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48.

Boccaccio 1313-2013
a cura di
Francesco Ciabattoni, Elsa Filosa, Kristina Olson

Memoria del tempo


Collana di testi e studi medievali e rinascimentali
diretta da Johannes Bartuschat e Stefano Prandi
La pubblicazione di questo volume è stata possibile grazie al «Cilio Fund» della
Georgetown University e al College of Arts & Science della Vanderbilt University.
The publication of this volume was supported by the «Cilio Fund» of Georgetown
University and the College of Arts and Sciences at Vanderbilt University.

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ISBN 978-88-8063-827-8
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Printed in Italy
Boccaccio 1313-2013
a cura di
FRANCESCO CIABATTONI, ELSA FILOSA, KRISTINA OLSON

LONGO EDITORE RAVENNA


Oltre il Decameron
Beyond the Decameron
JOHNNY L. BERTOLIO

DA FILOCOLO A GIAN DI PROCIDA (DEC. V 6):


UN CASO DI AUTO-RISCRITTURA

Più di una novella del Decameron serba cospicue tracce di altre opere boccac-
ciane, in particolare di quelle giovanili in volgare. In ben due novelle della decima
giornata (4 e 5), ad esempio, già illustri critici, nel primo decennio del Novecento1,
riconobbero il marchio inconfondibile del Boccaccio napoletano, che nel Filocolo
aveva sperimentato alcuni schemi narrativi perfezionati in seguito. È del resto l’in-
tera cornice del Decameron, con i giovani raccolti insieme in «lieta brigata», ad
avere nelle Questioni d’amore del Filocolo il suo antecedente più forte2.
L’acume critico di Vittore Branca ha esteso l’indagine anche a quelle novelle
nelle quali il legame con altri testi di Boccaccio è meno evidente; interessato a de-
finire le reciproche relazioni tra opere giovanili e capolavoro decameroniano per
delimitare la cronologia di quest’ultimo, Branca ha potuto così mettere in luce un
ulteriore esempio: è la novella V 6, con protagonista Gian di Procida3. La sua trama
– due giovani nobili innamorati, lei rapita e poi ceduta come concubina dell’harem
di un sovrano, lui che ne va in cerca e si introduce nella sua prigione dorata, il pa-
ventato rogo dei due, il riconoscimento finale e la salvezza di entrambi – ricalca,
pur con le debite distinzioni, una situazione narrativa già presente nel Filocolo (IV
80-169). Si tratta di un passo appartenente non ad un racconto accessorio, bensì alla
trama stessa del romanzo (in un momento nel quale è stato individuato il punto di
snodo dal ‘coperto parlare’ a una schiettezza priva di reticenze4), per quanto lì si
articoli in un episodio dieci volte più lungo5, arricchito di monologhi, dialoghi,

1 Si tratta, in ordine di pubblicazione, di: P. RAJNA, L’episodio delle questioni d’amore nel Filo-

colo del Boccaccio, «Romania», XXXI, 1902, pp. 40-47 e 57-68; C. TRABALZA, Il Decameron e il Fi-
locolo. Le novelle della cavalleria, in ID., Studi sul Boccaccio, Città di Castello, Casa
tipografico-editrice S. Lapi, 1906, pp. 189-218; R. FORNACIARI, Dal Filocolo al Decameron, «Mi-
scellanea storica della Valdelsa», XXI, 1913, pp. 196-201.
2 Lo ha per primo dimostrato P. RAJNA, op. cit., pp. 34-35.
3 V. BRANCA, Per il testo del Decameron. La prima diffusione del Decameron, «Studi di filolo-

gia italiana», VIII, 1950, pp. 31-32.


4 Cfr. R. MOROSINI, Per difetto reintegrare. Una lettura del Filocolo di Giovanni Boccaccio, Ra-

venna, Longo, 2004, pp. 109-112.


5 S. GROSSVOGEL, Ambiguity and allusion in Boccaccio’s Filocolo, Firenze, Olschki, 1992, p. 193.
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apostrofi e personaggi secondari. L’ossatura resta però pressoché inalterata e anzi,


almeno in parte, diventerà modello memorabile per l’episodio di Ricciardetto nel-
l’Orlando furioso e di Olindo e Sofronia nella Gerusalemme liberata6.
A livello macroscopico risalta anzitutto la differente localizzazione geografica
delle vicende: l’episodio in questione del Filocolo ha infatti luogo ad Alessandria
d’Egitto, una delle mete tradizionali dei commerci mercantili e presente in diverse
novelle decameroniane, mentre la vicenda di Gian di Procida si svolge in un’area
ben più circoscritta e nota all’autore, tra il golfo di Napoli e Palermo. In secondo
luogo, rispetto all’identità tipicamente romanzesca dei protagonisti del Filocolo e
all’aura semileggendaria che li circonfonde, i personaggi della novella sono calati
in un contesto storico preciso e non così lontano nel tempo7: insieme ai realmente
esistiti Federico II e Ruggiero di Lauria, anche i due innamorati, per via delle loro
illustri ascendenze – Gianni parente dell’omonimo Gian di Procida, Restituta fi-
glia di Marin Bolgaro – paiono acquistare una dimensione di realtà, e di realtà
quotidiana e sentimentale, ben lungi dall’esemplarità di una vita incensurabile8.
Sia nel suo lavoro sulla prima diffusione sia poi nel commento al Decameron,
Branca ha messo in luce i punti di tangenza più significativi tra novella e Filocolo,
quelli in cui forma e contenuto dei due rispettivi brani più si assomigliano. Essi pos-
sono essere schematizzati in una utile tabella di confronto:
Filocolo Decameron

