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Il Sogno di Pico

Giovanni Pasetti

Indizi e prove: Giovanni Pico della Mirandola e Alberto Pio da Carpi

nella genesi dell’Hypnerotomachia Poliphili

prima parte

Chi non sia riuscito ad attrarre Pan, invano evoca la natura e Proteo

Conclusiones nongentae

Un appassionato romanzo d’amore; una narrazione che unisce al sapere aristotelico e scolastico i
fantasiosi concetti del neo-platonismo fiorentino; un viaggio avventuroso dell’anima attraverso le
rovine dell’antico, fra enigmi geroglifici e misteriose epigrafi; una preziosa edizione illustrata da
numerose xilografie; un labirinto di citazioni mitologiche, con scarsi riferimenti alla fede cristiana,
pur accennata sullo sfondo; un percorso che attraversa strani riti, reinventati allo scopo di offrire al
lettore un compendio delle metamorfosi dell’esistenza; un museo d’inchiostro in cui si affastellano
gemme, piante, materiali, animali, nozioni architettoniche e geometriche; una processione di figure
allegoriche che rinviano alle virtù e alle debolezze dello spirito; una descrizione ardita del legame
erotico fra un uomo e una donna; un sogno struggente che si conclude con una separazione forse
definitiva. Questo e molto altro ancora è l’Hypnerotomachia, che a ragione può essere definita il
primo vero romanzo di formazione della letteratura occidentale. Un’opera dall’esito incerto e
paradossale, poiché è proprio il suo precario equilibrio a spingere Polifilo verso nuovi ardimenti del
senso. Così, è l’imperfezione a regnare sovrana nelle sue pagine, è l’imperfezione a renderle
sublimi e inimitabili, come uno sforzo prodigioso della memoria che trova il suo valore nelle cose
dimenticate, lontano da un elenco infinito di dettagli che rappresenta soltanto la superficie
sdrucciolevole del discorso. Polia manca, e di Polia ci si ricorda sempre; ma il corpo dell’amata si
traveste di innumerevoli orpelli sapienziali che mascherano a malapena il dolore immenso per la sua
scomparsa, metafora del tramonto dell’epoca umanista.

Se intendiamo poi esplorare il mito che da questo racconto è nato, subito riscontriamo due evidenti
anomalie, che in parte spiegano le vicissitudini e la fortuna a cui il nostro protagonista
quattrocentesco è andato incontro, con incoscienza quasi giovanile. Innanzitutto, il testo è redatto in
una lingua bizzarra, enciclopedica e oceanica, che vuol riassumere in sé l’universo intero rischiando
ad ogni riga il fraintendimento, la perdita di significato, l’incomprensione; una scelta stilistica unica
nel suo genere, capace di costringere l’idioma materno entro una gabbia di frasi desunte da una
miriade di scrittori, illustri o secondari, latini o contemporanei, spregiudicati o tassonomici.

In secondo luogo - e da qui inizieremo la nostra analisi - l’autore resta sconosciuto, sia per l’assenza
di una chiara paternità, sia per la ricchezza delle proposte che gli studiosi hanno avanzato,
basandosi sempre su realtà biografiche sfuggenti o su labili assonanze. Abbiamo già notato come
un’affermazione perentoria sia ripetuta nelle diverse prefazioni: il libro è privato del genitore,
ovvero il nome dell’artefice non deve essere rivelato. L’anonimato è tanto più pesante poiché si
collega direttamente alla caratteristica più sconcertante del Polifilo, la sua illeggibilità. Infatti, un
libro che pochi bibliofili sono riusciti a scorrere dal primo all’ultimo capitolo ha generato, come
contraltare illusorio, un fantasma, il fantasma dell’ideatore di questa impresa sterminata.
Sin dal sedicesimo secolo, attraverso le note stese dai proprietari di alcune copie dell’edizione
aldina, si è tentato di dare corpo ad un’ombra vaga. Ma l’unico dato certo che giustificava il
delinearsi delle prime ipotesi rimaneva l’acrostico. Alla maggior parte dei lettori, italiani e francesi,
sembrò dunque ovvio identificare in Francesco Colonna, un frate, l’estensore del romanzo. Ben
presto si sviluppò quindi la prima contraddizione. Il segreto a cui Francesco avrebbe piegato la sua
intera esistenza sembrava motivato dalla licenziosità del testo, il cui contenuto paganeggiante, unito
a numerosi dettagli erotici, avrebbe consigliato al prudente religioso di non esporsi con una
rivendicazione diretta. Ma furono proprio alcuni domenicani, appartenenti allo stesso ordine del
Colonna, a vantarsi del suo molteplice ingegno, che avrebbe grandemente illustrato le virtù dei
predicatori.

Gli eruditi settecenteschi e ottocenteschi, pur confusi dalla ricchezza delle illustrazioni, e
inspiegabilmente portati a sopravvalutarne il valore artistico, diedero in generale ulteriore forza a
questa prospettiva di indagine. Parallelamente, tuttavia, si manifestarono voci in disaccordo: come
poteva un tale genio essere un oscuro frate, perché mai una sapienza tanto logorroica avrebbe
partorito una sola opera, da quale sorgente giungevano all’autore i temi neo-platonici? Così, andrà
almeno citato il giudizio del Biadego: ‘‘Questo mostro d’erudizione non lascia alcuna traccia nel
mondo delle lettere e delle arti, non uno scritto di lui, non una lettera di lui o a lui diretta nei
numerosissimi carteggi, non una memoria negli scrittori del tempo...’’ Dal canto suo, Gnoli
conclude: ‘‘Nonostante l’acrostico e quantunque nessuno ne abbia mai dubitato, non so liberarmi
dal dubbio che un qualche illustre umanista si nasconda dietro la tonaca di frate Francesco.’’
D’altronde, Roland Barraud ha giustamente osservato che ‘‘nessuno si è mai accostato al libro del
Colonna con l’intenzione di esplorarlo completamente... gli eruditi delle epoche più diverse non
ebbero mai lo stesso oggetto studiando il Polifilo; piuttosto che un solo libro si crederebbe che essi
abbiano trattato un gran numero d’opere completamente differenti fra loro.’’

Giungiamo dunque ai contemporanei, per scoprire che non meno di sei distinti individui sono stati
proposti, usando sempre argomentazioni raffinate e abbastanza documentate. In particolare,
paradosso fra i paradossi, il Francesco Colonna originario si è sdoppiato, dando luogo ad un frate
veneto e ad un nobile romano, lontanissimi per nascita, costume intellettuale, finalità letterarie,
dialetto familiare e mezzi privati di sussistenza. Questo parto gemellare è stato accompagnato da
un’infuocata polemica: ambedue gli studiosi coinvolti hanno ultimato centinaia e centinaia di
pagine, schierando nel proprio campo alunni ed amici, disprezzando nel modo più completo
l’opinione opposta, fino ad ignorarla con ostentazione.

Ora, per mettere ordine fra le diverse tesi, le esporremo brevemente dividendole in due gruppi,
poiché l’approccio di chi mirava a identificare il volto del misterioso Polifilo ha sempre scelto una
fra due possibilità. Alcuni hanno infatti pensato che si trattasse di un uomo di elevato ingegno ma di
bizzarre prospettive: chiuso nel recinto di un proprio sogno personale, avrebbe dato alla luce un solo
testo, cercando di compendiare nelle sue righe astruse ogni nozione di cui era in possesso; la strana
lingua sarebbe appunto il frutto e il sintomo di un isolamento assoluto, che naturalmente lo avrebbe
separato dall’ambiente degli umanisti a lui coevi, limitando drasticamente le notizie a noi
disponibili. Altri hanno imboccato un sentiero opposto: dietro a Polifilo si nasconderebbe un
personaggio famoso, che ha deciso di celarsi dietro una muraglia protettiva di mezze verità per
evitare l’accanimento di svariati avversari contro il suo nome e contro la sua opera. Da qui tutta una
serie di precauzioni, una cortina fumogena efficace ancora oggi.

L’autore illustre: il Feliciano

Nato a Verona nel 1433, Felice Feliciano fu un autodidatta, appassionato di codici e di manufatti
antichi. Calligrafo, umanista stravagante e viaggiatore infaticabile, divenne grande amico di Andrea
Mantegna a cui dedicò due sillogi epigrafiche. Nel suo Alphabetum Romanum disegnò una serie
completa di lettere in stile lapidario, cercando geometrie incisive e piacevoli all’occhio. Nella
Iubilatio raccontò invece una celebre gita antiquaria compiuta sul Lago di Garda (23 - 24 settembre
1464) insieme a Samuele da Tradate, Andrea Mantegna e, probabilmente, Giovanni Marcanova, che
rimase a lungo suo protettore. Rimatore di scarso livello, compose poesie volgari intessute di
immagini ridondanti. Dagli anni sessanta in poi si dedicò ad esplorazioni intellettuali ancora più
bizzarre, diventando una specie di alchimista vagabondo la cui figura viene messa in burla da
Sabadino degli Arienti nella XIV Porretana: ‘‘... fu narrato uno piacevole caso del provido uomo
Feliciano Antiquaro da Verona... Costui adunque, essendo in continuo pensiero, sollicitudine ed
exercizio de trovare el vero effetto de l’archimia (ne la quale oltra el patrimonio suo, che fu assai
buono e ampio, ha consumato ogni suo guadagno...), se mise ad andare in le montagne de Modena
per trovare una certa pietra chiamata antimonia...’’ Fu anche autore di una lunga novella di
argomento medioevale, la Gallica historia intitulata Iusta Victoria, e di numerosi epistolari. Si
interessò con fervore della nascente arte tipografica. Morì verso il 1479 nei pressi di Roma.

Nel 1935 la studiosa russa Khomentovskaia ritenne di identificare nel Feliciano l’autore
dell’Hypnerotomachia, essenzialmente sulla base di alcuni elementi: l’amore del veronese per le
antichità, i suoi legami con Andrea Mantegna, ritenuto da molti l’ispiratore dell’apparato decorativo
dell’edizione aldina, la debolezza di ogni ipotesi relativa a Francesco Colonna, alcune affinità
stilistiche tra i frammenti del Feliciano a noi giunti e il lingaggio polifilesco, le relazioni del
medesimo con il mondo umanistico veneto, con i tipografi e i curatori degli incunaboli, la sua
passione per la calligrafia e per l’alfabeto, la sua attività di instancabile raccoglitore di epigrafi
classiche. Punto forte dell’argomentazione è senza dubbio la tendenza iperbolica insita nelle prove
del Feliciano, che alternava un latino artificioso ad un immaginoso volgare. Ottimo indizio è la
citazione, nella dedica al Mantegna di una raccolta epigrafica, del verso virgiliano Trahit quemque
sua voluptas, presente anche nell’Hypnerotomachia. Meno convincente appare il paragone fra la
sintassi usata dal veronese e il tipico costrutto del Polifilo. Inoltre, risulta debolissima
l’affermazione secondo cui l’anonimato dell’edizione a stampa sarebbe giustificato dal desiderio di
nascondere alle autorità un alchimista compromesso con pratiche magiche. In conclusione, se il
Feliciano è ben situato tra gli umanisti veneti della seconda metà del quattrocento, la data della sua
morte è troppo precoce rispetto alla pubblicazione del 1499; ovviamente, egli non ha alcun legame
né con Manuzio né con Crasso; peggio ancora, la sua levatura intellettuale non sembra adeguata alla
stesura di uno sterminato capolavoro mitologico. Nei suoi versi si trova più acrimonia e
disperazione che erotismo lirico o impegno dottrinale. Infine, pur trascurando la sua presunta
omosessualità, occorre rilevare che egli probabilmente non possedeva il genio bastante per creare
una struttura tanto complessa, mutevole e misteriosa.

L’autore illustre: una misteriosa Accademia

Tanto semplice e circostanziata è l’ipotesi della Khomentovskaia quanto affascinante e romanzata


appare la proposta contenuta in Le Jardins du Songe (1976) di Emanuela Kretzulesco - Quaranta.
L’autrice ritiene che il Polifilo sia il frutto non di un’unica mano, ma di una catena letteraria lunga
quarant’anni, che attraversa tutto il Rinascimento italiano ed è composta da alcuni fra i suoi più
celebrati protagonisti. Il primo ideatore del romanzo sarebbe identificabile in Leon Battista Alberti
il quale, coinvolto nelle vicissitudini della cosiddetta Accademia Romana, un cenacolo di
intellettuali sospettati di scandalose pratiche esoteriche, avrebbe fatto pervenire il tracciato originale
dell’opera a Francesco Colonna, principe di Palestrina e parente del cardinal Prospero. A questo
punto sarebbero intervenuti i fiorentini, in special modo Lorenzo il Magnifico, che avrebbe descritto
nelle pagine dell’Hypnerotomachia il suo sfortunato amore per Lucrezia Donati. Il tutto, nel furore
di uno scontro che avrebbe opposto la purezza e l’intima religiosità dei veri sapienti alle mire della
Curia romana, dominata in particolare da Rodrigo Borgia, desideroso di impadronirsi del potere
temporale eliminando ogni voce dissenziente. Così si spiegherebbe una lunga serie di morti
sospette: lo stesso cardinal Prospero Colonna, papa Pio II, il cardinale di Cusa, il medesimo
Lorenzo, Angelo Poliziano e Giovanni Pico della Mirandola. La Kretzulesco attribuisce proprio ai
due inseparabili amici la decisione e il compito di consegnare il testo - riveduto e corretto - nelle
mani del fidato Manuzio. Egli l’avrebbe stampato qualche anno dopo, avendo cura di mantenere il
segreto sulla confraternita di ingegni responsabile della redazione finale di questo sogno sublime.
Sogno che rappresenterebbe l’anima del Quattrocento, il filo sottile in cui sarebbe riassunta la vera
dottrina di quell’altissimo gruppo di umanisti che illustrò le capitali dell’arte, Roma e Firenze,
prima di venir disperso crudelmente. Non c’è da meravigliarsi, allora, se la studiosa associa le
xilografie aldine all’ispirazione di Botticelli e di Leonardo; non c’è da stupirsi, se ritrova nella storia
di Lorenzo e di Lucrezia il canovaccio del Romeo e Giulietta di Shakespeare.

In questa sequenza di ardite associazioni, che prende a lungo in esame anche il significato simbolico
dei giardini occidentali, alcune intuizioni vanno certamente rispettate, altre approfondite con
attenzione. Purtroppo, prevale nel saggio della Kretzulesco una tendenza alla sintesi che sposa e
mescola date e persone fra loro non pienamente compatibili, grazie all’ipotesi di un complotto
universale; tale postulato può, come sappiamo, funzionare da collante per qualsiasi ricostruzione
avventurosa degli eventi più disparati. Tuttavia, è interessante il recupero di una diversa prospettiva,
che vede nella lingua del Polifilo un audace tentativo di cogliere la complessità del reale. Occorre
inoltre notare che l’autrice attribuisce in sostanza a Nicolas Kretzulesco il merito di aver focalizzato
(nel 1962) l’attenzione altrui sulla figura di Francesco Colonna principe di Palestrina. Torneremo
fra poco sull’argomento; ci limitiamo per ora ad osservare che la relazione di parentela tra
Francesco e il cardinale Prospero non è molto stretta, appartenendo quest’ultimo al ramo detto di
Palliano della grande famiglia romana. Infine, il versante meno accettabile della teoria nel suo
insieme sta proprio nell’idea di una stesura a più mani del romanzo. Chiunque legga
l’Hypnerotomachia rimane stupito per la sua compattezza, almeno all’interno di ciascuna sezione:
la particolarità del costrutto, la sovrabbondanza delle citazioni, il gusto per la ricchezza dei
materiali, l’enfasi posta nella descrizione del rapimento amoroso sono elementi che ci allontanano
dal concetto di lavoro di gruppo, tanto più che è acclarata l’inconfondibile impronta settentrionale
del volgare soggiacente.

L’autore illustre: Leon Battista Alberti

Ma la personalità di chi progettò Sant’Andrea e San Sebastiano a Mantova, il Tempio Malatestiano


di Rimini e la facciata di Santa Maria Novella a Firenze merita sicuramente una riflessione
ulteriore. Ci troviamo infatti di fronte ad un genio multiforme, dalla ricca e svariata produzione
letteraria, dalle influenti amicizie ma dalla vita errabonda. Un’intelligenza bizzarra e polemica, che
spesso si scagliò contro il conformismo e la piattezza morale dei suoi contemporanei. Inoltre, è
indiscutibile che nel Sogno di Polifilo abbondino i riferimenti diretti al De Re Aedificatoria, che
rappresenta anzi un’opera capitale per il misterioso scrittore di cui ci stiamo occupando. Nessuna
meraviglia, dunque, se oltre alla Kretzulesco - Quaranta una seconda autrice ha proposto di recente
il nome del grande genovese (1406 - 1472), come soluzione definitiva dell’enigma. Liane Lefaivre,
nel suo Leon Battista Alberti’s Hypnerotomachia Poliphili - titolo alquanto esplicito - diviene una
risoluta partigiana di questa non inedita tesi. L’Hypnerotomachia viene definita come una sorta di
polemico manifesto erotico, che si rivolge non soltanto agli individui ma all’esistenza intera; tale
manifesto si tradurrebbe in una difesa appassionata della sessualità femminile, sulla falsariga di uno
spettacolare parallelismo fra il corpo della donna e il corpo architettonico.

Nonostante l’impressionante prodigarsi della fantasia albertiana, il continuo sforzo dell’artista per
innovare e riadattare i moduli dell’antichità, l’estrosità del suo carattere e la sua profonda vocazione
umanista, rimangono in campo alcuni problemi irresolubili. Innanzitutto, la data della morte (1472)
appare troppo anteriore rispetto alla pubblicazione veneziana; non si comprende poi per quale
ragione egli avrebbe dovuto mantenere l’anonimato, dopo aver concepito scritti mordaci e davvero
eversivi come il Momo. È d’altronde nota la sua misoginia, di cui non resta traccia nella vicenda di
Polia. Peggio ancora, la fondamentale questione dei rapporti tra il latino e il volgare è impostata
nella Grammatichetta e in altri testi in modo completamente difforme rispetto alla stravagante
soluzione polifiliana. Afferma il Proemio al III dei Libri de Familia: ‘‘Ben confesso quella antiqua
latina lingua essere copiosa molto e ornatissima, ma non però veggo in che sia nostra oggi toscana
tanto d’averla in odio... E sia quanto dicono quella antica apresso di tutte le genti piena d’autorità,
solo perché in essa molti dotti scrissero, simile certo sarà la nostra s’e dotti la vorranno molto con
suo studio e vigilie essere elimata e polita.’’ Ci troviamo insomma di fronte all’orgogliosa
rivendicazione del toscano come lingua letteraria e di studio.

Tale posizione ben si confà allo spirito di Leon Battista, che volle sempre esprimere l’esigenza
concreta di trattare le cose per quel che sono, giudicando il passato non una biblioteca di oggetti per
sempre codificati, ma il retroterra da cui ripartire per altre conquiste dell’intelligenza umana,
sempre considerando tuttavia il contesto in cui l’artefice si trova ad operare. Giustamente Serianni
parla a tal proposito di riappropriazione; figlio illegittimo di un esule fiorentino, Alberti si
riappropria dell’antico e della lingua per dare inizio ad un uso intenso degli strumenti riconquistati.
Se è vero che nel Teogenio i latinismi lessicali completamente inventati non mancano, occorre
distinguere questi esempi dal sistematico metodo dell’Hypnerotomachia. La differenza è capitale.
In un certo senso, l’autore senza volto e l’architetto di Sant’Andrea camminano lungo i due versanti
opposti del medesimo crinale; quel che distanzia il primo dal secondo è una tendenza più
spregiudicata alla composizione e all’assemblaggio, quasi l’universo si dovesse sempre e comunque
tradurre in rovina. Da questo punto di vista il Polifilo appartiene a pieno titolo alla cultura della
maniera, pur vissuta partendo da Mantegna e non da Raffaello. Analogamente, la crittografia viene
studiata da Leon Battista per fini pratici, lontano da ogni suggestione enigmistica o geroglifica.

Così, giungiamo all’ultima e più grave obiezione: nessuno scrittore di rango cita con tale dedizione
se stesso. Proprio i continui riferimenti al De Re Aedificatoria sono la prova che il Sogno appartiene
ad un altro ingegno, così sottile da riclassificare ciò che era stato repertoriato per uno scopo diverso,
quasi rimescolando gli appunti di un catalogo secondo un ordine di livello ulteriore. Questo è il
miracolo del Rinascimento italiano: contenere in sé la vertigine di proposte dissonanti che, una
volta dispiegate, daranno luogo alla storia artistica dei secoli a venire. Dunque, Polifilo tratta alla
stregua di un mito colui che attraversò il mito della romanità per erigere costruzioni moderne.

