencando tutti i


personaggi (anche le ‘comparse’) di cui si specifica il ruolo nell’economia
narrativa. La ritualità della vita familiare è scandita da sette pièces teatrali
altrettanto articolate, cui tutti i personaggi partecipano, talvolta inverten-
do i ruoli quotidiani. Il frequente ricorso a soprannomi che enfatizzano
caratteristiche dei personaggi (la madre, dalle forti ambizioni di status
sociale, viene ad esempio chiamata ironicamente “the Countess”) accen-
tua inoltre l’elemento recitativo nella quotidianità. La figura di nome
Margaret, infine, appare come autrice di un romanzo – di cui si riportano
diversi brani nel testo – che attinge alle vicende della famiglia Matthews,
1
e cui allude metanarrativamente. Questo pervasivo ‘senso della scena’ si
avverte del resto nella scelta stilistica di Wilson, che mostra un talento
per l’evocazione dei diversi stilemi contemporanei, per l’utilizzo di cliché
e citazioni (Anglo-Saxon Attitudes è ad esempio locuzione attinta dal car-
rolliano Through the Looking-Glass), e per la presentazione drammatica
degli eventi e dei personaggi, di cui si è spesso osservato come ci siano
2
noti più per il loro modo d’esprimersi che in quanto ‘persone’.
Il procedimento di mise en abyme e i richiami intertestuali (parodia, ci-
tazionismo) contribuiscono – nel mettere in luce l’artisticità/artificiosità
del romanzo – a creare le condizioni per quella presa di coscienza nel let-
tore della propria attività, quella ‘disillusione’, che fondano la percezione
3
camp del testo e del reale. La scrittura di Wilson mette infatti in gioco
1
La narrazione procede inoltre priva di un ordine lineare, per giustapposizione di e-
pisodi, dipanandosi cioè in accordo a un modello teatrale piuttosto che propriamente
romanzesco o storico, problematizzando i rimandi alla realtà extrafittizia (l’emergere di
stalinismo e fascismo, ad esempio). Intorno alla metanarratività di No Laughing Matter
si veda Guido Kums, “Reality in Fiction: No Laughing Mirror”, English Studies, LIII,
1972, pp. 523-530.
2
“We retain a stronger impression of how the characters talk, than of where they
are; of what they are wearing than what they might look like; and of the significance of
how they furnish their rooms, than of the felt presence of these rooms. Wilson’s im-
pressive grasp of speech-styles often has the effect of identifying charcetrs with their
voices, so that when they are not talking, they evaporate”. Graham Martin, “Anthony
Powell and Angus Wilson”, in Boris Ford (ed.), The New Pelican Guide to English Litera-
ture, Vol. 8: The Present, Harmondsworth: Penguin, 1983, p. 203.
3
È ormai generalmente riconosciuto come la parodia, in quanto scrittura che aper-
tamente riconosce la letterarietà quale proprio spunto e proprio oggetto di discorso,
costituisca una forma di metafiction a grado zero, una manifestazione ‘di base’ del testo
consapevole di sé. Linda Hutcheon ha inoltre osservato come la parodia contempora-
nea sia meno caratterizzata rispetto a quella classica da un mero intento distruttivo.
Soprattutto nel suo aspetto metafictional, la parodia “invites a more literary reading, a
recognition of literary codes”. Linda Hutcheon, Narcissistic Narrative: The Metafictional
Paradox, cit., p. 25. Essa opera infatti in modo metalinguistico, secondo una strategia
LE ORIGINI DISCORSIVE, I 253

dei ruoli prima ancora che dei personaggi, dei copioni più che delle vi-
cende. Copioni suggeriti da vincoli familiari (in No Laughing Matter), di
classe (in Hemlock and After) o istituzionali, come in The Old Men at the
Zoo (1961), in cui l’affannarsi degli amministratori dell’Istituzione (lo Zoo
quale metafora sociale) per erigere la maschera di ufficialità conferisce
una valenza grottesca alla grandeur così ‘denudata’.
Nella testimonianza offerta da Wilson della irreversibile crisi in cui
1
versava la cultura dell’anteguerra, l’erosione esercitatasi sui tradizionali
privilegi non esclude quello di cui godeva il narratore (in quanto deposi-
tario e garante della Verità) nella narrativa realistica di stampo ottocente-
sco, che si attua nella scelta di presentazione drammatica e attraverso la
sostanziale assenza di superiorità della voce narrante nei confronti dei
2
materiali presentati. Tale assenza, che giustifica almeno in parte la man-
canza di ‘spessore’ dell’universo testuale (la mancanza di illusione di
spessore), è quanto caratterizza il gusto wilsoniano per il farsesco e per il
macabro come ilarità camp piuttosto che come satira, dato che il narrato-
re non si fa portatore di un criterio di ‘norma’ in frizione con il quale la
deformazione grottesca dei personaggi e delle situazioni narrate risulta
attivata. Se è vero che No Laughing Matter si richiama sotto molteplici
aspetti a un classico della letteratura satirica (i Gulliver’s Travels di Jona-
than Swift), l’ambiguità del titolo (“nulla di cui ridere”) a un lavoro pre-
gno di humour rivela tuttavia la peculiarità dello sguardo camp all’incon-
sistenza delle presunzioni (delle pose), in un respiro ironico che, sovrap-
ponendo snobismo e autocaricatura, ilarità e disperazione, produce una
sorta di disprezzo ‘partecipe’.

critica del linguaggio letterario. In tal modo, l’atto della lettura risulta sostanzialmente
straniato, la narrazione perde il carattere di fluida inconsapevolezza che altrimenti
coinvolgerebbe il lettore in identificazioni e illusioni sulla ‘realtà’ dell’universo fittizio.
Il lettore è così paradossalmente spinto alla coscienza sia del proprio intervento nel
testo sia della propria ‘estraneità’ dallo stesso.
1
È in questa specifica direzione che viene rivolta l’attenzione alla scrittura di Wilson
in Alan Sinfield, Literature, Politics and Culture in Postwar Britain, cit., pp. 74-77.
2
Sulla posizione del narratore, e sulle implicazioni di quest’ultimo sia in chiave di
regime di plausibilità sia di periodizzazione storica in base alla sua posizione, si con-
fronti Paola Splendore, Il ritorno del narratore. Voci e strategie del romanzo inglese contem-
poraneo, Parma: Pratiche, 1991. Il lavoro di Splendore, peraltro, disegna l’assenza del
narratore come prerogativa del modernismo, a fronte del ‘ritorno del narratore’ nella
scrittura postmoderna. In tal senso, Wilson rientrerebbe nella categoria di modernismo.
Ma è la matrice problematizzante dello stesso Wilson, che prescinde da valenze ‘og-
gettive’ della narrazione impersonale in favore di uno straniamento del ruolo di autore
e lettore, a caricarlo di un’ambiguità che si offre a una lettura in senso postmoderno.
254 GENEALOGIA DEL CAMP

Nonostante questi aspetti siano più espliciti nella fase inaugurata da


The Old Men at the Zoo, non è arduo riscontrarne anche negli scritti pre-
cedenti. Già in apertura di Hemlock and After, ad esempio, una lista di
personaggi e ruoli interagisce con la dicitura che colloca gli avvenimenti
nell’estate 1951, delegittimando la verosimiglianza della narrazione. Ri-
sulta inoltre particolarmente significativa la presenza, in questo e nel
successivo Anglo-Saxon Attitudes, di incursioni nel sottobosco omoses-
suale del low camp. Bernard Sands, lo scrittore bisessuale protagonista
del romanzo, si costituisce infatti quale trait d’union narrativo fra due
‘mondi’ e fra due sessualità, quello istituzionale rappresentato da Vardon
Hall, progetto di luogo d’incontro per scrittori in cui è evidente un’allu-
sione parodica alla tradizione intellettuale del gruppo di Bloomsbury, e la
dimensione sottoculturale popolata da arredatori, camerieri e teatranti,
all’insegna della ostentazione e dell’inautenticità dell’essere che caratte-
rizza la circolazione del camp nella prima metà del secolo. Attraverso
questa duplicità il romanzo dissolve la purezza delle strutture elitarie in
quanto a loro volta complici delle prassi ‘devianti’. Gli intellettuali à la
Bloomsbury, inseriti in un contesto che non li vede più efficaci interpreti
della contemporaneità, sono privati dello statuto ‘mitologico’ che li carat-
terizzava negli anni Venti, e risultano pertanto non meno esautorati nella
propria credibilità di quanto lo siano le melodrammatiche figure parassi-
1
tarie del low camp. Il fallimento del progetto Vardon Hall e delle ambi-
zioni di Bernard Sands, in definitiva, si dispone quale mise en abîme di un
percorso epistemologico, dall’autoillusione alla coscienza di sé (alla con-
sapevolezza della vacuità del sé), che affronta il protagonista così come il
testo. Il soggetto camp (e, metanarrativamente, il testo che lo ospiti) ri-
sulta insomma teatro di una crisi, di uno sdoppiamento in soggetto per-
cipiente e soggetto percepito, in cui l’autoconsapevolezza è al tempo
stesso disperata ed esilarante. Un immaginario, in breve, la cui cifra è lo
specchio deformante: e non a caso, durante l’elaborazione il titolo di No
2
Laughing Matter era previsto essere Laughing Mirrors.
Ben più esplicito è a ogni modo il dominio dell’artificioso, del pastiche,
della scissione del soggetto e della metanarratività nella narrativa di Brigid
Brophy e Angela Carter, ragionevolmente considerabili un preciso punto
1
Su Hemlock and After, e in genere sulla scrittura di Wilson, è utile consultare in que-
sta chiave – oltre al citato Literature, Politics and Culture in Postwar Britain di Alan Sin-
field – Alistair Davies and Peter Saunders, “Literature, Politics and Society”, in Alan
Sinfield (ed.), op. cit., pp. 34-39.
2
Cfr. Guido Kums, op. cit., p. 526.
LE ORIGINI DISCORSIVE, I 255

di convergenza tra estetica camp e letteratura postmoderna. Il manieri-


smo camp è infatti principio fondante la scrittura eclettica ed erudita di
Brophy, la quale attinge a una molteplicità di forme artistiche, coniugan-
do un impianto strutturale di matrice musicale a un tono in una qualche
misura ‘fumettistico’, l’incalzante e ostentata assertività di sapore saggi-
stico (Brophy si è pure accreditata quale critico freudiano, dalle analisi
seccamente razionali e outrées), con un richiamo ad arti figurative e archi-
tettura. Ciò che emerge è un autentico affastellarsi di generi: se infatti i
primi romanzi, da Hackenfeller’s Ape (1953) a The Snow Ball (1962), attin-
gono sia alle strutture delle musiche di Mozart sia a quelle shakespearia-
ne, la costruzione di In Transit (1969) è presieduta dal modello sinfonico
destrutturato e sospensivo della Sinfonia n. 4 di Brahms e dai miti di Ulis-
se, Edipo e Tiresia. Nella scrittura creativa come nella saggistica, che spa-
zia dalla critica letteraria, artistica e musicale alla lotta per i diritti degli
animali, l’eclettismo brophyano include anche costanti riferimenti alla
cultura pop e all’Opera, in una prassi neobarocca la cui contemporaneità
è segnalata già nel titolo di una raccolta di interventi, Baroque-’n’-Roll and
Other Essays (1987).
La contaminazione manieristica di generi, registri e stili è analoga-
mente marcata in Angela Carter, la cui scrittura, nella quale si sono nota-
1
ti “echi dello scintillante wit della commedia settecentesca”, propone
una sorta di estetica barocca dell’artificioso e della ‘maraviglia’. Nella
tendenza a un ‘eccesso’ stilistico, a un marcato elemento ludico oltre che
teatrale, e all’accumulo inorganico di una straordinaria mole di referenti
culturali, il postmoderno di Carter sembra essere caratterizzato da un ti-
pico gusto camp per gli stridori, tra Kitsch e raffinatezza estrema, tra sen-
sazionalismo da feuilleton e virtuosismo digressivo, il quale richiama sotto
molti aspetti quel geniale ‘progenitore’ sia del postmoderno sia del camp
2
che spesso si indica nel Tristram Shandy di Laurence Sterne. Il black hu-
mour carteriano e lo stravolgimento dei ‘miti’ culturalmente dati, inoltre,
sembra partecipare delle strategie camp quali si sono venute finora deli-
neando; e la stessa Carter, in un’intervista rilasciata nel 1986, si è espres-
sa in termini in cui risuona una valenza camp, dichiarando una predile-
zione per una strategia “[e]mphasyzing artificiality, choosing forms
which explicitly assume it”, per un “sort of intellectual bricolage” insom-

1
Paola Altini, Eros, mito e linguaggio nella narrativa di Angela Carter, Pisa: ETS, 1990,
p. 119.
2
Cfr. ad esempio Robert F. Kiernan, Frivolity Unbound, cit., p. 18.
256 GENEALOGIA DEL CAMP

ma di “revisiting and reutilizing our cultural heritage, as though it were a


1
big junk shop, a gigantic scrapyard”.
Interamente costruito sull’instabilità e sullo sfacelo dei codici è In
Transit di Brophy, caratterizzato da uno sperimentalismo estremo che si
richiama esplicitamente al Finnegans Wake joyciano, e ambientato in un
aereoporto (luogo intrinsecamente liminare) quale spazio appropriato
per la transsexual adventure che dà il sottotitolo al romanzo e che conduce
a una soggettività inessenziale, culturalmente determinata, fittizia e tran-
sitoria (“in transit”). Il protagonista Pat O’Rooley, colto da un’amnesia,
perde infatti la consapevolezza del proprio sesso e risulta di fatto un er-
mafrodito, proliferando in una molteplicità di personaggi in cui risuona il
suo nome, come nel caso di Unruly – significativamente, ‘sregolato’ –
2
che ci conduce nel “dread realm of the Great Camp King”, dove verrà
ricoperto d’insulti dall’eroina che ha cercato di salvare in accordo al più
classico dei modelli cavallereschi, scoprendola però essere una “bondage
3
fanatic”.
La crisi è segnalata fin dall’avvio da una crisi dei sistemi linguistici:
4
“Ce qui m’étonnait c’était qu’it was my French that disintegrated first”.
In Transit inscena cioè una sovrapposizione fra identità del soggetto, ge-
nere (sessuale/testuale) e linguaggio. La disgregazione del soggetto risul-
ta infatti speculare rispetto a quella del testo: se la voce narrante di Pat
fluttua tra le sue metamorfosi, oggettivandosi anche nella terza persona
senza per questo riuscire a districare la vicenda (o a definire l’identità
sessuale del/la protagonista), brani in francese e in italiano si insinuano
nel corpo inglese, che adotta criteri grafici mutevoli e giunge a scomporsi
in due colonne parallele per seguire il soggetto scisso in Patrick e Patri-
cia. L’intersecarsi delle diverse linee narrative ospita inoltre interstizi e-
splicitamente metanarrativi, gli “Interludi”, in cui una voce narrante ini-
dentificata si rivolge direttamente al lettore, defamiliarizzando l’atto nar-
rativo e inducendo a un’inarrestabile oscillazione fra finzione e realtà, fra
narratore e autore, fra narratario e lettore, fra intradiegetico ed extradie-
getico. L’effetto straniante dell’indecidibilità di genere sessuale si coniu-
ga del resto anche a quello attivato dallo stuolo di convenzioni di genere
testuale che il testo riunisce e dissacra, comprendendo le modalità del

1
Paola Bono, “Intervista con Angela Carter”, DWF, 2, 1986, p. 100.
2
Brigid Brophy, In Transit, London: Gay Men’s Press, 1989, p. 177.
3
Ivi, p. 179.
4
Ivi, p. 11.
LE ORIGINI DISCORSIVE, I 257

cavalleresco, del giallo e della soap opera, del romanzo pornografico e del
‘rosa’, senza ‘identificarsi’ con esse (con le loro regole), senza cioè ‘essere’
alcunché se non un agglomerato barocco – e un secondo personaggio,
caratterizzato da un’analoga mutevolezza di genere sessuale, non è ca-
1
sualmente indicato con il nome di ‘Barocco’ – di eterogeneità.
Non è illegittimo pertanto parlare di un testo ‘ermafrodito’, metanar-
rativamente indefinito, che nel collasso dei codici culturali presenta in
definitiva una sovversione della normatività insita in una gestione con-
venzionale e stereotipica dell’identità. Sovversione realizzata anche con
un ricorso ad allusioni al tempo stesso volgari ed esilaranti, che si im-
pongono già fin dai titoli dei capitoli in cui è suddiviso il romanzo, i quali
ospitano intraducibili giochi di parole come “Sexhuntwo: The Case of the
Missing (Re)Member”. Le infrazioni delle regole testuali attivate dalla
dis-integrazione rococò di Brophy trovano insomma nel corpo grotte-
scamente smembrato una piena metafora dell’indeterminatezza labirinti-
ca e del principio di contraddizione (della logica aristotelica, del sé, delle
norme) che l’ermafrodito assume in altri lavori marcatamente camp, co-
me ad esempio in Myra Breckinridge (1968) e Myron (1974) di Gore Vidal
o in Flaming Creatures (1964) di Jack Smith, film underground in cui l’inde-
cidibilità sessuale dei personaggi ha un’analoga valenza speculare rispet-
to alla tecnica di ripresa, sconnessa e – in quanto tale – manifestamente
artificiosa.
Una qualità metatestuale dell’ermafroditismo emerge anche in The
Passion of New Eve (1977) di Carter, il/la cui protagonista Eve/lyn affron-
ta un percorso iniziatico fallimentare alla ricerca dell’identità, di quel sé
che viene definito dal personaggio stesso “the most elusive of all chime-
2
ras”. La decostruzione delle nozioni essenzialiste del soggetto, eviden-
3
ziabile quale Leitmotiv della scrittura carteriana, risulta messa in scena
1
Efficace introduzione alle numerose problematiche del romanzo è Maddalena Pen-
nacchia, “In Transit di Brigid Brophy: viaggio barocco nella significazione”, Quaderni
del Dipartimento di Linguistica – Università della Calabria, 8, 1993, pp. 105-136. Utili so-
no anche Annegret Maack, “Concordia Discors: Brigid Brophy’s In Transit”, Review of
Contemporary Fiction, XV, 3, Fall 1995, pp. 40-45; Brooke Horvath, “Brigid Brophy’s
It’s-All-Right-I’m-Only-Dying Comedy of Modern Manners: Notes on In Transit”,
ibidem, pp. 46-53; e Patricia Lee, “Communication Breakdown and the ‘Twin Genius’
of Brophy’s In Transit”, ibidem, pp. 62-67. Sulle intersezioni fra problematiche di ge-
nere sessuale e testuale si veda peraltro Lidia Curti, “Genre and Gender”, Cultural
Studies, II, 2, 1988, pp. 152-167.
2
Angela Carter, The Passion of New Eve, London: Virago, 1982, p. 38.
3
Cfr. Ricarda Schmidt, “The Journey of the Subject in Angela Carter’s Fiction”, Tex-
tual Practice, III, 1, 1989, pp. 56-75.
258 GENEALOGIA DEL CAMP

nel romanzo – oltre che nella transessualizzazione di Eve/lyn – per mez-


zo dell’incontro con Tristessa, attrice che ha dominato l’immaginario di
Eve/lyn fin dalla giovinezza. Tristessa è infatti diva propriamente camp,
collocata in una dimora di cristallo in cui sono celebrati i miti cinemato-
grafici d’altro tempo, come Gone with the Wind (la cui colonna sonora è
diffusa in ogni vano) o come le statue in cera dei popolari attori di una
Hollywood definitivamente scomparsa. Statue che, collocate in bare nel
“Salone degli Immortali”, configurano l’ambiente in accordo a quella
compresenza di materiali incongrui, a un tempo ironico e pregno di mor-
te (all’insegna dell’universale deperibilità: del gusto, delle credenze, della
‘Immortalità’), che caratterizza il gusto camp per il Kitsch e i miti degra-
1
dati.
Nella riscrittura ‘smascherante’ della Tradizione e dell’industria illu-
sionistica che il pastiche carteriano mette in gioco (The Passion of New Eve
allude parodicamente alla Bibbia, mentre Nights at the Circus – del 1984 –
si offre come celebrazione smascherante del circo quale fiera dell’illu-
sione), la femminilità incarnata da Tristessa risulta scevra di spessore
ontologico. La Diva ha infatti “no ontological status, only an iconogra-
2
phic one”, e crea – analogamente alla moderna femme fatale di nome
Leilah nel medesimo romanzo – un sé “who lived only in the not-world
3
of the mirror and then became her own reflection”. Nella diva cinema-
tografica e nell’altrettanto sensuale ballerina da night il camp carteriano
rende cioè esplicito che quanto si designa quale ‘femminile’ altro non è
che una sua rappresentazione, riflesso dello sguardo altrui presieduto da
4
quadri ideologici fondamentalmente androcentrici. Il racconto dal titolo
“The Loves of Lady Purple” esemplifica ulteriormente questa demistifica-
zione: nelle mani di un burattinaio che crea marionette indistinguibili
dalle figure reali, Lady Purple (pubblicizzata quale prostituta nell’esistenza
‘reale’, e divenuta nello spettacolo una marionetta ‘fatale’) viene investita
del ruolo di suprema manifestazione seduttiva. La quintessenza della
femminilità che Lady Purple è spinta a incarnare risulta essere un artificio
(un burattino, indistinguibile dal reale e gestito dal desiderio maschile), “a

