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ITALIANO
NIVEL MEDIO
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PRIMA SEZIONE
Testi e attività didattiche
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Gli americani in coda davanti alle armerie sono l’immagine peggiore della
catastrofe, il dettaglio deprimente che si vorrebbe non vedere, peggio del
dolore c’è solo lo squallore. E peggio del day after c’è il day before, cioè loro
5 adesso. Gli americani hanno visto troppi film americani. Credono che, se
tracollasse la civiltà (parola grossa, se rapportata a quelle code di pistoleros
sovrappeso) si tornerebbe a una preistoria ferina, una specie di sestern
universale nel quale ci si accoppa per il controllo dei barbecue. Non
conoscendo altro parametro se non l’individuo, possibilmente armato, non
10 immaginano che possano esistere una società, una mutualità, dei sistemi di
supporto reciproco che potrebbero sopravvivere alla catastrofe e rendere
il “dopo” meno anarchico e disperato. Se non hanno il Weltfare, è perché
non lo vogliono. Preferirebbero morire armi in pugno che vivere grazie
all’aiuto di qualcuno.
15 Vale la pena ricordare che il virus, negli Stati Uniti, difficilmente riuscirà ad
ammazzare tante persone quanto le armi di fuoco ogni anno, tutti gli anni:
circa quarantamila. Vale anche la pena ricordare che, secondo notizie non
smentite, il loro presidente avrebbe offerto un miliardo di dollari a
un’industria farmaceutica tedesca per comperare «in exclusiva per
20 l’America» il vaccino non appena sarà pronto. America first. Pare che il
governo tedesco abbia fatto sapere che la sola idea è ributtante. E lo è: ma
è perfettamente in linea con le code davanti alle armerie. La sola cosa che
ci consola è sapere che anche molti americani si vergnognano di quelle code
e di quel presidente. Ma sono quelli che hanno perduto le ultime elezioni.
1. Dopo aver letto il testo, rispondi alle seguenti domande senza usare il
dizionario:
a. A quale evento della cronaca recente si riferisce il testo? Chi sono “gli
americani”?
b. Quale giudizio di valore c’è sullo stato e sull’individuo? Di quale
ideologia credi che sia l’autore dell’articolo? Dopo aver fatto le tue
ipotesi, controlla su Internet.
c. Nelle ultime due frasi (r. 22-24), l’autore esprime un sentimento nei
confronti del fatti commentati; quale ti sembra il piú coerente con il
testo?
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- consolazione
- speranza
- sconforto
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Prima di leggere il testo che segue, condividi con la classe quello che sai su
Giorgio Agamben. Cercate anche di ricordare qual era la situazione della
pandemia in Italia nella data dell’articolo.
Ora sí, leggi l’articolo con un tuo compagno o compagna, e poi risolvete le
attività proposte.
L’invenzione di un’epidemia
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impossibile che degli altri casi non si si verifichino altrove. Si considerino le
25 gravi limitazioni della libertà previste dal decreto: a) divieto di
allontanamento dal comune o dall’area interessata da parte di tutti gli
individui comunque presenti nel comune o nell’area; b) divieto di accesso al
comune o all’area interessata; c) sospensione di manifestazioni o iniziative
di qualsiasi natura, di eventi e di ogni forma di riunione in un luogo pubblico
30 o privato, anche di carattere culturale, ludico, sportivo e religioso, anche se
svolti in luoghi chiusi aperti al pubblico; d) sospensione dei servizi educativi
dell’infanzia e delle scuole di ogni ordine e grado, nonché della frequenza
delle attività scolastiche e di formazione superiore, salvo le attività formative
svolte a distanza; e) sospensione dei servizi di apertura al pubblico dei musei
35 e degli altri istituti e luoghi della cultura di cui all’articolo 101 del codice dei
beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004,
n. 42, nonché l’efficacia delle disposizioni regolamentari sull’accesso libero
e gratuito a tali istituti e luoghi; f) sospensione di ogni viaggio d’istruzione,
sia sul territorio nazionale sia estero; g) sospensione delle procedure
40 concorsuali e delle attività degli uffici pubblici, fatta salva l’erogazione dei
servizi essenziali e di pubblica utilità; h) applicazione della misura della
quarantena con sorveglianza attiva fra gli individui che hanno avuto contatti
stretti con casi confermati di malattia infettiva diffusa.
L’altro fattore, non meno inquietante, è lo stato di paura che in questi anni si
50 è evidentemente diffuso nelle coscienze degli individui e che si traduce in un
vero e proprio bisogno di stati di panico collettivo, al quale l’epidemia offre
ancora una volta il pretesto ideale. Così, in un perverso circolo vizioso, la
limitazione della libertà imposta dai governi viene accettata in nome di un
desiderio di sicurezza che è stato indotto dagli stessi governi che ora
55 intervengono per soddisfarlo.
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1. Indicate se le seguenti affermazioni sono vere o false. Nel caso siano
false, giustificate:
a. Agamben crede che l’epidemia sia di enorme gravità.
b. Agamben sostiene che i governi stiano usando la pandemia con fini
politici.
c. Agamben afferma che la pandemia è un atto di terrorismo.
d. Secondo Agamben, i governi inducono il panico per poi risolverlo
loro.
2. Osservate nel loro contesto i seguenti falsi amici, e metteteli nel quadro a pag.
a. occorrere (r. 2)
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3 Contagio Una voce dell’ 11 marzo 2020 [Tratto da
https://www.quodlibet.it]
Leggi il testo fino alla riga 34, e scrivi qua sotto le tre parole che ti sembrano
piú importanti:
Ora leggi il testo fino alla fine, e risolvi le attività proposte dopo.
Una delle conseguenze più disumane del panico che si cerca con ogni
mezzo di diffondere in Italia in occasione della cosiddetta epidemia
del corona virus è nella stessa idea di contagio, che è alla base delle
5 eccezionali misure di emergenza adottate dal governo. L’idea, che era
estranea alla medicina ippocratica, ha il suo primo inconsapevole
precursore durante le pestilenze che fra il 1500 e il 1600 devastano
alcune città italiane. Si tratta della figura dell’untore, immortalata da
Manzoni tanto nel suo romanzo che nel saggio sulla Storia della
10 colonna infame. Una “grida” milanese per la peste del 1576 li
descrive in questo modo, invitando i cittadini a denunciarli:
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a. anuncio; b. ajena; c. novela; d. ensayo; e. sin que uno pueda defenderse; f. más
de una vez.
4. Spiegate l’uso polemico del termine cosidetta (r. 3), in rapporto con il
2.
5. Identificate le frasi che hanno un senso ironico.
6. Rispondete alle seguenti domande:
a. Con quale obiettivo Agamben cita Manzoni? In che misura è importante
conoscere la Storia della colonna infame per capire il senso di questo articolo?
b. Qual è il rapporto che Agamben stabilisce qua tra l’epidemia e il
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MILANO. La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar
con le bande alemanne nel milanese, c'era entrata davvero, com'è noto; ed è
10 noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò buona parte d'Italia.
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65 nel passaggio degli alemanni. Una tale assicurazione fu riportata al tribunale,
il quale pare che ne mettesse il cuore in pace.
Gli esperti inviati sul luogo del contagio si lasciano, quindi, persuadere
da un barbiere "vecchio e ignorante" e si convincono che, quel morbo, non sia
peste ma un generico malanno. Il tribunale, rassicurato dalle loro parole (perché
70 era quello che voleva, essere rassicurato), si mette il cuore in pace (con buona
pace della peste, aggiungerei).
La peste continua la sua corsa e il tribunale invia, allora, altri due delegati
nelle terre colpite. Troppo tardi, però. Quando arrivano il contagio è ormai
dilagato e i delegati non possono far altro che raccoglierne le prove. I paesi
iniziano a trincerarsi per evitare che "stranieri" infetti possano portarvi il
80 contagio, le persone cercano riparo in campagna, i malati e i morti aumentano
giorno dopo giorno.
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Ma, quello che Manzoni annota con più stupore, è il comportamento
della gente che, soprattutto nei luoghi dove il contagio deve ancora giungere,
pare non essere minimamente spaventata (nonostante abbia buone ragioni per
105 esserlo). Sembra quasi di leggere il monito (ripetuto all'infinito) di Burioni: le
restrizioni approvate dal governo sono fondamentali per fermare il contagio e
lo sono, soprattutto, nelle zone dove il contagio non è ancora arrivato.
Sulle piazze, nelle botteghe, nelle case, chi buttasse là una parola del
120 pericolo, chi motivasse peste, veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo
iracondo. La medesima miscredenza, la medesima, per dir meglio, cecità e
fissazione prevaleva nel senato, nel Consiglio de' decurioni, in ogni magistrato.
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Vengono adottate misure, che però sono insufficienti e arrivano troppo tardi. (r.
3-4)
La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le
bande alemanne nel milanese, c'era entrata davvero, com'è noto (r. 8-9)
Scorrendo le pagine del capitolo (che può essere, anche, un buon esercizio in queste
settimane di isolamento), ci si imbatte infatti in un copione che conosciamo. (r. 24-
25)*
Quando questi giunsero, il male s'era già tanto dilatato, che le prove si offrivano, senza
che bisognasse andarne in cerca. (r. 73-74)
* Fate attenzione al sintagma ci si imbatte (r. 25), da collegare con quello osservato
al 1 (r. 8, esercizio 7).
→ Per approfondire, leggi il testo Quei Promessi Sposi che ci parlano oggi nella
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Lavora con dei compagni. Ogni gruppo sceglie due o tre definizioni di classico
(che occupino circa la stessa quantità di parole): traducete le definizioni, e
riassumete le spiegazioni che le seguono; a lavoro svolto, condividete con il
resto della classe.
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25 quello d'averlo letto in gioventù. La gioventù comunica alla lettura come a ogni altra
esperienza un particolare sapore e una particolare importanza; mentre in maturità
si apprezzano (si dovrebbero apprezzare) molti dettagli e livelli e significati in più.
Possiamo tentare allora quest'altra formula di definizione:
2. Si dicono classici quei libri che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti e amati;
30 ma costituiscono una ricchezza non minore per chi si riserba la fortuna di leggerli per
la prima volta nelle condizioni migliori per gustarli.
Infatti le letture di gioventù possono essere poco proficue per impazienza,
distrazione, inesperienza delle istruzioni per l'uso, inesperienza della vita. Possono
essere (magari nello stesso tempo) formative nel senso che danno una forma alle
35 esperienze future, fornendo modelli, contenitori, termini di paragone, schemi di
classificazione, scale di valori, paradigmi di bellezza: tutte cose che continuano a
operare anche se del libro letto in gioventù ci si ricorda poco o nulla. Rileggendo il
libro in età matura, accade di ritrovare queste costanti che ormai fanno parte dei
nostri meccanismi interiori e di cui avevamo dimenticato l'origine. C'è una
40 particolare forza dell'opera che riesce a farsi dimenticare in quanto tale, ma che
lascia il suo seme. La definizione che possiamo darne allora sarà:
3. I classici sono libri che esercitano un'influenza particolare sia quando s'impongono
come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle pieghe della memoria
mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale.
45 Per questo ci dovrebbe essere un tempo nella vita adulta dedicato a rivisitare le
letture più importanti della gioventù. Se i libri sono rimasti gli stessi (ma anch'essi
cambiano, nella luce d'una prospettiva storica mutata) noi siamo certamente
cambiati, e l'incontro è un avvenimento del tutto nuovo.
Dunque, che si usi il verbo «leggere» o il verbo «rileggere» non ha molta importanza.
50 Potremmo infatti dire:
4. D'un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima.
5. D'un classico ogni prima lettura è in realtà una rilettura.
La definizione 4 può essere considerata corollario di questa:
6. Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire.
55 Mentre la definizione 5 rimanda a una formulazione più esplicativa, come:
7. I classici sono quei libri che ci arrivano portando su di sé la traccia delle letture che
hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno lasciato nella cultura o
nelle culture che hanno attraversato (o più semplicemente nel linguaggio o nel
costume).
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60 Questo vale per i classici antichi quanto per i classici moderni. Se leggo
l'Odissea leggo il testo d'Omero ma non posso dimenticare tutto quello che le
avventure d'Ulisse sono venute a significare durante i secoli, e non posso non
domandarmi se questi significati erano impliciti nel testo o se sono incrostazioni o
deformazioni o dilatazioni. Leggendo Kafka non posso fare a meno di comprovare o
65 di respingere la legittimità dell'aggettivo «kafkiano» che ci capita di sentire ogni
quarto d'ora, applicato per dritto e per traverso. Se leggo Padri e figli di Turgenev o I
demoni di Dostoevskij non posso fare a meno di pensare come questi personaggi
hanno continuato a reincarnarsi fino ai nostri giorni.
La lettura d'un classico deve darci qualche sorpresa, in rapporto all'immagine che ne
70 avevamo. Per questo non si raccomanderà mai abbastanza la lettura diretta dei testi
originali scansando il più possibile bibliografia critica, commenti, interpretazioni. La
scuola e l'università dovrebbero servire a far capire che nessun libro che parla d'un
libro dice di più del libro in questione; invece fanno di tutto per far credere il
contrario. C'è un capovolgimento di valori molto diffuso per cui l'introduzione,
75 l'apparato critico, la bibliografia vengono usati come una cortina fumogena per
nascondere quel che il testo ha da dire e che può dire solo se lo si lascia parlare senza
intermediari che pretendano di saperne più di lui. Possiamo concludere che:
8. Un classico è un'opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi
critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso.
80 Non necessariamente il classico ci insegna qualcosa che non sapevamo; alle volte vi
scopriamo qualcosa che avevamo sempre saputo (o creduto di sapere) ma non
sapevamo che l'aveva detto lui per primo (o che comunque si collega a lui in modo
particolare). E anche questa è una sorpresa che dà molta soddisfazione, come
sempre la scoperta d'una origine, d'una relazione, d'una appartenenza. Da tutto
85 questo potremmo derivare una definizione del tipo:
9. I classici sono libri che quanto più si crede di conoscerli per sentito dire, tanto più
quando si leggono davvero si trovano nuovi, inaspettati, inediti.
Naturalmente questo avviene quando un classico «funziona» come tale, cioè
stabilisce un rapporto personale con chi lo legge. Se la scintilla non scocca, niente da
90 fare: non si leggono i classici per dovere o per rispetto, ma solo per amore. Tranne
che a scuola: la scuola deve farti conoscere bene o male un certo numero di classici
tra i quali (o in riferimento ai quali) tu potrai in seguito riconoscere i «tuoi» classici.
La scuola è tenuta a darti degli strumenti per esercitare una scelta; ma le scelte che
contano sono quelle che avvengono fuori e dopo ogni scuola.
95 È solo nelle letture disinteressate che può accadere d'imbatterti nel libro che diventa
il «tuo» libro. Conosco un ottimo storico dell'arte, uomo di vastissime letture, che
tra tutti i libri ha concentrato la sua predilezione più profonda sul Circolo Pickwick, e
a ogni proposito cita battute del libro di Dickens, e ogni fatto della vita lo associa con
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episodi pickwickiani. A poco a poco lui stesso, l'universo, la vera filosofia hanno preso
100 la forma del Circolo Pickwick in un'identificazione assoluta. Giungiamo per questa via
a un'idea di classico molto alta ed esigente:
10. Chiamasi classico un libro che si configura come equivalente dell'universo, al pari
degli antichi talismani.
Con questa definizione ci si avvicina all'idea di libro totale, come lo sognava
105 Mallarmé. Ma un classico può stabilire un rapporto altrettanto forte d'opposizione,
d'antitesi. Tutto quello che Jean-Jacques Rousseau pensa e fa mi sta a cuore, ma
tutto m'ispira un incoercibile desiderio di contraddirlo, di criticarlo, di litigare con lui.
C'entra la sua personale antipatia su un piano temperamentale, ma per quello non
avrei che da non leggerlo, invece non posso fare a meno di considerarlo tra i miei
110 autori. Dirò dunque:
11. Il «tuo» classico è quello che non può esserti indifferente e che ti serve per
definire te stesso in rapporto e magari in contrasto con lui.
Credo di non aver bisogno di giustificarmi se uso il termine «classico» senza fare
distinzioni d'antichità, di stile, d'autorità. (Per la storia di tutte queste accezioni del
115 termine, si veda l'esauriente voce Classico di Franco Fortini nell'Enciclopedia Einaudi,
vol. III). Quello che distingue il classico nel discorso che sto facendo è forse solo un
effetto di risonanza che vale tanto per un'opera antica che per una moderna ma già
con un suo posto in una continuità culturale. Potremmo dire:
12. Un classico è un libro che viene prima di altri classici; ma chi ha letto prima gli
120 altri e poi legge quello, riconosce subito il suo posto nella genealogia.
A questo punto non posso più rimandare il problema decisivo di come mettere in
rapporto la lettura dei classici con tutte le altre letture che classici non sono.
Problema che si connette con domande come: «Perché leggere i classici anziché
concentrarci su letture che ci facciano capire più a fondo il nostro tempo?» e «Dove
125 trovare il tempo e l'agio della mente per leggere dei classici, soverchiati come siamo
dalla valanga di carta stampata dell'attualità?».
Certo si può ipotizzare una persona beata che dedichi il «tempo-lettura» delle sue
giornate esclusivamente a leggere Lucrezio, Luciano, Montaigne, Erasmo, Quevedo,
Marlowe, il Discours de la Méthode, il Wilhelm Meister, Coleridge, Ruskin, Proust e
130 Valéry, con qualche divagazione verso Murasaki o le saghe islandesi. Tutto questo
senza aver da fare recensioni dell'ultima ristampa, né pubblicazioni per il concorso
della cattedra, né lavori editoriali con contratto a scadenza ravvicinata. Questa
persona beata per mantenere la sua dieta senza nessuna contaminazione dovrebbe
astenersi dal leggere i giornali, non lasciarsi mai tentare dall'ultimo romanzo o
135 dall'ultima inchiesta sociologica. Resta da vedere quanto un simile rigorismo sarebbe
giusto e proficuo. L'attualità può essere banale e mortificante, ma è pur sempre un
punto in cui situarci per guardare in avanti o indietro. Per poter leggere i classici si
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deve pur stabilire «da dove» li stai leggendo, altrimenti sia il libro che il lettore si
perdono in una nuvola senza tempo. Ecco dunque che il massimo rendimento della
140 lettura dei classici si ha da parte di chi ad essa sa alternare con sapiente dosaggio la
lettura d'attualità. E questo non presume necessariamente una equilibrata calma
interiore: può essere anche il frutto d'un nervosismo impaziente, d'una
insoddisfazione sbuffante.
Forse l'ideale sarebbe sentire l'attualità come il brusio fuori della finestra, che ci
145 avverte degli ingorghi del traffico e degli sbalzi meteorologici, mentre seguiamo il
discorso dei classici che suona chiaro e articolato nella stanza. Ma è ancora tanto se
per i più la presenza dei classici s'avverte come un rimbombo lontano, fuori dalla
stanza invasa dall'attualità come dalla televisione a tutto volume. Aggiungiamo
dunque:
150 13. È classico ciò che tende a relegare l'attualità al rango di rumore di fondo, ma nello
stesso tempo di questo rumore di fondo non può fare a meno.
14. È classico ciò che persiste come rumore di fondo anche là dove l'attualità più
incompatibile fa da padrona.
Resta il fatto che il leggere i classici sembra in contraddizione col nostro ritmo di vita,
155 che non conosce i tempi lunghi, il respiro dell'otium umanistico; e anche in
contraddizione con l'eclettismo della nostra cultura che non saprebbe mai redigere
un catalogo della classicità che fa al caso nostro.
Erano le condizioni che si realizzavano in pieno per Leopardi, data la sua vita nel
paterno ostello, il culto dell'antichità greca e latina e la formidabile biblioteca
160 trasmessigli dal padre Monaldo, con annessa la letteratura italiana al completo, più
la francese, ad esclusione dei romanzi e in genere delle novità editoriali, relegate
tutt'al più al margine, per conforto della sorella («il tuo Stendhal» scriveva a Paolina).
Anche le sue vivissime curiosità scientifiche e storiche, Giacomo le soddisfaceva su
testi che non erano mai troppo up to date: i costumi degli uccelli in Buffon, le
165 mummie di Federico Ruysch in Fontenelle, il viaggio di Colombo in Robertson.
Oggi un'educazione classica come quella del giovane Leopardi è impensabile, e
soprattutto la biblioteca del conte Monaldo è esplosa. I vecchi titoli sono stati
decimati ma i nuovi sono moltiplicati proliferando in tutte le letterature e le culture
moderne. Non resta che inventarci ognuno una biblioteca ideale dei nostri classici; e
170 direi che essa dovrebbe comprendere per metà libri che abbiamo letto e che hanno
contato per noi, e per metà libri che ci proponiamo di leggere e presupponiamo
possano contare. Lasciando una sezione di posti vuoti per le sorprese, le scoperte
occasionali.
M'accorgo che Leopardi è il solo nome della letteratura italiana che ho citato. Effetto
175 dell'esplosione della biblioteca. Ora dovrei riscrivere tutto l'articolo facendo risultare
ben chiaro che i classici servono a capire chi siamo e dove siamo arrivati e perciò gli
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italiani sono indispensabili proprio per confrontarli agli stranieri, e gli stranieri sono
indispensabili proprio per confrontarli agli italiani.
Poi dovrei riscriverlo ancora una volta perché non si creda che i classici vanno letti
180 perché «servono» a qualcosa. La sola ragione che si può addurre è che leggere i
classici è meglio che non leggere i classici.
E se qualcuno obietta che non val la pena di far tanta fatica, citerò Cioran (non un
classico, almeno per ora, ma un pensatore contemporaneo che solo ora si comincia
a tradurre in Italia): «Mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando
185 un'aria sul flauto. “A cosa ti servirà?” gli fu chiesto. “A sapere quest'aria prima di
morire”».
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3. Cerchia i connettori del testo: li conoscevi tutti? Aggiungi quelli nuovi al
quadro di pag. 121. Confronta con un compagno o compagna.
4. Sempre in coppie, scegliete tre definizioni di classico e cercate tra le vostre
letture degli esempi di libri che rispondano ad esse. Condividete le vostre
esperienze di lettori con il resto della classe.
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1. Prima di leggere il testo, lavora con dei compagni. Che cosa sapete di
Boccaccio? Qualcuno di voi ha letto il Decameron?
2. Leggete solo i titoli dei paragrafi (in neretto). Potete collegarli con quello
che conoscevate?
3. Man mano che leggete il testo, e assegnate ognuno di questi sintagmi al
corrispondente paragrafo:
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dall’accusa di aver trattato in modo licenzioso il tema dell’amore profano, Boccaccio
dichiara che l’amore è una forza naturale e irrefrenabile che può del tutto legittimamente
essere presa come soggetto di un’opera narrativa realistica, composta in volgare,
in prosa e in «istilo umilissimo» come la sua, di cui però – malgrado la rituale modestia
25 – afferma la dignità e il valore artistico. Nella conclusione infine afferma l’esistenza di
esigenze intrinseche della letteratura che giustificano l’uso di un linguaggio libero e
spregiudicato (quello che uomini e donne adoperano tutti i giorni nel mondo reale
che egli vuole rappresentare). È già un passo verso una concezione di una relativa
autonomia dell’arte, rispetto a ogni finalità pratica, etica o utilitaristica che sia. Certo, con
30 tali affermazioni egli si allontana decisamente dalle più tipiche concezioni espresse dal
medioevo, ma fa un passo in avanti rispetto alle caute aperture formulate dall’anonimo
estensore del Novellino. Un’idea analoga dell’arte la ritroveremo invece nel
rinascimento, quando verrà sancito in forma più netta e compiuta il principio del bene
dicere (il dire bene, la bellezza) come fine specifico dell’arte.
35 […]
[…]
La questione del realismo: latitudine narrativa Nel Decameron c’è posto per
personaggi nobili, leali, virtuosi, onesti, santi, ma anche per quelli malvagi, disonesti,
traditori, truffatori, peccatori: per mercanti intraprendenti e accorti o cupidi e meschini,
65 per nobili magnanimi e generosi o vanagloriosi e incauti, per popolani dai bisogni
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elementari e di grosso ingegno o prudenti e astuti, per uomini avveduti e intelligenti,
arguti e sottili o ingenui e sciocchi, per donne sensibili e oneste, o lascive e corrotte, per
chierici santi o imbroglioni, per ingenui compatiti o crudelmente derisi, per beffatori e
beffati; per la pietà, i sentimenti e gli affetti più teneri, ma anche per la grettezza e la
70 crudeltà. È presente pressoché tutta la gamma dei ceti sociali, dai più elevati (re, nobili,
potenti prelati, ricchi banchieri) sino ai più umili (operai, contadini, servi), e vastissima è
anche la varietà dei luoghi e degli ambienti (si va dalle corti ai bassifondi, dalla realtà
cittadina alla campagna, dai luoghi vicini e noti – come Firenze – a terre e mari esotici).
Anche i registri variano dal comico al tragico, dal serio al faceto, dal satirico all’elegiaco
75 e assai ampia è la gamma dei temi ispiratori e dei modi rappresentativi. […]
Ma questa formula può anche alludere a una specifica componente di moderna teatralità
presente nell’opera, che tanto influirà nella genesi della commedia cinquecentesca,
anch’essa mondana e laica, realistica e moralmente spregiudicata: il mondo appare nel
95 Decameron come un grande palcoscenico, lo scenario complesso nel quale gli uomini
agiscono, si confrontano, confliggono e dialogano.
