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In copertina: elaborazione di un disegno di Seth Fisher
Il logo della collana Lagado è tratto dalle illustrazioni alla prima edizione (1726)
dei Viaggi di Gulliver di Jonathan Swift
FABIO CLETO
ECIG
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prodotta o trasmessa sotto qualsiasi forma e con qualsiasi mezzo
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o mediante memorizzazione, senza il permesso scritto dell’Editore.
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DISTRIBUZIONE CLU
Premessa v
Parte Terza. Appunti per una genealogia della scrittura camp 229
Bibliografia 307
Premessa
Esuberanza
(Sullo stato della questione)
1
La nozione di camp.
Introduzione a un’architettura sghemba
nel mondo slavo figure come Vaslav Nijinski, Anna Pavlova e Sergej
Djaghilev dalla scena dei Ballets Russes, oppure come Alla Nazimova ed
1
Erté. Rimane un problema aperto il fatto che queste figure si siano in-
scritte in un quadro angloamericano, rimandando esplicitamente al ter-
2
mine inglese, esercitando la propria attività nel mondo anglofono, o an-
cora interagendo con il quadro di intelligibilità che costruisce il camp
come fenomeno culturale, venendo cioè decodificati in relazione a – e a
partire da – un sistema di articolazione dei segni che afferisce alla cultura
anglosassone. È pertanto arduo determinare quanto tale quadro di intel-
ligibilità sia intervenuto nel percepire una valenza camp in ciò che poteva
non essere riconducibile alle stesse matrici all’interno della cultura d’ori-
gine. Si pone cioè ad attenzione il problema che si vedrà essere esplicita-
to dall’estetica camp, vale a dire l’imprescindibile sovrapposizione di sog-
getto percipiente e oggetto percepito, di oggetto di lettura e soggetto let-
tore, con la sovrastruttura di precomprensioni che quest’ultimo porta al
testo, a ‘pervertire’ la progettualità originaria, deviandola verso esiti non
3
programmati né prevedibili, ossia a demistificare il mito dell’origine. Vo-
1
Lo stesso Andy Warhol (al secolo Andrew Warhola), la cui Pop Art ha segnato di
fatto la prassi camp statunitense più di ogni altra produzione artistica nel secondo do-
poguerra, era di origini europee. In merito alla qualità camp degli artisti sopra citati si
possono consultare Philip Core, Camp: The Lie that Tells the Truth, New York: Dalilah,
1984, pp. 52-54, 90-91; Ronald Schwartz, “Cobra Meets the Spiderman: Two Examples
of Cuban and Argentinian ‘Camp’”, in Rose S. Minc and R. Marylin Frankenthaler
(eds.), Requiem for the ‘Boom’ – Premature? A Symposium, Montclair: Montclair State
College, 1980, pp. 137-149; Alejandro Yarza, op. cit.; Paul Julian Smith, Laws of Desire:
Questions of Homosexuality in Spanish Writing and Film, 1960-1990, Oxford: Clarendon,
1992; Pascale Gaitet, “The Politics of Camp in Jean Genet’s Our Lady of Flowers”,
L’Esprit Créateur, XXXV, 1, printemps 1995, pp. 40-49; Richard Dyer, “Reading Fass-
binder’s Sexual Politics”, in Tony Rayns (ed.), Fassbinder, London: British Film Insti-
tute, 1979; Johannes von Moltke, “Camping in the Art Closet: The Politics of Camp
and Nation in German Film”, New German Critique, 63, Fall 1994, pp. 77-106; Patrick
Mauriès, op. cit., p. 26; Pamela Bacarisse, “Chivalry and ‘Camp’ Sensibility in Don Qui-
jote, With Some Thoughts on the Novels of Manuel Puig”, Forum for Modern Language
Studies, XXVI, 2, 1990, pp. 127-143.
2
È il caso, ad esempio, di Pedro Almodóvar e di Alberto Arbasino. Per quanto ri-
guarda il cineasta spagnolo si vedano le interviste riportate in Marcia Pally, “The Poli-
tics of Passion: Pedro Almodóvar and the Camp Esthetic”, Cinéaste, XVIII, 1, 1990, pp.
32-35, 38-39. Arbasino, peraltro, parla esplicitamente di camp e del proprio debito nei
confronti della scena angloamericana in varie sedi: cfr. Alberto Arbasino, Off-off, Milano:
Feltrinelli, 1968, pp. 139, 200, 216, 230, 257; Id., Sessanta posizioni, Milano: Feltrinelli,
1971, passim; e Id., “Nota 1978”, in Super-Eliogabalo, Torino: Einaudi, 1978, p. 350.
3
Si precisa fin da ora un presupposto fondamentale di questo lavoro, così come – si
ritiene – del suo oggetto di studio: il termine mito viene qui inteso nell’accezione bar-
thesiana, attraverso la quale si indica la sfera della semiotica connotativa, il significato
6 ESUBERANZA
lendo arginare una questione che condurrebbe ben oltre i confini di que-
sta ricerca, basti in definitiva osservare in questa sede come la latitanza
del termine ostacoli un inserimento dei numerosi fattori afferenti alla fe-
nomenologia camp in un sistema d’intelligibilità: in una tradizione, una
1
teoria e una prassi storica.
Torniamo pertanto al brano dal Concerning the Eccentricities of Cardinal
Pirelli firbankiano, e alla sua ascrivibilità al camp. L’esibizionismo che
impregna di sé sia l’utilizzo di un linguaggio massimamente stilizzato sia
l’erraticità del periodare e del pensiero messo in scena (“he had a flash of
inconsequent insight”), si coniuga al compiacimento per il sofisma attra-
verso il quale i termini di positività e negatività risultano invertiti e la
mendacità è resa pratica tanto virtuosa quanto edificante: “deception is a
humiliation; but humiliation is a Virtue”. Ne emerge un paradossale vir-
tuosismo, grazie al quale la virtù e i suoi correlati (onestà, temperanza,
castità, rettitudine, ecc.) sono sovrapposti al loro opposto: all’abilità cioè
tecnica di manipolare i segni e le architetture di pensiero verso la pratica
della disonestà, dell’intemperanza, della perversione, della menzogna e
dell’eterodossia. Un virtuosismo che proprio in ragione di tale ambiguità
non promuove, in ultima analisi, un coinvolgimento emotivo del lettore,
una sua illusione nei confronti dell’autenticità (verosimiglianza, sincerità,
rimando im-mediato alla realtà) del testo narrativo o della qualità argo-
mentativa – evidentemente pretestuosa, e accattivante in quanto tale – del
Cardinal Alvaro Narciso Hernando Pirelli. L’ostentazione di sé – inscritta
già nel nome del protagonista e teatralizzata nel suo agire così come nel
suo stile di pensiero – si duplica insomma nell’esibizione dell’inganno te-
stuale (e del sé come menzogna, artificio o maschera), volta a promuovere
una fruizione all’insegna del sorriso complice: in altre parole, un apprezza-
mento inscindibile dalla consapevolezza di teatrale inautenticità del te-
sto, dell’argomentazione e del sé. Il lettore stesso è invitato cioè ad adot-
tare una sorta di pensiero travestito, a fingere di collaborare con la perfor-
mance o a collaborare fingendo di credere in essa; in questa paradossale dia-
lettica si può riconoscere a pieno diritto una tipica declinazione del camp.
Se il brano, in tal senso, denuncia una campiness, è dunque anche in
virtù del fatto che in esso ‘campeggia’ la figura dell’eccentrico sacerdote.
Don Alvaro Narciso Hernando Pirelli è egli stesso un camp (nella forma
nominale camp indica in effetti sia il fenomeno nel suo complesso sia
l’individuo che ne partecipa), poiché ripropone la modalità esistentiva –
all’insegna della sprezzatura aristocratica e ricercatezza del sofisticato
esteta che assume le vesti del trickster – riconducibile al modello sette-
centesco del virtuoso. Un antecedente storico di grandissimo rilievo per il
1
soggetto camp novecentesco, il virtuoso, sul quale si scatenava la stig-
matizzazione dei pensatori autorizzati dalla nascente egemonia borghe-
se, in ragione della vacuità ‘intrinseca’ alla sua sfrontata e narcisistica au-
toreferenzialità, che opponeva all’integrità del soggetto borghese – e del-
le sue fondamenta gnoseologiche – un’effeminatezza di stampo aristo-
cratico e, con essa, una pseudoconoscenza che dissociava gusto, maniere
e morale trovando la propria ragion d’essere, il proprio oggetto e il pro-
2
prio fine in se stessa. In breve, in ragione di quel riprovevole orgoglio che
il virtuoso mutuava dalla nobiltà (dalla rappresentazione derogatoria che
della nobiltà offrivano i critici borghesi, nel processo di ratificazione di un
nuovo equilibrio fra le classi e di un nuovo, corrispondente, ordine di na-
1
Questo è quanto sostiene persuasivamente, in una eccellente ricognizione della
semiotica della postura e dell’abbigliamento aristocratico nell’Inghilterra tardorinasci-
mentale, Thomas A. King, “Performing ‘Akimbo’: Queer Pride and Epistemological
Prejudice”, in Moe Meyer (ed.), The Politics and Poetics of Camp, London: Routledge,
1994, p. 23-50. Che il virtuoso sia figura centrale nell’iconografia camp emerge anche,
seppure in modo impressionistico, in Mark Booth, Camp, London, Quartet, 1983, passim.
2
Thomas King riporta le esplicite dichiarazioni, fra il 1710 e il 1714, di Anthony Ashley
Cooper, che contrapponeva al dispendio, tanto ricercato quanto ingannevole, del vir-
tuoso, l’attività critica del soggetto borghese: il gusto si esercitava correttamente solo
attraverso “the antecedent Labor and Pains of CRITICISM”, che conduceva alla natura
delle cose, poiché “in the very nature of Things there must of necessity be the Founda-
tion of a right and wrong TASTE”. Cfr. Thomas King, op. cit, pp. 35-36.
8 ESUBERANZA
1
turalità), e che lo separava da Dio evacuandone la dimensione interiore.
Il sofisma del cardinal Pirelli, non a caso, è sollecitato e legittimato
dall’orgoglio della stirpe: “with the Pirelli pride, with resourceful inti-
macy he communed with his heart”. L’abilità retorica del personaggio
trova la propria matrice nel privilegio conferito a un sé che annulli la di-
mensione interiore e privata per costituirsi in quanto spettacolo, quale
pura esteriorità, o che – come rende esplicito il personaggio firbankiano
– renda la sua stessa interiorità, his heart, scenario per il dispiegarsi di un
sofisticato inganno: e la sofisticatezza rimanda etimologicamente proprio
al sofisma, al sottile e ingannevole teatrino messo in scena da Pirelli. Il
valore – la virtù – di cui si fa portatore il cardinale è insomma, come veniva
addebitato ai virtuosi, un antivalore, una pura funzione del palco sociale
e del sociale in quanto palco (una funzione insomma del luogo che si oc-
cupa su di esso, della relazione che il performer intrattiene con lo spetta-
tore nell’economia dello spettacolo – ha valore chi campeggia sulla scena,
chi si impone all’attenzione del pubblico, a prescindere dal suo ‘valore
2
intrinseco’), nella radicale operazione demistificatoria del palco medesimo
cui ci introduce Pirelli ricordando come “many a prod to a discourse, many
a sapient thrust, delivered ex cathedrâ, amid the broken sobs of either
sex, had been inspired, before now, by what prurient persons might
term, perhaps, a ‘frolic’”. È significativo infatti che ex cathedrâ Pirelli ri-
1
Alla fallacia, in merito al fondamento gnoseologico di cui nella nota precedente,
King fa corrispondere la vacuità del virtuoso, il cui narcisistico orgoglio lo separa dal
primo oggetto e fine di conoscenza, Dio. L’orgoglio è il peccato primigenio, padre di
tutti i vizi, perversione del libero arbitrio in quanto promuove l’opposizione fra sé e
Dio, il rifiuto di un disegno divino, e – attraverso questo rifiuto – l’evacuazione del sé:
“[i]n turning away from God, the proud man perversely abandoned his proper self;
pride was therefore the origin and epitome of the Augustine concept of sin as priva-
tion. The proud man’s excessive concern with himself actually recreated him as lacking
being”. Ibidem, pp. 31-32. L’argomentazione di King è a ogni modo riconducibile a
quanto osservato da Jonathan Dollimore sulla concettualizzazione agostiniana di pec-
cato come privazione in “Augustine: Perversion and Privation”, in Sexual Dissidence:
Augustine to Wilde, Freud to Foucault, Oxford: Clarendon, 1991, pp. 131-147.
2
Il virtuoso, così come il cortigiano che scatenava la vis polemica di Samuel Butler,
“[i]s a cipher, that has no value himself but from the place he stands in. […] His busi-
ness is only to be seen” (cit. in Thomas King, op. cit., p. 37). Dal che King conclude:
“The courtier and the virtuoso shared the same psychic makeup according to their crit-
ics; they were at once overly concerned with themselves and unable to know them-
selves, embodying excess but manifesting emptiness” (ibidem). Sulla virtus tardorina-
scimentale quale funzione del ruolo sociale più che del rimando agli eterni valori della
natura umana si veda anche Jonathan Dollimore, “Antony and Cleopatra (c. 1607): Vir-
tus Under Erasure”, in Radical Tragedy: Religion, Ideology and Power in the Drama of
Shakespeare and His Contemporaries, London: Harvester Wheatsheaf, 1984, pp. 204-217.
INTRODUZIONE A UN’ARCHITETTURA SGHEMBA 9
tica, e non quale categoria storica, poiché il termine non aveva effettiva operatività du-
rante gli anni cui la categoria fa riferimento. Cfr. George Chauncey, Gay New York: The
Making of the Gay Male World, 1890-1940, London: HarperCollins, 1995, p. 6.
1
Eve Kosofsky Sedgwick, Epistemology of the Closet (1990), Harmondsworth: Pen-
guin, 1994, p. 3.
2
Sull’ambiguità del closet, dispiegata nell’analisi della scrittura di Henry James, Melville,
Nietzsche, Proust e Wilde, è imprescindibile il volume citato di Eve Kosofsky Sedgwick.
3
Alfred Douglas, “Two Loves”, The Chameleon, 1, 1894, p. 28.
4
Sulla fatalità dell’esperienza omosessuale nei confronti del proprio senso di identi-
tà, e della stessa nozione di soggettività, in relazione allo specifico di Oscar Wilde e di
André Gide, ha pagine illuminanti Jonathan Dollimore, “Wilde and Gide in Algiers”,
in Sexual Dissidence, cit., pp. 3-18.
INTRODUZIONE A UN’ARCHITETTURA SGHEMBA 13
1
tità, nel caso del cardinal Pirelli, e della cultura del suo tempo, corri-
sponde peraltro allo scenario cui ci introduce la ricognizione storiografica
della scena omosessuale metropolitana a cavallo fra i due secoli di Geor-
ge Chauncey, la quale evidenzia la necessità di sostituire al coming out of
the closet il coming out into the gay world, quale utilizzo storico della locu-
2
zione. La privazione della privatezza (il closet), e il regime di conoscenza
che la sottende, veniva abbandonato attraverso un vero e proprio ‘debut-
to’ – modellato per via parodica su quello delle debuttanti nell’Alta So-
3
cietà – nella società dei cultural peers, ossia dei ‘pari rango’ omosessuale.
Il Cardinal Pirelli, insomma, si muove nel closet solo nella misura in
cui egli resiste alla persecuzione/tentazione del persistent officer, e in cui
resiste il riconoscimento del proprio desiderio: nella misura in cui, in de-
finitiva, sembra evitare di articolarsi in un pieno accesso alla propria ses-
sualità, intendendo con ciò accesso alla sottocultura omosessuale, a quel-
la che con altra metafora spaziale veniva indicata come il gay world, che
4
già al tempo si distribuiva in spazi sociali e in ritualità collettive. La dimen-
sione pubblica dell’eversività cardinalizia esiste infatti solo in coincidenza
con quella interiore, in quell’io ‘privato’ che è anche un io scisso, soggetto
1
I due fattori – presa di coscienza ed esplicitazione – sono stati storicamente sovrap-
posti nel corso degli anni Settanta di questo secolo, allorché l’articolazione dell’at-
tivismo gay promosse un’identità pubblica a scapito di quella ‘privata’ (il closet) cui del
resto, come si vedrà, viene fatto in larga misura corrispondere il fenomeno camp della
prima metà del Novecento. Closet e coming out sono così strettamente legati, pur rim-
piazzandola, alla dicotomia fra covert e overt homosexual che Maurice Leznoff e W. A.
Westley avevano strutturato in “The Homosexual Community”, Social Problems, 3,
1956, pp. 257-263. Sul coming out sono utili Dennis Altman, Homosexual: Oppression
and Liberation, New York: Outerbridge & Dienstfrey, 1971; e Jeffrey Weeks, Coming
Out: Homosexual Politics in Britain from the Nineteenth Century to the Present, London:
Quartet, 1977.
2
George Chauncey, op. cit., p. 7.
3
Ivi, pp. 7-8.
4
Il volume citato di Chauncey è senza dubbio fra gli studi più esaurienti, documen-
tati e intelligenti sulla costituzione del gay world, con specifica attenzione alla sua parte
maschile. Altri studi di storiografia gay, di analoga utilità, sono Jeffrey Weeks, op. cit.;
Id., Sex, Politics and Society: The Regulation of Sexuality Since 1800, London: Longman,
1981; Kenneth Plummer (ed.), The Making of the Modern Homosexual, London: Hut-
chinson, 1981; David F. Greenberg, The Construction of Homosexuality, Chicago: Uni-
versity of Chicago Press, 1988; David Halperin, One Hundred Years of Homosexuality
and Other Essays on Greek Love, London: Routledge, 1989; e Martin Duberman, Martha
Vicinus and George Chauncey (eds.), Hidden from History: Reclaiming the Gay and Les-
bian Past, New York: New American Library, 1989; Allan Bérubé, Coming Out Under
Fire: The History of Gay Men and Women in World War Two, New York: Free Press,
1990; e Neil Miller, Out of the Past: Gay and Lesbian History from 1869 to the Present,
New York: Vintage, 1995.
14 ESUBERANZA
1
Esemplare in tal senso, in quanto estrema radicalizzazione di un’atteggiamento che
segna gli interventi critici fin dai primi anni Settanta (di cui si dirà nei prossimi capito-
li), è Moe Meyer, “Reclaiming the Discourse of Camp”, in Moe Meyer (ed.), op. cit., pp.
1-22. Si riprenderà specificamente la questione nei capitoli 6 e 7.
2
Le categorie di umorismo, ironia, estetismo, teatralità e incongruità, in specifico rap-
porto alla formazione culturale omosessuale, sono state proposte in Esther Newton,
op. cit., pp. 106-109, e in Jack Babuscio, “Camp and the Gay Sensibility”, in Richard
Dyer (ed.), Gays and Film, London: British Film Institute, 1977, pp. 41-48. Il saggio di
Babuscio e il quinto capitolo del volume di Newton (“Role Models”) sono stati ristam-
pati in David Bergman (ed.), Camp Grounds: Style and Homosexuality, Amherst: University
of Massachusetts Press, 1993, pp. 19-53. Le categorie stesse, e il rapporto con la sog-
gettività omosessuale, riceveranno maggiore attenzione nelle prossime pagine.
INTRODUZIONE A UN’ARCHITETTURA SGHEMBA 19
con Marc Almond; nella danza, i Ballets Russes con Lindsay Kemp e con
Michael Clark; nel cinema, i film di terz’ordine con i classici del bianco e
nero, i kolossal hollywoodiani con il cinema underground, le maschere
androgine, supremamente fascinatorie, di Marlene Dietrich e Greta Gar-
bo con l’ostentata femminilità di Marylin Monroe e la femminilità ‘fallica’
di Mae West, la fragilità psicofisica di Bette Davis e Judy Garland con
1
l’obesità di una Divine, superstar en travesti dei film di John Waters.
L’esemplificazione che precede, così come del resto la resistenza alla
definizione che si metteva in gioco nella lettura del brano firbankiano,
risulta com’è ovvio sorprendente, se non irritante, per la propria appa-
rente gratuità; gratuità che non pertiene tanto all’esemplificazione, quan-
to all’indefinito attivarsi della referenza di cui essa dà solo testimonianza
(parziale, del resto: la gratuità del riferimento, e l’irritazione che si produ-
ce in chi non partecipi del medesimo gusto, è una parte innegabile del-
l’aristocraticismo camp). L’incalzare esemplificatorio testimonia insom-
ma la cifra del camp, quell’eccetera che nelle parole di Giuseppe Merlino
– in uno dei rarissimi contributi italiani sull’argomento che mutuava
l’asistematicità (o la sistematica allusività) degli interventi critici ‘storici’
sull’argomento – “segnala la necessaria inconcludenza e la mobilità del
2
camp”. I riferimenti possibili, infatti, per quanto sconcertanti nell’oscilla-
zione fra pragma e arte, fra Alta Cultura e paccottiglia, proliferano pres-
soché indefinitamente, da ogni epoca e luogo (una qualità camp è stata
riscontrata in Petronio, Caravaggio e Pontormo, e persino nella retorica
3
di De Gaulle, Hitler e Mussolini), producendo in ultima analisi quello
1
Una sorta di ‘dizionario enciclopedico’ del camp è offerto in Philip Core, op. cit.;
specificamente dedicati alla tradizione cinematografica sono invece P. Roen, High
Camp: A Gay Guide to Camp and Cult Films, Vol. 1, San Francisco, Leyland 1994, e Ra-
ymond Murray, “Camp”, in Images in the Dark: An Encyclopedia of Gay and Lesbian Film
and Video, Philadelphia: TLA, 1994, pp. 467-478. Di analoga utilità, in quanto riferita a
una matrice camp, è peraltro anche la gran parte delle voci in Keith Howes, Broad-
casting It: An Encyclopaedia of Homosexuality on Film, Radio and TV in the UK 1923-1993,
London: Cassell, 1993.
2
Giuseppe Merlino, op. cit., p. 123.
3
Per i riferimenti a Petronio, Caravaggio, Pontormo, De Gaulle e Mussolini come
partecipi dell’estetica camp si vedano ad esempio Cecil Wooten, “Petronius and
Camp”, Helios, XI, 2, 1984, pp. 133-139; Philip Core, op. cit., pp. 48, 149; e Vieri Razzi-
ni, op. cit., p. 64. I testi citati nella nota precedente si avvalgono di un ampio apparato
iconografico: utile in questa prospettiva è anche Armin Kratzert (a cura di), Camp: Ni-
jinsky, Hitler, Sexfilme, Rosenkavalier, Jugendstillampen, David Bowie, Caravaggio, De
Gaulle, Greta Garbo, Jesus, Oscar Wilde, Rokokokirchen – und mehr!, Frankfurt: Dinu Po-
pa, 1987 (e non è superfluo rilevare come il titolo di quest’ultimo volume risulti di per
sé eloquente in merito all’eterogeneità del corpus).
20 ESUBERANZA
1
che sembra essere solamente “[u]n catalogo della Decorazione Assoluta”.
Un trionfo dell’eterogeneità dei materiali, questo, che, oltre a contribuire
significativamente a una radicale indefinibilità del corpus di riferimento,
riflette di volta in volta l’incapacità o la non volontà – che dalle prime te-
stimonianze sull’argomento si protrae fino agli interventi critici più re-
centi – di rendere meno sfuggente il termine stesso, la sua referenza, il
suo significato e utilizzo, contribuendo alla frustrazione di chi desideri
postulare una intrinsecità fenomenologica, che possa giustificare un con-
senso non riducibile, qual è tutto sommato ancor oggi, all’affermazione
2
di esuberanza del camp rispetto a ogni definizione totalizzante.
Motore, principio e fine della riflessione critica, l’esuberanza si è ri-
percossa sulla riflessione stessa in una duplice veste. Da un lato, essa è
venuta caratterizzando il panorama critico degli ultimi trent’anni, che si
configura secondo modalità assolutamente babeliche. Dall’altro, essa è
stata oggetto di un processo di gestione critica, di riduzione sistematica
dell’evanescenza e mobilità che segnalano in primissima battuta il camp
nella sua configura estetica e fenomenologica. È a questa gestione che i
prossimi capitoli saranno dedicati, nel costante richiamo a consapevolez-
za della dimensione di per sé babelica del camp. L’impresa di gestione
dell’esuberanza, si vedrà, coincide con un gesto di ‘tradimento’ su più
livelli dell’esuberanza stessa. Si cercherà dunque di evidenziare i limiti o,
se si preferisce, la fallimentarietà di questi tentativi di amministrazione,
ma non con il semplice intento di screditarli, bensì in quanto movimento
necessario – si ritiene – per un tentativo di definizione di una problematica
a partire da un’inalienabile presa d’atto del suo essere irriducibile, “nei-
3
ther a consistent theoretical perspective, nor a certain group of artifacts”.
1
Giuseppe Merlino, op. cit., p. 123.
2
Nelle parole di Patrick Mauriès, “une définition, comme disent les mathématiques,
‘exacte’ du camp semble destinée à rester pour toujours en souffrance”. Patrick
Mauriès, op. cit., p. 65. Fra i contributi recenti si vedano ad esempio John A. Degen,
“Camp and Burlesque: A Study in Contrasts”, Journal of Dramatic Theory and Criticism,
1, 1987, p. 87; Joseph P. Goodwin, “There’s No Version like Perversion”, in More Man
than You’ll Ever Be: Gay Folklore and Acculturation in Middle America, Bloomington:
Indiana University Press, 1989, p. 38; Jonathan Dollimore, Sexual Dissidence, cit., p.
310; David Bergman, “Introduction”, in David Bergman (ed.), op. cit., pp. 4-5; Alexan-
der Doty, “Queerness, Comedy and The Women”, in Kristine Brunovska Karnick and
Henry Jenkins (eds.), Classical Hollywood Comedy, London: Routledge, 1995, p. 335.
Quale eccezione si propone Moe Meyer, op. cit., la cui radicale definizione del fenome-
no in senso normativo verrà discussa (e contestata) nel capitolo 7.
3
Mark Finch, “Sex and Address in Dynasty”, Screen, 27:6, November-December
1986, p. 36.
INTRODUZIONE A UN’ARCHITETTURA SGHEMBA 21
Tradimenti, 1954-1964
High Camp is the whole emotional basis of the Ballet, for example, and
of course of baroque art. You see, true High Camp always has an un-
derlying seriousness. You can’t camp about something you don’t take
seriously. You are not making fun of it; you’re making fun out of it.
You’re expressing what’s basically serious to you in terms of fun and
artifice and elegance. Baroque art is largely camp about religion. The
Ballet is camp about love.1
While all female impersonators are drag queens in the gay world, by
no means are all of them ‘camps’. Both the drag queen and the camp
are expressive performing roles, and both specialize in transformation.
But the drag queen is concerned with masculine-feminine transforma-
tion, while the camp is concerned with what might be called a philoso-
phy of transformations and incongruity. Certainly the two roles are in-
timately related, since to be a feminine man is by definition incongru-
ous. But strictly speaking, the drag queen simply expresses the incon-
gruity while the camp actually uses it to achieve a higher synthesis.2
1
George Frazier, “Call It Camp”, Holiday, November 1965, p. 19. Nel presentare le
due categorie, Frazier si affida in effetti ad Alvis Davis, columnist del New York Post, in
un intervento privo di estremi, di cui non è stato possibile prendere visione.
2
Il termine swish, o swishy, che troviamo qui nella “blatant swishiness” dopo averlo
incontrato in Isherwood (“a swishy little boy with peroxided hair”) indica di per sé,
nello slang gay, “effeminate, tinged with homosexuality”, o “to overplay homosexual
gestures”, Bruce Rodgers, op. cit., pp. 192-193. L’ostentazione dell’omosessualità (lo
overplaying) lo caratterizza, secondo C.A. Tripp (op. cit., pp. 166-177), fra le principali
categorie dell’effeminatezza gay, accanto a Nelly, Blasé e Camp, come caratterizzata
dall’eccesso di segni femminei. Va da sé che l’utilizzo da parte di Tripp della categoria
di Camp sia molto più circoscritto rispetto al suo utilizzo storico, che comprende, co-
me testimonia l’esempio in questione, anche lo Swish.
3
Sub voce ‘camp’, in Jess Stein (ed.), The Random House Dictionary of the English Lan-
guage, New York: Random House, 1966, p. 214.
30 ESUBERANZA
1
print. To talk about Camp is therefore to betray it”. I termini utilizzati,
significativamente, sono cult name, esoteric, private code e badge of identity.
L’enfasi non è tanto, o solo, sulla clandestinità omosessuale di cui il camp
sarebbe indice (come il ricorso a badge of identity, o anche a private code,
potrebbe spingere a pensare), bensì sulla inarticolabilità del camp in
quanto discorso esoterico (in chiave analoga a quella che Isherwood sug-
geriva affermando che per impadronirsi del codice fosse necessario “me-
ditate on it and feel it intuitively, like Lao-Tze’s Tao”), e riconducibile al
suo essere una sensibility. Sensibilità che – tradotta in veste intelligibile,
vale a dire articolata in termini comprensibili al di fuori del culto clande-
stino – rischiava di essere irrigidita allo statuto di ‘idea’: “[a] sensibility is
almost, but not quite, ineffable. Any sensibility which can be crammed
into the mold of a system, or handled with the rough tools of proof, is no
2
longer a sensibility at all. It has hardened into an idea”.
È in ragione di ciò che Sontag adotta sia uno stile paratattico, che tra-
duce nella disarticolatezza dei 58 ‘appunti’ che compongono il saggio la
resistenza della ‘sensibilità’ alla consequenzialità espositiva del linguag-
gio saggistico, sia la scelta di offrire in apertura un elenco degli oggetti
camp come forma di sua presentazione per exempla più che per argo-
3
mentazione. L’ineffabilità del camp qual è teorizzata da Sontag risulta
1
Susan Sontag, op. cit., p. 275. In effetti la nozione aveva avuto una diffusione a
stampa superiore rispetto a quanto si riconosca in questo passaggio. Ad alcuni testi in
tal senso si è già fatto rimando in apertura di capitolo; si confrontino inoltre Richard
Mayne, “Needlework”, New Statesman, 17 August 1962, p. 207; Julian Mitchell, “Dot
Dot Dot”, Spectator, 17 August 1962, pp. 222-223; e Donald Webster Cory, The Homo-
sexual and His Society: A View From Within, New York: Citadel, 1963. La stessa Sontag
aveva fatto ricorso alla nozione in “Happenings: An Art of Radical Juxtaposition”, ori-
ginariamente apparso in The Second Coming (nel 1962), e ristampato in Susan Sontag,
Against Interpretation and Other Essays, cit., pp. 263-274. In tutti questi interventi, a
ogni modo, si fa ricorso alla nozione senza offrirne un’analisi, e in tal senso il ‘tradi-
mento’ è solo parziale.
2
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 276.
3
“To snare a sensibility in words, especially one that is alive and powerful, one must
be tentative and nimble. The form of jottings, rather than an essay (with its claim to a
linear, consecutive argument), seemed more appropriate for getting down something
of this particular fugitive sensibility”. Ivi, pp. 276-277. L’elenco degli oggetti camp si
trova alle pagine 277-278. Questa duplice scelta, di annotazione e di esemplificazione
paratattica, segnerà gli interventi successivi, tanto da essere in diverse occasioni ripro-
posta. Si vedano ad esempio Richard Dyer, “It’s Being so Camp as Keeps Us Going”,
The Body Politic, X, 36, September 1977, pp. 11-13, ristampato in Richard Dyer, Only
Entertainment, London: Routledge, 1992, pp. 135-147 (da cui le prossime citazioni nel
testo); Patrick Mauriès, op. cit.; Philip Core, op. cit.; Mark Booth, op. cit., p. 15-16; Giu-
seppe Merlino, op. cit.; e Paul Roen, op. cit.
32 ESUBERANZA
1
L’utilizzo da parte di Sontag del termine sensibilità, pertanto, presuppone la parzia-
le inintelligibilità del camp rimandando alla presunta ineffabilità della dimensione in-
teriore, quella dimensione del feeling che il culto settecentesco della sensibilità testi-
monia ampiamente nelle opere di Henry Mackenzie, Richard Brinsley Sheridan e Lau-
rence Sterne, e nel quale riveste un ruolo cruciale l’effeminatezza che nel nostro secolo
è risultata ascritta all’omosessualità camp. Si consulti in proposito Alan Sinfield, The
Wilde Century, cit., pp. 84-108. In seconda (e più significativa) battuta l’utilizzo riman-
da, implicitamente, alla dicotomia fra sensibile e intelligibile che dominava l’universo
intellettuale greco. Cfr. Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant in Les Ruses de l’intel-
ligence. La mètis des Grecs, Paris: Flammarion, 1974, p. 11. Nell’irrisolta oscillazione fra
sensibile e intelligibile si colloca, nella splendida analisi di Detienne e Vernant, la mètis,
l’intelligenza dell’inganno, analogamente al camp che, nelle parole di Sontag, è “al-
most, but not quite, ineffable”. Di ciò il saggio di Sontag sembra peraltro non essere
consapevole, come testimonia il fatto che oltre faccia riferimento ad altre due ‘sensibi-
lità’, di cui a breve, alle quali Sontag contrappone quella camp e che interamente si
sono consegnate all’intelligibilità e alla sua controparte istituzionale, la dicibilità critica.
2
Esemplari in tal senso sono i lavori, precedentemente citati, di Philip Core, Armin
Kratzert, Patrick Mauriès e Giuseppe Merlino. Fra i contributi recenti rientrano pie-
namente in questa categoria Scott Long, “Useful Laughter: Camp and Seriousness”,
TRADIMENTI, 1954-1964 33
Southwest Review, 74, Winter 1989, ristampato come “The Loneliness of Camp” in Da-
vid Bergman (ed.). op. cit., pp. 78-91; Andrew Travers, “An Essay on Self and Camp”,
Theory, Culture & Society, X, 1, February 1993, pp. 127-143; e in genere la scrittura criti-
ca di Wayne Koestenbaum. Di quest’ultimo si vedano in particolare “Opera and Ho-
mosexuality: Seven Arias”, Yale Journal of Criticism, V, 1, 1991, pp. 235-254; The
Queen’s Throat: Opera, Homosexuality, & the Mystery of Desire (1993), London: Penguin,
1994; e “Wilde’s Hard Labor and the Birth of Gay Reading”, in Joseph A. Boone and
Michael Cadden (eds.), Engendering Men: The Question of Male Feminist Criticism. Lon-
don: Routledge, 1990.
1
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 277.
2
Ivi, p. 287.
3
Ibidem.
4
Ibidem. “Another valid sensibility”: si confronti supra, la nota 1 a p. 32. La differen-
za saliente fra le tre sensibilità è dunque quella del loro grado di ‘validità’, ossia – ri-
formulando – il loro statuto pubblico (legittimità e ratificazione sociale), in quanto vei-
colo della ‘verità dell’umano’.
34 ESUBERANZA
scinde infatti mai dal ruolo esplicitamente rivestito dal soggetto perci-
piente. Il camp può pertanto essere rintracciato ovunque, a patto che il
fruitore non venga coinvolto, non rispetti le intenzioni e il contesto che
consensualmente si presuppongono caratterizzare l’oggetto in questione.
Il camp presuppone una distanza che consenta di cogliere il grado di ar-
tificiosità (la qualità di artefatto) dello stesso. Nelle parole di Oscar Wil-
de, appropriatamente utilizzate quali epigrafe da Sontag, “one must have
a heart of stone to read the death of Little Nell” – l’eroina del dickensiano
The Old Curiosity Shop, il cui tragico epilogo provocò nel secolo scorso una
1
straordinaria partecipazione popolare – “without laughing”. Ma il di-
stacco del camp partecipa di un cinismo paradossalmente appassionato,
il cui trasporto ‘affettivo’ è il presupposto dell’entusiasmo nel momento
stesso in cui questo corrisponde all’entusiasmo e all’eccesso di intenzioni
inscritte nel processo di produzione dell’oggetto, o del soggetto, camp:
1
Ivi, p. 277.
2
Ivi, p. 291.
3
Ivi, p. 275.
4
Ivi, p. 279.
TRADIMENTI, 1954-1964 41
1
Ibidem.
2
Ibidem.
3
Ivi, p. 280. Va tuttavia sottolineato come la metafora della vita quale teatro sia rin-
tracciabile fin dal theatrum mundi medievale. Ciò che differenzia la teatralità camp è
l’assenza della Divina Provvidenza quale ‘regista’ dell’azione, e del conseguente ri-
mando a una volontà superiore che presieda i movimenti degli ‘attori’. Sul theatrum
mundi medievale e sulla distanza fra questo e la teatralità sociale contemporanea è an-
cora assai utile Elizabeth Burns, Theatricality: A Study of Convention in the Theatre and in
Social Life, London: Longman, 1972, pp. 8-22.
42 ESUBERANZA
1
also connects with the homosexuals’s desire to remain youthful.)”
La concessione ha una duplice implicazione, di cui solo la seconda è –
ma indirettamente – esplorata da Sontag. La prima è che la metafora
della vita-come-teatro sarebbe funzionale alla “situazione omosessuale”
nella misura in cui questa è clandestina, vale a dire nel closet, ossia in uno
2
stato di covertness. Il trasgressore dovrebbe essere irriconoscibile per so-
pravvivere entro i confini del contratto sociale: egli sviluppa dunque
un’acuta consapevolezza dei codici comportamentali attraverso i quali ci
si ‘costruisce’ come soggetto eterosessuale, e vive la condizione sociale,
appunto, come un palco sul quale si inscena una rappresentazione dei
3
ruoli sessuali e dei ruoli sociali tout court. La teatralità (la consapevolezza
di teatralità) camp, in breve, sarebbe giustificata dalla consapevolezza gay
dell’attività recitativa nella quotidianità, fondata sulla necessità di sfuggi-
re al riconoscimento eterosessuale attraverso un codice altamente esclu-
sivo. Questa è insomma la tesi del camp come prodotto dal passing for
straight (il ‘passare’ per eterosessuale), che avrebbe dominato gli inter-
venti critici in chiave gay nei vent’anni successivi alla pubblicazione di
“Notes on ‘Camp’”. Basti ripensare a quanto sosteneva David Bergman
in merito all’espressione obliqua dell’omosessualità come prerogativa del
camp, a quella forma cioè di reticenza che nel silenzio trova la propria pa-
radossale forma di espressione (“thus the avoidance of ‘self-expression’
becomes paradoxically a powerful expression of gay selfhood”). Alla tesi
del passing si correla del resto un altro appunto di Sontag in merito allo
specifico utilizzo di camp come predicato verbale, che enfatizza la dupli-
cità del comportamento e del linguaggio camp, altrettanto funzionale al
riconoscimento fra covert homosexuals e in genere alle persone dalla ‘dop-
pia vita’:
1
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., pp. 290-291.
2
Sull’opposizione over/covert homosexual si veda supra la nota 1, a p. 13.
3
‘Egli sviluppa’: l’utilizzo del maschile non è né casuale né ingenuo. La teorizzazione
del camp in questa chiave è stata storicamente presieduta dalla varietà maschile
dell’omosessualità. Solo negli ultimi anni, come si vedrà oltre (cfr. il capitolo 4), si è
andata sviluppando una riflessione sul camp in chiave lesbica.
TRADIMENTI, 1954-1964 43
The reason for the flourishing of the aristocratic posture among homo-
sexuals also seems to parallel the Jewish case. For every sensibility is
self-serving to the group that promotes it. Jewish liberalism is a gesture
of self-legitimization. So is Camp taste, which definitively has some-
thing propagandistic about it. Needless to say, the propaganda oper-
ates in exactly the opposite direction. The Jews pinned their hopes for
integrating into modern society on promoting the moral sense. Homo-
sexuals have pinned their integration into society on promoting the
aesthetic sense. Camp is a solvent of morality. It neutralizes moral indig-
1
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 281. Il camp in tale quadro corrisponderà
al linguaggio, oltre che agli altri codici semiotici di comportamento, di matrice omoses-
suale fino alla fine degli anni Sessanta. Significativamente, la grande maggioranza dei
lemmi contenuti nel dizionario sopracitato di Bruce Rodgers (apparso nel 1972), e in
particolare quelli che giocano sulla polisemia allusiva, sono inseriti con l’indicazione
“(camp)”. Lo stesso volume, nella ristampa apparsa nel 1979 come Gay Talk: A (Some-
times Outrageous) Dictionary of Gay Slang, era definito in quarta “a camp thesaurus”.
