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OPERE PETRARCA

AFRICA
(Ariani) Nella lettera Posteritati Petrarca racconta di aver concepito a Valchiusa, il venerdì santo
del 1338 o 1339 l’idea di un «carmen heroicum» sulle gesta di Scipione l’Africano. La gestione in
esametri latini fu tormentata. L’autore rifiuterà sempre di pubblicarlo, nonostante le insistenze di
Boccaccio e Coluccio Salutati, suoi amici. Soltanto nel 1396, per volere dei suoi eredi, si poté
disporre di una copia ‘diplomatica’ dell’autografo, per le cure di Pier Paolo Vergerio. All’inizio
Petrarca ha scommesso molto sul progetto di restaurare l’epica classica in un moderno «carmen
sacrum» che riproponesse il modello virgiliano, ma integrato da un rigoroso rispetto del vero
storico, autorizzato da Livio e Lucano, ‘nuovi’ garanti di una filologia poetica senza precedenti nel
Medioevo. È proprio l’idea di una inventio che può agire sul vero che il progetto ha incontrato
ostacoli alla fine insormontabili, la coscienza dei quali ha finito con l’indurre Petrarca ad
abbandonare il poema in uno stato di incompiutezza che non è mai riuscito a superare.

TRAMA: Scipione ha una visione in sogno: gli appaiono il padre, Publio Scipione, e lo zio Gneo che
gli mostrano la beatitudine nei cieli dei grandi eroi romani del passato (I). A Scipione, ansioso di
conoscere gli eventi futuri, il padre preannuncia la vittoria su Cartagine e il destino imperiale di
Roma facendogli una rassegna dei discendenti e della stirpe cesare che porterà l’Impero all’apice
della gloria. Ma lo avverte della caducità delle cose: anche Roma cadrà come ogni altra gloria
terrena, anche se un giorno un poeta, che verrà dalla Toscana (Petrarca stesso), canterà le sue
gesta spinto soltanto dall’ammirazione per le grandi cose e dall’amore per la verità (II). Scipione si
ridesta e medita su quanto ha visto in sogno. Decide di inviare l’amico Lelio come legato al re dei
Numidi, Siface, per guadagnarlo alla causa romana. Lelio giunge alla meravigliosa reggia del re
numida dove, nel corso di un banchetto, un aedo esalta le glorie dei cartaginesi, seguito da Lelio
che gli contrappone gli esempi della virtus romana (III). Lelio celebra le lodi di Scipione e narra
altre grandi gesta dei romani, come la guerra di Spagna contro i Cartaginesi. Il libro di soli 388
esametri è incompleto: la lacuna riguarda lo sbarco di Scipione in Africa, il voltafaccia di Siface,
spinto dalla moglie Sofonisba ad allearsi con i Cartaginesi, e la sua sconfitta per opera di Lelio e
Massinissa, re dei Massili, passato dalla parte dei Romani (IV). Sofonisba si reca da Massinissa (che
ha sconfitto Siface) per averne protezione contro i vincitori che vogliono condurla in catene a
Roma. Il re, colpito dalla sua bellezza, se ne innamora e tenta di perorarne la causa presso
Scipione, che però rimane irremovibile. La regina, disperata, si uccide (V). Sofonisba discende agli
Inferi, dove, tra i mirti, trova altri amanti famosi morti infelicemente, Intanto i Cartaginesi,
spaventati dalle vittorie di Scipione, richiamano Annibale in patria. Anche suo fratello Magone, già
ferito in uno scontro avvenuto in Liguria, è chiesto di rientrare: ma durante il viaggio per mare, in
uno scontro avvenuto in Liguria, è chiesto di rientrare: ma durante il viaggio per mare, disperato
per i suoi giovanili sogni di gloria infranti, muore (VI). Grandi preparativi per la battaglia decisiva
sul suolo africano: Scipione incontra Annibale nel campo cartaginese, ma il colloquio è inutile e,
mentre in cielo Cartagine e Roma, personificate, si contendono la vittoria alla presenza di Giove, la
guerra si riaccende con violenza. I Romani devastano le campagne intorno a Cartagine, il cui
esercito è sbaragliato a Zama (VII). Viene proclamata una tregua: un’ambasceria cartaginese è a
Roma per trattare la pace, che i Romani concederanno solo a durissime condizioni. Scipione brucia
la flotta cartaginese (VIII). Scipione rientra vittorioso a Roma: sulla nave lo accompagna il poeta
Ennio, che gli parla del significato della laurea poetica e del sacro fine della poesia. Ennio ha una
visione notturna: gli appare Omero che gli mostra una lunga rassegna di poeti al cui termine è
Petrarca stesso, che scriverà un grande poema su Scipione e sarà laureato poeta sul Campidoglio.
Il canto si conclude con il trionfo di Scipione sul carro dorato e con la dedica dell’Africa alla
memoria di re Roberto d’Angiò (IX).

Petrarca sigilla il poema nella sua inanità, di fatto esautorandone i «fundamenta» ideologici e
culturali indotti dal progetto di conseguire la laurea di massimo poeta. Il sogno di una restauratio
epica, nonostante la profetica sequenza Omero – Ennio – Petrarca, è dunque travolto: stanno a
dimostrarlo i non pochi residui medievali che fanno dell’Africa un testo straordinariamente
composito. Il sogno di Scipione ripropone la medievale visio in somniis come l’irrinunciabile
abbrivio dinamico di ogni narratio che si proponga come fondamento di verità. Anche
tecnicamente, il progettato restauro dell’epos classico non tiene: il polemico distacco dall’epica
medio-latina non ha impedito che certi inserti ancora marcati dall’ornatus difficilis e dall’allegoresi
medievale contrastassero vistosamente con la patina uniforme imposta da una strenua adesione
al decorum, sostenuto da un dettato perennemente amplificativo-sentenzioso. L’architettura
narrativa dell’Africa ha sofferto per il lungo processo elaborativo: le lacune non sanate e il
profondo mutamento della prospettiva storiografica, comportano un ordito di fratture e giunture
visibili non dissimulato dal lavoro di montaggio. I notevoli residui marcati dalla tradizione
medievale, il «pathetice materie fundamentum» (Familiares XVIII 7 3) della storia di Sofonisba e
Massinissa, l’affermazione di Scipione come personaggio agens soltanto dal libro VI in poi,
l’ingorgo ritardante delle lunghe sequenze sentenziose rispetto al ridotto indice dei fatti storici
rappresentati, fanno dell’Africa una macchina pletorica quanto squilibrata e fondamentalmente
irrisolta sul piano ideologico e formale. Eppure il poema viene considerato un capolavoro della
letteratura italiana in lingua latina: per il raffinato ludus di incastro-contaminazione citazionali; per
la straordinaria capacità di inventare paesaggi verosimili e scandirvi eventi in un tempo narrativo
realistico; per l’alto pathos dell’effimero e della caducità che attraversa la retorica della virtus
romana e che impone a Petrarca consonanze tematiche che, dai Triumphi al De remediis utriusque
fortune, segneranno di medievali durezze gli ossessivi memento.