IV 126, 2 vide lei con Filocolo dormire abbrac- V 6, 21 lei insieme con Gianni ignudi e ab-
ciati insieme: di che rimaso tutto stor- bracciati vide dormire.
dito, quasi di dolore non morio.
IV 126, 6 trasse fuori la tagliente spada e alzò V 6, 22Di che egli di subito si turbò fiera-
il braccio per ferirli; mente e in tanta ira montò, senza
dire alcuna cosa, che a poco si tenne
che quivi con un coltello che allato
avea amenduni non gli uccise.
IV 126, 7 E il pensiero subito si mutò all’ami- V 6, 23 Poi, estimando vilissima cosa essere
raglio, parendogli vil cosa due che a qualunque uom si fosse, non che
dormissero uccidere a un re, due ignudi uccidere dor-
mendo, si ritenne e pensò di volergli
in publico e di fuoco far morire;

6 Lo ha dimostrato G. GETTO, Immagini del Decameron nella Gerusalemme liberata, in ID., Vita di

forme e forme di vita nel Decameron, Torino, Petrini, 1958, pp. 283-313.
7 Lo stesso è stato notato a proposito della quinta novella della decima giornata, anch’essa ‘esportata’

dal Filocolo al Decameron: cfr. F. GUARDIANI, Boccaccio dal Filocolo al Decameron: variazioni di poe-
tica e di retorica dall’esame di due racconti, «Carte italiane», VII, 1986, pp. 32-34; N. MARASCHIO, Pa-
role e forme del Decameron: elementi di continuità e di frattura dal fiorentino del Trecento all’italiano
contemporaneo, Firenze, Offset, 1992, p. 159.
8 Sulla dimensione ‘storica’ della novella hanno posto l’accento, fra gli altri: B. BARILLARI, La novella

di Ruggiero di Lauria, «Brutium» XXVIII, 1949, p. 3; Vittore Branca nella sua introduzione a G. BOC-
CACCIO, Decameron, a cura di V. Branca, Torino, Einaudi, 1980, p. 649n; M. COTTINO-JONES, Order from
chaos: social and aesthetic harmonies in Boccaccio’ s Decameron, Washington, DC, University Press of
America, 1982, pp. 92-93; S. GROSSVOGEL, op. cit., pp. 202-203; da ultimo si veda la recente edizione di G.
BOCCACCIO, Decameron, a cura di A. Quondam, M. Fiorilla e G. Alfano, Milano, Bur, 2013, pp. 819-820.
Da Filocolo a Gian di Procida (Dec. V 6) 131

IV 127, 9 i due amanti sono messi in V 6, 25 comandò che i due amanti, così ignudi
terra, e ignudi con sospinti come erano, fosser presi e legati
passi sono tirati all’ardenti
fiamme.
IV 132, 1 Fu adunque Filocolo insieme V 6, 27 [furono] legati a un palo nella piazza, e da-
con Biancifiore legato ad un vanti agli occhi loro fu la stipa e ’l fuoco
palo e intorniato di legne apparecchiata per dovergli ardere all’ora
comandata dal re.
IV 132, 1 “…qualora io ti riguardo V 6, 28 Quivi subitamente tutti i palermitani, e uo-
ignudo con meco insieme tra mini e donne, concorsero a vedere i due
tanto popolo disposti a mo- amanti
rire”.