Un personaggio sconosciuto: Eliseo da Treviso

Passiamo ora al secondo gruppo di proposte, quasi completamente basate sull’enigmatica figura di
Francesco Colonna. Ma esaminiamo innanzitutto una tesi che proviene in un certo senso dalla stessa
radice, avvalorando alcune note in margine all’Hypnerotomachia redatte da studiosi del lontano
passato. In assonanza con un precedente articolo di Alessandro Parronchi, nel 1983 Piero Scapecchi
presenta ai lettori un frate Eliseo da Treviso in qualità di autore del Polifilo. Egli rimanda in realtà
alla testimonianza di Arcangelo Giani; costui, nei suoi Annali - ultimati intorno al 1618 - parla di un
Eliseo che tutto sapeva e che avrebbe scritto la misteriosa opera riversando in lei ogni scienza. Da
qui nasce una tradizione percorsa dall’Omezzali, dal Bonfrizieri, dal Palombella e da altri; tutti
sembrano ravvisare in Eliseo, frate servita, personaggio che intrattenne numerosi rapporti con
Firenze e che morì verso il 1505, l’estensore del romanzo aldino; anche Bartolomeo Burchelati,
storico trevigiano, nel 1616 accenna a tale prospettiva. Purtroppo, il filo logico seguito da Scapecchi
è interessante più per la confutazione dell’ipotesi relativa al Colonna che per l’effettiva
dimostrazione legata all’altrettanto labile Eliseo; lo studioso smonta infatti con precisione
meticolosa gli indizi relativi al frate domenicano. In particolare, egli afferma: ‘‘L’acrostico non è
niente altro che una dedicatoria: dietro il Francesco colonna, alta colonna, si nasconde un
personaggio degno della massima stima dell’autore, dell’editore, del tipografo e del duca
Guidobaldo...’’

Ci occuperemo fra breve del problema cruciale dell’acrostico. Basti ora sottolineare che nessuna
prova evidente e nessuna testimonianza davvero attendibile parla a favore di Eliseo. Tale micro-
vicenda ci illumina piuttosto in merito a due questioni su cui occorre insistere. In primo luogo,
coloro che hanno tentato di svelare l’occulta paternità del Polifilo hanno spesso trascurato la
peculiare cifra letteraria del testo in esame, accanendosi su dettagli alquanto secondari, radunati nel
volgere degli anni dalla leggenda medesima dell’Hypnerotomachia. Così facendo, sono precipitati
nel labirinto che intendevano esplorare, cedendo alla trappola allestita dagli apparati eretti a difesa
dell’invincibile anonimato. Ad ogni riga, l’autore sembra infatti invitare ad una scoperta che manca
continuamente il suo unico possibile bersaglio: l’eccezionalità di un discorso seducente, formato da
strane parole e da immagini suggestive. La meraviglia non nasce tuttavia dall’altezza stilistica delle
xilografie o delle citazioni, ma dal meccanismo intellettuale soggiacente alle stesse: chi afferra il
meccanismo, cogliendone il senso e il valore, si dimostra degno del nome dell’uomo, proprio come
recita l’epigramma del Marone, poiché in questo frangente la rosa è l’uomo, la rosa è Polifilo. In
secondo luogo, è necessario rimanere particolarmente guardinghi di fronte alle conclusioni
cinquecentesche, seicentesche, settecentesche. Esse provengono da un tempo in cui era più forte
l’abbaglio e più ardente il desiderio di costringere l’anomalo entro il recinto dell’attribuzione.

L’ipotesi fondamentale: Francesco Colonna, frate domenicano

L’enorme lavoro compiuto da Pozzi, Casella, Ciapponi e confermato dall’ultima edizione


adelphiana dell’Hypnerotomachia conduce invece ad un solo nome. Gli studiosi hanno tratteggiato
in modo univoco la figura di un frate domenicano, Francesco Colonna, ben rispondente all’acrostico
e ad alcune caratteristiche essenziali: umanista, veneto, vissuto a cavallo dei due secoli, implicato in
vicende scandalose, legato a Treviso. Riportiamo i momenti essenziali della sua biografia. Egli
nacque a Venezia nel 1433, e ivi scomparve nel 1527. A partire dal 1472 è registrata la sua presenza
nel convento dei Santissimi Giovanni e Paolo: frater Franciscus Colona de Venetiis. Poco prima
(1469), appare negli atti del convento domenicano di Treviso un frater Franciscus de Veneciis. Nel
1473, Colonna ottiene il baccalaureato di teologia presso l’Università di Padova, e nella città veneta
probabilmente risiede per un certo periodo. Nel 1477 l’Ordine decreta la sua espulsione da Venezia
per motivi a noi ignoti. Ma nei decenni successivi l’inquieto domenicano sembra del tutto
riabilitato: intorno al 1481 consegue il titolo di magister, nel ’93 è predicatore a San Marco, nel ’96
addirittura priore. Verso la fine dell’anno 1500 ottiene il permesso di risiedere fuori dal convento.
Segue una parentesi meno documentata, che possiamo estendere fino all’ottobre del 1516. In quel
mese viene accusato di immoralità e confinato a vita a Treviso. Altri contrasti segnano la parte
conclusiva della sua lunga esistenza, che pure vede il ritorno a Venezia e la morte in età veneranda,
forse in misere condizioni.

A dire il vero, la qualifica di umanista è discutibile. Al contrario, sono certi i gravi turbamenti che
contraddistinsero il suo comportamento: egli disubbidì più volte all’Ordine, incorse in numerose
reprimende, fu costretto a difendersi dalla denuncia di un gioielliere e dall’accusa di aver sverginata
una putta. Forse divenne il protagonista involontario di una novella del Bandello (la quarta della
seconda parte, in cui appare un Frate Francesco Veneziano incline a piaceri illeciti e omicidi). Si
ignorano suoi rapporti con Aldo Manuzio. Non risulta alcun testo da lui compiuto, tradotto o curato.

Dunque, abbiamo un Francesco Colonna di Venezia. Ma quali sono le prove che legano l’uomo
all’opera? Si tratta sostanzialmente di quattro argomenti, ripetuti all’infinito nel corso degli studi. a)
Il letterato settecentesco Apostolo Zeno sostiene (1723) di aver letto all’interno di un esemplare del
Polifilo un’annotazione manoscritta in cui si afferma che l’autore è appunto Francesco Colonna, del
convento dei Santissimi Giovanni e Paolo. b) Nel 1501 il maestro generale dei domenicani ordina
che venga imposto al Colonna di pagare le spese sostenute dal padre provinciale per un libro a
stampa. c) Leandro Alberti, domenicano e futuro inquisitore (seguiremo la sua carriera a fianco di
Gian Francesco Pico), scrive nel De viris illustribus ordinis praedicatorum (1517) che un certo
Francesco Colonna manifestò la propria capacità letteraria e il proprio molteplice ingegno in un
libro in volgare. d) Il carme dedicatorio di Matteo Visconti presente soltanto nella copia della
Biblioteca di Berlino parla, come abbiamo già notato, di Francisco alta columna.

Inoltre, esistono alcuni epigrammi quattrocenteschi rivolti ad un Francesco Colonna. Il Colocci


(1474 - 1549) ne raccoglie due, in cui si loda questo Francesco per aver riunito in sé le qualità di
Virgilio e di Cicerone. Un terzo epigramma è di mano dell’umanista veneto Raffaele Zovenzoni
(1434 - 1495), che nell’Istria dedica un breve carme a Francesco Colonna Antiquario, discettando
sulla derivazione del suo cognome dalla doppia colonna posta a Cadice da Ercole per marcare gli
invalicabili confini del mondo. Infine, nell’esemplare del Polifilo conservato a Cambridge appare
un sonetto datato 1518; l’acerbo componimento venne vergato dal domenicano Sisto Medici,
all’epoca sedicenne, che nuovamente dichiara come l’autore sia Francesco, de virtù ferma
colonnula.

Tutte queste scoperte, pur encomiabili, rivelano una fondamentale debolezza: esiste chiaramente
una tradizione domenicana che associa, fin dagli albori, un frate Francesco alla stesura della
sfuggente opera. Questo contraddice in modo stridente il desiderio di anonimato dell’autore.
Secondo la tesi più ovvia, infatti, egli avrebbe voluto prendere le distanze dal contenuto non
ortodosso del libro a causa dei suoi continui attriti con i superiori. Sono invece gli stessi confratelli
a lodare la maestria e la sapienza di un uomo ancora vivo e vegeto. Non è necessario dunque, come
altri ha fatto, tacciare di falsità o di approssimazione le trascrizioni di Apostolo Zeno; pur
rimanendo qualche dubbio sull’effettiva consistenza di una nota che nessun altro ha mai visto, è più
opportuno sottolineare come le imprecisioni là contenute (ad esempio, Polia diventa Ippolita)
gettino luce sui primi e insicuri passi di un’attribuzione nata e cresciuta nell’ambiente dei frati
predicatori di Venezia. Quel che manca, tuttavia, è il documento inoppugnabile. La traccia associata
alle spese per il libro a stampa appare risibile, poiché il Colonna poteva trovarsi semplicemente
debitore del denaro relativo all’acquisto di una singola copia di un qualsiasi testo edito da un
tipografo. Per quanto riguarda Matteo Visconti, abbiamo già dato una diversa interpretazione della
sua poesia; Scapecchi osserva acutamente che l’annessa prosa del medesimo Visconti recita: ‘‘Non
ritengo si debba chiedere chi ha composto quest’opera rarissima, anzi unica, poiché l’autore... non
cura d’essere riconosciuto...’’

Proseguendo, rileviamo che gli epigrammi citati dal Colocci sottintendono un Colonna romano, o
che almeno risiedeva a Roma. Quanto a Zovenzoni, i cui versi sembrano appartenere ai primi anni
settanta del quattrocento, egli si riferisce ad un Francesco definito antiquario, ma non accenna
minimamente ad un religioso, né ad un veneziano, né ad uno scrittore. In tali condizioni è improbo
considerare tali frammenti più di curiosità, anche perché numerosi erano i Francesco Colonna
documentati in quegli anni in Italia (quasi una decina solo a Venezia), e la passione per l’antico non
era certo una caratteristica marginale o rara negli ambienti culturali più avvertiti.

Per quanto concerne Leandro Alberti, si possono evidenziare due elementi: la breve frase che ci
interessa (Franciscus Columna Venetus... in quodam libro materno sermone edito litteraturam et
varium ac multiplex ingenium suum praesefert) viene pronunciata da Filippo Fasanini, professore
bolognese, traduttore di Orapollo, amico di Leandro e di Gian Battista Pio; l’accenno è
sufficientemente vago per non compromettere alcuno ma abbastanza preciso per supportare una
diceria. Sembra difficile che proprio il Fasanini, interessato ai geroglifici, conoscesse tanto poco
l’Hypnerotomachia da limitarsi ai termini quodam libro, un certo libro. D’altronde, l’intenzione
encomiastica nei confronti del Colonna appare chiara, e viene situata in un lungo elenco di dotti
personaggi che illustrano l’ordine domenicano. Così, l’insieme dello scritto offre un’immagine
sfuocata, che può derivare o dal fraintendimento della figura in questione o dal desiderio di dire
senza dire, spargendo indizi ambigui, come quel materno sermone che certamente non si addice
all’elaboratissimo linguaggio polifiliano. Ricordiamo a tal proposito che il fantasioso romanzo era
già di moda nel primo cinquecento, se Baldassare Castiglione nel Cortegiano, pubblicato nel 1528
ma ambientato nel 1507, mette in scena un Giuliano dei Medici che biasima la retorica ampollosa di
chi utilizza le concettose ‘‘parole di Polifilo’’ per sedurre un’amata.

Per concludere, il Colonna domenicano risulta di altra dimensione rispetto all’Hypnerotomachia.


C’è sproporzione fra un povero frate e le ingenti quantità di denaro necessarie per finanziare la
grande impresa editoriale. C’è sproporzione fra il sapere immenso dimostrato nelle pagine del testo
e la mancanza di qualsiasi altra opera che rechi la firma di Francesco. C’è sproporzione fra
l’anonimato necessario per salvarsi dal ‘‘furore rabbioso’’ e la trasparenza delle lettere ornate
dell’acrostico. C’è sproporzione fra il timore per una futura punizione da parte dei superiori e la
benevolenza con la quale il libro venne in definitiva accolto in ambito domenicano. C’è infine
sproporzione tra un autore assolutamente umanista e la totale assenza di tracce che raccontino
rapporti del Colonna con lo Scita, il Crasso, Manuzio o Torresani. Rammentiamo inoltre la scena
del sacrificio a Priapo, che appare una rielaborazione davvero troppo libera del tema del Sangue di
Cristo per poter essere uscita dalla mente di un religioso, così come la continua rappresentazione
della potenza di Venere non sembra appartenere al mondo di un novizio o di un predicatore.
Rimangono poi oscuri i motivi che avrebbero portato un sessantenne - priore a Venezia - a
pubblicare il sogno di se stesso, gentile trentenne infatuato. Quanto al racconto di Bandello, esso
mostra un frate Francesco dedito a frequenti rapporti carnali con una prostituta sedicenne che egli
sfigura orribilmente con un rasoio dopo averne sgozzato l’amante; tutto ciò negli anni dieci del
cinquecento, quando il nostro presunto scrittore era già ultrasettantenne. Va sottolineato semmai
come Bandello, domenicano, letterato e collezionista di storie curiose, non faccia menzione alcuna
del Polifilo; il medesimo novelliere, divenuto anche vescovo di Agen, è piuttosto l’esempio
lampante di quanto poco incidessero le opere a sfondo erotico sulla carriera di un ecclesiastico.

Per sanare tale divario vertiginoso, e conservare il nome di Francesco Colonna quasi alla stregua di
un feticcio, Maurizio Calvesi ha esplorato un sentiero diverso, altrettanto complesso.

Francesco Colonna, principe romano

L’altro Francesco Colonna nacque da Stefano (1433 - ?), a sua volta figlio di un altro Stefano e
nipote di Niccolò. Tutti appartengono al ramo detto di Palestrina della illustre e potente famiglia
romana, che annovera nel ramo di Palliano numerosi personaggi di grande importanza storica, fra
cui ricordiamo Oddone, papa sotto il nome di Martino V fra il 1417 e il 1431, il cardinale Prospero
e il cardinale Pompeo. La gloriosa stirpe risale all’alto medioevo: fra gli altri suoi componenti
occorre almeno citare i fratelli Giovanni e Giacomo, protettori del Petrarca, oltre al protagonista del
celebre episodio dello schiaffo di Anagni (1303), Sciarra Colonna. Proprio a partire dal nonno di
Giovanni, verso la fine del tredicesimo secolo, le due linee si erano divise. Il feudo di Palestrina,
l’antica Preneste, contraddistinse Francesco e i suoi antenati; il Litta ci racconta, in un breve
articolo delle Famiglie Celebri, che il nostro presunto scrittore nel 1493 riedificò in Palestrina
l’antico palazzo baronale. Egli venne in seguito colpito dalla bolla emanata nel 1501 da Alessandro
VI Borgia contro i Colonnesi; piegandosi pacificamente alla volontà del papa, accettò di perdere i
diritti sulla cittadina laziale. Giulio II, salito al soglio di Pietro nel 1503, tutto gli restituì. Morì nel
1538 (secondo il Litta) dopo aver sposato Orsina o Lucrezia Orsini, da cui ebbe i figli maschi
Alessandro e Stefano; quest’ultimo, buon condottiero, si distinse nella difesa di Clemente VII
all’epoca del Sacco di Roma. Ignoriamo la data di nascita di Francesco, situabile intorno al 1460.

Da questi scarni dati parte Calvesi per edificare un castello di congetture, la cui mole inusitata è al
tempo stesso affascinante e sconcertante. Secondo lo studioso non vi sono dubbi: l’autore
dell’Hypnerotomachia è Francesco principe di Palestrina. Elenchiamo i suoi principali argomenti.
a) L’acrostico resta una testimonianza fondamentale. b) L’epigramma dello Zovenzoni e i
componimenti raccolti dal Colocci sarebbero rivolti ad un Colonna romano, di cui si loda il sapere
antiquario. c) Il palazzo baronale restaurato da Francesco sorge sul tempio della Fortuna
Primigenia, prototipo dell’enorme santuario descritto nelle prime pagine del romanzo. d) L’esigenza
di anonimato sarebbe giustificata dal timore di una reazione violenta da parte del Borgia e dei suoi
alleati. e) I continui riferimenti polifiliani a Venere dipenderebbero dalla leggenda che faceva
discendere i Colonna dalla dea dell’amore tramite la gens Iulia. f) La passione per le epigrafi e per
l’antichità discenderebbe dallo stretto legame con Preneste e i suoi scavi. g) La tradizione del
Colonna domenicano è facilmente attaccabile. h) Le immagini dell’edizione aldina sono
paragonabili agli affreschi di sapore egizio realizzati dal Pinturicchio nell’Appartamento Borgia
(1492-1494). i) In generale, molte sono nel Polifilo le citazioni di monumenti o manufatti siti a
Roma o nei suoi dintorni. l) Il principe conobbe sicuramente Leon Battista Alberti e Niccolò Perotti,
inesauribili fonti di allusioni. m) Pare che esista un rapporto di parentela fra il Grassi e il Colonna:
la cognata di Leonardo Grassi sarebbe figlia di Caterina, sorella di Francesco.

Articoli, libri, interventi sono stati perfezionati da Calvesi e dai suoi seguaci, scatenando
un’autentica battaglia con i sostenitori della tesi avversa. Ma nessuno degli elementi proposti è
davvero convincente; ciascuno, anzi, nasconde al suo interno un germe di debolezza o di capziosità.
Posto che gli epigrammi parlino del Francesco di Palestrina, infatti, questo non prova che egli abbia
scritto l’Hypnerotomachia, poiché chi vive in mezzo alle rovine si può facilmente definire
antiquario. Anche del secondo Francesco si ignora qualsiasi opera letteraria, e qualunque legame
con Aldo. Egli in effetti era troppo giovane per conoscere proficuamente l’Alberti. Non vi sono da
parte sua reali ragioni per mantenere l’anonimato, tanto più dopo il 1503, e la presunta dipendenza
dal ciclo del Pinturicchio è in contraddizione con l’odio nei confronti del Borgia, al quale comunque
poco o nulla importava di un romanzo in più o in meno. Non si capisce peraltro perché i discendenti
di Francesco avrebbero continuato a nascondere la vera identità dell’autore di un testo divenuto
leggendario. Occorre poi rammentare che il neo-platonismo fiorentino fa continuo riferimento a
Venere e alla problematica dell’Amore. L’estensore del Polifilo usa un linguaggio con inflessioni
settentrionali, come fra poco vedremo. Calvesi infine cade in un marchiano errore quando non
capisce che il desiderio nostalgico di recuperare le antichità caratterizza nel secondo quattrocento il
nord Italia almeno quanto Roma, da un millennio immersa nel suo passato. D’altronde, il medesimo
studioso punteggia gli scritti sul Colonna di affermazioni stupefacenti o pretestuose, quali ... il
nome stesso di Eleutirillide richiama Eleonora... oppure ... Aldo Manuzio... che proveniva da
Velletri ed era da pochi anni a Venezia... È una continua forzatura del labile personaggio che si
intende evocare: non viene scartato nemmeno il più bizzarro fra i sospetti, ovvero che egli abbia
concluso i propri giorni in Veneto, in una sorta di fusione con l’omonimo frate.

Contro ciascun punto della tesi ‘romana’ si sono accaniti in abbondanza gli assertori della paternità
domenicana, causando di solito nuove risposte e nuovi attacchi, tali da determinare finalmente la
completa divaricazione dei due cammini. Quel che interessa ora sottolineare è la totale assenza, su
entrambi i versanti, di una seria indagine sull’itinerario artistico dell’autore; nonostante l’indubbia
competenza dei combattenti e la grande quantità di sforzi profusi, aleggia dunque il sospetto che la
trappola polifiana abbia colpito ancora, spingendo a cercare il fantasma che abita il labirinto e non
l’architetto che il labirinto ha progettato.
L’acrostico, partenza e arrivo

Se si vuol parlare francamente, occorre ammettere che l’acrostico è l’unica voce davvero
incontestabile a favore di Francesco Colonna. Senza l’acrostico (POLIAM FRATER
FRANCISCUS COLUMNA PERAMAVIT) nessuno avrebbe pensato né al frate né al principe. A
tal proposito, una ricerca non prevenuta noterà dapprima alcuni particolari finora trascurati.
Innanzitutto, se si vuol considerare per intero la serie di lettere ornate che formano le iniziali delle
prime parole dei capitoli, sarebbe necessario premettere una M. Da qui parte infatti la dedica del
testo a Polia: Molte fiate Polia cogitando... Se pur vogliamo tralasciare questo dettaglio, è
inevitabile esaminare meglio alcuni termini usati nella composita frase. Come altri ha già
evidenziato, il frater può non riferirsi affatto al confratello di un Ordine. Il misterioso scrittore è un
finissimo umanista, che ben sa come nel latino classico frater equivalga a fratello, cugino,
associato, amico (l’ultima accezione ad esempio in Giovenale, Orazio, Quintiliano); solo in ambito
cristiano, è ovvio, registriamo un’estensione agli appartenenti alle comunità religiose, oltre alla nota
formula dei fratelli in Cristo che designa tutti i fedeli.