→ Per approfondire, leggi il resto del testo nella seconda sezione (pag. 130).
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RINASCIMENTO
[Tratto da https://letteritaliana.weebly.com]
Terminologia e periodizzazione
Con il termine Rinascimento gli studiosi indicano il periodo di massima fioritura
letteraria e artistica che caratterizzò l'Italia nella prima metà del Cinquecento,
approssimativamente tra il 1492 (anno della morte di Lorenzo de' Medici, nonché
della scoperta dell'America) e il 1545 (apertura del Concilio di Trento che segna
5 l'inizio della Controriforma). Tale periodo viene diviso in altre due fasi definite
"Rinascimento maturo" e "tardo Rinascimento", prendendo come spartiacque l'anno
del sacco di Roma ad opera dei lanzichenecchi (1527), e la principale differenza tra
i due momenti è il fatto che nei primi trent'anni del secolo sono attivi i principali
scrittori e artisti italiani (Machiavelli, Ariosto, Michelangelo...), mentre nella
10 seconda fase c'è carenza di grandi opere e in poesia si anticipa la tendenza del
manierismo, che caratterizzerà la successiva età della Controriforma e che consiste
in un'imitazione dei modelli classici talvolta priva di originalità. Il termine
Rinascimento mette l'accento soprattutto sulla ripresa dei valori classici e dell'arte
dopo i secoli "bui" del Medioevo, e in questo senso il periodo si pone in forte
15 continuità con l'Umanesimo, tanto che alcuni studiosi parlano di civiltà umanistico-
rinascimentale senza vedere cesure tra i due secoli; in realtà l'età del Rinascimento,
almeno sul piano letterario, prosegue sulla stessa linea di quella precedente
(riscoperta dei classici, antropocentrismo, rivalutazione della natura e del corpo
umano, mecenatismo delle corti...), ma con una maggiore consapevolezza e,
20 soprattutto, con una tendenza alla codificazione e al regolismo in tutti i campi,
specie in quello del comportamento e della lingua, mentre conosce un grandissimo
sviluppo la stampa e viene letteralmente riscoperto il teatro classico, attraverso i
due generi principali della tragedia e della commedia. Altra novità è costituita dalla
riflessione politica, che con l'opera fondamentale di Machiavelli introduce il
25 pensiero politico moderno, tagliando i ponti con la trattatistica medievale e la
visione teocentrica dello Stato. Se il Rinascimento è ancora una letteratura di corte,
prodotta per un pubblico per lo più selezionato di cortigiani e poco interessata al
mondo esterno, vi sono tuttavia alcuni scrittori che non si riconoscono in questo
modello e propongono opere di carattere affatto opposto, che ricercano squilibrio e
30 disarmonia, quando non addirittura la parodia (è il cosiddetto antirinascimento,
per cui si veda oltre).
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comportamento degli uomini di corte alla lingua, dalla prassi politica ai generi
letterari, che vengono rigidamente codificati e per ognuno dei quali si fissano regole
40 precise e modelli cui attenersi, gettando le basi per il manierismo che distinguerà
l'età successiva. Questa mentalità è espressione di una letteratura e di un'arte
aristocratica, che come nel Quattrocento nasce nell'ambito chiuso e raffinato della
corte e viene prodotta da scrittori e artisti che si rivolgono a un pubblico
selezionato, che spesso si disinteressa agli avvenimenti del mondo esterno ed è
45 indifferente al destino delle classi subalterne, almeno per quanto riguarda la
produzione più elevata. Sul piano più strettamente letterario si crea un vero e
proprio canone dei principali generi della letteratura "alta", sulla falsariga di quanto
già era avvenuto nell'Umanesimo e con una maggiore consapevolezza da parte degli
intellettuali, e il genere più nuovo e più largamente usato nel Cinquecento diventa il
50 trattato in prosa, dedicato ai temi più vari (il comportamento, la lingua, la politica...)
e che vede tra gli interpreti i principali autori del secolo, da Machiavelli, a Bembo,
a Guicciardini, per i quali si veda oltre. Grande sviluppo ha anche la poesia lirica,
che individua naturalmente in Petrarca il modello quasi esclusivo (si parla
addirittura di "petrarchismo") e che è praticata un po' da tutti gli scrittori del
55 Rinascimento, mentre tra gli altri generi poetici occorre citare il poema epico-
cavalleresco, che vede come capolavoro l'Orlando furioso di Ludovico Ariosto e che
darà luogo alle interminabili discussioni sul poema eroico della fine del secolo, sino
alla Liberata di Tasso. Naturalmente tra i modelli del poema vi sono i capolavori
della letteratura classica, dai poemi omerici all'Eneide, ma è indubbio che l'Orlando
60 innamorato di Boiardo costituisca il precedente immediato e apra di fatto la strada
al genere nel Cinquecento, specie riguardo alla scelta del ciclo carolingio e alla
commistione con gli elementi fiabeschi del ciclo bretone che si ritrovano in Ariosto.
Di derivazione più strettamente classica è invece il poemetto didascalico, frutto per
lo più dell'imitazione virgiliana (delle Georgiche soprattutto), mentre un filone
65 minore è rappresentato dalla novellistica, a tutto vantaggio del trattato che è di
gran lunga il genere in prosa più praticato. Il Rinascimento è poi il periodo in cui
rinasce letteralmente il teatro classico, riscoperto grazie soprattutto alle
discussioni sulla Poetica di Aristotele e largamente imitato, specie nei due generi
della tragedia e della commedia pressoché sconosciuti alla letteratura medievale
70 (anche su questo punto si veda oltre).
Il regolismo del Cinquecento non poteva non occuparsi anche di una questione
ancora aperta nella letteratura italiana, ovvero la definizione di una lingua volgare
che fosse adatta alla produzione di opere in prosa e in versi e che rispondesse alle
esigenze di armonia e coerenza proprie della cultura rinascimentale, per cui
75 diventava necessario fissare il "canone" anche della lingua oltre che dei generi
letterari. Va detto che il volgare aveva una storia relativamente breve in Italia e
mancava naturalmente una grammatica come anche un vocabolario, senza contare
che la Penisola presentava una forte frammentazione linguistica; il fatto che alcuni
dei principali scrittori del XIV-XV sec. si fossero espressi in fiorentino dava a questa
80 lingua un indubbio vantaggio, ma molte erano ancora le eccezioni in tal senso
(Boiardo aveva scritto l'Innamorato in volgare emiliano, per fare un solo esempio,
e il poema aveva subìto già delle correzioni "toscanizzanti". Occorre anche
sottolineare che l'intento degli intellettuali del XVI sec. non era certo quello di
30
definire una lingua nazionale o di popolo, anche perché l'Italia era divisa
85 politicamente e teatro di guerre tra i principali Stati stranieri, ma unicamente quello
di creare un volgare letterario con cui esprimere una produzione di corte, rivolta
a un pubblico aristocratico in possesso della necessaria preparazione per
intenderlo. Nei paragrafi seguenti sono illustrate le proposte dei principali
intellettuali che si occuparono della questione, ovvero quella di Pietro Bembo, di
90 Gian Giorgio Trissino, di Niccolò Machiavelli.
[…]
L'Antirinascimento
Il classicismo aristocratico non esaurisce il panorama letterario del primo
95 Cinquecento, in cui molti scrittori (diversi per estrazione sociale e interessi) non si
riconoscono nel modello culturale e sociale della poesia di corte e producono opere
completamente diverse, che rifiutano il "regolismo" e l'imitazione dei modelli e, al
contrario, propongono un forte sperimentalismo di stile e di lingua, non di rado
con intenti parodistici verso la letteratura colta. Questo filone letterario viene
100 definito "Antirinascimento", per quanto tale definizione sia piuttosto ambigua e non
metta d'accordo tutti gli studiosi, che sottolineano la non omogeneità di questo
gruppo di scrittori: fra essi vi sono infatti personaggi colti e dalla solida
preparazione umanistica (come l'Aretino o Berni) che passano da opere serie e
destinate a un pubblico elevato a testi dissacranti e provocatori, mentre altri autori
105 (come il Folengo) si dedicano principalmente alla ricerca di un nuovo linguaggio
con intenti ironici e parodistici, restando ai margini della letteratura più alta. Molti
di questi scrittori si ispirano a modelli del tutto diversi rispetto ai classicisti,
soprattutto alla poesia comica del Due-Trecento e a Pulci, e alcuni di loro aprono
delle nuove strade che saranno percorse da autori successivamente, non solo in
110 Italia (è il caso di Rabelais rispetto all'opera di Folengo). Ecco una sintetica
panoramica dei nomi e delle opere più significative a riguardo.
31
3. Lavora con un gruppo di compagni: cercate degli esempi di diatesi
passiva (con essere, venire e andare) e confrontate in plenum. Sulla base
dell’osservato, leggete la seguente spiegazione:
32
8
La storia degli ospedali, di Marina Garbellotti
[Tratto da http://www.storiadellachiesa.it/glossary/ospedali-e-la-chiesa-in-italia/]
Il significato del termine ospedale è cambiato nel corso delle epoche. Mentre
attualmente indica un centro di cura, in origine designava un luogo prevalentemente
riservato all’accoglienza di pellegrini e di bisognosi con una valenza segnatamente
caritativa e non terapeutica. In linea generale questo orientamento si riscontra sino alle
5 soglie dell’età moderna – in alcuni casi anche oltre – e frequentemente le fonti e la
letteratura indicano con la parola ospedale istituti con finalità caritative, quali
orfanotrofi, conservatori per fanciulle povere, ospizi per mendicanti. Nel delineare la
storia e i mutamenti che investirono gli ospedali si concentrerà l’attenzione, almeno a
partire dall’età moderna. [...]
10 Numerosi nell’antichità, gli ospedali, sovente chiamati ospizi dal latino hospes,
conobbero una particolare diffusione in epoca cristiana in virtù del dovere dell’ospitalità
presente nell’insegnamento ecclesiastico e si diffusero nell’Europa occidentale come
istituzioni indipendenti o annesse alle residenze vescovili e ai monasteri. A partire dal
secolo XII, di fronte all’incremento demografico, alla crescita delle città, all’intensificarsi
15 dei commerci e degli spostamenti, ai frequenti pellegrinaggi e non da ultimo al ‘risveglio
evangelico’ che caratterizzò la vita religiosa dell’epoca basso medievale, gli ospedali
esistenti si rivelarono insufficienti a soddisfare le esigenze di viandanti, pellegrini e
bisognosi in crescente aumento e movimento.
In questo contesto assai articolato si collocano gli ospedali promossi dagli ordini
20 ospedalieri (Roncisvalle, Aubrac, Antoniani, S. Spirito, San Giacomo di Altopascio,
Gerosolimitani, S. Lazzaro, San Giovanni di Gerusalemme, i Crociferi, Cavalieri Teutonici,
Templari). Essi praticavano un ampio spettro di forme di soccorso come dimostra
l’ordine di San Giovanni in Gerusalemme. Riconosciuto ufficialmente come ordine
religioso nel 1153 da papa Eugenio III, l’attività assistenziale dell’ordine giovannita
25 ricalca quella di altri gruppi aderenti alla medesima spiritualità agostiniana, che
contemplava l’aiuto ai poveri, ai pellegrini, alle vedove, ai vecchi, agli esposti, nonché
interventi manutentivi alle strutture riservate all’ospitalità e alla viabilità. Finalità più
circoscritte, almeno originariamente, qualificarono l’ordine di San Giacomo
d’Altopascio, sorto intorno al 1080 ad Altopascio, non lontano da Lucca sulla via
33
30 Francigena. Via obbligata per i numerosi pellegrini desiderosi di raggiungere Roma per
visitare la tomba di San Pietro, l’ordine garantiva ospitalità e protezione a chi si
avventurava lungo questo impervio cammino. Attenti prevalentemente agli aspetti
medico-sanitari furono gli Antoniani, impegnati nella cura dell’ergotismo, affezione
meglio conosciuta col nome di fuoco di Sant’Antonio, e i Lazzariti, specializzati nella cura
35 della lebbra. Per la precoce attenzione all’infanzia abbandonata merita di essere
menzionato l’ordine di Santo Spirito, al quale papa Innocenzo III affidò la direzione del
celebre ospedale romano di Santa Maria in Sassia. La fondazione e la gestione di questi
istituti non furono sempre pacifiche. Sovente si scatenarono tensioni tra i rettori degli
stessi e i poteri locali, religiosi e civili, che vedevano in questi luoghi strumenti di
40 affermazione territoriale e di preminenza sociale.
34
assente o debole della società quale quello assistenziale. Tali interventi li resero
rapidamente luoghi strategici e irrinunciabili per le autorità civili, sempre più interessate
65 a regolarne l’attività e a impiegarli nel programma politico-caritativo.
Gli studi sul grado di medicalizzazione degli ospedali medievali sono alquanto carenti;
tuttavia di rado viandanti e bisognosi potevano contare su cure mediche. Le ragioni della
scarsa rilevanza attribuita alla pratica terapeutica vanno prevalentemente ricercate
nell’idéologie du salut che permeava la cultura dell’epoca e si traduceva nell’assicurare
70 agli ospiti anche e soprattutto assistenza spirituale. Solitamente, infatti, al momento
dell’ingresso essi venivano obbligatoriamente confessati e comunicati. […]
[Piú avanti,] in alcuni centri, soprattutto nel territorio lombardo e nell’area toscana si
procedette all’unificazione degli istituti in un unico grande ospedale, chiamato
maggiore. In sostanza, molti piccoli ospedali vennero soppressi e i loro patrimoni
75 utilizzati per costruire una più ampia struttura e per sostenerne le attività. L’esempio più
noto di questo modello è l’ospedale maggiore di Milano, fondato nel 1456 da Francesco
Sforza, ma ospedali maggiori furono realizzati anche a Brescia, Siena, Firenze, Pavia. […]
Con la riforma ospedaliera si profilò un deciso intervento da parte delle autorità civili nel
settore dell’assistenza che non di rado creò conflitti sia con le autorità ecclesiastiche,
80 intenzionate a mantenere la giurisdizione sui luoghi pii, sia con i rettori degli ospedali,
identificabili con le oligarchie locali, restii a rinunciare ai vantaggi politici derivanti dalla
direzione di questi enti. Il patrimonio accumulato grazie a donazioni e lasciti, i molti
affittuari e creditori dipendenti dagli ospedali conferivano, infatti, ai rettori degli stessi
visibilità e potere economico. […]
85 Benché il potere laico avesse compreso nella propria sfera giurisdizionale le strutture
assistenziali, le finalità perseguite dagli ospedali continuarono a mantenere una forte
valenza religiosa. Le cure prestate al corpo non potevano essere disgiunte da
un’assistenza religiosa che si preoccupava di garantire la salute dell’anima. Questa
commistione tra sfera laica e religiosa, tipica dell’antico regime, venne meno sul piano
90 giurisdizionale: autorità civili ed ecclesiastiche, infatti, cercarono progressivamente di
separare le rispettive sfere di competenza. […]
35
Dalla seconda metà del Settecento per gli ordini religiosi si aprì un periodo cruciale,
destinato a protrarsi anche nel secolo successivo. Le soppressioni attuate dai sovrani
nell’ambito del riformismo assolutistico e con azioni più radicali nella Francia
95 rivoluzionaria e nelle repubbliche sorelle, li investirono in maniera talora anche molto
incisiva, condizionandone l’operato. Con la Restaurazione i governi degli antichi Stati si
affrettarono a istituire commissioni o congregazioni con il compito di amministrare gli
enti caritativi e ospedalieri e di coordinarne le attività. Nei decenni che precedettero
l’Unità si manifestarono tentativi più o meno decisi per ridurre il numero dei religiosi e
100 per controllare le attività della Chiesa. Tuttavia, anche laddove questa politica assunse
forme radicali – come accadde nel Regno di Sardegna, ove una legge del 1855 si propose
di sopprimere gli ordini non dediti alla predicazione, all’istruzione e alla cura dei malati
–, proprio in virtù dell’opera prestata nel settore assistenziale i religiosi riuscirono a
proseguire la loro attività, come fecero i Camilliani e i Fatebenefratelli.
105 Non mancarono nuove iniziative, alcune delle quali accesero un intenso dibattito. Tra
queste vale la pena di menzionare quella promossa dal sacerdote piemontese san
Giuseppe Benedetto Cottolengo, che nel 1832 aprì la Piccola Casa della Divina
Provvidenza, comunemente chiamata Cottolengo, e per assicurare adeguata assistenza
ai malati cronici, alle persone affette da malformazioni fisiche e da ritardi mentali diede
110 vita alla congregazione dei Fratelli di San Giuseppe Benedetto Cottolengo. Le perplessità
nei confronti di simili istituti riguardano prevalentemente l’isolamento degli ospiti che
finisce quasi per occultarli alla società, anziché favorirne l’integrazione nella stessa.
1. Dopo aver letto il testo, scegli l’opzione giusta per completare le seguenti
informazioni:
36
II. Gli ospedali si trovavano a. dentro le chiese.
b. in piazza.
c. vicino alle chiese.
IV. Dalla seconda metà del Settecento, la presenza di religiosi negli ospedali
a. scomparve.
b. diminuí.
c. restò uguale.
4. Cerchiate i pronomi del paragrafo che va dalla riga 105 alla 112, e
identificate i loro referenti.
37
5. Completate il seguente schema, inserendovi le caratteristiche degli
ospedali nei diversi periodi della loro storia:
ANTICHITÀ
MEDIOEVO
PRIMA MODERNITÀ
ILLUMINISMO
RESTAURAZIONE
SECOLO XIX
38
9
39
mostra ospitata dalla Galleria Nazionale delle Marche di Urbino (6 aprile
– 8 luglio 2012).
Non è la prima volta che la silenziosa tavola con la Città ideale di Urbino
è protagonista d’interpretazioni e speculazioni, così com’è scontato il
40 raffronto con le altre tavole prospettiche fin qui note e di cui la mostra
offre il confronto diretto con quella conservata alla Walters Art Gallery
di Baltimora. Mentre esigenze conservative non hanno consentito di
esporre anche la veduta architettonica della Gemäldegalerie di Berlino,
museo dove fra l’altro si segnala almeno un’altra tela omologa,
45 tradizionalmente assegnata a Francesco di Giorgio Martini, in cui alcuni
hanno riconosciuto la piazza Ognissanti di Firenze, altri porta san
Nicolò, sempre nel capoluogo toscano.
40
PITTORE DELL’ITALIA CENTRALE
50 Città ideale – Tempera su tavola, cm. 67,7 x 239,4 x 3,7
URBINO, Galleria Nazionale delle Marche, INV. 1990 D37
Credito Fotografico: Su concessione del Ministero per i Beni e le attività
culturali.
Foto: Soprintendenza per i Beni Storici Artistici
55 ed Etnoantropologici delle Marche
41
STEFANO DI GIOVANNI DETTO SASSETTA
Veduta di città su un promontorio – Tempera su tavola, cm. 23 x 33,5
80 SIENA, Pinacoteca Nazionale, inv. 70
Credito Fotografico: Su concessione del Ministero per i Beni e le attività
culturali.
Foto: Soprintendenza BSAE di Siena e Grosseto
a. lungimiranza (r. 2)
42
c. tavola (r. 31, 38)
a. non solo mirata a riprodurre l’esistente, bensì a “inventare” nuovi spazi urbani
(r. 18-19)
c. Secondo una parte della critica le tavole di Baltimora, Urbino e Berlino altro non
sono che studi di scena (r. 84-85)
֍ Per approfondire, vedi il video della RAI sulle città ideali del Rinascimento,
in https://www.youtube.com/watch?v=bBtMvQ8wFCU
43
10
LA COMMEDIA DELL'ARTE [Tratto da http://www.treccani.it/]
Origine - Nata circa a metà del sec. XVI, e durata fino all'inizio del XIX, la
commedia dell'arte si chiamò commedia buffonesca, istrionica, di maschere,
5 all'improvviso, a soggetto; e, in molti paesi stranieri dal sec. XVII in poi,
italiana. Ma su tutte queste denominazioni quella di commedia dell'arte
prevalse, perché definiva con precisione il suo carattere essenziale; ch'era di
essere recitata, per la prima volta in Europa, da compagnie di comici
regolarmente costituite, con artisti che vivevano dell'arte loro; in altri termini,
10 da comici di mestiere. Durante il Medioevo, se se ne esclude qualche infima
categoria d'istrioni, gl'interpreti del teatro religioso e di quello erudito non erano
attori di professione. Con la commedia dell'arte appare un'organizzazione
nuova, di attori specializzati, attraverso un addestramento tecnico, mimico,
vocale, perfino acrobatico, e alle volte con una preparazione culturale. Questi
15 attori rappresentavano anche opere più o meno regolari, ossia scritte; e
continuarono ad avere nel loro repertorio tragedie, drammi pastorali, e le
cosiddette opere regie, ridotte dallo spagnolo. Ma il loro campo vero, per cui
divennero in pochi anni famosi in tutta Europa, fu la commedia a soggetto, ossia
la commedia di cui non si scriveva se non lo scenario, la trama, lasciandone lo
20 sviluppo dialogico e mimico all'improvvisazione dei comici.
44
40 vecchi, i giovani innamorati o scapestrati, i servi lestofanti che tengono loro
mano, i parassiti, gli smargiassi, e via dicendo. E alla commedia classica si
ritorna, abbastanza spesso, con gl'intrighi: solo che qui non si hanno più gli
scrupoli accademici circa la cosiddetta "favola doppia" (la quale, mescolando
due intrecci d'amore, pareva ribelle al principio aristotelico dell'unità d'azione):
45 gl'intrecci d'amore nella commedia dell'arte sono due, tre, quattro, cinque. […]
Si può quindi concludere che nella commedia dell'arte ritroviamo i più stanchi
ed esauriti elementi di quel teatro erudito il quale annoiava il gran pubblico,
talora rimescolati con un vigore nuovo, altre volte appoggiati alle meno nobili
risorse delle rappresentazioni popolaresche.
Tecnica della commedia dell'arte - S'è ripetuto per secoli che la suprema
attrattiva della commedia dell'arte consisté nel fatto che i suoi attori recitavano
65 abbandonandosi all'estro del momento e cioè improvvisando. Ma questa
improvvisazione va intesa con cautela. I comici dell'arte non soltanto
concertavano - sotto la guida di quel direttore che il Perrucci chiama corago, e
con regole e procedimenti che hanno avuto i loro trattatisti - l'insieme dello
spettacolo; ma ognuno d'essi aveva un suo formulario, che mandava
70 coscienziosamente a memoria. Esistevano raccolte scritte, e anche stampate, di
"concetti", di soliloquî, di tirate, a uso di ciascun carattere. C'erano le "prime
uscite" i "saluti", le "chiusette", ecc., in prosa e anche in versi, che ogni comico
si teneva pronti per adattarli qua e là, in non importa quale commedia. La loro
principale abilità su questo punto consisteva dunque nel sapere inserire i loro
75 brani a tempo e a luogo, cucendoli col resto della parte propria o altrui, in
seguito a prove accuratissime. Oltre ai repertorî di queste formule, diciamo così,
letterarie, i comici dell'arte consultavano, o ricordavano, quelle dei lazzi (gli
acti, l'atti), o giuochi scenici, di cui pure esistono raccolte copiose, paragonabili
agli scherzi dei nostri pagliacci nei circhi. E dizione e azione e mimica si davan
80 la mano a galvanizzare, volta per volta, questa materia, che riusciva a
entusiasmare il pubblico.
45
La mimica dell'attore italiano si esprimeva, per lo più, non col giuoco della
fisionomia, quasi sempre ricoperta dalla maschera, ma, come del resto era
avvenuto anche nell'antichità, e avviene tuttora in Oriente, con l'atteggiamento
85 dell'intera figura. L'uso della maschera non fu sempre assoluto, né adottato da
tutti i personaggi: innamorati e innamorate, per es., hanno recitato a viso
scoperto. Ma di regola i comici usavano la maschera […]
Quando, infine, alle virtù di tutta questa tecnica si aggiunsero, specie nel
Seicento, i trucchi meccanici e le meraviglie della nuova scenografia; quando
ai vecchi intrecci si mescolarono le favole e le evocazioni mitologiche; quando
100 ai soliti lazzi, alle solite bastonature, ai soliti spaventi e fuggi-fuggi si
frammischiarono le sorprese spettacolose; […] allora l'entusiasmo del pubblico,
colto e incolto, giunse ai fastigi: e il successo della commedia dell'arte per più
di due secoli fu tale da non aver possibili riscontri nella storia del teatro.
Per quasi un secolo i comici italiani, che avevano di regola recitato nella loro
lingua - allora assai diffusa, ma certo non compresa da tutti: altra riprova delle
loro preponderanti bravure mimiche - ormai avevano anche adottato, in Francia,
il francese. Il che aveva dato origine, per ragioni di concorrenza, a lamentele da
110 parte degli attori parigini; ma la vittoria fu degl'italiani, e nel loro repertorio
figurarono sempre più spesso lavori anche regolari, scritti da autori francesi.
