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DEPARTAMENTO DE LENGUAS MODERNAS

ITALIANO
NIVEL MEDIO

Autoras: Claudia Fernández Speier y Yamila Rossi


Año académico 2020

1
2
PRIMA SEZIONE
Testi e attività didattiche

3
4
1

Michele Serra, Morire armi in pugno («Repubblica», 20 marzo 2020)

Gli americani in coda davanti alle armerie sono l’immagine peggiore della
catastrofe, il dettaglio deprimente che si vorrebbe non vedere, peggio del
dolore c’è solo lo squallore. E peggio del day after c’è il day before, cioè loro
5 adesso. Gli americani hanno visto troppi film americani. Credono che, se
tracollasse la civiltà (parola grossa, se rapportata a quelle code di pistoleros
sovrappeso) si tornerebbe a una preistoria ferina, una specie di sestern
universale nel quale ci si accoppa per il controllo dei barbecue. Non
conoscendo altro parametro se non l’individuo, possibilmente armato, non
10 immaginano che possano esistere una società, una mutualità, dei sistemi di
supporto reciproco che potrebbero sopravvivere alla catastrofe e rendere
il “dopo” meno anarchico e disperato. Se non hanno il Weltfare, è perché
non lo vogliono. Preferirebbero morire armi in pugno che vivere grazie
all’aiuto di qualcuno.

15 Vale la pena ricordare che il virus, negli Stati Uniti, difficilmente riuscirà ad
ammazzare tante persone quanto le armi di fuoco ogni anno, tutti gli anni:
circa quarantamila. Vale anche la pena ricordare che, secondo notizie non
smentite, il loro presidente avrebbe offerto un miliardo di dollari a
un’industria farmaceutica tedesca per comperare «in exclusiva per
20 l’America» il vaccino non appena sarà pronto. America first. Pare che il
governo tedesco abbia fatto sapere che la sola idea è ributtante. E lo è: ma
è perfettamente in linea con le code davanti alle armerie. La sola cosa che
ci consola è sapere che anche molti americani si vergnognano di quelle code
e di quel presidente. Ma sono quelli che hanno perduto le ultime elezioni.

1. Dopo aver letto il testo, rispondi alle seguenti domande senza usare il
dizionario:
a. A quale evento della cronaca recente si riferisce il testo? Chi sono “gli
americani”?
b. Quale giudizio di valore c’è sullo stato e sull’individuo? Di quale
ideologia credi che sia l’autore dell’articolo? Dopo aver fatto le tue
ipotesi, controlla su Internet.
c. Nelle ultime due frasi (r. 22-24), l’autore esprime un sentimento nei
confronti del fatti commentati; quale ti sembra il piú coerente con il
testo?

5
- consolazione
- speranza
- sconforto

2. Traduci le seguenti frasi:


a. peggio del dolore c’è solo lo squallore (r. 4)
b. per comperare «in exclusiva per l’America» il vaccino non appena
sarà pronto (r. 19-20)

3. Lavora con dei compagni: formate gruppi il piú possibile eterogenei


(diverso corso di laurea, diverso insegnante avuto nel livello elementare),
e mettete i seguenti connettori nel quadro di pag. 121. Ne ricordate altri?
In quale contesto li avete visti? Metteteli in matita nello stesso quadro, e
poi controllate insieme alla classe, con la guida dell’insegnante.
a. cioè (r. 5)
b. ma (r. 21, r. 24)

4. Sempre in gruppo, identificate e traducete un periodo ipotetico.


5. Sottolineate i verbi che sono in modo condizionale, e spiegate che
funzione svolgono.
6. Senza usare il dizionario, provate a dedurre il senso della parola ributtante
(r. 21) guidandovi dal contesto; confrontate con la classe, e controllate
infine con l’insegnante.
7. Insieme all’insegnante, osservate le seguenti forme, che compariranno
anche in altri testi:
a. ci si accoppa (r. 8)
b. Non conoscendo altro parametro se non l’individuo (r. 9)

6
2
Prima di leggere il testo che segue, condividi con la classe quello che sai su
Giorgio Agamben. Cercate anche di ricordare qual era la situazione della
pandemia in Italia nella data dell’articolo.

Ora sí, leggi l’articolo con un tuo compagno o compagna, e poi risolvete le
attività proposte.

L’invenzione di un’epidemia

Giorgio Agamben, Una voce del 26 febbraio 2020 [Tratto da


https://www.quodlibet.it]

Di fronte alle frenetiche, irrazionali e del tutto immotivate misure di


emergenza per una supposta epidemia dovuta al virus corona, occorre partire
dalle dichiarazioni del CNR, secondo le quali non solo «non c’è un'epidemia
di SARS-CoV2 in Italia», ma comunque «l’infezione, dai dati
5 epidemiologici oggi disponibili su decine di migliaia di casi, causa sintomi
lievi/moderati (una specie di influenza) nell’80-90% dei casi. Nel 10-15%
può svilupparsi una polmonite, il cui decorso è però benigno in assoluta
maggioranza. Si calcola che solo il 4% dei pazienti richieda ricovero in
terapia intensiva».

10 Se questa è la situazione reale, perché i media e le autorità si adoperano per


diffondere un clima di panico, provocando un vero e proprio stato di
eccezione, con gravi limitazioni dei movimenti e una sospensione del
normale funzionamento delle condizioni di vita e di lavoro in intere regioni?

Due fattori possono concorrere a spiegare un comportamento così


15 sproporzionato. Innanzitutto si manifesta ancora una volta la tendenza
crescente a usare lo stato di eccezione come paradigma normale di governo.
Il decreto-legge subito approvato dal governo «per ragioni di igiene e di
sicurezza pubblica» si risolve infatti in una vera e propria militarizzazione
«dei comuni e delle aree nei quali risulta positiva almeno una persona per la
20 quale non si conosce la fonte di trasmissione o comunque nei quali vi è un
caso non riconducibile ad una persona proveniente da un’area già interessata
dal contagio di virus». Una formula così vaga e indeterminata permetterà di
estendere rapidamente lo stato di eccezione in tutte le regioni, poiché è quasi

7
impossibile che degli altri casi non si si verifichino altrove. Si considerino le
25 gravi limitazioni della libertà previste dal decreto: a) divieto di
allontanamento dal comune o dall’area interessata da parte di tutti gli
individui comunque presenti nel comune o nell’area; b) divieto di accesso al
comune o all’area interessata; c) sospensione di manifestazioni o iniziative
di qualsiasi natura, di eventi e di ogni forma di riunione in un luogo pubblico
30 o privato, anche di carattere culturale, ludico, sportivo e religioso, anche se
svolti in luoghi chiusi aperti al pubblico; d) sospensione dei servizi educativi
dell’infanzia e delle scuole di ogni ordine e grado, nonché della frequenza
delle attività scolastiche e di formazione superiore, salvo le attività formative
svolte a distanza; e) sospensione dei servizi di apertura al pubblico dei musei
35 e degli altri istituti e luoghi della cultura di cui all’articolo 101 del codice dei
beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004,
n. 42, nonché l’efficacia delle disposizioni regolamentari sull’accesso libero
e gratuito a tali istituti e luoghi; f) sospensione di ogni viaggio d’istruzione,
sia sul territorio nazionale sia estero; g) sospensione delle procedure
40 concorsuali e delle attività degli uffici pubblici, fatta salva l’erogazione dei
servizi essenziali e di pubblica utilità; h) applicazione della misura della
quarantena con sorveglianza attiva fra gli individui che hanno avuto contatti
stretti con casi confermati di malattia infettiva diffusa.

La sproporzione di fronte a quella che secondo il CNR è una normale


45 influenza, non molto dissimile da quelle ogni anno ricorrenti, salta agli occhi.
Si direbbe che esaurito il terrorismo come causa di provvedimenti
d’eccezione, l’invenzione di un’epidemia possa offrire il pretesto ideale per
ampliarli oltre ogni limite.

L’altro fattore, non meno inquietante, è lo stato di paura che in questi anni si
50 è evidentemente diffuso nelle coscienze degli individui e che si traduce in un
vero e proprio bisogno di stati di panico collettivo, al quale l’epidemia offre
ancora una volta il pretesto ideale. Così, in un perverso circolo vizioso, la
limitazione della libertà imposta dai governi viene accettata in nome di un
desiderio di sicurezza che è stato indotto dagli stessi governi che ora
55 intervengono per soddisfarlo.

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1. Indicate se le seguenti affermazioni sono vere o false. Nel caso siano
false, giustificate:
a. Agamben crede che l’epidemia sia di enorme gravità.
b. Agamben sostiene che i governi stiano usando la pandemia con fini
politici.
c. Agamben afferma che la pandemia è un atto di terrorismo.
d. Secondo Agamben, i governi inducono il panico per poi risolverlo
loro.

2. Osservate nel loro contesto i seguenti falsi amici, e metteteli nel quadro a pag.

121. Ne ricordate altri? Condivideteli con i vostri compagni, e aggiungeteli al


quadro.

a. occorrere (r. 2)

b. risultare (r. 19)

c. interessata (r. 21)

d. verificare (r. 24)

3. Sottolineate i connettori del testo, e provate a tradurre le frasi che li


contengono.

4. Riassumete in una frase, in spagnolo, l’ipotesi del testo.

5. Osservate, insieme all’insegnante, le voci passive presenti nell’ultima frase (r.


52-55).

9
3 Contagio Una voce dell’ 11 marzo 2020 [Tratto da
https://www.quodlibet.it]

Leggi il testo fino alla riga 34, e scrivi qua sotto le tre parole che ti sembrano
piú importanti:

.............................. ............................... ...............................

Confronta con il resto della classe.

Ora leggi il testo fino alla fine, e risolvi le attività proposte dopo.

L’untore! dagli! dagli! dagli all’untore!

Alessandro Manzoni, I promessi sposi

Una delle conseguenze più disumane del panico che si cerca con ogni
mezzo di diffondere in Italia in occasione della cosiddetta epidemia
del corona virus è nella stessa idea di contagio, che è alla base delle
5 eccezionali misure di emergenza adottate dal governo. L’idea, che era
estranea alla medicina ippocratica, ha il suo primo inconsapevole
precursore durante le pestilenze che fra il 1500 e il 1600 devastano
alcune città italiane. Si tratta della figura dell’untore, immortalata da
Manzoni tanto nel suo romanzo che nel saggio sulla Storia della
10 colonna infame. Una “grida” milanese per la peste del 1576 li
descrive in questo modo, invitando i cittadini a denunciarli:

«Essendo venuto a notizia del governatore che alcune persone con


fioco zelo di carità e per mettere terrore e spavento al popolo ed agli
abitatori di questa città di Milano, e per eccitarli a qualche tumulto,
15 vanno ungendo con onti, che dicono pestiferi e contagiosi, le porte e
i catenacci delle case e le cantonate delle contrade di detta città e altri
luoghi dello Stato, sotto pretesto di portare la peste al privato ed al
pubblico, dal che risultano molti inconvenienti, e non poca
alterazione tra le genti, maggiormente a quei che facilmente si
20 persuadono a credere tali cose, si fa intendere per parte sua a ciascuna
persona di qual si voglia qualità, stato, grado e conditione, che nel
termine di quaranta giorni metterà in chiaro la persona o persone
10
ch'hanno favorito, aiutato, o saputo di tale insolenza, se gli daranno
cinquecento scuti…»

25 Fatte le debite differenze, le recenti disposizioni (prese dal governo


con dei decreti che ci piacerebbe sperare – ma è un’illusione – che
non fossero confermati dal parlamento in leggi nei termini previsti)
trasformano di fatto ogni individuo in un potenziale untore,
esattamente come quelle sul terrorismo consideravano di fatto e di
30 diritto ogni cittadino come un terrorista in potenza. L’analogia è così
chiara che il potenziale untore che non si attiene alle prescrizioni è
punito con la prigione. Particolarmente invisa è la figura del portatore
sano o precoce, che contagia una molteplicità di individui senza che
ci si possa difendere da lui, come ci si poteva difendere dall’untore.
35
Ancora più tristi delle limitazioni delle libertà implicite nelle
disposizioni è, a mio avviso, la degenerazione dei rapporti fra gli
uomini che esse possono produrre. L’altro uomo, chiunque egli sia,
anche una persona cara, non dev’essere né avvicinato né toccato e
40 occorre anzi mettere fra noi e lui una distanza che secondo alcuni è
di un metro, ma secondo gli ultimi suggerimenti dei cosiddetti esperti
dovrebbe essere di 4,5 metri (interessanti quei cinquanta centimetri!).
Il nostro prossimo è stato abolito. È possibile, data l’inconsistenza
etica dei nostri governanti, che queste disposizioni siano dettate in
45 chi le ha prese dalla stessa paura che esse intendono provocare, ma è
difficile non pensare che la situazione che esse creano è esattamente
quella che chi ci governa ha più volte cercato di realizzare: che si
chiudano una buona volta le università e le scuole e si facciano lezioni
solo on line, che si smetta di riunirsi e di parlare per ragioni politiche
50 o culturali e ci si scambino soltanto messaggi digitali, che ovunque è
possibile le macchine sostituiscano ogni contatto – ogni contagio –
fra gli esseri umani.

Giorgio Agamben [Tratto da https://www.quodlibet.it]

1. Lavora con un piccolo gruppo di compagni (tre o quattro). Cercate nel


testo espressioni analoghe a queste:

11
a. anuncio; b. ajena; c. novela; d. ensayo; e. sin que uno pueda defenderse; f. más
de una vez.

2. Indicate il referente dei seguenti pronomi:


a. il suo (r. 6)
b. denunciarli (r. 11)
c. ci (r. 26)
d. quelle (r. 29)
e. esse (r. 38)
f. lui (r. 40)
g. le (r. 47)

3. Traducete le seguenti frasi:


a. in occasione della cosiddetta epidemia del corona virus è nella stessa
idea di contagio (r. 3-4)
b. immortalata da Manzoni (r. 8-9)
c. prese dal governo con dei decreti che ci piacerebbe sperare – ma è
un’illusione – che non fossero confermati dal parlamento in leggi nei
termini previsti (r. 27-29)
d. che ovunque è possibile le macchine sostituiscano ogni contatto –
ogni contagio – fra gli esseri umani (r. 50-52)

4. Spiegate l’uso polemico del termine cosidetta (r. 3), in rapporto con il
2.
5. Identificate le frasi che hanno un senso ironico.
6. Rispondete alle seguenti domande:
a. Con quale obiettivo Agamben cita Manzoni? In che misura è importante
conoscere la Storia della colonna infame per capire il senso di questo articolo?
b. Qual è il rapporto che Agamben stabilisce qua tra l’epidemia e il

terrorismo? Si tratta dello stesso rapporto che vi si stabiliva nel 2?


c. Quali sono le conseguenze che Agamben teme che abbia la pandemia
quando sarà finita la quarantena?

→ Per approfondire, leggi un altro testo di Agamben nella seconda sezione


(pag. 125).

12
4

1. Insieme ai compagni, parla de I promessi sposi: hai letto il romanzo? Ne hai


sentito parlare? Potresti riassumerne la trama? Commentate il titolo in
italiano e la sua traduzione allo spagnolo.

SOCIETÀ [Tratto da https://www.ildolomiti.it]

Dalla peste de I promessi sposi al Coronavirus è


cambiato tutto, tranne una cosa: noi. Manzoni
racconta come eravamo (e come siamo ancora)
La peste arriva in Italia con le truppe alemanne. Inizialmente nessuno la prende
sul serio. C'è chi minimizza, chi deride le preoccupazioni dei pochi che si
accorgono che il problema è più serio di quel che si crede. Vengono adottate
misure, che però sono insufficienti e arrivano troppo tardi. Il contagio dilaga,
5 dapprima in Lombardia e poi in tutta la penisola. C'è anche un dottor Burioni
ante litteram, che cerca di mettere in guardia le istituzioni, ma invano.

Di Arianna Viesi - 16 marzo 2020

MILANO. La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar
con le bande alemanne nel milanese, c'era entrata davvero, com'è noto; ed è
10 noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò buona parte d'Italia.

Inizia così il trentunesimo capitolo de I promessi sposi, forse uno dei


capitoli più noti dell'intero romanzo. In queste settimane se ne è sentito parlare
molto (spesso anche a sproposito). Le epidemie hanno segnato la storia, anche
letteraria, del nostro Paese. Basti pensare, appunto, a I promessi sposi e al
15 Decameron.

La peste che colpì soprattutto l'Italia settentrionale nel XVII secolo e


l'emergenza sanitaria che, oggi, ci troviamo ad affrontare non possono essere
comparate. E non possono essere comparate per una serie di ragioni, forse
banali ma che è bene ricordare: è diversa la situazione socio-economica, diverso
20 il contesto storico-culturale, diversa la mobilità, diverse le conoscenze in
ambito medico-scientifico. Insomma, stiamo parlando di due mondi lontani, per
certi versi contrapposti. A ben guardare, però, una cosa - un'unica cosa - che
non cambia c'è: siamo noi.

Scorrendo le pagine del capitolo (che può essere, anche, un buon


25 esercizio in queste settimane di isolamento), ci si imbatte infatti in un copione
13
che conosciamo. Dalle parole di chi minimizza l'epidemia alla noncuranza della
popolazione, dai provvedimenti che arrivano troppo tardi alla nobile missione
di chi presta aiuto agli ammalati, dall'egoismo dei tanti (troppi) che fanno i
propri comodi all'opera di sensibilizzazione portata avanti da istituzioni e
30 chiesa. Insomma, le parole del Manzoni sono uno specchio: lì dentro ci siamo
anche noi.

La peste, come riferisce lo stesso autore, arriva in Italia probabilmente


con le truppe alemanne e, in poco tempo, inizia ad espandersi a macchia d'olio.
Dapprima nei territori dell'odierna Lombardia, quindi in tutta la penisola.

35 Poco dopo, in questo e in quel paese, cominciarono ad ammalarsi, a


morire, persone, famiglie, di mali violenti, strani, con segni sconosciuti alla più
parte de' viventi.

Inizialmente il morbo viene sottovalutato: c'è chi pensa sia un banale


male di stagione e chi deride le preoccupazioni dei pochi che prendono
40 l'epidemia seriamente. Tra questi c'è tale Lodovico Settala, ex professore di
medicina dell'università di Pavia e poi di filosofia morale a Milano, autore di
celebri opere e stimato esperto in materia. Potremmo quasi considerarlo un
Roberto Burioni ante litteram. Proprio il dottor Burioni, qualche tempo fa, disse
che era meglio sopravvalutare un problema che sottovalutarlo (come, di fatto, è
45 stato fatto con il Covid-19). E lo stesso fa il professor Settala.

Il protofisico Lodovico Settala (...) che ora, in gran sospetto di questa,


stava all'erta e sull'informazioni, riferì il 20 d'ottobre, nel tribunale della
sanità, come, nella terra di Chiuso (l'ultima del territorio di Lecco, e confinante
col bergamasco), era scoppiato indubitabilmente il contagio. Non fu per questo
50 presa veruna risoluzione.

Insomma, il povero professor Settala prova a gridare al lupo, ma nessuno


l'ascolta. Non viene presa nessuna misura per limitare i contagi (veruna
risoluzione, dice il Manzoni). E i contagi, infatti, aumentano. Tanto che, alla
fine, il "tribunale di sanità" (organo preposto alla salute pubblica) manda dei
55 commissari nelle zone più colpite. Oggi, quelle stesse zone, le chiameremmo
"rosse" (si pensi a Codogno o a Vo' Euganeo di qualche settimana fa). Si dice,
però, che l'uomo sia portato a cercare conferme delle proprie convinzioni, anche
se errate. E così fanno anche i commissari mandati dal tribunale.

Il tribunale allora si risolvette e si contentò di spedire un commissario


60 che, strada facendo, prendesse un medico a Como, e si portasse con lui a
visitare i luoghi indicati. Tutt'e due, "o per ignoranza o per altro si lasciorno
persuadere da un vecchio et ignorante barbiero di Bellano, che quella sorte de'
mali non era Peste"; ma, in alcuni luoghi, effetto consueto dell'emanazioni
autunnali delle paludi, e negli altri, effetto de' disagi e degli strapazzi sofferti,

14
65 nel passaggio degli alemanni. Una tale assicurazione fu riportata al tribunale,
il quale pare che ne mettesse il cuore in pace.

Gli esperti inviati sul luogo del contagio si lasciano, quindi, persuadere
da un barbiere "vecchio e ignorante" e si convincono che, quel morbo, non sia
peste ma un generico malanno. Il tribunale, rassicurato dalle loro parole (perché
70 era quello che voleva, essere rassicurato), si mette il cuore in pace (con buona
pace della peste, aggiungerei).

Ma arrivando senza posa altre e altre notizie di morte da diverse parti,


furono spediti due delegati a vedere e provvedere. Quando questi giunsero, il
male s'era già tanto dilatato, che le prove si offrivano, senza che bisognasse
75 andarne in cerca.

La peste continua la sua corsa e il tribunale invia, allora, altri due delegati
nelle terre colpite. Troppo tardi, però. Quando arrivano il contagio è ormai
dilagato e i delegati non possono far altro che raccoglierne le prove. I paesi
iniziano a trincerarsi per evitare che "stranieri" infetti possano portarvi il
80 contagio, le persone cercano riparo in campagna, i malati e i morti aumentano
giorno dopo giorno.

(...) E per tutto trovarono paesi chiusi da cancelli all'entrature, altri


quasi deserti, e gli abitanti scappati e attendati alla campagna, o dispersi (...)
S'informarono del numero de' morti: era spaventevole; visitarono infermi e
85 cadaveri, e per tutto trovarono le brutte e terribili marche della pestilenza.

Quando il tribunale della sanità riceve le terribili notizie (sinistre nuove,


con le quali anche noi, oggi, dobbiamo fare i conti), inizia finalmente a prendere
provvedimenti seri e vieta a tutti gli abitanti delle "zone rosse" di entrare a
Milano. Inizia così la quarantena, ai tempi di Renzo e Lucia.

90 Diedero subito, per lettere, quelle sinistre nuove al tribunale della


sanità, il quale, al riceverle, che fu il 30 d'ottobre, si dispose (...) a prescriver
le bullette, per chiuder fuori dalla Città le persone provenienti da' paesi dove
il contagio s'era manifestato.

Nonostante la situazione vada peggiorando di giorno in giorno, pare però


95 che le autorità non si rendano conto dell'effettiva gravità della pestilenza.
Qualche giorno più tardi infatti, noncurante del rischio a cui avrebbe esposto la
popolazione, il governatore di stanza a Milano organizza pubblici
festeggiamenti (in piazza e per le strade) per la nascita del principino Carlo,
primogenito del re Filippo IV senza sospettare o senza curare il pericolo d'un
100 gran concorso, in tali circostanze: tutto come in tempi ordinari, come se non gli
fosse stato parlato di nulla.

15
Ma, quello che Manzoni annota con più stupore, è il comportamento
della gente che, soprattutto nei luoghi dove il contagio deve ancora giungere,
pare non essere minimamente spaventata (nonostante abbia buone ragioni per
105 esserlo). Sembra quasi di leggere il monito (ripetuto all'infinito) di Burioni: le
restrizioni approvate dal governo sono fondamentali per fermare il contagio e
lo sono, soprattutto, nelle zone dove il contagio non è ancora arrivato.

(...) Ma ciò che fa nascere un'altra e più forte maraviglia, è la condotta


della popolazione medesima, di quella, voglio dire, che, non tocca ancora dal
110 contagio, aveva tanta ragion di temerlo. All'arrivo di quelle nuove de' paesi che
n'erano così malamente imbrattati, di paesi che formano intorno alla città quasi
un semicircolo, in alcuni punti distante da essa non più di diciotto o venti
miglia; chi non crederebbe che vi si suscitasse un movimento generale, un
desiderio di precauzioni bene o male intese, almeno una sterile inquietudine?

115 È un atteggiamento comune, in fondo. Finché le cose non ci toccano, non


ce ne curiamo. Così, anche i Milanesi, nonostante arrivassero in città terribili
notizie dai paesi vicini, pare non si preoccupassero della situazione. Egoismo
italico, forse. Le cose devono arrivare a noi, altrimenti non le vediamo.

Sulle piazze, nelle botteghe, nelle case, chi buttasse là una parola del
120 pericolo, chi motivasse peste, veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo
iracondo. La medesima miscredenza, la medesima, per dir meglio, cecità e
fissazione prevaleva nel senato, nel Consiglio de' decurioni, in ogni magistrato.

Miscredenza, dice Manzoni. Menefreghismo, potremmo dir noi. La


gente e le istituzioni non si rendono ancora conto della gravità dell'epidemia
125 (epidemia che, si ricordi bene, e come dice lo stesso Manzoni, spopolò mezza
Italia).

Dopo aver letto il testo, risolvi gli esercizi.


1. Indica se le affermazioni sono vere o false:

a. Il contagio della peste iniziò in Lombardia e si sparse nel resto d’Italia.


b. La peste e l’emergenza sanitaria d’oggi hanno molti punti di contatto.
c. La popolazione capisce sin dall’inizio il pericolo della peste.
d. Il governo prese delle misure a partire dall’opinione del professor
Settala.
e. Gli esperti mandati nei luoghi dal tribunale si resero conto della
situazione.
f. I delegati mandati - in un secondo momento - dal tribunale trovarono
i segni della peste.
16
g. Manzoni si sorprese del comportamento della popolazione.

2. Rispondi alle domande:

a. Che tipo di testo è? C’è qualche intertestualità?


b. Qual è il rapporto tra il contesto della peste e l’emergenza sanitaria
dei nostri giorni?
c. Quali sono le prime reazioni di fronte alla peste?
d. Il professor Settala e il dottor Burioni hanno qualcosa in comune?
e. Elenca le azioni portate avanti dal tribunale.
f. Cosa succede a Milano dopo il 30 ottobre?
g. Che intende l’autore per “atteggiamento comune”?

3. Deduci alcuni significati, senza usare il vocabolario:

Quali espressioni si usano per…

a. parlare di qualcosa che si diffonde in modo rapido e uniforme?


b. far riferimento all’indifferenza di fronte al pericolo?

4. Indica il referente dei seguenti pronomi:

a. loro (r. 69)


b. quello (r. 70)
c. questi (r. 73)
d. le (r. 118)

5. Cerchia tutti i verbi al condizionale e al congiuntivo che riconosci.

6. Identifica e classifica i connettori. Inseriscili nello schema a pag. 121.

7. Cerca nel testo le espressioni analoghe a:

a. en cierto modo, de alguna manera:


b. se burla, ridiculiza:
c. advertencia, exhortación:

8. Traduci le seguenti frasi:

17
Vengono adottate misure, che però sono insufficienti e arrivano troppo tardi. (r.
3-4)

La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le
bande alemanne nel milanese, c'era entrata davvero, com'è noto (r. 8-9)

Scorrendo le pagine del capitolo (che può essere, anche, un buon esercizio in queste
settimane di isolamento), ci si imbatte infatti in un copione che conosciamo. (r. 24-
25)*

Quando questi giunsero, il male s'era già tanto dilatato, che le prove si offrivano, senza
che bisognasse andarne in cerca. (r. 73-74)

Finché le cose non ci toccano, non ce ne curiamo. (r. 115-116)

* Fate attenzione al sintagma ci si imbatte (r. 25), da collegare con quello osservato
al 1 (r. 8, esercizio 7).

→ Per approfondire, leggi il testo Quei Promessi Sposi che ci parlano oggi nella

seconda sezione, pag. 127.

18
5
Lavora con dei compagni. Ogni gruppo sceglie due o tre definizioni di classico
(che occupino circa la stessa quantità di parole): traducete le definizioni, e
riassumete le spiegazioni che le seguono; a lavoro svolto, condividete con il
resto della classe.

Leggete ora, in silenzio, il resto del testo. Dopodiché, risolvete le attività


proposte.

ITALO CALVINO, PERCHÉ LEGGERE I CLASSICI (Milano: Einaudi, 1995)

Cominciamo con qualche proposta di definizione.


1. I classici sono quei libri di cui si sente dire di solito:
«Sto rileggendo...» e mai «Sto leggendo...»
Questo avviene almeno tra quelle persone che si suppongono «di vaste letture»; non
5 vale per la gioventù, età in cui l'incontro col mondo, e coi classici come parte del
mondo, vale proprio in quanto primo incontro.
Il prefisso iterativo davanti al verbo «leggere» può essere una piccola ipocrisia da
parte di quanti si vergognano d'ammettere di non aver letto un libro famoso. Per
rassicurarli basterà osservare che per vaste che possano essere le letture «di
10 formazione» d'un individuo, resta sempre un numero enorme d'opere fondamentali
che uno non ha letto.
Chi ha letto tutto Erodoto e tutto Tucidide alzi la mano. E Saint-Simon? E il cardinale
di Retz? Ma anche i grandi cicli romanzeschi dell'Ottocento sono più nominati che
letti. Balzac in Francia si comincia a leggerlo a scuola, e dal numero delle edizioni in
15 circolazione si direbbe che si continua a leggerlo anche dopo. Ma in Italia se si facesse
un sondaggio Doxa temo che Balzac risulterebbe agli ultimi posti. Gli appassionati di
Dickens in Italia sono una ristretta élite di persone che quando s'incontrano si
mettono subito a ricordare personaggi e episodi come di gente di loro conoscenza.
Anni fa Michel Butor, insegnando in America, stanco di sentirsi chiedere di Emile Zola
20 che non aveva mai letto, si decise a leggere tutto il ciclo dei Rougon-Macquart.
Scoperse che era tutto diverso da come credeva: una favolosa genealogia mitologica
e cosmogonica, che descrisse in un bellissimo saggio.
Questo per dire che il leggere per la prima volta un grande libro in età matura è un
piacere straordinario: diverso (ma non si può dire maggiore o minore) rispetto a

19
25 quello d'averlo letto in gioventù. La gioventù comunica alla lettura come a ogni altra
esperienza un particolare sapore e una particolare importanza; mentre in maturità
si apprezzano (si dovrebbero apprezzare) molti dettagli e livelli e significati in più.
Possiamo tentare allora quest'altra formula di definizione:
2. Si dicono classici quei libri che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti e amati;
30 ma costituiscono una ricchezza non minore per chi si riserba la fortuna di leggerli per
la prima volta nelle condizioni migliori per gustarli.
Infatti le letture di gioventù possono essere poco proficue per impazienza,
distrazione, inesperienza delle istruzioni per l'uso, inesperienza della vita. Possono
essere (magari nello stesso tempo) formative nel senso che danno una forma alle
35 esperienze future, fornendo modelli, contenitori, termini di paragone, schemi di
classificazione, scale di valori, paradigmi di bellezza: tutte cose che continuano a
operare anche se del libro letto in gioventù ci si ricorda poco o nulla. Rileggendo il
libro in età matura, accade di ritrovare queste costanti che ormai fanno parte dei
nostri meccanismi interiori e di cui avevamo dimenticato l'origine. C'è una
40 particolare forza dell'opera che riesce a farsi dimenticare in quanto tale, ma che
lascia il suo seme. La definizione che possiamo darne allora sarà:
3. I classici sono libri che esercitano un'influenza particolare sia quando s'impongono
come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle pieghe della memoria
mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale.
45 Per questo ci dovrebbe essere un tempo nella vita adulta dedicato a rivisitare le
letture più importanti della gioventù. Se i libri sono rimasti gli stessi (ma anch'essi
cambiano, nella luce d'una prospettiva storica mutata) noi siamo certamente
cambiati, e l'incontro è un avvenimento del tutto nuovo.
Dunque, che si usi il verbo «leggere» o il verbo «rileggere» non ha molta importanza.
50 Potremmo infatti dire:
4. D'un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima.
5. D'un classico ogni prima lettura è in realtà una rilettura.
La definizione 4 può essere considerata corollario di questa:
6. Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire.
55 Mentre la definizione 5 rimanda a una formulazione più esplicativa, come:
7. I classici sono quei libri che ci arrivano portando su di sé la traccia delle letture che
hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno lasciato nella cultura o
nelle culture che hanno attraversato (o più semplicemente nel linguaggio o nel
costume).

20
60 Questo vale per i classici antichi quanto per i classici moderni. Se leggo
l'Odissea leggo il testo d'Omero ma non posso dimenticare tutto quello che le
avventure d'Ulisse sono venute a significare durante i secoli, e non posso non
domandarmi se questi significati erano impliciti nel testo o se sono incrostazioni o
deformazioni o dilatazioni. Leggendo Kafka non posso fare a meno di comprovare o
65 di respingere la legittimità dell'aggettivo «kafkiano» che ci capita di sentire ogni
quarto d'ora, applicato per dritto e per traverso. Se leggo Padri e figli di Turgenev o I
demoni di Dostoevskij non posso fare a meno di pensare come questi personaggi
hanno continuato a reincarnarsi fino ai nostri giorni.
La lettura d'un classico deve darci qualche sorpresa, in rapporto all'immagine che ne
70 avevamo. Per questo non si raccomanderà mai abbastanza la lettura diretta dei testi
originali scansando il più possibile bibliografia critica, commenti, interpretazioni. La
scuola e l'università dovrebbero servire a far capire che nessun libro che parla d'un
libro dice di più del libro in questione; invece fanno di tutto per far credere il
contrario. C'è un capovolgimento di valori molto diffuso per cui l'introduzione,
75 l'apparato critico, la bibliografia vengono usati come una cortina fumogena per
nascondere quel che il testo ha da dire e che può dire solo se lo si lascia parlare senza
intermediari che pretendano di saperne più di lui. Possiamo concludere che:
8. Un classico è un'opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi
critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso.
80 Non necessariamente il classico ci insegna qualcosa che non sapevamo; alle volte vi
scopriamo qualcosa che avevamo sempre saputo (o creduto di sapere) ma non
sapevamo che l'aveva detto lui per primo (o che comunque si collega a lui in modo
particolare). E anche questa è una sorpresa che dà molta soddisfazione, come
sempre la scoperta d'una origine, d'una relazione, d'una appartenenza. Da tutto
85 questo potremmo derivare una definizione del tipo:
9. I classici sono libri che quanto più si crede di conoscerli per sentito dire, tanto più
quando si leggono davvero si trovano nuovi, inaspettati, inediti.
Naturalmente questo avviene quando un classico «funziona» come tale, cioè
stabilisce un rapporto personale con chi lo legge. Se la scintilla non scocca, niente da
90 fare: non si leggono i classici per dovere o per rispetto, ma solo per amore. Tranne
che a scuola: la scuola deve farti conoscere bene o male un certo numero di classici
tra i quali (o in riferimento ai quali) tu potrai in seguito riconoscere i «tuoi» classici.
La scuola è tenuta a darti degli strumenti per esercitare una scelta; ma le scelte che
contano sono quelle che avvengono fuori e dopo ogni scuola.
95 È solo nelle letture disinteressate che può accadere d'imbatterti nel libro che diventa
il «tuo» libro. Conosco un ottimo storico dell'arte, uomo di vastissime letture, che
tra tutti i libri ha concentrato la sua predilezione più profonda sul Circolo Pickwick, e
a ogni proposito cita battute del libro di Dickens, e ogni fatto della vita lo associa con

21
episodi pickwickiani. A poco a poco lui stesso, l'universo, la vera filosofia hanno preso
100 la forma del Circolo Pickwick in un'identificazione assoluta. Giungiamo per questa via
a un'idea di classico molto alta ed esigente:
10. Chiamasi classico un libro che si configura come equivalente dell'universo, al pari
degli antichi talismani.
Con questa definizione ci si avvicina all'idea di libro totale, come lo sognava
105 Mallarmé. Ma un classico può stabilire un rapporto altrettanto forte d'opposizione,
d'antitesi. Tutto quello che Jean-Jacques Rousseau pensa e fa mi sta a cuore, ma
tutto m'ispira un incoercibile desiderio di contraddirlo, di criticarlo, di litigare con lui.
C'entra la sua personale antipatia su un piano temperamentale, ma per quello non
avrei che da non leggerlo, invece non posso fare a meno di considerarlo tra i miei
110 autori. Dirò dunque:
11. Il «tuo» classico è quello che non può esserti indifferente e che ti serve per
definire te stesso in rapporto e magari in contrasto con lui.
Credo di non aver bisogno di giustificarmi se uso il termine «classico» senza fare
distinzioni d'antichità, di stile, d'autorità. (Per la storia di tutte queste accezioni del
115 termine, si veda l'esauriente voce Classico di Franco Fortini nell'Enciclopedia Einaudi,
vol. III). Quello che distingue il classico nel discorso che sto facendo è forse solo un
effetto di risonanza che vale tanto per un'opera antica che per una moderna ma già
con un suo posto in una continuità culturale. Potremmo dire:
12. Un classico è un libro che viene prima di altri classici; ma chi ha letto prima gli
120 altri e poi legge quello, riconosce subito il suo posto nella genealogia.
A questo punto non posso più rimandare il problema decisivo di come mettere in
rapporto la lettura dei classici con tutte le altre letture che classici non sono.
Problema che si connette con domande come: «Perché leggere i classici anziché
concentrarci su letture che ci facciano capire più a fondo il nostro tempo?» e «Dove
125 trovare il tempo e l'agio della mente per leggere dei classici, soverchiati come siamo
dalla valanga di carta stampata dell'attualità?».
Certo si può ipotizzare una persona beata che dedichi il «tempo-lettura» delle sue
giornate esclusivamente a leggere Lucrezio, Luciano, Montaigne, Erasmo, Quevedo,
Marlowe, il Discours de la Méthode, il Wilhelm Meister, Coleridge, Ruskin, Proust e
130 Valéry, con qualche divagazione verso Murasaki o le saghe islandesi. Tutto questo
senza aver da fare recensioni dell'ultima ristampa, né pubblicazioni per il concorso
della cattedra, né lavori editoriali con contratto a scadenza ravvicinata. Questa
persona beata per mantenere la sua dieta senza nessuna contaminazione dovrebbe
astenersi dal leggere i giornali, non lasciarsi mai tentare dall'ultimo romanzo o
135 dall'ultima inchiesta sociologica. Resta da vedere quanto un simile rigorismo sarebbe
giusto e proficuo. L'attualità può essere banale e mortificante, ma è pur sempre un
punto in cui situarci per guardare in avanti o indietro. Per poter leggere i classici si

22
deve pur stabilire «da dove» li stai leggendo, altrimenti sia il libro che il lettore si
perdono in una nuvola senza tempo. Ecco dunque che il massimo rendimento della
140 lettura dei classici si ha da parte di chi ad essa sa alternare con sapiente dosaggio la
lettura d'attualità. E questo non presume necessariamente una equilibrata calma
interiore: può essere anche il frutto d'un nervosismo impaziente, d'una
insoddisfazione sbuffante.
Forse l'ideale sarebbe sentire l'attualità come il brusio fuori della finestra, che ci
145 avverte degli ingorghi del traffico e degli sbalzi meteorologici, mentre seguiamo il
discorso dei classici che suona chiaro e articolato nella stanza. Ma è ancora tanto se
per i più la presenza dei classici s'avverte come un rimbombo lontano, fuori dalla
stanza invasa dall'attualità come dalla televisione a tutto volume. Aggiungiamo
dunque:
150 13. È classico ciò che tende a relegare l'attualità al rango di rumore di fondo, ma nello
stesso tempo di questo rumore di fondo non può fare a meno.
14. È classico ciò che persiste come rumore di fondo anche là dove l'attualità più
incompatibile fa da padrona.
Resta il fatto che il leggere i classici sembra in contraddizione col nostro ritmo di vita,
155 che non conosce i tempi lunghi, il respiro dell'otium umanistico; e anche in
contraddizione con l'eclettismo della nostra cultura che non saprebbe mai redigere
un catalogo della classicità che fa al caso nostro.
Erano le condizioni che si realizzavano in pieno per Leopardi, data la sua vita nel
paterno ostello, il culto dell'antichità greca e latina e la formidabile biblioteca
160 trasmessigli dal padre Monaldo, con annessa la letteratura italiana al completo, più
la francese, ad esclusione dei romanzi e in genere delle novità editoriali, relegate
tutt'al più al margine, per conforto della sorella («il tuo Stendhal» scriveva a Paolina).
Anche le sue vivissime curiosità scientifiche e storiche, Giacomo le soddisfaceva su
testi che non erano mai troppo up to date: i costumi degli uccelli in Buffon, le
165 mummie di Federico Ruysch in Fontenelle, il viaggio di Colombo in Robertson.
Oggi un'educazione classica come quella del giovane Leopardi è impensabile, e
soprattutto la biblioteca del conte Monaldo è esplosa. I vecchi titoli sono stati
decimati ma i nuovi sono moltiplicati proliferando in tutte le letterature e le culture
moderne. Non resta che inventarci ognuno una biblioteca ideale dei nostri classici; e
170 direi che essa dovrebbe comprendere per metà libri che abbiamo letto e che hanno
contato per noi, e per metà libri che ci proponiamo di leggere e presupponiamo
possano contare. Lasciando una sezione di posti vuoti per le sorprese, le scoperte
occasionali.
M'accorgo che Leopardi è il solo nome della letteratura italiana che ho citato. Effetto
175 dell'esplosione della biblioteca. Ora dovrei riscrivere tutto l'articolo facendo risultare
ben chiaro che i classici servono a capire chi siamo e dove siamo arrivati e perciò gli

23
italiani sono indispensabili proprio per confrontarli agli stranieri, e gli stranieri sono
indispensabili proprio per confrontarli agli italiani.
Poi dovrei riscriverlo ancora una volta perché non si creda che i classici vanno letti
180 perché «servono» a qualcosa. La sola ragione che si può addurre è che leggere i
classici è meglio che non leggere i classici.
E se qualcuno obietta che non val la pena di far tanta fatica, citerò Cioran (non un
classico, almeno per ora, ma un pensatore contemporaneo che solo ora si comincia
a tradurre in Italia): «Mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando
185 un'aria sul flauto. “A cosa ti servirà?” gli fu chiesto. “A sapere quest'aria prima di
morire”».