Ancor più complessa è la genesi del verbo peramare, utilizzato da Cicerone in forma di participio o
di avverbio e, in modo pieno, da Stazio nel quarto libro delle Selve: hic mea carmina regina
bellorum virago Caesareo peramavit auro. Difficile è la traduzione: ‘‘qui la vergine regina delle
guerre (Pallade) amò i miei carmi (tanto da cingerli) con l’oro di Cesare’’. Come in altri casi, il per
rende più intensa l’azione, collegandosi ad un ablativo che esprime la cosa con la quale l’azione si
effettua (amor crudeli tabe peredit, Virgilio, sol perfundens omnia luce, Lucrezio). Non possiamo
credere che l’autore non conoscesse Stazio e che non abbia impiegato la rara costruzione con un
preciso intento.

In questa prospettiva, esistono almeno tre interpretazioni dell’acrostico divergenti rispetto alla
norma. La prima, proposta da alcuni (Donati), suppone che Francesco sia semplicemente il
protagonista a noi sconosciuto della trama amorosa; così, Polifilo sarebbe Francesco, forse Colonna,
ma Francesco non avrebbe ideato il Polifilo.

La seconda prevede che COLUMNA non sia un cognome, ma l’ablativo della parola ‘colonna’.
Allora, la traduzione corretta suonerebbe: ‘‘L’amico Francesco ha cinto d’amore appassionato Polia
con questa colonna.’’ La colonna in questione sarebbe proprio la colonna costruita mediante
l’allineamento in verticale delle maiuscole ornate, come avviene per una qualsiasi poesia ad
acrostico. E il famoso Francesco si rivelerebbe Francesco Griffo da Bologna, che scolpì le
magnifiche lettere e che evidentemente in loro esprime al massimo grado la maestria artigianale di
cui si avvale la composizione tipografica dell’Hypnerotomachia. Insomma, avremmo di fronte a noi
non la firma dell’autore ma di colui che rese possibile la stampa del testo. Anche il sonetto italiano
premesso all’edizione francese del 1546 ci conforta; qui si dice infatti: ‘‘Ecco l’alta Colonna che
sostenne / Quel bel typo della memoria antica...’’, ed è certo che il carattere tondo bembino venne
sviluppato dal Griffo a partire dalle lapidi romane. D’altronde, nel Virgilio del 1501 Aldo deve
lodare Francesco dalle dedalee mani perché è assolutamente consapevole che senza il suo apporto
tutta l’ impresa sarebbe naufragata sul nascere. Naturalmente, se accettiamo questa spiegazione
dobbiamo anche ammettere che l’acrostico sia stato inventato durante il processo di stampa,
separando in modo opportuno i capitoli; nulla di particolarmente impegnativo, se l’edizione
parigina, pur essendo in francese, riesce facilmente a riprodurre la frase originale.

La terza interpretazione vede in COLUMNA un’apposizione di FRANCISCUS che darebbe alla


frase il senso seguente: ‘‘L’amico Francesco amò Polia (saldamente) come una colonna.’’ Questa
ipotesi può essere conciliata con la precedente, ovvero rimandare all’effettivo autore, un Francesco
senza cognome. In tal caso, tuttavia, parrebbe più opportuno accettare FRANCISCUS come uno
pseudonimo, forse dovuto ai molteplici riferimenti petrarcheschi contenuti nell’opera, oppure
relativo a qualche motivo personale alla cui imperscrutabilità dobbiamo rassegnarci. Resta
incredibile invece che lo scrittore abbia posto tanta cura nel celarsi, per compromettersi poi con un
gioco grafico evidentissimo e assai frequente all’epoca, che infatti venne scoperto agevolmente
dalla maggior parte dei primi lettori.

Stravaganze di un linguaggio

Non è questo il luogo per tratteggiare il decorso quattrocentesco della lingua italiana. Tuttavia, la
seconda grande anomalia del Polifilo è il linguaggio usato, che sarà imitato da altri (ad esempio
Camillo Scroffa, nei Cantici di Fidenzio), ma che non verrà mai raggiunto nella sua ineguagliabile
complessità. Per limitarci ai dati strettamente indispensabili, ricordiamo che nel Rinascimento il
processo di formazione di una lingua letteraria non è affatto lineare. Alle controversie degli
umanisti sulla qualità del latino, prossimo allo stile di Cicerone o di Apuleio, austero o fiorito, fa da
contrappunto il faticoso imporsi del toscano, secondo la linea di Alighieri, dell’Alberti e di Lorenzo
il Magnifico. La cultura italiana è, come sempre, attraversata da tendenze ribelli; in particolare, le
regioni del nord-est subiscono l’impatto di influenze divergenti. Nel Veneto è fortissima la presenza
del francese e del provenzale, fin dagli albori della Marca Gioiosa; il dialetto è assolutamente vivo,
ed è una naturale sorgente di ispirazione per gli scrittori; nelle corti padane non si parla certo il
fiorentino, benché non si abbia modo di elaborare un volgare settentrionale ‘alto’; infine, le
università di Bologna e di Padova raccolgono ogni spunto, partorendo i frutti strani di un
totalizzante sapere analitico e di una giovanile predisposizione al nuovo.

In tale situazione, l’esplosione del maccheronico è il preciso indizio di una sintesi ardita fra
sapienza dottorale e rivolta antiaccademica. La Val Padana vira verso il bizzarro sul piano dei
contenuti, sfruttando la tradizione della Chanson de Geste per imporre un’epica fantasiosa e
rivoluzionaria. In modo analogo, la pratica linguistica incontra il curioso fenomeno della
mescidazione, in cui si uniscono la voce del popolo, il latino dei professori e il volgare toscano. La
soluzione polifiliana è sostanzialmente speculare al maccheronico: infatti, se Folengo e i suoi
precursori costruiscono la frase mediante una sintassi latina in cui si innestano neologismi e
vocaboli dialettali latinizzati, l’autore dell’Hypnerotomachia allestisce al contrario, nel quadro di
una sintassi italica, una virtuosistica girandola di citazioni latine comunque italianizzate.

È un tentativo arduo, che sconta il pericolo dell’illeggibilità e preferisce privarsi di ogni riferimento
esplicito alla parola grossa, rinunciando agli effetti comici per fabbricare frasi elusive e polimorfe.
Infatti, la citazione viene continuamente e malignamente pervertita, fermandosi per così dire a
mezz’aria, lontano dall’olimpo dei classici, lontano dal terreno comune. Il prestigio dei termini
originali viene velato dal loro uso caotico, giustapponendo concetti all’interno di un elenco
sterminato che cancella ogni suggestione grazie all’arrivo subitaneo del nome successivo. Un
raffinato procedimento di storpiature e iperboli priva il discorso della propria sostanza, significando
chiaramente che la sostanza di ogni discorso è illusoria, perché vale soltanto l’affabulazione
infinita. È un gioco di superfici riflettenti, disposte però in maniera obliqua, bagliori frammentari
che non illuminano la scena.

Tutte le cose sono un sogno, insomma; ma questa conclusione non ci porta ancora nell’universo di
Shakespeare, di Cervantes o di Calderòn de la Barca, perché il nostro romanziere inserisce fra i
sensi assopiti altri sensi risvegliati, smentendo la trama e completando un quadro di lucida
incoerenza. Più Gadda che Joyce, forse: nulla si intende dimostrare, infatti, se non che la vita umana
in quanto capacità di comprendere (Polia) è già perduta nel momento in cui parla; così, il percorso
di Polifilo ricorda un poco l’indagine del commissario Ingravallo. Purtroppo, né il dialetto né
l’esame di un delitto sono consentiti allo sfortunato amante, che costruisce il suo doppio delirio
sulla base di una smisurata dichiarazione, una Cognizione dell’Amore.

L’analisi approfondita di Marco Mancini ha dimostrato che il testo va collocato ‘‘in ambito
settentrionale, più precisamente nella tradizione della coinè padana nobilitata (non nella tradizione
dialettale veneta)’’; questo basti a smentire ogni ipotesi estranea al mondo padano. Tuttavia, altri
hanno osservato come siano praticamente assenti le inflessioni veneziane. Occorre dunque spostare
nell’entroterra l’area di nascita dell’opera, approdando al quadrilatero composto da Padova o
Treviso, Mantova, Parma e Ferrara. La letteratura italiana trova in questa zona numerosi inventori
geniali o stravaganti. Citiamo alla rinfusa: Ariosto e Boiardo, Tifi Odasi e Folengo, Caviceo, Lelio
Cosmico, Niccolò da Correggio e quel Pietro Andrea de Bassi ferrarese che appare come un vago
antesignano del Polifilo.

Una nuova ipotesi

Possiamo dunque riassumere la situazione. Se l’autore dell’Hypnerotomachia è effettivamente un


Francesco Colonna, sarà difficile cogliere le sue reali motivazioni e le sue intenzioni letterarie. Il
muro che divide il lettore dall’uomo capace di immaginare un libro tanto bizzarro rimarrà alto e
invalicabile. Inoltre, sarà impossibile attribuire la reale paternità del romanzo ad un Colonna
piuttosto che a un altro, fra i molti che vivevano in Italia alla fine del quindicesimo secolo. Le
ricerche svolte per appurare nuovi particolari in merito alla vita degli omonimi candidati sono
risultate vane; al massimo, hanno radunato una serie di dettagli secondari, che spiegano poco o
nulla, e che soprattutto non danno ragione del miracolo polifiliano.

Preferiamo dunque battere una seconda strada, sostenendo la tesi che l’anonimato nasconda una
firma prestigiosa. Nei capitoli precedenti abbiamo raccolto le tracce di un profilo, che ora
elenchiamo. a) A nostro parere, nel 1499 l’autore doveva già essere scomparso: ci sembra che la
prefazione non lasci adito a dubbi. b) Si tratta di un umanista caratterizzato da un’immane cultura,
enciclopedica e rivoluzionaria al tempo stesso. c) Suoi rapporti con Aldo Manuzio sono molto
probabili: nonostante lo status anomalo, l’Hypnerotomachia fa parte di una produzione ricca e
mirata. d) Esistevano circostanze che hanno sconsigliato una pubblicazione in vita, e hanno
impedito agli intermediari di rivelare una verità scomoda. e) Il personaggio in questione
padroneggiava sia l’aristotelismo che il neo-platonismo. f) Inevitabilmente, il Veneto doveva far
parte della sua esperienza esistenziale. g) Egli era padano di nascita, come dimostra la lingua usata.
h) Era assai interessato ai più diversi idiomi, conosceva il latino, il greco, l’aramaico e l’arabo. i)
Era suo costume usare la citazione come metodo di pensiero. l) Possedeva una formazione e una
natura filosofica: anche le pagine più appassionate del Polifilo non si allontanano mai da uno
schema mentale che tende alla spiegazione degli eventi. m) Era ben introdotto negli ambienti
intellettuali dell’epoca; solo così si spiega la diffusione abbastanza rapida di un’opera tanto ostica,
in particolare in Francia. n) Era un amante focoso; non ci stupiremmo se avesse composto poesie
d’amore. o) Era affascinato dall’antico; ma utilizzava le antichità come un repertorio infinito di
conoscenza. p) Era attratto dalle materie più svariate, dalla geometria alla botanica, dall’architettura
alla gemmologia.

Un solo letterato soddisfa questi requisiti: Giovanni Pico della Mirandola. Leggendaria è la sua
memoria, indomito il temperamento, profonda la dottrina, vasto il sapere, pronunciata la tendenza a
conciliare tradizioni divergenti. Egli studiò per due anni a Padova, crebbe accanto al Boiardo e al
Mantegna nel raffinato universo delle corti padane, trascorse periodi non brevi a Parigi, approdò
infine a Firenze, dove divenne il compagno prediletto di Landino, Ficino, Lorenzo dei Medici,
Poliziano. A Mantova e nella città toscana frequentò persone che serbavano un ammirato e
fortissimo ricordo di Leon Battista Alberti. Scrisse ardenti elegie latine e sonetti petrarcheschi.
Per confermare la nostra intuizione mediante prove convincenti, inizieremo ad esaminare nei
dettagli gli elementi a cui abbiamo soltanto accennato. Ed è giusto affrontare immediatamente il
nodo centrale del problema: l’oceano di libri da cui questo libro nasce, novella Venere botticelliana,
la biblioteca che riposa alle spalle di un giovane sognatore piegato verso il leggio.

Storia di una biblioteca

Giovanni Pico scomparve tragicamente a trentun anni, il 17 novembre del 1494, dopo una rapida e
misteriosa malattia. Nello stesso giorno, il re di Francia Carlo VIII, che lo conosceva e lo stimava
tanto da inviare inutilmente due medici in suo aiuto, entrava in armi a Firenze, provocando il crollo
del potere mediceo. Sembra che nel convento di San Marco vegliassero accanto al suo capezzale il
nipote Alberto Pio di Carpi e Girolamo Savonarola, i cui rapporti con la fenice degli ingegni si
erano forse guastati negli ultimi tempi. Pico rifiutò tenacemente di indossare il saio, anche se i
religiosi domenicani vollero rivestire di quell’abito il corpo ormai spento. La leggenda riporta le sue
ultime parole: ‘‘La morte non sarà per sempre.’’

Due anni prima della brusca conclusione della sua vita, il filosofo aveva redatto un testamento in
cui affidava post mortem la propria enorme biblioteca al fratello Antonio Maria. Costui era
autorizzato a venderla a qualsiasi istituto religioso che gli avesse corrisposto più di cinquecento
ducati; la cifra doveva raddoppiare nel caso di un acquirente laico. In assenza di ogni offerta
congrua, Antonio avrebbe deciso liberamente il destino dei libri. Questa scelta risulta strana per due
motivi; innanzitutto, Giovan Francesco Pico (1469 - 1533), che si occuperà dell’edizione delle
opere latine dello zio, non viene individuato come l’esecutore ideale dell’importante disposizione,
pur essendo a sua volta uno studioso, a differenza di Antonio; secondariamente, nulla va ai
Domenicani di San Marco, che secondo logica potevano apparire come i naturali beneficiari di una
parte del lascito. Alla fine, il compratore dell’intero lotto fu Domenico Grimani (1461 - 1523),
cardinale dal 1497, dotto veneziano e collezionista di antichità, che certamente aveva conosciuto e
apprezzato Giovanni. Alla sua morte, la biblioteca ulteriormente ingrandita fu donata al Monastero
di Sant’Antonio di Castello dei Canonici Regolari di Sant’Agostino in Venezia. Purtroppo, nel 1687
essa venne completamente distrutta dall’incendio scoppiato in un adiacente magazzino di fuochi
artificiali, ricavato in alcuni locali del monastero. Nulla così rimane dell’imponente raccolta, tranne
qualche testo disperso in varie città europee. Ma l’inventario del 1498, data della transazione, ci
consente di apprezzare la consistenza e la qualità di una rassegna di 1190 volumi. Nel 1936, una
lista formata da 1132 voci venne pubblicata da Pearl Kibre, che riprodusse un manoscritto
cinquecentesco della Collezione Orsini, paragonandolo con il catalogo del ’98. Da qui parte la
nostra ricerca.

Come potevamo attenderci da un instancabile divoratore di pagine quale fu Pico della Mirandola,
non mancano le maggiori opere latine, i fondamenti dottrinali della Chiesa, il Corano, il Talmud,
testi di astrologia e medicina, manuali di prospettiva, matematica e magia, erbari, vocabolari
enciclopedici, trattati greci, l’Odissea, l’Iliade, la Teogonia di Esiodo, Luciano, Euclide, testi
cabalistici, Boccaccio, Dante e Petrarca, il De architectura di Vitruvio, oltre ad una miriade di
autori marginali, minori, infimi. Ma quel che più ci interessa è un dato inoppugnabile. Giovanni
Pozzi, nella sua meritoria analisi delle fonti da cui l’Hypnerotomachia attinge, isola circa 150 autori
che vengono citati nel romanzo. Ebbene, un semplice raffronto con il catalogo della famosa
biblioteca mostra una coincidenza in almeno 120 casi. Si tratta spesso di figure assolutamente
secondarie nella storia della letteratura e del pensiero: Ateneo Naucratita, Bartolomeo Anglico,
Ausonio, Dione Cassio, Dioscoride Pediano, Eustazio, Polluce, Ruffino, Serapione, Sidonio
Apollinare, Silio, Simone da Genova, Volsco, Vegezio, Uguccione da Pisa, e molti altri. Quanto ai
25 personaggi non riportati nella lista di Kibre, per metà essi vengono ripresi una sola volta nel
Polifilo. Solo 12 sono contraddistinti da più di una citazione, e fra loro troviamo soltanto tre nomi
che si ripetono frequentemente. Sono Leon Battista Alberti, di cui Pico non poteva non conoscere le
opere, stante la devozione che Poliziano e Landino nutrivano per l’architetto. C’è poi il caso di
Felice Feliciano, la cui vicinanza con Mantegna è nota. C’è infine l’erbario di Niccolò
Roccabonella, un codice del 1450 a cui Pozzi spesso si riferisce, ma che in realtà è un testo di
confronto rispetto ai numerosi libri di botanica dell’epoca, di cui anche Giovanni era in possesso.
Erano ovviamente presenti nella biblioteca gli scrittori attraverso cui il sogno maggiormente si
sostanzia (Niccolò Perotti, Apuleio e Plinio, la cui opera Giovanni fece trascrivere in un magnifico
codice miniato del 1481, ora conservato nella Nazionale Marciana). Numerosi infine i titoli
suggestivi per quanto riguarda l’allucinata visione polifiliana, come il trattato sui sogni di Sinesio di
Cirene (De somniis) o il Liber de mysteriis attribuito a Giamblico.

La corrispondenza dell’ottanta per cento è ancora più significativa se pensiamo che il Pozzi puo
avere talvolta errato nelle sue attribuzioni e che alcune codificazioni elencate sono sommarie.
D’altra parte, Pico consultò durante la propria esistenza un numero molto maggiore di volumi
rispetto a quelli da lui effettivamente acquisiti. Una discrepanza del venti per cento è dunque
totalmente accettabile. D’altronde, è impensabile che il nostro misterioso autore fosse privo di una
ricca biblioteca da cui trarre gli spunti necessari.

Il grande sperimentatore

La personalità di Giovanni Pico si impone nel panorama italiano di fine quattrocento per la vastità
degli interessi e la profondità dell’intuizione. Animato da una perenne inquietudine intellettuale, il
mirandolano avrebbe probabilmente offerto importanti contributi alla nascente ricerca scientifica, se
la sorte non avesse interrotto drammaticamente la sua avventura. Esiste inoltre in lui un versante
inespresso, che l’avrebbe forse condotto a redigere quella Teologia Poetica a cui spesso accennava.
Nessuno dei suoi libri è perfetto o compiuto, tutti ubbidiscono ad un prepotente impulso del
pensiero, alla ricerca inesausta di nuove direzioni d’espressione. Gli alti misteri sacri furono
certamente la sua meta maggiore, ma gli stessi misteri cambiavano continuamente le proprie
sembianze, talvolta amorosi, talvolta dottrinali, talvolta mistici, talvolta linguistici.

Il linguaggio è infatti lo strumento che Giovanni usa, studiando ogni cultura capace di aprire alla
mente uno spiraglio inedito verso la divinità, ascoltando le formule enigmatiche tratte dalla sapienza
orientale. Così, il frutto più emblematico della sua indagine sono le Conclusiones, pubblicate a
Roma il 6 dicembre 1486 e destinate per loro stessa natura a provocare scandalo. Contrariamente
alle 95 tesi che Lutero affisse sulla porta della chiesa di Wittenberg nel 1517, le 900 affermazioni
raccolte dal giovane filosofo intendevano manifestare la problematicità del sentimento religioso
universale, indurre al confronto e alla discussione, scoprire quale luce nel corso dei millenni era
baluginata nei cuori degli uomini in cammino verso Dio. Ovviamente, la gerarchia ecclesiastica non
poteva permettere simile libertà e spregiudicatezza; condannando di fatto l’intera operazione,
inflisse a Giovanni un duro colpo, una ferita che, pur restando celata nel suo animo, doveva portarlo
ad appoggiare almeno in parte i progetti di riforma savonaroliana.