(Rico-Marcozzi) Un poema epico in esametri latini che canta le glorie di Scipione l’Africano e le
grandezze di Roma, con episodi come l’amore di Massinissa e Sofonisba o il sogno del poeta Ennio,
Petrarca intendeva rendere immortale il proprio nome. Il poema, dedicato a Roberto d’Angiò e
rimasto incompiuto, consta di nove libri e non circolò mai in vita, a eccezione di alcuni frammenti:
una descrizione delle immagini degli dèi pagani che ornavano la reggia di Siface, nel libro III, di cui
rese partecipe Bersuire, e il frammento del famoso «lamento di Magone» nel libro VI, che, nel
corso del secondo soggiorno napoletano del 1343, fece leggere a patto che non lo diffondesse a
Barbato da Sulmona, che invece lo divulgò. L’umanista istriano Pietro Paolo Vergerio ne curò
un’edizione basandosi sull’autografo del 1396. Nell’epistola Ad Posteritatem Petrarca afferma che
la composizione del poema cominciò a Valchiusa nel 1338, il Venerdì Santo. In una prima fase,
anteriore al 1341, furono stesi i due libri che egli leggerà in parte a Roberto d’Angiò; la scrittura
proseguì a Parma fra il 1341 e il 1342; dopodiché negli anni successivi alla morte del re di Napoli
(1343), il lavoro di correzioni e aggiunte prosegue a tratti anche molto intensamente, in particolare
al tempo del Secretum.

DE VIRIS ILLUSTRIBUS
(Ariani) Nel 1338, prima ancora dell’Africa, Petrarca si era dato al progetto di un grande libro di
storia dal re Romolo all’imperatore Tito per esaltare la virtus romana. Portata a termine una prima
stesura – con 23 ritratti, tutti romani fuorché Alessandro Magno, Pirro e Annibale, da Romolo a
Catone – fra il 1341 e il 1343, revisiona radicalmente l’organismo con altri 12 ritratti, da Adamo ad
Ercole nel 1351-1353. Petrarca continua comunque a lavorare sulle due biografie a cui teneva di
più, quella di Scipione – con una terza e ampia redazione tra il 1353 e il 1366 – e quella di Cesare –
dopo il 1366 – che ha finito per acquisire una autonomia (De gestis Cesaris). Escluse politicamente
le tenebre dell’età moderna, l’imponente galleria degli «illustrium exempla» avrebbe ricostruito i
«fortune varios casus» di un’antichità contemplata come l’imperfettibile modello di un discrimine
etico privo di sfumature. È proprio una razionale sfiducia nei confronti della leggibilità a posteriori
delle humane res tràdite dagli storici nubilosis ambagibus a indurre Petrarca a stilare, nella
prefazione al De viris universale, un vero e proprio canone storiografico di verifica della fonti.
Petrarca è alla ricerca di una sorta di sincretica auctoritas che garantisca una verità umanamente
ragionevole, perché solo Dio conosce la verità, essendogli tutte le cose presenti. Quando Petrarca
non può godere del sicuro viatico liviano, la difficoltà nel conciliare le fonti lo induce a costituire un
mosaico citazionale che finisce per indurlo in errore. Gli esiti di un’ancora acerba ma accanita
filologia assicurano al primo De viris il valore di un incunabolo dell’umanesimo petrarchesco.
Anche in questo caso, come nell’Africa, è risultato impossibile al poeta coniugare la veritas e
l’amplificatio, destinate a collidere quanto più profonda diventa la consapevolezza della miseria
umana.

(Rico-Marcozzi) Si presenta come «una costellazione di pezzi in vario rapporto tra loro, ciascuno
dei quali però, pur essendo un tassello di una medesima articolata ricerca, non ha legami formali e
strutturali con gli altri». L’opera fu iniziata verso il 1338 o 1339, con una vita di Scipione l’Africano,
poi oggetto di ben due redazioni posteriori, intesa quasi come una «documentazione storica
dell’Africa». A questa si sommò la serie di ritratti di personaggi illustri della Roma repubblicana, da
Romolo a Catone il Censore, ampliata in seguito con le vite di alcuni celebri condottieri non romani
(Alessandro, Pirro, Annibale) e ancora rielaborata per un totale di ventitré vite (in ventidue ritratti,
poiché quelle di Claudio Nerone e Salinatore sono svolte assieme); infine, l’estensione del disegno
iniziale ai medaglioni dei «primi homines», da Adamo a Ercole, fu segno di una svolta ideologica,
con l’inclusione di uomini illustri della tradizione biblica, estranei all’Antichità classica. A questi
materiali si aggiungono una Collatio inter Scipionem, Alexandrum, Han[n]ibalem et Pyrrum e,
soprattutto, il De gestis Cesaris, una lunga vita di Cesare, frutto del lavoro storico del Petrarca più
maturo. Nei tardi anni del soggiorno padovano, Francesco da Carrara, che si proponeva di
affrescare una sala del suo palazzo con le figure dei viri illustres, chiese al poeta di comporre un De
viris limitato ai personaggi della latinità: la nuova versione, dedicata al signore di Padova, fu
intitolata da Lombardo della Seta Quorundam virorum illustrium epithoma, e sempre su invito del
Carrara Petrarca forse iniziò anche un compendio dell’opera poi completato da Lombardo. A sé
stante è una breve biografia di Terenzio, scritta intorno al 1340.

LIBER SINE NOMINE E DISPERSE


(Ariani) Petrarca scorpora dai Famiiarum rerum un manipolo di lettere accomunate dal tema di
Avignone come nuova Babilonia. Nel 1353 era già pronta una raccolta di 13 lettere poi
rimaneggiata nell’ordine e accresciuta di altre sei quando Petrarca, a Milano, poteva sentirsi libero
di agire secondo i dettami dell’odiosa veritas. Il titolo ne fa un libro allusivamente apocrifo,
all’insegna di quella obliqua obscuritas che doveva proteggere, nelle intenzioni esplicite
dell’Auctor, anche il Bucolicum carmen, che delle Sine nomine condivide la figurazione visionaria e
apocalittica della moderna Babilonia. Anche qui, come nelle Familiares, assistiamo all’invenzione di
lettere fittizie (XVIII e XIX) o, comunque, non spedite per ottemperare a un disegno organico
tutt’altro che implicito: l’apertura pubblica e l’hortatoria di chiusura a Carlo IV (XIX), per il ritorno
della sede papale a Roma, incroniciano missive ‘private’, ma contrassegnate da un simbolismo tra
mistico e parodico. È un’esperienza del vissuto elevata ad exemplum di una corruzione studiata
attraverso la preziosa cernita della combinazione citazionale: il latino, piuttosto che il volgare
boccacciano, segna tutta la reticenza di Petrarca nel calarsi, senza una spessa mediazione
letteraria, in un universo ‘basso’ di comica bestialità.

