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STATI D’ECCEZIONE.

Filosofia, opinionismo e apocalisse biopolitica


per l’Italia alla prova del SARS-CoV-2

Un dossier
[9 Febbraio – 20 Marzo 2020]

Meme del 1 Marzo 2020

Ernesto Carafoli e Enrico Bucci - 2019-nCoV: dobbiamo proteggerci anche dall'infodemia


Siamo esposti a un profluvio di fatti, fattoidi e falsità, cui tutti i sistemi di informazione, reali e virtuali, fanno da
immediata cassa di risonanza. Come possiamo eliminare il rischio che le informazioni passino senza che un pubblico non
formato a trarre giudizi corretti, presentate da chi non ha le capacità tecniche di comprendere appieno ciò che riporta,
porti per via democratica alle peggiori decisioni possibili? L'articolo di Ernesto Carafoli ed Enrico Bucci per la nostra
rubrica Vero o Falso, si occupa di questo.
[9 Febbraio 2020 – scienzainrete.it]

La comparsa, lo scorso gennaio, nella provincia cinese dello Hubei della patologia simil-influenzale
provocata dal nuovo coronavirus “2019-nCoV” ha letteralmente sconvolto la scena internazionale
con un crescendo di informazioni e iniziative assolutamente senza precedenti. Misure draconiane, che
di fatto hanno isolato la Cina dal resto del mondo, sono state immediatamente messe in atto da gran
parte dei Paesi occidentali, e gli organi d’informazione, sia stampati che televisivi, hanno fatto a gara
nel fornire panorami di vivissima preoccupazione sui possibili rischi dell’infezione.
Ora, l’esplosione in Cina di una patologia imprevista, con caratteristiche nuove, è un fatto che deve
senz’altro preoccupare: su questo non ci piove. E sarebbe quindi di certo limitante ridurlo con
un’alzata di spalle a una bolla di sapone. L’Italia ha subito adottato misure fra le più restrittive,
rivendicandole orgogliosamente, e i suoi organi d’informazione si sono immediatamente distinti
nell’ampliare sempre più le informazioni sull’emergenza: giorno dopo giorno i grandi quotidiani
hanno dedicato all’argomento, e continuano a farlo, spazi crescenti (uno dei più autorevoli, qualche
giorno fa, vi ha dedicato 11 pagine...); i programmi televisivi, a iniziare dai telegiornali, sono oramai
di fatto monopolizzati dalle notizie e dai commenti sulla vicenda coronavirus.

L'argomento numero uno e l'ipertrofia informativa


A tutti i livelli, in Italia l’emergenza coronavirus è di fatto ora divenuta l’argomento numero uno di
cui parlare e preoccuparsi: al bar, sul lavoro, al telefono, a cena. Si parla, si commenta, si giudica, si
propone, rielaborando e ripetendo quello che l’informazione ha sparso dovunque. Chiunque, investito
di un qualche ruolo ufficiale, sia stato intervistato o abbia annunciato una qualche ulteriore misura di
contrasto all’emergenza, si è fatto immancabilmente in quattro per dire che non si devono
assolutamente creare allarmismi: senza rendersi conto che, annunciando ad esempio subito dopo che
anche i passeggeri di voli che provengono dall’Europa, o addirittura da aeroporti italiani, verranno
ora controllati per la presenza di sintomi clinici, non ha fatto altro, appunto, che diffondere
l’allarmismo. E che altro è stato, se non una potente spinta all’allarmismo, lo stabilire sin dall’inizio
che l’emergenza presente sarebbe stata considerata alla pari di un’emergenza colerica? Pare legittimo
chiedersi che cosa si sarebbe proposto se veramente di un’emergenza colerica si fosse trattato….
Quanto è utile questo proliferare di informazione, più o meno controllato, più o meno allarmista o
rassicurante, rispetto alla capacità dei governi democratici di prendere le decisioni giuste nel
momento giusto, per impedire le conseguenze catastrofiche ove ci fosse una vera e pericolosa
epidemia di un patogeno sconosciuto, ma anche le altrettanto catastrofiche conseguenze che si
avrebbero mettendo in quarantena il mondo inutilmente, e così rendendo difficoltosa l’erogazione
pure dei servizi essenziali, come sta accadendo oggi per milioni di cittadini cinesi? In altre parole: è
utile o controproducente che, in presenza di un nuovo patogeno, miliardi di esseri umani siano esposti,
e particolarmente in Italia, a un'ipertrofia informativa fatto di informazioni in cui diviene impossibile
a chi non abbia competenze specifiche distinguere ciò che esatto da ciò che è sbagliato, come avviene
oggi grazie ai media moderni e alla propagazione delle notizie su Internet? Del fenomeno si è accorta
anche l'Organizzazione Mondiale della Sanità, che in un suo "Situation Report nCoV" parla di
infodemia, concetto poi ripreso dalla stampa internazionale (qui il New York Times).
È quindi doveroso chiedersi perché la valanga di informazioni spesso ometta quelle che sono le più
consolidate. E che contribuirebbero, queste sì, ad abbassare la soglia del panico che si è scatenato,
sempre comunque controproducente e ingiustificato (al contrario del giusto spirito di precauzione).
Perché ad esempio si continui a parlare di analogie con la SARS e la MERS, mettendo in rilievo la
documentata facilità molto maggiore di propagazione della nuova epidemia, ma omettendo il fatto
che la sua letalità, che, a quanto si è sinora accertato, è nell’ambito del 2% , quindi sicuramente molto
minore del 10 e del 30% documentato nei casi della SARS e del MERS.

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Il teorema della giuria, come arrivare all'opinione erronea
Per valutare l’utilità della presente valanga di informazione mediatica, possiamo fare uso del famoso
teorema della giuria del marchese di Condorcét, formulato nel XVIII secolo. Questo teorema
intendeva fornire una prova matematica in favore della democrazia partecipativa. Dimostrava infatti
che il voto di 1.000.000 di persone, ciascuna delle quali abbia solo il 51% di probabilità di giungere
a una conclusione corretta dovendo giudicare di certi fatti, ha più probabilità di portare alla decisione
giusta del voto di 100 esperti, ciascuno dei quali abbia il 90% di probabilità di formulare un giudizio
esatto sui fatti in questione. Tuttavia, anche se non era nelle intenzioni dell’autore, lo stesso teorema
dimostra che, persino quando ciascun individuo ha solo una lieve probabilità in più di esprimere un
giudizio sbagliato invece che giusto - poniamo quindi che ci “azzecchi” nel 49% dei casi - allora tanto
più grande è la comunità chiamata a pronunciarsi, tanto più è alta la probabilità che si arrivi a
un’opinione erronea e si agisca in maniera scorretta.
Nella situazione attuale, miliardi di esseri umani (e per quello che ci interessa, decine di milioni di
italiani) sono esposti a un profluvio di fatti, fattoidi e falsità, cui tutti i sistemi di informazione, reali
e virtuali, fanno da immediata cassa di risonanza. Il giudizio di questa larga massa di cittadini si
esercita di continuo su affermazioni, per i quali la competenza di cui dispone è assolutamente
insufficiente: si comprende molto male ogni singola notizia, appunto perché mancano le competenze
necessarie per inquadrare il senso e la definizione di una statistica, di una presunta osservazione
clinica, di un avvenimento che accade in un ospedale di uno stato lontano. Questo significa che, su
ogni singolo “fatto” rilanciato all’infinito dai media, la popolazione delle nostre democrazie non potrà
che formarsi un’opinione sbagliata, se l’informazione che ottiene è presentata in modo che non
consente di colmarne le deficienze di formazione. E anzi, poiché non è possibile formarsi una
competenza di statistica leggendo un titolo su un giornale, né diventare virologi in una mattinata,
possiamo assumere che, nella stragrande maggioranza dei casi, l’opinione collettiva che il Paese si
formerà in merito a certi fatti sarà certamente sbagliata – per esempio riguardo al significato della
quarantena che si vuole imporre a dei bambini cinesi –, in presenza della simultanea informazione
che la nuova patologia è finora poco frequente in forma grave nei bambini e giovani adolescenti.
Così come sarà sbagliata quella della comunità politica nel suo complesso (non certo meglio formata
della sua base elettorale su un problema epidemiologico come quello attuale). Inoltre, a ogni nuovo
“tiro di dadi”, cioè ogni volta che si espongono i cittadini a notizie sulle quali è francamente
impossibile formarsi un’opinione – vuoi a causa della pratica del false balance sui giornali, vuoi
perché i giornalisti stessi non sono diversi dai cittadini e rischiano di male interpretare e mal riportare
i fatti, vuoi perché si intervista un singolo esperto, aumentando il rischio che anche da quella fonte

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provengano errori che non si verificherebbero intervistando invece un gruppo di esperti – la
probabilità matematica di giungere a una serie di giudizi, e quindi di decisioni, erronei raggiunge al
limite il 100%.
Dobbiamo quindi immaginare un sistema censorio, dando ragione a chi non vorrebbe far trapelare le
informazioni al grande pubblico? Certamente no, perché in mancanza di notizie e di fatti riportati, è
dimostrato che gli esseri umani inventano fattoidi e pseudospiegazioni (le famose fake news e le
teorie cospirazioniste), le quali entrano nello stesso meccanismo descritto sopra, producendo effetti
forse ancora peggiori perché ci si esercita nel giudizio su fatti ignoti utilizzando soprattutto la chiave
emotiva, invece che l’approccio razionale.

Comunità scientifica e professionisti della comunicazione, serve coesione


Quale approccio si può quindi immaginare, per mantenere la popolazione informata, evitando però il
rischio che un profluvio di informazioni fornito a un pubblico non formato a trarne giudizi corretti,
ed esposto da chi non ha le capacità tecniche di comprendere appieno ciò che riporta, porti per via
democratica alle peggiori decisioni possibili? Sono possibili diversi livelli di azione, e sono chiamati
in causa molti attori differenti.
Innanzitutto, sul piano dei contenuti, è necessario limitare la comunicazione di articoli di opinione e
seguire invece le linee guida fissate da tempo per la comunicazione dei rischi: vanno fornite
contemporaneamente informazioni verificate su ciò che la comunità scientifica ha accertato (cioè su
ciò che si sa), su ciò che ancora si ignora, e sui limiti che questa ignoranza impone alle conclusioni
da trarre (cioè su ciò che non si sa). E infine su quello che si sta facendo e perché lo si stia facendo al
fine di colmare i più importanti vuoti nella conoscenza attuale di un fenomeno nuovo. Qui, a livello
di contenuti, è quindi doveroso chiamare in causa innanzitutto la comunità scientifica per ottenerne
informazioni condivise ed affidabili (NON opinioni individuali, anche se da esperti) su tutti e tre i
punti appena indicati.
Il principale nemico da combattere, chiamando in causa la comunità scientifica, è la tentazione a
essere i primi ad affermare o pubblicare qualcosa, tipica di un ambiente abituato e indotto alla
venerazione dell’articolo scientifico, e a premiare risultati e conclusioni roboanti. Non a caso, sono
stati già pubblicati in pochi giorni, su riviste scientifiche importanti, contributi fuorvianti o addirittura
errati circa il passaggio nei serpenti del nuovo coronavirus o circa la sua trasmissibilità da pazienti
asintomatici. Addirittura, sono stati presentati prima della revisione scientifica studi
metodologicamente compromessi a un livello tale da dubitare dell’integrità degli autori: affermando
ad esempio che il nuovo coronavirus presenterebbe tracce di manipolazione in laboratorio sotto forma
di sequenze geniche conservate con il virus HIV1 o “prove molecolari” che spiegherebbero perché i

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pazienti asiatici maschi sarebbero più suscettibili all’infezione. In entrambi i casi, si tratta di solenni
stupidaggini, perché i dati alla base di queste conclusioni sono assolutamente infondati, in quanto i
metodi che li hanno prodotti sono bacati; purtroppo, ma prevedibilmente, anche se sono stati
rapidamente denunciate come tali dalla comunità scientifica, queste conclusioni hanno ormai preso
la via dei social forum, esponendo appunto la cittadinanza mondiale a “pezzi di carta” dai quali essa
non può che formarsi un giudizio erroneo.
Purtroppo, anche se la comunità scientifica da oggi smettesse la gara per primeggiare temporalmente
nella comunicazione e per guadagnare autorità dalla pubblicazione scientifica, e cominciasse quindi
a fornire i giusti risultati e le giuste conclusioni sull’ informazione attualmente disponibile e su quella
non disponibile, e sugli sforzi di ricerca in corso, rimarrebbe tuttavia il problema di fondo: la comunità
scientifica non è mediamente in grado (salvo lodevoli e fortunate eccezioni) di comunicare rischi e
rimedi alla popolazione tutta. Ed è quindi necessario chiamare in causa i professionisti della
comunicazione.
Tuttavia, anche questi sembrano essere infettati dallo stesso virus che ha contagiato la comunità
scientifica: sicché si ha, ad esempio, l’ufficio stampa di un prestigioso ospedale e centro di ricerca
che comunica un risultato scientifico ponendo l’accento sul fatto di essere stato tra i primi a isolare il
virus, scatenando la corsa dei giornalisti a inondare dell’opinione di singoli esperti le pagine dei
giornali ed i canali televisivi. E non bisogna dimenticare quelli che potremmo chiamare gli sciacalli
dell’informazione, cioè quei professionisti che deliberatamente deformano le informazioni
disponibili, riportano fattoidi non controllati e piegano alle loro opinioni ogni singolo effetto, per
titillare il proprio pubblico di riferimento e guadagnare in termini di copie vendute, click e share.
Ai giornalisti e ai comunicatori in genere, oltre che gli aspetti etici del proprio mestiere, dovrebbe
ben venire in mente che nessun singolo esperto può esprimere altro che un’opinione informata, ma
pur sempre individuale, sui fatti, nel momento in cui mancano ancora un’analisi ampia e i dati per
condurla, e che, per ripetere il concetto, non dai singoli esperti, ma dai gruppi di ricercatori – le
famose istituzioni scientifiche e sanitarie – bisogna attingere, limitandosi forse a notizie meno
eccitanti, ma certamente più solide (pur se in evoluzione e nemmeno esse scevre di possibilità di
errore).
Inoltre, i giornalisti delle grandi testate, gli opinionisti, gli intrattenitori televisivi: tutti dovrebbero
ricordarsi di attingere alle voci fin troppo neglette di chi della comunicazione scientifica ha fatto un
mestiere, ed è l’unico in grado di trasformare una statistica in un’informazione utile (magari non sexy
come la si vorrebbe, ma utile): i giornalisti scientifici e i comunicatori, che dovrebbero essere chiamati
in prima linea dalle testate nazionali e a cui bisognerebbe rivolgersi di più, senza per esempio affidare

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a chi di solito fa cronaca il racconto della quarantena degli italiani di ritorno dalla Cina o la notizia
delle nuove sperimentazioni di composti contro il nuovo virus.
La comunità dei comunicatori e dei giornalisti scientifici dovrebbe a sua volta essere sufficientemente
coesa su metodi comunicativi e contenuti, per esprimere una voce coerente, sia al proprio interno sia
in rapporto agli esperti, evitando inutili gare; certo, qualche disaccordo sarà forse inevitabile, ma sarà
pure certamente da preferire per la composizione di articoli o di programmi televisivi rispetto
all’operato di chi ha la stessa mancanza di competenza del lettore nel comunicare fatti complessi e in
divenire. Vero, informazioni per esempio sul tipo e sull’entità di guai che questo nuovo coronavirus
può provocare non sono ancora solide; molti sono i limiti delle nostre attuali conoscenze e molti sono
gli sforzi di ricerca in corso, dei quali ancora non possiamo discernere i risultati; però, ricordando di
comunicare solo ciò che si sa, ciò che non si sa, e ciò di plausibile che si sta facendo, basandosi su
fatti concreti, e su numeri reali, si può correttamente e utilmente informare senza sommergere la
comunità di fatti, fattoidi, panzane, anche se mescolati a qualche verità. Sobrietà comunicativa
anziché eccitanti paginate scandalistiche: volendo estremizzare, questo è l’unico rimedio al rischio
del teorema di Condorcét.
In questo spirito, ci piacerebbe che questo contributo per la nostra rubrica suscitasse commenti,
perché vorremmo continuare la discussione, ampliando, sulla falsariga di quanto abbiamo scritto,
aspetti che qui abbiamo appena toccato: statistici, storici, epidemiologici, e anche di tipo più generale.

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Salvatore Palidda - Coronavirus en Italie: alarme justifié ou absurde incitation à la paranoïa?