Ma il suo interesse nei confronti della Cabala, di Orfeo, dei pitagorici, di Zoroastro e dei
maomettani non si attenuò. Era tuttavia il tempo di difendersi attaccando, con l’Apologia e l’Oratio
de hominis dignitate, in cui si rivendica la grandezza del multiforme essere umano, sola creatura al
mondo in grado di scegliere la propria via. Sempre del 1486 è il testo più vicino all’ambiente neo-
platonico fiorentino, quel Commento alla Canzone d’amore di Girolamo Benivieni che fa di Venere
il personaggio principale nella dialettica intellettuale delle idee, alla ricerca di una verità superiore.
Poi vennero i libri legati alla tradizione biblica, l’Heptaplus (1489), interpretazione dottissima delle
sette giornate della Genesi, i Commenti ai Salmi (1488 - 1489) e l’abbozzo di una vasta opera
dedicata a combattere i nemici della Chiesa, di cui sopravvivono soltanto le Disputationes adversus
astrologiam (1493 - 1494) che tante reazioni scatenarono. Questi i testi fondamentali, a cui si
devono aggiungere il De ente et uno (1492), sulla concordia fra Platone e Aristotele, alcuni scritti di
ispirazione ascetica, come le Regole per una buona vita, e le Epistole. Fra loro, testimonianze
importanti di un fitto reticolo di relazioni culturali, si distingue la lettera su Dante e Petrarca rivolta
a Lorenzo il Magnifico (1484), e quella inviata ad Ermolao Barbaro (1485), in relazione alla
scrittura spesso farraginosa dei filosofi stranieri.

L’ispirazione letteraria

Proprio dalla lettera a Lorenzo iniziamo il nostro cammino nell’universo letterario di Giovanni, che
nella missiva si presenta nelle vesti di un giovane rispettoso, appena giunto nella grande città
toscana e determinato a lodare le virtù poetiche dell’illuminato signore del luogo. Il suo elegante
periodare latino paragona l’opera del Medici ai versi di Dante e Petrarca, entrambi superati dal
nuovo poeta, l’uno per stile, l’altro per contenuto. Pur nell’evidente intento adulatorio, scopriamo
alcune affermazioni importanti: ‘‘... non ci lasciamo ingannare dalla ricercatezza dei suoni e dalla
melodia dei versi, ma guardiamo quel che sta sotto, la base, le radici, il fondamento delle parole...’’
E, a proposito del dolcissimo stile della tua parafrasi (il Commento che Lorenzo fece dei suoi
medesimi sonetti), leggiamo: ‘‘... l’espressione infatti non è artificiosa, non involuta, non contorta,
ma dritta, pura, quadrata... dalle forme elette ma non ricercate, illustri ma non leziose, necessarie e
non artificiose...’’

Per meglio apprezzare questi concetti, che sembrano contraddire la costruzione linguistica
dell’Hypnerotomachia, occorre ricordare come il mirandolano fosse in quel periodo più che mai alla
ricerca di nuovi modi d’espressione. Dopo l’esperienza padovana, in cui ebbe sicuramente contatti
con il plurilinguismo veneto (lo ritroviamo addirittura personaggio di una maccheronea minore,
l’anonima Nobile Vigonce Opus), il confronto con il mondo fiorentino fu per lui un’inesauribile
fonte di stimoli. Il Magnifico, oltre ad essere esperto uomo di stato e raffinato mecenate, si offre
oggi ai nostri occhi come scrittore di primaria statura, vero fulcro della corrente quattrocentesca che
si ispirava ai misteri greci, ad Orfeo, a Platone. Ma Pico intraprese sempre due vie al tempo stesso:
pagano e cristiano, aristotelico e platonico, lineare e debordante, austero e sensuale. Nella lettera
egli chiaramente si misura con l’intera tradizione toscana, cercando l’ingresso del nuovo cammino e
identificando correttamente in Lorenzo un momento di svolta rispetto ai capolavori dei suoi
conterranei. Si rivela così in lui una prepotente inclinazione alla scrittura fantastica, seppur
temperata da una forte tendenza al ragionamento e all’auto-interpretazione.

D’altro canto, il Sogno di Polifilo è innanzitutto un’anomalia rivelatrice dell’evoluzione


complessiva della letteratura italiana; per questo il suo fascino è sopravvissuto nel corso dei secoli,
nonostante le difficoltà estreme che il lettore è costretto a fronteggiare. Ormai sappiamo che le
figure dell’Alighieri e del Petrarca non assomigliano affatto a statue monolitiche, ma sono
continuamente attraversate da suggestioni diverse: se il Fiore è opera dantesca, se nell’Africa il
poeta del Canzoniere propone un variegato affastellarsi di visioni dottrinali e pittoriche, l’intera
storia letteraria dell’Italia pre-rinascimentale appare come un vasto albero dalle ramificazioni
sorprendenti. Fra Trecento e Quattrocento germina infatti un curioso impasto di trame
francesizzanti e di citazioni classiche sostanzialmente deviate. Tale fenomeno non riguarda soltanto
autori secondari. È la personalità straordinaria di Giovanni Boccaccio a costruire un ponte fra la
scrittura allegorica cara all’ambiente cortese, la novellistica di gusto borghese e la ricomposizione
delle genealogie pagane in chiave amorosa. Nel Polifilo tutto questo esiste e germoglia. Così, se
l’inizio del romanzo ricorda in parte la celebre selva oscura, e i carri trionfali che sfilano dinanzi al
protagonista riecheggiano i Trionfi di Francesco, il vero e illustre antecedente dello pseudo-Colonna
si dimostra inequivocabilmente Boccaccio.
Recenti studi hanno chiarito l’importanza fondamentale delle opere minori del certaldese, i cui
codici ebbero una triplice diffusione: nel sistema delle corti padane, sensibile ai rapporti con la
Francia, nelle ricche famiglie del nuovo ceto che si stava imponendo in Italia centrale e
meridionale, nel mondo dei chierici e delle università, grazie al viatico benedicente dell’amico
Petrarca. Ora, il Pico fiorentino riassume al meglio questi tre aspetti. Sappiamo che nella sua
biblioteca erano conservati la Genealogia deorum gentilium, il De montibus e il De casibus virorum
illustrium, ovvero tre repertori mitologici, geografici e storici compiuti dall’inventore del
Decameron allo scopo di offrire agli intellettuali dell’epoca un sostrato di informazioni attraverso
cui sviluppare un nuovo universo fantastico. In Boccaccio mediatore di generi, Paolo Orvieto
osserva acutamente che ‘‘Boccaccio, più o meno coscientemente, avrebbe utilizzato, per realizzare
poeticamente un mistero iniziatico... più generi, fondendoli e confondendoli in un amalgama solo
parzialmente composito...’’ È sorprendente notare come tali parole si applichino perfettamente sia
all’autore dell’Hypnerotomachia, sia a Giovanni Pico. Il trio stravagante che così si viene a formare
tenta di rispondere ad un’esigenza comune: usare la sapienza e la cultura per creare un orizzonte
immaginario degno di questo nome. Infatti, l’interpretazione della realtà è tanto radicata nel nostro
paese da non riuscire di solito a diventare avventura di largo respiro; allora, i due aspetti del lirismo
estremo e del racconto minimo si dividono, senza combinarsi nelle vaste narrazioni o nelle
rappresentazioni drammatiche in cui altre nazioni eccellono.

Ripetiamo un concetto già accennato in precedenza: l’Hypnerotomachia Poliphili è l’unico


consistente abbozzo di romanzo rinascimentale di cui disponiamo. Pico, a sua volta, cercò nella
prima parte della vita di riportare in luce gli antichi dei, nelle vesti di idee, pensieri e passioni. In tal
modo avrebbe ricostruito quel panorama di scelte molteplici che ogni personaggio di romanzo deve
attraversare e che fatalmente il credo cattolico tende ad appiattire. Quindi, lo scacco di cui egli
rimase vittima riguarda sia il versante dell’approfondimento filosofico che il libero manifestarsi
della fantasia, e trova puntuale corrispondenza nel rapido languire del genere pastorale e arcadico.
Alla fine del quindicesimo secolo l’italiano prende altre strade, arretrando nella sublime grazia
dell’Orlando Furioso; non si compirà nelle nostre terre il miracolo che altrove, mediante Rabelais,
avrebbe donato robusta linfa al desiderio di parlare della realtà attraversando il mito e contribuendo
alla nascita di miti moderni. Le ninfe e le divinità vengono di nuovo scacciate, e nello spazio
favolistico da loro lasciato libero non si insinua alcuna presenza determinante, così che da Ariosto
presto scivoleremo verso Tasso e la sua controriformistica malinconia.

Il viaggio del pellegrino amoroso era un’alternativa credibile? Forse no, se l’Amorosa Visione si
perde nelle troppe allucinazioni che infiammano il cammino del protagonista. Eppure, proprio da
qui può iniziare la nostra ricognizione dei temi che il Polifilo deriva da Boccaccio. Nella Visione,
quindi, oltre all’acrostico ricordiamo la processione dei Trionfi, la commistione fra arte figurativa e
intreccio letterario, la generale atmosfera di sogno allegorico che lo scrittore toscano aveva senza
dubbio tratto dal Roman de la Rose e da altri testi minori della Francia a lui tanto prossima. Ma già
nella Caccia di Diana del 1334 veniva introdotto il motivo fondamentale del conflitto tra Venere e
Diana, tra Amore e Castità. Nel Filocolo, poi, oltre all’appellativo derivante da una combinazione di
termini greci (ma si tenga presente come fonte originaria dei numerosi titoli similari anche il
poemetto franco-latino Panfilo, volgarizzato in Italia; Panfilo si chiama inoltre uno dei narratori del
Decameron), troviamo il motivo del picciolo libretto, il munuscolo polifiliano, e la nascita
dell’eroina Biancifiore da un Quinto Lelio Africano. Vistosissimi gli apporti della Commedia delle
Ninfe Fiorentine, ovvero l’Ameto: la stessa Lia, la ninfa di cui Ameto si innamora quando l’incontra
al bagno insieme ad altre compagne, è assai prossima nel nome e nell’atteggiamento a Polia. Così,
in entrambe le opere è simile lo sprigionarsi di una sensualità inattesa e il vezzo di chiamare le belle
giovinette in modo spesso astruso, combinando vocaboli greci; caratteristica risulta nel poemetto
boccaccesco la figura di Pomena (equivalente a Pomona) e la rassegna del suo orto di delizie, vero e
proprio erbario tra il paradisiaco e il naturalistico. Nell’Elegia di Madonna Fiammetta l’idea stessa
del monologo femminile richiama la seconda parte dell’Hypnerotomachia, in cui d’altronde si
riconoscono facilmente spunti dalla celebre novella di Nastagio degli Onesti contenuta nel
Decameron. Quanto al Ninfale Fiesolano, oltre alla consueta presenza delle ninfe, di Venere e di
Diana spicca la partecipe descrizione del paesaggio, ricco di fiumi; due ruscelli riceveranno il loro
nome da Africo, suicida per amore, e da Mensola, che si tramuta in acqua.

D’altra parte, esiste una sostanziale continuità tra il Boccaccio minore e il Poliziano delle Stanze,
come giustamente sottolinea a più riprese Paolo Orvieto, evidenziando i legami che uniscono le
peripezie di questo amante ancora medioevale ai più compiuti scritti di Ficino, Benivieni, Pico: ‘‘Le
Stanze si inseriscono a pieno diritto nel macrogenere boccaccesco, quasi portando alle estreme
conseguenze e concludendo splendidamente un ciclo iniziato dal Roman de la Rose...’’ Né mancano
riferimenti puntuali, come l’immagine della cerva, presente nel Ninfale (in questi poggi vidi una
cerbietta), ripresa da Angelo (l’imagin d’una cervia altera e bella) e ricordata in un sonetto del
mirandolano (una Cerva che avea d’argento i vanni).

Che nel catalogo della biblioteca pichiana non siano comprese le opere in volgare di Boccaccio non
significa molto, vista la loro ampia circolazione nel milieu nobiliare del settentrione in cui Giovanni
era cresciuto. Basterà citare lo stupendo codice del Filocolo eseguito e miniato a Mantova per conto
di Ludovico Gonzaga (Oxford, Bodleian Library, Canoniciano it. 85).

Così, siamo certi di poter tracciare un parallelo credibile tra Giovanni Pico, intellettuale, umanista,
vagabondo e Giovanni Boccaccio, intellettuale, umanista, vagabondo. In tale prospettiva,
l’Hypnerotomachia si rivela come lo sforzo sovrumano di superare il dettato del maestro,
convogliando una mole immensa di dati e aggiornandoli secondo le nuove acquisizioni concettuali
del secondo Quattrocento, pur conservando lo schema essenziale di un’Amorosa Visione, congiunto
all’intrico polisemico della Genealogia. Quanto alla complessità della scrittura, Boccaccio
affermava proprio nella Genealogia che è compito ineludibile dell’autore conservare una forte
obscuritas, per non dare in pasto al volgo la veneranda maestà di Dio.

I sacri velami

‘‘Noi non abbiamo scritto per il volgo... Non diversamente gli antichi allontanavano con gli enigmi
e con le favole i profani dai loro misteri; così appunto anche noi siamo soliti usare l’amara scorza
delle parole per tenerli lungi dalle nostre vivande, che essi non potrebbero non corrompere...’’ Così
parla Giovanni nella lettera ad Ermolao Barbaro del 3 giugno 1485, uno scritto fondamentale, un
manifesto poetico e letterario di primario interesse. Come al solito, il mirandolano gioca
sull’ambiguità. Infatti, se da un lato il suo intervento appare una difesa dei filosofi francesi, che si
esprimono in modo rozzo e in stile disadorno, dall’altro la missiva si risolve nell’elogio della lingua
e delle sue infinite possibilità, corrispondenti agli infiniti meandri dell’universo. Poiché vi è un
contatto indistruttibile fra lingua e natura (‘‘E se invece la proprietà dei nomi - nominum rectitudo -
dipende da natura, andremo a consultare i retori, o non piuttosto i filosofi, che soli hanno esaminato
e chiarito la natura di tutte le cose?’’), scrivere significa cercare la verità attraverso i nomi. Allora, il
vero ostacolo nel cammino verso il sapere è l’orgoglio del retore, ovvero colui che inanella
proposizioni al solo scopo di costruire un narcisistico doppio di se stesso (‘‘abbandonarsi alla
voluttà dei traslati’’). Consultare i Francesi, gli Arabi, gli Egizi equivale invece a ritrovare la
comunanza ideale fra gli uomini. Così, in questa lettera l’Umanesimo raggiunge una delle sue vette
più alte, là dove si intravedono la fine tragica dell’avventura intellettuale del rinascimento e l’inizio
dell’epoca moderna, un periodo di crisi incessante per chi intenda muoversi all’interno del labirinto
dei termini.
Ecco il punto cruciale della nostra tesi. Occorre decidere se l’Hypnerotomachia è semplicemente il
bizzarro esperimento di un ingegno periferico, una delle tante curiose novelle gonfiate ad arte da un
ego ipertrofico, una danza macabra di apparizioni paganeggianti, o se al contrario essa è una specie
di diario di bordo, in cui un grande pensatore mette alla prova se stesso e la cultura che lo ha nutrito.
Il discrimine sta evidentemente nella vacuità o meno del tentativo. L’Oratio de hominis dignitate
mette in scena un Supremo artefice che proclama, rivolto alla sua dilettta creatura: ‘‘O Adamo, non
ti ho dato una sede determinata, né un volto che sia veramente tuo, né alcun dono a te peculiare; ho
fatto questo affinché la tua sede, il tuo volto e i tuoi doni, tu li voglia, tu li abbia, tu li possieda
secondo il tuo desiderio e la tua volontà. La natura imprigiona le altre specie secondo leggi da me
stabilite. Ma tu, che non sei costretto da alcun limite, grazie al tuo arbitrio, nelle cui mani ti ho
posto, puoi definire da solo la tua stessa natura. Ti ho messo al centro del mondo affinché tu possa
meglio contemplare cosa il mondo contiene...’’

L’appello divino è tuttavia drammatico, perché libera e condanna l’uomo al tempo stesso. Immensa
è la vastità di ciò che l’individuo scorge, profondissime sono le intenzioni del Maestro,
innumerevoli i dettagli, innumerevoli le possibilità di scelta. Questo costruisce il labirinto moderno,
in cui si muove un uomo dalle sembianze di camaleonte. ‘‘Chi non ammirerebbe il camaleonte che
noi siamo? Asclepio ha giustamente detto che questo camaleonte - versipellis - era rappresentato nei
misteri dalla figura di Proteo...’’ Il problema nasce nel momento in cui ogni individuo, essendo la
più alta espressione del creato, deve diventare mimesi del creato medesimo. Cosa è infatti una
scelta, se non la ricezione di un’alternativa assoluta, che sarà interiorizzata e assorbita con la
massima cura, fino al rischio di una scissione interna al soggetto stesso? Parallelamente, il
linguaggio umano, il più affilato strumento di cui disponiamo, si farà mimetico, trasformandosi in
specchio dell’intera realtà. Ma uno specchio tanto esteso comporta certamente una deformazione. Il
barocco è ormai vicino, pur nella particolare accezione di una sapienza che ancora tende al
catalogo.

Il Sogno di Polifilo incarna appunto queste esigenze, queste contraddizioni. Addormentandosi, il


nostro sognatore non si limita a incontrare l’amata, incrociando cortei di personaggi illustri. La sua
fantasia deve sopportare il peso dell’Antichità, ovvero dei modi in cui la Storia ha proclamato
l’esercizio del libero arbitrio, il peso della Passione, ovvero l’impatto doloroso con i sentimenti, il
peso della Religione, ovvero il confronto con la potenza insuperabile del sacro. Diverso era il
viaggio della Divina Commedia, faticoso riconoscimento delle radici, temperato tuttavia dalla guida
di presenze opportunamente ispirate da una divinità attenta ad ammaestrare i propri discepoli,
riducendo al minimo le vertigini e gli smarrimenti. Perduto l’Inferno, purtroppo viene smarrito
anche il Paradiso, e Polifilo vaga fra graziose erbette che rappresentano solo l’aspetto decorativo di
ben più gravosi marmi. Infine, Beatrice non si dilegua, al contrario di Polia. Se molti studiosi hanno
ecceduto, ravvisando nella donna-ninfa desiderata dal giovane un richiamo stringente al passato
antiquario, tale identificazione ci consente comunque di precisare un dato essenziale. Lo pseudo-
Colonna concepisce l’universo del sapere come uno sfuggente dominio. Dominio, perché dal
reticolo dei nomi l’uomo non può assolutamente prescindere, trovandosi gettato nel mondo delle
creature. Sfuggente, perché ogni parola nasconde un gruppo di parole, ogni citazione racchiude la
sua deriva, ogni aggancio ai testi latini sovverte il significato originario; infine, l’elenco esotico dei
materiali intravisti da Polifilo serve solo a ricordarci l’insopprimibile magnificenza divina, così
come le architetture in rovina sono i pallidi frammenti del sogno del Grande Architetto.

Potremmo riproporre i medesimi concetti analizzando l’opera di Pico. Nell’Oratio, il mistero dei
vocaboli è metafora del mistero della verità: ‘‘A questi iniziati, una volta purificati attraverso le arti
che abbiamo chiamato espiatorie, la morale e la dialettica, toccava l’assunzione dei misteri. E cosa
può essere questa iniziazione, se non l’interpretazione attraverso la filosofia dei più profondi segreti
della natura?’’ Ma la filosofia è lo studio dei nomi, la dissezione sacra della natura e la sua
ricomposizione. ‘‘Quando avremo acquisito questa conoscenza con l’arte del discorso e del
ragionamento... penetrando tutte le cose dal centro al centro, talora noi discenderemo frantumando
l’uno in molti come Osiride, con la forza di un Titano, talora risaliremo riunendo i molti in uno,
come le membra di Osiride, con la forza di un Apollo...’’ Si tratta di un brano sorprendente, sia per
l’appello alla tradizione egizia, sia per l’evidente volontà di procedere ad una trasmutazione del
naturale mediante l’alchimia del Verbo, sia per la nitida affermazione di un modernissimo
procedimento di frantumazione e riassemblaggio, profondamente polifiliano. Quindi, ‘‘Mi sono
ripromesso di non giurare sulla parola di alcuno, ma di fondarmi su tutti i maestri della filosofia,
esaminando tutte le posizioni e conoscendo tutte le scuole.’’ Inevitabile è allora il riferimento ai
greci: ‘‘... Omero, di cui un giorno dimostreremo nella nostra Theologia poetica come abbia
nascosto nelle peregrinazioni di Ulisse questa scienza e tutte le altre...’’; ‘‘... Orfeo ha tanto avvolto
i misteri dei suoi dogmi nelle pieghe del mito, li ha tanto nascosti sotto un velo poetico che, se si
leggono i suoi inni, si potrebbe credere che essi contengano solo delle leggende e delle assolute
sciocchezze. Questo ho voluto dirlo perché si sappia quanto sia stato difficile estrarre dalla voluta
oscurità dell’enigma e dalle tenebre delle favole il senso di una filosofia segreta che là si
nascondeva...’’ Sembra di leggere una dichiarazione letteraria di intenti, che delinea un personaggio
vicino all’astuto Ulisse, condannato a vagare nel Mediterraneo dei fantasmi, ma simile anche al
dolce Orfeo, perennemente alla ricerca di un’Euridice sprofondata negli inferi della non
conoscenza, e da qui risvegliata grazie alla melodia di un cantore-filosofo.