(Rico – Marcozzi)È radunato un gruppo di diciannove epistole che non compaiono in altri epistolari
petrarcheschi, la più antica risalente al 1342, le più tarde al 1361, e per la maggior parte elaborate
durante l’ultimo soggiorno a Valchiusa tra il 1351 e il 1353. Si presume che la raccolta in volume
sia avvenuta tra il 1359 e il 1361, contemporaneamente a quella delle Familiares. Il tema è lo
stesso dei famosissimi sonetti avignonesi (CXXXVI – CXXXVIII) dei Rerum vulgarium fragmenta: la
violenta invettiva contro la curia papale, la currizione dei costumi di curiali e prelati, l’avarizia, la
lussuria, persino l’eresia che vi albergano, messe a impietoso confronto con le umili origini della
Chiesa e la sua antica povertà. Larga parte hanno, nella raccolta, anche le vicende politiche
contemporanee.

RERUM MEMORANDARUM LIBRI


(Ariani) Nel 1343, a Valchiusa, interrotto il primo De viris, Petrarca subisce un «impetus alter» e si
getta nella grande congeries dei Rerum memorandarum libri, abbandonati allo stato di abbozzo nel
febbraio 1345 in fuga da Parma e non lo riprenderà mai più. Sente però il tema sempre attuale se
scrive, ancora nel 1359, a Francesco Nelli che «gli esempi di uomini illustri […] mi fanno venire
l’acquolina in bocca, mi caccian il torpore e ogni notte sebbene stanco mi agitano» (Familiares XXI
12 33). Attratto da un intento enciclopedico, Petrarca si mette alla ricerca di tessere squisite che
rendano seducente il progetto dell’imitatio e più fascinoso lo speculum in cui riflettere e giudicare i
propri come gli altrui mores. Come nell’Africa e nel De viris, alle fondamenta rimaneva l’ossessione
delle «fortune vicissitudines» e la condanna dell’insania di chi crede nella gloria e nella sapienza
mondana: Socrate ed Epicuro sanzionano un severo scetticismo che rende inutili exemplum e fictio
al cospetto dell’unica sapienza divina. Eppure, questo ennesimo monumento alla virtus si avvaleva
ora di gesti, fatti, motti, facezie moderne e contemporanee, con un sicuro acquisto per
l’umanesimo petrarchesco. Petrarca ha ordito la materia, a differenza degli exempla medievali, sul
programma etico che gli offriva Cicerone con la partizione della virtus nei quattro cardini di
prudentia, iustitia, fortitudo, temperantia, sul quale innestava il modulo struttivo dei Factorum et
dictorum memorabilium di Valerio Massimo. Secondo il disegno originario, al fianco delle parti «de
virtutibus» ci sarebbe dovuta essere anche una parte relativa al «de vitiis». Dalle res memorandae
è cassato il pendant delle virtù teologali e tutto il meraviglioso biblico e cristiano, sacrificati a un
disegno interamente mondano. Ci sono anche parti ‘comiche’ delle sezioni De facetis ac salibus
illustrium e De mordacibus iocis come i mirabilia astrologico-divinatori della futurorum providentia
e si avvale anche di materiali non attestati, letti o uditi che Petrarca smembra e ricompone in una
textura gremita di citazioni, excerpta, epitomi, parafrasi. Il ritratto del «vir bonus» prende forma
anche da un immaginario non esclusivamente antiquario, anzi agganciato al presente da
personaggi conosciuti personalmente.

(Rico-Marcozzi) È una raccolta di exempla e aneddoti di varia estensione suddivisi in romana,


externa e moderna (mentre erano esclusi a priori gli episodi della storia sacra, tratti dalle Sacre
Scritture o dalle agiografie) e vòlti a illustrare le virtù cardinali, furono iniziati nell’estate del 1343
in Provenza e proseguiti in Italia fino al febbraio 1345, dopodiché l’autore non vi mise più mano e
l’opera ci è giunta incompleta. Nel 1378 Tedaldo della Casa ne trasse dall’autografo una copia oggi
conservata presso la Biblioteca Laurenziana di Firenze.

ITINERARIUM AD SEPULCRUM DOMINI


(Ariani) Dopo i Rerum memorandarum libri Petrarca non ha più cercato di realizzare opere di
erudizione pura. Solo nel 1358 un’occasione contingente – l’invito declinato di partecipare ad un
pellegrinaggio in Terrasanta – lo indurrà a stilare un’operetta in cui la collectio delle fonti
sostituisce l’esperienza del viaggio. Alle testimonianze, archeologiche e geografiche, di prima
mano, della costa fino a Roma e a Napoli, già presenti nell’Africa e nel De viris, segue, senza
soluzione di continuità, il resoconto ‘filologico’ di un viaggio (attraverso le isole greche, l’Asia
minore, Cipro, Siria, Libano, Gerusalemme, Betlemme, Sinai ed Egitto) sulle carte geografiche e
sulla letteratura odeporica, classica e medievale, tanto che anche l’improbabile partenza da
Genova risulta sovradeterminata da ragioni squisitamente letterarie. La fede umanistica
nell’autosufficienza dell’apparato erudito come sostituto dell’esperienza aggancia l’Itinerarium
all’immaginario dell’amor de lonh su cui Petrarca sta costruendo il libro dei frammenti volgari.
L’aderenza del dettato ai referti del ricordo personale non preclude mai l’affabulazione simbolica,
che si impone sempre sui realia: le presenze laurane (lauriferi) affiorano davanti alle rovine di
Literno, un tempo rifugio di quello Scipione che nei Triumphi assume la funzione di controfigura
eroica di Laura proprio nel medesimo contesto paesistico. Comunque la novità dell’impasto
inventato da Petrarca combinando visione diretta e memoria culta non si priva dei dettami più
moderni della tradizione degli itineraria, come quando il pellegrino è invitato a visitare a Napoli la
Cappela regia, la Certosa, Santa Chiara e Castel dell’Ovo con accenti da Baedecker umanistico che
convogliano, nel genere della ‘guida’, le tecniche di più fluida aderenza all’esperienza personale
acquisite da Petrarca nell’esercizio della prosa epistolare, come nell’exemplum, fondante
dell’ascesa al Monte Ventoso.