[23 Febbraio 2020 – Mediapart.fr]

Dans toutes les régions du nord de l’Italie l’alarme est presque totale : écoles et universités fermés,
stop aux matches de foot ; tous les lieux publics fermés (sauf les supermarchés qui sont pris d’assaut).
Une alarme que selon certains est exagéré et injustifié par rapport à bien d’autres insécurités ignorées.
A quoi ça va servir cette exaspération mondiale de la peur ?
Lombardie, Vénétie, Piémont, Ligurie : tout ce qui relève du domaine publique et parapublique est
bloqué ; écoles, universités et meme les églises. En Italie la santé publique et es écoles tout comme
n’importe quel manifestation et lieux ouvert au public relève du domaine des régions et des institution
locales et voilà que dans toutes ces région (gouvernés par les droites) presque tout a été fermé. Mais
pas les supermarchés qui tout de suite sont tombé en rupture de stock et les étager vides.

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Mais voici ce qu'en dit Maria Rita Gismondo, directrice du service de microbiologie, virologie et
diagnostic des bio-urgences de l'hôpital Sacco de Milan, centre de référence des contagions en
Lombardie:
"On a fait passer une infection juste plus grave qu'une grippe par une pandémie mortelle. Ce n'est pas
comme ça! Notre laboratoire a fait des tests toute la nuit. Des échantillons arrivent tout le temps: cela
me semble fou. Regardez les chiffres. Cette folie ça va faire très mal, surtout d'un point de vue
économique ... Ce n’est pas une pandémie! Pendant la semaine passée la mortalité pour influence
(grippe) a été de 217 décès par jour ! Pour Coronavirus un seul décès !!!
"Mes anges sont épuisés. Je cours pour leur apporter le petit déjeuner. Aujourd'hui mon dimanche
sera au sac. S'il vous plaît, baissez le ton ! ".
Mais ces propos ont été attaqués par les champions de l’alarmisme.
Par contre, selon une autre illustre virologue italienne, Ilaria Capua, qui dirige le One Health Center
of Excellence de l'Université de Floride aux États-Unis: "il ne faut pas ni pleurer mais non plus rire;
il suffit de suivre de près ce que les organisations internationales nous disent à faire. L'Italie connaît
une situation plus critique car elle recherche des cas plus activement que d'autres. Il y a un syndrome
pseudo-grippal causé par un coronavirus qui pourrait durer jusqu'à la fin du printemps ou avant l'été.
Nous devrons faire face à ce virus pendant un certain temps; mais il faut utiliser le cerveau et éviter
de véhiculer des stupidités qui font peur aux personnes les plus fragiles. S'il s'agit d'une pandémie
nous ne pourrons dire que lorsque des tests de diagnostic sont appliqués dans toute l'Europe. Je suis
convaincue, conclut-elle, que le virus voyagera assez rapidement dans le monde, car nous sommes
nombreux et le virus trouvera nombreux corps tels que des batteries, mais cela ne signifie pas qu'il y
aura des formes graves, en effet il sera très probablement de plus en plus faible» (voir article sur
Repubblica.it).
Rappelons : chaque année, dans le monde entier plus de 60 millions de personnes meurent de maladies
provoquées par des contaminations toxiques et non par des pandémies et des virus, mais pour ces
causes de mortalité on fait très peu car les industries polluantes, les lobbies du charbon, du pétrole,
du gaz et de l'uranium sont protégés et les militaires dont les sites sont tous des polluants toxiques.
Or pour l’instant une chose est certaine : les seuls qui ont gagné de ce nouveau fléau d’alarme total
ce sont les supermarchés les parapharmacies qui vendent des masques pour la bouche et les nez et
des désinfectants pour se laver les mains. Probablement quelqu’un va sortir un miraculeux vaccin
antivirus genre le pseudo anti-aviaire qui permis des énormes profits à Bayer et à nombre de
politiciens dont Donald Rumsfeld, ministre de la défense de Bush I qui fit prescrire ce vaccin à un
million de soldats et personnels de l’appareil militaire américain … (lui était dans le conseil
d’administration de la société productrice des vaccins).

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Il est vrai aussi que comme dit quelques experts comme Ernesto Burgio il se peut que le coronavirus
ne soit pas un virus "ordinaire" mais un virus recombinant qui a sauté d'une espèce à une autre et
possède des séquences pour lesquelles le système immunitaire humain n'a aucune défense. Surtout,
pour la longue incubation, il est difficile d'identifier et d'isoler les personnes infectées, lesquelles ont
été contactées, prédire la propagation, etc. Ces virus qui ignorent les espèces sont le danger imminent
de manipulations génétiques imprudentes, à part ce coronavirus, une pandémie vraiment terrifiante
peut apparaitre tôt ou tard. Bref il se peut qu’on soit en face qu’une sorte d’expérimentation de
bioterrorisme et que la Chine ne le dit pas pour ne pas avouer d’avoir été suprise alors qu’elle se
prétend être la nouvelles superpuissance mondiale …
On peut alors se poser la question de savoir quoi on doit encore attendre : s’agit-il d’une énième
esclation de la provocation du jeu de pouvoir qui mise sur la généralisation de la peur ou bien une
sorte de nouvelle guerre ou encore la mise en place d’une nouvelle gigantesque spéculation
économique … mais sur la peau de milliers d’êtres humains ?

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Elenio Cicchini - Il medico della peste


Stato di emergenza sanitaria. Come la politica dispone delle epidemie
[24 Febbraio 2020 – Antinomie.it]

Come oramai è sotto gli occhi di tutti, l’accertamento dei primi casi di coronavirus in Italia ha subito
avviato a pieno ritmo la macchina politico-mediatica. Questa si fa tanto più insistente quanto più
riemerge – come spesso avviene nel caso di un’epidemia – il punto nascosto d’intersezione fra
politica e medicina, quel punto che portò Michel Foucault a definire l’ordinamento moderno uno
«Stato medicale».
Poiché in questione è lo spettro di un’epidemia (non importa quanto effettiva) che coinvolge
potenzialmente l’intero Paese, ciò sembra poter legittimare ogni misura e disposizione di legge. Non
sorprende, in questo senso, la dichiarazione dello stato di emergenza che il governatore del Friuli
Venezia Giulia ha decretato ad appena un giorno dalle prime notizie. Una misura adottata, si legge,
«per fronteggiare il rischio sanitario […] anche in considerazione dei primi casi di contagio». La
disposizione, la cui perentorietà è tutt’altro che scontata (tanto più se la regione, come è questo il
caso, non è ancora interessata da alcun episodio), non tarderà ad essere emulata.
La dichiarazione fulminea dello stato d’emergenza – una tecnica di governo estremamente delicata e
che invece, come ha notato Giorgio Agamben, sembra essere divenuta «normale e permanente»

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(Comment l’obsession sécuritaire fait muter la démocratie, 2014) –, deve lasciar riflettere se non sia
più pericoloso il virus o piuttosto il clima di terrore mediatico che si sta diffondendo in ogni luogo.
Non può passare inosservata la chiusura immediata in Veneto delle università e delle scuole a fronte
della sospensione tardiva delle manifestazioni del Carnevale di Venezia; o ancora le misure di
controllo sui residenti in Lombardia e Veneto adottate da alcune regioni italiane e nazioni europee;
mentre la richiesta del segretario generale del Sindacato medici italiani di obbligare l’isolamento
domiciliare degli abitanti delle città interessate è stata accolta dal governo con un apposito decreto
legge che, «per ragioni d’igiene e sicurezza pubblica», militarizza le zone interessate prevendendo
una sanzione penale per chi viola l’isolamento.
Se, come l’analisi storico-epidemiologica ci insegna, la comparsa di nuovi focolai epidemici è sempre
legata a profonde trasformazioni economico-sociali della popolazione, le misure intraprese per
contenerne la diffusione registrano a un tempo il cambiamento nella loro gestione politica.
Il concetto di igiene è fin da sempre connaturato alla dimensione politica. Se in Platone «sana» è una
forma di vita (bios) preferibile per i piaceri a quella malata (Leggi, 733) e analoga a quella giusta per
la costituzione della polis (Repubblica, 444), fra i compiti assegnati da Aristotele ai dieci funzionari
incaricati di sorvegliare la città ateniese vi era quello di controllare lo smaltimento dei rifiuti e lo stato
d’igiene pubblica (Costituzione degli Ateniesi, L). Ma una compenetrazione sempre maggiore fra la
prassi medica e quella politica si registra in Occidente a partire dal XVIII secolo, quando i governi
nazionali creano le prime unità di sanità pubblica. Risale a quel periodo la diffusione del concetto di
«polizia medica» (medicinische Polizey) elaborato da Johan Peter Frank (1745-1821), allora
professore presso la clinica di Pavia. La «polizia medica», si legge, è un’«arte della difesa»
(Verteidigungskunst) […] che protegge gli uomini contro le conseguenze nefaste dei grandi
sovraffollamenti». Ma la novità, rispetto alla politia medica che eccezionalmente operava durante la
peste, è che essa non si limita più ad agire in periodi di epidemia, ma contribuisce a «favorire» in ogni
tempo dei cambiamenti nel regime di vita quotidiano delle persone (System einer vollständigen
medizinischen Polizey, 1779-1819).
Come è stato mostrato in uno studio recente (B. Fantini, La storia delle epidemie, le politiche sanitarie
e la sfida delle malattie emergenti, 2014), decisivo sarà il progressivo slittamento del significato di
igiene dalla sfera medica a quella politica: l’igienista – questa nuova e dirimente figura – nutre
«l’ambizione di formulare le leggi generali che caratterizzano la civiltà» (A. Proust, Traité d’hygiène
publique et privée, 1881). I suoi studi sulla qualità degli alimenti e le condizioni abitative tendono
progressivamente ad assumere forma di legge. Lo spazio urbano, è stato detto, diventa così il terreno
stesso dell’«articolazione della coppia sano-morboso […] la forma stessa della popolazione» (A.
Cavalletti, La città biopolitica. Mitologie della sicurezza, 2005).

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Anche le forme di sapere si riorientano al nuovo modello sanitario. Quando nel 1878 s’inaugura a
Parigi il primo Congresso Internazionale di Igiene e Demografia, statistica e biologia divengono
strumenti pienamente politici. Iniziano così ad essere archiviati e comparati i primi dati sulle
condizioni igieniche delle popolazioni europee. È la nascita di quella situazione che Foucault ha
descritto in una conferenza del 1974, ove l’intervento medico non conosce alcun limite e il suo fine
consiste in una «somatocrazia» generalizzata, cioè un governo sociale e giuridico della comunità in
nome della relazione fra malattia e salute (Crise de la médecine ou crise de l’antimédecine?, 1974).
La riflessione biopolitica contemporanea ha da tempo mostrato come, se lo Stato moderno si fonda
sulla salvezza della vita biologica della popolazione – «la salute degli italiani», così il Presidente del
Consiglio domenica 23 febbraio, «nella gerarchia dei valori costituzionali è al primo posto» –,
tuttavia a un tempo esso, proprio come la medicina con cui tende a confondersi, dispone in ogni
momento della sua limitazione, cioè anche sempre della sua morte. Così Foucault non mancava di
notare il legame sempre più stretto fra diritto penale e malattia mentale; come la paradossale
concomitanza tra il piano Beveridge (1942) – modello per l’organizzazione di ogni sanità pubblica –
e la seconda guerra mondiale (La Naissance de la biopolitique, 1979).
Così è oggi evidente la confusione fra conoscenze e strumenti sanitari da un lato, e dispositivi e
approcci militari di sicurezza dall’altro. Lo Stato italiano militarizza un territorio per ragioni di
sicurezza pubblica, e queste coincidono immediatamente con ragioni di igiene.
Forse in nessuna figura il legame di autorità militare e perizia medica è impresso in modo così netto
come nell’immagine del medico della peste, la cui terribile maschera a becco viene portata in giro
durante i giorni del carnevale per le calli di Venezia. La tipica foggia con tunica in pelle nera, bastone
e guanto d’arme era non a caso stata elaborata da Charles Delorme (1584-1678), medico di Luigi
XIII, su modello di un’armatura medievale.

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Nel Traité de la peste composto durante l’ultima grande epidemia di peste a Marsiglia (1720-21), il
ginevrino Jean-Jacques Manget descrive la prassi che devono assumere i medici della peste. Il medico
(«Capo, Capitano o Direttore, come meglio si crede») deve disporre di un ingente apparato poliziesco
(bien policées), e alla fine non si comprende se sia il medico a fungere da poliziotto o se sia piuttosto
la polizia a governare l’assistenza medica. L’ospedale preleva da casa i pazienti con la forza e punisce
severamente coloro che contravvengono al regolamento. Così Lodovico Muratori, ne Del governo
della peste (1714), sancisce esplicitamente l’identità di epidemia e guerra: «nei sospetti e pericoli
della peste una città si truova nello stato medesimo come se fosse minacciata di Guerra […] con
questa sola differenza, che i mali e i danni d’una Guerra vengono regolarmente da chi è Nimico, e
straniero; e quei della peste da chi regolarmente è Amico. […] Ma chiunque vuol’offendere la vita
nostra, e del Popolo nostro, quantunque internamente non covi egli in seno sì barbara voglia, pure si
presume nostro Nimico».
Quello che sta accadendo sotto i nostri occhi non può lasciarci all’oscuro di questo mortifero
paradigma. Dinanzi alla comparsa dello spettro di una presunta epidemia, sembrano darsi le
condizioni perché venga meno ogni distinzione tra potere militare e assistenza medica, politica
securitaria e politica sanitaria.
Nello stato d’emergenza securitario-sanitario, i militari sequestrano i presunti luoghi del contagio,
prelevano e consegnano agli ospedali gli abitanti, mentre i giornali alimentano, con la ricerca
ossessiva di un “paziente 0”, una pericolosa caccia all’untore. Al netto delle decisioni, spesso radicali,
che la prassi politica impone, non è tuttavia possibile esimersi dal premonire sulle possibili derive di
ogni misura eccezionale di contenimento.

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Wu Ming - Diario virale. I giorni del coronavirus a Bulåggna (22-25 febbraio 2020)
[25 Febbraio 2020 – wumingfoundation.com]

Le mascherine erano pantomima, non prevenzione. La maggior parte della gente lo aveva capito,
oppure prevaleva il timore del ridicolo: era pur sempre una città che amava stare in ghingheri. Fatto
sta che le mascherine si vedevano quasi solo sui giornali e sui siti dei giornali.
Nei primi giorni, si era trattato sempre di operatori sanitari, infermieri, gente che lavorava in ospedale,
poi erano arrivate a valanga le foto dal presunto “shock value” (oooooh!): tizi con la mascherina
davanti al Duomo di Milano o in altri luoghi famosi. A Bologna, l’edizione locale di Repubblica

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mostrava ogni giorno foto di qualcuno che girava sotto i portici con la mascherina. Per la verità, era
sempre un fagiano isolato, attorniato da altre e altri che non la indossavano e forse lo compativano.
Eppure Chiara, che lavorava in farmacia, ci raccontava di quante persone entravano e le chiedevano
mascherine, dopo aver superato almeno cinque cartelli che avvisavano del loro esaurimento. Un
conoscente si vantava di averne acquistate on line un pacco da dieci, per tutta la famiglia, già all’inizio
di febbraio. Comprare la mascherina era un modo per sentirsi efficienti, pronti alla battaglia.
Omologati e quindi più sicuri. Era il desiderio per un oggetto solo perché lo desiderano gli altri. Un
mix di consumismo e paranoia. Very emiliano.
La mascherina era l’equivalente individuale, personal, delle «misure di prevenzione» imposte alla
cittadinanza. Non c’era bisogno di indossarla davvero. Contava il gesto: come certi eroinomani che
rimangono dipendenti dal buco, anche senza iniettarsi la roba. Tornato a casa, te ne dimenticavi, la
imbucavi in un armadio e tanti saluti. Pura funzione apotropaica. Un talismano. Nel frattempo,
proprio facendo la coda in farmacia, potevi esserti beccato il virus. La deterrenza produce quel che
vorrebbe evitare.
Nel tardo pomeriggio del 23 febbraio avevamo perlustrato due quartieri – Navile e Porto – in cerca
di mascherine. Da poche ore era arrivata l’ordinanza del governatore Bonaccini, tanto perentoria
quanto ambigua nelle formulazioni, anche per via di un inquietante eccetera:
«Sospensione di manifestazioni o iniziative di qualsiasi natura, di eventi e di ogni forma di
aggregazione in luogo pubblico o privato, anche di natura culturale, ludico, sportiva ecc, svolti sia in
luoghi chiusi che aperti al pubblico […]»
Non avevano scritto «politica e sindacale», ma nell’eccetera molti avevamo letto precisamente quello.
«Il 29 c’è la manifestazione per Orso in Cirenaica», si diceva nelle mailing list. «Che faranno?
Mandano la Celere a caricarci in quanto “untori”?»
L’ordinanza proseguiva:
«chiusura dei servizi educativi dell’infanzia e delle scuole di ogni ordine e grado nonché della
frequenza delle attività scolastiche e di formazione superiore, corsi professionali, master, corsi per le
professioni sanitarie e università per anziani ad esclusione dei medici in formazione specialistica e
tirocinanti delle professioni sanitarie, salvo le attività formative svolte a distanza […] Sospensione
dei servizi di apertura al pubblico dei musei e degli altri istituti e luoghi della cultura […] nonché
dell’efficacia delle disposizioni regolamentari sull’accesso libero o gratuito a tali istituti o luoghi.»
I musei… ma non le biblioteche. Noi stessi, nei giorni seguenti, avremmo continuato a lavorare nella
sala studio di una biblioteca di quartiere, piena zeppa di gente.
L’ordinanza era piena di nonsense e buchi, tanto che il giorno dopo una circolare applicativa avrebbe
tentato di mettere toppe, col solo risultato di rendere la situazione ancor più contraddittoria e surreale.