1. Rispondi alle domande:


a. Perché, secondo Calvino, la gente usa il verbo rileggere per riferirsi ai
classici?
b. Con quale obiettivo si citano Erodoto, Tucidide, Saint-Simon, il cardinale
di Retz e Balzac tra le righe 11 e 14?
c. Che differenza c’è, secondo Calvino, tra l’esperienza di leggere un
classico da giovani e da vecchi?
d. Puoi spiegare in spagnolo l’idea delle definizioni 7 e 8?
e. Per Calvino, Rousseau è un suo classico? Perché?
f. Che rapporto dovrebbe esistere, secondo Calvino, tra la lettura dei
classici e quella di altri libri?
g. Che differenza esiste tra la condizione di lettura di Leopardi e quella
contemporanea al testo?
h. Che intende mostrare Calvino con la citazione finale di Cioran?

2. Traduci le seguenti frasi:


a. Se i libri sono rimasti gli stessi (ma anch'essi cambiano, nella luce d'una prospettiva storica
mutata) noi siamo certamente cambiati (r. 46-48)
b. non si leggono i classici per dovere o per rispetto, ma solo per amore (r. 90)
c. ma le scelte che contano sono quelle che avvengono fuori e dopo ogni scuola (r. 93-94)
d. il classico nel discorso che sto facendo è forse solo un effetto di risonanza che vale tanto per
un'opera antica che per una moderna ma già con un suo posto in una continuità culturale (r.
116-118)

24
3. Cerchia i connettori del testo: li conoscevi tutti? Aggiungi quelli nuovi al
quadro di pag. 121. Confronta con un compagno o compagna.
4. Sempre in coppie, scegliete tre definizioni di classico e cercate tra le vostre
letture degli esempi di libri che rispondano ad esse. Condividete le vostre
esperienze di lettori con il resto della classe.

5. Cercate di tradurre le espressioni ci si ricorda (r. 37) e ci si avvicina (r. 104),


analoghe a quelle viste al 1 e al 4.

֍ Per approfondire, vedi i consigli di Calvino per vivere dopo il Duemila, in


https://www.youtube.com/watch?v=h9EX2GRhd4Q.

25
6
1. Prima di leggere il testo, lavora con dei compagni. Che cosa sapete di
Boccaccio? Qualcuno di voi ha letto il Decameron?
2. Leggete solo i titoli dei paragrafi (in neretto). Potete collegarli con quello
che conoscevate?
3. Man mano che leggete il testo, e assegnate ognuno di questi sintagmi al
corrispondente paragrafo:

a. nascita del personaggio individuale


b. modello di prosa narrativa
c. dimensione teatrale
d. autonomia della letteratura
e. affresco della società contemporanea

4. Controllate l’esito dell’esercizio 3 con il resto della classe, e continuate a


risolvere gli esercizi proposti dopo il testo

Il Decameron [Tratto da Grosser, Grandi, Pontiggia, Ubezio, Il canone letterario,


COMPACT, Milano: Principato, 2010]

Introduzione. La struttura dell’opera e la poetica

Boccaccio fra medioevo e modernità Il processo di acquisizione della tradizione


fiorentina da parte di Boccaccio culmina nel Decameron, che mostra evidenti rapporti
con la narrativa toscana precedente e un preciso radicamento nell’ambiente socio-
culturale della città, che è tra le principali protagoniste del libro. Il Decameron inoltre
5 costituisce l’approdo e il coronamento di tutta l’esperienza letteraria giovanile, ed è
l’opera che dà forma compiuta e definitiva a un genere letterario, la novella, che estenderà
la sua fortuna in tutta Europa e per molti secoli sino al romanticismo e influirà in modo
sostanziale sull’elaborazione anche di altri generi, primo fra tutti la commedia
rinascimentale e moderna. Ma il Decameron è anche molto di più: è un’opera di
10 straordinaria sapienza letteraria e sintesi culturale che si pone a cavallo di due epoche,
chiudendo una tradizione complessa e aprendone un’altra ancor più ricca e variegata.

La poetica: una concezione edonistico-consolatoria dell’arte Il proemio del


Decameron si apre solennemente con una sentenza: «Umana cosa è avere compassione
degli afflitti». Da questa affermazione Boccaccio muove per dichiarare che con la sua
15 opera egli intende prestare conforto e distrazione alle persone afflitte, fra cui spiccano le
donne, che per sensibilità e condizione sociale più di ogni altro hanno bisogno delle
consolazioni dell’immaginazione che la letteratura può fornire. Il Decameron pertanto si
presenta sin dal proemio come un’opera narrativa di intrattenimento, che mira al diletto,
alla distrazione, alla consolazione di un pubblico ampio e vario, di persone sensibili, ma
20 in prevalenza non di dotti. Più avanti nell’introduzione alla IV giornata, difendendosi

26
dall’accusa di aver trattato in modo licenzioso il tema dell’amore profano, Boccaccio
dichiara che l’amore è una forza naturale e irrefrenabile che può del tutto legittimamente
essere presa come soggetto di un’opera narrativa realistica, composta in volgare,
in prosa e in «istilo umilissimo» come la sua, di cui però – malgrado la rituale modestia
25 – afferma la dignità e il valore artistico. Nella conclusione infine afferma l’esistenza di
esigenze intrinseche della letteratura che giustificano l’uso di un linguaggio libero e
spregiudicato (quello che uomini e donne adoperano tutti i giorni nel mondo reale
che egli vuole rappresentare). È già un passo verso una concezione di una relativa
autonomia dell’arte, rispetto a ogni finalità pratica, etica o utilitaristica che sia. Certo, con
30 tali affermazioni egli si allontana decisamente dalle più tipiche concezioni espresse dal
medioevo, ma fa un passo in avanti rispetto alle caute aperture formulate dall’anonimo
estensore del Novellino. Un’idea analoga dell’arte la ritroveremo invece nel
rinascimento, quando verrà sancito in forma più netta e compiuta il principio del bene
dicere (il dire bene, la bellezza) come fine specifico dell’arte.

35 […]

Realtà e ideologia: la «commedia umana»

La questione del realismo: assenza di una prospettiva trascendente Quello di


realismo è un concetto discusso e discutibile. Ma è anche vero che può essere una
40 categoria utile, se adeguatamente precisata. Si può parlare di realismo anche per Dante e
per la letteratura edificante medievale, che spesso non chiude gli occhi di fronte al male
e indulge ad esempio nella rappresentazione analitica e cruda dei vizi e di ogni sorta di
pene e tormenti, o viceversa adotta un linguaggio basso, giocoso e licenzioso (un ampio
uso di espressioni esplicite inerenti alla sessualità è attestato anche nella predicazione).
45 Ma tra queste forme di realismo e quella propria del Decameron ci sono almeno due
differenze sostanziali: l’assenza di una prospettiva trascendente che interpreti e ordini
l’insieme dei dati narrativi, e l’ampiezza e la varietà dei temi trattati. Mario Baratto
individua «una prima e tipica caratteristica dello scrittore: la volontà di penetrare oltre la
superficie della società, del costume, [...] per cogliere il comportamento di individui
50 sempre diversi (che hanno tutti qualcosa di irripetibile nonostante le affinità che li
uniscono) in un mondo terreno che si rivela altrettanto mobile e imprevisto».
L’osservazione è fondamentale: Boccaccio da un alto non tipizza i propri personaggi, ne
traccia sempre dei profili individuali e non si limita alla superficie della realtà umana e
sociale, ma scava in profondità; dall’altro non introduce una prospettiva trascendente,
55 provvidenziale, che ordini e giudichi i comportamenti umani in funzione dell’eterno, che
ne giustifichi la varietà, il disordine, la miseria o la sublimità.

Boccaccio insomma analizza con scrupolo e straordinaria capacità di introspezione


psicologica i comportamenti dell’uomo in una dimensione esclusivamente umana e
mondana, si concentra insomma sul mondo terreno, sui rapporti degli uomini fra loro
60 e con la realtà naturale, ambientale, sociale, oggettuale.

[…]
La questione del realismo: latitudine narrativa Nel Decameron c’è posto per
personaggi nobili, leali, virtuosi, onesti, santi, ma anche per quelli malvagi, disonesti,
traditori, truffatori, peccatori: per mercanti intraprendenti e accorti o cupidi e meschini,
65 per nobili magnanimi e generosi o vanagloriosi e incauti, per popolani dai bisogni

27
elementari e di grosso ingegno o prudenti e astuti, per uomini avveduti e intelligenti,
arguti e sottili o ingenui e sciocchi, per donne sensibili e oneste, o lascive e corrotte, per
chierici santi o imbroglioni, per ingenui compatiti o crudelmente derisi, per beffatori e
beffati; per la pietà, i sentimenti e gli affetti più teneri, ma anche per la grettezza e la
70 crudeltà. È presente pressoché tutta la gamma dei ceti sociali, dai più elevati (re, nobili,
potenti prelati, ricchi banchieri) sino ai più umili (operai, contadini, servi), e vastissima è
anche la varietà dei luoghi e degli ambienti (si va dalle corti ai bassifondi, dalla realtà
cittadina alla campagna, dai luoghi vicini e noti – come Firenze – a terre e mari esotici).
Anche i registri variano dal comico al tragico, dal serio al faceto, dal satirico all’elegiaco
75 e assai ampia è la gamma dei temi ispiratori e dei modi rappresentativi. […]

La «commedia umana» La varietà di temi, ambienti, situazioni e personaggi costituisce


una sostanziale novità: «Boccaccio non si arresta di fronte ad alcun aspetto della realtà, è
disposto a rappresentare tutto, e questo comporta un ampliamento dei confini del
narrabile, l’immissione, cioè, nei confini della letteratura, di temi che prima ne erano
80 esclusi e che ora vengono ritenuti degni di una rappresentazione che aspiri a dignità
formale. La novella con Boccaccio amplia smisuratamente i propri orizzonti»
(Guglielmino). Anche in seguito accadrà raramente che uno scrittore accolga nella sua
opera una così grande varietà di temi e personaggi. Se qualcuno prima di Boccaccio ha
mostrato un’analoga ampiezza di orizzonti nei confronti dell’umano, questo è Dante.
85 Proprio per sottolineare l’analogia dei due scrittori quanto a complessità e varietà
tematica, la critica ha parlato per il Decameron di «commedia umana»: la formula insiste
però anche sull’antitesi con la Commedia dantesca, cui compete l’attributo di «divina»
non solo perché ha rappresentato l’aldilà, ma anche perché le tante figure e vicende umane
che ha rievocato le ha ordinate alla luce del trascendente e dell’eterno, con ferree categorie
90 interpretative etico-religiose. La commedia boccacciana è invece «umana» non solo
perché è collocata nel mondo, ma perché adotta categorie interpretative mondane e laiche.

Ma questa formula può anche alludere a una specifica componente di moderna teatralità
presente nell’opera, che tanto influirà nella genesi della commedia cinquecentesca,
anch’essa mondana e laica, realistica e moralmente spregiudicata: il mondo appare nel
95 Decameron come un grande palcoscenico, lo scenario complesso nel quale gli uomini
agiscono, si confrontano, confliggono e dialogano.

1. Scegliete due paragrafi, e riassumeteli in una frase l’uno (in spagnolo);


fate in modo che i cinque paragrafi vengano riassunti almeno da un
gruppo.
2. Scegliete, dai paragrafi riassunti, cinque espressioni che vi sembra
importante incorporare (perché di senso generale, di alta frequenza, non
comprensibili immediatamente).
3. Infine, scegliete una frase di ogni paragrafo da far tradurre al resto della
classe. La frase deve avere almeno un elemento la cui traduzione non
possa essere risolta con l’uso del dizionario. Controllate le traduzioni con
la guida dell´insegnante.

→ Per approfondire, leggi il resto del testo nella seconda sezione (pag. 130).

28
7

RINASCIMENTO
[Tratto da https://letteritaliana.weebly.com]

Terminologia e periodizzazione
Con il termine Rinascimento gli studiosi indicano il periodo di massima fioritura
letteraria e artistica che caratterizzò l'Italia nella prima metà del Cinquecento,
approssimativamente tra il 1492 (anno della morte di Lorenzo de' Medici, nonché
della scoperta dell'America) e il 1545 (apertura del Concilio di Trento che segna
5 l'inizio della Controriforma). Tale periodo viene diviso in altre due fasi definite
"Rinascimento maturo" e "tardo Rinascimento", prendendo come spartiacque l'anno
del sacco di Roma ad opera dei lanzichenecchi (1527), e la principale differenza tra
i due momenti è il fatto che nei primi trent'anni del secolo sono attivi i principali
scrittori e artisti italiani (Machiavelli, Ariosto, Michelangelo...), mentre nella
10 seconda fase c'è carenza di grandi opere e in poesia si anticipa la tendenza del
manierismo, che caratterizzerà la successiva età della Controriforma e che consiste
in un'imitazione dei modelli classici talvolta priva di originalità. Il termine
Rinascimento mette l'accento soprattutto sulla ripresa dei valori classici e dell'arte
dopo i secoli "bui" del Medioevo, e in questo senso il periodo si pone in forte
15 continuità con l'Umanesimo, tanto che alcuni studiosi parlano di civiltà umanistico-
rinascimentale senza vedere cesure tra i due secoli; in realtà l'età del Rinascimento,
almeno sul piano letterario, prosegue sulla stessa linea di quella precedente
(riscoperta dei classici, antropocentrismo, rivalutazione della natura e del corpo
umano, mecenatismo delle corti...), ma con una maggiore consapevolezza e,
20 soprattutto, con una tendenza alla codificazione e al regolismo in tutti i campi,
specie in quello del comportamento e della lingua, mentre conosce un grandissimo
sviluppo la stampa e viene letteralmente riscoperto il teatro classico, attraverso i
due generi principali della tragedia e della commedia. Altra novità è costituita dalla
riflessione politica, che con l'opera fondamentale di Machiavelli introduce il
25 pensiero politico moderno, tagliando i ponti con la trattatistica medievale e la
visione teocentrica dello Stato. Se il Rinascimento è ancora una letteratura di corte,
prodotta per un pubblico per lo più selezionato di cortigiani e poco interessata al
mondo esterno, vi sono tuttavia alcuni scrittori che non si riconoscono in questo
modello e propongono opere di carattere affatto opposto, che ricercano squilibrio e
30 disarmonia, quando non addirittura la parodia (è il cosiddetto antirinascimento,
per cui si veda oltre).

Il regolismo. La codificazione dei generi letterari


Una delle principali caratteristiche del primo Cinquecento è appunto il regolismo,
ovvero la tendenza a fissare norme rigorose in tutti i campi della vita sociale e della
35 produzione artistico-letteraria in accordo con il classicismo e il riconoscimento dei
valori dell'equilibrio e dell'armonia contrapposti al "disordine" del Medioevo: tale
tendenza "normativa" trova applicazione in molti ambiti culturali, dal

29
comportamento degli uomini di corte alla lingua, dalla prassi politica ai generi
letterari, che vengono rigidamente codificati e per ognuno dei quali si fissano regole
40 precise e modelli cui attenersi, gettando le basi per il manierismo che distinguerà
l'età successiva. Questa mentalità è espressione di una letteratura e di un'arte
aristocratica, che come nel Quattrocento nasce nell'ambito chiuso e raffinato della
corte e viene prodotta da scrittori e artisti che si rivolgono a un pubblico
selezionato, che spesso si disinteressa agli avvenimenti del mondo esterno ed è
45 indifferente al destino delle classi subalterne, almeno per quanto riguarda la
produzione più elevata. Sul piano più strettamente letterario si crea un vero e
proprio canone dei principali generi della letteratura "alta", sulla falsariga di quanto
già era avvenuto nell'Umanesimo e con una maggiore consapevolezza da parte degli
intellettuali, e il genere più nuovo e più largamente usato nel Cinquecento diventa il
50 trattato in prosa, dedicato ai temi più vari (il comportamento, la lingua, la politica...)
e che vede tra gli interpreti i principali autori del secolo, da Machiavelli, a Bembo,
a Guicciardini, per i quali si veda oltre. Grande sviluppo ha anche la poesia lirica,
che individua naturalmente in Petrarca il modello quasi esclusivo (si parla
addirittura di "petrarchismo") e che è praticata un po' da tutti gli scrittori del
55 Rinascimento, mentre tra gli altri generi poetici occorre citare il poema epico-
cavalleresco, che vede come capolavoro l'Orlando furioso di Ludovico Ariosto e che
darà luogo alle interminabili discussioni sul poema eroico della fine del secolo, sino
alla Liberata di Tasso. Naturalmente tra i modelli del poema vi sono i capolavori
della letteratura classica, dai poemi omerici all'Eneide, ma è indubbio che l'Orlando
60 innamorato di Boiardo costituisca il precedente immediato e apra di fatto la strada
al genere nel Cinquecento, specie riguardo alla scelta del ciclo carolingio e alla
commistione con gli elementi fiabeschi del ciclo bretone che si ritrovano in Ariosto.
Di derivazione più strettamente classica è invece il poemetto didascalico, frutto per
lo più dell'imitazione virgiliana (delle Georgiche soprattutto), mentre un filone
65 minore è rappresentato dalla novellistica, a tutto vantaggio del trattato che è di
gran lunga il genere in prosa più praticato. Il Rinascimento è poi il periodo in cui
rinasce letteralmente il teatro classico, riscoperto grazie soprattutto alle
discussioni sulla Poetica di Aristotele e largamente imitato, specie nei due generi
della tragedia e della commedia pressoché sconosciuti alla letteratura medievale
70 (anche su questo punto si veda oltre).
Il regolismo del Cinquecento non poteva non occuparsi anche di una questione
ancora aperta nella letteratura italiana, ovvero la definizione di una lingua volgare
che fosse adatta alla produzione di opere in prosa e in versi e che rispondesse alle
esigenze di armonia e coerenza proprie della cultura rinascimentale, per cui
75 diventava necessario fissare il "canone" anche della lingua oltre che dei generi
letterari. Va detto che il volgare aveva una storia relativamente breve in Italia e
mancava naturalmente una grammatica come anche un vocabolario, senza contare
che la Penisola presentava una forte frammentazione linguistica; il fatto che alcuni
dei principali scrittori del XIV-XV sec. si fossero espressi in fiorentino dava a questa
80 lingua un indubbio vantaggio, ma molte erano ancora le eccezioni in tal senso
(Boiardo aveva scritto l'Innamorato in volgare emiliano, per fare un solo esempio,
e il poema aveva subìto già delle correzioni "toscanizzanti". Occorre anche
sottolineare che l'intento degli intellettuali del XVI sec. non era certo quello di

30
definire una lingua nazionale o di popolo, anche perché l'Italia era divisa
85 politicamente e teatro di guerre tra i principali Stati stranieri, ma unicamente quello
di creare un volgare letterario con cui esprimere una produzione di corte, rivolta
a un pubblico aristocratico in possesso della necessaria preparazione per
intenderlo. Nei paragrafi seguenti sono illustrate le proposte dei principali
intellettuali che si occuparono della questione, ovvero quella di Pietro Bembo, di
90 Gian Giorgio Trissino, di Niccolò Machiavelli.

[…]

L'Antirinascimento
Il classicismo aristocratico non esaurisce il panorama letterario del primo
95 Cinquecento, in cui molti scrittori (diversi per estrazione sociale e interessi) non si
riconoscono nel modello culturale e sociale della poesia di corte e producono opere
completamente diverse, che rifiutano il "regolismo" e l'imitazione dei modelli e, al
contrario, propongono un forte sperimentalismo di stile e di lingua, non di rado
con intenti parodistici verso la letteratura colta. Questo filone letterario viene
100 definito "Antirinascimento", per quanto tale definizione sia piuttosto ambigua e non
metta d'accordo tutti gli studiosi, che sottolineano la non omogeneità di questo
gruppo di scrittori: fra essi vi sono infatti personaggi colti e dalla solida
preparazione umanistica (come l'Aretino o Berni) che passano da opere serie e
destinate a un pubblico elevato a testi dissacranti e provocatori, mentre altri autori
105 (come il Folengo) si dedicano principalmente alla ricerca di un nuovo linguaggio
con intenti ironici e parodistici, restando ai margini della letteratura più alta. Molti
di questi scrittori si ispirano a modelli del tutto diversi rispetto ai classicisti,
soprattutto alla poesia comica del Due-Trecento e a Pulci, e alcuni di loro aprono
delle nuove strade che saranno percorse da autori successivamente, non solo in
110 Italia (è il caso di Rabelais rispetto all'opera di Folengo). Ecco una sintetica
panoramica dei nomi e delle opere più significative a riguardo.

1. Indica quali delle seguenti informazioni si trovano nel testo:

a. Le fasi in cui è diviso il Rinascimento.


b. L’origine etimologica del termine “Umanesimo”.
c. Il panorama letterario durante il Rinascimento.
d. Gli aspetti sociali fondamentali del primo Cinquecento.
e. Un paragone tra Quattrocento e Cinquecento.
f. La situazione linguistica e politica dell’Italia nel Cinquecento.
g. Le opere più rappresentative dell’Antirinascimento italiano.

2. Lavora con un gruppo di compagni. Redigete un esercizio di vero/falso,


nell’ordine in cui le informazioni appaiono nel testo, e passatelo a un
altro gruppo perché lo risolva.

31
3. Lavora con un gruppo di compagni: cercate degli esempi di diatesi
passiva (con essere, venire e andare) e confrontate in plenum. Sulla base
dell’osservato, leggete la seguente spiegazione:

La perifrasi principale per l’espressione della diatesi passiva è essere +


participio passato. Nella costruzione passiva possono essere utilizzati con
funzione di ausiliare anche i verbi venire e andare: l’uso di venire precisa il
valore azionale (rispetto alle forme con essere, che possono essere
interpretate come uno stato); l’uso di andare aggiunge il valore modale di
dovere.

4. Deduci alcuni significati, senza usare il vocabolario:

Quali espressioni si usano per…

a. troncare i rapporti, interrompere bruscamente qualunque


contatto?
b. prendere come esempio un’altra cosa, seguendo la sua traccia?

5. Traduci le seguenti frasi:

a. approssimativamente tra il 1492 (anno della morte di Lorenzo de' Medici,


nonché della scoperta dell'America) (r. 3-4)
b. vi sono tuttavia alcuni scrittori che non si riconoscono in questo modello e
propongono opere di carattere affatto opposto (r. 28-29)
c. tra gli altri generi poetici occorre citare il poema epico-cavalleresco, che vede come
capolavoro l'Orlando furioso di Ludovico Ariosto (r. 55-56)
d. Il classicismo aristocratico non esaurisce il panorama letterario del primo
Cinquecento (r. 94-95)

֍ Per approfondire, vedi il video Luca Serianni - Pietro Bembo - L’italiano. Da


latino a oggi - Le Pillole della Dante: https://urly.it/35cy_

32
8
La storia degli ospedali, di Marina Garbellotti

[Tratto da http://www.storiadellachiesa.it/glossary/ospedali-e-la-chiesa-in-italia/]

Il significato del termine ospedale è cambiato nel corso delle epoche. Mentre
attualmente indica un centro di cura, in origine designava un luogo prevalentemente
riservato all’accoglienza di pellegrini e di bisognosi con una valenza segnatamente
caritativa e non terapeutica. In linea generale questo orientamento si riscontra sino alle
5 soglie dell’età moderna – in alcuni casi anche oltre – e frequentemente le fonti e la
letteratura indicano con la parola ospedale istituti con finalità caritative, quali
orfanotrofi, conservatori per fanciulle povere, ospizi per mendicanti. Nel delineare la
storia e i mutamenti che investirono gli ospedali si concentrerà l’attenzione, almeno a
partire dall’età moderna. [...]

10 Numerosi nell’antichità, gli ospedali, sovente chiamati ospizi dal latino hospes,
conobbero una particolare diffusione in epoca cristiana in virtù del dovere dell’ospitalità
presente nell’insegnamento ecclesiastico e si diffusero nell’Europa occidentale come
istituzioni indipendenti o annesse alle residenze vescovili e ai monasteri. A partire dal
secolo XII, di fronte all’incremento demografico, alla crescita delle città, all’intensificarsi
15 dei commerci e degli spostamenti, ai frequenti pellegrinaggi e non da ultimo al ‘risveglio
evangelico’ che caratterizzò la vita religiosa dell’epoca basso medievale, gli ospedali
esistenti si rivelarono insufficienti a soddisfare le esigenze di viandanti, pellegrini e
bisognosi in crescente aumento e movimento.

In questo contesto assai articolato si collocano gli ospedali promossi dagli ordini
20 ospedalieri (Roncisvalle, Aubrac, Antoniani, S. Spirito, San Giacomo di Altopascio,
Gerosolimitani, S. Lazzaro, San Giovanni di Gerusalemme, i Crociferi, Cavalieri Teutonici,
Templari). Essi praticavano un ampio spettro di forme di soccorso come dimostra
l’ordine di San Giovanni in Gerusalemme. Riconosciuto ufficialmente come ordine
religioso nel 1153 da papa Eugenio III, l’attività assistenziale dell’ordine giovannita
25 ricalca quella di altri gruppi aderenti alla medesima spiritualità agostiniana, che
contemplava l’aiuto ai poveri, ai pellegrini, alle vedove, ai vecchi, agli esposti, nonché
interventi manutentivi alle strutture riservate all’ospitalità e alla viabilità. Finalità più
circoscritte, almeno originariamente, qualificarono l’ordine di San Giacomo
d’Altopascio, sorto intorno al 1080 ad Altopascio, non lontano da Lucca sulla via
33
30 Francigena. Via obbligata per i numerosi pellegrini desiderosi di raggiungere Roma per
visitare la tomba di San Pietro, l’ordine garantiva ospitalità e protezione a chi si
avventurava lungo questo impervio cammino. Attenti prevalentemente agli aspetti
medico-sanitari furono gli Antoniani, impegnati nella cura dell’ergotismo, affezione
meglio conosciuta col nome di fuoco di Sant’Antonio, e i Lazzariti, specializzati nella cura
35 della lebbra. Per la precoce attenzione all’infanzia abbandonata merita di essere
menzionato l’ordine di Santo Spirito, al quale papa Innocenzo III affidò la direzione del
celebre ospedale romano di Santa Maria in Sassia. La fondazione e la gestione di questi
istituti non furono sempre pacifiche. Sovente si scatenarono tensioni tra i rettori degli
stessi e i poteri locali, religiosi e civili, che vedevano in questi luoghi strumenti di
40 affermazione territoriale e di preminenza sociale.

La presenza femminile negli ospedali non è un elemento trascurabile. Furono numerose


le donne che operarono individualmente a favore dei luoghi pii, come pure le comunità
femminili, tra cui si possono ricordare a titolo meramente esemplificativo le Oblate
ospedaliere terziarie francescane di Santa Chiara al servizio dell’ospedale di Santa Chiara
45 di Pisa, e le Oblate ospedaliere di Santa Maria Nuova di Firenze, sorte per assistere
gratuitamente le inferme povere. Le donne, però, religiose o laiche che fossero, secondo
un tratto che caratterizzerà il loro operato almeno sino all’Ottocento, non ricoprivano
ruoli direttivi, bensì di servizio.

La moltiplicazione degli ospedali fu indotta anche e principalmente da quel rinnovato


50 sentimento religioso, storiograficamente definito ‘rivoluzione della carità’, che
incoraggiò uomini e donne a consacrare se stessi e i propri beni alle opere di
beneficenza. Tra le espressioni peculiari di questa devotio laicale, che caratterizzò
l’Europa medioevale, vanno menzionate le comunità miste, formate da chierici, conversi
e laici di entrambi i sessi, e dedite alla conduzione di luoghi di ospitalità. La peculiarità
55 di queste comunità risiede nell’ampia presenza di laici, uomini e donne celibi o coniugati.
[…] Oltre agli aspetti devozionali tali associazioni accordarono particolare rilevanza alla
carità delle opere colmando profonde lacune sociali che si condensavano nell’aiutare le
frange più marginali della popolazioni. Questa diffusa propensione ad aiutare i poveri si
manifestava nella distribuzione di viveri e di elemosine e nella fondazione di ospedali.
60 Fatta eccezione per i lebbrosari, gli ospedali accoglievano nella medesima struttura
poveri e infermi colpiti da diverse affezioni e dispensavano elemosine e beni di prima
necessità agli indigenti, svolgendo una significativa funzione semipubblica in un settore

34
assente o debole della società quale quello assistenziale. Tali interventi li resero
rapidamente luoghi strategici e irrinunciabili per le autorità civili, sempre più interessate
65 a regolarne l’attività e a impiegarli nel programma politico-caritativo.

Gli studi sul grado di medicalizzazione degli ospedali medievali sono alquanto carenti;
tuttavia di rado viandanti e bisognosi potevano contare su cure mediche. Le ragioni della
scarsa rilevanza attribuita alla pratica terapeutica vanno prevalentemente ricercate
nell’idéologie du salut che permeava la cultura dell’epoca e si traduceva nell’assicurare
70 agli ospiti anche e soprattutto assistenza spirituale. Solitamente, infatti, al momento
dell’ingresso essi venivano obbligatoriamente confessati e comunicati. […]

[Piú avanti,] in alcuni centri, soprattutto nel territorio lombardo e nell’area toscana si
procedette all’unificazione degli istituti in un unico grande ospedale, chiamato
maggiore. In sostanza, molti piccoli ospedali vennero soppressi e i loro patrimoni
75 utilizzati per costruire una più ampia struttura e per sostenerne le attività. L’esempio più
noto di questo modello è l’ospedale maggiore di Milano, fondato nel 1456 da Francesco
Sforza, ma ospedali maggiori furono realizzati anche a Brescia, Siena, Firenze, Pavia. […]

Con la riforma ospedaliera si profilò un deciso intervento da parte delle autorità civili nel
settore dell’assistenza che non di rado creò conflitti sia con le autorità ecclesiastiche,
80 intenzionate a mantenere la giurisdizione sui luoghi pii, sia con i rettori degli ospedali,
identificabili con le oligarchie locali, restii a rinunciare ai vantaggi politici derivanti dalla
direzione di questi enti. Il patrimonio accumulato grazie a donazioni e lasciti, i molti
affittuari e creditori dipendenti dagli ospedali conferivano, infatti, ai rettori degli stessi
visibilità e potere economico. […]

85 Benché il potere laico avesse compreso nella propria sfera giurisdizionale le strutture
assistenziali, le finalità perseguite dagli ospedali continuarono a mantenere una forte
valenza religiosa. Le cure prestate al corpo non potevano essere disgiunte da
un’assistenza religiosa che si preoccupava di garantire la salute dell’anima. Questa
commistione tra sfera laica e religiosa, tipica dell’antico regime, venne meno sul piano
90 giurisdizionale: autorità civili ed ecclesiastiche, infatti, cercarono progressivamente di
separare le rispettive sfere di competenza. […]

35
Dalla seconda metà del Settecento per gli ordini religiosi si aprì un periodo cruciale,
destinato a protrarsi anche nel secolo successivo. Le soppressioni attuate dai sovrani
nell’ambito del riformismo assolutistico e con azioni più radicali nella Francia
95 rivoluzionaria e nelle repubbliche sorelle, li investirono in maniera talora anche molto
incisiva, condizionandone l’operato. Con la Restaurazione i governi degli antichi Stati si
affrettarono a istituire commissioni o congregazioni con il compito di amministrare gli
enti caritativi e ospedalieri e di coordinarne le attività. Nei decenni che precedettero
l’Unità si manifestarono tentativi più o meno decisi per ridurre il numero dei religiosi e
100 per controllare le attività della Chiesa. Tuttavia, anche laddove questa politica assunse
forme radicali – come accadde nel Regno di Sardegna, ove una legge del 1855 si propose
di sopprimere gli ordini non dediti alla predicazione, all’istruzione e alla cura dei malati
–, proprio in virtù dell’opera prestata nel settore assistenziale i religiosi riuscirono a
proseguire la loro attività, come fecero i Camilliani e i Fatebenefratelli.

105 Non mancarono nuove iniziative, alcune delle quali accesero un intenso dibattito. Tra
queste vale la pena di menzionare quella promossa dal sacerdote piemontese san
Giuseppe Benedetto Cottolengo, che nel 1832 aprì la Piccola Casa della Divina
Provvidenza, comunemente chiamata Cottolengo, e per assicurare adeguata assistenza
ai malati cronici, alle persone affette da malformazioni fisiche e da ritardi mentali diede
110 vita alla congregazione dei Fratelli di San Giuseppe Benedetto Cottolengo. Le perplessità
nei confronti di simili istituti riguardano prevalentemente l’isolamento degli ospiti che
finisce quasi per occultarli alla società, anziché favorirne l’integrazione nella stessa.

Nonostante la complessità delle opere descritte, a contrassegnare l’Ottocento fu


soprattutto il proliferare di congregazioni ospedaliere femminili vocate all’assistenza
115 degli ammalati a domicilio e a quelli ricoverati negli ospedali. […] Le religiose divennero
una presenza abituale nei reparti ospedalieri consentendo alla Chiesa di riguadagnare
nell’ambito assistenziale un significativo spazio e ruolo sociale.

1. Dopo aver letto il testo, scegli l’opzione giusta per completare le seguenti
informazioni:

I. Gli ospedali nacquero a. nell’antichità.


b. nell’era moderna.
c. con il cristianesimo.

36
II. Gli ospedali si trovavano a. dentro le chiese.
b. in piazza.
c. vicino alle chiese.

III. L’uso di medicinali era a. come quello di oggi.


b. molto frequente.
c. poco frequente.

IV. Dalla seconda metà del Settecento, la presenza di religiosi negli ospedali
a. scomparve.
b. diminuí.
c. restò uguale.

2. Lavora con un gruppo di compagni. Cercate nel testo espressioni


equivalenti a quelle che seguono:

a. y en algunos casos, más aun


b. y también
c. imita
d. a pesar de
e. sin embargo
f. recuperar

3. Traducete le seguenti frasi:

a. Tali interventi li resero rapidamente luoghi strategici e irrinunciabili per le autorità


civili, sempre più interessate a regolarne l’attività e a impiegarli nel programma
politico-caritativo. (r. 63-65)

b. Le perplessità nei confronti di simili istituti riguardano prevalentemente l’isolamento


degli ospiti che finisce quasi per occultarli alla società, anziché favorirne l’integrazione
nella stessa. (r. 110-112)

c. a contrassegnare l’Ottocento fu soprattutto il proliferare di congregazioni ospedaliere


femminili vocate all’assistenza degli ammalati a domicilio e a quelli ricoverati negli
ospedali. (r. 113-115)

4. Cerchiate i pronomi del paragrafo che va dalla riga 105 alla 112, e
identificate i loro referenti.

37
5. Completate il seguente schema, inserendovi le caratteristiche degli
ospedali nei diversi periodi della loro storia:

ANTICHITÀ

MEDIOEVO

PRIMA MODERNITÀ

ILLUMINISMO

RESTAURAZIONE

SECOLO XIX

6. Identificate tutte le forme passive presenti tra le righe 66 e 77, e


traducetele.

7. Insieme all’insegnante, osservate l’uso dei pronomi in neretto:


li investirono in maniera talora anche molto incisiva, condizionandone
l’operato (r. 94-95)

38
9

Prima di leggere il testo, esplora con qualche compagno i loro titoli e


illustrazioni. Qualcuno di voi conosce le città ideali? Che riuscite a
vedere nei quadri riportati? Potete associare quel che sapete del
Rinascimento con le utopie?

Condividete le vostre idee con il resto della classe, e quindi leggete il


testo e risolvete le attività proposte di seguito.

La Città Ideale. L’utopia del Rinascimento a Urbino tra


Piero della Francesca e Raffaello.
Raffaela Fontanarossa
[Tratto da https://altritaliani.net/]
Nelle corti dell’Italia rinascimentale l’armonia e la bellezza
dell’architettura urbana coincidevano con la saggezza e la lungimiranza
del governo politico. Altri tempi si dirà. Ma la ricerca della « città
ideale » accomuna tutti i secoli. A questo tema, estremamente
5 stimolante, la Galleria Nazionale delle Marche di Urbino dedica
un’interessante mostra, non priva di spunti di riflessione anche per la
contemporaneità.

GIOVANNI DI SER GIOVANNI DETTO LO SCHEGGIA


10 Corteo nuziale o Cassone Adimari – 1440-1450 circa
FIRENZE, Galleria dell’Accademia
Credito Fotografico: Su concessione del Ministero per i Beni e le attività
culturali.
Fototeca della Soprintendenza Speciale per PSAE
15 e per il Polo Museale della città di Firenze.

L’interesse dei pittori per l’architettura e l’urbanistica come oggetto di


rappresentazione si palesa dai primi decenni del quattrocento come
pratica non solo mirata a riprodurre l’esistente, bensì a “inventare”
nuovi spazi urbani. In quest’ottica sono state fin qui interpretate anche
20 alcune vedute prospettiche di “città ideali” attorno alle quali ruota la

39
mostra ospitata dalla Galleria Nazionale delle Marche di Urbino (6 aprile
– 8 luglio 2012).