(Rico-Marcozzi) Nel marzo 1358, nel declinare l’invito di Giovanni Mandelli, già podestà di
Bergamo, a compiere con lui un pellegrinaggio in Terrasanta, scrisse una guida di viaggio in parte –
da Genova a Napoli – frutto della propria esperienza, in parte – Grecia, Italia meridionale, Asia
Minore, Egitto – di carattere eminentemente letterario, diffusasi in seguito sotto il titolo conciso
ma spurio di Itinerarium Syriacum. L’operetta è nota anche come Itinerarium breve de Ianua usque
ad Ierusalem et Terram Sanctam, o Itinerarium ad sepulcrum Domini nostri Ihesu Christi, e
quest’ultimo è il titolo che si evince dal manoscritto più autorevole, il codice BB 1.2.5 della
Biblioteca Statale di Cremona, che riproduce – come risulta dall’explicit: «extractum ab originali
manu sua scripto» - la copia inviata da Petrarca al Mandelli il 4 aprile 1358. Della quarantina di
manoscritti che trasmettono l’opera, particolarmente utile per stabilirne la corretta lezione è il
Laurenziano XXVI sin 9, copiato dalle carte petrarchesche di Padova da Tedaldo della Casa.

PSALMI PENITENTIALES
(Ariani) Si tratta di un singolare esperimento di prosa ritmata in segmenti paratattici secondo un
formulario ricalcato dalla scrittura biblica dei Salmi. Versetti di tipo prosastico con i quali Petrarca
tenta di inventare una poesia latina «rauca» e «aspera». Da una diversa scansione metrica, quasi
occultata nelle misure lunghe del salterio, scaturisce una poesia nuova, scabra e disadorna.
L’autore non rinuncia comunque a un’accorta, sottolissima commixtio di rimandi classici nella
essenzialità ‘davidica’ anche se la severa scansione prosastica ha il compito di denudare
evidenziandoli al massimo, i lacci che Agostino, nel Secretum, tenta invano di allentare: l’anxietas e
la voluptas, la perplessità del bivio pitagorico, la disperata ineluttabilità della «consuetudo
pessima», la fragilità della voluntas e il tempo che fugge (III), l’ossessione dei fantasmi e le insidie
del «corpus-sarcina» (V, 5), la declinazione ossimorica del labirinto di vie torte che minaccia la
verticalità innica dell’antipoesia salmodiale. Si tratta di un esperimento assolutamente
occasionale, a dirla con il poeta (Seniles X 1), anche se la contaminazione biblico-profana è
sintomatica di un umanesimo cristiano problematico e oscillante, ma lucidamente affrontato.
Qunado non è in gioco la responsabilità del poeta di misurarsi con stile e metrica, la meditatio
cristiana può produrre una prosa di pari, prosciugata, asseverativa essenzialità.

(Rico-Marcozzi) È incerta la datazione, comunque successiva al 1347, esplicita imitazione dei Salmi
biblici, presenti anche nella regola benedettina del breviario giornaliero e quindi nella regola
monastica abbracciata dal fratello Gherardo. Per lungo tempo datati al 1342-43 se non agli anni
Trenta, si tende ormai a ricondurli a un periodo vicino a quello della prima elaborazione del
Secretum, attorno al 1347; il Laurenziano XVII dext. 11, parzialmente autografo di Tedaldo della
Casa, ne riporta il testo più vicino all’originale, assieme al Riccardiano 476.

DE VITA SOLITARIA
La struttura binaria del libro sembra sanzionare il raggiungimento di un tormentato equilibrio: ad
un libro I dove la trattazione è per linee sapienziali e filosofiche, segue il II costruito come uno
sterminato regesto di exempla ascetici che rappresenta un’ennesima prova della filologia
petrarchesca. Il De vita è una sorta di controfigura cristianizzata dei Rerum, con una più libera,
fluida e digressiva sequenza di exempla cristiani e pagani, antichi e moderni, con significative
aperture esotiche su mirabilia santificati dall’ascesi. Nel I libro c’è la lode della vacatio, l’essere
libero da occupazioni per potersi dedicare alla contemplazione. È organizzata teoreticamente,
senza il puntello degli exempla, che avevano occupato totalmente lo spazio espositivo delle opere
erudite. Ora conta soltanto la retorica circolarità di un precetto etico che deve dare senso agli
esempi del libro II i qualli lo sostanzieranno storicamente. L’opposizione dei due registri formali e
morali non scompensa una prosa latina che procede impassibile al regesto dei contraria senza
avventurarsi né in un vero realismo come quello dantesco o boccacciano né in un eccesso mistico,
troppo razionale essendo l’ottica, enciclopedica e fenomenologica, adottata da Petrarca. Il quale
non pensa a una solitudo «sine literis», bensì una «imaginaria solitudo», un’interiorizzazione
assoluta della sapientia tanto che. «la nostra immaginazione si costruisca un luogo appartato tra la
folla, in viaggio, persino durante i banchetti». L’elezione di un luogo segreto del cuore in cui
conversare con gli antichi che parlano attraverso i libri può comunque avvalersi di un paesaggio
solingo in cui si plachi l’inquietudo animi e rinasca, dal profondo di una vacatio assoluta,
l’angelicus homo, intento a disciogliersi dal carcere corporeo e a predisporre il tempio dell’anima
alla visione celeste. La vacatio è una stazione inevitabile per l’homo viator in itinere che si trovi al
bivio e si ponda come di vedetta, per non lasciarsi travolgere dal tempo: Petrarca però ha cura di
sottolineare gli ascendenti del suo otium, che prevede un’attenta regia di solitudini ciclicamente
interrotte da calcolate visite di amici con cui condividere una conversazione dotta, una squisita
curiositas per le cose lette o udite. Il De vita solitaria offre luoghi memorabili per capire il senso
profondo della solitudo petrarchesca: la stretta implicazione tra furor poetico e locus amoenus, di
cui è segnata correttamente la matrice platonica. La fenomenologia critica del desiderio e della
sapientia come lenta ma pervicace acquisizione di verae opiniones costituiscono il piedistallo per
quella vera e propria epopea della solitudo che è il llibro II, sterminata enciclopedia di aneddotica
ascetica.