Infine, il palazzo delle lingue e dei linguaggi evoca l’enigma che in modo arcano si erge a difesa dei
segreti. ‘‘Sopra i templi egizi, le statue delle sfingi ammonivano a proteggere gli insegnamenti
mistici dalla folla dei profani attraverso i nodi dell’enigma.’’ Così, i vocaboli e le frasi che
costellano il Sogno di Polifilo si dimostrano continuamente altre, componendo astrusi rebus dove,
più del significato, conta la forza combinatoria delle immagini geroglifiche, sorgente antichissima
dei vocaboli di cui il sapiente si ciba.

Filosofia e letteratura

Che l’Hypnerotomachia fosse un viaggio attorno alle fonti medesime della filosofia apparve subito
lampante ai lettori più attenti. Polifilo, una volta caduto nel suo doppio sogno, ripercorre in effetti
l’avventura della nascita dell’uomo e del suo progressivo affrontare gli elementi che l’intelletto gli
offre, aiutato in questo dalla Volontà/Desiderio (Telemia) e dalla Razionalità (Logistica). Le cinque
ninfe che lo accompagnano nella prima parte del viaggio sono in realtà i cinque sensi che la creatura
umana si trova a disposizione nel travagliato cammino della vita, dominato dal tempo e minacciato
da potenze distruttive. Così, le scritte che il nostro giovane via via scopre suonano come cartelli che
recitano massime veritiere, avvertimenti morali a cui l’individuo può o no dare ascolto, nel suo
frastagliato ascendere verso il reame di Venere. È ovviamente risibile la sottovalutazione compiuta
da Pozzi riguardo all’ascendenza neo-platonica del tema venusiano, così come è assurdo negare
(Marco Ariani e Mino Gabriele) che Eleutirillide sia esattamente il libero arbitrio; ne è
testimonianza indiscutibile lo scritto anonimo premesso al romanzo (el palatio della regina che è el
libero arbitrio). Tali prese di posizione, poco comprensibili in studiosi tanto avvertiti, sono il
sintomo del rifiuto di ciò che al contrario risulta evidente. Proprio la lista di aggettivi con i quali lo
pseudo-Colonna adorna la regina - magnanima, benevolentissima, summamente munifica, indica
quanto l’autore fosse legato al suo personaggio. Si tratta in realtà di un marchio di fabbrica, poiché
il libero arbitrio consente al protagonista di scegliere una tra le famose tre porte, dimenticando i
consigli della Razionalità. Infatti, dopo aver superato giardini e labirinti, le tre porte si ergono ai
confini del dominio dell’amica regina: la scelta fra il Mondo, Dio e l’Amore è l’ultimo supremo atto
della libertà umana. Una volta imboccata la strada dell’Amore, non certo relativa ai piaceri terreni,
ma ad un più complesso modo di cogliere la verità, Polifilo ritroverà Polia e con lei sarà condotto a
incontrare la Grande Dea. Sublime pensiero, dunque, quello di riconoscere nel libero arbitrio il
massimo dono, la vera regina, coniugando la somma libertà all’alto comando, come avviene
nell’istante in cui la nostra mente esamina in modo misterioso alcune possibilità, quasi identiche
nell’aspetto e tuttavia divergenti nello sviluppo. Senza dubbio, è di Pico e solo di Pico tale
sottolineatura, di forti radici cristiane ma di inedita ampiezza esploratrice.

In uno dei suoi interessanti saggi sul Polifilo, significativamente intitolato Influenze e concordanze
ficiniane nell’Hypnerotomachia, Olimpia Pelosi ha dimostrato con efficacia quanto il romanzo sia
vicino al sincretismo di Marsilio, e al tempo stesso se ne distacchi, per una più approfondita
indagine dell’universo intellettuale: ‘‘L’unità di Venere, centro intorno al quale gravita l’universo
delle astrazioni, si esplica nella ‘trinità’ delle Grazie in uno schema dialettico e in una regressio
circolare avvicinantesi più al Pico del Commento alla Canzone d’amore che ai postulati ficiniani.’’
E, in altro luogo:‘‘... la parola di Polifilo è continuamente trasversale... La parola risulta allora più
ambigua, in quanto, per comprenderla, dobbiamo allontanarla come un ostacolo e nel contempo
usarla come chiave... Lo stesso Gnoli è costretto ad ammettere che l’opera è un nuovo poema
filosofico e che il suo autore era un forte, audace, rigido ingegno, spinto dalla tirannia della logica,
fino all’assurdo... La lingua del Colonna è manieristica...’’ Affermazioni finalmente convincenti, a
cui si deve aggiungere un altro, fondamentale contributo, frutto dell’ingegno più autorevole in
materia rinascimentale: Edgar Wind.

Costui, in Misteri Pagani del Rinascimento, svolge un acutissimo esame dell’arte e della letteratura
del Quattrocento, considerate nel loro aspetto esoterico. Come un filo tessuto fra la trama delle
speculazioni misteriche e l’ordito della grande pittura, il ragionamento di Wind costeggia
continuamente sia l’Hypnerotomachia che l’opera di Pico della Mirandola. Lo studioso non mette
mai esplicitamente in rapporto l’uno e l’altro versante; ma la frequenza delle allusioni, il metodo
comparativo e l’oggettiva insistenza nel confronto ci porta a sospettare che egli avesse colto un
legame preciso. Basta leggere alcune sue frasi: ‘‘Il rinascimento platonizzante fu inondato da questa
ricchezza asiatica che Pico tanto apprezzava in Proclo... Evocare i misteri in una lingua limpida
sarebbe apparso a Pico un procedimento sia frivolo che illogico. Egli sapeva bene che i misteri
richiedono un’iniziazione... Così, per parlare di misteri Pico immaginò uno stile di volgarizazzione
ellittica che gli permettesse di lasciar scorgere i segreti che egli stesso dichiarava di voler
nascondere... Per un mistagogo ufficiale, lasciava capire, il modo giusto consisteva nel parlare per
enigmi, usando vocaboli che sono pubblicati senza esserlo... Tale formula ricorda il gioco di parole
di Apuleio, quando descrive la sua esperienza di neofita nei riti di Iside: ‘‘Ecco, ti ho riferito le cose
che tu devi ignorare, pur avendole ascoltate.’’

Certo, Wind sembra alludere anche allo stile secco e talvolta oscuro delle Conclusiones nongentae,
in cui Giovanni offre sentenze lapidarie quali Non conseguirà risultato saldo nell’opera magica chi
non avrà attratto Vesta, oppure Come Apollo è intelletto solare, così Esculapio è intelletto lunare, o
anche Amore è filosofo in rapporto alla via e Pallade lo è in rapporto alla meta. Ma l’estrema
sintesi esibita in questo stupefacente catalogo di verità problematiche è del tutto speculare alle frasi
prolisse e quasi estenuanti del Polifilo. In entrambi i casi le parole fanno velo, tingendosi di luce:
qui rivestono di pieghe il nudo corpo della realtà, come una stoffa sovrabbondante; là, assomigliano
a fori che trafiggono, senza abbatterlo, il muro opaco dell’ignoranza. In entrambi i casi, siamo di
fronte ad una sfida intellettuale che vuole radunare intorno a sé impossibili adepti, e che purtroppo
susciterà ripulse e condanne. Ancora Wind: ‘‘Volendo sottolineare la disparità fra strumento
verbale e oggetto mistico, Pico donò al suo stesso linguaggio una risonanza contemporaneamente
provocatoria ed evasiva, come se velare significasse implicitamente rivelare il fuoco sacro, dentro
una nuvola di fumo spessa e acre.’’ Velare / rivelare, dunque.

Quando poi si scende nei dettagli, è sorprendente osservare quanto le numerose immagini trinitarie
presenti nell’Hypnerotomachia (basti considerare il simulacro a tre volti animali di Serapide, che
ritroveremo anche in Tiziano come immagine del Tempo) siano collegabili alle speculazioni di
Ficino e di Pico, così come l’evocazione di Venere, una, doppia e forse trina, pervade magicamente
sia un campo che l’altro. ‘‘L’Hypnerotomachia ce ne presenta un esempio estremo, là dove Venere
appare nell’aspetto di una mater dolorosa che nutre il figlio con le sue lacrime...’’ In questa fusione
di miti pagani e di sensibilità cristiana spicca il gruppo delle Tre Grazie che, come è noto, formava
il verso di una medaglia del mirandolano, caratterizzata dalla scritta Pulchritudo - Am(m)or -
Voluptas.

È inutile ripercorrere qui la raffinatissima analisi di Wind in relazione al tema delle Tre Grazie, e la
sua sottile disamina dei tre elementi che si combinano e si modificano nel corso dell’esperienza
neo-platonica, a partire dal luogo medesimo di Careggi, il Campo delle Grazie. Come scrisse
Ficino, ‘‘Amore parte dalla Bellezza per finire nel Piacere.’’ E ancora: ‘‘È dell’amante trovare
piacere e gioia in quel che ama; questo è infatti il fine dell’amore. La visione tocca a colui che
cerca: ma nell’uomo felice il gaudio trionfa sulla visione.’’ Dunque, la parola Voluptas non va
tradotta semplicemente con Piacere, ma a che fare direttamente con la Gioia. L’Amore si volge
dalla Bellezza (la visione) verso la Gioia.

Questo percorso corrisponde esattamente all’essenza del tragitto di Polifilo nella prima parte del
romanzo. Benché complicato all’estremo dalla rassegna verbale su cui abbiamo a lungo indagato, il
destino del nostro giovane si compie davanti al sepolcro di Adone, là dove ogni anno la stessa
Venere riapre la sua amorosa ferita, tingendo di rosso le candide rose. Riportiamo un brano
particolarmente significativo della traduzione adelphiana, affinché il lettore riesca a comprenderne
immediatamente la portata: ‘‘Dopo che le vergini ninfe ebbero descritto con affabile eloquenza un
rito misterico tanto memorabile quanto singolare, ripresero di nuovo a suonare e a cantare con
grandissima dolcezza e voluttà... Affrancato ormai, libero da ogni timidezza e riguardo... tutto
pervaso da un subitaneo effluvio profumato delle sue splendide, leggiadre vesti irrorate di balsami,
mi misi arditamente nel suo grembo amoroso, baciando con passione le sue lattee mani e quel petto
di neve rilucente come l’avorio più lucido...’’ Questo è il Gaudio; e si può ben cogliere quanto
spirito letterario si ritrovi nelle pagine private del velame che le ricopre, e che peraltro rappresenta il
loro ornamento imprescindibile. Tale gaudio viene raddoppiato alla fine della seconda parte, nei
brevi attimi che preludono alla separazione definitiva degli amanti. Qui, la duplice dichiarazione
dell’uomo e della donna suggella il mistero dell’amore, mentre il corpo di Polia si trasmuta e si
scioglie. ‘‘Sospirava quella celeste immagine divina, come un ramoscello esalante un profumo
fragrantissimo di muschio e ambra che si innalzi al firmamento, con non lieve godimento degli
spiriti celesti.’’

Una canzone d’amore

Riassumiamo ora brevemente il saggio che Giovanni Pico dedicò nel 1486 alla Canzone d’Amore
dell’amico Girolamo Benivieni. Costui, un fiorentino nato nel 1453 e morto quasi novantenne, è
una figura caratteristica dell’epoca; appartenne alla cerchia di Landino, Ficino e Poliziano,
distinguendosi per alcuni componimenti ispirati al più classico neo-platonismo. Divenne in seguito
un ardente savonaroliano, dimostrando come la predicazione iniziale del frate si collegasse ad
alcuni spunti mistici ampiamente presenti nell’opera letteraria di Lorenzo il Magnifico e dei suoi
compagni.

Come abbiamo già ricordato, il 1486 è un anno cruciale per Giovanni, poiché fu dominato dalle
speranze, presto deluse, relative alla stampa delle 900 Tesi, destinate purtroppo alla più completa
ripulsa da parte della Curia e del Papa. Il Commento dello illustrissimo Signor Conte Ioanni Pico
Mirandolano sopra una Canzona de Amore, composta da Girolamo Benivieni Cittadino Fiorentino,
secondo la mente e oppenione de’ Platonici (così recita il titolo originario) è l’unico scritto in prosa
volgare che il Conte ci ha lasciato. Invece d’essere rapidamente diffuso, venne presto accantonato
perché, dichiara Benivieni: ‘‘... nacque nelli animi nostri qualche ombra di dubitazione, se era
conveniente a uno professore della legge di Cristo, volendo lui trattare di Amore, massimo celeste e
divino, trattarne come platonico e non come cristiano; pensammo che fussi bene sospendere la
pubblicazione di tale opera...’’ Sono frasi che illustrano perfettamente il mutamento intervenuto
negli spiriti e nella stessa vita di questi intellettuali dell’ultimo Quattrocento. Così, il Commento
non fu nemmeno compreso nell’edizione della cosiddetta Opera Omnia, curata da Gian Francesco
Pico nel 1496 per i tipi di Benedetto da Bologna.

Giovanni inizia con una disamina della dottrina platonica, esplorando le opinioni di Dionigi
Aeropagita, Plotino e Avicenna in merito alla gerarchia delle emanazioni divine e all’esistenza o
meno di una Prima Mente, che fungerebbe da ricettacolo delle forme ideate dal Supremo Architetto;
quanto al mondo sensibile, esso è un simulacro di quello intelligibile. Il mirandolano introduce poi
le figure di Celio, Saturno e Giove a rappresentare Dio, la Prima Mente e l’Anima del Mondo. Si
apre allora una complessa comparazione fra la verità universale e il divenire mitologico, che
costituisce il tema fondamentale di tutto il libro: le nove muse corrispondono ad esempio alle otto
sfere celesti - i sette pianeti e il cielo stellato - più l’universale anima del mondo. Citando Eraclito e
i Caldei, Pico giunge quindi ad uno dei punti cardine del platonismo, la liberazione dalla schiavitù
terrestre attraverso la via amatoria, la quale mediante la bellezza delle cose corporee e sensibili
eccita nell’anima memoria delle parti intellettuali. È esattamente il cammino del Polifilo, e in tal
senso la stessa sparizione finale di Polia assume un diverso e meno acerbo significato. Segue una
lunga trattazione della parola Amore e del concetto di Desiderio, fino alla celebre sentenza: Dopo
Dio comincia la bellezza, perché comincia la contrarietà sanza la quale non può essere alcuna
cosa creata. Venere e Marte, gli amanti per eccellenza, simboleggiano il conflitto perenne fra
armonia e disarmonia attraverso cui il mondo si evolve. Pallade è invece la sapienza intellettuale,
mentre le due Veneri, la volgare e la celeste, hanno simmetricamente in sorte due Amori: Però
disse Platone nel Convivio, che quante Venere sono, tanti sono necessariamente li Amori. Segue un
accenno ai genitori di Amore, Poro (l’abbondanza delle idee) e Penia (la povertà della natura
informe); le Tre Grazie, chiamate Viridità, Letitia e Splendore, divengono dal canto loro tre
proprietà della bellezza ideale.

Così, Pico continua per pagine e pagine, illustrando e reinventando gli antichi miti greci, presi per
quel che sono, ovvero discorsi sapienziali, documenti che ricostruiscono l’eterna ricerca umana.
Infine, viene il momento di una spiegazione puntuale della Canzone del Benivieni, particolarmente
notevole quando si afferma che sono le cose intelligibili e spirituali essistimate essere sole vere
cose, e le cose sensibili essere immagine e ombra di quelle, e quasi da loro differenti come uno oro
di archimia, che è fatto dall’arte, ad imitatione del vero oro e naturale... Ascoltando questo passo si
comprende il motivo per cui molti ingegni hanno inteso l’Hypnerotomachia come un romanzo
alchemico: la mimesi del sensibile attraverso il gioco estremo dei vocaboli ridona infatti al lettore
quell’oro di alchimia che è a sua volta il semplice preludio della pienezza spirituale. Infatti, a colui,
el quale al sesto grado perviene, non è licito caminare più inanzi, perché quello è il termine
dell’amorosa via, quantunque per via d’un altro amore più oltre si vada, et è quello amore col
quale si ama Dio in sé. Ancora più esattamente, in relazione al Polifilo: Può adunque per la prima
morte, che è separatione solo dell’anima dal corpo e non per l’opposito, vedere lo amante l’amata
Venere celeste ad faccia ad faccia con lei ragionando della sua divina imagine (la celeste
immagine divina, la coelica imagine deificata) e’ suoi purificati occhi felicemente pascere, ma chi
più intrinsecamente anchora possedere la vuole, e non contento del vederla e udirla essere degnato
de’ suoi intimi amplessi (amorosi amplexuli) ed hanelanti basci (cum la coraliata buccula
basiantime strinse), bisogna che per la seconda morte del corpo per totale separatione si separi...
Dunque, il giovane amante separa una prima volta la propria anima dal corpo cadendo nel sonno e
attraversando i reami dello spirito. Qui incontra Polia, convincente personificazione non tanto
dell’anima stessa (rappresentata da Polifilo), quanto dell’intelligenza delle cose celesti. Insieme a lei
giunge presso Venere e la vede, nell’attimo in cui stesso abbraccia ardentemente l’amata,
ragionando della sua divina immagine: Può adunque per la prima morte... Ma se vuole veramente
arrivare ai cieli, volgendosi alla Divinità nel suo aspetto purissimo, deve subire una seconda morte,
perdendo in apparenza l’anima in quanto individuazione del soggetto, per confonderla nella più
vasta anima sovraterrena: Habbiamo sopra dichiarato come el core nello amoroso foco ardendo
more, e come per tal morte cresce a più sublime vita. Ultimo dettaglio interessante: Giovanni
afferma che è il bacio e non la copula la più perfetta e intima unione; infatti, il Polifilo è ricco di
baci, anche molto sensuali, ma non descrive mai un atto sessuale compiuto.

A questo arriva Pico nel Commento, dopo aver citato Orfeo, Salomone, i Caldei, i Cabalisti e l’arte
astrologica. A questo arriva lo pseudo-Colonna, dopo aver vagato a lungo nel labirinto inestricabile
dei nomi, da lui medesimo costruito. Come non scorgere la coincidenza degli intenti?

Intorno a Firenze

La tecnica del collage e le selve tanto care a Poliziano, il neo-platonismo di Ficino, la venerazione
per Leon Battista Alberti esibita da Cristoforo Landino nelle sue Disputationes Camaldulenses...
L’Hypnerotomachia è ricca di motivi che ci ricordano la Firenze medicea, quegli anni di equilibrio
miracoloso in cui la poesia si univa alle riflessioni filosofiche, la pittura alla meditazione, i ritrovi
accademici ai canti carnascialeschi. Esistono inoltre dettagli ben precisi che ci impediscono di
pensare ad un romanzo concepito esclusivamente in ambito settentrionale.

Quando Polifilo contempla la misteriosa statua del cavallo alato, sul cui dorso molti putti tentano
invano di reggersi, osserva che sul lato destro del basamento è incisa una strana danza di figure:
uomini e donne hanno due facce, l’una anteriore che ride, l’altra posteriore che piange. Se il
significato di questa composizione appare chiaro leggendo la parola TEMPO scolpita accanto,
meno noto eppure evidente è il riferimento ad una canzone carnascialesca di Lorenzo il Magnifico,
la Canzone de’ visi addrieto: Le cose al contrario vanno / tutte, e pensa ciò che vuoi; / come il
gambero andiam noi, / per far come l’altre fanno. / E’ bisogna oggi portare / gli occhi drieto e non
davanti; / né così puossi un guardare: / traditor’ siam tutti quanti! Persino le allusioni omosessuali
contenute nella canzone trovano corrispondenza nelle frasi dello pseudo-Colonna: Cum li braci
tenentise homo cum homo, et donna cum donna...

Di rilievo è poi anche la famosa xilografia della ninfa dormiente sorpresa dai satiri (e1 r) che, oltre
ad essere riproposta dal Mocetto in ambiente mantovano, può essere accostata al Driadeo d’amore
di Luigi Pulci. Nel poemetto dello scrittore fiorentino, terminato nel 1465, il pastore Severe ...
giunto presso all’ombra, ov’io ho detto / ch’eran le ninfe in sonno e grande errore, fermossi
alquanto il nobil giovinetto... / Allor, vedendo quegli spirti lieti / addormentati, come sopra
scrissi... / tutto ammirato tenne gli occhi fissi / a’ loro atti gentili e mansueti... L’imitazione del
Ninfale Fiesolano, l’importanza del Pulci presso la famiglia Medici, la sua estroversa produzione
letteraria sono elementi di una certa importanza in relazione alla genesi dell’Hypnerotomachia.