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Dicevamo della perlustrazione. La Bolognina era piena di gente. In Piazza dell’Unità si giocava a
basket e si chiacchierava a capannelli, come sempre. Lì accanto, il supermercato Pam era aperto e
affollato, come al solito. Nessuno faceva incetta nevroticamente, nessuno portava la mascherina.
C’erano scaffali semivuoti, ma la domenica sera succede sempre. Giusto il ristorante cinese, la sera
prima, aveva un aspetto diverso. In un sabato normale, era impossibile trovare un posto a sedere senza
aver prenotato. Invece, in tutto il locale, i clienti occupavano soltanto due tavoli. In compenso i cinesi
erano dappertutto, com’era normale in Bolognina, e nessuno che li scansasse o gridasse loro qualcosa.
L’emergenza sanitaria non faceva diventare razzista o sinofobo chi non lo era. Semmai, faceva
emergere un razzismo pre-esistente, che usava il virus come pretesto per sfogarsi.
Un tramonto di una bellezza da restare attoniti tingeva il cielo di scarlatto e carminio, per contrasto
facendo sembrare nera la stazione vista dal ponte Matteotti, e trasfigurando tutto il mondo intorno. Il
giorno dopo, avremmo rivisto quei colori su Repubblica on line, a far da sfondo per posti di blocco e
gente in mascherina, come nella locandina di un film apocalittico di serie B.
A nord del ponte, la Bolognina; a sud, via Indipendenza saliva fino al Nettuno. Eravamo entrati in
stazione ed era affollatissima, zero mascherine anche lì. Avevamo incontrato De Bellis, una vecchia
conoscenza, e scambiato due chiacchiere sulla psicosi da coronavirus… ma intorno a noi non ce n’era
traccia. Normalità anche dentro il Despar della stazione, niente incetta, c’era chi comprava solo tre
birre, un sacchetto di Fonzies… Intorno a piazza Medaglie d’oro i soliti bar, le pizzerie al taglio, le
gelaterie… Tutto come di consueto.
Via Indipendenza, via dei Mille, Piazza dei Martiri, via Marconi… Là in alto, la sagoma scura di
Villa Aldini. Moltitudine di corpi a passeggio. Bambine e bambini tornavano in costume da feste di
carnevale, coi loro genitori. Genitori tranquilli e sorridenti. Eppure, come appurato direttamente e da
testimonianze altrui, le chat di genitori – il vero inferno del dark web contemporaneo – erano in preda
alla pazzia, sature di un vero e proprio desiderio di fascismo profilattico, e di terrore per le sorti dei
bambini.
L’allenatore di uno sport di squadra, per ovviare alla chiusura della palestra, aveva proposto ai
ragazzini di trovarsi in un parco, visto il caldo primaverile. Una madre gli aveva risposto
sottolineando il passaggio dell’ordinanza regionale che vietava l’aggregazione in luoghi pubblici e
privati. Eppure, in nessuna parte del mondo, nemmeno a Wuhan, risultavano morti minorenni, anzi,
sembrava proprio che al nuovo virus i bambini fossero quasi immuni.
Forse anche chi rovesciava nelle chat quell’ansia e quella furia, dopo, per strada, si comportava da
persona raziocinante. Anche quello era un gesto apotropaico. Uguale e contrario a quello di chi
sosteneva che il virus era solo una barzelletta e sfornava calembours, si dava alla memetica spinta,
cazzeggiava a getto continuo. Il cinismo e la paranoia vanno a braccetto, si nutrono della stessa

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sfiducia, dello stesso rifiuto per qualunque chiave di lettura del mondo. Senza chiavi, non entri più da
nessuna parte. E se ti scappa da cagare, puoi solo cagarti addosso. In ogni caso, se uno non avesse
avuto lo smartphone, girando per le vie non si sarebbe accorto di nulla. Cosa dovevamo concluderne?
Forse che, almeno a Bologna, la paranoia era in gran parte confinata alla sfera mediatica-social.
A essere paranoica e ansiogena era stata per prima l’informazione mainstream. In seconda – ma
rapidissima – battuta quel mood si era impossessato della classe politica, degli amministratori locali
e di una minoranza di persone comuni. Sì, almeno da noi, sembrava proprio una minoranza: persone
perlopiù attempate e sole, che credevano alla tv o a Facebook e si precipitavano in farmacia per
accaparrarsi l’amuchina.
Si stava generando un grande paradosso: la Regione Emilia-Romagna disponeva la chiusura di (quasi)
tutti i luoghi di cultura e socialità, quelli dove si sarebbe potuta elaborare insieme l’emergenza –
scuole, musei, teatri, cinema – e vietava le manifestazioni con un «ecc», mentre la gente continuava
ad ammassarsi nelle stazioni e nei luoghi del consumo.
I centri commerciali e i supermercati funzionavano as usual. Quel pomeriggio Jadel era stato all’Ikea
e riferiva del sempiterno marasma di corpi che avanzavano a serpentone, tra camerette di bimbi
virtuali e tinelli abitati da spettri di famigliole. Bruno era passato all’Ipercoop Lame: piena zeppa.
Nelle palestre – le vedevi attraverso le vetrate che davano sui passeggi – ci si allenava come al solito:
si sudava, ci si respirava l’alito a vicenda, ci si spogliava e si faceva la doccia negli stessi vani.
Sia chiaro, non stiamo dicendo che dovevano chiudere anche quelli: al contrario, facciamo notare che
lo scopo dell’ordinanza non era la profilassi. Stante quella situazione, che profilassi vût mâi fèr?
Le strombazzate chiusure erano sanitariamente inutili, com’era stato inutile bloccare i voli, mettere
posti di blocco sulle strade, far camminare avanti e indietro poliziotti e militari in mimetica.
L’Italia era stata l’unico paese europeo a bloccare i voli dalla Cina. Null’altro che teatro, oltreché un
contentino agli idioti e mestatori che sbraitavano: «Chiudere le frontiere!» Un provvedimento
facilissimo da capire, ma di nessuna utilità, anzi, controproducente.
A ogni epidemia si facevano le stesse cose, col pilota automatico, e ormai c’erano studi su studi a
dimostrare che non servivano o facevano proprio danni.
Nel 2003, in piena epidemia di SARS, il Canada aveva sperperato oltre 7 milioni di dollari in controlli
di passeggeri in arrivo… senza trovare un solo contagiato. Quei soldi, avevano concluso gli autori di
uno studio apparso sulla rivista scientifica Emerging Infectious Diseases, sarebbe stato meglio
investirli direttamente nella sanità. Sei anni dopo, in pieno allarme da influenza «suina», l’Australia
aveva fatto la stessa cosa: aveva militarizzato otto aeroporti e controllato quasi due milioni di
passeggeri in arrivo o di ritorno nel Paese. Il tutto per identificare solo 154 persone che forse avevano
l’influenza in forma lieve. Anche in quel caso, a detta di chi aveva analizzato la vicenda, si erano

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sprecate preziose risorse, sottraendole alla sanità. Lo stesso sfoggio di inutilità si era avuto con
l’aviaria, con Ebola e, in Cina negli ultimi due mesi, con lo stesso Covid 19.
Pure in Italia stavamo assistendo a un gigantesco sperpero di soldi pubblici, spesi in militarizzazione,
posti di blocco e pattugliamenti vari anziché usati per potenziare la sanità pubblica – indebolita da
trent’anni di «aziendalizzazione», tagli, esternalizzazioni – per renderla in grado di affrontare un
acuirsi della crisi.
Anche l’efficacia sanitaria dei “lockdown” territoriali, cioè delle quarantene di massa, era messa in
discussione da diversi studi. Per quanto fosse controintuitivo, alcune ricerche sembravano dimostrare
che i lockdown delle zone ad alto rischio aumentavano il numero di contagi e l’estensione
dell’epidemia. No, la profilassi – almeno quella in senso stretto – c’entrava poco, come con le
mascherine.

La situazione in pugno.
«Chiudere tutto» aveva una finalità a breve termine diversa da quella sbandierata, e poi aveva una
funzione sistemica, oggettiva, a lungo termine, di cui Bonaccini e la sua giunta – e i loro omologhi di
altre regioni – erano solo esecutori semiconsapevoli. La finalità a breve termine era fare teatro: esibire
«prontezza» e «nerbo» a favore di telecamere, mostrare che «si stava agendo», poco importava se a
cazzo di cane e senza costrutto, l’importante era agire, subito! «Subito» era la parola magica: «Bravo
Bonaccini che si è mosso subito!» . L’altro concetto virale era: «Meglio troppo che troppo poco».
Seguivano i like.
La rappresentazione più plastica di quell’atteggiamento l’aveva fornita il governatore della Regione
Marche, che parlando in conferenza stampa, aveva prima annunciato la chiusura di tutte le scuole di
ogni ordine e grado, per rimangiarsi il provvedimento seduta stante, dopo aver ricevuto in diretta una
telefonata dal governo nazionale.
Le decisioni drastiche servivano giusto a pararsi il culo e a stendere un velo sul solito pressapochismo.
La funzione sistemica, invece, aveva a che fare con la biopolitica, con il governo dei corpi e il
controllo della popolazione. Come ogni “emergenza” pompata e montata, anche questa tornava buona
per stabilire un precedente. «Chiudere tutto» – o meglio, fingere di chiudere tutto – non serviva a
niente, ma non appena la situazione fosse migliorata, i politici avrebbero dato il merito ai
provvedimenti. Il tran tran sarebbe ricominciato, ma con più controllo di prima, più sorveglianza, e
con l’idea condivisa che da un giorno all’altro si poteva bloccare la cultura, vietare ogni riunione,
associazione, “assembramento” di persone non finalizzato al mero consumo, col consenso di

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un’opinione pubblica impaurita («Qualcosa si deve pur fare!»). O meglio: col consenso dei media e
di una minoranza rumorosa di imparanoiati, che creavano l’effetto di un’opinione pubblica impaurita.

Nel suo capolavoro Sorvegliare e punire (1975), Michel Foucault aveva descritto un “lockdown” del
XVII secolo:
«Ecco […] le precauzioni da prendere quando la peste si manifestava in una città. Prima di tutto una
rigorosa divisione spaziale in settori: chiusura, beninteso, della città e del “territorio agricolo”
circostante, interdizione di uscirne sotto pena della vita, uccisione di tutti gli animali randagi;
suddivisione della città in quartieri separati, dove viene istituito il potere di un intendente. Ogni strada
è posta sotto l’autorità di un sindaco, che ne ha la sorveglianza; se la lasciasse, sarebbe punito con la
morte. Il giorno designato, si ordina che ciascuno si chiuda nella propria casa: proibizione di uscirne
sotto pena della vita. Il sindaco va di persona a chiudere, dall’esterno, la porta di ogni casa; porta con
sé la chiave, che rimette all’intendente di quartiere; questi la conserva fino alla fine della quarantena.
Ogni famiglia avrà fatto le sue provviste, ma per il vino e il pane saranno state preparate, tra la strada
e l’interno delle case, delle piccole condutture in legno, che permetteranno di fornire a ciascuno la
sua razione, senza che vi sia comunicazione tra fornitori e abitanti; per la carne, il pesce, le verdure,
saranno utilizzate delle carrucole e delle ceste. Se sarà assolutamente necessario uscire di casa, lo si
farà uno alla volta, ed evitando ogni incontro. Non circolano che gli intendenti, i sindaci, i soldati
della guardia e, anche tra le cose infette, da un cadavere all’altro, i “corvi” che è indifferente
abbandonare alla morte: sono “persone da poco che trasportano i malati, interrano i morti, puliscono
e fanno molti servizi vili e abbietti”. Spazio tagliato con esattezza, immobile, coagulato. Ciascuno è
stivato al suo posto. E se si muove, ne va della vita, contagio o punizione.»
La noncuranza per la sorte dei “corvi” – infermieri, portantini, ausiliari sanitari – accomunava quel
regolamento dei tempi della peste ai giorni del Covid 19 in Italia. Pochi sembravano preoccuparsi del
superlavoro in ospedali e laboratori, dei turni raddoppiati e triplicati, dell’esaurimento psicofisico del
personale in un settore da tempo in sofferenza.
Perché Foucault aveva scritto di quarantena nel XVII secolo? Perché quella logica era sopravvissuta
anche dopo la peste, la quarantena era rimasta come possibilità, opzione sempre praticabile nel
rapporto tra pubblici poteri e corpo sociale. Quel normare lo spazio urbano, le vite e i corpi aveva
aperto la strada all’affermarsi delle società disciplinari del XIX-XX secolo:
«Alla peste risponde l’ordine: la sua funzione è di risolvere tutte le confusioni: quella della malattia,
che si trasmette quando i corpi si mescolano; quella del male che si moltiplica quando la paura e la
morte cancellano gli interdetti. Esso prescrive a ciascuno il suo posto, a ciascuno il suo corpo, a
ciascuno la sua malattia e la sua morte, a ciascuno il suo bene per effetto di un potere onnipresente e

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onnisciente che si suddivide, lui stesso, in modo regolare e ininterrotto fino alla determinazione finale
dell’individuo, di ciò che lo caratterizza, di ciò che gli appartiene, di ciò che gli accade. […] la
penetrazione, fin dentro ai più sottili dettagli della esistenza, del regolamento -– e intermediario era
una gerarchia completa garante del funzionamento capillare del potere; non le maschere messe e tolte,
ma l’assegnazione a ciascuno del suo “vero” nome, del suo “vero” posto, del suo “vero” corpo, della
sua “vera” malattia. La peste come forma, insieme reale e immaginaria, del disordine ha come
correlativo medico e politico la disciplina.»
I “lockdown” del 2019-2020, inutili allo scopo dichiarato, avrebbero però rafforzato la presa del
«capitalismo della sorveglianza», che realizzava una sintesi di società disciplinare e società del
controllo diffuso.

In ogni caso, in Italia non c’era la peste. I pochi morti che il Covid 19 aveva fatto erano quasi tutti
over 80 e già debilitati da altre patologie. Probabilmente il virus era già in Italia da settimane, un
sacco di gente se l’era già preso ed era guarita, e altri se lo stavano prendendo senza entrare nei radar.
Se non eri già messo male di tuo, poteva colpirti duro, ma la superavi. In fondo il quadro clinico era
molto simile a quelli delle influenze stagionali – che ogni anno, solo in Italia, uccidevano ottomila
persone, mentre al momento i morti accertati per Covid 19 erano solo sette (7).
I media aizzavano a trovare il misterioso «Paziente zero», ma forse non lo trovavano perché era già
guarito, e sarebbe stato per sempre ignaro del proprio status di contagiato n.1. E la ricerca del
«Paziente zero» cos’era, se non un’altra manifestazione di paranoia? Paranoico è chi, anziché
domandarsi «cosa?», si domanda: «Chi?» Paranoico non è chi teme un potere totalitario che tutto
controlla, ma chi lo evoca e in fondo lo brama, perché sente marcire, intorno a sé, ogni autorevolezza
e ogni significato. Nel mentre gli anziani, cioè i soggetti più a rischio, senza particolari tutele,
venivano lasciati in balia di un’informazione apocalittica, che li bombardava con immagini di
supermercati svuotati e bottigliette di amuchina in gel ormai introvabili e preziosissime, spingendoli
così a precipitarsi in un affollato centro commerciale, dov’era più probabile il contagio.
Eravamo il Paese europeo con più casi accertati, ma forse era solo perché facevamo test a pioggia.
Quando in tutta la Francia, senza scomporsi, ne avevano fatti solo 800, soltanto nel Lodigiano noi ne
avevamo già fatti più del doppio e richiesti ben 4000. È chiaro che in quel modo trovi ammalati. Ma
i media pestavano, pestavano, pestavano, con coperture sempre più forsennate, titoli sempre più
allarmistici, e sembrava la grande pestilenza del 1348.
– Che dobbiamo fare? – c’eravamo chiesti.

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– Scriveremo il Decamerone!
– Anche meno. Scriviamo un diario collettivo di questi giorni.