2
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 288. Sulla ‘distanza sociale’ della tradi-
zione dandistica si può consultare Giovanna Franci, Il ‘sistema’ del dandy. Wilde-
Beardsley-Beerbohm, Bologna: Pátron, 1977, pp. 22-30.
44 ESUBERANZA
Riformulando, nei termini che avrebbero segnato gli interventi critici nei
successivi trent’anni: distaccata, indifferente alla drammaticità e all’im-
pegno critico che l’esistenza borghese impone quali parametri della par-
tecipazione al consorzio civile, l’aristocraticità camp promuove l’accetta-
zione da parte della società borghese perché segnala l’inoffensività della
trasgressione camp. Invocando un principio ludico e di abolizione del
‘contenuto’, il camp intende essere accettato come gioco, come dato pu-
ramente ‘estetico’, che ha in sé il proprio destino di giullare, nei confronti
del quale la soggettività borghese esplode nella risata che dichiara ad un
tempo la sua operatività, la sua accettazione, e i suoi limiti: nelle parole
di Kate Davy, “the wink of Camp (re)assures its audience of the ultimate
2
harmlessness of its play, its palatability for bourgeois sensibilities”. Il
camp sarebbe, in ultima analisi, acritico, lieto di accettare lo spazio che la
società borghese concede proprio perché, tutto sommato, si tratta solo di
‘un gioco’ (e di un gioco, dice Sontag, presieduto da un sentimento tene-
ro), di ‘una finzione’ di eversività, che non merita e non invoca la risposta
censoria: in una parola, il camp sospende la risposta giudiziaria, in paral-
lelo con la risposta critica che il camp quale categoria estetica non pre-
supporrebbe né in chi la pratichi né in chi si confronti con essa.
Il che apre immediatamente la questione del ‘fallimento’ di “Notes on
‘Camp’”, che va di pari passo con il suo ‘tradimento’. La chiave di lettura
che nel disimpegno, nel privilegio del significante e della superficie, nel-
l’elitarismo e nello svilimento della ‘serietà’, individua un desiderio e una
strategia di integrazione con la società borghese risulta immediatamente
inoperativa se confrontata con l’esperienza di Oscar Wilde, cui il saggio
di Sontag è dedicato, autore delle otto epigrafi che il critico nordameri-
cano inserisce fra i suoi ‘appunti’, e indicato nella stessa sede fra i primi
3
“conscious ideologists” del camp. Ipotizzare che il camp sia stato lo
strumento di integrazione per un Wilde, condannato ai lavori forzati e
consegnato al silenzio culturale per decenni, così come sostenere che
l’estetica wildiana promuovesse una risata tollerante da parte della società
1
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 290.
2
Kate Davy, op. cit., p. 145.
3
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 281. Il secondo conscious ideologist del
camp sarebbe Ronald Firbank (1886-1926), il cui lavoro è successivo e, almeno in par-
te, epigonico rispetto a quello di Wilde. Quest’ultimo, secondo Sontag, sarebbe dun-
que il primissimo “ideologo consapevole” del camp.
TRADIMENTI, 1954-1964 45
One of the many reasons why people were terrified by Wilde was be-
cause of a perceived connection between his aesthetic transgression
and his sexual transgression. ‘Inversion’ was being used increasingly to
define a specific kind of deviant sexuality inseparable from a deviant
personality. […] Hence in part the animosity and hysteria directed at
Wilde during and after his trial. He was attacked by the press (in the
words of one editorial) for subverting the “wholesome, manly ideals of
English life”. Moreover his “abominable vices […] were the natural
outcome of his diseased intellectual condition”. Sexual perversion is
inseparable from intellectual and moral corruption.1
1
Jonathan Dollimore, Sexual Dissidence, cit., p. 67.
2
Basti considerare la collocazione di Wilde nelle storie letterarie. Nella Penguin Guide
to English Literature, ad esempio, a Wilde erano dedicate solo poche pagine, condivise
peraltro con Rudyard Kipling (cui va la gran parte dell’attenzione critica) all’interno
della ‘ultima fase’ dell’epoca vittoriana. Cfr. Allan Rodway, “The Last Phase”, in Boris
Ford (ed.), The New Penguin Guide to English Literature (aggiornamento della Penguin
Guide del 1958), vol. 6, London: Penguin, 1982, pp. 385-403. Analoga sorte tocca a
Wilde nelle poche parole dedicategli da David Daiches in A Critical History of English
Literature, U.S.: Ronald Press, 1968.
46 ESUBERANZA
1
neate con vigore nel recupero in corso negli ultimi anni.
In seconda battuta, indipendente dalla questione omosessuale, il ri-
mando da parte di “Notes on ‘Camp’” alla qualità aristocratica del di-
stacco camp risulta problematico se posto in relazione con quella che
viene indicata come la portata ‘democratica’ del medesimo distacco e in-
differenza. Parlando della valenza transizionale di Oscar Wilde nella storia
del gusto snobistico di matrice dandistica, Sontag afferma:
Wilde himself is a transitional figure. The man […] could never depart
too far in his life from the pleasures of the old-style dandy […]. But
many of his attitudes suggest something more modern. It was Wilde
who formulated an important element of the Camp sensibility – the
equivalence of all objects – when he announced his intention of ‘living
up’ to his blue-and-white china, or declared that a door-knob could be
as admirable as a painting. When he proclaimed the importance of the
necktie, the boutonniere, the chair, Wilde was anticipating the democ-
ratic esprit of Camp.2
1
Cynthia Morrill, “Revamping the Gay Sensibility: Queer Camp and dyke noir”, in
Moe Meyer (ed.), op. cit., p. 117. Questo problema emergeva del resto già con Oscar
Wilde perché, nelle parole di Dollimore, “by the time of Wilde, homosexuality could
be regarded as rooted in a person’s identity and as pathologically pervading all aspects
of his being. As such the expression of homosexuality might be regarded as the more
intentionally insidious and subversive”. Jonathan Dollimore, Sexual Dissidence, cit., p.
67. Il problema investe non solo il pericolo di ‘correggibilità’ di un gusto, bensì più ge-
neralmente le implicazioni in chiave teorica dell’opposizione fra costruzionismo ed
essenzialismo (in breve, di quanto si dia la possibilità di una ‘preferenza’ all’interno del
quadro costruzionista che sempre più domina gli studi sul camp).
2
Toccando la specifica questione della strategia sottoculturale attraverso la quale
scardinare i dispositivi di potere che realizzano la marginalizzazione omosessuale, A-
lan Sinfield ha evidenziato tanto i limiti quanto i relativi vantaggi strategici della dupli-
ce ipotesi – genetica o acquisita, volontaria o meno – cui è in larga misura riconducibile
il dibattito sulle cause dell’omosessualità. Cfr. Alan Sinfield, “Subcultural Strategies”,
in The Wilde Century, cit., pp. 176-212. In tal senso, Sinfield accoglie l’invito di Jona-
than Dollimore a ripensare come l’essenzialismo – ad esempio, di André Gide – possa
essersi disposto quale strategia ancor più destabilizzante rispetto al costruzionismo
esemplificato da Oscar Wilde. Cfr. Jonathan Dollimore, “Wilde’s Transgressive Aes-
thetic and Contemporary Cultural Politics”, cit.
48 ESUBERANZA
The pure examples of Camp are unintentional; they are dead serious.
The Art Nouveau craftsman who makes a lamp with a snake coiled
around it is not kidding, nor is he trying to be charming. He is saying,
in all earnestness: Voilà! the Orient! Genuine Camp – for instance, the
mumbers devised for the Warner Brothers musicals of the early thirties
[…] by Busby Berkeley – does not mean to be funny. Camping – say,
the plays of Noel Coward – does. It seems unlikely that much of the
traditional opera repertoire could be such satisfying Camp if the melo-
dramatic absurdities of most opera plots had not been taken seriously
by their composers. One doesn’t need to know the artist’s private in-
tentions. The work tells all. (Compare a typical 19th century opera with
Samuel Barber’s Vanessa, a piece of manufactured, calculated Camp,
and the difference is clear.)1
Non è necessario rimarcare che non risulti affatto chiaro – dato il costante
riferimento alla intentio auctoris da parte di Sontag nella sua esemplifica-
zione e nella categoria stessa di deliberate Camp – in che misura le inten-
zioni dell’artista siano prescindibili, e come l’opera denunci le ‘proprie’
2
intenzioni nella loro interezza incondizionata. La frattura logica che
scandisce il passaggio finale espone la precarietà dell’affermazione di
Sontag: il repertorio operistico tradizionale non potrebbe risultare così
confini dell’intenzionalismo ‘puro’, ma estremamente attenta nella propria rilettura
polemica dell’anti-intenzionalismo di Roland Barthes, Jacques Derrida e Michel Fou-
cault, è quella offerta da Seán Burke, The Death and Return of the Author: Criticism and
Subjectivity in Barthes, Foucault and Derrida, Edinburgh: Edinburgh University Press,
1992. Ma si veda anche Seán Burke (ed.), Authorship: From Plato to the Postmodern – A
Reader, ibidem, 1995.
1
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 282.
2
Questo problema investe più in generale gli approcci ‘scientifici’ alla testualità che
hanno cercato di prescindere dal ruolo autoriale (inesorabilmente inscritto nel testo,
come hanno avuto modo di sostenere gli intenzionalisti, ovvero riconducibile al pro-
cesso stesso di decodifica e alla mole di precomprensioni testuali che l’orizzonte epi-
stemico configura). Si veda in proposito il mio, già citato, “Verso una rinascita dell’au-
tore?”. Ciò non significa, beninteso, che in questa sede si sposi la tesi intenzionalista,
la quale a sua volta ha ampiamente dimostrato i propri limiti; e si avrà modo di evi-
denziare oltre come l’ipotesi promossa dal camp in quanto oggetto d’indagine sia
quella che riconduce la ‘presenza’ autoriale all’atto di decodifica. Suggerire il problema
significa solo, in questo caso e in questa sede, mostrare la fallimentarietà del saggio di
Sontag nel suo tentativo ordinatore.
50 ESUBERANZA
meno che sia, il camp afferma in ultima analisi il totale predominio della
Cultura sulla Natura (svilita o negata).
La significatività del tardo estetismo come momento di riflessione sul-
lo statuto ‘teatrale’ dell’essere, attraverso la scrittura di Oscar Wilde, Au-
1
brey Beardsley e Max Beerbohm, risulta evidente nel momento in cui
avviciniamo il camp-come-performance (deliberate Camp). Il camp-come-
fruizione (naïve Camp) si configura a sua volta come fenomeno che trova
le proprie radici nella tradizione estetizzante, poiché risolve il mondo in
un fatto estetico e mette in crisi la distinzione fra arte (stile, teatro) e vita:
O ancora:
Camp is the triumph of the epicene style. (The convertibility of ‘man’
and ‘woman’, ‘person’ and ‘thing.’) But all style, that is, artifice, is, ul-
timately, epicene. Life is not stylish. Neither is nature.3
1
Ancora ottimo su Wilde, Beardsley e Beerbohm in merito a questi aspetti è il volu-
me citato di Giovanna Franci.
2
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 279.
3
Ivi, p. 280.
4
Ivi, p. 277.
52 ESUBERANZA
1
Reginald Hill, Another Death in Venice, New York: New American Library, 1987, p.
118 (cit. in Robert F. Kiernan, Frivolity Unbound: Six Masters of the Camp Novel, New
York: Continuum, 1990, p. 149).
54 ESUBERANZA
A full analysis of Art Nouveau […] would scarcely equate it with Camp.
But such an analysis cannot ignore what in Art Nouveau allows it to be
experienced as Camp. Art Nouveau is full of ‘content’, even of a political-
moral sort; it was a revolutionary moment in the Arts, spurred on by a
utopian vision (somewhere between William Morris and the Bauhaus
group) of an organic politics and taste. Yet there is also a feature of the
Art Nouveau objects which suggests a disengaged, unserious, ‘aes-
thete’s’ vision. This tells us something important about Art Nouveau –
and about what the lens of Camp, which blocks out content, is.1
Indicare l’elemento chiarificatore nell’intenzione autoriale sembra in-
somma tradursi in un semplice rinvio del problema; e il fatto che una
“full analysis of Art Nouveau […] would scarcely equate it with Camp”
finisce con il qualificare l’identificazione del camp in chiave, s’è detto,
dilettantistica, da gioco di società. Una giustificazione che a sua volta
non costituisce ragione sufficente per la richiesta, avanzata da Sontag, di
rilevanza del camp come fenomeno imprescindibile nel panorama cultu-
rale degli anni Sessanta, e più in genere della cultura del Novecento, li-
mitandosi a indicarla come accettabile nella sua sostanziale marginalità o
irrilevanza: “such an analysis cannot ignore what in Art Nouveau allows
it to be experienced as Camp”; senza dichiarare a cosa, concretamente,
corrisponda questo je-ne-sais-quoi, e come il Liberty si disponga rispetto
al suo elemento ‘secondario’ attivato attraverso “the lens of Camp”.
Un altro esempio, ora, attinto dalla galleria delle dive hollywoodiane
che costituiscono una navata per molti versi centrale nell’architettura del
camp novecentesco. In Sunset Boulevard, il film vincitore di due premi
Oscar (sceneggiatura e colonna sonora), diretto da Billy Wilder per la Pa-
ramount Pictures e distribuito nelle sale cinematografiche statunitensi
nel 1950, una straordinaria Gloria Swanson indossa le vesti di Norma
Desmond, ormai dimenticata diva del cinema muto la quale, isolata
1
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 281. Si è qui parlato di Liberty in quanto
etichetta italiana corrispondente all’internazionale Art Nouveau. Ma questa scelta de-
nuncia anche un ulteriore problematicità dell’esempio di Sontag: uno sguardo più at-
tento alle specificità delle sue diverse articolazioni nazionali e storiche (Art Nouveau,
Liberty, Jugendstil, Stile Floreale, Modern Style), oltre che della singola prassi artistica
(quanto vale per Beardsley non vale ovviamente per Henry Van de Velde, né l’opera di
Antoni Gaudì è assimilabile senza mediazioni radicali a quella di Charles Rennie Ma-
ckintosh), rende la categorizzabilità in quanto oggetto camp ancor più instabile e di-
scutibile, rimandando a un’unitarietà, in termini di implicazioni estetiche, politiche e
morali, dello stile immediatamente delegittimata dallo sguardo alle specifiche articola-
zioni. Sulla diversità dello stile nelle singole istanze europee, con attenzione anche ai
singoli artisti e ai singoli media utilizzati, si può consultare Jeremy Howard, Art Nouveau:
International and National Styles in Europe, Manchester: Manchester University Press, 1996.
TRADIMENTI, 1954-1964 55
1
Il finale pone Sunset Boulevard in aperta consonanza con Whatever Happened to Baby
Jane? di Robert Aldrich (1962), altro film di chiara matrice camp, in cui il personaggio
impersonato da Bette Davis è restituito alla divinità dello stardom perduto nella famosa
scena conclusiva sulla spiaggia, in coincidenza con il suo completo sfacelo giudiziario e
mentale (e la sua ‘riabilitazione’ agli occhi dello spettatore).
2
DeMille è del resto indicato da Sontag – accanto a Loie Fuller, Gaudí, Crivelli e De
Gaulle – come esemplare della “Camp […] glorification of ‘character’”. Susan Sontag,
“Notes on ‘Camp’”, cit., p. 285.
56 ESUBERANZA
1
È Andrew Ross a sottolineare la qualità elegiaca del film per l’epoca del muto, e le
valenze autoreferenziali che questo tributo comporta, riportando lo scambio fra i pro-
tagonisti in apertura: “Joe Gills […], the young, down-on-his-luck scriptwriter and
heel, recognizes the mark of movie history beneath the faded glamour of Norma De-
smond […]: ‘You used to be in silent pictures. You used to be big.” Desmond shoots
back: “I am big. It’s the pictures that got small.’” Andrew Ross, “Uses of Camp”, in No
Respect: Intellectuals and Popular Culture, London: Routledge, 1989, p. 138. Un’analoga
operazione metanarrativa in relazione al sistema di produzione dell’industria cinema-
tografica nordamericana è adottata in The Player, diretto da Robert Altman nel 1992.
2
Che Norma Desmond ambisca a interpretare Salomé è in questo senso significati-
vo, e non solo per il ruolo di seduttrice che questa figura rappresenta esemplarmente:
nel corso del Novecento britannico, la rappresentazione di Salomé, in quanto epitome
della decadenza, è inscindibile dalla sorte di Oscar Wilde che nel 1893 ne aveva pro-
dotto la mise en scène teatrale la cui clandestinità per alcuni decenni (si dovrà attendere
il 1931 per avere la prima rappresentazione autorizzata dalle autorità sulla morale
pubblica) duplica specularmente quella di Wilde, il cui recupero alla rappresentabilità –
attraverso versioni filmiche e rappresentazioni del suo corpus teatrale – avverrà solo a
partire dal secondo dopoguerra, quando del resto viene prodotto Sunset Boulevard (si
confronti in merito la Terza Parte di questo lavoro). Il riferimento a Salomé è reso an-
cor più marcato dalla colonna sonora di Franz Waxman, che è interamente costruita a
partire dall’opera di Richard Strauss basata sul testo wildiano. Non è poi irrilevante
sottolineare come l’elegia del cinema muto intrinseca all’esistenza cinematografica di
Norma Desmond si carichi di una valenza di elogio camp per lo statuto specificamente
artificioso del prodotto filmico, minimizzato dalla pletora di ‘indici di realtà’ offerti dal
cinema parlato al suo esordio negli anni Trenta. Nelle parole di Edgar Morin, “il cine-
ma parlato rompe l’equilibrio tra reale e irreale che si era stabilito nel cinema muto. La
verità concreta dei rumori, la precisione e le sfumature delle parole, benché in parte
controbilanciate […] dalla magia delle voci, delle canzoni e della musica, determinano
un clima ‘realistico’. Proprio qui ha origine la disapprovazione dei cineasti per la nuova
invenzione che, a loro avviso, sottrae incanto al film”. Edgar Morin, Le Star (1957), Mi-
lano: Olivares, 1995, pp. 38-39.
TRADIMENTI, 1954-1964 57
1
Basti pensare alla suprema ambizione di Divine, l’obeso travestito protagonista del-
la gran parte dei film di Waters, in Pink Flamingos: quella di essere l’indiscutibile regina
del ripugnante, “the filthiest person alive”. A tal scopo si riscrive la tradizionale vicen-
da di rivalità fra famiglie della provincia in una lotta senza esclusioni di colpi, e
l’affermazione di Divine quale queen of filth coincide con la coprofagia esibita nel finale.
2
In effetti è lo stesso rimando, insito nella categoria di naïve Camp, alla dimensione
psicologica del soggetto percipiente – alla sua ‘sensibilità’, che guarda il mondo attra-
verso “the lens of Camp” – quale costitutiva in larga misura della qualità camp di un
oggetto, ad accomunare Sontag a Isherwood nella propria fallimentarietà definitoria.
Pur negando che la responsabilità della decodifica sia solo del fruitore, Sontag non sa
indicare quale sia la qualità ‘intrinseca’ al camp, quanto lo definisca e lo determini.
3
Cfr. Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., pp. 279- 281.
TRADIMENTI, 1954-1964 61
Tradimenti, 1964-1984
Le origini e altre questioni
York Times, 23 January 1966, Section 1, p. 17; Eda J. LeShan, “At War With Batman”,
New York Times Magazine, 15 May 1966, p. 112; Tom Prideux, “The Whole Country
Goes Superman”, Life, 11 March 1966, p. 23; Sylvie Reice, “The Swinging Set”, Detroit
News, 13 February 1966, p. 5; John Skow, “Has TV – Gasp! – Gone Batty?”, Saturday
Evening Post, 7 May 1966, p. 12; Judy Stone, “Caped Crusader of Camp”, New York
Times, 4 January 1966, p. 15; Robert E. Terwilliger, “The Theology of Batman”, Catholic
World, November 1966, p. 127; e Howard Thompson, “TV Heroes Stay Long”, New
York Times, 25 August 1966, p. 42.
1
La serie televisiva, prodotta da William Dozier, e con Adam West nei panni del su-
pereroe incappucciato e Burt Ward in quelli del fedele compagno Robin, fu presentata
nel gennaio 1966, unitamente al film – Batman, The Movie, interpretato dagli stessi
West e Ward, con Lee Meriwether (“Donna Gatto”), Cesar Romero (“Joker”), Burgess
Meredith (“il Pinguino”) e Frank Gorshin (“l’Enigmista”) – diretto da Leslie H. Mar-
tinson per la Twentieth Century Fox, e prodotto sempre da William Dozier. A essa
fanno riferimento gli articoli, citati nella nota precedente, di Ace, Adams, Alexander,
Cuneo, LeShan, Prideux, Skow, Stone, Terwilliger, Thompson e l’anonimo del Time
del 28 gennaio 1966. La mostra di Duchamp è presentata nell’articolo di Thomas
Hess, di cui sempre alla nota precedente.
2
Denis Shaw, “Camp”, New Statesman, 2 June 1967, p. 759.
3
Gli esempi non esauriscono la mole di interventi in questa direzione. A ogni modo,
si fa specifico riferimento a Charles Jencks, “‘The Candid King Midas of New York
Camp’: A Neo-Hysterical Account of the Life and Work of Philip Johnson”, AAQ, V, 5,
LE ORIGINI E ALTRE QUESTIONI 65
1
In merito mi permetto di rinviare al mio, già citato, “‘Oscar Wilde’ e i materialisti.
Appunti sulla scena critica radicale in Gran Bretagna”. Ma si vedano senz’altro i saggi
contenuti nel citato Teoria della letteratura, a cura di Donatella Izzo, di Stefano Rosso
(“La decostruzione”, pp. 31-56), Donatella Izzo (“La teoria della critica femminista”,
pp. 57-88), Giorgio Mariani (“La critica marxista e il New Historicism”, pp. 89-108),
Marco Pustianaz (“Teoria gay e lesbica”, pp. 109-130), Daniela Daniele (“Multicultu-
ralismo e teorie postcoloniali”, pp. 131-158), Maria Cristina Iuli (“I cultural studies”,
pp. 159-184), e l’introduzione della stessa Izzo (pp. 11-30).
LE ORIGINI E ALTRE QUESTIONI 67
camp nella sfera pubblica, legittimato attraverso i criteri censori della di-
1
scorsività dominante. A partire da un’accusa di tradimento della ‘vera
natura’ del camp, si è venuto producendo cioè quello che si intende de-
costruire come, a sua volta, un tradimento dell’esuberanza del camp, va-
le a dire un tentativo – che si traduce immediatamente in contraddizioni
malcelate e in un costante oscillare dei cardini di stabilità sui quali esso
stesso fa affidamento – di sua cristallizzazione in un corpus di riferimen-
to dato e incontestabile, e in una prospettiva teorica organica. Ed è al
duplice tradimento, articolato a partire dal camp come questione prima-
riamente estetica, oppure sotto l’egida della sua specificità gay, che pos-
sono essere ricondotti gli interventi in sede critica che giungono fino allo
stato attuale della questione.
Fin dal 1965 è dato riscontrare, parallelamente all’articolazione di
spazi editoriali e della presa di coscienza gay che porterà alla fine del de-
cennio alla nascita del Gay Liberation Front negli Stati Uniti, interventi
che postulano il camp in tale chiave, studiandolo come costitutivo della
2
“genuine homosexual culture” o come forma di gestione dello stigma
3
all’insegna dell’ilarità. È tuttavia necessario attendere che si spenga l’eco
della popolarità massmediale del camp e di Sontag nelle vesti di “Miss
Camp” per vedere l’apparizione, fra il 1972 e il 1977, dei lavori a opera di
1
L’accusa di de-omosessualizzazione come funzionale all’articolabilità ‘razionale’
(che può essere peraltro letta come funzionale all’aspetto censorio della sfera pubblica)
è formulata in D. A. Miller, “Sontag’s Urbanity”, October, 49, Summer 1989, p. 93.
2
Dennis Altman, op. cit., p. 141.
3
Si vedano i seguenti interventi apparsi fra il 1963 e il 1977: Donald Webster Cory,
The Homosexual and His Society: A View From Within, New York: Citadel, 1963; Anon.,
“The Homosexual in America”, Time, 21 January 1966, pp. 40-41; Harford Montgom-
ery Hyde, The Love that Dared not Speak Its Name: A Candid History of Homosexuality in
Britain, Boston: Little, Brown, 1970; Mike Silverstein, “God Save the Queen”, Gay
Sunshine, November 1970; Dennis Altman, op. cit.; Laud Humphreys, Out of the Closet:
The Sociology of Homosexual Liberation, Englewood Cliffs: Prentice-Hall, 1972, pp. 70-
73; Barry Conley, “The Garland Legend: The Stars Have Lost Their Glitter”, Gay News,
13, 1972, pp. 10-11; Bruce Rodgers, op. cit.; Jeffrey Escoffier, “Breaking Camp”, Gay
Alternative, 4, 1973, pp. 6-8; Arthur Evans, “How to Zap Straights”, in Len Richmond
and Gary Noguera (eds.), The Gay Liberation Book, San Francisco: Ramparts, 1973, pp.
111-115; John H. Gagnon and William Simon, Sexual Conduct: The Social Sources of
Human Sexuality, Chicago: Aldine, 1973; Richard Dyer, “It’s Being so Camp as Keeps
Us Going”, cit.; Noel Purdon, “Gay Cinema”, Cinema Papers, 10, 1976, p. 118; Vito
Russo, “Camp”(1976), in Martin P. Levene (ed.), Gay Men: The Sociology of Male Ho-
mosexuality, New York: Harper & Row, 1979, pp. 205-210; Jeffrey Weeks, Coming Out,
cit.; Edmund White, “Camping”, in Charles Silverstein and Edmund White, The Joy of
Gay Sex, New York: Crown, 1977, p. 36-38. La bibliografia successiva al 1977 è ben più
ampia; altri interventi saranno segnalati laddove pertinenti.
68 ESUBERANZA
ham: L. Gordon, 1995; Richard Ekins and David King (eds.), Blending Genders: Social
Aspects of Cross Dressing and Sex Changing, London: Routledge, 1996; J. J. Allen, Man in
the Red Velvet Dress: Inside the World of Cross Dressing, Birch Lane Press, U.S., 1996;
Richard Ekins, Male Femaling: Grounded Approach to Cross-Dressing and Sex-Change,
London: Routledge, 1996.
1
Ivi, p. 105.
2
Cfr. supra, la nota 8 a pagina 36.
70 ESUBERANZA
una specifica valenza camp – in una prassi di recitazione dei diversi ruoli
sociali e dei diversi codici che afferiscono ad essi. Esempio vistoso di ciò è
del resto Paris is Burning di Jennie Livingston (1990), lungometraggio
ambientato nella scena newyorkese delle houses, i locali popolati da tra-
vestiti afro- e latinoamericani, nelle quali i drag balls sono intesi ad eleg-
gere le ‘regine’ di varie categorie, da “Evening Wear” a “Executive” a
1
“Best Dressed Butch Queen”.
Lo humour sarebbe, coerentemente con quanto precede, la strategia
di confronto con la condizione ‘incongrua’, e oppressa, del soggetto omo-
2
sessuale:
camp is a system of humor. Camp humor is a system of laughing at
one’s incongruous position instead of crying. That is, the humor does
not cover up, it transforms. […] The camp is a homosexual wit and
clown; his campy productions and performances are a continuous
creative strategy for dealing with the homosexual situation, and, in the
process, defining a positive homosexual identity. As one performer
summed it up for me, “Homosexuality is a way of life that is against
alla ways of life, including nature’s. And no one is more aware of it
than the homosexual. The camp accept his role as a homosexual and
flaunts his homosexuality. He makes the other homosexuals laugh; he
makes life a little brighter for them. And he builds a bridge to the
straight people by getting them to laugh with him”.3
the camp undercuts all homosexuals who won’t accept the stigmatized
identity. Only by fully embracing the stigma itself can one neutralize the
1
sting and make it laughable”.
Al tempo stesso, prosegue il testimone, questa valenza di trasforma-
zione dello stigma in un elemento di coesione, sia fra gli stigmatizzati sia
tra questi e gli stigmatizzatori, risulta in ultima analisi ben più determi-
nante rispetto all’orientamento sessuale: “Now homosexuality is not camp.
But you take a camp, and she turns around and she makes homosexual-
2
ity funny, but not ludicrous; funny, but not ridiculous”. Come si coniu-
ga, se non per contraddizione, quest’ultima tesi – l’omosessualità non è
camp – con quella, precedentemente riportata, dello stesso testimone, in
cui si sosteneva che il camp accetta e ostenta la propria omosessualità?
Il problema, come si ha avuto modo di affermare nelle pagine prece-
denti, risede nel fatto che di per loro camp e omosessualità non coinci-
dono, che l’uno non determina l’altro. Mentre nella prima frase riportata
il testimone parla di camp come strategia semiotica dell’omosessuale,
nella seconda frase egli fa riferimento al camp come strategia di gestione
3
di un’oppressione (“She’s sort of made light of a bad situation”), al camp
nella sua dimensione ‘estetica’ qual era presentata da Isherwood: si giu-
stappongano, in tal senso, “she makes homosexuality funny, but not lu-
dicrous; funny, but not ridiculous”, con le parole da The World in the Eve-
ning: “you’re not making fun of it; you’re making fun out of it. You are
expressing what’s basically serious to you in terms of fun and artifice and
elegance”. Si fa dunque qui riferimento al camp quale modalità di irrisio-
ne complice, che volge in play – in copione teatrale e in struttura ludica –
sia il soggetto che se ne fa portatore, sia gli altri ‘attori’ che con questi
condividono il palco sociale:
Newton inquadra insomma il camp nella sua analogia con il soul all’in-
terno della sottocultura afroamericana, registrandolo come sistema di
humour afferente a un gruppo sociale oppresso che trasforma una nega-
2
tività in elemento di coesione e d’identità. Benché la definizione offerta
dalla sociologa nordamericana sembri affermare l’esclusività del camp in
tal senso (“camp is in the eye of the homosexual beholder”), la sua opera-
tività all’interno della sottocultura risulta essere all’atto pratico un elemen-
to che descrive e definisce la sottocultura, ma che non è da essa definito
nelle sue caratteristiche intrinseche. Come qualche anno dopo avrebbe
sostenuto Richard Dyer in un pezzo dedicato al culto per l’icona camp
Judy Garland, il camp rimane indefinibile, benché sia chiaramente “a defi-
3
ning feature of the male gay subculture”: la pratica di definizione prevede
insomma il camp come ‘agente’ (fattore di definizione storica) e la sotto-
4
cultura come ‘agita’, ma i due termini dell’azione non sono reversibili.
Il quadro sociologico di Newton offre una definizione del problema
nella misura in cui lo circoscrive alla sfera sottoculturale, ed esclude la sua
operatività nella dimensione latamente culturale e artistica. Quale suo
pendant va dunque inteso l’intervento di Jack Babuscio, che riformula e
applica le categorie suggerite da Newton perlopiù alla produzione (e ri-
cezione) cinematografica. La derivatività di Babuscio impone dunque che
i problemi posti da entrambi i saggi vadano affrontati a un tempo, e che
sia proprio attraverso la loro sovrapposizione che i problemi stessi emer-
1
Ivi, p. 109.
2
Ivi, p. 105. Un’analogo suggerimento emergeva del resto in Dennis Altman, op. cit.,
p. 141; e in Laud Humphreys, “Camp and Soul”, in op. cit., pp. 70-73. Nelle pagine
successive, Newton suggerisce la proficuità di un’analisi comparativa del “camp hu-
mor with the humor system of other oppressed people (Eastern European Jewish, Ne-
gro, etc.)”. Ivi, p. 109n19. Questo suggerimento è stato parzialmente raccolto da Ste-
phen O. Murray, “Ritual and Personal Insults in Stigmatized Subcultures: Gay, Black,
Jew”, Maledicta, VII, 1983, pp. 189-211. Queste considerazioni si giustificano alla luce
del fatto che la griglia attraverso cui è stata storicamente inquadrata la sottocultura gay
fin dal suo coming out degli anni Settanta, come ha ricordato Alan Sinfield, è quella
offerta dal modello etnico. Cfr. Alan Sinfield, “Diaspora and Hybridity: Queer Identi-
ties and the Ethnicity Model”, Textual Practice, X, 2, Summer 1996, pp. 271-293.
3
Richard Dyer, “Judy Garland and Gay Men”, in Heavenly Bodies: Film Stars and So-
ciety, London: Macmillan, 1986, p. 178.
4
Il che vale anche per altre letture gay del fenomeno. Dennis Altman, ad esempio,
sostiene a proposito del gayworld che “[i]n Australia, and to a lesser extent Britain, that
world is known as camp”. Dennis Altman, op. cit., pp. 30-31.
LE ORIGINI E ALTRE QUESTIONI 75
gano a chiarezza.
Da un lato Babuscio propone un’ulteriore griglia di riconoscibilità,
prodotta a partire dalle medesime premesse di Newton, cui corrisponde
una tassonomia della presenza camp: “[f]our features are basic to camp:
1
irony, aestheticism, theatricality and humour”. Dall’altro, tuttavia, Babu-
scio propone una determinazione che il saggio di Newton promuove ma,
in ultima analisi, non legittima:
Qui non si tratta di descrivere, come fa Newton, una valenza del camp
assunta a fuoco d’attenzione. Qui il termine è spinto a indicare univoca-
mente quanto prodotto dalla gay sensibility che condivide con il camp lo
spazio del titolo del saggio: e il camp nel suo complesso, sia pur nello
specifico cinematografico, sarebbe ascrivibile a “some of the ways in
3
which individual films, stars and directors reflect a gay sensibility”.
Quando però Babuscio si confronta, in apertura, con una definizione del-
la sensibilità stessa, le sue caratteristiche si fanno evanescenti. La gay
sensibility è indicata come “a creative energy reflecting a consciousness
that is different from the mainstream; a heightened awareness of certain
human complications of feeling that spring from the fact of social op-
pression; in short, a perception of the world which is coloured, shaped,
4
directed and defined by the fact of one’s gayness”.
Il camp emergerebbe quale risposta a un orizzonte culturale che pola-
rizza l’esistente in una dicotomia di naturale e innaturale:
fined in terms of the sexuality of (say) the individual or artist who ex-
presses or possesses it – and does that mean that no non-homosexual
can possess/express it?1
undermines the categories which exclude it, and does so through par-
ody and mimicry. But not from the outside: this kind of camp under-
mines the depth model of identity from inside, being a kind of parody
and mimicry which hollows out from within, making depth recede into
1
Jonathan Dollimore, Sexual Dissidence, cit., p. 308.
2
Ibidem.
3
Ivi, p. 310.
78 ESUBERANZA
Benché totalmente modulato sul piano della drammaticità, sia pur grot-
tesca, a totale esclusione della modalità comico-ironica, Die bitteren Trä-
nen der Petra von Kant risulta senz’altro camp in virtù della sua artificiosi-
tà totalizzante, ossia della sua teatralità. Quest’ultima è peraltro un’altra
1
Jack Babuscio, op. cit., p. 47.
2
Ivi, p. 49.
LE ORIGINI E ALTRE QUESTIONI 81
Such themes as these carry a special resonance for the gay sensibility.
As outsiders, we are forced to create our own norms; to impose our
selves upon a world which refuses to confront the arbitrariness of cul-
tural conventions that insist on sexual loyalty, permanence and exclu-
sive possession.1
1
Ibidem. Sull’individualismo wildiano come portatore di una radicale critica nei
confronti dello stato culturale che dell’individualismo faceva il proprio cardine è luci-
damente introduttivo Jonathan Dollimore, Sexual Dissidence, cit., pp. 8-10.
2
Jack Babuscio, op. cit., p. 42.
3
Ivi, p. 43.
4
Ibidem. Altri generi che sono particolarmente funzionali alla prospettiva camp (o
meglio, gay) qual è suggerita da Babuscio sono catalogati e discussi da Paul Roen: oltre
LE ORIGINI E ALTRE QUESTIONI 83
method whereby one can multiply personalities, play various parts, as-
sume a variety of roles – both for fun, as well as out or real needs.1
In questo senso, vale a dire come metodo attraverso il quale si può mol-
tiplicare il numero di personalità sfuggendo all’inquisizione omofobica,
2
l’estetismo si sovrappone alla quarta categoria – la teatralità. Quest’ul-
tima enfatizza quanto già accennato da Sontag, e articolato da Newton,
sul passing for straight, formulando chiaramente il principio ‘artistico’ che
presiede alla dimensione esistentiva nel closet: “[t]he art of passing is an
acting art: to pass is to be ‘on stage’, to impersonate heterosexual citizenry,
3
to pretend to be a ‘real’ (i.e. straight) man or woman”. L’esperienza del
passing – “often productive of a gay sensibility”: spesso, ma non sempre –
diviene così un acting straight, volto a preservare dal riconoscimento
pubblico la soggettività deviante rispetto ai “culturally standardised ca-
nons of taste, behaviour, speech, etc. that are generally associated with
the male and female roles as defined by the society in which we live”.
Sarebbe quest’esperienza a giustificare “the enthousiasm of so many
in our community for certain stars whose performances are highly charged
with exaggerated (usually sexual) role-playing”; in breve, a giustificare la
loro qualità camp. L’esemplificazione giunge copiosa, a investire la galle-
ria delle star di cui si diceva, divisa in due sezioni principali: quella occu-
pata da coloro che “seem (or are made to seem) fairly ‘knowing’, if not
self-parodying, in their roles”, che comprende Jayne Mansfield, Bette
Davis, Anita Ekberg nel felliniano La dolce vita, Mae West e Cesar Rome-
ro; e quella occupata da coloro che sono “apparently more ‘innocent’ or
4
‘sincere’”: e gli esempi comprendono Jane Russell, Raquel Welch, Mamie
van Doren, Jennifer Jones, Johnny Weismuller e Ramon Novarro.
L’esemplificazione, e i presupposti che la sottendono, sembra sempli-
ficare nel momento stesso in cui di fatto essa denuncia l’instabilità che era
già di Sontag, da cui proprio la Anita Ekberg de La dolce vita era indicata
come esempio di camp involontario. Il rimando alla funzionalità della
fruizione in chiave omosessuale, peraltro, implica nella stessa argomen-
tazione di Babuscio la problematicità della consapevolezza che si eviden-
ziava in Sontag, ma questa volta sul piano della fruizione:
1
Jack Babuscio, op. cit., p. 43.
2
È superfluo enfatizzare quanto questa oscillazione fra le categorie di fatto delegit-
timi la funzionalità di griglia di riconoscibilità offerta dalle stesse.
3
Ivi, p. 45.
4
Ivi, p. 46.
LE ORIGINI E ALTRE QUESTIONI 85
Garland’s popularity owes much to the fact that she is always, and
most intensely, herself. Allied to this is the fact that many of us seem
able to equate our own strongly-felt sense of oppression (past or pre-
sent) with the suffering/loneliness/misfortunes of the star both on and
off the screen. Something in the star’s personality allows for an empa-
thy that colours one’s whole response to the performer and the per-
formance. As Vicki Lester in Cukor’s A Star is Born (1954), but, espe-
cially, as the concert singer in Ronald Neame’s I Could Go on Singing
(1962), Garland took on roles so disconcertingly close to her real-life
situation and personality that the autobiographical connections actu-
ally appeared to take their roll on her physical appearance from one
scene to the next. Such performances as these solified the impression,
already formed in the minds of her more ardent admirers, of an integ-
rity arising directly from out of her great personal misfortunes.3
1
Ibidem.
2
Intorno al culto per Judy Garland si vedano altresì Richard Dyer, “Judy Garland
and Gay Men”, cit.; Barry Conley, op. cit.; Michael Bronski, “Judy Garland and Others:
Notes on Idolization and Derision”, in Karla Jay and Allen Young (eds.), Lavender Cul-
ture, New York, 1978; e Wade Jennings, “The Star as Cult Icon: Judy Garland”, in J. P.
Telotte (ed.), The Cult Film Experience: Beyond All Reason, Austin: University of Texas
Press, 1991, pp. 90-101.
3
Jack Babuscio, op. cit., pp. 46-47.
86 ESUBERANZA
1
Philip Core, op. cit., p. 9. Nei medesimi termini si è espresso Joseph Goodwin: in
quanto mezzo volto a discriminare chi appartiene a un medesimo gruppo sociale, il
linguaggio camp – o “gay argot” – è una forma di comunicazione esoterica, così come
altri aspetti del “gay folklore” analogamente basati su una “shared and secret knowle-
dge”. Joseph P. Goodwin, More Man than You’ll Ever Be: Gay Folklore and Acculturation
in Middle America, Bloomington: Indiana University Press, 1989, p. 29.