PITTORE DELL’ITALIA CENTRALE


25 Veduta di una Città ideale
Tempera su tavola, cm. 80,3 x 220 x 3,2 supporto ligneo
BALTIMORA (USA), Walters Art Museum
Credito Fotografico: © The Walters Art Museum, Baltimora

LA CITTA’ IDEALE. L’utopia del Rinascimento a Urbino tra Piero


30 della Francesca e Raffaello a cura di Lorenza Mochi Onori e Vittoria
Garibaldi, si propone di dimostrare come una di queste tavole dipinte
con vedute urbane, conosciuta come Città ideale e conservata proprio
nel museo urbinate promotore dell’iniziativa, rappresenti, insieme con
i dipinti gemelli e altrettanto noti “il compendio della civiltà
35 rinascimentale fiorita ad Urbino e nel Montefeltro, nella seconda metà
del Quattrocento, ad opera di Federico da Montefeltro, Duca di Urbino;
il più dotto ed illuminato fra i signori del suo tempo”.

Non è la prima volta che la silenziosa tavola con la Città ideale di Urbino
è protagonista d’interpretazioni e speculazioni, così com’è scontato il
40 raffronto con le altre tavole prospettiche fin qui note e di cui la mostra
offre il confronto diretto con quella conservata alla Walters Art Gallery
di Baltimora. Mentre esigenze conservative non hanno consentito di
esporre anche la veduta architettonica della Gemäldegalerie di Berlino,
museo dove fra l’altro si segnala almeno un’altra tela omologa,
45 tradizionalmente assegnata a Francesco di Giorgio Martini, in cui alcuni
hanno riconosciuto la piazza Ognissanti di Firenze, altri porta san
Nicolò, sempre nel capoluogo toscano.

40
PITTORE DELL’ITALIA CENTRALE
50 Città ideale – Tempera su tavola, cm. 67,7 x 239,4 x 3,7
URBINO, Galleria Nazionale delle Marche, INV. 1990 D37
Credito Fotografico: Su concessione del Ministero per i Beni e le attività
culturali.
Foto: Soprintendenza per i Beni Storici Artistici
55 ed Etnoantropologici delle Marche

In mostra ci sono invece un’ottantina di opere fra dipinti, sculture,


tarsie lignee, disegni, trattati, medaglie, modelli lignei e codici miniati,
“che intendono illustrare a tutto campo il felicissimo momento
rinascimentale vissuto dalla piccola capitale”. Dunque opere di
60 Domenico Veneziano, Sassetta, Piero della Francesca, Fra’ Carnevale,
Leon Battista Alberti, Francesco di Giorgio, Luca Signorelli, Jacopo de
Barbari, Mantegna, Perugino, Bramante e Raffaello. Quest’ultimo è
presente in mostra con un disegno e con la predella della Pala Oddi
eccezionalmente concessa dai Musei Vaticani. “Accanto a capolavori
65 conclamati – spiegano i curatori della rassegna – altri a cui non
riusciamo ancora a dare una paternità certa come appunto le ‘città
ideali’ e la celeberrima tavola Strozzi straordinariamente concessa dal
Museo di San Martino a Napoli”.

Se le vedute urbane, come ricordano i curatori dell’esposizione,


70 costituiscono da sempre un vero rompicapo attributivo per cui sono
stati fatti a vario titolo anche i nomi di alcuni degli autori rappresentati
anche in quest’occasione, da Leon Battista Alberti a Luciano Laurana e
a Francesco di Giorgio Martini, altrettanto intrigante e meno scontato
di quanto possa apparire è il reale soggetto di questi stessi dipinti,
75 criptato sotto la seducente definizione di “città ideale” che dà anche il
titolo all’evento.

41
STEFANO DI GIOVANNI DETTO SASSETTA
Veduta di città su un promontorio – Tempera su tavola, cm. 23 x 33,5
80 SIENA, Pinacoteca Nazionale, inv. 70
Credito Fotografico: Su concessione del Ministero per i Beni e le attività
culturali.
Foto: Soprintendenza BSAE di Siena e Grosseto

Secondo una parte della critica le tavole di Baltimora, Urbino e Berlino


85 altro non sono che studi di scena e in particolare, sulla scorta, per
esempio, delle descrizione del Serlio, della scena tragica (Baltimora) e
di quella comica (Urbino). Nella prima, con i suoi edifici aulici, secondo
alcune proposte di lettura, si può riconoscere la ricostruzione di un
ambiente classico, mentre altri propendono per identificarla con un
90 ambiente contemporaneo dove fra l’altro spiccano la chiesa a pianta
centrale sulla destra e la porta turrita inquadrata dall’arco, di tipo
classicheggiante. In ogni caso si tratta di geometrie perfette, edifici che
misurano e scandiscono spazi rigorosi e fortemente evocativi.

Non a caso la “città ideale” è soprattutto un manifesto: il simbolo della


95 cultura rinascimentale urbinate o meglio ancora di una sua particolare
declinazione più nota con la fortunata definizione di André Chastel di
“umanesimo matematico”.

1. Rispondete alle domande:

a. Per quale occasione fu scritto l’articolo?

b. Di quale città e quale periodo si parla specificamente?

c. A quali problemi dei ricercatori si riferisce il paragrafo che va dalla


riga 69 alla 76?

d. Che suggerisce l’espressione “umanesimo matematico” (r. 97)?

e. Potete collegare l’informazione del testo con le vostre conoscenze


precedenti sulla città ideale e il Rinascimento?

2. Senza consultare il vocabolario, cercate di dedurre il significato delle


seguenti parole con l’aiuto del contesto e dell’analisi delle loro parti:

a. lungimiranza (r. 2)

b. palesarsi (r. 17)

42
c. tavola (r. 31, 38)

d. capolavoro (r. 64)

e. rompicapo (r. 70)

f. spiccare (r. 90)

3. Traducete le seguenti frasi, e aggiungete i loro falsi amici al quadro di pag.


121:

a. non solo mirata a riprodurre l’esistente, bensì a “inventare” nuovi spazi urbani
(r. 18-19)

b. In mostra ci sono invece un’ottantina di opere (r. 56)

c. Secondo una parte della critica le tavole di Baltimora, Urbino e Berlino altro non
sono che studi di scena (r. 84-85)

d. Non a caso la “città ideale” è soprattutto un manifesto (r. 93)

4. Insieme all’insegnante, osservate l’aggettivo urbinate (r. 33 e 95). Avevate


capito che si riferiva a Urbino? Ricordate qualche altro aggettivo simile
che sia apparso su altri testi? Nel 8 ce n’è uno...

֍ Per approfondire, vedi il video della RAI sulle città ideali del Rinascimento,
in https://www.youtube.com/watch?v=bBtMvQ8wFCU

43
10
LA COMMEDIA DELL'ARTE [Tratto da http://www.treccani.it/]

Origine - Nata circa a metà del sec. XVI, e durata fino all'inizio del XIX, la
commedia dell'arte si chiamò commedia buffonesca, istrionica, di maschere,
5 all'improvviso, a soggetto; e, in molti paesi stranieri dal sec. XVII in poi,
italiana. Ma su tutte queste denominazioni quella di commedia dell'arte
prevalse, perché definiva con precisione il suo carattere essenziale; ch'era di
essere recitata, per la prima volta in Europa, da compagnie di comici
regolarmente costituite, con artisti che vivevano dell'arte loro; in altri termini,
10 da comici di mestiere. Durante il Medioevo, se se ne esclude qualche infima
categoria d'istrioni, gl'interpreti del teatro religioso e di quello erudito non erano
attori di professione. Con la commedia dell'arte appare un'organizzazione
nuova, di attori specializzati, attraverso un addestramento tecnico, mimico,
vocale, perfino acrobatico, e alle volte con una preparazione culturale. Questi
15 attori rappresentavano anche opere più o meno regolari, ossia scritte; e
continuarono ad avere nel loro repertorio tragedie, drammi pastorali, e le
cosiddette opere regie, ridotte dallo spagnolo. Ma il loro campo vero, per cui
divennero in pochi anni famosi in tutta Europa, fu la commedia a soggetto, ossia
la commedia di cui non si scriveva se non lo scenario, la trama, lasciandone lo
20 sviluppo dialogico e mimico all'improvvisazione dei comici.

La commedia dell'arte si è voluta far derivare, secondo alcuni studiosi, dalle


farse laziali e campane, che nella letteratura latina precedono la commedia di
Plauto. […] Ma l'ipotesi d'una derivazione diretta della commedia dell'arte e dei
suoi tipi, attraverso quasi due millennî, dall'antichità latina al Rinascimento,
25 oggi è generalmente abbandonata. Tipi fissi ce ne sono stati in tutti i generi, di
farse e di commedie; appunto per quella esigenza di stilizzazione e di artificio
meccanico che è una caratteristica del comico. […]

Argomenti della commedia dell'arte - Quali furono gli argomenti della


commedia dell'arte? I suoi scenarî sono attinti un po' dovunque; e, spessissimo,
30 proprio dalla commedia "sostenuta", erudita, classicista, se non addirittura da
Plauto e da Terenzio. Si conoscono, oggi, molti di cotesti scenarî (più di mille).
[…]

La scenografia di queste trame ci riporta sovente dinnanzi alla vecchia scena


della commedia classica: la solita via, o piazza, con le due case a fronte. Le
35 scene di "interni" sono, specie nei primi anni, meno frequenti. Solo col tempo,
e con l'arricchirsi della tecnica pittoresca e delle belle prospettive, secondo il
gusto barocco e magnifico dei secoli XVII e XVIII, avremo visioni nuove, più
o meno fantasiose e fastose. Anche i personaggi, nel loro carattere essenziale,
spesso non sono che la trasformazione di quelli della commedia classica: i

44
40 vecchi, i giovani innamorati o scapestrati, i servi lestofanti che tengono loro
mano, i parassiti, gli smargiassi, e via dicendo. E alla commedia classica si
ritorna, abbastanza spesso, con gl'intrighi: solo che qui non si hanno più gli
scrupoli accademici circa la cosiddetta "favola doppia" (la quale, mescolando
due intrecci d'amore, pareva ribelle al principio aristotelico dell'unità d'azione):
45 gl'intrecci d'amore nella commedia dell'arte sono due, tre, quattro, cinque. […]
Si può quindi concludere che nella commedia dell'arte ritroviamo i più stanchi
ed esauriti elementi di quel teatro erudito il quale annoiava il gran pubblico,
talora rimescolati con un vigore nuovo, altre volte appoggiati alle meno nobili
risorse delle rappresentazioni popolaresche.

50 Le maschere - La commedia dell'arte doveva avere dunque in sé altre ragioni


di successo. Una fu l'apparizione delle maschere. Quest'apparizione era una
trasformazione. Anche la commedia erudita presentava di solito un certo
numero di personaggi i quali si rassomigliavano incredibilmente fra loro e, pure
assumendo spesso nomi differenti e dandosi l'aria di collocarsi in paesi e climi
55 diversi, si ripetevano da un'opera all'altra. La commedia dell'arte ebbe il
coraggio di dichiarare apertamente che i suoi personaggi erano sempre gli
stessi: coraggio che le venne dal fatto di essere opera non di autori ma di attori.
[…] Per tutta la vita e in tutte le commedie che reciterà, il comico dell'arte (salvo
rare eccezioni) sarà un solo personaggio: sarà unicamente Pantalone o
60 Arlecchino, Rosaura o Colombina. Perfino il suo nome si confonderà con quello
della sua maschera, sicché a un certo punto non si saprà più quale sia il vero e
quale il fittizio. […]

Tecnica della commedia dell'arte - S'è ripetuto per secoli che la suprema
attrattiva della commedia dell'arte consisté nel fatto che i suoi attori recitavano
65 abbandonandosi all'estro del momento e cioè improvvisando. Ma questa
improvvisazione va intesa con cautela. I comici dell'arte non soltanto
concertavano - sotto la guida di quel direttore che il Perrucci chiama corago, e
con regole e procedimenti che hanno avuto i loro trattatisti - l'insieme dello
spettacolo; ma ognuno d'essi aveva un suo formulario, che mandava
70 coscienziosamente a memoria. Esistevano raccolte scritte, e anche stampate, di
"concetti", di soliloquî, di tirate, a uso di ciascun carattere. C'erano le "prime
uscite" i "saluti", le "chiusette", ecc., in prosa e anche in versi, che ogni comico
si teneva pronti per adattarli qua e là, in non importa quale commedia. La loro
principale abilità su questo punto consisteva dunque nel sapere inserire i loro
75 brani a tempo e a luogo, cucendoli col resto della parte propria o altrui, in
seguito a prove accuratissime. Oltre ai repertorî di queste formule, diciamo così,
letterarie, i comici dell'arte consultavano, o ricordavano, quelle dei lazzi (gli
acti, l'atti), o giuochi scenici, di cui pure esistono raccolte copiose, paragonabili
agli scherzi dei nostri pagliacci nei circhi. E dizione e azione e mimica si davan
80 la mano a galvanizzare, volta per volta, questa materia, che riusciva a
entusiasmare il pubblico.

45
La mimica dell'attore italiano si esprimeva, per lo più, non col giuoco della
fisionomia, quasi sempre ricoperta dalla maschera, ma, come del resto era
avvenuto anche nell'antichità, e avviene tuttora in Oriente, con l'atteggiamento
85 dell'intera figura. L'uso della maschera non fu sempre assoluto, né adottato da
tutti i personaggi: innamorati e innamorate, per es., hanno recitato a viso
scoperto. Ma di regola i comici usavano la maschera […]

All'elemento mimico si aggiungeva poi, importante specie nei riguardi della


comicità, l'elemento acrobatico. La commedia dell'arte, spettacolo in buona
90 parte visivo, addestrava i suoi artisti non solo nella ginnastica, per uno scopo
evidente di scioltezza e di prestanza fisica, ma addirittura nell'acrobazia.
Contorsioni e piroette, capitomboli e salti mortali erano il loro forte; e non dei
soli uomini. […]

Inoltre, alle virtù acrobatiche i comici italiani univano quelle di ballerini e di


95 musicisti: la commedia dell'arte è fiorita spesso di danze e di canzoni. In ogni
compagnia c'era qualcuno e qualcuna che sapesse cantare. […]

Quando, infine, alle virtù di tutta questa tecnica si aggiunsero, specie nel
Seicento, i trucchi meccanici e le meraviglie della nuova scenografia; quando
ai vecchi intrecci si mescolarono le favole e le evocazioni mitologiche; quando
100 ai soliti lazzi, alle solite bastonature, ai soliti spaventi e fuggi-fuggi si
frammischiarono le sorprese spettacolose; […] allora l'entusiasmo del pubblico,
colto e incolto, giunse ai fastigi: e il successo della commedia dell'arte per più
di due secoli fu tale da non aver possibili riscontri nella storia del teatro.

Il successo dei comici dell'arte in Europa - Questo successo, subito


105 affermatosi tra le corti d'Italia, valicò immediatamente i confini delle Alpi. […]

Per quasi un secolo i comici italiani, che avevano di regola recitato nella loro
lingua - allora assai diffusa, ma certo non compresa da tutti: altra riprova delle
loro preponderanti bravure mimiche - ormai avevano anche adottato, in Francia,
il francese. Il che aveva dato origine, per ragioni di concorrenza, a lamentele da
110 parte degli attori parigini; ma la vittoria fu degl'italiani, e nel loro repertorio
figurarono sempre più spesso lavori anche regolari, scritti da autori francesi.
[…]

Forse per arrivare a renderci piena ragione del fenomeno, conviene persuadersi
che il concetto del comico sembrava, allora, inseparabile da quello di
115 sconcezza; che la commedia era di fatto considerata, non come lo specchio della
vita, ma come una costruzione di vivace artificio, assolutamente estranea ad
essa, e fuori delle sue leggi anche morali. A ogni modo è anche questo che
spiega come, in tempo di Riforma protestante e di Controriforma cattolica, i
comici italiani furono aspramente combattuti dai maestri di vita religiosa e dalle
120 autorità ecclesiastiche, le quali cercarono di tirar dalla loro, qualche volta

46
riuscendovi, anche le civili. E spiega il bollo d'infamia idealmente ricollocato
sulla fronte dell'attore.

Ci furono, è vero, i transigenti e i concilianti - e nella schiera si conta San Carlo


Borromeo, che ammise la commedia dell'arte, previa censura. Ci furono, fra i
125 trattatisti e gli stessi comici, molti dei quali erano sinceramente devoti, autori
di difese del mestiere infamato: difese consistenti nel ripudiare gli eccessi, nel
raccomandare ai fratelli la moderazione, e nell'affermare ancora una volta
gl'intenti morali del teatro comico. […]

Giudizio sulla commedia dell'arte - Perciò la commedia dell'arte, che si è


130 voluta considerare soprattutto come spettacolo popolare, ci dà anche uno dei
documenti più insigni di quella che fra il sec. XVI e il XVIII fu, nonostante gli
sforzi di cattolici e di protestanti, di gesuiti e di giansenisti, la decadenza
spirituale delle alte classi sociali: delle classi, cioè, le quali le fornivano i
migliori spettatori. E se chi protestava per ragioni morali era in minoranza, chi
135 rifiutava quegli spettacoli dal punto di vista estetico si può dire che non
esistesse: in Francia il caso di Malherbe, a cui la commedia dell'arte non
piaceva, fu più unico che raro. […]

Quindi la commedia dell'arte appartiene, oltre che naturalmente alla storia del
costume, alla storia non tanto del dramma quanto del teatro, come scena e
140 organizzazione tecnica. Espressione dei gusti d'una parte della società di quei
secoli, la più frivola, la più vuota, già dannata al crollo, essa fu il brillantissimo
e arido tentativo di sostituire al dramma lo spettacolo; fu la portentosa
esecuzione di opere inesistenti; fu la sbalorditiva cornice d'un quadro che non
c'era. E chi s'accosti, oggi, direttamente alle tracce ch'essa ha lasciato sulla
145 carta, troppo spesso ne avverte il gelo e la morte; peggio, avverte che tutto ciò
non era mai stato vivo in sé; aveva preso a prestito la sua vita da altri, cioè dagli
attori.

Sono dunque gli attori che contano nella commedia dell'arte. I comici dell'arte
dettero all'Europa, come fu bene accennato dal Croce, l'organizzazione del
150 teatro moderno. Nel quale le maschere sono sparite; ma al loro posto sono
rimasti, per secoli, i ruoli, ossia la definizione di quei limiti fisici e spirituali
oltre i quali ogni attore, appunto perché uomo e cioè limitato, non può andare;
quei ruoli che il trasformatore della commedia dell'arte, Carlo Goldoni, rispettò
e portò a compimento estetico. E se oggi in Francia, in Germania e in Russia,
155 non solo i dotti, ma gli artisti e i loro maestri tornano alla commedia dell'arte,
vi tornano non perché celebratori d'un contenuto poetico ch'essa non ebbe, ma
come a un modello dell'arte dell'attore.

47
1. Indica se le seguenti affermazioni sono vere o false. Se sono false,
giustifica:
a. La Commedia dell’arte nacque nel Medioevo.
b. Gli attori della Commedia dell’arte erano professionisti.
c. Gli attori della Commedia dell’arte dovevano memorizzare i
testi.
d. Nella Commedia dell’arte si mescolano le tradizioni erudita e
popolare.
e. Qual era il concetto di comico?
f. La Commedia popolare ebbe una grande accettazione da parte
del pubblico.
g. Oggi la Commedia dell’arte è dimenticata dagli attori di teatro.

2. Rispondi alle domande:


a. Qual è la grande rivoluzione della Commedia dell’arte?
b. Quali sono le sue caratteristiche principali?
c. Che tipo di lavoro era richiesto agli attori?
d. Che sono le maschere?
e. Qual è il rapporto tra il cattolicesimo e la Commedia dell’arte?
f. A quale rischio di valutazione alludono le righe 142-146?

3. Lavora con dei compagni. Traducete le seguenti frasi:

a. Ma su tutte queste denominazioni quella di commedia dell'arte prevalse,


perché definiva con precisione il suo carattere essenziale; ch'era di essere
recitata, per la prima volta in Europa, da compagnie di comici regolarmente
costituite, con artisti che vivevano dell'arte loro. (r. 5-8)
b. Con la commedia dell'arte appare un'organizzazione nuova, di
attori specializzati, attraverso un addestramento tecnico, mimico,
vocale, perfino acrobatico, e alle volte con una preparazione
culturale. (r. 12-14)
c. Questo successo, subito affermatosi tra le corti d'Italia, valicò immediatamente
i confini delle Alpi. Per quasi un secolo i comici italiani, che avevano di regola
recitato nella loro lingua - allora assai diffusa, ma certo non compresa da tutti:
altra riprova delle loro preponderanti bravure mimiche - ormai avevano anche
adottato, in Francia, il francese. (r. 104-108)

48
d. Quindi la commedia dell'arte appartiene, oltre che naturalmente alla storia
del costume, alla storia non tanto del dramma quanto del teatro, come scena e
organizzazione tecnica. (r. 137-139)
e. fu la sbalorditiva cornice d'un quadro che non c'era. (r. 142-143)

4. Identificate il referente dei seguenti pronomi:


a. loro (r. 8)
b. quelli (r. 38)
c. ci (r. 129)
d. essa (r. 143)
e. ciò (r. 144)
f. loro (r. 149)

5. Sottolineate tutti i verbi coniugati del paragrafo che va dalla riga 128
alla riga 136, e indicate in quale tempo e modo si trovano con l’aiuto
del quadro di pag. 119.

֍ Per approfondire, conoscete le maschere della Commedia dell’arte


guardando questo video:

https://www.youtube.com/watch?v=xUHtuXp9MIQ

49
11

Claudio Monteverdi

[Tratto da http://www.sapere.it]

1. Insieme ai compagni, parla delle opere di Claudio Monteverdi. Potreste


commentarne qualche trama?

Nato in una modesta famiglia, Claudio Monteverdi (Cremona 1567 - Venezia 1643) fu
avviato giovanissimo alla musica, che studiò sotto la guida del maestro di cappella del
duomo di Cremona, M.A. Ingegneri. A 15 anni, nel 1582, pubblicò la sua prima opera,
una raccolta di Sacrae Cantiunculae a 3 voci, a cui seguirono, nel 1583, i Madrigali
5 Spirituali a 4 voci e, nel 1584, le Canzonette a 3 voci. La pubblicazione del Primo Libro
dei Madrigali (1587) segnò il suo ingresso nel novero dei più grandi compositori europei
del tempo. Negli anni giovanili Monteverdi si segnalò anche come suonatore di viola e in
questa qualità entrò, nel 1590, nella cappella musicale del duca Vincenzo Gonzaga a
Mantova, al cui seguito fu nel 1595 in Ungheria e nel 1599 nelle Fiandre. Durante questi
10 viaggi, specie il secondo, ebbe modo di fare fondamentali esperienze artistiche, venendo
a contatto con un ambiente musicale allora tra i più fervidi e attivi d'Europa. La crescente
importanza del ruolo di Monteverdi presso la corte mantovana, sia come compositore, sia
come concertatore e direttore di manifestazioni musicali, gli valse nel 1603 il titolo di
maestro di cappella del duca Vincenzo. Nel 1607 esordì nell'ambito teatrale con l'Orfeo
15 su libretto di A. Striggio, favola in musica commissionatagli dal duca per rivaleggiare con
gli sfarzosi spettacoli della corte fiorentina, che sette anni prima avevano inaugurato la
consuetudine delle opere in musica con l'Euridice di J. Peri.

La composizione, nel 1608, dell'Arianna (di cui è pervenuto solo il Lamento, un episodio
rielaborato dallo stesso compositore anche come madrigale a cinque voci e come Lamento
20 della Madonna in una versione sacra per voce e basso continuo), poneva Monteverdi alla
testa del movimento che, alle soglie del barocco, andava saggiando le molteplici
possibilità espressive offerte dalle nuove acquisizioni stilistiche, quali la monodia
accompagnata, lo stile concertante per voci e strumenti, le forme chiuse, lo stile vocale
virtuosistico ecc. Era in certo modo, da parte del musicista, una risposta alle violente
25 critiche mossegli a più riprese dal canonico bolognese G.M. Artusi, che in Monteverdi
indicava il rappresentante più significativo di una corrente iconoclastica e negatrice dei
supremi ideali di chiarezza e di equilibrio dell'estetica rinascimentale.

Gli anni successivi, gli ultimi trascorsi dal musicista alla corte di Mantova, furono densi
di attività in tutti gli ambiti musicali; tuttavia, spicca la pubblicazione, nel 1610, della
30 prima grande raccolta di composizioni sacre di Monteverdi, comprendente la Missa senis
vocibus, costruita con la più cerebrale tecnica contrappuntistica di ascendenza fiamminga,
e il grandioso Vespro della Beata Vergine, ispirato alla festosa misura dello stile
concertante proprio della scuola veneta.

Gli anni veneziani

50
35 Alla morte di Vincenzo Gonzaga (1612), Monteverdi lasciò la corte mantovana,
probabilmente per contrasti con il nuovo duca Francesco, e nel 1613 ottenne il posto,
ambitissimo e ben remunerato, di maestro della veneziana basilica di San Marco. A
Venezia rimase sino alla morte, stimato e onorato come uno dei più grandi musicisti
viventi, attendendo serenamente ai propri obblighi di maestro di cappella (che
40 prevedevano la composizione di opere sacre e religiose, purtroppo pervenute solo in parte
nella raccolta Selva morale e spirituale, edita nel 1640, e nell'altra, postuma, Messa a 4
voci et Salmi, del 1650) e impegnandosi in una fervida attività creativa. Testimonianza di
tale attività furono la regolare pubblicazione dei propri madrigali (di cui, nel 1638,
pubblicò l'ottavo libro, intitolato Madrigali guerrieri et amorosi e contenente anche
45 composizioni drammatiche, come il celeberrimo Combattimento di Tancredi e Clorinda
su testo tratto dal XII canto della Gerusalemme liberata di T. Tasso, e il Ballo delle
ingrate) e la composizione di opere e balletti per nobili famiglie veneziane e per le corti
di Mantova, Parma e Vienna (pagine in gran parte perdute) e di musiche sacre per chiese
veneziane.

50 A coronamento della propria attività compositiva, Monteverdi scrisse due grandi lavori
teatrali per due teatri pubblici di Venezia: nel 1641 Il ritorno di Ulisse in Patria, su libretto
di G. Badoaro, per il Teatro San Cassiano, e nel 1642 L'incoronazione di Poppea, su
libretto di G.F. Busenello, per il Teatro dei Santi Giovanni e Paolo.

Caratteri dell'opera

55 A ragione Monteverdi è stato definito il creatore della musica moderna: sia nei suoi lucidi
scritti di poetica, sia in tutta la sua produzione (con l'eccezione, forse, di parte delle pagine
religiose) Monteverdi afferma una concezione della musica essenzialmente come fatto
espressivo, come mezzo per rivelare nella loro più vibrante e icastica dimensione "gli
affetti" dell'animo umano. Nella sua opera si assiste appunto al passaggio dall'estetica
60 rinascimentale, che poneva nella forma e nell'armonia della struttura il culmine della
perfezione estetica, a quella barocca, che vede in tutti gli aspetti dello stile musicale
altrettanti mezzi per portare in primo piano il vario e contrastato mondo della psicologia.
Questo trapasso ha come perfetta corrispondenza, sul piano stilistico, la sostituzione di
una prassi compositiva fondata essenzialmente sulle risorse del contrappunto imitato, di
65 ascendenza fiamminga, con una più libera scrittura, che si modella momento per
momento, impiegando via via sempre più complessi stilemi, sui nuclei semantici del testo.
Gli otto libri di madrigali (1587-1638), ai quali se ne deve aggiungere un nono (Madrigali
e canzonette a 2 e 3 voci, del 1651, postumo), permettono di seguire analiticamente il
formarsi di questo stile. L'acquisizione della dimensione scenica, caratteristica delle opere
70 accolte negli ultimi tre libri (che sfruttano in misura rilevante anche le risorse del
linguaggio strumentale), è la conseguenza estrema di questa ininterrotta ricerca di una
sempre più icastica consistenza immaginativa del linguaggio musicale monteverdiano.
Tale linguaggio ebbe modo di realizzarsi compiutamente nell'ambito del teatro,
caratterizzato da una costante umanizzazione dei personaggi, che portò Monteverdi
75 dall'elegante e un po' distaccata atmosfera dell'Orfeo, ancora per tanti aspetti legato al
mondo della favola pastorale rinascimentale, al tenebroso affresco, di sconcertante
audacia realistica, dell'Incoronazione di Poppea, un'opera che non a torto fu accostata ai
maggiori capolavori shakespeariani.

51
2. Dopo aver letto il testo, rispondi alle domande:
a. In cosa consistette la prima raccolta di composizioni sacre di
Monteverdi?
b. Quale fu la sua concezione musicale?
c. Come fu il soggiorno di Monteverdi a Venezia?
d. Quale fu il ruolo del musicista presso la corte di Mantova?
e. Come rispose Monteverdi alle critiche?
f. Quali furono i suoi lavori teatrali?
g. Quale fu la sua formazione musicale?

3. Ora metti accanto ad ogni paragrafo la lettera della domanda


corrispondente.

4. Rileggi il testo e sottolinea tutte le parole del campo lessicale della musica.

5. Cerchia i verbi al passato remoto del primo brano (r. 1-16) e volgili
all’infinito.

6. Deduci alcuni significati, senza usare il vocabolario:

Quali espressioni italiane corrispondono a...

a. agli inizi, ai primi tempi?


b. progressivamente, a mano a mano?

7. Lavora con un compagno o una compagna; traducete le seguenti frasi:

a. Nel 1607 esordì nell'ambito teatrale con l'Orfeo su libretto di A. Striggio, favola
in musica commissionatagli dal duca per rivaleggiare con gli sfarzosi spettacoli
della corte fiorentina (r. 14-15)
b. Gli anni successivi, gli ultimi trascorsi dal musicista alla corte di Mantova, furono
densi di attività in tutti gli ambiti musicali; tuttavia, spicca la pubblicazione, nel
1610, della prima grande raccolta di composizioni sacre (r. 28-29)
c. un'opera che non a torto fu accostata ai maggiori capolavori shakespeariani. (r.
77-78)

֍ Per approfondire, vedi il video http://www.raiscuola.rai.it/articoli/claudio-


monteverdi-storia-del-melodramma-italiano/3008/default.aspx

52
12
Osservate il testo e avanzate delle ipotesi:

- A quale tipologia testuale appartiene?


- Com’è diviso?
- Chi ne sarebbero i destinatari?

Uno sguardo sulla Scala, di Giada Maria Zanzi


[Tratto e adattato da www.apemusicale.it]

Nell’autunno del 1865, per un musicista oggi dimenticato come Bartolomeo Pisani
(Costantinopoli 1811 - 1876) fu un vanto poter leggere sul frontespizio del libretto della
sua Rebecca, su testo di Francesco Maria Piave, "composta espressamente per la Scala di
Milano", una delle realtà teatrali più celebri al mondo, musa di illustrissimi compositori,
5 dall'attività intensissima che ha ospitato e accoglie tuttora alcuni fra i più artisti da tutto
il globo, meteore e stelle, ascese e cadute, tonfi e trionfi.

Il teatro prende il nome dalla chiesa di Santa Maria della Scala (voluta da Beatrice Regina
della Scala, sposa di Bernabò Visconti), demolita alla fine del Settecento per cedere il
posto al Nuovo Regio Ducal Teatro alla Scala, inaugurato il 3 agosto del 1778: per
10 l’occasione Antonio Salieri, che ottiene l’incarico dopo il rifiuto di Gluck, vede
rappresentata la sua Europa riconosciuta. Sin dagli albori, il Teatro alla Scala conta su
orchestra, coro e corpo di ballo stabili, e dall’anno 1982, è anche sede dell’Associazione
Orchestra Filarmonica. Nel 1996 nasce la Fondazione Teatro alla Scala, impegnata in
imponenti lavori di restauro dell’edificio a partire dal 2002, i più significativi dalla fine
15 della Seconda Guerra Mondiale: il Teatro degli Arcimboldi diviene il nuovo palcoscenico
della Scala finché la storica sala del Piermarini non riapre e celebra la sua
modernizzazione rioffrendo al pubblico L’Europa riconosciuta di Salieri il 7 dicembre
2004. Nel 1951 si consacra il 7 dicembre, giorno di S. Ambrogio, patrono milanese, come
data per l’inaugurazione della stagione lirica scaligera: la prima della Scala non è solo un
20 evento musicalmente e culturalmente rilevante, oramai si tratta di un imperdibile
appuntamento che catalizza sull’Italia e su Milano l’attenzione internazionale attraverso
il genere operistico, fiore all'occhiello del Bel Paese.

Verri e la fisionomia dell’antico Teatro alla Scala


Fino ai primi anni del XIX secolo, i teatri lirici italiani animarono le vite cittadine con
25 opere e balletti, ma anche gioco d’azzardo; costruiti prevalentemente in legno, erano
soventemente soggetti a incendi soprattutto perché l’illuminazione era possibile soltanto
con candele e lampade a olio, senza dimenticare che si soleva ricorrere a bracieri per
riscaldare l’ambiente. I primi teatri d’opera milanesi furono sale private. Inizialmente la
musica riecheggiava nelle corti nobiliari e, dal 1598, nel Palazzo Ducale, ove nel 1717 fu
30 costruito il Regio Ducal Teatro, il principale teatro del capoluogo lombardo sino alla
fondazione della Scala, anticipata dal provvisorio Interinale. Il progetto del Teatro alla
Scala (supportarono economicamente dai palchettisti del Regio Ducal Teatro in cambio
del rinnovo della proprietà dei palchi) fu affidato all’architetto Piermarini, mentre

53
dobbiamo la decorazione pittorica a Giuseppe Levati, Giuseppe Reina e Domenico
35 Riccardi che dipinse il sipario: i lavori iniziarono nel 1776 e terminarono due anni dopo.
Come già accennato, i teatri erano anche luoghi adibiti al gioco d’azzardo, che fu una
fonte di finanziamento anche per la Scala nei suoi primi anni di attività, comunque sempre
supportata da quelle famiglie che vollero la sua edificazione e che ne mantenevano la
proprietà attraverso le quote dei palchi e affidando la gestione ad abili impresari, mentre
40 la platea era destinata al grande pubblico meno altolocato e talvolta al ballo. L’atmosfera
teatrale settecentesca era completamente differente da quella che riscontriamo nei teatri
odierni: il rigoroso silenzio che oggi impera, agli inizi della storia del teatro era totalmente
assente, rotto dal chiacchiericcio proveniente dalla platea e dai palchi nobiliari. Le sere a
teatro erano occasioni di incontri e confronti sociali, non momenti esclusivamente votati
45 all’ascolto musicale, e durante quella dell’inaugurazione della Scala, il 3 agosto 1778, vi
fu uno spettatore che non rimase colpito del tutto positivamente dalla cornice
architettonica che ospitò L’Europa riconosciuta di Salieri: era l’illuminista milanese
Pietro Verri, filosofo, storico, letterato nonché celebre economista, amante dell’arte e
autore di importanti discorsi legati al concetto di gusto musicale e non solo. Verri non
50 apprezzò la facciata del Piermarini e l'assenza di una piazza, che verrà realizzata fra il
1857 e il 1861 su iniziativa dell'imperatore asburgico Francesco Giuseppe. […]

L’aspetto del teatro non rimarrà immutato nel tempo, subirà significativi cambiamenti e
ristrutturazioni. In qualità di organismo vivo e pulsante, si adatterà alle necessità.
Proseguendo nella lettura dell’epistola fra Verri e il fratello apprendiamo che il fondo del
55 palco si appoggiava alla casa dei marchesi Talenti da Fiorenza, cioè quell’abitazione che
sappiamo che negli anni successivi sarà acquistata e demolita per ricavare il retropalco;
la prima metà del XIX secolo è all’insegna di importanti interventi sulla struttura del
teatro, che cambia volto per adattarsi al canone neoclassico ottocentesco, inoltre la Scala
si consacra come luogo privilegiato deputato alla rappresentazione del melodramma
60 italiano, anche grazie alle messe in scena di opere di Rossini (che per la Scala scriverà
espressamente La pietra del paragone, Aureliano in Palmira, Il turco in Italia, La gazza
ladra e Bianca e Falliero), Mercadante (fra le tante, ricordiamo almeno Il bravo e Il
giuramento), Donizetti (per esempio Gemma di Vergy, Lucrezia Borgia e Maria Stuarda),
Bellini (Il pirata, La straniera e Norma) e Verdi.

65 L'Ottocento: Verdi, opera e non solo


Giuseppe Verdi esordisce al Teatro alla Scala nel 1839 con l’Oberto, conte di San
Bonifacio, ottenendo grande apprezzamento da parte del pubblico che gli garantisce
ulteriori commissioni; nel 1840 fa in scena con poco successo Un giorno di regno, mentre
nel 1842 è la volta di Nabucco, che consacra il compositore di Busseto anche in virtù di
70 quel patriottismo che il pubblico riconoscerà anche in opere come Giovanna d’Arco e I
Lombardi alla prima crociata.

Quello che sembra essere un rapporto idilliaco continuativo è, però, destinato a un brusco
arresto: controversie artistiche ed economiche fra Verdi e gli impresari teatrali insorte in
occasione della rappresentazione della Giovanna d’Arco del 1845 spingono il
75 compositore a interrompere i rapporti col Teatro alla Scala, che, orfano di Verdi, sembra
attraversare un periodo non facile. Tuttavia, se può avvalersi solo di sporadiche
apparizioni di titoli rossiniani, il teatro vanta comunque un’assidua presenza di opere
belliniane e donizettiane. Dopo l’Unità d’Italia permane il prestigio del teatro milanese,
fra difficoltà più o meno grandi e memorabili successi, nonché ritorni: nel 1869 Giuseppe

54
80 Verdi ripropone La forza del destino, rivista dopo la prima versione che aveva esordito a
S. Pietroburgo. In quegli anni vi è anche il debutto scaligero di Richard Wagner: nel 1873
abbiamo la rappresentazione del Lohengrin e la varietà di linguaggi, con l'attenzione al
dibattito fra scuola italiana e novità tedesche, offerta dalla Scala garantisce sempre il
successo e l'interesse del pubblico. In seguito al suo rientro, Verdi fece udire per la prima
85 volta al pubblico milanese ed europeo l’Aida nel 1872, la nuova versione del Simon
Boccanegra nel 1881, l’Otello nel 1887 e Falstaff nel 1893. Un altro grande nome per il
Teatro alla Scala è quello di Ponchielli: la prima assoluta della Gioconda avviene nel
1876 proprio nel tempio (non solo) verdiano.

