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Nicola Catelli

PORNOGRAFIA E POLEMICA CIVILE


NELLA PUTTANA ERRANTE DI LORENZO VENIER

Il progressivo diffondersi di resoconti, cronache, lettere, lamenti poetici sul Sac-


co di Roma del 1527 fomentò del pari, a livello europeo, un vasto dispiegamento
di polemiche e di invettive, di accuse e di recriminazioni destinate a susseguirsi a
lungo nel corso degli anni e a chiamare in causa numerosi aspetti della vita politica
e religiosa, sociale e artistica dei primi decenni del Cinquecento. Con un’ampia
escursione di registri tonali e di modalità espressive, le critiche sulla conduzione
militare della Lega di Cognac1 e sulla debolezza dei romani preposti alla difesa
della città2 (che non di rado confluivano nella deplorazione per la definitiva per-

1
In particolare, non vennero risparmiati gli strali contro la viltà del duca di Urbino, Francesco
Maria Della Rovere, generale delle truppe della Lega, il quale, animato da volontà di vendetta per
i torti subiti in passato dalla casata medicea, «concesse all’esercito suo il saccheggiare e predare vil-
mente e contro all’ordine militare (essendo nella medesima lega) gran parte del nostro contado,
come se fussino stati suoi propri inimici; massime comportando, che in molti luoghi dove passorono,
lasciassino scritto per le mura di questo e di quello casamento: per parte di vendetta. Per questo
sdegno non ha mai soccorso il papa, nè soccorrerà per lo avvenire ancora; ma dove potrà offendere
e nuocere crudelmente la casa de’ Medici, non si straccherà mai»; le accuse contro il Della Rovere si
ripercuotevano sulla mancanza di avvedutezza politica del papa, che anziché diffidare del duca aveva
«comportato che lo stato e l’onore suo fussi commesso nelle mani di tanto crudele inimico», persua-
dendosi «in Francesco Maria dover trovare quella pietà e quelli rispetti, che nè papa Leone nè il duca
Lorenzo, nè Sua Santità avevono per lo adrieto dimostro verso di lui […]; in modo che, se niuna cru-
dele vendetta è lecito scusare, non saprei quale trovare più defensibile di questa, tanto per ogni verso
ha del maligno dalla parte di Nostro Signore, e dello scusabile dalla banda del duca. E se altre persone
che Sua Beatitudine, non avessino patito, nè per l’avvenire patissino, la chiamerei somma giustizia»
(L. Guicciardini, Il sacco di Roma, in Il Sacco di Roma del MDXXVII. Narrazioni di contemporanei, a c. di
C. Milanesi, Firenze, Barbera, 1867, p. 221 e pp. 217-219; si cita, qui e in seguito, dalla trascrizione in
formato elettronico fruibile on-line in Il sacco di Roma del 1527. Miscellanea di testi e documenti, a c. di D.
Romei, in Banca Dati Telematica “Nuovo Rinascimento”, <http://www.nuovorinascimento.org>, ad in-
dicem, 1997, mantenendo tuttavia i riferimenti ai numeri di pagina dell’edizione cartacea). Stigmatizza
la condotta militare della Lega di Cognac e la mancanza di una pronta reazione di fronte alla presa
della città anche l’ottava del Furioso dedicata alla rovina di Roma: «Vedete gli omicidii e le rapine / in
ogni parte far Roma dolente; / e con incendi e stupri le divine / e le profane cose ire ugualmente. /
Il campo de la lega le ruine / mira d’appresso, e ’l pianto e ’l grido sente; / e dove ir dovria inanzi,
torna indietro, / e prender lascia il successor di Pietro» (L. Ariosto, Orlando furioso, a c. di L. Caretti,
Torino, Einaudi, 1966, XXXIII, lv).
2
Cfr. ad esempio il Lamento d’Italia per la presa di Roma: «Oimè, infelice, oimè, che Roma è presa /
senza contesa – dal popul marano, / fer’ e inumano – più che tigre od orso; / né al suo soccorso – par
che alcun attenda, / né che difenda – le famose mura / da quella dura – gente, che col foco / non
lascia loco – che cener non faccia» (in Lamenti storici dei secoli XIV, XV e XVI, a c. di A. Medin e L. Frati,
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dita del primato bellico italico)3 si accompagnavano alle accuse talvolta calunniose
o mal fondate sull’operato politico-diplomatico di alcuni illustri personaggi4, le
querelles artistico-letterarie5 agli innumerevoli attacchi e alle ingiurie di carattere
strettamente personale6; tuttavia, la complessa trama di simboli e rimandi tradi-