I media mainstream erano i veri untori.


Di fronte al nuovo coronavirus, la già normalmente pessima informazione italiana aveva toccato il
fondo di un nuovo abisso. Tutti i suoi soliti “tic” si erano uniti in un effetto palla di neve che
alimentava la psicosi. Anche le notizie in apparenza tranquillizzanti, responsabili, «niente panico»,
andavano a farcire il classico “panino”, inserite tra affermazioni e testimonianze di segno contrario.
Come sempre, poi, imperversava il ritornello sugli «esperti», unici autorizzati a illustrare la soluzione
del problema. «Non facciamo politica, lasciamo parlare i tecnici!»
Ma appena i tecnici aprivano bocca, risultava chiaro che:
a) alcuni, da tempo trasformati in opinionisti televisivi e star da social network, erano ormai schiavi
del proprio personaggio e delle aspettative del pubblico;
b) alla fine della fiera, le soluzioni proposte erano sempre politiche e sociali, perché fronteggiare
un’epidemia con mille o diecimila posti letto in ospedale fa tutta la differenza del mondo, e investire
in posti di blocco anziché nell’aumento di posti letto non è una decisione «tecnica», da esperti, ma
politica, da amministratori;
c) I potenziali o sedicenti «esperti» erano migliaia e le loro spiegazioni spesso si contraddicevano,
generando solo una maggiore confusione e una forte predisposizione al complottismo, perché «se
fanno tanto casino, dev’esserci sotto qualcosa che non ci raccontano».

Anche le conseguenze del «chiudere tutto» erano politiche e sociali.


Pochi si preoccupavano di quanti avrebbero perso lo stipendio, e in diversi casi anche il lavoro. Al
contrario, si lodavano alcuni negozianti cinesi che avevano deciso – obtorto collo – di sospendere le
loro attività. Che pensiero carino! Il paternalismo verso quei «bravi cinesi» ricordava molto da vicino
quello per i «bravi negri» che facevano volontariato, lavoravano gratis, si meritavano le nostre
carezze. I sindacati – tutti: confederali e di base – avevano fatto notare che le incongruenze
dell’ordinanza bonacciniana mettevano a rischio un gran numero di lavoratori, soprattutto precari.
E la scelta di chiudere le scuole per un virus che non colpiva i bambini e falcidiava soprattutto anziani
– i quali, di norma, non bazzicavano le aule – generava problemi a cascata. Un amico insegnante ci
aveva descritto le proprie difficoltà:

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«Non dare continuità alle attività didattiche in questo momento dell’anno scolastico è un problema,
vi assicuro. Per i ragazzi con disabilità che seguo poi… Non vi dico. Devo cercare in questi giorni
di mantenere loro una routine a domicilio che in qualche modo simuli la scuola. Banalmente, compiti
che quotidianamente mi devono mandare per email… Già vivono un tempo sfasato e quasi mai
sincronico con il resto del mondo… Figuriamoci in queste situazioni.»
Nel tardo pomeriggio del 24 era arrivata la circolare applicativa.
Sembrava scritta da Ionesco.
Il criterio per il quale certe attività venivano proibite e altre no sembrava essere quello – alquanto
aleatorio – dell’«eccezionale concentrazione di persone». Niente manifestazioni, eventi culturali e
sportivi e altre occasioni in cui si aggregava un pubblico una tantum… ma restavano aperti i mercati
settimanali. E proseguiva l’attività di centri sportivi e ricreativi, centri anziani (proprio mentre svariati
medici consigliavano agli anziani di restare a casa), restavano aperti gli orti urbani (dove si
concentravano soprattutto anziani) ecc.

In TV e sui giornali tutti parlavano di malattia e ospedali, ma nessuno coglieva l’occasione per parlare
di com’era stata compromessa la sanità pubblica italiana in trent’anni di “riforme” neoliberali.
I decreti legislativi del 1992-93 avevano introdotto criteri aziendalistici e manageriali nella gestione
di ospedali e presidii sanitari territoriali: gli ospedali di rilievo nazionale o altamente specializzati
erano stati sganciati dalle unità sanitarie locali e trasformati in «aziende ospedaliere»; le USL stesse
– sottratte a ogni controllo da parte dei Comuni – erano divenute aziende, di diritto pubblico ma «con
autonomia imprenditoriale». Quegli stessi decreti avevano anche avviato la regionalizzazione della
sanità.
Di fatto, si trattava di controriforme, volte a ledere l’universalità, capillarità e gratuità del Sistema
Sanitario Nazionale com’era stato istituito nel 1978. La controriforma Bindi del 1999 aveva poi
implementato e accelerato ogni processo di aziendalizzazione, frammentazione, esternalizzazione,
intromissione di interessi privati nella sanità nominalmente pubblica.
Le conseguenze erano state devastanti: in base alle nuove logiche di bilancio, se un ospedale non
“rendeva” veniva chiuso. In tutta Italia se ne erano sbaraccati a centinaia, quasi sempre in provincia,
come erano stati chiusi a migliaia i presidii di specialistica ambulatoriale. Servizi essenziali si erano
allontanati di decine e decine di chilometri, in alcuni casi svanendo del tutto. Tutte decisioni prese in
ordine sparso, perché la faccenda era ormai di competenza delle diverse regioni. Il servizio sanitario
nazionale era da tempo poco più di una bella idea.

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La scarsità di posti letto per la terapia intensiva era il leitmotiv di quei giorni di coronavirus, ma tale
penuria era presentata quasi come un dato “naturale”, ineluttabile. Anziché dire che bisognava
invertire la tendenza, e tornare ad aumentare servizi e posti letto, si invitava la gente a chiudersi in
casa, ma anche no, dipende, puoi andare qui ma non là…

Soprattutto, nessuna talking head della TV, nessuna delle vedettes spettacolari che interpretavano il
ruolo di «esperto» parlava delle cause sistemiche delle recenti epidemie, delle repentine diffusioni di
nuovi virus. Farlo avrebbe comportato una critica radicale dell’aggressione capitalistica all’ambiente
e al vivente.
L’aviaria, la Sars, la suina e prima ancora la BSE erano uscite dai gironi infernali dell’industria
zootecnica planetaria. In parole povere: dagli allevamenti intensivi, per via di come gli animali erano
trattati e, soprattutto, nutriti. Ebola, Zika e West Nile erano venuti a contatto con gli umani per colpa
della deforestazione massiva e della distruzione di ecosistemi. Anziché un’occasione per mettere in
discussione il sistema che causava le epidemie, la crisi del Covid 19 era usata come diversivo per non
parlare di ambiente e di clima, proprio mentre l’inverno più caldo e secco di sempre stava seminando
morte. Lo aveva detto chiaro e tondo Fridays For Future Bologna:
«La città si mobilita con urgenza per l’emergenza corona virus, panico dilagante, chiusa l’università
e probabilmente annullato ogni tipo di evento in settimana. Eppure a Bologna il limite giornaliero
delle polveri sottili solo a gennaio è stato superato più di 11 volte, il limite giornaliero del particolato
più pericoloso per la salute umana (PM 2.5), di 25 µg/m³, più di 17 volte. Ogni anno sono oltre 30.000
i nuovi casi di tumore in Emilia Romagna , circa 87 al giorno. Si stimano in media 35-40 decessi per
tumore ogni giorno in regione. E come si sta procedendo? Approvando progetti per l’ampliamento
della tangenziale e dell’autostrada, incrementando il traffico cittadino con una mobilità pubblica
insufficiente, cara e centrocentrica. La verità che passa inosservata è che l’aria che respiriamo ogni
giorno a Bologna ci uccide ma si decide lo stesso di investire sulla morte, facendo finta di niente
manipolando le notizie. Perché si tace quando si tratta di crisi climatica? Perché ci sono troppi
interessi in ballo!»
Qualcuno aveva fatto notare che i “lockdown” cinesi avevano fatto calare le emissioni globali di CO2,
e pure da noi l’aria aveva un odore migliore. Ma era un effetto passeggero, che non aggrediva nessuna
causa strutturale.
Era necessario forare la membrana di un’informazione ossessionante, porre all’ordine del giorno i
problemi di fondo rimossi. Bisognava tornare a vivere e comunicare e lottare, oltre la visione di

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Burioni che sburioneggiava e di Giovanna Botteri che ansimava, da attrice di filodrammatica, dietro
la mascherina.
Mentre riflettevamo su tutto questo il sindaco Merola aveva dichiarato:
«Bisogna applicare l’ordinanza e non perdere tempo a discutere.»
Come volevasi dimostrare.

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Giorgio Agamben - L’invenzione di un’epidemia


Lo stato d’eccezione provocato da un’emergenza immotivata
Coronavirus. La paura dell’epidemia offre sfogo al panico, e in nome della sicurezza si accettano misure che limitano
gravemente la libertà giustificando lo stato d’eccezione
[25-26 Febbraio 2020 - Il Manifesto/Quodlibet.it]

Di fronte alle frenetiche, irrazionali e del tutto immotivate misure di emergenza per una supposta
epidemia dovuta al virus corona, occorre partire dalle dichiarazioni del CNR, secondo le quali non
solo «non c’è un'epidemia di SARS-CoV2 in Italia», ma comunque «l’infezione, dai dati
epidemiologici oggi disponibili su decine di migliaia di casi, causa sintomi lievi/moderati (una specie
di influenza) nell’80-90% dei casi. Nel 10-15% può svilupparsi una polmonite, il cui decorso è però
benigno in assoluta maggioranza. Si calcola che solo il 4% dei pazienti richieda ricovero in terapia
intensiva».
Se questa è la situazione reale, perché i media e le autorità si adoperano per diffondere un clima di
panico, provocando un vero e proprio stato di eccezione, con gravi limitazioni dei movimenti e una
sospensione del normale funzionamento delle condizioni di vita e di lavoro in intere regioni?
Due fattori possono concorrere a spiegare un comportamento così sproporzionato. Innanzitutto si
manifesta ancora una volta la tendenza crescente a usare lo stato di eccezione come paradigma
normale di governo. Il decreto-legge subito approvato dal governo «per ragioni di igiene e di
sicurezza pubblica» si risolve infatti in una vera e propria militarizzazione «dei comuni e delle aree
nei quali risulta positiva almeno una persona per la quale non si conosce la fonte di trasmissione o
comunque nei quali vi è un caso non riconducibile ad una persona proveniente da un’area già
interessata dal contagio di virus». Una formula così vaga e indeterminata permetterà di estendere
rapidamente lo stato di eccezione in tutte le regioni, poiché è quasi impossibile che degli altri casi
non si si verifichino altrove. Si considerino le gravi limitazioni della libertà previste dal decreto: a)
divieto di allontanamento dal comune o dall’area interessata da parte di tutti gli individui comunque
presenti nel comune o nell’area; b) divieto di accesso al comune o all’area interessata; c) sospensione

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di manifestazioni o iniziative di qualsiasi natura, di eventi e di ogni forma di riunione in un luogo
pubblico o privato, anche di carattere culturale, ludico, sportivo e religioso, anche se svolti in luoghi
chiusi aperti al pubblico; d) sospensione dei servizi educativi dell’infanzia e delle scuole di ogni
ordine e grado, nonché della frequenza delle attività scolastiche e di formazione superiore, salvo le
attività formative svolte a distanza; e) sospensione dei servizi di apertura al pubblico dei musei e degli
altri istituti e luoghi della cultura di cui all’articolo 101 del codice dei beni culturali e del paesaggio,
di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, nonché l’efficacia delle disposizioni regolamentari
sull’accesso libero e gratuito a tali istituti e luoghi; f) sospensione di ogni viaggio d’istruzione, sia sul
territorio nazionale sia estero; g) sospensione delle procedure concorsuali e delle attività degli uffici
pubblici, fatta salva l’erogazione dei servizi essenziali e di pubblica utilità; h) applicazione della
misura della quarantena con sorveglianza attiva fra gli individui che hanno avuto contatti stretti con
casi confermati di malattia infettiva diffusa.
La sproporzione di fronte a quella che secondo il CNR è una normale influenza, non molto dissimile
da quelle ogni anno ricorrenti, salta agli occhi. Si direbbe che esaurito il terrorismo come causa di
provvedimenti d’eccezione, l’invenzione di un’epidemia possa offrire il pretesto ideale per ampliarli
oltre ogni limite.
L’altro fattore, non meno inquietante, è lo stato di paura che in questi anni si è evidentemente diffuso
nelle coscienze degli individui e che si traduce in un vero e proprio bisogno di stati di panico
collettivo, al quale l’epidemia offre ancora una volta il pretesto ideale. Così, in un perverso circolo
vizioso, la limitazione della libertà imposta dai governi viene accettata in nome di un desiderio di
sicurezza che è stato indotto dagli stessi governi che ora intervengono per soddisfarlo.

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Pietro Saitta - Covid-19, un oggetto culturale e politico


L’emergenza relativa alla diffusione del Coronavirus ci dice qualcosa sull’Italia contemporanea e sulla governance del
rischio.
[26 Febbraio 2020 – Lavoroculturale.org]

Ciò che affascina delle emergenze – intese come quegli eventi inattesi e indesiderati che fanno
irruzione nella vita di una società e ne interrompono il regolare flusso – è la loro capacità di mettere
a nudo i tratti più autentici della normalità. Ossia le caratteristiche, le relazioni e i tic propri del
quotidiano nei tempi di pace. L’insieme di quei rapporti, insomma, che finiscono con l’essere
occultati dal fluire ordinario del tempo. Un po’ come nel caso di quell’antropologo che per
comprendere la vita nascosta di una comunità interroga con interesse lo scemo del villaggio

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normalmente relegato ai margini della vita sociale e ritenuto incapace di dire alcunché di sensato.
Oppure in quello dello sperimentatore che causa incidenti relazionali per trarre delle indicazioni sulle
aspettative comuni nella vita associata. I tempi di sospensione della normalità sono quelli che meglio
di altri illuminano l’ordinario.
Covid-19, com’è stato recentemente rinominato quel virus-specchio anamorfico della normalità che
tanto sta turbando la vita del nostro paese, è ancora più interessante perché è posto a un livello di
intersezione tra livelli politici. È cioè un fenomeno globale che, in quanto tale, getta luce non soltanto
sull’impatto e la ricezione locale di un fenomeno emergenziale, ma sugli intrecci e le fughe di un
piano dall’altro. Ciò, in altri termini, che costituisce l’adattamento locale a un fenomeno globale.
Inoltre, senza la pretesa di stare dicendo alcunché di originale, di Covid-19 possiamo anche dire che,
com’è tipico delle epidemie e dei virus, esso è un fenomeno culturale e politico. Ossia una entità che
evade dall’ambito stretto della salute e intercetta tanto il piano della risposta sociale al pericolo (per
esempio, la corsa ai supermercati, alle mascherine e ai gel igienizzanti) quanto quelli della narrazione
(in primo luogo giornalistica, improntata sul climax) e, naturalmente, della risposta politica
(incentrata sulla performance, ancora prima che sul buon governo dell’emergenza: una
contraddizione in termini che speriamo potrà emergere chiaramente da queste riflessioni).
Questa analisi non pretende di dire nulla sulla pericolosità e il rischio del virus. Ma intende trattare
quest’ultimo come un oggetto culturale e politico, rimettendo insieme alcuni pezzi scomposti che,
visti nella loro interezza, sono in grado di dire qualcosa sull’Italia contemporanea nei suoi intrecci
coi livelli superiori della governance del rischio.
Il primo banale aspetto che è possibile intravedere è relativo al fallimento della comunicazione del
rischio. Se con questa dobbiamo intendere una presa di posizione e una definizione della situazione
di matrice istituzionale ed esperta, univoca nei suoi tratti, precisa e comprensibile per un pubblico
quanto più generale, ciò che si è visto in azione è l’esatto contrario. In ragione probabilmente della
mediazione garantita dai canali generalisti di informazione – quelli, cioè, che si interpongono tra la
fonte istituzionale e il pubblico – nel corso del tempo i destinatari finali delle notizie sono transitati
attraverso registri e messaggi contraddittori, in cui a prevalere sono stati sempre e comunque i toni
allarmistici. Il principio dell’univocità e della non-contraddizione dell’informazione sul rischio è stato
dunque sistematicamente disatteso da parte dei media, in modo esplicito o attraverso la compresenza,
negli stessi spazi o in quelli concorrenti, di contenuti contraddittori, volti a produrre climi morali per
mezzo di narrazioni coinvolgenti incentrate essenzialmente sul pathos.
Questo fallimento può essere ulteriormente specificato a partire dalla compresenza e competizione
nello spazio mediatico di differenti esperti, portatori di visioni contraddittorie tra loro. Specie nel caso
italiano, la comunicazione del rischio mediata dagli organi di informazione ha finito con l’essere