Tuttavia, è possibile aggiungere ulteriori riscontri, per cercare di individuare


lungo quale direttrice si sia mosso Boccaccio nel passaggio dalla prima alla se-
conda opera.
Già è stato osservato, e la cosa è evidente se non altro per numero di pagine, il
forte ridimensionamento della trama: l’autore ha affinato i propri strumenti narra-
tivi, secondo quanto imponeva anche il genere della novella breve. Spariscono
dunque i lunghi monologhi dell’opera giovanile (cfr. IV 128, 3-12, di Filocolo, cui
corrisponde 130, di Biancifiore), nella quale compare anche un curioso dibattito in-
teriore in forma di dialogo (IV 89), le invocazioni in absentia (IV 117: Biancifiore
invoca l’amato assente, che in realtà è nascosto nella medesima camera, e pun-
tualmente risponde in IV 118, 3-4), le apostrofi di sapore classico quando non dan-
tesco (IV 106: «O avarizia, insaziabile fiera…»; IV 108: «O amore, nemico de’
paurosi…»; IV 122: «O allegrezza inestimabile…»). A tali procedimenti stilistico-
narrativi vanno poi aggiunte alcune differenze relative all’organizzazione della
trama: nel Filocolo intervengono direttamente dee e dèi dell’Olimpo pagano (nel-
l’episodio dello scampato rogo, Venere e Marte), mentre restano del tutto estranei
alla vicenda di Gian di Procida. Proprio queste due linee di scrittura, la retorica e
il mito, avevano fatto scrivere al Trabalza, a proposito della novella X 4: «il gio-
vine Boccaccio è più nel Filocolo che nel Decameron: ma vi è involuto per man-
canza d’arte, per la tirannia delle dottrine poetiche, in una forma scenicamente
imperfetta»9.
Dal punto di vista stilistico e storico-linguistico, sarebbe utile un’analisi che te-
nesse conto, anzitutto, delle eventuali coincidenze o difformità tra il Boccaccio
decameroniano, ‘maturo’, e il Boccaccio del Filocolo, ‘giovanile’: per questo, qui
ci si soffermerà in particolare sui passi del romanzo che più chiaramente ritornano
nella novella, esaminandoli sia di per sé sia in prospettiva comparativa, sulla scia,
soprattutto, dei saggi di Stussi e Manni10, oltre che ovviamente del commento di
Branca al Decameron e di quello di Quaglio al Filocolo.

9 C. TRABALZA, op. cit., p. 202.


10 Si allude a: A. STUSSI, Lingua, in Lessico critico decameroniano, a cura di R. Bragantini e P. M. Forni,

Torino, Bollati Boringhieri, 1995, pp. 192-221; P. MANNI, Il Trecento toscano, Bologna, il Mulino, 2003.
132 Johnny L. Bertolio

La scoperta dei due amanti, scena che ha il suo archetipo mitologico nel trian-
golo Afrodite-Ares-Efesto11, avviene nel Filocolo ad opera dell’«amiraglio», cui
spetterebbe di diritto godere della fanciulla Biancifiore; questa però è stata final-
mente raggiunta dal suo Filocolo, che le si addormenta accanto. Quando dunque
l’ammiraglio, entrato nella stanza, scorge i due abbracciati insieme nel sonno,
sconvolto dall’ira, vorrebbe ucciderli entrambi colpendoli con una spada; Venus,
tuttavia, interponendosi tra essa e i corpi dei due innamorati, glielo impedisce, e
così l’ammiraglio cambia idea: «E il pensiero subito si mutò all’amiraglio, paren-
dogli vil cosa due che dormissero uccidere, e la sua spada fedare di sì vile sangue:
per che egli tiratala indietro, la ripose, e sanza destarli si partì della camera, in-
fiammato contra loro, e in tutto deliberando nell’acceso animo di tal fallo farli pu-
nire» (Fil. IV 126, 7). Analoga situazione nella novella del Decameron: qui è il re,
accompagnato da un servitore, a scoprire insieme Restituta e Gianni: «Poi, esti-
mando vilissima cosa essere a qualunque uom si fosse, non che a un re, due ignudi
uccidere dormendo, si ritenne e pensò di volergli in publico e di fuoco far morire;
[…]. Partissi adunque il re turbato della camera e comandò che i due amanti, così
ignudi come erano, fosser presi e legati e, come giorno chiaro fosse, fossero me-
nati a Palermo e in su la piazza legati a un palo con le reni l’uno all’altro volte e
infino a ora di terza tenuti, acciò che da tutti potessero esser veduti: in appresso fos-
sero arsi sì come avea meritato» (Dec. V 6, 23-25).
Partiamo anzitutto da un confronto tra «parendogli vil cosa due che dormissero
uccidere» e «estimando vilissima cosa essere a qualunque uom si fosse, non che a
un re, due ignudi uccidere dormendo»: a prescindere dall’aggiunta di «a qualun-
que uom si fosse, non che a un re», resa appropriata dal fatto che nella novella il
tradito è nientemeno che Federico II, è la sintassi a subire la variazione maggiore.
Se infatti nel Filocolo Boccaccio impiega una relativa ponendo poi in fondo il
verbo («uccidere») della soggettiva, alla latina, nel Decameron la posizione finale
è occupata dal «gerundio participiale»12 «dormendo». La tendenza a porre il verbo
della dipendente in fondo si riscontra nella medesima novella anche in questa frase
subordinata, nella quale si accumulano i gerundi: «essendo la giovane un giorno
di state tutta soletta alla marina di scoglio in iscoglio andando marine conche con
un coltellino dalle pietre spiccando» (Dec. V 6, 6): alla consueta costruzione del
gerundio assoluto, sul modello dell’ablativo assoluto latino13, qui con valore tem-
porale («essendo»), si sovrappone poi l’aspetto durativo del movimento («an-
dando»), espresso con una perifrasi che richiede un terzo gerundio («spiccando»).
Analogamente, troviamo il verbo in posizione finale nella frase «in tutto deli-
berando nell’acceso animo di tal fallo farli punire»; qui è interessato dal fenomeno
il causativo «farli punire». Nell’espressione corrispondente della novella, «pensò
di volergli in publico e di fuoco far morire», notiamo poi l’uso deliberativo del

11 Come sottolinea A.E. Quaglio nella sua edizione: G. BOCCACCIO, Filocolo, a cura di A.E. Quaglio,

Milano, Mondadori, 1967, p. 904.