Verona-Padova, Fratelli Drucker, 1894, vol. IV, p. 183); e, sul versante comico, il Dialogo dell’Aretino:
«Intanto i rioni e i caporioni, e la peste che gli giunga, andavano zanzeando co le fila dei fanti: e certo
se la valenteria fosse stata nei bei giubboni, ne le belle calze e ne le spade indorate, gli Spagnardi e i
Todescardi erano i malvenuti» (in P. Aretino, Ragionamento. Dialogo, introduzione di N. Borsellino,
note, guida bibliografica, indici dei nomi e delle voci annotate di P. Procaccioli, Milano, Garzanti,
1984, p. 321). Di qui il frequente utilizzo nella letteratura sul Sacco del tópos dell’ubi sunt?, riferito ai
valorosi guerrieri di Roma antica.
3
Cfr. L. Guicciardini, Il sacco di Roma cit., p. 128: «qualunque ben considera a quanto numero
d’oltramontani basti l’animo scorrere ogni giorno per la misera Italia, e come intrepidamente assalti
questa e quella città, e quanto facilmente ora nell’una ora nell’altra entri, e con poca perdita di sè
medesimo crudelmente saccheggi, e sicuro e lieto vi dimori quanto gli torna comodo ed utile; certa-
mente non tanto si vergognerà della viltà sua, non facendo a quell’armato resistenza, quanto ancora
affermerà, non mai aver trovato nelle passate istorie in altre nazioni tanta ignoranza nè tanta ignavia,
quanta in questa infelice Italia, già per trentatrè anni si è veduta e vede».
4
Esemplari i casi di Baldesar Castiglione e Francesco Guicciardini. Il primo, nunzio pontificio
presso la corte di Carlo V, fu accusato da papa Clemente VII di non avergli fornito opportune informa-
zioni circa le intenzioni dell’imperatore e dei suoi in modo da poter prevedere la catastrofe, e dovette
in seguito discolparsi: se ne veda la lettera di replica indirizzata a Clemente VII in B. Castiglione, Il
libro del Cortegiano con una scelta delle Opere minori, a c. di B. Maier, Torino, UTET, terza ed., 1981, pp.
647-657. In difesa di Roma, dopo la pubblicazione delle due opere sul Sacco di Alfonso de Valdés, il
Diálogo de las cosas occurridas en Roma e il Diálogo de Mercurio y Carón, Castiglione ingaggerà con questi
un’aspra polemica, sulla quale cfr. M. Firpo, Il sacco di Roma del 1527 tra profezia, propaganda politica e
riforma religiosa, Cagliari, CUEC, 1990, pp. 69-83 (ma si rimanda al volume nel suo complesso per un
esaustivo quadro delle reazioni e delle polemiche suscitate dall’evento), e J. Guidi, Un nonce pontifical
outragé: la réponse de Castiglione à Alfonso de Valdés, in AA.VV., Les discours sur le sac de Rome de 1527. Pouvoir
et littérature, études réunies et présentées par A. Redondo, Paris, Presses de la Sorbonne Nouvelle, 1999,
pp. 13-21; le lettere di Valdés e Castiglione si leggono in B. Castiglione, Il libro del Cortegiano cit., pp.
657-710. Anche Francesco Guicciardini, fautore della politica filofrancese del papato, luogotenente
delle truppe pontificie durante la guerra della Lega di Cognac, fu oggetto di numerosi attacchi: oltre
alla responsabilità degli errori sul piano militare, gli veniva addebitata l’appropriazione del denaro
spettante come paga ai soldati. Il Guicciardini reagì, nell’immediato, attraverso la composizione di
un trittico di libelli, Accusatoria e Defensoria, in cui lo storico espone e controbatte le accuse che gli
venivano mosse, e Consolatoria, dove analizza attraverso un dialogo con sé stesso il proprio operato:
si veda F. Guicciardini, Consolatoria. Accusatoria. Defensoria. Autodifesa di un politico, a c. di U. Dotti,
Roma-Bari, Laterza, 1993. Sul trauma psicologico e culturale del Guicciardini dopo il Sacco di Roma si
veda V. De Caprio, La tradizione e il trauma. Idee del Rinascimento romano, Manziana, Vecchiarelli, 1991,
pp. 319-357.
5
Come quella suscitata dalla pubblicazione, nel 1528, del Ciceronianus di Erasmo, su cui cfr. A.
Chastel, Le sac de Rome, 1527. Du premier maniérisme à la Contre-Réforme, Paris, Gallimard, 1984 (trad. it.
Il sacco di Roma 1527, Torino, Einaudi, 1983), pp. 181-192.
6
I mesi caotici e infernali durante i quali si protrasse il saccheggio della città avevano ad esempio
reso agevole qualsiasi tipo di commercio illecito anche da parte di coloro che non avevano partecipato
all’assedio. È nota la vicenda degli arazzi di Raffaello che adornavano la Cappella Sistina, fatti traspor-
tare da Isabella d’Este via mare per sottrarli alla furia dei soldati e rubati da pirati nel Mediterraneo,
in seguito alla quale la marchesana di Mantova subì pesanti critiche (cfr. ivi, pp. 134-135); da parte
sua, il marchese Federico Gonzaga, figlio di Isabella, chiedeva espressamente al capitano Fabrizio
Maramaldo, appartenente al contingente italiano che prese parte al Sacco, di trafugare «alcuni pezzi
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zionali che si annodava intorno alla «sacra ruina di Roma»7 focalizzava le istanze
polemiche anzitutto sul piano politico-religioso e religioso tout court.
Se da parte asburgica veniva messo in atto «il tentativo di negare ogni diretta
responsabilità» dell’imperatore, sebbene non mancasse «anche una coraggiosa
rivendicazione per quanto era avvenuto, al di là di ogni arbitraria e parziale sempli-
ficazione»8, da parte romana e/o filofrancese Carlo V veniva costantemente attac-
cato quale mandante del «sacco cattolico»9, «altero Scytha»10 a cui era «sacrilegio,