(Rico-Marcozzi) È conservato nel suo stadio definitivo dal manoscritto Vaticano latino 3357, a
lungo, ma a torto, considerato autografo) consta di un proemio e due libri: intrapresa a Valchiusa
durante la Quaresima del 1346, l’opera fu rapidamente compiuta nelle sue linee essenziali, ma
Petrarca vi lavorò fino al 1356, e solo dopo altri dieci anni ne mandò copia al dedicatario, Philippe
de Cabassoles, nel frattempo divenuto (1361) patriarca di Gerusalemme (Seniles VI 5). Ancora nel
1371, o poco prima, l’autore vi aggiungeva il Supplementum Romualdianum: un suo amico, infatti,
priore dei Camaldolesi, risentito per l’assenza dall’opera del fondatore del suo ordine, aveva
procurato a Petrarca un esemplare dell’antica Vita Sancti Romualdi di san Pier Damiani, che fu
parzialmente incorporata nel libro II (Seniles XVI 3).

DE OTIO RELIGIOSO
(Ariani) La vacatio è il tema portante del De otio religioso, scritto da Petrarca a Valchiusa nella
quaresima del 1347, dopo una visita fulminea al fratello Gherardo nel convento di Montrieux. La
dimostrazione è svolta secondo il genere oratorio della suasoria, fondata su un perpetuo impulso
esortativo rivolto ai monaci perché resistano alle diaboliche «mundi blanditie» e godano di una
solitudo operosa come preparazione alla suprema visio del sommo Bene. Il monaco, come il
solitario di Valchiusa vorrebbe essere, è un «homo angelicus», un «miles Christi» che resiste e si
batte contro quelle insidie che minacciano l’homo occupatus. L’umana fragilitas è assediata dalla
cupiditas e dalla libido, «mundi pestes» acuita dalla «curiositas pestifera» alla quale Petrarca
contrappone la vanità delle apparenze e delle cose temporali, la «fluctuatio vite» minacciata dalla
corruzione corporale e dal precipizio verso il nulla. Sapienza pagana e sapienza cristiana
«consonant» dunque nell’identificazione della voluptas corporis come quella distruttiva, continua
gara con la carne che impedisce la meditatio mortis e vulnera ogni intento contemplativo. La
congestionata temperie oratoria non riesce a dissimulare il reale intento di Petrarca: l’ulteriore
tassello per un autoritratto di giovane ‘pagano’ sconvolto da un primo incontro con le
Confessiones di Agostino e poi convertito alle seduzioni poetiche della Sacra Scrittura. Anche nel
De otio religioso, il Secretum si profila già nei suoi temi ossessivi: l’assedio dei peccati capitali, la
fragilitas, il carcere corporeo, l’amor carnalis e i suoi fantasmi, il tempo che tutto travolge, la
conversione alla meditatio mortis. I tre libri pertengono dunque a un giro di anni, tra il 1346 e il
1347, che vede la costruzione di un mito personale: la perplessità davanti al bivio dell’homo viator
in itinere, la battaglia contro la libido «in mundo velut in carcere» e il profilarsi di una conversio
non autopunitiva, ma dedita all’operosità delle humane litere cristianamente illuminate. Costitiuto
il piedistallo enciclopedico della solitudo nel De vita, il De otio costruisce l’utopia personale di un
silentium interiore abitato da libri e fantasmi, ma capace, in pochi momenti di confessione
autentica, di resecare gli ultimi lacci per le fulminanti introspezioni di una tecnica mistica, appresa
probabilmente sui testi del Vittorini, che coniuga ragione e contemplazione in un fermo sguardo
sulle cose del mondo e dell’oltremondo.

(Rico-Marcozzi) Nacque dalla visita di Petrarca alla certosa di Montrieux in cui risiedeva il fratello
Gherardo, avvenuta nei primi mesi del 1347 (Seniles VI 5); l’opera, indirizzata ai monaci che lo
avevano benevolmente accolto nel suo breve soggiorno, fu iniziata durante la Quaresima dello
stesso anno traendo spunto da una sua citazione dei Salmi e rielaborava in senso ascetico molti
dei concetti già esposti nel De vita solitaria, rispetto al quale si volge soprattutto a esaltare
l’operosa serenità dei religiosi dediti alla contemplazione. Il De otio religioso fu poi rimaneggiato e
ampliato negli anni Cinquanta, fino ad assumere la fisionomia ultima testimoniata da diversi
manoscritti identificati nell’ultima edizione critica.