1
Su The Passion of New Eve è utile – oltre al volume citato di Paola Altini e all’articolo
di Ricarda Schmidt – Heather Johnson, “Textualizing the Double-Gendered Body:
Forms of the Grotesque in The Passion of New Eve”, Review of Contemporary Fiction,
XIV, 3, Fall 1994, pp. 43-48.
2
Angela Carter, The Passion of New Eve, cit., p. 129.
3
Ivi, p. 28.
4
Cfr. Paola Altini, op. cit., pp. 52-60.
LE ORIGINI DISCORSIVE, I 259

1
metaphisical abstraction of the female”, non tanto un essenza unica e
2
iripetibile bensì, di per sé, unicamente “her own replica”.
Nonostante questa dimensione del testo carteriano si sia largamente
offerta a una lettura di marca femminista, interessata alla decostruzione
dell’essenzialismo patriarcale responsabile della marginalizzazione fem-
minile, essa, alla luce di quanto si è venuto sostenendo, si consegna in
prima battuta quale strategia riconducibile al camp. Non a caso in The
Passion of New Eve l’indefinibilità denunciata dalla transessualizzazione
di Eve/lyn si trova in posizione speculare rispetto a quella dell’immagine
che ha dominato la sua adolescenza, alla Tristessa che nel corso del ro-
manzo si scoprirà essere un travestito. Il camp, si diceva, nega ogni natu-
ralità e priva il soggetto di dimensione intrinseca, equiparandolo a un
esercizio per così dire ‘citazionale’ – in breve, a una prassi rappresentati-
va. La transessualizzazione dei personaggi – e in particolare della diva –
si consegna quale strategia iconoclastica nei confronti delle procedure di
edificazione di un paradigma distintivo tra femminile e maschile: in ulti-
ma analisi, di un paradigma di ‘umanità’.
Basti a questo proposito, ricordando la celebrazione critica del divismo
attivata dalle superstar warholiane, sottolineare come un rappresentante
di spicco dell’underground statunitense qual è stato Ronald Tavel abbia
sostenuto alla metà degli anni Sessanta che le dive hollywoodiane degli
anni Sessanta fossero in effetti dei travestiti, intenti a incarnare/recitare il
ruolo del ‘femminile’: “Jean Harlow is a tranvestite, as are Mae West and
Marylin Monroe, in the sense that their femininess is so exaggerated that
it becomes a commentary on womanhood rather than the real thing or
3
representation of realness”. Non sorprende pertanto che, nonostante il
femminismo essenzialista abbia accolto con sospetto le rappresentazioni
camp del femminile, intravedendovi una qualità derogatoria di matrice
androcentrica, queste siano state indicate tra i fattori che più di altri han-
no promosso un’assunzione di coscienza dello statuto ‘fittizio’ (in quanto
edificio culturale ideologicamente marcato) di ciò che si designa come

1
Angela Carter, Fireworks: Nine Profane Pieces, London: Quartet, 1974, p. 30.
2
Ivi, p. 33. Si vedano in proposito Paola Altini, op. cit., pp. 52-60; e Linda Hutcheon,
The Politics of Postmodernism, cit., p. 32-33.
3
Ronald Tavel, “The Banana Diary: The Story of Andy Warhol’s Harlot”(1966), in
Michael O’Pray (ed.), op. cit., p. 66. In questi termini si esprimeva, a proposito di Greta
Garbo, anche Parker Tyler in “The Garbo Image”, in Michael Conway, Dion McGregor
and Mark Ricci (eds.), The Films of Greta Garbo, New York: Citadel, n.d., pp. 9-31. In-
torno al travestitismo warholiano si veda Steven Shaviro, op. cit., pp. 226-229.
260 GENEALOGIA DEL CAMP

1
‘donna’. La parodia camp del femminile si traduce cioè in una critica del
medesimo in quanto luogo di espressione di una intrinseca negatività o
mancanza, vale a dire in una forma di dissenso nei confronti della ge-
stione patriarcale del desiderio: una parodia, in breve, dell’oggetto del
desiderio maschile, eterosessuale e borghese, e della reificazione funzio-
nale al dominio patriarcale che questo desiderio presuppone.
L’oscillazione fra realtà e finzione in Carter non si limita a ogni modo
allo statuto del soggetto, bensì si attiva nei confronti del linguaggio quale
strumento di restituzione del reale, attraverso quello che la critica ha de-
nominato ‘realismo magico’. In The Infernal Machines of Doctor Hoffman
(1972), ad esempio, il delirio d’onnipotenza del personaggio eponimo si
esercita su una città scatenando un conflitto ‘semiologico’ in cui il lin-
guaggio viene esplicitamente investito del ruolo di gestione del ‘reale’.
Le macchine create da Hoffman, folle scienziato mutuato dalla tradizione
gotico-scientifica, agiscono infatti a livello segnico attraverso una sovver-
sione dei codici sui quali si fonda la città, causando un trasformismo in-
cessante degli oggetti la mutevolezza dei quali è funzionale alla struttu-
razione di un nuovo ordine: “[h]ardly anything remained the same for
more than one second and the city was no longer the conscious
2
production of humanity; it had become the arbitrary realm of dream”. Il
linguaggio (l’arbitrio) – più che rappresentare specularmente il reale – lo
ri-presenta, lo ‘crea’.
Tale assunto, in definitiva, è alla base dell’intera impresa demistifica-
toria di Carter, la quale si esercita in genere sulla convenzionalità
dell’umano e sulle sue ‘sacralità’ (Nothing Sacred è il titolo di una raccolta
di articoli data alle stampe nel 1982), senza escludere i credo religiosi (di
3
cui si evidenzia la finalità puramente consensuale), il repertorio favolistico,
e nemmeno la sessualità, la quale, lungi dall’essere uno spazio completa-

1
Sulla convergenza tra istanze femministe e travestitismo, e sui testi che ne hanno
affrontato il percorso, si rimanda al capitolo 3 del presente lavoro.
2
Angela Carter, The Infernal Machines of Doctor Hoffman, Harmondsworth: Penguin,
1982, p. 18. Intorno al romanzo si vedano Cornel Bonca, “In Despair of Old Adams:
Angela Carter’s The Infernal Desire Machines of Dr. Hoffman”, Review of Contemporary
Fiction, XIV, 3, Fall 1994, pp. 56-62, e Peter Christensen, “The Hoffman Connection:
Demystification in Angela Carter’s The Infernal Desire Machines of Dr. Hoffman”,
ibidem, pp. 63-70.
3
Alla riscrittura parodica della tradizione fiabesca da parte di Carter sono dedicati
Paola Altini, “La scrittura come riscrittura: The Bloody Chamber”, in op. cit., pp. 73-124;
e Mirella Billi, “La parodia della favola in Angela Carter”, in Il testo riflesso. La parodia
nel romanzo inglese, Napoli: Liguori, 1993, pp. 211-232.
LE ORIGINI DISCORSIVE, I 261

mente libero da ritualità o convenzioni, “on its own terms, among the
1
distorted social relationships of a bourgeois society”, viene denunciata
quale

the most self conscious of all human relationships, a direct confronta-


tion of two beings whose actions in the bed are wholly determined by
their acts when they are out of it. […] Our flesh arrives to us out of hi-
story, like everything else does. We may believe we fuck stripped of so-
cial artifice […] but we are deceived.2

1
Angela Carter, The Sadeian Woman: An Exercise in Cultural History, London: Virago,
1979, p. 9.
2
Ibidem. Si veda Hugo Claus, “Gender Matters in The Sadeian Woman”, Review of
Contemporary Fiction, XIV, 3, Fall 1994, pp. 18-23.
9

Le origini discorsive, II
A ritroso

Il carattere postmoderno del camp non si segnala solo per una sostan-
ziale coincidenza tra ingresso nella sfera discorsiva pubblica del camp e
prima configurazione di teorie e prassi postmoderne, o per una singolare
affinità fra le due nozioni. A partire dall’immediato dopoguerra si impo-
ne anche un interesse nei confronti della fase per così dire ‘clandestina’
del camp, in larga misura collocabile tra la fine del secolo scorso e gli anni
1
Cinquanta. Questo interesse si articola tanto nel recupero di una tradi-
zione culturale che – generalmente conchiusa nell’esperienza decadente
di fine Ottocento – attraversa in effetti l’intero Novecento, quanto in una
sostanziale rilettura della significatività del tardo estetismo alla luce delle
proposte postmoderne, rilettura attraverso cui è stato possibile rivalutare
la cultura fin de siècle non più quale mero epilogo del romanticismo, ben-
sì quale momento costitutivo di istanze che avrebbero ricevuto in seguito
piena articolazione.

9.1. Dal secondo dopoguerra alla fin de siècle vittoriana, e ritorno

Fin dalla seconda metà degli anni Quaranta si assiste in Gran Bretagna
alla pubblicazione di uno stuolo di opere, secondarie e primarie, afferenti
a maestri del camp come Oscar Wilde, Aubrey Beardsley, Frederick Rolfe
e Ronald Firbank. Nel 1948 Montgomery Hyde pubblica gli atti dei pro-
cessi Wilde e Vyvyan Holland (figlio dello stesso Wilde) introduce le
opere complete del padre, che saranno riproposte in veste ulteriormente
1
Inutile sottolineare che la ‘clandestinità’ di questa fase non corrisponde a una totale
assenza di visibilità del camp, quanto a una sua gestione come Altro marginalizzato
rispetto alla discorsività dominante. Si confronti quanto osservato nel capitolo 1.
264 GENEALOGIA DEL CAMP

ampliata nel 1966; parallelamente, a partire dal 1945 l’industria cinema-


tografica angloamericana si rivolge con diversi film alle vicende biografi-
1
che, oltre che alle opere più note, dell’esteta. La prima edizione inglese
priva di censure (e non rivolta a selezionatissimi connoisseurs) di Under
the Hill (1896), la novella incompiuta di Beardsley conosciuta anche con il
titolo di The Story of Venus and Tannhäuser, appare nel 1947, mentre il
clima di liberazione censoria consentirà alla versione conclusa da John
2
Glassco di essere data alle stampe in Gran Bretagna nel 1966. Nel 1961 i
romanzi brevi di Ronald Firbank ottengono la ‘consacrazione’ nelle edi-
zioni economiche dei Classici Penguin, dopo che la sua maggiore pièce –
The Princess Zoubaroff (1919) – era stata rappresentata per la prima volta
3
nel 1951. Gli anni Sessanta, in particolare, segnano un momento di ec-
cezionale popolarità per lo stesso Firbank, oltre che di complessiva risco-
perta della cultura degli anni Venti – riscoperta di cui offriva un segnale il
già discusso The Boy Friend di Sandy Wilson, autore inoltre nel 1958 di
Valmouth, un musical tratto dall’omonimo romanzo firbankiano apparso
nel 1921 – e del Liberty, di cui la grafica di Beardsley costituisce la mag-
giore rappresentanza britannica. Di pari passo procedono il recupero cri-
tico del medesimo corpus letterario, e il suo utilizzo in produzioni teatrali
4
e cinematografiche di ampio respiro commerciale.
Con ciò non si vuole ovviamente trascurare l’esistenza di un ‘mercato’
estetizzante nei decenni precedenti la guerra, testimoniato dalla messa in

1
Basti ricordare il Picture of Dorian Gray diretto da Albert Lewin nel 1945 e il The Im-
portance of Being Earnest di Anthony Asquith (1952). O ancora, lo Oscar Wilde tratto
dall’omonima pièce teatrale di Leslie e Sewell Stokes, che fu distribuito nel 1960, anno
di apparizione anche di The Trials of Oscar Wilde (di questi ultimi due film s’è detto nel
capitolo 4).
2
Aubrey Beardsley and John Glassco, Under the Hill, London: New English Library,
1966. La prima edizione di questo lavoro appare in effetti nel 1959 per i tipi della pari-
gina Olympia Press.
3
Cfr. Ronald Firbank, Valmouth / Prancing Nigger / Concerning the Eccentricities of Car-
dinal Pirelli, London: Penguin, 1961. La prima rappresentazione di The Princess Zouba-
roff ebbe luogo al Watergate Theatre di Londra nel giugno 1951.
4
Limitandosi alla produzione critica su Oscar Wilde, sul quale come si vedrà il silen-
zio era calato carattere particolarmente radicale, fra il 1946 e il 1963 appaiono almeno
15 volumi con Wilde come autore o come oggetto di studio, che Alan Sinfield registra
in The Wilde Century, cit., p. 143. Utili nella loro impresa di registrazione del patrimo-
nio critico su Wilde sono Thomas A. Mikolyzk, Oscar Wilde: An Annotated Bibliography,
London: Greenwood, 1993; e Ian Small, Oscar Wilde Revalued: An Essay on New Mate-
rials and Methods of Research, Greensboro: ELT Press, 1993, mentre è eccellente in-
trdouzione allo stuolo di riscritture del corpus wildiano John Stokes, Oscar Wilde:
Myths, Miracles, and Imitations, Cambridge: Cambridge University Press, 1996.
LE ORIGINI DISCORSIVE, II 265

scena di Oscar Wilde (1936) di Leslie e Sewell Stokes, dalle edizioni in


tiratura limitata di Under the Hill e di altri oggetti di culto decadente, o
dalla produzione negli Stati Uniti di Salome (1923), il mediometraggio
diretto da Charles Bryant con Alla Nazimova nelle vesti della protagoni-
sta, un cast interamente gay e le scenografie di Natacha Rambova ispira-
te alle illustrazioni realizzate da Beardsley nel 1894 per l’omonimo
dramma wildiano. La distanza tra gli interventi del primo e del secondo
dopoguerra, come si vedrà oltre, è sancita dal differente impatto pubblico
che questi ultimi assumono, mentre in precedenza essi si rivolgevano a
una audience marginale (in prevalenza di orientamento omosessuale),
riscuotendo peraltro la diffidenza di recensori e di gran parte del pubblico,
1
come avvenne in modo vistoso per il lavoro di Charles Bryant.
Se le produzioni filmiche del mito decadente di Salomé nella prima
parte del secolo, ad esempio, sono confinate a cortometraggi statunitensi
– unica eccezione britannica, The Salome Dance Music (1909) – dalla cir-
colazione estremamente limitata, a partire dalla fine del conflitto le gran-
di case cinematografiche intervengono con una eloquente serie di pro-
duzioni – Salome, Where She Danced di Charles Lamont (Universal 1945);
Sunset Boulevard di Billy Wilder (Paramount 1950), con Gloria Swanson e
William Holden, in cui la protagonista si sogna nel ruolo fatale del per-
sonaggio biblico, e la cui colonna sonora (realizzata da Franz Waxman)
richiama nella scena conclusiva l’opera di Richard Strauss ispirata al testo
wildiano; e la ‘cristianizzata’ Salomé di William Dieterle (Columbia 1953),
con Rita Hayworth e Charles Laughton –, mentre sulla scena londinese
si rappresentano con notevole riscontro di pubblico le versioni teatrali
della pièce wildiana di Lindsay Kemp nel 1977 (cfr. la Seconda Parte) e di
2
Steven Berkoff nel 1989.
Per quanto significativa di una portata commerciale oltre che culturale
dell’estetismo di fine secolo, l’appropriazione di temi e personaggi non è
confinabile all’ambito cinematografico o teatrale. Lo specifico letterario
offre un’analoga ripresa di materiali decadenti. Brigid Brophy, autrice di

1
Cfr. Elaine Showalter, op. cit., p. 163.
2
Quale rassegna introduttiva alle rappresentazioni e trasposizioni della Salomé wil-
diana si rinvia a Rita Severi, “Oscar Wilde, la Femme Fatale and the Salomé Myth”, in
Claudio Guillén (ed.), Proceedings of the Xth Congress of the International Comparative
Literature Association, New York: Garland, 1985, pp. 460-467. Un repertorio filmografi-
co esaustivo è disponibile in “I sette veli di Salomé”, sezione curata da Alberto Faras-
sino per la Mostra Internazionale Riminicinema, Rimini 17-22 settembre 1993, il cui
catalogo è apparso per l’editrice Clueb di Bologna, 1993 (pp. 49-60).
266 GENEALOGIA DEL CAMP

articoli critici su Wilde e di tre monografie dedicate a Firbank e a Beards-


1 2
ley, si richiama all’opera dei tardo esteti nella propria pratica narrativa.
Di tale matrice è infatti l’estetismo estenuato e grottesco del protagonista
di Flesh (1962); in The Finishing Touch (1963) il rifacimento alla scrittura di
3
Firbank è poi evidente, e denunciato da una menzione al Cardinal Pirelli
della cui ‘eterodossia’ si diceva nel capitolo 1: “[i]nvited to stand godmother
to the newest Cobos de Porcel girl (who made, really, one too many),
Antonia had even proposed a name for the infant: Contracepción: rejec-
ted, however, by the Cardinal baptizing, Spanish Cardinals (with the e-
4
xception of Pirelli) being notoriously narrower…”. Evidente nella co-
struzione a scene teatrali, perlopiù costituite da brevi dialoghi e prive di
consequenzialità; nel registro stilistico eccessivo, erratico e gonfio di lo-
cuzioni straniere dal tono tanto à la page quanto esilarante; ma ancor più
nei personaggi e nelle situazioni narrative, con protagoniste Hetty Braid
e Antonia Mount, lesbiche, che dirigono con tipica irresponsabilità fir-
bankiana un esclusivissimo collegio femminile di dubbia moralità.
Nel bagaglio culturale cui attinge Angela Carter trovano peraltro am-
pio spazio topoi decadenti: basti pensare alla riscrittura della femme fatale
in The Passion of New Eve, di Mignon in Nights at the Circus (romanzo
ambientato nel 1899 e dal marcato ‘senso della fine’), o del mito del dandy
baudelairiano in “Black Venus” (1980). E l’immagine dell’esteta nella sua
versione dandistica risuonava già nel Jewel di Heroes and Villains (1969),
‘gioiello’ definito “a work of art, as if created, not begotten, a fantastic
dandy of the void whose true nature had been entirly subsumed to the
1
A Beardsley Brophy ha dedicato Black and White: A Portrait of Aubrey Beardsley,
London: Cape, 1968, e Beardsley and His World, London: Thames & Hudson, 1976,
mentre alla scrittura di Firbank è consegnato il monumentale Prancing Novelist: A De-
fence of Fiction in the Form of a Critical Biography in Praise of Ronald Firbank, London:
Macmillan, 1973.
2
Narrativa nella quale è peraltro dato riscontrare diversi principî elucidati nella sag-
gistica, quali il gioco chiaroscurale nella grafica di Beardsley o l’utilizzo dei modelli
musicali in Firbank.
3
La stessa Brophy si è dichiaratamente espressa in tal senso. Cfr. Brigid Brophy,
Prancing Novelist, cit. Al debito di Brophy nei confronti di Firbank è dedicato Peter
Parker, “‘Aggressive, witty, & unrelenting’: Brigid Brophy and Ronald Firbank”, Review
of Contemporary Fiction, XV, 3, Fall 1995, pp. 68-78.
4
Brigid Brophy, The Finishing Touch, London: Gay Men’s Press, 1987, p. 27. Si fa rife-
rimento, nel brano riportato, all’episodio che apre Concerning the Eccentricities of Cardi-
nal Pirelli, nel quale la maggiore ‘apertura’ del Cardinale lo porta a battezzare con rito
cattolico nientemeno che il cucciolo di cane di una notabile locale. Sul romanzo di
Brophy si veda Corinne E. Blackmer, “The Finishing Touch and the Tradition of Homo-
erotic Girl’s School Fictions”, Review of Contemporary Fiction, XV, 3, Fall 1995, pp. 32-39.
LE ORIGINI DISCORSIVE, II 267