2
Philip Core, op. cit., p. 9.
3
Vito Russo, “Camp”(1976), in Martin P. Levene (ed.), Gay Men: The Sociology of
Male Homosexuality, New York: Harper & Row, 1979, p. 208.
88 ESUBERANZA
dalle medesime premesse, nel 1984 Michael Bronski avrebbe potuto so-
stenere – in polemica con Sontag – non solo una valenza politica bensì
1
persino progressista del camp, per Russo il camp come formazione cul-
turale omosessuale covert rimane fondamentalmente apolitico, poiché
chiude l’eversività in un ‘ghetto’ comunicativo:
because it deals only frivolously with the roles we’ve been assigned
and entails no criticism of them, [camp] is totally apolitical. Even con-
scious ‘camping’ cannot be used politically, because that would mean
opening the ranks to the masses to achieve a wide understanding and
destroy the sensibility. Usually when this happens, the sensibility be-
comes a marketable ‘idea’ functioning in an entirely different sense.2
1
“Because it has been used by gay people as a means of communication and sur-
vival, camp is political. And because it contains the possibility of structuring and en-
couraging limitless imagination – to literally create a new reality – it is not only politi-
cal, but progressive”. Michael Bronski, op. cit., p. 43. Sull’inconsistenza della logica che
deriva la qualità progressista dall’esercizio di una “limitless imagination” non è neces-
sario soffermarsi. I suggerimenti più sostanziosi nella direzione di un camp di per sé
progressista saranno esaminati nel corso della Seconda Parte.
2
Vito Russo, op. cit., p. 208.
3
Ivi, p. 210. L’affermazione di Russo va inquadrata all’interno delle riflessioni pro-
mosse dall’attivismo gay degli anni Settanta, che in buona misura (benché non nella
LE ORIGINI E ALTRE QUESTIONI 89
loro totalità) hanno decretato l’obsolescenza del camp come strategia di affermazione
omosessuale. Vito Russo si è del resto imposto fra i maggiori storici del cinema omo-
sessuale – fra i suoi lavori il fondamentale The Celluloid Closet: Homosexuality in the
Movies, New York: Harper & Row, 1981, da cui è stato tratto nel 1995 un film diretto
da R. Epstein e J. Friedman – in una fase in cui interessarsi di rappresentazione omo-
sessuale, ancor più che oggi, significava automaticamente avere un ruolo attivista.
1
Significativamente Babuscio osservava, in relazione allo stigma dell’innaturalità, la
sua assunzione da parte del soggetto gay, vale a dire l’accettazione della rappresenta-
zione che il dominante offre del dominato nella pratica di propria legittimazione in
quanto dominante: “[b]ecause masculinity and femininity are perceived in exclusively
heterosexual terms, our social stereotype (and often, self-image) is that of one who
rejects his or her masculinity or femininity”. Jack Babuscio, op. cit., p. 45. E in modo
ancor più esplicito Babuscio osserva che l’umorismo camp sia “squarely based on the
tacit acceptance of the hegemony of heterosexual institutions”. Ivi, p. 48.
2
Bruce Rodgers riporta diffusamente questo utilizzo di nomi femminili nel suo
“camp thesaurus”. Cfr. Bruce Rodgers, op. cit., passim. Si confronti anche supra la nota
2 a pagina 73.
90 ESUBERANZA
another: “You’ll never guess what Mary said on our date last night”,
nothing would be thought of it.1
1
Michael Bronski, op. cit., p. 43.
2
W. H. Auden, “The Truest Poetry is the Most Feigning” (1955), in Collected Shorter
Poems 1927-1957, London: Faber and Faber, 1966, p. 315.
3
Ibidem.
4
Questa è la lettura che Alan Sinfield offre in Literature, Politics and Culture in Po-
stwar Britain, Oxford: Basil Blackwell, 1989, pp. 67-68, e che riprende in Cultural Poli-
tics–Queer Reading, cit., pp. 60-61.
5
W. H. Auden, op. cit., p. 315.
LE ORIGINI E ALTRE QUESTIONI 91
Ultimately, all drag symbolism opposes the ‘inner’ or ‘real’ self (subjec-
tive self) to the ‘outer’ self (social self). […] Thus drag in the homosex-
ual subculture symbolizes two somewhat conflicting statements con-
cerning the sex-role system. The first statement symbolized by drag is
that the sex-role system really is natural: therefore homosexuals are
unnatural […]. The second symbolic statement of drag questions the
‘naturalness’ of the sex-role system in toto; if sex-role behavior can be
achieved by the ‘wrong’ sex, it logically follows that is is in reality also
achieved, not inherited, by the ‘right’ sex. Anthropologists say that sex-
role behavior is learned. The gay world, via drag, says that sex-role be-
havior is an appearance; it is ‘outside’. It can be manipulated at will.1
Le modalità di accettazione dello stigma, del camp cioè come pratica acriti-
ca di integrazione gay attraverso la costituzione di un ghetto, o di affer-
mazione di quest’innaturalità totalizzante, vale a dire della portata critica
(se non sovversiva) del travestitismo camp, a loro volta, sono ambigue,
irriducibili nella loro duplicità a una qualsiasi univocità (quella che nello
specifico assume il rapporto fra i piani della ‘doppia vita’ come stabile):
1
Si confrontino le letture che si sono offerte in questo lavoro, a partire dalla questio-
ne della teatralità, in relazione al Cardinal Pirelli di Ronald Firbank (nel capitolo 1), a
Sunset Boulevard di Billy Wilder (nel capitolo 2), e all’audeniano “The Truest Poetry is
the Most Feigning”: tutti e tre gli esempi propongono questo gioco di mise en abyme, di
confusione irriducibile fra realtà e finzione, più che una definizione ultima dei rapporti
fra verità e finzione (recitazione). La questione sarà ripresa e articolata mggiormente
nel corso della Seconda Parte.
2
Cfr. Carole-Anne Tyler, “Boys Will Be Girls: The Politics of Gay Drag”, in Diana
Fuss (ed.), Inside/Out: Lesbian Theories, Gay Theories, New York: Routledge, 1991, pp.
32-70. Su queste posizioni si colloca esplicitamente anche Alan Sinfield, The Wilde
Century, cit., pp. 176-212.
94 ESUBERANZA
ticità del soggetto gay (e della sua ‘sensibilità’). Un’autenticità non di-
chiarata, e in frizione del resto con l’apologia camp dell’artificiosità intesa
quale strategia di costituzione di un’identità polemica a fronte di un pro-
cesso di delegittimazione da parte della cultura dominante. È in questa
chiave che si giustifica infatti la contraddittorietà insita nell’indicare nel
camp tanto un codice per persone dalla doppia vita quanto, nelle parole
di Babuscio, una “assertion of one’s self-integrity”.
Due modalità ontologiche reciprocamente esclusive – integrità dell’io,
e duplicità dello stesso – possono insomma essere spinte non solo a con-
vivere, ma persino a fondarsi l’un l’altra. L’instabilità preclusa dalla scelta
di cui sopra (la prima delle implicazioni potenziali), ritorna a scardinare
l’univocità del codice, e a riproporre con clamorosa evidenza l’esube-
ranza del camp sia come corpus di riferimento sia in prospettiva teorica,
perché, come ha sostenuto Richard Dyer, il camp-come-sensibilità gay
“holds together qualities that are elsewhere felt as antithetical: theatrica-
lity and authenticity […] intensity and irony, a fierce assertion of extreme
1
feeling with a deprecating sense of its absurdity”. La considerazione di
Dyer prende le mosse dal caso del culto gay per Judy Garland, di cui si è
visto sopra il profilo problematico in chiave di modalità esistentive del
camp, dello statuto del soggetto (teatrale, artificioso, ma anche assolu-
tamente autobiografico), del paradossale rapporto del camp con la serie-
tà (presupposta e al contempo erosa, detronizzata e al contempo riaffer-
mata), e della paradossalità insita nella raison d’être della fascinazione per
Garland del soggetto gay. Quelle indicate sono dunque senz’altro quali-
ties del camp, è vero, ma sono soprattutto dei campi di possibilità, e degli
elementi di definizione – o, nel caso specifico, di assenza di definizione.
La tesi del camp-come-passing art, a ogni modo, non sopravvive se
giustapposta allo stesso travestitismo del drag nelle sue specifiche valen-
ze di visibilità. La drag queen, infatti, è tale solo se il gioco di travestimen-
to è riconoscibile, se cioè risultano ad un tempo ostentati i segni di fem-
minilità e il sesso biologico maschile; questa è del resto la condizione
d’essere delle duplici implicazioni evidenziate da Newton. Si potrebbe
ribattere immediatamente che nella fase clandestina dell’omosessualità
(vale a dire, fino alla fine degli anni Sessanta) la visibilità della drag queen
era limitata, per così dire circoscritta entro il ‘cordone sanitario’ della sfe-
ra sottoculturale cui era confinata, e che ciò preserva dunque la validità
(peraltro già minata dalle considerazioni che precedono) del modello di
1
Richard Dyer, “Judy Garland and Gay Men”, cit., p. 154.
LE ORIGINI E ALTRE QUESTIONI 95
1
camp in quanto codice esoterico. Ciò di cui il modello non rende assolu-
tamente conto, però, è la perpetuazione della pratica stessa nella fase suc-
cessiva, quando cioè l’omosessuale avrebbe adottato quale strategia di
confronto con la cultura dominante, e quale strategia di lotta per i diritti
civili, l’esibizione di un travestitismo ostentato e irridente, di pari passo
alla costituzione di un’omosessualità all’insegna degli indici di naturali-
2
tà. Proponendosi sulla scena pubblica in quanto soggetto travestito, in-
naturale, stigmatizzato e stigmatizzabile, e proprio per questo intento a
promuovere una contestazione degli assunti dello stigma, la drag queen
contemporanea ha un effetto immediato di delegittimazione nei con-
fronti del camp inteso primariamente come una passing art.
Quanto alla convergenza fra teatralità, ‘sensibilità artistica’ e omoses-
sualità che è stata ascritta al medesimo paradigma del acting straight se
non a una totalmente insondabile ‘predisposizione innata’ alla creatività,
una possibile chiave di lettura è quella, derivata da Sontag, che indica nel
camp la strategia di integrazione – di parziale legittimazione, all’insegna
dell’intrattenimento e della futilità – nella società borghese, poiché, nelle
parole di Dyer, “[m]astery of style and wit has been a way of declaiming
3
that gays have something distinctive to offer society”:
Gay men have made certain ‘style professions’ very much theirs (at any
rate by association even if not necessarily in terms of the numbers of
gays actually employed in these professions) – hairdressing, interior
decoration, dress design, ballet, musicals, revue. These occupations
have made the life of society as a whole more elegant and graceful, and
the show-biz has provided the world at large with many pleasant eve-
nings. At the same time hairdressing, interior decoration and the rest
are clearly marked with the camp sensibility – they are style for style’s
sake, they don’t have ‘serious’ content (a hairstyle is not ‘about’ any-
thing), they don’t have a practical use (they’re just nice), and the actual
forms taken accentuate artifice, fun and occasionally outrageousness –
[…] all the paraphernalia of a camp sensibility that has provided gay
men with a certain legitimacy in the world.4
1
Anche questa risposta si affida a una lettura quanto mai riduttiva della questione
della ‘visibilità’ omosessuale nella prima parte del secolo.
2
La presa di coscienza del camp e del drag come strategia politica negli Stati Uniti
nel corso degli ultimi quindici anni costituisce il motore della rilettura del fenomeno
operata fra gli altri da Moe Meyer, di cui si dirà nelle prossime pagine.
3
Richard Dyer, “It’s So Camp as Keeps Us Going”, cit., p. 138.
4
Ibidem.
96 ESUBERANZA
1
Alan Sinfield, “Private Lives/Public Theater: Noël Coward and the Politics of Ho-
mosexual Representation”, Representations, 36, Fall 1991, p. 43.
2
Ivi, p. 44.
3
Nella sua affermazione Sinfield si affida a Rupert Croft-Cooke, Feasting with Pan-
thers: A New Consideration of Some Late Victorian Writers, London: W. H. Allen, 1967,
pp. 264-270; Harford Montgomery Hyde, op. cit., pp. 229-233; Jeffrey Weeks, Coming
Out, cit., p. 37; e a Peter Burton, Parallel Lives, London: GMP, 1985, pp. 28-29.
LE ORIGINI E ALTRE QUESTIONI 97
1
Alan Sinfield, The Wilde Century, cit., pp. 84-85.
Parte Seconda
Tirando le fila
4
1
Non è irrilevante sottolineare come Sinfield sia dichiaratamente gay, e senz’altro
fra i più significativi critici all’interno dei gay studies angloamericani (cfr. il mio, già
citato, “‘Oscar Wilde’ e i materialisti. Appunti sulla scena critica radicale in Gran Bre-
tagna”). Ciò libera il campo da eventuali accuse di ‘espropriazione’ del camp dal suo
spazio originario e legittimo di circolazione, da parte della cultura dominante e specifi-
camente eterosessuale/eterosessista.
102 TIRANDO LE FILA
Thoughtful Grovers like Bob Adams were well aware of the reasons for
the profound appeal of theater and for the supremacy of theatricality in
Grove life. Yes, he had met writers and painters in the Grove in the fif-
ties, but above all everyone loved ‘the theater, the theater’.
EN: Now why was it the theater?
BA: Gee. Well it’s make-believe, isn’t it? – number one.
EN: But so is fiction.
BA: Yes, yes, but you are It. The writer is invisible. You don’t meet as
many friends writing a novel as appearing in a play [he laughs]… I
think it was the community feeling of play that is the theater, and the
laughter and fantasy world and costumes.1
prezzata dalla cultura dominante – hanno avuto nello show business an-
1
gloamericano. Dall’altro lato, la significativa riformulazione da parte di
Bergman della questione omosessuale quale ultimo punto di ‘convergen-
2
za’ fra i critici.
Il camp infatti sarebbe “affiliated with homosexual culture, or at least
with a self-conscious eroticism that throws into question the naturaliza-
tion of desire”. Esso non è dunque determinato da una sensibilità gay di
sorta, ma si trova ad essere solamente ‘affiliato’ alla cultura omosessuale.
L’utilizzo di affiliated da parte di Bergman è eloquente, ben oltre forse le
intenzioni del critico: le origini etimologiche del termine, infatti (dal lati-
no tardo affiliatus, ‘figlio adottivo’), escludono la ‘paternità biologica’ gay.
Le origini del camp sono altrove (dove, non è indicato), e solo attraverso
un processo culturale – per così dire, di ‘adozione’– esso sarebbe stato
ricondotto alla paternità omosessuale.
Se ciò non bastasse, oltre a negare implicitamente l’origine omoses-
suale, Bergman ne riduce anche la presenza ‘circostanziale’ nel fenome-
no camp, affermando che – se non altro – il camp sia affiliato a un “self-
conscious eroticism that throws into question the naturalization of desire”.
Il dato fondamentale con il quale si è andato culturalmente correlando il
camp sarebbe insomma un’autoconsapevolezza del desiderio (e, si impli-
ca, del genere) come partecipe di un processo di costruzione culturale,
all’interno della quale quella gay sarebbe un’istanza non totalizzante: e-
leggere questa specifica posizione a esclusiva del camp significa insom-
ma rimuovere altre forme di analoga, benché distinta, consapevolezza.
Quanto sotteso dall’affermazione di Bergman rinvia, una volta di più,
a un nodo di dibattito critico più che a una piattaforma consensuale, vale
1
Intorno agli artisti citati si possono consultare Margaret Thompson Drewal, “The
Camp Trace in Corporate America: Liberace and the Rockettes at Radio City Music
Hall”, in Moe Meyer (ed.), op. cit., pp. 149-181; Andy Medhurst, “Carry On ‘Camp’”,
Sight and Sound, II, 4, 1992, pp. 16-19; Bruce La Bruce, “Pee Wee Herman: The Homo-
sexual Subtext”, CineAction!, 9, Summer 1987, pp. 3-6; Constance Penley, “The Cabi-
net of Dr. Pee-Wee: Consumerism and Sexual Terror”, Camera Obscura, 17, May 1988,
pp. 133-153; Alexander Doty, “The Sissy Boy, The Fat Ladies, and the Dykes: Queer-
ness and/as Gender in Pee-Wee’s World”, Camera Obscura, 25-26, January-May 1991,
pp. 125-143; Rhonda Garelick, “Outrageous Dieting: The Camp Performance of Rich-
ard Simmons”, Postmodern Culture, VI, 1, September 1995 – Postmodern Culture è una
rivista elettronica (indirizzo htp: <pmc@jefferson.village.virginia.edu>), e l’articolo in
questione appare in forma ipermediale, con immagini e video clips..
2
Inutile rimarcare che anche questa riformulazione non sia in effetti un punto di
consenso critico, come è chiaro alla luce delle pagine precedenti, e come emergerà
ulteriormente nelle prossime pagine.
ULTERIORI ALTERITÀ 109
vent’anni prima di Roland Barthes par Roland Barthes lo stesso autore demistificava nel
già citato Mythologies.
1
Cfr. supra, la nota 1 a pagina 89.
2
Jack Babuscio, “Celebrating Camp”, Gay News, 91, 25 March-7 April 1976, p. 17.
3
Vito Russo, si ricordi, sosteneva che il camp “deals only frivolously with the roles
we’ve been assigned and entails no criticism of them”. Cfr. supra, la nota 1 a pagina
89. In questa direzione si sono decisamente espressi, in una fase decisiva per il proces-
so di liberazione gay, Jeffrey Escoffier, “Breaking Camp”, Gay Alternative, 4, 1973, pp.
6-8; e Andrew Britton, “For Interpretation: Notes Against Camp”, Gay Left, 7, Winter
1978/79, pp. 11-14.
4
Lo stesso Jeffrey Escoffier, della cui critica al camp come strategia conservatrice si è
detto alla nota precedente, è venuto ripensando in questa chiave il problema. Cfr. Jef-
frey Escoffier, “Sexual Revolution and the Politics of Gay Identity”, Socialist Review,
XV, 4-5, July-October 1985, pp. 113-153.
5
Ci si riferisce qui alle tappe della scientia sexualis fra fine Ottocento e primo Novecento,
ULTERIORI ALTERITÀ 111
hanno ripensato quanto nel corso degli anni Settanta appariva quale rap-
presentazione politicamente sospetta del femminile e della ‘femminilità’
omosessuale, vale a dire la lettura delle implicazioni politiche del camp
che ne ha fortemente limitato la circolazione critica all’interno dei movi-
menti attivisti tanto gay quanto femministi, che si trovavano uniti dal
comune rifiuto delle strategie camp in quanto fondate su una rappresen-
1
tazione (auto)derogatoria. Fu del resto la stessa Susan Sontag, dieci anni
dopo aver pubblicato “Notes on ‘Camp’” e avere promosso la (e benefi-
ciato della) esplosione della camp mania a livello massmediale, a confes-
sare in un’intervista l’imbarazzo della propria ‘sensibilità femminista’ in
relazione a una supposta complicità della misoginia camp con l’ordine
2
patriarcale della cultura.
Per recuperare una validità politica delle strategie di rappresentazione
camp, Sontag sviluppava l’affermazione avanzata in “Notes on ‘Camp’”
3
intorno alla dimensione citazionale che presiede al camp. Nell’atto di
con le teorizzazioni di Karl Heinrich Ulrichs, Richard von Krafft-Ebing, Havelock Ellis
e infine Sigmund Freud, i quali postulavano una fondamentale essenzialità a giustifi-
cazione della polarità maschile/femminile. L’omosessuale ne emergeva come bizzarrìa
della natura, come forma di ‘ermafroditismo psichico’ o come anima muliebris corpore
virili inclusa, in cui si coniugavano i due termini (maschile e femminile) normalmente
distinti. Si ratificava così in sede scientifica l’equivalenza fra effeminatezza e omoses-
sualità maschile che trovò in Gran Bretagna il clamoroso esempio di Oscar Wilde. Cfr.
Alan Sinfield, “Speaking Its Name”, e “Freud and the Cross-sex Grid”, in The Wilde
Century, cit., pp. 109-129, 161-175. Il volume di Sinfield è presieduto peraltro dalla tesi
che lo stigma sull’omosessualità si sia storicamente articolato attraverso un termine –
effeminatezza – caricato di connotazioni derogatorie nei confronti delle donne. Ciò giu-
stifica la richiesta da parte di Sinfield di una convergenza fra le varie istanze marginali
in chiave di etnia o sessualità, in quanto costellazioni di un medesimo sistema di pote-
re. Sulla ‘inversione’ omosessuale ha inoltre pagine illuminanti anche Jonathan Dolli-
more, Sexual Dissidence, cit.
1
Nelle parole di Elaine Showalter, “traditionally, drag has been the minstrel show of
a virulent misogyny, a cruel travesty of the feminine. I found that being a woman
spectator at drag shows, from the Black Cap in London to Provincetown, was some-
times a humiliating experience”. Elaine Showalter, Sexual Anarchy: Gender and Culture
at the Fin de Siècle, (1990) London: Virago, 1992, p. 166.
2
Cfr. Robert Boyers and Maxine Bernstein, “Women, the Arts and the Politics of
Culture: An Interview with Susan Sontag”, Salmagundi, 31-32, Fall 1975-Winter 1976,
pp. 29-48; ristampato come “The Salmagundi Interview” in Elizabeth Hardwick (ed.),
A Susan Sontag Reader, Harmondsworth: Penguin, 1987, pp. 327-346 (da cui le citazi-
oni nel testo). La posizione di Sontag in merito viene ricondotta all’ambivalenza del
critico rispetto al camp, ambivalenza già dichiarata nell’articolo del 1964: “I am strongly
drawn to Camp, and almost as strongly offended by it”. Susan Sontag, “Notes on
‘Camp’”, p. 276.
3
“Camp sees everything in quotation marks. It’s not a lamp, but a ‘lamp’; not a
woman, but a ‘woman’. To perceive Camp in objects and persons is to understand
112 TIRANDO LE FILA
the parodistic rendering of women […] usually left me cold. But I can’t
say that I was simply offended. For I was often amused and, so far as I
needed to be, liberated. I think that the camp taste for the theatrically
feminine did help undermine the credibility of certain stereotyped
femininities – by exaggerating them, by putting them between quota-
tion marks. Making something corny of femaleness is one way of cre-
ating distance from the stereotype. Camp’s extremely sentimental rela-
tion to beauty is no help to women, but its irony is: ironizing about the
sexes is one small step toward depolarizing them. In this sense the dif-
fusion of camp taste in the early sixties should probably be credited
with a considerable if inadvertent role in the upsurge of feminist con-
sciousness in the late 1960s.1
Being-as-Playing-a-Role”.
1
Susan Sontag, “The Salmagundi Interview”, cit., p. 339. Sulla posizione di Sontag in
merito alle rappresentazioni camp del femminile è utile Pamela Robertson, “‘The
Kinda Comedy that Imitates Me’: Mae West’s Identification with the Feminist Camp”,
Cinema Journal, XXXII, 2, Winter 1993, pp. 57-72.
2
La demistificazione camp delle categorie culturali come prassi apprezzabile anche
in termini di correttezza politica non è confinabile agli anni recenti. Fuori dal coro, in
tal senso si erano espressi anche Mike Silverstein e Richard Dyer nella prima metà
degli anni Settanta. Cfr. Mike Silverstein, “God Save the Queen”, Gay Sunshine, No-
vember 1970; e Richard Dyer, “It’s so Camp as Keeps Us Going”, cit. Queste letture
lasciano le proprie tracce nell’intervento di Jack Babuscio, secondo il quale il camp
promuoverebbe un distacco dai valori convenzionali.
ULTERIORI ALTERITÀ 113
parodica quale marchio di identità (per l’attivismo gay della prima ora),
esso è inquadrabile – nei termini suggeriti da Andrew Ross – “as a much
earlier, highly coded way of addressing those questions about sexual dif-
1
ference which have engaged non-essentialist feminists in recent years”.
In altre parole, il camp può essere inserito da un lato fra le condizioni che
hanno promosso il cosiddetto second-wave feminism, altrimenti chiamato
historicism of gender, e la demistificazione della womanhood quale costrut-
to culturale, e dall’altro come premessa indispensabile per l’analogo ap-
proccio costruzionista alla soggettività gay, latamente ascrivibile al pen-
siero queer, che ha dominato gli interventi degli ultimi dieci anni sulla
scorta del tempestivo Between Men: English Literature and Male Homoso-
2
cial Desire di Eve Kosofsky Sedgwick.
Tale ripensamento delle implicazioni del camp ha avuto l’effetto di tra-
sformare lo statuto del camp, e al contempo si configura quale esito della
riarticolazione stessa della nozione di camp, della sua storia, teoria e
3
prassi. Come diversi lavori hanno avuto modo di segnalare nel corso de-
gli ultimi anni, la gender parody e la parodic mimicry sono stati fra i primi
4
strumenti di produzione di un dissenso al femminile. Il suggerimento
che sottende questa prospettiva si basa su un sostanziale recupero di
quello afferente alla feminine masquerade, quale emerge da uno storico
saggio di Joan Riviere, nel quale si proponeva già nel 1929 una seminale
teoria che investiva propriamente lo statuto performativo e imitativo del
5
femminile. Nella masquerade il soggetto femminile imita la ‘autentica’
1
Andrew Ross, “Uses of Camp” (1988), in No Respect: Intellectuals and Popular Cul-
ture, New York: Routledge, 1989, p. 161.
2
Cfr. Eve Kosofsky Sedgwick, Between Men: English Literature and Male Homosocial
Desire, New York: Columbia University Press, 1985. Si avrà modo di soffermarsi sulla
configurazione del queer nelle prossime pagine.
3
Il rapporto di determinazione fra i due termini va inteso come biunivoco: se il ri-
pensamento delle implicazioni politiche ha promosso una riarticolazione dello statuto
del camp e della sua configurazione storica, è anche la riarticolazione a giustificare un
ripensamento delle implicazioni.
4
Fondamentale in tal senso è Mary Ann Doane, The Desire to Desire: The Woman’s
Film of the 1940s, Bloomington: Indiana University Press, 1987. Ma si vedano anche
Mary Russo, The Female Grotesque: Risk, Excess and Modernity, New York: Routledge,
1994; Efrat Tseëlon, The Masque of Femininity: The Presentation of Woman in Everyday
Life, London: Sage, 1995; e in particolare Pamela Robertson, Guilty Pleasures: Feminist
Camp from Mae West to Madonna, cit., pp. 10-22.
5
Joan Riviere, “Womanliness as Masquerade” (1929), in Victor Burgin, James Don-
ald and Cora Kaplan (eds.), Formations of Fantasy, London: Methuen, 1986, pp. 35-61.
Una puntuale lettura del saggio di Riviere è offerta da Stephen Heath, “Joan Riviere
and the Masquerade”, contenuto nel volume citato a cura di Victor Burgin, James Do-
ULTERIORI ALTERITÀ 115
nald e Cora Kaplan. Il saggio venne recuperato e riorientato nel quadro dei film studies
da Mary Ann Doane in “Film and the Masquerade: Theorizing the Female Spectator”
(1982), e in “Masquerade Reconsidered: Further Thoughts on the Female Spectator”
(1988-89), ristampati in Femmes Fatales: Feminism, Film Theory, Psychoanalysis, New
York: Routledge, 1991, pp. 17-43.
1
Cfr. Esther Newton, “Two Shows”, in Mother Camp, cit., pp. 59-96.
2
Cfr. Katharine Worth, Oscar Wilde, New York: Grove Press, 1983, pp. 66-68; ed
Elaine Showalter, op. cit., pp. 166-168.
116 TIRANDO LE FILA
1
Pamela Robertson, Guilty Pleasures, cit., p. 12.
2
Ivi, p. 9.
ULTERIORI ALTERITÀ 117
1
Cfr. supra, la nota 1 a pagina 94.
2
Judith Butler, op. cit.
3
Judith Butler, Bodies that Matter: On the Discursive Limits of ‘Sex’, London:
Routledge, 1993, p. 125.
118 TIRANDO LE FILA
1
La frase è attinta dalla scheda tecnica del cortometraggio, presentato all’interno
della rassegna “Classic Avant-Garde / Queer Cult – Spirit of the Underground”, tenu-
tasi presso il cinecircolo LFMC (Camden Town, Londra), il 18 agosto 1995.
2
Sulla scena underground si confronti la sezione 8.2.
3
Intorno al ripensamento che le comunità omosessuali hanno prodotto sull’utilizzo
storico dei termini di autonominazione si può consultare Richard Dyer, “In a Word” (1991),
in The Matter of Images: Essays on Representation, London: Routledge, 1993, pp. 6-10.
120 TIRANDO LE FILA
1
Jonathan Dollimore, “Shakespeare, Cultural Materialism, and the New Histori-
cism”, in Jonathan Dollimore and Alan Sinfield (eds.), Political Shakespeare: New Essays
in Cultural Materialism, Manchester: Manchester University Press, 1985, p. 13.
2
Si tornerà nelle prossime pagine sulla storicità e sulla storia nel/del camp.
3
Una soluzione, dunque, parziale.
4
Questa posizione è stata ascritta, con una qualche forzatura, al neostoricismo nor-
damericano, e in particolare al suo maggiore esponente – Stephen Greenblatt – che ne
avrebbe offerta un’esposizione di spiccata persuasività in “Invisible Bullets: Renaissance
Authority and Its Subversion, Henry IV and Henry V” (1981), in Jonathan Dollimore
and Alan Sinfield (eds.), Political Shakespeare, cit., pp. 18-47. Lo stesso Greeblatt ha
peraltro decisamente rifiutato, negli anni successivi, questa lettura intrinsecamente
frustrante del proprio saggio e della propria prospettiva teorica. Cfr. Id., Learning to
Curse: Essays in Early Modern Culture, London: Routledge, 1990, pp. 164-166. Posizioni
analoghe, a ogni modo, emergono anche all’interno dei gay studies: si veda in tal senso
D. A. Miller, The Novel and the Police, cit.
5
Tale risulta in buona sostanza la tesi di Moe Meyer, di cui si dirà nel capitolo 7.
122 TIRANDO LE FILA
dire i termini che più immediatamente vengono attivati dal camp come
pratica e come fenomeno, risultino funzionali alla definizione di un ordi-
ne di equilibrio, di autenticità e di serietà – in breve, che il camp si ponga
come strumento, in quanto spazio di negatività, per una affermazione
(più che per una decostruzione) della norma e della positività. In questo
secondo caso, il camp parteciperebbe della logica del contenimento, par-
tecipando delle strategie che il potere dispiega nel processo di autolegit-
timazione e autoriproduzione, le quali in una qualche misura presuppon-
gono la sovversione (il centro postula un margine: la giustizia necessita
della criminalità, la sovranità delle pulsioni eversive). Una sovversione così
1
ineluttabilmente contenuta poiché resa “the very condition of power”.
Senza entrare nello specifico della dialettica che ha contrapposto teo-
rici dell’inesorabile contenimento e sostenitori di una radicale sovversivi-
2
tà di alcune prassi, la direzione che sembra preferibile in merito al camp
coincide con la scelta – da parte dei propositori di una possibilità di sov-
versione, se non della sua inesorabilità – di caratterizzare una data mo-
dalità di rappresentazione (tanto in fase di codifica quanto di decodifica:
3
la formula di re-presentation contiene entrambi) come dissidente, a pre-
scindere cioè secondo direttive materialiste dall’inesorabilità (verso un
4
esito di sovversione o di contenimento) come intrinsecamente data. Tale
1
Stephen Greenblatt, “Invisible Bullets: Renaissance Authority and Its Subversion,
Henry IV and Henry V”, cit., p. 45.
2
Mi permetto di rinviare, per un approfondimento, ai miei “‘Oscar Wilde’ e i mate-
rialisti” e “Promemoria sulla critica radicale in Gran Bretagna”, citt. Ma si vedano
senz’altro, per un inquadramento articolato del neostoricismo nordamericano (cui si
ascrive la tesi del ‘contenimento’), Barbara Gastaldello (a cura di), “Il neostoricismo”,
numero monografico de L’Asino d’oro, 8, 1993; e Vita Fortunati e Giovanna Franci (a
cura di), Il neostoricismo, Modena: Mucchi, 1996.
3
Per queste ragioni re-presentation, nella quale ‘presentazione’, ‘ripresentazione’ e
‘rappresentazione’ denunciano la propria inestricabilità, è formula assolutamente po-
polare nella critica ricontestualizzante dell’ultimo quindicennio. Una fra le riviste più
significative dell’intero spettro critico, diretta da Stephen Greenblatt e largamente ri-
conducibile al neostoricismo, porta significativamente quale nome Representations.
4
Sulla scelta, operata all’interno del materialismo culturale britannico, di parlare di
dissidence piuttosto che di subversion, oltre che per una introduzione alla dialettica fra
sovversione e contenimento e al confronto fra materialismo culturale e nostoricismo, si
vedano Jonathan Dollimore, “Introduction to the Second Edition”, in Radical Tragedy:
Religion: Ideology and Power in the Drama of Shakespeare and His Contemporaries (1984),
London: Harvester Wheatsheaf, 1989, pp. xi-lxviii; e Alan Sinfield, Faultlines: Cultural
Materialism and the Politics of Dissident Reading, Oxford: Clarendon, 1992, pp. 29-51.
Non è irrilevante rilevare che Sinfield, in The Wilde Century, cit., proponga uno sguar-
do ambivalente al camp (e che uno sguardo analogo al camp, seppur implicitamente,
venga rivolto da Dollimore in “Different Desires: Subjectivity and Transgression in
ULTERIORI ALTERITÀ 123
Wilde and Gide”, Textual Practice, 1, 1, Spring 1987, pp. 48-67) in quanto strategia di
emancipazione – valida hic et nunc – per la sottocultura gay nella Gran Bretagna degli
anni recenti.
5
1
Si confrontino in merito i lavori precedentemente citati di Charles Jencks, C. Ray
Smith e Hilton Kramer (di cui supra, alla nota 3 di pagina 65).
2
Matei Calinescu, Five Faces of Modernity: Modernism, Avant-Garde, Decadence, Kitsch,
Postmodernism (1977) Durham: Duke University Press, 1987, p. 312. Riferimenti en pas-
sant al camp come partecipe della Zeitgeist postmoderna si offrono in Ihab Hassan,
“POSTmodernISM: A Paracritical Bibliography”, New Literary History, III, 1, Fall 1971,
pp. 5-30; Leslie A. Fiedler, Cross the Border, Close the Gap, New York: Stein and Day,
1972, pp. 61-85; Linda Hutcheon, The Politics of Postmodernism, London: Routledge,
1989, p. 10; Sabine Hake, “‘Gold, Love, Adventure’: The Postmodern Piracy of Ma-
dame X”, Discourse, XI, 1, Fall-Winter 1988-89, pp. 88-110; Henry Kariel, The Desperate
Politics of Postmodernism, Amherst: University of Massachussetts Press, 1989, p. 65;
Ingeborg Hoesterey, “Introduction: Postmodernism as Discursive Event”, in Ingeborg
Hoesterey (ed.), Zeitgeist in Babel: The Postmodernist Controversy, Bloomington: Indiana
University Press, 1991, pp. XII, XIV; Jeff Weinstein, Jim Fouratt, Vito Russo, Kate Mil-
lett, Arthur Bele, Edmund White and Bertha Harris, “Extended Sensibilities”, in Rus-
sell Ferguson, William Olander, Marcia Tucker and Karen Fiss (eds.), Discourses: Con-
126 ESUBERANZA
versations in Postmodern Art and Culture, New York: New Museum of Contemporary
Art and MIT Press, 1992, pp. 130-155; e Jim Collins, “After the End of Early Postmod-
ernism: The Pragmatics of Excess”, in Architectures of Excess: Cultural life in the Age of
Information, London: Routledge, 1995, pp. 1-29. Altri riferimenti più sostanziali saran-
no presentati oltre.
1
Se ne è potuto prescindere, peraltro, solo in sede critica, vale a dire in quelle istitu-
zioni del sapere che hanno latamente escluso sia il camp sia la questione e prospettiva
omosessuale dall’ordine di rilevanza critica.
2
I principali lavori che hanno indagato la qualità camp e gay di Warhol e di Batman
in aperta contestazione di tale censura sono Patrick S. Smith, Andy Warhol’s Art and
Films, Ann Arbor: UMI Research Press, 1986; Peter Wollen, “Raiding the Icebox”, in
Michael O’Pray (ed.), Andy Warhol: Film Factory, London: British Film Institute, 1989,
pp. 14-27; Roberta E. Pearson and William Uricchio (eds.), The Many Lives of the Batman:
Critical Approaches to a Superhero and His Media, London: Routledge, 1991 (in particolare
Andy Medhurst, “Batman, Deviance and Camp”, pp. 149-163; Lynn Spigel and Henry
Jenkins, “Same Bat Channel, Different Bat Times: Mass Culture and Popular Memory”,
pp. 117-148); Steven Shaviro, The Cinematic Body, Minneapolis: University of Minne-
sota Press, 1993; Richard Meyer, “Warhol’s Clones”, The Yale Journal Of Criticism, VII,
1, 1994, pp. 79-109; Van M. Cagle, Reconstructing Pop/Subculture: Art, Rock, and Andy
Warhol, London: Sage, 1995; Jennifer Doyle, Jonathan Flatley, and José Esteban Mu-
ñoz (eds.), Pop Out: Queer Warhol, Durham: Duke University Press, 1996 (in particolare
Jennifer Doyle, Jonathan Flatley, and José Esteban Muñoz, “Introduction”, pp. 1-19;
Mandy Merck, “Figuring Out Andy Warhol”, pp. 224-237; Sasha Torres, “The Caped
Crusader of Camp: Pop, Camp, and the Batman Television Series”, pp. 238-256; Simon
Watney, “Queer Andy”, pp. 20-30; Thomas Waugh, “Cockteaser”, pp. 51-77); Juan
Suárez, Bike Boys, Drag Queens, and Superstars: Avant-Garde, Mass Culture, and Gay
Identities in the 1960s Underground Cinema, Bloomington: Indiana University Press, 1996.
SULLE INTERSEZIONI DI CAMP E POSTMODERNO 127
“Camp sees everything in inverted commas”; “It’s good because it’s awful”,
scriveva infatti Sontag. Prosegue Hutcheon:
(cit., p. 93). Intorno a questo e ad altri aspetti del postmoderno nel resoconto di Hu-
tcheon si veda anche, della stessa autrice, A Poetics of Postmodernism: History, Theory,
Fiction, London: Routledge, 1988. Per un’eccellente introduzione alla parodia si veda
Margaret A. Rose, Parody: Ancient, Modern, and Postmodern, Cambridge: Cambridge
University Press, 1993.
1
Per il rimando all’etimo di parodia come indicativo della sua intrinseca duplicità si
veda Linda Hutcheon, A Theory of Parody, cit., pp. 32-33, 54-55 et passim. Sul para-
dosso di matrice camp si può consultare Gregory Woods, “‘Absurd! Ridiculous! Dis-
gusting!’ Paradox in Poetry by Gay Men”, in Mark Lilly (ed.), Lesbian and Gay Writing:
An Anthology of Critical Essays, London: Macmillan, 1990, pp.175-198.
2
Linda Hutcheon, The Politics of Postmodernism, cit., p. 101.
3
Ivi, p. 4.
4
L’inversione delle gerarchie binarie quale passo imprescindibile per una ristruttura-
zione dell’ordine è quanto peraltro suggerito dalla decostruzione di Jacques Derrida
SULLE INTERSEZIONI DI CAMP E POSTMODERNO 129
quale strategia politica. Cfr. Jacques Derrida, Positions, Paris: Minuit, 1972, pp. 18-22. A
questo suggerimento si rifà peraltro Jonathan Dollimore nell’evidenziare la contempo-
raneità della lezione di Oscar Wilde, nella sua strategia camp di inversione, per la poli-
tica culturale in un paradigma postmoderno. Cfr. Jonathan Dollimore, “Wilde’s Trans-
gressive Aesthetic and Contemporary Cultural Politics”, cit., pp. 64-68; e Id., “The
Dominant and the Deviant: A Violent Dialectic”, cit. Non è irrilevante rilevare come
Derrida abbia affrontato esplicitamente la questione dell’uso delle virgolette per indi-
care un’appropriazione ambigua di un termine o di una rappresentazione (quelle vir-
golette che sono indicate da Sontag come un tratto distintivo del camp, e da Hutcheon
del postmoderno), ribadendone l’imprescindibilità in questa chiave. Cfr. Jacques Derrida,
“Resoconti e constatazioni concernenti neologismi, neoismi, postismi, parassitismi e
altre piccole sismicità” (1990), in Andrea Carosso (a cura di), Decostruzione e/è America.