12 Citando da una nota di V. Branca alla sua edizione G. BOCCACCIO, Decameron, cit., p. 654. Ce n’è

un esempio anche in Dante: «com’occhio segue suo falcon volando», cioè ‘volante’ (Par. XVIII 45).
13 P. MANNI, op. cit., pp. 310-11.
Da Filocolo a Gian di Procida (Dec. V 6) 133

servile «volere»14, che sottolinea ulteriormente l’aspetto decisionale del «pensiero»


del re. Il confronto fra «si partì» (Fil. IV 126, 7) e «partissi» (Dec. V 6, 26) con-
ferma l’oscillazione nell’osservanza della legge di Tobler e Mussafia15: anche nel
primo caso, nel quale il verbo è collegato alla proposizione precedente da «e», ci
aspetteremmo «partissi», visto che in questa posizione l’enclisi è maggioritaria,
ma qui la proclisi sarà stata favorita dalla presenza, tra congiunzione e verbo, di
«sanza destarli».
La scena degli astanti che ammirano compiaciuti le bellezze corporee degli
amanti nudi ricalca direttamente l’episodio di Afrodite e Ares, che, caduti nella
rete di Efesto, vengono poi ammirati e dileggiati dall’intera corte celeste (donde
la proverbiale ‘risata omerica’). Il momento, immortalato dallo stesso Boccaccio
anche altrove16, subisce tra Filocolo e Decameron un lieve slittamento temporale:
nel primo, il pubblico è esclusivamente femminile e il tutto avviene nella torre:
«Niuna si fa schiva di rimirare lo ignudo giovane, ma notando le sue bellezze, col
pensiero menomano la colpa di Biancifiore» (Fil. IV 127, 5). Nel caso di Gianni
e Restituta, sono invece tutti i palermitani a godersi la scena quando ormai i due
giovani sono stati legati ed esposti in piazza per essere arsi sul rogo: «Quivi subi-
tamente tutti i palermitani, e uomini e donne, concorsero a vedere i due amanti: gli
uomini tutti a riguardar la giovane si traevano e così come lei bella esser per tutto
e ben fatta lodavano, così le donne, che a riguardare il giovane tutte correvano, lui
d’altra parte esser bello e ben fatto sommamente commendavano» (Dec. V 6, 28).
A rilevare l’azione prolungata e intensa della voyeuristica contemplazione con-
corre in entrambi i passi il prefisso iterativo: «rimirare» vs «riguardare».
Sulla novella del Decameron agisce anche un altro parallelo mitico, quello di
Ero e Leandro: pur non essendo esplicitamente menzionato, Boccaccio pare allu-
dervi nell’introduzione di Pampinea, quando si sostiene che gli amanti sono pronti
a correre qualunque rischio (V 6, 3)17, e soprattutto nel resoconto del passaggio not-
turno di Gianni da Procida a Ischia a nuoto per contemplare, in mancanza di bar-
che, la bellezza della casa dell’innamorata se non di lei stessa (V 6, 5). Il mito di
Leandro, così caro a Boccaccio, che lo cita in molte delle sue opere18, trova ri-
scontro anche in vari passi del Filocolo, compreso un elenco di episodi classici
con cui il protagonista pare misurarsi per cercare di raggiungere la torre in cui
Biancifiore è rinchiusa: «Quale strabocchevole via fu mai usata per te [scil. amore]
quale fu quella che Filocolo ebbe ardire di tentare? A Leandro non era il mare con-
trario […]» (Fil. IV 108, 1)19. Colpisce qui, come nella citata introduzione di Pam-
pinea (Dec. V 6, 3: «grandissime forze, piacevoli donne, son quelle d’amore, e a
gran fatiche e a istrabocchevoli e non pensati pericoli gli amanti dispongono»),

14 A. STUSSI, op. cit., p. 216.


15 Ivi, pp. 204-205.
16 V. Branca in G. BOCCACCIO, Decameron, cit., p. 655.
17 Ivi, p. 649n, con possibile reminescenza virgiliana, su cui cfr. anche J. LEVARIE SMARR, Boccaccio

and Fiammetta: the narrator as lover, Urbana-Chicago, University of Illinois Press, 1986, p. 185.
18 V. Branca in G. BOCCACCIO, Decameron, cit., p. 650n.
19 Citato anche in Fil. IV 83, 3 (e cfr. A.E. Quaglio in G. BOCCACCIO, Filocolo, cit., pp. 838-839).
134 Johnny L. Bertolio

l’uso dell’aggettivo «strabocchevole»20, a sottolineare la straordinarietà e la peri-