1
alien and terrible beauty of a rhetorical gesture”. Così come Tristessa,
Leilah e Lady Purple, Jewel è pura rappresentazione (ri-presentazione)
di una idea, di una qualità ontologica.
Se per molti versi la tradizione dandistica viene in genere assunta
quale anello imprescindibile nella tradizione del camp (da Sontag defini-
2
to infatti come “[d]andyism in the age of mass culture”), essa risulta
pregnante – sulla scorta dell’indicazione di Michel Foucault – anche in
prospettiva postmoderna. Il dandy offre infatti una tra le prime istanze di
consapevolezza della dimensione ‘estetica’ assunta dal soggetto, nella
dialettica tra sguardo autoreferenziale e dimensione pubblica (lo ‘sguar-
do altrui’): consapevolezza postmoderna, questa, del sé come costrutto
fittizio, arbitrariamente rivestito di carattere unitario, costante ed essen-
ziale (da scoprirsi attraverso un processo di scandaglio interiore), piutto-
sto che quale coacervo di stratificazioni culturali contraddittorie, in cui il
percorso autoanalitico conduce a un riconoscimento dei modelli ideolo-
3
gici che una data cultura offre alla costituzione del soggetto.
In ambito britannico, a ogni modo, la tradizione dandistica – il cui pri-
mo rappresentante è quel George ‘Beau’ Brummell la cui eleganza aveva
segnato l’Inghilterra della Reggenza – si afferma alla fine del secolo con
le pose e la scrittura di Wilde, Beardsley e Beerbohm: ed è in questa fase
che si sostiene prendere corpo lo statuto ‘teatrale’ del sé, vale a dire la
sostanziale identità fra ‘essenza’ del soggetto e sua apparenza. Il disim-
pegno – il ‘dilettantismo’ – del dandy inverte la gerarchia fra serio e futi-
le, spiritualizzando la Moda (la quotidianità, il deperibile) e avvilendo il
Rito, l’Eternità. Il dandy predilige cioè la ritualità svuotata di Trascendenza,
spogliando di ogni portata metafisica tanto le strutture ecclesiastiche e
4
sociali quanto la ‘sacralità’ testuale. I tardo esteti britannici si muovono
infatti all’interno di un paradigma che – causa la presa di coscienza tar-
dovittoriana dell’arbitrarietà dei sistemi linguistici; o ancora, causa

1
Angela Carter, Heroes and Villains, Harmondsworth: Penguin, 1981, p. 71.
2
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 289.
3
Cfr. Michel Foucault, “What is Enlightenment?” (1984), in Patricia Waugh (ed.), op.
cit., pp. 96-108.
4
Sull’estetica dandistica gli studi sono ormai numerosi: si vedano fra i più significa-
tivi Giovanna Franci, op. cit.; Patrick Favardin et Laurent Boüexière, Le dandysme, Lyon:
la manufacture, 1988; Roger Kempf (ed.), Balzac, Baudelaire, Barbey d’Aurevilly sur le
dandysme, Paris: UGE, 1971; Emilien Carassus (ed.), Le Mythe du dandy, Paris: Armand
Colin, 1971; Françoise Coblence, Le dandysme, obligation d’incertitude, Paris: PUF, 1988;
e Richard Pine, The Dandy and the Herald: Manners, Mind and Morals from Brummell to
Durrell, London: Macmillan, 1988.
268 GENEALOGIA DEL CAMP

l’erosione alla fine del secolo scorso della dicotomia fra arte e commercio
– non sembra più in grado di affidarsi in serena inconsapevolezza ai miti
1
liberal-umanisti che si esercitavano sul testo, sul reale e sul metafisico.
Ed è in larga misura in questa convergenza fra reificazione del soggetto,
imporsi delle dinamiche commerciali nella sfera dell’artistico e consape-
volezza dell’innaturalità dei codici, che la fin de siècle britannica si offre
quale momento al tempo stesso di inaugurazione del camp quale lo co-
nosciamo a tutt’oggi, e di formulazione di un approccio in una qualche
misura ‘postmoderno’ al reale e al fittizio.
Considerazioni di quest’ordine sanciscono l’illegittimità di una lettura
in chiave meramente commerciale del ‘ritorno’ estetizzante nel secondo
dopoguerra, o che si limiti a registrare la funzionalità controculturale di
un atteggiamento decadente negli anni Sessanta (nella trasgressività del-
la sessualità ‘liberata’, della fascinazione per il pensiero orientale e le
droghe, che segna la cultura pop del periodo). L’estetismo nell’epoca
della cultura di massa trova la propria significatività grazie allo sviluppo
sia di strumenti critici estranei al paradigma mimetico-espressivo, che
hanno promosso un ripensamento dell’eredità decadente, sia di una
prassi artistica che condivide numerosi tratti – l’eccentricità teatrale del
soggetto e del testo, il virtuosismo paradossale, il dominio del manieri-
smo ludico sull’utilizzo funzionalistico del linguaggio, l’oscillare dell’asse
realtà/finzione, il ‘narcisismo’ autoreferenziale e metanarrativo, la crisi
del modello immersivo di lettura, la ‘apertura’ dell’opera d’arte – con il
2
barocco tardoestetizzante.
La rinnovata rappresentabilità di una fase culturale ampiamente ri-
mossa risulta pertanto inserita in un processo di riattivazione in luce post-
moderna della testualità decadente e dei suoi miti. Secondo quanto e-
mergeva a proposito di The Passion of New Eve, le riscritture delle imma-
1
Tali riflessioni sono efficacemente articolate in Linda Dowling, Language and Deca-
dence in the Victorian Fin de Siècle, Princeton: Princeton University Press, 1986; e in Ra-
chel Bowlby, Just Looking: Consumer Culture in Dreiser, Gissing, and Zola, London:
Methuen, 1985.
2
È peraltro interessante notare come, a proposito del postmoderno, si sia più volte
sollecitato l’utilizzo alternativo del termine neobarocco. Cfr. Linda Hutcheon, Narcissi-
stic Narrative, cit., p. 2; Omar Calabrese, L’età neobarocca, Roma: Laterza, 1987; e Paola
Splendore, op. cit.. Sull’utilizzo da parte di Brigid Brophy di ‘Barocco’ in relazione
all’eterogeneità, e su come questa venga altrimenti ascritta al ‘postmoderno’, si con-
fronti il capitolo 5. E Angela Carter, da parte sua, in un’intervista del 1985 ha indicato
con il termine mannerism la teoria e pratica postmoderna. Intervista riportata in Carlo
Pagetti, “I percorsi del romance contemporaneo”, in Franco Marenco (a cura di), Storia
della civiltà letteraria inglese, vol. 3, Torino, Utet, 1996, p. 662.
LE ORIGINI DISCORSIVE, II 269

gini di femme fatale conferiscono spesso particolare enfasi a un carattere


ermafroditico (quando non esplicitamente omosessuale) della fatalità,
carattere che gli interventi critici più recenti sono andati del resto recupe-
rando anche nei testi ‘originali’. La citata versione teatrale della Salomé
wildiana di Lindsay Kemp (1977), si configura come un’orgia di travesti-
tismo, nella quale la riflessione sulla ‘fatalità’ omosessuale evoca lo statu-
to di icona omosessuale che il nostro secolo si vedrà avere assegnato a
1
Oscar Wilde. Nella messa in scena del dramma wildiano all’interno di
un postribolo omosessuale, che costituisce il corpo centrale di Salome’s
Last Dance (1988) di Ken Russell – autore costui di una cospicua serie di
film dal marcato sapore camp, dal già menzionato The Boy Friend (1974)
a The Devils (1971), Lisztomania (1975), Tommy (1975) e Valentino (1977) –,
il disvelarsi di Salomé rivela una duplicità di genere sessuale. Un effetto
esplicitante l’irrisolta ambiguità tra maschile e femminile del mito che
caratterizza anche la riscrittura di un altro classico della letteratura deca-
dente – lo stevensoniano Strange Case of Dr Jekyll and Mr Hyde, nel quale
la critica è andata riscontrando un’allusività a una valenza femminea, se
2
non propriamente omosessuale, di Mr Hyde – offerta dal Dr Jekyll and
3
Sister Hyde (1971) di Roy Ward Baker.
1
Statuto che avrebbe trovato una felice rappresentazione nella famosa immagine sa-
lomesca in cui fra il 1987 (quando l’immagine apparve in Richard Ellman, Oscar Wilde:
A Biography, London: Hamish Hamilton, 1987) e il 1994 si è erroneamente identificato
un Oscar Wilde en travesti. In un intervento sul Times Literary Supplement del 22 luglio
1994 Merlin Holland ha smentito in modo convincente l’identificazione, riconducendo
l’immagine all’interpretazione del soprano ungherese Alice Guszalewicz. Merlin Hol-
land, “Wilde as Salomé?”, Times Literary Supplement, 22 July 1994, p. 14. Questa iden-
tificazione peraltro, come Elaine Showalter ha avuto modo di replicare, non cancella le
ragioni di fascinazione (e di ‘identificazione’) della soggettività gay con l’immagine:
con Salomé, con Oscar Wilde, e con Wilde-come-Salomé. Elaine Showalter, “It’s Still
Salome”, Times Literary Supplement, 2 September 1994, pp. 13-14.
2
Si veda in merito William Veeder, “Children of the Night: Stevenson and Patriarchy”,
in William Veeder and Gordon Hirsh (eds.), Dr Jekyll and Mr Hyde after One Hundred
Years, Chicago: University of Chicago Press, 1988, p. 159.
3
Un esempio più recente di un’analoga riscrittura (analogia che si arresta tuttavia al-
la sola materia narrata, vale a dire alla sola duplicità maschile/femminile, a esclusione
delle più vaste implicazioni in chiave di politica culturale e di circolazione del testo) è
offerto da Dr. Jekyll and Miss Hyde, diretto da David Price nel 1995. Intorno alla poten-
zialità omosessuale del testo stevensoniano e alla riscrittura filmica di Baker si veda
Elaine Showalter, Sexual Anarchy, cit., pp. 105-126, mentre più latamente dedicato
all’omoerotismo della scrittura di Stevenson è Wayne Koestenbaum, Double Talk, cit.,
pp. 144-169. Questa operazione di riscrittura ha investito anche un altro grande mito
della fin de siècle, il Vampiro, ripreso parodicamente ad esempio nello sweet transvestite
splendidamente interpretato da Tim Curry che furoreggia in The Rocky Horror Picture
Show (1975), il film di Jim Sharman tratto dal musical di Richard O’Brien sul quale ci si
270 GENEALOGIA DEL CAMP

L’esplicita valenza ri-presentativa insita nella rappresentazione camp


sollecita a riconsiderare il problema della circoscrizione temporale del
fenomeno, o dell’identificazione delle sue ‘origini’. In effetti, come si ac-
cennava, è stato possibile delineare una sovrapposizione fra camp e tra-
dizione del paraître, indicando la Francia del Seicento, con le commedie
di Molière (nel cui Les Fourberies de Scapin si troverebbe la prima attesta-
zione di quel se camper dal quale – s’è visto nel capitolo 7 – camp viene
fatto derivare), la corte del Re Sole a Versailles e i précieux; il secondo
Seicento e il Settecento inglese con la commedia della Restaurazione di
William Congreve e William Wycherley, con Alexander Pope, John Gay e
William Beckford, i ‘beaux’, ‘fops’ e ‘rakes’; l’Inghilterra di Giorgio IV con
il dandismo di Lord Brummell e quello letterario dei Silver Fork novels, e
con il romanzo-conversazione di Thomas Love Peacock; o ancora nel
secondo Ottocento la satira delle vanità di Thomas Carlyle e di William
Makepeace Thackeray, precedenti di quello che sarebbe diventato – più
che il camp inteso quale ‘estetismo nella cultura di massa’ – una variante
del camp, vale a dire l’epilogo di un percorso plurisecolare giunto a con-
frontarsi con la cultura del Novecento, o la più recente espressione di
1
una Weltanschauung metastorica. Tuttavia, sembra per molteplici ragioni
privilegiabile un’opzione che riconosca nell’intersecarsi di camp e tradi-
zione del paraître una manifestazione della tendenza camp a riscrivere il
Passato sovrapponendosi a esso, in un esercizio di violenza interpretativa
che esplicita il ruolo esercitato dal soggetto nell’erigere categorie, fornire
definizioni e narrare la Storia. In altre parole, uno sfruttamento della di-
stanza tra soggetto percipiente e oggetto percepito che attiva nell’esibi-
zione del sé caratterizzante il primo dandismo, nel cerimoniale della corte
di Luigi XIV o nello snobismo della satira sei-settecentesca, una valenza
autoironica che un contemporaneo non avrebbe verosimilmente percepi-
to, escludendo dunque la percezione camp degli stessi quale spazio per
un’ambigua identificazione, al tempo stesso insinuante, (auto)celebrativa
e (auto)parodica.

soffermerà nel capitolo 10. Per la valenza omosessuale del mito del Vampiro si segna-
lano Richard Dyer, “Children of the Night: Vampirism as Homosexuality, Homosexua-
lity as Vampirism”, in Susan Radstone (ed.), Sweet Dreams: Sexuality, Gender and Popu-
lar Fiction, London, Lawrence & Wishart, 1988, pp. 47-72; e Sue-Ellen Case, “Tracking
the Vampire”, Differences, III, 2, 1991, pp. 1-20.
1
Esemplari di questa prospettiva sono Mark Booth, op. cit., pp. 24-52, 117-120; e Ro-
bert F. Kiernan, Frivolity Unbound, cit., pp. 19-37.
LE ORIGINI DISCORSIVE, II 271

Chi voglia identificare un Settecento inequivocabilmente camp deve


piuttosto rivolgersi a quello fittizio – all’insegna della ‘perversione’ cita-
zionale – che emerge dalla grafica e dalla scrittura di Aubrey Beardsley,
autore il cui lavoro è stato spesso indicato come quintessenza della fin de
1
siècle britannica. Già le illustrazioni realizzate fra 1895 e 1896 per il Rape
of the Lock di Pope, infatti, denunciano una riscrittura camp dell’originale
e degli stilemi settecenteschi, negli anacronismi di abiti e arredi e nella
pletora di dettagli inessenziali (il rapimento del ricciolo che dà il titolo
all’opera di Pope, ad esempio, è relegato al margine dell’inquadratura,
esclusa dal fuoco d’attenzione che invece si concentra sugli abiti – irrile-
vanti in termini comunicativi – degli astanti). In breve, nell’inversione
gerarchica fra discorso linguistico e illustrazione (l’elemento funzionale,
2
‘di servizio’), che perverte e disorienta la convenzione della lettura.
Ma una sorta di Settecento in veste camp domina anche la Corte di
Venere, vale a dire Venusberg, in Under the Hill, meta del peregrinare del
protagonista e supremo Tempio del Piacere, sorta di boudoir sadiano
consacrato al dispendio efferato di energie (sessuali, linguistiche) nel gio-
co e nella recita, che metanarrativamente si offre quale metafora porno-
3
topica sia della vulva (‘sotto il monte’, Venusberg) sia del percorso ini-
ziatico a una sessualità (a un desiderio e a una testualità) ludicamente
polimorfa e perversa, grottesca e – dovrebbe ormai essere ovvio – mai
‘coinvolgente’ in senso erotico/ermeneutico.
Venusberg si propone di fatto quale universo travestito prima ancora
che pornotopico, di un travestitismo esibizionistico che accomuna per-
sonaggi, ambientazione e linguaggio nella celebrazione della recita e del
ballo in maschera: “[t]here were mask of green velvet that make the face
look trebly powdered; masks of the heads of birds, of apes, of serpents,
of dolphins, of men and women, of little embryons and of cats; masks
like the faces of gods; masks of coloured glass, and masks of thin talc and

1
Cfr. Linda Dowling, op. cit., p. 144; e Chris Snodgrass, “Decadent Parodies: Aubrey
Beardsley’s Caricature of Meaning”, in John Stokes (ed.), Fin de Siècle/Fin du Globe:
Fears and Fantasies of the Late Nineteenth Century, London: Macmillan, 1992, p. 178.
Utilissimi nella rilettura di Beardsley sono anche i saggi contenuti in Robert Langen-
feld (ed.), Reconsidering Aubrey Beardsley, Ann Arbor: UMI Research Press, 1989.
2
Sulle illustrazioni al Rape of the Lock popiano, con particolare attenzione per l’opera
di Beardsley, è utile lo studio di Robert Halsban, The Rape of the Lock and its Illustra-
tions, 1714-1896, Oxford: Clarendon, 1980.
3
Il termine e la nozione di pornotopia si deve allo storico studio di Steven Marcus,
The Other Victorians: A Study of Sexuality and Pornography in Mid-Nineteenth-Century
England (1964), London: Weidenfeld and Nicholson, 1966.
272 GENEALOGIA DEL CAMP

1
of indiarubber”. Uno spazio, del resto, anch’esso eminentemente artifi-
ciale: “[p]erhaps the lake was only painted, after all. He had seen things
2
like it at the theatre”. Mascherato è infatti il testo stesso, che ripropone
parodicamente i modelli vittoriani di cultura ‘alta’ (quello offerto dal Tann-
häuser wagneriano, e quello romanzesco dell’Eroe in Viaggio, avvilito ad
allegoria della copula dalla quale l’eroe esce spossato, incapace di soddi-
sfare l’insaziabile voracità di Venere), così come la grafica beardsleyana
attiva una intertestualità irriverente con il Medioevo di William Morris e i
dipinti preraffaelliti di Edward Burne-Jones, Dante Gabriel Rossetti e
3
Holman Hunt.
Under the Hill è un testo che si compone secondo un principio se si
vuole già postmoderno di bric-à-brac degli oggetti, dei modelli artistici e
letterari evocati (sacri e profani, fittizi e reali, comunque buffamente per-
versi) o esplicitamente menzionati, che ha spinto la critica a parlare di un
testo ‘museale’ costruito secondo una strategia citazionale e dissacrante,
in cui l’intraprendenza sessuale degli gnomi è ad esempio descritta af-
fermando che “[t]hey illustrated pages 72 and 73 of Delvau’s Dictio-
4
nary”. Ma il bric-à-brac beardsleyano è ancor prima di matrice linguistica
(nell’eterogeneità estenuante degli stili ammassati, nell’aggettivazione
incalzante, nel periodare ad arabesco e nella ridondanza di locuzioni stra-
niere, arcaismi e argot), a segnalare la coincidenza tra saturazione cultu-
rale e decadenza, ovvero la spiccata autoconsapevolezza testuale, del lin-
5
guaggio nel linguaggio.
Quella di Beardsley è insomma una scrittura all’insegna della innatu-
ralità totalizzante e di una nuova forma di ‘bellezza’ squisitamente camp,
modulata sulla sovrabbondanza e spettacolarità barocca, che trova nell’ec-
cesso dell’imperfezione (della ‘innaturalezza’) la propria ragion d’essere:
6
“[t]he very excess and violence of the fault […] will be its excuse”, mor-
mora Tannhäuser sulla soglia di Venusberg, dopo che una rosa selvatica
si è impigliata ai ricami del fastosissimo abito da rake pseudosettecentesco
del Cavaliere. È del resto riconducibile al camp anche il Liberty grafico di