Un reader critico, Torino: Tirrenia Stampatori, 1994, pp. 305-326.
1
Questo emerge ad esempio nella boutade di Andy Medhurst secondo il quale “po-
stmodernism is only heterosexuals catching up with camp”. Andy Medhurst, “Pitching
Camp”, City Limits, 10-17 May 1990, pp. 18-19. In un intervento scritto nei mesi suc-
cessivi per una sede meno popolare (la rivista di studi cinemtografici Screen), Medhurst
correggerà la forma ma non la motivazione della propria proposta, mitigando peraltro
130 ESUBERANZA
fortemente l’assertività della stessa. Cfr. Andy Medhurst, “That Special Thrill: Brief
Encounter, Homosexuality and Authorship”, cit., p. 207.
1
Fredric Jameson, “Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capitalism”, New
Left Review, 146, July-August 1984, pp. 53-92. L’intervento è stato successivamente
ampliato in un volume, apparso come Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capi-
talism, Durham: Duke University Press, 1991.
2
Ivi, p. 76-77.
3
Ivi, p. 77.
4
Ivi, p. 54. Il riferimento è a Robert Venturi, Denise Scott Brown and Steven Izenour,
Learning from Las Vegas, Cambridge: MIT Press, 1972.
5
Fredric Jameson, “Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capitalism”, cit., p. 54.
SULLE INTERSEZIONI DI CAMP E POSTMODERNO 131
1
Ivi, p. 62.
2
Utili introduzioni alla ‘crisi del segno’ messo in gioco dalle teorie post-saussuriane
sono Terence Hawkes, Structuralism and Semiotics, London: Methuen, 1977; Richard
Harland, Superstructuralism: The Philosophy of Structuralism and Post-Structuralism,
London: Methuen, 1987; Jonathan Culler, Structuralist Poetics: Structuralism, Linguistics,
and the Study of Literature, London: Routledge & Kegan Paul, 1973; Id., The Pursuit of
Signs: Semiotics, Literature, Deconstruction, ibidem, 1981; Id., On Deconstruction: Theory
and Criticism after Structuralism, Ithaca: Cornell University Press, 1982; e Catherine
Belsey, Critical Practice, London: Methuen, 1980. Al ripensamento della lezione freu-
diana (cui sui ascrive l’ipotesi repressiva che lascia le proprie tracce in Norman Brown
e in Herbert Marcuse) accreditabile al costruzionismo di Michel Foucault si è accenna-
to nel corso del capitolo 1.
3
Il postmoderno delineato da Jameson sembra sotto diversi aspetti riconducibile allo
Zeitgeist che emerge negli scritti di Jean Baudrillard, che indica nella condizione iperre-
ale della contemporaneità una condizione all’insegna dello ‘sciopero degli eventi’, del-
la totale abolizione del referente in favore della dimensione simulacrale totalizzante e
degli abissi superficiali dei mass media. Fra gli scritti di Baudrillard basti prendere vi-
sione, in merito, di Simulacres et simulation, Paris: Galilée, 1981. Non a caso, infatti,
Jameson non manca di registrare con stizza quanto viene celebrato come “inaugura-
tion of a whole new type of society, […] designated consumer society, media society,
information society, electronic society or ‘high tech’ and the like”. Fredric Jameson,
“Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capitalism”, cit., p. 55. Inserendosi in
un comune terreno di riflessione aperto da Guy Debord (intorno al quale è eccellente
introduzione critica Anselm Jappe, Debord, Pescara: Tracce, 1992) e segnato negli anni
più recenti da Paul Virilio (ad esempio in L’horizon négatif. Essai de dromoscopie, Paris:
Galilée, 1984) e da Mario Perniola (di cui si veda in particolare La società dei simulacri,
Bologna: Cappelli, 1983), la differenza fra Baudrillard e la teoria marxista risiede nel
maggior nichilismo (o rassegnazione, o valenza apocalittica – assente peraltro anche in
Debord, Virilio e Perniola) del primo, e di enfasi. Se Baudrillard indica la massmediali-
tà come causa prima della degenerazione simulacrale, per Jameson è la logica culturale
del tardo capitalismo a perpetuarne il dominio attraverso la massmedialità (strumento
e non causa, dunque). Per entrambi, a ogni modo, così come del resto per Debord,
rimane un orizzonte di normalità con il quale si confronta l’appiattimento della con-
temporaneità, quell’orizzone che gli apologeti del postmoderno negano sostenendo
134 ESUBERANZA
che tutto, a prescindere dall’intervento dei mezzi di comunicazione di massa, sia sem-
pre-già culturale, implicato in una prassi (e in una politica) di rappresentazione.
1
Si allude, ovviamente, a Jean-François Lyotard, La Condition postmoderne. Rapport
sur le savoir, Paris: Minuit, 1979, e a Id., Le Postmoderne expliqué aux enfants. Correspon-
dance 1982-1985, Paris: Galilée, 1986. L’impianto teorico dello storicismo di Michel
Foucault, diviso in fase archeologica e genealogica, emerge chiaramente in Les mots et
les choses. Une archéologie des sciences humaines, Paris: Gallimard, 1966, e nel citato La
volonté de savoir.
2
Si confronti supra, la nota 1 a pagina 78.
3
La ‘morte del soggetto’ promossa all’interno dello strutturalismo francese si inter-
seca, nelle teorizzazioni del periodo, con la ‘morte dell’autore’ in ambito letterario, che
si è ricondotta in prima battuta alle proposte avanzate in Roland Barthes, Sur Racine,
Paris: Seuil, 1963; Id., “La mort de l’auteur” (1967), in Le bruissement de la langue. Essais
critiques IV, Paris: Seuil, 1984, pp. 61-67; Pierre Macherey, Pour une théorie de la produc-
tion littéraire, Paris: François Maspero, 1966, pp. 83-84; Jacques Derrida, “Signature
événement contexte”, in Marges de la philosophie, Paris: Minuit, 1972, pp. 365-393; Id.,
Positions, cit.; Michel Foucault, L’archeologie du savoir, cit., ; e Id., “Qu’est-ce qu’un au-
teur?” Bulletin de la societé française de de philosophie, 63, 1969, pp. 73-104. Sul dibattito
sono utili Seán Burke, op. cit., e David Carroll, The Subject in Question: The Languages of
Theory and the Strategies of Fiction, Chicago: University of Chicago Press, 1982.
SULLE INTERSEZIONI DI CAMP E POSTMODERNO 135
1
Terry Eagleton, op. cit., p. 145.
2
Fredric Jameson, “Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capitalism”, cit., p. 62.
3
Ivi, p. 85.
4
Ivi, p. 76.
5
Ivi, p. 59.
136 ESUBERANZA
Non solo gli oggetti ‘acrilici’ di Warhol non ci parlano con l’immedia-
tezza di quelli ‘modernisti’ di Van Gogh: non ci parlano affatto, chiusi nel
proprio autoreferenziale, eterno presente di contingenza spettacolarizzata.
Prosegue Jameson:
the random cannibalization of all the styles of the past, the play of ran-
dom stylistic allusion, and in general what Henry Lefebvre has called
the increasing primacy of the ‘neo’. This omnipresence of pastiche is,
however, not incompatible with a certain humor (nor is it innocent of
all passion) or at least with addiction – with a whole historically original
consumers’ appetite for a world transformed into sheer images of itself
1
Ivi, pp. 59-60. Jacques Derrida affronta la rappresentazione di Van Gogh – a partire
dalle parole di Martin Heidegger in “Der Ursprung des Kunstwerkes” (1935/36), in
Holzwege, Frankfurt am Main: Vittorio Klostermann, 1980, pp. 1-72 – in La vérité en
peinture, Paris: Flammarion, 1978. Utile sulla rappresentazione stessa, in una prospetti-
va che si colloca sulla lignée Heidegger-Derrida, è Flint Schier, “Van Gogh’s Boots: The
Claims of Representation”, in Dudley Knowles and John Skorupski (eds.), Virtue and
Taste: Essays on Politics, Ethics and Aesthetics, Oxford: Blackwell, 1993, pp. 176-199.
2
Ivi, p. 60. La significatività dell’esempio è suggerita dal fatto che la serigrafia war-
holiana è stata scelta per la copertina del volume derivato dal saggio in questione e
aperto proprio dall’analisi del contrasto fra le due rappresentazioni. Cfr. Fredric
Jameson, Postmodernism or, the Cultural Logic of Late Capitalism, cit., pp. 6-16.
3
Terry Eagleton, op. cit., p. 143.
SULLE INTERSEZIONI DI CAMP E POSTMODERNO 137
La centralità della nostalgia mode nel camp è tale per cui, nell’indicare la
principale ragion d’essere del camp del secondo dopoguerra, con i suoi
mercatini delle pulci, moda rétro e apprezzamento di massa delle dive
cinematografiche d’altri tempi, Andrew Ross sostiene alla fine degli anni
Ottanta che l’effetto camp si produca
when the products […] of a much earlier mode of production, which
has lost its power to dominate cultural meanings, become available, in
the present, for redefinition according to contemporary codes of taste.
[…] In liberating the objects and discourses of the past from disdain
and neglect, camp generates its own kind of economy. Camp, in this
respect, is the re-creation of surplus value from forgotten forms of labor.5
Le parole di Ross sono dirette alla dinamica del camp nella cultura an-
gloamericana fra gli anni Cinquanta e Sessanta, ma essa, come afferma
1
Fredric Jameson, “Postmodernism, or the Cultural Logic”, cit., pp. 65-66.
2
Ivi, p. 66.
3
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 280.
4
Ivi, p. 285.
5
Andrew Ross, “Uses of Camp”, cit., pp. 139, 151.
138 ESUBERANZA
In this situation, parody finds itself without a vocation; it has lived, and
that strange new thing pastiche slowly comes to take its place. Pastiche
is, like parody, the imitation of a peculiar mask, speech in a dead lan-
guage: but it is a neutral practice of such mimicry, without parody’s ul-
terior motives, amputated of the satiric impulse, devoid of laughter and
1
Fredric Jameson, “Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capitalism”, cit., p. 85.
2
Ibidem.
3
Ivi, p. 64.
SULLE INTERSEZIONI DI CAMP E POSTMODERNO 139
of any conviction that alongside the abnormal tongue you have mo-
mentarily borrowed, some healthy linguistic normality still exists. Pas-
tiche is thus blank parody, a statue with blind eyeballs: it is to parody
what the other interesting and historically original modern thing, the
practice of a kind of blank irony, is to what Wayne Booth calls the ‘sta-
ble ironies’ of the 18th century.1
Camp […] embodies an attitude that is related, but still very different [because] Pop
Art is more flat and more dry, more serious, more detached, ultimately nihilistic”. Ivi,
p. 292. L’esclusione da parte di Sontag è tuttavia di per sé molto incerta, e alla luce
delle precedenti considerazioni illegittima.
1
Jane Feuer, “Reading Dynasty: Television and Reception Theory”, South Atlantic
Quarterly, 88, 1989, pp. 455-456.
2
È in questa direzione che viene ad esempio proposta un’apologia della scomparsa
del modello di profondità in Ihab Hassan, “Pluralism in Postmodern Perspective”, Cri-
tical Inquiry, XII, 4, 1986, pp. 503-520. Significativi, nel medesimo senso, i riferimenti al
camp che lo stesso Hassan – in una pratica che peraltro si offre a conferma delle criti-
che di cannibalismo onnivoro e irresponsabile mosse da Jameson alla cultura postmo-
derna – inserisce in relazione al transeunte postmoderno in “POSTmodernISM: A Para-
critical Bibliography”, cit.
SULLE INTERSEZIONI DI CAMP E POSTMODERNO 143
1
Dick Hebdige, Subculture: The Meaning of Style, London: Methuen, 1979. Quello di
Hebdige può essere considerato un caposaldo dei cultural studies, i quali tuttavia si erano
venuti articolando fin dagli anni Cinquanta grazie al lavoro di Raymond Williams e di
Stuart Hall, che con il gruppo del Centre for Contemporary Cultural Studies della
University of Birmingham si rivolgeva alla cultura popolare della scena urbana post-
industriale in alternativa allo studio dell’Alta Cultura, e al disegno sociopolitico da esso
surrettiziamente promosso. Si veda in merito Maria Cristina Iuli, op. cit. La qualità di
‘caposaldo’ del volume di Hebdige è in larga misura prodotta dal suo essere apparso
nella collana New Accents, pubblicata da Methuen e da Routledge a partire dalla se-
conda metà degli anni Settanta, che ha reso accessibili (per impostazione introduttiva,
e per il basso costo dei volumi pubblicati al suo interno) un ampio novero di sollecita-
zioni teoriche a un mercato accademico in significativa espansione. Cfr. il mio “‘Oscar
Wilde’ e i materialisti. Appunti sulla scena critica radicale in Gran Bretagna”, cit.
2
Dick Hebdige, Subculture: The Meaning of Style, cit., p. 103.
3
Ibidem. Hebdige propone queste parole in relazione a punks e skinheads, ma esse
possono venir estese alle controculture giovanili in genere.
144 ESUBERANZA
1
Linda Hutcheon, The Politics of Postmodernism, cit., p. 114.
2
Si confronti in merito la Parte Terza.
6
6.1. Perversioni
Il contesto che sembra non emergere da Diamond Dust Shoes non emerge
146 ESUBERANZA
1
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 281.
2
Ibidem.
3
Esther Newton, Mother Camp, cit., p. 105.
4
“Humor is the campy queen’s weapon. A camp queen in good form can come out
on top (by group consensus) against all competition”. Ivi, p. 111. È questa estrema agi-
lità verbale che distingue il camp, e che rende conto del perché “camps are very often
the center of primary group organization”. Ivi, p. 105.
5
Lo scambio è riportato in Philip Core, op. cit., p. 122.
LOGICA E SPAZIO DEL DISSENSO 147
1
“Camp is a solvent of morality. It neutralizes moral indignation, sponsors playful-
ness”; “it goes without saying that the Camp sensibility is disengaged, depoliticized –
or at least apolitical”. Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., pp. 290, 277.
2
Robert F. Kiernan, Frivolity Unbound, cit., p. 16. Il camp è in questo senso “not only
amoral and ahistorical, it would seem; it is also arational”. Ivi, p. 149.
3
Cit. in Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 291. La pubblicazione di The Old
Curiosity Shop avvenne, com’è noto, in forma seriale sulle pagine di Master Humphrey’s
Clock fra l’aprile 1840 e il febbraio 1841. È la stessa forma seriale, di pari passo al gene-
rale eccesso di sentimentalismo e sensazionalismo melodrammatico che ne fa un ‘caso
a parte’ anche all’interno dell’opera dickensiana, a rendere conto dell’interminabile
decesso di Little Nell, e della straordinaria partecipazione emotiva che essa provocò
presso il pubblico – Dickens scrisse all’epoca di essere “inundated with imploring let-
ters recommending poor little Nell to mercy”. Cit. in Malcolm Andrews, “Introduc-
tion”, in Charles Dickens, The Old Curiosity Shop, Harmondsworth: Penguin, 1972, p.
16. E Andrews scrive che “[t]he public reception to these two chapters [nei quali si
148 ESUBERANZA
descrive la malattia del personaggio] is now as notorious as the death itself. Crowds
gathered on the quayside in New York awaiting the news of Nell’s fate. […] Lord Jef-
frey, the austere critic of The Edinburgh Review, was found in tears – ‘little Nelly; Boz’s
little Nelly, is dead’”. Ivi, p. 27.
1
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 278.
2
Sul cinema ‘pornografico’ di Warhol si veda in particolare Stephen Koch, “Blow-
Job and Pornography”, in Stargazer, cit., pp. 47- 58. Su Russ Meyer è utile consultare
Giancarlo Carlotti (a cura di), Russ Meyer. Un erotomane abbondante, Bologna: Granata,
1993, che ospita interventi critici di Luigi Cabri, Riccardo Esposito, Leonardo Gandini,
Denny Lugli, Andrea Novarin, un’intervista al regista raccolta da Marc Toullec e una
documentata filmografia.
3
Oscar Wilde, “Preface to The Picture of Dorian Gray”, in The Complete Works, cit., p.
17; Id., “Phrases and Philosophies for the Use of the Young” (1894), in The Complete
Works, cit., p. 1205.
4
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 287
LOGICA E SPAZIO DEL DISSENSO 149
1
Ibidem.
2
Oscar Wilde, “Preface to The Picture of Dorian Gray”, cit., p. 17; Id., “Phrases and
Philosophies for the Use of the Young”, cit., p. 1205.
3
Ronald Firbank, Vainglory (1915), in The Complete Ronald Firbank, cit., p. 173.
150 ESUBERANZA
1
coniuga felicemente intenzioni, esiti e orizzonte culturale. Quello che si
è sempre indicato come esistenza relazionale del camp, il suo essere in
the eye of the beholder, va ripensato come confronto determinato fra lo I
(l’identità ideologicamente e storicamente costituita) dell’osservatore e
quello dell’osservato, oggetto e soggetto che sia: in breve, un confronto
fra formazioni ideologiche, fra posizionamenti all’interno della cultura, fra
tradizioni e configurazioni ontologiche, canoni estetici ed etici che costrui-
scono la soggettività dell’osservatore così come l’identità dell’osservato.
Ciò che interviene nella produzione di camp, sia in fase di riconosci-
mento che di performance, è il deliberato rifiuto di cooperare, in termini
interpretativi, con l’orizzonte culturale che prescrive un ordine di natura-
lità (nel caso della performance), e con l’oggetto – con le intenzioni
dell’autore, con il suo contesto storico, e al tempo stesso con il contesto
di prescrittività estetica ed etica che ne sancisce il valore morale e la si-
gnificatività estetica hic et nunc. Quello camp è in altre parole un rifiuto di
rispetto nei confronti delle regole che la tradizione liberal-umanista ha
eletto quali fondative della ‘corretta’ interpretazione. Gli stag movies, si
ricordi, appartengono al canone camp solo se “seen without lust”: priva-
to dell’eccitazione che il film invoca a propria ‘corretta’ fruizione, lo spet-
tatore si colloca su una posizione di decodifica – volontaria o meno: non
è dato scegliere di collaborare, in questo caso in modo evidente – di so-
stanziale dissenso, il che configura paradossalmente una decodifica
‘scorretta’ quale decodifica ‘politicamente corretta’ solo nella misura in
cui non collabora, salvo però apprezzare il film per il suo fallimento, e
ricadere dunque nella ‘scorrettezza’, ma di una matrice evidentemente
2
più ambigua. Nello scambio fra Ada Leverson e Somerset Maugham,
Leverson evinse dalla scusa di Maugham, consapevolmente forzandolo,
1
Fra le riflessioni imprescindibili sul Kitsch, Ludwig Giesz, Phenomenologie des Kitsches,
Heidelberg: Rothe Verlag, 1960; Umberto Eco, “La struttura del cattivo gusto”, in Apo-
calittici e integrati. Comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa, (1964), Milano:
Bompiani, 1994, pp. 65-130; Gillo Dorfles, Il Kitsch. Antologia del cattivo gusto, Milano:
Gabriele Mazzotta, 1968; Jacques Sternberg, op. cit.; Hermann Broch, Philosophische
Schriften I. Kritik, Frankfurt am Main: Suhrkamp, 1975; Id., Schriften zur Literatur 2.
Theorie, ibidem, 1977.
2
La political correctness che si presuppone in questo caso è quella classica, che identi-
fica nella pornografia una rappresentazione – prima ancora che esteticamente falli-
mentaria – eticamente riprovevole per la sua mercificazione della sessualità. In breve,
si presuppone la posizione anti-pornografica, pro-censura, che può essere ascritta al (o
a parte del) pensiero femminista. Ma la questione stessa della ‘correttezza politica’ in
merito alla pornografia è ben più complessa, ovviamente.
LOGICA E SPAZIO DEL DISSENSO 151
1
“Poet’s misinterpretations of poems are more drastic than critics’ misinterpreta-
tions or criticism, but this is only a difference in degree and not at all in kind. There are
no interpretations but only misinterpretations, and so all criticism is prose poetry”.
Harold Bloom, The Anxiety of Influence: A Theory of Poetry, New York: Oxford Univer-
sity Press, 1973, pp. 94-95. La dimensione personalissima dell’agone bloomiano sem-
bra essere presieduta da una dimensione camp (Bloom-come-regina, insomma), sia
pur inintenzionale; ma alla lettura della modalità interpretativa del camp non giova il
modello ‘critico’ offerto dallo stesso Bloom.
152 ESUBERANZA
Rose, a cura di Stefan Collini, (1992), Milano: Bompiani, 1995, che ripropone le Tanner
Lectures tenute da Eco al Clare Hall di Cambridge del 1990, e nel quale la proposta di
rispetto della Storia è sollecitata e criticata da molteplici prospettive. In particolare è
interessante, nella chiave che si va qui attivando, l’intervento di Jonathan Culler (“In
difesa della sovrainterpretazione”, pp. 133-150).
1
Cfr. Maria Corti, Principi della comunicazione letteraria, Milano: Bompiani, 1976.
2
Il camp come attività di misreading deliberato è indicato, sia pur senza articolarne
pienamente le implicazioni in termini di strategia di rappresentazione ‘perversa’, an-
che in Linda Mizejewski, op. cit., e in Scott Long, “The Loneliness of Camp” (1989), in
David Bergman (ed.), op.cit., pp. 78-91.
3
Mi permetto di rinviare, in merito alla persistenza di proficuità del dato biografico
anche nei modelli che dichiarano di prescinderne, ai miei, già citati, “Verso una rina-
scita dell’autore?”, e “Biografia, ideologia, autor-ità interpretativa (con un caso esem-
plare)”, nei quali si danno anche numerose informazioni bibliografiche sul dibattito in
154 ESUBERANZA
mente, Jameson (p. 55) inserisce fra l’altro anche la “popular biography” che è pro-
gramma-ticamente esclusa dall’attenzione del ‘serio biografo’ edeliano.
1
Si precisa infatti che Jameson rientra pienamente nell’ortodossia marxista, poiché le
sue critiche non sono sottoscrivibili automaticamente all’interno di prospettive post-
marxiste (che cioè si configurano al contempo come esito e superamento del marxismo
classico) quali sono, ad esempio, i cultural studies, il materialismo culturale britannico e
il neostoricismo statunitense. In questi ultimi, infatti, le sollecitazioni ‘testualiste’ e la
problematizzazione della Storia come univocamente data (quello che si può indicare, à
la Jameson, come ‘indebolimento della Storia’) sono ampiamente accolte.
2
Kenneth Anger, Hollywood Babylon, New York: Bell, 1981. La prima edizione del te-
sto fu pubblicata ‘clandestinamente’ a Parigi nel 1975. Ad Anger si è già accennato, e
LOGICA E SPAZIO DEL DISSENSO 157
1
Cit. in Mark Booth, op. cit., p. 76. La social disease warholiana trova un parallelo sor-
prendente nella ‘Boheara’ di Ronald Firbank, che segna l’Alta Società di Clemenza (nel
quale imperversa il Cardinal Pirelli di cui nel capitolo 1) quale malattia di moda (e della
moda), “the new and fashionable epidemic”. Ronald Firbank, Concerning the Eccentrici-
ties of Cardinal Pirelli, cit., p. 660. E Paul Rudnick, meglio noto come sceneggiatore ci-
nematografico e grande ‘regina’ della scena camp newyorkese degli anni Ottanta e
Novanta, intitolerà Social Disease il proprio romanzo apparso per Knopf nel 1986.
2
Alan Sinfield, Faultlines, cit., p. 29.
3
Il costruzionismo di tale prospettiva è senz’altro da ricondursi alle medesime pre-
messe che hanno presieduto alla sua articolazione in sede critica: la linguistica saussu-
riana e la sua cooptazione da parte della critica radicale, sulla quale ha pagine di alta
efficacia introduttiva Catherine Belsey, op. cit. Il che non significa che il camp sia da
pensare quale esito di una prospettiva post-saussuriana: la storia delle istanze critiche
che si possono evincere dalla rappresentazione camp, e quella delle istanze critiche che
LOGICA E SPAZIO DEL DISSENSO 159
1
L’editoriale – “Gossip, Hidden Channel of Malicious Evil”, Los Angeles Examiner, 23
January 1938, riprodotto in Kenneth Anger, op. cit., pp. 248-249 – è da ricondursi a
William Randolph Hearst, magnate della stampa e produttore cinematografico, le cui
vicende (un omicidio sul suo yacht provocò un caso sui giornali dell’epoca, e diede
luogo a una proliferazione di voci sul suo conto) sono riportate nel volume di Anger
alle pagine 139-152, 264-267.
2
La consonanza fra camp e carnevalesco bachtiniano – clamorosa ad esempio nella
inversione delle gerarchie, nella paradossalità irridente, nella lingua fortemente allusi-
va alla volgarità sessuale, e soprattutto nella dimensione di ‘trasgressione autorizzata’
che è possibile ascrivere al camp – è bene registrata in David Bergman, Gayety Transfi-
gured, cit., pp. 111-114, e in Linda Mizejewski, op. cit., p. 63.
LOGICA E SPAZIO DEL DISSENSO 161
1
Oscar Wilde, The Picture of Dorian Gray, in The Complete Works, cit., p. 43.
2
“The Lie that Tells the Truth”, che riprende un’autodefinizione di Jean Genet, è
non a caso il sottotitolo del volume citato di Philip Core.
3
Oscar Wilde, “Phrases and Philosophies for the Use of the Young”, cit., p. 1205.
4
Philip Core, op. cit., p. 7.
5
Oscar Wilde, “The Critic as Artist” (1890), in The Complete Works, cit., p. 1023.
6
Cfr. Matthew Arnold, “The Function of Criticism at the Present Time” (1864), in R.
162 ESUBERANZA
resse del critico – non inteso come indifferente disprezzo della responsa-
bilità, bensì in quanto presupposto del riconoscimento della differenza –
rispetto alla propria parzialità e alle proprie “ulterior, political, practical
1
considerations […] which criticism has really nothing to do with”. Il di-
sinteresse coincide, in ultima analisi, con il rispetto dell’oggetto critico, a
prescindere dalla propria presenza che è volta solo a registrare, non a de-
formare: in breve, “to retain an intimate and lively consciouness of the
2
truth of what one is saying”. Funzione e fine del critico, e della decodi-
fica responsabile, sono dunque “a disinterested endeavour to learn and
propagate the best that is known and thought in the world”, volto a dis-
cernere ciò che va eletto a principio di cultura da ciò che va trascurato, o
in ambito strettamente letterario “for the sake of establishing an author’s
place in literature, and his relation to a central standard (and if this is not
3
done, how are we to get at our best in the world?”).
L’irriverenza camp nei confronti dei cardini interpretativi posti dalla
serietà responsabile della tradizione liberal-umanista (ma anche, lo si è
visto, nei confronti dell’ortodossia marxista) emerge dal processo di in-
versione e di spiazzamento che al contrario Wilde invoca quali costitutivi
del senso critico: la persona dotatane, al pari dello storico degno di que-
sto nome, è impegnata ad offrire “an accurate description of what has
4 5
never occurred”, a descrivere “the object as in itself it really is not”, o
ancora a evincere dal testo “a message far other than that which was put
H. Super (ed.), Matthew Arnold: Letters & Essays in Criticism, Ann Arbor: University of
Michigan Press, 1962, pp. 258-285. Giustapporre i due saggi è giustificato dal fatto che
“The Critic as Artist” nasce come tipico confronto polemico di Wilde proprio di “The
Function of Criticism at the Present Time”, e con gli assunti critici e le implicazioni
ideologiche che questo definisce: il titolo con il quale apparve la prima redazione del
saggio wildiano è infatti “The True Function and Value of Criticism”, The Nineteenth
Century, XXVIII, 161, July 1890, pp. 123-147.
1
Ivi, p. 270.
2
Ivi, p. 283.
3
Ibidem.
4
Oscar Wilde, “The Critic as Artist”, cit., p. 1015.
5
Ivi, p. 1030. Il saggio di Matthew Arnold si apriva, viceversa, sull’affermazione – af-
fermazione che chiudeva la seconda lecture di “On Translating Homer” (1861), in R. H.
Super (ed.), The Complete Prose Works of Matthew Arnold: On The Classical Tradition.
Ann Arbor: University of Michigan Press, 1960, p. 140 – che “[o]f the literature of
France and Germany, as of the intellect of Europe in general, the main effort, for now
many years, has been a critical effort; the endeavour, in all branches of knowledge,
theology, philosophy, history, art, science, to see the object as it really is”. Matthew
Arnold, “The Function of Criticism at the Present Time”, cit., p. 258.
LOGICA E SPAZIO DEL DISSENSO 163
1
into its lips to say”, poiché “the highest criticism is that which reveals in
2
the work of Art what the artist had not put there”. È nel rapporto con-
sapevole di ostentazione di sé, nella teatralità camp del gioco di ruoli ca-
ratterizzante ogni interazione sociale, che si esercita tanto in fase di pro-
duzione quanto di fruizione – vale a dire nell’opposto della neutralità me-
diatica invocata da Arnold – che si colloca il senso critico: “the highest
[…] form of criticism is a mode of autobiography”, come si è già riporta-
to, ma anche “there is no fine art without self-consciousness, and self-
3
consciousness and the critical spirit are one”.
È in rispetto di questo diritto alla irriverenza, all’insubordinazione nei
confronti dell’arbitrio dei codici interpretativi, allo overstanding, alla sur-
codifica e al fra-intendimento deliberato, che “the aesthetic critic rejects
these obvious modes of art that have but one message to deliver, and
seeks rather for such modes as […] make all interpretations true, and no
4
interpretation final”. L’arte perfetta aspira infatti alla condizione della
musica, la quale è perfetta perché non può rivelare il suo “ultimate
5
secret”; il Significato e la Verità coincidono con un segreto vuoto, con
“the secret that Truth is entirely and absolutely a matter of style”, un ef-
fetto retorico delle superfici che si affastellano a edificare – all’insegna
dell’artificio – un principio di veridicità (un principio demistificato quale
6
effetto, dunque); e in arte l’unica verità coincide con quella delle ma-
schere che si affastellano indefinitamente: “[a] Truth in art is that whose
7
contradictory is also true”.
L’opera d’arte camp, insomma, analogamente al soggetto presieduto
dal medesimo orizzonte ontologico, è non tanto – nella famosa formula
suggerita da Umberto Eco – un’opera ‘aperta’ quanto un’opera vuota:
un’opera che riconosce cioè la propria fondamentale decentratezza, e che
in quanto tale si consegna indefinitamente all’interpretazione nella con-
sapevolezza dell’arbitrio insito nell’arrestarsi del processo interpretativo,
e che vive tale consapevolezza in chiave ludica, traducendo la propria
mancanza di potere sulle condizioni di ricezione in un paradossale van-
taggio, la maggior visibilità (“[d]iversity of opinion about a work of art
1
Ivi, p. 1029.
2
Ivi, p. 1058.
3
Ivi, p. 1020.
4
Ivi, p. 1031.
5
Ibidem.
6
Oscar Wilde, “The Decay of Lying” (1889), in The Complete Works, cit., p. 981.
7
Oscar Wilde, “The Truth of Masks” (1885), in The Complete Works, cit., p. 1078.
164 ESUBERANZA
1
shows that the work is new, complex, and vital”), e il riscontro che ap-
partiene al regime pubblicitario, mercificato e prostituito, dal quale l’arte
2
nel Novecento non prescinde – al limite, in chiave camp, lo ostenta.
1
Mi permetto di rinviare, in merito al rimando all’autore e all’intenzionalismo insito
nelle invocazioni di rispetto della Storia o dell’Opera, al mio “Verso una rinascita
dell’autore?”, cit.
2
Tra coloro che che rimandano alla comunicazione obliqua, o indiretta, quale istanza
dell’autorità autoriale e della necessità di contestualizzazione storica, oltre a Booth, si
vedano P. D. Juhl, op. cit., pp. 64-65; J. Reichert, op. cit., p. 64; Margaret A. Rose, Pa-
rody//Metafiction, cit., pp. 112-113; e Stanley Fish, “Biography and Intention”, in Wil-
liam Epstein (ed.), op. cit., pp. 11-12.
3
Una discussione dell’ironia citazionale è offerta in Marina Mizzau, L’ironia. La con-
traddizione consentita, Milano: Feltrinelli, 1984, pp. 64-71.
4
Wayne Booth, A Rhetoric of Irony, cit., p. 240.
5
Il termine suspensive irony è stato proposto, in opposizione alla disjunctive irony che
caratterizzerebbe il modernismo (frammentaria ma tendente a una ricomposizione), in
Alan Wilde, Horizons of Assent: Modernism, Postmodernism, and the Ironic Imagination,
Baltimore: Johns Hopkins University Press, 1987. Per la distinzione tra stable e unstable
irony si veda invece Wayne Booth, A Rhetoric of Irony, cit. Sulle problematiche del-
LOGICA E SPAZIO DEL DISSENSO 167
ria), di pari passo alla quale sembra andare la fine contemporanea della
rigida distinzione tra i generi, il che diviene significativo alla luce della
tesi di E. D. Hirsch – l’intenzionalista per eccellenza – secondo la quale
l’autore determina il significato e il ‘genere intrinseco’ del testo con un
1
medesimo gesto.
2
In quanto equivalente discorsivo della travestimento, l’ironia presenta
un’ambiguità di analoghe valenze e di pari potenzialità. L’ironia può
configurarsi infatti quale discorso di secondo grado che obliquamente
veicola – esprime – un’interiorità, sia pur dissimulata. Al pari della ma-
schera del passing, può cioè configurarsi come codice a suo modo investi-
to di una dimensione segreta (la Verità testuale, l’intenzione autoriale, la
Natura soggiacente), di per sé stabile e decriptabile in quanto tale. Que-
sta implicazione dell’ironia – come peraltro si osservava a proposito del
suo equivalente psichico ed esistentivo – si traduce in una pratica che
può essere indicata come reazionaria o come ‘modernista’, che al dato
superficiale fa corrispondere un dato profondo, inequivocabile qualora si
disponga una corretta interpretazione. Sono questa correttezza e questa
espressività, ripostulate da una nozione di ironia ‘stabile’, ad avere spinto
parte della critica più recente a rifiutare la nozione di camp-come-
modalità-ironica in favore del camp-come-parodia, di cui si è sopra evi-
denziata la radicale ambiguità che all’interno del medesimo orientamen-
to critico si fa coincidere con la sovversività radicale del camp. Cynthia
Morrill, ad esempio, sostiene che
l’ironia – oltre al volumi già citati – è eccellente Linda Hutcheon, Irony’s Edge: The The-
ory and Politics of Irony, London: Routledge, 1994.
1
E. D. Hirsch, Validity in Interpretation, New Haven: Yale University Press, 1967, p.
101. Va peraltro osservato come, anche in tale prospettiva, l’autore non venga comple-
tamente amputato dall’attività interpretativa. L’oscillazione tra i generi e la reticenza
testuale possono infatti essere ascritte a una deliberata strategia autoriale. L’ironia cita-
zionale, a sua volta, non esclude necessariamente l’autore, il quale rimane quale ‘luo-
go’ di flusso delle citazioni: una menzione, infatti, assume valenze tanto diverse quan-
to lo sono i contesti in cui viene inserita, da cui l’interesse del determinare chi e perché
(in quale direzione, dunque) citi. Così conclude del resto Marina Mizzau, affermando
come si faccia sempre riferimento alla “competenza comunicativa (linguistica, paralin-
guistica, socioculturale, ideologica) dei parlanti, e alla competenza interpersonale, cioè
alla conoscenza reciproca delle rispettive competenze”. Marina Mizzau, op. cit., pp. 24-25.
2
“L’ironie”, scrive ad esempio Jean Starobinski, “n’est rien d’autre que la quintes-
sence spirituelle du masque”. Jean Starobinski, op. cit., p. 209.
168 ESUBERANZA
1
Cynthia Morrill, op. cit., pp. 114-115.
2
Cfr. supra, la nota 1 a pagina 112.
LOGICA E SPAZIO DEL DISSENSO 169
1
l’osservatore che percepisce come ironica la situazione” – a prescindere
dal terzo elemento, l’oggetto di irrisione, significativamente ricollocato su
uno dei due elementi citati. Quest’ultimo può infatti coincidere con la
sede dell’ironia, oppure con il locutore, in una modalità altamente pros-
sima all’autoironia. Nel camp inintenzionale l’oggetto di irrisione è in-
scindibile dalla sede dell’ironia (il testo su cui si esercita la decodifica
‘perversa’), e solo attraverso questo si colpiscono le modalità di produ-
zione del testo pervertito. Non è necessario, si ricorderà, che le allusioni
o il ‘secondo livello’ ironico siano compresi dalle intenzioni autoriali. Nel
camp deliberato, viceversa, l’ironia investe il locutore camp, nel quale il
fruitore è invitato a partecipare al medesimo gioco. Locutore, fruitore e
sede dell’ironia risultano così sovrapposti in un medesimo ‘luogo’ ironi-
co. In entrambe le tipologie ironiche (citazionale e referenziale), peraltro,
l’intenzionalità autoriale sopravvive solo a costo di una radicale rinego-
ziazione rispetto allo statuto sacrale dell’autorità autoriale e al paradigma
mimetico-espressivo, che la tradizione critica liberal-umanista ha eletto a
2
categoria di validità dell’artistico.
In tal senso può essere utile ripensare alla qualità di ‘secondo grado’
che investe l’ironia e il costituirsi discorsivo (oltre che esistentivo) del
camp. Il secondo grado del linguaggio, nel suggerimento di Roland Bar-
thes, coincide con l’autoconsapevolezza (del linguaggio nel linguaggio:
“J’écris: ceci est le premier degré du langage. Puis, j’écris que j’écris: c’en
est le second degré”), la mise en abyme potenzialmente infinita ad ogni
3
luogo verbale fra i suoi strati discorsivi. Ma il “second degré”, scrive Barthes,
est aussi une façon de vivre. Il suffit de reculer le cran d’un propos,
d’un spectacle, d’un corps, pour renverser du tout au tout le goût que
nous pouvions en avoir, le sens que nous pourrions lui donner. Il existe
des érotiques, des esthétiques du second degré: (le kitsch, par exem-
ple). Nous pouvons même devenir des maniaques du second degré: re-
jeter la dénotation, la spontaneité, le babil, la platitude, la répétition
innocente, ne tolérer que des langages qui témoignent, même légère-
1
Marina Mizzau, op. cit., p. 20.
2
Degno d’attenzione è il fatto che Linda Hutcheon – pur evidenziando che
l’intertestualità parodica desacralizzi l’autore e l’etica romantico-capitalista “that made
literature into a commodity to be owned by an individual” – non prescinda da un enco-
ded intent nella decodifica della parodia stessa. Il che le suggerisce che “[p]erhaps the
time has come to rethink our modernist anti-Romanticism.” Linda Hutcheon, A Theory
of Parody, cit., pp. 4-5, 84. È un ripensamento, insomma, a essere promosso, più che
un riallineamento su posizioni intenzionaliste di stampo mimetico-espressivo.
3
Roland Barthes, Roland Barthes par Roland Barthes, cit., p. 70.
170 ESUBERANZA
il n’est pas sincère. Qu’il n’est pas militant, et ne peut soutenir une
cause que provisoirement. Qu’il n’y tient pas. Que sa volonté d’être
ambigu est plus forte que son désir d’être compris. Il n’explique jamais
[…], ou bien ses explications sont contradictoires.2
1
Non è irrilevante notare a margine che Camus, nel descrivere la diffusione del ‘se-
condo grado’ nella cultura francese degli anni Settanta, elenchi camp, Kitsch e rétro fra
i suoi dispositivi di massa, e rimandi esplicitamente al volume citato di Patrick Mauriès
per il “manque de conviction” che caratterizza il bathmologo. Ivi, pp. 19, 45-46.
2
Si tornerà sull’estetica della ripetitività in relazione a Warhol, nella sua portata de-
mistificante, nella sezione 8.2.