antichi» di vario tipo per conto di «due gentiluomini dabbene», suoi cari amici, ovvero palazzo Mar-
mirolo e palazzo Tè (cfr. ivi, pp. 136-138); e Benvenuto Cellini, che si trovava in Castel Sant’Angelo
come addetto all’artiglieria, sarà invece anni dopo imprigionato in quella stessa fortezza con l’accusa
di aver messo mano nei giorni dell’assedio su gioielli appartenenti al pontefice (cfr. B. Cellini, La
Vita, a c. di C. Cordié, Milano-Napoli, Ricciardi, 1996, pp. 219 sgg.). In un clima così fertile per il
proliferare di accuse e insinuazioni era assai difficile discernere la verità dalla menzogna, l’invenzione
dalla realtà: Aretino colse, dell’evento, anche questo aspetto, e non esitò a trarne profitto all’interno di
un’opera quale il Pronostico per il 1534 che dalla diffamazione pubblica ricavava una parte consistente
del proprio valore letterario ed economico, accanendosi contro Carlo V («sua stitica Altezza […] fece
scomunicare tutta Bologna per il saio d’oro, che gli fu tolto in San Petronio mentre cantò il Vangelo,
volli dire il Miserere; il qual saio, come ognuno sa, fu un piviale di papa Adriano rubato della sagrestia
di San Pietro da Gian d’Urbino, e della sua arcibusata memoria a Spello a sua Maestà donato, e da
quella trasformato nel prefato saio, che solo nei dì solenni si metteva per commemorazione del Sacco
di Roma, dove Cristo si crocifisse la seconda volta») e contro il cardinale Della Valle («E dapoi lui, la
Valle bona limosina, che nella presa di Roma decimò tutte le robbe che altri avea mise in salvaguardo
in casa sua»: cfr. P. Aretino, Pronostico dello anno .MDXXXIIII., in Id., Cortigiana. Opera nova. Pronostico.
Il testamento dell’elefante. Farza, a c. di A. Romano, introduzione di G. Aquilecchia, Milano, Rizzoli, 1989,
rispettivamente p. 294 e p. 310). Ma il Sacco forniva all’Aretino anche un pretesto per gratuite e più
feroci malignità, come la rinvigorita accusa di sodomia contro Paolo Giovio, che i soldati avrebbero
«preso a·ffurore – e strafottuto: / el cazzo gli è piaciuto, / ma voglion bene, e crudi, / che paghi trenta
scudi – in fottitura» (Id., Frottola di Maestro Pasquino, in Scritti di Pietro Aretino nel Codice Marciano It. XI 66
(=6730), a c. di D. Romei, Firenze, Franco Cesati Editore, 1987, p. 167, vv. 424-429).
7
M. Alberini, Il sacco di Roma. L’edizione Orano de I ricordi di Marcello Alberini, introduzione di P.
Farenga, Roma, Roma nel Rinascimento, 1997, p. 197.
8
M. Firpo, Il sacco di Roma del 1527 cit., pp. 42-43. Il tentativo di separare l’efferato e sacrilego
comportamento delle milizie dalla reale volontà dell’imperatore emerge anzitutto dalla lettera che
lo stesso Carlo V inviava al re d’Inghilterra Enrico VIII: «volsero [i soldati] al dispetto, et contra il
volere de’ Capitani seguitar la sua strada fino a Roma, dove mancatogli il Capitano Generale fecero
quell’insulto, che haverete inteso. Benché per dire il vero non crediamo, che sia tanto grande, come
i nostri nemici per ogni banda hanno pubblicato, et ancora che veggiamo, che ciò sia stato fatto più
tosto con giusto giudicio di Dio, che per forza, et volontà di huomini, et che lo stesso Iddio, in cui ve-
ramente habbiamo messa ogni speranza nostra, vuole far la vendetta delle ingiurie, che contra ragione
li facevano, senza che perciò intervenisse di nostra parte consentimento, o volontà alcuna, habbiamo
sentito tanta pena, et dolore, et delle ingiurie alla Sede Apostolica fatte, che veramente havrammo
voluto più tosto non vincere, che con una tal vittoria esser rimasti vincitori» (la lettera, del 2 agosto
1527, è riportata in M. L. Lenzi, Il sacco di Roma del 1527, Firenze, La Nuova Italia, 1978, pp. 136-140;
la citazione è tratta da p. 139).
9
Con la consueta perspicacia, l’Aretino mostra l’intima contraddizione che riguardava la figura
dell’imperatore: «e tosto che si vederanno eclissati per virtù di Tauro oroscopo volteranno le spalle a la
mascellata Maestà nel modo che le ha voltato San Pietro, non si potendo scordare gli scherzi che fece
alla moglie di Cristo il sacco cattolico» (P. Aretino, Pronostico cit., p. 286). Il coinvolgimento di Carlo V
nel Sacco resta ancora alonato da una notevole ambiguità: «Il n’est donc pas impossible qu’il ait donné
des instructions secrètes pour la campagne d’Italie et qu’il ait prévu d’occuper Rome. Toutefois, les
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solo per questo, attribuire il nome de imperatore»11, mentre i soldati dell’esercito


imperiale, «macchiati della pestifera eresia di Lutero, e de’ suoi seguaci»12, autori
materiali della devastazione e della profanazione della città eterna, erano ritratti
come

Povera gente e d’ogni valor nuda,


Di furore e di fame al mondo nata,
Tanto in sé stessa quanto in altrui cruda,
Dal comune languir fatta beata
(Esser non puote ch’alma in lei si chiuda
Come l’altre de gli uomini creata)13,

come «Gente peggior ch’Antropofàgi e Sciti»14 «la quale, a guisa di feroci cinghiali,
cercò non solo di guastare, ma di svellere da radice la vigna del Signore»15, in alcu-
ni casi operando una netta distinzione fra le loro gesta e il ruolo dell’imperatore
volta a preservare quest’ultimo da qualsiasi compromissione («O qual vergogna è
a voi perfidi latri / chiamarvi servi de lo Imperadore / qual crede al spirto sancto
e sancti patri / Et in Iesum Christum»)16, e trascinando la polemica, spesso nutrita
di consolidati stereotipi, a livello di rivalità nazionale contro «tanto affamati ed