1
Aubrey Beardsley, Under the Hill, London, New English Library, 1966, p. 35.
2
Ivi, p. 64.
3
Cfr. Chris Snodgrass, op. cit., pp. 178-209. Del medesimo autore si veda anche
l’eccellente Aubrey Beardsley: Dandy of the Grotesque, Oxford: Oxford University Press, 1995.
4
Aubrey Beardsley, op. cit., p. 30. Sulla valenza ‘museale’ dell’universo beardsleyano
è puntuale Giovanna Franci, op. cit., pp. 152-155.
5
Cfr. Linda Dowling, op. cit., pp. 144-150.
6
Aubrey Beardsley, op. cit., p. 23.
LE ORIGINI DISCORSIVE, II 273

Beardsley, quel Liberty la cui tendenza al ‘travestimento’ degli oggetti


(“the lighting fixtures in the form of flowering plants, the living room
which is really a grotto”) spingeva Sontag a identificare in esso “the most
1
typical and fully developed Camp style”, e il cui accostamento di stilemi
fuori contesto esemplifica già il revivalismo camp degli anni Cinquanta-
Sessanta. Quel Liberty che, imponendosi al di fuori delle Gallerie vitto-
riane, preannuncia il design e e inaugura il ‘bello tecnico’, l’arte industria-
le; quel Liberty che, rinunciando a un’illusione di aura e proponendosi
come pura decorazione, ‘vuota’ e consapevolmente partecipe delle regole
del mercato (“ADVERTISEMENT is an absolute necessity of modern life […].
2
London will soon be resplendent with advertisements”), indica la strada
che conduce all’estetica della indefinita riproducibilità celebrata nella
Pop Art warholiana.
La valenza polemica insita nella dedizione commerciale del Liberty
beardsleyano si trova peraltro in sintonia con la eversività tanto della sti-
lizzazione (che, negando la valenza secondaria dello stile rispetto al si-
gnificato, inverte le gerarchie segniche), quanto della qualità erotica di
immagini e personaggi, paradossalmente ipersessuate e asessuate al
tempo stesso. Con strategia rappresentativa che sarà ampiamente ripresa
nel cinema del secondo dopoguerra – basti pensare ai film di Russ Meyer
e in modo particolare a Up! (1976), a Querelle (1982) di Rainer Werner
Fassbinder, o a Lisztomania di Ken Russell – il totemismo fallocratico di
Beardsley giustappone a figure maestosamente fallofore o dalla femmini-
lità caricaturale altre efebiche, inquietanti – è il caso delle Salomé – poi-
ché sostanzialmente inidentificabili sessualmente, oscillanti fra femmi-
neo e infantile, fra fatale e ludico, fra la ‘autenticità’ del genere e la men-
dacità del travestitismo. Il divertissement di Beardsley sembra insomma
offrirsi anch’esso a una lettura volta a evidenziarne la dimensione ‘criti-
ca’, contestualmente radicata nella crisi fin de siècle degli stereotipi ses-
3
suali e dei ruoli di genere. E ancora una volta linguaggio ed eros si inter-
secano: nel polimorfismo orgiastico tutto (uomini, donne, adolescenti,
satiri e nani, oggetti e bestie; ma anche stili e forme linguistiche) può co-
4
niugarsi con tutto.

1
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 279.
2
Aubrey Beardsley, “The Art of the Hoarding”, The New Review, XI, 1894, pp. 53-55.
3
Cfr. Elaine Showalter, Sexual Anarchy, cit., pp. 150-156; e Linda Gertner Zatlin, Au-
brey Beardsley and Victorian Sexual Politics, Oxford: Clarendon, 1990.
4
Cfr. Linda Dowling, op. cit., pp. 147-148.
274 GENEALOGIA DEL CAMP

Ben più significativo è stato a ogni modo il ruolo assunto da Oscar


Wilde nel passaggio dall’estetismo storico al camp in senso proprio. Il
dandismo dei Silver Fork novels risulta infatti evocato da Wilde, il quale
riprende nel titolo del suo unico romanzo – The Picture of Dorian Gray
(1890) – quel Vivian Grey (1826) di Benjamin Disraeli che ne fu espres-
sione esemplare. Tuttavia, il rapporto fra artista e committenza alla fine
del secolo fa sì che “[t]he late-Victorian dandy, however, unlike Brum-
mell or D’Orsay, had no patrons, so he needed a product. He produced
himself. The commodification, or commercial exploitation, of the dandia-
1
cal self […] amounts to the reinscription of art into life”. Come è chiaro
alla luce di quanto si è osservato nelle pagine precedenti, il camp emerge
dall’estetismo allorché quest’ultimo assume forma esplicitamente merci-
ficata, quando l’estetico viene cioè riformulato in termini da società dello
spettacolo: nelle parole di Max Beerbohm, “[b]eauty had existed long be-
2
fore 1880”, ma fu “Mr. Oscar Wilde who managed her debut”. Un de-
butto, prima ancora che nell’Alta Società, nell’economia dello scambio.
Il tardo estetismo britannico è già infatti un estetismo che si confronta
con la cultura di massa, con una dimensione artistica che si propone at-
traverso il Liberty di raggiungere la quotidianità, e con un panorama
londinese in cui la pubblicità del sé riempiva i giornali in funzione
dell’accesso alla dimensione elitaria del sociale. La necessità di pro-dursi
si esplicita nell’instancabile attività wildiana di autopromozione, segnala-
tasi fin dal periodo degli studi oxoniensi e continuata con la tournée di
conferenze statunitensi – il termine teatrale o divistico non è affatto inap-
propriato, come rivela la celebre caricatura di Max Beerbohm dell’esteta
mentre si propone alla platea statunitense – del 1882. O nell’esi-
bizionismo scandalistico (“of course a man who is much talked about is
3
always very attractive”), che più tardi Orton avrebbe sfruttato – sebbene
con esito radicalmente diverso, causa il mutato orizzonte epocale all’in-
terno del quale si muovevano i due autori.
Se l’intera opera wildiana mette in scena la caratteristica strategia
camp di depotenziamento della serietà istituzionale (dalla Chiesa alla
famiglia, dalla scuola alla ‘etichetta’, dal giornalismo alla criminologia), è
The Importance of Being Earnest (1895) a esemplificare, nell’ineguagliato
1
Regenia Gagnier, Idylls of the Marketplace: Oscar Wilde and the Victorian Public, cit.,
p. 7. Gagnier articola la propria affermazione nel secondo capitolo del volume, “Dan-
dies and Gentlemen: or, Dorian Gray and the Press”, pp. 49-100.
2
Max Beerbohm, “1880”, The Yellow Book, 1894.
3
Oscar Wilde, The Importance of Being Earnest (1895), in The Complete Works, cit., p. 359.
LE ORIGINI DISCORSIVE, II 275

spettacolo di sé offerto dall’Alta Società (vale a dire, nella rappresenta-


zione della società dello spettacolo fin de siècle), lo scintillìo verbale e la
paradossalità che hanno reso Wilde celebre. In questa commedia brillan-
te tutto è ricondotto a una posa, a un artificio: la ‘franchezza’ di cui si
fanno portatori Jack e Algernon, i due protagonisti che si propongono
quali ‘Ernest’ (vale a dire sia ‘Ernesto’ sia – nella variante ‘Earnest’ – ‘se-
rio’, ‘schietto’, ‘franco’), altro non è che una strategia seduttiva nei con-
fronti di Cecily e Gwendolen, le quali – lungi dall’essere vittime del rag-
giro – analogamente vivono all’insegna del fittizio e dell’ostentazione.
Mentre Gwendolen non viaggia mai priva del proprio diario, poiché
1
“[o]ne should always have something sensational to read in the train”, il
diario tenuto da Cecily viene da lei stessa descritto come “simply a very
young girl’s record of her own thoughts and impressions, and conse-
2
quently meant for publication”. Il soggetto seduttore e quello sedotto,
privati di spessore, vivono divisticamente ‘in vetrina’. Ci si confronta in-
somma con un universo presieduto dal culto della personalità come ma-
schera, quella personalità che solo a partire dal secolo scorso indica
l’individuo, e che il Novecento avrebbe recuperato alla sua veste pagana;
o dall’ipocrisia, privata dell’accezione negativa e restituita al valore eti-
mologico di esibizione di doti d’attore. Un universo parodicamente desa-
cralizzato: nelle parole di Gwendolen, “[w]e live […] in an age of ideals.
The fact is constantly mentioned in the more expensive monthly maga-
zines, and has now reached the provincial pulpits, I am told; and my
3
ideal has always been to love some one of the name of Earnest”. Un uni-
verso che ingloba l’extrafittizio nella logica della teatralità, come ebbe modo
di rendere esplicito Wilde allorché, dopo una rappresentazione, si compli-
mentò con il pubblico entusiasta per la sua eccellente performance, o
4
quando scrisse che “[i]t is the spectator, and not life, that art really mirrors”.
Si comprendono in tal senso le ragioni per le quali si è rintracciata in
Wilde una precoce messa in crisi del cosiddetto ‘modello di profondità’ e
delle dicotomie di matrice umanista (reale/fittizio, soggetto/oggetto, ar-
te/prodotto seriale, ecc.), messa in crisi che – unitamente alla presa di
coscienza della modellizzazione culturale nella costituzione della natura-
lità (è la vita ad imitare l’arte) e al proliferare di ‘verità’ contraddittorie

1
Ivi, p. 363.
2
Ivi, p. 357.
3
Ivi, p. 330.
4
Oscar Wilde, “Preface to The Picture of Dorian Gray”, in The Complete Works, cit., p. 17.
276 GENEALOGIA DEL CAMP

tanto nell’opera d’arte quanto nel soggetto – si è vista essere prerogativa


1
del paradigma postmoderno.
Come si è detto, la rilettura del tardo estetismo prende le mosse dalla
consapevolezza della imprescindibile mediazione della nostra contempo-
raneità sull’oggetto storico. In tal senso l’influenza del pensiero di Walter
Pater su Wilde non è più percepita in termini di derivazione degenerata
o prostituita, bensì di partecipazione alla generale tendenza tardoestetiz-
zante a violare la sacralità dei maestri, e a un approccio già postmoderno
alla mercificazione dell’artistico, riproducendo – com’è evidente negli
aforismi – le modalità pubblicitarie diffuse sulla scena urbana del tempo
per offrirne una critica dall’interno.
Ma la sovrapposizione del presente storicizzante vale in misura ancor
maggiore a proposito della specifica valenza omosessuale del personag-
gio Wilde e della sua opera. Sembra infatti essere alla fine del secolo
scorso – nonostante prassi oggi considerate omosessuali si siano ovvia-
mente disposte in epoche precedenti – che la nozione attuale di ‘omo-
sessualità’ prenda corpo, attraverso una procedura categorizzante in testi
2
medici e legali. L’omosessuale verrebbe ‘alla luce’ in Gran Bretagna nel
1885 con il Criminal Law Amendment Act di Henry Labouchère, che
perseguiva penalmente i rapporti omoerotici, e con la sua applicazione
dieci anni più tardi nei processi Wilde, che condannando l’esteta ai lavori
forzati lo avrebbe consacrato quale formidabile icona del martirio gay e
stereotipo dell’omosessuale nel corso del Novecento.
La lettura che si è venuta producendo su Wilde all’interno dei gay stu-
dies, così come del resto sull’intero fenomeno del camp, richiama cioè
quella datane in ambito processuale, alla ricerca di una potenzialità ever-
siva (salvo ovviamente mutarla di segno). La paradossalità wildiana, ad
esempio, viene ricondotta a una destabilizzazione del senso comune; il
Bunburyism – il ricorso a un inesistente ‘Mr. Bunbury’ che in The Impor-
tance of Being Earnest consente ad Algernon di condurre una doppia vita
– sarebbe la premessa per la moltiplicazione delle personalità (delle ma-
schere) necessaria a una esistenza condotta sul confine fra lecito ed ille-

1
Sulla valenza postmoderna di Wilde si veda Jonathan Dollimore, Sexual Dissidence,
cit., pp. 64-73.
2
Intorno alla correlazione storica fra omosessualità e patologia, con specifica atten-
zione alla sua rappresentazione letteraria a cavallo dei due secoli, si veda Vita Fortuna-
ti, “Homosexualité et maladie dans la littérature anglaise de 1890 à 1930”, in Max Mil-
ner (a cura di), Littérature et pathologie, Paris: Presses Universitaires de Vincennes,
1989, pp. 213-226.
LE ORIGINI DISCORSIVE, II 277

1
cito. La valenza omosessuale della ‘posa’, che ha caratterizzato il camp –
soprattutto nella sua fase clandestina – nella direzione di ‘codice gay’, è
insomma come si vedrà nella prossima sezione un effetto del discorso
processuale, poiché prima di esso l’effeminatezza, testimoniata ad esem-
pio dal dandy, dal fop, dal rake, dal culto settecentesco della sensibilità o
dall’estetismo di Pater (e da quello wildiano antecedente i processi), non
era univocamente percepita come indicativa di un’identità gay. Fu solo
durante gli atti giudiziari che la percezione venne codificata, a sancire la
sostanziale coincidenza fra ‘Oscar Wilde’, estetismo, ostentazione effe-
minata e omosessualità, che risuonerà nella prima attestazione del camp
di cui si diceva in apertura e che segnerà a lungo la cultura britannica.

9.2. Le origini del bricolage camp e il processo ‘Oscar Wilde’

Identificare le origini discorsive – in prospettiva genealogica – del camp


significa di fatto investigare le intersezioni politiche, giudiziarie e medi-
che che hanno costituito la strutturazione di un paradigma epistemico.
Vale a dire investigare il processo culturale che è venuto riconducendo
alla identità omosessuale il corpo di strategie rappresentative (di sé, e del
mondo) all’insegna dell’effeminatezza e della inautenticità dell’essere
ascritta, al suo emergere ad inizio secolo, nella prima definizione del
camp (si confronti il capitolo 2). Ciò comporta una rilettura dei rapporti
instaurati nelle varie epoche fra omosessualità, effeminatezza e teatralità
alla luce della nota tesi genealogica di ‘nascita’ dell’omosessuale nella
seconda metà del secolo scorso – ‘nascita’ che assume significative inter-
2
relazioni con le ‘origini’ del camp quale lo conosciamo.
Questo è un progetto nel quale risulta di primaria utilità rifarsi a uno

1
Esemplari in tal senso le allusioni elencate da Christopher Craft, “Alias Bunbury:
Desire and Termination in The Importance of Being Earnest”, Representations, 31, Spring
1990, pp. 19-46; e da Wayne Koestenbaum, “Wilde’s Hard Labor and the Birth of Gay
Reading”, in Joseph A. Boone and Michael Cadden (eds.), Engendering Men: The Ques-
tion of Male Feminist Criticism, London: Routledge, 1990.
2
Sulla ‘nascita’ dell’omosessuale si veda – oltre al ‘classico’ La volonté de savoir di Mi-
chel Foucault, cui del resto si rifanno tutti i sostenitori di questa tesi – Jeffrey Weeks,
Sex, Politics and Society: The Regulation of Sexuality since 1800, cit., pp. 99-103. La cen-
tralità dell’immagine wildiana nella costituzione di una ‘identità’ omosessuale è peral-
tro il fuoco d’attenzione di Ed Cohen, Talk on the Wilde Side: Towards a Genealogy of a
Discourse on Male Sexualities, London: Routledge, 1993; e di Alan Sinfield, The Wilde
Century, cit.
278 GENEALOGIA DEL CAMP

1
studio di Alan Sinfield – The Wilde Century – nel quale il critico inglese
attiva una rilettura dello spettro delle sessualità funzionale alla destabi-
lizzazione dei poli attorno ai quali si è venuta strutturando la moderna
concezione d’identità sessuale e della localizzazione nel sesso della ‘in-
tima verità’ del soggetto. Rileggere la circolazione delle sessualità e dei
ruoli di genere in Shakespeare, come fa Sinfield, si consegna quale prima
e inevitabile tappa di uno straniamento del legame stereotipico che il
senso comune stabilisce fra omosessualità, effeminatezza e teatralità, va-
le a dire del quadro di intelligibilità degli stessi che la stratificazione di-
scorsiva fra cultura dominante e istanze sottoculturali è venuta edifican-
do, e in particolare della polarità fra maschile e femminile e fra i loro in-
dici sociali, ‘mascolinità’ e ‘femminilità’/‘effeminatezza’.
La passione omoerotica che circola nei numerosi testi rinascimentali
cui Sinfield attinge nella sua rassegna – che spazia dal miltoniano Sam-
son Agonistes al Tamburlaine e a Dido Queen of Carthage di Christopher
Marlowe, privilegiando a ogni modo Shakespeare con Troilus and Cressida,
Romeo and Juliet, Antony and Cleopatra, Coriolanus e Henry V – era fonda-
mentale quale collante sociale fra figure la cui mascolinità ne era raffor-
zata più che messa in crisi. L’effeminatezza veniva imputata a un eccesso
di frequentazione femminile, e riprovata in quanto prassi di disturbo alla
gerarchia sociale e culturale: l’uomo era tale se si vincolava a una società
tanto esclusivamente maschile quanto depositaria di valori marziali, e se
avvicinava il femminile senza abbandonare la propria posizione di auto-
rità e la mascolinità cui questa corrispondeva.
I fops e cuckolds rappresentati, ad esempio, in The Country Wife di Wil-
liam Wycherley o in The Princess of Cleve di Nathaniel Lee, testimoniano
nella seconda metà del Seicento un’effeminatezza cui corrisponde, prima
ancora che un eclettismo sessuale (del resto non esclusivamente omo-
sessuale), l’incapacità di gestire con successo il rapporto con il femminile,
con l’‘inferiore’. La prassi sodomitica si inscriveva in questa medesima
logica di preservazione dell’ordine: essa risultava tollerabile o meno in
ragione del ruolo assunto nell’atto, rendendo il termine derogatorio
‘Ganymede’ esclusiva del partner passivo in quanto reo di aver abdicato
dalla posizione di supremazia maschile per abbassarsi al ruolo cui solo le
2
donne erano legittimamente confinabili.