[…]
Forse per arrivare a renderci piena ragione del fenomeno, conviene persuadersi
che il concetto del comico sembrava, allora, inseparabile da quello di
115 sconcezza; che la commedia era di fatto considerata, non come lo specchio della
vita, ma come una costruzione di vivace artificio, assolutamente estranea ad
essa, e fuori delle sue leggi anche morali. A ogni modo è anche questo che
spiega come, in tempo di Riforma protestante e di Controriforma cattolica, i
comici italiani furono aspramente combattuti dai maestri di vita religiosa e dalle
120 autorità ecclesiastiche, le quali cercarono di tirar dalla loro, qualche volta
46
riuscendovi, anche le civili. E spiega il bollo d'infamia idealmente ricollocato
sulla fronte dell'attore.
Quindi la commedia dell'arte appartiene, oltre che naturalmente alla storia del
costume, alla storia non tanto del dramma quanto del teatro, come scena e
140 organizzazione tecnica. Espressione dei gusti d'una parte della società di quei
secoli, la più frivola, la più vuota, già dannata al crollo, essa fu il brillantissimo
e arido tentativo di sostituire al dramma lo spettacolo; fu la portentosa
esecuzione di opere inesistenti; fu la sbalorditiva cornice d'un quadro che non
c'era. E chi s'accosti, oggi, direttamente alle tracce ch'essa ha lasciato sulla
145 carta, troppo spesso ne avverte il gelo e la morte; peggio, avverte che tutto ciò
non era mai stato vivo in sé; aveva preso a prestito la sua vita da altri, cioè dagli
attori.
Sono dunque gli attori che contano nella commedia dell'arte. I comici dell'arte
dettero all'Europa, come fu bene accennato dal Croce, l'organizzazione del
150 teatro moderno. Nel quale le maschere sono sparite; ma al loro posto sono
rimasti, per secoli, i ruoli, ossia la definizione di quei limiti fisici e spirituali
oltre i quali ogni attore, appunto perché uomo e cioè limitato, non può andare;
quei ruoli che il trasformatore della commedia dell'arte, Carlo Goldoni, rispettò
e portò a compimento estetico. E se oggi in Francia, in Germania e in Russia,
155 non solo i dotti, ma gli artisti e i loro maestri tornano alla commedia dell'arte,
vi tornano non perché celebratori d'un contenuto poetico ch'essa non ebbe, ma
come a un modello dell'arte dell'attore.
47
1. Indica se le seguenti affermazioni sono vere o false. Se sono false,
giustifica:
a. La Commedia dell’arte nacque nel Medioevo.
b. Gli attori della Commedia dell’arte erano professionisti.
c. Gli attori della Commedia dell’arte dovevano memorizzare i
testi.
d. Nella Commedia dell’arte si mescolano le tradizioni erudita e
popolare.
e. Qual era il concetto di comico?
f. La Commedia popolare ebbe una grande accettazione da parte
del pubblico.
g. Oggi la Commedia dell’arte è dimenticata dagli attori di teatro.
48
d. Quindi la commedia dell'arte appartiene, oltre che naturalmente alla storia
del costume, alla storia non tanto del dramma quanto del teatro, come scena e
organizzazione tecnica. (r. 137-139)
e. fu la sbalorditiva cornice d'un quadro che non c'era. (r. 142-143)
5. Sottolineate tutti i verbi coniugati del paragrafo che va dalla riga 128
alla riga 136, e indicate in quale tempo e modo si trovano con l’aiuto
del quadro di pag. 119.
https://www.youtube.com/watch?v=xUHtuXp9MIQ
49
11
Claudio Monteverdi
[Tratto da http://www.sapere.it]
Nato in una modesta famiglia, Claudio Monteverdi (Cremona 1567 - Venezia 1643) fu
avviato giovanissimo alla musica, che studiò sotto la guida del maestro di cappella del
duomo di Cremona, M.A. Ingegneri. A 15 anni, nel 1582, pubblicò la sua prima opera,
una raccolta di Sacrae Cantiunculae a 3 voci, a cui seguirono, nel 1583, i Madrigali
5 Spirituali a 4 voci e, nel 1584, le Canzonette a 3 voci. La pubblicazione del Primo Libro
dei Madrigali (1587) segnò il suo ingresso nel novero dei più grandi compositori europei
del tempo. Negli anni giovanili Monteverdi si segnalò anche come suonatore di viola e in
questa qualità entrò, nel 1590, nella cappella musicale del duca Vincenzo Gonzaga a
Mantova, al cui seguito fu nel 1595 in Ungheria e nel 1599 nelle Fiandre. Durante questi
10 viaggi, specie il secondo, ebbe modo di fare fondamentali esperienze artistiche, venendo
a contatto con un ambiente musicale allora tra i più fervidi e attivi d'Europa. La crescente
importanza del ruolo di Monteverdi presso la corte mantovana, sia come compositore, sia
come concertatore e direttore di manifestazioni musicali, gli valse nel 1603 il titolo di
maestro di cappella del duca Vincenzo. Nel 1607 esordì nell'ambito teatrale con l'Orfeo
15 su libretto di A. Striggio, favola in musica commissionatagli dal duca per rivaleggiare con
gli sfarzosi spettacoli della corte fiorentina, che sette anni prima avevano inaugurato la
consuetudine delle opere in musica con l'Euridice di J. Peri.
La composizione, nel 1608, dell'Arianna (di cui è pervenuto solo il Lamento, un episodio
rielaborato dallo stesso compositore anche come madrigale a cinque voci e come Lamento
20 della Madonna in una versione sacra per voce e basso continuo), poneva Monteverdi alla
testa del movimento che, alle soglie del barocco, andava saggiando le molteplici
possibilità espressive offerte dalle nuove acquisizioni stilistiche, quali la monodia
accompagnata, lo stile concertante per voci e strumenti, le forme chiuse, lo stile vocale
virtuosistico ecc. Era in certo modo, da parte del musicista, una risposta alle violente
25 critiche mossegli a più riprese dal canonico bolognese G.M. Artusi, che in Monteverdi
indicava il rappresentante più significativo di una corrente iconoclastica e negatrice dei
supremi ideali di chiarezza e di equilibrio dell'estetica rinascimentale.
Gli anni successivi, gli ultimi trascorsi dal musicista alla corte di Mantova, furono densi
di attività in tutti gli ambiti musicali; tuttavia, spicca la pubblicazione, nel 1610, della
30 prima grande raccolta di composizioni sacre di Monteverdi, comprendente la Missa senis
vocibus, costruita con la più cerebrale tecnica contrappuntistica di ascendenza fiamminga,
e il grandioso Vespro della Beata Vergine, ispirato alla festosa misura dello stile
concertante proprio della scuola veneta.
50
35 Alla morte di Vincenzo Gonzaga (1612), Monteverdi lasciò la corte mantovana,
probabilmente per contrasti con il nuovo duca Francesco, e nel 1613 ottenne il posto,
ambitissimo e ben remunerato, di maestro della veneziana basilica di San Marco. A
Venezia rimase sino alla morte, stimato e onorato come uno dei più grandi musicisti
viventi, attendendo serenamente ai propri obblighi di maestro di cappella (che
40 prevedevano la composizione di opere sacre e religiose, purtroppo pervenute solo in parte
nella raccolta Selva morale e spirituale, edita nel 1640, e nell'altra, postuma, Messa a 4
voci et Salmi, del 1650) e impegnandosi in una fervida attività creativa. Testimonianza di
tale attività furono la regolare pubblicazione dei propri madrigali (di cui, nel 1638,
pubblicò l'ottavo libro, intitolato Madrigali guerrieri et amorosi e contenente anche
45 composizioni drammatiche, come il celeberrimo Combattimento di Tancredi e Clorinda
su testo tratto dal XII canto della Gerusalemme liberata di T. Tasso, e il Ballo delle
ingrate) e la composizione di opere e balletti per nobili famiglie veneziane e per le corti
di Mantova, Parma e Vienna (pagine in gran parte perdute) e di musiche sacre per chiese
veneziane.
50 A coronamento della propria attività compositiva, Monteverdi scrisse due grandi lavori
teatrali per due teatri pubblici di Venezia: nel 1641 Il ritorno di Ulisse in Patria, su libretto
di G. Badoaro, per il Teatro San Cassiano, e nel 1642 L'incoronazione di Poppea, su
libretto di G.F. Busenello, per il Teatro dei Santi Giovanni e Paolo.
Caratteri dell'opera
55 A ragione Monteverdi è stato definito il creatore della musica moderna: sia nei suoi lucidi
scritti di poetica, sia in tutta la sua produzione (con l'eccezione, forse, di parte delle pagine
religiose) Monteverdi afferma una concezione della musica essenzialmente come fatto
espressivo, come mezzo per rivelare nella loro più vibrante e icastica dimensione "gli
affetti" dell'animo umano. Nella sua opera si assiste appunto al passaggio dall'estetica
60 rinascimentale, che poneva nella forma e nell'armonia della struttura il culmine della
perfezione estetica, a quella barocca, che vede in tutti gli aspetti dello stile musicale
altrettanti mezzi per portare in primo piano il vario e contrastato mondo della psicologia.
Questo trapasso ha come perfetta corrispondenza, sul piano stilistico, la sostituzione di
una prassi compositiva fondata essenzialmente sulle risorse del contrappunto imitato, di
65 ascendenza fiamminga, con una più libera scrittura, che si modella momento per
momento, impiegando via via sempre più complessi stilemi, sui nuclei semantici del testo.
Gli otto libri di madrigali (1587-1638), ai quali se ne deve aggiungere un nono (Madrigali
e canzonette a 2 e 3 voci, del 1651, postumo), permettono di seguire analiticamente il
formarsi di questo stile. L'acquisizione della dimensione scenica, caratteristica delle opere
70 accolte negli ultimi tre libri (che sfruttano in misura rilevante anche le risorse del
linguaggio strumentale), è la conseguenza estrema di questa ininterrotta ricerca di una
sempre più icastica consistenza immaginativa del linguaggio musicale monteverdiano.
Tale linguaggio ebbe modo di realizzarsi compiutamente nell'ambito del teatro,
caratterizzato da una costante umanizzazione dei personaggi, che portò Monteverdi
75 dall'elegante e un po' distaccata atmosfera dell'Orfeo, ancora per tanti aspetti legato al
mondo della favola pastorale rinascimentale, al tenebroso affresco, di sconcertante
audacia realistica, dell'Incoronazione di Poppea, un'opera che non a torto fu accostata ai
maggiori capolavori shakespeariani.
51
2. Dopo aver letto il testo, rispondi alle domande:
a. In cosa consistette la prima raccolta di composizioni sacre di
Monteverdi?
b. Quale fu la sua concezione musicale?
c. Come fu il soggiorno di Monteverdi a Venezia?
d. Quale fu il ruolo del musicista presso la corte di Mantova?
e. Come rispose Monteverdi alle critiche?
f. Quali furono i suoi lavori teatrali?
g. Quale fu la sua formazione musicale?
4. Rileggi il testo e sottolinea tutte le parole del campo lessicale della musica.
5. Cerchia i verbi al passato remoto del primo brano (r. 1-16) e volgili
all’infinito.
a. Nel 1607 esordì nell'ambito teatrale con l'Orfeo su libretto di A. Striggio, favola
in musica commissionatagli dal duca per rivaleggiare con gli sfarzosi spettacoli
della corte fiorentina (r. 14-15)
b. Gli anni successivi, gli ultimi trascorsi dal musicista alla corte di Mantova, furono
densi di attività in tutti gli ambiti musicali; tuttavia, spicca la pubblicazione, nel
1610, della prima grande raccolta di composizioni sacre (r. 28-29)
c. un'opera che non a torto fu accostata ai maggiori capolavori shakespeariani. (r.
77-78)
52
12
Osservate il testo e avanzate delle ipotesi:
Nell’autunno del 1865, per un musicista oggi dimenticato come Bartolomeo Pisani
(Costantinopoli 1811 - 1876) fu un vanto poter leggere sul frontespizio del libretto della
sua Rebecca, su testo di Francesco Maria Piave, "composta espressamente per la Scala di
Milano", una delle realtà teatrali più celebri al mondo, musa di illustrissimi compositori,
5 dall'attività intensissima che ha ospitato e accoglie tuttora alcuni fra i più artisti da tutto
il globo, meteore e stelle, ascese e cadute, tonfi e trionfi.
Il teatro prende il nome dalla chiesa di Santa Maria della Scala (voluta da Beatrice Regina
della Scala, sposa di Bernabò Visconti), demolita alla fine del Settecento per cedere il
posto al Nuovo Regio Ducal Teatro alla Scala, inaugurato il 3 agosto del 1778: per
10 l’occasione Antonio Salieri, che ottiene l’incarico dopo il rifiuto di Gluck, vede
rappresentata la sua Europa riconosciuta. Sin dagli albori, il Teatro alla Scala conta su
orchestra, coro e corpo di ballo stabili, e dall’anno 1982, è anche sede dell’Associazione
Orchestra Filarmonica. Nel 1996 nasce la Fondazione Teatro alla Scala, impegnata in
imponenti lavori di restauro dell’edificio a partire dal 2002, i più significativi dalla fine
15 della Seconda Guerra Mondiale: il Teatro degli Arcimboldi diviene il nuovo palcoscenico
della Scala finché la storica sala del Piermarini non riapre e celebra la sua
modernizzazione rioffrendo al pubblico L’Europa riconosciuta di Salieri il 7 dicembre
2004. Nel 1951 si consacra il 7 dicembre, giorno di S. Ambrogio, patrono milanese, come
data per l’inaugurazione della stagione lirica scaligera: la prima della Scala non è solo un
20 evento musicalmente e culturalmente rilevante, oramai si tratta di un imperdibile
appuntamento che catalizza sull’Italia e su Milano l’attenzione internazionale attraverso
il genere operistico, fiore all'occhiello del Bel Paese.
53
dobbiamo la decorazione pittorica a Giuseppe Levati, Giuseppe Reina e Domenico
35 Riccardi che dipinse il sipario: i lavori iniziarono nel 1776 e terminarono due anni dopo.
Come già accennato, i teatri erano anche luoghi adibiti al gioco d’azzardo, che fu una
fonte di finanziamento anche per la Scala nei suoi primi anni di attività, comunque sempre
supportata da quelle famiglie che vollero la sua edificazione e che ne mantenevano la
proprietà attraverso le quote dei palchi e affidando la gestione ad abili impresari, mentre
40 la platea era destinata al grande pubblico meno altolocato e talvolta al ballo. L’atmosfera
teatrale settecentesca era completamente differente da quella che riscontriamo nei teatri
odierni: il rigoroso silenzio che oggi impera, agli inizi della storia del teatro era totalmente
assente, rotto dal chiacchiericcio proveniente dalla platea e dai palchi nobiliari. Le sere a
teatro erano occasioni di incontri e confronti sociali, non momenti esclusivamente votati
45 all’ascolto musicale, e durante quella dell’inaugurazione della Scala, il 3 agosto 1778, vi
fu uno spettatore che non rimase colpito del tutto positivamente dalla cornice
architettonica che ospitò L’Europa riconosciuta di Salieri: era l’illuminista milanese
Pietro Verri, filosofo, storico, letterato nonché celebre economista, amante dell’arte e
autore di importanti discorsi legati al concetto di gusto musicale e non solo. Verri non
50 apprezzò la facciata del Piermarini e l'assenza di una piazza, che verrà realizzata fra il
1857 e il 1861 su iniziativa dell'imperatore asburgico Francesco Giuseppe. […]
L’aspetto del teatro non rimarrà immutato nel tempo, subirà significativi cambiamenti e
ristrutturazioni. In qualità di organismo vivo e pulsante, si adatterà alle necessità.
Proseguendo nella lettura dell’epistola fra Verri e il fratello apprendiamo che il fondo del
55 palco si appoggiava alla casa dei marchesi Talenti da Fiorenza, cioè quell’abitazione che
sappiamo che negli anni successivi sarà acquistata e demolita per ricavare il retropalco;
la prima metà del XIX secolo è all’insegna di importanti interventi sulla struttura del
teatro, che cambia volto per adattarsi al canone neoclassico ottocentesco, inoltre la Scala
si consacra come luogo privilegiato deputato alla rappresentazione del melodramma
60 italiano, anche grazie alle messe in scena di opere di Rossini (che per la Scala scriverà
espressamente La pietra del paragone, Aureliano in Palmira, Il turco in Italia, La gazza
ladra e Bianca e Falliero), Mercadante (fra le tante, ricordiamo almeno Il bravo e Il
giuramento), Donizetti (per esempio Gemma di Vergy, Lucrezia Borgia e Maria Stuarda),
Bellini (Il pirata, La straniera e Norma) e Verdi.
Quello che sembra essere un rapporto idilliaco continuativo è, però, destinato a un brusco
arresto: controversie artistiche ed economiche fra Verdi e gli impresari teatrali insorte in
occasione della rappresentazione della Giovanna d’Arco del 1845 spingono il
75 compositore a interrompere i rapporti col Teatro alla Scala, che, orfano di Verdi, sembra
attraversare un periodo non facile. Tuttavia, se può avvalersi solo di sporadiche
apparizioni di titoli rossiniani, il teatro vanta comunque un’assidua presenza di opere
belliniane e donizettiane. Dopo l’Unità d’Italia permane il prestigio del teatro milanese,
fra difficoltà più o meno grandi e memorabili successi, nonché ritorni: nel 1869 Giuseppe
54
80 Verdi ripropone La forza del destino, rivista dopo la prima versione che aveva esordito a
S. Pietroburgo. In quegli anni vi è anche il debutto scaligero di Richard Wagner: nel 1873
abbiamo la rappresentazione del Lohengrin e la varietà di linguaggi, con l'attenzione al
dibattito fra scuola italiana e novità tedesche, offerta dalla Scala garantisce sempre il
successo e l'interesse del pubblico. In seguito al suo rientro, Verdi fece udire per la prima
85 volta al pubblico milanese ed europeo l’Aida nel 1872, la nuova versione del Simon
Boccanegra nel 1881, l’Otello nel 1887 e Falstaff nel 1893. Un altro grande nome per il
Teatro alla Scala è quello di Ponchielli: la prima assoluta della Gioconda avviene nel
1876 proprio nel tempio (non solo) verdiano.
Celebri compositori hanno portato le loro opere alla Scala, ma, al compiere del primo
90 secolo di attività, il Teatro alla Scala, nato per l’opera e il balletto, annovera anche
numerose esecuzioni di musica sinfonica. Il 28 ottobre 1813 il trentunenne Nicolò
Paganini, virtuoso violinista, si presenta al Teatro alla Scala: fra il 1813 ed il 1827 darà
undici concerti e non sarà l’unico solista a esibirsi durante le stagioni concertistiche
scaligere. Ricordiamo anche Alessandro Rolla, primo violino della Scala che si esibiva in
95 coppia col figlio Antonio, anch’egli violinista, e Charles-Philippe Lafont, primo violino
alla corte di Luigi XVIII, che tra l’altro sostenne una celebre sfida con Nicolò Paganini.
Nel 1838 Franz Liszt porta le sue doti pianistiche a Milano contribuendo alla diffusione
del repertorio cameristico. Anche il pianista Sigismund Thalberg e il contrabbassista
Giovanni Bottesini hanno calcato le scene della Scala; grandi compositori ed esecutori
100 hanno consacrato il proprio talento a questo magnifico teatro, dove compaiono anche i
primi grandi direttori d'orchestra, a partire da Antonio Mazzucato, concertatore dal 1854
e il primo a salire sul podio con la bacchetta all'uso moderno nel 1866 per L'africana di
Meyerbeer, a Franco Faccio fino alla figura emblematica di Arturo Toscanini.
Il 26 dicembre 1898 ebbe luogo lo spettacolo di riapertura del Teatro alla Scala: I maestri
cantori di Norimberga di Richard Wagner (in italiano) dal grande Arturo Toscanini,
estimatore di Verdi come dei grandi autori d'oltralpe e delle nuove generazioni italiane
120 rappresentate da Mascagni, Boito e Puccini, che debutta alla Scala nel 1889.
Rispetto alla prassi di libertà concessa agli interpreti nei confronti della partitura,
Toscanini si dedica a un’attenta analisi delle opere per porgerle al pubblico con
un’esecuzione che fosse il più rigorosa e rispettosa possibile dell'autore, si prodiga per
ottenere luci più basse e maggiore attenzione durante lo spettacolo, l'abbassamento
55
125 dell'area destinata all'orchestra (buca o golfo mistico) rispetto alla platea, sul modello dei
teatri wagneriani. Non mancarono tuttavia scontri e perfino accuse di arbitrarietà mossegli
dall’editore Giulio Ricordi: il contrasto con Ricordi, che voleva impedire al direttore di
intervenire sul libretto del Trovatore verdiano per ripulirlo da consuetudini stabilitesi nel
tempo, col figlio di Visconti di Modrone e le visioni gestionali e musicali spesso
130 contrastanti con le posizioni di Toscanini, lo portarono, come Verdi prima di lui, a lasciare
la Scala polemicamente nel 1903.
Dopo un effimero rientro nel 1907 e le dimissioni di Toscanini nel 1908, il teatro subì
altre importanti modifiche, in particolare furono eliminati ventiquattro palchi per far posto
all'attuale prima galleria (nel 1891 importanti lavori già avevano riorganizzato il loggione
135 nell'attuale seconda galleria) e il teatro si dotò della buca per l’orchestra, già voluta dal
Maestro e messa in opera dal sovrintendente Gatti Casazza.
Dopo la Grande Guerra vi fu il ritorno, seppur non definitivo, di Toscanini alla Scala, che
vi diresse, fra l'altro, il Falstaff inaugurale della stagione 1921/22, la prima come Ente
Autonomo, e la prima assoluta della postuma pucciniana Turandot (25 aprile 1926). Nel
140 1931, il direttore, in seguito a un’aggressione subita dinnanzi al Teatro Comunale di
Bologna per essersi rifiutato di eseguire Giovinezza e la Marcia Reale decise di
abbandonare l’Italia. In seguito alla caduta del fascismo la penisola si riempì di manifesti
inneggianti a Toscanini, che inaugurò la nuova Scala, ricostruita dopo un bombardamento
del 1943, l’11 maggio 1946.
145 Arturo Toscanini è certamente una delle figure di maggior rilievo della storia teatrale
milanese: nel 1957 il Teatro alla Scala omaggiò il suo storico direttore, scomparso
quell’anno, con l'esecuzione a porte aperte, diretta da Victor de Sabata, della marcia
funebre dall'Eroica di Beethoven, inaugurando una tradizione che si ripeterà per lo stesso
De Sabata, per Gavazzeni e per Abbado.
150 Nel 1982 nacque la Filarmonica del Teatro alla Scala per volontà di Claudio Abbado
mentre nel 1996 fu costituita la Fondazione Teatro alla Scala.
Il Novecento ha portato parzialmente alla luce il volto scaligero odierno, che dobbiamo
ai lavori di ristrutturazione e restauro che ebbero luogo dal 2002 al 2004.
La Scala non è solo un edificio: la sua storia, costellata di lotte, gioie, trionfi e difficoltà,
155 dimostra che l’istituzione incarna un incondizionato amore per la musica e la cultura. La
Scala non è un semplice teatro, è un simbolo.
5. Sottolinea tutti i falsi amici che trovi nel testo, e aggiungili allo schema
di pag. 121.
a.
Tuttavia, se può avvalersi solo di sporadiche apparizioni di titoli rossiniani, il
teatro vanta comunque un’assidua presenza di opere belliniane e donizettiane.
(r. 76-77)
b.
Celebri compositori hanno portato le loro opere alla Scala, ma, al compiere del
primo secolo di attività, il Teatro alla Scala, nato per l’opera e il balletto,
annovera anche numerose esecuzioni di musica sinfonica. (r. 89-91)
57
13
L’Accademia dei Pugni, anche chiamata Società dei Pugni, fu un’istituzione culturale
fondata da Pietro Verri nel 1761 a Milano. Il gruppo di giovani aristocratici che ne faceva
parte si riuniva in casa di Pietro Verri in contrada del Monte, oggi via Monte Napoleone.
L’Accademia deve il curioso nome all’animosità delle discussioni che vi si svolgevano.
5 Vi parteciparono molti degli illuministi lombardi dell’epoca, tra i quali Alessandro Verri,
Alfonso Longo, Luigi Lambertenghi, Giuseppe Visconti, Cesare Beccaria, autore del
celebre opuscolo Dei delitti e delle pene. Erano giovani aristocratici, studiosi di legge e di
economia, convinti della necessità di riformare la gestione dello Stato. Molti di loro
collaborarono attivamente con il governo asburgico di Maria Teresa e Giuseppe II. Pietro
10 Verri e Cesare Beccaria partecipano ai lavori del Supremo Consiglio di economia, istituito
nel 1765, a cui erano attribuite una vastità di competenze che facevano capo al
funzionamento dei meccanismi finanziari e alla politica economica dello Stato.
Il Caffè
Dall’Accademia dei Pugni nacque nel 1764 la rivista Il Caffè. Il periodico usciva ogni dieci
15 giorni e complessivamente furono realizzati 74 numeri, che vennero poi rilegati in due
volumi corrispondenti alle due annate di pubblicazione, per un totale di 118 articoli. Il
Caffè si stampava a Brescia, in territorio veneto, per sfuggire ai rigori della censura
58
austriaca. Il modello a cui si ispiravano i giovani redattori de Il Caffè era il periodico inglese
The Spectator, dal quale veniva ripresa anche l’idea di creare una fittizia cornice narrativa
20 in cui presentare i diversi articoli. Il giornale fingeva di riportare i discorsi scambiati dagli
avventori di una bottega del caffè gestita da Demetrio, saggio e affidabile padrone di casa
di origine greca. Il Caffè nasce nel periodo in cui le botteghe di caffè si sviluppano
rapidamente in Inghilterra in seguito alla diffusione della bevanda. Il luogo di ritrovo
diventa appunto il caffè illuminista, luogo reale e nello stesso tempo simbolico lontano
25 dai modelli precedenti, dove si crea una nuova forma di socialità dall’incontro di uomini
e di ceti diversi.