DE REMEDIIS UTRIUSQUE FORTUNE


(Ariani) È una fusione tra messa in scena dialogica delle passioni e universale riduzione della realtà
ad exempla buoni per tutte le possibili situazioni della vita, Petrarca ha tentato l’opus magnum di
sintesi in cui la riflessione etica, estesa anche alle condizioni materiali dell’ars bene vivendi et
moriendi, offrisse, allo stesso tempo, una soluzione definitiva alle contraddizioni proprie e di tutti.
Tutto gli appare preda di una guerra perenne di forze in conflitto, i libri o i fatti gli confermano
l’universale lis (guerra) eraclitea che domina il mondo. La Praefatio al secondo libro è una
sconvolgente rappresentazione del naturale odium che regola tutti i rapporti tra esseri animati e
cose inanimate: l’antitesi, la coincidentia oppositorum, il paradosso, l’ossimoro sono le normali
condizioni dell’essere. Questa cosmica rerum contrarietas è essenziale per capire la struttura
stessa del De remediis: il paradosso è strumento conoscitivo in quanto la pervasiva, universale
commixtio contrariorum si rispecchia nella lis interior di ciascuno. Sviscerare il dibattito interiore,
oggettivarlo in opposizioni elementari quanto nitidissime, significa sancire la dilacerazione
esistenziale come una diagnosi definitiva. Di questa fluctuatio la Fortuna è la grande rota volubilis
che travolge gli uomini con i loro contraddittori affectus, vanamente ansiosi di un signum fixum
che li faccia incolumi dal ferale prodigium. La posizione del Petrarca oscilla tra la concezione
medievale della Fortuna quale instrumentum divino e quella classico-umanistica della
«incompehensibilis […] agens». L’idea di stilare un grande ‘vocabolario’ dei casi utriusque Fortune
deve essere scaturita proprio da questa irrisolta aporia: da una parte la medievale resa alla divina
voluntas, dall’altra l’umanistico intento di catalogare, estraendoli da tutte le fonti letterarie
disponibili come dall’attualità civile, i prodigia di quei pericolosi, inafferrabili ludi, che la trux
Fortuna gioca incostanter a spese degli uomini, per cercare di sventarne le trame con
l’exemplorum sapientia. Nel libro I, Ratio confuta le illusioni e i desideri di Gaudium e Spes e, nel II,
cerca di consolare Dolor dai colpi della sorte avversa, il metodo che Petrarca adotta per bocca
della Ragione è quello dell’ostentazione apodittica di tutti i prodigia Fortune, quasi che la loro
impudica ma gelida e meccanica esibizione dovesse funzionare da medicamento omeopatico: la
vana gioia si cura con il vanitas vanitatum, come il vano dolore con la platonica e cristiana
avvertenza della nullità dei più orrendi accadimenti in quanto tutto è caducità, apparenza,
illusione. Nel De remediis Petrarca ha ripreso i temi delle sue grandi ossessioni – il tempo, la
fortuna, la virtù – per organizzarli in una grandiosa architettura polifonica dove viene messa in
scena una vera e propria psicomachia. Lo scontro tra le sostanze psichiche e i paradossi esistenziali
che ne derivano, deve offrire i remedia a chi è soggetto ai rovesci o alle illusioni di Fortuna, che si
accampa, in una guerra senza fine, per cui il nocens bonum, il bene che nuoce, è il più insidioso,
genera lo sterminato inventario delle sequenze giustappostive, secondo un implacabile
procedimento binario di antitesi schematiche e sentenziose in forma di breviario di vita. Gaudium
e Spes antiteticamente illuse e termonetate dal tempo praeteritum/praesens, Spes e Metus dal
futurum: il rimedio consiste nel fronteggiare le avversità con i suoi contrari, nel giustapporre
crudamente ad ogni illusione o delusione di Fortuna la dura palinodia di Ratio. L’esposizione dei
remedia è ordita per capitoletti di andamento processuale: ogni affectus si confessa davanti alla
Ragione, che gli oppone un esteso controcanti, sulla base di un costante fondamento binario, il
primo libro sui pericoli della prosperità, il secondo sulla dulcedo nascosta nell’amaro di ogni
avversità. Niente si salva dal suo giudizio: nel libro I ogni cosa viene travolta e svalutata in
prospettiva escatologica, in 122 capitoli che comprendono anche tutto il possibile décor materiale
di un’esistenza agiata, fino all’ultimo capitolo, De spe vita eternae. Nel libro II il computo esaustivo
delle disgrazie, degli orrori, delle miserie ha una tale pregnanza didascalica e edificante da
concludersi bruscamente su un capitolo, il 132, che lascia impregiudicato il paradosso di un rerum
contrarietas insanabile, se non nell’accettazione nichilista di uno stato normale di esistenza che
solo la rinuncia a vivere può curare radicalmente. L’inclinazione di Petrarca per grandiose
rappresentazioni allegoriche tocca nel De remediis l’apice delle sue totalizzanti potenzialità
rappresentative: l’ambizione era quella di raccogliere tutte le favole del mondo in un’immensa
sequenza diatribica, posta in bocca agli affectus stessi dell’animo umano, messo in scena e
devastato come un campo di battaglia dove non c’è più alcuna guerra da combattere, vinta a priori
da Ratio che impone ai vinti tremebondi la logica spietata del proprio, durissimo antisomatismo. La
dedica ad Azzo da Correggio condiziona, fin dall’inizio, la qualità e il livello della materia
esemplaristica esibita: i desideri e le paure sono quelli connaturati ad un’esistenza aristocratica,
alla cui sterminata affluenza di beni è dedicata la confutazione nichilistica.
TRAMA: All’inizio, nel primo iibro, l’alternanza tra beni corporei e beni spirituali detta il ritmo dei
capitoli: le doti del corpo sano e ben formato (1-6) e le qualità della mente virtuosa (7-14), cui
seguono le origini nobili e fortunate (15-17) e i piaceri del corpo (18-42). Il capitolo 43, De librorum
copia, segna il ritorno ai piaceri dell’anima ma in relazione alla convivenza sociale: la fama, i titoli
di studio, le cariche, l’amicizia, le ricchezze, e poi la moglie, i figli, i parenti, i precettori, la bontà dei
rapporti familiari (43-85). Seguono alcuni capitoli sul benessere sociale del corpo: la prosperità dei
viaggi, la felice liberazione dal carcere, la tranquillità dello status sociale (86-90). Su questa base
stabile è possibile edificare tutto l’immaginario del potere, dell’amore del popolo alla tirannide,
dalla gloria militare (91-109). I capitoli che seguono riguardano l’integrazione di corpo e anima,
l’expectatio di beni e fortune future che assicurano il benessere psico-fisico: l’eredità, l’alchimia, la
divinazione il ritorno dei figli, l’attesa dei tempi migliori, della fama, della gloria (110-120) fino ai
due significativi capitoli finali, De pace animi sperata e De spe vitae aeternae (121-122), che
segnano il prevalere delle attese dell’anima rispetto a quelle del corpo. Il secondo libro è il perfetto
ribaltamento del primo: dopo la Praefatio, violentemente confutativa della fragilitas dei beni
desiderati da Gaudium e Spes, tocca a Dolor e Metus ascoltare la lezione nichilista di Ratio. La
bruttezza e la miseria del corpo (1-3), l’oscurità delle origini, la povertà, la scarsità del cibo, la prole
numerosa, la perdita del denaro, le disgrazie del matrimonio, gli amici fedifraghi, i servi infedeli, i
vicini importuni, l’invidia, le offese, il padrone ingiusto (4-39). Solo due capitoli sono dedicati alla
cultura (40-41) cui seguono le afflizioni familiari (42-53), la pericolosità dei viaggio, la siccità, i furti,
le rapine, il carcere, le ingiustizie, gli orrori delle rivoluzioni, delle guerre, della perdita del regno
(54-82). Seguono le afflizioni corporee: la vecchiaia, le malattie, gli incubi notturni, i taedia rerum
variarum, i terremoti, la peste, i diversi fenomeni del taedium vitae (83-99). È ripresa l’alternanza
con le malattie dell’anima, inaugurata dall’ottusità cui seguono i difetti della memoria e
dell’educazione, la pusillanimità, i peccati capitali e altre malattie del corpo, culminati nella follia
che unisce di nuovo animi vitium e corporis libido in una sola, devastante distruttività (100-115) La
paura di essere avvelenati inaugura l’estrema fenomenologia del metus mortis con cui si chiude il
De remediis: ed è un’impressionante tanatologia, dal suicidio alla morte violenta, dalla morte
ingloriosa alla morte repentina o lontano dalla patria, dalle diverse ansie della morte peccaminosa
agli orrori della morte senza gloria, senza figli, senza sepoltura (116-132).

Il De Remediis è l’opera più medievale del Petrarca, nel senso di una proditoria, sistematica
valorizzazione della rinuncia e dell’ascesi, anche a discapito di quella virtus che, nella guerra contro
Fortuna, aveva assunto, nell’Africa, nel De viris e nei Rerum, una funzione squisitamente
umanistica. La scelta antimondana risulta invece imperiosamente calcolata, dura e tendenziosa:
singolare e affascinante, ne scaturiscce un contrasto con l’immenso apparato filologico-erudito
che Petrarca si diverte a dispiegare e nel contempo a corrodere in una palinodia impietosa, ma
non priva di sottili ambiguità. La straordinaria fortuna del De remediis in età umanistica, ma in
particolare, almeno fino al Seicento, fuori d’Italia, la dice lunga sulla composita ideologia che
presiede all’operazione: quella di una sintesi suprema, in cui moralità ed erudizione si scambiano i
compiti per un fine di esemplarità assoluta, di cui ancora una volta l’auctor è l’onniscente regista.