1
Alan Sinfield, The Wilde Century, cit.
2
Cfr. Alan Sinfield, “Uses of Effeminacy”, in The Wilde Century, cit., pp. 25-51. Oltre
che Sinfield, sono imprescindibili gli altri studi che la storiografia gay e neostoricista ha
LE ORIGINI DISCORSIVE, II 279

A fronte di tale inversione – rispetto alla contemporanea accezione del


termine – delle connotazioni ascrivibili alla ‘effeminatezza’, il Settecento
inaugura uno schema di distribuzione delle pratiche sessuali e di indici
comportamentali in maggiore consonanza con quello attivo a tutt’oggi.
Non si tratta tuttavia di uno schema interamente assimilabile alla con-
temporaneità, come invece suggeriscono fra gli altri i contributi in sede
storiografica di Randolph Trunbach e Rictor Norton, i quali hanno indi-
cato nelle molly houses (sorta di zone franche, in cui i confini di classe e di
genere sessuale erano oltrepassati da figure che, appartenenti all’aristo-
crazia e alla working class, vi si incontravano all’insegna del travestitismo
e dell’effeminatezza omosessuale: in breve, del camp) la prima costitu-
zione di una formazione culturale del tutto analoga alla sottocultura gay
1
nel Novecento.
In effetti, le ragioni d’essere dell’omosessualità risultano in larga mi-
sura dissimili rispetto a quella fondanti l’attuale identità gay. Come del
resto nel Seicento, la prassi sodomitica – cui ci si riferiva con i termini di
sodomy o di buggery – o il travestitismo di cui erano ad esempio teatro le
molly houses, venivano infatti culturalmente costruiti quale vizio cui era
potenzialmente soggetto chiunque. L’effeminatezza era in tal senso non
tanto l’indice del sodomita quanto una prerogativa dell’elemento aristo-

prodotto nel settore: si vedano in particolare Bruce Smith, Homosexual Desire in Shake-
speare’s England, Chicago: Chicago University Press, 1991; Alan Bray, Homosexuality in
Renaissance England, London: Gay Men’s Press, 1982; Id., “Homosexuality and the
Signs of Male Friendship in Elizabethan England”, History Workshop, 29, 1990, pp. 1-
19; Gregory W. Bredbeck, Sodomy and Interpretation: Marlowe to Milton, Ithaca: Cornell
University Press, 1991; Jonathan Goldberg, Sodometries, Stanford: Stanford University
Press, 1992; e Stephen Orgel, “Nobody’s Perfect: Or Why Did the English Stage Take
Boys for Women?”, South Atlantic Quarterly, 88, 1989, pp. 7-29. I contributi di rilettura
sullo spettro delle sessualità protomoderne sono peraltro ormai numerosissimi. Per
un’ottima rassegna si veda Jonathan Dollimore, “Shakespeare Understudies: The
Sodomite, the Prostitute, the Transvestite and Their Critics”, in Jonathan Dollimore
and Alan Sinfield (eds.), Political Shakespeare: Essays in Cultural Materialism, Manches-
ter: Manchester University Press, 1994, pp. 129-152.
1
Cfr. Randolph Trunbach, “London’s Sodomites: Homosexual Behavior and West-
ern Culture in the Eighteenth Century”, Journal of Social History, 11, 1977, pp. 1-33;
Id.,“Sodomitical Subcultures, Sodomitical Roles, and the Gender Revolution of the
Eighteenth Century: The Recent Historiography”, Eighteenth-Century Life, 9, 1985, pp.
109-121, e Ricton Norton, Mother Clap’s Molly House: The Gay Subculture in England,
1700-1830, London: Gay Men’s Press, 1992. È in base a tale consonanza fra sottocultu-
ra gay e prassi delle molly houses che quest’ultime sono state indicate quali primissime
istanze del low camp da David Bergman, “Strategic Camp”, cit., p. 93; e da Thomas
King, op. cit.. In base al principio ‘genealogico’ qui assunto, a ogni modo, l’inclusione
delle stesse nel camp risulta problematica, se non palesemente illegittima.
280 GENEALOGIA DEL CAMP

cratico, un segno di quella improduttiva, esornativa dissolutezza upper-


class cui si contrapponeva la feconda concretezza (o pienezza, verità e
1
coerenza, d’essere) segnalata dalla mascolinità del soggetto borghese.
La contrapposizione fra mascolina produttività ed effeminata raffina-
tezza del dispendio non va tuttavia pensata in termini rigidamente dico-
tomici. All’imporsi della borghesia come classe egemone corrispose in-
fatti un processo di ingentilimento della stessa, in cui la raffinatezza della
‘femminile’ ricchezza culturale era percepita quale necessario contraltare
alla ‘maschile’ produzione di patrimonio economico: se all’aristocrazia era
imputabile in questo quadro ideologico un eccesso di improduttiva raffina-
tezza, la sana cultura borghese promuoveva l’equilibrata commistione di
qualità maschili e femminili che si produsse nel settecentesco ‘culto della
sensibilità’, del quale sono esemplare rappresentazione letteraria le ope-
2
re di Henry Mackenzie, Richard Brinsley Sheridan e Laurence Sterne.
Con un’inevitabile depotenziamento delle complesse stratificazioni
storiche di cui Sinfield dà ampia testimonianza, si può invece legittima-
mente identificare nel corso dell’Ottocento una radicalizzazione dell’al-
terità di ruoli del maschile e del femminile. Le riflessioni sull’appro-
priatezza del comportamento sociale di uomini e donne che emergono
dalla messe di testi letterari minori e di documenti storici cui attinge
l’analisi di Sinfield, e la correlata ansia che produsse la pubblicazione a
metà del secolo del tennysoniano In Memoriam (nel quale l’appassionata
devozione dell’autore all’amico scomparso Arthur Hallam si sovrappone
a un oscillante posizionarsi sullo spettro dei ruoli di genere), sono infatti
ascrivibili a una ristrutturazione dei confini di classe e sessualità parteci-
pe di un più ampio progetto di autoridefinizione politico-culturale della
Gran Bretagna.
L’affermazione della manliness che si articola su diversi piani nel corso
del secolo – attraverso istanze di mascolinizzazione del quadro religioso
con la Muscular Christianity, o nella promozione dello sport come feno-
meno di costume della upper-middle class, o dell’attività ginnica all’inter-
no delle istituzioni scolastiche, e le parallele richieste di riduzione nei
programmi di studio dei classici latini e greci (la cui rappresentazione di
passioni omoerotiche poteva turbare l’equilibrio dei giovani) – risulta es-

1
Più ancora che Sinfield, Thomas King, op. cit. offre spunti di eccellente lucidità in
merito al rapporto fra aristocrazia, omosessualità e sistemi segnici dell’effeminatezza.
Si confrontino in merito i capitoli 1 e 7.
2
Cfr. Alan Sinfield, “Manly Sentiments”, in The Wilde Century, cit., pp. 52-83.
LE ORIGINI DISCORSIVE, II 281

sere in questo senso la risposta a una crescente messa in crisi dei confini
di genere, o in altri termini l’espressione di uno stato culturale che pro-
prio nelle istituzioni scolastiche, ad esempio, vedeva fiorire gli insegna-
menti estetizzanti di Walter Pater, e con questi le pratiche omoerotiche
fra gli allievi. Al contempo, la problematicità non era inerente alle prati-
che in sé, bensì alla sfida che esse, e l’oziosa immoralità di cui si faceva
depositaria l’aristocratica leisure class che ospitava sia l’effeminatezza sia
una sessualità esuberante le modalità legittimamente date dalla normati-
vità dominante, portavano all’organizzazione gerarchica del nucleo fami-
liare e al mantenimento della divisione fra classi funzionale all’ordine
sociale.
Ciò che emerge dall’excursus storico cui Sinfield dedica la gran parte di
The Wilde Century, in breve, è l’intricato evolversi di un’organizzazione di
segni prima ancora che di pratiche sessuali. Queste non determinarono
del resto neppure l’effeminatezza che caratterizzò l’estetismo decadente
e la fin de siècle britannica, in cui il dispendio e la superficialità dell’aristo-
crazia si coniugarono con quanto veniva rappresentato – si pensi alle in-
fluenti riflessioni di Max Nordau – come eccesso di interesse per
l’improduttiva sfera artistica e come ‘degenerazione’ della specie, in even-
tuale (ma non necessaria) sovrapposizione a una pratica sodomitica sen-
1
za per questo denunciarla univocamente.
I molteplici fattori che oggigiorno – soprattutto in contesto anglosas-
sone – verrebbero identificati con un’omosessualità del soggetto che se
ne fa portatore, erano cioè indicati quali elementi o prassi singolarmente
riprovevoli, senza per questo essere leggibili come un tutt’uno, ricondu-
cibili cioè a un quadro di intelligibilità che li organizzasse in un sistema
in cui un elemento rimanda inesorabilmente all’altro. Con questi oriz-
zonti si confrontò esemplarmente Oscar Wilde, il quale doveva indivi-
duare nella commistione di amoralità, teatralizzata eccentricità, ostenta-
zione di sé e indolenza che il dandy incarnava fin dallo storico Lord
Brummell nell’Inghilterra della Reggenza, il terreno per una messa in cri-
si in chiave estetizzante delle distinzioni gerarchiche fra classi e sessi, con
le loro molteplici implicazioni in termini culturali. Nell’esame di una te-
stualità e di un soggetto che si segnalano per la sovversività della loro
indeterminatezza piuttosto che per quella della pratica sessuale, il lavoro
di Sinfield prende infatti le mosse da un irriducibile divario fra l’attuale
1
Cfr. Alan Sinfield, “Aestheticism and Decadence”, in The Wilde Century, cit., pp.
84-108.
282 GENEALOGIA DEL CAMP

quadro di intelligibilità e quello del secolo scorso, nella sorprendente


constatazione che i contemporanei di Wilde non lo avevano percepito
come un soggetto omosessuale.
Fin dal suo esordio sulla scena pubblica oxoniense, l’atteggiamento
wildiano risulta in effetti presieduto da un’ostentazione di trasgressività
più che da un suo occultamento. I diversi elementi costitutivi del sistema
semiotico afferente all’effeminatezza di cui sopra, che nel Novecento
hanno riferito quasi univocamente a un soggetto omosessuale, erano
percepiti come partecipi di una dissolutezza aristocratica, di una wicked-
ness che trovava del resto nel pubblico femminile dell’Alta Società il pro-
prio interlocutore privilegiato, senza per questo denunciare una pratica
sessuale all’epoca recentemente ricodificata in termini di illegalità.
L’emendamento di Henry Labouchère al Criminal Law Amendment
Act del 1885 – il cosiddetto ‘Blackmailer’s Charter’, che nel sancire la
perseguibilità degli atti di gross indecency decretava il regime di clandesti-
nità omosessuale (il closet) che avrebbe segnato la gran parte del Nove-
1
cento – non investiva infatti l’effeminatezza quale prova indiziaria, come
testimonia del resto il verdetto di assoluzione nel processo a Ernest Boul-
2
ton e Frederick Park celebratosi nel 1871, poiché questa risultava ancora
inscritta nell’ambiguità ottocentesca di cui si è detto. Esemplari sono in
questo senso due dichiarazioni da parte dello stesso Labouchère a breve
distanza di tempo: se l’effeminatezza era stigmatizzata nel 1883, allorché
si definiva derogatoriamente Wilde “the epicene youth” e “an effeminate
phrase-maker”, solo due anni prima – commentando il tour nordameri-
cano dell’esteta – essa era mutata diametralmente di segno nell’invocare
l’iperestetismo wildiano quale necessario correttivo all’ipermaterialismo
3
statunitense.
Il momento topico sarà la celebrazione nel 1895 dei tre processi che
coinvolsero Wilde e il padre del suo protegé Alfred Douglas, la cui straor-

1
La depenalizzazione dell’omosessualità in Gran Bretagna avvenne nel 1967 con il
Sexual Offences Act, in cui si autorizzò la sua pratica fra persone di età superiore ai
ventuno anni.
2
Il processo vide imputati di pratiche sodomitiche due teatranti noti anche con il
nome d’arte di Fanny e Stella, che furono assolti perché la loro effeminatezza e dedi-
zione al travestitismo, e con queste le lettere degli ammiratori prodotte dall’accusa,
non costituivano sufficiente prova indiziaria. Al caso, e alla sua significatività per il
camp, si è già accennato nel capitolo 7.
3
Cit. in Alan Sinfield, The Wilde Century, cit., p. 93. Ciò invalida di fatto l’automatismo
dell’equiparazione di effeminatezza, estetismo e omosessualità operata da Richard
Dellamora, Masculine Desire, cit.
LE ORIGINI DISCORSIVE, II 283

dinaria eco sui periodici e il cui esito avrebbero caratterizzato nell’immagi-


nario collettivo Oscar Wilde come ‘il sodomita’ per antonomasia. Il nome
stesso di Wilde diveniva in effetti sinonimo di soggetto omosessuale,
come segnala il fatto che i giornali avevano riportato la frase del Marche-
se di Queensberry che aveva scatenato l’azione legale – “To Oscar Wilde,
posing as a somdomite”[sic] – riducendolo a “Oscar Wilde, posing as —”
1
o ancor più sinteticamente a “Oscar Wilde”. Ciò che si poneva in gioco
era l’innominabilità del reato, e con questa la traslazione omologante di
quello che a lungo sarebbe stato the love that dare not speak its name sul-
l’elemento nominabile, ‘Oscar Wilde’, e in particolare sul suo proporsi
pubblico all’insegna del posing, vale a dire dell’effeminata ostentazione di sé
2
che precedentemente era indice e prerogativa del soggetto aristocratico.
È attraverso la figura stigmatizzata dell’esteta, dunque, che prese for-
ma la configurazione novecentesca dell’omosessuale, la sua sovrapposi-
zione (il gesto, per così dire, di ‘adozione’) con il camp, e con questi la
divisione fra ‘mascolinità’ ed ‘effeminatezza’ con la quale ci si confronta
a tutt’oggi. Il sistema semiotico dell’effeminatezza veniva infatti ristruttu-
rato alla luce del caso Wilde, legittimando quello che Sinfield chiama il
3
queer bricolage, e che può essere immediatamente rinominato camp brico-
4
lage: la sommatoria di posa aristocratica, estetismo, istrionica indolenza,
rottura della ‘proprietà’ di sesso e classe (l’altoborghese Wilde era reo di
5
rapporti interclassisti, oltre che intragenerici, con il nobile Douglas), che
finalmente aveva trovato una tanto precisa quanto innominabile ragion

1
Imprescindibile sulla rappresentazione coeva dei processi Wilde è Ed Cohen, Talk
on the Wilde Side, cit.
2
In Maurice E. M. Forster parla ad esempio di “unspeakable of the Oscar Wilde
sort”. E. M. Forster, Maurice, Harmondsworth: Penguin, 1972, p. 136. Intorno alla va-
lenza post-processuale del posing ha spunti interessanti anche Moe Meyer, “Under the
Sign of Wilde: An Archeology of Posing”, in Moe Meyer (ed.), op. cit., pp. 75-109.
3
La nozione di bricolage che sottende l’argomentazione di Sinfield è ovviamente de-
rivata da Claude Lévi-Strauss, il quale la articola esemplarmente ne Le totémisme au-
jourd’hui, Paris: P.U.F., 1962, e ne La pensée sauvage, Paris: Plon, 1962.
4
Camp e queer, s’è detto, sono ampiamente sovrapposti e sovrapponibili (cfr. il capi-
tolo 7). L’utilizzo che Sinfield fa di queer in senso storico (e, almeno in parte, teorico) è
di fatto intercambiabile con quello di camp, cui del resto lo stesso volume di Sinfield fa
ampiamente ricorso.
5
Il modello wildiano di omosessualità ha infatti marcate implicazioni in termini di
ceto sociale: esemplare in tal senso l’acrimonia della classe operaia per gli ‘oscarwile’, e
il fatto che la queerness escludesse il soggetto di pratiche omoerotiche appartenente alla
lower class. Cfr. Alan Sinfield, “Class Relations”, in The Wilde Century, cit., pp. 130-160.
Ma si confronti anche quanto osservato nel capitolo 7 sulle implicazioni della queerness
in chiave di classe sociale.
284 GENEALOGIA DEL CAMP

1
d’essere nell’orientamento sessuale del soggetto.
Un’identificabilità, un effetto discorsivo, un paradigma indiziario si e-
rano così ad un tempo costituiti. E l’immagine wildiana avrebbe infatti
costituito il principale stereotipo dell’omosessuale fino agli anni Settanta,
quando la nascita dell’attivismo gay si tradusse nel rifiuto dello stereoti-
po del queer (nell’accezione umiliante del termine, che sarà in questa fase
pressoché l’unica in circolazione, e cui sarà contrapposta l’autonomina-
zione ‘gay’) attraverso l’articolazione di un modello ipermascolino – con
l’immagine butch, o con la cultura clone in California – cui corrispondeva
2
un’istanza agonistica a difesa dei diritti e dell’orgoglio omosessuale. Il
fatto che un lettore, soprattutto se gay, non possa evitare di percepire oggi-
giorno un’allusività omoerotica nei testi wildiani, e di sorprendersi perché
la sessualità di Wilde possa avere per quindici anni eluso il riconoscimento
da parte dei contemporanei, è in questo senso riconducibile a un effetto
epistemico: Oscar Wilde, prima ancora che oggetto di lettura, è insomma
inscritto nel quadro di intelligibilità che su quell’oggetto si investe.
In tale chiave, i riferimenti alla potenzialità omosessuale in Wilde – e,
ad un tempo, nel camp come discorso – non possono limitarsi a registra-
re allusioni alla sottocultura gay all’epoca diffusa fra i meandri urbani,
come nel caso del garofano verde ostentato dall’esteta – segno di ‘rico-
noscimento’ negli ambienti parigini e simbolo della innaturalità impro-
duttiva di cui l’edonismo wildiano si faceva portatore in termini semanti-
ci oltre che sessuali –, o nella particolare seduzione esercitata da Lord
Henry Wotton su Dorian attraverso quello yellow book in cui si è identifica-
to A Rebours di Joris-Karl Huysmans (romanzo nel quale, incidentalmente,
è ritratta l’esperienza omosessuale). O ancora, nell’insinuazione di un
rapporto omoerotico tra Shakespeare e il destinatario dei Sonetti, di cui
3
ci viene presentato un ritratto in “The Portrait of Mr. W.H.” (1889).

1
Che l’effeminatezza divenga un segno distintivo del soggetto omosessuale solo in
conseguenza dei processi Wilde è sostenuto efficacemente anche in L. Dowling, Helle-
nism and Homosexuality in Victorian Oxford, Cornell UP, Ithaca 1994.
2
L’univocità del modello wildiano sarà indotta, oltre che da teorie mediche di cui si
dirà nelle prossime pagine, dalla mancata circolazione di un modello alternativo
all’interno della sottocultura omosessuale (non ultimo perché il Maurice forsteriano,
nel quale si dispone un preciso rifiuto della queerness, non doveva essere pubblicato
prima del 1971). Sul tentativo di E. M. Forster di legittimare una modalità esistentiva
omosessuale all’insegna della mascolinità si veda Joseph Bristow, “Against ‘Effemi-
nancy’: The Sexual Predicament of E. M. Forster”, in Effeminate England: Homoerotic
Writing After 1880, Buckingham: Open University Press, 1995, pp. 55-99.
3
Sulla valenza simbolica del ‘ritratto’ nella cultura dell’estetismo e della fin de siècle è
LE ORIGINI DISCORSIVE, II 285

Non possono perché i testi non confortano tanto un’allusione a una


identità gay quanto una ri-definizione dell’identità tout court: di Dorian
Gray, ad esempio, si dice che si interrogasse sulla “shallow psychology of
those who conceive the Ego in man as a thing simple, permanent, relia-
ble, and of one essence. To him, man was a being with myriad lives and
myriad sensations, a complex multiform creature that bore within itself
strange legacies of thought and passion, and whose very flesh was
1
tainted with the monstruous maladies of the dead”. Il ritratto che dà il
titolo sia al Dorian Gray sia a “Mr. W. H.”, insomma, si consegna solo
quale tentativo fallimentare di definire ‘l’essere’ omosessuale: non è in-
fatti dato accertare se lo Willie Hughes del dipinto sia effettivamente esi-
stito, mentre il Doppio che sottrae l’esistenza a Dorian Gray, assumendo
le tracce della sua ‘degenerazione’ (intorno alla quale non abbiamo alcu-
na prova testuale del fatto che sia da ricondurre all’omosessualità), altro
non è che un artefatto, indicativo solo di quanto è culturalmente rappre-
sentato quale soggetto degenerato.
Distruggere il ritratto, prima ancora che uccidere Dorian, significa in-
somma devastare le strategie rappresentative tardovittoriane e la nozione
essenzialista del soggetto: in breve, l’identità profonda, investita di carat-
tere essenziale e transculturale (di ‘stabilità’), fosse questa dell’omoses-
suale o del soggetto borghese, ridotto – analogamente al garofano verde,
che Wilde sosteneva essere del tutto privo di significato, di essenzialità, e
che incoraggiò l’intera platea a indossare in occasione della première di
Lady Windermere’s Fan (1892) – a un prodotto di performatività: a un se-
2
gno ‘vuoto’.