Il Caffè si proponeva la diffusione delle nuove idee dei philosophes francesi e inglesi
(Locke e Montesquieu, gli enciclopedisti) in Italia. Era il primo giornale italiano agitatore
di idee, volto a diffondere le nuove idee illuministe presso un pubblico di uomini e donne
30 di media cultura, né eruditi né “zotici”, che potessero trarre utilità dalla lettura degli
articoli. I redattori si proposero di utilizzare una lingua chiara e moderna non obbediente
alle regole della purezza della lingua italiana imposte dalla tradizione in nome del
principio che “è cosa ragionevole che le parole servano alle idee, ma non le idee alle
parole” (Alessandro Verri, Il Caffé, IV, Rinunzia avanti notaio al Vocabolario della Crusca,
35 in Il Sistema letterario, vol. 3, p.953) .
Sulle pagine del Caffè intervengono gli illuministi milanesi con articoli che trattano di
agricoltura, arti, commercio, politica, fisica, storia naturale, argomenti vivi e attuali
“cognizioni che ogni cittadino non manuale dovrebbe meno ignorare” (Cesare Beccaria, Il
Caffè, II, foglio 1, in Il materiale e l’immaginario, vol. 3, p.1091), l’obbiettivo è quello di
40 superare le tradizioni e i pregiudizi e dare vita a una cultura cosmopolita e moderna. Il
giornale cessò di essere pubblicato nel 1766, anno in cui ebbe termine anche l’Accademia
dei Pugni.
59
dialogo tra pari, aperto e cordiale, che unisce persone attive e intelligenti, aperte alle
novità.
60 Cos’è questo “Caffè”? È un foglio di stampa, che si pubblicherà ogni dieci giorni. Cosa
conterrà questo foglio di stampa? Cose varie, cose disparatissime, cose inedite, cose fatte
da diversi autori, cose tutte dirette alla pubblica utilità. Va bene: ma con quale stile
saranno scritti questi fogli? Con ogni stile, che non annoi. E sin a quando fate voi conto di
continuare quest’opera? Insin a tanto che avranno spaccio. Se il pubblico si determina a
65 leggerli, noi continueremo per un anno, e per più ancora, e in fine d’ogni anno dei
trentasei fogli se ne farà un tomo di mole discreta: se poi il pubblico non li legge, la nostra
fatica sarebbe inutile, perciò ci fermeremo anche al quarto, anche al terzo foglio di
stampa. Qual fine vi ha fatto nascere un tal progetto? Il fine d’una aggradevole
occupazione per noi, il fine di far quel bene che possiamo alla nostra patria, il fine di
70 spargere delle utili cognizioni fra i nostri cittadini, divertendoli, come già altrove fecero e
Stele, e Swift, e Addison, e Pope ed altri. Ma perché chiamate questi fogli “Il Caffè”? Ve
lo dirò ma andiamo a capo.
Un Greco originario di Citera, isoletta riposta fra la Morea e Candia, mal soffrendo
l’avvilimento, e la schiavitù, in cui i greci tutti vengon tenuti dacché gli Ottomani hanno
75 conquistata quella contrada, e conservando un animo antico malgrado l’educazione e gli
esempi, son già tre anni che si risolvette d’abbandonare il suo paese: egli girò per diverse
città commercianti, da noi dette le scale del Levante; egli vide le coste del Mar Rosso, e
molto si trattenne in Mocha, dove cambiò parte delle sue merci in caffè del più squisito
che dare si possa al mondo; indi prese il partito di stabilirsi in Italia, e da Livorno sen venne
80 in Milano, dove son già tre mesi ha aperta una bottega addobbata con ricchezza ed
eleganza somma. In essa bottega primieramente si beve un caffè, che merita il nome
veramente di caffè: caffè vero verissimo di Levante, e profumato col legno d’aloe che
chiunque lo prova, quand’anche fosse l’uomo il più grave, l’uomo il più plumbeo della
terra, bisogna che per necessità si risvegli, e almeno per una mezz’ora diventi uomo
85 ragionevole. In essa bottega vi sono comodi sedili, vi si respira un’aria sempre tepida, e
profumata che consola; la notte è illuminata, cosicché brilla in ogni parte l’iride negli
specchi e ne’ cristalli sospesi intorno le pareti, e in mezzo alla bottega; in essa bottega,
che vuol leggere, trova sempre i fogli di novelle politiche, e quei di Colonia, e quei di
Sciaffusa, e quei di Lugano, e vari altri; in essa bottega, chi vuol leggere, trova per suo uso
90 e il Giornale Enciclopedico, e l’Estratto della Letteratura Europea, e simili buone raccolte
di novelle interessanti, le quali fanno che gli uomini che in prima erano romani, fiorentini,
genovesi, o lombardi, ora sieno tutti presso a poco europei; in essa bottega v’è di più un
buon atlante, che decide le questioni che nascono nelle nuove politiche; in essa bottega
per fine si radunano alcuni uomini, altri ragionevoli, altri irragionevoli, si discorre, si parla,
95 si scherza, si sta sul serio; ed io, che per naturale inclinazione parlo poco, mi son
compiaciuto di registrare tutte le scene interessanti che vi vedo accadere, e tutti i discorsi
che vi ascolto degni da registrarsi; e siccome mi trovo d’averne già messi in ordine vari,
così li do alle stampe col titolo Il Caffè, poiché appunto son nati in una bottega di Caffè.
(…) Si trovavano nel caffè un negoziante, un giovane studente di filosofia, ed uno dei mille
100 e duecento curiali, che vivono nel nostro paese; io stava tranquillamente ascoltandoli,
60
non contribuendo con nulla del mio alla loro conversazione. “Il caffè è una buona
bevanda”, diceva il negoziante, “io lo faccio venire dalla parte di Venezia, lo pago
cinquanta soldi la libbra, né mi discosterò mai dal mio corrispondente, altre volte lo
faceva venir da Livorno, ma v’era diversità almen d’un soldo per libbra”. “V’é nel caffè”,
105 soggiunse il giovane, “una virtù risvegliativa degli spiriti animati, come nell’oppio v’è la
virtù assoporativa e dormitiva”. “Gran fatto”, replicò il curiale, “che quel legume del caffè,
quella fava ci debba venire sino da Costantinopoli!”.
a. ne (r. 2)
b. cui (r. 11)
a. all’imperfetto;
b. al passato remoto;
c. al futuro.
a. “è cosa ragionevole che le parole servano alle idee, ma non le idee alle parole” (r.
33-34)
61
14
Prima di leggere il testo, vedi il video ufficiale sull’Accademica della Crusca in
https://www.youtube.com/watch?v=37GEVkLbFT8.
In Italia e nel mondo l'Accademia della Crusca è uno dei principali punti di
riferimento per le ricerche sulla lingua italiana. La sua attività presente punta ai
seguenti obiettivi:
62
• L'Accademia della Crusca è sorta a Firenze tra il 1582 e il 1583, per iniziativa di
cinque letterati fiorentini (Giovan Battista Deti, Anton Francesco Grazzini,
15 Bernardo Canigiani, Bernardo Zanchini, Bastiano de' Rossi) ai quali si aggiunse
subito Lionardo Salviati, ideatore di un vero programma culturale e di
codificazione della lingua. Dalle loro animate riunioni, chiamate scherzosamente
"cruscate", derivò il nome di "Accademia della Crusca", vòlto poi a significare il
lavoro di ripulitura della lingua. L'istituzione assunse come proprio motto un verso
20 del Petrarca - "il più bel fior ne coglie" - e adottò una ricca simbologia tutta riferita
al grano e al pane.
Indica se le seguenti affermazioni sono vere o false. Nel caso siano false,
giustifica.
63
15
1. Leggete la frase di Mario Pagano e commentatela. Riuscite ad
immaginare che rapporto c’è tra questa citazione e il contenuto
dell’articolo?
2. Ora sí, leggi il testo con una tua compagna o compagno e poi risolvete le
attività.
L’istruzione dei popoli è la rovina dei tiranni, l’ignoranza del popolo tiene in vita il malgoverno
Il 2019 è appena iniziato ma sono già partite le iniziative rivolte a celebrarne il percorso, come
avviene negli anni dove il numero 9 è parte della decade […]. Il numero 9 occupa il suo posto
tra le date emblematiche della storia e tra le date che l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici
ha considerato, e considera, pietre miliari nella grande storia universale e nella storia di
5 Napoli. […]
1. ________________________________________________________________
Nella storia della Repubblica napoletana il numero nove, preceduto dal suo simile, è
autonomo dalle cifre inziali del secolo: la Rivoluzione napoletana è del ’99, è Napoli ’99, è la
trama portante di un tessuto compositivo e connettivo di storia patria che è andato a
10 innestarsi nella grande storia via via che i giudizi, critici o encomiastici che fossero, cedevano
il passo a un revisionismo storico-politico che non tramava capovolgimenti, ma consentiva
all’uomo di rivedere e reinterpretare la storia del mondo e la sua stessa storia alla luce dei
vecchi e dei nuovi tempi, allo scorrere degli anni, ai cambiamenti o alle cadute delle
prospettive, delle speranze e anche, perché no, delle illusioni. […]
64
divine speranze che hanno aiutato il mondo a raggiungere mete certamente improponibili
all’uomo dei nostri giorni. Le idee ridotte a ideologie che rinnegano sé stesse o addolcite negli
slogan doverosamente criptici del tipo ideali emancipativi di massa nascono col proposito, e col
20 destino, di rinnegare sé stessi. La loro radice, idea, si confronta invano con la realtà, perdendo
sostanza e rischiando di trasformarsi da presunta bandiera a straccio controvento.
2. ________________________________________________________________
La rivoluzione pensata, voluta perché i suoi effetti ricadessero quale riscatto civile e morale
sull’elemento costitutivo dello Stato più debole, trova la sua cassa di risonanza in tutta la città.
25 […]
3. ________________________________________________________________
Sull’onda delle rivoluzioni settecentesche e dei venti di libertà che percorrevano l’Europa,
nonostante le abissali differenze tra i popoli e la posizione politica dei diversi Stati e degli
35 stessi sovrani, i repubblicani di Napoli ritennero i tempi maturi per la rivoluzione. Maria
Carolina frequentava già ambienti illuministici della città e molti tra gli intellettuali
repubblicani avevano un rapporto di collaborazione con la Corte, da Eleonora Pimentel
Fonseca che ne era bibliotecaria e poetessa a Domenico Cirillo, medico della corte e dei
sovrani ma questo equilibrio, instabile per forza di cose, era destinato a crollare col Terrore.
40 Le mete che si ponevano quanti dettero la vita per migliorare le condizioni di un popolo che
sentivano proprio, sicuramente antesignane rispetto a quelle del resto dell’Europa, non si
tradussero in un progetto di riforme tale da coinvolgere i destinatari nel loro ideale di riscatto
sociale, economico e civile.
65
Tuttavia, sia presso gli stessi rivoluzionari che negli ambienti aristocratici della città,
45 l’avvenimento trovò la partecipazione appassionata di quanti considerarono la rivendicazione
dei diritti del popolo un riscatto da esercitare coralmente perché potesse acquistare le valenze
necessarie alla sua riuscita e dispiegarsi su un più vasto orizzonte in tutta la sua tragicità,
nonostante il presentimento di dolore e di morte maturatosi nelle coscienze.
La città, nella sua componente partecipe e consapevole della tragedia che vi si svolgeva
50 quotidianamente nel silenzio-assenso della parte che ne traeva i suoi vantaggi, fu matrice e
martire della Rivoluzione napoletana. E per città non intendiamo la culla magica di una
Sirena, bensì quella sopravvissuta a sé stessa maturandosi all’innatismo dell’autocritica, al
pragmatismo che non frena, ma dà nuove luci al pensiero, all’idea, agli ideali. Il pensiero dei
rivoluzionari di Napoli si formò e si maturò in una città che aveva attraversato i secoli e i
55 millenni rinnovandosi ma senza mai essersi perduta, aveva edificato una nuova lingua senza
estirpare, ma arricchendo l’antica; aveva creato una letteratura, una filosofia, una musica alle
quali far attingere il mondo e aveva diffuso nel mondo le sue mille e una notte di favole delle
quali erano protagonisti i personaggi tipici dell’antico regno e della sua tradizione in una
esemplare potenza allegorica e di costume che metteva in scena in piccoli drammi la vita: il
60 fatato Pentamerone di Giovan Battista Basile i cui racconti, con nomi diversi, sono divenuti i
classici delle favole europee.
4. ________________________________________________________________
Questa era la città dove si era formato e maturato il pensiero dei rivoluzionari del ’99, una
città dove l’Illuminismo non accese solo le sue luci, ma ne previde i corti circuiti che ne
65 avrebbero deviato le mete. Questa era la città dove avevano attecchito i semi del buon
governo, quello che si pone il compito di esercitare una politica economica per il bene comune.
L’ambiente al quale il pensiero rivoluzionario alimentò le sue prospettive e le sue illusioni era
la Napoli dove Antonio Genovesi, dopo la cattedra universitaria di etica ereditata da
Gianbattista Vico, aveva retto la cattedra di economia politica, prima in Europa: passaggio
70 significativo, per chi abbia approfondito il significato della politica economica quale
strumento di progresso, di benessere, di crescita e quindi di etica e di civiltà. […]
Miracolosamente, circa tre secoli fa, Antonio Genovesi queste cose le aveva capite e ne stava
facendo l’elemento portante del suo insegnamento come lo sarà del magistero di Ferdinando
66
Galiani. Le sue lezioni erano tenute in lingua italiana e non in latino perché anche il popolo
75 potesse comprenderne l’importanza ai fini del proprio benessere e del proprio progresso
civile. Genovesi rendeva inoltre accessibili nuovi percorsi di futuro con l’istruzione e la
formazione, aprendo la via al liberalismo e alla fisiocrazia.
5. ________________________________________________________________
Nella Scienza della Legislazione Filangieri svincola la legge dal contingente e ne sostiene la
necessità di poggiare su princìpi scientifici, esattamente come la matematica e la chimica che
90 andava svincolandosi dall’alchimia. Solo una legge nata da questa matrice di pensiero sarebbe
stata in grado di consentire all’uomo la conservazione di sé stesso e dei benefici ottenuti dalla
crescita civile della quale era premessa e conseguenza.
Principio ispiratore delle riforme è quello della città platonica, sede delle virtù, basata
sull’educazione e l’istruzione: un’educazione universale, ma non uniforme, consona alla funzione da
95 svolgere e tanto più severa quanto più questa era impegnativa. Diversamente, non poteva
che venirne fuori un appiattimento verso il basso, a livelli ai quali l’educazione, e per
conseguenza la formazione, avrebbero perduto i loro contenuti e il loro stesso significato.
E amaramente, e vanamente, dobbiamo dire che la storia ha dato ancora una volta ragione
non solo a Platone, ma al comune buon senso e che ciononostante, e in piena consapevolezza
100 dei grandi manovratori di riforme, ci sembra il caso di temere che l’appiattimento continuerà
a procedere verso la deriva del significato stesso dei termini.
67
Base dell’educazione è per Platone l’etica, alla quale vanno formati governanti e governati;
fonte dell’educazione è la legge che assicura la vita civile e la certezza del diritto, fondamentali
a qualsiasi progetto di futuro che consenta all’uomo, in tranquillità e sicurezza, di raggiungere
105 condizioni di vita sempre migliori e di avvicinarsi allo stato di felicità, sua meta naturale.
6. ________________________________________________________________
Inserire in un testo giuridico la parola felicità, forse la più suscettibile di interpretazioni diverse
per la sua indefinibilità oggettiva, era a sua volta una sfida e un segnale di libertà da qualunque
ostacolo alla vastità e alla libertà di pensiero. A Napoli la consapevolezza che la verità possa
110 avere molteplici aspetti e tutti validi fa parte, ancora una volta, di quell’innatismo che è
intuito, sensibilità, creatività, coraggio di confrontarsi con le infinite contraddizioni della vita.
D’Annunzio ci presenta la sua Felicità velata, ma ne intuirono l’essenza luminosa che
consentiva un obiettivo di progresso civile e sociale i coloni americani che si ribellarono alla
madrepatria. Franklin, coautore della Dichiarazione di Indipendenza del 1774, venne di persona
115 a Napoli per conoscere Filangieri e invitarlo, invano, a trasferirsi in America.
La Dichiarazione d’Indipendenza del 1774 può considerarsi l’inizio della rivoluzione americana,
la più antica delle Rivoluzioni settecentesche come la relativa Costituzione del 1787, ancora
quasi integralmente in vigore. Entrambe s’ispirarono alla Scienza della Legislazione di Gaetano
Filangieri, al diritto dei popoli alla libertà e alla ricerca della felicità.
120 Alexis de Tocqueville, nel suo libro sulla democrazia americana, scrive: la rivoluzione francese
ha generato violenza e terrore, quella americana libertà.
Tra la fine del Settecento e i primi anni dell’Ottocento la dea Ragione tende a degenerare
nell’arroganza come la virtù era degenerata negli assolutismi politici e nella tracotanza
borghese, ma nella Rivoluzione napoletana non vi furono compromessi né adattamenti. La
125 posta restò alta, ben più alta di quella delle rivoluzioni precedenti perché fin dall’inizio ai
valori connessi al benessere i rivoluzionari preposero quelli della consapevolezza dei diritti
come dei doveri, la coscienza di essere un Popolo, elemento costitutivo dello Stato da
difendere e promuovere una volta riabilitato nella sua identità.
7. _______________________________________________________________
68
130 Dello spirito mercantile che mancava quale spinta alla Rivoluzione napoletana del ’99 parlò in
un incontro internazionale sul tema François Mitterand sottolineando che i motivi che
spinsero i repubblicani a ribellarsi ai sovrani prescindevano dall’eventuale tornaconto
economico, preminente nelle altre rivoluzioni.
Il miglioramento del popolo voluto dai rivoluzionari riguardava naturalmente anche lo status
135 materiale delle sue condizioni di vita, ma il loro fine primario era quello di difenderne la
dignità e di promuoverne la libertà e la consapevolezza di sé, dei propri diritti, delle ingiustizie
e della mancanza di prospettive che lasciassero sperare in un rinnovamento delle sue
condizioni e un ravvedimento da parte dei sovrani.
Principi e deduzioni apparentemente elementari espressi nei decenni dalle autorità del
140 pensiero e delle correnti politiche di diverse prospettive sono state solo l’eco della grande
missione interpretativa, valutativa ed esplicativa svolta dall’avvocato Gerardo Marotta,
Presidente dell’Istituto Italiano per gli studi filosofici, al suo fianco sempre Antonio Gargano
le cui lezioni di filosofia agli studenti liceali restano indimenticabili, vera e propria memoria
storica della cultura napoletana. […]
145 8. _______________________________________________________________
Sul frontespizio del suo Catechismo repubblicano quello che è stato considerato l’unico autore
150 della Costituzione, Mario Pagano, che merita uno studio a parte per la sua storia di passione
civile duramente pagata, scrive:
“L’istruzione del popolo è la rovina dei tiranni” e, a seguire, “L’ignoranza del popolo tiene in vita il
malgoverno”: e limitiamoci a dire che i tempi gli hanno dato ragione e, ahimè, continuano e
continueranno a dargliela.
155 Altra regola aurea della Costituzione di Mario Pagano è quella che considera l’uguaglianza
fonte di diritti e di doveri e non elargizione irresponsabile di soli diritti che, inevitabilmente,
ne ridurrebbero i benefici fino a un appiattimento ancor più costrittivo. A tal punto, il nostro
69
invito a leggere, o a rileggere, le quattro costituzioni settecentesche può considerarsi non un
invito a un dovere, ma a un’apertura di pensiero e una spinta a confrontare tra loro i momenti
160 cruciali della storia: confronti ormai improcrastinabili perché, come sosteneva Gerardo
Marotta, quando divampa l’incendio bisogna che accorrano i pompieri, esortazione divenuta per lui
sempre più stringente nel tempo e divampata nell’urlo di dolore e di sdegno: Gente, pensate al
mondo!
9. _______________________________________________________________
165 Non sarebbe mai passata per la mente di Mario Pagano l’idea di eliminare i doveri dalla sua
aurea carta costituzionale. Dalla alcune Costituzioni francesi, come da quella del 1793,
vennero esclusi i doveri perché non offuscassero la grande conquista dei Lumi: i diritti. […]
La Costituzione napoletana di Mario Pagano non indugia in utopie né in illusioni nella sua
robusta trama progettuale. Non materia di sogni, ma monumento coerente a un’idea di
170 giustizia e di verità, esempio di quello spirito illuministico che toccò a Napoli le sue vette più
alte. […]
70
i. La partecipazione cittadina all’ideale rivoluzionario dei Repubblicani
a. prossimo;
b. imperfetto;
c. remoto;
d. trapassato prossimo.
71
c. un’educazione universale, ma non uniforme, consona alla funzione da
svolgere e tanto più severa quanto più questa era impegnativa. (r. 94-95)
72
16
Prima di leggere il testo, vedi il suo titolo e le parole evidenziate in neretto, e
rispondi alle seguenti domande:
1. A quale divisione degli italiani, che appare su un testo della dispensa del
livello elementare, si riferisce l’articolo?
Il governo l’altro giorno ha tentato qualcosa che, in un’Italia strangolata dalla dittatura
del breve termine, si osa sempre di meno: ha guardato ai prossimi dieci anni,
azzardandosi a indicare una strada. Lo ha fatto il ministro per il Sud Beppe Provenzano,
quando venerdì ha presentato un piano per ridurre la frattura territoriale del Paese.
5 Provenzano indica un gran numero di misure sulla scuola o l’uso dei fondi europei e già
dai prossimi mesi la tenuta della maggioranza, assieme all’efficienza
dell’amministrazione, permetteranno di capire se il suo piano può funzionare.
È però possibile fare da subito l’esperimento opposto: ci si può chiedere cosa accadrebbe,
semplicemente, se non ci fosse nessun piano di questo e dei futuri governi. Si può provare
10 a immaginare cosa sarebbe l’Italia in futuro se non succedesse nulla di nuovo. Se la
grande divergenza sociale, produttiva, educativa, migratoria, demografica, sanitaria, degli
stili di vita, delle aspettative e della partecipazione civica degli abitanti dei suoi territori
continuasse come ha fatto negli ultimi dieci anni, o decenni. È solo un test, la proiezione
arbitraria sui prossimi anni delle derive degli ultimi dieci. E come in tutti i test conviene
15 prendere gli estremi, il Mezzogiorno e il Nord, tenendo fuori le misure spesso intermedie
del Centro Italia. L’obiettivo è farsi un’idea di cosa può accadere fra quelle due aree se
tutto restasse sul piano inclinato di questi anni.
73
Di sicuro il rapporto di forze fra Nord e Sud del Paese sarebbe destinato a cambiare.
20 L’Istat ha mostrato nei giorni scorsi che la popolazione nelle regioni meridionali nel
2019 si è ridotta (di 129 mila persone) più che quella di tutta l’Italia nel suo complesso
(scesa di 116 mila persone). In altri termini al Centro e soprattutto al Nord prosegue
lentamente un incremento nel numero degli abitanti, mentre il calo delle nascite e
l’aumento dell’emigrazione verso il resto del Paese stanno erodendo la popolazione delle
25 regioni meridionali. L’Italia si riempie pian piano da una parte e si svuota
rapidamente dall’altra. Le leggi della demografia sono simili a quelle dei ghiacciai, che
si spostano pianissimo fino a cambiare profondamente. Oggi con quasi ventuno milioni
di residenti il Mezzogiorno d’Italia per popolazione pesa per circa tre quarti del totale
degli abitanti del Nord, ma cosa può succedere alle tendenze attuali? L’Istat lo mostra
30 nelle sue previsioni: nello scenario «mediano» il numero degli abitanti del Nord cresce
fino al 2042 e quello del Sud non fa che calare. Fra ventidue anni sarà meno di due terzi
rispetto al settentrione.
Gli slittamenti demografici sono poi destinati a ripercuotersi in politica. Non solo le
50 regioni settentrionali conteranno sempre di più nei referendum e potrebbero
rivendicare un peso maggiore in Parlamento o nella ripartizione del bilancio pubblico,
anche la disaffezione civica di un Sud che si sente sempre più periferia irrilevante può
facilmente aumentare. Se ne vedono già i segni. Fatta pari a cento l’affluenza elettorale
alle europee del Nord Italia, quella meridionale negli ultimi dieci anni non ha fatto che
55 scendere: era all’81% del Settentrione nel voto del 2009, al 74,6%% cinque anni fa e al
70% a maggio scorso. I meridionali fanno sentire sempre di meno la propria voce e
si può solo chiedersi fino a che punto arriveranno nell’apatia riguardo alla cosa pubblica.
Anche la società italiana dà segni di biforcazione lungo i suoi diversi paralleli. Dieci anni
60 fa l’aspettativa di vita nel Mezzogiorno era di appena mezzo anno inferiore al Nord, più
di recente la differenza è salita a un anno e se lo slittamento prosegue sarà quasi di un
anno e mezzo nel 2028. Conta anche che l’incidenza della mortalità per tumori, che
dieci anni fa era più bassa al Sud, di recente ha superato i livelli del Nord. Certo
l’insicurezza generale nella società meridionale è così diffusa che più persone si
74
65 dichiarano preoccupate di andare in giro da sole al Sud, anche se borseggi, rapine, furti
in casa e anche omicidi sono meno frequenti che nel Nord.