Celebri compositori hanno portato le loro opere alla Scala, ma, al compiere del primo
90 secolo di attività, il Teatro alla Scala, nato per l’opera e il balletto, annovera anche
numerose esecuzioni di musica sinfonica. Il 28 ottobre 1813 il trentunenne Nicolò
Paganini, virtuoso violinista, si presenta al Teatro alla Scala: fra il 1813 ed il 1827 darà
undici concerti e non sarà l’unico solista a esibirsi durante le stagioni concertistiche
scaligere. Ricordiamo anche Alessandro Rolla, primo violino della Scala che si esibiva in
95 coppia col figlio Antonio, anch’egli violinista, e Charles-Philippe Lafont, primo violino
alla corte di Luigi XVIII, che tra l’altro sostenne una celebre sfida con Nicolò Paganini.
Nel 1838 Franz Liszt porta le sue doti pianistiche a Milano contribuendo alla diffusione
del repertorio cameristico. Anche il pianista Sigismund Thalberg e il contrabbassista
Giovanni Bottesini hanno calcato le scene della Scala; grandi compositori ed esecutori
100 hanno consacrato il proprio talento a questo magnifico teatro, dove compaiono anche i
primi grandi direttori d'orchestra, a partire da Antonio Mazzucato, concertatore dal 1854
e il primo a salire sul podio con la bacchetta all'uso moderno nel 1866 per L'africana di
Meyerbeer, a Franco Faccio fino alla figura emblematica di Arturo Toscanini.

Toscanini e verso la Scala nel XX secolo


105 Gli ultimi anni dell’Ottocento scaligero vedono una serie di interventi di ristrutturazione
accompagnati da emergenze sociali ed economiche che portano il teatro così come ci è
noto a un periodo di chiusura dal 1897 al 1898: per un anno e mezzo funzionò, con un
numero ridotto di elementi orchestrali, come auditorium per alcuni concerti (fra cui si
segnalano la prima italiana della sinfonia Dal nuovo mondo di Antonín Dvořák diretta da
110 Leandro Campanari del 14 novembre 1897 e il concerto del 22 marzo 1898 per celebrare
il cinquantesimo anniversario delle Cinque Giornate di Milano diretto da Pietro
Mascagni), ma soprattutto come sala da ballo e persino palestra per gare di scherma. La
crisi del teatro venne superata anche grazie al mecenatismo culturale: il duca Guido
Visconti di Modrone, già presidente della Banca Lombarda, si propose come presidente
115 di una “Società anonima per l’esercizio del Teatro alla Scala” disposta a gestirlo senza
scopo di lucro per tre anni. La Scala ritrovò così la solidità finanziaria.

Il 26 dicembre 1898 ebbe luogo lo spettacolo di riapertura del Teatro alla Scala: I maestri
cantori di Norimberga di Richard Wagner (in italiano) dal grande Arturo Toscanini,
estimatore di Verdi come dei grandi autori d'oltralpe e delle nuove generazioni italiane
120 rappresentate da Mascagni, Boito e Puccini, che debutta alla Scala nel 1889.

Rispetto alla prassi di libertà concessa agli interpreti nei confronti della partitura,
Toscanini si dedica a un’attenta analisi delle opere per porgerle al pubblico con
un’esecuzione che fosse il più rigorosa e rispettosa possibile dell'autore, si prodiga per
ottenere luci più basse e maggiore attenzione durante lo spettacolo, l'abbassamento

55
125 dell'area destinata all'orchestra (buca o golfo mistico) rispetto alla platea, sul modello dei
teatri wagneriani. Non mancarono tuttavia scontri e perfino accuse di arbitrarietà mossegli
dall’editore Giulio Ricordi: il contrasto con Ricordi, che voleva impedire al direttore di
intervenire sul libretto del Trovatore verdiano per ripulirlo da consuetudini stabilitesi nel
tempo, col figlio di Visconti di Modrone e le visioni gestionali e musicali spesso
130 contrastanti con le posizioni di Toscanini, lo portarono, come Verdi prima di lui, a lasciare
la Scala polemicamente nel 1903.

Dopo un effimero rientro nel 1907 e le dimissioni di Toscanini nel 1908, il teatro subì
altre importanti modifiche, in particolare furono eliminati ventiquattro palchi per far posto
all'attuale prima galleria (nel 1891 importanti lavori già avevano riorganizzato il loggione
135 nell'attuale seconda galleria) e il teatro si dotò della buca per l’orchestra, già voluta dal
Maestro e messa in opera dal sovrintendente Gatti Casazza.

Dopo la Grande Guerra vi fu il ritorno, seppur non definitivo, di Toscanini alla Scala, che
vi diresse, fra l'altro, il Falstaff inaugurale della stagione 1921/22, la prima come Ente
Autonomo, e la prima assoluta della postuma pucciniana Turandot (25 aprile 1926). Nel
140 1931, il direttore, in seguito a un’aggressione subita dinnanzi al Teatro Comunale di
Bologna per essersi rifiutato di eseguire Giovinezza e la Marcia Reale decise di
abbandonare l’Italia. In seguito alla caduta del fascismo la penisola si riempì di manifesti
inneggianti a Toscanini, che inaugurò la nuova Scala, ricostruita dopo un bombardamento
del 1943, l’11 maggio 1946.

145 Arturo Toscanini è certamente una delle figure di maggior rilievo della storia teatrale
milanese: nel 1957 il Teatro alla Scala omaggiò il suo storico direttore, scomparso
quell’anno, con l'esecuzione a porte aperte, diretta da Victor de Sabata, della marcia
funebre dall'Eroica di Beethoven, inaugurando una tradizione che si ripeterà per lo stesso
De Sabata, per Gavazzeni e per Abbado.

150 Nel 1982 nacque la Filarmonica del Teatro alla Scala per volontà di Claudio Abbado
mentre nel 1996 fu costituita la Fondazione Teatro alla Scala.

Il Novecento ha portato parzialmente alla luce il volto scaligero odierno, che dobbiamo
ai lavori di ristrutturazione e restauro che ebbero luogo dal 2002 al 2004.

La Scala non è solo un edificio: la sua storia, costellata di lotte, gioie, trionfi e difficoltà,
155 dimostra che l’istituzione incarna un incondizionato amore per la musica e la cultura. La
Scala non è un semplice teatro, è un simbolo.

1. Dopo aver letto il testo, lavora con un gruppo di compagne/i:


a. fate una cronologia con gli eventi più importanti della storia del
Teatro alla Scala;
b. elencatene i “grandi nomi”.

2. Cercate nel testo le espressioni analoghe a:


a. frecuentemente, a menudo;
56
b. destinado a, utilizado para;
c. incluye.

3. Osservate le espressioni “meteore e stelle, ascese e cadute, tonfi e trionfi”


e “fiore all'occhiello” e traducete le frasi che le contengono.

4. Indica il referente dei seguenti pronomi:


a. ne (r. 38)
b. egli (r. 95)
c. cui (r. 108)
d. mossegli (r. 126)

5. Sottolinea tutti i falsi amici che trovi nel testo, e aggiungili allo schema
di pag. 121.

6. Osservate queste paia di frasi che contengono lo stesso connettore.


Sceglietene una (per ogni paia) e traducetela.

a.
Tuttavia, se può avvalersi solo di sporadiche apparizioni di titoli rossiniani, il
teatro vanta comunque un’assidua presenza di opere belliniane e donizettiane.
(r. 76-77)

Non mancarono tuttavia scontri e perfino accuse di arbitrarietà mossegli


dall’editore Giulio Ricordi (r. 126-127)

b.

Celebri compositori hanno portato le loro opere alla Scala, ma, al compiere del
primo secolo di attività, il Teatro alla Scala, nato per l’opera e il balletto,
annovera anche numerose esecuzioni di musica sinfonica. (r. 89-91)

e il concerto del 22 marzo 1898 per celebrare il cinquantesimo anniversario delle


Cinque Giornate di Milano diretto da Pietro Mascagni), ma soprattutto come
sala da ballo e persino palestra per gare di scherma. (r. 110-113)

֍ Per vedere com’è il Teatro alla Scala al suo interno, guarda il


video https://www.youtube.com/watch?v=QoTscl33n8U

57
13

1. Osservate il testo e l’immagine e provate a


rispondere alle seguenti domande:
a. Sapete che cos’era L’Accademia dei
Pugni?
b. Perché portava questo nome?
c. Chi vi parteciparono?
Accademia dei Pugni, da sinistra A.Longo,
d. Che cos’è Il Caffè?
A.Verri, G.B.Biffi, C.Beccaria,
e. Da dove viene questo nome? L.Lambertenghi, P.Verri, G.Visconti, dipinto
f. Che lingua si proponevano di
adoperare? Perché?
g. Chi sono i personaggi de Il Caffè?

2. Ora leggete il testo e rintracciate le risposte.

L’Accademia dei Pugni e il Caffè


[Tratto da http://www.letteraturaitalia.it]

L’Accademia dei Pugni

L’Accademia dei Pugni, anche chiamata Società dei Pugni, fu un’istituzione culturale
fondata da Pietro Verri nel 1761 a Milano. Il gruppo di giovani aristocratici che ne faceva
parte si riuniva in casa di Pietro Verri in contrada del Monte, oggi via Monte Napoleone.
L’Accademia deve il curioso nome all’animosità delle discussioni che vi si svolgevano.

5 Vi parteciparono molti degli illuministi lombardi dell’epoca, tra i quali Alessandro Verri,
Alfonso Longo, Luigi Lambertenghi, Giuseppe Visconti, Cesare Beccaria, autore del
celebre opuscolo Dei delitti e delle pene. Erano giovani aristocratici, studiosi di legge e di
economia, convinti della necessità di riformare la gestione dello Stato. Molti di loro
collaborarono attivamente con il governo asburgico di Maria Teresa e Giuseppe II. Pietro
10 Verri e Cesare Beccaria partecipano ai lavori del Supremo Consiglio di economia, istituito
nel 1765, a cui erano attribuite una vastità di competenze che facevano capo al
funzionamento dei meccanismi finanziari e alla politica economica dello Stato.

Il Caffè

Dall’Accademia dei Pugni nacque nel 1764 la rivista Il Caffè. Il periodico usciva ogni dieci
15 giorni e complessivamente furono realizzati 74 numeri, che vennero poi rilegati in due
volumi corrispondenti alle due annate di pubblicazione, per un totale di 118 articoli. Il
Caffè si stampava a Brescia, in territorio veneto, per sfuggire ai rigori della censura

58
austriaca. Il modello a cui si ispiravano i giovani redattori de Il Caffè era il periodico inglese
The Spectator, dal quale veniva ripresa anche l’idea di creare una fittizia cornice narrativa
20 in cui presentare i diversi articoli. Il giornale fingeva di riportare i discorsi scambiati dagli
avventori di una bottega del caffè gestita da Demetrio, saggio e affidabile padrone di casa
di origine greca. Il Caffè nasce nel periodo in cui le botteghe di caffè si sviluppano
rapidamente in Inghilterra in seguito alla diffusione della bevanda. Il luogo di ritrovo
diventa appunto il caffè illuminista, luogo reale e nello stesso tempo simbolico lontano
25 dai modelli precedenti, dove si crea una nuova forma di socialità dall’incontro di uomini
e di ceti diversi.

Il Caffè si proponeva la diffusione delle nuove idee dei philosophes francesi e inglesi
(Locke e Montesquieu, gli enciclopedisti) in Italia. Era il primo giornale italiano agitatore
di idee, volto a diffondere le nuove idee illuministe presso un pubblico di uomini e donne
30 di media cultura, né eruditi né “zotici”, che potessero trarre utilità dalla lettura degli
articoli. I redattori si proposero di utilizzare una lingua chiara e moderna non obbediente
alle regole della purezza della lingua italiana imposte dalla tradizione in nome del
principio che “è cosa ragionevole che le parole servano alle idee, ma non le idee alle
parole” (Alessandro Verri, Il Caffé, IV, Rinunzia avanti notaio al Vocabolario della Crusca,
35 in Il Sistema letterario, vol. 3, p.953) .

Sulle pagine del Caffè intervengono gli illuministi milanesi con articoli che trattano di
agricoltura, arti, commercio, politica, fisica, storia naturale, argomenti vivi e attuali
“cognizioni che ogni cittadino non manuale dovrebbe meno ignorare” (Cesare Beccaria, Il
Caffè, II, foglio 1, in Il materiale e l’immaginario, vol. 3, p.1091), l’obbiettivo è quello di
40 superare le tradizioni e i pregiudizi e dare vita a una cultura cosmopolita e moderna. Il
giornale cessò di essere pubblicato nel 1766, anno in cui ebbe termine anche l’Accademia
dei Pugni.

Cos’è questo “Caffé”?

Il testo seguente è tratto dall’articolo introduttivo di Pietro Verri al primo numero de Il


45 Caffè. In questo articolo vengono presentate le principali caratteristiche del giornale:
quali argomenti tratterà, con quale stile verranno scritti gli articoli in esso contenuti e
quale sarà il fine del giornale. Viene presentata anche la figura di Demetrio, uomo di
origine greca e gestore della bottega del caffè. Nella parte conclusiva di questo articolo,
egli viene contrapposto alle figure del “curiale” e dello “studente di filosofia”. Questi tre
50 personaggi assumono un valore simbolico. Demetrio è un uomo di origine orientale che
aspira alla libertà e al cosmopolitismo e ha lasciato la propria patria che è sottoposta al
dispotismo ottomano, il curiale, è l’esponente di quella maggioranza di piccoli intellettuali
conformisti e opportunisti che rappresenta il lato negativo dell’Illuminismo, lo studente
di filosofia è il modello del giovane uomo che frequenta “la bottega del caffè”, alla ricerca
55 di uno svago rilassante e istruttivo.

Il tono colloquiale e schietto del linguaggio inoltre testimonia l’intenzione da parte


dell’intellettuale illuminista di instaurare un rapporto nuovo con il lettore, e cioè un

59
dialogo tra pari, aperto e cordiale, che unisce persone attive e intelligenti, aperte alle
novità.

60 Cos’è questo “Caffè”? È un foglio di stampa, che si pubblicherà ogni dieci giorni. Cosa
conterrà questo foglio di stampa? Cose varie, cose disparatissime, cose inedite, cose fatte
da diversi autori, cose tutte dirette alla pubblica utilità. Va bene: ma con quale stile
saranno scritti questi fogli? Con ogni stile, che non annoi. E sin a quando fate voi conto di
continuare quest’opera? Insin a tanto che avranno spaccio. Se il pubblico si determina a
65 leggerli, noi continueremo per un anno, e per più ancora, e in fine d’ogni anno dei
trentasei fogli se ne farà un tomo di mole discreta: se poi il pubblico non li legge, la nostra
fatica sarebbe inutile, perciò ci fermeremo anche al quarto, anche al terzo foglio di
stampa. Qual fine vi ha fatto nascere un tal progetto? Il fine d’una aggradevole
occupazione per noi, il fine di far quel bene che possiamo alla nostra patria, il fine di
70 spargere delle utili cognizioni fra i nostri cittadini, divertendoli, come già altrove fecero e
Stele, e Swift, e Addison, e Pope ed altri. Ma perché chiamate questi fogli “Il Caffè”? Ve
lo dirò ma andiamo a capo.

Un Greco originario di Citera, isoletta riposta fra la Morea e Candia, mal soffrendo
l’avvilimento, e la schiavitù, in cui i greci tutti vengon tenuti dacché gli Ottomani hanno
75 conquistata quella contrada, e conservando un animo antico malgrado l’educazione e gli
esempi, son già tre anni che si risolvette d’abbandonare il suo paese: egli girò per diverse
città commercianti, da noi dette le scale del Levante; egli vide le coste del Mar Rosso, e
molto si trattenne in Mocha, dove cambiò parte delle sue merci in caffè del più squisito
che dare si possa al mondo; indi prese il partito di stabilirsi in Italia, e da Livorno sen venne
80 in Milano, dove son già tre mesi ha aperta una bottega addobbata con ricchezza ed
eleganza somma. In essa bottega primieramente si beve un caffè, che merita il nome
veramente di caffè: caffè vero verissimo di Levante, e profumato col legno d’aloe che
chiunque lo prova, quand’anche fosse l’uomo il più grave, l’uomo il più plumbeo della
terra, bisogna che per necessità si risvegli, e almeno per una mezz’ora diventi uomo
85 ragionevole. In essa bottega vi sono comodi sedili, vi si respira un’aria sempre tepida, e
profumata che consola; la notte è illuminata, cosicché brilla in ogni parte l’iride negli
specchi e ne’ cristalli sospesi intorno le pareti, e in mezzo alla bottega; in essa bottega,
che vuol leggere, trova sempre i fogli di novelle politiche, e quei di Colonia, e quei di
Sciaffusa, e quei di Lugano, e vari altri; in essa bottega, chi vuol leggere, trova per suo uso
90 e il Giornale Enciclopedico, e l’Estratto della Letteratura Europea, e simili buone raccolte
di novelle interessanti, le quali fanno che gli uomini che in prima erano romani, fiorentini,
genovesi, o lombardi, ora sieno tutti presso a poco europei; in essa bottega v’è di più un
buon atlante, che decide le questioni che nascono nelle nuove politiche; in essa bottega
per fine si radunano alcuni uomini, altri ragionevoli, altri irragionevoli, si discorre, si parla,
95 si scherza, si sta sul serio; ed io, che per naturale inclinazione parlo poco, mi son
compiaciuto di registrare tutte le scene interessanti che vi vedo accadere, e tutti i discorsi
che vi ascolto degni da registrarsi; e siccome mi trovo d’averne già messi in ordine vari,
così li do alle stampe col titolo Il Caffè, poiché appunto son nati in una bottega di Caffè.

(…) Si trovavano nel caffè un negoziante, un giovane studente di filosofia, ed uno dei mille
100 e duecento curiali, che vivono nel nostro paese; io stava tranquillamente ascoltandoli,

60
non contribuendo con nulla del mio alla loro conversazione. “Il caffè è una buona
bevanda”, diceva il negoziante, “io lo faccio venire dalla parte di Venezia, lo pago
cinquanta soldi la libbra, né mi discosterò mai dal mio corrispondente, altre volte lo
faceva venir da Livorno, ma v’era diversità almen d’un soldo per libbra”. “V’é nel caffè”,
105 soggiunse il giovane, “una virtù risvegliativa degli spiriti animati, come nell’oppio v’è la
virtù assoporativa e dormitiva”. “Gran fatto”, replicò il curiale, “che quel legume del caffè,
quella fava ci debba venire sino da Costantinopoli!”.

3. Indica il referente dei seguenti pronomi:

a. ne (r. 2)
b. cui (r. 11)

4. Sottolinea due verbi:

a. all’imperfetto;
b. al passato remoto;
c. al futuro.

5. Traduci queste frasi:

a. “è cosa ragionevole che le parole servano alle idee, ma non le idee alle parole” (r.
33-34)

b. Il tono colloquiale e schietto del linguaggio inoltre testimonia l’intenzione da


parte dell’intellettuale illuminista di instaurare un rapporto nuovo con il lettore
(r. 56-57)

61
14
Prima di leggere il testo, vedi il video ufficiale sull’Accademica della Crusca in
https://www.youtube.com/watch?v=37GEVkLbFT8.

Poi, vedi se qualche compagno ricorda le espressioni italiane equivalenti a quelle


che seguono:

investigación, intercambio, agregar, además de, alemán

Ora leggi il testo, e prova a rintracciarle. Poi risolvi il vero/falso proposto


dopo.

L’ACCADEMIA DELLA CRUSCA [Tratto da https://accademiadellacrusca.it/]

In Italia e nel mondo l'Accademia della Crusca è uno dei principali punti di
riferimento per le ricerche sulla lingua italiana. La sua attività presente punta ai
seguenti obiettivi:

• sostenere, attraverso i suoi Centri specializzati e in rapporto di collaborazione e


5 integrazione con le Università, l'attività scientifica e la formazione di nuovi
ricercatori nel campo della linguistica e della filologia italiana;
• acquisire e diffondere, nella società italiana e in particolare nella scuola, la
conoscenza storica della nostra lingua e la coscienza critica della sua evoluzione
attuale, nel quadro degli scambi interlinguistici del mondo contemporaneo;
10 • collaborare con le principali istituzioni affini di Paesi esteri e con le istituzioni
governative italiane e dell'Unione Europea per la politica a favore del
plurilinguismo del nostro continente.

62
• L'Accademia della Crusca è sorta a Firenze tra il 1582 e il 1583, per iniziativa di
cinque letterati fiorentini (Giovan Battista Deti, Anton Francesco Grazzini,
15 Bernardo Canigiani, Bernardo Zanchini, Bastiano de' Rossi) ai quali si aggiunse
subito Lionardo Salviati, ideatore di un vero programma culturale e di
codificazione della lingua. Dalle loro animate riunioni, chiamate scherzosamente
"cruscate", derivò il nome di "Accademia della Crusca", vòlto poi a significare il
lavoro di ripulitura della lingua. L'istituzione assunse come proprio motto un verso
20 del Petrarca - "il più bel fior ne coglie" - e adottò una ricca simbologia tutta riferita
al grano e al pane.

Fin dall'inizio l'Accademia ha accolto studiosi ed esponenti, italiani ed esteri, di


diversi campi: oltre a grammatici e filologi, scrittori e poeti (Tassoni, Maffei,
Maggi, Monti, Leopardi, Manzoni, Carducci, ecc.), scienziati (Galilei, Redi,
25 Torricelli, Malpighi), storici (Muratori, Botta, Capponi), filosofi (Voltaire, Rosmini),
giuristi e statisti (Witte, Gladstone).

L'opera principale dell'Accademia, il Vocabolario (1612; ampliato e ripubblicato


più volte fino al 1923), pur sottoposta ad attacchi per i limiti che poneva all'uso
linguistico vivo, ha dato un contributo decisivo all'identificazione e alla diffusione
30 della lingua italiana e ha fornito l'esempio ai grandi lessici delle lingue francese,
spagnola, tedesca e inglese.

Il nuovo progetto del Vocabolario, elaborato e avviato dall'Accademia negli anni


1955-1985, ha finalità esclusivamente di documentazione storica ed è una delle
maggiori imprese lessicografiche europee. Viene ora realizzato dall'Opera del
35 Vocabolario Italiano, Istituto del CNR affiancato all'Accademia, affidato nel 1992
alla direzione di Pietro G. Beltrami. Dal 1° ottobre 2014, Lino Leonardi è il nuovo
direttore dell'OVI.

Indica se le seguenti affermazioni sono vere o false. Nel caso siano false,
giustifica.

1. Uno degli obiettivi dell’Accademia della Crusca è quello di prescrivere le


norme linguistiche dell’italiano.
2. Il programma di Salvati era di orientamento purista.
3. L’espressione “crusca” ha un’origine metaforica che riguarda il grano.
4. Il primo vocabolario fu un modello per altri paesi europei.
5. Il vocabolario di 1612 fu riprodotto nella stessa versione nel 1623.

63
15
1. Leggete la frase di Mario Pagano e commentatela. Riuscite ad
immaginare che rapporto c’è tra questa citazione e il contenuto
dell’articolo?

2. Ora sí, leggi il testo con una tua compagna o compagno e poi risolvete le
attività.

1779-2019 La Repubblica napoletana verso il suo terzo centenario

di Anna Maria Siena Chianese

L’istruzione dei popoli è la rovina dei tiranni, l’ignoranza del popolo tiene in vita il malgoverno

(Mario Pagano. Catechismo repubblicano, 1779)

Il 2019 è appena iniziato ma sono già partite le iniziative rivolte a celebrarne il percorso, come
avviene negli anni dove il numero 9 è parte della decade […]. Il numero 9 occupa il suo posto
tra le date emblematiche della storia e tra le date che l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici
ha considerato, e considera, pietre miliari nella grande storia universale e nella storia di
5 Napoli. […]

1. ________________________________________________________________

Nella storia della Repubblica napoletana il numero nove, preceduto dal suo simile, è
autonomo dalle cifre inziali del secolo: la Rivoluzione napoletana è del ’99, è Napoli ’99, è la
trama portante di un tessuto compositivo e connettivo di storia patria che è andato a
10 innestarsi nella grande storia via via che i giudizi, critici o encomiastici che fossero, cedevano
il passo a un revisionismo storico-politico che non tramava capovolgimenti, ma consentiva
all’uomo di rivedere e reinterpretare la storia del mondo e la sua stessa storia alla luce dei
vecchi e dei nuovi tempi, allo scorrere degli anni, ai cambiamenti o alle cadute delle
prospettive, delle speranze e anche, perché no, delle illusioni. […]

15 Le illusioni di Foscolo, il dolore di Leopardi, la dedizione appassionata di corpo e anima di


quanti a tutto ciò hanno dedicato la vita: queste sono le antiche realtà, le decadenti illusioni, le

64
divine speranze che hanno aiutato il mondo a raggiungere mete certamente improponibili
all’uomo dei nostri giorni. Le idee ridotte a ideologie che rinnegano sé stesse o addolcite negli
slogan doverosamente criptici del tipo ideali emancipativi di massa nascono col proposito, e col
20 destino, di rinnegare sé stessi. La loro radice, idea, si confronta invano con la realtà, perdendo
sostanza e rischiando di trasformarsi da presunta bandiera a straccio controvento.

2. ________________________________________________________________

La rivoluzione pensata, voluta perché i suoi effetti ricadessero quale riscatto civile e morale
sull’elemento costitutivo dello Stato più debole, trova la sua cassa di risonanza in tutta la città.
25 […]

A caratterizzare la Rivoluzione napoletana fu anche, in parte, il contatto tra i piani alti e il


cortile dove maniscalchi, cocchieri, fabbri, contadini, piccoli artigiani lavoravano al servizio
del palazzo in un rapporto spesso affettivo o certamente di fiducia: una categoria sociale dalla
vita del tutto diversa da quella della massa ma che da quel popolo veniva, come gli artigiani-
30 artisti che avevano appreso e continuavano ad apprendere la loro arte lavorando accanto ai
grandi architetti, artefici della splendida Napoli europea.

3. ________________________________________________________________

Sull’onda delle rivoluzioni settecentesche e dei venti di libertà che percorrevano l’Europa,
nonostante le abissali differenze tra i popoli e la posizione politica dei diversi Stati e degli
35 stessi sovrani, i repubblicani di Napoli ritennero i tempi maturi per la rivoluzione. Maria
Carolina frequentava già ambienti illuministici della città e molti tra gli intellettuali
repubblicani avevano un rapporto di collaborazione con la Corte, da Eleonora Pimentel
Fonseca che ne era bibliotecaria e poetessa a Domenico Cirillo, medico della corte e dei
sovrani ma questo equilibrio, instabile per forza di cose, era destinato a crollare col Terrore.

40 Le mete che si ponevano quanti dettero la vita per migliorare le condizioni di un popolo che
sentivano proprio, sicuramente antesignane rispetto a quelle del resto dell’Europa, non si
tradussero in un progetto di riforme tale da coinvolgere i destinatari nel loro ideale di riscatto
sociale, economico e civile.

65
Tuttavia, sia presso gli stessi rivoluzionari che negli ambienti aristocratici della città,
45 l’avvenimento trovò la partecipazione appassionata di quanti considerarono la rivendicazione
dei diritti del popolo un riscatto da esercitare coralmente perché potesse acquistare le valenze
necessarie alla sua riuscita e dispiegarsi su un più vasto orizzonte in tutta la sua tragicità,
nonostante il presentimento di dolore e di morte maturatosi nelle coscienze.

La città, nella sua componente partecipe e consapevole della tragedia che vi si svolgeva
50 quotidianamente nel silenzio-assenso della parte che ne traeva i suoi vantaggi, fu matrice e
martire della Rivoluzione napoletana. E per città non intendiamo la culla magica di una
Sirena, bensì quella sopravvissuta a sé stessa maturandosi all’innatismo dell’autocritica, al
pragmatismo che non frena, ma dà nuove luci al pensiero, all’idea, agli ideali. Il pensiero dei
rivoluzionari di Napoli si formò e si maturò in una città che aveva attraversato i secoli e i
55 millenni rinnovandosi ma senza mai essersi perduta, aveva edificato una nuova lingua senza
estirpare, ma arricchendo l’antica; aveva creato una letteratura, una filosofia, una musica alle
quali far attingere il mondo e aveva diffuso nel mondo le sue mille e una notte di favole delle
quali erano protagonisti i personaggi tipici dell’antico regno e della sua tradizione in una
esemplare potenza allegorica e di costume che metteva in scena in piccoli drammi la vita: il
60 fatato Pentamerone di Giovan Battista Basile i cui racconti, con nomi diversi, sono divenuti i
classici delle favole europee.

4. ________________________________________________________________

Questa era la città dove si era formato e maturato il pensiero dei rivoluzionari del ’99, una
città dove l’Illuminismo non accese solo le sue luci, ma ne previde i corti circuiti che ne
65 avrebbero deviato le mete. Questa era la città dove avevano attecchito i semi del buon
governo, quello che si pone il compito di esercitare una politica economica per il bene comune.

L’ambiente al quale il pensiero rivoluzionario alimentò le sue prospettive e le sue illusioni era
la Napoli dove Antonio Genovesi, dopo la cattedra universitaria di etica ereditata da
Gianbattista Vico, aveva retto la cattedra di economia politica, prima in Europa: passaggio
70 significativo, per chi abbia approfondito il significato della politica economica quale
strumento di progresso, di benessere, di crescita e quindi di etica e di civiltà. […]

Miracolosamente, circa tre secoli fa, Antonio Genovesi queste cose le aveva capite e ne stava
facendo l’elemento portante del suo insegnamento come lo sarà del magistero di Ferdinando
66
Galiani. Le sue lezioni erano tenute in lingua italiana e non in latino perché anche il popolo
75 potesse comprenderne l’importanza ai fini del proprio benessere e del proprio progresso
civile. Genovesi rendeva inoltre accessibili nuovi percorsi di futuro con l’istruzione e la
formazione, aprendo la via al liberalismo e alla fisiocrazia.

Antonio Genovesi fu amico di Raimondo di Sangro, principe di Sansevero, e certamente il


percorso verso Caponapoli trova nei Palazzi Sansevero uno dei suoi più intriganti legami con
80 un passato che può aiutare a comprendere l’essenza spesso fraintesa nella sua multiforme
varietà e nelle sue abissali profondità di una città quasi perduta.

5. ________________________________________________________________

L’Illuminismo napoletano non alimentava dall’esterno le sue fiaccole. Il pensiero


rivoluzionario che percorse il Settecento ebbe una matrice comune che aveva attinto
85 all’Illuminismo napoletano la sua linfa: gli ideali di libertà e di progresso che percorsero il
mondo in quegli anni si ispirarono all’opera del giovane principe napoletano Gaetano
Filangieri, apparsa in un breve succedersi di anni sui mercati librari d’Europa.

Nella Scienza della Legislazione Filangieri svincola la legge dal contingente e ne sostiene la
necessità di poggiare su princìpi scientifici, esattamente come la matematica e la chimica che
90 andava svincolandosi dall’alchimia. Solo una legge nata da questa matrice di pensiero sarebbe
stata in grado di consentire all’uomo la conservazione di sé stesso e dei benefici ottenuti dalla
crescita civile della quale era premessa e conseguenza.

Principio ispiratore delle riforme è quello della città platonica, sede delle virtù, basata
sull’educazione e l’istruzione: un’educazione universale, ma non uniforme, consona alla funzione da
95 svolgere e tanto più severa quanto più questa era impegnativa. Diversamente, non poteva
che venirne fuori un appiattimento verso il basso, a livelli ai quali l’educazione, e per
conseguenza la formazione, avrebbero perduto i loro contenuti e il loro stesso significato.

E amaramente, e vanamente, dobbiamo dire che la storia ha dato ancora una volta ragione
non solo a Platone, ma al comune buon senso e che ciononostante, e in piena consapevolezza
100 dei grandi manovratori di riforme, ci sembra il caso di temere che l’appiattimento continuerà
a procedere verso la deriva del significato stesso dei termini.

67
Base dell’educazione è per Platone l’etica, alla quale vanno formati governanti e governati;
fonte dell’educazione è la legge che assicura la vita civile e la certezza del diritto, fondamentali
a qualsiasi progetto di futuro che consenta all’uomo, in tranquillità e sicurezza, di raggiungere
105 condizioni di vita sempre migliori e di avvicinarsi allo stato di felicità, sua meta naturale.

6. ________________________________________________________________

Inserire in un testo giuridico la parola felicità, forse la più suscettibile di interpretazioni diverse
per la sua indefinibilità oggettiva, era a sua volta una sfida e un segnale di libertà da qualunque
ostacolo alla vastità e alla libertà di pensiero. A Napoli la consapevolezza che la verità possa
110 avere molteplici aspetti e tutti validi fa parte, ancora una volta, di quell’innatismo che è
intuito, sensibilità, creatività, coraggio di confrontarsi con le infinite contraddizioni della vita.
D’Annunzio ci presenta la sua Felicità velata, ma ne intuirono l’essenza luminosa che
consentiva un obiettivo di progresso civile e sociale i coloni americani che si ribellarono alla
madrepatria. Franklin, coautore della Dichiarazione di Indipendenza del 1774, venne di persona
115 a Napoli per conoscere Filangieri e invitarlo, invano, a trasferirsi in America.

La Dichiarazione d’Indipendenza del 1774 può considerarsi l’inizio della rivoluzione americana,
la più antica delle Rivoluzioni settecentesche come la relativa Costituzione del 1787, ancora
quasi integralmente in vigore. Entrambe s’ispirarono alla Scienza della Legislazione di Gaetano
Filangieri, al diritto dei popoli alla libertà e alla ricerca della felicità.

120 Alexis de Tocqueville, nel suo libro sulla democrazia americana, scrive: la rivoluzione francese
ha generato violenza e terrore, quella americana libertà.

Tra la fine del Settecento e i primi anni dell’Ottocento la dea Ragione tende a degenerare
nell’arroganza come la virtù era degenerata negli assolutismi politici e nella tracotanza
borghese, ma nella Rivoluzione napoletana non vi furono compromessi né adattamenti. La
125 posta restò alta, ben più alta di quella delle rivoluzioni precedenti perché fin dall’inizio ai
valori connessi al benessere i rivoluzionari preposero quelli della consapevolezza dei diritti
come dei doveri, la coscienza di essere un Popolo, elemento costitutivo dello Stato da
difendere e promuovere una volta riabilitato nella sua identità.

7. _______________________________________________________________

68
130 Dello spirito mercantile che mancava quale spinta alla Rivoluzione napoletana del ’99 parlò in
un incontro internazionale sul tema François Mitterand sottolineando che i motivi che
spinsero i repubblicani a ribellarsi ai sovrani prescindevano dall’eventuale tornaconto
economico, preminente nelle altre rivoluzioni.

Il miglioramento del popolo voluto dai rivoluzionari riguardava naturalmente anche lo status
135 materiale delle sue condizioni di vita, ma il loro fine primario era quello di difenderne la
dignità e di promuoverne la libertà e la consapevolezza di sé, dei propri diritti, delle ingiustizie
e della mancanza di prospettive che lasciassero sperare in un rinnovamento delle sue
condizioni e un ravvedimento da parte dei sovrani.

Principi e deduzioni apparentemente elementari espressi nei decenni dalle autorità del
140 pensiero e delle correnti politiche di diverse prospettive sono state solo l’eco della grande
missione interpretativa, valutativa ed esplicativa svolta dall’avvocato Gerardo Marotta,
Presidente dell’Istituto Italiano per gli studi filosofici, al suo fianco sempre Antonio Gargano
le cui lezioni di filosofia agli studenti liceali restano indimenticabili, vera e propria memoria
storica della cultura napoletana. […]

145 8. _______________________________________________________________

Tra le Costituzioni settecentesche quella della Repubblica napoletana conserva la sua


coerenza con i fatti che la determinarono e può considerarsi moderna, contemporanea, valida
e densa di dottrina anche per questi nostri tempi indefinibili.

Sul frontespizio del suo Catechismo repubblicano quello che è stato considerato l’unico autore
150 della Costituzione, Mario Pagano, che merita uno studio a parte per la sua storia di passione
civile duramente pagata, scrive:

“L’istruzione del popolo è la rovina dei tiranni” e, a seguire, “L’ignoranza del popolo tiene in vita il
malgoverno”: e limitiamoci a dire che i tempi gli hanno dato ragione e, ahimè, continuano e
continueranno a dargliela.

155 Altra regola aurea della Costituzione di Mario Pagano è quella che considera l’uguaglianza
fonte di diritti e di doveri e non elargizione irresponsabile di soli diritti che, inevitabilmente,
ne ridurrebbero i benefici fino a un appiattimento ancor più costrittivo. A tal punto, il nostro

69
invito a leggere, o a rileggere, le quattro costituzioni settecentesche può considerarsi non un
invito a un dovere, ma a un’apertura di pensiero e una spinta a confrontare tra loro i momenti
160 cruciali della storia: confronti ormai improcrastinabili perché, come sosteneva Gerardo
Marotta, quando divampa l’incendio bisogna che accorrano i pompieri, esortazione divenuta per lui
sempre più stringente nel tempo e divampata nell’urlo di dolore e di sdegno: Gente, pensate al
mondo!

9. _______________________________________________________________

165 Non sarebbe mai passata per la mente di Mario Pagano l’idea di eliminare i doveri dalla sua
aurea carta costituzionale. Dalla alcune Costituzioni francesi, come da quella del 1793,
vennero esclusi i doveri perché non offuscassero la grande conquista dei Lumi: i diritti. […]

La Costituzione napoletana di Mario Pagano non indugia in utopie né in illusioni nella sua
robusta trama progettuale. Non materia di sogni, ma monumento coerente a un’idea di
170 giustizia e di verità, esempio di quello spirito illuministico che toccò a Napoli le sue vette più
alte. […]

[Tratto e adattato da http://www.anaso.it]

3. Sono stati cancellati e mescolati i titoli dei paragrafi. Assegnate ogni


sottotitolo al paragrafo numerato corrispondente.

a. Le Costituzioni settecentesche: coerenze e spiazzamenti con la


proiezione verso la felicità
b. La lezione della Repubblica Napoletana
c. Lo spiazzamento tempistico e ideologico tra rivoluzionari e popolo
d. Il tramonto dell’idea
e. L’illuminismo europeo: luci, ombre e le abbaglianti fiaccole di Napoli
f. La Rivoluzione napoletana: Gerardo Marotta e l’Istituto Italiano per gli
Studi filosofici
g. La tensione alla Felicità: il coraggio delle parole e la sicurezza degli
obiettivi
h. Gaetano Filangieri: La Scienza della Legislazione

70
i. La partecipazione cittadina all’ideale rivoluzionario dei Repubblicani

4. Riassumete in una frase, in spagnolo, l’ipotesi del testo.

5. Cerchiate due verbi al passato…

a. prossimo;
b. imperfetto;
c. remoto;
d. trapassato prossimo.

6. Indicate il referente dei seguenti pronomi:

a. ciò (r. 16)


b. loro (r. 30)
c. quello (r. 66)
d. difenderne (r. 135)

7. Osservate la tabella, rileggete le frasi che contengono queste parole e


abbinate la parola in italiano al suo significato in spagnolo. Provate a
completarla con altri due verbi.

a. innestarsi (r. 10) derrumbarse, desplomarse.


b. crollare (r. 39) permitir.
c. coinvolgere (r. 42) insertar, implantar.
d. consentire (r. 91) alcanzar, llegar.
e. raggiungere (r. 104) implicar, incluir.

8. Traducete le seguenti frasi:

a. cedevano il passo a un revisionismo storico-politico che non tramava


capovolgimenti, ma consentiva all’uomo di rivedere e reinterpretare la storia del
mondo e la sua stessa storia alla luce dei vecchi e dei nuovi tempi (r. 11-13)
b. una città dove l’Illuminismo non accese solo le sue luci, ma ne previde i corti circuiti
che ne avrebbero deviato le mete. (r. 64-66)

71
c. un’educazione universale, ma non uniforme, consona alla funzione da
svolgere e tanto più severa quanto più questa era impegnativa. (r. 94-95)

9. Sottolineate tutti i connettori e aggiungeteli allo schema di pag. 121.

→ Per approfondire, leggi l’Introduzione del Saggio storico sulla rivoluzione di


Napoli, di Vincenzo Cuoco (1802), nella seconda sezione (pag. 135).