Non vanno taciuti poi i motivi di raccordo fra il romanzo e gli Inni Naturali di Michele Marullo
Tarcaniota, l’intellettuale e uomo d’armi greco, buon amico del mirandolano, che intese
perfezionare una preziosa silloge dedicata alle grandi divinità dell’Olimpo, nuovamente intese come
potenze naturali che presiedono il destino dei mortali. Interessante sarebbe anche tracciare un
paragone fra la scena del sacrificio dell’asino a Priapo (m6 r), in cui il sangue gioca un ruolo
determinante e misterico, e le Prove di Cristo, il dipinto di Botticelli compiuto verso il 1482 nella
Cappella Sistina. Mentre la scena relativa al titolo si svolge in secondo piano, la parte principale è
dominata da uno dei riti sacrificali ebraici descritti in vari passi del Levitico: ‘‘Egli immolerà
l’agnello nel luogo sacro... Il sacerdote prenderà del sangue della vittima di riparazione... Farà
bruciare sull’altare l’olocausto e l’oblazione... Egli prenderà anche... due tortorelle o due colombi...
Aronne offrirà il capro, che la sorte ha determinato per Jahve, immolandolo in sacrificio
d’espiazione... Aronne presenterà il giovenco in sacrificio d’espiazione per il proprio peccato...’’
Occorre osservare che, oltre a Jahve, vengono parallelamente offerti animali ad Azazel, nome
corrispondente sia ad un luogo desertico, sia all’angelo che secondo la leggenda rifiutò di inchinarsi
di fronte al primo uomo e venne per questo scacciato, divenendo un demone. Lo stesso Levitico
afferma: ‘‘Essi non offriranno più i loro sacrifici ai satiri (ovvero gli idoli pagani), ai quali erano
soliti prostituirsi.’’ È opportuno rammentare ancora le tortorelle portate al sacrificio durante la
lunga cerimonia polifiliana che prepara i due amanti all’incontro con Venere. Per la complessiva
atmosfera di festa pagana che pervade il romanzo si confronti anche il fregio coevo della villa
medicea di Poggio a Caiano, e gli affreschi posteriori in cui fanno bella mostra di sé Vertumno e
Pomona, facilmente collegabili al trionfo delle divinità agresti narrato nel libro.

Infine, resta fondamentale il rapporto tra l’affresco botticelliano di villa Lemmi e la xilografia i2 r,
là dove Polifilo, dopo aver rifiutato il consiglio di Logistica ed essere entrato insieme a Telemia
nella porta della Mater Amoris, incontra Filtronia insieme alle sue sei compagne. Tale
corrispondenza, sottolineata a più riprese da Calvesi, è indubitabile: nel dipinto vediamo infatti un
giovane, vestito più o meno come Polifilo, che viene accompagnato da una dama verso un consesso
formato da sette donne. Qui si apre un capitolo affascinante e misterioso. Poco o nulla sappiamo di
questi affreschi fiorentini, ritrovati nel 1873 e presto staccati. I proprietari del tempo, i Lemmi
appunto, decisero di vendere le uniche due scene non completamente deteriorate ad un antiquario;
in seguito, esse vennero acquisite dal Museo del Louvre, dove sono attualmente esposte. Se gli
esperti sono giunti rapidamente ad un’attribuzione univoca per quanto concerne l’autore, molto più
controversi sono il periodo di esecuzione e il tema trattato. Sicuramente i due episodi appaiono
simmetrici, poiché da una parte è una giovinetta ad essere accolta da Venere (o da Apollo) e dalle
tre Grazie, mentre dall’altra vediamo un giovane scortato presso un gruppo di figure femminili,
forse le Arti Liberali. Ma chi sono questi protagonisti quasi adolescenti? Pare che negli ultimi
decenni del Quattrocento la villa appartenesse alla potente famiglia dei Tornabuoni. Dal canto suo,
la fanciulla è quasi sicuramente una Albizzi, dal momento che porta al collo il caratteristico
pendaglio a tre perle che tutte le ragazze della famiglia Albizzi (ad esempio Giovanna, a sinistra, e
una sua sorella) mostrano nella cappella Tornabuoni, realizzata dal Ghirlandaio in Santa Maria
Novella. Effettivamente, Giovanna Albizzi sposò in seconde nozze Lorenzo Tornabuoni; nello
stesso anno, il 1486, la sorella Albiera divenne moglie di Piero di Filippo Tornabuoni. Entrambe
morirono di parto, così come era toccato alla prima moglie del loro padre Maso, un’altra Albiera.
Ma il profilo del giovane effigiato da Botticelli non sembra corrispondere completamente a
Lorenzo, ardente partigiano dei Medici, cugino del Magnifico, amico di Pico, giustiziato dai
savonaroliani nel 1497. Quanto a Giovanna, di cui possediamo un magnifico ritratto compiuto dal
Ghirlandaio stesso dopo la sua morte (Madrid, collezione Thyssen-Bornemisza), recante la
struggente scritta Se l’arte fosse capace di rappresentare i costumi e l’anima, non esisterebbe sulla
terra quadro più bello, nemmeno lei risulta simile alla giovinetta di villa Lemmi. Crediamo invece
di identificare quest’ultima nell’Albizzi dipinta nella Nascita di San Giovanni Battista, in Santa
Maria Novella, a fianco di Lucrezia Tornabuoni, madre del Magnifico e sorella di Giovanni, il
committente della decorazione. Se questa bellissima e maestosa giovane dai capelli biondi e crespi è
Albiera junior (esiste anche un’Albiera senior, sua sorella, la cui morte prematura nel 1473 venne
cantata da Poliziano), o Maria, un’altra delle dieci sorelle Albizzi, sorprendente è anche la sua
affinità visiva con la Polia delle xilografie aldine.
Non ci azzardiamo qui a istituire uno schema di relazioni fra il giovane di villa Lemmi, Polifilo e
Pico da un lato, la fanciulla di villa Lemmi, Polia e l’Albizzi dall’altro; va tuttavia notato che un
altro segno distintivo delle Albizzi (discendenti di una stirpe di origine tedesca) è il fazzoletto
bianco che stringono sempre fra le mani, fazzoletto che caratterizza entrambi i protagonisti degli
affreschi botticelliani, fazzoletto che spicca in una tela cinquecentesca, oggi in Palazzo Ducale a
Mantova, raffigurante il Conte di Concordia. Rileviamo comunque due elementi notevoli. Gli
affreschi del Louvre celebrano forse un fidanzamento, ma sono ancor più la sublime immagine di
un rituale di iniziazione, in cui i protagonisti abbandonano l’adolescenza per giungere all’età della
sapienza e dell’amore. In secondo luogo, il gioco delle medaglie che presentano il gruppo delle tre
Grazie si complica, poiché una medaglia collegabile ad Angelo Poliziano reca il busto della sua
pretesa sorella Maria Poliziana e, nel verso, le tre Grazie con l’iscrizione CONCORDIA. Ma la
medesima Maria ha al collo inequivocabilmente il pendaglio delle Albizzi, e d’altronde anche una
medaglia di Giovanna Albizzi mostra il fatidico terzetto, a somiglianza di Pico ma con la diversa
scritta Castitas - Pulchritudo - Amor. Non sembra quindi assurdo affermare che Polia sia una
contrazione di Poliziana; nel misterioso nome esiste certamente una radice che rimanda alla
bianchezza, e albus significa bianco, chiaro. Politus vale raffinato, elegante, colto, adorno; il verbo
polire è traducibile con pulire, levigare, rendere bianco, perfezionare; polia è in Plinio una pietra
simile all’amianto, bianco e indistruttibile dal fuoco. In greco, poliòs equivale a biancastro, canuto,
ma anche splendido e lucente. È curioso infine che nel proemio del De ente et uno (1491), Giovanni
si diverta a compiere un gioco di parole tra il nome di Poliziano e lo stile pulito della lingua:
‘‘Liceat autem mihi per te, linguae politioris vindicem...’’

Il sogno e le lingue

Per ritornare al bizzarro plurilinguismo polifiliano, la nostra ipotesi viene confortata dai contributi
indipendenti di alcuni studiosi. In particolare, Francesco Bausi nel suo Nec rhetor neque
philosophus analizza in modo approfondito il latino usato da Pico nei suoi scritti, a partire dalle
lettere già ricordate, con destinatari Ermolao Barbaro e Lorenzo il Magnifico. Come è noto, la
seconda metà del quindicesimo secolo è teatro di accese polemiche fra i fautori di un latino
‘classicamente’ ciceroniano (prima Paolo Cortesi, quindi il Bembo) e gli assertori di una più libera
attitudine inventiva, basata sulle espressioni ‘asiatiche’ o ‘africane’ di Apuleio, pronta al
neologismo e ad ogni sperimentazione, anche azzardata. Non è sbagliato affermare che la scuola
umanistica bolognese, in cui eccelle la figura di Beroaldo, poi sorpassato in spregiudicatezza da
Giovan Battista Pio, rappresenta almeno in parte il contraltare latino del volgare ‘alla Polifilo’. Nel
suo bel saggio, Bausi dimostra come Pico fosse affascinato dalle possibilità combinatorie del
linguaggio, d’altronde fondamentali negli studi cabalistici a lui tanto cari. La lettera ad Ermolao
Barbaro, ad esempio, è tutta costruita mediante un intreccio di parole e di frasi derivate da un folto e
variegato gruppo di autori, tra cui gli stessi compilatori di storie altrui, come il Gellio delle Notti
Attiche, che la superficie del discorso sembra condannare. Si tratta di un’ulteriore dimostrazione
dell’assoluta ambiguità di Giovanni, capace di utilizzare una raffica di espedienti retorici proprio
nel paragrafo in cui biasima aspramente la retorica medesima. Orazio, Marziale, Lucrezio,
Cicerone, Sinesio, Apuleio, Seneca; tutto serve a predisporre il tessuto linguistico: ‘‘Lo studio della
lingua e dello stile dell’epistola ne conferma la valenza costituzionalmente (e programmaticamente)
ambigua e proteiforme.’’ Né mancano gli arcaismi o i neologismi, così come avviene nell’epistola
al Magnifico. A ragion veduta l’amico Beroaldo si poteva complimentare con lui definendolo alter
Apuleius: ‘‘Vi è senza dubbio una consonanza profonda, riguardo alla lingua e allo stile, tra il
Beroaldo e il Pico di queste epistole (nonché dell’Oratio)... Il Pico delle prime opere... può essere in
effetti ben collocato nell’ambito di quella linea apuleiana - una linea prettamente padana...’’

Si configurano dunque due periodi distinti dell’attività letteraria del mirandolano, marcati, come
abbiamo già ricordato più volte, dal crinale decisivo del 1486-1487. L’Oratio, ovvero il suo
capolavoro, apparterrebbe completamente alla prima fase. Sostiene Bausi: ‘‘Come l’uomo dipinto
nelle pagine iniziali dell’opera, infatti, anche la lingua di Pico è camaleontica e proteiforme, capace
di assumere i volti più diversi e di trascolorare senza posa...’’ Concetti simili risultano utili anche
nella disamina dell’Hypnerotomachia. Tuttavia, occorre aggiungere un altro particolare. La
produzione di Pico è completamente segnata dalla questione del linguaggio. Anche l’Heptaplus, pur
terminato in anni ‘tardi’, ossia nel 1489, travalica i confini di un semplice commento alla Genesi.
Per Giovanni, la struttura stessa dell’universo è linguistica: creare equivale a nominare, conoscere
significa interpretare l’analogia dei vocaboli. Di nuovo Bausi: ‘‘L’opera del filosofo... ha la
medesima natura dell’opera di Dio, e non per esterno vezzo letterario, ma in virtù, appunto, del
nesso analitico che non può non stringere, quasi omerica catena, tutti i gradi dell’universo.’’

Un altro aspetto che occorre rimarcare è la presenza nel Polifilo di alcune scritte esotiche rispetto al
consueto orizzonte umanista. Alludiamo innanzitutto ai titoli delle tre porte tra cui l’eroe del
romanzo esita a lungo. Esse vengono chiamate Gloria Dei, Mater Amoris e Gloria Mundi; ma le
iscrizioni latine sono completate dal greco, dall’ebraico e dall’arabo. Sopra qualunque delle quale,
di charactere Ionico, Romano, Hebreo et Arabo, vidi el titulo che la Diva Regina Eleuteryllida
haveami predicto et pronosticato... Particolarmente significativo è l’affacciarsi di un gruppo di
termini arabi, poiché nel quattrocento l’incontro con la lingua del Profeta era abbastanza episodico.
I testi dei filosofi orientali si apprezzavano solitamente attraverso le traduzioni greche e latine.
Angelo Michele Piemontese, nel tracciare una rapida storia dell’orientalismo rinascimentale, ricorda
l’interesse in merito di Cosimo il Vecchio, gli approfondimenti di Girolamo Ramusio e la curiosità
di Marsilio Ficino, che in un’epistola richiese a Pico la restituzione di un Corano latino di sua
proprietà. Ma il medesimo Giovanni è senz’altro il maggiore fra i pochi ingegni italiani che si
occuparono per primi dell’idioma maomettano. Non soltanto egli si dedicò con tutte le sue forze
all’apprendimento prima dell’ebraico, quindi dell’arabo e del caldaico (ovvero l’aramaico), come
afferma in una lettera del 1486; Piemontese si spinge oltre: ‘‘La frase eloquente sta nell’incipit
dell’orazione De Hominis Dignitate; con questa pubblicazione egli annunciava al mondo ecclesiale
e accademico la scoperta della sentenza nihil spectare homine admirabilius (non si può vedere nulla
di più ammirevole dell’uomo) in codici arabi.’’ Così, lo stesso Piemontese può efficacemente
concludere che ‘‘l’anno 1486 segnava il deciso trapasso dalla interpretazione latina di tipo
scolastico dei testi arabi, la loro considerazione medioevale indiretta, alla comprensione diretta.’’

Ora, non può sfuggire al lettore più avvertito un dettaglio importante: la seconda apparizione
nell’Hypnerotomachia dei caratteri arabi riguarda (b7 r) il motto fatica e conoscenza, ovvero un
altro concetto cardine che viene mostrato al giovane amante durante il suo complesso itinerario di
crescita spirituale. Secondo Piemontese, ‘‘l’epigrafe bilingue... attesta la discreta resa scrittoria... in
carattere arabo naskh asiatico....’’ Notevolissima diviene dunque l’osservazione seguente: ‘‘Frasi
riconoscibili in scritture orientali sono presenti nell’unica redazione manoscritta conservata del De
Hominis Dignitate... Un tratto scrittorio arabo è in mezzo alla quarta linea di f. 143. Qui si apre uno
squarcio di spazio e, entro una sorta di parentesi e reticolo di puntini, segni di cifratura ermetica, è
inscritto un termine in nitida calligrafia araba di tipo naskh asiatico...’’

Il senso dell’iscrizione quadrilingue è chiaro: il dilemma di Polifilo è il dilemma dell’umanità


intera, e viene giustamente proclamato negli idiomi in cui la sapienza dell’uomo ha dato più alta
prova di sé. Solo una mente aperta, avida di letture, desiderosa di dimostrare quanto il cammino
dell’individuo fosse simile nei paesi più lontani e sotto i cieli più diversi, poteva ideare un così
illuminante esempio dell’universale brama di sapere. Immaginiamo la gioia di Giovanni nello
scoprire in un linguaggio straniero i suoi stessi grandi interrogativi e le stesse provvisorie risposte
che egli tentava di offrire al mondo e alla Chiesa. La scelta della porta della Mater Amoris assume
allora un significato ampio e veramente umanista: la via del cuore corrisponde all’esigenza comune
che un affannato cultore dell’intelletto ritenne di trovare fra le pagine dei suoi mille e mille volumi.
Fra questi, il mirandolano conservava certamente un Corano in arabo, uno in latino e uno in
ebraico. Così si giustificano gli assidui studi presso l’ebreo cretese Elia del Medigo, i primi interessi
cabalistici mutuati da Yohanan Alemanno, l’incontro con Flavio Mitridate, ovvero il siciliano
Guglielmo Raimondo Moncada, capace di insegnargli nuovi modi di intendere le voci che
cercavano Dio.

Il sogno e la vita: la seconda parte del romanzo

Per riassumere i risultati che abbiamo fin qui delineato, occorre innanzitutto ricordare l’idea cardine
della nostra interpretazione. L’Hypnerotomachia non è né vuole essere un’opera compiuta, chiusa,
terminata: si tratta invece di un romanzo potenzialmente infinito che scorre accanto ad una
produzione letteraria più facilmente delimitabile, benché situata entro orizzonti vastissimi e
universali. Per cogliere il senso di questa diversità di intenti è necessario che il lettore accetti di
trovarsi di fronte al frutto giovanile di un grande ingegno. Tale constatazione si impone nel
momento in cui si prende in esame seriamente la seconda sezione del Polifilo, che ha sempre
provocato nei commentatori un notevole imbarazzo.

Saltano agli occhi le profonde differenze strutturali e tematiche fra le prime e le ultime pagine del
libro, in cui predomina la voce della stessa Polia, pronta a raccontare i primi passi del grande amore
che legò fatalmente i due giovani. La complessa avventura esistenziale della prima parte cede
spazio ad una novella, abbastanza farraginosa, non priva di riferimenti cronologici e caratterizzata
dal perenne conflitto tra la potenza di Diana e quella di Venere, fra la castità e la passione. Mancano
completamente le digressioni architettoniche, mentre il paesaggio spirituale, così bizzarramente
tratteggiato negli altri capitoli, si trasforma in un luogo assai terreno, situato nella grande pianura
padana, probabilmente nei pressi di Treviso. Ma la narrazione non guadagna in realismo, poiché si
mantiene schematica e quasi metafisica, descrivendo ambienti a metà fra il convento e il tempio, e
disperdendo la propria compattezza in una serie di episodi e visioni che frammentano il progetto
generale. Inoltre, si impone una elementare considerazione statistica. La seconda parte corrisponde
quantitavamente al diciotto per cento del totale, e contiene il dieci per cento delle illustrazioni; ma il
numero di vocaboli ‘stravaganti’ qui impiegati ammonta solamente al sette per cento del numero
complessivo; l’ottantuno per cento di neologismi sta nei primi capitoli, e il dodici per cento equivale
a termini riscontrabili in ambedue le sezioni.

Questa arida rassegna di cifre porta a una deduzione significativa. La rievocazione dell’incontro,
dell’innamoramento e dell’unione fra Polifilo e Polia costituisce quasi certamente il primo nucleo
dell’Hypnerotomachia, un abbozzo riadattato e reinserito quando il romanzo trovò il suo assetto
definitivo. Infatti, l’autore del libro nel suo complesso è certamente unico, perché costante risulta il
nodo della passione amorosa e il tipo di invenzione linguistica. Ma, invertendo le due parti, le
anomalie e discrepanze diventano più facilmente spiegabili. Il soggiorno giovanile di Pico a Padova
giustifica la cornice veneta e la descrizione della campagna trevigiana, luogo edenico e ricco di
reminiscenze cortesi, forse vera patria di qualche gentile dama amata dal filosofo in erba. La
precocità letteraria del Conte di Concordia e il suo desiderio di cimentarsi in modo inedito
nell’universo narrativo - alla maniera di un Boccacio non correttamente assimilato - si traduce negli
esperimenti stilistici di cui queste pagine finali sono ricche. Il mancato distacco dalla materia dà alla
figura di Polia una sostanza vitale che altrove è meno netta. L’enciclopedismo del mirandolano non
riesce tuttavia ad esprimersi ai livelli che gli saranno congeniali nel periodo fiorentino, così come
l’ispirazione neo-platonica appare relativamente debole. In particolare, gli interessi architettonici
non si sono ancora manifestati e non vi è alcuna traccia del motivo del viaggio dell’anima, che
diverrà poi nucleo fondamentale del Polifilo. Infine, se si leggono ‘al contrario’ i dati che abbiamo
sopra esposto, essi si rivelano pienamente compatibili rispetto allo svolgersi temporale
dell’ispirazione; altrimenti, dovremmo parlare di un inaridimento della forza creativa, parallelo
all’impoverirsi della ‘fabbrica’ linguistica, inaridimento che tuttavia non si riscontra nel tono della
vicenda, animato anzi da una maggiore urgenza dei sensi e da una più acerba descrizione del loro
manifestarsi.

Così finalmente si comprende la strana cornice del doppio sogno. Uno, quello più interno,
corrisponde davvero al peregrinare di Polifilo nei regni della fantasia; l’altro serve semplicemente
da contenitore comune delle due sezioni. D’altronde, avendo deciso di conservare il primo abbozzo,
era necessario posporlo alla parte ‘adulta’ del romanzo: se avesse occupato le pagine iniziali, il
raccontino si sarebbe rivelato di ispirazione troppo incerta, oltre ad eliminare la suspence in merito
all’identità della fanciulla amata. In realtà, l’espediente funziona, poiché la discrepanza tanto
avvertibile viene attenuata dal fatto che gli ultimi capitoli risultano in definitiva un ricordo evocato
da Polia.

L’ipotesi di un diverso rapporto cronologico non è soltanto nostra. Lo stesso Giovanni Pozzi ha
scritto: ‘‘La seconda parte non fu dunque concepita come susseguente alla prima: era un racconto
preesistente che venne riutilizzato.’’ Quantunque il medesimo studioso abbia in seguito cambiato
opinione, ci conforta il giudizio alquanto argomentato di Edoardo Fumagalli: ‘‘Credo, in
conclusione, che lo studio dei prestiti apuleiani nel Polifilo rafforzi l’ipotesi di una composizione
molto precoce del secondo libro...’’