174 ESUBERANZA
1
“J’aime, je n’aime pas: cela n’a aucune importance pour personne; cela, apparem-
ment, n’a pas de sens. Et pourtant tout cela veut dire: mon corps n’est pas le même que le
vôtre. Ainsi, dans cette écume anarchique des goûts et des dégoûts, sorte de hachurage
distrait, se dessine peu à peu la figure d’une énigme corporelle, appelant complicité ou
irritation”. Roland Barthes, Roland Barthes par Roland Barthes, cit., p. 121.
2
Particolare attenzione alla ricorrenza del party nella fenomenologia camp è dedica-
ta in Thomas Reed Whissen, op. cit.
LOGICA E SPAZIO DEL DISSENSO 175
Come dire: quel queer che è circolato nel Novecento quale strumento di
stigmatizzazione, in quanto insulto, per il soggetto omosessuale, può es-
sere stato un paradossale strumento di aggregazione, o di riconoscimen-
to, fra coloro che partecipavano in prima persona dello stigma o che più
semplicemente non partecipavano del grado di discorso stigmatizzante –
e attraverso questo a un ordine, a un dettato, culturale.
Oltre ad indicare le modalità di articolazione del linguaggio e della
soggettività sul grado secondo che presiedono al camp e che sono svi-
luppate da Camus quale esercizio di – e sulla – bathmologia, Barthes of-
fre peraltro una straordinaria chiave a quanto si evidenziava, nelle pagine
precedenti, come indecidibile ambiguità del camp, che coniuga qualità
antitetiche – nelle parole riportate di Richard Dyer, “theatricality and au-
thenticity […] intensity and irony, a fierce assertion of extreme feeling
1
with a deprecating sense of its absurdity”. Ma anche che coniuga il di-
sprezzo e la distanza cinica con l’apprezzamento e il coinvolgimento. La
chiave è anche qui la secondarietà, insita nella ‘trasgressione della tra-
sgressione’:
Libération politique de la sexualité: c’est un double transgression, du
politique par le sexuel, et réciproquement. Mais cela n’est rien: imagi-
nons maintenant de réintroduire dans le champ politico-sexuel ainsi
découvert, reconnu, parcouru et libéré… un brin de sentimentalité: ne
serait-ce pas la dernière des transgressions? la transgression de la
transgression? Car en fin de compte ce serait l’amour: qui reviendrait:
mais à une autre place.2
complesso rende conto anche del perché la modalità ironica del camp
possa averlo caratterizzato come codice stabile, nel quale a un primo li-
vello di enunciazione corrisponde un secondo livello di intrinseca natu-
ralità. Barthes non manca infatti di registrare come l’esistenza al secondo
grado risulti eversiva solo a patto che il processo di oscillazione e di stra-
tificazione discorsiva sia inarrestabile – che cioè il ‘grado secondo’ si tra-
duca in un movimento più che in una rinnovata stabilità, sia pure secon-
daria: che ci si muova insomma dal secondo al terzo, e poi al quarto li-
vello, per tornare a ritroso, e così via in indefinita mobilità.
Dès qu’il se pense, le langage devient corrosif. A une condition cepen-
dant: qu’il ne cesse de le faire à l’infini. Car si j’en reste au second de-
gré, je mérite l’accusation d’intellectualisme […]; mais si j’ôte le cran
d’arrêt (de la raison, de la science, de la morale), si je mets
l’énonciation en roue libre, j’ouvre alors la voie d’une déprise sans fin,
j’abolis la bonne conscience du langage.1
Il Kitsch quale estetica del secondo grado è in tal senso un effetto d’irri-
gidimento au second degré, in quanto ratificato culturalmente come tale:
come prodotto derivativo e inefficace. Il Kitsch insomma non sembra
minacciare la ‘buona coscienza del linguaggio’, perché al contrario risulta
postulato dal processo stesso di costituzione della buona coscienza me-
desima. Prodotto inautentico, insincero e fallimentare, il Kitsch costitui-
sce senza dubbio uno strumento di sanzione della soglia di autenticità,
sincerità e successo, e con essa dell’autorità culturale che – investita del
potere di discriminazione fra originale e copia – decreta i principi opera-
tivi nella codifica di autenticità, sincerità e successo. Non si dà successo
senza fallimenti cui contrapporlo, autenticità senza inautenticità, sinceri-
tà senza menzogna.
Il camp, in quanto ad esempio prodotto da una ‘maniacalità del
Kitsch’, che trasforma un secondo grado in oggetto di culto dalle para-
dossali valenze di originalità, può essere inteso come versione legittima
di bathmologia, perché pone in gioco indefinitamente la mobilità sui
gradi del discorso. Ma il rischio di irrigidimento sul grado secondo inve-
ste anche il camp, qualora sia inteso o messo in pratica come codice sta-
bile. Basti pensare in tal senso alla stabilità presupposta dal camp-come-
passing, o al camp come codice di articolazione di una soggettività omo-
sessuale che attraverso di esso si esprime, sia pur indirettamente, sulla
1
Roland Barthes, Roland Barthes par Roland Barthes, cit., p. 71.
178 ESUBERANZA
1
passion”. Il soggetto ‘invertito’ è tale perché il suo pensiero si modula
sulla pratica dell’inversione, e il suo pensiero è tale perché prodotto ‘na-
turalmente’ da un soggetto che vìola – nella propria stessa configurazio-
ne ontologica – i principi di normalità.
È in ragione di tale convergenza che del resto negli anni recenti si è
venuto riconcettualizzando la pratica e il desiderio sessuale non come
prodotti da un’insopprimibile pulsione libidinale, in accordo alla teoria
del desiderio come manque, bensì come forma di ‘dissidenza’ che si eser-
2
cita a livello del desiderio. Il dissenso nei confronti dei principi di nor-
malità, che li denuncia come un effetto di cultura più che di natura, di
3
normalità (prescrittiva, più che neutralmente descrittiva), si eserciterà
dunque tanto nella sfera del desiderio sessuale quanto nella sfera del-
l’estetico e della legittimità ermeneutica – in breve, nei confronti degli
imperativi che presiedono alla cooperazione fra testo e lettore quali si
sono sopra brevemente presentati: l’intenzione autoriale, ovvero lo sfondo
culturale e linguistico cui originariamente si (ri)conduce il testo. In base a
quanto affermato nelle pagine precedenti, non è irragionevole sostenere
che la collaborazione con i criteri di legittimità ermeneutica risulti in tal
senso essere, per usare una metafora agonistica, un vendere il territorio
al ‘nemico’. Il tradimento delle intenzioni ‘originarie’ e il travestimento
psichico della decodifica camp (il collaborare fingendo di credere, il cre-
dere fingendo di collaborare, il rifiutare sia credenza che collaborazione,
fingendo entrambi) corrisponderanno allora a una pratica del doppio gioco.
Se si vuole inquadrare il camp come codice, questo sarà allora sì tale –
ma di un genere che può sovvertire lo statuto stesso di ‘codice di relazio-
ne’: quello statuto che cioè prevede un sistema arbitrario, ma stabilmente
tale, nel quale un significato è raggiungibile in modo legittimo applican-
do le regole interne al codice stesso. Il codice camp è invece secondario,
e funzionale a un’operazione di sabotaggio dei segni e dei codici primari,
demistificati come codici non di relazione bensì di sanzione. Esso promuove
il conseguimento, più che di un sapere positivo, affermativo, di un sapere
negativo (che evince “an accurate description of what has never oc-
1
Oscar Wilde, De Prufundis, cit., p. 466.
2
“Sexual Dissidence” è ad esempio il titolo del volume citato di Jonathan Dollimore,
che assume tale chiave a prospettiva di lettura della storia della perversione, e della
sovrapposizione fra epistemologia, ontologia e sessualità, cui si è qui solo accennato.
3
“[I]f gender is socially constituted so too is desire. Desire is informed by the same
oppressive constructions of gender that we would willingly dispense with. Desire is of
its ‘nature’ saturated by the social”, scrive Dollimore in Sexual Dissidence, cit., p. 325.
LOGICA E SPAZIO DEL DISSENSO 181
curred”; “the object as in itself it really is not”; “what the artist had not
1
put there”). Esso insomma si configura come un codice di dis-senso, che
sabota i presupposti del senso – nella teatralizzazione di un sapere inter-
rogativo – negando, e/o deviando, i presupposti medesimi in quanto pre-
2
supposti del con-senso: del ‘senso comune’. La decodifica irrispettosa
dei limiti dell’interpretazione, scrive Eco, corrisponde a un uso del testo,
non alla sua interpretazione. E quella camp promuoverà allora un ‘uso’
del testo che di fatto sovverte – ma dall’interno – la logica di produzione
semantica, simbolica e culturale borghese: la logica cioè del dominio del
valore di scambio su quello, sì, d’uso (“It is a very sad thing that nowa-
days there is so little useless information”, in una delle celebri boutades
3
wildiane).
Qualora la metafora sessuale venga utilizzata per disegnare il rapporto
fra lettore e testo, quella camp sarà senza dubbio una decodifica come
stupro – irrispettosa delle intenzioni dell’autore e del suo testo, dei codici
di decenza e di responsabilità collettiva, improduttiva semanticamente (o
produttiva di un parto indesiderato, e in quanto tale ‘mostruoso’), che
usa in chiave criminale. Si è visto che il distacco camp è stato in larghis-
sima misura inteso come forma di disimpegno acritico, un sollievo psi-
chico indotto dalla sospensione dei valori di giudizio critico, di discrimine
e di intendimento morale; ed è in questa veste che Sontag poveva addi-
tare nel camp un solvente della morale che aveva storicamente agevolato
l’integrazione omosessuale nella società borghese. Ma in base a questo
s’è venuto evidenziando il camp può essere inteso – più che (o invece
che, semplicemente) come atteggiamento acritico – come atteggiamento
ipercritico, che nell’aspetto ludico della sovrainterpretazione (altra cate-
goria stigmatizzata, si ricorderà, dai vincoli di legittimità interpretativa)
addita una valenza critica nei confronti dell’economia linguistica, finali-
sticamente intesa alla produzione.
La “conspicuous consumption” dei segni borghesi da parte delle sotto-
1
Le frasi in questione sono quelle, precedentemente citate, dal wildiano The Critic as
Artist, cui si è qui aggiunta l’enfasi.
2
In altri termini, l’ontologia, l’etica e l’ermeneutica camp presuppongono una a-
teologia o contro-teologia, nella quale lo erring in quanto ‘errare’ (peregrinare senza
direzione o senso) ed ‘errore’ (la deviazione dai principi e dal fine della Verità) si so-
vrappongono nella costituzione di una modalità esistentiva e linguistica di stampo op-
positivo. Sull’errare si veda, oltre a Jonathan Dollimore, Sexual Dissidence, cit., Mark C.
Taylor, Erring: A Postmodern A/theology, Chicago: University of Chicago Press, 1984.
3
Oscar Wilde, “A Few Maxims for the Instruction of the Over-Educated”, cit., p.
1203 (corsivo mio).
182 ESUBERANZA
culture giovanili, sostiene Hebdige (cfr. il capitolo 5), è investita nella co-
stituzione di un senso d’identità alternativo alle formazioni culturali or-
todosse. La “conspicuous consumption” del camp può partecipare del
medesimo processo, nel quale il dispendio, l’eccesso di consumo e la vio-
lenza si consegnano come funzionali a (e indicativi di) una eterodossia, o
se si vuole di una ‘para-dossia’, che procede a un tempo con la ‘parafilia’
(l’anormalità insita nella devianza compulsiva) delle pratiche sessuali e –
attraverso queste – delle modalità di relazione testuale. È proprio in
quanto estetica dello ‘stupro’ testuale, della violenza interpretativa e rap-
presentativa, che al camp si può del resto addebitare una complicità radi-
cale con il sistema patriarcale (la metafora dello stupro è in tal senso esem-
plare: e si pensi anche solo alla rappresentazione ‘sospetta’ della femmi-
nilità in chiave camp). Ma lo ‘stupro’ camp può essere inteso – alla luce
di quanto si è detto in merito alla portata straniante delle rappresenta-
zioni camp (del femminile e tout court) – come una più ‘radicale’ articola-
zione della teatralizzazione demistificante dell’effettiva violenza che si
cela oltre la (o all’interno della) facciata rispettabile e legittima della pras-
si e teoria liberal-umanista di interpretazione obiettiva, nella quale il cri-
tico responsabile restituisce semplicemente una versione oggettiva (af-
fermativa e positiva, in quanto ‘non negativa’) del sé e del mondo. Della
prassi e teoria cioè che presuppone il distacco e un disimpegno del criti-
co, ma nella direzione di una neutralità arnoldiana, di una im-parzialità
rispettosa della piena trascendenza immanente del testo. Lo stupro camp
può insomma straniare quella che non risulterà forse azzardato chiamare
la violenza della verità: la violenza interpretativa che presiede alla costitu-
zione di una imparzialità del soggetto percipiente, e la violenza – questa
volta, ben più concreta – che essa è venuta legittimando attraverso i di-
spositivi della normalità: del naturale, del giusto e del vero.
La metafora dello stupro è operativa anche se confrontata con la posi-
zione femminista (o con parte di essa) circa le implicazioni della porno-
grafia, e in particolare delle sue versioni ‘estreme’ (parafiliche). Per anni
stigmatizzata in quanto maschilista versione di una femminilità reificata,
la pornografia è stata negli anni più recenti investita di un (potenziale)
valore liberatorio della sessualità femminile, e attraverso questo di un
(sempre potenziale) portato straniante nei confronti della violenza extra-
1
fittizia da parte dell’ordine patriarcale della cultura. In prima battuta la
1
Si veda in proposito Nadine Strossen, In Defense of Pornography: Free Speech & The
Fight for Women’s Rights, New York: Simon & Schuster, 1995, nel quale – oltre ad arti-
LOGICA E SPAZIO DEL DISSENSO 183
1
Judith Butle, Gender Trouble, cit., p. 31.
2
Jonathan Dollimore, Sexual Dissidence, cit., pp. 310-311.
3
Fredric Jameson, “Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capitalism”, cit., p. 60.
4
Ivi, p. 61.
LOGICA E SPAZIO DEL DISSENSO 185
‘meglio’ in questione era indicato come l’esito del confronto fra la singo-
la istanza artistica e la sua “relation to a central standard (and if this is
1
not done, how are we to get at our best in the world?)”. È nel confronto
parodico con le modalità di costituzione di questa ‘élite di primo grado’,
e con il central standard arnoldiano, che si articolano l’aristocraticismo,
l’élite di secondo grado e lo standard marginale del camp.
In uno dei ricorrenti tentativi di fornire una definizione al camp (di cui
è ovvia la fallimentarietà, alla luce di quanto si è osservato nei primi capi-
toli di questo lavoro), Mark Booth ha sostenuto che “to be camp is to
present oneself as being committed to the marginal with a commitment
2
greater than the marginal merits”. La definizione di Booth risulta signifi-
cativa se svincolata dalle sue velleità definitorie e in ultima analisi ‘acriti-
3
che’. “A commitment greater than the marginal merits”: la definizione
ribadisce in effetti il valore trascurabile dell’oggetto d’apprezzamento camp
come dato naturale, e incontestabile in quanto tale; il central standard ri-
sulta così riaffermato, o meglio assolutamente dispensato da contesta-
zione di sorta. Risulta cioè significativa se riorientata alla descrizione del-
la marginalità camp nella costituzione di un para/dossale élite del margi-
ne, di una contro-centralità marginale e secondaria che demistifica la
centralità degli standard e dell’identità borghese dotata di carattere pro-
fondo, stabile e transtorico.
Il ricorso alla nozione di marginalità rende infatti conto dell’investi-
mento di valore nel fallimento estetico e morale, vale a dire del marginale
rispetto alla centralità dello standard liberal-umanista. Ma anche dell’in-
vestimento di valore nelle superfici: nella marginalità, cioè, in quanto e-
steriorità – lo stile a scapito del contenuto, l’apparenza sulla sostanza, la
maschera e la performance sull’identità profonda, la surcodifica rappre-
sentativa sulla restituzione im-mediata, la contingenza e località del sog-
getto sull’essenza che fonda una profondità trascendente dello stesso, a
prescindere dalle complesse dinamiche di (auto)definizione, di differen-
ziazione e di processualità della costruzione culturale all’interno di cui il
soggetto è localizzato. Nell’eleggere la marginalità a centro, a standard di
valore culturale, il camp teatralizza insomma una doppia conoscenza, un
doppio processo polemico, poiché apprezza ciò che culturalmente è de-
1
Fredric Jameson, “Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capitalism”, cit., p. 61.
2
Mark Booth, op. cit., p. 18.
3
In accordo alla definizione data da Booth, ad esempio, non è dato distinguere fra
camp e banalissimo ‘cattivo gusto’, fra atteggiamento ludico e/o demistificante e pau-
perità di capitale culturale. In ragione di ciò, la ‘definizione’ non definisce alcunché.
186 ESUBERANZA
1
Kate Davy, “Fe/Male Impersonation”, cit., p. 145.
2
Si allude, ovviamente, a F. R. Leavis, The Great Tradition (1948), nel quale il criterio
di greatness coincide con la centralità di standard arnoldiana, e della tradizione critica
liberal-umanista. È in evidente opposizione a questi principi che si formulerà un cano-
ne del camp che rispetti le sollecitazioni teoriche del camp stesso, e che non imponga
criteri da esso contestati e in ultima analisi delegittimati.
3
Il riferimento è a Harold Bloom, The Western Canon, New York: Harcourt Brace, 1994.
LOGICA E SPAZIO DEL DISSENSO 187
1
Parziale misura perché l’equazione fra sapere e potere rischia di trascurare
l’eventualità che una mancanza di conoscenza si trasformi in una forma di potere, co-
me ha mostrato splendidamente Eve Kosofsky Sedgwick in “Privilege of Unknowing”,
Genders, 1, March 1988, pp. 102-124. L’intera storia della critica liberal-umanista può
essere indicata in questa prospettiva come un esempio di negazione dei saperi (margi-
nali ed eterodossi) che si è coniugata con un esercizio di potere interpretativo.
2
Sul processo di costituzione di naturalità e profondità come basato su un parallelo
processo di evacuazione della soggettività ideologicamente non organica, esemplificato
a partire dalla rappresentazione dell’aristocrazia da parte della nascente egmonia bor-
ghese, è imprescindibile Thomas King, op. cit., che si è utilizzato nella lettura del brano
firbankiano condotta nel capitolo 1.
190 ESUBERANZA
1
turale degli anni recenti, come una “politics of dissident reading”. È un
dissenso, s’è detto, come deviazione del desiderio sessuale, ermeneutico
ed estetico, che si esercita nella sovversione degli ordini di plausibilità
delle tre sfere tanto del presente quanto del passato. Sovversione che
scaturisce di fatto dalla sovrapposizione forzata fra i due piani temporali,
e dalla frizione che questa produce. Recuperare il Kitsch tardovittoriano e
rifunzionalizzarlo come marchio d’identità eversiva, come è avvenuto
all’interno delle controculture giovanili degli anni Sessanta (e specifica-
mente dei Mods: si confronti il capitolo 8), significava infatti porsi in con-
trasto con la dinamica del consumo capitalista e con la logica stessa di
produzione di autorità culturale (l’élite ‘centrale’) che la dinamica pre-
suppone, rafforza e investe nella ratifica di sé – sia pur a partire da esse.
L’opposizione tra codici estetici/comportamentali di naturalità e codici
desueti (e dunque ‘innaturali’: il Kitsch), e la scelta di costituirsi all’inse-
gna del secondo termine, vengono cioè caricate di un valore oppositivo
ironico (di un’ironicità, è ovvio, al ‘secondo grado’). Un valore insito nel
recuperare proprio il passato di ciò che si contesta, proprio le scorie del
capitalismo e della grandezza borghese. Recuperare il Kitsch tardovitto-
riano significa porsi in contrasto con il presente che ne decreta l’obsole-
scenza, ma anche con il passato – e del passato si recupera infatti il mo-
mento deteriore, il Kitsch tardovittoriano appunto, vale a dire la ‘cultura’
piccolo-borghese e filistea che i Matthew Arnold stigmatizzavano – ma
che in ultima analisi postulavano nella definizione di un principio di ‘Ve-
ra (o Alta) Cultura’, e di se stessi quali depositari del principio medesimo.
Ma ripensare il camp quale sapere del margine significa anche ricono-
scere, e confrontarsi con, lo spettro del ‘contenimento’. Significa cioè ri-
conoscere che la trasgressività – localmente determinata da una soglia
trasgredita – possa essersi venuta alienando dalle pratiche del margine in
uno stato culturale dominante che si dà non più come pienezza e profon-
dità organica, bensì come cultura delle superfici e, a sua volta, del margi-
ne. Il ‘sapere del margine’ corrisponderà allora a un innegabile – benché
non totalizzante – processo di appropriazione del margine, che questa volta
vedrà il margine non come soggetto d’azione (attraverso l’appropriazione
delle modalità dominanti e il loro riorientamento trasgressivo in via pa-
rodica), bensì come soggetto agito: attraverso l’appropriazione delle mo-
1
Sulla politica della lettura del dissenso, che presiede ad esempio al materialismo
culturale britannico, si prenda visione del citato Faultlines di Alan Sinfield (il cui titolo
è, significativamente, Cultural Materialism and the Politics of Dissident Reading).
LOGICA E SPAZIO DEL DISSENSO 191
Altri tradimenti
(con la chiave contorta per un’architettura sghemba)
Ripensare il camp come sapere del margine significa in ultima analisi ri-
proporre a urgenza la questione del carattere postmoderno del camp, e
in particolare della straordinaria consonanza con il processo di ripensa-
mento della Storia, del Soggetto e della rappresentazione (in fase di pro-
duzione così come interpretativa), che la teoria culturale angloamericana
è venuta producendo a partire dai tardi anni Settanta. Si è detto sopra,
ad esempio, che la rappresentazione camp è presieduta da un’enfasi di
parzialità, da una sua esibizione istrionica; e tanto il neostoricismo nor-
damericano quanto il materialismo culturale britannico muovono a parti-
re dalla consapevolezza dell’ineludibilità di questo posizionamento par-
zializzante in ogni processo rappresentativo, e in particolare nella costitu-
1
zione di una Storia e di un contesto.
Una Storia, quella affermatasi in sede critica, che enfatizza il carattere
ideologico e fittizio (mendace) della narrazione, l’esercizio di potere insi-
to in essa, e la dinamica interpretativo-valutativa che presiede alla sua
2
formulazione e legittimazione. La problematizzazione della Storia e del-
le modalità rappresentative ascrivibile alla teoria culturale contempora-
nea sembra cioè avvalorare la significatività del camp per la gender theory
(si confronti il capitolo 4), quella significatività che Andrew Ross riscon-
tra affermando che il camp vada inteso “as a much earlier, highly coded
way of addressing those questions about sexual difference which have
3
engaged non-essentialist feminists in recent years”.
1
Intorno alla problematizzazione contemporanea della Storia, con particolare riferi-
mento al testualismo neostoricista, si vedano i già citati lavori a cura di Barbara Gastal-
dello, e di Vita Fortunati e Giovanna Franci.
2
Un potere che peraltro non si manifesta in modo egemonico, bensì attraverso una
pluralità di interpretazioni determinate da differenti patrimoni ideologici.
3
Andrei Ross, “Uses of Camp”, cit., p. 161.
194 TIRANDO LE FILA
1
Proprio al rapporto omoerotico della collaborazione fra Wordsworth e Coleridge è
dedicato il terzo capitolo – “The Marinere Hath his Will(iam): Wordsworth’s and Cole-
ridge’s Lyrical Ballads” – di Wayne Koestenbaum, Double Talk: The Erotics of Male Lite-
rary Collaboration, New York: Routledge, 1989, pp. 71-111.
ALTRI TRADIMENTI 195
1
postmoderna denuncia quest’ultima come una “cultural dominant”, vale
a dire come la modalità di (auto)rappresentazione culturale propria del
tardo capitalismo, del capitalismo postindustriale che nella vacuità e nel
decentramento troverebbe uno straordinario strumento di dominazione.
La trasgressività, del camp o di quant’altro, esiste quale funzione di un
limite e di una norma (e la trasgressione della trasgressione, si ricorderà,
può consistere nel ritorno a ritroso, o nell’innalzamento esponenziale,
2
sui gradi del discorso). Qualora tale normalità si sia riarticolata su basi
performative, su una sostanziale assenza di profondità, le strategie che
potevano essere eversive nella fase classica della borghesia non sarebbe-
ro più tali. E in effetti risulta discutibile la posizione di chi identifica nelle
prassi del postmoderno una costante d’eversività e di valore critico: non si
può ritenere che un intero stato culturale sia così diffusamente trasgressi-
vo o eversivo, mentre l’ordine, la gerarchia fra dominante e dominato,
rimane sempre uguale a sé, pur a fronte di un mutamento delle condi-
zioni e modalità storiche di controllo.
Chi, come Linda Hutcheon, argomenta (con persuasività, peraltro) la
portata demistificante del postmoderno sembra in effetti mosso da un
desiderio di recupero all’arte di quella valenza critica nei confronti delle
modalità di produzione borghese riconducibile, prima ancora che al po-
stmoderno, agli ideologi del moderno. A ciò si aggiunge una significativa
distanza, in merito alla dimensione ‘democratica’ – quella dimensione
anti-elitaria che, con la celebrazione della cultura popolare da parte di
Leslie Fiedler, ha segnato le prime riflessioni apologetiche sul postmoder-
3
no – che l’arte modernista, e le avanguardie storiche, negavano a proprio
fondamento. In seconda battuta va registrata la distanza fra la valenza
critica del postmoderno e quella del modernismo in relazione al fatto che
la categoria di postmoderno invade l’extra-artistico mettendone in crisi la
distinzione con l’artistico. Lo Zeitgeist postmoderno è infatti presieduto
dalla ‘testualizzazione’ del reale, oltre che dal rifiuto delle gerarchie fra
forme e mezzi artistici da un lato, e cultura popolare dall’altro. Anche qui
la questione della ‘democraticità’ è determinante, ed essa si offre anche a
un’ulteriore precisazione sul rapporto fra camp e postmoderno.
A partire dalla rilevanza che il camp, o la “camp/theatrical sensibility”
1
Fredric Jameson, “Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capitalism”, cit., p. 55.
2
Imprescindibile sulle modalità della trasgressione, oltre a Jonathan Dollimore, Sex-
ual Dissidence, cit., è l’eccellente Peter Stallybrass and Allon White, The Politics and Po-
etics of Transgression, London: Methuen, 1986.
3
Si tornerà su Fiedler e sulla questione della ‘democraticità’ nella Parte Terza.
196 TIRANDO LE FILA
1
Al problema della ‘consapevolezza’ in chiave costruzionista si è già accennato nel
capitolo 2 a proposito della distinzione fra camp intenzionale e inintenzionale.
2
Il che giustifica come le rappresentzioni camp possano essere state, in date fasi e
spazi della storia del Novecento, promosse e fruite all’interno della cultura dominante
che non per questo è stata spinta ad alcun ripensamento di sé. Esemplare in tal senso
il caso della ‘femminilità’ di una Mae West, che oltre a essere un’icona del pubblico
conservatore nel 1971 fu intervistata come ‘regina del camp’ da Playboy, sulla cui rap-
presentazione politicamente discutibile non sembrano esservi dubbi. Cfr. Robert C.
Jennings, “Mae West: A Candid Conversation With the Indestructible Queen of Vamp
ad Camp”, Playboy, January 1971, pp. 74-78.
3
Si confronti la nota 3 alla pagina precedente. Nel materialismo culturale la scelta è
198 TIRANDO LE FILA
1
Il sospetto che l’atteggiamento di Dollimore implichi una matrice essenzialista era
già stato articolato nel capitolo 4.
2
Che la versione primaria del camp coincida per Dollimore con l’anestetico della
morale predicato da Sontag risulta poi clamorosamente contraddittorio con quanto
altrove sostenuto a proposito di Oscar Wilde, la cui estetica trasgressiva (e altamente
aggressiva nei confronti della morale borghese), e la cui brutale condanna da parte
delle istituzioni aprono il volume dal quale le considerazioni sul camp – introdotte a
partire da Wilde, del resto – sono tratte.
3
Paul Rudnick and Kurt Anderson, “The Irony Epidemic: How Camp Changed from
Lush to Lite”, Spy, March 1989, pp. 93-98.
4
Ivi, p. 94.
5
Moe Meyer (ed.), op. cit. Al volume di è già fatto diffuso (benché rapido) riferimen-
to nei capitoli che precedono.
6
Paul Rudnick and Kurt Anderson, op. cit., p. 94.
202 TIRANDO LE FILA
1
Ibidem.
2
Ivi, p. 95.
3
Ivi, p. 96.
4
Ivi, p. 98.
5
Ivi, p. 95.
ALTRI TRADIMENTI 203
1
Anon., “Viva Straight Camp”, Esquire, CXIX, 6, June 1993, pp. 92-95.
2
Ivi, p. 92.
3
Paul Rudnick and Kurt Anderson, op. cit., p. 94, 96.
4
La tesi in questione – The Wild(e) Body: Camp Theory, Camp Performance, (di cui è
disponibile un abstract in Dissertation Abstracts International, LV, 1, July 1994, p. 84A),
discussa nel dicembre 1993 e supervisionata da Margaret Thompson Drewal, il cui
contributo (“The Camp Trace in Corporate America: Liberace and the Rockettes at
Radio City Music Hall”, pp. 149-181) è del resto centrale all’opera collettiva del 1994 –
è stata consultata avvalendosi del servizio della UMI Dissertation Services. In quanto
lavoro in via di pubblicazione, e in quanto utilissimo pendant al volume del gennaio
1994 (di cui denuncia peraltro le precarietà critiche), la consultazione si è rivelata –
prima ancora che giustificata – preziosa.
5
Cfr. Moe Meyer, “Introduction: Reclaiming the Discourse of Camp”, cit. L’utilizzo
di Meyer si sovrappone dunque polemicamente a quello di altri critici, e a quello che
qui si è fatto e si farà di camp, Camp, pop camp ecc. Qui e altrove, quando l’utilizzo
producesse eventuali fraintendimenti, si farà ricorso alle categorie di Meyer specifican-
done con la virgolettatura la provenienza specifica.
ALTRI TRADIMENTI 205
1
the production of social visibility”.
Il ‘Pop camp’ trova invece le proprie origini nel saggio di Sontag e
nella diffusione degli anni Sessanta, in quanto versione inoffensiva e a-
politica, cooptata e ricostituita dal sistema di produzione borghese della
s/oggettività. In questa operazione si indica di fatto una perversione di
secondo grado della formazione discorsiva del camp – perversione che si
esercita nel depotenziamento di una pratica a sua volta fondamental-
mente perversa, e che si configura come ‘traccia’ dell’originale ‘Camp’,
una volgare copia ‘residuale’, “a strategy of un-queer appropriation of
queer praxis whose purpose […] is the enfusement of the un-queer with
the queer aura, acting to stabilize the ontological challenge of Camp
through a dominant gesture of reincorporation”. Una traccia cioè non
più di stampo simulacrale (la copia di un originale assente), ma ben più
chiaramente intesa quale effetto di una brutale appropriazione ad altre
finalità e circolazioni. Meyer ne consegue, a fronte del riconoscimento
dell’indefinibilità che ha segnato l’intera riflessione critica (e che trovava
nell’affermazione da parte di Dollimore dell’esistenza di “different kinds
of camp” la strategia funzionale anche in chiave gay alla dicibilità critica
della nozione), che “there are not different kinds of camp. There is only
2
one. And it is queer”.
In effetti, l’opposizione binaria proposta da Meyer si configura come
opposizione fra una versione ‘pura’ (che coincide con la performatività
omosessuale) e una versione spuria (il ‘Pop camp’ degli anni Sessanta, il
Kitsch recuperato e quant’altro ascrivibile all’inintenzionalità della campi-
ness), che in effetti inverte la gerarchia suggerita da Sontag allorché indi-
cava che “Pure Camp is always naïve” e che “Camp which knows itself
3
to be Camp (‘camping’) is usually less satisfying”. Nell’invertire l’ordine
di priorità – inversione cui corrisponde il reclaiming – si evidenzia come il
processo di depoliticizzazione e di disimpegno promosso dallo statuto
sontaghiano del camp coincida con la sostanziale elisione della soggetti-
vità che (si) produce (attraverso) il ‘Camp’ in quanto corpus di strategie
performative investite nella produzione di visibilità di una soggettività
queer. Rimodellato come estetica e come modalità ironica (quella modali-
4
tà ironica cui si rimprovera un effetto stabilizzante), il ‘Camp’ si trasfor-
1
Ivi, p. 5.
2
Ibidem.
3
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 282.
4
Si confronti il capitolo 5, e in particolare il brano ivi citato di Morrill, il quale nega il
camp-come-modalità-ironica e conclude affermando che “the notion of Camp as iro-
206 TIRANDO LE FILA
nic role playing falls short of any destabilizing function”. Il brano di Morrill è in tal
senso esplicito, e non a caso è estrapolato da un saggio compreso dalla raccolta curata
da Meyer. Meyer, peraltro, sostiene in modo più articolato nel corso della propria tesi
dottorale che il vizio di Sontag sia da ricondursi da un lato alla lettura del camp come
ironia, e dall’altro alla sua riduzione a una sequenza di oggetti. Cfr. The Wild(e) Body:
Camp Theory, Camp Performance, cit., passim.
1
Mi permetto di rimandare in merito al mio “‘Oscar Wilde’ e i materialisti. Appunti
sulla scena critica radicale in Gran Bretagna”, cit. Utile introduzione è anche Marco
Pustianaz, op. cit.
ALTRI TRADIMENTI 207
In contrasto con il sistema binario dei gay and lesbian studies, formatosi a
partire dal pensiero della differenza sessuale di matrice femminista, la
prospettiva queer – consacrata, appunto, come queer theory sulla scena
critica – è presieduta da un modello costruzionista dell’identità, che in-
quadra contro ogni suggerimento essenzialista sia l’asse del sex sia quello
2
del gender quali esiti di un’interpellazione ideologica.
In quanto riconducibile ad una matrice essenzialista, la dicotomia fra
gay and lesbian si offre a una (facile) dismissione in quanto partecipe di
un “middle-class assimilationism”, che si appropria delle modalità costi-
tutive della soggettività borghese – unica, stabile e profonda – per ricon-
figurare il soggetto gay e lesbico a partire dalle medesime premesse. Alla
luce di questa considerazione, non è arbitrario inserire quanto emerso
nella parte precedente sulla fallimentarietà delle posizioni storiche pro-
dotte dalla collettività gay (cfr. il capitolo 3), nella fallimentarietà intrin-
seca all’essenzialismo dei gay studies. Il queer, viceversa, si edifica all’in-
segna degli atti di ‘performatività’ teorizzati da Judith Butler, i gesti stiliz-
zati di messa in scena di un’identità più che di sua espressione (si con-
3
fronti quanto già evidenziato nel capitolo 4).
Coerentemente a tali premesse ontologiche, nell’ambito della teoria
critica, alla queer theory è stato ascritto il lavoro di indagine sullo spettro
delle sessualità e sul loro rapporto con i processi di significazione, con gli
apparati ideologici e con la cultura dominante che si articola attraverso
una gerarchizzazione in sistemi binari. Il lemma stesso queer è ricco di
implicazioni e di sfumature storico-teoriche che è opportuno inquadrare
brevemente. Al contempo forma aggettivale, nominale e verbale, il lem-
ma queer – derivato dal germanico quer (obliquo, storto, traverso) – ha in
effetti una complessa storia che trascende abbondantemente il suo utiliz-
1
Moe Meyer, “Introduction: Reclaiming the Discourse of Camp”, cit., pp. 2-3.
2
La chiave della ‘interpellazione ideologica’ rende chiara la matrice althusseriana e
foucaultiana di tale costruzionismo, che esplicita l’ambiguità del subjectus. I ‘classici’ in
tale senso sono senz’altro Louis Althusser, “Idéologie et appareils idéologiques
d’Etat”, La pensée, 151, 1970, e Michel Foucault, “The Subject and Power”, postfazione
a Hubert L. Dreyfus and Paul Rabinow, Michel Foucault: Beyond Structuralism and Her-
meneutics, Chicago: University of Chicago Press, 1982, pp. 214-232.
3
E Judith Butler, non a caso, è fra i maggiori esponenti – unitamente a Eve Kosofsky
Sedgwick, Teresa de Lauretis e Jonathan Dollimore – della queer theory. Sulla performa-
tivity sono estremamente utili anche i saggi raccolti in Andrew Parker and Eve Ko-
sofsky Sedgwick (eds.), Performativity and Performance, New York: Routledge, 1995.
208 TIRANDO LE FILA
Sarà solo a partire dalla fine del secolo scorso che queer – oltre a con-
servare le connotazioni di cui sopra – segnalerà in accezione fortemente
offensiva l’omosessuale effeminato, vale a dire la modalità esistentiva
1
Si vedano in merito le attestazioni riportate in Ermanno Barisone, op. cit.
2
Sub voce ‘queer’, in The Oxford English Dictionary, vol. VIII, Oxford: Clarendon,
1933, p. 41.
3
Ivi, p. 42.
4
Ibidem. Il supplemento allo Oxford English Dictionary, vol. III, Oxford: Clarendon,
1982, p. 972, offre attestazioni di queer money fin dal 1740.
5
Sub voce ‘queer’, nel supplemento del 1961 allo Oxford English Dictionary del 1933.
Oxford: Clarendon, 1961, p. 151. E ancora: “on the queer: living dishonestly; spec. en-
gaged in the forging of currency”. Sub voce ‘queer’, in The Oxford English Dictionary,
(1933), cit., p. 42.
6
Quale verbo: “a. Also, with a person as object, to spoil the reputation of, to put (a
person) in bad odour (with someone); to spoil (a person’s) undertaking, chances, etc.
[…] b. to queer the pitch: to interfere with or spoil the business (of a tradesman or
showman)”. Sub voce queer, nel supplemento allo Oxford English Dictionary del 1982,
cit., p. 972.
ALTRI TRADIMENTI 209
1
presieduta (costruita a partire) dal modello di Oscar Wilde. È sulla scorta
di questo affastellarsi di senso, più o meno consapevole, che si ricorre in
genere alla nozione di queer, e che il termine trova la propria circolazione
attuale sia all’interno dell’attivismo omosessuale come forma di recupero
2
polemico di una eteronominazione (a fronte dell’autonominativo gay),
sia all’interno degli studi culturali dove la consapevolezza della politicità
di ogni rappresentazione si associa a una scelta di contrapposizione all’es-
sere straight (retto, corretto, coerente, affidabile, normale e, ‘dunque’, e-
terosessuale, possibilmente coniugato con prole) che comprende tutte le
3
devianze pur nel rispetto del loro specifico situarsi nella cultura.
Va tuttavia rilevato come latiti un effettivo consenso sull’inclusività del
termine queer: se infatti da un lato viene prevalentemente inteso che la
queerness non sia prerogativa dell’omosessuale maschio effeminato, non
tutti accolgono le devianze estranee allo specifico lesbico e gay. La confi-
gurazione stessa del termine, il suo probabile etimo e la sua storia, sem-
brano però legittimarne un utilizzo inclusivo, quello rivendicato da un
Alan Sinfield o da un Alexander Doty, che prescinde dall’esclusività gay
e lesbica nell’affermare che “the terms ‘queer readings’, ‘queer discour-
ses’ and ‘queer positions’ […] are attempts to account for the existence
and expression of a wide range of positions within culture that are ‘que-
4
er’ or non-, anti-, or contra-straight”. È in questa accezione estesa che è
possibile accogliere sotto l’egida della queerness l’intero apparato rappre-
sentativo di stampo parodico che nel capitolo 4 si è ascritto alla female o
same-sex mimicry, poiché – nelle parole di Pamela Robertson – in quanto
“explanatory term connoting a discourse or position at odds with the
5
dominant symbolic order”, queer abilita “not only gay men, but also hete-
1
Per le attestazioni di queer in questa accezione bisogna peraltro attendere il citato
supplemento del 1982, il che denuncia – oltre che una ‘secondarietà’ della nozione – il
clima di censura o di ‘segreto aperto’ (cfr. capitolo 1) nel quale l’omosessuale ha preso
corpo nel nostro secolo. Lo si poteva insultare, ma il dizionario ufficiale della Lingua
Inglese non ne poteva registrare neppure l’esistenza quale oggetto di stigma.
2
Sulla circolazione autonominativa di gay negli anni Venti si veda Alan Sinfield,
“Private Lives/Public Theater”, cit.