72
16
Prima di leggere il testo, vedi il suo titolo e le parole evidenziate in neretto, e
rispondi alle seguenti domande:

1. A quale divisione degli italiani, che appare su un testo della dispensa del
livello elementare, si riferisce l’articolo?

2. Quali dei seguenti aspetti credi che siano trattati nell’articolo?


a. il mondo del lavoro
b. crescita e diminuzione della popolazione
c. migrazioni
d. modi di vita nelle diverse regioni
e. diversità linguistica in Italia
f. problemi di salute degli italiani
g. livello socioeconomico delle regioni italiane

3. Leggi ora l’articolo, verifica le tue risposte e svolgi le attività proposte di


seguito.

Ci sono due Italie, e rischiano di essere


sempre più divise: ecco perché
Federico Fubini 15 feb 2020 [Corriere.it]

Il governo l’altro giorno ha tentato qualcosa che, in un’Italia strangolata dalla dittatura
del breve termine, si osa sempre di meno: ha guardato ai prossimi dieci anni,
azzardandosi a indicare una strada. Lo ha fatto il ministro per il Sud Beppe Provenzano,
quando venerdì ha presentato un piano per ridurre la frattura territoriale del Paese.
5 Provenzano indica un gran numero di misure sulla scuola o l’uso dei fondi europei e già
dai prossimi mesi la tenuta della maggioranza, assieme all’efficienza
dell’amministrazione, permetteranno di capire se il suo piano può funzionare.

È però possibile fare da subito l’esperimento opposto: ci si può chiedere cosa accadrebbe,
semplicemente, se non ci fosse nessun piano di questo e dei futuri governi. Si può provare
10 a immaginare cosa sarebbe l’Italia in futuro se non succedesse nulla di nuovo. Se la
grande divergenza sociale, produttiva, educativa, migratoria, demografica, sanitaria, degli
stili di vita, delle aspettative e della partecipazione civica degli abitanti dei suoi territori
continuasse come ha fatto negli ultimi dieci anni, o decenni. È solo un test, la proiezione
arbitraria sui prossimi anni delle derive degli ultimi dieci. E come in tutti i test conviene
15 prendere gli estremi, il Mezzogiorno e il Nord, tenendo fuori le misure spesso intermedie
del Centro Italia. L’obiettivo è farsi un’idea di cosa può accadere fra quelle due aree se
tutto restasse sul piano inclinato di questi anni.

73
Di sicuro il rapporto di forze fra Nord e Sud del Paese sarebbe destinato a cambiare.
20 L’Istat ha mostrato nei giorni scorsi che la popolazione nelle regioni meridionali nel
2019 si è ridotta (di 129 mila persone) più che quella di tutta l’Italia nel suo complesso
(scesa di 116 mila persone). In altri termini al Centro e soprattutto al Nord prosegue
lentamente un incremento nel numero degli abitanti, mentre il calo delle nascite e
l’aumento dell’emigrazione verso il resto del Paese stanno erodendo la popolazione delle
25 regioni meridionali. L’Italia si riempie pian piano da una parte e si svuota
rapidamente dall’altra. Le leggi della demografia sono simili a quelle dei ghiacciai, che
si spostano pianissimo fino a cambiare profondamente. Oggi con quasi ventuno milioni
di residenti il Mezzogiorno d’Italia per popolazione pesa per circa tre quarti del totale
degli abitanti del Nord, ma cosa può succedere alle tendenze attuali? L’Istat lo mostra
30 nelle sue previsioni: nello scenario «mediano» il numero degli abitanti del Nord cresce
fino al 2042 e quello del Sud non fa che calare. Fra ventidue anni sarà meno di due terzi
rispetto al settentrione.

Cause e conseguenze a quel punto si alimenteranno a vicenda nell’economia, nella vita


35 civile e in quella quotidiana. Per esempio, gli indicatori dell’Istat mostrano che la
probabilità di un laureato di lasciare il Sud fra i suoi 25 e 39 anni è salita di recente
dal 31% al 35%. Più di un laureato su tre se ne va, mentre il Nord ne riceve un afflusso
netto. Anche per questo fra gli abitanti di 30-34 anni l’incidenza dei laureati nel Meridione
era dell’80% dei livelli settentrionali dieci anni fa, è scesa oggi al 65% e alle tendenze
40 attuali fra dieci anni — per un pari numero di giovani — i laureati al Sud non saranno
molto più della metà di quelli del Nord. A quel punto il lavoro nella parte meno ricca
d’Italia potrebbe diventare sempre meno qualificato e produttivo, con il rischio di
accelerare le tendenze in corso: calcoli della Banca d’Italia dei mesi scorsi mostrano
che il reddito pro-capite al Sud era pari al 64% del Centro-Nord nei primi anni ’70 ma
45 appena del 55% alla fine di questo decennio. Si può solo immaginare il seguito, se si nota
che lo scarto nel tasso di occupazione è cresciuto da venti punti percentuali dieci anni fa
a ventiquattro oggi e la deriva prosegue.

Gli slittamenti demografici sono poi destinati a ripercuotersi in politica. Non solo le
50 regioni settentrionali conteranno sempre di più nei referendum e potrebbero
rivendicare un peso maggiore in Parlamento o nella ripartizione del bilancio pubblico,
anche la disaffezione civica di un Sud che si sente sempre più periferia irrilevante può
facilmente aumentare. Se ne vedono già i segni. Fatta pari a cento l’affluenza elettorale
alle europee del Nord Italia, quella meridionale negli ultimi dieci anni non ha fatto che
55 scendere: era all’81% del Settentrione nel voto del 2009, al 74,6%% cinque anni fa e al
70% a maggio scorso. I meridionali fanno sentire sempre di meno la propria voce e
si può solo chiedersi fino a che punto arriveranno nell’apatia riguardo alla cosa pubblica.

Anche la società italiana dà segni di biforcazione lungo i suoi diversi paralleli. Dieci anni
60 fa l’aspettativa di vita nel Mezzogiorno era di appena mezzo anno inferiore al Nord, più
di recente la differenza è salita a un anno e se lo slittamento prosegue sarà quasi di un
anno e mezzo nel 2028. Conta anche che l’incidenza della mortalità per tumori, che
dieci anni fa era più bassa al Sud, di recente ha superato i livelli del Nord. Certo
l’insicurezza generale nella società meridionale è così diffusa che più persone si

74
65 dichiarano preoccupate di andare in giro da sole al Sud, anche se borseggi, rapine, furti
in casa e anche omicidi sono meno frequenti che nel Nord.

Gli indicatori della banca dati Istat disegnano così una nazione percorsa da incrinature
che fra dieci o vent’anni — se nulla cambia — potrebbero diventare vere e proprie
fratture. Ma gli italiani sono ancora tenuti insieme da alcune percezioni comuni. Uno di
70 questi è l’amor di patria. Un altro, a un estremo e all’altro della penisola, è che esattamente
il 2,5% degli abitanti dichiara oggi di fidarsi dei partiti. Non uno di più.

4. Lavora con dei compagni. Scrivete un riassunto dell’articolo (in


spagnolo), destinando una frase a ogni suo paragrafo.

5. Scegliete tre pronomi, e preparate un esercizio di scelta multipla per


identificarne i referenti (per esempio: suo, della r. 7, “piano”,
“Provenzano” o “il governo”).

6. Notate l’espressione si osa sempre di meno (r. 2). Capite il suo significato?
Cercate nel testo altre frasi contenenti la stessa struttura.

7. Spiegate le seguenti metafore:

a. la dittatura del breve termine (r. 1-2)


b. il piano inclinato (r. 17)

8. Identificate altre due metafore nel testo, e spiegate il loro significato.

֍ Per approfondire, vedi gli stereotipi sul Sud e il Nord nei trailer dei film
Benvenuti al Sud
(https://www.youtube.com/results?search_query=benvenuti+al+sud) e
Benvenuti al Nord (https://www.youtube.com/watch?v=ocSf8m2xWiI).

75
17
Leggi insieme alla classe il primo paragrafo (fino alla riga 4). Dividetevi quindi
in gruppi, e prendete uno o due dei libri (i titoli sono in neretto) di cui
compaiono alcune frasi di Flaiano: ogni gruppo dovrebbe diventare “l’esperto”
in quella porzione di testo. Una volta capiti i diversi brani, condividete le vostre
impressioni con gli altri: di che aspetti della società italiana parlano? Quali sono
le idee piú amare? Quali espressioni vi sembrano interessanti da incorporare?
Scegliete la frase che vi piace di piú, e traducetela.

Frasi, citazioni, battute e aforismi di Ennio Flaiano

Gli aforismi, le frasi e le battute di Ennio Flaiano (Pescara 1910 – Roma 1972) nascondono
– dietro un’ironia sagace e fulminante – un pessimismo lucido e dolente, un’amarezza
che sfiora il cinismo e il disincanto, una coscienza del nulla vissuta attraverso la quotidiana
descrizione dei comportamenti e i tic più assurdi e paradossali della nostra società.

5 Presento qui di seguito una raccolta – tratta dalle sue opere principali – delle più belle
frasi, citazioni, battute e aforismi di Ennio Flaiano.

Frasi, citazioni, battute e aforismi di Ennio Flaiano

10 Diario degli errori 1950-1972

Afflitto da un complesso di parità. Non si sente inferiore a nessuno.

76
Un libro sogna. Il libro è l’unico oggetto inanimato che possa avere sogni.

È un poeta così cattivo che sette città si rinfacciano il disonore di avergli dato i natali.

Si battono per l’Idea, non avendone.

15 In amore gli scritti volano e le parole restano.

Non c’è che una stagione: l’estate. Tanto bella che le altre le girano attorno. L’autunno la
ricorda, l’inverno l’invoca, la primavera l’invidia e tenta puerilmente di guastarla.

Si arriva a una certa età nella vita e ci si accorge che i momenti migliori li abbiamo avuti
per sbaglio. Non erano diretti a noi.

20 E pensare che questa farsa durerà ancora miliardi di anni, dicono.

Don’t forget 1967-1972

L’italiano è mosso da un bisogno sfrenato di ingiustizia.

Ci sono molti modi di arrivare, il migliore è di non partire.

L’italiano è una lingua parlata dai doppiatori.

25 I capolavori oggi hanno i minuti contati.

Aumentano gli anni e diminuiscono le probabilità di diventare immortali.

L’oppio è ormai la religione dei popoli. Vivere è diventato un esercizio burocratico.

La televisione mi fa dormire e mi lascia sempre insoddisfatto, come i veri sonniferi.

Lei non può immaginare quanto io non sia irremovibile nelle mie idee.

30 Diario notturno 1956

“E vissero sempre infelici e scontenti.” Così, per non ingannare il suo bambino termina le
favole.

I giovani hanno quasi tutti il coraggio delle opinioni altrui.

La situazione politica in Italia è grave ma non è seria.

35 Niente di più triste di un artista che dice: «Noi pittori» oppure: «Noi scrittori»; e sente la
sua mediocrità protetta e confortata da tutte le altre mediocrità, che fanno numero,
società, sindacato.

77
Certi vizi sono più noiosi della stessa virtù. Soltanto per questo la virtù spesso trionfa.

Le invasioni dei barbari essendo oggi improbabili, La Natura vi supplisce con le invasioni
40 interne e legali: i Vandali sono all’Edilizia, Attila dirige la riforma agraria, i Goti aspettano
di andare al potere. Tutti mirano a distruggere qualcosa perché il barbaro, sempre
stupido ed impaziente, deve muoversi e fare altrimenti si annoia.

Decise di cambiar vita, di approfittare delle ore del mattino. Si levò alle sei, fece la doccia,
si rase, si vestì, gustò la colazione, fumò un paio di sigarette, si mise al tavolo di lavoro e
45 si svegliò a mezzogiorno.

I secoli hanno lavorato per produrre questo individuo di stanche ambizioni, furbo e
volubile, moralista e buon conoscitore del codice, amante dell’ordine e indisciplinato,
gendarme e ladro secondo i casi. Nazionalista convinto, vi dice come si doveva vincere
l’ultima guerra e a chi si potrebbe dichiarare la prossima. Evade il fisco ma nei cortei
50 patriottici è quello che fiancheggia la bandiera e intima ai passanti: giù il cappello.

I nomi collettivi servono a far confusione. ‘Popolo, pubblico…’. Un bel giorno ti accorgi
che siamo noi. Invece, credevi che fossero gli altri.

Stanco dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande, lo scienziato si dedicò


all’infinitamente medio.

55 Ha una tale sfiducia nel futuro che fa i suoi progetti per il passato.

La troppa familiarità con le cose sacre allontana forse da Dio. I sagrestani non entrano in
Paradiso.

Questo popolo di santi, di poeti, di navigatori, di nipoti e di cognati…

Taccuino del marziano 1974 – Tratto da Un marziano a Roma del 1960

60 Il peggio che può capitare a un genio è di essere compreso.

L’evo moderno è finito. Comincia il medio-evo degli specialisti. Oggi anche il cretino è
specializzato.

La parola serve a nascondere il pensiero, il pensiero a nascondere la verità. E la verità


fulmina chi osa guardarla in faccia.

65 L’unico modo di trattare una donna alla pari è di desiderarla come uomo.

In amore bisogna essere senza scrupoli, non rispettare nessuno. All’occorrenza essere
capaci di andare a letto con la propria moglie.

Colui che crede in se stesso vive coi piedi fortemente poggiati sulle nuvole.

78
L’avarizia è la forma più sensuale di castità.

70 L’arte è un investimento di capitali, la cultura un alibi.

Ci lusinga di più il cieco favore della fortuna che il riconoscimento dei nostri meriti.

Il mio gatto fa quello che io vorrei fare, ma con meno letteratura.

Sei stato condannato alla pena di vivere. La domanda di grazia, respinta.

Una volta il rimorso veniva dopo, adesso mi precede.

75 Quando la vanità si placa l’uomo è pronto a morire e comincia a pensarci

Frasario essenziale per passare inosservati in società (1969)

Basta alzarsi una mattina alle sette e uscire per capire che abbiamo sbagliato tutto.

L’inferno, che l’italiano si ostina a immaginare come un luogo dove, bene o male, si sta
80 con le donne nude e dove con i diavoli ci si mette d’accordo.

Il traffico ha reso impossibile l’adulterio nelle ore di punta.

L’italiano ha un solo vero nemico: l’arbitro di calcio, perché emette un giudizio.

La stupidità degli altri mi affascina ma preferisco la mia.

L’Inferno di Dante è pieno di italiani che rompono i coglioni agli altri.

85 Le avanguardie si trovano spesso ad essere superate dal grosso dell’esercito.

Se lei si spiega con un esempio non capisco più niente.

La solitudine del satiro (1973)

Mai epoca fu come questa tanto favorevole ai narcisi e agli esibizionisti. Dove sono i santi?
Dovremo accontentarci di morire in odore di pubblicità.

90 Oggi il cretino è pieno di idee.

Chi vive nel nostro tempo raramente sfugge alla nevrosi. Per vivere bene non bisogna
essere eccessivamente contemporanei.

I grandi premi non vengono mai dati allo scrittore, ma ai suoi lettori. Poveracci, se li
meritano.

79
95 La crisi della cultura. C’è sempre stata: Shakespeare non sapeva il greco e Omero non
sapeva l’inglese.

L’immaginazione al potere. Ma quale immaginazione accetterà di restarvi?

Il successo alla moda si ottiene con la pubblicità e si paga con la prostituzione alla folla.
Invertendo l’ordine dei fattori il successo non cambia, diventa forse più duraturo, perché
100 “sofferto”. Il successo ottenuto col merito e pagato con l’indifferenza annoia il grosso
pubblico e, da qualche tempo in qua, anche gli altri.

Ritrattino. Uno di quei tali che, per trovare la sua serenità, ha bisogno di farla perdere agli
altri.

In Italia la linea più breve tra due punti è l’arabesco. Viviamo in una rete di arabeschi.

105 La disattenzione è il modo più diffuso di leggere un libro, ma la maggior parte dei libri
oggi non sono soltanto letti ma scritti con disattenzione.

Viviamo in un’epoca drammatica che usa parole drammatiche. La parola problema è la


più disperante: tende ad elevare a problema ogni questione o opinione, e in in certo
senso a comunicargli un sospetto di insolubilità. Così viviamo circondati da problemi
110 superflui, che non si porrebbero se si osasse cambiare la parola per definirli
correttamente.

Melampus (1970)

L’eroe moderno non è più la vittima di una congiura divina, ma soltanto il frutto delle sue
proprie inibizioni.

115 La satira ci rende fieri, come se ci riconoscesse uno stato civile artistico, un diploma che
ci sollevi dalla mediocrità e dal grigiore delle parti secondarie.

Viaggiare è come tenere i rubinetti aperti e vedere il tempo che va via, sprecato, liquido,
intrattenibile.

La scelta è il male. Rifiutarsi di scegliere. Anzi, rifiutarsi, semplicemente.

120
Autobiografia del blu di Prussia (1974)

I giorni indimenticabili della vita di un uomo sono cinque o sei in tutto. Gli altri fanno
volume.

La serietà è apprezzabile soltanto nei fanciulli. Negli uomini saggi è il riflesso della
125 rinuncia.

80
Quando la Scienza avrà messo tutto in ordine, toccherà ai poeti mischiare daccapo le
carte.

La castità è il miraggio degli osceni.

«Credete in Dio?». «Io sì, ma è Dio che non crede in me».

130 Io muoio alla giornata.

L’infelicità è essa stessa un vizio.

֍ Per approfondire, vedi il video su Flaiano in https://www.youtube.com/watch?v=10-


K0AnHh1Y.

81
18
Marco Lodoli, I miei ragazzi assediati dalla Facilità
Cosa sta accadendo nelle menti degli italiani, come mai ho l’impressione che lo
stordimento, se non addirittura una leggera forma di demenza, stiano soffiando
come scirocco in troppi cervelli, giovani e meno giovani? Quali sono le cause,
5 se ce ne sono, di questo torpore?
Avevo raccontato, un mese fa su “Repubblica”, la mia crescente ansia di fronte
al silenzio dei miei studenti che sembrano non saper più ragionare. In tanti
hanno risposto, mi sono arrivate molte lettere, anche dai ragazzi delle scuole.
Capisco che è difficile indicare un unico responsabile, un sicuro colpevole, ma
10 una piccola idea del perché accada tutto questo io me la sono fatta e ve la
propongo.
A mio avviso da troppo tempo viviamo sotto l’influsso di una divinità tanto
ammaliante quanto crudele, un uccelletto che canta soave, ma che ha un becco
così sottile e feroce da mangiarci il cervello. La Facilità è la dea che divora i
15 nostri pensieri, e di conseguenza l’intera nostra vita. La Facilità non va certo
confusa con la Semplicità che, come ben sintetizzava il grande scultore
Brancusi, “è una complessità risolta”. La Semplicità è l’obiettivo finale di ogni
nostro sforzo: noi dovremmo sempre impegnarci affinché pensieri e gesti siano
semplici, e dunque armoniosi e giusti. La Semplicità è il miele prodotto dal
20 lavoro complicato dell’alveare, è il vino squisito che dietro di sé ha la fatica della
vigna. La Faciltà, invece, è una truffa che rischia di impoverire tragicamente i
nostri giorni. A farne le spese sono soprattutto i ragazzi più poveri e
sprovveduti, ma anche noi adulti furbi e smaliziati stiamo concedendo vasti
territori a questa acquerugiola che somiglia a un concime ed è un veleno.
25 La nostra cultura ormai scansa ogni sentore di fatica, ogni peso, ogni difficoltà:
abbiamo esaltato il trash, abbiamo accettato che le televisioni venissero invase
da gente che imbarcava applausi senza essere capace a fare nulla; abbiamo
accolto con entusiasmo ogni sbraitante analfabeta, ogni ridicolo chiacchierone,
ogni comico da quattro soldi, ogni patetica “Bonazza”. Così un poco ogni
30 giorno il piano si è inclinato verso il basso e noi ci siamo rotolati sopra
velocemente, allegramente, fino a non capire più nulla, fino all’infelicità. Tutto
è stato facile, e tutto continua a voler essere ancora più facile. Impara l’inglese
giocando, laureati in due anni senza sforzo, diventa anche tu ridendo e
scherzando un uomo ricco e famoso.
35 Spesso i miei alunni, ragazzi di quindici o sedici anni, mi dicono: “Io voglio fare
i soldi in fretta per comprarmi tante cose”, e io rispondo che non c’è niente di

82
male a voler diventare ricchi, ma che bisognerà pure guadagnarseli in qualche
modo questi soldi, se non si ha alle spalle una famiglia facoltosa: bisognerà
studiare, imparare un buon mestiere, darsi da fare. A questo punto loro mi
40 guardano stupiti, quasi addolorati, come se avessi detto la cosa più bizzarra del
mondo. Non considerano affatto inevitabile il rapporto tra denaro e fatica,
credono che il benessere possa arrivare da solo, come arriva la pioggia o la
domenica. Sembra che nessuno mai li abbia avvertiti delle difficoltà
dell’esistenza. Sembra che ignorino completamente quanto la vita è dura, che
45 tutto costa fatica, e che per ottenere un risultato anche minimo bisogna
impegnarsi a fondo. E per quanto io mi prodighi per spiegare loro che anche
per estrarre il succo dall’arancia bisogna spremerla forte, mi pare di non riuscire
a convincerli. Il mondo intero afferma il contrario, in televisione e sui manifesti
pubblicitari tutti ridono felici e abbronzati e nessuno è mai sudato.
50 Così si diventa idioti. E’ un processo inesorabile, matematico, terribile, ed è un
processo che coinvolge anche gli adulti, sia chiaro. La Facilità promette mari e
monti, e il livello mentale si abbassa ogni giorno di più, fino al balbettio e
all’impotenza. “Le cose non sono difficili a farsi, ma noi, mettere noi nello stato
di farle, questo sì è difficile”, scriveva ancora Brancusi. Mettere noi stessi nello
55 stato di poter affrontare la vita meglio che si può, di fare un mestiere per bene,
di costruire un tavolo o di scrivere un articolo senza compiere gravi errori,
questo è proprio difficile, ed è necessario prepararsi per anni, prepararsi sempre.
E se addirittura volessimo avanzare di un palmo nella conoscenza di noi stessi
e del mondo, trasformarci in esseri appena appena migliori, più consapevoli e
60 sereni, dovremmo ricordarci la fatica e la pena che ogni metamorfosi pretende,
come insegnano i miti classici, le vite degli uomini grandi, le parole e le posizioni
dei monaci orientali. Ma la Facilità ormai ha dissolto tante capacità intellettuali
e manuali, e si parla a vanvera perché così abbiamo sentito fare ogni sera, si
pensa e si vive a casaccio perché così fanno tutti.
65 Ben presto per i lavori più complessi dovremo affidarci alla gente venuta da
fuori, da lontano, alle persone che hanno conosciuto la sofferenza e hanno
coltivato una volontà di riscatto. Loro sanno che la Facilità è un imbroglio, lo
hanno imparato sulla loro pelle. Noi continueremo a sperare di diventare
calciatori e vallette, miliardari e attrici, indossatori e stilisti, e diventeremo solo
70 dei mentecatti.

83
ATTIVITÀ

1. Dopo aver letto l'articolo, abbina ognuna delle seguenti frasi alla sequenza
di significato equivalente:
a. Nella cultura italiana attuale c'è un modello che invita a evitare lo
sforzo.
b. La Facilità fa diventare stupidi.
c. Ho già scritto che i miei studenti non ragionano piú.
d. Solo io dico ai miei studenti che l'esistenza è difficile.
e. Perché gli italiani danno l'impressione di essere storditi,
intellettualmente pigri?
f. In futuro, noi italiani dipenderemo dagli immigranti.
g. La Facilità è opposta alla Semplicità.

2. Spiega (in spagnolo) in due frasi quali sono le differenze, secondo il testo,
tra facilità e semplicità.

3. Lavora con un compagno o una compagna. Scegliete due metafore del


testo, e spiegate il loro senso letterale.

4. Completate il seguente quadro sulla struttura logica dell'articolo; poi


confrontate il vostro quadro con quello di un’altra coppia di compagni, e
infine con il resto della classe:

TEMA:

IPOTESI:

84
premessa: argomenti:

CONCLUSIONE:

85
5. Cercate nel testo i referenti dei seguenti pronomi.
a. ne (r. 5)
b. la (r. 10)
c. mangiarci (r. 14)
d. li (r. 43)
e. questo (r. 57)
f. loro (r. 67)

6. Traducete in spagnolo le seguenti espressioni:


a. a mio avviso (r. 12)
b. non va certo confusa (r. 15-16)
c. a farne le spese sono soprattutto i ragazzi (r. 22)
d. si parla a vanvera (r. 63)

7. Lavorate insieme a un’altra coppia. Riflettete sull`argomento del testo;


guidatevi da queste domande:
a. Siete d`accordo con l`analisi di M. Lodoli? Perché?
b. Vi sembra che in Argentina esista il fenomeno osservato da M. Lodoli?
c. Se la vostra risposta è sì, le cause sono le stesse?
d. Pensate che questo fenomeno possa cambiare?

֍ Per approfondire, vedi l’intervista a Marco Lodoli in


https://www.youtube.com/watch?v=EwS7Y2TiqWs

86
19

Leggete insieme all’insegnante i primi paragrafi dell’articolo, fino alla


riga 29. Ipotizzate quindi l’argomento di quel che segue: con quale
obiettivo pensate che Eco proponga il caso del gelato? In che senso
pensate che questo testo possa associarsi al 18? Continuate quindi
a leggere, in piccoli gruppi, e verificate le vostre ipotesi.
Quando avrete finito di leggere, risolvete le attività proposte dopo il
testo.

Umberto Eco, Come mangiare il gelato (Secondo diario minimo,


1989)

“Quando ero piccolo si comperavano ai bambini due tipi di gelati,


venduti da quei carrettini bianchi con coperti argentati: o il cono da
due soldi o la cialda da quattro soldi.
Il cono da due soldi era piccolissimo, stava appunto bene in mano a
5 un bambino, e si confezionava traendo il gelato dal contenitore con
l’apposita paletta e accumulandolo sul cono.
La nonna consigliava di mangiare il cono solo in parte, gettando via il
fondo a punta, perché era stato toccato dalla mano del gelataio
(eppure quella era la parte più buona e croccante, e la si mangiava di
10 nascosto, fingendo di averla buttata).
La cialda da quattro soldi veniva confezionata con una macchinetta
speciale, anch’essa argentata, che comprimeva due superfici circolari
di pasta contro una sezione cilindrica di gelato.
Si faceva scorre la lingua nell’interstizio sino a che essa non
15 raggiungeva più il nucleo centrale di gelato, e a quel punto si
mangiava tutto, le superfici essendo ormai molli e impregnate di
nettare.
La nonna non aveva consigli da dare: in teoria le cialde erano state
toccate solo dalla macchinetta, in pratica il gelataio le aveva prese in
20 mano per consegnarle, ma era impossibile identificare la zona infetta.
Io ero però affascinato da alcuni coetanei cui i genitori acquistavano
non un gelato da quattro soldi, ma due cono da due soldi.
Questi privilegiati marciavano fieri con un gelato nella destra e uno

87
nella sinistra, e muovendo agilmente il capo leccavano ora dall’uno
25 ora dall’altro.
Tale liturgia mi appariva così sontuosamente invidiabile che molte
volte avevo chiesto di poterla celebrare, invano. I miei genitori erano
inflessibili: un gelato da quattro soldi sì, ma due da due soldi
assolutamente no.
30 Come ognuno vede, né la matematica né l’economia né la dietetica
giustificavano questo rifiuto. E neppure l’igiene, posto che poi si
gettassero entrambe le estremità dei due coni.
Una pietosa giustificazione argomentava invero mendacemente, che
un fanciullo occupato a volgere lo sguardo da un gelato all’altro fosse
35 più incline a inciampare in sassi, gradini o abrasioni del selciato.
Oscuramente intuivo che ci fosse un’altra motivazione, crudelmente
pedagogica, della quale però non riuscivo a rendermi conto.
Ora, abitante e vittima di una civiltà dei consumi e dello sperpero
(quale quella degli anni trenta non era), capisco che quei cari ormai
40 scomparsi erano nel giusto. Due gelati da due soldi in luogo di uno da
quattro soldi non erano economicamente uno sperpero, ma lo erano
certo simbolicamente. Proprio per questo li desideravo: perché due
gelati suggerivano un eccesso.
E proprio per questo mi erano negati: perché apparivano indecenti,
45 insulto alla miseria, ostentazione di privilegio fittizio, millantata
agiatezza. Mangiavano i due gelati solo i bambini viziati, quelli che le
fiabe giustamente punivano, come Pinocchio quando disprezzava la
buccia e il torsolo. E i genitori che incoraggiavano questa debolezza
da piccoli ‘parvenus’, educavano i figli allo stolto teatro del ‘vorrei ma
50 non posso’, ovvero preparavano, diremmo oggi, a presentarsi al
‘check in’ della classe turistica con un falso Gucci acquistato da un
ambulante sulla spiaggia di Rimini.
L’apologo rischia di apparire privo di morale, in un mondo in cui la
civiltà dei consumi vuole ormai viziati anche gli adulti, e promette loro
55 sempre qualche cosa in più, dall’orologino accluso al fustino, al
ciondolo regalo per chi acquista la rivista.
Come i genitori di quei ghiottoni ambidestri che invidiavo, la civiltà dei
consumi finge di dare di più, ma in effetti dà per quattro soldi quello
che vale quattro soldi.
60 Butterete via la radiolina vecchia per acquistare quella che promette
anche l’autoreverse, ma alcune inspiegabili debolezze della struttura
interna fanno sì che la nuova radiolina duri solo un anno.
La nuova utilitaria avrà sedili in pelle, due specchietti laterali regolabili
dall’interno e il cruscotto in legno, ma resisterà molto meno della
65 gloriosa Cinquecento che, anche quando si rompeva, si rimetteva in
moto con un calcio.

88
Ma la morale di quei tempi ci voleva tutti spartani, e quella odierna ci
vuole tutti sibariti.

1. Identificate la riga in cui Umberto Eco passa dal racconto sul gelato che
riguarda la sua infanzia alla riflessione sul suo presente.

2. Spiegate il motivo del rifiuto della nonna, secondo quello che capisce
Eco da adulto.

3. Cercate i riferimenti culturali delle righe 46-52, e rileggete il brano; fatene


una “traduzione libera”, sostituendoli con elementi analoghi della cultura
argentina.

4. Identificate la frase in cui si associano il racconto del gelato con la critica


del consumismo attuale.

5. Identificate il fenomeno cui Eco fa riferimento nelle righe 60-66, che si


è diffuso molto dopo la scrittura di questo articolo. Come lo chiameresti
oggi?

6. Aggiornate i riferimenti alla tecnologia degli anni ’80 del Novecento, e


redigete una frase in spagnolo che abbia lo stesso senso delle righe 60-
62.

7. Traducete l’ultima frase del testo (r. 67-68).

→ Per approfondire, leggi il testo sul consumismo degli italiani nella seconda
sezione (pag. 136), contenente un tragico cenno all’Argentina.

89
20
1. Sai che cos’è l’Italian Sounding? E il Made in Italy? Parlane con i tuoi
compagni. Dopo leggi l’articolo e risolvi gli esercizi.

Le nuove forme di Italian Sounding.


Ciò che il cibo non dice. Le responsabilità dei produttori e i diritti dei consumatori

La forma più classica di Italian sounding consiste nella commercializzazione di prodotti non italiani
con l’utilizzo di nomi, parole, immagini che richiamano l’Italia, inducendo quindi ingannevolmente a
credere che si tratti di prodotti italiani. Si tratta di una forma di falso Made in Italy molto diffusa in
ambito internazionale nel settore agroalimentare, nel quale il nostro Paese può vantare, in modo
5 universalmente riconosciuto, una grande varietà di eccellenze.

Oggi occorre però non trascurare la diffusione, accanto a questa pratica totalmente illecita,
di una forma più raffinata di Italian sounding, legale, seppur, nei fatti, ingannevole. Un numero
sempre maggiore di aziende agroalimentari italiane vengono acquistate da gruppi ed imprese
straniere.

10 Se in passato era frequente la pratica di acquistare all’estero le materie prime per alimenti
poi trasformati e lavorati in Italia e venduti come Made in Italy, in questi anni si è invece diffusa in
misura crescente la tendenza a rilevare note aziende agroalimentari italiane.

In questo caso il nome non soltanto suona italiano, ma viene unanimemente associato
all’azienda che dal momento della sua nascita, per anni, ha messo sul mercato il prodotto. Il
15 fenomeno si è notevolmente intensificato nel nuovo Millennio e mostra ulteriori segni di crescita
negli ultimi tre anni. Quasi tutti i settori alimentari sono stati coinvolti, dalle bevande alcoliche ai
dolci, dai salumi ai latticini.

Gli acquirenti sono soprattutto aziende francesi, svizzere, spagnole e statunitensi. La


Francia si è concentrata sul settore caseario, la Spagna sull’olio, i colossi multinazionali svizzeri e
20 statunitensi (rispettivamente Nestlè e Kraft) hanno diversificato gli investimenti orientandosi su
tipologie eterogenee di prodotti.

L’assorbimento di una fetta tanto importante del comparto agroalimentare nazionale da


parte di aziende estere comporta una serie di conseguenze di diversa natura.

La prima consiste nello svuotare di sostanza il marchio del Made in Italy, poiché sono
25 sempre di più le realtà industriali, grandi e piccole, ormai italiane solo di nome. In molti casi il cambio
di gestione determina una perdita della qualità, come conseguenza della delocalizzazione produttiva
e della scelta di materie prime non locali. Piuttosto che la valorizzazione della diversità – che
rappresenta uno dei valori del Made in Italy autentico – si favorisce l’omologazione.

Questa particolare forma lecita di Italian sounding finisce anche per infrangere il patto di
30 fiducia con i consumatori, tradendone di fatto le aspettative. Solo una minoranza dei cittadini risulta
informata su questi cambiamenti di proprietà e gestione e questa asimmetria informativa tra
acquirenti e produttori alimentari nel medio-lungo periodo genera diffidenza.

90
Troppo spesso un marchio, noto e in alcuni casi fortemente connotato come italiano, cessa
di costituire una garanzia della provenienza e della qualità dei prodotti, con la conseguenza di creare
35 una più generale sfiducia dei consumatori nei confronti di tutto il Made in Italy.

Ciò accade proprio negli anni in cui tanta parte degli italiani sembra aver preso finalmente
coscienza del valore legato al marchio del Made in Italy e tende, conseguentemente, a privilegiare i
prodotti legati al territorio e i sapori locali. Se però anche dietro i marchi più noti della produzione
nazionale, percepiti come garanzia di qualità elevata e di sicurezza alimentare, si celano alimenti di
40 origine ormai interamente straniera, il consumatore non può non sentirsi sostanzialmente tradito,
quando non ingannato, pur in assenza di reato.

È un paradosso tutto italiano. Da un lato si mobilitano energie per diffondere anche nei cittadini
meno attenti la consapevolezza del valore aggiunto offerto dal marchio nazionale. E si utilizza il
Made in Italy come volano di un settore, quello alimentare, sempre più centrale in tempi di crisi.
45 Dall’altro lato una parte tanto consistente di quelle imprese che del Made in Italy stesso erano
rappresentative porta ormai bandiera straniera. Non si può trascurare il fatto che alcuni dei marchi
italiani assorbiti da aziende straniere hanno potuto beneficiare di un processo di efficace
riorganizzazione, rilancio e, in definitiva, rafforzamento finanziario. Alcune realtà che rischiavano la
chiusura sono riuscite a sopravvivere e, con un gruppo multinazionale forte alle spalle, a reggere il
50 confronto con il nuovo mercato globalizzato, grazie anche ad investimenti che da sole non avrebbero
potuto sostenere.

In generale, però, almeno nel settore agroalimentare, l’acquisizione da parte di aziende


straniere coincide con lo svuotamento della componente realmente italiana del marchio (in termini
di origine delle materie prime e, in alcuni casi, lavorazione) e, talvolta, con l’assorbimento della
55 concorrenza italiana o con una concorrenza irresistibile nei confronti delle altre imprese italiane
dello stesso settore merceologico.

Esiste inoltre la possibilità che i gruppi stranieri proprietari di aziende agroalimentari un tempo
italiane si spingano ad un passaggio successivo: la chiusura degli stabilimenti italiani ed il
trasferimento dell’intera produzione all’estero, dove i costi sono più contenuti.

60 In questo caso si devono considerare i risvolti occupazionali del passaggio di proprietà, laddove
la produzione è stata spostata all’estero, per la perdita di posti di lavoro in un settore cardine qual
è quello dei prodotti alimentari fortemente connotati come italiani (si pensi all’olio, ai formaggi, ai
vini). E ci sono anche i danni ambientali derivanti dal venir meno degli investimenti per il
mantenimento del territorio.

65 Il Paese per eccellenza della buona tavola e del turismo enogastronomico, indissolubilmente
associato al piacere ed alla cura del cibo ed alla sana dieta mediterranea, rischia, paradossalmente,
di perdere una parte sempre più consistente del proprio patrimonio, dal celebrato olio d’oliva ai
formaggi, dai salumi ai vini. Perdendo quello che è, ancora oggi, un fortissimo segno di identità e
distinzione territoriale, ma anche uno dei pochi baluardi in tempi di crisi: non è un caso che le
70 multinazionali trovino ancora estremamente appetibile l’industria agroalimentare italiana – tuttora
forte nelle esportazioni – ed abbiano invece abbandonato altri settori industriali.

In questo meccanismo distruttivo basato sul classico Italian sounding e sulle sue forme più
raffinate e legali, ma anche sull’agropirateria nelle sue diverse declinazioni, l’Italia è al tempo stesso
vittima e colpevole. Il modello di sviluppo italiano si regge infatti troppo spesso su una debolezza
75 etica che determina una complicità tra imprenditori e lavoratori e, complici anche le difficoltà
finanziarie, crea una deriva di valore. Come i tanti casi di cronaca di questi anni testimoniano, nel
nostro Paese muoversi in un’area grigia è diventata prassi. Sono molte le aziende costrette, per

91
sopravvivere, ad adeguarsi a regole imposte dai grandi gruppi: produrre a costi bassissimi per
restare sul mercato, il che è possibile solo ricorrendo a materie prime scadenti, sacrificando quindi
80 la qualità.

Sono infatti le grandi aziende, come quelle che stanno acquisendo tante imprese agroalimentari
italiane, a determinare i prezzi sul mercato. I danni che ne derivano sono molteplici: la privazione
del marchio, l’abbassamento progressivo della qualità dei prodotti, l’imposizione di standard
produttivi bassi alle aziende locali, che dovrebbero essere custodi delle produzioni tipiche e si
85 trovano invece costrette a fare scelte che le mantengano competitive sul mercato.

Chi perde maggiormente in questo meccanismo sono da un lato i produttori locali, costretti ad
abbassare qualità e prezzi, impoverendosi, dall’altro lato, ovviamente, i consumatori, cui arrivano
prodotti sempre più scadenti.