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ricalcata sul modello della comunicazione politica tradizionale, incentrata sulla par condicio e sul
confronto a tratti persino urlato (si veda, per esempio, quella che è stata rappresentata come la lite tra
gli esperti Burioni e Gismondo). Ciò ha rapidamente generato la formazione di partiti o fazioni
epidemiologiche, divise tra allarmisti e rassicurazionisti, che si riflette nel basso sociale generando
confusione e, possiamo immaginare, risposte individuali, modi di comprensione della situazione e
stati d’animo differenti. Elementi che non vanno in direzione di una profilassi generalizzata e che,
soprattutto, mettono in luce, peraltro correttamente, il carattere tutt’altro che univoco della scienza.
Un ulteriore fallimento della comunicazione del rischio, dunque, riguarda l’autorevolezza della
scienza e la sua funzione coadiuvante nei processi di regolazione. In altri termini, se mai l’abbia
avuto, la scienza non detiene più alcuna forma di monopolio nella definizione delle situazioni e delle
risposte, neanche in ambiti, come quello attuale, che per definizione le perterrebbero. Una sostanziale
e ulteriore dimostrazione dello smantellamento di primati che a lungo – dal Positivismo, se non dal
Seicento – abbiamo associato ad essa e continuiamo per abitudine e cecità a fare.
Il principio della non-contraddizione della comunicazione del rischio appare inoltre violato da
un’altra sovrapposizione, relativa alla compresenza e simultaneità dei corsi di azione di differenti
agenzie di controllo. Dall’Organizzazione Mondiale della Sanità ai Ministeri della Salute di ciascun
paese e, nel caso italiano, alle agenzie decentrate di ambito regionale o provinciale, le istituzioni
coinvolte hanno agito secondo modalità autonome e contraddittorie. Negli aeroporti siciliani, per
esempio, sono stati lamentati pochi o nessun controllo sugli arrivi di persone provenienti da aree
considerate ad alto rischio. A livello nazionale, invece, il blocco dei voli provenienti da paesi ritenuti
focolai del virus ha generato le critiche dell’Oms, la quale ha lamentato una sostanziale non
ottemperanza dell’Italia alle proprie raccomandazioni. Limitandoci al solo caso nazionale, una rapida
e superficiale rassegna delle varie stampe locali mostrerebbe una disparità e contraddittorietà dei
provvedimenti adottati equivalenti al numero delle regioni, se non dei comuni (un caso a me prossimo,
Messina, mostrerebbe per esempio che nell’attimo in cui l’allarme viene recepito e un tavolo tecnico
convocato, l’amministrazione non sospende il festival della pignolata, un evento gastronomico che
prevede migliaia di partecipanti in spazi relativamente ristretti. Tutto ciò mentre si considera di
chiudere invece le scuole. Un altro fallimento della comunicazione del rischio, dunque, consiste nella
sua incapacità di imporsi persino a un livello interno, attinente cioè al coordinamento delle istituzioni
stesse. Si potrebbe altresì dire, nella vistosità delle contraddizioni tra i documenti prodotti dalle
agenzie virtualmente deputate al controllo del rischio sanitario e le azioni messe in atto dalle differenti
amministrazioni centrali o locali.
È possibile affermare inoltre che il fallimento della comunicazione del rischio ha messo a nudo la
coesistenza di due tempistiche dell’informazione e una gerarchia invertita. Da un lato vi sono i tempi

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dell’informazione “commerciale”, guidata, come si è già osservato, dal principio del coinvolgimento
e dalla velocità. Dall’altro, i tempi lenti dell’informazione istituzionale, guidati dagli imperativi della
responsabilità e dell’accordo tra esperti. Un tipo di comunicazione e una fonte che, pur virtualmente
primarie e sovraordinate, divengono nella realtà pratica – ossia nei costumi di consumo e nella
necessità sociale della mediazione – subordinate. Così che ciò che l’istituzione afferma diventa,
anziché il centro di una notizia, il semplice contorno di un’attività di scrittura – ossia di una narrazione
– che vuole essere innanzitutto coinvolgente e che appare orientata a produrre emozioni. Il secondo
fallimento della comunicazione del rischio attiene dunque ai tempi della messa in circolo dei
contenuti, alle gerarchie della loro visibilità e, infine, alla loro vulnerabilità a forme di processabilità
me In ultima analisi, le condizioni sin qui analizzate ci pongono davanti alla necessità di riflettere
sullo status della comunicazione del rischio in un regime di pluralismo delle voci, oltre che di
moltiplicazione di queste e dei media che ne amplificano il messaggio (ciò, per lo meno, se si
considerano i social network come canali capaci di generare un numero pressoché infinito di opinion-
leader, ritenuti autorevoli da differenti pubblici in ragione dei propri orientamenti politico-culturali e
dei propri capitali culturali). La questione appare particolarmente delicata perché, da un lato, implica
l’impossibilità tecnica di una informazione unica, o quantomeno dominante, all’interno di regimi che
non siano autoritari o, per lo meno, che non abbiano proclamato la sospensione del normale
pluralismo. In altri termini, siamo posti davanti alla domanda se rischi come quelli posti da Covid-19
possano essere affrontati senza la proclamazione di uno stato d’eccezione (che, a scanso di equivoci,
non è ciò che stiamo proponendo). Dall’altro lato, la crisi della comunicazione del rischio ci pone
dinanzi alla relativizzazione dell’autorità, oltre che di ciò che viene definito, oppure percepito, come
rischio.
Per essere più chiari, la crisi delle comunicazioni relative ai rischi per la vita e la sopravvivenza è la
crisi dell’autorevolezza delle istituzioni. Oppure, se si crede, del suo precipitare in un regime di
ambivalenza. Se è chiaro che la maggior parte delle persone continuerà ad attendersi delle risposte da
istituzioni di governance della salute come l’Oms, è pur vero che istituzioni di questo tipo vanno
smarrendo la loro centralità nei processi di governo. Quantomeno non hanno la stessa centralità nelle
varie fasi della crisi. Si assiste così a un doppio o un triplo movimento. Da un lato sempre più attori
hanno diritto di parola e, contemporaneamente, le popolazioni mantengono libertà di azione (possono,
per esempio, assalire i supermercati o impiegare mascherine contro il parere delle istituzioni).
Dall’altro la parola della scienza viene politicizzata. Ossia transita dall’ambito tecnico-politico – che,
insieme al diritto, la rendeva spazio per eccellenza della produzione di verità – a quello dell’opinione;
del parere, cioè, che vale quanto qualsiasi altra opinione, e a cui ciascuno può contribuire.

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In questo quadro l’emergenza diventa il terreno di un assalto condotto da attori muniti di differenti
agende in differenti territori. Così, per restare al caso italiano, Meloni può affermare in un’intervista
che il Presidente del Consiglio Conte non deve illudersi e questa emergenza non salverà il suo
governo. In quel dialogo con un giornalista, la politica considera ancora il virus un’emergenza, ma
anche una partita all’interno di quel campionato più vasto che è la politica quotidiana: quella, per
intenderci, che include le politiche per la scuola così come gli incentivi alle imprese. In un quadro di
emergenze virtuali elette a lessico e grammatica della politica contemporanea, anche una emergenza
globale finisce col pesare alla stessa maniera di qualunque altra questione e non merita dunque una
sospensione dei normali repertori d’azione e di parola.
Coerentemente, l’emergenza scatenata dal virus può intrecciarsi con quella per l’immigrazione,
intrecciando così i temi e trasformando la prima in un’articolazione della seconda. Non sarebbe troppo
originale, comunque, impiegare troppo tempo a spiegare il modo in cui, esplicitamente o
implicitamente, nella forma di presupposti ad una moltitudine di discorsi, questa epidemia abbia
sollevato temi classici, legati essenzialmente alla razza, alle gerarchie delle nazioni, a immagini
relative alla Cina come parte di un “Oriente insalubre” e altre forme culturali e insieme politiche che
ruotano essenzialmente intorno a un “occidente” minacciato dai barbari. Come avviene
classicamente, anche questa epidemia riattiva insomma un apparato culturale che possiamo
agevolmente fare risalire al colonialismo e alla guerra delle razze di cui ci hanno parlato Foucault e
una pletora di storici. Un apparato, comunque, europeo. Impiegabile da molti e per molti scopi. Che
sentimenti produrrà, per esempio, la chiusura dei voli provenienti dall’Italia nei sovranisti di paesi
marginali? Oppure in quelli italiani, che mai avrebbero immaginato di potere essere oggetto di una
simile misura da parte di paesi subalterni?
Ma se da quest’ultimo punto di vista non vi è nulla di nuovo sotto il sole, ciò che è interessante è
come questo apparato culturale entri a fare parte di un repertorio insieme vecchio e nuovo utile a
fronteggiare la minaccia della morte. Se ai tempi delle epidemie classiche si abbandonava la città, si
assaliva la casa di un governatore o ci si riuniva in preghiera, oggi l’angoscia della morte viene
prodotta aderendo a una fazione o ricercando una comunità attraverso la condivisione di discorsi. Un
modo coerente, peraltro, con quanto abbiamo tutti potuto osservare in altre circostanze. Come quella,
per esempio, in cui un aereo precipita e i cellulari si sollevano per filmare la caduta, cercando di
renderla disponibile on line un attimo prima dell’impatto. Anche lì, infatti, è la condivisione ad
apparire centrale. Sicché possiamo dedurre che l’impotenza oggi si trasforma più facilmente in
condivisione che in tumulto. E se la cosa dopo tutto non costituisce un’autentica novità – cos’altro
facevano i protagonisti del Decameron nella bolla ricavata fuori da una Firenze impestata? – ciò che
appare rilevante è che questa condizione sembra un preludio alla fine delle funzioni classiche dello

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Stato e alla trasformazione del governo in semplice performance, utile per l’appunto a dare luogo a
un’ennesima condivisione.
È sempre il caso italiano a dare un’idea di questo processo, allorché covid-19 smette di essere un
affare cinese, i contagi si moltiplicano e il governo mette in campo le quarantene di massa, l’esercito
e quel repertorio che cerca di mettere in campo l’autorità confondendola per autorevolezza.
Ed ecco che appare chiaro che un’emergenza, in fondo, può anche uccidere e costituire un lutto per
chi subisce una perdita. Ma che essa non sarà mai davvero tale fino a quando non potrà essere
rappresentata come tale. E, perciò, divenire condivisibile.diatica secondo modalità non previste e non
volute.

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Coronavirus, paura e sicurezza. Parlano i filosofi Escobar e Boella


[27 Febbraio 2020 – Redazione RadioPopolare.it/Memos]

Razionalità e panico, paura e sicurezza; e poi regola, eccezione, contagio, immunità. È il lessico della
crisi da coronavirus. Una situazione inedita, se consideriamo i provvedimenti presi da governo e
regioni per limitare il contagio. Una situazione non sorprendente, invece, se consideriamo la reazione
di paura al coronavirus, e anche panico, che si è diffusa in alcune parti della popolazione.
Il filosofo Giorgio Agamben, in un articolo sul Manifesto, riporta alcune affermazioni del CNR
sull’infezione COVID-19, definito “un’infezione che causa sintomi lievi-moderati nell’80-90% dei
casi. Nel 10-15% può svilupparsi una polmonite, il cui decorso è benigno in assoluta maggioranza.
Si calcola che solo il 4% dei pazienti richieda ricovero in terapia intensiva”.
Agamben si chiede perchè i media e le autorità, nonostante il quadro fornito dal CNR, diffondono il
panico e provocano uno stato di eccezione con gravi limitazioni dei movimenti delle persone. Sono
due, secondo Agamben, i fattori: tendenza ad usare lo stato di eccezione come paradigma normale di
governo e lo stato di paura da coronavirus che in questi anni si è diffuso nelle coscienze degli individui
e che si traduce in un vero e proprio bisogno di stati di panico collettivo al quale l’epidemia offre
ancora una volta il pretesto ideale.
Ne abbiamo parlato a Memos coi filosofi Laura Boella e Roberto Escobar. L’intervista di Raffaele
Liguori.

Laura Boella. Condivido il primo punto di Agamben sulla frequenza di questi stati di emergenza. A
partire dall’11 settembre 2001 sappiamo benissimo che, dopo ogni attentato terroristico, quando uno

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va in metropolitana si chiede “succederà anche a me?”. Si vive in una quasi spontanea auto-
limitazione dei propri movimenti e delle proprie libertà.
Sul secondo punto vorrei ragionare di più. Dice che “abbiamo bisogno di ripetuti stati di paura” e che
questo verrebbe soddisfatto dalle restrizioni imposte dalle autorità. Sul fatto che ne abbiamo bisogno
sono molto dubbiosa. Direi invece che viviamo in una condizione di incertezza, di frustrazione e di
impotenza rispetto ad un Mondo fuori controllo. Oggi stiamo parlando di una epidemia, però parliamo
anche della crisi climatica. Anche rispetto alla crisi climatica tutti noi ci sentiamo impotenti e
sentiamo questo aspetto fuori controllo, ma anche legato ad una difficoltà dell’avere un’esperienza
innanzitutto percettiva, in prima persona. Molti fenomeni del riscaldamento globale non li sentiamo
o non li annusiamo. E questo rende particolarmente difficile il rapporto tra le nostre vite e la
limitatezza della nostra esperienza con quei processi che ci vengono proposti come processi che ci
passano sopra la testa e rispetto ai quali non possiamo fare niente. Dobbiamo renderci conto che la
paura è un’emozione arcaica che nel corso dell’evoluzione si è rivelata molto utile per difenderci da
pericoli immediati e dalle minacce che vengono dal mondo esterno. Come tale, però, ha un effetto di
paraocchi e di restrizione della nostra esperienza.

Roberto Escobar. Io parlerei di politica. Quello che Agamben chiama “il bisogno di paura” non è che
il modello politico che negli ultimi 20 anni sta trionfando. Se dimentichiamo la politica non capiamo
più niente.
Non è che io abbia bisogno di paura, è che io negli ultimi 20 anni sono stato abituato ad affrontare
ogni questione complessa mediante lo strumento semplificatore della paura. Ci sono degli
imprenditori della paura che trovano più efficiente e più efficace raccogliere consenso indicando
paure e indicando colpevoli. È più semplice e più facile convincere la gente che i problemi non sono
complessi, che basta far fuori qualcuno o bloccare diffusori di virus e tutto viene risolto. Quanto allo
stato d’eccezione, per me semplicemente si tratta di un cambio quasi epocale di modello politico. La
paura non è un sentimento, ma un atteggiamento fondamentale. Senza paura non saremmo qui come
specie umana. La politica trasforma la paura in decisione, trasforma il pericolo in rischio. Il
coronavirus è per sé un pericolo e può fare paura, ma diventa un rischio quando la politica interviene
e stabilisce comportamenti ragionevoli. Quando la politica non c’è, questo passaggio salta e il
risultato è il panico.

Laura Boella. Bisogna tenere conto che siamo esseri umani ed è perfettamente comprensibile che
l’irruzione improvvisa di un fenomeno che in questo momento è difficilmente inquadrabile, anche
scientificamente, è impossibile che non sconvolga le nostre abitudini e le pseudo-certezze con le quali

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noi pensiamo di garantirci dall’incertezza e dall’ignoto del mondo in cui viviamo. Io citerei Spinoza,
che raccomandava di non ridere, non piangere, ma comprendere. Al posto di contrapporre ragione a
emozione, io parlerei di sforzo di capire: dobbiamo sforzarci di controllare, per quanto possibile, le
nostre risposte emotive e passare a un altro piano, che vuol dire innanzitutto cercare di capire qualcosa
di molto complicato. Mentre la paura è un istinto molto arcaico, noi ci troviamo di fronte a qualcosa
che ci chiama alla complessità della possibilità della medicina, del fare un vaccino. Questioni che
necessitano di attività intellettuali specialistiche.
Siamo proprio in una combinazione di passato arcaico della specie e di radicamento in un mondo
contemporaneo estremamente complesso, il passaggio di piano vuole innanzitutto dire uscire
dall’autoreferenzialità. Credo che le persone siano fondamentalmente preoccupate della
sopravvivenza, che è una forma di impoverimento dell’esperienza: di fronte agli scaffali vuoti dei
supermercati, Beppe Sala ha giustamente detto “occupiamoci di più dei nostri anziani”. Questo è un
vero passaggio di piano: uscire da questo istinto angosciato per la propria sopravvivenza e spostarsi
verso un evento che coinvolge altre persone.

C’è una questione di empatia che andrebbe posta per spostare questo piano.

Laura Boella. Certo, nel momento in cui uno apre questa esperienza anche alle relazioni con gli altri,
ecco che qui il cinese non sarà soltanto l’untore, la persona che tossisce non sarà solo quella da cui
devo allontanarmi. Ma io inizierò a vedere che il problema non riguarda soltanto me e la mia famiglia,
ma riguarda anche il mio prossimo.