Gli indicatori della banca dati Istat disegnano così una nazione percorsa da incrinature
che fra dieci o vent’anni — se nulla cambia — potrebbero diventare vere e proprie
fratture. Ma gli italiani sono ancora tenuti insieme da alcune percezioni comuni. Uno di
70 questi è l’amor di patria. Un altro, a un estremo e all’altro della penisola, è che esattamente
il 2,5% degli abitanti dichiara oggi di fidarsi dei partiti. Non uno di più.
6. Notate l’espressione si osa sempre di meno (r. 2). Capite il suo significato?
Cercate nel testo altre frasi contenenti la stessa struttura.
֍ Per approfondire, vedi gli stereotipi sul Sud e il Nord nei trailer dei film
Benvenuti al Sud
(https://www.youtube.com/results?search_query=benvenuti+al+sud) e
Benvenuti al Nord (https://www.youtube.com/watch?v=ocSf8m2xWiI).
75
17
Leggi insieme alla classe il primo paragrafo (fino alla riga 4). Dividetevi quindi
in gruppi, e prendete uno o due dei libri (i titoli sono in neretto) di cui
compaiono alcune frasi di Flaiano: ogni gruppo dovrebbe diventare “l’esperto”
in quella porzione di testo. Una volta capiti i diversi brani, condividete le vostre
impressioni con gli altri: di che aspetti della società italiana parlano? Quali sono
le idee piú amare? Quali espressioni vi sembrano interessanti da incorporare?
Scegliete la frase che vi piace di piú, e traducetela.
Gli aforismi, le frasi e le battute di Ennio Flaiano (Pescara 1910 – Roma 1972) nascondono
– dietro un’ironia sagace e fulminante – un pessimismo lucido e dolente, un’amarezza
che sfiora il cinismo e il disincanto, una coscienza del nulla vissuta attraverso la quotidiana
descrizione dei comportamenti e i tic più assurdi e paradossali della nostra società.
5 Presento qui di seguito una raccolta – tratta dalle sue opere principali – delle più belle
frasi, citazioni, battute e aforismi di Ennio Flaiano.
76
Un libro sogna. Il libro è l’unico oggetto inanimato che possa avere sogni.
È un poeta così cattivo che sette città si rinfacciano il disonore di avergli dato i natali.
Non c’è che una stagione: l’estate. Tanto bella che le altre le girano attorno. L’autunno la
ricorda, l’inverno l’invoca, la primavera l’invidia e tenta puerilmente di guastarla.
Si arriva a una certa età nella vita e ci si accorge che i momenti migliori li abbiamo avuti
per sbaglio. Non erano diretti a noi.
Lei non può immaginare quanto io non sia irremovibile nelle mie idee.
“E vissero sempre infelici e scontenti.” Così, per non ingannare il suo bambino termina le
favole.
35 Niente di più triste di un artista che dice: «Noi pittori» oppure: «Noi scrittori»; e sente la
sua mediocrità protetta e confortata da tutte le altre mediocrità, che fanno numero,
società, sindacato.
77
Certi vizi sono più noiosi della stessa virtù. Soltanto per questo la virtù spesso trionfa.
Le invasioni dei barbari essendo oggi improbabili, La Natura vi supplisce con le invasioni
40 interne e legali: i Vandali sono all’Edilizia, Attila dirige la riforma agraria, i Goti aspettano
di andare al potere. Tutti mirano a distruggere qualcosa perché il barbaro, sempre
stupido ed impaziente, deve muoversi e fare altrimenti si annoia.
Decise di cambiar vita, di approfittare delle ore del mattino. Si levò alle sei, fece la doccia,
si rase, si vestì, gustò la colazione, fumò un paio di sigarette, si mise al tavolo di lavoro e
45 si svegliò a mezzogiorno.
I secoli hanno lavorato per produrre questo individuo di stanche ambizioni, furbo e
volubile, moralista e buon conoscitore del codice, amante dell’ordine e indisciplinato,
gendarme e ladro secondo i casi. Nazionalista convinto, vi dice come si doveva vincere
l’ultima guerra e a chi si potrebbe dichiarare la prossima. Evade il fisco ma nei cortei
50 patriottici è quello che fiancheggia la bandiera e intima ai passanti: giù il cappello.
I nomi collettivi servono a far confusione. ‘Popolo, pubblico…’. Un bel giorno ti accorgi
che siamo noi. Invece, credevi che fossero gli altri.
55 Ha una tale sfiducia nel futuro che fa i suoi progetti per il passato.
La troppa familiarità con le cose sacre allontana forse da Dio. I sagrestani non entrano in
Paradiso.
L’evo moderno è finito. Comincia il medio-evo degli specialisti. Oggi anche il cretino è
specializzato.
65 L’unico modo di trattare una donna alla pari è di desiderarla come uomo.
In amore bisogna essere senza scrupoli, non rispettare nessuno. All’occorrenza essere
capaci di andare a letto con la propria moglie.
Colui che crede in se stesso vive coi piedi fortemente poggiati sulle nuvole.
78
L’avarizia è la forma più sensuale di castità.
Ci lusinga di più il cieco favore della fortuna che il riconoscimento dei nostri meriti.
Basta alzarsi una mattina alle sette e uscire per capire che abbiamo sbagliato tutto.
L’inferno, che l’italiano si ostina a immaginare come un luogo dove, bene o male, si sta
80 con le donne nude e dove con i diavoli ci si mette d’accordo.
Mai epoca fu come questa tanto favorevole ai narcisi e agli esibizionisti. Dove sono i santi?
Dovremo accontentarci di morire in odore di pubblicità.
Chi vive nel nostro tempo raramente sfugge alla nevrosi. Per vivere bene non bisogna
essere eccessivamente contemporanei.
I grandi premi non vengono mai dati allo scrittore, ma ai suoi lettori. Poveracci, se li
meritano.
79
95 La crisi della cultura. C’è sempre stata: Shakespeare non sapeva il greco e Omero non
sapeva l’inglese.
Il successo alla moda si ottiene con la pubblicità e si paga con la prostituzione alla folla.
Invertendo l’ordine dei fattori il successo non cambia, diventa forse più duraturo, perché
100 “sofferto”. Il successo ottenuto col merito e pagato con l’indifferenza annoia il grosso
pubblico e, da qualche tempo in qua, anche gli altri.
Ritrattino. Uno di quei tali che, per trovare la sua serenità, ha bisogno di farla perdere agli
altri.
In Italia la linea più breve tra due punti è l’arabesco. Viviamo in una rete di arabeschi.
105 La disattenzione è il modo più diffuso di leggere un libro, ma la maggior parte dei libri
oggi non sono soltanto letti ma scritti con disattenzione.
Melampus (1970)
L’eroe moderno non è più la vittima di una congiura divina, ma soltanto il frutto delle sue
proprie inibizioni.
115 La satira ci rende fieri, come se ci riconoscesse uno stato civile artistico, un diploma che
ci sollevi dalla mediocrità e dal grigiore delle parti secondarie.
Viaggiare è come tenere i rubinetti aperti e vedere il tempo che va via, sprecato, liquido,
intrattenibile.
120
Autobiografia del blu di Prussia (1974)
I giorni indimenticabili della vita di un uomo sono cinque o sei in tutto. Gli altri fanno
volume.
La serietà è apprezzabile soltanto nei fanciulli. Negli uomini saggi è il riflesso della
125 rinuncia.
80
Quando la Scienza avrà messo tutto in ordine, toccherà ai poeti mischiare daccapo le
carte.
81
18
Marco Lodoli, I miei ragazzi assediati dalla Facilità
Cosa sta accadendo nelle menti degli italiani, come mai ho l’impressione che lo
stordimento, se non addirittura una leggera forma di demenza, stiano soffiando
come scirocco in troppi cervelli, giovani e meno giovani? Quali sono le cause,
5 se ce ne sono, di questo torpore?
Avevo raccontato, un mese fa su “Repubblica”, la mia crescente ansia di fronte
al silenzio dei miei studenti che sembrano non saper più ragionare. In tanti
hanno risposto, mi sono arrivate molte lettere, anche dai ragazzi delle scuole.
Capisco che è difficile indicare un unico responsabile, un sicuro colpevole, ma
10 una piccola idea del perché accada tutto questo io me la sono fatta e ve la
propongo.
A mio avviso da troppo tempo viviamo sotto l’influsso di una divinità tanto
ammaliante quanto crudele, un uccelletto che canta soave, ma che ha un becco
così sottile e feroce da mangiarci il cervello. La Facilità è la dea che divora i
15 nostri pensieri, e di conseguenza l’intera nostra vita. La Facilità non va certo
confusa con la Semplicità che, come ben sintetizzava il grande scultore
Brancusi, “è una complessità risolta”. La Semplicità è l’obiettivo finale di ogni
nostro sforzo: noi dovremmo sempre impegnarci affinché pensieri e gesti siano
semplici, e dunque armoniosi e giusti. La Semplicità è il miele prodotto dal
20 lavoro complicato dell’alveare, è il vino squisito che dietro di sé ha la fatica della
vigna. La Faciltà, invece, è una truffa che rischia di impoverire tragicamente i
nostri giorni. A farne le spese sono soprattutto i ragazzi più poveri e
sprovveduti, ma anche noi adulti furbi e smaliziati stiamo concedendo vasti
territori a questa acquerugiola che somiglia a un concime ed è un veleno.
25 La nostra cultura ormai scansa ogni sentore di fatica, ogni peso, ogni difficoltà:
abbiamo esaltato il trash, abbiamo accettato che le televisioni venissero invase
da gente che imbarcava applausi senza essere capace a fare nulla; abbiamo
accolto con entusiasmo ogni sbraitante analfabeta, ogni ridicolo chiacchierone,
ogni comico da quattro soldi, ogni patetica “Bonazza”. Così un poco ogni
30 giorno il piano si è inclinato verso il basso e noi ci siamo rotolati sopra
velocemente, allegramente, fino a non capire più nulla, fino all’infelicità. Tutto
è stato facile, e tutto continua a voler essere ancora più facile. Impara l’inglese
giocando, laureati in due anni senza sforzo, diventa anche tu ridendo e
scherzando un uomo ricco e famoso.
35 Spesso i miei alunni, ragazzi di quindici o sedici anni, mi dicono: “Io voglio fare
i soldi in fretta per comprarmi tante cose”, e io rispondo che non c’è niente di
82
male a voler diventare ricchi, ma che bisognerà pure guadagnarseli in qualche
modo questi soldi, se non si ha alle spalle una famiglia facoltosa: bisognerà
studiare, imparare un buon mestiere, darsi da fare. A questo punto loro mi
40 guardano stupiti, quasi addolorati, come se avessi detto la cosa più bizzarra del
mondo. Non considerano affatto inevitabile il rapporto tra denaro e fatica,
credono che il benessere possa arrivare da solo, come arriva la pioggia o la
domenica. Sembra che nessuno mai li abbia avvertiti delle difficoltà
dell’esistenza. Sembra che ignorino completamente quanto la vita è dura, che
45 tutto costa fatica, e che per ottenere un risultato anche minimo bisogna
impegnarsi a fondo. E per quanto io mi prodighi per spiegare loro che anche
per estrarre il succo dall’arancia bisogna spremerla forte, mi pare di non riuscire
a convincerli. Il mondo intero afferma il contrario, in televisione e sui manifesti
pubblicitari tutti ridono felici e abbronzati e nessuno è mai sudato.
50 Così si diventa idioti. E’ un processo inesorabile, matematico, terribile, ed è un
processo che coinvolge anche gli adulti, sia chiaro. La Facilità promette mari e
monti, e il livello mentale si abbassa ogni giorno di più, fino al balbettio e
all’impotenza. “Le cose non sono difficili a farsi, ma noi, mettere noi nello stato
di farle, questo sì è difficile”, scriveva ancora Brancusi. Mettere noi stessi nello
55 stato di poter affrontare la vita meglio che si può, di fare un mestiere per bene,
di costruire un tavolo o di scrivere un articolo senza compiere gravi errori,
questo è proprio difficile, ed è necessario prepararsi per anni, prepararsi sempre.
E se addirittura volessimo avanzare di un palmo nella conoscenza di noi stessi
e del mondo, trasformarci in esseri appena appena migliori, più consapevoli e
60 sereni, dovremmo ricordarci la fatica e la pena che ogni metamorfosi pretende,
come insegnano i miti classici, le vite degli uomini grandi, le parole e le posizioni
dei monaci orientali. Ma la Facilità ormai ha dissolto tante capacità intellettuali
e manuali, e si parla a vanvera perché così abbiamo sentito fare ogni sera, si
pensa e si vive a casaccio perché così fanno tutti.
65 Ben presto per i lavori più complessi dovremo affidarci alla gente venuta da
fuori, da lontano, alle persone che hanno conosciuto la sofferenza e hanno
coltivato una volontà di riscatto. Loro sanno che la Facilità è un imbroglio, lo
hanno imparato sulla loro pelle. Noi continueremo a sperare di diventare
calciatori e vallette, miliardari e attrici, indossatori e stilisti, e diventeremo solo
70 dei mentecatti.
83
ATTIVITÀ
1. Dopo aver letto l'articolo, abbina ognuna delle seguenti frasi alla sequenza
di significato equivalente:
a. Nella cultura italiana attuale c'è un modello che invita a evitare lo
sforzo.
b. La Facilità fa diventare stupidi.
c. Ho già scritto che i miei studenti non ragionano piú.
d. Solo io dico ai miei studenti che l'esistenza è difficile.
e. Perché gli italiani danno l'impressione di essere storditi,
intellettualmente pigri?
f. In futuro, noi italiani dipenderemo dagli immigranti.
g. La Facilità è opposta alla Semplicità.
2. Spiega (in spagnolo) in due frasi quali sono le differenze, secondo il testo,
tra facilità e semplicità.
TEMA:
IPOTESI:
84
premessa: argomenti:
CONCLUSIONE:
85
5. Cercate nel testo i referenti dei seguenti pronomi.
a. ne (r. 5)
b. la (r. 10)
c. mangiarci (r. 14)
d. li (r. 43)
e. questo (r. 57)
f. loro (r. 67)
86
19
87
nella sinistra, e muovendo agilmente il capo leccavano ora dall’uno
25 ora dall’altro.
Tale liturgia mi appariva così sontuosamente invidiabile che molte
volte avevo chiesto di poterla celebrare, invano. I miei genitori erano
inflessibili: un gelato da quattro soldi sì, ma due da due soldi
assolutamente no.
30 Come ognuno vede, né la matematica né l’economia né la dietetica
giustificavano questo rifiuto. E neppure l’igiene, posto che poi si
gettassero entrambe le estremità dei due coni.
Una pietosa giustificazione argomentava invero mendacemente, che
un fanciullo occupato a volgere lo sguardo da un gelato all’altro fosse
35 più incline a inciampare in sassi, gradini o abrasioni del selciato.
Oscuramente intuivo che ci fosse un’altra motivazione, crudelmente
pedagogica, della quale però non riuscivo a rendermi conto.
Ora, abitante e vittima di una civiltà dei consumi e dello sperpero
(quale quella degli anni trenta non era), capisco che quei cari ormai
40 scomparsi erano nel giusto. Due gelati da due soldi in luogo di uno da
quattro soldi non erano economicamente uno sperpero, ma lo erano
certo simbolicamente. Proprio per questo li desideravo: perché due
gelati suggerivano un eccesso.
E proprio per questo mi erano negati: perché apparivano indecenti,
45 insulto alla miseria, ostentazione di privilegio fittizio, millantata
agiatezza. Mangiavano i due gelati solo i bambini viziati, quelli che le
fiabe giustamente punivano, come Pinocchio quando disprezzava la
buccia e il torsolo. E i genitori che incoraggiavano questa debolezza
da piccoli ‘parvenus’, educavano i figli allo stolto teatro del ‘vorrei ma
50 non posso’, ovvero preparavano, diremmo oggi, a presentarsi al
‘check in’ della classe turistica con un falso Gucci acquistato da un
ambulante sulla spiaggia di Rimini.
L’apologo rischia di apparire privo di morale, in un mondo in cui la
civiltà dei consumi vuole ormai viziati anche gli adulti, e promette loro
55 sempre qualche cosa in più, dall’orologino accluso al fustino, al
ciondolo regalo per chi acquista la rivista.
Come i genitori di quei ghiottoni ambidestri che invidiavo, la civiltà dei
consumi finge di dare di più, ma in effetti dà per quattro soldi quello
che vale quattro soldi.
60 Butterete via la radiolina vecchia per acquistare quella che promette
anche l’autoreverse, ma alcune inspiegabili debolezze della struttura
interna fanno sì che la nuova radiolina duri solo un anno.
La nuova utilitaria avrà sedili in pelle, due specchietti laterali regolabili
dall’interno e il cruscotto in legno, ma resisterà molto meno della
65 gloriosa Cinquecento che, anche quando si rompeva, si rimetteva in
moto con un calcio.
88
Ma la morale di quei tempi ci voleva tutti spartani, e quella odierna ci
vuole tutti sibariti.
1. Identificate la riga in cui Umberto Eco passa dal racconto sul gelato che
riguarda la sua infanzia alla riflessione sul suo presente.
2. Spiegate il motivo del rifiuto della nonna, secondo quello che capisce
Eco da adulto.
→ Per approfondire, leggi il testo sul consumismo degli italiani nella seconda
sezione (pag. 136), contenente un tragico cenno all’Argentina.
89
20
1. Sai che cos’è l’Italian Sounding? E il Made in Italy? Parlane con i tuoi
compagni. Dopo leggi l’articolo e risolvi gli esercizi.
La forma più classica di Italian sounding consiste nella commercializzazione di prodotti non italiani
con l’utilizzo di nomi, parole, immagini che richiamano l’Italia, inducendo quindi ingannevolmente a
credere che si tratti di prodotti italiani. Si tratta di una forma di falso Made in Italy molto diffusa in
ambito internazionale nel settore agroalimentare, nel quale il nostro Paese può vantare, in modo
5 universalmente riconosciuto, una grande varietà di eccellenze.
Oggi occorre però non trascurare la diffusione, accanto a questa pratica totalmente illecita,
di una forma più raffinata di Italian sounding, legale, seppur, nei fatti, ingannevole. Un numero
sempre maggiore di aziende agroalimentari italiane vengono acquistate da gruppi ed imprese
straniere.
10 Se in passato era frequente la pratica di acquistare all’estero le materie prime per alimenti
poi trasformati e lavorati in Italia e venduti come Made in Italy, in questi anni si è invece diffusa in
misura crescente la tendenza a rilevare note aziende agroalimentari italiane.
In questo caso il nome non soltanto suona italiano, ma viene unanimemente associato
all’azienda che dal momento della sua nascita, per anni, ha messo sul mercato il prodotto. Il
15 fenomeno si è notevolmente intensificato nel nuovo Millennio e mostra ulteriori segni di crescita
negli ultimi tre anni. Quasi tutti i settori alimentari sono stati coinvolti, dalle bevande alcoliche ai
dolci, dai salumi ai latticini.
La prima consiste nello svuotare di sostanza il marchio del Made in Italy, poiché sono
25 sempre di più le realtà industriali, grandi e piccole, ormai italiane solo di nome. In molti casi il cambio
di gestione determina una perdita della qualità, come conseguenza della delocalizzazione produttiva
e della scelta di materie prime non locali. Piuttosto che la valorizzazione della diversità – che
rappresenta uno dei valori del Made in Italy autentico – si favorisce l’omologazione.
Questa particolare forma lecita di Italian sounding finisce anche per infrangere il patto di
30 fiducia con i consumatori, tradendone di fatto le aspettative. Solo una minoranza dei cittadini risulta
informata su questi cambiamenti di proprietà e gestione e questa asimmetria informativa tra
acquirenti e produttori alimentari nel medio-lungo periodo genera diffidenza.
90
Troppo spesso un marchio, noto e in alcuni casi fortemente connotato come italiano, cessa
di costituire una garanzia della provenienza e della qualità dei prodotti, con la conseguenza di creare
35 una più generale sfiducia dei consumatori nei confronti di tutto il Made in Italy.
Ciò accade proprio negli anni in cui tanta parte degli italiani sembra aver preso finalmente
coscienza del valore legato al marchio del Made in Italy e tende, conseguentemente, a privilegiare i
prodotti legati al territorio e i sapori locali. Se però anche dietro i marchi più noti della produzione
nazionale, percepiti come garanzia di qualità elevata e di sicurezza alimentare, si celano alimenti di
40 origine ormai interamente straniera, il consumatore non può non sentirsi sostanzialmente tradito,
quando non ingannato, pur in assenza di reato.
È un paradosso tutto italiano. Da un lato si mobilitano energie per diffondere anche nei cittadini
meno attenti la consapevolezza del valore aggiunto offerto dal marchio nazionale. E si utilizza il
Made in Italy come volano di un settore, quello alimentare, sempre più centrale in tempi di crisi.
45 Dall’altro lato una parte tanto consistente di quelle imprese che del Made in Italy stesso erano
rappresentative porta ormai bandiera straniera. Non si può trascurare il fatto che alcuni dei marchi
italiani assorbiti da aziende straniere hanno potuto beneficiare di un processo di efficace
riorganizzazione, rilancio e, in definitiva, rafforzamento finanziario. Alcune realtà che rischiavano la
chiusura sono riuscite a sopravvivere e, con un gruppo multinazionale forte alle spalle, a reggere il
50 confronto con il nuovo mercato globalizzato, grazie anche ad investimenti che da sole non avrebbero
potuto sostenere.
Esiste inoltre la possibilità che i gruppi stranieri proprietari di aziende agroalimentari un tempo
italiane si spingano ad un passaggio successivo: la chiusura degli stabilimenti italiani ed il
trasferimento dell’intera produzione all’estero, dove i costi sono più contenuti.
60 In questo caso si devono considerare i risvolti occupazionali del passaggio di proprietà, laddove
la produzione è stata spostata all’estero, per la perdita di posti di lavoro in un settore cardine qual
è quello dei prodotti alimentari fortemente connotati come italiani (si pensi all’olio, ai formaggi, ai
vini). E ci sono anche i danni ambientali derivanti dal venir meno degli investimenti per il
mantenimento del territorio.
65 Il Paese per eccellenza della buona tavola e del turismo enogastronomico, indissolubilmente
associato al piacere ed alla cura del cibo ed alla sana dieta mediterranea, rischia, paradossalmente,
di perdere una parte sempre più consistente del proprio patrimonio, dal celebrato olio d’oliva ai
formaggi, dai salumi ai vini. Perdendo quello che è, ancora oggi, un fortissimo segno di identità e
distinzione territoriale, ma anche uno dei pochi baluardi in tempi di crisi: non è un caso che le
70 multinazionali trovino ancora estremamente appetibile l’industria agroalimentare italiana – tuttora
forte nelle esportazioni – ed abbiano invece abbandonato altri settori industriali.
In questo meccanismo distruttivo basato sul classico Italian sounding e sulle sue forme più
raffinate e legali, ma anche sull’agropirateria nelle sue diverse declinazioni, l’Italia è al tempo stesso
vittima e colpevole. Il modello di sviluppo italiano si regge infatti troppo spesso su una debolezza
75 etica che determina una complicità tra imprenditori e lavoratori e, complici anche le difficoltà
finanziarie, crea una deriva di valore. Come i tanti casi di cronaca di questi anni testimoniano, nel
nostro Paese muoversi in un’area grigia è diventata prassi. Sono molte le aziende costrette, per
91
sopravvivere, ad adeguarsi a regole imposte dai grandi gruppi: produrre a costi bassissimi per
restare sul mercato, il che è possibile solo ricorrendo a materie prime scadenti, sacrificando quindi
80 la qualità.
Sono infatti le grandi aziende, come quelle che stanno acquisendo tante imprese agroalimentari
italiane, a determinare i prezzi sul mercato. I danni che ne derivano sono molteplici: la privazione
del marchio, l’abbassamento progressivo della qualità dei prodotti, l’imposizione di standard
produttivi bassi alle aziende locali, che dovrebbero essere custodi delle produzioni tipiche e si
85 trovano invece costrette a fare scelte che le mantengano competitive sul mercato.
Chi perde maggiormente in questo meccanismo sono da un lato i produttori locali, costretti ad
abbassare qualità e prezzi, impoverendosi, dall’altro lato, ovviamente, i consumatori, cui arrivano
prodotti sempre più scadenti.
Nella dinamica che si sta così affermando gli alimenti falsi e di bassa qualità non sono soltanto
90 quelli prodotti all’estero, ma anche quelli provenienti dalle aziende italiane.
In una cultura dominante dell’autofalsificazione, la volontà di investire davvero nel Made in Italy
e tutelarlo rimane minoritaria: non si comprende – o non si vuole comprendere – che la sfida di
mercato si vince con l’autenticità e con la qualità. Molti in Italia, al contrario, preferiscono le
scorciatoie.
Raffaella Saso
a. es necesario;
b. involucrados;
92
c. inversiones;
d. elección;
e. romper, quebrantar;
f. descuidar, desatender.
a. nel quale il nostro Paese può vantare, in modo universalmente riconosciuto, una
grande varietà di eccellenze. (r. 4-5)
b. di una forma più raffinata di Italian sounding, legale, seppur, nei fatti,
ingannevole. (r. 7-8 )
c. Piuttosto che la valorizzazione della diversità – che rappresenta uno
dei valori del Made in Italy autentico – si favorisce l’omologazione. (r.