Nella dinamica che si sta così affermando gli alimenti falsi e di bassa qualità non sono soltanto
90 quelli prodotti all’estero, ma anche quelli provenienti dalle aziende italiane.

In una cultura dominante dell’autofalsificazione, la volontà di investire davvero nel Made in Italy
e tutelarlo rimane minoritaria: non si comprende – o non si vuole comprendere – che la sfida di
mercato si vince con l’autenticità e con la qualità. Molti in Italia, al contrario, preferiscono le
scorciatoie.

Raffaella Saso

[Tratto e adattato da http://www.osservatorioagromafie.it]

2. Indica quali sono le affermazioni presenti nel testo (sono in disordine):


a. La situazione dei costi.
b. Definizione di Italian Sounding.
c. Definizione di Made in Italy.
d. Rapporto quantità/qualità dei prodotti.
e. La moda italiana.
f. Tipi di acquirenti e settori.

3. Ora metti le frasi del punto 2. accanto al/ai paragrafo/i corrispondente/i.

4. Indica il referente dei seguenti pronomi:

a. sua (r. 14)


b. tradendone (r. 30)
c. quelli (r. 90)

5. Cercate nel testo espressioni equivalenti a quelle che seguono:

a. es necesario;
b. involucrados;
92
c. inversiones;
d. elección;
e. romper, quebrantar;
f. descuidar, desatender.

6. Traduci queste frasi.

a. nel quale il nostro Paese può vantare, in modo universalmente riconosciuto, una
grande varietà di eccellenze. (r. 4-5)
b. di una forma più raffinata di Italian sounding, legale, seppur, nei fatti,
ingannevole. (r. 7-8 )
c. Piuttosto che la valorizzazione della diversità – che rappresenta uno
dei valori del Made in Italy autentico – si favorisce l’omologazione. (r.
27-28)

7. Sottolinea tutti i falsi amici, e aggiungili allo schema di pag. 121.

93
21
1. Lavora con un compagno o compagna. Conoscete Silvia Federici? Sapete
a quale corrente di pensiero aderisce? Leggete il testo e risolvete gli
esercizi.

CULTURA
Silvia Federici, Quello che Marx non ha visto

L'intervista. Parla l'accademica e femminista italiana


che vive negli Stati Uniti. Autrice del fortunato «Calibano e
la strega», il suo «Genere e Capitale» è di imminente
pubblicazione per DeriveApprodi. «Il "Moro" ci dice che il
capitalismo gronda sangue, ma porta nel mondo una più
alta razionalità. Perciò non pensa la riproduzione,
un’attività irriducibile alle macchine»

Paola Rudan

[La versione integrale di questa intervista è pubblicata su


connessioniprecarie.org http://www.connessioniprecarie.org/]

In occasione dell’imminente uscita di Genere e Capitale. Per una rilettura femminista


di Marx (con la casa editrice DeriveApprodi), abbiamo raggiunto l’autrice Silvia
Federici per un’intervista. A risaltare è il rapporto conflittuale dell’autrice con il
pensiero di Marx, considerato tanto fondamentale per la critica del capitalismo
5 quanto insufficiente a coglierne il carattere distruttivo. Centrale è per Federici la
necessità di fare i conti con la complessità delle lotte che contestano il dominio del
capitale e di cui le donne – indigene, migranti, proletarie – sono oggi protagoniste in
ogni parte del mondo.

Che cosa motiva questo ripensamento di Marx, che oggi sembra più aspro
10 e polemico che in passato?

Una motivazione più immediata è relativa alla necessità di rispondere all’ondata di


celebrazioni che si sono fatte in occasione dell’anniversario della pubblicazione del

94
Capitale e poi della nascita di Marx. Bisogna celebrare, ma anche domandarsi dove è
necessario andare oltre.

15 La seconda motivazione è più profonda: mentre negli anni Settanta la critica a Marx
si concentrava sul fatto che non ha visto tutta l’area della riproduzione, quindi il
lavoro delle donne, con il passare del tempo ho compreso che questa sottovalutazione
è collegata anche a un limite più profondo del suo pensiero, la sopravvalutazione del
capitalismo in una visione storica progressista. Marx ci dice che il capitalismo gronda
20 sangue sporco, ma porta nel mondo una razionalità più alta. Questo è forse il peccato
originale a causa del quale Marx non pensa la riproduzione, perché è un’attività
irriducibile alla meccanizzazione, all’industrializzazione, soprattutto per quanto
riguarda il lavoro domestico, l’allevamento dei bambini, la sessualità, l’aspetto
emotivo. Il confronto allora non è più aspro, ma più profondo. A motivare questo tipo
25 di critica, infine, è la distruzione ambientale causata dalla tecnologia e specialmente
dal digitale. Se guardo a quello che succede in Congo, o in Niger, vedo la distruzione
e i massacri che si stanno verificando in gran parte dell’Africa e sono dovuti a
espropriazioni massicce e brutali funzionali alle compagnie minerarie e petrolifere.

Sono stata sempre polemica con l’idea che la lotta più efficace contro il capitalismo si
30 dà ai livelli più alti dello sviluppo tecnologico, e anche con gli accelerazionisti. Che
cosa acceleriamo? I massacri, lo spossessamento delle terre? Sviluppo oggi vuol dire
violenza, ma in mille luoghi si sta combattendo contro lo sviluppo capitalistico. Se
oggi Marx guardasse queste lotte le considererebbe arretrate?

Lei non pensa al salario solo come retribuzione del lavoro, ma come
35 rapporto sociale di dominio, che coinvolge anche chi non svolge un lavoro
salariato, come le casalinghe. Parlando delle esperienze contemporanee
di organizzazione autonoma comunitaria sembra però che valorizzi
politicamente proprio il carattere non retribuito del lavoro che si svolge
al loro interno, come una sorta di esteriorità al capitale.

40 Costruisco i miei discorsi a partire dalle esperienze di lotta. Il discorso sul salario per
il lavoro domestico nasceva in un contesto nel quale esistevano grandi movimenti di
donne, soprattutto nere, che già parlavano di lavoro domestico in altri termini.
Adesso, guardando a queste esperienze della post-globalizzazione, di milioni di

95
persone che sono state dislocate dalle loro terre, che non sono state integrate nel
45 lavoro salariato ma stanno costruendo qualcosa, allora il discorso si è articolato di
più. I due obiettivi fondamentali rimangono il rifiuto del lavoro non pagato e il
recupero della ricchezza sociale, che comunque vedo anche in esperimenti comunitari
come le villas miserias argentine. C’è un momento di riappropriazione della ricchezza
non solo per i terreni occupati, ma anche perché si crea un tessuto sociale più solidale
50 che ti permette di affrontare lo Stato in modo da ottenere dei beni materiali. Questa
non è un’alternativa al discorso del salario, ma è una maggiore articolazione.

In quest’enfasi sulle esperienze comunitarie non c’è il rischio di


un’identificazione delle donne con il lavoro riproduttivo?

È un discorso complicato. Noi femministe degli anni Settanta siamo state le prime a
55 contestare il discorso identitario, abbiamo detto che la femminilità è una cosa
costruita e da sempre la mia posizione fondamentale è che non c’è un significato
universale dell’essere donne. Che cosa vuol dire essere donne è sempre diverso ed è
una lotta continua per stabilire chi sei, chi non sei, che cosa vogliamo essere. Detto
questo, rimane anche vero – ed è qui che si possono generare degli equivoci – che
60 guardando all’esperienza che moltissime donne hanno vissuto in America Latina, per
esempio, risulta che siccome sono loro che per prime hanno a che fare con i bambini,
con le malattie, con il fare da mangiare, sono anche quelle in prima linea contro i
progetti estrattivi.

Le loro però sono esperienze storiche che si collegano all’appropriazione,


65 all’agricoltura, alle sementi, che non riguardano la natura ma la conoscenza. Ci sono
conoscenze profonde di che cosa c’è nell’acqua, nella terra, nelle piante, del rapporto
con gli animali. Ascoltare queste storie, vedere queste esperienze è quello che alla mia
età, dopo aver visto tanto, mi dà coraggio, mi dà forza.

L’altro problema sul quale insiste è quello del razzismo. Fenomeno che si
70 riconfigura in un contesto globale segnato da movimenti di donne e
uomini senza precedenti, e contemporaneamente ridefinisce il lavoro
domestico e riproduttivo rispetto al passato.

Per me la lotta delle lavoratrici domestiche migranti è uno dei movimenti di donne
più importante di questi anni. Porta in sé tutte le rivendicazioni che riguardano sia il

96
75 discorso sulla riproduzione e la valorizzazione – loro dicono «senza di noi niente si
muove» – sia quello della colonialità e del razzismo. Con questo il movimento
femminista non si è ancora rapportato in modo reale e decisivo. Per migrare devi
sfondare mille porte, devi avere una comprensione dei rapporti internazionali, delle
polizie, delle leggi, delle norme sul lavoro, è quindi un movimento molto ricco di
80 conoscenze e di capacità di rottura.

Nel suo lavoro ha sottolineato come oppressione sessuale e razzismo non


siano fattori solo culturali. Perciò si concentra sul lavoro delle donne.
Oggi i movimenti delle donne stanno contestando in altro modo la
distinzione tra il «culturale» e il «materiale», perché considerano la
85 violenza maschile costitutiva dei rapporti sociali.

È vero anche il fatto che le condizioni materiali generano la violenza. L’indebitamento


nella famiglia accresce l’intensità della violenza. L’organizzazione del lavoro negli
Stati Uniti genera violenza. È difficilissimo sfuggire alle molestie di chi controlla il
posto di lavoro. Le cameriere nei ristoranti devono «vendere il corpo» per ottenere
90 mance perché nella maggior parte dei posti di lavoro non ti danno un salario ma vivi
di mance. La mancia ti obbliga a mostrare il décolleté, a sporgere i seni, soprattutto
alla fine del mese. Cameriere e proletarie dicono che le attrici che hanno animato il
movimento #metoo sono privilegiate. Devono combattere con quelli che le toccano,
ma da loro dipende la mancia.

95 Qual è la sua riflessione sul movimento femminista globale che è


cresciuto e si è consolidato negli ultimi anni?

Il tema della violenza ha subito una grande trasformazione, agli inizi si è concentrato
sulla violenza domestica, ma ora è messa al centro anche la sua dimensione pubblica.
L’iniziativa delle donne di Las Tesis in Cile, che dicono allo Stato «lo stupratore sei
100 tu» è il simbolo di questo cambiamento che riconosce la violenza non solo nelle case
ma anche quella istituzionale ed economica. Quando si svalorizza una moneta e da un
giorno all’altro migliaia di persone non hanno più niente, o si chiude un’azienda e la
gente è sul lastrico, o aumentano gli affitti e la gente dorme in strada, questa è
violenza.

97
105 Oggi il movimento vede come violenza lo stupro, il femminicidio, ma anche
l’esproprio dalle terre, l’imposizione della miniera, la gentrificazione che ti costringe
a vivere per strada, e ormai capisce che è un rapporto che si dà in forme diverse ma a
livello globale. È un momento molto importante, per cui se abbiamo i Bolsonaro e i
Trump, abbiamo anche una risposta. Anzi, forse i Trump e i Bolsonaro sono loro la
110 risposta: vedo anche la fascistizzazione come una risposta a un forte movimento dal
basso. Si rendono conto che il movimento delle donne sta trainando le lotte. Questo è
un momento terribile ma c’è anche una grossa agitazione dal basso. Credo che oggi la
gran parte del mondo sappia che il capitalismo è un sistema distruttivo, orrendo. Il
problema è come organizzarsi.

(La versione integrale di questa intervista è pubblicata su


connessioniprecarie.org http://www.connessioniprecarie.org/)

2. Segnate con una “x” l’opzione giusta. Indicate nel testo la risposta.

immediate e profonde.
a. Federici ripensa Marx perché ha delle
motivazioni celebrative e lavorative.

ripresa della ricchezza sociale.


b. Federici cita le villas miserias come
esempio di lavoro non pagato.

deve ancora occuparsi delle donne


c. Secondo Federici il movimento migranti.
femminista ha già preso posizione nei
confronti delle donne migranti.

3. Scrivete una frase per ogni risposta di Silvia Federici, che riassuma il suo
pensiero.

4. Cercate di dedurre alcuni significati, senza usare il vocabolario:

Quale espressione si usa per dire

c. affrontare una situazione ?


d. essere in miseria, in stato di indigenza?

98
5. Traducete le seguenti frasi.

a. Marx ci dice che il capitalismo gronda sangue sporco, ma porta nel mondo una
razionalità più alta. (r. 33 – 35)
b. risulta che siccome sono loro che per prime hanno a che fare con i bambini, con le
malattie, con il fare da mangiare, sono anche quelle in prima linea contro i progetti
estrattivi. (r. 61-63)

6. Commentate la presenza di falsi amici nel testo.


7. Osservate il participio di subire, subito (r. 97), da non confondere con
l’aggettivo e avverbio subito, presente in 2 (r. 17), 4 (r. 90)

5 (r. 18, r. 120), 10 (r. 104), 14 (r. 16), 16 (r. 8).

8. Sottolineate tutti i connettori e aggiungeteli allo schema di pag. 121.

→ Per approfondire, leggi il testo sulla storia del femminismo italiano nella
seconda sezione, pag. 139.

99
22
Lavora con un gruppo di compagni. Leggete il titolo dell’articolo e
commentatelo. In quale data è stato scritto? Da chi? In quale sede? Osservate
la nota e verificate le vostre ipotesi.

Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua


italiana*

III. 1 - PREMESSA

Lo scopo di queste raccomandazioni è di suggerire alternative compatibili con il


sistema della lingua per evitare alcune forme sessiste della lingua italiana, almeno quelle
più suscettibili di cambiamento. Il fine minimo che ci si propone è di dare visibilità
linguistica alle donne e pari valore linguistico a termini riferiti al sesso femminile.
5 Questi suggerimenti sono frutto di ricerca e di analisi scientifica, che vengono
avanzati a titolo indicativo e come apertura di discussione. L’operazione a cui si mira è
di stabilire un vero rapporto tra valori simbolici nella lingua e valori concreti nella vita.
L’uso di un termine anziché di un altro comporta una modificazione nel pensiero
e nell’atteggiamento di chi lo pronuncia e quindi di chi l’ascolta. La parola è una
10 materializzazione, un’azione vera e propria. È altrettanto chiaro che il valore semantico è
strettamente legato al contesto linguistico ed extralinguistico in rapporto dinamico.
Alcune delle proposte alternative qui avanzate potrebbero benissimo essere usate con
marcatura diametralmente opposta. Ciò che conta non è, quindi, il puro e semplice uso
della parola diversa come «lip service», bensì un cambiamento più sostanziale
15 dell’atteggiamento nei confronti della donna, un senso che traspaia attraverso la scelta
linguistica. (1)
La lingua è una struttura dinamica che cambia in continuazione. Ciononostante la
maggior parte della gente è conservatrice e mostra diffidenza – se non paura – nei
confronti dei cambiamenti linguistici, che la offendono perché disturbano le sue abitudini
20 o sembrano una violenza «contro natura». Toccare la lingua è come toccare la persona
stessa.
Ciononostante – e in modo del tutto contraddittorio – si accettano poi neologismi
quali «cassintegrato» o «irizzato», per non parlare dei vari barbarismi provenienti
dall’inglese, quali «pressurizzare», «imputare» (da «input»), «digitare» (da «digit») e così
25 via. Perché mai questi passano senza problemi? Forse perché non ci coinvolgono a livello
profondo? O solo perché entrano nel linguaggio in modo subliminare senza che ce ne
accorgiamo? Certo è che, posti davanti al problema se accettare o meno un cambiamento,
un nuova parola, si assume spesso una atteggiamento «moralistico» in difesa della

100
«correttezza» della lingua, vista come una specie di cosa sacra, intoccabile. In realtà noi
30 siamo tanto attivi quanto passivi nei confronti della lingua. Il processo di classificazione
linguistica è dinamico perché la lingua ci offre sia le forme già codificate sia una serie di
operazioni che ci permettono di classificare nuovi contenuti o di riclassificare la nostra
realtà.
Vi sono stati cambiamenti di tipo ideologico per parole riferite a classi e razze
35 discriminate. Così sono scomparsi dalla lingua ufficiale e dalla nostra lingua quotidiana
termini quali «facchino», «spazzino», «mondezzaro», «becchino», evidentemente
«serva/o» ma anche «donna di servizio», ecc., sostituiti da «portabagagli», «netturbino»,
«operatore ecologico» «operatore cimiteriale» (2) e «colf». Per quanto riguarda le razze,
dopo l’olocausto, il termine «giudeo» fu tabuato e sostituito in un primo tempo solo da
40 «israelita» ed ora anche da «ebreo», l’uso di «nero» (black) per «negro» tabuato negli
Stati Uniti, è entrato anche in Italia, nonostante le precedenti connotazioni politiche.
Molti di questi cambiamenti non si possono definire «spontanei», ma sono
chiaramente frutto di una precisa azione socio-politica. Essi dimostrano l’importanza che
la parola/segno ha rispetto alla realtà sociale ed il fatto che siano stati assimilati significa
45 che il problema è veramente diventato «senso comune» o che, per lo meno, la gente ormai
si vergogna al solo pensiero di poter essere tacciata di «classista» o «razzista». Quando
ci si vergognerà altrettanto di essere considerati «sessisti» molti cambiamenti qui
auspicati diverranno realtà «normale».
All’estero interventi sul sessismo linguistico sono iniziati da circa vent’anni. Negli
50 Stati Uniti, oltre all’ampia diffusione di nuove forme non sessiste (ad esempio
l’appellativo unificato di Ms al posto dei due Miss e Mrs. davanti a nomi di donna, la
frequente specificazione di: he and she al posto del pronome generico he, ecc.) vi sono
stati interventi anche a livello istituzionale: il Department of Labor ha ufficialmente
modificato una lunga lista di vocaboli riferiti ad occupazioni per eliminare l’ambiguo
55 «man» («mailperson», ad es. invece di «mailman»), modifiche incorporate nell’edizione
del 1977 del Dictionary of Occupational Titles.
Raccomandazioni su un uso non sessista della lingua sono state redatte da
associazioni culturali, organismi religiosi, giuridici, ecc. Quasi tutte le case editrici e gli
organi di stampa sono forniti di «guidelines» per evitare qualunque forma discriminatoria
60 per razza e per sesso. (3).
Anche in molti paesi europei, soprattutto nell’ambito della CEE ed extraeuropei
(Canada, Australia, ecc.) si sta conducendo un’operazione analoga. La linea di intervento
istituzionale è soprattutto verso la «femminilizzazione» dei nomi di professione. In
Francia ad esempio, è stata ufficialmente costituita una Commissione per la Terminologia
65 ad hoc (le cui proposte sono in via di attuazione).
Gli interventi compiuti in questi paesi hanno messo in evidenza il problema ed
hanno decisamente inciso sulla lingua di ogni giorno almeno in alcuni casi.
Ci si rende conto di quanto sia difficile il passaggio concreto dalla forma abituale
a quella nuova. Tra le obiezioni più comunemente avanzate alla forma nuova c’è quella
70 che l’alternativa nuova «è brutta», «suona male» e ciò anche quando la parola alternativa
risulta del tutto accettabile all’orecchio e non fa alcuna violenza alla lingua. Secondo

101
Bruno Migliorini «un termine nuovo è spesso giudicato brutto solo in quanto è nuovo,
cioè urta contro la purezza, la continuità e la tradizione...». Ma in molti casi è proprio la
mancanza del termine nuovo a causare scorrettezza e dissonanze nella lingua, ad esempio
75 quando si devono accordare aggettivi o participi passati titoli al maschile riferiti a donne.
Altro argomento contrario alla proposta di riforma linguistica è che la questione è
di poca rilevanza, che vi sono cose molto più importanti per cui lottare, e per le quali
quindi si devono serbare le energie. Anzitutto c’è alla base di questo argomento un
concetto errato delle energie, che parte da un principio di «scarsezza»: al contrario energie
80 producono energie, se non si perde di vista la globalità della questione. In questo caso
particolarmente la concatenazione tra presa di coscienza linguistica e coscienza sociale e
politica è molto stretta: non si può fare un’analisi della lingua, in questo senso, senza
partire da una consapevolezza femminista; viceversa, questa stessa coscienza viene
approfondita e ampliata dall’analisi della lingua e si concretizza attraverso il
85 cambiamento linguistico.
Vi è poi l’obiezione di coloro che considerano qualsiasi proposta di cambiamento
linguistico come un attentato alla libertà di parola. Il problema è che sono stati i regimi
rivoluzionari/autoritari a «imporre» cambiamenti nel linguaggio – ciò spiegherebbe la
reazione viscerale contro la proposta di cambiamento. Non si vuole capire però la
90 differenza enorme che c’è tra l’«imporre» una parola dall’alto ed il «proporre»,
«suggerire» alternative, «stimolando» la creatività individuale a trovare altre soluzioni,
con lo scopo non di «limitare» e «prescrivere» il proprio modo di parlare e di scrivere,
ma al contrario di liberarsi dagli schemi che la lingua stessa e l’abitudine ci «impongono».
La lingua in sé è ideologica, ma le sue ideologie sono generalmente nascoste e passano
95 in modo subliminare. Evidentemente le forme alternative qui suggerite hanno anch’esse
una base ideologica, ma si tratta di una «ideologia» scoperta o dichiarata: è l’ideologia di
una parità non solo di diritti, ma anche di valori tra i due sessi: sarebbe anzi esatto parlare
non tanto di ideologia quanto di un’ottica diversa, un’ottica che, partendo dalla donna,
mette in luce i lati lasciati finora in ombra dalla tradizionale ottica patriarcale.
100 Per «parità» non si intende «adeguamento» alla norma «uomo», bensì reale
possibilità di pieno sviluppo e realizzazione per tutti gli esseri umani nelle loro diversità.
Molte persone sono convinte di ciò, eppure si continua a dire che «la donna deve essere
pari all’uomo» e mai che «l’uomo deve essere pari alla donna» e nemmeno che «la donna
e l’uomo (o l’uomo e la donna) devono essere pari»: strano concetto di parità questo in
105 cui il parametro è sempre l’uomo.
Pur rendendoci conto che la lingua non può essere cambiata con un puro atto di
volontà, ma pienamente consapevoli che i mutamenti sociali stanno premendo sulla nostra
lingua influenzandola in modo confuso e contraddittorio, riteniamo nostro dovere
intervenire in questo particolare momento per dare indicazioni affinché i cambiamenti
110 linguistici possibili registrino correttamente i mutamenti sociali e si orientino di fatto a
favore della donna.
Riteniamo che, una volta individuato il problema, si possa – senza forzature e con
gli opportuni accorgimenti – evitare di riprodurre nella lingua il pensiero sessista e
formare nuove abitudini linguistiche. Per quanto riguarda il problema complesso e di
115 difficile soluzione, dell’uso del maschile non marcato, si potranno spesso trovare delle

102
soluzioni accettabili caso per caso, facendo uno sforzo particolare per pensare
specificamente e deliberatamente anche alle donne quando parliamo della specie umana
o di categorie e gruppi in cui esse sono comprese. Il solito «s’intende che è compresa…»
è una tattica comoda per eludere il problema: in realtà, la donna non è compresa ma tenuta
120 nell’implicito: il che è molto diverso.
Il campo in cui i cambiamenti sono particolarmente importanti, sia per il valore
emblematico, sia per le conseguenze pratiche (soprattutto nella sfera del lavoro, come da
ricerca sulle Offerte di lavoro, pagg. 91-98) è quello dei nomi di professione, mestiere,
cariche e titoli.
125 In questi casi vi è una maggiore probabilità che le forme nuove siano adottate,
perché vengono spesso a colmare una lacuna e a chiarire un dubbio. In questo momento
di incertezza linguistica, nell’interesse della parità tra i due sessi così come della chiarezza
e correttezza della lingua stessa, prima che ci si assesti su forme pregiudizievoli alla
donna, si deve prendere una posizione, scegliendo forme femminili accettabili e di pari
130 valore linguistico alle corrispondenti forme maschili. Non si vuole infatti azzerare la
differenza tra donna e uomo, al contrario si mira a rivalutare la forma femminile, evitando
però qualsiasi tipo di priorità e di gerarchia linguistica (derivazione del maschile, ecc.).
La maggior parte delle forme alternative qui proposte, peraltro, esistono nella
lingua italiana; si tratta quindi solo di optare per una variante anziché per un’altra. In
135 pochi altri casi la forma suggerita è un neologismo (quasi sempre una desinenza finora
non usata, ma implicitamente esistente nelle possibilità trasformative dell’italiano). I
neologismi sono stati coniati sulla base di una accurata e puntuale analisi sincronica e
diacronica della lingua e sono generalmente confortati da autorevoli linguiste/i autori/trici
di grammatiche e dizionari.
140 Le raccomandazioni che qui proponiamo si riferiscono quasi unicamente alle
dissimmetrie grammaticali. Per quanto riguarda il campo semantico (l’uso del lessico,
delle immagini, dei registri, ecc.), dove la lingua, al di là degli automatismi e
condizionamenti, lascia più spazio alla creatività individuale, non si può evidentemente
«raccomandare» una forma anziché un’altra; chi scrive e chi parla può però prendere
145 coscienza di ciò che le parole possono fare, in particolare di ciò che hanno fatto e fanno
alle donne, di come possono emarginarle, ridurle, ridicolizzarle. Se si vuole quindi avere
e dare un’immagine delle donne come persone a tutto tondo, come individui con
potenziale non stereotipicamente delimitato, si dovrà scegliere e saggiare parole e
immagini, ascoltarne le risonanze e coglierne le associazioni e, soprattutto (1954) –
150 riprendendo il consiglio di Orwell, - scegliere «le parole per il significato e non il
significato per le parole», senza mai «arrendersi» alle parole stesse.

*Estratto da Il sessismo nella lingua italiana a cura di Alma Sabatini per la


Presidenza del Consiglio dei Ministri e Commissione Nazionale per la Parità e
le Pari Opportunità tra uomo e donna, 1987.

103
(1) Inoltre l’importanza dei valori contestuali emerge soprattutto nei casi di ambiguità
semantica come, ad esempio, per le parole: uomo, uomini e, in generale, per i
maschili non marcati. Infatti, ove dal contesto non risulti con chiarezza il valore
marcato o non marcato di detti termini, sarà indispensabile esplicitarlo.
(2) Questi due termini risultano, insieme ad altri analoghi, nel linguaggio ufficiale
dell’amministrazione comunale di Roma.
(3) Per una lista selezionata di «Guidelines for Non-Sexist Usage» v. Frank and
Anshen (1963).

1. Rispondete alle domande:


a. Qual è lo scopo dell’articolo?
b. Cosa comporta l’uso di un termine anziché di un altro?
c. Qual è l’atteggiamento dei parlanti nei confronti dei cambiamenti?
d. Cosa pensa l’autrice dell’argomento «la questione è di poca rilevanza»?
e. Cosa sostiene sui regimi rivoluzionari/autoritari?
f. Cosa intende per «parità»?
g. Che succede nel campo semantico?

2. Traducete e commentate queste frasi.

a. la gente ormai si vergogna al solo pensiero di poter essere tacciata di «classista» o


«razzista». Quando ci si vergognerà altrettanto di essere considerati «sessisti» molti
cambiamenti qui auspicati diverranno realtà «normale». (r. 46-48)
b. sarebbe anzi esatto parlare non tanto di ideologia quanto di un’ottica diversa, un’ottica
che, partendo dalla donna, mette in luce i lati lasciati finora in ombra dalla tradizionale
ottica patriarcale. (r. 98-100)
c. Il solito «s’intende che è compresa…» è una tattica comoda per eludere il problema: in
realtà, la donna non è compresa ma tenuta nell’implicito: il che è molto diverso. (r. 119-
121)

3. Commentate insieme all’insegnante le frasi con ci si: che valore hanno?

4. Cercate nel testo espressioni analoghe a queste:

104
a. han desaparecido;
b. etiquetada;
c. luchar;
d. presionando;
e. cancelar, anular;
f. sostenidos; sustentados.

5. Cercate il referente di questi pronomi.

a. quelle (r. 2)
b. loro (r. 101)
c. quello (r. 123)
d. coglierne (r. 149)

105
23
Prima di leggere il testo, lavora con un gruppo. Osservate la foto: riconoscete il
film? Conoscete gli attori? Avete visto altri film della commedia all’italiana?
Se qualcuno di voi conosce questo movimento, leggete le domande (in neretto)
e provate a risponderle.
Verificate le vostre conoscenze leggendo l’intero testo; risolvete infine le attività
proposte dopo il testo.

La commedia all'italiana cos'è?


LIETTA TORNABUONI

Una scena dei "Soliti ignoti" di Monicelli

A CURA DI RAFFAELLA SILIPO

Cosa si intende per «commedia all’italiana» di cui Mario Monicelli scomparso ieri è stato uno dei
5 massimi esponenti?

«Commedia all'italiana» è il termine con cui viene indicato un fortunatissimo filone cinematografico nato
in Italia negli Anni 50. L'espressione è stata inventata parafrasando il titolo di uno dei primi successi del
genere, «Divorzio all'italiana» di Pietro Germi. Più che un vero e proprio «genere», però, con «commedia
all’italiana» si indica un felice periodo creativo in cui in Italia vengono prodotte commedie brillanti, ma
10 con contenuti profondi e attuali: alle situazioni comiche e agli intrecci tipici della commedia tradizionale,
si affianca infatti sempre, con ironia, una pungente satira di costume, che riflette l'evoluzione della società
italiana di quegli anni.

Quali sono i temi toccati dalla commedia all’italiana?

106
15 Negli anni di maggior successo di questo tipo di film l'Italia vive il boom economico e un mutamento
radicale della mentalità e dei costumii, la nascita di un nuovo rapporto con il potere e con la fede, la ricerca
di nuove forme di emancipazione economica e sociale, nel lavoro, nella famiglia, nel matrimonio. Di tutti
questi fermenti e contraddizioni sono testimoni ironici e divertiti i maggiori talenti dell’epoca.

20 Quali sono i registi più importanti?

I padri del genere sono Pietro Germi, Nanni Loy e Mario Monicelli, ma anche Luigi Comencini, , Vittorio
De Sica, Lina Wertmüller, Ettore Scola, Luigi Zampa, Luigi Magni, Dino Risi, Camillo Mastrocinque,
Luciano Salce, Sergio Corbucci. Fondamentale l’apporto degli sceneggiatori, che regalarono dialoghi
indimenticabili ai personaggi: veri giganti in questo senso furono Steno (Stefano Vanzina), Age e Scarpelli,
25 Rodolfo Sonego e Suso Cecchi D'Amico.

E gli attori?

Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman e Nino Manfredi sono i più simbolici, ma molti altri si
devono aggiungere a questi: Marcello Mastroianni, Sofia Loren, Claudia Cardinale, Vittorio De Sica,
30 Raimondo Vianello, Gino Cervi, Walter Chiari, Aroldo Tieri, Franca Valeri, Stefania Sandrelli, Gastone
Moschin, Silvana Mangano, Carla Gravina, Adolfo Celi. Tra le donne, insuperabile «commediante» resta
Monica Vitti.

I titoli più simbolici?

35 Se si volesse individuare un manifesto del genere, probabilmente ci si potrebbe riferire a tre film su tutti,
ossia «I mostri» di Dino Risi (dove troviamo riuniti Gassman e Tognazzi che nell'arco dei vari episodi del
film si trasformano in una serie di personaggi grotteschi), «Il medico della mutua» di Luigi Zampa dove
Sordi regna sovrano, e «I soliti ignoti» di Monicelli, dove Gassman è affiancato da Mastroianni, Totò, e da
una carrellata di eccezionali caratteristi. Proprio questo film, girato nel 1958, è considerato da molti critici,
40 per ambientazione, tematiche, tipologia dei personaggi e impostazioni estetiche, il punto di inizio della vera
e propria Commedia all'italiana.

Dove è nata la commedia all’italiana?

E’ stata una creazione di Cinecittà e anche per questo inizialmente i film erano ambientati spesso a Roma,
45 con attori romani o romani d'adozione: Gassman, nato a Genova, Tognazzi, cremonese, o i ciociari
Mastroianni e Manfredi, tutti si trasferirono nella capitale. Era il periodo della Dolce Vita e dei caffè di Via
Veneto frequentati da artisti, attori, avventurieri e paparazzi.

Quando finisce questo periodo d’oro del cinema?

Il genere inizia a declinare attorno alla metà degli Anni Settanta, per esaurirsi all'inizio degli Ottanta,
50 complice la scomparsa di alcuni dei suoi protagonisti più carismatici (è il caso ad esempio di Vittorio De
Sica, Totò, Peppino De Filippo, Pietro Germi), ma anche il cambiamento dell’atmosfera dell'Italia del
tempo. Il progressivo inasprimento dello scontro sociale e politico negli Anni Settanta, con l'irruzione del
terrorismo, della crisi economica, e di un diffuso senso di insicurezza, finì infatti per spegnere quella spinta
al sorriso ironico che era stata la caratteristica dominante della Commedia all'italiana degli anni migliori,
55 sostituita poco alla volta da una visione sempre più cruda e drammatica della realtà. Nel 1975, Mario
Monicelli, con il suo «Amici miei», imprime in tal senso una svolta fondamentale alla commedia:
scompaiono definitivamente il lieto fine e il finale leggero, i personaggi rimangono comici ma diventano
amari e patetici, in una atmosfera di generale amarezza e disincanto. Si può insomma dire che Monicelli
segna l’inizio (con «I soliti ignoti») e la fine (con «Amici miei») della commedia all’italiana.

1. Cercate nel testo le espressioni che equivalgono a quelle che seguono:


acompaña, se añade corriente búsqueda con frecuencia
cambio radical tendencia en ese sentido

107
final feliz agotarse cada vez más

2. Traducete le seguenti frasi; identificate in ognunga un falso amico, e


aggiungetelo all’elenco di pag. 121.
a. un felice periodo creativo in cui in Italia vengono prodotte commedie
brillanti, ma con contenuti profondi e attuali (r. 9-10).
b. Il progressivo inasprimento dello scontro sociale e politico negli Anni
Settanta, con l'irruzione del terrorismo, della crisi economica, e di un
diffuso senso di insicurezza (r. 52-53)

3. Indicate il referente dei seguenti pronomi:


a. quegli (r. 12)
b. questo (r. 39)
c. il suo (r. 56)

4. Elencate i termini appartenenti al campo semantico del cinema. Sapete


tradurli? Vi trovate qualche falso amico?

108
24

TOTÒ

Napoli 15/02/1898 - 15/04/1967

Le sue gag hanno fatto ridere generazioni di italiani, prima al cinema, poi in televisione.
Ma nonostante l’immenso successo popolare, il grande Totò è sempre stato vittima
dell’incomprensione della critica, che mai come in questo caso unico del cinema italiano
ha peccato di miopia. Un abbaglio cui è stato posto rimedio solo negli anni ’70, dopo la
5 morte del comico napoletano, grazie allo sdoganamento ad opera del critico Goffredo
Fofi che ne ha messo in evidenza la grandezza.
Figlio illegittimo del principe Giuseppe De Curtis e della giovane Anna Clemente, Totò
nasce a Napoli, il 15 febbraio del 1898. Registrato all'anagrafe con il cognome materno,
Totò verrà riconosciuto come figlio dal principe soltanto nel 1941. Solo nel 1946, un anno
10 dopo la morte del Principe De Curtis, il Tribunale di Napoli autorizza Totò a fregiarsi del
nome e del titolo di Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Commeno Porfirogenito
Gagliardi De Curtis di Bisanzio, Altezza Imperiale, Conte Palatino, Cavaliere del Sacro
Romano Impero.
Dopo aver frequentato le scuole elementari, Totò, come lo chiamava la madre, si iscrive
15 al collegio dove un suo precettore, tirando di boxe, gli causa la deviazione del setto nasale
che è diventato il suo tratto fisico caratteristico. Esordisce nei teatri della periferia con
piccole compagnie che si rifanno alla commedia dell’arte napoletana. Lavora poi come
mimo e macchiettista ottenendo un grande successo negli anni ’20. Già allora, il suo
personaggio che replicherà all’infinito, con le dovute varianti, è maturo: la bombetta in
20 testa, il tight largo, la mimica facciale, sono i tratti inconfondibili della sua maschera.
Mentre l’attività teatrale va a gonfie vele (ha lavorato spesso insieme ad Anna Magnani),
gli esordi al cinema sono duri. I primi successi arrivano alla fine degli anni ’40 con remake
parodistici di grandi classici del cinema, spesso stranieri, come Fifa e arena (1948)
e Totò le Mokò. Poi arriva il sodalizio professionale con Peppino de Filippo, insieme al
25 quale forma un assortimento perfetto. Sono i tempi di Totò, Peppino e la
malafemmina (1956), Signori si nasce (1960) o ancora Totò, Peppino e la dolce
vita (1961). Nel 1966, con l’incontro con Pier Paolo Pasolini, si apre una nuova fase. Il

109
regista friulano propone un Totò in versione comica ma al tempo ne esalta la vena tragica
e poetica, come in Uccellacci e uccellini o nell’episodio del film Capriccio all’italiana
30 (1967), ultima prova, dopo oltre cento film, prima della morte, avvenuta il 15 aprile del
1967 a Roma, nella sua casa ai Parioli.

1. Dopo aver letto il testo, mettete un titolo al margine di ogni paragrafo.


Confrontate poi il fatto con il resto della classe.
2. Lavora con un compagno o compagna. Identificate i falsi amici del testo,
e aggiungeteli all’elenco di pag. 121.
3. Scegliete due metafore del testo, e spiegate il loro senso letterale.
4. Identificate i concetti e le espressioni che legano questo testo al 10.

֍ Per approfondire, vedi la famosa scena di Totò sulla scrittura della lettera:
https://www.youtube.com/watch?v=SzrEfkjdzgw

110
25
1. Dividete la classe in tre gruppi. Ogni gruppo legge un brano di quelli che
seguono, tratti dai ricordi autobiografici di Marcello Mastroianni.
2. Scrivete un riassunto di due o tre frasi sul vostro brano, e condividetelo
con la classe.
3. Scegliete due frasi da tradurre, e passatelo al gruppo che avete alla vostra
sinistra. Traducete quindi le frasi proposte dai vostri compagni, facendo
attenzione non solo al loro senso letterale ma anche allo stile e al loro grado
di formalitá, e passate le traduzioni al gruppo sempre a sinistra. Ogni
gruppo dovrebbe cosí scegliere delle frasi, tradurre delle altre e correggere
altre ancora. Discutete le opzioni traduttive con tutta la classe.
4. Infine, cercate di ricordare il significato di “mammone”, visto in un testo
della dispensa per il livello elementare. Potete definire questa parola?

Marcello Mastroianni, Mi ricordo, sí, io mi ricordo (Milano: Baldini &


Castoldi, 1997). Frammenti.