Su che altro piano ci si può posizionare per uscire da quella stretta del panico?

Roberto Escobar. La vera questione è più ampia e meno individuale. Konrad Lorenz parla della
schiera anonima, quei branchi di pesce azzurro che sta insieme a palla, ma appena uno fa qualcosa
perché intuisce un pericolo, tutti vanno in quella direzione. Questa schiera anonima manca di
strutturazione sociale complessa. La dimensione nella quale noi oggi comunichiamo prevalentemente
manca di strutturazione sociale complessa. Ci sono i titoli di giornali che non hanno dietro alcuna
responsabilità politica e giornalistica, ma soprattutto c’è questa dimensione informe a cui tutti ogni
giorno ci rivolgiamo che si chiama social network. Nei social network non si può arrivare ad alcuna
considerazione di tipo ragionevole, perché ognuno di noi è un pesce azzurro dentro un branco che
non ha comunicazione vera, se non emotiva. Questo è il disastro. Siamo in balìa di pesci grossi che

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ci dicono che dobbiamo avere paura del coronavirus e li seguiamo perché siamo esposti ad una
comunicazione strutturata.

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Jean-Luc Nancy - Eccezione virale


[27 Febbraio 2020 – Antinomie.it]

Giorgio Agamben, un vecchio amico, sostiene che il coronavirus differisce appena da una semplice
influenza. Dimentica che per la «normale » influenza disponiamo di un vaccino di provata efficacia.
E anche questo va ogni anno riadattato alle mutazioni virali. Nonostante ciò la «normale» influenza
uccide sempre diverse persone e il coronavirus per il quale non esiste alcun vaccino è capace di una
mortalità evidentemente ben superiore. La differenza (secondo fonti dello stesso genere di quelle di
Agamben) è di circa 1 a 30: non mi pare una differenza da poco.
Giorgio afferma che i governi si appropriano di ogni sorta di pretesto per instaurare continui stati di
eccezione. Ma non nota che l’eccezione diviene, in realtà, la regola in un mondo in cui le
interconnessioni tecniche di ogni specie (spostamenti, trasferimenti di ogni sorta, esposizioni o
diffusioni di sostanze, ecc.) raggiungono un’intensità fin qui sconosciuta e che cresce di pari passo
alla popolazione. Il moltiplicarsi di quest’ultima comporta anche nei paesi ricchi l’allungarsi della
vita e l’aumento del numero di persone anziane e in generale di persone a rischio.
Non bisogna sbagliare il bersaglio: una civiltà intera è messa in questione, su questo non ci sono
dubbi. Esiste una sorta di eccezione virale – biologica, informatica, culturale – che ci pandemizza. I
governi non ne sono che dei tristi esecutori e prendersela con loro assomiglia più a una manovra
diversiva che a una riflessione politica.
Ho ricordato che Giorgio è un vecchio amico. Mi spiace tirare in ballo un ricordo personale, ma non
mi allontano, in fondo, da un registro di riflessione generale. Quasi trent’anni fa, i medici hanno
giudicato che dovessi sottopormi a un trapianto di cuore. Giorgio fu una delle poche persone che mi
consigliò di non ascoltarli. Se avessi seguito il suo consiglio probabilmente sarei morto ben presto.
Ci si può sbagliare. Giorgio resta uno spirito di una finezza e una gentilezza che si possono definire
– senza alcuna ironia – eccezionali.

Giorgio Agamben, un vieil ami, déclare que le coronavirus diffère à peine d’une grippe normale. Il
oublie que pour la grippe « normale » on dispose d’un vaccin qui a prouvé son efficacité. Encore
faut-il chaque année le réadapter aux mutations virales. La grippe « normale » n’en tue pas moins

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toujours quelques personnes et le coronavirus contre lequel aucun vaccin n’existe est capable de
performances létales évidemment bien plus élevées. La différence (selon des sources du même type
que celles d’Agamben) est d’environ 1 à 30 : ce n‘est pas indifférent, c’est le cas de le dire.
Giorgio assure que les gouvernements s’emparent de prétextes pour instaurer tous les états
d’exception possibles. Il ne remarque pas que l’exception devient en effet la règle dans un monde où
les interconnexions techniques de toutes sortes (déplacements, transferts de toutes sortes,
imprégnations ou diffusions de substances, etc.) atteignent une intensité jusqu’ici inconnue et qui
croît avec la population. La multiplication de celle-ci comporte aussi dans les pays riches
l’allongement de la vie et la croissance du nombre de personnes âgées et en général de personnes à
risque.
Il ne faut pas se tromper de cible : une civilisation entière est en cause, cela ne fait pas de doute. Il y
a une sorte d’exception virale – biologique, informatique, culturelle – qui nous pandémise. Les
gouvernements n’en sont que de tristes exécutants et s’en prendre à eux ressemble plus à une
manœuvre de diversion qu’à une réflexion politique.
J’ai rappelé que Giorgio est un vieil ami. Je regrette de faire appel à un souvenir personnel, mais je
ne quitte pas, au fond, un registre de réflexion générale. Il y a presque trente ans les médecins ont
jugé qu’il fallait me transplanter un cœur. Giorgio fut un des très rares à me conseiller de ne pas les
écouter. Si j’avais suivi son avis je serais sans doute mort assez vite. On peut se tromper. Giorgio
n’en est pas moins un esprit d’une finesse et d’une amabilité que l’on peut dire – et sans la moindre
ironie – exceptionnelles.

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Davide Grasso - Agamben, il coronavirus e lo stato di eccezione


[27 Febbraio 2020 – minima&moralia]

Giorgio Agamben ha pubblicato il 26 febbraio sul Manifesto il suo punto di vista sul Coronavirus. Il
titolo dell’articolo è, manco a dirsi: Lo stato d’eccezione provocato da un’emergenza immotivata.
Che altro, qualcuno si chiederà, avrebbe potuto scrivere il filosofo romano? Ma proprio questo è il
problema. La prevedibilità delle affermazioni del filosofo e l’apparente assenza di argomentazioni
impegnative nel suo contributo sono state accolte da molti con sorpresa. Eppure non tutti si sono
stupiti: la stanchezza di certi paradigmi e la scarsa vitalità del panorama teorico-politico fanno di
simili prese di posizione lo specchio di una condizione più generale. Quando, di fronte alla realtà
sfaccettata e cangiante del mondo, le formule interpretative si ripetono identiche a sé stesse, si può

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avere la sensazione che la critica abbia aperto almeno in parte la strada al dogmatismo, nel senso
kantiano di derivazione di concetti da concetti senza l’irruzione di un esterno che li vivifichi. Questo
“esterno” dovrebbe mettere alla prova confini e rapporti tra categorie, così che queste ultime non
appaiano sospettosamente intatte, inscalfibili.
La tesi di Agamben parte dal presupposto che la malattia provocata dal Covid-19 non sia grave. “Poco
più di una normale influenza”. Lo si sente dire spesso in questi giorni. Le misure prese dal governo
sarebbero quindi “sproporzionate”. Tali misure sarebbero anzi frutto di una precisa, ancorché
nascosta, intenzione: aumentare, “con un pretesto”, il controllo politico sulla popolazione. Come già
in passato la tutela della salute sarebbe utilizzata per imporre limitazioni della libertà e forme di
militarizzazione, abituando i cittadini a restrizioni sempre più invasive della libertà. L’eccezione
giuridica – accumulo e concentrazione di sovranità secondo coordinate che presuppongono un’azione
al di sopra o contro la legge ordinaria, in nome di una necessità dell’arbitrio fondativa per il diritto –
diventa sempre più “regola”, vita inframmezzata di emergenze (epidemie, terrorismo, terremoti) che
giustificano il ricorso continuo a misure invasive, rese di volta in volta permanenti.
Agamben cita un comunicato del Cnr come fondamento della sua valutazione medica. È un fatto
curioso. Il Cnr è l’istituzione che per eccellenza agisce e coordina la ricerca per conto e nella logica
dello stato. Il filosofo intende mettere a nudo un’operazione del sistema complessivo di poteri e saperi
che dalle istituzioni si irradia, in primis sul piano medico; ma con quale criterio discerne quali
interventi pubblici, formulati da e per conto di quel sistema, sono o meno parte di un disegno politico
non immediatamente perspicuo? La questione è tutt’altro che irrilevante sul piano epistemologico;
ma c’è di più. Il comunicato del Cnr non afferma affatto che il Covid-19 sia una semplice influenza:
semmai che i sintomi, nell’80-90% dei casi, sono simili a quelli dell’influenza. Afferma anche che
nel 10-15% insorge la complicanza polmonare, che è quella che provoca il sovraffollamento
ospedaliero e i decessi. (La polmonite, per quanto suoni innocua, è una delle prime cause di morte
per malattia infettiva in vaste regioni del mondo, e la prima in Europa). Se il Cnr contribuisce
giustamente a contestualizzare la pericolosità del virus entro una cornice razionale, ricorda anche che
un 4% dei casi rende necessaria la terapia intensiva, e non è affatto una percentuale bassa.
Nessuno sta dicendo che il Covid-19 sia il flagello del secolo o il virus più pericoloso al mondo. Le
preoccupazioni per la sua diffusione sono molto più equilibrate di quanto alcuni sembrano
pregiudizialmente pensare, talvolta mossi da uno schifo elitario per i comportamenti di massa. È vero,
ad esempio, che virus anche più pericolosi non si diffondono con analoga rapidità. Benché non sia in
grado di provocare effetti disastrosi, il Covid-19 non è quindi la semplice influenza, come del resto
spiegato – volendo restare a fonti scientifiche statali, e in attesa di un criterio per selezionarle –
dall’Istituto superiore della sanità. Potrebbe dire Agamben che la differenza tra influenza stagionale

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e Coronavirus non è comunque abbastanza rilevante da giustificare simili misure del governo? Qui
veniamo al problema essenziale: come saperlo? Contrariamente ad altri virus le caratteristiche del
Covid-19 non sono conosciute ad ora in maniera precisa, né sono stati messi a punto vaccini o terapie
vere e proprie (per essi ci vorrà un po’ di tempo, forse fino a due anni). Per questo la gente spera di
non prenderselo.
Non siamo in presenza, quindi, di uno “stato di paura che in questi anni si è evidentemente diffuso
nelle coscienze degli individui e che si traduce in un vero e proprio bisogno di stati di panico
collettivo”, per usare le parole di Agamben. Al contrario: la gente è piuttosto tranquilla, la vita
procede regolare, nel mio quartiere a Torino supermercati e farmacie non sono sovraffollati. Ciò non
toglie che tutti preferiscano che il virus circoli il meno possibile. Non mancano qua e là paranoici
della pandemia, ma sono più numerosi, mi sembra, i paranoici del complotto, che negano vi sia un
reale pericolo per le persone e deridono i comuni mortali. Ci sono invece ottime ragioni per
preoccuparsi, il che non vuol dire assolutamente perdere le staffe. Dovendo sopravvivere vorremmo
che l’economia non sprofondasse, molti di noi hanno già subito danni economici a redditi bassi, e
sappiamo che le condizioni economiche, già prima non esaltanti, peggioreranno per lungo tempo se
il contagio diventa epidemico. Un’epidemia porterebbe inoltre al tracollo del fragile e sottofinanziato
comparto sanitario, mettendo in forse un numero di vite molto maggiore. Il collasso degli ospedali
nelle regioni più colpite della Cina ha provocato decessi per semplice mancanza di cure adeguate.
Accadrà anche in Europa?
Continua Agamben: “Si direbbe che esaurito il terrorismo come causa di provvedimenti d’eccezione
l’invenzione di un’epidemia possa offrire il pretesto ideale per ampliarli oltre ogni limite”. In primo
luogo, qui non c’è nessuna “invenzione”. La diffusione del virus e il virus stesso non sono inventati
ed esistono concretamente, fuori dai nostri benedetti schemi concettuali, e non è necessario aspettare
che metà degli italiani sia contagiata per pensare a delle misure, perché prevenire è meglio che curare.
Le statistiche della diffusione, per ora molto limitata, sono note e veritiere almeno fino a prova
contraria, salvo pensare di poter accusare migliaia di operatori sanitari di intelligenza con un presunto
piano segreto di disinformazione. I media esibiscono indubbiamente un ansiogeno eccesso di zelo nel
divulgare le statistiche (chissà se, qualora non lo facessero, si griderebbe alla censura), ma questo non
corrisponde verosimilmente a un piano preordinato dello stato, esprimendo semmai la tipica logica
capitalistica della competizione spettacolare; che è nefasta, ma non rientra nella lettura che Agamben
dà della situazione.
Per ciò che concerne la politica, non sembra che Conte stia usando la diffusione del virus come
pretesto per ampliare “oltre ogni limite” il potere dello stato o provvedimenti eccezionali. Questa sì
che mi sembra la descrizione di una circostanza “inventata”. Se analizziamo i fatti, vediamo che il

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governo ha tentato in ogni modo di minimizzare un fenomeno di cui poco sanno i medici –
figuriamoci i politici – e ora prende misure che hanno come primo scopo mostrare all’Italia e
all’estero che sta facendo qualcosa. Proprio per tenere d’occhio con attenzione le mosse dello stato,
sempre pericolose, a poco serve gettare subito ogni provvedimento in una notte in cui tutti i decreti
sono stati di eccezione, rischiando di aumentare la sfiducia o l’indifferenza che le persone hanno
maturato verso le filosofie radicali. Indubbiamente gran parte delle ordinanze e degli articoli del
decreto saranno incoerenti o sbagliati. Occorrerebbe allora commentarli uno per uno e argomentare
le obiezioni. Dovremmo riabituarci a fornire qualcosa di concreto a coloro cui rivolgiamo
un’interpretazione dei fatti: le grandi costruzioni ideologiche, dovremmo averlo imparato, perdono
mordente se non sono in grado di impigliarsi nella realtà.
Il paragone che Agamben fa tra Coronavirus e “terrorismo”, d’altra parte, è quanto mai rivelatore.
Credo si riferisca agli attentati dell’Isis degli anni scorsi. Qui è all’opera tutta una meccanica acritica
dell’analogia. Un movimento politico fatto da uomini non è per nulla analogo alla diffusione di un
microbo. Gli attacchi dell’Isis, che non erano a loro volta un’invenzione, possono aver dato adito a
sperimentazioni del controllo su vari piani, ed essersi a loro volta nutriti di quelle reazioni, ma non
sono fenomeni di fronte ai quali si possa reagire senza violenza e quindi senza esercizio di un potere.
Chi poi voglia o debba farsi carico del problema è un altro paio di maniche, ma emerge il problema
di fondo di proposte teoriche che, per quanto valide e illuminanti su tantissimi aspetti, sembrano non
porsi mai il problema dell’alternativa reale. Anche quando lo stato sperimenta l’eccezione in seguito
ad attentati, la nostra critica non deve sovrapporre meccanicamente tutte le iniziative prese dallo stato
le une con le altre, affogandole in un’analisi uniforme, perché proprio se si intende sostituirlo con
qualcosa d’altro occorre immaginare cosa faremmo noi se avessimo responsabilità pubbliche in quella
situazione. Allora ci renderemmo conto che alcune delle misure repressive (ad esempio procedere a
perquisizioni, interrogatori, controlli sulle strade) sarebbero le stesse che prenderebbe una forza
rivoluzionaria in condizioni analoghe (accade ad esempio in Rojava). Probabilmente una forza
rivoluzionaria procederebbe anzi contro l’estrema destra, islamica e non, con minori complessi sul
piano politico, ed anche con minori ambiguità.
Certa critica teorica, in ambito accademico e “militante”, ha scelto di ritagliare per sé il vezzo
esclusivo ed escludente del negativo puro: si limita ad analizzare le dinamiche di potere, chiamandosi
fuori dal problema decisivo che esso rappresenta anche per la trasformazione. Questo induce a
sviluppare un’attitudine a un tempo cupa e contemplativa, che non vede vie d’uscite e non riesce a
dare conto della complessità e delle differenze insite nello sviluppo politico. Tutto ciò che questa
attitudine vede attorno a sé è narrazione, ideologia, mito e menzogna, e le uniche narrazioni analizzate
sono quelle attribuibili al “potere”, appunto. Il potere: chi è costui? Una domanda familiare. Pur

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essendo descritto in via di principio come un reticolato di interventi umani nella società, assume poi
paradossalmente, in interventi come questo, le sembianze di quella vecchia idea di Potere, concentrato
e completamente individuabile, che proprio una stimolante tradizione di pensiero voleva in origine
abbandonare.