Il quadro complessivo appare dunque precisabile con una certa chiarezza. Lo spunto iniziale
dell’intera Hypnerotomachia si può situare nei due anni accademici che Pico trascorse a Padova, il
1480-81 e il 1481-82. Qui, a contatto con le tradizioni universitarie e con un mélange di numerose
correnti culturali, fra cui predomina l’aristotelismo, il giovanissimo pensatore, signorotto di
provincia eppure inesausto divoratore di libri, coltivò l’ambizione di fondere in un solo testo la
sapienza dell’epoca, basandola tuttavia sulla forza di un amore, reale o immaginario che fosse. Gli
esperimenti linguistici tipici del territorio padovano, e in particolare i primi esempi di letteratura
maccheronica, congiunti alla conoscenza personale di una serie di personaggi secondari, tutti più o
meno dediti alla poesia, irrobustirono poi la sua naturale tendenza ad un’innovazione intellettuale
costruita mediante un tessuto di citazioni dotte. Vi è anche da rilevare che in tale periodo non è da
escludere una tangenza fra la vita di Giovanni e il tortuoso percorso del frate Colonna, così come
non va sottovalutato l’inevitabile impatto dell’umanesimo antiquario veneto sulla fervida fantasia di
un ragazzo che tutto voleva conoscere e catturare.

Più tardi, l’esperienza fiorentina permise al mirandolano di incontrare personaggi di caratura ben
superiore, e portò ad una radicale trasformazione dell’argomento originario, che rifiorì nella selva
sterminata dei riferimenti neo-platonici, sapienziali, esoterici. Forse un’altra donna si sovrappose al
pallido fantasma da cui era germinata Polia; sicuramente, la lezione del Poliziano, del Ficino e del
Magnifico provocò un’estensione della sostanza narrativa polifiliana, che mantenne comunque il
suo caratteristico impasto di parole, concetti, idee. Fra il 1483 e il 1488 il Sogno viene ultimato
nelle sue linee essenziali, mentre le speranze del Conte di Concordia svaniscono, una dopo l’altra,
per la fiera opposizione al suo generoso progetto di onorare la libertà dell’uomo comparando fra
loro tutte le fonti mitologiche, nella grande concordia del sapere e dell’amore. Così, il bizzarro
romanzo, nato come una scommessa adolescenziale, si estremizza, divenendo simbolo di una
cultura ormai respinta e assediata. Impossibile pubblicarlo o renderlo oggetto di una discussione
palese, poiché il terreno si inaridisce e gli anni novanta del secolo si annunciano gravidi di contrasti
politici, religiosi, dottrinali. A nostro parere, tuttavia, Giovanni non dimentica completamente
l’Hypnerotomachia, e continua a migliorarla, a rifinirla, a complicarla. Come in un gigantesco
imbuto, qui finiscono le sue letture, che ormai non riescono più a divenire elementi di un dibattito
pubblico. Così, la morte coglie Pico non del tutto impreparato; niente affatto incline agli estremismi
di Savonarola, egli ha ormai deciso di dedicarsi ad opere di più intenso contenuto religioso, pronto a
ritirarsi in un isolamento quasi ascetico.

Non gli appare necessario dare una struttura coerente al Polifilo, e il tempo d’altronde manca: il
libro resta ad uno stadio incompleto, come un piccolo Golem di vocaboli, un esperimento che non è
giunto al suo termine, un brogliaccio raffinato capace di accompagnare fedelmente l’esistenza
travagliata di un uomo, mentre le biblioteche dei codici medioevali e quattrocenteschi iniziano a
riversarsi nelle tipografie moderne.

Discontinuità di un’epoca e di una famiglia

I tentativi di precisare con esattezza la data limite di stesura dell’Hypnerotomachia hanno sempre
incontrato gravi difficoltà. Secondo Pozzi, l’espressione molorchia clava, riferibile ad un episodio
mitologico minore in cui Molorco presta la sua clava ad Ercole per uccidere il leone nemeo,
dimostrerebbe che lo pseudo-Colonna ultimò il romanzo pochissimo tempo prima della sua stampa,
poiché solo un codice di commenti all’Aratea di Germanico, scoperto da Manuzio e amici in Sicilia
nel 1499, recherebbe questa rara notizia. Si tratta però di un’affermazione difficilmente sostenibile:
il dettaglio può essere apparso anche altrove, e non è comunque escluso che i curatori del Polifilo
intervenissero fino all’ultimo su alcuni passi dell’opera allo scopo di impreziosire ulteriormente il
già sovrabbondante tessuto di citazioni. Questa problematica, tuttavia, ci introduce alla ben più
importante questione che riguarda l’intervallo fra la morte di Giovanni e la celebre edizione del
libro. Sono cinque lunghi anni in cui vengono prese due importanti decisioni: rendere pubblico il
Sogno e conservare un assoluto anonimato in relazione al suo estensore.

Pico, Poliziano, Lorenzo sono scomparsi; Savonarola è stato suppliziato, Ficino muore proprio nel
1499. Senza bisogno di invocare complotti o di allestire macchinose ricostruzioni, si può affermare
senza timore di smentite che un’epoca intera termina nell’ultimo decennio del secolo, lasciando
campo aperto all’età della Riforma e della Controriforma. Scrive Ioan Couliano: ‘‘La cultura del
Rinascimento era una cultura del fantastico. Concedeva un enorme peso ai fantasmi prodotti dalla
sensibiltà interiore, e aveva sviluppato fino all’estremo la capacità umana di operare attivamente
sopra e mediante questi fantasmi, creando un’intera dialettica dell’eros... In sostanza, la Riforma
produsse una censura radicale dell’immaginario, trattando i fantasmi alla stregua di idoli prodotti
dalla sensibilità interiore...’’ Così, quell’apoteosi della fantasia in cui l’Hypnerotomachia si risolve
diviene altra cosa rispetto alla prima intenzione del suo ideatore. Costruito come una ricerca
appassionata dell’anima celeste, il Polifilo si trasforma nel testamento di una confraternita
misteriosa e inesistente, poiché le sue premesse letterarie e dottrinali non appartengono più
all’orizzonte spirituale del periodo in cui il testo viene effettivamente alla luce. Lo scrittore
scompare dunque in due diversi modi, benché risorga immediatamente sotto mentite spoglie. Dal
canto suo, il racconto conoscerà un destino di continuo fraintendimento, come spesso accade
quando un brutale richiamo all’ordine interrompe il libero vagare della mente, lasciando dietro di sé
un rimpianto inconscio. Interpretato di volta in volta come l’allucinazione di un bizzarro frate o il
resoconto a chiave di una ricerca alchemica, il volume edito da Aldo sarà glorificato a sproposito
per le illustrazioni che lo accompagnano, frettolosamente attribuite a sommi artisti del Quattrocento,
quali Mantegna, Leonardo e Bellini.

In realtà, se si vuole comprendere appieno il momento di cesura che separa la grande stagione del
neo-platonismo fiorentino dalla travagliata crisi in cui lo spirito dell’umanesimo troverà la sua fine,
occorrerà consultare l’illuminante saggio di Stanley Meltzoff intitolato Botticelli, Signorelli and
Savonarola. Qui, attraverso l’analisi di un quadro - la Calunnia di Apelle di Sandro Botticelli - si
esplorano le ragioni e le modalità di una catastrofe, che vide l’universo cristiano e pagano del
Poliziano, del Ficino e del Magnifico soccombere di fronte all’incisiva e ossessiva predicazione di
Savonarola. Secondo lo studioso, la Calunnia conterrebbe appunto un accorato monito rivolto da un
gruppo di ingegni al giovane Piero de’ Medici, il figlio dello scomparso Lorenzo: non presti ascolto
alle parole del domenicano, la cui voce tende ad annullare ogni altra e a provocare la rovina di
Firenze. In tal senso, pur con tutte le precauzioni del caso, sarebbe possibile tracciare un parallelo
fra la Calunnia medesima e l’Hypnerotomachia, ambedue opere-limite, ricche di citazioni,
struggenti e perdenti. Certo, anche in questo caso il ruolo di Giovanni rimane ambiguo, poiché
senza dubbio egli vide in Girolamo un possibile alleato, un utile avversario del malcostume
ecclesiastico, un’intelligenza eccellente e determinata.

Probabilmente non sapremo mai quali fossero i loro veri rapporti nel cruciale 1494. Desta
comunque profonda impressione rileggere il testo della Lamia, la prolusione di Poliziano ai propri
corsi del 1492-93: la difesa appassionata della filosofia e l’attacco rivolto contro le streghe, le lamie
appunto, in cui si ravvisano facilmente i detrattori dell’aureo tempo mediceo, costituiscono la
disperata replica all’Apologeticus de ratione poeticae artis, redatto dal frate nel 1491. Fu questo un
devastante tentativo di radere al suolo la Theologia Poetica quattrocentesca, scagliando l’anatema
contro i suoi seguaci: ‘‘Hanno abbandonato la semplicità dei testi sacri e, alterando la parola di Dio,
hanno coperto le pagine di oscurità pretenziose e di vani artifici... Volendo apparire come difensori
della fede sono divenuti lupi che attaccano il popolo di Dio... I poeti sono mentitori e fabbricano
menzogne... Raccontano favole sugli dei e sugli uomini, piene di passioni e di unioni assurde ed
empie... Ma che fanno i nostri principi? Perché non promulgano una legge in cui si ordini che non
solo questi poeti siano esiliati dalle città ma che i loro libri e quelli degli antichi, che parlano
dell’arte d’amare, delle cortigiane, degli idoli e dell’infetta e abbietta superstizione dei demoni,
siano bruciati con il fuoco fino ad essere soltanto cenere?’’ Ecco il livore rabbioso a cui allude la
prefazione del Polifilo (ben replicato nel campo opposto dall’acrimonia dei teologi romani), ecco la
ragione dei misteri e, forse, della paradossale attribuzione ad un frate domenicano di un incunabolo
che sembra corrispondere perfettamente alle peggiori ansie di Girolamo.

Destino e arte vollero che fosse semplicemente impossibile dare un nome all’autore, anche dopo il
rogo in cui furono le carni del ferrarese a bruciare, invece dei libri così aspramente maledetti. Mille
ragioni lo impedivano: fra queste la più ovvia riguarda il ruolo di Gian Francesco Pico, curatore
dell’Opera dello zio, ardente seguace di Savonarola e in ottime relazioni con Aldo, che stampò nel
1501 il suo De Imaginatione dopo avergli dedicato nel 1498 la Grammatica Greca di Urbano di
Belluno, usando accortamente queste frasi: ‘‘Poiché pensavo da gran tempo, o Giovan Francesco
Pico, di pubblicare sotto il tuo nome qualcuno tra i libri che si stampano per nostra cura, sia per
manifestare l’affetto, la venerazione, il rispetto grande che nutro per te - fin da quando eri fanciullo
ti avevo caro per l’eccellenza del tuo carattere, e ora divenuto adulto per la tua dottrina e purezza di
costumi - sia perché tuo zio paterno era il mio caro Pico - proprio quel Pico, voglio dire, che tutti
chiamavano la Fenice per la sua eccezionale erudizione - mi è parso bene incominciare a farlo con
queste ottime istituzioni di lingua greca...’’

Ma le Fenici sono abituate a rinascere, anche se la distruzione che devono affrontare è immensa. Al
contrario, la vita di Gian Francesco, uomo dotato di mente acuta e di intelletto saldo, è testimone di
quanto le vicissitudini storiche influiscano sull’evoluzione filosofica e letteraria dei singoli
individui. Quando egli nacque nel 1469 da Galeotto Pico e Bianca Maria d’Este, pochi avrebbero
indovinato la sua triste fine. Venne infatti assassinato nel 1533 da un nipote, un altro Galeotto, che
per questo crimine scontò un lungo esilio in Francia; a causa di uno dei conflitti dinastici così
frequenti nell’Italia delle Signorie, costui lo uccise crudelmente insieme al figlio, mentre pregava
dinanzi ad un altare.

Autorevole pensatore a sua volta, Gian Francesco si distinse per uno scetticismo che ad alcuni è
sembrato stretto parente dello spirito critico su cui si innesta la scienza moderna. In verità, tale
scetticismo ben si conciliava con una professione di fede savonaroliana, poiché implicava il rifiuto
della saggezza pagana come guida dell’anima verso il sacro. Fervido ammiratore dello zio, di cui
ultimò una biografia assai lacunosa, si allontanò in sostanza da tutti i suoi insegnamenti, scrivendo
testi che confutavano con asprezza la filosofia antica. Non mancò tuttavia in lui una buona dose di
stimolante ambiguità, che lo portò a interessarsi della fabbricazione dell’oro alchemico o a
disquisire brillantemente in merito a quella facoltà umana, la fantasia, a cui frate Girolamo guardava
con sprezzante sospetto e collera mal celata.

Ma l’episodio più oscuro della sua esistenza risale al 1523, quando venne perseguitata e distrutta
una presunta congrega di streghe che avrebbe tramato nel territorio di Mirandola, officiando una
festa rituale chiamata dal popolo Gioco della Donna. Non solo Gian Francesco permise,
affiancando l’inquisitore Gerolamo Armellini, che queste povere donne venissero processate,
condannate e in parte giustiziate insieme a numerosi ‘stregoni’, contro il parere dello stesso
marchese di Mantova (dieci furono le vittime). Egli si assunse anche il compito di giustificare
intellettualmente l’accaduto scrivendo un libello, la Strix, tradotto in italiano dal suo amico e
collaboratore Leandro Alberti, il domenicano a cui, come sappiamo, si deve una delle primissime
notizie riguardanti il legame tra Francesco Colonna e l’Hypnerotomachia. Desiderando trasferire di
latino in volgare questa molto laudevole et eccellente Operetta, il frate la intitolò Libro detto Strega
o delle Illusioni del Demonio. Il saggio, redatto in forma di dialogo, intende provare in modo
incontrovertibile la realtà e la natura demoniaca delle streghe: ‘‘Ti ho infatti dimostrato che gli
unguenti, le parole magiche, le dissolutezze, gli amplessi lascivi dei Demoni erano cose note nei
tempi passati come oggi, e che essi fin dall’inizio del mondo calunniarono gli uomini, li
schernirono, li ingannarono apparendo loro famigliari, usando immagini e simulacri...’’

Queste frasi rivelano il radicale cambiamento di costume che si era prodotto nel volgere di pochi
decenni: l’immagine era ormai divenuta un simulacro, uno strumento diabolico, e il desiderio di
indagare con occhio cristallino il mondo si era trasformato nell’idea che ogni apparenza fosse
nefanda e menzognera. I nemici di Poliziano, da lui chiamati lamie ovvero vampiri, avevano
conseguito una vittoria completa e rappresentavano ormai una parte importante dell’establishment
culturale. Per curioso contrappasso, però, sembravano condannati a vedere dovunque l’azione del
male, costretti ad accanirsi contro la natura, contro il corpo della donna, contro le passioni.
D’altronde, già nel 1501 Gian Francesco aveva stigmatizzato la pubblicazione a Bologna della Vita
di Apollonio di Tiana di Filostrato a cura di Filippo Beroaldo, poiché opponeva la figura di Cristo ai
presunti prodigi di un neo-pitagorico, un volgare mago. Manuzio, che editò l’opera nello stesso
periodo, fu costretto a premettere una bugiarda lettera di scuse. Oltre alle consuete difficoltà degli
stampatori, l’episodio documenta il crollo di un precario equilibrio, costruito da un piccolo gruppo
di persone sul finire del secolo precedente. Essi avevano sposato per un attimo l’immaginazione alla
fede, la bellezza all’ardore religioso, la dottrina alla saggezza, sognando di diffondere i più
importanti testi dell’antichità e gli studi che a questi si ispiravano. Purtroppo, non era più possibile
propagandare esplicitamente il progetto. Così, l’Hypnerotomachia continuò a svettare anonima nel
cuore del catalogo aldino, separata e presente.

Da Alberto Pio a Luisa di Savoia

Chi dunque, oltre lo stesso Manuzio, può aver favorito l’ultimo esito dell’avventura polifiliana,
restando ovviamente nell’ombra? L’anello mancante è con tutta probabilità da identificare in
Alberto Pio, il principe di Carpi che aveva protetto e aiutato Aldo, dopo essere stato suo alunno.
Come abbiamo ricordato altrove, l’idea di fondare una moderna stamperia in cui confluissero il
sapere degli umanisti e l’abilità di alcuni raffinati artigiani era nata ai tempi del soggiorno dello
stesso Aldo nella cittadina emiliana, là dove l’impresa avrebbe dovuto sorgere, se le incessanti lotte
fra Alberto e i suoi cugini non avessero reso precaria quella base padana; d’altronde, ne è una prova
indiretta l’affermarsi in loco di una tradizione tipografica e di una magnifica produzione xilografica,
in cui eccelle il genio di Ugo da Carpi. Alberto III Pio (1475-1531) è una figura di mecenate e di
intellettuale assai complessa, in certo modo emblematica dell’Italia rinascimentale minore.
Versatissimo in filosofia e in teologia, era imparentato con molte nobili stirpi settentrionali, fra cui
citiamo almeno i Gonzaga e gli Este; sua cugina, la colta Emilia del Cortegiano, divenne sposa di
Antonio di Montefeltro, fratellastro del Guidobaldo a cui l’Hypnerotomachia è dedicata. Fu nipote
per parte di madre di Giovanni Pico della Mirandola, un legame che si sovrappose alla comune
origine dei Pico e dei Pio. Uomo di intelligenza acuta ma tormentata, spese gran parte della propria
vita in un’intricata battaglia diplomatica volta a garantirsi un dominio solido sulle terre natali.
L’inimicizia dei parenti gli impedì di raggiungere completamente tale obbiettivo, e lo costrinse
infine a morire all’estero, presso la corte di Francia. Egli riuscì comunque a trascorrere diversi anni
come legittimo signore insediato nella sua Carpi, compiendo radicali riforme urbanistiche e
arricchendo le decorazioni del magnifico castello ricevuto in dono dagli avi, grazie ai cicli di
affreschi di Bernardino Loschi e Giovanni del Sega, oltre alle opere di molti altri importanti artisti.
Chi percorra oggi le sale, recentemente restaurate, avrà la sensazione di trovarsi di fronte a una
replica meno splendida degli ambienti mantovani di Francesco Gonzaga e di Isabella d’Este. Ma
Alberto si mosse entro un orizzonte addirittura più vasto, come è documentato dalla sua copiosa
corrispondenza. Facendo di necessità virtù, trascorse la sua esistenza intessendo relazioni di
altissimo livello, tra la Francia, l’Impero, la Chiesa e le signorie italiane, diventando quasi un
ministro degli esteri senza patria, abile nel doppio gioco, veloce nel cambiare indirizzo e punti di
riferimento.

Non abbiamo qui il tempo per descrivere la fittissima ragnatela di alleanze che un principe a suo
modo disperato si dedicò a comporre, deviando le proprie inclinazioni di straordinario umanista.
Basterà rammentare la predilezione per i colori transalpini, motivata anche da una bizzarra
circostanza: nel 1450, dopo uno spericolato mutamento di alleanze compiuto da Alberto II, nonno
del nostro, la famiglia intera aveva ottenuto dai Savoia il privilegio di fregiarsi del prestigioso
cognome. Occorrerà inoltre notare il suo atteggiamento filo-mediceo, dimostrato nel 1494 e
oggettivamente rafforzato dall’essere il secondo marito della madre, Rodolfo Gonzaga, uno dei
capitani anti-francesi nella battaglia di Fornovo, in cui troverà la morte (1495). Tuttavia, Alberto
intratterrà ottimi rapporti con i Valois, grazie anche alla mediazione di Gilberto di Montpensier,
marito di Chiara Gonzaga: suo capolavoro politico fu ad esempio la conciliazione del 1508 fra
Massimiliano d’Asburgo e Luigi XII. Ma la predilezione per i Medici viene confermata dalla lunga
amicizia con Giovanni, secondo figlio del Magnifico, salito nel 1513 al soglio papale con il nome di
Leone X. Certo, fu praticamente impossibile per Alberto destreggiarsi senza danni fra Carlo V e
Francesco I, nonostante quell’astuzia innata che portò un diplomatico spagnolo ad esclamare: ‘‘Il
Carpi è un diavolo, sa tutto e si mescola a tutto, l’imperatore dovrebbe gudagnarselo o annientarlo’’
(Lope Hirtado Mendoza). La rovina finale dell’Italia coincise con la disfatta del principe letterato:
all’epoca del Sacco di Roma (1527) Carpi venne definitivamente perduta, e iniziò per lui il lungo
esilio di Parigi, dove ancor oggi si può ammirare il suo monumento funebre, conservato nel Museo
del Louvre e attribuito a Rosso Fiorentino.