Dal tempio al calderone

A volte mi si chiede la differenza tra il teatro e il cinema. Qui bisognerebbe fare dei lunghi
discorsi, interpellare i teorici, i «fissati». Certo, la differenza c’è: nel senso che il teatro chiede
una disciplina - una «religiosità», arriverei a dire - che nel cinema non esiste.
Il teatro è un tempio, un tempio dove non entra mai il sole. Si lavora sempre con poca luce,
5 nel silenzio più assoluto; il testo va rispettato nelle sue virgole, va approfondito, perché
tutto è nella parola. Però c’è un’aria di famiglia che mi piace, quando la sera il teatro finisce
e tutti vanno a casa, mentre questo piccolo gruppo d’attori, se tra loro c’è armonia, va alla
ricerca della trattoria che rimane aperta solo per gli attori: e lì si commenta la serata, le
papere prese, gli errori fatti, si ride, si scherza. Si sta molto bene, ecco.
10 Peccato però che il teatro inizi la sera alle nove: perché fino a quell’ora non si sa che fare,
soprattutto quando si è in tournée, quando uno non ha amici, agganci, relazioni. E allora la
giornata è molto lunga. Molti vanno al cinema; io al cinema non ci vado mai, quindi finisce
che passo molte ore chiuso in albergo e alle sette già sono in teatro. Così, tanto per
ammazzare un po’ il tempo.
15 Il cinema invece è un’altra cosa. Non parlo di «stile» di recitazione, dove pure qualcosa
cambia: nel cinema è l’occhio che ha grande importanza, il primo piano; mentre nel teatro
è la voce. Quindi l’attore deve tenerne conto.

111
Non recita con tutto il corpo, al cinema; a teatro sì. Nel cinema si è sempre tagliati più o
meno qui, sopra l’ombelico - e questo a me dispiace, perché il corpo ha una sua funzione
20 precisa, esprime l’atteggiamento di un personaggio, esprime anche uno stato d’animo.
Però confesso che forse al teatro preferisco il cinema: sì, proprio per la sua stravaganza,
per le sue approssimazioni e improvvisazioni, per la confusione, per le cose «prese per i
capelli», per questa specie di microcosmo in cui tutto si mescola... C’è di tutto nel cinema!
Da quello uscito dalla galera fino al poeta: perché il cinema non chiede referenze, non
25 chiede mai niente a nessuno; vanno tutti bene, in quel calderone. E questo è un aspetto
abbastanza magico del cinematografo. E come andare al campeggio. Si arriva in un posto,
c’è chi monta la tenda, chi accende il fuoco, chi va a cercare da mangiare. E poi... Pronti!
Si gira!

Paradoxe sur le comédien (PARTE I)


Nel Paradoxe sur le comédien, Diderot distingue con molta chiarezza tra attore e
5 comédien. Mentre l’attore entra nel personaggio, il comédien lo riceve in sé; il comédien
si cancella nel personaggio, l’attore invece impone al personaggio la forza della sua
personalità. Diderot fa del comédien il suo interprete preferito. Lui non avrebbe amato
Clark Gable, John Wayne, Gary Cooper, che sono sempre stati se stessi, irresistibilmente
se stessi, qualunque fosse il personaggio che stavano interpretando. Questi attori (oggi
10 non ne esistono più) avevano tali personalità che, col semplice apparire, già riempivano
lo schermo. Non avevano bisogno di interpretare personaggi.
Personalmente - forse anche perché ho cominciato col teatro, dove è rarissimo che un
personaggio si ripeta - io non ho mai sopportato di essere relegato sempre nello stesso
ruolo. Secondo me l’attore, buono o cattivo che sia, ha bisogno di cambiar pelle
15 continuamente; è questo che lo esalta: l’illusione di essere ogni volta diverso - che spesso
è appunto soltanto un’illusione, perché un buon cinquanta per cento della sua personalità,
della sua natura, rimane sempre, è sempre chiaramente visibile. Hai voglia a metterti baffi,
barbe, trucchi, eccetera: certo, questo aiuta a camuffare, a «entrare» in personaggi a volte
molto distanti da noi, ma alla base...
20 Sostengo che questo è un mestiere fatto per divertirsi. Non vorrei apparire snob, ma
apprezzo molto il termine che usano i francesi: per dire «recitare» loro dicono jouer, che
in italiano sarebbe «giocare». Noi diciamo «recitare», che già sa di finto, di falso, di
costruito.
Per quanto riguarda la «sofferenza dell’attore», mi è capitato varie volte di leggere
25 interviste fatte a grandi divi americani: i quali pare che per «entrare nei personaggi» hanno
dei tormenti, delle sofferenze. C’è chi si chiude in un convento; chi va su una montagna
a riflettere.
Io non ho capito perché. Se consideriamo questo mestiere un gioco, e ci ricordiamo di
come giocavamo da bambini a guardie e ladri... Ma perché questo tormento, perché questa
30 sofferenza?

112
Io la capisco se non ti chiamano a lavorare, se si sono dimenticati di te: e allora certo che
c’è la sofferenza; se hai debiti da pagare e non hai lavoro, questa è sofferenza - non recitare.

Commozione
Non vorrei apparire «mammone». Ogni volta che si parla della propria madre si rischia di
apparire così. Ma d’altra parte c’è un personaggio più importante della madre? Alle volte,
ricevendo qualche premio, mi è accaduto che il pensiero andasse a lei. E ho immaginato se
fosse stata lì presente: il suo sorriso discreto, lo sforzo per trattenere la commozione suggerita
5 dall’orgoglio che stavano premiando suo figlio. Sì, tutto questo può apparire banale, ma non
lo è.
Parecchi anni fa fu istituito un premio europeo, una sorta di Oscar europeo chiamato «Felix»:
una orrenda statuetta, mostruosa. La prima sede dove questo premio venne assegnato fu
Berlino. Io fui premiato insieme a Ingmar Bergman e un famoso attore tedesco di cui non
10 ricordo il nome. Per quella idea della Germania sempre legata ai ricordi di guerra, arrivando
in questo teatro berlinese, non mi aspettavo di vedere una platea di signore e di signori tutti
in abito da sera. Al mio ingresso, si alzarono tutti in piedi.
In quel momento il pensiero ritornò a mia madre: «Poverina», mi dissi. «Se adesso mi vedesse
qui, ricevere un premio a Berlino! » Devo confessare che l’occhio mi si fece lucido. E la
15 televisione - zoom! - mi beccò. Provai molto imbarazzo. Sempre per il solito principio che
facendo il mio mestiere non ci si può commuovere.

֍ Per approfondire, vedi l’incontro di Marcello Mastroianni con gli studenti di recitazione:
https://www.youtube.com/watch?v=NIEPPAvZqF4

113
26
Umberto Eco, De Bibliotheca
[…] Ho fatto una breve ispezione nelle sole biblioteche a cui avevo accesso, perché sono aperte anche
nelle ore notturne, quella di Assurbanipal a Ninive, quella di Policrate a Samo, quella di Pisistrato ad Atene,
quella di Alessandria che faceva già nel III secolo 400.000 volumi e poi nel I secolo, con quella del Serapeo,
faceva 700.000 volumi, poi quella di Pergamo e quella Augusto (al tempo di Costantino c'erano 28
5 biblioteche a Roma). Poi ho una certa dimestichezza con alcune biblioteche benedettine, e ho cominciato
a chiedermi quale sia la funzione di una biblioteca. Forse all'inizio, ai tempi di Assurbanipal o di Policrate
era quella di raccogliere, per non lasciare in giro rotoli o volumi. In seguito credo abbia avuto la funzione
di tesaurizzare: costavano, i rotoli. Quindi, in epoca benedettina, trascrivere: la biblioteca quasi come zona
di passo, il libro arriva, viene trascritto, l'originale o la copia ripartono. Credo che in qualche epoca, forse
10 già tra Augusto e Costantino, la funzione di una biblioteca fosse anche quella di far leggere, e quindi, più
o meno, di attenersi al deliberato dell'Unesco che ho visto nel volume arrivatomi oggi, in cui si dice che
uno dei fini della biblioteca è di permettere al pubblico di leggere i libri. Ma in seguito credo siano nate
delle biblioteche la cui funzione era quella di non far leggere, di nascondere, di celare il libro.
Naturalmente, queste biblioteche erano anche fatte per permettere di ritrovare. Noi siamo sempre stupiti
15 dall'abilità degli umanisti del Quattrocento che ritrovano i manoscritti perduti. Dove li ritrovano? Li
trovano in biblioteca. In biblioteche che in parte servivano per nascondere, ma servivano anche per fare
ritrovare.

Di fronte a questa pluralità di fini di una biblioteca mi permetto adesso di elaborare un modello negativo,
in 2l punti di cattiva biblioteca. Naturalmente è un modello fittizio tanto come quello della biblioteca
20 poligonale. Ma come in tutti i modelli fittizi che, come tutte le caricature, nascono dalla aggiunzione di
cervici equine su corpi umani con code di sirene e squame di serpente, credo che ciascuno di noi possa
ritrovare in questo modello negativo i ricordi lontani di proprie avventure nelle più sperdute biblioteche
e del nostro Paese e di altri Paesi. Una buona biblioteca, nel senso di una cattiva biblioteca (e cioè di un
buon esempio del modello negativo che cerco di realizzare), dev'essere anzitutto un immenso cauchemar,
25 deve essere totalmente incubatica e, in questo senso, la descrizione di Borges già va bene.

A) I cataloghi devono essere divisi al massimo: deve essere posta molta cura nel dividere il catalogo dei
libri da quello delle riviste, e questi da quello per soggetti, nonché i libri di acquisizione recente dai libri di
acquisizione più antica. Possibilmente l'ortografia, nei due cataloghi (acquisizioni recenti ed antiche) deve
essere diversa; per esempio nelle acquisizioni recenti retorica va con un t, in quella antica con due t;
30 Chajkovskij nelle acquisizioni recenti col Ch, mentre nelle acquisizioni antiche alla francese, col Tsch.

B) I soggetti devono essere decisi dal bibliotecario. I libri non devono portare, come hanno preso una
pessima abitudine ora i volumi americani, nel colophon un'indicazione circa i soggetti sotto cui debbono
essere elencati.

C) Le sigle devono essere intrascrivibili, possibilmente molte, in modo che chiunque riempia la scheda non
35 abbia mai posto per mettere l'ultima denominazione e la ritenga irrilevante, in modo che poi l'inserviente
gliela possa restituire perché sia ricompilata.

D) Il tempo tra richiesta e consegna dev'esser molto lungo.

E) Non bisogna dare più di un libro alla volta.

F) I libri consegnati dall'inserviente perché richiesti su scheda non possono essere portati in sala
40 consultazione, cioè bisogna dividere la propria vita in due aspetti fondamentali, uno per la lettura e l'altro
per la consultazione, cioè la biblioteca deve scoraggiare la lettura incrociata di più libri perché provoca
strabismo.

114
G) Deve esserci possibilmente assenza totale di macchine fotocopiatrici; comunque, se ne esiste una,
l'accesso dev'essere molto lungo e faticoso, la spesa superiore a quella della cartolibreria, i limiti di
45 copiatura ridotti a non più di due o tre pagine.

H) Il bibliotecario deve considerare il lettore un nemico, un perdigiorno (se no sarebbe a lavorare), un


ladro potenziale.

I) Quasi tutto il personale deve essere affetto da limitazioni fisiche. Io sto toccando un punto molto
delicato, su cui non voglio fare nessuna ironia. È compito della società dare possibilità e sbocchi a tutti i
50 cittadini, anche quelli che non sono nel pieno dell'età o nel pieno delle loro condizioni fisiche. Però la
società ammette che, per esempio, nei vigili del fuoco occorra operare una particolare selezione. Ci sono
delle biblioteche di campus americani dove la massima attenzione è rivolta ai frequentatori handicappati:
piani inclinati, toilette specializzate, tanto da rendere perigliosa la vita agli altri, che scivolano sui piani
inclinati.

55 Tuttavia certi lavori all'interno della biblioteca richiedono forza e destrezza: inerpicarsi, sopportare grandi
pesi eccetera, mentre esistono altri tipi di lavoro che possono essere proposti a tutti i cittadini che
vogliono sviluppare un'attività lavorativa, malgrado limitazioni dovute all'età o ad altri fatti. Quindi sto
ponendo il problema del personale di biblioteca come qualcosa molto più affine al corpo dei vigili del
fuoco che al corpo degli impiegati di una banca, e questo è molto importante, come vedremo dopo.

60 L) L'ufficio consulenza dev'essere irraggiungibile.

M) Il prestito dev'essere scoraggiato.

N) Il prestito interbibliotecario impossibile, in ogni caso deve prender mesi, in ogni caso deve esistere
l'impossibilità di conoscere cosa ci sia nelle altre biblioteche.

O) In conseguenza di tutto questo i furti devono essere rarissimi.

65 P) Gli orari devono assolutamente coincidere con quelli di lavoro, discussi preventivamente coi sindacati:
chiusura assoluta di sabato, di domenica, la sera e alle ore dei pasti. Il maggior nemico della biblioteca è
lo studente lavoratore; il migliore amico è Don Ferrante, qualcuno che ha una biblioteca in proprio, quindi
che non ha bisogno di venire in biblioteca e quando muore la lascia in eredità.

Q) Non deve essere possibile rifocillarsi all'interno della biblioteca in nessun modo, e in ogni caso non
70 dev'essere possibile neanche rifocillarsi all'esterno della biblioteca senza prima aver depositato tutti i libri
che si avevano in consegna, in modo da doverli poi richiedere dopo che si è preso il caffè.

R) Non dev'essere possibile ritrovare il proprio libro il giorno dopo.

S) Non deve esser possibile sapere chi ha in prestito il libro che manca.

T) Possibilmente, niente latrine.

75 E poi, ho messo un requisito Z): idealmente l'utente non dovrebbe poter entrare in biblioteca; ammesso
che ci entri, usufruendo in modo puntiglioso e antipatico di un diritto che gli è stato concesso in base ai
principi dell'89, ma che però non è stato ancora assimilato dalla sensibilità collettiva, in ogni caso non
deve, e non dovrà mai, tranne che i rapidi attraversamenti della sala di consultazione, entrare nei penetrali
degli scaffali.

80 Esistono ancora biblioteche del genere? Questo lo lascio decidere a voi, anche perché devo confessare
che, ossessionato da tenerissimi ricordi (la tesi di laurea alla Biblioteca Nazionale di Roma, quando esisteva
ancora, con lampade verdi sul tavolo, o pomeriggi di grande tensione erotica alla Sainte Geneviève o alla
Biblioteca della Sorbona) accompagnato da questi dolci ricordi della mia adolescenza, in età adulta
frequento abbastanza poco le biblioteche, ma non per ragioni polemiche, ma perché quando sono
85 all'Università il lavoro è troppo intenso, e in sede di seminario si chiede allo studente di andare a cercare
il libro e fotocopiarlo; quando sono a Milano, e ci sono pochissimo, vengo solo alla Sormani perché c'è lo

115
schedario unificato; e poi frequento molto le biblioteche all'estero, perché quando sono all'estero faccio
il mestiere di essere una persona all'estero, quindi ho più tempo libero, ho le sere libere e di sera in molti
Paesi si può andare in biblioteca.

90 […]

E poi il problema finale; bisogna scegliere se si vuole proteggere i libri o farli leggere. Non dico
che bisogna scegliere di farli leggere senza proteggerli, ma non bisogna neanche scegliere di proteggerli
senza farli leggere. E non dico neanche che bisogna trovare una via di mezzo. Bisogna che uno dei due
ideali prevalga, poi si cercherà di fare i conti con la realtà per difendere l'ideale secondario. Se l'ideale è
95 far leggere il libro, bisogna cercare di proteggerlo il più possibile, ma sapendo i rischi che si corrono. Se
l'ideale è proteggerlo, si dovrà cercare di lasciarlo leggere, ma sapendo i rischi che si corrono. In questo
senso il problema di una biblioteca non è diverso da quello di una libreria. Ci sono ormai due tipi di librerie.
Quelle molto serie, ancora con scaffali in legno, dove appena entrati si è avvicinati da un signore che dice:
“Cosa desidera?”, dopo di che ci si intimidisce e si esce: in queste librerie si rubano pochi libri. Ma se ne
100 acquistano meno. Poi ci sono le librerie a supermarket, con scaffalatura di plastica, dove, specie i giovani,
girano, guardano, si informano su quel che esce, e qui si rubano moltissimi libri, benché si mettano i
controlli elettronici. Potete sorprendere lo studente che dice: “Ah, questo libro è interessante, domani
vado a rubarlo”. Poi si passano informazioni tra di loro, per esempio: “Guarda che alla libreria Feltrinelli,
se ti beccano menano”.

105 “Ah, be', allora vado a rubare alla Marzocco dove adesso hanno aperto un nuovo supermarket”.
Eppure chi organizza le reti di librerie sa che, a un certo punto, la libreria ad alto tasso di furti è però anche
quella che vende di più. Si rubano molte più cose in un supermarket che in una drogheria, ma il
supermarket fa parte di una grande catena capitalistica, mentre la drogheria è piccolo commercio con una
dichiarazione dei redditi molto ridotta.

110 Ora, se trasformiamo questi, che sono problemi di reddito economico, in quelli di reddito
culturale, di costi e di vantaggi sociali, lo stesso problema si pone quindi anche per le biblioteche: correre
maggiori rischi sulla preservazione dei libri, ma avere tutti i vantaggi sociali di una loro più ampia
circolazione. Cioè se la biblioteca è, come vuole Borges, un modello dell'Universo, cerchiamo di
trasformarla in un universo a misura d'uomo, e, ricordo, a misura d'uomo vuol dire anche gaio, anche con
115 la possibilità del cappuccino, anche con la possibilità per i due studenti in un pomeriggio di sedersi sul
divano e, non dico darsi a un indecente amplesso, ma consumare parte del loro flirt nella biblioteca,
mentre si prendono o rimettono negli scaffali alcuni libri di interesse scientifico, cioè una biblioteca in cui
faccia venire voglia di andarci e si trasformi poi gradatamente in una grande macchina per il tempo libero,
com'è il Museum of Modern Art in cui si va al cinema, si va a passeggiare nel giardino, si vanno a guardare
120 le statue e a mangiare un pasto completo. So che l'Unesco è d'accordo con me: “La biblioteca... deve
essere di facile accesso e le sue porte devono essere spalancate a tutti i membri della comunità che
potranno liberamente usarne senza distinzioni di razza, colore, nazionalità, età, sesso, religione, lingua,
stato civile e livello culturale”. Un'idea rivoluzionaria. E l'accenno al livello culturale postula anche
un'azione di educazione e di consulenza e di preparazione. E poi l'altra cosa: “L'edificio che ospita la
125 biblioteca pubblica dev'essere centrale, facilmente accessibile anche agli invalidi ed aperto ad orari
comodi per tutti. L'edificio ed il suo arredamento devono essere di aspetto gradevole, comodi ed
accoglienti; ed è essenziale che i lettori possano accedere direttamente agli scaffali”.

Riusciremo a trasformare l'utopia in realtà?

1. Dopo aver letto il testo, indica in quali righe si trovano le seguenti


sezioni:
a. paragone tra una biblioteca e una libreria
b. desideri sulla trasformazione delle biblioteche
116
c. regole ironiche per il funzionamento di una biblioteca
d. funzioni delle biblioteche lungo la storia
e. narrazione di visite a biblioteche
f. confronto tra diversi tipi di biblioteca
g. opposizione tra la custodia dei libri e il loro uso

2. Lavora con un compagno. Sottolineate tutte le frasi umoristiche del testo.

3. Elencate tutti i difetti che secondo Eco hanno o possono avere le


biblioteche, e segnate quelli che avete trovato nelle biblioteche argentine.

4. Traducete le seguenti frasi, sottolineate i falsi amici che vi si trovano e


aggiungeteli al quadro di pag. 121:
a. In seguito credo abbia avuto la funzione di tesaurizzare (r. 8-9)
b. deve essere posta molta cura nel dividere il catalogo dei libri da quello delle riviste,
e questi da quello per soggetti, nonché i libri di acquisizione recente dai libri di
acquisizione più antica (r. 26-28)
c. Tuttavia certi lavori all'interno della biblioteca richiedono forza e destrezza (r.
55)
d. Però la società ammette che, per esempio, nei vigili del fuoco occorra operare una
particolare selezione (r. 50-51)
e. in ogni caso non deve, e non dovrà mai, tranne che i rapidi attraversamenti della
sala di consultazione, entrare nei penetrali degli scaffali (r. 77-79)

5. Osservate insieme all’insegnante la seguente frase. Che vuol dire “quindi”


in questo contesto? Che differenza c’è tra il suo significato e quello che
ha nella riga 10?

Quindi, in epoca benedettina, trascrivere. (r. 8)

֍ Per approfondire, cerca in rete una conferenza di Umberto Eco o una sua
intervista, e parlane con i tuoi compagni.

117
118
IL SISTEMA VERBALE

MODO INDICATIVO

PRESENTE PASSATO PROSSIMO


parla, teme, parte. ha parlato, ha temuto, è partito-a.

IMPERFETTO TRAPASSATO PROSSIMO


parlava, temeva, partiva. aveva parlato, aveva temuto, era partito-a

PASSATO REMOTO TRAPASSATO REMOTO

parlò, temette/é, partí. ebbe parlato, ebbe temuto, fu partito-a.

FUTURO SEMPLICE FUTURO ANTERIORE


parlerà, temerà, partirà. avrà parlato, avrà temuto, sarà partito-a.

MODO CONDIZIONALE

PRESENTE PASSATO
parlerebbe, amerebbe, partirebbe. avrebbe parlato, avrebbe temuto, sarebbe partito-a.

MODO CONGIUNTIVO

PRESENTE PASSATO
che lei o lui parli, tema, parta. che lei o lui abbia parlato, abbia temuto, sia partita
o partito.

IMPERFETTO TRAPASSATO
che lei o lui parlasse, temesse, che lei o lui avesse parlato, avesse temuto, fosse
partisse. partita o partito.

MODO IMPERATIVO

(che lei o lui) parli, tema, parta.

NOTE:
A. Il pronome di seconda persona singolare di trattamento formale è lei, come
quello femminile di terza persona; come in spagnolo, il verbo lo
accompagna coniugato in terza persona.
B. La distribuzione prescrittiva dei diversi tempi passati è analoga a quella
dello spagnolo. Ma, come nello spagnolo, la loro effettiva distribuzione
dipende dalle aree geografiche.
C. Il modo congiuntivo si usa in italiano con maggior frequenza che in
spagnolo. In genere, i verbi della frase principale che non implicano
certezza (como pensare, credere, considerare, ritenere, domandarsi, non
sapere) reggono il congiuntivo nella subordinata.

119
D. Il modo condizionale svolge le stesse funzioni che svolge in spagnolo. Il
solo uso contrastivo riguarda l’espressione del futuro in rapporto con il
passato della principale: in spagnolo si usa il condizionale presente (“Me
dijo que vendría”) e in italiano il condizionale passato (“Mi ha detto che
sarebbe venuto”).
E. L’imperativo informale (tu) è parla, temi, parti; in negativo, si usa la
negazione dell’infinito: non parlare, non temere, non partire.
F. Come in tutte le lingue, in italiano i verbi piú frequenti sono i piú irregolari.
Ecco il presente indicativo di alcuni verbi di alta frequenza:

AVERE ESSERE DARE FARE DIRE

Io .... Io sono Io do Io faccio Io dico

Tu hai Tu sei Tu dai Tu fai Tu dici

Lui /Lei ha Lui / Lei è Lui / Lei ..... Lui / Lei fa Lui / Lei dice

Noi abbiamo Noi siamo Noi diamo Noi facciamo Noi ................

Voi avete Voi siete Voi date Voi fate Voi dite

Loro .......... Loro.......... Loro danno Loro fanno Loro dicono

CHIAMARSI

Io …… chiamo

Tu ……. chiami

Lui / Lei …… …………..

Noi ci chiamiamo

Voi vi chiamate

Loro …… ……………...

120
CONNETTORI LOGICI

consecutivi causali finali esplicativi avversativi avversativi


parziali

FALSI AMICI

PAROLA SIGNIFICATO PAROLA SIGNIFICATO

( )

( )

( )

121
122
SECONDA SEZIONE
Testi di approfondimento

123
124
Chiarimenti
Un giornalista italiano si è applicato, secondo il buon uso della sua professione, a
distorcere e falsificare le mie considerazioni sulla confusione etica in cui l’epidemia sta
gettando il paese, in cui non si ha più riguardo nemmeno per i morti. Così come non mette
conto di citare il suo nome, così nemmeno vale la pena di rettificare le scontate
manipolazioni. Chi vuole può leggere il mio testo Contagio sul sito della casa editrice
Quodlibet. Piuttosto pubblico qui delle altre riflessioni, che, malgrado la loro chiarezza,
saranno presumibilmente anch’esse falsificate.

La paura è una cattiva consigliera, ma fa apparire molte cose che si fingeva di non vedere.
La prima cosa che l’ondata di panico che ha paralizzato il paese mostra con evidenza è
che la nostra società non crede più in nulla se non nella nuda vita. È evidente che gli
italiani sono disposti a sacrificare praticamente tutto, le condizioni normali di vita, i
rapporti sociali, il lavoro, perfino le amicizie, gli affetti e le convinzioni religiose e
politiche al pericolo di ammalarsi. La nuda vita – e la paura di perderla – non è qualcosa
che unisce gli uomini, ma li acceca e separa. Gli altri esseri umani, come nella pestilenza
descritta da Manzoni, sono ora visti soltanto come possibili untori che occorre a ogni
costo evitare e da cui bisogna tenersi alla distanza almeno di un metro. I morti – i nostri
morti – non hanno diritto a un funerale e non è chiaro che cosa avvenga dei cadaveri delle
persone che ci sono care. Il nostro prossimo è stato cancellato ed è curioso che le chiese
tacciano in proposito. Che cosa diventano i rapporti umani in un paese che si abitua a
vivere in questo modo non si sa per quanto tempo? E che cosa è una società che non ha
altro valore che la sopravvivenza?

L’altra cosa, non meno inquietante della prima, che l’epidemia fa apparire con chiarezza
è che lo stato di eccezione, a cui i governi ci hanno abituati da tempo, è veramente
diventato la condizione normale. Ci sono state in passato epidemie più gravi, ma nessuno
aveva mai pensato a dichiarare per questo uno stato di emergenza come quello attuale,
che ci impedisce perfino di muoverci. Gli uomini si sono così abituati a vivere in
condizioni di crisi perenne e di perenne emergenza che non sembrano accorgersi che la
loro vita è stata ridotta a una condizione puramente biologica e ha perso ogni dimensione
non solo sociale e politica, ma persino umana e affettiva. Una società che vive in un
perenne stato di emergenza non può essere una società libera. Noi di fatto viviamo in una
società che ha sacrificato la libertà alle cosiddette “ragioni di sicurezza” e si è condannata
per questo a vivere in un perenne stato di paura e di insicurezza.

Non stupisce che per il virus si parli di guerra. I provvedimenti di emergenza ci obbligano
di fatto a vivere in condizioni di coprifuoco. Ma una guerra con un nemico invisibile che

125
può annidarsi in ciascun altro uomo è la più assurda delle guerre. È, in verità, una guerra
civile. Il nemico non è fuori, è dentro di noi.

Quello che preoccupa è non tanto o non solo il presente, ma il dopo. Così come le guerre
hanno lasciato in eredità alla pace una serie di tecnologie nefaste, dai fili spinati alle
centrali nucleari, così è molto probabile che si cercherà di continuare anche dopo
l’emergenza sanitaria gli esperimenti che i governi non erano riusciti prima a realizzare:
che si chiudano le università e le scuole e si facciano lezioni solo on line, che si smetta
una buona volta di riunirsi e di parlare per ragioni politiche o culturali e ci si scambino
soltanto messaggi digitali, che ovunque è possibile le macchine sostituiscano ogni
contatto – ogni contagio – fra gli esseri umani.

17 marzo 2020

Giorgio Agamben

[Tratto da www.quodlibet.it/giorgio-agamben-chiarimenti]

126
Quei Promessi Sposi che ci
parlano oggi
“Manzoni mi ha dato tanto”. Così Papa Francesco nel 2013 parlò del suo
interesse per “I Promessi Sposi”, letti da lui più volte e richiamati anche
in questo periodo. Il grande classico della letteratura italiana, ambientato
in un periodo di pestilenza, tratteggia infatti l’umanità con grande attualità

Debora Donnini – Città del Vaticano [Tratto da https://www.vaticannews.va/it]


“L’amore è intrepido”. Queste parole rivolte dal cardinale Federico Borromeo a don
Abbondio nel chiedergli conto dei motivi per i quali non avesse celebrato il matrimonio
di Renzo e Lucia, illuminano di una luce sfolgorante la missione dei cristiani di ieri e di
oggi, chiamati ad essere come agnelli in mezzo ai lupi, sapendo che soffrire per la
giustizia “è il nostro vincere”. Del resto, è tutto il discorso che il cardinale rivolge al
curato del paesino in provincia di Lecco, a renderlo evidente con un rimprovero dal sapore
cristiano, cioè una chiamata alla conversione, come in fondo sono tutti I Promessi Sposi,
un mirabile affresco dell’animo umano in situazioni estreme, che conosciuti per il ruolo
centrale che vi ha la Provvidenza, sono anche una scossa per ciascuno a riconoscerla e
cooperare con essa. Nel rileggerli, nel tempo dell’emergenza da Coronavirus, non
possono che balzare agli occhi quelle affinità che si scatenano nell’animo umano e nelle
società quando vengono colpite da un flagello che si trasmette da un essere umano
all’altro, costringendo, quindi, o a barricarsi nell’accusa o, al contrario, a aprire il cuore
e per quel che si può a scommettere la propria vita per gli altri, non ubbidendo all’iniquità,
come dice sempre il Cardinale a don Abbondio, quell’iniquità che comanda
“trasgressione e silenzio”.
Due strade, nel bene nel male, che si ripropongono, perché una calamità così forte fa
venire a galla quei vizi e quelle virtù, che noi stessi possiamo scegliere di coltivare o
contrastare, nel 1630 come nel 2020. Tante le differenze – certamente – dalle condizioni
politiche a quelle sanitarie e sociali fino alla presenza o assenza di carestie, guerre e
quant’altro, ma anche tanti gli spunti di riflessione da quelle pagine sulle quali gli italiani
hanno posato gli occhi da generazioni e che quindi hanno impregnato la nostra cultura.
È la paura della morte che si staglia davanti, in tutta la sua terribile realtà, con lo
scatenarsi della peste facendo spesso detonare tante situazioni di vita quotidiana.
127
L’allungarsi della sua ombra con tanta durezza nelle nostre società non può che acuire,
ieri come oggi, le reazioni dell’animo umano, non può che disalienare l’uomo mettendolo
di fronte a quella domanda cruciale e decisiva, la stessa domanda che si pose l’Innominato
in quella notte che comporterà la sua svolta: e se c’è “quest’altra vita?”…. Una domanda
che proprio nella lotta interna dell’Innominato sfocia nel ricordo di una frase che si
interseca con l’agire della Provvidenza. “Dio perdona tante cose per un’opera di
misericordia!”, gli aveva detto poco prima, supplicandolo, quella ragazza inerme e
terrorizzata. Parole che risuonano nel suo cuore con un senso di speranza e che
rappresentano la breccia per una svolta. Quella misericordia, di cui tante volte parla Papa
Francesco, al centro, dunque, dei “cambiamenti decisivi” con cui si confrontano sia gli
umili, Renzo e Lucia, sia i potenti come l’Innominato e don Rodrigo e che appare, quindi,
come unica via per poter davvero ricominciare. Non a caso, verso la fine del romanzo,
Fra’ Crisotoforo invita Renzo a perdonare colui che aveva distrutto la sua vita e la sua
felicità per un capriccio. “Benedicilo, e sei benedetto”, dice il cappuccino a Renzo
indicandogli un don Rodrigo malato di peste nel lazzaretto perché “forse - afferma - il
Signore è pronto a concedergli un’ora di ravvedimento; ma voleva essere pregato da te”.
“Forse la salvezza di quest’uomo e la tua dipende ora da te, da un tuo sentimento di
perdono, di compassione…d’amore”, rimarca, rendendo evidente che quella
interconnessone fra persone di cui oggi si parla molto riguarda anche il Cielo, con una
dimensione verticale oltre che orizzontale.
Molti articoli, in questo tempo, hanno rilevato quelle sintonie del dramma con la peste
del 1630, a partire dall’incredulità iniziale sulla sua diffusione, che suscitò beffe e
disprezzo e quando "la premura era ben lontana da uguagliare l’urgenza” nel tribunale
della sanità, la peste era già entrata a Milano. Quella peste, sottovalutata, che invece
“invase e spopolò una buona parte d’Italia”. "In principio dunque, non peste,
assolutamente no - narra Manzoni - per nessun conto: proibito anche di proferire il
vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non
vera peste, vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla
quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto:
ma già ci s’è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e
confonde l’idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro”. E, quindi,
poi, la paura, la ricerca affannata del paziente zero e la caccia all’untore. Così come la
presenza nel lazzeretto dei cappuccini - a loro era affidato - e dei parroci della città ricorda
128
tanti atti eroici di oggi, di quei tanti che per curare, hanno rischiato, e in alcuni casi anche
perso, la loro vita.
Non è possibile in questa sede soffermarsi oltre, sulle altre figure chiave come sulla
monaca sventurata che rispose o sulla codardia di don Abbondio, a cui il cardinale
Borromeo ricorda che l’iniquità si fonda non solo sulle sue forze ma anche sulla credulità
e sullo spavento altrui o infine su quell’icona di amore che è la madre di Cecilia, facendo
versare tante lacrime che oggi si sono versate in particolare per i nostri anziani, i più
colpiti, morti anche soli. Quel che è certo è tanti disegni, come quelli maligni di don
Rodrigo, furono spazzati via. Si può, quindi, ricordare quel “sugo” di tutta la storia, come
lo chiama Manzoni, sui “guai” che capitano, per colpa o senza colpa, ma che “la fiducia
in Dio” raddolcisce, “e li rende utili per una vita migliore”.
E, dunque, un richiamo a quella Provvidenza a cui fanno pensare le parole di un altro frate
cappuccino, vissuto oltre 400 anni dopo quel Fra’ Cristoforo. Padre Raniero
Cantalamessa, alla liturgia della Passione nel Venerdì’ Santo, in San Pietro, davanti al
Papa e a una Basilica quasi vuota, ha infatti delineato con semplice finezza quella filosofia
della storia su cui si è spinti a riflettere di fronte ad eventi che mettono in crisi il senso di
onnipotenza. Dio, a volte, sconvolge i nostri progetti, ma “non è Dio che con il
Coronavirus ha scaraventato il pennello sull’affresco della nostra orgogliosa civiltà
tecnologica”, ha detto. “Dio è nostra alleato”, “soffre come ogni padre e ogni madre” ed
è capace – ha ricordato Cantalamessa con sant’Agostino – di “trarre dal male stesso il
bene”. Dio permette che la libertà umana e della natura - anche se quest’ultima è
qualitativamente diversa dalla prima - facciano il proprio corso nell’orizzonte di quello
che alcuni chiamano il caso e che la Bibbia chiama invece “sapienza di Dio”. Tutto,
perché la croce di Cristo ha cambiato “il senso del dolore” e la sofferenza non è più intesa
come un castigo ma è stata redenta. E per questo è forte il richiamo a cambiare direzione,
andando verso un mondo più ricco di umanità, dove quel perdono, tanto caro al Manzoni,
può davvero cambiare la Storia.

129
I grandi temi [del Decameron]

Mondo cortese e realtà cittadina In una così grande varietà di personaggi, di temi,
situazioni e scenari, è possibile comunque individuare nel Decameron alcuni nuclei
fondamentali di ispirazione. I due principali, secondo Baratto, sono il mondo cortese al
tramonto e la realtà contemporanea soprattutto cittadina, che del resto rappresentano i due
poli fondamentali dell’esperienza biografica di Boccaccio. Il mondo cortese, che pure è
rappresentato anche nei suoi aspetti deteriori (l’arroganza e la crudeltà, ad esempio, o
l’eccesso di liberalità che comporta il dissesto del patrimonio, com’è nel caso di Nastagio
degli Onesti e di Federigo degli Alberighi), è spesso descritto come il luogo di
elaborazione di una cultura e di costumi nobili e raffinati (soprattutto nella decima
giornata). Per contro il mondo cittadino e quello fiorentino in particolare, quando sono
visti in positivo, si caratterizzano per il vitalismo, l’arguzia, l’oculatezza, l’intelligenza o
l’astuzia. La sintesi di questi due poli si può trovare nell’auspicio, perlopiù sottinteso, di
veder associati nel mondo comunale i modelli di superiore comportamento cortese
con le doti più tipiche e apprezzate della società borghese e mercantile. Questa era del
resto una tendenza già da tempo in atto nei comuni toscani, da quando le famiglie
magnatizie ormai affermatesi economicamente avevano tentato di darsi un nuovo statuto
socio-culturale, proprio attingendo a quei modelli, anche se non sempre erano andate oltre
la superficie della raffinatezza cortese. Secondo alcuni critici nel Decameron, pur così
lontano dai modi e dai metodi della letteratura didattica medievale, ci sarebbe anzi anche
l’intento di fornire, sia pure in forma sobria e non prescrittiva, dei modelli ideali di
comportamento con cui oggettivamente confrontarsi.

L’epopea dei mercatanti Di questa realtà contemporanea, borghese e cittadina, una parte
essenziale è rappresentata dal mondo mercantile, da cui Boccaccio stesso proveniva, ma
in cui non si sentiva pienamente realizzato. Certo nessuno scrittore prima di lui ne aveva
rappresentato in modo così sistematico i protagonisti, le vicende, la mentalità, i
comportamenti, tanto che per evidenziare questa predilezione tematica e la sua «centralità
nello stesso disegno ideale dell’opera» si è coniata per il Decameron la formula critica di
«epopea dei mercatanti» (Branca). Il mondo mercantile appare sovente protagonista
non solo attraverso le numerose e memorabili figure individuali di mercanti (Ciappelletto,
Andreuccio, Landolfo Rufolo…), ma anche come ambiente sociale diffuso
(quartieri, mercati, fondachi, botteghe, navi mercantili…) pullulante anche di figure
minori, appena sbozzate ma quasi sempre in modo incisivo, con tutto l’insieme di
abitudini, comportamenti, pregiudizi che lo caratterizzano (si veda la novella Lisabetta da
Messina [R ]). Lo stesso ampliamento geografico degli scenari narrativi dell’opera è
spesso legato al mondo mercantile, sia nel senso che i luoghi menzionati nel Decameron
rispecchiano gli itinerari mercantili e che Boccaccio doveva averne avuto notizia proprio
attraverso i racconti dei protagonisti, sia perché non di rado quei luoghi
esotici sono esplicitamente associati al tema dello spirito d’avventura e dei viaggi
compiuti dai mercanti. Assodata questa significativa presenza, bisogna però aggiungere
che non si tratta di un’epopea tutta positiva e celebrativa. Del mondo mercantile e dei suoi
protagonisti sono messe in luce tanto le doti, determinanti per il rinnovamento socio-
economico e culturale del basso medioevo, quali lo spirito d’avventura, l’intraprendenza,
la cura del patrimonio, l’oculatezza, la prudenza, l’astuzia, l’intelligenza; quanto limiti e
vizi quali la cupidigia, la grettezza, la meschinità, la spregiudicatezza, l’insensibilità, la
visione economicistica del mondo e un conservatorismo sociale che si manifesta talora in
forme altrettanto rigide e cupe di quello feudale. Anche nel caso del mondo mercantile,
insomma, Boccaccio non ha tesi univoche da sostenere, ma ispira la sua rappresentazione
130
a un sostanziale mimetismo realistico, onesto e integrale. Si può infine aggiungere che
nel Decameron i fasti del mondo mercantile, più che rappresentati al presente, sono
rievocati nel momento del tramonto della sua fase espansiva medievale e per di più in un
momento tragico, quello della peste, in cui – come è detto nell’Introduzione – tante
famiglie magnatizie, tanti patrimoni e tanti palazzi sono ormai andati in rovina. Quando
l’epopea dei mercatanti si sofferma sullo spirito d’avventura, sull’intraprendenza, sugli
aspetti insomma più dinamici e positivi di quella realtà, si può dunque e forse si deve
cogliere un alone di nostalgia analogo a quello che caratterizza certe rappresentazioni del
mondo cortese: entrambi rimandano anche alle esperienze felici della giovinezza, quando
Boccaccio, rappresentante di una ricca compagnia mercantile fiorentina, frequentava a
Napoli la società aristocratica.