(Rico-Marcozzi)È la summa etico-morale di Petrarca, pieno compimento del suo sapere e pietra
miliare del nascente umanesimo, della sua etica e della sua pedagogia. Fu interamente concepito e
composto nel corso della residenza milanese. I due libri sono costituiti rispettivamente da
centoventidue e centotrentuno brevi dialoghi.
LE INVECTIVE CONTRA MEDICUM
(Ariani) Le Invective contra medicum diviene per Petrarca una preziosa opportunità per chiarire
pubblicamente la propria estraneità all’ideologia dominante e l’assoluta specificità della sua
posizione culturale. La polemica fu provocata dall’epistola di un medico rimasto ignoto, in risposta
a un’altra del poeta del 12 marzo 1352 (Familiares XV 6 5) in cui questi invitava Clemente VI a
diffidare dei medici. Alla risposta di Petrarca il medico contrappose, agli inizi del ’53, un opuscolum
che provocò la risposta delle Invective II-IV. Quella medica, per Petrarca, era un’ars mechanica,
che si prende cura del corpo, non dell’anima (III 98) e non può quindi collocarsi tra le artes
liberales. Petrarca rivendica la vera philosophia, che è soltanto cogitatio mortis, una celestis
philosophia fondata sul platonicum dogma cristianizzato da Agostino. Qui è da ricercare anche la
ragione stessa di ogni poesia, la cui utilità pratica è messa in discussione dal medico: la poesia
soccorre gli animi sofferenti e, tramite l’obliqua figuratio, assicurata dal velamen allegorico,
protegge il dulcis sensus, divina verità già anticamente scoperta dai poeti theologi. I poeti sono
depositari di una sapientia inaccessibile alla scientia dei mechanici, incapaci di accedere anche al
vero senso della Rethorica, dove il loro Aristotele «ha disquisito ampiamente, secondo il suo
costume, della fecondia oratoria e di quella poetica, delle differenze che tra esse intercorrono,
degli errori che l’una e l’altra devono evitare, dei loro difetti e delle loro manchevolezze». Petrarca
allenta anche il solidarismo di queste ultime per una più larga adesione ad una sapienza umana,
fatta di fede, filosofia e poesia, che si appelli ad altre facultates oltre al predominio di quella ratio
dialettica che viene ammessa ma solo come strumento cognitivo di base, deprivato di ogni dignità
conoscitiva dei veri problemi dell’uomo nel mondo.

(Rico-Marcozzi) Sono testimoni autorevoli il Vaticano latino 4518, della seconda metà del Trecento
e il Laurenziano XXVI sin 8 di mano di Tedaldo della Casa; appartengono a una seconda famiglia lo
Harley 6348 della British Library e il manoscritto 509 della Biblioteca Capitolare di Omoluc.

INVECTIVA CONTRA QUENDAM MAGNI STATUS HOMINEM SED NULLIUS SCIENTIE AUT VIRTUTIS
(Ariani) Petrarca ribadisce il valore etico e cognitivo delle humane litere e il privilegio che offrono a
salvaguardia è più nobile e altisonante, ma non più sicura né più diretta: e il privilegio che offrono
a salvaguardia nei confronti di qualsiasi potere mondano. Petrarca mette un netto discrimine tra lo
spazio solitario del letterato e lo spazio socializzato del Potere, al quale si dichiara estraneo se non
per quanto gli garantisca una libertà che nessuna tirannide può scalfire. Solo la virtù regola i
rapporti con i potenti: il possesso dell’eloquenza e delle humane litere assicura dunque una libertà
ignota ai mechanici.

(Rico-Marcozzi) Apologia delle proprie scelte non meno che dei suoi nuovi padroni, nonché difesa
del valore etico delle humanae litterae e del privilegio che esse offrono a salvaguardia di qualsiasi
compromissione con il potere mondano, poiché il possesso dell’eloquenza assicura di suo la
libertà. Il testo critico fornito da Francesco Bausi nel 2005 è fondato su due famiglie di codici
discendenti attraverso due capostipiti diversi da un antigrafo già corrotto: rappresentano
comunque l’ultima volontà dell’autore il manoscritto 509 della Biblioteca Capitolare di Olomouc e
il 358 dell’abbaszia di Raigern, ambedue del Trecento; della redazione più antica sono testimoni il
II IV 109 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze e il Vaticano latino 4527.

DE SUIS IPSIUS ET MULTORUM IGNORANTIA


(Ariani) La contrapposizione tra scientia ed eloquentia serve a Petrarca per limitare drasticamente
la competenza di Aristotele, sulla fede di un’inconoscibilità dei secreta nature e degli archana Dei,
comunque inaccessibili a un metodo che utilizza nozioni non verificate alla luce dell’indispensabile
nesso euristico tra ratio ed experimentum. Petrarca nega ogni validità scientifica alle pretese
razionalistiche e naturalistiche degli aristotelici, che si arrovellano su testi corrotti e peggio
tradotti, ignorando il fine di ogni filosofia consapevole che tutto precipita a morte. Occorre dunque
percorrere un iter sapienziale con guide che facciano amare la virtù che ignora la lezione degli
affectus. All’apice di una sanzione ideologica e morale che distingue nettamente l’umanesimo
dalle «inaudite ambages» dell’ateismo averroista, la duplice auctoritas di Platone e Cicerone trova
in Agostino un precettore inconfutabile.

(Rico – Marcozzi)Risponde a quattro giovani che lo frequentavano a Venezia (Leonardo Dandolo,


Tommaso Talenti, Zaccaria Contarini, tutti veneziani, e il reggiano Guido Bagnolo) che lo avevano
accusato di ignoranza dopo aver pubblicamente mostrato alta considerazione di lui. A costoro,
rappresentanti di un aristotelismo accademico assai vivo tra Padova e Bologna, che poneva
l’accento sulle scienze naturali contro la letteratura e la filosofia morale, Petrarca rimproverò la
cieca sottomissione all’autorità di Aristotele e l’orientamento culturale ispirato a un vano
tecnicismo e privo di contenuti davvero umani. Nella difesa di Platone, Cicerone e Agostino
davanti ad Aristotele si enuclea anche l’esigenza di nuove coordinate di ricerca, sorrette dalle
conquiste più alte dell’etica classica ma innestate anche su alcuni filoni della spiritualità
medioevale, che propongano un’alternativa globale alla cultura e al vivere dell’epoca. In una prosa
vigorosa ed efficace, Petrarca raggiunge col De ignorantia la migliore definizione programmatica
del suo umanesimo.