27-28)
93
21
1. Lavora con un compagno o compagna. Conoscete Silvia Federici? Sapete
a quale corrente di pensiero aderisce? Leggete il testo e risolvete gli
esercizi.
CULTURA
Silvia Federici, Quello che Marx non ha visto
Paola Rudan
Che cosa motiva questo ripensamento di Marx, che oggi sembra più aspro
10 e polemico che in passato?
94
Capitale e poi della nascita di Marx. Bisogna celebrare, ma anche domandarsi dove è
necessario andare oltre.
15 La seconda motivazione è più profonda: mentre negli anni Settanta la critica a Marx
si concentrava sul fatto che non ha visto tutta l’area della riproduzione, quindi il
lavoro delle donne, con il passare del tempo ho compreso che questa sottovalutazione
è collegata anche a un limite più profondo del suo pensiero, la sopravvalutazione del
capitalismo in una visione storica progressista. Marx ci dice che il capitalismo gronda
20 sangue sporco, ma porta nel mondo una razionalità più alta. Questo è forse il peccato
originale a causa del quale Marx non pensa la riproduzione, perché è un’attività
irriducibile alla meccanizzazione, all’industrializzazione, soprattutto per quanto
riguarda il lavoro domestico, l’allevamento dei bambini, la sessualità, l’aspetto
emotivo. Il confronto allora non è più aspro, ma più profondo. A motivare questo tipo
25 di critica, infine, è la distruzione ambientale causata dalla tecnologia e specialmente
dal digitale. Se guardo a quello che succede in Congo, o in Niger, vedo la distruzione
e i massacri che si stanno verificando in gran parte dell’Africa e sono dovuti a
espropriazioni massicce e brutali funzionali alle compagnie minerarie e petrolifere.
Sono stata sempre polemica con l’idea che la lotta più efficace contro il capitalismo si
30 dà ai livelli più alti dello sviluppo tecnologico, e anche con gli accelerazionisti. Che
cosa acceleriamo? I massacri, lo spossessamento delle terre? Sviluppo oggi vuol dire
violenza, ma in mille luoghi si sta combattendo contro lo sviluppo capitalistico. Se
oggi Marx guardasse queste lotte le considererebbe arretrate?
Lei non pensa al salario solo come retribuzione del lavoro, ma come
35 rapporto sociale di dominio, che coinvolge anche chi non svolge un lavoro
salariato, come le casalinghe. Parlando delle esperienze contemporanee
di organizzazione autonoma comunitaria sembra però che valorizzi
politicamente proprio il carattere non retribuito del lavoro che si svolge
al loro interno, come una sorta di esteriorità al capitale.
40 Costruisco i miei discorsi a partire dalle esperienze di lotta. Il discorso sul salario per
il lavoro domestico nasceva in un contesto nel quale esistevano grandi movimenti di
donne, soprattutto nere, che già parlavano di lavoro domestico in altri termini.
Adesso, guardando a queste esperienze della post-globalizzazione, di milioni di
95
persone che sono state dislocate dalle loro terre, che non sono state integrate nel
45 lavoro salariato ma stanno costruendo qualcosa, allora il discorso si è articolato di
più. I due obiettivi fondamentali rimangono il rifiuto del lavoro non pagato e il
recupero della ricchezza sociale, che comunque vedo anche in esperimenti comunitari
come le villas miserias argentine. C’è un momento di riappropriazione della ricchezza
non solo per i terreni occupati, ma anche perché si crea un tessuto sociale più solidale
50 che ti permette di affrontare lo Stato in modo da ottenere dei beni materiali. Questa
non è un’alternativa al discorso del salario, ma è una maggiore articolazione.
È un discorso complicato. Noi femministe degli anni Settanta siamo state le prime a
55 contestare il discorso identitario, abbiamo detto che la femminilità è una cosa
costruita e da sempre la mia posizione fondamentale è che non c’è un significato
universale dell’essere donne. Che cosa vuol dire essere donne è sempre diverso ed è
una lotta continua per stabilire chi sei, chi non sei, che cosa vogliamo essere. Detto
questo, rimane anche vero – ed è qui che si possono generare degli equivoci – che
60 guardando all’esperienza che moltissime donne hanno vissuto in America Latina, per
esempio, risulta che siccome sono loro che per prime hanno a che fare con i bambini,
con le malattie, con il fare da mangiare, sono anche quelle in prima linea contro i
progetti estrattivi.
L’altro problema sul quale insiste è quello del razzismo. Fenomeno che si
70 riconfigura in un contesto globale segnato da movimenti di donne e
uomini senza precedenti, e contemporaneamente ridefinisce il lavoro
domestico e riproduttivo rispetto al passato.
Per me la lotta delle lavoratrici domestiche migranti è uno dei movimenti di donne
più importante di questi anni. Porta in sé tutte le rivendicazioni che riguardano sia il
96
75 discorso sulla riproduzione e la valorizzazione – loro dicono «senza di noi niente si
muove» – sia quello della colonialità e del razzismo. Con questo il movimento
femminista non si è ancora rapportato in modo reale e decisivo. Per migrare devi
sfondare mille porte, devi avere una comprensione dei rapporti internazionali, delle
polizie, delle leggi, delle norme sul lavoro, è quindi un movimento molto ricco di
80 conoscenze e di capacità di rottura.
Il tema della violenza ha subito una grande trasformazione, agli inizi si è concentrato
sulla violenza domestica, ma ora è messa al centro anche la sua dimensione pubblica.
L’iniziativa delle donne di Las Tesis in Cile, che dicono allo Stato «lo stupratore sei
100 tu» è il simbolo di questo cambiamento che riconosce la violenza non solo nelle case
ma anche quella istituzionale ed economica. Quando si svalorizza una moneta e da un
giorno all’altro migliaia di persone non hanno più niente, o si chiude un’azienda e la
gente è sul lastrico, o aumentano gli affitti e la gente dorme in strada, questa è
violenza.
97
105 Oggi il movimento vede come violenza lo stupro, il femminicidio, ma anche
l’esproprio dalle terre, l’imposizione della miniera, la gentrificazione che ti costringe
a vivere per strada, e ormai capisce che è un rapporto che si dà in forme diverse ma a
livello globale. È un momento molto importante, per cui se abbiamo i Bolsonaro e i
Trump, abbiamo anche una risposta. Anzi, forse i Trump e i Bolsonaro sono loro la
110 risposta: vedo anche la fascistizzazione come una risposta a un forte movimento dal
basso. Si rendono conto che il movimento delle donne sta trainando le lotte. Questo è
un momento terribile ma c’è anche una grossa agitazione dal basso. Credo che oggi la
gran parte del mondo sappia che il capitalismo è un sistema distruttivo, orrendo. Il
problema è come organizzarsi.
2. Segnate con una “x” l’opzione giusta. Indicate nel testo la risposta.
immediate e profonde.
a. Federici ripensa Marx perché ha delle
motivazioni celebrative e lavorative.
3. Scrivete una frase per ogni risposta di Silvia Federici, che riassuma il suo
pensiero.
98
5. Traducete le seguenti frasi.
a. Marx ci dice che il capitalismo gronda sangue sporco, ma porta nel mondo una
razionalità più alta. (r. 33 – 35)
b. risulta che siccome sono loro che per prime hanno a che fare con i bambini, con le
malattie, con il fare da mangiare, sono anche quelle in prima linea contro i progetti
estrattivi. (r. 61-63)
→ Per approfondire, leggi il testo sulla storia del femminismo italiano nella
seconda sezione, pag. 139.
99
22
Lavora con un gruppo di compagni. Leggete il titolo dell’articolo e
commentatelo. In quale data è stato scritto? Da chi? In quale sede? Osservate
la nota e verificate le vostre ipotesi.
III. 1 - PREMESSA
100
«correttezza» della lingua, vista come una specie di cosa sacra, intoccabile. In realtà noi
30 siamo tanto attivi quanto passivi nei confronti della lingua. Il processo di classificazione
linguistica è dinamico perché la lingua ci offre sia le forme già codificate sia una serie di
operazioni che ci permettono di classificare nuovi contenuti o di riclassificare la nostra
realtà.
Vi sono stati cambiamenti di tipo ideologico per parole riferite a classi e razze
35 discriminate. Così sono scomparsi dalla lingua ufficiale e dalla nostra lingua quotidiana
termini quali «facchino», «spazzino», «mondezzaro», «becchino», evidentemente
«serva/o» ma anche «donna di servizio», ecc., sostituiti da «portabagagli», «netturbino»,
«operatore ecologico» «operatore cimiteriale» (2) e «colf». Per quanto riguarda le razze,
dopo l’olocausto, il termine «giudeo» fu tabuato e sostituito in un primo tempo solo da
40 «israelita» ed ora anche da «ebreo», l’uso di «nero» (black) per «negro» tabuato negli
Stati Uniti, è entrato anche in Italia, nonostante le precedenti connotazioni politiche.
Molti di questi cambiamenti non si possono definire «spontanei», ma sono
chiaramente frutto di una precisa azione socio-politica. Essi dimostrano l’importanza che
la parola/segno ha rispetto alla realtà sociale ed il fatto che siano stati assimilati significa
45 che il problema è veramente diventato «senso comune» o che, per lo meno, la gente ormai
si vergogna al solo pensiero di poter essere tacciata di «classista» o «razzista». Quando
ci si vergognerà altrettanto di essere considerati «sessisti» molti cambiamenti qui
auspicati diverranno realtà «normale».
All’estero interventi sul sessismo linguistico sono iniziati da circa vent’anni. Negli
50 Stati Uniti, oltre all’ampia diffusione di nuove forme non sessiste (ad esempio
l’appellativo unificato di Ms al posto dei due Miss e Mrs. davanti a nomi di donna, la
frequente specificazione di: he and she al posto del pronome generico he, ecc.) vi sono
stati interventi anche a livello istituzionale: il Department of Labor ha ufficialmente
modificato una lunga lista di vocaboli riferiti ad occupazioni per eliminare l’ambiguo
55 «man» («mailperson», ad es. invece di «mailman»), modifiche incorporate nell’edizione
del 1977 del Dictionary of Occupational Titles.
Raccomandazioni su un uso non sessista della lingua sono state redatte da
associazioni culturali, organismi religiosi, giuridici, ecc. Quasi tutte le case editrici e gli
organi di stampa sono forniti di «guidelines» per evitare qualunque forma discriminatoria
60 per razza e per sesso. (3).
Anche in molti paesi europei, soprattutto nell’ambito della CEE ed extraeuropei
(Canada, Australia, ecc.) si sta conducendo un’operazione analoga. La linea di intervento
istituzionale è soprattutto verso la «femminilizzazione» dei nomi di professione. In
Francia ad esempio, è stata ufficialmente costituita una Commissione per la Terminologia
65 ad hoc (le cui proposte sono in via di attuazione).
Gli interventi compiuti in questi paesi hanno messo in evidenza il problema ed
hanno decisamente inciso sulla lingua di ogni giorno almeno in alcuni casi.
Ci si rende conto di quanto sia difficile il passaggio concreto dalla forma abituale
a quella nuova. Tra le obiezioni più comunemente avanzate alla forma nuova c’è quella
70 che l’alternativa nuova «è brutta», «suona male» e ciò anche quando la parola alternativa
risulta del tutto accettabile all’orecchio e non fa alcuna violenza alla lingua. Secondo
101
Bruno Migliorini «un termine nuovo è spesso giudicato brutto solo in quanto è nuovo,
cioè urta contro la purezza, la continuità e la tradizione...». Ma in molti casi è proprio la
mancanza del termine nuovo a causare scorrettezza e dissonanze nella lingua, ad esempio
75 quando si devono accordare aggettivi o participi passati titoli al maschile riferiti a donne.
Altro argomento contrario alla proposta di riforma linguistica è che la questione è
di poca rilevanza, che vi sono cose molto più importanti per cui lottare, e per le quali
quindi si devono serbare le energie. Anzitutto c’è alla base di questo argomento un
concetto errato delle energie, che parte da un principio di «scarsezza»: al contrario energie
80 producono energie, se non si perde di vista la globalità della questione. In questo caso
particolarmente la concatenazione tra presa di coscienza linguistica e coscienza sociale e
politica è molto stretta: non si può fare un’analisi della lingua, in questo senso, senza
partire da una consapevolezza femminista; viceversa, questa stessa coscienza viene
approfondita e ampliata dall’analisi della lingua e si concretizza attraverso il
85 cambiamento linguistico.
Vi è poi l’obiezione di coloro che considerano qualsiasi proposta di cambiamento
linguistico come un attentato alla libertà di parola. Il problema è che sono stati i regimi
rivoluzionari/autoritari a «imporre» cambiamenti nel linguaggio – ciò spiegherebbe la
reazione viscerale contro la proposta di cambiamento. Non si vuole capire però la
90 differenza enorme che c’è tra l’«imporre» una parola dall’alto ed il «proporre»,
«suggerire» alternative, «stimolando» la creatività individuale a trovare altre soluzioni,
con lo scopo non di «limitare» e «prescrivere» il proprio modo di parlare e di scrivere,
ma al contrario di liberarsi dagli schemi che la lingua stessa e l’abitudine ci «impongono».
La lingua in sé è ideologica, ma le sue ideologie sono generalmente nascoste e passano
95 in modo subliminare. Evidentemente le forme alternative qui suggerite hanno anch’esse
una base ideologica, ma si tratta di una «ideologia» scoperta o dichiarata: è l’ideologia di
una parità non solo di diritti, ma anche di valori tra i due sessi: sarebbe anzi esatto parlare
non tanto di ideologia quanto di un’ottica diversa, un’ottica che, partendo dalla donna,
mette in luce i lati lasciati finora in ombra dalla tradizionale ottica patriarcale.
100 Per «parità» non si intende «adeguamento» alla norma «uomo», bensì reale
possibilità di pieno sviluppo e realizzazione per tutti gli esseri umani nelle loro diversità.
Molte persone sono convinte di ciò, eppure si continua a dire che «la donna deve essere
pari all’uomo» e mai che «l’uomo deve essere pari alla donna» e nemmeno che «la donna
e l’uomo (o l’uomo e la donna) devono essere pari»: strano concetto di parità questo in
105 cui il parametro è sempre l’uomo.
Pur rendendoci conto che la lingua non può essere cambiata con un puro atto di
volontà, ma pienamente consapevoli che i mutamenti sociali stanno premendo sulla nostra
lingua influenzandola in modo confuso e contraddittorio, riteniamo nostro dovere
intervenire in questo particolare momento per dare indicazioni affinché i cambiamenti
110 linguistici possibili registrino correttamente i mutamenti sociali e si orientino di fatto a
favore della donna.
Riteniamo che, una volta individuato il problema, si possa – senza forzature e con
gli opportuni accorgimenti – evitare di riprodurre nella lingua il pensiero sessista e
formare nuove abitudini linguistiche. Per quanto riguarda il problema complesso e di
115 difficile soluzione, dell’uso del maschile non marcato, si potranno spesso trovare delle
102
soluzioni accettabili caso per caso, facendo uno sforzo particolare per pensare
specificamente e deliberatamente anche alle donne quando parliamo della specie umana
o di categorie e gruppi in cui esse sono comprese. Il solito «s’intende che è compresa…»
è una tattica comoda per eludere il problema: in realtà, la donna non è compresa ma tenuta
120 nell’implicito: il che è molto diverso.
Il campo in cui i cambiamenti sono particolarmente importanti, sia per il valore
emblematico, sia per le conseguenze pratiche (soprattutto nella sfera del lavoro, come da
ricerca sulle Offerte di lavoro, pagg. 91-98) è quello dei nomi di professione, mestiere,
cariche e titoli.
125 In questi casi vi è una maggiore probabilità che le forme nuove siano adottate,
perché vengono spesso a colmare una lacuna e a chiarire un dubbio. In questo momento
di incertezza linguistica, nell’interesse della parità tra i due sessi così come della chiarezza
e correttezza della lingua stessa, prima che ci si assesti su forme pregiudizievoli alla
donna, si deve prendere una posizione, scegliendo forme femminili accettabili e di pari
130 valore linguistico alle corrispondenti forme maschili. Non si vuole infatti azzerare la
differenza tra donna e uomo, al contrario si mira a rivalutare la forma femminile, evitando
però qualsiasi tipo di priorità e di gerarchia linguistica (derivazione del maschile, ecc.).
La maggior parte delle forme alternative qui proposte, peraltro, esistono nella
lingua italiana; si tratta quindi solo di optare per una variante anziché per un’altra. In
135 pochi altri casi la forma suggerita è un neologismo (quasi sempre una desinenza finora
non usata, ma implicitamente esistente nelle possibilità trasformative dell’italiano). I
neologismi sono stati coniati sulla base di una accurata e puntuale analisi sincronica e
diacronica della lingua e sono generalmente confortati da autorevoli linguiste/i autori/trici
di grammatiche e dizionari.
140 Le raccomandazioni che qui proponiamo si riferiscono quasi unicamente alle
dissimmetrie grammaticali. Per quanto riguarda il campo semantico (l’uso del lessico,
delle immagini, dei registri, ecc.), dove la lingua, al di là degli automatismi e
condizionamenti, lascia più spazio alla creatività individuale, non si può evidentemente
«raccomandare» una forma anziché un’altra; chi scrive e chi parla può però prendere
145 coscienza di ciò che le parole possono fare, in particolare di ciò che hanno fatto e fanno
alle donne, di come possono emarginarle, ridurle, ridicolizzarle. Se si vuole quindi avere
e dare un’immagine delle donne come persone a tutto tondo, come individui con
potenziale non stereotipicamente delimitato, si dovrà scegliere e saggiare parole e
immagini, ascoltarne le risonanze e coglierne le associazioni e, soprattutto (1954) –
150 riprendendo il consiglio di Orwell, - scegliere «le parole per il significato e non il
significato per le parole», senza mai «arrendersi» alle parole stesse.
103
(1) Inoltre l’importanza dei valori contestuali emerge soprattutto nei casi di ambiguità
semantica come, ad esempio, per le parole: uomo, uomini e, in generale, per i
maschili non marcati. Infatti, ove dal contesto non risulti con chiarezza il valore
marcato o non marcato di detti termini, sarà indispensabile esplicitarlo.
(2) Questi due termini risultano, insieme ad altri analoghi, nel linguaggio ufficiale
dell’amministrazione comunale di Roma.
(3) Per una lista selezionata di «Guidelines for Non-Sexist Usage» v. Frank and
Anshen (1963).
104
a. han desaparecido;
b. etiquetada;
c. luchar;
d. presionando;
e. cancelar, anular;
f. sostenidos; sustentados.
a. quelle (r. 2)
b. loro (r. 101)
c. quello (r. 123)
d. coglierne (r. 149)
105
23
Prima di leggere il testo, lavora con un gruppo. Osservate la foto: riconoscete il
film? Conoscete gli attori? Avete visto altri film della commedia all’italiana?
Se qualcuno di voi conosce questo movimento, leggete le domande (in neretto)
e provate a risponderle.
Verificate le vostre conoscenze leggendo l’intero testo; risolvete infine le attività
proposte dopo il testo.
Cosa si intende per «commedia all’italiana» di cui Mario Monicelli scomparso ieri è stato uno dei
5 massimi esponenti?
«Commedia all'italiana» è il termine con cui viene indicato un fortunatissimo filone cinematografico nato
in Italia negli Anni 50. L'espressione è stata inventata parafrasando il titolo di uno dei primi successi del
genere, «Divorzio all'italiana» di Pietro Germi. Più che un vero e proprio «genere», però, con «commedia
all’italiana» si indica un felice periodo creativo in cui in Italia vengono prodotte commedie brillanti, ma
10 con contenuti profondi e attuali: alle situazioni comiche e agli intrecci tipici della commedia tradizionale,
si affianca infatti sempre, con ironia, una pungente satira di costume, che riflette l'evoluzione della società
italiana di quegli anni.
106
15 Negli anni di maggior successo di questo tipo di film l'Italia vive il boom economico e un mutamento
radicale della mentalità e dei costumii, la nascita di un nuovo rapporto con il potere e con la fede, la ricerca
di nuove forme di emancipazione economica e sociale, nel lavoro, nella famiglia, nel matrimonio. Di tutti
questi fermenti e contraddizioni sono testimoni ironici e divertiti i maggiori talenti dell’epoca.
I padri del genere sono Pietro Germi, Nanni Loy e Mario Monicelli, ma anche Luigi Comencini, , Vittorio
De Sica, Lina Wertmüller, Ettore Scola, Luigi Zampa, Luigi Magni, Dino Risi, Camillo Mastrocinque,
Luciano Salce, Sergio Corbucci. Fondamentale l’apporto degli sceneggiatori, che regalarono dialoghi
indimenticabili ai personaggi: veri giganti in questo senso furono Steno (Stefano Vanzina), Age e Scarpelli,
25 Rodolfo Sonego e Suso Cecchi D'Amico.
E gli attori?
Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman e Nino Manfredi sono i più simbolici, ma molti altri si
devono aggiungere a questi: Marcello Mastroianni, Sofia Loren, Claudia Cardinale, Vittorio De Sica,
30 Raimondo Vianello, Gino Cervi, Walter Chiari, Aroldo Tieri, Franca Valeri, Stefania Sandrelli, Gastone
Moschin, Silvana Mangano, Carla Gravina, Adolfo Celi. Tra le donne, insuperabile «commediante» resta
Monica Vitti.
35 Se si volesse individuare un manifesto del genere, probabilmente ci si potrebbe riferire a tre film su tutti,
ossia «I mostri» di Dino Risi (dove troviamo riuniti Gassman e Tognazzi che nell'arco dei vari episodi del
film si trasformano in una serie di personaggi grotteschi), «Il medico della mutua» di Luigi Zampa dove
Sordi regna sovrano, e «I soliti ignoti» di Monicelli, dove Gassman è affiancato da Mastroianni, Totò, e da
una carrellata di eccezionali caratteristi. Proprio questo film, girato nel 1958, è considerato da molti critici,
40 per ambientazione, tematiche, tipologia dei personaggi e impostazioni estetiche, il punto di inizio della vera
e propria Commedia all'italiana.
E’ stata una creazione di Cinecittà e anche per questo inizialmente i film erano ambientati spesso a Roma,
45 con attori romani o romani d'adozione: Gassman, nato a Genova, Tognazzi, cremonese, o i ciociari
Mastroianni e Manfredi, tutti si trasferirono nella capitale. Era il periodo della Dolce Vita e dei caffè di Via
Veneto frequentati da artisti, attori, avventurieri e paparazzi.
Il genere inizia a declinare attorno alla metà degli Anni Settanta, per esaurirsi all'inizio degli Ottanta,
50 complice la scomparsa di alcuni dei suoi protagonisti più carismatici (è il caso ad esempio di Vittorio De
Sica, Totò, Peppino De Filippo, Pietro Germi), ma anche il cambiamento dell’atmosfera dell'Italia del
tempo. Il progressivo inasprimento dello scontro sociale e politico negli Anni Settanta, con l'irruzione del
terrorismo, della crisi economica, e di un diffuso senso di insicurezza, finì infatti per spegnere quella spinta
al sorriso ironico che era stata la caratteristica dominante della Commedia all'italiana degli anni migliori,
55 sostituita poco alla volta da una visione sempre più cruda e drammatica della realtà. Nel 1975, Mario
Monicelli, con il suo «Amici miei», imprime in tal senso una svolta fondamentale alla commedia:
scompaiono definitivamente il lieto fine e il finale leggero, i personaggi rimangono comici ma diventano
amari e patetici, in una atmosfera di generale amarezza e disincanto. Si può insomma dire che Monicelli
segna l’inizio (con «I soliti ignoti») e la fine (con «Amici miei») della commedia all’italiana.
107
final feliz agotarse cada vez más
108
24
TOTÒ
Le sue gag hanno fatto ridere generazioni di italiani, prima al cinema, poi in televisione.
Ma nonostante l’immenso successo popolare, il grande Totò è sempre stato vittima
dell’incomprensione della critica, che mai come in questo caso unico del cinema italiano
ha peccato di miopia. Un abbaglio cui è stato posto rimedio solo negli anni ’70, dopo la
5 morte del comico napoletano, grazie allo sdoganamento ad opera del critico Goffredo
Fofi che ne ha messo in evidenza la grandezza.
Figlio illegittimo del principe Giuseppe De Curtis e della giovane Anna Clemente, Totò
nasce a Napoli, il 15 febbraio del 1898. Registrato all'anagrafe con il cognome materno,
Totò verrà riconosciuto come figlio dal principe soltanto nel 1941. Solo nel 1946, un anno
10 dopo la morte del Principe De Curtis, il Tribunale di Napoli autorizza Totò a fregiarsi del
nome e del titolo di Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Commeno Porfirogenito
Gagliardi De Curtis di Bisanzio, Altezza Imperiale, Conte Palatino, Cavaliere del Sacro
Romano Impero.
Dopo aver frequentato le scuole elementari, Totò, come lo chiamava la madre, si iscrive
15 al collegio dove un suo precettore, tirando di boxe, gli causa la deviazione del setto nasale
che è diventato il suo tratto fisico caratteristico. Esordisce nei teatri della periferia con
piccole compagnie che si rifanno alla commedia dell’arte napoletana. Lavora poi come
mimo e macchiettista ottenendo un grande successo negli anni ’20. Già allora, il suo
personaggio che replicherà all’infinito, con le dovute varianti, è maturo: la bombetta in
20 testa, il tight largo, la mimica facciale, sono i tratti inconfondibili della sua maschera.