L’intelligenza, l’individuo Fra i temi portanti del Decameron spicca quello


comunemente definito dell’intelligenza, sintesi suprema del saper vivere mondano.
L’intelligenza, come tema decameroniano, è essenzialmente la capacità di analizzare una
situazione e adottare con prontezza i comportamenti più idonei al raggiungimento del
proprio scopo. Dote mondana e laica per eccellenza, essa si presenta come sempre in
un’ampia gamma di sfumature: ora furbizia messa a servizio di piccoli e meschini
interessi, ora astuzia anche grandiosa nei rapporti commerciali, ora scaltrezza in quelli
amorosi, ora intuizione fulminea e quasi irriflessa, ora meditata sagacia nelle relazioni
sociali, ora profonda conoscenza psicologica degli individui e vasta esperienza del
mondo, ora superiorità intellettuale e morale. Talora l’intelligenza si manifesta in un
comportamento pratico (Nastagio ad esempio organizza un banchetto nel luogo dove sa
che si riproporrà la visione oltremondana che indurrà l’amata a concederglisi), talaltra in
una battuta arguta che risolve una situazione difficile (è il tema della sesta giornata), o in
un più elaborato discorso che inganna o persuade (ad esempio la confessione di
Ciappelletto). L’intelligenza, anche nelle sue varianti deteriori dell’astuzia e dell’inganno,
è una dote affinatasi nel mondo borghese e mercantile, ma non è solo una
sua prerogativa: essa non ha quasi confini sociali nel mondo decameroniano, può
caratterizzare infatti un sovrano e un servo (Agilulfo e il palafreniere), un fornaio come
Cisti, un intellettuale come Cavalcanti (che associa al più alto livello intelligenza e
cultura), un religioso come frate Cipolla.

Tuttavia c’è forse nel Boccaccio un orientamento a riconoscere nell’intelligenza,


nell’astuzia e soprattutto nell’arguzia verbale delle doti caratteristiche del mondo
cittadino fiorentino. Viceversa l’ambiente che in pratica è quasi sempre privo di questa
dote è quello contadino, dal quale provengono il maggior numero di sciocchi, segno
abbastanza evidente e scontato della visione urbanocentrica di Boccaccio e in genere
di tutti gli intellettuali della sua epoca. Il tema dell’intelligenza si associa poi di frequente
a quello della beffa, che contrappone personaggi più scaltri a personaggi ingenui e
sciocchi, vittime predestinate. Ma più in generale il tema dell’intelligenza, tanto
nelle sue forme più basse quanto in quelle più elevate, mette in scena l’individuo che
vuole affermare se stesso e realizzare i propri scopi, desideri, pulsioni. Forse più ancora
che il tema della mercatura quello dell’individuo che lotta con strumenti mondani
per affermarsi nella realtà sociale indica un orientamento storico-culturale più ampio,
di cui il Decameron è la più tempestiva e alta testimonianza.

La fortuna Nell’agone del mondo, dove lotta per la sopravvivenza e la supremazia,


l’uomo deve fare i conti, oltre che con le volontà e i contrastanti desideri degli altri
uomini, anche con la fortuna. La fortuna non è più la cieca ministra della volontà divina
131
che dà e toglie i beni mondani agli uomini secondo disegni imperscrutabili ma comunque
provvidenziali, quale appariva a Dante; l’idea di fortuna che domina nel Decameron è
più vicina alla nozione laica e immanente di caso, che nel tardo medioevo si stava
sviluppando proprio nel mondo mercantile, abituato a vagliare con prudenza le situazioni
e i possibili imprevisti, a cogliere al volo le occasioni propizie: un’idea di fortuna
cioè come insieme di circostanze che sfuggono alla possibilità di previsione dell’uomo,
e che sono il frutto del complesso interagire delle storie, delle volontà e dei
comportamenti degli uomini con altri uomini e con fattori ambientali. Si veda poi nella
novella di Nastagio degli Onesti come Boccaccio, annullando ironicamente ogni possibile
interpretazione provvidenzialistica, riduca anche una visione d’oltretomba al significato
profano di un incontro fortuito e casuale, che favorisce le terrene aspirazioni del
protagonista e ne mette in moto l’intelligenza creativa. Intelligenza, prudenza, esperienza
si confrontano con la fortuna, talora soccombendo, talora parandone gli improvvisi colpi
avversi, talora cogliendone con prontezza le opportunità.

Sembra indiscutibile, insomma, che nella sua rappresentazione mimetica della realtà
Boccaccio abbandoni decisamente ogni concezione provvidenzialistica della storia e
dell’agire individuale o quanto meno non la introduca nella sua opera, limitandosi a
osservare le strategie e gli sforzi attuati dall’uomo nell’affrontare l’incostanza della sorte.
L’amore, la donna e la «democrazia dell’eros» Già in precedenza abbiamo visto il
ruolo chiave, anche sul piano simbolico, che l’amore e le donne assolvono nel Decameron
e abbiamo constatato che l’amore è inteso espressamente da Boccaccio come una forza
naturale, un impulso irresistibile che, anche nei suoi aspetti fisici, di per sé non è
colpevole. La concezione dell’amore e dei rapporti fra i sessi che Boccaccio formula nel
Decameron è dunque dichiaratamente una concezione antiascetica. Questa, si ricordi,
è una delle poche tesi in materia di morale esplicitamente argomentate dall’autore,
in forma non ambigua. Nella concreta rappresentazione dell’amore, poi, Boccaccio
ancora una volta accoglie quanto sul tema gli veniva dalla tradizione precedente (da
Ovidio ai moralisti cristiani, dalla letteratura cortese ai poeti realistico-giocosi, allo
stilnovo), lo rielabora in modo originale e soprattutto lo sviluppa, ampliandone i
confini e gli orizzonti e presentando una casistica quanto mai articolata. L’amore nel
Decameron è infatti via via pulsione elementare e meccanica, sensualità tenera e delicata,
passione oscura e travolgente, sentimento dolce e malinconico, gelosia ossessiva,
esperienza intima che esalta e nobilita e molto altro ancora, in un’ampia gamma di
sfumature, applicate a personaggi che – come detto – si caratterizzano sempre per
qualche tratto individuale e irripetibile. L’amore è prepotente impulso naturale e passione
irrazionale, che si scontra nella realtà con regole morali e convenzioni sociali piuttosto
rigide, ed è quindi uno dei campi privilegiati in cui si esercitano l’intelligenza e l’astuzia
e una multiforme arte della seduzione. Anche l’amore nel Decameron è oggetto insomma
di una contesa perenne, di una conflittualità che rientra nella più generale lotta per
l’affermazione di sé che caratterizza il mondo del Decameron. Le situazioni più tipiche
sono le strategie messe in atto per conquistare qualcuno, l’astuzia degli amanti che devono
ingannare un marito (violando i vincoli sociali e morali del matrimonio). La sua
affermazione così passa spesso attraverso la violazione di leggi e convenzioni, che nel
Decameron appaiono troppo anguste e rigide.

Ma ci sono situazioni ancor più complesse e innovative, in cui l’amore mette in


discussione e talora abbatte assai più rigide barriere economico-sociali. Nel Decameron,
innanzitutto, l’amore, in quanto naturale, è concepito come un impulso universale,
‘democratico’ (in proposito si è utilizzata la formula di «democrazia dell’eros» o
132
«democrazia del cuore»), che non ha rigidi confini sociali: se di solito abita le case di
nobili – dice una novellatrice – può anche insediarsi in quelle dei poveri (è il caso di
Simona e Pasquino, due filatori protagonisti per la prima volta, in quanto popolani, di una
vicenda d’amore puro e tragico, IV,7). Ma c’è di più: l’amore è infatti una passione così
intensa che può aguzzare l’ingegno a tutti e può abbattere le barriere sociali, anche nel
senso che può porre sullo stesso piano e mettere in conflitto con esiti imprevedibili un
nobile e un popolano, un ricco e un povero (si veda il caso di re Agilulf e del palafreniere
che seduce la regina [R ]), e che può legare una nobile a un servo (come capita a
Ghismunda, IV,1), una ricca borghese a un giovane di bottega (è il caso di Lisabetta da
Messina [R ]). In amore insomma contano di più la giovinezza, la bellezza, la passionalità
che non il denaro, il potere, il prestigio sociale o intellettuale, e un vecchio ricco o nobile
soccombe facilmente di fronte a un giovane povero o plebeo.

Ma sempre nel Decameron la realtà ha la meglio sull’ideologia, e così quelle rigide


convenzioni morali e soprattutto sociali che spesso aguzzano l’ingegno altrettanto spesso
coartano il desiderio individuale e producono esiti tragici (il nobile Tancredi non tollera
che la figlia ami un servo, IV, 1; i fratelli di Lisabetta, ricchi mercanti, non tollerano
che la sorella ami un garzone di bottega: in entrambi i casi la storia si conclude con la
morte degli amanti) e in molti casi le arti e le strategie della seduzione si presentano
nelle forme deteriori di inganni che costringono un personaggio più debole o più
sciocco a sottostare alle non sempre nobili voglie del più forte e astuto.

Uno dei tratti ‘democratici’ e innovativi della rappresentazione dell’amore nel


Decameron riguarda infine il protagonismo delle donne, che certo – viste dagli occhi
maschili dell’autore – sono spesso creature affascinanti e seducenti, oggetti di desiderio,
talora motori passivi dell’azione, ma in molti casi compaiono anche come soggetti attivi,
e non solo sul piano intimo dei sentimenti e delle passioni, ma anche dell’azione,
e dunque soggetti propositivi e intraprendenti, astuti e tenaci nel perseguire i propri
scopi, soggetti insomma che combattono anch’essi al tempo stesso per difendere la
propria dignità e per affermare i propri desideri (come capita in molte novelle, specie
della settima giornata, sul tema della beffa ordita dalle mogli nei confronti dei mariti
gelosi). Il tema dell’intelligenza, del saper vivere mondano si applica dunque anche alle
donne, prevalentemente come scaltrezza negli affari di cuore, arricchita via via da
sensibilità, misura, ponderazione ed espressione di nobili ideali.

Le forme e il linguaggio

Modi e forme narrative e rapporti con la tradizione Anche sul piano retorico-stilistico
il Decameron si caratterizza per la grande varietà di forme narrative, per una straordinaria
duttilità stilistica. Sul piano dei modelli narrativi, si può ricorrere alla classica analisi di
Baratto, che ha individuato una serie di tipologie da lui definite racconto, romanzo,
novella, novella esemplare, contrasto, mimo e commedia. Insomma, strategie diverse a
seconda dei temi, dei casi e delle circostanze: novelle intessute di semplici fatti o
psicologicamente più approfondite, novelle il cui nucleo è il comportamento morale o il
conflitto spesso tragico tra bene e male, novelle infine in cui la frequenza dei dialoghi,
ora semplici ora complessi, sembra alludere alla forma teatrale.

Boccaccio anche per le forme del Decameron ha attinto ampiamente a tutte le tradizioni
precedenti a lui note: oltre alla novella letteraria, alla narrativa orale toscana,
133
anche alle tradizioni folcloriche, alla narrativa antica (Apuleio in particolare), alla
novellistica orientale, alle prediche e agli exempla cristiani, ai racconti dei giullari, ai
licenziosi fabliaux, alla poesia e al romanzo cortesi, al teatro antico, alla commedia
elegiaca medievale, rielaborandoli però tutti originalmente e spesso genialmente. Non è
questa la sede per affrontare nella sua complessità la questione (specialistica) della
rielaborazione delle fonti. Ma a titolo di esemplificazione si può accennare a due casi
particolari e particolarmente importanti sul piano della storia letteraria.
Nel caso dei modi narrativi che per la struttura in scene e per la centralità del
dialogo inclinano verso il teatro, Boccaccio, muovendo dal teatro classico allora noto
(Terenzio e Plauto) dall’esperienza dei giullari e dalle poche forme teatrali medievali,
fornisce spunti non solo ideologico-tematici, ma anche linguistici, stilistici e strutturali a
quella che nel Cinquecento, dopo la riscoperta di Plauto, sarà la commedia
rinascimentale.
Più diretto ed eclatante è il rapporto che la novella decameroniana instaura con
l’esempio cristiano medievale: Boccaccio ne fa un uso ampio, ma spesso strumentale e
ideologicamente eversivo, attingendo sovente la materia delle sue storie alle raccolte
medievali di esempi edificanti, ma le volge sempre a un significato profano, mimandone
forme e linguaggio, in forma però quanto meno ironica, parodistica e giocosa [R ].
Linguaggio e stile Vittore Branca ha dimostrato l’ampia presenza della retorica
medievale nell’elaborazione stilistica del Decameron sia per quanto riguarda alcuni dei
più generali orientamenti strutturali e stilistici, sia per quanto riguarda questioni
particolari come l’adozione del cursus riscontrabile sin dalla prima frase del libro o la
predilezione per una «prosa versificata» (migliaia sono gli endecasillabi presenti nella
prosa decameroniana).

Una tendenza stilistica poi assai influente sulla successiva codificazione rinascimentale è
il processo di latinizzazione che la prosa volgare subisce in Boccaccio: nel Decameron
ciò si nota specialmente nella cornice, dove il registro è più sostenuto ed elevato e talora
tragico (introduzione), e in molte delle parti narrative delle novelle, dove
comunque il linguaggio si fa più duttile e vario. Questa tendenza consiste essenzialmente
nell’adozione di un periodo complesso, ricco di subordinate, che predilige una
disposizione degli elementi della frase simile a quella del latino (frequenza delle
inversioni e in particolare collocazione dei verbi a fine frase, a fine periodo), che rende la
lettura della prosa decameroniana talora difficile e tanto più quanto più il registro
adottato dall’autore è elevato e solenne.

Ma nelle novelle e soprattutto nelle parti dialogate si deve constatare una grande varietà
di registri, dal comico al grottesco, dall’elegiaco al tragico e una altrettanto grande
varietà di soluzioni linguistico-stilistiche particolari. Qui quasi sempre prevale
un’esigenza mimetica e il linguaggio e lo stile si adattano con grande duttilità ai temi, alle
situazioni, ai personaggi e alle forme narrative (Baratto). Constatiamo così la presenza di
diverse varietà socio-culturali della lingua: strutture più semplici e lineari di gusto
colloquiale e popolare o più elaborate e sostenute di evidente matrice dotta e letteraria, a
seconda della condizione sociale, della cultura dei personaggi e della qualità delle
situazioni e delle circostanze. La mimesi linguistica si estende talora anche alla
caratterizzazione geografica dei personaggi, con l’adozione di formule vernacolari. Ma la
varietà delle soluzioni stilistiche attuate da Boccaccio culmina forse nelle funamboliche
invenzioni linguistiche e nelle deformazioni espressive a scopo comico o grottesco, ora
di matrice popolare ora invece vere e proprie invenzioni d’autore (si veda esemplarmente
la novella di frate Cipolla).
134
Vincenzo Cuoco, SAGGIO STORICO SULLA RIVOLUZIONE DI NAPOLI (1802)

INTRODUZIONE

Io imprendo a scriver la storia di una rivoluzione che dovea formare la felicitá di una
nazione, e che intanto ha prodotta la sua ruina (1) . Si vedrá in meno di un anno un gran
regno rovesciato, mentre minacciava conquistar tutta l'Italia; un'armata di ottantamila
uomini battuta, dissipata, distrutta da un pugno di soldati; un re debole, consigliato da
ministri vili, abbandonare i suoi Stati senza verun pericolo; la libertá nascere e stabilirsi
quando meno si sperava; il fato istesso combattere per la buona causa, e gli errori degli
uomini distruggere l'opera del fato e far risorgere dal seno della libertá un nuovo
dispotismo e piú feroce. Le grandi rivoluzioni politiche occupano nella storia dell'uomo
quel luogo istesso che tengono i fenomeni straordinari nella storia della natura. Per molti
secoli le generazioni si succedono tranquillamente come i giorni dell'anno: esse non
hanno che i nomi diversi, e chi ne conosce una le conosce tutte. Un avvenimento
straordinario sembra dar loro una nuova vita; nuovi oggetti si presentano ai nostri sguardi;
ed in mezzo a quel disordine generale, che sembra voler distruggere una nazione, si
scoprono il suo carattere, i suoi costumi e le leggi di quell'ordine, del quale prima si
vedevano solamente gli effetti. Ma una catastrofe fisica è, per l'ordinario, piú esattamente
osservata e piú veracemente descritta di una catastrofe politica. La mente, in osservar
questa, segue sempre i moti irresistibili del cuore; e degli avvenimenti che piú interessano
il genere umano, invece di aversene la storia, non se ne ha per lo piú che l'elogio o la
satira. Troppo vicini ai fatti de' quali vogliam fare il racconto, noi siamo oppressi dal loro
numero istesso; non ne vediamo l'insieme; ne ignoriamo le cagioni e gli effetti; non
possiamo distinguere gli utili dagl'inutili, i frivoli dagl'importanti, finché il tempo non li
abbia separati l'uno dall'altro, e, facendo cader nell'obblio ciò che non merita di esser
conservato, trasmetta alla posteritá solo ciò che è degno della memoria ed utile
all'istruzione di tutt'i secoli. La posteritá, che ci deve giudicare, scriverá la nostra storia.
Ma, siccome a noi spetta di prepararle il materiale de' fatti, cosí sia permesso di prevenirne
il giudizio. Senza pretendere di scriver la storia della rivoluzione di Napoli, mi sia
permesso trattenermi un momento sopra alcuni avvenimenti che in essa mi sembrano piú
importanti, ed indicare ciò che ne' medesimi vi sia da lodare, ciò che vi sia da biasimare.
La posteritá, esente da passioni, non è sempre libera da pregiudizi in favor di colui che
rimane ultimo vincitore; e le nostre azioni potrebbero esser calunniate sol perché sono
state infelici. Dichiaro che non sono addetto ad alcun partito, a meno che la ragione e
l'umanitá non ne abbiano uno. Narro le vicende della mia patria; racconto avvenimenti
che io stesso ho veduto e de' quali sono stato io stesso un giorno non ultima parte; scrivo
pei miei concittadini, che non debbo, che non posso, che non voglio ingannare. Coloro i
quali, colle piú pure intenzioni e col piú ardente zelo per la buona causa, per mancanza di
lumi o di coraggio l'han fatta rovinare; coloro i quali o son morti gloriosamente o gemono
tuttavia vittime del buon partito oppresso, mi debbono perdonare se nemmen per amicizia
offendo quella veritá che deve esser sempre cara a chiunque ama la patria, e debbono
esser lieti se, non avendo potuto giovare ai posteri colle loro operazioni, possano almeno
esser utili cogli esempi de' loro errori e delle sventure loro. Di qualunque partito io mi
sia, di qualunque partito sia il lettore, sempre gioverá osservare come i falsi consigli, i
capricci del momento, l'ambizione de' privati, la debolezza de' magistrati, l'ignoranza de'
propri doveri e della propria nazione, sieno egualmente funesti alle repubbliche ed ai
regni; ed i nostri posteri dagli esempi nostri vedranno che qualunque forza senza saviezza
non fa che distrugger se stessa, e che non vi è vera saviezza senza quella virtú che tutto
consacra al bene universale.
135
Il consumo illogico mette a rischio l’Italia
L’impietosa analisi del sociologo Luca Ricolfi

Mario Spini

[Tratto da www.ilcittadino.it, febbraio 2017]

Un Paese che rischia di bruciarsi sull’altare del consumo più sfrenato e illogico:
è questo lo scenario inquietante che Luca Ricolfi disegna per il futuro, purtroppo
anche immediato, dell’Italia agli albori del terzo millennio. Secondo il sociologo
torinese, che negli ultimi vent’anni con i suoi libri ha messo a nudo le molte
contraddizioni che lacerano il nostro tessuto culturale ed economico, l’Italia si è
trasformata, unica in Occidente, in una “società signorile di massa”. Signorile
perché lo stile di vita della maggioranza degli italiani è ormai diventato simile a
quello dei signori del passato, che si caratterizzava per un’opulenza dei consumi
in assenza tuttavia di una produzione in grado di sostenerla economicamente nel
tempo.

Gli italiani, e non servono certo le analisi sociologiche e statistiche per vederlo,
consumano e si divertono in una maniera che ha pochi eguali nel mondo, ma lo
fanno senza avere alle spalle una base produttiva che giustifichi i loro
comportamenti: la conseguenza, per certi versi drammatica, è che stanno
progressivamente erodendo la ricchezza patrimoniale che i loro nonni e i loro
padri avevano accumulato dal secondo dopoguerra in poi.

Sono quindi le rendite e non il lavoro a sostenere i consumi, grazie all’enorme


ricchezza in case, azioni e titoli detenuta dalle famiglie. Per l’autore quello italiano
è attualmente un contesto di diffuso benessere, inserito però in un’economia che
da tempo ha smesso di crescere e, soprattutto, dove i cittadini che vivono senza
un’occupazione sono più numerosi di quelli che lavorano.

136
Si tratta di una situazione a cui l’Italia non è arrivata nel giro di poco tempo ma
che ha cominciato a delinearsi già negli anni 60, con l’inizio di un progressivo
calo delle persone occupate. Negli anni Novanta, a conclusione del miracolo
economico, il consumismo è diventato un fenomeno sempre più diffuso, a
dispetto della stagnazione, per poi diventare una condizione stabile quando
l’Italia si è trasformata in Cenerentola della crescita rispetto agli altri paesi
europei.

Le cifre citate da Ricolfi sono impressionanti: mentre solo la Grecia fa peggio in


Europa per quanto riguarda il numero degli occupati, dal canto nostro possiamo
vantare primati in tutte le classifiche del consumo: nel mondo in pochi tengono il
passo del nostro Paese per il numero di auto per famiglia, per il tempo dedicato
alle vacanze, per il possesso di smartphone, per le cifre sperperate nel gioco
d’azzardo e nel consumo di sostanze illegali. Intanto ogni giorno dedichiamo a
Internet un tempo medio che è addirittura il triplo del tempo medio di lavoro,
mentre il 25 per cento dei giovani, per scelta o costrizione, non fa assolutamente
nulla.

Le conseguenze dal punto di vista sociale sono gravissime. Secondo l’autore


l’idolatria dei consumi e del tempo libero a discapito della cultura e dell’istruzione
ha finito per distruggere il sistema scolastico, ridotto ormai a sfornare titoli di
studio senza valore. Anche il mondo del lavoro perde la sua integrità, vedendo
nascere al suo interno quella che il sociologo definisce come una vera e propria
struttura paraschiavistica, in cui “una parte della popolazione (spesso costituita
da stranieri) si trova collocata in ruoli servili o di ipersfruttamento, perlopiù a
beneficio di cittadini italiani”.

Il nostro futuro nel libro di Ricolfi appare dipinto a tinte fosche: come i nobili che
distrussero antiche casate sperperando le rendite, l’Italia del terzo millennio
rischia di scivolare progressivamente verso il declino. Le carte da giocare sono

137
poche, anzi una sola: aumentare la produttività, seguendo l’esempio di numerosi
Paesi occidentali e del Giappone, che si permettono un altissimo livello di
consumi, anche superiore al nostro, grazie al lavoro e all’operosità.

Appare quindi in tutta la sua urgenza la necessità di interrompere il circolo vizioso


della stagnazione, possibilmente in tempi brevi, prima di venire condannati a
essere la prima Nazione europea a fare la fine dell’Argentina.

138
Nascita e caratteristiche del
femminismo storico in Italia - L'eredità
del movimento delle donne alle nuove
generazioni
[Tratto da http://cle.ens-lyon.fr/italien/civilisation/xxe-xxie/le-mouvement-
des-femmes/nascita-e-caratteristiche-del-femminismo-storico-in-italia-l-
eredita-del-movimento-delle-donne-alle-nuove-generazioni]
Par Paola Nava : Storica e ricercatrice

Publié par Damien Prévost le 19/05/2011

Paola Nava presenta attraverso questo articolo un quadro sintetico


della nascita e dello sviluppo del movimento femminista in Italia.
Se gli anni '60 e '70 evidenziano l'emergere visibile del
"movimento" e delle sue rivendicazioni, gli anni '90 sono quelli "di
un femminismo più capillare e diffuso". Inoltre, l'autrice analizza la
situazione odierna attraverso la problematica dell'eredità: anche se
si può parlare di "conflitto generazionale", sembra però che le
mobilitazioni recenti in Italia dimostrino che molte tra le giovani
donne siano ancora presenti... La lotta non è finita!

I. IL QUADRO DI RIFERIMENTO
L'agire politico delle donne ha radici lontane: dal femminismo del primo novecento
al (tolta la lunga parentesi del fascismo) ruolo da loro giocato nella Resistenza, di
staffette e partigiane.

Dal secondo dopoguerra in poi le Associazioni femminili, UDI (Unione Donne


Italiane, legata in origine al Partito comunista) e CIF (Centro Italiano Femminile,
vicino alla Democrazia Cristiana), che nascono nel '45, promuovono
un'instancabile azione politica sui temi dell'emancipazione verso soprattutto
l'acquisizione di leggi a difesa della parità, in famiglia e sul lavoro.

Ma è negli anni '70 il periodo più ricco di conquiste femminili (nonostante nel 1968
la presenza femminile in Parlamento fosse del 2,6% e nel 1976 del 6,7%). Tra il
'68 e il '69 la Corte Costituzionale abolisce la distinzione tra i sessi facendo cadere
il reato di adulterio per le donne e di concubinaggio per gli uomini; nel 1970 è
approvata le legge sul divorzio, confermata all'esito del referendum abrogativo del
139
1974. Del '71 è l'introduzione degli asili nido statali, del '75 dei consultori.
L'importante riforma del diritto di famiglia del 1975 segna il passaggio a una
famiglia basata sul consenso reciproco e la collaborazione. Nel '77 è la volta della
normativa sulla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro che
riconosce alla donna la possibilità di svolgere, a parità di salario, qualsiasi lavoro.
Il quadro legislativo restituisce solo in parte le profonde trasformazioni che hanno
investito in quegli anni la società civile e che hanno modificato il ruolo delle donne
e i rapporti tra i sessi. Dagli anni '60 si era assistito a un boom economico che
aveva portato benessere e nuovi stili di consumo; ma anche l'accesso
all'istruzione con la scuola di base obbligatoria aveva necessariamente innalzato
il livello culturale della popolazione. Da non dimenticare poi il ruolo dei mass
media, la televisione soprattutto e i nuovi modelli di donna emancipata che
provenivano soprattutto dagli Stati Uniti. Il '68 infine era stata una tappa
fondamentale, nelle Università, nelle fabbriche e nel paese, di modernizzazione
e, ancora una volta, di cambiamento nei ruoli familiari e sociali.

II. IL FEMMINISMO STORICO (o SECONDO


FEMMINISMO)
E, proprio negli anni che vanno da fine '60 a fine '70, l'emancipazione divenne una
strada stretta; le riflessioni e le istanze che provenivano dalle donne diedero
origine a nuove parole - liberazione, autodeterminazione, soggettività; sorsero
nuovi luoghi di aggregazione: collettivi, librerie, centri di documentazione,
cooperative di donne. L'UDI stessa ne fu sconvolta tanto da modificare i suoi
obiettivi e, anche in maniera dolorosa, fu a fianco del femminismo e contro una
parte del PCI a volere e poi a difendere la legge per la tutela sociale della
maternità e l'interruzione volontaria della gravidanza (nel '78 entra in vigore e
nell'81 il referendum abrogativo viene respinto con il 68% dei voti). Il cammino
proseguirà poi, sul piano professionale e familiare, con la legge 142 del 1980 e la
legge 53 del 2000 (sui congedi parentali) che, per certi aspetti, consentivano ai
soggetti, alle donne in particolare, di flessibilizzare i tempi di lavoro e di vita. Oggi
il tema più tragico - quello della violenza sulle donne - vede per ultima
l'approvazione della legge di "...contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema
di atti persecutori", dell'aprile 2009.

Tornando alla nascita del femminismo in Italia, del 1969 è il Fronte Italiano di
Liberazione Femminile (FILF) e il Movimento per la Liberazione della Donna
(MLD) legato al Partito radicale, che si spende moltissimo sul fronte del divorzio e
dell'aborto. A Milano c'è Rivolta Femminile, un gruppo con Elvira Banotti, Carla
Accardi, Carla Lonzi.

Ma è in ambito universitario e poi all'interno dei gruppi "extraparlamentari" che


nascono i primi collettivi: Lotta femminista a Trento che nel 1972 pubblicherà La
coscienza di sfruttata, un testo di impostazione marxista che vede la donna
doppiamente sfruttata, dal "capitale" e dall'uomo. Da Trento Lotta femminista si
diffonderà soprattutto a Padova e Ferrara; da qui nasceranno i collettivi "Per il
salario al lavoro domestico" che vedono nel lavoro domestico l'apice dello
sfruttamento del lavoro di produzione e riproduzione femminile e, per questo, ne
chiedono il corrispettivo in denaro.

140
Un altro filone del femminismo italiano, più legato al femminismo francese, di Luce
Irigaray e altre, approfondisce e si muove sul tema del rapporto con la madre e
con la propria identità. È il caso della Libreria delle Donne di Milano con la rivista
(che esce tuttora) Sottosopra, a cui fanno riferimento molti Collettivi femministi
autonomi. Al centro la pratica dell'autocoscienza, lo sviscerare cioè, in piccoli
gruppi, l'identità, la sessualità, la relazione con l'altro. L'esponente forse più
famosa è Luisa Muraro che ha pubblicato, tra gli altri, L'ordine simbolico della
madre, testo importantissimo sulle genealogie femminili. Molti poi i gruppi
femministi, come si diceva, usciti da gruppi extraparlamentari, soprattutto da Lotta
Continua.
Negli anni settanta e ottanta nascono iniziative editoriali: L'Edizione delle
donne e La Tartaruga di Laura Lepetit a Milano. Riviste come DWF, Memoria.
Centri e Università delle donne come quello di La Maddalena a Roma.
La stagione degli "anni di piombo", cioè della lotta armata, ha di certo interrotto la
visibilità del movimento delle donne, che ha però proceduto sia nelle battaglie per
la difesa delle leggi ottenute sia conquistando spazi in organizzazioni quali i
sindacati e i partiti. E' il caso degli Intercategoriali o Coordinamenti delle donne
all'interno dei sindacati, delle esperienze delle 150 ore (i corsi sulla salute e
conoscenza del proprio corpo in particolare).

Ma, con gli anni 90, avrà più spazio un femminismo che acquisterà peso culturale
e professionale dentro le Università, nei Centri di Documentazione, nelle
Cooperative di donne, nelle biblioteche di genere. Tra le esperienze più famose,
il caso di Diotima all'Università di Verona - la comunità delle filosofe; il Centro di
Documentazione Donna di Bologna (da cui si svilupperà la Biblioteca), e, tra le
cooperative, LeNove, Pari e Dispari, Gender.

Un aspetto più militante avranno le Case delle Donne, i Centri contro la violenza
che, ancora oggi, costituiscono un valido aiuto per le donne e che hanno sempre
più trovato supporto nelle istituzioni, dalle Prefetture e Questure più disponibili
(con protocolli ad hoc) fino al Ministero Pari Opportunità che ha dedicato un
numero telefonico proprio ai soggetti oggetto di violenza.

Si può parlare adesso di un femminismo più capillare e diffuso così come è certo
che molte donne abbiano la consapevolezza della propria identità, del proprio
valore e posseggano gli strumenti per farsi valere (vedi Susanna Camusso ora
segretaria generale del sindacato CGIL e Emma Marcegaglia Presidente di
Confindustria).

III. L'EREDITÀ ALLE NUOVE GENERAZIONI


Si può dire che tutto ciò che rimane del movimento delle donne - ed è tanto, anche
se forse meno visibile rispetto ad altri momenti - sia passato alle nuove
generazioni. Lo si può vedere nelle scuole (specie nei corsi universitari dedicati),
nelle biblioteche, nei centri frequentati da giovani e giovanissime.

Dalla ricerca di CIRSDE (Centro interdisciplinare di ricerche e studi delle donne)


dell'Università di Torino (del 2010) risultano 20 Comitati Pari opportunità
universitari, per la tutela di lavoratrici, insegnanti, studentesse e studenti; 15
Gender Studies presso Università (Diotima a Verona, ma anche la Libera
141
Università delle donne a Milano e a Rimini) oltre a numerosi corsi curriculari e/o
di perfezionamento. A Padova in particolare è stato sviluppato il Forum di Ateneo
per le politiche e gli studi di genere, che "vuole essere un punto sinergico di
collaborazione tra università e città".

Numerosissime poi le Biblioteche e i Centri di documentazione, da Bologna alla


Calabria, da Milano alla Sicilia, ecc. Alcuni Centri e/o biblioteche fanno parte di
una rete (universitaria, comunale, altri invece sono più autonomi come la Libreria
delle donne di Milano, il Centro Elvira Badaracco, ecc.).

Ciononostante, continua a livello generale una situazione politicamente e


culturalmente "tradizionale" che impedisce alle donne di rompere "il tetto di
cristallo", quella che potremmo definire la soglia del potere: gli incarichi che
contano nei partiti e nelle istituzioni sono ancora in gran parte preclusi alle donne
(21% di donne alla Camera e 18% al Senato contro una media europea del 23%
e della Svezia del 45%) così come è ridicola la percentuale delle donne manager
nei Consigli di Amministrazione (4%). Ma ben più grave è, nel lavoro, la crisi
economica che le ha allontanate dai loro posti.

In Italia senza posto fisso sono circa 6 milioni di giovani: la disoccupazione


giovanile è al 26,4% (dati ISTAT). Per non parlare del precariato (3,7 milioni),
davvero piaga sociale dei giovani, che impedisce progettualità, tutela della salute,
prospettive di pensione, ecc.

Anche la riduzione dei servizi per la cura di bambini, anziani, persone in difficoltà
(così come del resto i relativi costi elevati) sta di nuovo costringendo molte donne
con figli piccoli (dunque giovani) ad abbandonare il lavoro. E le scelte di maternità
si fanno tardi, spesso dopo i trent'anni.

È vero che alcune conquiste non sono in discussione: la parità, l'aborto, i


consultori, ecc. Anche se non c'è, da parte delle giovani, l'impegno a lottare per
difendere e/o ottenere (per esempio in occasione del dibattito sulla procreazione
assistita - in Italia è vietata l'eterologa) che era stato delle loro madri. Quello che
emerge è che le conquiste del femminismo vengono date per acquisite, scontate.

Come emerge da parecchie ricerche (soprattutto anglosassoni) un conflitto


generazionale attraversa il movimento delle donne: le madri non accettano
giovani donne che definiscono disimpegnate, le giovani non sopportano madri che
ritengono saccenti e a volte deluse. Questo si ripercuote sulla politica e sul lavoro:
modelli di donne rivendicativi non vengono più accettati tanto che spesso non si
scelgono rappresentanti o capi donne. È comunque un problema che già il
femminismo si pose: giocare la carta della parità voleva dire percorrere cammini
e accettare modelli maschili; il femminismo della differenza andava invece nel
senso di proporre un modo di essere donna differente, anche nei luoghi di lavoro
dove le più giovani avrebbero dovuto e potuto "affidarsi" alle più competenti non
trovando in queste una rivale.

Il femminismo è dunque ormai una questione solo soggettiva? Non sembrerebbe,


a vedere l'ultima manifestazione del 13 febbraio 2011 che ha visto milioni di donne
scendere in piazza. Questa volta con gli uomini, a dimostrazione che il
separatismo è un fenomeno per ora chiuso; e lo è di certo per le giovani.
142
In Italia infatti il movimento si è ricompattato (con alcune eccezioni) rispetto a
un'immagine del femminile che da anni ormai viene veicolata dai mass media e in
particolare dalle televisioni (private e di stato) che evidenzia il corpo delle donne
come oggetto di consumo; ma il grave è che il governo attuale ha promosso
alcune di queste donne (le cosiddette "veline") a posti di ministra, consigliera
regionale, ecc. È un'anomalia tutta italiana, legata al premier Berlusconi in primis
ma abbondantemente ripreso e/o accettato da altri, contro cui si sono mosse le
donne del movimento "Se non ora quando" che hanno organizzato la
manifestazione del 13 e che continuano ancora la mobilitazione (dall'8 marzo a
oggi ci sono state altre manifestazioni e presidi). Anche se va detto che già con
l'8 marzo il movimento si è ridiviso o alcune manifestazioni non sono riuscite. In
piazza tante, tantissime le giovani, le ragazze a difendere la loro dignità di donna,
le loro capacità, la loro intelligenza.

Alla fine, mi sembra che oggi siamo in presenza di un quadro fatto di luci e di
ombre, che ci porta a dire di una trasmissione incompiuta.

143
INDICE
Prima sezione...................................................................................... 3
Michele Serra, Morire armi in mano..................................................... 5
Giorgio Agamben, L’invenzione di un’epidemia................................... 7
Giorgio Agamben, Contagio................................................................. 10
Dalla peste dei Promessi sposi al coronavirus.............................................. 13
Italo Calvino, Perché leggere i classici........................................................ 19
Il Decameron............................................................................................. 26
Rinasicmento......................................................................................... 29

La storia degli ospedali............................................................................ 33

Le città ideali.......................................................................................... 39

La commedia dell’arte................................................................................ 44

Claudio Monteverdi................................................................................... 50

Uno sguardo sulla Scala............................................................................ 53

L’Accademia dei Pugni........................................................................... 58

L’Accademia della Crusca....................................................................... 62

La Repubblica napoletana verso il suo terzo centenario............................. 64

Ci sono due Italie....................................................................................... 73

Frasi, citazioni, battute e aforismi di Ennio Flaianno................................. 76

Marco Lodoli, I miei ragazzi assediati dalla Facilità.............................. 82


Umberto Eco, Come mangiare il gelato.................................................... 87
Le nuove forme di Italian Sounding......................................................... 90
Intervista a Silvia Federici................................................................... 94
Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana.................... 100
La commedia all’italiana.......................................................................... 106
144
Totò........................................................................................................ 109
Marcello Mastroianni, Mi ricordo........................................................ 111
Umberto Eco, De Bibliotheca................................................................ 114
IL SISTEMA VERBALE................................................................... 119
CONNETTORI LOGICI.................................................................. 121
FALSI AMICI........................................................................................ 121
Seconda sezione.................................................................................... 123

Giorgio Agamben, Chiarimenti........................................................... 125

Quei Promessi Sposi che ci parlano oggi........................................... 127

I grandi temi [del Decameron]............................................................. 130

Vincenzo Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli................... 135

Il consumo illogico mette a rischio l’Italia.............................................. 136

Nascita e caratteristiche del femminismo storico in Italia......................... 139

145

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