3
Il che non significa che tale tendenza ‘inclusiva’ non si offra ad accuse di cancella-
zione delle specifiche particolarità devianti, e strategie d’intervento. Basti riprendere
quanto osservato supra, nella nota 1 a pagina 120.
4
Alexander Doty, Making Things Perfectly Queer: Interpreting Mass Culture, Minnea-
polis: University of Minnesota Press, 1993, p. 3. Sul ricorso alla nozione di queer quale
strategia di convergenza fra modalità di lettura analogamente subordinate si sofferma
Alan Sinfield nella prefazione a Cultural Politics–Queer Reading, cit., pp. vii-xi.
5
Pamela Robertson, Guilty Pleasures, cit., p. 10.
210 TIRANDO LE FILA
1
Ivi, pp. 9-10. Benché qui si sottoscriva in larga misura la posizione di Sinfield, Doty
e Robertson sul queer, e vi si fondi anzi una teoria del camp, non si condividono le pa-
role di Doty e Robertson sulla valenza espressiva di disagio che ascrivono al queer. Que-
sto, e il camp con esso, vanno ripensati come indici e strumenti di una divergenza per-
formativa, e non come l’espressione di un’interiorità.
2
“[T]he placement of the boundaries in a particular society affects not merely the
definitions of those terms themselves – sexual/nonsexual, masculine/feminine – but
also the apportionment of forms of power that are not obviously sexual. These include
control over the means of production and reproduction of goods, persons, and mean-
ings”. Eve Kosofsky Sedgwick, Between Men, cit., p. 22. Sull’omofobia come effetto di
un sistema di opposizioni binarie che si traduce anche in altre forme discriminatorie si
vedano anche le pagine in Id., Epistemology of the Closet, cit., pp. 67-90; e in Jonathan
Dollimore, Sexual Dissidence, cit., pp. 233-275.
ALTRI TRADIMENTI 211
1
queer comporta, e persino l’aristocraticismo del queer, sono singoli tas-
selli di una generale convergenza. Convergenza legittimata dall’osserva-
zione di Gregory Woods – in un breve intervento dal significativo titolo
di “Notes on Queer” (nel quale è evidente l’eco del saggio di Sontag, di
cui mutua anche l’ordine paratattico e numerato delle notes) – per cui
“[q]ueer culture is not a novelty. It must recognise the debt it owes to
previous gay cultures; in particular, it has inherited the structures and
2
stratagems of Camp”. Quanto osservato da Woods indica una derivati-
vità della queer culture dal camp in termini di attivismo, ma anche impli-
citamente di modalità di lettura critica: la queer theory, di cui s’è detto so-
pra, va insomma intesa quale modalità di legittimazione (e di istituziona-
lizzazione) dei suggerimenti ‘ipercritici’ e destabilizzanti offerti dalla sto-
3
ria e dalla teoria del camp.
Ma riprendiamo la proposta di definizione di Moe Meyer. Le pratiche
queer possono dunque essere ascritte a una “critique of a more vast and
comprehensive system of class-based practices of which sex/gender is
4
only a part”, riconosce Meyer, e in tal senso risultano significative le
considerazioni, a mano di Thomas King, che aprono il volume sulla rap-
presentazione stigmatizzante che i pensatori borghesi del Settecento of-
frivano del rapporto fra aristocrazia, sodomia, e sistemi segnici dell’effe-
5
minatezza. Meyer ne consegue, opportunamente, che
1
Il modello wildiano che presiede al queer come derogazione dell’omosessuale ha
infatti marcate implicazioni in termini di ceto sociale: esemplare in tal senso l’acri-
monia della classe operaia per gli ‘oscarwile’ [sic], e il fatto che la queerness escludesse
il soggetto di pratiche omoerotiche appartenente alla lower class. Si confronti in propo-
sito Alan Sinfield, The Wilde Century, cit., pp. 130-160. E non a caso il Marchese di
Queensberry, un anno prima dei processi che codificarono la queerness di Oscar Wilde
come indice d’omosessualità, rivolse a mò di insulto l’epiteto di ‘Snob Queers’ a un
gruppo di notabili londinesi. Richard Ellman, Oscar Wilde: A Biography, London:
Hamish Hamilton, 1987, p. 426. È per questa ragione che Meyer afferma nel brano
sopra riportato che “the queer label emerges as a class critique”, basandosi in questa
affermazione su Thomas A King, op. cit. Si riprenderà immediatamente la questione.
2
Gregory Woods, “Notes on Queer” (1992), in This is No Book: A Gay Reader. Not-
tingham: Mushroom Publications, 1994, p. 92.
3
Si confronti quanto osservato in apertura di questo capitolo sulla legittimazione
delle istanze del camp come modalità di lettura critica. Gli elementi di convergenza fra
camp e queer non devono peraltro spingere a considerare le due nozioni omologhe: al
contempo, è estremamente utile registrare la loro sovrapposizione, anche in chiave
storica, al fine di articolarle entrambe criticamente.
4
Moe Meyer, “Introduction: Reclaiming the Discourse of Camp”, cit., p. 3.
5
Cfr. Thomas A. King, op. cit. Al lavoro di King ci si è rifatti per il capitolo 1, cui si
rimanda per la rappresentazione stigmatizzante medesima, e in particolare per il rap-
212 TIRANDO LE FILA
Broadening the scope of the queer critique in this manner also consti-
tutes a radical challenge to the entire concept of an identity based
upon sexual orientation or sexual desire because the substitution of a
performative, discontinuous Self for one based upon the unique indi-
vidual actually displaces and voids the concept of sexual orientation it-
self by removing the bourgeois epistemological frames that stabilize
such identifications. Queer sexualities become, then, a series of impro-
vised performances whose threat lies in the denial of any social identity
derived from participation in those performances. As a refusal of sexu-
ally defined identity, this must also include the denial of the difference
upon which such identities have been founded. And it is precisely in
the space of this refusal, in the deconstruction of the homo/hetero bi-
nary, that the threat and challenge to bourgeois ideology is queerly
executed.1
what happens when Camp performance is detached from its gay iden-
tity and that identity is displaced or put under erasure? Or, from an-
other angle, if gay signifying practices serve to critique dominant het-
erosexist and patriarchal ideology through inversion, parody, travesty,
and the displacement of binary gender codes, then what happens
when those practices are severed from their gay signifier and put into
the service of the very patriarchal and heterosexist ideology of capital-
ism that Camp politics seeks to disrupt and contest? […] When corpo-
rate capitalism appropriates Camp in its own interests and then poses
as its signifier, then the representation bears only the residue of Camp
politics. Detached in this way from a gay subject position, Liberace’s
performances constituted what Moe Meyer calls residual camp or “the
camp trace”.1
Ciò che fonda il ‘Camp’ in quanto critica, vale a dire in quanto modalità
politica, è il suo essere dispiegato in un contesto e da una soggettività
gay. Eliminando l’aggettivazione, si eliminano politicità, intenzionalità ed
eversività, e con questi e il carattere ‘originale/originario’ del ‘Camp’.
Il ‘Camp’ come parodia gay rimanda infatti secondo Meyer alla nozione
di parodia instabile, postmoderna, come manipolazione di codici interte-
stuali di intrinseca portata politica, suggerita da Hutcheon: “[w]hen par-
ody is seen as process, not as form, then the relationship between texts
becomes simply an indicator of the power relationships between social
agents who wield those texts, one who possesses the ‘original’, the other
2
who possesses the parodic alternative”. Ciò che Meyer si propone, in
definitiva, è di invertire l’asse del potere rappresentativo e restituire l’aura
di originalità al ‘Camp’ come discorso specificamente gay. Ma il rivendi-
care un’esclusività gay significa riproporre, sia pur in termini invertiti, la
logica dell’originarietà/originalità che si sostiene di voler destabilizzare, e
3
che il queer in senso esteso delegittima. Tale operazione dispiega in ef-
fetti a sua volta una deviazione rispetto alla manipolazione intertestuale
1
Linda Hutcheon, The Politics of Postmodernism, cit., p. 35.
2
A questa applicazione di un quadro epistemologico borghese, stabilizzante in modo
arbitrario e impositivo, è riconducibile del resto la questione della intenzionalità del
‘Camp’. Questo è tale solo se intenzionale e originale, e pertanto proprietà di un indi-
viduo (gay) – le categorie sono di fatto presiedute da una matrice borghese, la destabi-
lizzazione queer della quale passa attraverso una radicale interrogazione delle categorie
medesime, più che di un loro semplice reinvestimento sul queer che di fatto depotenzia
quest’ultimo nel suo portato critico.
216 TIRANDO LE FILA
1
E di camp come chiave di accesso alla relazione di portata eversiva instaurata fra
postmoderno e pop parla Angela McRobbie in “Postmodernism and Popular Culture”,
Journal of Communication Inquiry, 10, 1986, pp. 108-116; e in Postmodernism and Popular
Culture, London: Routledge, 1994.
ALTRI TRADIMENTI 217
di Andy Warhol e della Pop Art in genere, nel quale devianza sessuale,
1
serialità e pop sono inestricabili all’insegna del camp. Del camp cioè in
quanto queer – ma nel senso di ‘valuta contraffatta’ nell’ordine dello
scambio culturale. Come riconosce Meyer, lo si è già detto, la relazione
fra testo primario e testo secondario “becomes simply an indicator of the
power relationships between social agents who wield those texts, one
who possesses the ‘original’, the other who possesses the parodic alter-
native”. Ma Meyer, pur rifacendosi alla parodia postmoderna qual è di-
segnata da Hutcheon, trascura questa valenza eversiva, in un processo
che sembra dunque riconducibile solo alla costituzione di un’originalità/
originarietà gay, di pari passo a quella del critico ‘Moe Meyer’ – in quanto
detentore, non dichiarato, del principio di originalità/originarietà del
‘Camp’ – come nuova autorità culturale, o nuova ‘star’ sulla scena acca-
demica nordamericana, cui venga riconosciuto il potere culturale del cri-
2
tico come arbiter del Giusto e del Vero.
Il problema del reclaiming di Meyer, e della tesi ‘forte’ che racchiude, è
in definitiva che Meyer rivendica al tempo stesso troppo e troppo poco per
il camp. Da un lato lo sovraestende a tutta l’identità gay, il che costringe
lo stesso Meyer a virtuosismi di dubbia felicità critica nel corso della tesi
dottorale per dimostrare come persino l’omosessualità essenzialista, arti-
colatasi in aperta polemica con il modello esistentivo camp e queer
(nell’accezione storica, limitata alla sola prima metà del secolo), appar-
3
tenga alla categoria del ‘Camp’. Dall’altro la categoria esclude tutto ciò
che non è gay in senso stretto, lesbiche comprese, perché il modello è
prodotto a partire da, e con finalità nella, omosessualità maschile. Anche
1
Sarà Warhol appartenente al ‘Camp’ in virtù della sua omosessualità, benché com-
promesso con il Pop? Per affrontare la convergenza fra devianza sessuale e cultura
popolare offrono risposte meno facilmente riduzioniste o deterministe i testi citati su-
pra, nella nota 2 a pagina 126. Ma si vedano anche Paul Burston and Colin Richardson
(eds.), A Queer Romance: Lesbians, Gay Men and Popular Culture, London: Routledge,
1995; Tamsin Wilton (ed.), op. cit.; e Diane Hamer and Belinda Budge (eds.), op. cit.
2
Potere culturale, e contrattuale sul mercato delle cattedre statunitensi: in breve, un
potere economico. Come dire, il queer meyeriano è anch’esso significativamente com-
promesso con la logica del Capitale, salvo non dichiararsi tale.
3
Il ‘fondamento’ di quest’affermazione si troverebbe secondo Meyer nel brano da
The World in the Evening che si è affrontato nel capitolo 2. Lo High Camp sarebbe in-
somma l’omosessualità non marcata in senso femmineo, mentre alla modalità marcata
corrisponderebbe il Low Camp. Non è necessario soffermarsi sulla pretestuosità di
questa lettura: basti riprendere il brano isherwoodiano, nel quale nulla la conforta. Né
la conforta l’utilizzo storico del lemma camp, mai attestato per indicare l’omosessualità
‘naturale’ promossa storicamente da un Edward Carpenter, un André Gide, o dagli
attivisti del Gay Liberation Front.
218 TIRANDO LE FILA
(nei suoi rapporti fra significante, significato, e referente). Con il postulare in chiave
fondamentale un queer (vale a dire, qui, gay) signified e un Homosexual referent, non si fa
altro che stabilizzare in codice consensuale una chiave articolata sulla crisi dei codice,
dei segni, e attraverso questi delle gerarchie culturali.
1
Si confronti supra, la nota 1 a pagina 24.
2
Moe Meyer, “Under the Sign of Wilde: An Archaeology of Posing”, in Moe Meyer
(ed.), op. cit., p. 75.
220 TIRANDO LE FILA
I should like to live to a green old age. Green did I say? Oh, ciel! The
amount of paint that will be required to hide that very unbecoming
tint. My campish undertakings are not at present meeting with the
success they deserve. Whatever I do seems to get me into hot water
somewhere. But n’importe. What’s the odds so long as you’re happy?
Believe me,
your affectionate sister-in-law,
Fanny, Winifred, Park.1
1
Cit. in Neil Bartlett, Who Was That Man? A Present for Mr. Oscar Wilde, London:
Serpent’s Tail, 1988, p. 168. Una seconda attestazione sarebbe disponibile secondo A.
St. John Grahame in un pamphlet del “little-known Nonconformist radical Jacob Ca-
dley” – The Feet of Men, del 1849 – di cui non si è peraltro resa possibile la consultazio-
ne (il volume non è disponibile nelle maggiori biblioteche britanniche, in cui si è com-
piuta la ricerca, né alla Library of Congress di Washington). Affidandosi a A. St. John
Grahame, il pamphlet conterrebbe una precoce attestazione del lemma “in its present
context”. A. St. John Grahame, “Camp”, New Statesman, 16 June 1967, p. 833. Dato che il
“present context” di camp non è, come s’è visto, affatto privo d’ambiguità, questa si
ripercuote in via immediata sulla (eventuale) precoce attestazione.
2
Questa è in breve la tesi di Alan Sinfield, che in The Wilde Century, cit., investiga la
circolazione delle sessualità e dei costrutti identitari britannici in chiave cultural-
materialista sulla scorta della Histoire de la sexualité foucaultiana. La questione occupe-
rà per esteso la sezione 9.2.
ALTRI TRADIMENTI 221
del lemma fin dal suo emergere all’attenzione pubblica, diverse ipotesi
sono state formulate nel tentativo di postulare un’elemento fondativo di
sorta. Si va così dalla versione più accreditata, che fa derivare camp dal
francese se camper, a quella che indica nell’italiano campeggiare una pos-
1
sibile fonte. I suggerimenti si sono fatti negli anni sempre più confusi e
contraddittori, riproducendo del resto la confusività dello ‘stato della
questione’ che si è disegnato nei capitoli precedenti.
Tale confusione emergeva già quasi nella sua interezza nella rubrica
delle lettere al New Statesman del giugno 1967, sulla scorta della richiesta
di chiarimenti in proposito da parte di un lettore: da un fantasioso ‘Josiah
Camp’, “[a] more than usually flamboyant and precious 18th-century
English actor” che avrebbe lasciato un’indelebile, pesante (e inverosimi-
le) eredità nel linguaggio, a un altrettanto sospetto ‘KAMP’, acronimo di
“Known As Male Prostiture”, diffuso “on certain files in the Los Angeles
Police Department at one time”. Ma si incontra anche una più complessa
derivazione avanzata da Michael Allen: “[i]n the days when actors wan-
dered from village to village they often lived rough in tents. This was
camping. When one actor moved in to share the tent of another he was
2
said to be camping with him”; per finire quindi con l’ancora più artico-
lato suggerimento di Pat Raymond:
The original derivation must be from either fight or field, the two cun-
current in the field of battle – Latin campus […], Greek kepos – garden.
An Army would pitch on this site, the fight itself being on a campania,
plain, which gave us campaign. Camp in Middle English was battle,
kampf in German. Champagne as an area is named from the Italian for
plain and we get everything from champagne itself to champion to
champing at the bit. And quaint and akimbo – crooked. So camp: a
bubbly, emotive word for something quaint and (still legally) crooked.3
Per quanto la sede da cui sono stati proposti non spinga a caratterizzare
tali suggerimenti come autorevoli al di là di ogni ragionevole dubbio, la
ricerca ‘scientifica’ non ha prodotto esiti radicalmente distanti. In parti-
1
A questi etimi si è accennato nel capitolo 1. Se camper è stato proposto in prima
battuta da Alan Brien, “Camper’s Guide”, New Statesman, 23 June 1967, pp. 873-874,
mentre campeggiare fu indicato tre anni più tardi da Harford Montgomery Hyde, The
Love that Dared not Speak Its Name: A Candid History of Homosexuality in Britain. Boston:
Little, Brown, 1970, p. 22.
2
Cfr. Desmond Chawdhry, Raymond Allen, e Michael Allen, “Camp”, New States-
man, 9 June 1967, p. 796.
3
Cfr. Pat Raymond, “Camp”, ibidem.
224 TIRANDO LE FILA
Si è visto nel capitolo 3 che una delle ragioni fondanti la tesi di camp-
come-passing art, o come codice di riconoscimento fra soggetti omoses-
suali, è quella che indica la convergenza fra camp stesso e Polari, il lin-
guaggio usato a metà del secolo scorso dalle compagnie dei teatranti gi-
rovaghi e dei vagabondi, che avrebbe lasciato un’eredità lessicale nel
gergo del sottobosco omosessuale del nostro secolo. La circolazione del
camp in una dimensione teatrale, e itinerante, consente di ripensare la tesi
del passing in una chiave (a sua volta ‘contorta’) che prescinde dal deter-
minismo sessuale. Il camp ne emerge – a livello di subject e di configura-
zione ontologica della problematica – come un esercizio di passing art
nella direzione della teatralizzazione di un’identità performativa e transi-
toria, che non investe la mendacia verso l’inganno dell’altro da sé bensì
1
la riconosce quale principio costitutivo della ‘identità’: un soggetto, e il
discorso che lo teorizza e lo costituisce in quanto tale, come soggetto e
discorso nomadici, per riprendere una fortunata formula che Rosi Brai-
dotti postula, sulla scorta di Deleuze e Guattari, quale figurazione centra-
2
le nel panorama culturale contemporaneo.
In tal senso va inquadrata la mobilità sui piani discorsivi che nel capi-
tolo precedente si è ascritta alla logica camp: mobilità che si modula –
com’è tipico delle popolazioni nomadi – per itinerari ricorrenti e circolari
sui ‘luoghi’ discorsivi della doxa, ‘impropriamente’ occupati dal nomade
attraverso messe in scena o teatralizzazioni dello spazio nel ‘party’ degli
apparati effimeri. (Con ‘apparati effimeri’ si fa qui riferimento alla pratica
– impostasi nell’architettura urbana fra gli anni Settanta e Ottanta del
Novecento – di costituzione di esibizioni ricreative o culturali, altamente
spettacolari e di breve durata, giustapposta – e opposta – alle attività e agli
3
spazi istituzionali e ‘permanenti’.) Lungi dall’essere spazi esclusivi del-
1
Il passing quale lo si intende qui è prossimo alla nozione avanzata da Anna Camaiti
Hostert, Passing. Dissolvere le identità, superare le differenze, Firenze: Castelvecchi, 1996.
Il volume in questione è di fatto dedicato agli sviluppi della teoria femminista italo-
americana; ma tale accezione di passing è accreditata dallo Oxford English Dictionary,
che ne evidenzia l’origine dal latino con la valenza di movimento “the primary significa-
tion was thus ‘to step, pace, walk’, but already in IIth c. OF. it had come to denote
progression or moving on from place to place”. Sub voce ‘Pass’, in The Oxford English
Dictionary (1933), cit., p. 521.
2
Cfr. Rosi Braidotti, Nomadic Subjects, New York: Columbia University Press, 1994.
Braidotti attinge ovviamente, anche se non senza forzature e semplificazioni, alle ri-
flessioni sul rizoma e sulla nomadologia avanzate da Gilles Deleuze et Félix Guattari
raccolte in Mille Plateaux: Capitalisme et schizophrénie II, Paris: Minuit, 1980.
3
Si veda in proposito Leone Podrini, Materiale e immateriale. L’effimero nell’architet-
tura contemporanea, Roma: Maggioli, 1995. Il termine stesso giunge dalla tradizione dei
226 TIRANDO LE FILA
fasti rinascimentali e barocchi, con il loro largo impiego di apparati effimeri quali fuo-
chi d’artificio, scenografie fittizie, archi di trionfo ecc. Utili per l’inquadramento di que-
sta tradizione sono Maurizio Fagiolo dell’Arco e Silvia Carandini (a cura di), L’effimero
barocco, Roma: Bulzoni, 1978, e Marcello Fagiolo e Maria Luisa Madonna (a cura di),
Barocco romano e barocco italiano. Il teatro, l’effimero, l’allegoria, Roma: Gangemi, 1985.
ALTRI TRADIMENTI 227
1
cia in ultima analisi un’ingenuità che era già di Sontag: vale a dire, il so-
stenere che una forma culturale ‘apolitica’ non sia comunque implicata
in una prassi politica e in una progettualità ideologica. In breve, che esi-
sta un qualcosa che non sia sempre-già-politico, foss’anche il disimpe-
2
gno politico o il dis-interesse. Configurare il camp come parodia post-
moderna, come queer, come ‘party’ o architettura sghemba, significa in-
somma delegittimare l’originalità, la proprietà esclusiva e le prerogative
(o finalità) politiche come intrinsecamente date, siano queste conserva-
trici o sovversive.
La complessità politica, oltre che più latamente ontologica, del camp
dipende pertanto dalla sua stratificazione storico-epistemica, ossia da
come si sono costituiti storicamente degli ‘effetti camp’ – cosa si sia inte-
so con il lemma camp, e che cosa (in termini referenziali) sia stato ascritto
ad esso. Nell’avvicinare una categoria nomade, risulta imprescindibile
localizzarne la configurazione, identificare cioè le comunità che facevano
(un diverso) ricorso ad essa: in breve, determinare chi aveva accesso, e da
quale ‘porta’, al ‘party’ – chi partecipava in veste di ‘invitato’? E con quale
fancy-dress? Chi partecipava invece in quanto ‘escluso’? E com’era evocato
parodicamente dagli eletti, con quale maschera era cioè anch’egli/ella
presente, sia pur in absentia? E come si poneva il party nomadico rispetto
alle culture dominanti, istituzionali e ‘permanenti’? In quale grado di
complicità o di eversività? Quali elementi del party nomade sono stati
cooptati dalla cultura dominante, e come quest’ultima si è riarticolata? E
quali sono le responsabilità di compromissione del party rispetto ad un
riassestamento della cultura istituzionale?
La complessità politica della questione non può essere ridotta attra-
verso un comodo passepartout. Questo perché non è possibile prescinde-
re, oltre che dalla complessità intrinseca alla nozione, dal ruolo che il ge-
sto interpretativo del critico gioca nel determinare la configurazione
dell’architettura sghemba. Bisognerà insomma riconoscere la propria
1
Ingenuità che del resto costituisce in prima istanza il motore della lettura ‘politiciz-
zante’ di Meyer quando afferma che “in order to reclaim Camp-as-Critique, the criti-
que silenced by the 1960s,” sia necessario riproporre ad attenzione la queerness del
camp. Alla luce della riconfigurazione polemica del queer che si è qui offerta, sia Son-
tag sia Meyer partecipano della medesima ingenuità.
2
Nulla – con buona pace di Matthew Arnold – può essere indicato come ‘apolitico’,
come ‘politicamente disimpegnato’ o ‘disinteressato’. Questa posizione coincide per-
lopiù con una naturalizzazione in ‘senso comune’ fortemente sospetta, oppure più
apertamente come forma di conservatorismo, se non di aperta reazionarietà – una for-
ma dunque, che ci piaccia o meno, di impegno politico.
228 TIRANDO LE FILA
1
Gregory W. Bredbeck, “Narcissus in the Wilde: Textual Cathexis and the Historical
Origins of Queer Camp”, in Moe Meyer (ed.), op. cit., p. 52.
2
Andrew Ross, “Uses of Camp”, cit.
3
Oscar Wilde, “Phrases and Philosophies for the Use of the Young”, cit., p. 1205.
Parte Terza
Le origini discorsive, I
Il secondo dopoguerra
Gli anni Cinquanta e Sessanta assistono sia in Gran Bretagna sia negli
Stati Uniti a un processo di radicale crisi dei cardini fondanti le istituzio-
ni. L’allargamento dell’istruzione universitaria a ceti sociali la cui forma-
zione era in precedenza penalizzata, l’emergere delle sottoculture giova-
nili, il clima di liberazione sessuale e di costume contribuiscono a dise-
gnare un panorama di straordinaria effervescenza, all’interno del quale le
nozioni tradizionali di autorità culturale dovevano subire un’aggressione
2
di portata epocale.
1
Sulla significatività del camp nel panorama culturale dell’epoca, oltre ovviamente a
“Notes on ‘Camp’”, è imprescindibile Andrew Ross, “Uses of Camp”, cit. Estrema-
mente utili sono anche i vari interventi che appaiono al tempo sui periodici, di cui s’è
detto in apertura del capitolo 3.
2
Si veda Alan Sinfield, Literature, Politics and Culture in Postwar Britain, cit.
232 GENEALOGIA DEL CAMP
1
L’espressione stessa gender role appare per la prima volta in John Money, J. G.
Hampson and J. L. Hampson, “Imprinting and the Establishment of Gender Roles”,
Archives of Neurology and Psychiatry, 77, 1957, pp. 333-336. Al lavoro di John Money è
anche riconducibile l’espressione gender identity – distinta rispetto al ruolo (la dimen-
sione pubblica della sessualità) in quanto esperienza privata dello stesso – nel glossario
a John Money and Anke H. Ehrhardt (ed.), Man and Woman / Boy and Girl: The Differen-
tiation and Dymorphism of Gender Identity from Conception to Maturity, Baltimore: Johns
Hopkins University Press, 1972. Un’altra figura imprescindibile della riflessione dell’epo-
ca in merito è senz’altro Robert J. Stoller, cui si deve Sex and Gender, London: Hogarth,
1968. Fra gli studi che ricostruiscono questo panorama di riflessioni quali premesse alla
ricerca contemporanee di possono consultare John Money, Gendermaps: Social Con-
structionism, Feminism, and Sexosophical History, New York: Continuum, 1995; Gilbert
Herdt (ed.), Third Sex, Third Gender: Beyond Sexual Dimorphism in Culture and History,
New York: Zone, 1994; e David T. Evans, Sexual Citizenship: The Material Construction
of Sexualities, London: Routledge, 1993. Utili nella loro veste introduttiva sono in que-
sta direzione Stephanie Garrett, Gender, London: Tavistock, 1987; e Maria Nadotti,
Sesso e genere, Milano: Il Saggiatore, 1996.
2
Cfr. Leslie Moran, op. cit.
3
Quentin Crisp, The Naked Civil Servant, London: HarperCollins, 1985, p. 5.
4
L’autobiografia di Crisp apparve nel 1968 per i tipi della Jonathan Cape di Londra.
234 GENEALOGIA DEL CAMP
rimozione dello stigma dalle vicende che avevano condannato Oscar Wil-
de al carcere, di cui sono testimonianza i due film apparsi in Gran Breta-
gna nel 1960 (Oscar Wilde di Gregory Ratoff, e The Trials of Oscar Wilde
1
di Ken Hughes).
Questo clima di sollecitazione in ogni prospettiva, e il panorama ur-
bano che nel 1964 si sarebbe trasferito negli Stati Uniti con la cosiddetta
‘British Invasion’, prediligeva forme di cultura manifestamente popolari e
2
di consumo in quanto opposte ai canoni stabiliti del ‘buon gusto’. Tele-
visione, musica rock e revivalismo consumistico si offrivano a una frui-
zione fondamentalmente anti-intellettualistica, che privilegiava l’intrat-
tenimento e l’eccitazione alla seriosità che all’epoca si faceva coincidere
con la cultura ‘alta’, con le avanguardie storiche nelle arti e – in ambito
3
letterario – con il canone e le metodologie del New Criticism.
I gruppi giovanili che popolavano Londra – Teds e Mods – rivolgeva-
no il loro sguardo al passato, in una riscoperta di stili (l’abbigliamento
edoardiano dei Teds, il diffuso gusto per l’oggettistica di epoca vittoriana
che alimentava i Mods e con questi il fiorire di Carnaby Street e di innu-
merevoli ‘mercatini delle pulci’), in un revivalismo insomma che trovava
la propria ragion d’essere nella disillusione polemica verso le gerarchie
sociali e culturali dell’epoca. Il cospicuo successo riportato da The Boy
Friend, la commedia musicale di Sandy Wilson del 1953 dalla quale sarà
tratto vent’anni dopo l’omonimo film di Ken Russell con protagonista
Twiggy, poggiava sull’omaggio ai cliché più estenuati del musical anni
Venti (nel rifacimento di Russell saranno le coreografie caleidoscopiche
della Hollywood anni Trenta di Busby Berkeley), nella quale si inscenava
1
Intorno ai film citati si vedano le considerazioni in Rebecca Bell-Metereau, op. cit.,
pp. 117-118.
2
Tale ‘invasione’ è registrata in “The Girl of the Year” di Tom Wolfe, un’intervista con
Baby Jane Holzer (‘superstar’ della Factory di Andy Warhol) apparsa nel supplemento
domenicale del New York Herald Tribune del 6 dicembre 1964, ristampata in Tom Wol-
fe, The Kandy-Kolored Tangerine-Flake Streamline Baby, New York: Farrar, Straus & Gi-
roux, 1965, pp. 157-169, e quindi in The Purple Decades, ibidem, 1982, pp. 99-110.
3
Si confronti in merito Andreas Huyssen, After the Great Divide: Modernism, Mass
Culture and Postmodernism, London: Macmillan, 1988, pp. 164-165. È peraltro in questi
anni che si avvia sia negli Stati Uniti sia in Gran Bretagna il ripensamento dell’istitu-
zione della critica – cui l’emergere della nozione di camp a opera di Sontag sembra per
molti versi riconducibile – che lascia profonde tracce nel panorama critico contempo-
raneo. Sulla trasformazione che il secondo dopoguerra impone ai criteri di legittimità
del ‘farsi critico’, oltre che in Literature, Politics and Culture in Postwar Britain, cit., Alan
Sinfield si sofferma in Cultural Politics–Queer Reading, cit. Una rassegna della trasfor-
mazione epocale in questione è offerta nel mio “‘Oscar Wilde’ e i materialisti”, cit.
LE ORIGINI DISCORSIVE, I 235
1
Il primo degli otto romanzio che compongono la serie appare come Don Holliday,
The Man from C.A.M.P., Los Angeles: Leisure Books, 1966.
2
Cyril Connolly, Bond Strikes Camp, Sherval Press, 1963 (ma effettivamente apparso
alla fine del 1962).
LE ORIGINI DISCORSIVE, I 237
1
Joe Orton, What the Butler Saw, in The Complete Plays, cit., p. 417.
2
Ibidem.
3
Ivi, p. 416.
4
Joe Orton, Loot, cit., p. 217.
LE ORIGINI DISCORSIVE, I 239
1
Cfr. Jonathan Dollimore, Sexual Dissidence, cit., pp. 315-318; e Alan Sinfield, “Who
Was Afraid of Joe Orton?” In Joseph Bristow (ed.), Sexual Sameness: Textual Differences
in Lesbian and Gay Writing, London: Routledge, 1992, pp. 170-186.
2
La vita di Joe Orton, analogamente a quella di altre figure della fenomenologica ar-
tistica camp, ha finora attratto l’attenzione dei critici ancor più dell’opera letteraria,
rendendo la seconda del tutto inscindibile dalla prima. Su Orton si possono consultare
Simon Shepherd, Because We’re Queers: The Life and Crimes of Kenneth Halliwell and Joe
Orton, London: Gay Men’s Press, 1989; Christopher Bigsby, Joe Orton. London:
Methuen, 1982; e Maurice Charney, Joe Orton, London: Macmillan, 1984; e John Lahr,
Prick Up Your Ears: The Biography of Joe Orton, London: Allen Lane, 1978.
3
Lettera del 2 novembre 1958, in John Lahr (ed.), The Orton Diaries, London: Me-
thuen, 1986, p. 274.
240 GENEALOGIA DEL CAMP
1
All’apice della carriera, tra il 1966 e il 1967, Orton rielaborò uno sketch pornografi-
co scritto nel 1960 per la rivista Oh! Calcutta!, stese la sceneggiatura di un film (mai
realizzato) dei Beatles, e presentò in veste televisiva The Good and Faithful Servant.
2
John Lahr (ed.), The Orton Diaries, cit., p. 289.
3
Joe Orton, Loot, cit., p. 271.
242 GENEALOGIA DEL CAMP
negare, vale a dire che la condizione artistica – sia essa ‘alta’ o di massa –
non prescinde dal regime economico, e nel fare ciò evidenzia l’ipocrisia
della museificazione borghese: “Pop Art knows that art is a commodity,
and doesn’t care; or, perhaps, it despises earlier art for pretending that it
could escape. It refuses the exalted isolation of art and the solemnity of
1
the gallery”. Una percezione camp, insomma, come peraltro emerge
nell’intervista a Tom Wolfe contenuta in Superstar (1990), il lungome-
traggio su Warhol girato da Chuck Workman, dove si sostiene che quella
cui appartiene Warhol stesso sarebbe una generazione artistica la quale,
di poco successiva a chi identificava nella società americana un luogo o-
scenamente commercializzato, rivolse lo sguardo alla stessa società af-
fermando “oh, it’s so horrible that I love it” (si confrontino le parole,
pressoché identiche, di Sontag sullo “ultimate Camp statement” del
2
camp: “it is good because it is awful”).
Siamo di fronte insomma a una celebrazione camp, la cui smodatezza
ne fa una forma ambiguamente critica. In Gran Bretagna, la Pop Art di
Richard Hamilton pure si offriva come pratica marcatamente camp: basti
pensare a Just What is It that Makes Today’s Homes So Different, So Appea-
ling? (1956), in cui il collage giustappone due figure i cui tratti stereotipici
di genere sessuale sono oltremodo enfatizzati (i muscoli ridondanti del
culturista, la posa del personaggio femminile che si stringe il seno in un
parossismo di ‘sensualità’), in un interno abitativo interamente costituito
da immagini pubblicitarie (il magnetofono, l’aspirapolvere con tanto di
scritta che decanta le superiori prestazioni, l’emblema della casa automobi-
listica Ford) e dominato da un quadro che incornicia una rivista di fumetti,
pubblicità a sua volta del true love e del romance matrimoniale. Il tutto in
un decorativismo citazionale che tende parodicamente a un massimo di
‘bellezza’ – in termini commerciali sinonimo di effetto spettacolare, di éclat.
Il valore di interrogazione che si può evidenziare nella Pop Art rispet-
to alla secolarizzazione della Cultura si attiva anche nella celebrazione
warholiana del divismo. Di fatto, il divismo quale metafora della condi-
zione estetica nella cultura di massa caratterizza buona parte dei lavori
che sono stati categorizzati come camp, o che si sono offerti a un apprez-
zamento da parte della comunità che ha promosso il camp, come testi-
1
Alan Sinfield, Literature, Politics and Culture in Postwar Britain, cit., p. 285.
2
Al rapporto che la Pop Art intrattiene con la cultura consumistica è dedicato Chris-
tin J. Mamiya, Pop Art and Consumer Culture: American Super Market, Austin: University
of Texas Press, 1992.
246 GENEALOGIA DEL CAMP
monia del resto la popolarità che riscuotevano fra gli omosessuali le dive
1
del grande schermo. La celebrazione critica si articola in due percorsi, il
primo dei quali è l’ossessiva riproduzione delle immagini che incarnano
il principio del divismo, con le note serigrafie di – fra i molti – Marilyn
Monroe, Liz Taylor, Warren Beatty e Elvis Presley. In questa categoria
possono essere fatte rientrare anche le scatole di Campbell, le Coca-Cola
e lo Empire State Building di New York, che Warhol dichiarò di voler tra-
sformare in una star nel ‘kolossal’ dal titolo Empire (1964), un piano se-
2
quenza (a camera fissa) della durata di otto ore. Ciò che Warhol ottiene
con questa operazione metarappresentativa (l’arte non attinge alla realtà
bensì alle sue rappresentazioni, vale a dire alle icone culturalmente am-
mantate di un ruolo ‘mitologico’, siano esse le star di una Hollywood fit-
tizia che popola l’immaginario collettivo o il simbolo della supremazia e
identità nazionale costituito dal più famoso grattacielo del tempo), è un
effetto di svuotamento delle immagini, le quali venendo riprodotte in se-
rie risultano scollate da quanto è socialmente ratificato quale loro signifi-
cato, memoria e referenza.
La seconda strategia si produce in una sorta di controdivismo, vale a
dire nell’edificazione di una ‘industria’ (la Factory) esplicitamente volta a
rendere ‘superstar’– termine reso popolare dallo stesso Warhol – figure
(Joe Dallesandro, Baby Jane Holzer, Holly Woodlawn, Candy Darling,
Edie Sedgwick, Viva, Mario Montez, Ingrid Superstar e Ultra Violet) che
tanto nella esistenza privata quanto sullo schermo si caratterizzavano per
una prassi in cui si assommavano travestitismo, omosessualità, ermafro-
ditismo e dedizione alle droghe – vale a dire, una serie di indici/effetti di
devianza. Come indicano i nomi stessi assunti da attori quali Holly Wood-
lawn e da Mario Montez (omaggio alla Maria Montez stella del cinema
di serie B degli anni Quaranta, apprezzato negli anni Sessanta per l’effet-
to inintenzionalmente camp), il culto che attiva l’arte di Warhol (così come
i film di George e Mike Kuchar, di Jack Smith e più tardi di John Waters)
prende forma in un rapporto ambiguo con lo star-system di Hollywood,
di cui vengono mutuate le dinamiche per eroderne le fondamenta.
Warhol rende infatti celebri – innalza allo statuto ‘divino’, d’icona cul-
turale – i ‘rifiuti’ della civiltà borghese, invertendo i canoni ed eviden-
ziando i meccanismi attraverso i quali il soggetto risulta culturalmente
determinato. In quella che si configura come la più estrema celebrazione
1
Si confronti in merito la Prima Parte.
2
Cfr. Stephen Koch, op. cit., p. 78.
LE ORIGINI DISCORSIVE, I 247
della società dello spettacolo, nella quale la fama venendo resa accessibi-
le a tutti è dichiarata massimamente vacua e deperibile (“in futuro ognu-
no avrà il proprio quarto d’ora di celebrità”, nella nota formula di War-
1
hol), l’individualismo risulta esplicitamente inserito in un apparato di
produzione economica, il quale esautora la ‘divinità’ dell’attore rivelan-
dolo idolo di cartapesta, omologo alla locandina che lo promuove, e nel
fare ciò demistifica il ‘mito’ borghese della personalità e del soggetto au-
2
tonomo, padrone di sé e agente della Storia. Le superstar di Warhol so-
no infatti maschere inespressive, corpi privi di sfumature psicologiche e
apparentemente di una qualsiasi attività cerebrale; esse evidenziano co-
me il divismo abbia una funzione sociale sostanzialmente ‘religiosa’ (si
pensi al lessico afferente alla celebrità: culto, divi e divine, e via dicendo),
in altre parole di creazione di Consenso: l’unica ‘aura’ che sopravvive
all’impatto della Pop Art è dunque – incompatibilmente con la nozione
benjaminiana – un fenomeno dell’immaginario che viene pianificato e
realizzato attraverso meccanismi promozionali e di gestione dei canoni
3
estetici: del capitale simbolico e del capitale economico.
L’impresa warholiana attiva il grado di artificio che si nasconde nella
naturalità, attraverso la riflessione suscitata dall’iper-realismo parados-
salmente ‘irrealistico’ della Pop Art (irrealistico poiché devasta la serie di
convenzioni che vanno sotto il nome di mimesi o rappresentazione reali-
stica), e nella coincidenza tra identità del soggetto e sua apparenza o
performance. Esemplarmente in tal senso, il lungometraggio di Warhol
che porta il significativo titolo Camp (1965) mette in scena una sorta di
teatrino in studio, in cui diverse superstar (Paul Swan, Baby Jane Holzer,
Mar-Mar Dopnyle, Jodie Babs, Tally Brown, Jack Smith, Fu-Fu Smith,
Tosh Carillo, Mario Montez e Gerard Malanga) sono invitate a esibirsi
4
per un tempo dato secondo il modello del varietà televisivo. L’utilizzo
arbitrario dello zoom, la staticità della macchina da presa, la pressoché
1
Cit. in Rainer Crone, Andy Warhol, Milano: Mazzotta, 1972, p. 32.