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Mario Barenghi - Untori, numeri e false voci


[27 Febbraio 2020 – Doppiozero.com]

Di tutti gli strumenti inventati dal genere umano si può fare un uso buono o cattivo. Ad esempio, per
quanto riguarda la matematica, io mi sono convinto da tempo (a ragione o a torto: non ho le prove di
quanto sto per dire) che usi cattivi, compresi in un arco che va dal discutibile al deleterio fino al
pessimo e all’esecrabile, sono avvenuti in campo economico-finanziario. Economisti ignari di
matematica e matematici ignari di economia hanno cooperato per mettere in circolazione una serie di
tecniche e procedure che hanno provocato effetti enormi, in larga misura imprevisti, nella più assoluta
indifferenza dell’aurea definizione, condivisa a suo tempo dallo stesso Adam Smith, secondo cui
l’economia, dopo tutto, è «una scienza morale».
Esempi di uso buono, anzi, prezioso della matematica si trovano invece in campo medico; e in
particolare in campo epidemiologico, tema che imperversa nell’informazione di questi giorni.
Un’efficace esposizione dei dati fondamentali è stata fornita da Paolo Giordano sul «Corriere della
Sera» dello scorso 25 febbraio, in un articolo al quale rimando senz’altro (Coronavirus, la matematica
del contagio che ci aiuta a ragionare in mezzo al caos).
Dalle considerazioni di Paolo Giordano – non diverse, del resto, da quelle fatte da numerosi esperti,
e non solo in questo frangente, a cominciare dal noto virologo Roberto Burioni – si possono
comprendere bene certi aspetti della questione dei vaccini, di cui molto si è dibattuto in tempi recenti.
Ad esempio, risulta chiaro perché, per prevenire le epidemie, è indispensabile che siano vaccinate
percentuali ben definite della popolazione, diverse a seconda delle malattie (la cosiddetta «immunità
di gregge», herd immunity). Se si richiede una copertura vaccinale elevata per il morbillo (il 95%) è
perché il morbillo è una malattia molto contagiosa: un malato di morbillo infetta in media altre 15
persone. Quindici sarà quindi il parametro R0 del cosiddetto «modello SIR»: sigla, questa, desunta
dalle iniziali delle tre categorie o compartimenti in cui la popolazione viene suddivisa in questo tipo
di analisi, cioè Susceptibles (coloro che possono ammalarsi), Infectious o Infected (gli infettivi o
infettati), Ricovered (i guariti). Ma il discorso sui modelli matematici applicati all’epidemiologia

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potrebbe essere lungo, e richiederebbe competenze che non ho. Piuttosto, converrà soffermarsi su un
altro aspetto.
I modelli matematici che spiegano la diffusione delle epidemie possono essere usati anche per
descrivere la diffusione delle notizie; in particolare, delle notizie false. Come scrive lo stesso Paolo
Giordano, «Anche rispetto a un’informazione errata ognuno di noi appartiene a uno dei tre insiemi: i
Suscettibili, gli Infetti oppure i Guariti». Questa dinamica è in qualche maniera adombrata da una
ormai consolidata metafora: l’uso dell’aggettivo «virale» per indicare una diffusione capillare e
repentina. Personalmente, io l’ho sempre trovato sgradevole. Faccio fatica a scindere i vocaboli
«virus» e derivati dalla connotazione patologica: se una parola, uno slogan, un modo di dire, un
aneddoto, un’immagine, un filmato viene associato all’attributo «virale» non riesco a non percepire
un’implicazione morbosa, che può investire sia la semplice propagazione (è improprio pericoloso
perverso che una certa cosa sia divulgata), sia la cosa in sé, sulla quale ai miei occhi viene
immediatamente a gravare un’ipoteca di nocività. Ciò che viene qualificato come «virale» mi pare
insomma veicoli sempre contenuti falsi, mistificanti, malevoli, oltraggiosi.
Ciò detto, a un italianista non può non sovvenire una circostanza notevolissima. La più accurata
rappresentazione del propagarsi di un’epidemia, la peste del 1630 in Lombardia descritta nel cap.
XXXI dei Promessi sposi, è immediatamente seguita dalla descrizione del delirio degli untori (cap.
XXXII). Alla diffusione del contagio s’intreccia un’epidemia di notizie fasulle: invenzioni febbrili
partorite dalla paura e dalla rabbia, dalla smania feroce di vendicarsi su qualcuno, da
un’immaginazione accesa e funesta. Il Manzoni non presenta modelli matematici: ma dalle sue pagine
risulta chiara la proporzione diretta fra la misura della catastrofe e l’alterazione delle facoltà mentali,
che stravolge la capacità di giudizio. Uno degli episodi più significativi del romanzo è l’incontro fra
Renzo, tornato a Milano a cercare Lucia, e il passante che lo scambia per untore (cap. XXXIV). Lì
per lì non accade nulla: lui si spaventa, lo minaccia, Renzo se la dà a gambe. Quanto al passante,
corso a casa, racconta trafelato di aver incontrato un untore, che aveva in mano «lo scatolino dell'unto,
o l'involtino della polvere (non era ben certo qual de' due)», e aveva tentato di fargli il colpo. Il
narratore ci informa che costui sopravvisse al contagio; non solo, ma ebbe la ventura di campare a
lungo: «e ogni volta che si parlasse d'untori, ripeteva la sua storia, e soggiungeva: – quelli che
sostengono ancora che non era vero, non lo vengano a dire a me; perché le cose bisogna averle viste».
Insomma, il pregiudizio è tanto più vasto e persistente, quanto maggiore è la sensazione di impotenza:
non solo ostacola l’esercizio della ragione, ma distorce le stesse capacità percettive.
Ma c’è un’altra considerazione che occorre fare. Finora non si sono verificati, mi pare, episodi
drammatici di intolleranza: la ricerca di capri espiatori, allo stato presente, è stata contenuta entro
limiti controllabili. Avvisaglie, però non ne sono mancate. Ora, negli stati d’animo collettivi vige una

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notevole forza d’inerzia. Un gruppo sociale o una comunità tradizionalmente indifferente di fronte a
un fenomeno può – in apparenza (in apparenza solo!) d’improvviso – cambiare umore, e attaccarcisi
d’un tratto con attenzione spasmodica, facendone oggetto di un’ossessione. Da questo punto di vista,
è indispensabile restare sul chi vive. Mai sottovalutare i sintomi di derive paranoidi. Per citare di
nuovo il Manzoni, quando il delirio degli untori fosse conclamato, sarebbe troppo tardi per arginarlo:
troppo costoso – o troppo rischioso – opporsi a una credenza dilagante.
I fantasmi più pericolosi sono quelli che «il povero senno umano» (come diceva don Lisander) si
fabbrica da sé. Pericolosi, perché derivano da un senso di vulnerabilità: chi ci si aggrappa, in assenza
di armi migliori, riversa nell’affrontarli un’energia e un’intransigenza tanto maggiori quanto più forte
è l’impressione di non avere altra risorsa. Insomma: oggi più che mai abbiamo bisogno di rimanere
lucidi. Di ragionare, di prestare ascolto agli esperti. E ricordiamoci di quanto sarà accaduto, quando,
in tempi tranquilli, rialzeranno la testa i No-Vax e i loro accoliti; e quando qualcuno, per lucrare
consensi, darà loro spago.
Nello stesso tempo, conviene domandarsi che cosa corrisponde, nel caso delle notizie false, agli
strumenti con cui la medicina contrasta i virus patogeni. L’immunità permanente, a livello di credenze
collettive, è probabilmente, nel senso stretto del termine, una chimera. Però esiste la possibilità di
individuare le falsità (diagnosi!) e denunciarle. Esiste la possibilità di scovarne i germi nelle fasi di
latenza. E la cosa che assomiglia di più ai vaccini – sia pur temporanei, e bisognosi di periodici
richiami – è rappresentato dall’educazione. Troppo spesso accade ancora di incontrare nostri
concittadini che rigettano con sufficienza, o con insofferenza, i numeri. Certo, i numeri possono anche
essere manipolati; anche con i numeri si può mentire, eccome. Ma al di fuori dei numeri, dei dati,
delle statistiche, ci sono solo le impressioni soggettive: le idiosincrasie personali, l’aneddotica
spicciola. Come si usa dire, i discorsi da bar. Ecco, forse bisognerebbe frequentare un po’ di più i bar,
e non aver paura di discutere con chi li frequenta. O meglio: imparare a discutere con chi li frequenta.
(Chi ha aggiunto: invece di scrivere articoli per «Doppiozero»? Vi ho sentito! Ma sì, avete ragione
voi).

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Raúl Zibechi - Virus e militarizzazione delle crisi


[27 Febbraio 2020 – comune-info.net]

La paura si diffonde a una velocità di gran lunga maggiore del coronavirus. Lo si è visto, con immagini impressionanti,
in primo luogo nella provincia cinese di Hubei, dove 60 milioni di persone sono state rinchiuse in un territorio diventato
per molti versi simile a quel che potrebbe essere un campo di concentramento ad alta tecnologia del nostro tempo. Mai

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si erano isolate in questo modo milioni di persone sane. Poi il controllo assoluto sulla libertà di movimento si è esteso
all’intero paese e quindi si è diffuso altrove, fino a raggiungere ampie zone del territorio italiano. È giustificata dalla
portata delle minacce per la salute mondiale una reazione tanto drastica?, si domanda Vageesh Jain, medico della
University College di Londra in un articolo scritto per la BBC? Il Laboratorio Europeo di Anticipazione Politica sostiene
che siamo di fronte a un nuovo modello sociale di gestione delle crisi, che può contare anche sul consenso dell’Occidente.
Raúl Zibechi, in piena consonanza con Giorgio Agamben, ne trae alcune conseguenze dal punto di vista dei movimenti
antisistemici. La Cina è la futura potenza egemone del pianeta, le forme di controllo che esercita sono di grande interesse
e utilità per le classi dominanti di ogni paese. Non solo nel caso di altre future epidemie o disastri “naturali”, ma
soprattutto per far fronte alle grandi esplosioni sociali capaci di provocare crisi politiche devastanti per chi detiene il
dominio su popolazioni capaci di ribellarsi, come accaduto di recente in Cile e in Ecuador. In questa lettura molto più
che inquietante, l’epidemia diventa una enorme esercitazione, un laboratorio di ingegneria sociale, che comincia con la
militarizzazione delle crisi, del territorio e della società. Non sappiamo dove possa approdare né come farvi fronte.

Dobbiamo risalire al tempo del nazismo e dello stalinismo, quasi un secolo addiètro, per trovare
esempi di controllo della popolazione tanto esteso e intenso come quelli che stanno avvenendo in
Cina con la scusa del coronavirus. Un gigantesco panopticon militare e sanitario, che confina la
popolazione costringendola a vivere rinchiusa e sottoposta a permanente vigilanza.
Le immagini della vita di ogni giorno in ampie zone della Cina che ci arrivano, non solo nella città di
Wuhan e nella provincia di Hubei, dove vivono 60 milioni di persone, danno l’impressione di un
enorme campo di concentramento a cielo aperto a causa dell’imposizione della quarantena per tutti
gli abitanti. Città deserte dove transita soltanto il personale di sicurezza e sanitario. Si misura la
temperatura a ogni persona che entra in un supermercato, nei centri commerciali e nei complessi
residenziali. Se ci sono membri di una famiglia in quarantena, soltanto uno di loro ha il diritto di
uscire ogni due giorni per comprare i viveri. In alcune città, quelli che non usano le mascherine
possono finire in carcere. Si incoraggia l’utilizzo di guanti monouso e matite per premere i bottoni
dell’ascensore. Le città della Cina sembrano città fantasma, fino al punto che a Wuhan quasi non si
incontrano persone per la strada.
È necessario ribadire che la paura sta circolando a maggior velocità del coronavirus e che, a differenza
di quel che si fa credere, “il principale assassino nella storia dell’umanità è stato ed è la denutrizione”,
come segnala una imperdibile intervista del portale Comune-info. La consuetudine abituale nella
storia è stata porre in quarantena persone contagiate, mai si sono isolate in questo modo milioni di
persone sane. Il medico e accademico dell’Istituto di Salute Globale della University College London,
Vageesh Jain, si domanda: “Ha una giustificazione una reazione tanto drastica? Cosa accade con i
diritti delle persone sane?”.
Secondo l’OMS, ogni persona contagiata dal coronavirus può contagiarne altre due, mentre un malato
di morbillo può contagiarne tra le 12 e le 18. Per questo Jain assicura che oltre il 99.9% degli abitanti

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della provincia di Hubei non sono contagiati e che “la gran maggioranza della popolazione
intrappolata nella regione non sta male ed è poco probabile che sia infettata”. Il bollettino 142 del
Laboratorio Europeo di Anticipazione Politica (LEAP) fa questa riflessione: “La Cina ha scatenato
un piano d’azione di emergenza di dimensioni senza precedenti dopo soltanto 40 morti su una
popolazione di un miliardo e 200 mila persone, sapendo che l’influenza uccide in Francia 3 mila
persone ogni anno“. Nel 2019 l’influenza ha ucciso 40 mila persone negli Stati Uniti. Il morbillo
uccide nel mondo 100 mila persone l’anno e l’influenza mezzo milione. Il LEAP sostiene che siamo
di fronte a un nuovo modello sociale di gestione delle crisi, che può contare sul consenso
dell’Occidente. L’Italia ha seguito questo cammino nell’isolare dieci centri con 50 mila abitanti,
quando c’erano ancora solo poche decine di persone colpite dal virus.
La Cina esercita un sofisticato controllo della popolazione, dalla video-vigilanza con 400 milioni di
videocamere nelle strade fino al sistema di punti di “credito sociale” che regola il comportamento dei
cittadini. Adesso il controllo si moltiplica, comprendendo la vigilanza territoriale con brigate di
cittadini “volontari” in ogni quartiere.
Vorrei fare qualche considerazione, non dal punto di vista sanitario ma da quello che comporta la
gestione di questa epidemia per i movimenti anti-sistemici.
La prima è che, essendo la Cina la futura potenza egemone globale, le pratiche del suo Stato verso la
popolazione rivelano il tipo di società che le élite vogliono costruire e propongono al mondo. Le
forme di controllo che esercita la Cina sono enormemente utili alle classi dominanti di tutto il pianeta
per tenere a bada los de abajo (quelli che stanno in basso, ndt), in periodi di profonde e impetuose
scosse economiche, sociali e politiche, di crisi terminale del capitalismo.
La seconda è che le élite stanno usando l’epidemia come laboratorio di ingegneria sociale, con
l’obiettivo di chiudere la rete sulla popolazione con una doppia maglia, a scala macro e micro,
combinando un controllo minuzioso a scala locale con un altro, generale ed esteso come la censura
in Internet e la video-vigilanza.
Siamo probabilmente di fronte a un saggio di prova di quel che si applicherà nelle situazioni critiche,
come i disastri naturali o gli tsunami e i terremoti; ma soprattutto di fronte alle grandi esplosioni
sociali capaci di provocare crisi politiche devastanti per los de arriba, (quelli che stanno in alto, ndt).
Insomma, le élite si preparano per eventauli sfide al proprio dominio.
La terza considerazione è che noi non sappiamo ancora come potremo affrontare questi potenti
meccanismi di controllo di grandi popolazioni, meccanismi che si combinano con la militarizzazione
della società di fronte alle rivolte e alle sollevazioni, come accade, per esempio, in Ecuador.