9.3. In nome di Wilde

Una prima censura dovuta alla trattazione di un soggetto biblico e la pro-


scrizione che seguì la débâcle giudiziaria impedirono a Wilde di assistere
alla rappresentazione teatrale di Salomé (1893), la sua opera più aperta-
mente eversiva, in cui il desiderio della protagonista sovverte le leggi di-
vine e secolari del profeta Jokanaan e del Tetrarca di Giudea. Solo nel
ottimo Benedetta Bini, L’incanto della distanza. Ritratti immaginari nella cultura del deca-
dentismo, Bari: Adriatica, 1992.
1
Oscar Wilde, The Picture of Dorian Gray, cit., p. 112.
2
Cfr. Joseph Bristow, “Wilde, Dorian Gray, and Gross Indecency”, in Joseph Bristow
(ed.), op. cit., pp. 44-63; e Alan Sinfield, The Wilde Century, cit., pp. 17-21.
286 GENEALOGIA DEL CAMP

1931 si sarebbe consentita la messa in scena della tragedia nei teatri au-
1
torizzati dal Lord Chamberlain’s Office. Era cioè calato il sipario pub-
blico su ‘Oscar Wilde’: nelle parole di un contemporaneo, “[t]he best
thing for everybody now is to forget all about Oscar Wilde, his perpetual
posings, his aesthetical teachings and his theatrical productions. Let him
2
go into silence, and be heard no more”.
È perlopiù in questa dimensione occulta e al tempo stesso riconoscibile
indiziariamente, sotto il segno del dramma wildiano e per così dire ‘in
nome di Wilde’, che il camp si diffonde in Gran Bretagna durante la pri-
ma metà del nostro secolo. Esso si sviluppa – fino a quando la discussa
sovrapposizione fra controcultura pop e camp non interviene a modifica-
re le condizioni d’essere di quest’ultimo – in accordo a quella strategia di
indecidibile ambiguità messa in gioco dal teatro wildiano, scisso in ter-
mini di possibilità fruitive fra un sentimentalismo idilliaco che consentiva
all’Alta Società l’identificazione con l’immagine rappresentata, una qual-
che valenza satirica volta a compiacere i recensori, e infine una dimen-
sione di lettura specificamente rivolta nella propria ambigua allusività
alla audience omosessuale, la quale dominando lo spettro delle possibili
letture – articolandosi nel medesimo codice – possedeva di fatto una
3
chiave privilegiata di accesso al testo.
Dominati dall’icona wildiana e orientati verso una ‘élite del margine’
del tutto immaginaria furono la personalità e il lavoro di Frederick Rolfe,
detto ‘Baron Corvo’, la cui condizione di escluso si associa all’osten-
tazione di una propria qualità aristocratica. Questa dialettica presiede in
particolare ai romanzi Don Renato (1909) e Nicholas Crabbe, or the One and
the Many (apparso postumo nel 1958), nel ricorso a una modalità espres-
siva esasperatamente aulica, in cui l’erudizione esibita a livello di registro
e di rimandi testuali si consegna quale ricerca di una comunità di pari.
Siamo di fronte insomma all’esordio della ‘regina’ camp, di un narcisi-
smo dalle sfumature patologiche, chiusa nell’enigmaticità della corazza
cui allude il nome Crabbe (da crab, ‘granchio’), ossessionata da ansie di
1
Nel frattempo essa ottenne solo tre produzioni ‘private’, fra il 1905 e il 1911 (il 3 e
10 marzo 1905 al Bijou Theatre di Bayswater; il 10 giugno 1906 al King’s Hall, e infine
il 27 febbraio 1911 al Royal Court Theatre). Cfr. Karl Beckson, “Salomé”, Times Literary
Supplement, 23 September 1994, p. 17.
2
Cit. in Regenia Gagnier, op. cit., p. 146. La rimozione di Wilde caratterizza più che
altro la scena britannica. Nell’Europa continentale e almeno in parte negli Stati Uniti la
stigmatizzazione non si manifestò in forma così violenta, consentendo un apprezza-
mento della sua significatività estetica.
3
Cfr. Regenia Gagnier, op. cit., p. 106 e passim.
LE ORIGINI DISCORSIVE, II 287

persecuzione e dal desiderio di reperire un palcoscenico sul quale imporsi,


sia questo identificato nella scrittura propriamente creativa, nell’autobio-
grafia o nella ricerca storica.
Al pari della saggistica di Lytton Strachey, considerata un primo e-
sempio di quella biografia anelante allo statuto artistico che, una volta di
1
più, otterrà una canonizzazione fra le pratiche letterarie postmoderne, la
ricerca storica in Rolfe – ad esempio in Chronicles of the House of Borgia
(1901) o in Don Tarquinio (1905) – risulta conforme all’invito wildiano a
spettacolarizzare la Storia, invertendo i luoghi comuni e le verità tra-
mandate, privilegiando il virtuosismo del performer alla dignità della ma-
2
teria trattata, la falsità della posa da erudito al rigore storiografico. Ma il
dramma wildiano fa sì che l’apoteosi del sé possa trovare realizzazione
solo nello spazio dell’immaginario, nell’illusione di un’unità primigenia –
inscindibile, in quel pensiero travestito che è il camp, da una consapevo-
lezza del suo carattere illusorio – che si offre in The Desire and Pursuit of
the Whole (1934), o nel delirio di potere di un ‘Oscar Wilde’ trasformato –
secondo quanto avviene in Hadrian the Seventh (1904), il cui protagonista
passa nel volgere di pochi giorni dall’anonimato al soglio pontificio – da
reietto dal mondo a dominatore di una dimensione, cerimoniosa ed eli-
3
taria, ‘altra’ dal mondo.
Non a livello di registro stilistico bensì di materia romanzesca e di
condizioni fruitive si colloca l’alterità dell’élite camp nella produzione
sterminata e popolarissima di Edward Frederic Benson, autore della serie
di romanzi che va sotto il nome di Mapp and Lucia chronicles. La prota-
gonista assoluta della serie, Mrs Emmeline Lucas (meglio nota come Lu-

1
Si vedano, in proposito alla biografia postmoderna, Linda Hutcheon, A Poetics of
Postmodernism, cit.; Id., The Politics of Postmodernism, cit.; Fabio Cleto, “Verso una ri-
nascita dell’autore?”, cit.; Id., “Biografia, ideologia, autor-ità interpretativa (con un
caso esemplare)”, Textus, VI, 1993, pp. 179-220; e i saggi in William H. Epstein (ed.),
Contesting the Subject: Essays in the Postmodern Theory and Practice of Biography and Bio-
graphical Criticism, West Lafayette: Purdue University Press, 1991.
2
Si confronti l’invito wildiano di cui nel capitolo 6 (“the one duty we owe to history
is to re-write it”). Da parte sua, Strachey scriverà nella prefazione a Eminent Victorians
che “ignorance is the first requisite of the historian”. Lytton Strachey, Eminent Victori-
ans (1918), London: Chatto & Windus, 1979, p. 21. Sul ripensamento della narrativa
biografico-storica in atto all’inizio del secolo, a partire dal capolavoro di Virginia Wo-
olf, si veda Vita Fortunati, “Parodia e ironia in Orlando di Virginia Woolf”, in Lilla Ma-
ria Crisafulli Jones e Vita Fortunati (a cura di), Ritratto dell’artista come donna. Saggi
sull’avanguardia del Novecento, Urbino: QuattroVenti, 1988, pp. 71-90.
3
Tuttora valida introduzione all’opera e alla vita di Frederick Rolfe è Carla Marengo
Vaglio, Frederick Rolfe ‘Baron Corvo’, Milano: Mursia, 1969.
288 GENEALOGIA DEL CAMP

cia) è ‘regina’ di Riseholme, cittadina sulla quale esercita il proprio potere


di arbiter elegantiarum intrattenendo l’Alta Società locale, confrontandosi
con l’ambizione alla ‘regalità’ della rivale Daisy Quantock – in Queen Lu-
cia (1920) – e soprattutto di Miss Elizabeth Mapp, che entra in scena a
1
partire da Miss Mapp (1922). Il gioco di rivalità provinciale e il susseguir-
si di trame che prendono corpo fra Riseholme e Tilling (località di cui è
regina Miss Mapp) disegnano una commedia di costume provinciale che
nella propria teatralità esplicita i meccanismi di esclusione e aggregazio-
ne operanti nella dinamica di gruppo. Di marca teatrale è infatti il potere
esercitato da Lucia sui propri ‘sudditi’, o complici, i quali la venerano no-
nostante (o meglio, in ragione di) la sua pretenziosità, gli atteggiamenti
divistici, l’ostentazione di una padronanza della lingua italiana che non
possiede, e l’eclatante esibizione di un sé fittiziamente misterioso.
È insomma la percezione camp dell’artificio che la consacra regina del
palco bensoniano, un palco che per definizione si vuole escluso dalla
scena pubblica nel suo essere elitario: quando infatti Lucia cercherà di
estendere il proprio dominio al mondo ‘produttivo’ della finanza – in Lu-
cia’s Progress (1935) – l’impresa è fallimentare, come del resto sarà la recita
– in Lucia in London (1927) – una volta trasposta sulla scena metropolita-
na, dove la creazione di una società segreta di ‘Luciaphils’ (l’accesso alla
quale è vincolato all’incondizionata adorazione della ‘diva’) non le evite-
rà una poco decorosa ritirata nel ‘teatrino’ provinciale. Ma il teatrino al
contempo marginale ed elitario trova una precisa valenza camp
nell’apprezzamento di cui Benson ha goduto in sovrapposizione a quello
di letteratura di massa, vale a dire nella raffinata cerchia di ‘Luciaphils’ –
sorta di organizzazione ‘clandestina’ in posizione speculare rispetto a
quella ospitata dal testo – che annovera fra gli altri figure quali Noël Co-
2
ward, Nancy Mitford, W. H. Auden, Auberon Waugh ed Edward Gorey.
Un’organizzazione il cui gusto per la cultura di massa rappresentata dalla
scrittura bensoniana poteva esplicitarsi quale pratica snobistica, nella let-
tura ammiccante e privilegiata tanto della protagonista (come non vedere
in Lucia una ‘regina’ di marca camp?) quanto della sottigliezza barocca
del codice comportamentale e linguistico che contraddistingue la micro-
comunità di Riseholme.
Alla medesima ‘società’ ammiccava anche Noël Coward, la cui popola-

1
Introduttivo alle Mapp and Lucia chronicles è Robert F. Kiernan, Frivolity Unbound,
cit., pp. 66-94.
2
Cfr. ivi, p. 67.
LE ORIGINI DISCORSIVE, II 289

rità esplose nel 1924 con la pièce dal titolo di The Vortex, per poi essere
consolidata da un cospicuo novero di produzioni, che spaziano dall’ope-
retta al melodramma, dalla commedia brillante a quella musicale, dal
racconto al romanzo, e da una vorticosa proposta di sé nei music-hall,
nei night metropolitani, e a partire dagli anni Quaranta in programmi
1
televisivi e lavori cinematografici di grande risonanza. Coward si impose
insomma attraverso un esercizio di autopromozione che richiama per
molti versi Wilde, con il quale condivideva un’ambigua immagine di
egotismo edonistico, oltre che di sofisticata insolenza e sentimentalismo
nei confronti della Café Society degli anni Venti – in una qualche misura
corrispettivo dell’Alta Società tardovittoriana e, nella crescente democra-
tizzazione della società dello spettacolo, del jet set statunitense cui a-
2
vrebbe rivolto lo sguardo Andy Warhol.
I trent’anni che separano i processi Wilde dal successo di Coward in-
quadrano la distanza fra il lavoro e il riscontro pubblico dei due scrittori:
allorché infatti Coward riprende la strategia di svuotamento delle formu-
le doxastiche (ricorrendo nelle sue opere a un pastiche di personaggi e
modelli artistici attinti dal teatro popolare del primo quarto di secolo,
dalle simmetrie forzate e dalla totale irrealtà) cui Wilde aveva fatto ricor-
so negli aforismi e nelle commedie, egli si trova a dare voce con ciò agli
hectic Twenties, in cui l’eccitazione e il rinnovamento dei parametri com-
portamentali nella società postbellica si coniugava alla generale disillu-
sione che caratterizzava le ‘Bright Young Things’ e la vita di bohème
dell’epoca, resa non più prerogativa di un côté degenerato del sociale
3
bensì fenomeno di costume. Escluso dal palco della Cultura e relegato al

1
In veste di sceneggiatore o regista Coward realizzò, solo fra il 1942 e il 1945, In
Which We Serve, This Happy Breed, Blithe Spirit e Brief Encounter. Ma l’artista si distinse
anche come attore (rimarchevole la sua partecipazione nel 1968, accanto a Elizabeth
Taylor e Richard Burton, a Boom! di Joseph Losey). Quale introduzione all’opera e alla
personalità pubblica cowardiana sono utili Cole Lesley, The Life of Noël Coward, Lon-
don: Jonathan Cape, 1976; Milton Levin, Noel Coward, New York: Twayne, 1968; John
Lahr, Coward the Playwright, London: Methuen, 1982; e Robert F. Kiernan, Noel Co-
ward, New York: Frederick Ungar, 1986.
2
Il parallelo fra Café Society del primo dopoguerra, Alta Società di fine secolo e so-
cietà dello spettacolo degli anni Sessanta viene articolato nell’intervista citata di Tom
Wolfe a Baby Jane Holzer.
3
L’espressione chiave per Coward e per la sua epoca sarebbe infatti fashionable disil-
lusion; prodotta dalla sintesi di pessimismo e di fermento sociale, di liberazione, di
nuovi standard comportamentali: “Coward may have [..] helped make disenchan-
tment and world-weariness signs of sophistication, but there was nothing depressing
about it all”. Milton Levin, op. cit., p. 27.
290 GENEALOGIA DEL CAMP

ruolo di puro intrattenitore, cinicamente sentimentale e mondano, ‘O-


1
scar Wilde’ poteva insomma essere tollerato. E dal mondo dello enter-
tainment l’eversività si esprimeva attraverso un’ironia dalla sofisticatissi-
ma ambiguità, volta a trarre in inganno il grande pubblico (a intrattenerlo
nell’inganno testuale), gratificando al tempo stesso chi sapeva cogliere la
sottile allusività omosessuale diffusa nel teatro, nelle canzoni e nella per-
2
sonalità cowardiana.
Più che in Rolfe, Coward o Benson, il camp della prima metà del seco-
lo trova a ogni modo il suo estremo rappresentante in Ronald Firbank, la
cui opera e persona furono interamente edificate in omaggio all’imma-
gine wildiana (riscritta direttamente nelle ‘gesta’ e nella persecuzione del
3
già menzionato Cardinal Pirelli), e che è stato oggetto di un autentico
culto da parte di pochi e raffinatissimi ‘iniziati’ (con figure quali, fra gli
altri, W. H. Auden, E. M. Forster, Cyril Connolly, Gertrude Stein, i fratelli
Sitwell, Aldous Huxley, Evelyn Waugh, Siegfried Sassoon, Edmund Wil-
son e Leslie Fiedler), peraltro restii ad articolare le ragioni della significa-
4
tività firbankiana o a diffonderne la popolarità. Unitamente alla quintes-
senzialità camp della sua scrittura, la dimensione ‘privata’ dell’apprezza-
mento – l’esclusione dal Canone dei romanzi – ha fatto sì che Firbank si
sia disposto forse ancor più di Wilde quale icona del gusto camp di ma-
5
trice specificamente omosessuale. Una veste, questa, che gli verrà attri-
1
Significativamente, Coward rielaborò nel 1953, con il titolo After the Ball, la wildia-
na Lady Windermere’s Fan in commedia musicale. Sulla tolleranza dell’omosessualità
all’interno della cultura della frivolezza degli anni Venti sono utili Alan Sinfield, “Pri-
vate Lives/Public Theater: Noël Coward and the Politics of Homosexual Representa-
tion”, cit., e Id., The Wilde Century, cit., pp. 130-160.
2
Si veda in proposito Alan Sinfield, “Private Lives/Public Theater”, cit. Un esempio
vistoso di questa decodifica è offerto da Brief Encounter, il film diretto da David Lean su
sceneggiatura di Coward, di cui s’è detto nel capitolo 3. Cfr. Andy Medhurst, “That
Special Thrill”, cit., pp. 197-208, e Richard Dyer, Brief Encounter, cit.
3
Questa è la tesi dispiegata a lungo in Brigid Brophy, Prancing Novelist, cit.
4
Una ‘mappa’ del culto per Ronald Firbank occuperebbe numerose pagine, dato che
esso ha investito l’intero Novecento (e non specificamente in ambito angloamericano)
accomunando figure di primissimo rilievo culturale a fronte della sua completa ‘irrile-
vanza’ sulla scena della letteratura inglese. Può essere utile, per avvicinarsi a questo
culto clandestino, consultare il mio “Biografia, ideologia, autor-ità interpretativa (con
un caso esemplare)”, cit.; e Steven Moore, Ronald Firbank: An Annotated Bibliography of
Secondary Materials, 1905-1995, Normal: Dalkey Archive, 1996.
5
È per questa ragione che a Firbank viene spesso riconosciuto un ruolo assoluto di
codificazione del camp omosessuale, a volte investito di una valenza ‘originaria’. In tal
senso si esprimono Brigid Brophy, Prancing Novelist, cit., p. 173, Michael Bronski, Cul-
ture Clash, cit., e David Van Leer, The Queening of America: Gay Culture in Straight Soci-
ety, New York: Routledge, 1995.
LE ORIGINI DISCORSIVE, II 291

buita in modo esemplare da Alan Hollinghurst, il quale trae da Firbank


l’epigrafe al proprio romanzo d’esordio, The Swimming-Pool Library (1988)
e costruisce attorno alla lettura dei romanzi di Firbank l’intreccio dei per-
sonaggi. In chiusura di romanzo, Firbank appare poi quale protagonista
di un fantomatico filmato d’epoca attorno al quale si esercita il culto dei
personaggi che animano il romanzo stesso, filmato il cui statuto fittizio lo
segnala quale ‘diva’ di un immaginario – quello gay – ancora alla ricerca
1
di una propria ‘realtà’ e tradizione.
In Firbank la commistione camp di cultura ‘alta’ e popolare si realizza
in una forma di complessità ineguagliata. La dedizione al cliché sia lin-
guistico sia di caratterizzazione, o il ricorso a modelli culturali popolari
2
ma in voga nella Café Society (cinematografia e jazz, ad esempio), si as-
sociano a soluzioni tecniche di marca modernista, quali il monologo inte-
riore e il discorso indiretto libero, la sostanziale assenza di trama, l’affa-
stellarsi babelico di voci e il non sequitur a livello di dialoghi e d’azione
narrativa. In ossequio all’improduttività wildiana, il testo firbankiano
sfugge a un approccio funzionalistico, essendo impossibile superarne la
superficie: i personaggi sono omologati ai loro abiti e alle loro voci, tanto
da rendere arduo – in particolare in Vainglory (1915) e in Inclinations
(1916) – determinare chi sia responsabile delle battute che si succedono
in modo verticoso nelle lunghe sezioni di dialogato senza scopo o pro-
spettiva organizzatrice.
Il soggetto firbankiano, in altre parole, ha un’esistenza puramente lin-
guistica: un decesso è comunicato, in The Flower Beneath the Foot (1923),
3
con un telegramma che recita: “[p]oor Lizzie has ceased articulating”; e
nel medesimo romanzo, un personaggio è caratterizzato da “a certain
degree of feminine sensitiveness, and any reference to the soul at all […]

1
Intorno al romanzo di Hollinghurst, fra i più significativi eserdi letterari della scena
contemporanea, si vedano Joseph Bristow, “Coda: Effeminate Endings”, in Effeminate
England: Homoerotic Writing After 1885, Buckingham: Open University Press, 1995, pp.
166-180; Ross Chambers, “Messing Around: Gayness and Loiterature in Alan Holl-
inghurst’s The Swimming Pool Library”, in Judith Still and Michael Whorton (eds.), Tex-
tuality and Sexuality: Reading Theories and Practices, Manchester: Manchester University
Press, 1993, pp. 207-219; e Richard Dellamora, “Tradition and Apocalypse in Alan
Hollinghurst’s The Swimming Pool Library”, in Apocalyptic Overtures: Sexual Politics and
the Sense of an Ending, New Brunswick: Rutgers University Press, 1994, pp. 173-191.
2
Sull’utilizzo firbankiano del modello jazzistico e cinematografico si veda William
Lane Clark, “Degenerate Personality: Deviant Sexuality and Race in Ronald Firbank’s
Novels”, in David Bergman (ed.), op. cit., pp. 134-155.
3
Ronald Firbank, The Flower Beneath the Foot, cit., p. 544.
292 GENEALOGIA DEL CAMP