Mentre l’attività teatrale va a gonfie vele (ha lavorato spesso insieme ad Anna Magnani),
gli esordi al cinema sono duri. I primi successi arrivano alla fine degli anni ’40 con remake
parodistici di grandi classici del cinema, spesso stranieri, come Fifa e arena (1948)
e Totò le Mokò. Poi arriva il sodalizio professionale con Peppino de Filippo, insieme al
25 quale forma un assortimento perfetto. Sono i tempi di Totò, Peppino e la
malafemmina (1956), Signori si nasce (1960) o ancora Totò, Peppino e la dolce
vita (1961). Nel 1966, con l’incontro con Pier Paolo Pasolini, si apre una nuova fase. Il
109
regista friulano propone un Totò in versione comica ma al tempo ne esalta la vena tragica
e poetica, come in Uccellacci e uccellini o nell’episodio del film Capriccio all’italiana
30 (1967), ultima prova, dopo oltre cento film, prima della morte, avvenuta il 15 aprile del
1967 a Roma, nella sua casa ai Parioli.
֍ Per approfondire, vedi la famosa scena di Totò sulla scrittura della lettera:
https://www.youtube.com/watch?v=SzrEfkjdzgw
110
25
1. Dividete la classe in tre gruppi. Ogni gruppo legge un brano di quelli che
seguono, tratti dai ricordi autobiografici di Marcello Mastroianni.
2. Scrivete un riassunto di due o tre frasi sul vostro brano, e condividetelo
con la classe.
3. Scegliete due frasi da tradurre, e passatelo al gruppo che avete alla vostra
sinistra. Traducete quindi le frasi proposte dai vostri compagni, facendo
attenzione non solo al loro senso letterale ma anche allo stile e al loro grado
di formalitá, e passate le traduzioni al gruppo sempre a sinistra. Ogni
gruppo dovrebbe cosí scegliere delle frasi, tradurre delle altre e correggere
altre ancora. Discutete le opzioni traduttive con tutta la classe.
4. Infine, cercate di ricordare il significato di “mammone”, visto in un testo
della dispensa per il livello elementare. Potete definire questa parola?
A volte mi si chiede la differenza tra il teatro e il cinema. Qui bisognerebbe fare dei lunghi
discorsi, interpellare i teorici, i «fissati». Certo, la differenza c’è: nel senso che il teatro chiede
una disciplina - una «religiosità», arriverei a dire - che nel cinema non esiste.
Il teatro è un tempio, un tempio dove non entra mai il sole. Si lavora sempre con poca luce,
5 nel silenzio più assoluto; il testo va rispettato nelle sue virgole, va approfondito, perché
tutto è nella parola. Però c’è un’aria di famiglia che mi piace, quando la sera il teatro finisce
e tutti vanno a casa, mentre questo piccolo gruppo d’attori, se tra loro c’è armonia, va alla
ricerca della trattoria che rimane aperta solo per gli attori: e lì si commenta la serata, le
papere prese, gli errori fatti, si ride, si scherza. Si sta molto bene, ecco.
10 Peccato però che il teatro inizi la sera alle nove: perché fino a quell’ora non si sa che fare,
soprattutto quando si è in tournée, quando uno non ha amici, agganci, relazioni. E allora la
giornata è molto lunga. Molti vanno al cinema; io al cinema non ci vado mai, quindi finisce
che passo molte ore chiuso in albergo e alle sette già sono in teatro. Così, tanto per
ammazzare un po’ il tempo.
15 Il cinema invece è un’altra cosa. Non parlo di «stile» di recitazione, dove pure qualcosa
cambia: nel cinema è l’occhio che ha grande importanza, il primo piano; mentre nel teatro
è la voce. Quindi l’attore deve tenerne conto.
111
Non recita con tutto il corpo, al cinema; a teatro sì. Nel cinema si è sempre tagliati più o
meno qui, sopra l’ombelico - e questo a me dispiace, perché il corpo ha una sua funzione
20 precisa, esprime l’atteggiamento di un personaggio, esprime anche uno stato d’animo.
Però confesso che forse al teatro preferisco il cinema: sì, proprio per la sua stravaganza,
per le sue approssimazioni e improvvisazioni, per la confusione, per le cose «prese per i
capelli», per questa specie di microcosmo in cui tutto si mescola... C’è di tutto nel cinema!
Da quello uscito dalla galera fino al poeta: perché il cinema non chiede referenze, non
25 chiede mai niente a nessuno; vanno tutti bene, in quel calderone. E questo è un aspetto
abbastanza magico del cinematografo. E come andare al campeggio. Si arriva in un posto,
c’è chi monta la tenda, chi accende il fuoco, chi va a cercare da mangiare. E poi... Pronti!
Si gira!
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Io la capisco se non ti chiamano a lavorare, se si sono dimenticati di te: e allora certo che
c’è la sofferenza; se hai debiti da pagare e non hai lavoro, questa è sofferenza - non recitare.
Commozione
Non vorrei apparire «mammone». Ogni volta che si parla della propria madre si rischia di
apparire così. Ma d’altra parte c’è un personaggio più importante della madre? Alle volte,
ricevendo qualche premio, mi è accaduto che il pensiero andasse a lei. E ho immaginato se
fosse stata lì presente: il suo sorriso discreto, lo sforzo per trattenere la commozione suggerita
5 dall’orgoglio che stavano premiando suo figlio. Sì, tutto questo può apparire banale, ma non
lo è.
Parecchi anni fa fu istituito un premio europeo, una sorta di Oscar europeo chiamato «Felix»:
una orrenda statuetta, mostruosa. La prima sede dove questo premio venne assegnato fu
Berlino. Io fui premiato insieme a Ingmar Bergman e un famoso attore tedesco di cui non
10 ricordo il nome. Per quella idea della Germania sempre legata ai ricordi di guerra, arrivando
in questo teatro berlinese, non mi aspettavo di vedere una platea di signore e di signori tutti
in abito da sera. Al mio ingresso, si alzarono tutti in piedi.
In quel momento il pensiero ritornò a mia madre: «Poverina», mi dissi. «Se adesso mi vedesse
qui, ricevere un premio a Berlino! » Devo confessare che l’occhio mi si fece lucido. E la
15 televisione - zoom! - mi beccò. Provai molto imbarazzo. Sempre per il solito principio che
facendo il mio mestiere non ci si può commuovere.
֍ Per approfondire, vedi l’incontro di Marcello Mastroianni con gli studenti di recitazione:
https://www.youtube.com/watch?v=NIEPPAvZqF4
113
26
Umberto Eco, De Bibliotheca
[…] Ho fatto una breve ispezione nelle sole biblioteche a cui avevo accesso, perché sono aperte anche
nelle ore notturne, quella di Assurbanipal a Ninive, quella di Policrate a Samo, quella di Pisistrato ad Atene,
quella di Alessandria che faceva già nel III secolo 400.000 volumi e poi nel I secolo, con quella del Serapeo,
faceva 700.000 volumi, poi quella di Pergamo e quella Augusto (al tempo di Costantino c'erano 28
5 biblioteche a Roma). Poi ho una certa dimestichezza con alcune biblioteche benedettine, e ho cominciato
a chiedermi quale sia la funzione di una biblioteca. Forse all'inizio, ai tempi di Assurbanipal o di Policrate
era quella di raccogliere, per non lasciare in giro rotoli o volumi. In seguito credo abbia avuto la funzione
di tesaurizzare: costavano, i rotoli. Quindi, in epoca benedettina, trascrivere: la biblioteca quasi come zona
di passo, il libro arriva, viene trascritto, l'originale o la copia ripartono. Credo che in qualche epoca, forse
10 già tra Augusto e Costantino, la funzione di una biblioteca fosse anche quella di far leggere, e quindi, più
o meno, di attenersi al deliberato dell'Unesco che ho visto nel volume arrivatomi oggi, in cui si dice che
uno dei fini della biblioteca è di permettere al pubblico di leggere i libri. Ma in seguito credo siano nate
delle biblioteche la cui funzione era quella di non far leggere, di nascondere, di celare il libro.
Naturalmente, queste biblioteche erano anche fatte per permettere di ritrovare. Noi siamo sempre stupiti
15 dall'abilità degli umanisti del Quattrocento che ritrovano i manoscritti perduti. Dove li ritrovano? Li
trovano in biblioteca. In biblioteche che in parte servivano per nascondere, ma servivano anche per fare
ritrovare.
Di fronte a questa pluralità di fini di una biblioteca mi permetto adesso di elaborare un modello negativo,
in 2l punti di cattiva biblioteca. Naturalmente è un modello fittizio tanto come quello della biblioteca
20 poligonale. Ma come in tutti i modelli fittizi che, come tutte le caricature, nascono dalla aggiunzione di
cervici equine su corpi umani con code di sirene e squame di serpente, credo che ciascuno di noi possa
ritrovare in questo modello negativo i ricordi lontani di proprie avventure nelle più sperdute biblioteche
e del nostro Paese e di altri Paesi. Una buona biblioteca, nel senso di una cattiva biblioteca (e cioè di un
buon esempio del modello negativo che cerco di realizzare), dev'essere anzitutto un immenso cauchemar,
25 deve essere totalmente incubatica e, in questo senso, la descrizione di Borges già va bene.
A) I cataloghi devono essere divisi al massimo: deve essere posta molta cura nel dividere il catalogo dei
libri da quello delle riviste, e questi da quello per soggetti, nonché i libri di acquisizione recente dai libri di
acquisizione più antica. Possibilmente l'ortografia, nei due cataloghi (acquisizioni recenti ed antiche) deve
essere diversa; per esempio nelle acquisizioni recenti retorica va con un t, in quella antica con due t;
30 Chajkovskij nelle acquisizioni recenti col Ch, mentre nelle acquisizioni antiche alla francese, col Tsch.
B) I soggetti devono essere decisi dal bibliotecario. I libri non devono portare, come hanno preso una
pessima abitudine ora i volumi americani, nel colophon un'indicazione circa i soggetti sotto cui debbono
essere elencati.
C) Le sigle devono essere intrascrivibili, possibilmente molte, in modo che chiunque riempia la scheda non
35 abbia mai posto per mettere l'ultima denominazione e la ritenga irrilevante, in modo che poi l'inserviente
gliela possa restituire perché sia ricompilata.
F) I libri consegnati dall'inserviente perché richiesti su scheda non possono essere portati in sala
40 consultazione, cioè bisogna dividere la propria vita in due aspetti fondamentali, uno per la lettura e l'altro
per la consultazione, cioè la biblioteca deve scoraggiare la lettura incrociata di più libri perché provoca
strabismo.
114
G) Deve esserci possibilmente assenza totale di macchine fotocopiatrici; comunque, se ne esiste una,
l'accesso dev'essere molto lungo e faticoso, la spesa superiore a quella della cartolibreria, i limiti di
45 copiatura ridotti a non più di due o tre pagine.
I) Quasi tutto il personale deve essere affetto da limitazioni fisiche. Io sto toccando un punto molto
delicato, su cui non voglio fare nessuna ironia. È compito della società dare possibilità e sbocchi a tutti i
50 cittadini, anche quelli che non sono nel pieno dell'età o nel pieno delle loro condizioni fisiche. Però la
società ammette che, per esempio, nei vigili del fuoco occorra operare una particolare selezione. Ci sono
delle biblioteche di campus americani dove la massima attenzione è rivolta ai frequentatori handicappati:
piani inclinati, toilette specializzate, tanto da rendere perigliosa la vita agli altri, che scivolano sui piani
inclinati.
55 Tuttavia certi lavori all'interno della biblioteca richiedono forza e destrezza: inerpicarsi, sopportare grandi
pesi eccetera, mentre esistono altri tipi di lavoro che possono essere proposti a tutti i cittadini che
vogliono sviluppare un'attività lavorativa, malgrado limitazioni dovute all'età o ad altri fatti. Quindi sto
ponendo il problema del personale di biblioteca come qualcosa molto più affine al corpo dei vigili del
fuoco che al corpo degli impiegati di una banca, e questo è molto importante, come vedremo dopo.
N) Il prestito interbibliotecario impossibile, in ogni caso deve prender mesi, in ogni caso deve esistere
l'impossibilità di conoscere cosa ci sia nelle altre biblioteche.
65 P) Gli orari devono assolutamente coincidere con quelli di lavoro, discussi preventivamente coi sindacati:
chiusura assoluta di sabato, di domenica, la sera e alle ore dei pasti. Il maggior nemico della biblioteca è
lo studente lavoratore; il migliore amico è Don Ferrante, qualcuno che ha una biblioteca in proprio, quindi
che non ha bisogno di venire in biblioteca e quando muore la lascia in eredità.
Q) Non deve essere possibile rifocillarsi all'interno della biblioteca in nessun modo, e in ogni caso non
70 dev'essere possibile neanche rifocillarsi all'esterno della biblioteca senza prima aver depositato tutti i libri
che si avevano in consegna, in modo da doverli poi richiedere dopo che si è preso il caffè.
S) Non deve esser possibile sapere chi ha in prestito il libro che manca.
75 E poi, ho messo un requisito Z): idealmente l'utente non dovrebbe poter entrare in biblioteca; ammesso
che ci entri, usufruendo in modo puntiglioso e antipatico di un diritto che gli è stato concesso in base ai
principi dell'89, ma che però non è stato ancora assimilato dalla sensibilità collettiva, in ogni caso non
deve, e non dovrà mai, tranne che i rapidi attraversamenti della sala di consultazione, entrare nei penetrali
degli scaffali.
80 Esistono ancora biblioteche del genere? Questo lo lascio decidere a voi, anche perché devo confessare
che, ossessionato da tenerissimi ricordi (la tesi di laurea alla Biblioteca Nazionale di Roma, quando esisteva
ancora, con lampade verdi sul tavolo, o pomeriggi di grande tensione erotica alla Sainte Geneviève o alla
Biblioteca della Sorbona) accompagnato da questi dolci ricordi della mia adolescenza, in età adulta
frequento abbastanza poco le biblioteche, ma non per ragioni polemiche, ma perché quando sono
85 all'Università il lavoro è troppo intenso, e in sede di seminario si chiede allo studente di andare a cercare
il libro e fotocopiarlo; quando sono a Milano, e ci sono pochissimo, vengo solo alla Sormani perché c'è lo
115
schedario unificato; e poi frequento molto le biblioteche all'estero, perché quando sono all'estero faccio
il mestiere di essere una persona all'estero, quindi ho più tempo libero, ho le sere libere e di sera in molti
Paesi si può andare in biblioteca.
90 […]
E poi il problema finale; bisogna scegliere se si vuole proteggere i libri o farli leggere. Non dico
che bisogna scegliere di farli leggere senza proteggerli, ma non bisogna neanche scegliere di proteggerli
senza farli leggere. E non dico neanche che bisogna trovare una via di mezzo. Bisogna che uno dei due
ideali prevalga, poi si cercherà di fare i conti con la realtà per difendere l'ideale secondario. Se l'ideale è
95 far leggere il libro, bisogna cercare di proteggerlo il più possibile, ma sapendo i rischi che si corrono. Se
l'ideale è proteggerlo, si dovrà cercare di lasciarlo leggere, ma sapendo i rischi che si corrono. In questo
senso il problema di una biblioteca non è diverso da quello di una libreria. Ci sono ormai due tipi di librerie.
Quelle molto serie, ancora con scaffali in legno, dove appena entrati si è avvicinati da un signore che dice:
“Cosa desidera?”, dopo di che ci si intimidisce e si esce: in queste librerie si rubano pochi libri. Ma se ne
100 acquistano meno. Poi ci sono le librerie a supermarket, con scaffalatura di plastica, dove, specie i giovani,
girano, guardano, si informano su quel che esce, e qui si rubano moltissimi libri, benché si mettano i
controlli elettronici. Potete sorprendere lo studente che dice: “Ah, questo libro è interessante, domani
vado a rubarlo”. Poi si passano informazioni tra di loro, per esempio: “Guarda che alla libreria Feltrinelli,
se ti beccano menano”.
105 “Ah, be', allora vado a rubare alla Marzocco dove adesso hanno aperto un nuovo supermarket”.
Eppure chi organizza le reti di librerie sa che, a un certo punto, la libreria ad alto tasso di furti è però anche
quella che vende di più. Si rubano molte più cose in un supermarket che in una drogheria, ma il
supermarket fa parte di una grande catena capitalistica, mentre la drogheria è piccolo commercio con una
dichiarazione dei redditi molto ridotta.
110 Ora, se trasformiamo questi, che sono problemi di reddito economico, in quelli di reddito
culturale, di costi e di vantaggi sociali, lo stesso problema si pone quindi anche per le biblioteche: correre
maggiori rischi sulla preservazione dei libri, ma avere tutti i vantaggi sociali di una loro più ampia
circolazione. Cioè se la biblioteca è, come vuole Borges, un modello dell'Universo, cerchiamo di
trasformarla in un universo a misura d'uomo, e, ricordo, a misura d'uomo vuol dire anche gaio, anche con
115 la possibilità del cappuccino, anche con la possibilità per i due studenti in un pomeriggio di sedersi sul
divano e, non dico darsi a un indecente amplesso, ma consumare parte del loro flirt nella biblioteca,
mentre si prendono o rimettono negli scaffali alcuni libri di interesse scientifico, cioè una biblioteca in cui
faccia venire voglia di andarci e si trasformi poi gradatamente in una grande macchina per il tempo libero,
com'è il Museum of Modern Art in cui si va al cinema, si va a passeggiare nel giardino, si vanno a guardare
120 le statue e a mangiare un pasto completo. So che l'Unesco è d'accordo con me: “La biblioteca... deve
essere di facile accesso e le sue porte devono essere spalancate a tutti i membri della comunità che
potranno liberamente usarne senza distinzioni di razza, colore, nazionalità, età, sesso, religione, lingua,
stato civile e livello culturale”. Un'idea rivoluzionaria. E l'accenno al livello culturale postula anche
un'azione di educazione e di consulenza e di preparazione. E poi l'altra cosa: “L'edificio che ospita la
125 biblioteca pubblica dev'essere centrale, facilmente accessibile anche agli invalidi ed aperto ad orari
comodi per tutti. L'edificio ed il suo arredamento devono essere di aspetto gradevole, comodi ed
accoglienti; ed è essenziale che i lettori possano accedere direttamente agli scaffali”.
֍ Per approfondire, cerca in rete una conferenza di Umberto Eco o una sua
intervista, e parlane con i tuoi compagni.
117
118
IL SISTEMA VERBALE
MODO INDICATIVO
MODO CONDIZIONALE
PRESENTE PASSATO
parlerebbe, amerebbe, partirebbe. avrebbe parlato, avrebbe temuto, sarebbe partito-a.
MODO CONGIUNTIVO
PRESENTE PASSATO
che lei o lui parli, tema, parta. che lei o lui abbia parlato, abbia temuto, sia partita
o partito.
IMPERFETTO TRAPASSATO
che lei o lui parlasse, temesse, che lei o lui avesse parlato, avesse temuto, fosse
partisse. partita o partito.
MODO IMPERATIVO
NOTE:
A. Il pronome di seconda persona singolare di trattamento formale è lei, come
quello femminile di terza persona; come in spagnolo, il verbo lo
accompagna coniugato in terza persona.
B. La distribuzione prescrittiva dei diversi tempi passati è analoga a quella
dello spagnolo. Ma, come nello spagnolo, la loro effettiva distribuzione
dipende dalle aree geografiche.
C. Il modo congiuntivo si usa in italiano con maggior frequenza che in
spagnolo. In genere, i verbi della frase principale che non implicano
certezza (como pensare, credere, considerare, ritenere, domandarsi, non
sapere) reggono il congiuntivo nella subordinata.
119
D. Il modo condizionale svolge le stesse funzioni che svolge in spagnolo. Il
solo uso contrastivo riguarda l’espressione del futuro in rapporto con il
passato della principale: in spagnolo si usa il condizionale presente (“Me
dijo que vendría”) e in italiano il condizionale passato (“Mi ha detto che
sarebbe venuto”).
E. L’imperativo informale (tu) è parla, temi, parti; in negativo, si usa la
negazione dell’infinito: non parlare, non temere, non partire.
F. Come in tutte le lingue, in italiano i verbi piú frequenti sono i piú irregolari.
Ecco il presente indicativo di alcuni verbi di alta frequenza:
Lui /Lei ha Lui / Lei è Lui / Lei ..... Lui / Lei fa Lui / Lei dice
Noi abbiamo Noi siamo Noi diamo Noi facciamo Noi ................
Voi avete Voi siete Voi date Voi fate Voi dite
CHIAMARSI
Io …… chiamo
Tu ……. chiami
Noi ci chiamiamo
Voi vi chiamate
Loro …… ……………...
120
CONNETTORI LOGICI
FALSI AMICI
( )
( )
( )
121
122
SECONDA SEZIONE
Testi di approfondimento
123
124
Chiarimenti
Un giornalista italiano si è applicato, secondo il buon uso della sua professione, a
distorcere e falsificare le mie considerazioni sulla confusione etica in cui l’epidemia sta
gettando il paese, in cui non si ha più riguardo nemmeno per i morti. Così come non mette
conto di citare il suo nome, così nemmeno vale la pena di rettificare le scontate
manipolazioni. Chi vuole può leggere il mio testo Contagio sul sito della casa editrice
Quodlibet. Piuttosto pubblico qui delle altre riflessioni, che, malgrado la loro chiarezza,
saranno presumibilmente anch’esse falsificate.
La paura è una cattiva consigliera, ma fa apparire molte cose che si fingeva di non vedere.
La prima cosa che l’ondata di panico che ha paralizzato il paese mostra con evidenza è
che la nostra società non crede più in nulla se non nella nuda vita. È evidente che gli
italiani sono disposti a sacrificare praticamente tutto, le condizioni normali di vita, i
rapporti sociali, il lavoro, perfino le amicizie, gli affetti e le convinzioni religiose e
politiche al pericolo di ammalarsi. La nuda vita – e la paura di perderla – non è qualcosa
che unisce gli uomini, ma li acceca e separa. Gli altri esseri umani, come nella pestilenza
descritta da Manzoni, sono ora visti soltanto come possibili untori che occorre a ogni
costo evitare e da cui bisogna tenersi alla distanza almeno di un metro. I morti – i nostri
morti – non hanno diritto a un funerale e non è chiaro che cosa avvenga dei cadaveri delle
persone che ci sono care. Il nostro prossimo è stato cancellato ed è curioso che le chiese
tacciano in proposito. Che cosa diventano i rapporti umani in un paese che si abitua a
vivere in questo modo non si sa per quanto tempo? E che cosa è una società che non ha
altro valore che la sopravvivenza?
L’altra cosa, non meno inquietante della prima, che l’epidemia fa apparire con chiarezza
è che lo stato di eccezione, a cui i governi ci hanno abituati da tempo, è veramente
diventato la condizione normale. Ci sono state in passato epidemie più gravi, ma nessuno
aveva mai pensato a dichiarare per questo uno stato di emergenza come quello attuale,
che ci impedisce perfino di muoverci. Gli uomini si sono così abituati a vivere in
condizioni di crisi perenne e di perenne emergenza che non sembrano accorgersi che la
loro vita è stata ridotta a una condizione puramente biologica e ha perso ogni dimensione
non solo sociale e politica, ma persino umana e affettiva. Una società che vive in un
perenne stato di emergenza non può essere una società libera. Noi di fatto viviamo in una
società che ha sacrificato la libertà alle cosiddette “ragioni di sicurezza” e si è condannata
per questo a vivere in un perenne stato di paura e di insicurezza.
Non stupisce che per il virus si parli di guerra. I provvedimenti di emergenza ci obbligano
di fatto a vivere in condizioni di coprifuoco. Ma una guerra con un nemico invisibile che
125
può annidarsi in ciascun altro uomo è la più assurda delle guerre. È, in verità, una guerra
civile. Il nemico non è fuori, è dentro di noi.
Quello che preoccupa è non tanto o non solo il presente, ma il dopo. Così come le guerre
hanno lasciato in eredità alla pace una serie di tecnologie nefaste, dai fili spinati alle
centrali nucleari, così è molto probabile che si cercherà di continuare anche dopo
l’emergenza sanitaria gli esperimenti che i governi non erano riusciti prima a realizzare:
che si chiudano le università e le scuole e si facciano lezioni solo on line, che si smetta
una buona volta di riunirsi e di parlare per ragioni politiche o culturali e ci si scambino
soltanto messaggi digitali, che ovunque è possibile le macchine sostituiscano ogni
contatto – ogni contagio – fra gli esseri umani.