colosità dell’impresa amorosa che accomuna i tre eroici amanti: Leandro, Filo-
colo, Gianni. Come ricorda Franca Brambilla Ageno, l’aggettivo in questione
presenta due valori, uno attivo (cfr. latino praeceps) – ed è il caso in esame – nel
senso di «che trabocca», ovvero «eccessivo», anche se potrebbe implicare una va-
lenza causativa («che fa traboccare»), e un secondo strumentale, «che è traboc-
cato», cioè «dirupato»21.
Si tratta dunque di una rara «scheggia lessicale»22 sopravvissuta al travaso, una
scheggia che tuttavia sembra avere anche un risvolto morale, come conferma una
delle definizioni di «strabocchevole» nel GDLI: «che eccede i limiti del giusto,
del conveniente o anche dell’immaginabile o del sopportabile, nel bene come nel
male», benché nei due passi di Boccaccio sia più opportuno ricondurre l’agget-
tivo all’idea di pericolo, gravità e impulsività23. In ambito erotico, inoltre, «stra-
bocchevole» designa un risvolto estremo dell’amore quando questo si lascia
guidare dalla passione e dall’irrazionalità, in una sfera cioè che si pone fuori dalla
regola. In questo senso, l’esito di morte, poi scongiurato, avrebbe riportato in modo
inquietante la novella nell’atmosfera cupa della cornice del Decameron; l’agni-
zione finale e il matrimonio, invece, inseriscono il tutto entro quella dimensione
‘onesta’ che più propriamente appartiene alla brigata dei novellieri24, i quali assi-
milano così un nuovo «utile consiglio» dall’«aspro caso d’amore» appena rac-
contato (cfr. Proemio 14). L’avverbio «onorevolmente» (V 6, 42), riferito al fatto
che i giovani, nudi, riassumono le vesti nobili che gli si convengono25, riporta
anche visivamente la loro storia d’amore nei canoni della normalità: essi scam-
pano sia alla morte biologica (il fuoco) sia a quella sociale (la nudità) cui sembra-
vano essere destinati26.
La narrazione del momento solo temporaneamente fatale nella novella è molto
più scorciato e viene risolto dall’agnizione di Gianni da parte di un altro illustre am-
miraglio, «Ruggier de Loria» (V 6, 30). Quando costui comunica a Federico l’iden-

20Su cui si veda S. GROSSVOGEL, op. cit., p. 196.


21F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo nell’italiano antico: ricerche di sintassi, Milano-Napoli, Ric-
ciardi, 1964, pp. 279-280.
22 Così, N. MARASCHIO, Parole e forme, cit., p. 160.
23 Grande Dizionario della Lingua Italiana, direzione scientifica di G. Bárberi Squarotti, Vol.

XX, Torino, Utet, 2000, pp. 247-48.


24 Come ben messo in luce da P. CHERCHI, L’onestade e l’onesto raccontare nel Decameron, Fie-

sole, Cadmo, 2004, pp. 93-95.


25 Così, A. Quondam in G. BOCCACCIO, Decameron, cit., p. 898.
26 La contrapposizione tra amore onesto e amore disonesto si affermerà con forza nella teoresi ri-

nascimentale, di matrice platonica, ma memore anche dei «casi» del Decameron: nel dialogo Della
infinità d’amore (1547) di Tullia d’Aragona, ad esempio, l’amore che gli uomini condividono con gli
animali, se non è «sfrenato e troppo strabocchevole», cioè «lascivo o disonesto», viene lodato anzi che
no (in M. ANTES, Die Kurtisane Tullia d’Aragona. Mit dem italienischen Originaltext Della infinità
d’amore, Würzburg, Verlag Königshausen & Neumann GmbH, 2006, pp. 143-45); e cfr. P. BEMBO,
Gli Asolani, a cura di G. Dilemmi, Firenze, presso l’Accademia della Crusca, 1991: «trabocchevoli
et disordinati pericoli» (§ I 21), cioè, come propriamente in Boccaccio, implicanti gravi rischi, e «ap-
petiti così trabocchevoli» (§ II 17), dunque «esagerati».
Da Filocolo a Gian di Procida (Dec. V 6) 135