documents restent muets sur divers aspect des événements, difficiles à expliquer. [...] De même, après
le sac, le silence impérial et les décisions de Charles Quint, en partie contradictoires, sont significatifs:
comment expliquer l’ordre d’interrompre les fêtes données à Valladolid, de porter le deuil et de prier
pour la libération de Clément VII, au lieu de commander tout simplement à ses hommes de libérer le
pape? Les moments liés directement aux événements romains ont dû impliquer forcément un nombre
appréciable d’instructions secrètes, de négociations, de missions et de démarches diplomatiques qui
n’ont laissé aucune trace. [...] Néanmoins, on peut être certains que le très catholique Charles Quint
n’a pas voulu le sac de Rome, d’autant plus qu’il respectait le Souverain Pontife en tant que tête de
la Chrétienté, ce que le protestants ne faisaient plus. Il faut accepter le fait que les événements, à un
moment donné, ont échappé au contrôle de l’empereur et à celui de ses représentants» (A. Vian
Herrero, Le sac de Rome dans la poésie historique hispano-italienne: discours politiques et modalités littéraires, in
AA.VV., Les discours sur le sac de Rome de 1527 cit., p. 98). Alle «segrete commissioni» impartite da Carlo
V per la presa di Roma accenna anche lo storico Paolo Giovio nella biografia di Pompeo Colonna: cfr.
Le vite di Leon Decimo e d’Adriano VI. Sommi Pontefici, e del Cardinal Pompeo Colonna, scritte per Mons. Paolo
Giovio Vescovo di Nocera, e tradotte da M. Lodovico Domenichi, Firenze, Lorenzo Torrentino, 1551, p. 426.
10
L. Alamanni, Il diluvio romano, in Opere toscane, Lione, Gryphius, 1532, vol. I, p. 341.
11
M. Alberini, Il sacco di Roma cit., p. 197.
12
G.B. Gyraldi Cinthio, Hecatommithi, Monte Regale, Lionardo Torrentino, 1565, vol. I, p. 4.
13
L. Martelli, Stanze a Vittoria marchesa di Pescara, a c. di N. Catelli, in Banca Dati “Nuovo Rinasci-
mento” cit., ad indicem, p. 26 (xcv 1-6).
14
Id., Rime, a c. di L. Amaddeo, San Mauro Torinese, Res, 2005, p. 123 (cxxxi 8).
15
G.B. Gyraldi Cinthio, Hecatommithi, dedica a monsignor Girolamo Rovere arcivescovo di Tori-
no, edita in S. Villari, Per l’edizione critica degli Ecatommiti, Messina, Sicania, 1988, p. 49.
16
Cito dall’anonimo Credo di Romani, in Guerre in ottava rima, a c. di M. Bardini, M. Beer, M. C. Ca-
bani, D. Diamanti, E. Gnisci e C. Ivaldi, Ferrara-Modena, ISR-Panini, 1989, vol. II, p. 853, vv. 13-16. A tal
proposito si vedano nel poemetto di Lodovico Martelli i versi in cui l’imperatore viene colto nell’atto
di deplorare la presa di Roma, forse con espresso riferimento alla lettera dell’Asburgo a Enrico VIII:
«Piange ’l pio vincitore, e non si gloria, / Anzi biasma anzi a Dio questa vittoria» (L. Martelli, Stanze
a Vittoria marchesa di Pescara cit., p. 32, cxix 7-8).
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efferati vincitori, i quali a gara facendo di rubbare e di mostrare la loro ferocia,


è da credere che questa volta l’avarizia spagnola e la rabbia tedesca si sfogassi»17.
Ma, certamente, il ruolo temporale e spirituale del papato, che offriva al contempo
molteplici appigli polemici, e la condotta non soltanto politica e militare, in verità
tutt’altro che inattaccabile, ma anche e soprattutto morale della Chiesa e dei suoi
rappresentanti costituirono all’indomani della catastrofe il centro privilegiato del-
le più veementi controversie. Convergeva su Roma il doppio statuto di vittima e di
peccatrice, innestato su un compatto tessuto di tradizioni: alla sponsa Christi ingiu-
stamente violata dalle mani dei barbari luterani, posta come segno di

quanto ardiscano talora le male menti e quanto non manca il Signore Iddio di destare
i religiosi e santi animi alla difesa della Chiesa sua, perché chiaramente si comprenda
che, non pure la malizia degli uomini malvagi, ma neanche lo inferno istesso, quan-
tunque di darle travaglio con ogni studio s’ingegni, anzi si sforzi, non può scemare
l’autorità della santa Chiesa, sua dilettissima sposa, e data da lui in custodia al sommo
Pontefice, suo Santo Vicario in terra...18

e come tale rappresentata in alcuni pageants che, allestiti in Francia nell’estate 1527
per la visita del cardinale inglese Thomas Wolsey, costituiscono una delle prime
rappresentazioni del Sacco19, si sovrapponeva l’immagine della civitas meretrix che
per la propria estrema disonestà aveva finalmente meritato il giusto castigo di Dio.
Così come in un’incisione posta a corredo della Bibbia in tedesco del 1522 la
Grande prostituta dell’Apocalisse veniva mostrata con in capo la tiara pontificale,
nello stesso 1527 la Chiesa compariva nei panni di una prostituta volubile, sma-
niosa di concedersi al più prestante dei suoi pretendenti, ovvero il re di Francia
Francesco I, l’imperatore Carlo V e lo stesso papa Clemente VII, in una pièce del
commediografo portoghese Gil Vicente allestita alla corte di Lisbona durante le fe-
ste natalizie20. Ma è con il celebre poemetto La Puttana errante – composto nel 1530
dal patrizio veneziano Lorenzo Venier, fratello del più illustre Domenico e ‘creato’