1
invariably made him fidget”, riattivando l’aforisma wildiano in accordo
al quale l’assenza di ‘anima’ sarebbe la condizione caratterizzante il sog-
2
getto della modernità. Conosciamo in Firbank solo delle ‘figurine’ che si
muovono senza direzione, obliquamente (queerly) su pannelli decorativi
la cui bidimensionalità suggerisce in varia misura il Liberty, il déco e le
3
tavole grafiche di Erté. Modulato su una bizzarra commistione dei mo-
delli offerti dalla commedia della Restaurazione, da Wilde, da Beardsley e
dal Tristram Shandy di Laurence Sterne, l’universo firbankiano si produce
in una testualità di raffinatezza (di complessità e di artificiosità) estenua-
ta ed estenuante quant’altre mai, dominato qual è dall’oscillazione fra
illusionismo (la finzione prospettica) e ostentazione smascherante dello
stesso: “[w]hat an elegant view! What deceptive expanse! So much, con-
tained in so little, suggested a landscape painted delicately upon a porce-
4
lain cup or saucer, or upon the silken panel of a fan”.
La strategia camp di straniamento dell’atto di lettura si attiva nella
formulazione di un estetismo da operetta, in cui tutto è ruolo e artificio, e
nelle numerose irruzioni sulla scena narrativa da parte dell’autore quale
5
personaggio esplicitamente evocato. Ma prima ancora si attiva nella
straordinaria vacuità testuale testimoniata dal sistematico ricorso alla re-
ticenza e all’allusione, che costringe il lettore a uno sforzo di supplenza
senza pari nella scrittura tardoestetizzante. Una partecipazione attiva del
lettore che viene auspicata anche dal massiccio utilizzo delle inflessioni
verbali, dell’ammiccare, dell’inversione sintattica, del corsivo, del lin-
guaggio desueto, del patois nero che domina Valmouth (1919) e Prancing
Nigger (1924), tutti elementi che promuovono una lettura all’insegna del-
6
la performance – dell’ostentazione – del sé-lettore. Ma soprattutto nella
mancanza dei momenti essenziali ai fini della comprensione dell’ordito
narrativo, che scatenando nel lettore un’ansia di ricostruzione degli e-

1
Ivi, p. 506.
2
“To be really modern one should have no soul”. Oscar Wilde, “A Few Maxims for
the Instruction of the Over-Educated”, in The Complete Works, cit., p. 1203
3
Cfr. Luigi Sampietro, La narrativa di Ronald Firbank, Imola: Galeati, 1979, pp. 69-70.
4
Ronald Firbank, The Artificial Princess (1934), in The Complete Ronald Firbank, cit., p. 31.
5
Irruzioni che emergevano anche in Max Beerbohm, il quale in Zuleika Dobson
(1911) si rivolge più volte al lettore in modo diretto, mentre la protagonista dichiara di
avere appreso il proprio stile conversativo da un certo “Mr. Beerbohm”.
6
Non a caso è stato osservato in più di un’occasione che Firbank risulti godibile solo
se letto ad alta voce, se cioè recitato. Si veda in proposito Jocelyn Brooke, Ronald Fir-
bank, London: Arthur Barker, 1951, p. 87.
LE ORIGINI DISCORSIVE, II 293

venti elusi si consegna in modo speculare rispetto all’onnipresente prassi


di pettegolezzo ospitata dalle Corti, dalla Chiesa o dai salotti di Firbank.
La paradossalità della scrittura firbankiana, nella quale è riconoscibile
1
una qualità postmoderna, non è infatti caratterizzata dalla forma epi-
grammatica dell’aforisma wildiano, volto a sovvertire la retorica pubblici-
taria e il senso comune attraverso una strategia dialettica – di confronto
diretto – con l’ideologia dominante. Essa si esplicita a livello strutturale,
secondo modalità da società propriamente ‘chiusa’ in sé e nella propria
eccentricità, attraverso uno snobismo il quale prima ancora che dei per-
sonaggi è prerogativa della voce narrante, la quale non si cura di mettere
il lettore comune (il lettore dotato di senso comune) in condizione di
prendere parte a quel ballo in maschera che è la scrittura stessa. Al con-
trario, lo scaraventa in medias res, nel pieno dell’arabesco che lo intontirà
qualora egli non sia già partecipe del gusto camp – e pertanto invitato,
per così dire, al ‘party’ – per il frivolo, l’irrilevante, l’improduttivo e il
transitorio. Uno snobismo dunque più aggressivamente esclusivo rispetto
a quello di un Wilde o di un Coward, che invade ogni sfera del sociale,
dissacrando apertamente il credo religioso (“If we are all a part of God,
2
[…] then God must indeed be horrible”; o ancora: “after all, […] isn’t
heaven a sort of snobbism? A looking-up, a preference for the best ho-
3
tel?”). Religione e Arte sono così avvilite alla condizione di Moda, og-
getto di un apprezzamento convenzionale ed evanescente.
Ci si confronta infatti con una precoce manifestazione di quanto si è
sopra descritto quale metaforicità del divismo rispetto alla condizione
artistica nell’epoca della cultura di massa, una metaforicità che – già pre-
sente sotto diversi aspetti in Wilde – viene articolata da Firbank in modo
estremo, tanto da spingere la critica a parlarne come del primo roman-
4
ziere della Hollywood age. Proposti attraverso una costruzione filmica, in
un tessuto narrativo che accoglie numerosi riferimenti alla cinematogra-
fia, e in un’ambientazione che fa anch’essa ricorso al trucco scenico (le
5
colline nei pressi della città di Kairoulla sono “violet-farded”) , i perso-
naggi firbankiani si propongono quali divi del grande schermo, ossessi-

1
Un esplicito parallelo fra le conversazioni babeliche di Firbank e le tecniche del
nouveau roman francese è ad esempio stabilito da Shaun McCarthy, “Firbank’s Inclina-
tions and the nouveau roman”, Critical Quarterly, XX, 1978, pp. 64-77.
2
Ronald Firbank, Vainglory, in The Complete Ronald Firbank, cit., p. 143.
3
Ronald Firbank, Inclinations, in The Complete Ronald Firbank, cit., p. 261.
4
Cfr. William Lane Clark, op. cit.
5
Ronald Firbank, The Flower Beneath the Foot, cit., p. 513.
294 GENEALOGIA DEL CAMP

vamente egocentrici, devoti alla promozione della propria immagine e


del proprio ruolo di primadonna: la Regina di Pisuerga, ad esempio, di-
stoglie l’attenzione medica dalla morente Arciduchessa, poiché “[u]ltra
feminine, she disliked that another – even in extremis – should absorb all
1
the limelight”. Il personaggio firbankiano vive cioè una condizione pie-
namente iconografica, in cui lo statuto di attore si confonde con quello di
oggetto di culto ‘religioso’. Se il fine della mondana Mrs Shamefoot in
Vainglory è quello di innalzare nella cattedrale di Ashringford una vetrata
con la propria immagine in veste di Santa, la protagonista di A Disciple
from the Country (1907) si acconcia la chioma formando con essa
un’aureola, per interpretare la parte socialmente attribuitale di ‘Sant’An-
gelica’; e il Pontefice che appare nel Cardinal Pirelli – suprema Diva – ri-
lascia fotografie con tanto d’autografo.
Nella sovraestensione di una modalità artistica apertamente mercifi-
cata qual era la cinematografia all’inizio del secolo, Firbank erode la di-
stinzione fra Moda, Cultura e Religione, rendendo il Sacro una funzione
dell’eleganza e della spettacolarità del paraître: “Madame Wetme’s reli-
2
gion, her cruel God, was the Chic: the God Chic”. E in questa operazio-
ne emerge la riflessione sullo statuto ‘religioso’ – nell’accezione laica del
termine – dell’Estetico, che si è vista diffondersi con il controdivismo di
Andy Warhol e con l’apprezzamento gay delle ‘divine’. Vale a dire, nella
dimensione denunciata da Christopher Isherwood allorché esemplificava
il camp del sottobosco omosessuale nello “swishy little boy with peroxi-
ded hair, dressed in a picture hat and a feather boa, pretending to be
Marlene Dietrich”, e nella quale ci conducono i romanzi dello stesso I-
sherwood. Un autore questo, a sua volta, influenzato dalle tecniche di
narrazione cinematografica, come annuncia fin dall’apertura l’io narrante
di Goodbye to Berlin (1939): “I am a camera with its shutter open, quite
3
passive, recording, not thinking”.
L’estremo distacco che contraddistingue la scrittura di Isherwood si
dispone peraltro come partecipe di una più ampia manipolazione in
chiave camp dell’atteggiamento decadente, e in particolare del demoni-
smo à la Baudelaire, che emerge nei personaggi che mettono in scena il
culto clandestino di Oscar Wilde. In Mr Norris Changes Train (1935), ad
esempio, il protagonista è membro della “Wildean Café Royal Society” e

1
Ivi, p. 545.
2
Ivi, p. 518.
3
Christopher Isherwood, Goodbye to Berlin, London: Minerva, 1989, p. 9.
LE ORIGINI DISCORSIVE, II 295

cita apertamente nel testo l’esteta, di cui peraltro è egli stesso una versione
aggiornata, una caricatura della ‘mostruosità’ che nel discorso pubblico
1
degli anni Trenta si attribuiva ancora agli ‘Oscar Wilde’. Gli atteggia-
menti ‘cospiratori’ del sottobosco isherwoodiano dedito ai modelli tardo-
estetizzanti e all’eversività politica – si pensi a All the Conspirators (1928)
– si caricano di una coloritura patetica, tipica di una percezione complice
della clandestinità e della ‘devianza’, e in quanto tale in grado di percepi-
re come la mostruosità, ad esempio nell’insorgere del nazismo registrato
nelle storie berlinesi, sia effettivamente prerogativa del mondo ‘normale’.
Esemplarmente patetica sarà Sally Bowles, protagonista di un episo-
dio di Goodbye to Berlin (1939) dal quale sarà tratta una serie di versioni
2
sia teatrali che cinematografiche. L’aspirante diva Sally ripropone infatti
il modello decadente della ‘donna fatale’, esibendosi inoltre in un locale
dal significativo nome di “Lady Windermere’s Fan”, salvo essere incapa-
ce di realizzare i propri disegni di seduzione nei confronti dei personaggi,
del narratore o del lettore. Quella di Sally è insomma una seduttività tea-
tralizzata, come lo era del resto, seppur con strategia diametralmente
opposta, la fatalità della protagonista di Zuleika Dobson (1911) di Max Be-
erbohm (autore nel quale è pure riscontrabile un linguaggio ‘religioso’,
3
da iniziati al cerimoniale ormai museificato del dandy), laddove l’eccesso
– Zuleika è letteralmente fatale alla popolazione studentesca di Oxford,
spinta al suicidio collettivo nel volgere di poche ore dalla sua bellezza
4
asimmetrica – conduce a un’analoga implosione del mito.

1
Sulla valenza camp dei personaggi isherwoodiani si veda Peter Thomas, op. cit.
Quale introduzione generale, con ampia attenzione alle strategie ironiche, si veda pe-
raltro Alan Wilde, Christopher Isherwood, New York: Twayne, 1971.
2
Il più noto delle quali è senza dubbio Cabaret di Bob Fosse (1972), con una memo-
rabile interpretazione di Liza Minnelli. Intorno a “Sally Bowles” e alle sue riscritture si
veda Linda Mizejewski, op. cit.
3
È per tali ragioni che Giovanna Franci lo categorizza come “meta-dandy”, il quale
sopravvive al trionfo del Capitale solo quale ‘parte’ da interpretarsi ammiccando attra-
verso quel ‘gioco per snob’ che è la parodia (la quale presuppone, per essere fruita, una
solida conoscenza intertestuale). Cfr. Giovanna Franci, op. cit., pp. 273-332. Considera-
zioni, queste, che possono legittimamente essere estese a Saki (Hector Hugh Munro),
il cui dandismo museale si esplicita in un’analoga meta-scrittura snob.
4
Intorno alla dimensione camp di Zuleika Dobson si veda Robert Kiernan, Frivolity
Unbound, cit., pp. 38-48. Utili studi sulla dimensione metatestuale, parodica e caricatu-
rale che presiede alla scrittura beerbohmiana sono Lawrence Dawson, Max Beerbohm
and the Act of Writing, Oxford: Oxford University Press, 1989; Robert Viscusi, Max Beer-
bohm, or the Dandy Dante: Rereading with Mirrors, Baltimore: Johns Hopkins University
Press, 1986; e il ‘classico’ John Felstiner, The Lies of Art: Max Beerbohm’s Parody and
Caricature, London: Victor Gollancz, 1973.
10

Epilogo?
Ovvero, il ritorno di ‘Edna’

Sono in larga misura le strategie ‘esoteriche’ di cui si è detto a caratteriz-


zare il camp fino al momento della sua irruzione sulla scena pubblica.
Fino a quando cioè il camp diventerà un fenomeno di massa, trasferen-
dosi dalle classi medio-alte e dalle forme culturali legate a esse (romanzo,
poesia, teatro, Opera e music-hall) verso i ceti penalizzati e i loro spazi
culturali (cinema, televisione, musica rock). Fino ad allora, esso si divide
fra il mondo dello spettacolo e l’Alta Società (spesso inscindibile dalla
sottocultura gay) che poteva apprezzare il modello snobistico di Firbank,
la cui influenza – a livello di tecnica narrativa, ma anche nell’eccentricità
ludica e infantile, nella frivolezza e stupidità, che i suoi romanzi propon-
gono in modo proverbiale – si è esercitata in modo diretto sulla gran par-
1
te del camp che va dagli anni Venti fino agli anni Sessanta. Sarà Joe Or-
ton – una sorta di Oscar Wilde proletario, che devastando i volumi della
biblioteca di quartiere finiva in carcere, salvo emergerne più aggressivo
che mai – a segnalare la distanza fra le due modalità di camp, tra la fase
clandestina (la quale emerge nei romanzi di sapore firbankiano che Or-
ton scrisse con il compagno Kenneth Halliwell durante gli anni Cinquan-
2
ta) e il pop camp, che diventando un fenomeno di costume distintivo
della Swinging London configurò il panorama culturale che lo avrebbe
portato alla notorietà.

1
Fra le istanze più significative dell’influenza firbankiana sul camp fra anni Venti e
anni Sessanta emergono la poesia di John Betjeman, la scrittura e la personalità pub-
blica dei fratelli Sitwell (Edith, Osbert e Sacheverell), l’estetismo grottesco e avvilito di
Aldous Huxley in Crome Yellow (1921) e di Evelyn Waugh (in particolare in Vile Bodies,
del 1930), e il romanzo-conversazione di Ivy Compton-Burnett.
2
I quattro romanzi The Silver Bucket, The Mechanical Womb, The Last Days of Sodom e
The Boy Hairdresser, sono discussi in Simon Shepherd, Because We’re Queers, cit., e in
John Lahr, Prick Up Your Ears, cit.
298 GENEALOGIA DEL CAMP

Paradossalmente, è proprio l’estrema diffusione della modalità popo-


lare di camp nel secondo dopoguerra a sancire l’inizio della sua crisi. Nel
corso degli anni Settanta, infatti, mutano significativamente le condizioni
epocali che avevano giustificato la clandestinità nella prima metà del se-
colo e promosso la successiva ‘esplosione’ del camp. Tanto negli Stati
Uniti quanto in Gran Bretagna, l’eccitazione trasgressiva che caratteriz-
zava il panorama urbano e intellettuale degli anni Sessanta doveva venir
meno. Figure come il leader dei Rolling Stones Mick Jagger, la cui colla-
borazione in veste d’attore a Performance di Donald Cammel e Nicolas
Roeg (1970), e – quale autore della colonna sonora – a Invocation of My
Demon Brother (1969) di Kenneth Anger, lo consacrava divo under-
ground, o come David Bowie, le cui maschere asessuate e dichiarazioni
paradossali (“Hitler was the first superstar. He really did it right”, dichia-
rò a Temporary Hoarding, un periodico di musica rock impegnata contro il
1
razzismo) lo hanno reso l’espressione più clamorosa del pop camp bri-
tannico, sono state negli anni Settanta spogliate della propria valenza di
icone controculturali e inserite nella grande industria discografica. Una
partecipazione diretta al Capitale, questa, priva ovviamente dell’eversi-
vità che lo sfruttamento delle dinamiche commerciali assumeva in Wilde
o in Orton.
La crisi della controcultura pop emerge del resto in modo esemplare
in Tommy, l’opera rock diretta da Ken Russell per le musiche e l’interpre-
tazione degli Who, nella quale il percorso del protagonista dall’ambiente
familiare anni Cinquanta alla condizione di Rockstar/Idolo delle folle (in
senso forte, con tanto di celebrazione di Messa/Concerto) si consegna da
un lato quale riscrittura camp del processo post-bellico di omologazione
al modello statunitense che la Gran Bretagna andava attraversando (al
padre di Tommy, caduto in guerra, subentra il patrigno che lo spinge in
un mondo nel quale una Marilyn Monroe di cartapesta sostituisce la
Vergine, mentre pane e vino liturgici sono rimpiazzati da pillole e Coca
Cola), e dall’altro quale mise en abîme del percorso che conduceva entro i
confini della cultura borghese sia il pop sia il camp attraverso la costitu-
zione di una nuovo apparato ‘mitologico’. I nuovi idoli, infatti, non pre-
supponevano più – a differenza delle superstar warholiane – una consa-
pevolezza nel fruitore del loro essere al tempo stesso idoli e rifiuti: al con-