tità dei due giovani, «il re, udendo questo e rendendosi certo che Ruggieri il vero
dicesse, non solamente che egli a peggio dovere operar procedesse ma di ciò che
fatto avea gl’increbbe: per che incontanente mandò che i due giovani fossero dal
palo sciolti e menati davanti da lui; e così fu fatto» (Dec. V 6, 41). Nel Filocolo il
racconto è complicato da un nuovo intervento divino, che disperde il fumo del-
l’incipiente rogo, e dall’arrivo degli amici del protagonista, i quali mettono in fuga
gli scagnozzi dell’ammiraglio. Anche lì, quando costui si arrende, e ancora prima
di scoprire di intrattenere un forte legame di parentela con il giovane, egli, «che
sanza modo del miracolo degl’iddii si maravigliava, vedendo il fummo e udendo
parlare coloro cui morti credea, chiamò a sé molti de’ suoi, a’ quali disarmati fu li-
cito di potere a lui venire, a’ quali egli comandò che ogni ingegno adoperassero che
il fummo rompessero e passassero in quello, e i giovani sciogliessero» (Fil. IV
149, 1).
Nel passo decameroniano, di nuovo campeggia l’uso peculiare del servile «do-
vere» a esprimere «azione futura possibile»27, o meglio a ribadirla28, visto che il
verbo «procedere», da cui «dovere» qui dipende, già implica un movimento tem-
porale verso un ipotetico futuro29. Branca glossa l’intera frase «non solamente che
egli a peggio dovere operar procedesse», citando la parafrasi di Fanfani: «non solo
non procedé a dover operar peggio»30; tuttavia, il congiuntivo «procedesse» pare
qui richiesto dal successivo «increbbe», che reggerebbe dunque due proposizioni,
cioè: «al re rincrebbe non soltanto che stesse per procedere a (dover) operar peg-
gio (facendo ardere i due giovani), ma anche quel che già aveva fatto». Il citato va-
lore di «dovere» rimarca la possibilità scongiurata di un’azione futura bloccata in
tempo contro quel che in effetti era già stato fatto31. Anche nel protoromanzo, velle
e debere erano utilizzati in perifrasi per esprimere il futuro32. Inoltre, «mandò» se-
guito da una completiva ricalca un’analoga costruzione latina oltre che il signifi-
cato di «comandare» del corrispondente mandare33.
Come già nel Decameron34, appare ridotto, per quanto non nullo, pure nel Fi-
locolo il ricorso a marcati tratti meridionali35, anche nei passi ambientati a Napoli
27 A. STUSSI, op. cit., p. 214. Cfr. anche Dec. V 6, 8: «vennero a concordia di doverla donare a Fe-

derigo».
28 Ivi, p. 215.
29 Cfr. anche Dec. V 6, 2: «comandò la reina a Pampinea che a doverne alcuna dire si dispo-

nesse».
30 V. Branca in G. BOCCACCIO, Decameron, cit., p. 658.
31 Identico valore nella frase: «comandò a coloro […] che senza altro comandamento del re non

dovessero più avanti fare che fatto fosse» (V 6, 36: V. Branca in G. BOCCACCIO, Decameron, cit., p.
656n).
32 Cfr. M. PALERMO, Le perifrasi imminenziali in italiano antico, in SintAnt: La sintassi dell’ita-

liano antico. Atti del Convegno internazionale di studi (Università “Roma Tre”, 18-21 settembre
2002), a cura di M. Dardano e G. Frenguelli, Roma, Aracne, 2004, p. 329.
33 V. Branca in G. BOCCACCIO, Decameron, cit., p. 658.
34 Cfr. N. MARASCHIO, La lingua del Decamerone tra Firenze e Napoli, in Il Decameron nella let-

teratura europea. Atti del convegno organizzato dall’Accademia delle Scienze di Torino e dal Di-
partimento di Scienze letterarie e filologiche dell’Università di Torino (Torino 17-18 Novembre 2005),
a cura di C. Allasia, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2006, pp. 115-128.
35 P. MANNI, op. cit., p. 255.
136 Johnny L. Bertolio

e lungo la costiera amalfitana. Del IV libro, se ne segnalano qui due: «lammia» (85,
3 e 4, e altrove36), nel significato di «copertura a volta […] tipica delle costruzioni
rustiche dell’Italia meridionale» (GDLI). Pur derivando – voce dotta – dal greco
λάμια (‘voragine’), il lemma si configura come un tratto napoletano sia per quanto
riguarda la veste linguistica (con la doppia, anziché con la scempia con cui pure i
vocabolari lo registrano37) sia per il significato, connesso con un elemento archi-
tettonico tipico di quell’area geografica, famigliare al giovane Boccaccio al tempo
della stesura del Filocolo. Sulla stessa linea, «basole» (85, 3), cioè «lastre», un re-
cupero dovuto alle edizioni moderne rispetto alla lezione dei manoscritti e delle
stampe antiche, che presentavano varianti faciliores, quale «base», e che perciò
impedirono la registrazione del lemma nei vocabolari; le indagini linguistiche
hanno confermato la Campania quale centro di irradiazione della voce e delle sue
varianti meridionali38. Questo color locale si coglie con una densità molto minore
nella novella decameroniana: nonostante l’ambientazione meridionale, Boccaccio
non si lascia mai andare a marcati napoletanismi; un’unica eccezione, anche se
più folklorica che linguistica, è data dalla scelta del nome della protagonista fem-
minile, Restituta, corrispondente a quello di una martire africana in effetti sepolta
e venerata a Ischia e con la quale la donna condividerebbe persino alcuni tratti bio-
grafici, in chiave parodica: il ‘conforto’ di un angelo in carcere, la condanna al
rogo non portata a termine, il riscatto finale39.
Un’attenzione particolare meritano, specialmente nel testo del Filocolo, i dan-
tismi, spesso espliciti: «Nulla femina è che sì lungamente in amare perseveri, se
l’occhio o il tatto spesso in lei non raccende amore» (IV 89, 8) → «Per lei assai di
lieve si comprende / quanto in femmina foco d’amor dura, / se l’occhio o ’l tatto
spesso non l’accende» (Purg. VIII 76-7840); «Oimè, ch’io sento i segnali dell’an-
tica fiamma!» (IV 114, 3) → Purg. XXX 4841. In questo secondo passo, la vera e
propria citazione dimostra quanto un verso della Commedia fosse divenuto quasi
proverbiale e, pertanto, in grado di fungere da appiglio argomentativo per i casi più
vari: in Boccaccio, oltre a questo passaggio, i versi sulla volubilità femminile ri-
tornano, variati, in Fil. III 39, 7 e, con riferimento a Didone, nelle Esposizioni
sopra la Comedia (Esp. all. I 98).
Anche il campo delle metafore e delle similitudini è particolarmente esposto a
calchi danteschi: è il caso delle indicazioni temporali, come «nell’ora che le guance
cominciano all’Aurora a divenire vermiglie» (IV 85, 13) → «sì che le bianche e
le vermiglie guance, / là dov’i’ era, della bella Aurora» (Purg. II 7-842); delle si-
militudini animalesche: «così come i furiosi tori, ricevuto il colpo del pesante ma-