17
L. Guicciardini, Il sacco di Roma cit., p. 206. Al contrario, si tendeva in generale a minimizzare e
a sottacere la non trascurabile componente italiana dell’esercito imperiale, costituita da avventurieri e
mercenari così come da rampolli della nobiltà italica o da semplici sbandati raccolti durante la calata
di Borbone, e, in ultimo, stando alla narrazione del Guicciardini, da «qualche soldato e capo della
Chiesa» che, «essendo dagl’inimici con tanta furia sopraggiunto, per non essere stato, per viltà, de’
primi a fuggire; conosciuto non avere altro remedio a salvare la vita, si mescolava astutamente in quel
furore con li vincitori, e mostrato d’essere de’ loro medesimi, perseguitava insieme con gli altri quelli
che fuggivono» (ivi, pp. 198-199).
18
G. B. Gyraldi Cinthio, Hecatommithi, dedica a monsignor Girolamo Rovere cit., p. 49.
19
«At the gate was made a pageant in the which was a Nun called Holy Church and three Spaniards
and three Almaynes had her violated and a Cardinal her rescued and set her up of new again»: su
questi primi esiti scenici dell’evento cfr. A. Chastel, Le sac de Rome cit., pp. 59-63 (la citazione è tratta
da p. 60).
20
Sull’Auto da Feira di Vicente cfr. A.-M. Quint, Échos du sac de Rome de 1527 à la Cour de Jean III
du Portugal, in Les discours sur le sac de Rome de 1527 cit., pp. 57-67, e T. Cirillo Sirri, Il sacco di Roma
nell’interpretazione del commediografo Gil Vicente, in «Roma nel Rinascimento», 1994, pp. 34-43.
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di Pietro Aretino – che, almeno in ambito italiano, l’immagine della prostituzione


romana assume i suoi contorni più netti, e l’invettiva contro la Chiesa in relazione
al Sacco di Roma si fa quanto mai radicale ed esplicita. L’esempio di tale poemetto
può servire a mostrare come la pornografia, la scrittura oscena, tanto più esibita
quanto più straordinari sono gli eventi ad essa correlati, sia in grado di divenire un
necessario tramite di invettiva e possa talvolta essere assunta come modalità forma-
le imprescindibile per radicalizzare determinate istanze polemiche, esacerbando
ogni implicazione letteraria e avvalendosi a tal fine di un mezzo linguistico svinco-
lato da qualsiasi residua pudicizia, da ogni velame di falsa onestà: «non mi tenete
disonesto», scrive infatti l’autore nel proemio ai lettori riferendosi alla scandalosa
protagonista della sua opera, «se con parole disoneste bandisco le disoneste opre
sue, perch’io disonesto sarei se con voci oneste onestassi la disonestissima disone-
stà sua»21.
La Puttana errante si presenta, anzitutto, come una parodia epico-cavalleresca in
cui il Venier si cimenta con «La narration d’una gaglioffa rancia, / Ch’ha fatto più
con la potta, ch’Orlando / Non fece con la spada, e con la lancia», la quale «un
dì sentendo, / Che l’Ancroia, Marphisa, e Bradamante / Andâr pel mondo gran
prove facendo / A onta di Macone e Trivigante, / Grand’animo in la potta e in cul
avendo, / Deliberò farsi Puttana errante»22. Tuttavia, il poemetto non costituisce
soltanto un racconto erotico basato sulla parodia degli stilemi dell’epica o, per
dir meglio, sulla iperbolizzazione della metafora sessuale impiegata con frequenza
nell’epica per la descrizione dei duelli cavallereschi; né è, più superficialmente,
soltanto un componimento di invettiva inteso, secondo la tradizione, a diffamare
per vendetta la cortigiana veneziana Elena Ballerina, celata sotto lo pseudonimo
di ‘Puttana errante’, la quale avrebbe svuotato di nascosto la borsa dell’autore23.
Entrambe queste letture convivono con un terzo livello esegetico che vede nelle
ottave dell’Errante un’allegoria della corruzione degli Stati italiani, causa dell’as-
servimento della penisola alle nazioni straniere. Tre sono infatti i moventi che
stanno alla base della concezione dell’opera, come si deduce dalla dichiarazione
di poetica dell’autore collocata nel proemio del secondo canto, «Io dico pan al
pane e cazzo al cazzo / Per dire il ver, per odio e per solazzo»24, dove ogni termine
dell’ultimo verso individua attraverso una corrispondenza privilegiata, per quanto
non univoca, un livello interpretativo complessivo del testo: rispettivamente la po-
lemica sulle sorti d’Italia, la vendetta contro Elena Ballerina, la parodia delle forme
epiche. Professione di verità e polemica sulla corruttela degli Stati italiani, che si

21
L. Venier, La Puttana errante, a c. di N. Catelli, Milano, Unicopli, 2005, p. 34. Concepito nello
stesso periodo in cui veniva approntata l’edizione dell’Errante, il presente contributo riprende necessa-
riamente alcuni passaggi ivi contenuti nell’introduzione, anch’essa incentrata sul contenuto ‘politico’
del poemetto in rapporto al Sacco di Roma.
22
Ivi, rispettivamente p. 38 (I, v, 2-5) e p. 42 (I, xviii, 1-6).
23
Interpretazione che si basa essenzialmente sul passo seguente: «scarselle e borse / Tolle a gli
amanti ella dormendo seco, / Qual tolse a me quand’Amor femmi cieco» (ivi, p. 85, IV, xxxiii, 6-8).
24
Ivi, p. 51 (II, iv, 7-8).
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richiama all’invettiva di stampo dantesco, informano il livello di lettura più impe-


gnato del testo, nutrendo il Venier l’aspirazione a descrivere e condannare le gesta
di una dantesca «donna di bordello, simbolo [...] di ciò a cui è ridotta l’Italia»25.
All’avarizia dantesca si sostituisce la prostituzione (da intendersi non limitatamen-
te alla sfera sessuale), «disonesta lupa cagna»26 che suscita l’indignatio del Venier
e viene individuata come peccato sommo che ha contaminato ogni ambito della
società italiana:

E perché Roma, Napoli e Milano,


Toscana e Lombardia, non già Fiorenza,
A monna castitade han messo mano,
Non die’ più star alcuna in continenza,
Perché di Maccometto l’Arcolano
A ogni donna dà piena licenza,
Che faccia ciò che vole, et ogni otta,
Del suo culo gentile e de la potta27.