Tornando ora alla formazione intellettuale del nipote di Giovanni Pico, è opportuno sottolineare la
sua amicizia con Ariosto, Bembo e Poliziano, le relazioni con uomini di vaglia quali Pomponazzi e
Sepúlveda, la polemica anti-erasmiana degli ultimi anni, la costruzione di una grande biblioteca in
cui erano accolti Aristotele, Platone, Plutarco, Orapollo, Tolomeo, Archimede, Ippocrate, Euclide,
oltre a testi ebraici, medioevali, latini. I suoi interessi culturali e il pensiero che da questi deriva
sono suscettibili di molti approfondimenti, poiché Alberto era una personalità problematica che
univa alla passione per la tradizione classica una sensibilità religiosa estremamente viva, con una
particolare accentuazione di certa dottrina eucaristica. Numerose sono le prefazioni che Manuzio gli
dedicò, e fondamentale risultò il suo apporto per la creazione a Venezia dell’Accademia Aldina;
tanto intenso fu il legame fra i due che Aldo ebbe in dono dal compagno fraterno il cognome Pio, e
si firmo così Aldo Pio di Carpi, manifestando anche il desiderio d’essere sepolto nella città padana.

Si può affermare con sicurezza che il Signore emiliano seguì un percorso simile a quello dell’amato
zio Giovanni, accanto al cui letto di morte sedeva, coniugando con originalità e in tempi ancora più
difficili la fede in Dio e la fede nell’uomo. L’emblema scolpito sopra una sua medaglia ne sintetizza
il carattere: qui appare un’ara antica recante la scritta UNI, all’unico, sormontata da un ariete
sacrificale in fiamme. Nell’ultimo decennio del quattrocento è quindi da supporre una sua adesione
al programma fiorentino della Theologia Poetica, che ben si concilierebbe con un impegno rivolto
alla cura dell’Hypnerotomachia.

Abbiamo una traccia puntuale del suo interesse in merito. Nel grande cortile del Palazzo di Carpi,
un elegante porticato (1509-1523) offre allo spettatore una rassegna di mensole e capitelli che
ospitano le imprese del Principe. Fra loro, alcune sono davvero significative per il nostro studio.
Una remora avvinghiata ad una freccia e un’ancora con le iniziali A. P. si ispirano evidentemente al
celebre marchio di Manuzio, l’ancora con il delfino, usato a partire dal 1502, che a sua volta giunge
direttamente dalle pagine del Polifilo, per l’esattezza dal recto del foglio d7. Si tratta dell’immagine
commentata dal motto Semper festina tarde, affrettati sempre lentamente, un monito rivolto agli
intellettuali affinché non compiano passi imprudenti ma camminino spediti e sicuri verso la loro
meta, e contemporaneamente un ironico invito allo stampatore medesimo che, come sempre
avviene, sembra in ritardo rispetto alle scadenze stabilite. Lunga è la storia di questa impresa, a
partire dal motto, particolarmente gradito ad Augusto imperatore. L’ancora (la lentezza) e il delfino
(la velocità) apparvero poi in alcune monete di Tito e Domiziano, ma vengono citati, insieme al loro
significato, nella fondamentale lettera di Manuzio ad Alberto del 14 ottobre 1499. Qui appunto
Aldo prende l’emblema a sua difesa: Nam et dedimus multa cunctando et damus assidue. Nel 1508
proprio Erasmo racconterà negli Adagia come Aldo gli avesse mostrato una moneta d’argento
romana donatagli dal Bembo, con i simboli accompagnati dalla scritta in greco. Dettaglio
essenziale, Erasmo interpreta l’ancora e il delfino alla stregua di caratteri geroglifici, esattamente
nello spirito dell’Hypnerotomachia. Come osserva Pozzi, tale episodio smentisce recisamente chi
ritiene che Aldo sia rimasto del tutto estraneo alla preparazione del Sogno di Polifilo. Tale episodio,
aggiungiamo noi, unito alla lettera del 1499 e alle decorazioni carpigiane, dimostra anche un
intervento da parte di Alberto Pio. La remora (lentezza) e la freccia (rapidità) rappresentano infatti
la trasformazione invertita dell’immagine originaria, e l’ancora polifiliana reca addirittura la cifra
del nostro. Ma c’è dell’altro: una diversa xilografia del Polifilo presenta una tartaruga in mano a una
donna che tiene nella destra un paio di ali. L’enigma viene svelato dalla frase Velocitatem sedendo,
tarditatem tempera surgendo (modera la velocità sedendo, modera la lentezza alzandoti), che di
nuovo allude all’equilibrio fra opposti ritmi. Così, un’altra mensola del palazzo evidenza un paio
d’ali che sorreggono una corda attorcigliata, chiaro richiamo all’esigenza di contemperare gli
estremi, il desiderio di alzarsi in volo e la capacità di risolvere il difficile intreccio dell’intelletto e
della vita.

Questo gruppo di simboli ci dà modo di compiere un ulteriore passo. Le ali e il nodo erano una
peculiare divisa di Luisa di Savoia (1476-1531), madre di Francesco I re di Francia e di Margherita
di Navarra, l’autrice dell’Heptameron. Luisa fu una donna intelligentissima e scaltra: figlia di
Filippo di Bresse, detto Senza Terra, riuscì a farsi strada nella corte dei Valois grazie al matrimonio
di Luigi XI con la zia Carlotta e alla protezione di Anna, sorella di Carlo VIII e reggente dello stato
per qualche tempo. Accolta nel castello di Amboise, in cui lavorarono più tardi gli architetti
Domenico di Cortona e Fra’ Giocondo, andò sposa giovanissima (1488) a Carlo
d’Orleans,appartenente a un ramo cadetto della famiglia reale. Alla morte del marito, un simpatico
libertino, tentò con ogni mezzo di promuovere le sorti del piccolo Francesco, nato nel 1494. Riuscì
infine nell’intento, poiché egli salì al trono nel 1515, approfittando delle nozze con Claudia, figlia di
Luigi XII, rimasta senza fratelli. Luisa fu sempre amica dell’Italia, scegliendo di vivere insieme alla
prole nella dimora di Amboise, dove l’arte italiana era di casa; ma le sue relazioni non furono
soltanto intellettuali, se è vero che la sorella Filiberta sposò Giuliano de’ Medici, figlio del
Magnifico. Un episodio assai interessante, a lei indirettamente collegato, ci può essere d’aiuto per
comprendere gli avvenimenti successivi.

Alla fine del 1487, Giovanni Pico della Mirandola era fuggito in Francia per evitare l’arresto dopo
la condanna papale delle sue Conclusiones. Questo viaggio avventuroso è ricco di ombre e di eventi
non spiegati: nel Delfinato, il giovane venne raggiunto proprio dagli uomini di Filippo di Bresse.
Iniziò allora uno strano balletto di ordini e di contrordini, da cui si può desumere che i governanti
transalpini cercarono con ogni mezzo di soccorrere Pico, intralciando i messi pontifici che lo
accusavano di eresia. Ludovico Sforza e Gilbert de Montpensier perorarono appassionatamente la
sua causa di fronte al re. Così, quando Filippo e Giovanni arrivarono a Parigi nel febbraio del 1487,
il filosofo fu imprigionato a Vincennes, ma gli inviati del Papa non riuscirono a impadronirsi di lui.
Essi accusarono addirittura il cancelliere del Senza Terra di aver provocato a bella posta una serie di
malintesi. In realtà, Giovanni si sentiva molto più sicuro nella capitale francese, e temeva di
ritornare in Italia e a Roma. Quando i messi furono costretti a partire, pressati dall’urgenza di altri
affari, la questione si sbloccò velocemente: il Conte di Concordia fu condotto ai confini del regno
nella prima settimana di marzo. Passando dalla Savoia, arrivò a Torino recuperando rapidamente la
protezione del Magnifico. Innocenzo VIII era stato beffato, e in queste schermaglie Filippo di
Bresse aveva giocato un ruolo importante.

Non sappiamo se la figlia del Savoia avesse in tale circostanza conosciuto la Fenice degli Ingegni.
Certo, è impressionante il numero di riferimenti al Polifilo che, a partire dal primo decennio del
Cinquecento, caratterizza la produzione letteraria rivolta alla cosiddetta Dame Prudence. Qui si
manifesta il medesimo gusto enigmistico che pervade le pagine dell’edizione aldina. Il canonico
François Demoulins, precettore del piccolo Francesco, compone nel 1505 ad Amboise un trattato
sulla follia del gioco e lo dedica a Luisa; fra le illustrazioni troviamo una Calunnia d’Apelle
modificata, che ammonisce il lettore a seguire le Virtù, riunite alla corte di Prudenza. Ancor più
significativo è un altro manoscritto dello stesso autore, il Fr. 12247, databile intorno al 1509, in cui
appare un acrostico con il nome LOISE; molte immagini, dipinte da Robinet Testard, sono
chiaramente derivate dall’Hypnerotomachia. Evidentemente, un esemplare del libro era giunto assai
presto ad Amboise; dal castello partì la diffusione dell’opera negli ambienti aristocratici francesi,
che in breve trasformarono la prosa polifiliana in un vero e proprio mito. Da Ian Martin a Jacques
Gohory, a Béroalde de Verville (... vi chiarirò parte dell’intendimento dell’Autore... Egli era
Filosofo speculativo e un Intelletto trascendente e ricco di bellissime fantasie...), si compie nel
corso del sedicesimo secolo un processo di assimilazione del romanzo, inteso come un saggio di
sapienza universale dalle forti risonanze alchemiche. Né si può dimenticare l’incontro ideale fra lo
pseudo-Colonna e François Rabelais, che utilizza al limite del plagio molte descrizioni contenute
nel testo d’oltralpe per abbellire il suo Gargantua e Pantagruel.

Tornando a Demoulins, già la prima miniatura del manoscritto sulle Virtù Cardinali mostra una
combinazione di simboli tratti dal Sogno: ammiriamo François mentre verga la sua opera, in
equilibrio instabile sopra un globo adorno di ali (vedi il foglio e5 r del Polifilo), che a sua volta è
l’albero di una navicella avvinta al terreno grazie ad un’ancora a cui si stringe un delfino.
Proseguendo, scopriamo la Prudenza, raffigurata con i tratti somatici di Luisa di Savoia, che tiene
da un lato un compasso e dall’altro un medaglione, esatta replica della xilografia del foglio p6 r del
Polifilo, accompagnata dalla scritta Iustitia recta amicitia et odio evaginata et nuda, et ponderata
liberalitas regnum firmiter servat. Molte altre sono le allusioni agli enigmi aldini: citiamo ad
esempio il mausoleo costruito da Artemisia per Mausolo (r4 r), che diviene nelle carte francesi il
baldacchino su cui siede la Temperanza. Interessante è anche l’immagine in cui la Cautela
smaschera un monaco, sul cui petto svela le parole 100.000 trudaynes, centomila inganni.

Il precettore di Francesco aveva certamente un valido motivo per trasformare le peripezie amorose
dell’Hypnerotomachia in una serie di quadretti morali destinati a istruire i giovanetti che gli erano
stati affidati, presentando contemporaneamente Luisa come l’esperta nutrice che in effetti fu, donna
solitaria attraverso cui passarono le sorti di una nazione intera. In realtà, la signora di Savoia volle
adottare l’impresa dell’ancora e del delfino. In un manoscritto più tardo, Demoulins immagina che
ella esclami, rivolta al figlio: ‘‘Mio signore, mio difensore, mio riposo, mio desiderio, mio maestro,
mio figlio e mio amico, festina lente...’’ Non possiamo addentrarci nel complesso mondo della corte
di Francia, dei suoi miti dinastici e dell’ossessione di Francesco I per alcuni motti-chiave. Ci basterà
osservare come le ali polifiliane (ail in lingua francese risulta omofona alla lettera L) divengano per
Luisa un emblema prediletto, completato dal classico nodo della tradizione sabauda, esattamente
come vediamo nel palazzo di Carpi. Nel Libellus Enigmatum del solito Demoulins scopriamo
inoltre tre cuori uniti alle scritte Unum immotum, Unum fixum, Unum continuum. Queste frasi,
associate alla frequenza con la quale si presentano fiamme e are sacrificali nella storia dei Borbone
e dei Valois, ci ricordano infallibilmente la medaglia di Alberto Pio.

Sembra dunque che, al di là della lunga permanenza a Parigi di Alberto e di Galeotto Pico junior, un
misterioso filo colleghi personaggi fra loro assai lontani. Questo filo corrisponde al libro pubblicato
nel 1499, di autore sconosciuto, e tuttavia rapidamente apprezzato in terra transalpina. Come un
sasso che sprofonda nell’acqua creando cerchi concentrici, l’eco di un ingegno perduto produce
effetti notevoli e singolari. Nella XIX novella dell’Heptameron di Margherita di Navarra, un
gentiluomo e una damigella di nome Poline vivono una grande e infelice passione presso i Gonzaga,
al tempo di Isabella d’Este. Entrambi, vista l’impossibilità di un matrimonio, decidono di entrare in
convento, separandosi ma restando simmetrici nel desiderio sovrumano. Il racconto viene
commentato da una bella canzone, i cui versi conclusivi suonano: ‘‘Vieni dunque, amica mia, / non
tardare / a seguire il tuo più caro amico. / Non temere se vestirai / l’abito di cenere, fuggendo / da
questo mondo nemico. / Perché, per l’amicizia forte e viva, / da questa cenere sorgerà di nuovo /
una Fenice eterna. / Così come al mondo apparve / pura e monda la nostra perfetta intesa, / così
chiusi nel chiostro / potrà sembrare ancor più vera. / Perché l’amore sincero e saldo, / che non
conosce mai morte né fine, / diritto al cielo ci condurrà.’’

Si tratta di una curiosità, forse non attinente al nostro discorso. Eppure ci introduce all’ultimo
argomento, il riassunto dei sogni di uno scrittore nascosto.

Nodi non sciolti e conclusioni aperte

La tesi che abbiamo fin qui tentato di dimostrare non pretende d’essere immune da difetti o
debolezze. Tuttavia, poiché è evidente che il Polifilo è stato costruito come enigma, risulta assai
difficile avvicinarsi ulteriormente alla verità. Confutare il mito di frate Francesco Colonna è
relativamente agevole: basta affermare che il COLUMNA dell’acrostico non è un cognome ma la
parola colonna, all’ablativo o al nominativo. Compiuto tale mutamento di prospettiva, il castello di
congetture relative al domenicano crolla, sia che si voglia identificare Francesco in Francesco
Griffo, sia che gli si attribuisca valore di pseudonimo.

Sull’altro versante, non esistono ostacoli insuperabili che portino a negare la paternità di Pico della
Mirandola. Il suo soggiorno a Padova nel 1481 e nel 1482 può giustificare l’infatuazione per una
trevigiana, il neo-platonismo dimostrato nell’opera è ampiamente compatibile con il pensiero
‘fiorentino’ di Giovanni, l’accentuazione del tema del libero arbitrio, la presenza dell’arabo e
dell’ebraico, l’uso coerente di raffinate citazioni, l’esasperata attenzione nei confronti del
linguaggio, l’inflessione settentrionale, l’ampiezza universale degli interessi e l’ardente passionalità
sono tutti elementi che si adattano perfettamente alla sua figura. Perfino le misteriose date del 1462
e del 1467 (le uniche contenute nelle pagine aldine), pur non conciliandosi con una reale storia
d’amore, rivestono un’importanza oggettiva nel quadro della sua vita: l’una corrisponde all’anno
del concepimento, l’altra alla morte del padre, cioè al maggior dolore per la scomparsa di una
persona cara che egli abbia mai provato. Decisivi sono poi i rapporti con Manuzio, il peso
dell’anatema lanciato da Savonarola contro la tradizione antica, il ruolo di Alberto Pio in qualità di
intermediario, la concordanza fra gli autori della biblioteca del mirandolano e le fonti utilizzate
nell’Hypnerotomachia.

D’altronde, riteniamo che le prefazioni del volume abbiano senso, specialmente quando dichiarano
che il libro è stato privato del suo genitore e che il nome di costui non deve essere divulgato, a
causa di un minaccioso e rabbioso livore. Tralasciamo di ricordare molti altri particolari da noi già
esposti. Ripetiamo soltanto un punto fondamentale: non è credibile che un romanzo di tale mole
enciclopedica, di tale complessità e peculiarità sia il frutto di un personaggio secondario, ignoto
all’ambiente umanista del tempo, privo di relazioni con Aldo.

Ovviamente, molte obiezioni si possono ancora muovere. Ad esempio, qualcuno affermerà che la
qualità del Polifilo è scadente rispetto all’altezza intellettuale di Giovanni, e che le prolisse
descrizioni in cui il protagonista si perde mal si adattano alla sublime concisione e all’enorme
capacità di sintesi del filosofo. C’è indubbiamente qualcosa di fondato in questa osservazione. Ma
dobbiamo eliminare un doppio pregiudizio. Innanzitutto, l’Hypnerotomachia non è un prodotto
minore del Rinascimento. Se lo fosse, non si spiegherebbe la sua enorme fama, nonostante le gravi
difficoltà di lettura. In verità, ci troviamo di fronte al tentativo fallito di rinnovare la storia letteraria
italiana, allestendo un intreccio di nozioni in cui si intendeva raccogliere la sapienza di un’epoca.
Un giorno, forse, anche Finnegans Wake di Joyce verrà considerata come un vicolo cieco, una
pianta bizzarra, una strada impercorribile e sbarrata. Ma questo non toglie al testo irlandese il
fascino tipico di un’impresa estrema, concepita da uno dei più grandi scrittori del Novecento.

In secondo luogo, la mente di Pico era labirintica e ambigua. La sintesi e la concordia a cui egli
perviene non giungono per caso, ma rappresentano l’esito di un intricato cammino attraverso il
sapere del mondo. Giovanni non scrisse mai un libro simile all’altro, né per la forma, né per il
contenuto. Inoltre, egli era solito seguire percorsi divergenti, convinto che ogni contraddizione si
risolvesse nella più vasta bellezza celeste. Amava Lorenzo e amava Girolamo. Amava le donne e
amava la sapienza. Volle scuotere la Chiesa dalle fondamenta, pur dedicandosi a puntigliose analisi
dottrinali. Compose sonetti petrarcheschi, elegie erotiche, meditazioni ascetiche sui libri della
Bibbia. Redasse il proprio oroscopo in versi e confutò gli astrologi. Considerò gli arabi, gli ebrei,
Zoroastro e Orfeo come portatori di profonde verità. Si aggirò nei meandri della mitologia pagana,
come Botticelli e Poliziano. Biasimò la retorica, e ricamò ineguagliabili esercizi di stile. Si rifugiò
nella solitudine, ma conosceva i regnanti d’Europa. Non ebbe mai un padrone, poiché stimava che
la grandezza dell’uomo risiedesse nel libero arbitrio, la virtù camaleontica di riflettere l’universo,
interpretandolo e soffrendolo. Ebbe il massimo rispetto per gli antichi, ma cercò con ardore il
nuovo.

Rimane tuttavia molto lavoro da compiere. Occorre specialmente esaminare il periodo successivo
all’edizione aldina, e la ricezione di questa in Francia, a Padova e nelle corti padane. Sembrano
assai interessanti i legami con Mantova: qui viveva l’Equicola, qui Giambattista Pio aveva rapporti
con Isabella d’Este. Contro di loro si scaglia un anonimo, che nel Dialogus in lingua mariopionea
perfeziona una satira del latino concettoso. Nell’opuscolo Epistola eloquentissimi oratoris ac
poetae clarissimi D. Marii Aequicolae in sex linguis si compie poi un secondo sberleffo indirizzato
ai pensatori ‘alla Polifilo’, sottintendendo che tale moda era in voga presso gli intellettuali vicini ai
Gonzaga. Più in generale, andrebbe esplorato tutto un sottobosco di letterati minori, dediti
all’imitazione e all’amplificazione del modello maggiore.

Per concludere, riportiamo le parole con le quali Ficino descrisse in una lettera del 1488 il suo
giovane amico: ‘‘... il nostro Pico ha un vigore di fuoco e una celeste origine... I teologi han detto di
Saturno che è voracissimo, e Pico, nato da Saturno, divora quotidianamente interi grossi volumi,
così come quel Saturno divora i figli; però Pico non fa questo per ridurli in cenere, come il fuoco
comune, bensì per ridurli in luce, come fa il fuoco celeste.’’ Il medesimo Giovanni confidò nel
1492 al nipote Gian Francesco: ‘‘Vorrei dirti nel più assoluto segreto: terminati alcuni lavori,
distribuirò ai poveri i beni e, munito del Crocefisso, andando pellegrino a piedi scalzi nel mondo,
predicherò Cristo attraverso paesi e città.’’ Questa dichiarazione fece supporre la sua futura
adesione all’ordine francescano: di Francesco d’Assisi egli citava spesso il motto L’uomo tanto sa
quanto opera.

Così, ci si dimentica spesso che il Sogno di Polifilo è la rievocazione di una perdita senza fine. Solo
una mente profonda è in grado di ritrarre il dolore e il fallimento con mano ancora ferma,
confidando nel valore assoluto del ricordo, specchio in cui si rivede il cielo.

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