36 A.E.QUAGLIO in G. BOCCACCIO, Filocolo, cit., p. 776.


37 A.E.QUAGLIO, Parole del Boccaccio, «Lingua nostra», XXII, 1961, p. 75n.
38 A.E. QUAGLIO, Parole del Boccaccio, «Lingua nostra», XXIII, 1962, pp. 72-73 (il recupero si

deve all’edizione di G. BOCCACCIO, Filocolo, a cura di S. Battaglia, Bari, Laterza, 1938).


39 S. GROSSVOGEL, op. cit., pp. 203-204.
40 A.E. QUAGLIO in G. BOCCACCIO, Filocolo, cit., p. 892.
41 Ivi, p. 901.
42 Ivi, p. 891.
Da Filocolo a Gian di Procida (Dec. V 6) 137

glio, qua e là sanza ordine saltellano» (IV 137, 5) → Inf. XII 22-2443; «sì come il
porco poi che ha sentite l’agute sanne de’ caccianti cani, squamoso con furia si ri-
volge tra essi, magagnando qual prima con la sanna giunge» (IV 138, 5) → Inf.
XIII 112-11444; dei riferimenti classici: «di tristizia gli animi subitamente spo-
gliarono, di quella letizia rivestendogli, che Isifile nel dolore di Ligurgo si rivestì
co’ riconosciuti figliuoli» (IV 141, 1) → Purg. XXVI 94-9645; dei paragoni tratti
dalla vita quotidiana: «A ciascuno uomo così s’arricciavano i capelli in capo, come
suole fare al ricco mercatante nelle dubbiose selve, poi che i ladroni con l’occhio
ha scoperti» (IV 145, 3) → Conv. IV 13, 11 e Inf. XXIII 19-20, con possibile sug-
gestione autobiografica46. A tali paralleli se ne può aggiungere almeno un altro:
quando, riferendosi alla gioia ineffabile di Florio e Biancifiore finalmente ricon-
giuntisi e sposatisi, il narratore interroga i suoi lettori – «O allegrezza inestimabile,
o diletto non mai sentito, o amore incomparabile, con quanto effetto congiugneste
voi i novelli sposi! Pensinlo le dure menti, nelle quali amore non puote entrare, pen-
sinlo i crudi animi: e se questo pensando, non divengono molli, credasi che gra-
ziosa virtù in loro abitare non possa!» (IV 122, 1) – vengono alla mente le parole
con cui Ugolino si rivolge a un impassibile Dante pellegrino dopo avergli raccon-
tato la vicenda, nel suo caso di estremo dolore, occorsa a sé e ai figli: «Ben se’
crudel, se tu già non ti duoli / pensando ciò che ’l mio cor s’annunziava; / e se non
piangi, di che pianger suoli?» (Inf. XXXIII 40-42).
Nella novella, non c’è traccia di echi danteschi così palmari, se non in un’at-
mosfera vagamente infernale presente nel momento in cui l’ammiraglio riconosce
nel giovane condannato al rogo le fattezze di Gian di Procida, e gliene chiede ra-
gione. La risposta di Gianni – «io fui ben già colui di cui voi mi domandate» (V
6, 31) – con quell’uso litotico del passato remoto ricorda da vicino certi dannati del-
l’Inferno che in quella stessa maniera rispondono agli interrogativi di Dante circa
la loro identità. Persino la concisa risposta di Gianni alla domanda di Ruggiero sul
motivo di quel supplizio, ovvero «amore e l’ira del re» (V 6, 32), per quanto non
svolta nei lunghi dialoghi cari alla trama del Filocolo, sembra accennare alle stesse
pene dei dannati dei gironi infernali, in primo luogo agli amori lussuriosi di Paolo
e Francesca47.
Si nota dunque, nel passaggio dal Filocolo al Decameron, l’impiego di una tec-
nica narrativa maggiormente affinata, anche per via del nuovo genere letterario in
cui Boccaccio si cimentò. I paralleli sono piuttosto sotterranei che appariscenti ma
dimostrano il ricorso ciclico di alcuni schemi prediletti, tratti dal mito e dall’ama-
tissimo Dante; questi vengono rivisitati quando non del tutto occultati (dalla cita-
zione esplicita ad una più vaga allusione, come per la vicenda di Leandro) anche