CONTRA EUM QUI MALEDIXIT ITALIAE


(Ariani) La barbaries dei francesi è quella di una cultura preciceroniana e dunque pre-filologica,
che trae vanto da scadenti compilazioni come il Manipulum florum e da poemi indigesti come
l’Architrenius di Johannes de Hauvilla, mostruosa «verborum inculcatio». La definitiva acquisizione
di una rigorosa implicazione tra etica e retorica e la collocazione della poesia come involucro
sapienziale all’apice delle arti liberali sono i dati più rilevanti della polemica petrarchesca, anche se
la rottura con la Scolastica non recide i legami con il platonismo medievale e la sua decodifica
morale della cultura classica.

BUCOLICUM CARMEN
(Ariani) Petrarca definiva i Bucolica virgiliani un ‘dramma allegorico’, privilegiandone così le
implicazioni sapienziali, occultate e drammatizzate nella struttura dialogica delle egloghe. Petrarca
ha concepito nel 1346 non una raccolta di componimenti, come quella virgiliana, ma un libro
organicamente pensato e costruito, appunto un «bucolicum Carmen XII eglogis distinctum». Il
genus pastorale richiede, per proprio statuto letterario e secondo un’illustre tradizione esegetica
applicata al testo virgiliano, una scrittura a chiave, a doppio senso, adottata soprattutto per ragioni
di prudenza. È dunque una poetica della asperitas, come difficultas a cogliere il senso riposto, a
presiedere l’operazione di cifratura dell’attualità politica e della condizione esistenziale
dell’auctor: l’impasto che se ne produce è ambiguo non soltanto per il duplice livello di
significazione messo in atto, ma per la necessità di dover ricorrere a un codice inedito che, al gusto
corrotto dei curiosi e dei malevoli, può offrire solo asperiora invece del «sapor suavissimus» dei
generi noti. È chiaro che Petrarca si trova a confrontarsi con il problema dello statuto della poesia
condizionato da istanze allotrie, che impongono significati ‘altri’ alla testura retorica: la soluzione è
appunto un ambiguo compromesso, che colloca il Bucolicum carmen tra le opere petrarchesche
più dilacerate tra medievale sudditanza del textus ai sensi riposti e tensione a svincolarsene per
una umanistica autonomia dei significanti. Il Bucolicum carmen va inserito tra i libri inventati e
costruiti da Petrarca secondo un preciso intento architettonico e su un impianto non privo di un
intento squisitamente umanistico. L’accoglimento del genere come vocabolario simbolico non
esclude che una simile operazione punti ad un vero e proprio restauro filologico del reale
funzionamento dei Bucolica virgiliani riletti ora nella prospettiva di una sapienza mistica annidata
nella littera. Nel corpo del libro è possibile individuare una tripartizione di evidente significanza
autobiografica: le prime quattro egloghe drammatizzano mystice l’immaginario della poesia come
dispensatrice di fama e, nel contempo, inafferrabile oggetto del desiderio: la prima, Parthenias, il
contrasto tra poesia profana e poesia sacra, parallelo all’antitesi tra vita contemplativa e attiva,
rappresentate da Gherardo-Monicus e Francesco-Silvius; la seconda, Argus, la morte di re Roberto,
garante della laurea poetica; la terza, Amor pastorius, il mito di Dafne-Laura che si sottrae; la
quarta, Dedalus, il dono divino dell’ispirazione. Nel secondo gruppo di quattro, con uno stridente
contrasto fra travestimento pastorale e violenza polemica in esso cifrata, viene esaltato il riscatto
morale di Roma tentato da Cola di Rienzo, in antitesi con la devastazione provocata dalla politica
avignonese e il conseguente distacco del cardinale Giovanni Colonna, oramai identificato con un
milieu divenuto a Petrarca insopportabile. L’ultimo gruppo di quattro, dominato dall’orrore della
Peste Nera, ritorna al tema della poesia, con la morte del Lauro e la glorificazione di Laura, per
chiudere su un’egloga “di attualità” come la XII (Conflictatio), a ribadire l’intento etico-civile del
libro. Anche il Bucolicum carmen si regge dunque su un compromesso tra un modello esegetico
squisitamente medievale e una direttrice retorico-filologica che non aderisce perfettamente: la
struttura del libro lo colloca dalla parte di opere come il De remediis e i Triumphi, dove è
soprattutto il Petrarca medievale a imporre le sue ragioni. Rimane comunque agli atti il
fondamentale incunabolo della fioritura della poesia bucolica in età umanistica e rinascimentale,
del resto tutt’altro che indifferenti alle implicazioni simboliche del genere pastorale: l’ambiguità
costitutiva del modello rimarrà infatti a lungo nelle secolari esercitazioni sul genere.

(Rico – Marcozzi) È una raccolta di dodici componimenti pastorali in esametri che è talvolta
possibile leggere nelle chiavi fornite da Petrarca in alcune lettere (Familiares X 4), scritti perlopiù a
Valchiusa nel biennio 1347-1348 (gli ultimi quattro in Italia dopo la peste del 1348), e poi
rielaborati e trascritti nel 1357 all’interno del codice autografo Vaticano latino 3358. Le ecloghe
subirono un nuovo processo di revisione in almeno tre fasi: prima nel 1359; poi nel 1361 in
occasione dell’invio dell’opera al cancelliere imperiale Giovanni di Neumarkt; infine, con alcune
«additiones… magnas» (Varie LXV) che riguardano in particolare la lunga ecloga X, a Venezia
intorno al 1365. Solo nel 1366, dopo ulteriori ritocchi, l’autore diede per conclusa l’opera, peraltro
già diffusa. All’interno del Bucolicum carmen sono individuabili tre gruppi di quattro ecloghe
ciascuna, che disegnano «una sorta di autobiografia simbolica» (Ariani) trattando rispettivamente
il tema della poesia, alcune questioni politiche, una riflessione sulla morte. Oltre all’autografo più
volte corretto, il codice VIII G 7 della Biblioteca Nazionale di Napoli reca una fase elaborativa
precedente al 1359; testimone importante appare essere anche il Laurenziano Acquisti e Doni 280.
Nell’ecloga VIII del Bucolicum carmen in cui è inscenato il contrasto tra Ganimede (il cardinale
Colonna) e Amiclate (Petrarca stesso), si fa infatti riferimento al personaggio Gillias, che avrebbe
indicato al poeta errante la direzione da prendere: sotto questo nome si cela Azzo di Correggio,
che Petrarca dovette raggiungere a Verona.

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