2
Sulla demistificazione warholiana dell’individualismo borghese ha parole efficaci
Andrew Ross, “Uses of Camp”, cit., pp. 166-168. Sulla valenza ‘sacrale’ della ‘divinità’
cinematografica è altresì specificamente utile Edgar Morin, op. cit.
3
Questa è la lettura del divismo offerta, significativamente, in prospettiva gay da Ri-
chard Dyer, Stars, cit., pp. 68-70, e sullo specifico warholiano da Steven Shaviro, op.
cit., pp. 220-224.
4
Il film, pressoché irrecuperabile, non ha ricevuto attenzione critica negli studi sul
cinema warholiano. Le informazioni tecniche sono state desunte dalla recensione alla
‘prima’ del lavoro: Thom Andersen, “Film: Camp, Andy Warhol”, Artforum, IV, 10, Ju-
ne 1966, p. 58.
248 GENEALOGIA DEL CAMP
1
Un effetto, questo, che caratterizza anche le interviste riportate nella rivista di War-
hol (Interview) o nel ‘romanzo’ a (1968), pura trascrizione di un colloquio tra lo stesso
Warhol (celato dietro al nome Drella, una contrazione di ‘Dracula’ e ‘Cinderella’ con la
quale l’artista era noto nell’ambiente underground) e la superstar Ondine.
2
Gretchen Berg, “Nothing to Lose: An Interview with Andy Warhol” (1967), in Mi-
chael O’Pray (ed.), op. cit., p. 56.
3
Ivi, p. 54.
4
Ivi, p. 61. Per un primo approccio alla paradossale ‘filosofia della vacuità’ di Andy
Warhol sono imprescindibili i due ‘manifesti’ Andy Warhol, The Philosophy of Andy
Warhol (From A to B and Back Again), New York: Harvester/HBJ, 1975; e Andy Warhol
and Pat Hackett, POPism: The Warhol Sixties, San Diego: Harvester/HBJ, 1990.
LE ORIGINI DISCORSIVE, I 249
1
sioni sul postmoderno. In prospettiva più ampia, l’impresa di Sontag
sembra assumere particolare significatività qualora venga messa in relazio-
ne con l’operazione di privilegio del significante che in quegli anni veniva
condotta in Francia da Roland Barthes, Jacques Lacan e Jacques Derrida,
e con lo storicismo anti-essenzialista, anti-teleologico e anti-positivistico
che andava elaborando Michel Foucault, imprese queste le quali vengo-
no spesso indicate tra i fattori che più di altri hanno determinato la co-
2
scienza postmoderna in chiave teorica oltre che nella prassi artistica.
Questa consonanza tra camp e postmoderno trova inoltre – lo si è vi-
sto nel capitolo 6 – nella peculiarità ironica, dalla marcata qualità nonsen-
sical sconfinante nel black humour, un elemento di particolare conforto.
Se quella postmoderna si configura infatti quale ironia ‘sospensiva’ o ‘in-
stabile’, quella che informa di sé l’estetica camp – come già osservava
Sontag – parteciperebbe del “oversaturated medium in which contempo-
3
rary sensibility is schooled”, producendosi in una irriducibile ambiguità
all’insegna dell’autocontraddizione deliberata e sistematica (“it is good
because it’s awful”), e suscitando quella sensazione di parodia ‘vuota’
discussa nella Parte Seconda. Il camp, si diceva, non critica le strutture
ideologiche opponendo loro un’alternativa coerente e persuasiva: pen-
siero debolissimo e instancabilmente oscillante, esso non risparmia al-
cunché dall’erosione ironica, il che ha offerto il fianco a critiche analoghe
a quelle che – soprattutto in prospettiva marxista – sono state mosse alla
4
cultura postmoderna.
A segnalare in modo evidente una postmodernità del camp, inoltre, è
l’esibizione dell’artificio e il rapporto problematizzato fra reale e fittizio,
elementi partecipi di una condizione epocale – quella del secondo dopo-
guerra – che non pensa più la rappresentazione quale specchio fedele del
mondo, e che promuove un radicale ripensamento del carattere mimetico
e referenziale del linguaggio. Un ripensamento affermatosi nell’ambito
teorico con strutturalismo, ricerche semiologiche e post-strutturalismo, e
1
Susan Sontag Sontag, “Against Interpretation”, in Against Interpretation and Other
Essays, cit., pp. 3-14. Nel medesimo volume si veda anche “On Style” (pp. 15-36), ap-
parso l’anno seguente.
2
Una scelta di testi che hanno segnato la teoria del postmoderno, da Fiedler, Sontag
e Irwing Howe a Ihab hassan e William Spanos, fino agli interventi più prossimi a noi
(a mano di Jean-François Lyotard, Fredric Jameson, Terry Eagleton, Linda Hutcheon e
Jean Baudrillard) è disponibile in Patricia Waugh (ed.), Postmodernism: A Reader, Lon-
don: Edward Arnold, 1992, pp. 31-47.
3
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 288.
4
Si confronti il capitolo 5.
LE ORIGINI DISCORSIVE, I 251
1
Oltre ai lavori che hanno studiato la parodia postmoderna (di cui nel capitolo 5), la
quale si sovrappone al procedimento di mise en abyme (si confronti l’esplicito Margaret
A. Rose, Parody // Metafiction. An Analysis of Parody as a Critical Mirror to the Writing
and Reception of Fiction, London: Croom Helm, 1979), eccellenti studi in merito sono
Lucien Dällenbach, Le récit spéculaire. Essai sur la mise en abyme, Paris: Seuil, 1977;
Linda Hutcheon, Narcissistic Narrative: The Metafictional Paradox, Waterloo: Wilfrid
Laurier University Press, 1980; e Patricia Waugh, Metafiction: The Theory and Practice of
Self-Conscious Fiction, London: Methuen, 1984. Sulla narrativa postmoderna, oltre alle
considerazioni disponibili in studi di più ampia prospettiva – quali in particolare Linda
Hutcheon, A Poetics of Postmodernism, cit.; Id., The Politics of Postmodernism, cit., e a
Brian McHale, Constructing Postmodernism, London: Routledge, 1992 – si veda Brian
McHale, Postmodernist Fiction, London: Methuen, 1987.
2
John Barth, Chimera, New York: Random House, 1972, p. 246.
3
Si vedano ad esempio i saggi raccolti in Jay L. Halio (ed.), Critical Essays on Angus
Wilson, Boston: Hall, 1985.
252 GENEALOGIA DEL CAMP
dei ruoli prima ancora che dei personaggi, dei copioni più che delle vi-
cende. Copioni suggeriti da vincoli familiari (in No Laughing Matter), di
classe (in Hemlock and After) o istituzionali, come in The Old Men at the
Zoo (1961), in cui l’affannarsi degli amministratori dell’Istituzione (lo Zoo
quale metafora sociale) per erigere la maschera di ufficialità conferisce
una valenza grottesca alla grandeur così ‘denudata’.
Nella testimonianza offerta da Wilson della irreversibile crisi in cui
1
versava la cultura dell’anteguerra, l’erosione esercitatasi sui tradizionali
privilegi non esclude quello di cui godeva il narratore (in quanto deposi-
tario e garante della Verità) nella narrativa realistica di stampo ottocente-
sco, che si attua nella scelta di presentazione drammatica e attraverso la
sostanziale assenza di superiorità della voce narrante nei confronti dei
2
materiali presentati. Tale assenza, che giustifica almeno in parte la man-
canza di ‘spessore’ dell’universo testuale (la mancanza di illusione di
spessore), è quanto caratterizza il gusto wilsoniano per il farsesco e per il
macabro come ilarità camp piuttosto che come satira, dato che il narrato-
re non si fa portatore di un criterio di ‘norma’ in frizione con il quale la
deformazione grottesca dei personaggi e delle situazioni narrate risulta
attivata. Se è vero che No Laughing Matter si richiama sotto molteplici
aspetti a un classico della letteratura satirica (i Gulliver’s Travels di Jona-
than Swift), l’ambiguità del titolo (“nulla di cui ridere”) a un lavoro pre-
gno di humour rivela tuttavia la peculiarità dello sguardo camp all’incon-
sistenza delle presunzioni (delle pose), in un respiro ironico che, sovrap-
ponendo snobismo e autocaricatura, ilarità e disperazione, produce una
sorta di disprezzo ‘partecipe’.
critica del linguaggio letterario. In tal modo, l’atto della lettura risulta sostanzialmente
straniato, la narrazione perde il carattere di fluida inconsapevolezza che altrimenti
coinvolgerebbe il lettore in identificazioni e illusioni sulla ‘realtà’ dell’universo fittizio.
Il lettore è così paradossalmente spinto alla coscienza sia del proprio intervento nel
testo sia della propria ‘estraneità’ dallo stesso.
1
È in questa specifica direzione che viene rivolta l’attenzione alla scrittura di Wilson
in Alan Sinfield, Literature, Politics and Culture in Postwar Britain, cit., pp. 74-77.
2
Sulla posizione del narratore, e sulle implicazioni di quest’ultimo sia in chiave di
regime di plausibilità sia di periodizzazione storica in base alla sua posizione, si con-
fronti Paola Splendore, Il ritorno del narratore. Voci e strategie del romanzo inglese contem-
poraneo, Parma: Pratiche, 1991. Il lavoro di Splendore, peraltro, disegna l’assenza del
narratore come prerogativa del modernismo, a fronte del ‘ritorno del narratore’ nella
scrittura postmoderna. In tal senso, Wilson rientrerebbe nella categoria di modernismo.
Ma è la matrice problematizzante dello stesso Wilson, che prescinde da valenze ‘og-
gettive’ della narrazione impersonale in favore di uno straniamento del ruolo di autore
e lettore, a caricarlo di un’ambiguità che si offre a una lettura in senso postmoderno.
254 GENEALOGIA DEL CAMP
1
Paola Altini, Eros, mito e linguaggio nella narrativa di Angela Carter, Pisa: ETS, 1990,
p. 119.
2
Cfr. ad esempio Robert F. Kiernan, Frivolity Unbound, cit., p. 18.
256 GENEALOGIA DEL CAMP
1
Paola Bono, “Intervista con Angela Carter”, DWF, 2, 1986, p. 100.
2
Brigid Brophy, In Transit, London: Gay Men’s Press, 1989, p. 177.
3
Ivi, p. 179.
4
Ivi, p. 11.
LE ORIGINI DISCORSIVE, I 257
cavalleresco, del giallo e della soap opera, del romanzo pornografico e del
‘rosa’, senza ‘identificarsi’ con esse (con le loro regole), senza cioè ‘essere’
alcunché se non un agglomerato barocco – e un secondo personaggio,
caratterizzato da un’analoga mutevolezza di genere sessuale, non è ca-
1
sualmente indicato con il nome di ‘Barocco’ – di eterogeneità.
Non è illegittimo pertanto parlare di un testo ‘ermafrodito’, metanar-
rativamente indefinito, che nel collasso dei codici culturali presenta in
definitiva una sovversione della normatività insita in una gestione con-
venzionale e stereotipica dell’identità. Sovversione realizzata anche con
un ricorso ad allusioni al tempo stesso volgari ed esilaranti, che si im-
pongono già fin dai titoli dei capitoli in cui è suddiviso il romanzo, i quali
ospitano intraducibili giochi di parole come “Sexhuntwo: The Case of the
Missing (Re)Member”. Le infrazioni delle regole testuali attivate dalla
dis-integrazione rococò di Brophy trovano insomma nel corpo grotte-
scamente smembrato una piena metafora dell’indeterminatezza labirinti-
ca e del principio di contraddizione (della logica aristotelica, del sé, delle
norme) che l’ermafrodito assume in altri lavori marcatamente camp, co-
me ad esempio in Myra Breckinridge (1968) e Myron (1974) di Gore Vidal
o in Flaming Creatures (1964) di Jack Smith, film underground in cui l’inde-
cidibilità sessuale dei personaggi ha un’analoga valenza speculare rispet-
to alla tecnica di ripresa, sconnessa e – in quanto tale – manifestamente
artificiosa.
Una qualità metatestuale dell’ermafroditismo emerge anche in The
Passion of New Eve (1977) di Carter, il/la cui protagonista Eve/lyn affron-
ta un percorso iniziatico fallimentare alla ricerca dell’identità, di quel sé
che viene definito dal personaggio stesso “the most elusive of all chime-
2
ras”. La decostruzione delle nozioni essenzialiste del soggetto, eviden-
3
ziabile quale Leitmotiv della scrittura carteriana, risulta messa in scena
1
Efficace introduzione alle numerose problematiche del romanzo è Maddalena Pen-
nacchia, “In Transit di Brigid Brophy: viaggio barocco nella significazione”, Quaderni
del Dipartimento di Linguistica – Università della Calabria, 8, 1993, pp. 105-136. Utili so-
no anche Annegret Maack, “Concordia Discors: Brigid Brophy’s In Transit”, Review of
Contemporary Fiction, XV, 3, Fall 1995, pp. 40-45; Brooke Horvath, “Brigid Brophy’s
It’s-All-Right-I’m-Only-Dying Comedy of Modern Manners: Notes on In Transit”,
ibidem, pp. 46-53; e Patricia Lee, “Communication Breakdown and the ‘Twin Genius’
of Brophy’s In Transit”, ibidem, pp. 62-67. Sulle intersezioni fra problematiche di ge-
nere sessuale e testuale si veda peraltro Lidia Curti, “Genre and Gender”, Cultural
Studies, II, 2, 1988, pp. 152-167.
2
Angela Carter, The Passion of New Eve, London: Virago, 1982, p. 38.
3
Cfr. Ricarda Schmidt, “The Journey of the Subject in Angela Carter’s Fiction”, Tex-
tual Practice, III, 1, 1989, pp. 56-75.
258 GENEALOGIA DEL CAMP
1
Su The Passion of New Eve è utile – oltre al volume citato di Paola Altini e all’articolo
di Ricarda Schmidt – Heather Johnson, “Textualizing the Double-Gendered Body:
Forms of the Grotesque in The Passion of New Eve”, Review of Contemporary Fiction,
XIV, 3, Fall 1994, pp. 43-48.
2
Angela Carter, The Passion of New Eve, cit., p. 129.
3
Ivi, p. 28.
4
Cfr. Paola Altini, op. cit., pp. 52-60.
LE ORIGINI DISCORSIVE, I 259
1
metaphisical abstraction of the female”, non tanto un essenza unica e
2
iripetibile bensì, di per sé, unicamente “her own replica”.
Nonostante questa dimensione del testo carteriano si sia largamente
offerta a una lettura di marca femminista, interessata alla decostruzione
dell’essenzialismo patriarcale responsabile della marginalizzazione fem-
minile, essa, alla luce di quanto si è venuto sostenendo, si consegna in
prima battuta quale strategia riconducibile al camp. Non a caso in The
Passion of New Eve l’indefinibilità denunciata dalla transessualizzazione
di Eve/lyn si trova in posizione speculare rispetto a quella dell’immagine
che ha dominato la sua adolescenza, alla Tristessa che nel corso del ro-
manzo si scoprirà essere un travestito. Il camp, si diceva, nega ogni natu-
ralità e priva il soggetto di dimensione intrinseca, equiparandolo a un
esercizio per così dire ‘citazionale’ – in breve, a una prassi rappresentati-
va. La transessualizzazione dei personaggi – e in particolare della diva –
si consegna quale strategia iconoclastica nei confronti delle procedure di
edificazione di un paradigma distintivo tra femminile e maschile: in ulti-
ma analisi, di un paradigma di ‘umanità’.
Basti a questo proposito, ricordando la celebrazione critica del divismo
attivata dalle superstar warholiane, sottolineare come un rappresentante
di spicco dell’underground statunitense qual è stato Ronald Tavel abbia
sostenuto alla metà degli anni Sessanta che le dive hollywoodiane degli
anni Sessanta fossero in effetti dei travestiti, intenti a incarnare/recitare il
ruolo del ‘femminile’: “Jean Harlow is a tranvestite, as are Mae West and
Marylin Monroe, in the sense that their femininess is so exaggerated that
it becomes a commentary on womanhood rather than the real thing or
3
representation of realness”. Non sorprende pertanto che, nonostante il
femminismo essenzialista abbia accolto con sospetto le rappresentazioni
camp del femminile, intravedendovi una qualità derogatoria di matrice
androcentrica, queste siano state indicate tra i fattori che più di altri han-
no promosso un’assunzione di coscienza dello statuto ‘fittizio’ (in quanto
edificio culturale ideologicamente marcato) di ciò che si designa come
1
Angela Carter, Fireworks: Nine Profane Pieces, London: Quartet, 1974, p. 30.
2
Ivi, p. 33. Si vedano in proposito Paola Altini, op. cit., pp. 52-60; e Linda Hutcheon,
The Politics of Postmodernism, cit., p. 32-33.
3
Ronald Tavel, “The Banana Diary: The Story of Andy Warhol’s Harlot”(1966), in
Michael O’Pray (ed.), op. cit., p. 66. In questi termini si esprimeva, a proposito di Greta
Garbo, anche Parker Tyler in “The Garbo Image”, in Michael Conway, Dion McGregor
and Mark Ricci (eds.), The Films of Greta Garbo, New York: Citadel, n.d., pp. 9-31. In-
torno al travestitismo warholiano si veda Steven Shaviro, op. cit., pp. 226-229.
260 GENEALOGIA DEL CAMP
1
‘donna’. La parodia camp del femminile si traduce cioè in una critica del
medesimo in quanto luogo di espressione di una intrinseca negatività o
mancanza, vale a dire in una forma di dissenso nei confronti della ge-
stione patriarcale del desiderio: una parodia, in breve, dell’oggetto del
desiderio maschile, eterosessuale e borghese, e della reificazione funzio-
nale al dominio patriarcale che questo desiderio presuppone.
L’oscillazione fra realtà e finzione in Carter non si limita a ogni modo
allo statuto del soggetto, bensì si attiva nei confronti del linguaggio quale
strumento di restituzione del reale, attraverso quello che la critica ha de-
nominato ‘realismo magico’. In The Infernal Machines of Doctor Hoffman
(1972), ad esempio, il delirio d’onnipotenza del personaggio eponimo si
esercita su una città scatenando un conflitto ‘semiologico’ in cui il lin-
guaggio viene esplicitamente investito del ruolo di gestione del ‘reale’.
Le macchine create da Hoffman, folle scienziato mutuato dalla tradizione
gotico-scientifica, agiscono infatti a livello segnico attraverso una sovver-
sione dei codici sui quali si fonda la città, causando un trasformismo in-
cessante degli oggetti la mutevolezza dei quali è funzionale alla struttu-
razione di un nuovo ordine: “[h]ardly anything remained the same for
more than one second and the city was no longer the conscious
2
production of humanity; it had become the arbitrary realm of dream”. Il
linguaggio (l’arbitrio) – più che rappresentare specularmente il reale – lo
ri-presenta, lo ‘crea’.
Tale assunto, in definitiva, è alla base dell’intera impresa demistifica-
toria di Carter, la quale si esercita in genere sulla convenzionalità
dell’umano e sulle sue ‘sacralità’ (Nothing Sacred è il titolo di una raccolta
di articoli data alle stampe nel 1982), senza escludere i credo religiosi (di
3
cui si evidenzia la finalità puramente consensuale), il repertorio favolistico,
e nemmeno la sessualità, la quale, lungi dall’essere uno spazio completa-
1
Sulla convergenza tra istanze femministe e travestitismo, e sui testi che ne hanno
affrontato il percorso, si rimanda al capitolo 3 del presente lavoro.
2
Angela Carter, The Infernal Machines of Doctor Hoffman, Harmondsworth: Penguin,
1982, p. 18. Intorno al romanzo si vedano Cornel Bonca, “In Despair of Old Adams:
Angela Carter’s The Infernal Desire Machines of Dr. Hoffman”, Review of Contemporary
Fiction, XIV, 3, Fall 1994, pp. 56-62, e Peter Christensen, “The Hoffman Connection:
Demystification in Angela Carter’s The Infernal Desire Machines of Dr. Hoffman”,
ibidem, pp. 63-70.
3
Alla riscrittura parodica della tradizione fiabesca da parte di Carter sono dedicati
Paola Altini, “La scrittura come riscrittura: The Bloody Chamber”, in op. cit., pp. 73-124;
e Mirella Billi, “La parodia della favola in Angela Carter”, in Il testo riflesso. La parodia
nel romanzo inglese, Napoli: Liguori, 1993, pp. 211-232.
LE ORIGINI DISCORSIVE, I 261
mente libero da ritualità o convenzioni, “on its own terms, among the
1
distorted social relationships of a bourgeois society”, viene denunciata
quale
1
Angela Carter, The Sadeian Woman: An Exercise in Cultural History, London: Virago,
1979, p. 9.
2
Ibidem. Si veda Hugo Claus, “Gender Matters in The Sadeian Woman”, Review of
Contemporary Fiction, XIV, 3, Fall 1994, pp. 18-23.
9
Le origini discorsive, II
A ritroso
Il carattere postmoderno del camp non si segnala solo per una sostan-
ziale coincidenza tra ingresso nella sfera discorsiva pubblica del camp e
prima configurazione di teorie e prassi postmoderne, o per una singolare
affinità fra le due nozioni. A partire dall’immediato dopoguerra si impo-
ne anche un interesse nei confronti della fase per così dire ‘clandestina’
del camp, in larga misura collocabile tra la fine del secolo scorso e gli anni
1
Cinquanta. Questo interesse si articola tanto nel recupero di una tradi-
zione culturale che – generalmente conchiusa nell’esperienza decadente
di fine Ottocento – attraversa in effetti l’intero Novecento, quanto in una
sostanziale rilettura della significatività del tardo estetismo alla luce delle
proposte postmoderne, rilettura attraverso cui è stato possibile rivalutare
la cultura fin de siècle non più quale mero epilogo del romanticismo, ben-
sì quale momento costitutivo di istanze che avrebbero ricevuto in seguito
piena articolazione.
Fin dalla seconda metà degli anni Quaranta si assiste in Gran Bretagna
alla pubblicazione di uno stuolo di opere, secondarie e primarie, afferenti
a maestri del camp come Oscar Wilde, Aubrey Beardsley, Frederick Rolfe
e Ronald Firbank. Nel 1948 Montgomery Hyde pubblica gli atti dei pro-
cessi Wilde e Vyvyan Holland (figlio dello stesso Wilde) introduce le
opere complete del padre, che saranno riproposte in veste ulteriormente
1
Inutile sottolineare che la ‘clandestinità’ di questa fase non corrisponde a una totale
assenza di visibilità del camp, quanto a una sua gestione come Altro marginalizzato
rispetto alla discorsività dominante. Si confronti quanto osservato nel capitolo 1.
264 GENEALOGIA DEL CAMP
1
Basti ricordare il Picture of Dorian Gray diretto da Albert Lewin nel 1945 e il The Im-
portance of Being Earnest di Anthony Asquith (1952). O ancora, lo Oscar Wilde tratto
dall’omonima pièce teatrale di Leslie e Sewell Stokes, che fu distribuito nel 1960, anno
di apparizione anche di The Trials of Oscar Wilde (di questi ultimi due film s’è detto nel
capitolo 4).
2
Aubrey Beardsley and John Glassco, Under the Hill, London: New English Library,
1966. La prima edizione di questo lavoro appare in effetti nel 1959 per i tipi della pari-
gina Olympia Press.
3
Cfr. Ronald Firbank, Valmouth / Prancing Nigger / Concerning the Eccentricities of Car-
dinal Pirelli, London: Penguin, 1961. La prima rappresentazione di The Princess Zouba-
roff ebbe luogo al Watergate Theatre di Londra nel giugno 1951.
4
Limitandosi alla produzione critica su Oscar Wilde, sul quale come si vedrà il silen-
zio era calato carattere particolarmente radicale, fra il 1946 e il 1963 appaiono almeno
15 volumi con Wilde come autore o come oggetto di studio, che Alan Sinfield registra
in The Wilde Century, cit., p. 143. Utili nella loro impresa di registrazione del patrimo-
nio critico su Wilde sono Thomas A. Mikolyzk, Oscar Wilde: An Annotated Bibliography,
London: Greenwood, 1993; e Ian Small, Oscar Wilde Revalued: An Essay on New Mate-
rials and Methods of Research, Greensboro: ELT Press, 1993, mentre è eccellente in-
trdouzione allo stuolo di riscritture del corpus wildiano John Stokes, Oscar Wilde:
Myths, Miracles, and Imitations, Cambridge: Cambridge University Press, 1996.
LE ORIGINI DISCORSIVE, II 265
1
Cfr. Elaine Showalter, op. cit., p. 163.
2
Quale rassegna introduttiva alle rappresentazioni e trasposizioni della Salomé wil-
diana si rinvia a Rita Severi, “Oscar Wilde, la Femme Fatale and the Salomé Myth”, in
Claudio Guillén (ed.), Proceedings of the Xth Congress of the International Comparative
Literature Association, New York: Garland, 1985, pp. 460-467. Un repertorio filmografi-
co esaustivo è disponibile in “I sette veli di Salomé”, sezione curata da Alberto Faras-
sino per la Mostra Internazionale Riminicinema, Rimini 17-22 settembre 1993, il cui
catalogo è apparso per l’editrice Clueb di Bologna, 1993 (pp. 49-60).
266 GENEALOGIA DEL CAMP
1
alien and terrible beauty of a rhetorical gesture”. Così come Tristessa,
Leilah e Lady Purple, Jewel è pura rappresentazione (ri-presentazione)
di una idea, di una qualità ontologica.
Se per molti versi la tradizione dandistica viene in genere assunta
quale anello imprescindibile nella tradizione del camp (da Sontag defini-
2
to infatti come “[d]andyism in the age of mass culture”), essa risulta
pregnante – sulla scorta dell’indicazione di Michel Foucault – anche in
prospettiva postmoderna. Il dandy offre infatti una tra le prime istanze di
consapevolezza della dimensione ‘estetica’ assunta dal soggetto, nella
dialettica tra sguardo autoreferenziale e dimensione pubblica (lo ‘sguar-
do altrui’): consapevolezza postmoderna, questa, del sé come costrutto
fittizio, arbitrariamente rivestito di carattere unitario, costante ed essen-
ziale (da scoprirsi attraverso un processo di scandaglio interiore), piutto-
sto che quale coacervo di stratificazioni culturali contraddittorie, in cui il
percorso autoanalitico conduce a un riconoscimento dei modelli ideolo-
3
gici che una data cultura offre alla costituzione del soggetto.
In ambito britannico, a ogni modo, la tradizione dandistica – il cui pri-
mo rappresentante è quel George ‘Beau’ Brummell la cui eleganza aveva
segnato l’Inghilterra della Reggenza – si afferma alla fine del secolo con
le pose e la scrittura di Wilde, Beardsley e Beerbohm: ed è in questa fase
che si sostiene prendere corpo lo statuto ‘teatrale’ del sé, vale a dire la
sostanziale identità fra ‘essenza’ del soggetto e sua apparenza. Il disim-
pegno – il ‘dilettantismo’ – del dandy inverte la gerarchia fra serio e futi-
le, spiritualizzando la Moda (la quotidianità, il deperibile) e avvilendo il
Rito, l’Eternità. Il dandy predilige cioè la ritualità svuotata di Trascendenza,
spogliando di ogni portata metafisica tanto le strutture ecclesiastiche e
4
sociali quanto la ‘sacralità’ testuale. I tardo esteti britannici si muovono
infatti all’interno di un paradigma che – causa la presa di coscienza tar-
dovittoriana dell’arbitrarietà dei sistemi linguistici; o ancora, causa
1
Angela Carter, Heroes and Villains, Harmondsworth: Penguin, 1981, p. 71.
2
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 289.
3
Cfr. Michel Foucault, “What is Enlightenment?” (1984), in Patricia Waugh (ed.), op.
cit., pp. 96-108.
4
Sull’estetica dandistica gli studi sono ormai numerosi: si vedano fra i più significa-
tivi Giovanna Franci, op. cit.; Patrick Favardin et Laurent Boüexière, Le dandysme, Lyon:
la manufacture, 1988; Roger Kempf (ed.), Balzac, Baudelaire, Barbey d’Aurevilly sur le
dandysme, Paris: UGE, 1971; Emilien Carassus (ed.), Le Mythe du dandy, Paris: Armand
Colin, 1971; Françoise Coblence, Le dandysme, obligation d’incertitude, Paris: PUF, 1988;
e Richard Pine, The Dandy and the Herald: Manners, Mind and Morals from Brummell to
Durrell, London: Macmillan, 1988.
268 GENEALOGIA DEL CAMP
l’erosione alla fine del secolo scorso della dicotomia fra arte e commercio
– non sembra più in grado di affidarsi in serena inconsapevolezza ai miti
1
liberal-umanisti che si esercitavano sul testo, sul reale e sul metafisico.
Ed è in larga misura in questa convergenza fra reificazione del soggetto,
imporsi delle dinamiche commerciali nella sfera dell’artistico e consape-
volezza dell’innaturalità dei codici, che la fin de siècle britannica si offre
quale momento al tempo stesso di inaugurazione del camp quale lo co-
nosciamo a tutt’oggi, e di formulazione di un approccio in una qualche
misura ‘postmoderno’ al reale e al fittizio.
Considerazioni di quest’ordine sanciscono l’illegittimità di una lettura
in chiave meramente commerciale del ‘ritorno’ estetizzante nel secondo
dopoguerra, o che si limiti a registrare la funzionalità controculturale di
un atteggiamento decadente negli anni Sessanta (nella trasgressività del-
la sessualità ‘liberata’, della fascinazione per il pensiero orientale e le
droghe, che segna la cultura pop del periodo). L’estetismo nell’epoca
della cultura di massa trova la propria significatività grazie allo sviluppo
sia di strumenti critici estranei al paradigma mimetico-espressivo, che
hanno promosso un ripensamento dell’eredità decadente, sia di una
prassi artistica che condivide numerosi tratti – l’eccentricità teatrale del
soggetto e del testo, il virtuosismo paradossale, il dominio del manieri-
smo ludico sull’utilizzo funzionalistico del linguaggio, l’oscillare dell’asse
realtà/finzione, il ‘narcisismo’ autoreferenziale e metanarrativo, la crisi
del modello immersivo di lettura, la ‘apertura’ dell’opera d’arte – con il
2
barocco tardoestetizzante.
La rinnovata rappresentabilità di una fase culturale ampiamente ri-
mossa risulta pertanto inserita in un processo di riattivazione in luce post-
moderna della testualità decadente e dei suoi miti. Secondo quanto e-
mergeva a proposito di The Passion of New Eve, le riscritture delle imma-
1
Tali riflessioni sono efficacemente articolate in Linda Dowling, Language and Deca-
dence in the Victorian Fin de Siècle, Princeton: Princeton University Press, 1986; e in Ra-
chel Bowlby, Just Looking: Consumer Culture in Dreiser, Gissing, and Zola, London:
Methuen, 1985.
2
È peraltro interessante notare come, a proposito del postmoderno, si sia più volte
sollecitato l’utilizzo alternativo del termine neobarocco. Cfr. Linda Hutcheon, Narcissi-
stic Narrative, cit., p. 2; Omar Calabrese, L’età neobarocca, Roma: Laterza, 1987; e Paola
Splendore, op. cit.. Sull’utilizzo da parte di Brigid Brophy di ‘Barocco’ in relazione
all’eterogeneità, e su come questa venga altrimenti ascritta al ‘postmoderno’, si con-
fronti il capitolo 5. E Angela Carter, da parte sua, in un’intervista del 1985 ha indicato
con il termine mannerism la teoria e pratica postmoderna. Intervista riportata in Carlo
Pagetti, “I percorsi del romance contemporaneo”, in Franco Marenco (a cura di), Storia
della civiltà letteraria inglese, vol. 3, Torino, Utet, 1996, p. 662.
LE ORIGINI DISCORSIVE, II 269
soffermerà nel capitolo 10. Per la valenza omosessuale del mito del Vampiro si segna-
lano Richard Dyer, “Children of the Night: Vampirism as Homosexuality, Homosexua-
lity as Vampirism”, in Susan Radstone (ed.), Sweet Dreams: Sexuality, Gender and Popu-
lar Fiction, London, Lawrence & Wishart, 1988, pp. 47-72; e Sue-Ellen Case, “Tracking
the Vampire”, Differences, III, 2, 1991, pp. 1-20.
1
Esemplari di questa prospettiva sono Mark Booth, op. cit., pp. 24-52, 117-120; e Ro-
bert F. Kiernan, Frivolity Unbound, cit., pp. 19-37.
LE ORIGINI DISCORSIVE, II 271
1
Cfr. Linda Dowling, op. cit., p. 144; e Chris Snodgrass, “Decadent Parodies: Aubrey
Beardsley’s Caricature of Meaning”, in John Stokes (ed.), Fin de Siècle/Fin du Globe:
Fears and Fantasies of the Late Nineteenth Century, London: Macmillan, 1992, p. 178.
Utilissimi nella rilettura di Beardsley sono anche i saggi contenuti in Robert Langen-
feld (ed.), Reconsidering Aubrey Beardsley, Ann Arbor: UMI Research Press, 1989.
2
Sulle illustrazioni al Rape of the Lock popiano, con particolare attenzione per l’opera
di Beardsley, è utile lo studio di Robert Halsban, The Rape of the Lock and its Illustra-
tions, 1714-1896, Oxford: Clarendon, 1980.
3
Il termine e la nozione di pornotopia si deve allo storico studio di Steven Marcus,
The Other Victorians: A Study of Sexuality and Pornography in Mid-Nineteenth-Century
England (1964), London: Weidenfeld and Nicholson, 1966.
272 GENEALOGIA DEL CAMP
1
of indiarubber”. Uno spazio, del resto, anch’esso eminentemente artifi-
ciale: “[p]erhaps the lake was only painted, after all. He had seen things
2
like it at the theatre”. Mascherato è infatti il testo stesso, che ripropone
parodicamente i modelli vittoriani di cultura ‘alta’ (quello offerto dal Tann-
häuser wagneriano, e quello romanzesco dell’Eroe in Viaggio, avvilito ad
allegoria della copula dalla quale l’eroe esce spossato, incapace di soddi-
sfare l’insaziabile voracità di Venere), così come la grafica beardsleyana
attiva una intertestualità irriverente con il Medioevo di William Morris e i
dipinti preraffaelliti di Edward Burne-Jones, Dante Gabriel Rossetti e
3
Holman Hunt.
Under the Hill è un testo che si compone secondo un principio se si
vuole già postmoderno di bric-à-brac degli oggetti, dei modelli artistici e
letterari evocati (sacri e profani, fittizi e reali, comunque buffamente per-
versi) o esplicitamente menzionati, che ha spinto la critica a parlare di un
testo ‘museale’ costruito secondo una strategia citazionale e dissacrante,
in cui l’intraprendenza sessuale degli gnomi è ad esempio descritta af-
fermando che “[t]hey illustrated pages 72 and 73 of Delvau’s Dictio-
4
nary”. Ma il bric-à-brac beardsleyano è ancor prima di matrice linguistica
(nell’eterogeneità estenuante degli stili ammassati, nell’aggettivazione
incalzante, nel periodare ad arabesco e nella ridondanza di locuzioni stra-
niere, arcaismi e argot), a segnalare la coincidenza tra saturazione cultu-
rale e decadenza, ovvero la spiccata autoconsapevolezza testuale, del lin-
5
guaggio nel linguaggio.
Quella di Beardsley è insomma una scrittura all’insegna della innatu-
ralità totalizzante e di una nuova forma di ‘bellezza’ squisitamente camp,
modulata sulla sovrabbondanza e spettacolarità barocca, che trova nell’ec-
cesso dell’imperfezione (della ‘innaturalezza’) la propria ragion d’essere:
6
“[t]he very excess and violence of the fault […] will be its excuse”, mor-
mora Tannhäuser sulla soglia di Venusberg, dopo che una rosa selvatica
si è impigliata ai ricami del fastosissimo abito da rake pseudosettecentesco
del Cavaliere. È del resto riconducibile al camp anche il Liberty grafico di
1
Aubrey Beardsley, Under the Hill, London, New English Library, 1966, p. 35.
2
Ivi, p. 64.
3
Cfr. Chris Snodgrass, op. cit., pp. 178-209. Del medesimo autore si veda anche
l’eccellente Aubrey Beardsley: Dandy of the Grotesque, Oxford: Oxford University Press, 1995.
4
Aubrey Beardsley, op. cit., p. 30. Sulla valenza ‘museale’ dell’universo beardsleyano
è puntuale Giovanna Franci, op. cit., pp. 152-155.
5
Cfr. Linda Dowling, op. cit., pp. 144-150.
6
Aubrey Beardsley, op. cit., p. 23.
LE ORIGINI DISCORSIVE, II 273
1
Susan Sontag, “Notes on ‘Camp’”, cit., p. 279.
2
Aubrey Beardsley, “The Art of the Hoarding”, The New Review, XI, 1894, pp. 53-55.
3
Cfr. Elaine Showalter, Sexual Anarchy, cit., pp. 150-156; e Linda Gertner Zatlin, Au-
brey Beardsley and Victorian Sexual Politics, Oxford: Clarendon, 1990.
4
Cfr. Linda Dowling, op. cit., pp. 147-148.
274 GENEALOGIA DEL CAMP
1
Ivi, p. 363.
2
Ivi, p. 357.
3
Ivi, p. 330.
4
Oscar Wilde, “Preface to The Picture of Dorian Gray”, in The Complete Works, cit., p. 17.
276 GENEALOGIA DEL CAMP
1
Sulla valenza postmoderna di Wilde si veda Jonathan Dollimore, Sexual Dissidence,
cit., pp. 64-73.
2
Intorno alla correlazione storica fra omosessualità e patologia, con specifica atten-
zione alla sua rappresentazione letteraria a cavallo dei due secoli, si veda Vita Fortuna-
ti, “Homosexualité et maladie dans la littérature anglaise de 1890 à 1930”, in Max Mil-
ner (a cura di), Littérature et pathologie, Paris: Presses Universitaires de Vincennes,
1989, pp. 213-226.
LE ORIGINI DISCORSIVE, II 277
1
cito. La valenza omosessuale della ‘posa’, che ha caratterizzato il camp –
soprattutto nella sua fase clandestina – nella direzione di ‘codice gay’, è
insomma come si vedrà nella prossima sezione un effetto del discorso
processuale, poiché prima di esso l’effeminatezza, testimoniata ad esem-
pio dal dandy, dal fop, dal rake, dal culto settecentesco della sensibilità o
dall’estetismo di Pater (e da quello wildiano antecedente i processi), non
era univocamente percepita come indicativa di un’identità gay. Fu solo
durante gli atti giudiziari che la percezione venne codificata, a sancire la
sostanziale coincidenza fra ‘Oscar Wilde’, estetismo, ostentazione effe-
minata e omosessualità, che risuonerà nella prima attestazione del camp
di cui si diceva in apertura e che segnerà a lungo la cultura britannica.
1
Esemplari in tal senso le allusioni elencate da Christopher Craft, “Alias Bunbury:
Desire and Termination in The Importance of Being Earnest”, Representations, 31, Spring
1990, pp. 19-46; e da Wayne Koestenbaum, “Wilde’s Hard Labor and the Birth of Gay
Reading”, in Joseph A. Boone and Michael Cadden (eds.), Engendering Men: The Ques-
tion of Male Feminist Criticism, London: Routledge, 1990.
2
Sulla ‘nascita’ dell’omosessuale si veda – oltre al ‘classico’ La volonté de savoir di Mi-
chel Foucault, cui del resto si rifanno tutti i sostenitori di questa tesi – Jeffrey Weeks,
Sex, Politics and Society: The Regulation of Sexuality since 1800, cit., pp. 99-103. La cen-
tralità dell’immagine wildiana nella costituzione di una ‘identità’ omosessuale è peral-
tro il fuoco d’attenzione di Ed Cohen, Talk on the Wilde Side: Towards a Genealogy of a
Discourse on Male Sexualities, London: Routledge, 1993; e di Alan Sinfield, The Wilde
Century, cit.