Scorta e duca a tale impresa sarà allora l’Aretino, «mezz’huomo et mezzo Dio»,
«vero propheta», «mastro di color che sanno», come lo definirà il Venier l’anno
seguente nella Zaffetta28, il quale aveva affrontato a più riprese la narrazione del
Sacco di Roma componendo in particolare la violentissima pasquinata Pas vobis,
brigate, cronaca irosa e carnevalesca del Sacco e allo stesso tempo invettiva e vendet-
ta personale contro papa Clemente VII, e che pertanto viene invocato nell’esordio
al posto di Apollo e delle Muse a sostenere la vis polemica e oscena del poemetto.
Lo stesso Aretino, dal canto suo, sospingeva a più riprese la fama maledica del suo
promettente discepolo, sia nel capitolo con cui presentava al duca di Mantova il
poemetto:

Ma perch’io sento il presente all’odore,


Un’operetta in quel cambio galante
Vi mando ora in stil ladro e traditore,
Intitolata: la Puttana Errante,
Dal Veniero composta mio creato,
Che m’è in dir mal quattro giornate inante: […]
E’ dice pane al pane, e cazzo al cazzo,
Ed abbi chi l’ha a schifo pazienza;

25
Cfr. G. Erasmi, ‘La puttana errante’: parodia epica ispirata all’Aretino, in Pietro Aretino nel cinquecente-
nario della nascita. Atti del Convegno di Roma-Viterbo-Arezzo (28 settembre-1 ottobre 1992), Toronto (23-24 ottobre
1992), Los Angeles (27-29 ottobre 1992), Roma, Salerno Editrice, 1995, t. II, pp. 875-895 (la citazione è
tratta da p. 878). Si rimanda in generale al contributo di Erasmi anche per quanto riguarda la presenza
di Dante all’interno dell’Errante.
26
L. Venier, La Puttana errante cit., p. 54 (II, xvi, 2).
27
Ivi, p. 78 (IV, vii).
28
Cfr. Id., La Zaffetta, a c. di G. Raya, Catania, Tirelli, 1929, rispettivamente p. 2 (ii 3 e 7) e p. 4
(iii 2).
174 NICOLA CATELLI

Che Dio non daria legge a un cervel pazzo...29

sia soprattutto nel sonetto preposto all’edizione a stampa:

Perché in dir ben male, id est ben vero,


Son le muse massare, e Apollo è fante,
E fachine le rime tutte quante
De lo stupendo ingegno del Veniero30.

È attraverso la degenerazione delle città italiane – Ferrara, Bologna, Firenze,


Siena – che si compie l’itinerario della cavalleresca quête della protagonista, in una
sorta di pellegrinaggio rovesciato che, dopo innumerevoli giostre erotiche nelle
quali consegue clamorose vittorie, accoppiamenti bestiali con cani, cavalli, tori,
dotte disquisizioni postribolari, la porterà a far tappa, alla fine del componimento,
nella capitale della cristianità ai primi di maggio del 1527. E qui,

Mentre la illustre et unica poltrona


Col cul alti miracoli facea,
Ecco la Spagna e Lamagna in persona,
Ch’adosso Roma in collera correa.
A l’arme ogni campana in furia suona,
Ogni uom misericordia al ciel chiedea,
Chi fugge, chi s’asconde, e chi tremando
Dice: «A santa santorum m’accommando».
In tanto ser don Diego e don Odrico,
Don Sancio di Laynis, a far guerr’usi,
Senza conoscer amico o nemico,
Al suon di musichevoli archibusi
Entrâro in Roma (e tremo mentre ’l dico),
Sbuccar facendo i monsignor rinchiusi,
Populusque romano, et ogni gente,
Come conta Pasquin, ch’era presente31.

Il richiamo all’auctoritas di Pasquino – vero e proprio Turpino venieriano – mes-

29
Il terzo libro dell’Opere burlesche di M. Francesco Berni, di M. Gio: della Casa, dell’Aretino, de’ Bronzini, del
Franzesi, di Lorenzo de’ Medici, del Galileo, del Ruspoli, del Bertini, del Firenzuola, del Lasca, del Pazzi, e di altri
autori, Firenze [Napoli], 1723, pp. 28-29, vv. 94-112 (inc. Stando un miglio l’altr’ier di là da male).
30
L. Venier, La Puttana errante cit., p. 36, vv. 4-8. Sintetizzato nella Cortigiana con la battuta di Mae-
stro Andrea («Messer Maco Come si dice male? Maestro Andrea Dicendo il vero, dicendo il vero»: cfr. P.
Aretino, Cortigiana, in Id., Teatro, a c. di G. Petrocchi, Milano, Mondadori, 1971, p. 119), il motivo del
‘dir male’ ha in Aretino un significato per certi versi simile a quello di Machiavelli (su cui si veda nel
presente volume l’intervento di Gian Mario Anselmi): ma ciò che nello storico fiorentino era pertinen-
za di due ambiti separati, distinguendosi in maldicenza calunniosa e in libertà di critica e di denuncia
prettamente repubblicana, viene a coincidere nella persona biografica e nella figura pubblica di Are-
tino, flagello dei principi e quinto evangelista, che diventa egli stesso parametro di verità e investe di
questa virtus, con esplicito avvallo, il discepolo Venier.
31
L. Venier, La Puttana errante cit., p. 82 (IV, xx-xxi).
PORNOGRAFIA E POLEMICA CIVILE NELLA PUTTANA ERRANTE 175

so in rilievo a chiusura di ottava rinvia a quanto detto poc’anzi, e pone sotto l’egida
della violenza pasquinesca con cui l’Aretino forgiava il suo Pas vobis, brigate le istan-
ze polemiche che animano il poemetto32.
Nello smarrimento e nell’angoscia generali che fanno seguito all’ingresso delle
milizie cesaree a Roma, «Sol l’Errante ridea, puttana ardita, / [...] Sol l’Errante
non era sbigottita / A la ruina, a la destruttione / Di Roma coda mundi e de’ suoi
preti / Savi, santi, da ben, buoni, e discreti»; e con il coraggio che le proviene dalla
sicura coscienza del proprio valore affronta a viso aperto l’esercito nemico:

Tutto l’ispano esercito e ’l tedesco


Dietro e dinanzi alloggiò in un giorno,
Ch’era maggior del grande stuol moresco,
Che re Carlo a Pariggi ebbe già intorno.
Signori, i’ non ci allevo, i’ non ci accresco,
Venti milla persone quelle fôrno,
Che fottêro l’Errante mia divina,
Senza la stalla e quei de la cucina.
Onde parse che fosse onesto, e degno
Dopo tante vittorie e prove tante,
Dar il trionfo in bel divin dissegno
A l’invitta, real Puttana errante,
E così s’ordinò con strano ingegno
Il carro trionfal bello e galante,
Imitando ser Cesare o Marcello:
Intendete ben ben ciò ch’io favello33.

Il Sacco di Roma diventa il tal modo, per la «gaglioffa» eroina del Venier,
l’occasione per mostrare la propria valentia attraverso una eccezionale prova di
virtù, non diversamente, sotto tale aspetto, da quanto avviene in altre opere che si
riferiscono alla ruina di Roma: si pensi alla Vita del Cellini, dove l’autore si autoat-
tribuisce, fra le altre imprese guerresche da lui compiute in quei frangenti, l’ucci-
sione del conestabile Carlo di Borbone, comandante dell’esercito imperiale; o alla
biografia del Parmigianino nelle Vite del Vasari, dove la virtù artistica del giovane
pittore risulta in grado di arrestare per alcuni momenti la furia devastatrice dei
soldati imperiali34.
Se a livello allegorico la «zambracca», la «scanfarda», la «marcia e putrida vac-

32
Fin dalla pubblicazione, La Puttana errante è stata attribuita all’Aretino, tanto che il Venier, nella
sua seconda opera, La Zaffetta, è costretto a rivendicarne la composizione. L’influenza dell’Aretino è
comunque sensibile, tanto che l’Errante può essere considerata anche come un ennesimo intervento,
per interposta persona, dell’Aretino sul Sacco.
33
L. Venier, La Puttana errante cit., p. 83 (IV, xxiv 1-4 e xxv). Erasmi rileva come l’ultimo verso
(«Intendete ben ben ciò ch’io favello») si avvicini alle modalità impiegate da Dante «quando vuole
richiamare l’attenzione del lettore sui reconditi significati del suo poema» (G. Erasmi, La puttana
errante cit., p. 893).
34
Per una breve esposizione di questo tópos in seno alle rievocazioni del Sacco di Roma rinvio al-
l’introduzione a L. Venier, La Puttana errante cit., in particolare pp. 7-11.
176 NICOLA CATELLI

caccia» protagonista del poemetto, che serpeggia lungo tutta la penisola portando
la sua disonestà, dopo le prodezze romane, anche nel Regno di Napoli e arrivando
in seguito a minacciare Venezia, come indicano succintamente i versi conclusivi35,
altro non è che la personificazione della corruttela italica, è altresì vero che, meto-
nimicamente, anche in considerazione della digressione dedicata al Sacco di Roma,
essa viene a simboleggiare in particolar modo la depravazione della città santa, ber-
saglio polemico privilegiato dell’Aretino e meta che la augusta meretrix si prefigge
fin dall’inizio del proprio peregrinare36. Le avventure della paladina, che transita
da un luogo all’altro gloriandosi di sempre maggiori successi conseguiti per mezzo
di cimenti erotici, assumono allora le sembianze di un cursus honorum che condu-
ce ad abissi sempre più profondi di infamia: soltanto dopo gli ardimentosi duelli
amatori compiuti a Ferrara, dopo gli amplessi animaleschi e le giostre bestiali a
Bologna e in Maremma, dopo lo sfoggio di erudizione riversata nei dialoghi ‘acca-
demici’ tenuti a Siena, al termine dei quali viene addottorata come maestra della
sua arte37, l’Errante è pronta per stabilirsi a Roma. È a questo punto che l’esercito
imperiale, «Ch’era maggior del grande stuol moresco, / Che re Carlo a Pariggi
ebbe già intorno», si getta furibondo «adosso Roma», richiamato e allettato dal
fetore degli «alti miracoli» compiuti dalla «illustre et unica poltrona». Il poderoso
amplesso che ne consegue, con il quale l’Errante, vittoriosa, accoglie contempo-
raneamente tutti i soldati del conestabile di Borbone, apogeo delle capacità della
protagonista che meritano finalmente il trionfo «onesto e degno» su cui si chiude
il poemetto, è espresso dal Venier con una similitudine eloquente che, nell’indi-
care la moltitudine dei nemici, richiama alla memoria un episodio emblematico
dei poemi cavallereschi ferraresi: l’assedio dei mori alla città di Parigi. I sotterranei
rimandi insiti nel paragone proiettano su Roma l’immagine di una Parigi invasa
e sconfitta dagli infedeli. Amplificando e declinando in chiave marcatamente co-