17 marzo 2020
Giorgio Agamben
[Tratto da www.quodlibet.it/giorgio-agamben-chiarimenti]
126
Quei Promessi Sposi che ci
parlano oggi
“Manzoni mi ha dato tanto”. Così Papa Francesco nel 2013 parlò del suo
interesse per “I Promessi Sposi”, letti da lui più volte e richiamati anche
in questo periodo. Il grande classico della letteratura italiana, ambientato
in un periodo di pestilenza, tratteggia infatti l’umanità con grande attualità
129
I grandi temi [del Decameron]
Mondo cortese e realtà cittadina In una così grande varietà di personaggi, di temi,
situazioni e scenari, è possibile comunque individuare nel Decameron alcuni nuclei
fondamentali di ispirazione. I due principali, secondo Baratto, sono il mondo cortese al
tramonto e la realtà contemporanea soprattutto cittadina, che del resto rappresentano i due
poli fondamentali dell’esperienza biografica di Boccaccio. Il mondo cortese, che pure è
rappresentato anche nei suoi aspetti deteriori (l’arroganza e la crudeltà, ad esempio, o
l’eccesso di liberalità che comporta il dissesto del patrimonio, com’è nel caso di Nastagio
degli Onesti e di Federigo degli Alberighi), è spesso descritto come il luogo di
elaborazione di una cultura e di costumi nobili e raffinati (soprattutto nella decima
giornata). Per contro il mondo cittadino e quello fiorentino in particolare, quando sono
visti in positivo, si caratterizzano per il vitalismo, l’arguzia, l’oculatezza, l’intelligenza o
l’astuzia. La sintesi di questi due poli si può trovare nell’auspicio, perlopiù sottinteso, di
veder associati nel mondo comunale i modelli di superiore comportamento cortese
con le doti più tipiche e apprezzate della società borghese e mercantile. Questa era del
resto una tendenza già da tempo in atto nei comuni toscani, da quando le famiglie
magnatizie ormai affermatesi economicamente avevano tentato di darsi un nuovo statuto
socio-culturale, proprio attingendo a quei modelli, anche se non sempre erano andate oltre
la superficie della raffinatezza cortese. Secondo alcuni critici nel Decameron, pur così
lontano dai modi e dai metodi della letteratura didattica medievale, ci sarebbe anzi anche
l’intento di fornire, sia pure in forma sobria e non prescrittiva, dei modelli ideali di
comportamento con cui oggettivamente confrontarsi.
L’epopea dei mercatanti Di questa realtà contemporanea, borghese e cittadina, una parte
essenziale è rappresentata dal mondo mercantile, da cui Boccaccio stesso proveniva, ma
in cui non si sentiva pienamente realizzato. Certo nessuno scrittore prima di lui ne aveva
rappresentato in modo così sistematico i protagonisti, le vicende, la mentalità, i
comportamenti, tanto che per evidenziare questa predilezione tematica e la sua «centralità
nello stesso disegno ideale dell’opera» si è coniata per il Decameron la formula critica di
«epopea dei mercatanti» (Branca). Il mondo mercantile appare sovente protagonista
non solo attraverso le numerose e memorabili figure individuali di mercanti (Ciappelletto,
Andreuccio, Landolfo Rufolo…), ma anche come ambiente sociale diffuso
(quartieri, mercati, fondachi, botteghe, navi mercantili…) pullulante anche di figure
minori, appena sbozzate ma quasi sempre in modo incisivo, con tutto l’insieme di
abitudini, comportamenti, pregiudizi che lo caratterizzano (si veda la novella Lisabetta da
Messina [R ]). Lo stesso ampliamento geografico degli scenari narrativi dell’opera è
spesso legato al mondo mercantile, sia nel senso che i luoghi menzionati nel Decameron
rispecchiano gli itinerari mercantili e che Boccaccio doveva averne avuto notizia proprio
attraverso i racconti dei protagonisti, sia perché non di rado quei luoghi
esotici sono esplicitamente associati al tema dello spirito d’avventura e dei viaggi
compiuti dai mercanti. Assodata questa significativa presenza, bisogna però aggiungere
che non si tratta di un’epopea tutta positiva e celebrativa. Del mondo mercantile e dei suoi
protagonisti sono messe in luce tanto le doti, determinanti per il rinnovamento socio-
economico e culturale del basso medioevo, quali lo spirito d’avventura, l’intraprendenza,
la cura del patrimonio, l’oculatezza, la prudenza, l’astuzia, l’intelligenza; quanto limiti e
vizi quali la cupidigia, la grettezza, la meschinità, la spregiudicatezza, l’insensibilità, la
visione economicistica del mondo e un conservatorismo sociale che si manifesta talora in
forme altrettanto rigide e cupe di quello feudale. Anche nel caso del mondo mercantile,
insomma, Boccaccio non ha tesi univoche da sostenere, ma ispira la sua rappresentazione
130
a un sostanziale mimetismo realistico, onesto e integrale. Si può infine aggiungere che
nel Decameron i fasti del mondo mercantile, più che rappresentati al presente, sono
rievocati nel momento del tramonto della sua fase espansiva medievale e per di più in un
momento tragico, quello della peste, in cui – come è detto nell’Introduzione – tante
famiglie magnatizie, tanti patrimoni e tanti palazzi sono ormai andati in rovina. Quando
l’epopea dei mercatanti si sofferma sullo spirito d’avventura, sull’intraprendenza, sugli
aspetti insomma più dinamici e positivi di quella realtà, si può dunque e forse si deve
cogliere un alone di nostalgia analogo a quello che caratterizza certe rappresentazioni del
mondo cortese: entrambi rimandano anche alle esperienze felici della giovinezza, quando
Boccaccio, rappresentante di una ricca compagnia mercantile fiorentina, frequentava a
Napoli la società aristocratica.
Sembra indiscutibile, insomma, che nella sua rappresentazione mimetica della realtà
Boccaccio abbandoni decisamente ogni concezione provvidenzialistica della storia e
dell’agire individuale o quanto meno non la introduca nella sua opera, limitandosi a
osservare le strategie e gli sforzi attuati dall’uomo nell’affrontare l’incostanza della sorte.
L’amore, la donna e la «democrazia dell’eros» Già in precedenza abbiamo visto il
ruolo chiave, anche sul piano simbolico, che l’amore e le donne assolvono nel Decameron
e abbiamo constatato che l’amore è inteso espressamente da Boccaccio come una forza
naturale, un impulso irresistibile che, anche nei suoi aspetti fisici, di per sé non è
colpevole. La concezione dell’amore e dei rapporti fra i sessi che Boccaccio formula nel
Decameron è dunque dichiaratamente una concezione antiascetica. Questa, si ricordi,
è una delle poche tesi in materia di morale esplicitamente argomentate dall’autore,
in forma non ambigua. Nella concreta rappresentazione dell’amore, poi, Boccaccio
ancora una volta accoglie quanto sul tema gli veniva dalla tradizione precedente (da
Ovidio ai moralisti cristiani, dalla letteratura cortese ai poeti realistico-giocosi, allo
stilnovo), lo rielabora in modo originale e soprattutto lo sviluppa, ampliandone i
confini e gli orizzonti e presentando una casistica quanto mai articolata. L’amore nel
Decameron è infatti via via pulsione elementare e meccanica, sensualità tenera e delicata,
passione oscura e travolgente, sentimento dolce e malinconico, gelosia ossessiva,
esperienza intima che esalta e nobilita e molto altro ancora, in un’ampia gamma di
sfumature, applicate a personaggi che – come detto – si caratterizzano sempre per
qualche tratto individuale e irripetibile. L’amore è prepotente impulso naturale e passione
irrazionale, che si scontra nella realtà con regole morali e convenzioni sociali piuttosto
rigide, ed è quindi uno dei campi privilegiati in cui si esercitano l’intelligenza e l’astuzia
e una multiforme arte della seduzione. Anche l’amore nel Decameron è oggetto insomma
di una contesa perenne, di una conflittualità che rientra nella più generale lotta per
l’affermazione di sé che caratterizza il mondo del Decameron. Le situazioni più tipiche
sono le strategie messe in atto per conquistare qualcuno, l’astuzia degli amanti che devono
ingannare un marito (violando i vincoli sociali e morali del matrimonio). La sua
affermazione così passa spesso attraverso la violazione di leggi e convenzioni, che nel
Decameron appaiono troppo anguste e rigide.
Le forme e il linguaggio
Modi e forme narrative e rapporti con la tradizione Anche sul piano retorico-stilistico
il Decameron si caratterizza per la grande varietà di forme narrative, per una straordinaria
duttilità stilistica. Sul piano dei modelli narrativi, si può ricorrere alla classica analisi di
Baratto, che ha individuato una serie di tipologie da lui definite racconto, romanzo,
novella, novella esemplare, contrasto, mimo e commedia. Insomma, strategie diverse a
seconda dei temi, dei casi e delle circostanze: novelle intessute di semplici fatti o
psicologicamente più approfondite, novelle il cui nucleo è il comportamento morale o il
conflitto spesso tragico tra bene e male, novelle infine in cui la frequenza dei dialoghi,
ora semplici ora complessi, sembra alludere alla forma teatrale.
Boccaccio anche per le forme del Decameron ha attinto ampiamente a tutte le tradizioni
precedenti a lui note: oltre alla novella letteraria, alla narrativa orale toscana,
133
anche alle tradizioni folcloriche, alla narrativa antica (Apuleio in particolare), alla
novellistica orientale, alle prediche e agli exempla cristiani, ai racconti dei giullari, ai
licenziosi fabliaux, alla poesia e al romanzo cortesi, al teatro antico, alla commedia
elegiaca medievale, rielaborandoli però tutti originalmente e spesso genialmente. Non è
questa la sede per affrontare nella sua complessità la questione (specialistica) della
rielaborazione delle fonti. Ma a titolo di esemplificazione si può accennare a due casi
particolari e particolarmente importanti sul piano della storia letteraria.
Nel caso dei modi narrativi che per la struttura in scene e per la centralità del
dialogo inclinano verso il teatro, Boccaccio, muovendo dal teatro classico allora noto
(Terenzio e Plauto) dall’esperienza dei giullari e dalle poche forme teatrali medievali,
fornisce spunti non solo ideologico-tematici, ma anche linguistici, stilistici e strutturali a
quella che nel Cinquecento, dopo la riscoperta di Plauto, sarà la commedia
rinascimentale.
Più diretto ed eclatante è il rapporto che la novella decameroniana instaura con
l’esempio cristiano medievale: Boccaccio ne fa un uso ampio, ma spesso strumentale e
ideologicamente eversivo, attingendo sovente la materia delle sue storie alle raccolte
medievali di esempi edificanti, ma le volge sempre a un significato profano, mimandone
forme e linguaggio, in forma però quanto meno ironica, parodistica e giocosa [R ].
Linguaggio e stile Vittore Branca ha dimostrato l’ampia presenza della retorica
medievale nell’elaborazione stilistica del Decameron sia per quanto riguarda alcuni dei
più generali orientamenti strutturali e stilistici, sia per quanto riguarda questioni
particolari come l’adozione del cursus riscontrabile sin dalla prima frase del libro o la
predilezione per una «prosa versificata» (migliaia sono gli endecasillabi presenti nella
prosa decameroniana).
Una tendenza stilistica poi assai influente sulla successiva codificazione rinascimentale è
il processo di latinizzazione che la prosa volgare subisce in Boccaccio: nel Decameron
ciò si nota specialmente nella cornice, dove il registro è più sostenuto ed elevato e talora
tragico (introduzione), e in molte delle parti narrative delle novelle, dove
comunque il linguaggio si fa più duttile e vario. Questa tendenza consiste essenzialmente
nell’adozione di un periodo complesso, ricco di subordinate, che predilige una
disposizione degli elementi della frase simile a quella del latino (frequenza delle
inversioni e in particolare collocazione dei verbi a fine frase, a fine periodo), che rende la
lettura della prosa decameroniana talora difficile e tanto più quanto più il registro
adottato dall’autore è elevato e solenne.
Ma nelle novelle e soprattutto nelle parti dialogate si deve constatare una grande varietà
di registri, dal comico al grottesco, dall’elegiaco al tragico e una altrettanto grande
varietà di soluzioni linguistico-stilistiche particolari. Qui quasi sempre prevale
un’esigenza mimetica e il linguaggio e lo stile si adattano con grande duttilità ai temi, alle
situazioni, ai personaggi e alle forme narrative (Baratto). Constatiamo così la presenza di
diverse varietà socio-culturali della lingua: strutture più semplici e lineari di gusto
colloquiale e popolare o più elaborate e sostenute di evidente matrice dotta e letteraria, a
seconda della condizione sociale, della cultura dei personaggi e della qualità delle
situazioni e delle circostanze. La mimesi linguistica si estende talora anche alla
caratterizzazione geografica dei personaggi, con l’adozione di formule vernacolari. Ma la
varietà delle soluzioni stilistiche attuate da Boccaccio culmina forse nelle funamboliche
invenzioni linguistiche e nelle deformazioni espressive a scopo comico o grottesco, ora
di matrice popolare ora invece vere e proprie invenzioni d’autore (si veda esemplarmente
la novella di frate Cipolla).
134
Vincenzo Cuoco, SAGGIO STORICO SULLA RIVOLUZIONE DI NAPOLI (1802)
INTRODUZIONE
Io imprendo a scriver la storia di una rivoluzione che dovea formare la felicitá di una
nazione, e che intanto ha prodotta la sua ruina (1) . Si vedrá in meno di un anno un gran
regno rovesciato, mentre minacciava conquistar tutta l'Italia; un'armata di ottantamila
uomini battuta, dissipata, distrutta da un pugno di soldati; un re debole, consigliato da
ministri vili, abbandonare i suoi Stati senza verun pericolo; la libertá nascere e stabilirsi
quando meno si sperava; il fato istesso combattere per la buona causa, e gli errori degli
uomini distruggere l'opera del fato e far risorgere dal seno della libertá un nuovo
dispotismo e piú feroce. Le grandi rivoluzioni politiche occupano nella storia dell'uomo
quel luogo istesso che tengono i fenomeni straordinari nella storia della natura. Per molti
secoli le generazioni si succedono tranquillamente come i giorni dell'anno: esse non
hanno che i nomi diversi, e chi ne conosce una le conosce tutte. Un avvenimento
straordinario sembra dar loro una nuova vita; nuovi oggetti si presentano ai nostri sguardi;
ed in mezzo a quel disordine generale, che sembra voler distruggere una nazione, si
scoprono il suo carattere, i suoi costumi e le leggi di quell'ordine, del quale prima si
vedevano solamente gli effetti. Ma una catastrofe fisica è, per l'ordinario, piú esattamente
osservata e piú veracemente descritta di una catastrofe politica. La mente, in osservar
questa, segue sempre i moti irresistibili del cuore; e degli avvenimenti che piú interessano
il genere umano, invece di aversene la storia, non se ne ha per lo piú che l'elogio o la
satira. Troppo vicini ai fatti de' quali vogliam fare il racconto, noi siamo oppressi dal loro
numero istesso; non ne vediamo l'insieme; ne ignoriamo le cagioni e gli effetti; non
possiamo distinguere gli utili dagl'inutili, i frivoli dagl'importanti, finché il tempo non li
abbia separati l'uno dall'altro, e, facendo cader nell'obblio ciò che non merita di esser
conservato, trasmetta alla posteritá solo ciò che è degno della memoria ed utile
all'istruzione di tutt'i secoli. La posteritá, che ci deve giudicare, scriverá la nostra storia.
Ma, siccome a noi spetta di prepararle il materiale de' fatti, cosí sia permesso di prevenirne
il giudizio. Senza pretendere di scriver la storia della rivoluzione di Napoli, mi sia
permesso trattenermi un momento sopra alcuni avvenimenti che in essa mi sembrano piú
importanti, ed indicare ciò che ne' medesimi vi sia da lodare, ciò che vi sia da biasimare.
La posteritá, esente da passioni, non è sempre libera da pregiudizi in favor di colui che
rimane ultimo vincitore; e le nostre azioni potrebbero esser calunniate sol perché sono
state infelici. Dichiaro che non sono addetto ad alcun partito, a meno che la ragione e
l'umanitá non ne abbiano uno. Narro le vicende della mia patria; racconto avvenimenti
che io stesso ho veduto e de' quali sono stato io stesso un giorno non ultima parte; scrivo
pei miei concittadini, che non debbo, che non posso, che non voglio ingannare. Coloro i
quali, colle piú pure intenzioni e col piú ardente zelo per la buona causa, per mancanza di
lumi o di coraggio l'han fatta rovinare; coloro i quali o son morti gloriosamente o gemono
tuttavia vittime del buon partito oppresso, mi debbono perdonare se nemmen per amicizia
offendo quella veritá che deve esser sempre cara a chiunque ama la patria, e debbono
esser lieti se, non avendo potuto giovare ai posteri colle loro operazioni, possano almeno
esser utili cogli esempi de' loro errori e delle sventure loro. Di qualunque partito io mi
sia, di qualunque partito sia il lettore, sempre gioverá osservare come i falsi consigli, i
capricci del momento, l'ambizione de' privati, la debolezza de' magistrati, l'ignoranza de'
propri doveri e della propria nazione, sieno egualmente funesti alle repubbliche ed ai
regni; ed i nostri posteri dagli esempi nostri vedranno che qualunque forza senza saviezza
non fa che distrugger se stessa, e che non vi è vera saviezza senza quella virtú che tutto
consacra al bene universale.
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Il consumo illogico mette a rischio l’Italia
L’impietosa analisi del sociologo Luca Ricolfi
Mario Spini
Un Paese che rischia di bruciarsi sull’altare del consumo più sfrenato e illogico:
è questo lo scenario inquietante che Luca Ricolfi disegna per il futuro, purtroppo
anche immediato, dell’Italia agli albori del terzo millennio. Secondo il sociologo
torinese, che negli ultimi vent’anni con i suoi libri ha messo a nudo le molte
contraddizioni che lacerano il nostro tessuto culturale ed economico, l’Italia si è
trasformata, unica in Occidente, in una “società signorile di massa”. Signorile
perché lo stile di vita della maggioranza degli italiani è ormai diventato simile a
quello dei signori del passato, che si caratterizzava per un’opulenza dei consumi
in assenza tuttavia di una produzione in grado di sostenerla economicamente nel
tempo.
Gli italiani, e non servono certo le analisi sociologiche e statistiche per vederlo,
consumano e si divertono in una maniera che ha pochi eguali nel mondo, ma lo
fanno senza avere alle spalle una base produttiva che giustifichi i loro
comportamenti: la conseguenza, per certi versi drammatica, è che stanno
progressivamente erodendo la ricchezza patrimoniale che i loro nonni e i loro
padri avevano accumulato dal secondo dopoguerra in poi.
136
Si tratta di una situazione a cui l’Italia non è arrivata nel giro di poco tempo ma
che ha cominciato a delinearsi già negli anni 60, con l’inizio di un progressivo
calo delle persone occupate. Negli anni Novanta, a conclusione del miracolo
economico, il consumismo è diventato un fenomeno sempre più diffuso, a
dispetto della stagnazione, per poi diventare una condizione stabile quando
l’Italia si è trasformata in Cenerentola della crescita rispetto agli altri paesi
europei.
Il nostro futuro nel libro di Ricolfi appare dipinto a tinte fosche: come i nobili che
distrussero antiche casate sperperando le rendite, l’Italia del terzo millennio
rischia di scivolare progressivamente verso il declino. Le carte da giocare sono
137
poche, anzi una sola: aumentare la produttività, seguendo l’esempio di numerosi
Paesi occidentali e del Giappone, che si permettono un altissimo livello di
consumi, anche superiore al nostro, grazie al lavoro e all’operosità.
138
Nascita e caratteristiche del
femminismo storico in Italia - L'eredità
del movimento delle donne alle nuove
generazioni
[Tratto da http://cle.ens-lyon.fr/italien/civilisation/xxe-xxie/le-mouvement-
des-femmes/nascita-e-caratteristiche-del-femminismo-storico-in-italia-l-
eredita-del-movimento-delle-donne-alle-nuove-generazioni]
Par Paola Nava : Storica e ricercatrice
I. IL QUADRO DI RIFERIMENTO
L'agire politico delle donne ha radici lontane: dal femminismo del primo novecento
al (tolta la lunga parentesi del fascismo) ruolo da loro giocato nella Resistenza, di
staffette e partigiane.
Ma è negli anni '70 il periodo più ricco di conquiste femminili (nonostante nel 1968
la presenza femminile in Parlamento fosse del 2,6% e nel 1976 del 6,7%). Tra il
'68 e il '69 la Corte Costituzionale abolisce la distinzione tra i sessi facendo cadere
il reato di adulterio per le donne e di concubinaggio per gli uomini; nel 1970 è
approvata le legge sul divorzio, confermata all'esito del referendum abrogativo del
139
1974. Del '71 è l'introduzione degli asili nido statali, del '75 dei consultori.
L'importante riforma del diritto di famiglia del 1975 segna il passaggio a una
famiglia basata sul consenso reciproco e la collaborazione. Nel '77 è la volta della
normativa sulla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro che
riconosce alla donna la possibilità di svolgere, a parità di salario, qualsiasi lavoro.
Il quadro legislativo restituisce solo in parte le profonde trasformazioni che hanno
investito in quegli anni la società civile e che hanno modificato il ruolo delle donne
e i rapporti tra i sessi. Dagli anni '60 si era assistito a un boom economico che
aveva portato benessere e nuovi stili di consumo; ma anche l'accesso
all'istruzione con la scuola di base obbligatoria aveva necessariamente innalzato
il livello culturale della popolazione. Da non dimenticare poi il ruolo dei mass
media, la televisione soprattutto e i nuovi modelli di donna emancipata che
provenivano soprattutto dagli Stati Uniti. Il '68 infine era stata una tappa
fondamentale, nelle Università, nelle fabbriche e nel paese, di modernizzazione
e, ancora una volta, di cambiamento nei ruoli familiari e sociali.
Tornando alla nascita del femminismo in Italia, del 1969 è il Fronte Italiano di
Liberazione Femminile (FILF) e il Movimento per la Liberazione della Donna
(MLD) legato al Partito radicale, che si spende moltissimo sul fronte del divorzio e
dell'aborto. A Milano c'è Rivolta Femminile, un gruppo con Elvira Banotti, Carla
Accardi, Carla Lonzi.
140
Un altro filone del femminismo italiano, più legato al femminismo francese, di Luce
Irigaray e altre, approfondisce e si muove sul tema del rapporto con la madre e
con la propria identità. È il caso della Libreria delle Donne di Milano con la rivista
(che esce tuttora) Sottosopra, a cui fanno riferimento molti Collettivi femministi
autonomi. Al centro la pratica dell'autocoscienza, lo sviscerare cioè, in piccoli
gruppi, l'identità, la sessualità, la relazione con l'altro. L'esponente forse più
famosa è Luisa Muraro che ha pubblicato, tra gli altri, L'ordine simbolico della
madre, testo importantissimo sulle genealogie femminili. Molti poi i gruppi
femministi, come si diceva, usciti da gruppi extraparlamentari, soprattutto da Lotta
Continua.
Negli anni settanta e ottanta nascono iniziative editoriali: L'Edizione delle
donne e La Tartaruga di Laura Lepetit a Milano. Riviste come DWF, Memoria.
Centri e Università delle donne come quello di La Maddalena a Roma.
La stagione degli "anni di piombo", cioè della lotta armata, ha di certo interrotto la
visibilità del movimento delle donne, che ha però proceduto sia nelle battaglie per
la difesa delle leggi ottenute sia conquistando spazi in organizzazioni quali i
sindacati e i partiti. E' il caso degli Intercategoriali o Coordinamenti delle donne
all'interno dei sindacati, delle esperienze delle 150 ore (i corsi sulla salute e
conoscenza del proprio corpo in particolare).
Ma, con gli anni 90, avrà più spazio un femminismo che acquisterà peso culturale
e professionale dentro le Università, nei Centri di Documentazione, nelle
Cooperative di donne, nelle biblioteche di genere. Tra le esperienze più famose,
il caso di Diotima all'Università di Verona - la comunità delle filosofe; il Centro di
Documentazione Donna di Bologna (da cui si svilupperà la Biblioteca), e, tra le
cooperative, LeNove, Pari e Dispari, Gender.
Un aspetto più militante avranno le Case delle Donne, i Centri contro la violenza
che, ancora oggi, costituiscono un valido aiuto per le donne e che hanno sempre
più trovato supporto nelle istituzioni, dalle Prefetture e Questure più disponibili
(con protocolli ad hoc) fino al Ministero Pari Opportunità che ha dedicato un
numero telefonico proprio ai soggetti oggetto di violenza.
Si può parlare adesso di un femminismo più capillare e diffuso così come è certo
che molte donne abbiano la consapevolezza della propria identità, del proprio
valore e posseggano gli strumenti per farsi valere (vedi Susanna Camusso ora
segretaria generale del sindacato CGIL e Emma Marcegaglia Presidente di
Confindustria).
Anche la riduzione dei servizi per la cura di bambini, anziani, persone in difficoltà
(così come del resto i relativi costi elevati) sta di nuovo costringendo molte donne
con figli piccoli (dunque giovani) ad abbandonare il lavoro. E le scelte di maternità
si fanno tardi, spesso dopo i trent'anni.
Alla fine, mi sembra che oggi siamo in presenza di un quadro fatto di luci e di
ombre, che ci porta a dire di una trasmissione incompiuta.
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INDICE
Prima sezione...................................................................................... 3
Michele Serra, Morire armi in mano..................................................... 5
Giorgio Agamben, L’invenzione di un’epidemia................................... 7
Giorgio Agamben, Contagio................................................................. 10
Dalla peste dei Promessi sposi al coronavirus.............................................. 13
Italo Calvino, Perché leggere i classici........................................................ 19
Il Decameron............................................................................................. 26
Rinasicmento......................................................................................... 29
Le città ideali.......................................................................................... 39
La commedia dell’arte................................................................................ 44
Claudio Monteverdi................................................................................... 50
145