278 GENEALOGIA DEL CAMP
1
studio di Alan Sinfield – The Wilde Century – nel quale il critico inglese
attiva una rilettura dello spettro delle sessualità funzionale alla destabi-
lizzazione dei poli attorno ai quali si è venuta strutturando la moderna
concezione d’identità sessuale e della localizzazione nel sesso della ‘in-
tima verità’ del soggetto. Rileggere la circolazione delle sessualità e dei
ruoli di genere in Shakespeare, come fa Sinfield, si consegna quale prima
e inevitabile tappa di uno straniamento del legame stereotipico che il
senso comune stabilisce fra omosessualità, effeminatezza e teatralità, va-
le a dire del quadro di intelligibilità degli stessi che la stratificazione di-
scorsiva fra cultura dominante e istanze sottoculturali è venuta edifican-
do, e in particolare della polarità fra maschile e femminile e fra i loro in-
dici sociali, ‘mascolinità’ e ‘femminilità’/‘effeminatezza’.
La passione omoerotica che circola nei numerosi testi rinascimentali
cui Sinfield attinge nella sua rassegna – che spazia dal miltoniano Sam-
son Agonistes al Tamburlaine e a Dido Queen of Carthage di Christopher
Marlowe, privilegiando a ogni modo Shakespeare con Troilus and Cressida,
Romeo and Juliet, Antony and Cleopatra, Coriolanus e Henry V – era fonda-
mentale quale collante sociale fra figure la cui mascolinità ne era raffor-
zata più che messa in crisi. L’effeminatezza veniva imputata a un eccesso
di frequentazione femminile, e riprovata in quanto prassi di disturbo alla
gerarchia sociale e culturale: l’uomo era tale se si vincolava a una società
tanto esclusivamente maschile quanto depositaria di valori marziali, e se
avvicinava il femminile senza abbandonare la propria posizione di auto-
rità e la mascolinità cui questa corrispondeva.
I fops e cuckolds rappresentati, ad esempio, in The Country Wife di Wil-
liam Wycherley o in The Princess of Cleve di Nathaniel Lee, testimoniano
nella seconda metà del Seicento un’effeminatezza cui corrisponde, prima
ancora che un eclettismo sessuale (del resto non esclusivamente omo-
sessuale), l’incapacità di gestire con successo il rapporto con il femminile,
con l’‘inferiore’. La prassi sodomitica si inscriveva in questa medesima
logica di preservazione dell’ordine: essa risultava tollerabile o meno in
ragione del ruolo assunto nell’atto, rendendo il termine derogatorio
‘Ganymede’ esclusiva del partner passivo in quanto reo di aver abdicato
dalla posizione di supremazia maschile per abbassarsi al ruolo cui solo le
2
donne erano legittimamente confinabili.
1
Alan Sinfield, The Wilde Century, cit.
2
Cfr. Alan Sinfield, “Uses of Effeminacy”, in The Wilde Century, cit., pp. 25-51. Oltre
che Sinfield, sono imprescindibili gli altri studi che la storiografia gay e neostoricista ha
LE ORIGINI DISCORSIVE, II 279
prodotto nel settore: si vedano in particolare Bruce Smith, Homosexual Desire in Shake-
speare’s England, Chicago: Chicago University Press, 1991; Alan Bray, Homosexuality in
Renaissance England, London: Gay Men’s Press, 1982; Id., “Homosexuality and the
Signs of Male Friendship in Elizabethan England”, History Workshop, 29, 1990, pp. 1-
19; Gregory W. Bredbeck, Sodomy and Interpretation: Marlowe to Milton, Ithaca: Cornell
University Press, 1991; Jonathan Goldberg, Sodometries, Stanford: Stanford University
Press, 1992; e Stephen Orgel, “Nobody’s Perfect: Or Why Did the English Stage Take
Boys for Women?”, South Atlantic Quarterly, 88, 1989, pp. 7-29. I contributi di rilettura
sullo spettro delle sessualità protomoderne sono peraltro ormai numerosissimi. Per
un’ottima rassegna si veda Jonathan Dollimore, “Shakespeare Understudies: The
Sodomite, the Prostitute, the Transvestite and Their Critics”, in Jonathan Dollimore
and Alan Sinfield (eds.), Political Shakespeare: Essays in Cultural Materialism, Manches-
ter: Manchester University Press, 1994, pp. 129-152.
1
Cfr. Randolph Trunbach, “London’s Sodomites: Homosexual Behavior and West-
ern Culture in the Eighteenth Century”, Journal of Social History, 11, 1977, pp. 1-33;
Id.,“Sodomitical Subcultures, Sodomitical Roles, and the Gender Revolution of the
Eighteenth Century: The Recent Historiography”, Eighteenth-Century Life, 9, 1985, pp.
109-121, e Ricton Norton, Mother Clap’s Molly House: The Gay Subculture in England,
1700-1830, London: Gay Men’s Press, 1992. È in base a tale consonanza fra sottocultu-
ra gay e prassi delle molly houses che quest’ultime sono state indicate quali primissime
istanze del low camp da David Bergman, “Strategic Camp”, cit., p. 93; e da Thomas
King, op. cit.. In base al principio ‘genealogico’ qui assunto, a ogni modo, l’inclusione
delle stesse nel camp risulta problematica, se non palesemente illegittima.
280 GENEALOGIA DEL CAMP
1
Più ancora che Sinfield, Thomas King, op. cit. offre spunti di eccellente lucidità in
merito al rapporto fra aristocrazia, omosessualità e sistemi segnici dell’effeminatezza.
Si confrontino in merito i capitoli 1 e 7.
2
Cfr. Alan Sinfield, “Manly Sentiments”, in The Wilde Century, cit., pp. 52-83.
LE ORIGINI DISCORSIVE, II 281
sere in questo senso la risposta a una crescente messa in crisi dei confini
di genere, o in altri termini l’espressione di uno stato culturale che pro-
prio nelle istituzioni scolastiche, ad esempio, vedeva fiorire gli insegna-
menti estetizzanti di Walter Pater, e con questi le pratiche omoerotiche
fra gli allievi. Al contempo, la problematicità non era inerente alle prati-
che in sé, bensì alla sfida che esse, e l’oziosa immoralità di cui si faceva
depositaria l’aristocratica leisure class che ospitava sia l’effeminatezza sia
una sessualità esuberante le modalità legittimamente date dalla normati-
vità dominante, portavano all’organizzazione gerarchica del nucleo fami-
liare e al mantenimento della divisione fra classi funzionale all’ordine
sociale.
Ciò che emerge dall’excursus storico cui Sinfield dedica la gran parte di
The Wilde Century, in breve, è l’intricato evolversi di un’organizzazione di
segni prima ancora che di pratiche sessuali. Queste non determinarono
del resto neppure l’effeminatezza che caratterizzò l’estetismo decadente
e la fin de siècle britannica, in cui il dispendio e la superficialità dell’aristo-
crazia si coniugarono con quanto veniva rappresentato – si pensi alle in-
fluenti riflessioni di Max Nordau – come eccesso di interesse per
l’improduttiva sfera artistica e come ‘degenerazione’ della specie, in even-
tuale (ma non necessaria) sovrapposizione a una pratica sodomitica sen-
1
za per questo denunciarla univocamente.
I molteplici fattori che oggigiorno – soprattutto in contesto anglosas-
sone – verrebbero identificati con un’omosessualità del soggetto che se
ne fa portatore, erano cioè indicati quali elementi o prassi singolarmente
riprovevoli, senza per questo essere leggibili come un tutt’uno, ricondu-
cibili cioè a un quadro di intelligibilità che li organizzasse in un sistema
in cui un elemento rimanda inesorabilmente all’altro. Con questi oriz-
zonti si confrontò esemplarmente Oscar Wilde, il quale doveva indivi-
duare nella commistione di amoralità, teatralizzata eccentricità, ostenta-
zione di sé e indolenza che il dandy incarnava fin dallo storico Lord
Brummell nell’Inghilterra della Reggenza, il terreno per una messa in cri-
si in chiave estetizzante delle distinzioni gerarchiche fra classi e sessi, con
le loro molteplici implicazioni in termini culturali. Nell’esame di una te-
stualità e di un soggetto che si segnalano per la sovversività della loro
indeterminatezza piuttosto che per quella della pratica sessuale, il lavoro
di Sinfield prende infatti le mosse da un irriducibile divario fra l’attuale
1
Cfr. Alan Sinfield, “Aestheticism and Decadence”, in The Wilde Century, cit., pp.
84-108.
282 GENEALOGIA DEL CAMP
1
La depenalizzazione dell’omosessualità in Gran Bretagna avvenne nel 1967 con il
Sexual Offences Act, in cui si autorizzò la sua pratica fra persone di età superiore ai
ventuno anni.
2
Il processo vide imputati di pratiche sodomitiche due teatranti noti anche con il
nome d’arte di Fanny e Stella, che furono assolti perché la loro effeminatezza e dedi-
zione al travestitismo, e con queste le lettere degli ammiratori prodotte dall’accusa,
non costituivano sufficiente prova indiziaria. Al caso, e alla sua significatività per il
camp, si è già accennato nel capitolo 7.
3
Cit. in Alan Sinfield, The Wilde Century, cit., p. 93. Ciò invalida di fatto l’automatismo
dell’equiparazione di effeminatezza, estetismo e omosessualità operata da Richard
Dellamora, Masculine Desire, cit.
LE ORIGINI DISCORSIVE, II 283
1
Imprescindibile sulla rappresentazione coeva dei processi Wilde è Ed Cohen, Talk
on the Wilde Side, cit.
2
In Maurice E. M. Forster parla ad esempio di “unspeakable of the Oscar Wilde
sort”. E. M. Forster, Maurice, Harmondsworth: Penguin, 1972, p. 136. Intorno alla va-
lenza post-processuale del posing ha spunti interessanti anche Moe Meyer, “Under the
Sign of Wilde: An Archeology of Posing”, in Moe Meyer (ed.), op. cit., pp. 75-109.
3
La nozione di bricolage che sottende l’argomentazione di Sinfield è ovviamente de-
rivata da Claude Lévi-Strauss, il quale la articola esemplarmente ne Le totémisme au-
jourd’hui, Paris: P.U.F., 1962, e ne La pensée sauvage, Paris: Plon, 1962.
4
Camp e queer, s’è detto, sono ampiamente sovrapposti e sovrapponibili (cfr. il capi-
tolo 7). L’utilizzo che Sinfield fa di queer in senso storico (e, almeno in parte, teorico) è
di fatto intercambiabile con quello di camp, cui del resto lo stesso volume di Sinfield fa
ampiamente ricorso.
5
Il modello wildiano di omosessualità ha infatti marcate implicazioni in termini di
ceto sociale: esemplare in tal senso l’acrimonia della classe operaia per gli ‘oscarwile’, e
il fatto che la queerness escludesse il soggetto di pratiche omoerotiche appartenente alla
lower class. Cfr. Alan Sinfield, “Class Relations”, in The Wilde Century, cit., pp. 130-160.
Ma si confronti anche quanto osservato nel capitolo 7 sulle implicazioni della queerness
in chiave di classe sociale.
284 GENEALOGIA DEL CAMP
1
d’essere nell’orientamento sessuale del soggetto.
Un’identificabilità, un effetto discorsivo, un paradigma indiziario si e-
rano così ad un tempo costituiti. E l’immagine wildiana avrebbe infatti
costituito il principale stereotipo dell’omosessuale fino agli anni Settanta,
quando la nascita dell’attivismo gay si tradusse nel rifiuto dello stereoti-
po del queer (nell’accezione umiliante del termine, che sarà in questa fase
pressoché l’unica in circolazione, e cui sarà contrapposta l’autonomina-
zione ‘gay’) attraverso l’articolazione di un modello ipermascolino – con
l’immagine butch, o con la cultura clone in California – cui corrispondeva
2
un’istanza agonistica a difesa dei diritti e dell’orgoglio omosessuale. Il
fatto che un lettore, soprattutto se gay, non possa evitare di percepire oggi-
giorno un’allusività omoerotica nei testi wildiani, e di sorprendersi perché
la sessualità di Wilde possa avere per quindici anni eluso il riconoscimento
da parte dei contemporanei, è in questo senso riconducibile a un effetto
epistemico: Oscar Wilde, prima ancora che oggetto di lettura, è insomma
inscritto nel quadro di intelligibilità che su quell’oggetto si investe.
In tale chiave, i riferimenti alla potenzialità omosessuale in Wilde – e,
ad un tempo, nel camp come discorso – non possono limitarsi a registra-
re allusioni alla sottocultura gay all’epoca diffusa fra i meandri urbani,
come nel caso del garofano verde ostentato dall’esteta – segno di ‘rico-
noscimento’ negli ambienti parigini e simbolo della innaturalità impro-
duttiva di cui l’edonismo wildiano si faceva portatore in termini semanti-
ci oltre che sessuali –, o nella particolare seduzione esercitata da Lord
Henry Wotton su Dorian attraverso quello yellow book in cui si è identifica-
to A Rebours di Joris-Karl Huysmans (romanzo nel quale, incidentalmente,
è ritratta l’esperienza omosessuale). O ancora, nell’insinuazione di un
rapporto omoerotico tra Shakespeare e il destinatario dei Sonetti, di cui
3
ci viene presentato un ritratto in “The Portrait of Mr. W.H.” (1889).
1
Che l’effeminatezza divenga un segno distintivo del soggetto omosessuale solo in
conseguenza dei processi Wilde è sostenuto efficacemente anche in L. Dowling, Helle-
nism and Homosexuality in Victorian Oxford, Cornell UP, Ithaca 1994.
2
L’univocità del modello wildiano sarà indotta, oltre che da teorie mediche di cui si
dirà nelle prossime pagine, dalla mancata circolazione di un modello alternativo
all’interno della sottocultura omosessuale (non ultimo perché il Maurice forsteriano,
nel quale si dispone un preciso rifiuto della queerness, non doveva essere pubblicato
prima del 1971). Sul tentativo di E. M. Forster di legittimare una modalità esistentiva
omosessuale all’insegna della mascolinità si veda Joseph Bristow, “Against ‘Effemi-
nancy’: The Sexual Predicament of E. M. Forster”, in Effeminate England: Homoerotic
Writing After 1880, Buckingham: Open University Press, 1995, pp. 55-99.
3
Sulla valenza simbolica del ‘ritratto’ nella cultura dell’estetismo e della fin de siècle è
LE ORIGINI DISCORSIVE, II 285
1931 si sarebbe consentita la messa in scena della tragedia nei teatri au-
1
torizzati dal Lord Chamberlain’s Office. Era cioè calato il sipario pub-
blico su ‘Oscar Wilde’: nelle parole di un contemporaneo, “[t]he best
thing for everybody now is to forget all about Oscar Wilde, his perpetual
posings, his aesthetical teachings and his theatrical productions. Let him
2
go into silence, and be heard no more”.
È perlopiù in questa dimensione occulta e al tempo stesso riconoscibile
indiziariamente, sotto il segno del dramma wildiano e per così dire ‘in
nome di Wilde’, che il camp si diffonde in Gran Bretagna durante la pri-
ma metà del nostro secolo. Esso si sviluppa – fino a quando la discussa
sovrapposizione fra controcultura pop e camp non interviene a modifica-
re le condizioni d’essere di quest’ultimo – in accordo a quella strategia di
indecidibile ambiguità messa in gioco dal teatro wildiano, scisso in ter-
mini di possibilità fruitive fra un sentimentalismo idilliaco che consentiva
all’Alta Società l’identificazione con l’immagine rappresentata, una qual-
che valenza satirica volta a compiacere i recensori, e infine una dimen-
sione di lettura specificamente rivolta nella propria ambigua allusività
alla audience omosessuale, la quale dominando lo spettro delle possibili
letture – articolandosi nel medesimo codice – possedeva di fatto una
3
chiave privilegiata di accesso al testo.
Dominati dall’icona wildiana e orientati verso una ‘élite del margine’
del tutto immaginaria furono la personalità e il lavoro di Frederick Rolfe,
detto ‘Baron Corvo’, la cui condizione di escluso si associa all’osten-
tazione di una propria qualità aristocratica. Questa dialettica presiede in
particolare ai romanzi Don Renato (1909) e Nicholas Crabbe, or the One and
the Many (apparso postumo nel 1958), nel ricorso a una modalità espres-
siva esasperatamente aulica, in cui l’erudizione esibita a livello di registro
e di rimandi testuali si consegna quale ricerca di una comunità di pari.
Siamo di fronte insomma all’esordio della ‘regina’ camp, di un narcisi-
smo dalle sfumature patologiche, chiusa nell’enigmaticità della corazza
cui allude il nome Crabbe (da crab, ‘granchio’), ossessionata da ansie di
1
Nel frattempo essa ottenne solo tre produzioni ‘private’, fra il 1905 e il 1911 (il 3 e
10 marzo 1905 al Bijou Theatre di Bayswater; il 10 giugno 1906 al King’s Hall, e infine
il 27 febbraio 1911 al Royal Court Theatre). Cfr. Karl Beckson, “Salomé”, Times Literary
Supplement, 23 September 1994, p. 17.
2
Cit. in Regenia Gagnier, op. cit., p. 146. La rimozione di Wilde caratterizza più che
altro la scena britannica. Nell’Europa continentale e almeno in parte negli Stati Uniti la
stigmatizzazione non si manifestò in forma così violenta, consentendo un apprezza-
mento della sua significatività estetica.
3
Cfr. Regenia Gagnier, op. cit., p. 106 e passim.
LE ORIGINI DISCORSIVE, II 287
1
Si vedano, in proposito alla biografia postmoderna, Linda Hutcheon, A Poetics of
Postmodernism, cit.; Id., The Politics of Postmodernism, cit.; Fabio Cleto, “Verso una ri-
nascita dell’autore?”, cit.; Id., “Biografia, ideologia, autor-ità interpretativa (con un
caso esemplare)”, Textus, VI, 1993, pp. 179-220; e i saggi in William H. Epstein (ed.),
Contesting the Subject: Essays in the Postmodern Theory and Practice of Biography and Bio-
graphical Criticism, West Lafayette: Purdue University Press, 1991.
2
Si confronti l’invito wildiano di cui nel capitolo 6 (“the one duty we owe to history
is to re-write it”). Da parte sua, Strachey scriverà nella prefazione a Eminent Victorians
che “ignorance is the first requisite of the historian”. Lytton Strachey, Eminent Victori-
ans (1918), London: Chatto & Windus, 1979, p. 21. Sul ripensamento della narrativa
biografico-storica in atto all’inizio del secolo, a partire dal capolavoro di Virginia Wo-
olf, si veda Vita Fortunati, “Parodia e ironia in Orlando di Virginia Woolf”, in Lilla Ma-
ria Crisafulli Jones e Vita Fortunati (a cura di), Ritratto dell’artista come donna. Saggi
sull’avanguardia del Novecento, Urbino: QuattroVenti, 1988, pp. 71-90.
3
Tuttora valida introduzione all’opera e alla vita di Frederick Rolfe è Carla Marengo
Vaglio, Frederick Rolfe ‘Baron Corvo’, Milano: Mursia, 1969.
288 GENEALOGIA DEL CAMP
1
Introduttivo alle Mapp and Lucia chronicles è Robert F. Kiernan, Frivolity Unbound,
cit., pp. 66-94.
2
Cfr. ivi, p. 67.
LE ORIGINI DISCORSIVE, II 289
rità esplose nel 1924 con la pièce dal titolo di The Vortex, per poi essere
consolidata da un cospicuo novero di produzioni, che spaziano dall’ope-
retta al melodramma, dalla commedia brillante a quella musicale, dal
racconto al romanzo, e da una vorticosa proposta di sé nei music-hall,
nei night metropolitani, e a partire dagli anni Quaranta in programmi
1
televisivi e lavori cinematografici di grande risonanza. Coward si impose
insomma attraverso un esercizio di autopromozione che richiama per
molti versi Wilde, con il quale condivideva un’ambigua immagine di
egotismo edonistico, oltre che di sofisticata insolenza e sentimentalismo
nei confronti della Café Society degli anni Venti – in una qualche misura
corrispettivo dell’Alta Società tardovittoriana e, nella crescente democra-
tizzazione della società dello spettacolo, del jet set statunitense cui a-
2
vrebbe rivolto lo sguardo Andy Warhol.
I trent’anni che separano i processi Wilde dal successo di Coward in-
quadrano la distanza fra il lavoro e il riscontro pubblico dei due scrittori:
allorché infatti Coward riprende la strategia di svuotamento delle formu-
le doxastiche (ricorrendo nelle sue opere a un pastiche di personaggi e
modelli artistici attinti dal teatro popolare del primo quarto di secolo,
dalle simmetrie forzate e dalla totale irrealtà) cui Wilde aveva fatto ricor-
so negli aforismi e nelle commedie, egli si trova a dare voce con ciò agli
hectic Twenties, in cui l’eccitazione e il rinnovamento dei parametri com-
portamentali nella società postbellica si coniugava alla generale disillu-
sione che caratterizzava le ‘Bright Young Things’ e la vita di bohème
dell’epoca, resa non più prerogativa di un côté degenerato del sociale
3
bensì fenomeno di costume. Escluso dal palco della Cultura e relegato al
1
In veste di sceneggiatore o regista Coward realizzò, solo fra il 1942 e il 1945, In
Which We Serve, This Happy Breed, Blithe Spirit e Brief Encounter. Ma l’artista si distinse
anche come attore (rimarchevole la sua partecipazione nel 1968, accanto a Elizabeth
Taylor e Richard Burton, a Boom! di Joseph Losey). Quale introduzione all’opera e alla
personalità pubblica cowardiana sono utili Cole Lesley, The Life of Noël Coward, Lon-
don: Jonathan Cape, 1976; Milton Levin, Noel Coward, New York: Twayne, 1968; John
Lahr, Coward the Playwright, London: Methuen, 1982; e Robert F. Kiernan, Noel Co-
ward, New York: Frederick Ungar, 1986.
2
Il parallelo fra Café Society del primo dopoguerra, Alta Società di fine secolo e so-
cietà dello spettacolo degli anni Sessanta viene articolato nell’intervista citata di Tom
Wolfe a Baby Jane Holzer.
3
L’espressione chiave per Coward e per la sua epoca sarebbe infatti fashionable disil-
lusion; prodotta dalla sintesi di pessimismo e di fermento sociale, di liberazione, di
nuovi standard comportamentali: “Coward may have [..] helped make disenchan-
tment and world-weariness signs of sophistication, but there was nothing depressing
about it all”. Milton Levin, op. cit., p. 27.
290 GENEALOGIA DEL CAMP
1
Intorno al romanzo di Hollinghurst, fra i più significativi eserdi letterari della scena
contemporanea, si vedano Joseph Bristow, “Coda: Effeminate Endings”, in Effeminate
England: Homoerotic Writing After 1885, Buckingham: Open University Press, 1995, pp.
166-180; Ross Chambers, “Messing Around: Gayness and Loiterature in Alan Holl-
inghurst’s The Swimming Pool Library”, in Judith Still and Michael Whorton (eds.), Tex-
tuality and Sexuality: Reading Theories and Practices, Manchester: Manchester University
Press, 1993, pp. 207-219; e Richard Dellamora, “Tradition and Apocalypse in Alan
Hollinghurst’s The Swimming Pool Library”, in Apocalyptic Overtures: Sexual Politics and
the Sense of an Ending, New Brunswick: Rutgers University Press, 1994, pp. 173-191.
2
Sull’utilizzo firbankiano del modello jazzistico e cinematografico si veda William
Lane Clark, “Degenerate Personality: Deviant Sexuality and Race in Ronald Firbank’s
Novels”, in David Bergman (ed.), op. cit., pp. 134-155.
3
Ronald Firbank, The Flower Beneath the Foot, cit., p. 544.
292 GENEALOGIA DEL CAMP
1
invariably made him fidget”, riattivando l’aforisma wildiano in accordo
al quale l’assenza di ‘anima’ sarebbe la condizione caratterizzante il sog-
2
getto della modernità. Conosciamo in Firbank solo delle ‘figurine’ che si
muovono senza direzione, obliquamente (queerly) su pannelli decorativi
la cui bidimensionalità suggerisce in varia misura il Liberty, il déco e le
3
tavole grafiche di Erté. Modulato su una bizzarra commistione dei mo-
delli offerti dalla commedia della Restaurazione, da Wilde, da Beardsley e
dal Tristram Shandy di Laurence Sterne, l’universo firbankiano si produce
in una testualità di raffinatezza (di complessità e di artificiosità) estenua-
ta ed estenuante quant’altre mai, dominato qual è dall’oscillazione fra
illusionismo (la finzione prospettica) e ostentazione smascherante dello
stesso: “[w]hat an elegant view! What deceptive expanse! So much, con-
tained in so little, suggested a landscape painted delicately upon a porce-
4
lain cup or saucer, or upon the silken panel of a fan”.
La strategia camp di straniamento dell’atto di lettura si attiva nella
formulazione di un estetismo da operetta, in cui tutto è ruolo e artificio, e
nelle numerose irruzioni sulla scena narrativa da parte dell’autore quale
5
personaggio esplicitamente evocato. Ma prima ancora si attiva nella
straordinaria vacuità testuale testimoniata dal sistematico ricorso alla re-
ticenza e all’allusione, che costringe il lettore a uno sforzo di supplenza
senza pari nella scrittura tardoestetizzante. Una partecipazione attiva del
lettore che viene auspicata anche dal massiccio utilizzo delle inflessioni
verbali, dell’ammiccare, dell’inversione sintattica, del corsivo, del lin-
guaggio desueto, del patois nero che domina Valmouth (1919) e Prancing
Nigger (1924), tutti elementi che promuovono una lettura all’insegna del-
6
la performance – dell’ostentazione – del sé-lettore. Ma soprattutto nella
mancanza dei momenti essenziali ai fini della comprensione dell’ordito
narrativo, che scatenando nel lettore un’ansia di ricostruzione degli e-
1
Ivi, p. 506.
2
“To be really modern one should have no soul”. Oscar Wilde, “A Few Maxims for
the Instruction of the Over-Educated”, in The Complete Works, cit., p. 1203
3
Cfr. Luigi Sampietro, La narrativa di Ronald Firbank, Imola: Galeati, 1979, pp. 69-70.
4
Ronald Firbank, The Artificial Princess (1934), in The Complete Ronald Firbank, cit., p. 31.
5
Irruzioni che emergevano anche in Max Beerbohm, il quale in Zuleika Dobson
(1911) si rivolge più volte al lettore in modo diretto, mentre la protagonista dichiara di
avere appreso il proprio stile conversativo da un certo “Mr. Beerbohm”.
6
Non a caso è stato osservato in più di un’occasione che Firbank risulti godibile solo
se letto ad alta voce, se cioè recitato. Si veda in proposito Jocelyn Brooke, Ronald Fir-
bank, London: Arthur Barker, 1951, p. 87.
LE ORIGINI DISCORSIVE, II 293
1
Un esplicito parallelo fra le conversazioni babeliche di Firbank e le tecniche del
nouveau roman francese è ad esempio stabilito da Shaun McCarthy, “Firbank’s Inclina-
tions and the nouveau roman”, Critical Quarterly, XX, 1978, pp. 64-77.
2
Ronald Firbank, Vainglory, in The Complete Ronald Firbank, cit., p. 143.
3
Ronald Firbank, Inclinations, in The Complete Ronald Firbank, cit., p. 261.
4
Cfr. William Lane Clark, op. cit.
5
Ronald Firbank, The Flower Beneath the Foot, cit., p. 513.
294 GENEALOGIA DEL CAMP
1
Ivi, p. 545.
2
Ivi, p. 518.
3
Christopher Isherwood, Goodbye to Berlin, London: Minerva, 1989, p. 9.
LE ORIGINI DISCORSIVE, II 295
cita apertamente nel testo l’esteta, di cui peraltro è egli stesso una versione
aggiornata, una caricatura della ‘mostruosità’ che nel discorso pubblico
1
degli anni Trenta si attribuiva ancora agli ‘Oscar Wilde’. Gli atteggia-
menti ‘cospiratori’ del sottobosco isherwoodiano dedito ai modelli tardo-
estetizzanti e all’eversività politica – si pensi a All the Conspirators (1928)
– si caricano di una coloritura patetica, tipica di una percezione complice
della clandestinità e della ‘devianza’, e in quanto tale in grado di percepi-
re come la mostruosità, ad esempio nell’insorgere del nazismo registrato
nelle storie berlinesi, sia effettivamente prerogativa del mondo ‘normale’.
Esemplarmente patetica sarà Sally Bowles, protagonista di un episo-
dio di Goodbye to Berlin (1939) dal quale sarà tratta una serie di versioni
2
sia teatrali che cinematografiche. L’aspirante diva Sally ripropone infatti
il modello decadente della ‘donna fatale’, esibendosi inoltre in un locale
dal significativo nome di “Lady Windermere’s Fan”, salvo essere incapa-
ce di realizzare i propri disegni di seduzione nei confronti dei personaggi,
del narratore o del lettore. Quella di Sally è insomma una seduttività tea-
tralizzata, come lo era del resto, seppur con strategia diametralmente
opposta, la fatalità della protagonista di Zuleika Dobson (1911) di Max Be-
erbohm (autore nel quale è pure riscontrabile un linguaggio ‘religioso’,
3
da iniziati al cerimoniale ormai museificato del dandy), laddove l’eccesso
– Zuleika è letteralmente fatale alla popolazione studentesca di Oxford,
spinta al suicidio collettivo nel volgere di poche ore dalla sua bellezza
4
asimmetrica – conduce a un’analoga implosione del mito.
1
Sulla valenza camp dei personaggi isherwoodiani si veda Peter Thomas, op. cit.
Quale introduzione generale, con ampia attenzione alle strategie ironiche, si veda pe-
raltro Alan Wilde, Christopher Isherwood, New York: Twayne, 1971.
2
Il più noto delle quali è senza dubbio Cabaret di Bob Fosse (1972), con una memo-
rabile interpretazione di Liza Minnelli. Intorno a “Sally Bowles” e alle sue riscritture si
veda Linda Mizejewski, op. cit.
3
È per tali ragioni che Giovanna Franci lo categorizza come “meta-dandy”, il quale
sopravvive al trionfo del Capitale solo quale ‘parte’ da interpretarsi ammiccando attra-
verso quel ‘gioco per snob’ che è la parodia (la quale presuppone, per essere fruita, una
solida conoscenza intertestuale). Cfr. Giovanna Franci, op. cit., pp. 273-332. Considera-
zioni, queste, che possono legittimamente essere estese a Saki (Hector Hugh Munro),
il cui dandismo museale si esplicita in un’analoga meta-scrittura snob.
4
Intorno alla dimensione camp di Zuleika Dobson si veda Robert Kiernan, Frivolity
Unbound, cit., pp. 38-48. Utili studi sulla dimensione metatestuale, parodica e caricatu-
rale che presiede alla scrittura beerbohmiana sono Lawrence Dawson, Max Beerbohm
and the Act of Writing, Oxford: Oxford University Press, 1989; Robert Viscusi, Max Beer-
bohm, or the Dandy Dante: Rereading with Mirrors, Baltimore: Johns Hopkins University
Press, 1986; e il ‘classico’ John Felstiner, The Lies of Art: Max Beerbohm’s Parody and
Caricature, London: Victor Gollancz, 1973.
10
Epilogo?
Ovvero, il ritorno di ‘Edna’
1
Fra le istanze più significative dell’influenza firbankiana sul camp fra anni Venti e
anni Sessanta emergono la poesia di John Betjeman, la scrittura e la personalità pub-
blica dei fratelli Sitwell (Edith, Osbert e Sacheverell), l’estetismo grottesco e avvilito di
Aldous Huxley in Crome Yellow (1921) e di Evelyn Waugh (in particolare in Vile Bodies,
del 1930), e il romanzo-conversazione di Ivy Compton-Burnett.
2
I quattro romanzi The Silver Bucket, The Mechanical Womb, The Last Days of Sodom e
The Boy Hairdresser, sono discussi in Simon Shepherd, Because We’re Queers, cit., e in
John Lahr, Prick Up Your Ears, cit.
298 GENEALOGIA DEL CAMP
1
Cit. in Dick Hebdige, op. cit., p. 61. Coerentemente, fra le maschere assunte a David
Bowie – Ziggy Stardust, Aladdin Sane, il Duca Bianco – trovò spazio anche il Blond
Führer.
EPILOGO? 299
1
Queste considerazioni fanno ovviamente riferimento al solo mondo anglosassone.
Altre condizioni culturali impongono infatti una diversa configurazione storica del
camp: basti pensare al caso spagnolo di Pedro Almodóvar, il cui cinema si inserisce nel
panorama immediatamente post-franchista sfruttando in pieni anni Ottanta una mo-
dalità che ricorda sotto molti aspetti quella impostasi nella Swinging London ortoniana.
2
Si confronti quanto osservato sul rifiuto degli attivisti gay nei confronti della clan-
destinità e dell’autodisprezzo del camp nella Parte Seconda.
EPILOGO? 301
1
‘film di culto’. Lo straordinario successo di questa summa del camp coin-
cide infatti con un allargamento del culto formatosi in una prima battuta
tra un ristretto novero di spettatori, che assistevano al film proiezione
dopo proiezione, mandando a memoria le battute e riproponendo lo
spettacolo in platea. In seguito, il carattere sempre più svincolato dalla
matrice gay, cospicuo e occasionale del pubblico ha trasformato la sua
2
partecipazione in un codice rituale meccanico – con tanto di ‘breviario’ –
e propriamente di massa, ormai privo di fascino per gli spettatori ‘storici’
3
poiché meno, letteralmente, esclusivo.
La stanchezza fruitiva del film si traduce nella prevedibilità del suo se-
guito dal titolo Shock Treatment (scritto, diretto e prodotto dalla medesi-
ma équipe nel 1981), banale messa in scena di un universo di ‘sana ame-
ricanità’ i confini del quale corrispondono a quelli degli studi televisivi
dell’emittente locale. Questo lavoro, al cui confronto l’apocalittica ‘iper-
realtà’ teorizzata da Jean Baudrillard assume un sapore bucolico, è peraltro
significativo in quanto segnala la mutata percezione che l’occhio camp
aveva nei confronti di un mezzo – la televisione – che nel secondo dopo-
guerra si era offerto funzionalmente all’anti-intellettualismo che acco-
munava pop e camp. Siamo cioè di fronte a una esplicita presa di distan-
za dal recente passato, dall’eccitazione trasgressiva degli anni Sessanta, o
meglio dalla ‘libertà assoluta’ cui questi sono associati nell’immaginario
collettivo. Una presa di distanza, questa, che si riscontra anche nell’evol-
versi delle riflessioni sul postmoderno e della scrittura che a questo ter-
mine viene ascritta, come testimonia del resto anche la rappresentazione
parodica di uno spazio del desiderio ‘liberato’ offerta da Angela Carter in
The Infernal Desire Machines of Doctor Hoffman, a indicare la disillusione
che si era attivata verso l’euforia anni Sessanta di liberazione dalle gerar-
4
chie e dai vincoli culturali.
Nei postumi dell’ebbrezza post-bellica e nella diffusione delle strategie
1
Al Rocky Horror Picture Show sono infatti dedicati un cospicuo numero dei saggi che
compongono J.P. Telotte (ed.), The Cult Film Experience: Beyond All Reason, Austin:
University of Texas Press, 1991.
2
Tale sono all’atto pratico Sal Piro and Michael Hess, The Official Rocky Horror Pic-
ture Show Audience Participation Guide, Livonia: Starbur Press, 1991, e Sal Piro, “Crea-
tures of the Night”: The Rocky Horror Picture Show Experience, ibidem, 1990.
3
Sull’evolversi del culto si veda Rebecca Bell-Metereau, op. cit., pp. 15-16, 178-187. E
si confronti la lettura negativa che dà del film uno spettatore ‘storico’ come Paul Roen
nel citato High Camp.
4
Cfr. Ricarda Schmidt, op. cit., pp. 56-61. La riarticolazione del ‘postmoderno’ fra anni
Sessanta e Ottanta è efficacemente registrata in Andreas Huyssen, op. cit., pp. 179-221.
302 GENEALOGIA DEL CAMP
Queer Nation – per la carica di sindaco di Chicago nel 1991 e per la pre-
1
sidenza degli Stati Uniti l’anno seguente.
Si assiste insomma a una rinnovata attenzione per le metamorfosi che
il limite è andato subendo, dopo che esso sembrava essere stato irrime-
diabilmente devastato: un ‘ritorno’ del limite che trova espressione e-
semplare sulla scena britannica nella figura di Margaret Thatcher, capo
del governo durante gli anni Ottanta, destinata a divenire un’icona delle
tendenze restauratrici della Nuova Destra, tanto da catalizzare su di sé la
partecipazione politica dell’intero paese, e per la quale Morrissey – il
cantante degli Smiths, che nei testi e nelle esibizioni si richiama esplici-
tamente a Oscar Wilde – sognava il ripristino di una prassi autentica-
mente ‘rivoluzionaria’ allorché cantava, alla fine del decennio, “Margaret
on the Guillotine”. Se l’immaginario di matrice libertaria si era formato
su una rappresentazione per molti versi fantastica degli anni Sessanta, il
programma politico del Primo Ministro conservatore raccoglieva i con-
sensi di coloro che leggevano in chiave negativa quell’esperienza, dichia-
rando di volerla rimuovere a favore di un recupero dei valori vittoriani,
quei valori che avevano fatto della Gran Bretagna il paese più potente del
globo e che avevano condannato Oscar Wilde ai lavori forzati (e ‘Oscar
Wilde’ alla clandestinità). In questi termini Thatcher si sarebbe rivolta ai
giornali descrivendo l’effervescenza degli anni Sessanta:
moria – il cui invito alla “gente normale e perbene” a passare “al contrat-
tacco” risuona distintamente nelle parole di Thatcher – era tornata, e in
veste di Primo Ministro.
Per quanto ‘in ritardo’, il contrattacco sul terreno della ‘licenziosità’
sessuale veniva sferrato nel 1988 con l’articolo 28 del Local Government
Act, che impediva alle amministrazioni locali di investire denaro in ma-
nifestazioni che potessero in una qualche misura ‘promuovere’ l’omoses-
1
sualità. Ben più tempestiva era però stata la risposta al ritorno di ‘Edna’
e alla Nuova Destra nel teatro di Steven Berkoff, autore nel 1989 di una
raffinatissima versione della Salomé wildiana, in cui il dramma biblico
veniva ambientato nella mondanità cinicamente frivola degli anni Venti.
Ma la vacuità del camp anni Venti si carica in Berkoff di una aggressività
devastante, in produzioni che accostano all’estenuazione estetizzante e
antinaturalistica delle classi privilegiate – in modo esemplare in Decaden-
ce (1981) – l’abbrutimento di un proletariato urbano altrettanto innatura-
le e stilizzato, che recita versi elisabettiani con cadenza cockney, e tocca al
tempo stesso il sublime, il grottesco e l’esilarante attraverso una modalità
enunciativa smodata. E se la ‘Edna’ di Orton aveva esistenza teatrale solo
in quanto norma evocata, la nuova Edna entra direttamente sul palco di
Berkoff – nella versione ‘da periferia’ del mito edipico che si offre in Gre-
ek (1980), per riapparire poi in un ruolo-chiave in Sink the Belgrano!
(1986) – attraverso il personaggio dal nome di Maggot Scratcher (“verme
razzolatore”). Thatcher diviene così idolo camp, adorato con fervore di
portata implosiva da una umanità avvilita (“Maggot is our only hope, lo-
2
ve”), angelo vendicatore di una normalità spinta a irridere se stessa:
“OH, MAGGOT SCRATCHER HANG THE CUNTS / HANG THEM SLOW AND LET
3
ME TAKE A SKEWER AND JAB THEIR EYES OUT / LOVELY / GREEK STYLE…”.
Nel confronto con il tentativo di restaurazione di un Ordine all’in-
segna del ‘senso comune’, il trionfo pornolalico di Berkoff e la disperata
irrisione dello stigma che caratterizza l’attivismo gay restituiscono pre-
gnanza e incisività alla ‘verità’ del camp, allo straniamento della violenza
che si esercita nel (e sul) linguaggio. Alla presa di coscienza che le parole
e le rappresentazioni uccidono, in accordo a quanto è esplicitato in Greek
allorché il parricidio viene consumato in un duello a colpi di insulti. Il che
ge of Sexuality”, cit., p. 81.
1
Cfr. Alan Sinfield, The Wilde Century, cit., p. 190.
2
Steven Berkoff, Greek, in The Collected Plays, Vol. I, London: Faber and Faber, 1994,
p. 110.
3
Ivi, p. 112.
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