35
Cfr. ivi, p. 90: «Poi volò fin a Napoli, e fe’ cose / In quel paese, ove ’l bordel l’accoglie, / Che
s’ella così tosto non partia, / A Napoli il trionfo ancor avia. // Per Venetia partì, e un’altra volta /
Canterò qual Venetia in punto messe / Sue famose puttane in pompa molta, / Aciò l’Errante mia si
ricevesse» (IV, xlvi 5-8 e xlvii 1-4).
36
Cfr. ivi, p. 42: «E la foia a Venetia avendo doma, / Qual dirovvi s’armò per gir a Roma» (xviii
7-8).
37
«È una circostanza interessante che Siena sia nel poemetto del Venier il punto d’approdo della
protagonista, alla fine del suo viaggio d’istruzione puttanesca per tutta l’Italia. A Siena la puttana er-
rante (canto III, ottave 104 sgg.) è addottorata con lode perché scioglie dubbi su quella stessa materia
che già forse formava argomento accademico d’intrattenimento ludico prima della Cazzaria e che
poi, con La Cazzaria, come dichiara il titolo, diventerà tema esclusivo, si direbbe ossessivo, e certo non
futilmente burlesco, di dibattito»: N. Borsellino, Introduzione a A. Vignali, La Cazzaria, testo critico e
note a cura di P. Stoppelli, introduzione di N. Borsellino, Roma, Edizioni dell’Elefante, 1984, pp. 15-
16. In termini di coniugazione tra pornografia e istanze polemiche, con precisi riferimenti storici, la
Cazzaria costituisce un esempio illuminante; né a tal riguardo andrà dimenticata la Lozana Andalusa di
Francisco Delicado, stampata anonima a Venezia nel 1528, da annoverare forse tra i modelli dell’Erran-
te, nella quale instaurando un rapporto di consequenzialità rispetto alla descrizione postribolare della
Roma pontificia condotta per tutta l’opera viene inserita in appendice una lettera sul Sacco («Così
dovevano finire tante cose che ho visto e descritto»: cfr. F. Delicado, La Lozana Andalusa, a c. di L.
Orioli, Milano, Adelphi, 1970, p. 279).
PORNOGRAFIA E POLEMICA CIVILE NELLA PUTTANA ERRANTE 177

mico-oscena le immagini legate alle sfera sessuale che, deplorando gli stupri delle
donne romane, laiche e religiose, innescavano una mise en abîme della catastrofe38,
l’amplesso romano dell’Errante diventa allora metafora del Sacco della città eter-
na, rappresentazione allegorica di quel funesto 1527: una rappresentazione comi-
ca e scandalosa quant’altre mai, mai così esplicita nel disegnare la prostituzione
romana e nello scagliarsi contro la Chiesa, ritratta nei panni di una «invitta, real
Puttana errante». Il Sacco di Roma viene così a costituire non solo l’occasione per
una prova di virtù oscena e miracolosa, ma diviene esso stesso una prova di virtù, di
quella virtù capovolta, postribolare, di cui gli Stati italiani sono diventati campioni
e paladini, e che proprio nel 1527 aveva fornito il suo esito trionfale.

38
Le violenze contro le donne sono uno degli elementi descrittivi maggiormente presenti nelle
narrazioni del Sacco: «Sentivansi i gridi e urla miserabili delle donne romane e delle monache, con-
dotte a torme da’ soldati per saziare la loro libidine: non potendo se non dirsi essere oscuri a’ mortali
i giudizi di Dio, che comportasse che la castità famosa delle donne romane cadesse per forza in tanta
bruttezza e miseria» (F. Guicciardini, Storia d’Italia, in Id., Opere, a c. di E. Scarano, Torino, UTET,
1981, vol. III, p. 1759 (libro XVIII, cap. VIII). Volte in primo luogo a sostanziare l’efferatezza della
tragedia, tali immagini forniscono anche una rappresentazione simbolica che racchiude in sé l’even-
to complessivo: in particolare, l’attenzione prestata in molti testi agli stupri delle monache risulta
talvolta funzionale a una interpretazione per allegoria del Sacco come inaudita profanazione della
sponsa Christi. Ma il motivo poteva prestarsi in alcuni casi alla satira e alla derisione, come avviene
nell’opera di Luigi Guicciardini: «E benchè molti si possino persuadere, che in tanto furioso travaglio
fussi qualche nobile e pura vergine, per non venire in tanto libidinose mani, che spontaneamente o
con ferro si ammazzassi, o da qualche alto luogo si precipitassi nel Tevere, o nelle strade; nondimeno
non ho ancora inteso trovarsi, nè nominare alcuna di tanto virtuosa e costante onestà: la qual cosa a
molti non doverebbe parere meraviglia, considerato quanto si trovi al presente quella città corrotta, e
piena di abbominevoli vizi, e interamente alieni dalli costumi di quella sua tanto famosa antichità» (L.
Guicciardini, Il sacco di Roma cit., p. 230); o nel Dialogo di Aretino: «Ecco che io imbrocco la fantasia
a una poltrona che [...] aveva saziati i famigli degli Spagnuoli e dei Todeschi, i quali fecero il bello
scherzo a Roma; aveva sfamati quelli de lo assedio di Fiorenza, e quanti ne furono mai dentro e fuora
di Milano: or pensa, se al tempo de la guerra si portò sì bene, che prove fece al tempo de la pace, e
per le stalle, e per le cucine, e per le birrarie» (P. Aretino, Dialogo cit., p. 477). La comicità grottesca
intessuta sulle violenze inferte alle donne si sostanzia qui dell’implicita citazione dell’Errante: l’Aretino
vuol emulare l’opera del discepolo e fornire al contempo un’ulteriore declinazione comica dell’imma-
gine essenziale del Sacco come amplesso presentando una prostituta ancor più valorosa della famosa
Puttana errante, che durante il Sacco mostra a pieno l’altezza della propria ‘virtù’ concedendosi non
ai soldati dell’esercito ma a tutti i loro servitori, e replicando il medesimo cimento durante l’assedio
di Firenze e nel Milanese.

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