43 Ivi, p. 907.
44 Ibidem.
45 Ivi, p. 908.
46 Ivi, p. 909.
47 Nell’acqua del mare percorso da Gianni a nuoto (novello Leandro) e nel fuoco del rogo sono

stati visti i simboli, rispettivamente, di Venere (dea nata dal mare), e dunque della concupiscenza, e
di Marte, ovvero dell’irascibilità (cfr. J. LEVARIE SMARR, op. cit., p. 185).
138 Johnny L. Bertolio

in relazione al diverso pubblico di lettori: colto e raffinato quello del Filocolo, ben
più vasto e con meno pretese erudite quello del Decameron48. Il Filocolo si con-
ferma quella ‘palestra’ scrittoria nella quale Boccaccio poté sperimentare la pro-
pria esuberante (anche in termini quantitativi) vena narrativa, che poi la matura
raccolta decameroniana avrebbe «asciugato» e reso più efficace, alla luce di una
nuova poetica.

48 Cfr. F. GUARDIANI, op. cit., pp. 31-32.


Indice generale
Table of Contents

Ringraziamenti / Acknowledgements p. 6
Introduzione / Introduction » 8
Abstracts » 11

PROSPETTIVE STORICHE SULLA VITA E SULLE OPERE DI BOCCACCIO /


HISTORICIZING BOCCACCIO’S LIFE AND WORK
Giuseppe Mazzotta
Boccaccio’s Way » 29
William Caferro
Le Tre Corone Fiorentine and War with the Ubaldini, 1349-1350 » 43
George Dameron
Identificazione di un killer:
recenti scoperte scientifiche e storiche
sulla natura della peste nera » 57
Elissa Weaver
Fashion and Fortune in the Decameron » 71

AMICIZIA / FRIENDSHIP
Teodolinda Barolini
A Philosophy of Consolation: The Place of the Other in Life’s Transactions
(«se Dio m’avesse dato fratello o non me lo avesse dato») » 89
Renzo Bragantini
L’amicizia, la fama, il libro: sulla seconda epistola a Mainardo Cavalcanti » 107

OLTRE IL DECAMERON / BEYOND THE DECAMERON


Anna Marra
Questioni e cornice. Strutture e analogie nel Filocolo » 119
Johnny L. Bertolio
Da Filocolo a Gian di Procida (Dec. V 6): una riscrittura d’autore » 129
Cosimo Burgassi
I volgarizzamenti di Livio (già attribuiti a Boccaccio):
appunti sul testo e sulla tradizione » 139
368 Indice generale

Simona Lorenzini
The Two Versions of the Eclogue Faunus:
Boccaccio’s Different Approaches to the Bucolic Genre » 149

INTERTESTUALITÀ / INTERTEXTUALITY
Carlo Delcorno
Boccaccio and the Literature of Friars » 161
Maria Pia Ellero
Lisa e l’aegritudo amoris. Desiderio, virtù
e fortuna in Decameron, II 8 e X 7 » 187
Valerio Cappozzo
«Delle verità dimostrate da’ sogni»: Boccaccio
e l’oniromanzia medievale » 203
Olivia Holmes
Beyond Exemplarity: Women’s Wiles
from the Disciplina clericalis to the Decameron » 213

BOCCACCIO AUTORE & EDITORE / BOCCACCIO AS AUTHOR AND EDITOR


Igor Candido
Boccaccio rinnovatore di generi classici » 225
Laura Banella
The Fortunes of an ‘Authorial’ Edition:
Boccaccio’s Vita nuova in Antonio Pucci and il Saviozzo » 237
Anthony Nussmeier
Boccaccio e il De vulgari eloquentia fra il codice Toledano 104.6
e il codice Chigiano L.V.176 » 249
Irene Cappelletti
Il frammento magliabechiano: un’insolita rilettura del Decameron » 259

BOCCACCIO E I PREUMANISTI / BOCCACCIO AND THE PRE-HUMANISTS


Michael Papio
Boccaccio between Mussato and the Neoplatonists » 275
Michaela Paasche Grudin
The Decameron, Marsilio, and the Rhetoric of Unorthodoxy » 287

PERFORMATIVE BOCCACCIO
Laurie Shepard
Lauretta’s Lament: Incongruity in the Songs
that Conclude the Days of the Decameron » 299
Gianni Cicali
Boccaccio and Pietro Trinchera (Naples 1702?-1755) » 309

Programma / Conference Program » 321


Indice generale 369

Nota sugli autori – Notes on Contributors » 329


Indici / Indices
a cura di / prepared by CARLOTTA BISSOLI » 341
Indice dei nomi / Index of Proper Names » 343
Indice dei manoscritti e dei documenti d’archivio /
Index of Manuscripts and Archives » 363

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