1
Cit. in Dick Hebdige, op. cit., p. 61. Coerentemente, fra le maschere assunte a David
Bowie – Ziggy Stardust, Aladdin Sane, il Duca Bianco – trovò spazio anche il Blond
Führer.
EPILOGO? 299

trario, essi erano in una qualche misura ‘naturalizzati’, giustapposti alle


icone borghesi in quanto a loro volta proprietari (o proprietà) di un seg-
mento di mercato, quel nuovo segmento cui i film dello stesso Russell (e
quelli di John Waters negli Stati Uniti) si rivolgevano.
Le culture giovanili più recenti, d’altro canto, non si sono proposte –
eccezion fatta per l’ultimo rigurgito di aggressività nella violenza punk –
in termini altrettanto contestatori. L’ambiguità camp di cui si facevano
ad esempio portatori glitter rock o glam, con David Bowie, Marc Bolan, le
New York Dolls, i Velvet Underground e i Roxy Music di Brian Eno, la-
scia il posto a una trasgressione dominante, codificata e funzionale allo
star-system. I numerosi artisti che nel corso degli anni Ottanta hanno fat-
to ricorso alle strategie del camp, come ad esempio Marc Almond, Grace
Jones, Boy George, i Frankie Goes to Hollywood e Annie Lennox, ma
soprattutto Prince, Madonna e Michael Jackson, dovevano infatti trovare
riscontro fra gli eredi di ‘Edna Welthorpe (Mrs)’ prima ancora che fra
quelli di Joe Orton. Quanto era prerogativa delle controculture giovanili
– il piacere e l’ilarità suscitati dallo scandalizzare i benpensanti, in breve
il superamento del limite – risulta cioè reinscritto in una dinamica di ge-
stione del desiderio: esso ha unicamente una valenza di trasgressione
autorizzata quale modalità di reinvestimento nel Capitale di energie po-
tenzialmente sovversive. Ma considerazioni di quest’ordine valgono an-
che per altre forme ambiguamente critiche del pop camp, quali erano il
revivalismo o i mercatini dell’usato, pure depotenziati della loro matrice
eversiva e cooptati quale strategia organica al sistema di produzione bor-
ghese, di reinvestimento delle merci sul mercato e di riutilizzo delle Mode.
Un processo, questo, per molti versi già insito nelle condizioni d’essere
del camp del secondo dopoguerra, il quale rendendosi fenomeno di co-
stume si destinava all’evanescenza di/della Moda. E in questi termini è
legittimo ripensare ciò che è stato talora indicato come il trionfo del camp,
la sua sostanziale onnipresenza nella sfera pubblica e “complete demo-
1
cratization”, come fase di sua effettiva entrata in crisi.
Se la borghesia post-industriale sembra avere assorbito la sfida con-
troculturale, rendendo così inattuale la trasgressività ‘aperta’ del pop
camp, a un’analoga sorte era destinata la modalità che si è definita ‘clan-
destina’. L’allentarsi dei vincoli censorî, oltre a promuovere il camp nel
secondo dopoguerra, rende con il passare degli anni inutile il ricorso a un
codice gay, e annulla il piacere ‘esoterico’ delle strategie di comunicazione
1
Mark Booth, op. cit., p. 175.
300 GENEALOGIA DEL CAMP

indiretta, dell’ironia, dell’allusione e della parodia, dell’utilizzo delle ma-


schere invertite di segno, della complicità e superiorità che il travesti-
mento consente e impone. Anche in relazione a questa modalità, sembra
latitare il limite sul quale la trasgressione si fondava. L’inautenticità di-
ventava la norma nel mondo dello spettacolo: i film incentrati sul tema
del travestitismo si diffondevano tanto da costituirsi quale genere, svin-
colandosi dalla dimensione sottoculturale per affiancare le rappresenta-
zioni canoniche, e il trucco diveniva prassi consolidata – riconosciuta ed
accettata come tale – per chiunque avesse un ruolo pubblico, una ‘imma-
gine’: le strategie che erano proprie del camp risultano ormai fruibili a
1
chiunque, senza peraltro scandalizzare nessuno.
In tale prospettiva è proficuo ricordare come alla crisi del camp speci-
ficamente clandestino abbia contribuito l’atteggiamento di profonda dif-
fidenza – concomitante a quello del movimento per l’emancipazione
femminile o del marxismo intransigente verso la compromissione camp
con il Capitale – da parte del primo attivismo omosessuale, emerso negli
Stati Uniti e quindi in Gran Bretagna in conseguenza dell’episodio che
condusse nel 1969 la polizia newyorkese a irrompere nella Stonewall Inn
di Christopher Street, un locale tradizionalmente frequentato dalla co-
munità gay. Lo scontro di cui fu teatro la Stonewall Inn promosse di fatto
un’istanza ‘agonistica’ a tutela dei diritti omosessuali, che doveva identi-
ficare nel camp una strategia ‘ghettizzante’, volta all’appropriazione di
uno spazio concesso che, per quanto fosse valutato dagli insiders come
2
‘elitario’, rimaneva di fatto marginale e inoffensivo.
Parallelamente all’ostracismo decretato dai gay più radicali, un segna-
le di crisi giunge in ambito artistico dallo storico successo ottenuto a par-
tire dal 1975 da The Rocky Horror Picture Show, versione cinematografica
del musical che Richard O’Brien aveva messo con successo in scena nel
1973 a Londra, e che – proiettato regolarmente da vent’anni a questa
parte nelle maggiori capitali occidentali, con innumerevoli ‘fanzines’ e
‘fan clubs’ sparsi in tutto il mondo – sarebbe divenuto paradigmatico del

1
Queste considerazioni fanno ovviamente riferimento al solo mondo anglosassone.
Altre condizioni culturali impongono infatti una diversa configurazione storica del
camp: basti pensare al caso spagnolo di Pedro Almodóvar, il cui cinema si inserisce nel
panorama immediatamente post-franchista sfruttando in pieni anni Ottanta una mo-
dalità che ricorda sotto molti aspetti quella impostasi nella Swinging London ortoniana.
2
Si confronti quanto osservato sul rifiuto degli attivisti gay nei confronti della clan-
destinità e dell’autodisprezzo del camp nella Parte Seconda.
EPILOGO? 301

1
‘film di culto’. Lo straordinario successo di questa summa del camp coin-
cide infatti con un allargamento del culto formatosi in una prima battuta
tra un ristretto novero di spettatori, che assistevano al film proiezione
dopo proiezione, mandando a memoria le battute e riproponendo lo
spettacolo in platea. In seguito, il carattere sempre più svincolato dalla
matrice gay, cospicuo e occasionale del pubblico ha trasformato la sua
2
partecipazione in un codice rituale meccanico – con tanto di ‘breviario’ –
e propriamente di massa, ormai privo di fascino per gli spettatori ‘storici’
3
poiché meno, letteralmente, esclusivo.
La stanchezza fruitiva del film si traduce nella prevedibilità del suo se-
guito dal titolo Shock Treatment (scritto, diretto e prodotto dalla medesi-
ma équipe nel 1981), banale messa in scena di un universo di ‘sana ame-
ricanità’ i confini del quale corrispondono a quelli degli studi televisivi
dell’emittente locale. Questo lavoro, al cui confronto l’apocalittica ‘iper-
realtà’ teorizzata da Jean Baudrillard assume un sapore bucolico, è peraltro
significativo in quanto segnala la mutata percezione che l’occhio camp
aveva nei confronti di un mezzo – la televisione – che nel secondo dopo-
guerra si era offerto funzionalmente all’anti-intellettualismo che acco-
munava pop e camp. Siamo cioè di fronte a una esplicita presa di distan-
za dal recente passato, dall’eccitazione trasgressiva degli anni Sessanta, o
meglio dalla ‘libertà assoluta’ cui questi sono associati nell’immaginario
collettivo. Una presa di distanza, questa, che si riscontra anche nell’evol-
versi delle riflessioni sul postmoderno e della scrittura che a questo ter-
mine viene ascritta, come testimonia del resto anche la rappresentazione
parodica di uno spazio del desiderio ‘liberato’ offerta da Angela Carter in
The Infernal Desire Machines of Doctor Hoffman, a indicare la disillusione
che si era attivata verso l’euforia anni Sessanta di liberazione dalle gerar-
4
chie e dai vincoli culturali.
Nei postumi dell’ebbrezza post-bellica e nella diffusione delle strategie

1
Al Rocky Horror Picture Show sono infatti dedicati un cospicuo numero dei saggi che
compongono J.P. Telotte (ed.), The Cult Film Experience: Beyond All Reason, Austin:
University of Texas Press, 1991.
2
Tale sono all’atto pratico Sal Piro and Michael Hess, The Official Rocky Horror Pic-
ture Show Audience Participation Guide, Livonia: Starbur Press, 1991, e Sal Piro, “Crea-
tures of the Night”: The Rocky Horror Picture Show Experience, ibidem, 1990.
3
Sull’evolversi del culto si veda Rebecca Bell-Metereau, op. cit., pp. 15-16, 178-187. E
si confronti la lettura negativa che dà del film uno spettatore ‘storico’ come Paul Roen
nel citato High Camp.
4
Cfr. Ricarda Schmidt, op. cit., pp. 56-61. La riarticolazione del ‘postmoderno’ fra anni
Sessanta e Ottanta è efficacemente registrata in Andreas Huyssen, op. cit., pp. 179-221.
302 GENEALOGIA DEL CAMP

camp a livello di massa sembra in definitiva essere venuta meno la ra-


gion d’essere del camp, vale a dire il suo statuto paradossale di élite del
margine, il suo essere un estetismo nella massa, dalla massa e per la massa,
ma – come illustra chiaramente il caso Rocky Horror Picture Show – non
per la massa indistinta. In ambito squisitamente intellettuale, inoltre, la
popolarità del camp negli anni Sessanta (il suo essere fenomeno di co-
stume) ne avrebbe ostacolato a lungo un’analisi critica; la sua affinità con
la ben più accreditata nozione di postmoderno, infine, si è risolta nella
sostanziale prescindibilità della categoria se non in quanto fenomeno le-
gato alla sottocultura gay, la quale nella seconda metà degli anni Ottanta
ha assunto dignità accademica. Ed è in quest’ultima direzione che gli
studi si sono finora mossi, anche in seguito – oltre che allo sviluppo di un
approccio culturalista cui il camp più di altre nozioni invita – all’imporsi a
una rinnovata attenzione pubblica per l’omosessualità con il diffondersi
1
dell’AIDS.
Parallelamente all’accreditarsi dell’interesse critico, gli anni Ottanta
presentano tuttavia una riarticolazione delle modalità del camp volta a
recuperarne l’incisività. La prassi del camp quale fenomeno culturale
contemporaneo è paradossalmente riconducibile ai gruppi di attivismo
gay (OutRage!, ACT UP, Radical Faeries, Queer Nation), i quali hanno rac-
colto l’eredità delle organizzazioni (il Gay Liberation Front sopra tutti)
che durante gli anni Settanta ne avevano sancito l’obsolescenza quale
2
strategia politica in favore di un ‘orgoglio omosessuale’. Con una qual-
che analogia rispetto alla convergenza fra camp e femminismo (una volta
esauritasi la fase essenzialista di quest’ultimo), essi esplicitano la valenza
eversiva nei confronti del soggetto borghese e della normatività insita
nella costruzione delle differenze di genere, o ancora nella qualità pole-
mica del para-dosso, che si sono viste essere riscontrabili nell’intera tra-
dizione del camp. Il camp cui questi gruppi si ispirano, tuttavia, è quello
della fase clandestina piuttosto che quello in versione pop, meno vinco-
lato come s’è detto alla cultura gay, più compromesso con il Capitale,
dall’eversività sospetta e dall’esito di massa che lo avrebbe depotenziato.
Un ritorno alle ‘origini’ discorsive e a ‘Oscar Wilde’, al camp quale mo-
dalità di costituzione/rappresentazione del soggetto gay: una strategia
1
Il ruolo rivestito dall’AIDS nella promozione, oltre che di una consapevolezza gay,
dei lesbian and gay studies emerge in Rebecca Bell-Metereau, op. cit., p. ix; e in David
Bergman, “Introduction”, cit., p. 9.
2
Si veda in proposito Moe Meyer, “Introduction: Reclaiming the Discourse of
Camp”, cit.
EPILOGO? 303

aggressiva tanto efficace – nel panorama attuale – quanto lo poteva essere


l’invocazione del gay pride negli anni Settanta.
In tale prospettiva, la rappresentazione liberatoria degli anni Sessanta
e il gusto borghese per la trasgressione negli anni Ottanta vengono ri-
pensati in termini se si vuole meno ingenui: il fatto che il limite si sia
spostato o reso più mobile, poroso, non significa che esso sia scomparso.
Esso emerge chiaramente nella gestione irresponsabile (quando non ten-
denziosa) dell’AIDS nel discorso pubblico e nei mass media, che lo ha re-
1
so strumento di nuova stigmatizzazione. Depenalizzata nel 1967 (sia pur
entro certi vincoli di privatezza e di età), l’omosessualità risultava così ri-
penalizzata sia pur al di fuori della sfera strettamente giuridica: restituita
al suo spazio storico di devianza patologica o di trasgressione all’ordine.
E non a caso il camp poteva trovare uno spazio di significatività nelle piè-
ces teatrali – in particolare Pouf Positive (1987) di Robert Patrick e AIDS!:
The Musical! (1991) di Wendell Jones e David Stanley – che sono state
2
dedicate negli Stati Uniti all’argomento.
Queste pièces presentano infatti le strategie metatestuali (in Pouf Posi-
tive il protagonista, destinato alla morte, chiede in dono una commedia
sull’AIDS al suo vecchio partner, il quale gli propone lo stesso Pouf Positi-
ve) e la commistione fra irriverenza e autoparodia, cinismo e sentimenta-
lismo narcisistico, tipici del camp che si può ormai definire ‘classico’: lo
slogan pubblicitario di AIDS! The Musical!, ad esempio, riprendeva una
formula consueta, per trasformarla parodicamente in “[y]ou’ve had the
3
disease, you’ve been to the demonstration, now see the musical!”. Lo
slogan, del resto, rivela – nel giustapporre intrattenimento, malattia e at-
tivismo (“you’ve been to the demonstration”) – come tale commistione
venga investita di specificità contemporanea attraverso l’aperta assun-
zione delle istanze gay e lo spiccato orientamento politico, secondo una
modalità inedita di cui è estremo esempio la campagna elettorale di Joan
Jett Blakk – un travestito afroamericano, primo candidato ufficiale di
1
Non è superfluo rilevare come in un primo tempo ci si sia riferiti all’AIDS con
l’acronimo GRID (Gay-related Immuno-deficiency). Della rappresentazione massme-
diale dell’AIDS è imprescindibile analisi Simon Watney, Policing Desire: Pornography,
AIDS and the Media, Minneapolis: University of Minnesota Press, 1987. Ma si vedano
anche Douglas Crimp (ed.), AIDS: Cultural Analysis/Cultural Activism, Cambridge: MIT
Press, 1988, e Cindy Patton, Inventing AIDS, New York: Routledge, 1990.
2
Sulle pièces si veda David Román, “‘It’s My Party and I’ll Die if I Want To!’: Gay
Men, AIDS, and the Circulation of Camp in U.S. Theater”, Theatre Journal, XLIV, 3, Oc-
tober 1992, pp. 305-327.
3
Cit. ivi, p. 319.
304 GENEALOGIA DEL CAMP

Queer Nation – per la carica di sindaco di Chicago nel 1991 e per la pre-
1
sidenza degli Stati Uniti l’anno seguente.
Si assiste insomma a una rinnovata attenzione per le metamorfosi che
il limite è andato subendo, dopo che esso sembrava essere stato irrime-
diabilmente devastato: un ‘ritorno’ del limite che trova espressione e-
semplare sulla scena britannica nella figura di Margaret Thatcher, capo
del governo durante gli anni Ottanta, destinata a divenire un’icona delle
tendenze restauratrici della Nuova Destra, tanto da catalizzare su di sé la
partecipazione politica dell’intero paese, e per la quale Morrissey – il
cantante degli Smiths, che nei testi e nelle esibizioni si richiama esplici-
tamente a Oscar Wilde – sognava il ripristino di una prassi autentica-
mente ‘rivoluzionaria’ allorché cantava, alla fine del decennio, “Margaret
on the Guillotine”. Se l’immaginario di matrice libertaria si era formato
su una rappresentazione per molti versi fantastica degli anni Sessanta, il
programma politico del Primo Ministro conservatore raccoglieva i con-
sensi di coloro che leggevano in chiave negativa quell’esperienza, dichia-
rando di volerla rimuovere a favore di un recupero dei valori vittoriani,
quei valori che avevano fatto della Gran Bretagna il paese più potente del
globo e che avevano condannato Oscar Wilde ai lavori forzati (e ‘Oscar
Wilde’ alla clandestinità). In questi termini Thatcher si sarebbe rivolta ai
giornali descrivendo l’effervescenza degli anni Sessanta:

Permissiveness, selfish and uncaring, proliferated under the guise of


the new sexual freedom. Aggressive verbal hostility, presented as a re-
freshing lack of subservience, replaced courtesy and good manners. In-
stant gratification became the philosophy of the young and the youth
cultists. Speculation replaced dogged hard work.2

E in un’altra occasione, dopo aver riprovato “the fashionable theories


and permissive claptrap” dell’epoca, Thatcher affermava con caratteris-
tica volitività: “[f]or years there was no riposte, no reply. The time for
3
counter-attack is long overdue”. La ‘Edna Welthorpe’ di ortoniana me-
1
La candidatura di Joan Jett Blakk è discussa in Moe Meyer, “Introduction: Reclaim-
ing the Discourse of Camp”, cit., pp. 6-7; Stephen Rodrich, “King and Queen: Queer
and Loathing in the Victory ‘Camps’ of Queen Joan Jett Blakk and King Richard the
Second”, New City, 24 April 1991, p. 9, e in Joe E. Jeffreys, “Joan Jett Blakk for Presi-
dent: Cross-Dressing at the Democratic National Convention”, TDR (The Drama Re-
view), XXXVII, 3, Fall 1993, pp. 186-195.
2
Intervista al Daily Mail del 29 aprile 1988, cit. in Alan Sinfield, Literature, Politics and
Culture in Postwar Britain, cit., p. 296.
3
Intervista al Sunday Times del 28 marzo 1982, cit. in Jonathan Dollimore, “The Challen-
EPILOGO? 305

moria – il cui invito alla “gente normale e perbene” a passare “al contrat-
tacco” risuona distintamente nelle parole di Thatcher – era tornata, e in
veste di Primo Ministro.
Per quanto ‘in ritardo’, il contrattacco sul terreno della ‘licenziosità’
sessuale veniva sferrato nel 1988 con l’articolo 28 del Local Government
Act, che impediva alle amministrazioni locali di investire denaro in ma-
nifestazioni che potessero in una qualche misura ‘promuovere’ l’omoses-
1
sualità. Ben più tempestiva era però stata la risposta al ritorno di ‘Edna’
e alla Nuova Destra nel teatro di Steven Berkoff, autore nel 1989 di una
raffinatissima versione della Salomé wildiana, in cui il dramma biblico
veniva ambientato nella mondanità cinicamente frivola degli anni Venti.
Ma la vacuità del camp anni Venti si carica in Berkoff di una aggressività
devastante, in produzioni che accostano all’estenuazione estetizzante e
antinaturalistica delle classi privilegiate – in modo esemplare in Decaden-
ce (1981) – l’abbrutimento di un proletariato urbano altrettanto innatura-
le e stilizzato, che recita versi elisabettiani con cadenza cockney, e tocca al
tempo stesso il sublime, il grottesco e l’esilarante attraverso una modalità
enunciativa smodata. E se la ‘Edna’ di Orton aveva esistenza teatrale solo
in quanto norma evocata, la nuova Edna entra direttamente sul palco di
Berkoff – nella versione ‘da periferia’ del mito edipico che si offre in Gre-
ek (1980), per riapparire poi in un ruolo-chiave in Sink the Belgrano!
(1986) – attraverso il personaggio dal nome di Maggot Scratcher (“verme
razzolatore”). Thatcher diviene così idolo camp, adorato con fervore di
portata implosiva da una umanità avvilita (“Maggot is our only hope, lo-
2
ve”), angelo vendicatore di una normalità spinta a irridere se stessa:
“OH, MAGGOT SCRATCHER HANG THE CUNTS / HANG THEM SLOW AND LET
3
ME TAKE A SKEWER AND JAB THEIR EYES OUT / LOVELY / GREEK STYLE…”.
Nel confronto con il tentativo di restaurazione di un Ordine all’in-
segna del ‘senso comune’, il trionfo pornolalico di Berkoff e la disperata
irrisione dello stigma che caratterizza l’attivismo gay restituiscono pre-
gnanza e incisività alla ‘verità’ del camp, allo straniamento della violenza
che si esercita nel (e sul) linguaggio. Alla presa di coscienza che le parole
e le rappresentazioni uccidono, in accordo a quanto è esplicitato in Greek
allorché il parricidio viene consumato in un duello a colpi di insulti. Il che
ge of Sexuality”, cit., p. 81.
1
Cfr. Alan Sinfield, The Wilde Century, cit., p. 190.
2
Steven Berkoff, Greek, in The Collected Plays, Vol. I, London: Faber and Faber, 1994,
p. 110.
3
Ivi, p. 112.
306 GENEALOGIA DEL CAMP

equivale a osservare come, finché si disporranno delle ‘Edna Welthorpe


(Mrs)’, finché vi saranno portatori di una naturalità prescrittiva in difesa
della “gente normale e perbene”, una strategia camp di devastazione del
dominante e del naturale non possa, verosimilmente, non trovare spazio
e ragion d’essere.
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Finito di stampare
nel mese di aprile 2006
da PRIMA --
- Genova
per conto della ECIG

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