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Roberto Esposito - I partiti e il virus: la biopolitica al potere
[28 Febbraio 2020 – la Repubblica]

Quando si è cominciato a parlare di "biopolitica" la novità è stata accolta con qualche scetticismo. È
sembrata una nozione scarsamente verificabile nella realtà. Poi la situazione è cambiata rapidamente.
I riscontri si sono fatti sempre più fitti, fino a diventare impressionanti. Dalle procedure
biotecnologiche, volte a modificare eventi prima considerati naturali, al terrorismo suicida, fino alla
più recente crisi immigratoria, questioni di vita e di morte si sono installate al centro delle agende e
dei conflitti politici. Finché l'esplosione del coronavirus, con le conseguenze geopolitiche che ne sono
scaturite, ha portato al culmine la relazione diretta tra vita biologica e interventi politici. Tre sono
stati i passaggi fondamentali. Il primo è lo spostamento dell'obiettivo politico dai singoli individui a
determinati segmenti di popolazione. A essere interessate da pratiche profilattiche, allo stesso tempo
protette e tenute a distanza, sono intere fasce di popolazione, considerate a rischio, ma anche portatrici
di rischio di contagio. Ciò è anche l'esito della vera e propria sindrome immunitaria che da tempo
caratterizza il nuovo regime biopolitico. Quello che si teme, più ancora del male in sé, è la sua
circolazione incontrollata in un corpo sociale esposto a processi di contaminazione generalizzati.
Naturalmente le dinamiche di globalizzazione hanno potenziato tale timore in un mondo che sembra
aver smarrito ogni confine interno. Il violento contrasto all'immigrazione da parte dei partiti
sovranisti, più che come una prosecuzione del vecchio nazionalismo, va interpretato in questa chiave
immunitaria. Il secondo passaggio della dinamica biopolitica in corso ha a che fare con il doppio
processo di medicalizzazione della politica e di politicizzazione della medicina. Anche in questo caso
si tratta di una trasformazione che risale alla nascita della medicina sociale. Ma l'accelerazione in
corso sembra oltrepassare la soglia di guardia. Da un lato la politica, sbiadite le proprie coordinate
ideologiche, ha accentuato sempre più un carattere protettivo nei confronti di rischi reali e
immaginari, inseguendo paure che spesso essa stessa produce. Dall'altro la pratica medica, pur nella
sua autonomia scientifica, non può non tenere conto delle condizioni contestuali all'interno delle quali
opera. Per esempio delle conseguenze economiche e politiche che i provvedimenti suggeriti
determinano. Ciò spiega in qualche modo la sorprendente diversità di opinioni tra i maggiori virologi
italiani in ordine alla natura e ai possibili esiti del coronavirus. Il terzo sintomo, forse ancora più
inquietante, dell'intreccio tra politica e vita biologica è costituito dallo spostamento dalle procedure
democratiche ordinarie verso disposizioni di carattere emergenziale. Anche la decretazione di
urgenza ha una lunga storia. Alla sua base vi è l'idea che in condizioni di rischio elevato, più che la
volontà del legislatore, valga lo stato di necessità. Se ad esempio un terremoto devasta un territorio
si determina uno stato di urgenze che può facilmente scivolare in stato di eccezione. È quanto sta

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avvenendo in questi giorni, con i provvedimenti varati da un lato dal governo centrale e dall'altro
dalle Regioni, con il rischio di una indebita sovrapposizione tra i due poteri. Tale spinta verso lo stato
di eccezione è tanto più inquietante perché tende a omologare le procedure politiche degli Stati
democratici a quelle di Stati autoritari come la Cina. Con l'avvertenza che, su questo terreno, gli Stati
autoritari, per la natura stessa del loro tipo di potere, saranno sempre più avanti di quelli democratici.

Roberto Esposito - Curati a oltranza


[28 Febbraio 2020 – Antinomie.it]

Leggendo questo testo di Nancy ritrovo i tratti che da sempre lo caratterizzano – in particolare una
generosità intellettuale che io stesso ho sperimentato in passato, traendo ampia ispirazione da suo
pensiero, soprattutto nei miei lavori sulla comunità. Ciò che a un certo momento ha interrotto il nostro
dialogo è stata la netta avversione di Nancy al paradigma di biopolitica, cui ha sempre opposto, come
anche in questo stesso testo, la rilevanza dei dispositivi tecnologici – come se le due cose dovessero
necessariamente essere in contrasto. Quando invece perfino il termine «virale» indica una
contaminazione biopolitica tra linguaggi diversi – politici, sociali, medici, tecnologici – unificati dalla
stessa sindrome immunitaria, intesa come polarità semanticamente contraria al lessico della
communitas. Benché lo stesso Derrida abbia abbondantemente fatto uso della categoria di
immunizzazione, probabilmente nel rifiuto di Nancy di confrontarsi con il paradigma di biopolitica
può aver influito la distonia che ha ereditato da Derrida nei confronti di Foucault. Stiamo comunque
parlando di tre tra i maggiori filosofi contemporanei.
Sta di fatto che oggi chiunque abbia gli occhi per vedere non può negare il pieno dispiegamento della
biopolitica. Dagli interventi della biotecnologia su ambiti una volta considerati esclusivamente
naturali come la nascita e la morte, al terrorismo biologico, alla gestione dell’immigrazione e di
epidemie più o meno grave, tutti i conflitti politici attuali hanno al centro la relazione tra politica e
vita biologica. Ma proprio il richiamo a Foucault deve indurci a non perdere di vista il carattere
storicamente differenziato dei fenomeni biopolitici. Un conto è sostenere, come fa appunto Foucault,
che da due secoli e mezzo politica e biologia si sono avvitate in un nodo sempre più stretto, con esiti
problematici e a volte tragici. Un altro è omologare tra loro vicende ed esperienze incomparabili.
Personalmente eviterei di mettere in una qualsiasi relazione le carceri speciali con una quarantena di
un paio di settimane nella Bassa. Certo, sotto il profilo giuridico, la decretazione di urgenza, da tempo
applicata anche in casi in cui non ce ne sarebbe bisogno come questo, spinge la politica verso
procedure d’eccezione che alla lunga possono minare l’equilibrio dei poteri a favore dell’esecutivo.
Ma arrivare a parlare, in questo caso, di rischio per la democrazia mi parrebbe quantomeno esagerato.

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Io credo che si debba cercare di separare i piani, distinguendo processi di lungo periodo dalla cronaca
recente. Sotto il primo profilo da almeno tre secoli politica e medicina si legano in un’implicazione
reciproca che ha finito per trasformarle entrambe. Da un lato si è determinato un processo di
medicalizzazione di una politica che, apparentemente sgravata da vincoli ideologici, si mostra sempre
più dedita alla “cura” dei propri cittadini da rischi che spesso è essa stessa a enfatizzare. Dall’altro
assistiamo a una politicizzazione della medicina, investita di compiti di controllo sociale che non le
competono – il che spiega valutazioni tanto eterogenee dei virologi sul rilievo e la natura del
coronavirus. Da entrambe queste tendenze la politica risulta deformata, rispetto al suo profilo
classico. Anche perché nei suoi obiettivi entrano non più singoli individui o ceti sociali, ma segmenti
di popolazione differenziati da salute, età, sesso o anche etnia.
Ma ancora una volta, rispetto a preoccupazioni certamente legittime, è necessario non smarrire il
senso delle proporzioni. Mi pare che quanto accade oggi in Italia, con la caotica e un po’ grottesca
sovrapposizione di prerogative statali e regionali, abbia più il carattere di una decomposizione dei
poteri pubblici che quelli di una drammatica stretta totalitaria.

Riposte by Jean-Luc Nancy to Roberto Esposito (through email to Sergio Benvenuto):


[via Euopean Journal of Psychoanalysis]
Dear Robert, neither “biology” nor “politics” are precisely determined terms today. I would actually
say the contrary. That’s why I have no use for their assemblage.
Best regards, Jean-Luc.

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Augusto Illuminati - Decamerone 2020: nelle pieghe dell’epidemiaNarrazioni in tempi di epidemia:


verso la crisi, con l’Italia allo sbando ma gli altri non stanno meglio
[28 Febbraio 2020 – Dinamopress.it]

Quando, nel 1348, pervenne la mortifera pestilenza la quale, per operazione dei corpi superiori o per
le nostre inique opere, nelle parti orientali incominciata, verso l’Occidente miserabilmente si era
ampliata, si radunò una lieta brigata, ben decisa a sottrarsi ai miasmi cittadini per segregarsi in luogo
ameno e distrarsi con molti sollazzevoli racconti. Iniziarono dunque le narrazioni. E nella prima
giornata, a tema libero, alcuni proposero di bloccare ai confini tutti i cinesi e musi gialli assortiti, di
linciarne qualcuno per strada e di evitare trattorie e merci etniche, i più avveduti puntarono subito al
blocco dei barconi africani, provenienti da paesi con cui non avevano lucrosi affari e su cui avevano

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già sperimentato respingimenti, quarantene ed esorcismi in nome del Cuore Immacolato di Maria.E
nella seconda giornata si alzarono sciamani e griot, albergatori dell’isola Mauritius e tutti i sovrani
mediorientali e l’amica Israele e accusarono gli europei bianchi di portare il contagio nelle loro terre,
poi furono specifici: i bianchi italiani. Poi furono ancora più specifici: i bianchi italiani di ceppo
padano e veneto, mettiamoci i sudditi FVG di Fedriga per sovrappiù. A questo punto si associarono
anche i nazionalisti serbo-croati e perfino macedoni e bosniaco-erzegovini e infine spagnoli,
britannici, francesi e da ultimo Trump, per cui gli italiani, compreso il caro Giuseppi, sono sempre
un po’ negroidi e brown (latinos, no?).
E nella terza giornata, quando il turismo si fu dimezzato, le grandi navi da crociera sparite dalla
Laguna (non tutto il male vien per nuocere), boicottate e autoboicottate le merci made in Italy, i
sovranisti cominciarono a piatire: siamo i profughi del mondo, cosa fanno le Ong, all’estero ci
guardano male, dicono che portiamo le malattie e deprimiamo il mercato del lavoro. Prima i padani,
prima gli italiani! Ma mica siamo italiani, padani noi? Fateci sbarcare, niente quarantena, lui è
razzista, io sono terrone, guarda la maglia: Vesuvio, mica Lega, pizza no polenta. Agamben denunciò
con accenti elevati che l’Italia tutta si stava trasformando in un enorme esperimento di controllo
sociale, la forma lager con i treni di Eichmann, mentre purtroppo le freccerosse si arenavano fra
Casalmaggiore e Lodi. Ci furono fiabe fantasy sulla quest del paziente zero, mentre un fiorentino del
contado spiegò che, se fosse passato un suo remoto referendum, ‘azzo, non ci sarebbe stato verun
contagio.
E nella quarta giornata, spaventati dal sospetto di imminente crollo economico e di lazzaretto
internazionale, attaccarono con le ninnananne: che era una banale influenza e che gli altri paesi non
usavano tamponi né termometri, per questo non risultavano malati. E che comunque, anche in caso
di malattia, un rimedio l’avevano trovato: un bel governo di unità nazionale, così rimettiamo Salvini
agli Interni, Renzi alla Giustizia, Giorgetti all’Economia, risarciamo gli industriali del Nord, gli
albergatori un po’ dovunque, facciamo sparire il reddito di cittadinanza e i suoi portatori sani
pentastellati. Ogni Regione farà storia a sé, continueremo a tenere chiuse teatri, biblioteche, scuole e
università, ché tanto ne vengono fuori solo dubbi e pensieri sgradevoli, e infine riapriremo movida,
fiere e saloni che sono soldi e allegria. Naturalmente riprendiamo a bloccare i barconi, perché un
capro espiatorio bisogna pur averlo, tanto la forza lavoro necessaria in qualche modo filtrerà sotto
costa. Si cominciò con il votare unanimi (salvo Sgarbi, che Allah ce lo conservi) il decreto anti-
coronavirus, accantonando la revisione dei decreti Salvini, poi iniziò la sfilata degli union-nazionali
al Colle e i dem indignati proclamarono: mai con la Lega! – come ieri: mai con i 5 Stelle? Invece la
Sardina-capo scese da Maria De Filippis, con la stessa pulsione suicida del governatore Fontana che
tenta di mettersi in diretta la mascherina.

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Per ora non possiamo portarci più avanti con il resoconto, ma qualche anticipazione sulle giornate
successive possiamo azzardarla. Guardando anche al di là dell’isteria italiota – quella sì contagiosa
anche oltre i confini.
La prima domanda è: come mai, a fronte di un’epidemia diffusiva ma a bassa letalità, crollano tutti
gli indici econometrici – dalle Borse alle previsioni di rating sul, Pil, e non solo quello ansimante
italiano? E parliamo di Wall Street, non solo delle Borse europee, delle tendenze di tutto l’Occidente
e della Cina, non solo di un’Italia già da prima in recessione tecnica. Questo divario non nasconde
una crisi incipiente, del resto da molti preconizzata già prima di Wuhan?
L’altra ipotesi, che già si sta delineando al di qua e al di là delle Alpi, è che l’epidemia stia diventando
endemica, che cioè ci sono ormai focolai e ceppi virali autoctoni, non spiegabili con contatti con il
primo focolaio cinese e comunque assai retrodatabili. Quale ne sia la causa, è evidente che questo
prolungherà i tempi del contagio, almeno fino a quando non si troverà un vaccino efficace. Non è la
peste, d’accordo, ma gli effetti economici si protrarranno e la mobilità delle merci e delle persone
resterà a lungo intralciata, sommandosi ai dazi, alla Brexit e alle campagne anti-migranti (africani,
asiatici ed europei allogeni).
Allora – questo è il punto fondamentale – l’epidemia sta forse intensificando una crisi della
globalizzazione già in corso e di cui sovranismo e xenofobia sono gli indice politici e culturali.
Colpisce e molto che l’epidemia sia la concretizzazione naturalistica della crisi, una tappa e
un’anticipazione in veste “clinica”, una biopoliticizzazione terrorizzante di una crisi strutturale dei
rapporti di produzione e distribuzione. Quasi un tentativo di governare per catastrofi quanto ormai
appare ingovernabile in termini istituzionali sul piano politico e dei mercati. In altre parole: senza che
stia operando un soggetto intenzionale (l’opposto di quanto lascia pensare Agamben) si sta delineando
una gigantesca allegoria del collasso della globalizzazione per eccesso di complessità, un allarme
virale che prelude alla presa d’atto di una nuova crisi tipo 2008, imputabile stavolta a un morbo e non
a esposizione delle banche con i subprime. In entrambi i casi la sintomatologia e l’eziologia
nascondono un momento di dissesto del capitalismo neoliberale e della sua gestione post-
democratica, che si manifesta come sventura naturale (una volta l’epidemia, un’altra il degrado
ambientale) – che ovviamente ne è l’effetto. E da cui è forte la tentazione di uscire con lo stato
d’emergenza interno o con la guerra (stiamo attenti al fronte di Idlib) – nel qual caso soltanto si
passerebbe da automatismi anonimi a decisioni catastrofiche intenzionali. Il problema si porrà anche
per Trump in campagna elettorale. Stiamo andando troppo avanti? Verificheremo nei prossimi giorni,
osservando lo stato di Europa e Usa, dopo la constatazione dei già evidenti inconvenienti cinesi e
italiani.

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Per tornare al nostro Paese, dopo le scomposte docce scozzesi di allarmismo e più che sospetta
euforia, autonomia differenziata regionale e vampate di neo-centralismo, sovraesposizione mediatica
al limite del terrorismo (e del ridicolo. Fontana e Burioni sopra tutti, ma anche le 17 comparsate
domenicali di Conte in Tv), dichiarazioni contrastanti e immancabile intervento dei Tar, si profila un
tentativo, destinato a fallire nel breve periodo ma non so quanto alla lunga, di governo di unità
nazionale, per ora promosso attivamente dai perdenti (Salvini e Renzi) e assai snobbato da FI e dalla
rampante Meloni. Per ora il Pd resiste e riluttano, per comprensibile paura elettorale, Conte e il M5S:
non sarà il coronavirus a schiodarli. Ma l’arrivo di una crisi economica non risolleverà il problema?
Molti segnali vanno proprio in questa direzione: lasciar sbollire il virus e dichiarare l’emergenza sulla
recessione. E allora si dovrà farvi fronte con un rilancio di contenuti, non con una difesa passiva,
occorrerà mettere a tema la logica del neoliberalismo e questo non vedo chi e come potrebbe farlo.
Ma tale è l’orizzonte incombente.
Abbiamo ancora varie giornate per raccontarvelo.

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Massimo Adinolfi - Non siamo impazziti per il virus, sono i responsabili ad aver agito da
irresponsabili
I filosofi interpellati dai giornali incolpano “la gente”, ma dovrebbero prendersela coi politici che han giocato a fare i
primi della classe, gli scienziati che si son dati sulla voce, rimbeccandosi l’un l’altro, e i media che bombardano 24 ore
su 24. E alla fine, ma per ultime, con le persone
[29 Febbraio 2020 – Linkiesta.it]

Vi avverto, la prendo alla lontana, perciò in premessa lo anticipo: si tratta del coronavirus, e dell’idea
che nulla di ciò che sta accadendo è casuale, ma tutto rientra in una logica. Questa logica è quella che
sempre di più spinge a «usare lo stato di eccezione come paradigma normale di governo». A
sostenerlo è Giorgio Agamben, il filosofo italiano contemporaneo più letto e studiato nel mondo,
autore di un’opera fondamentale, “Homo sacer”, articolata in più volumi e di recente ripubblicata in
un unico, pregevolissimo tomo. Bene, cosa dice Agamben? Che questa epidemia è una bazzecola, se
guardiamo al fenomeno nelle sue dimensioni reali: al numero dei contagiati, dei malati, dei deceduti.
Ma i provvedimenti presi dal governo non tengono minimamente conto della realtà del fenomeno, la
prendono invece a pretesto per una «vera e propria militarizzazione» delle aree a rischio, con
l’estensione – che Agamben dà per certa e imminente – di quegli stessi provvedimenti – e delle
conseguenti, «gravi limitazioni della libertà» – in tutte le regioni italiane, «poiché è quasi impossibile
che degli altri casi non si si verifichino altrove». Cosa se ne faccia il governo in carica di tutti questi

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enormi poteri e queste pesanti limitazioni a me non è chiaro, però Agamben dice così: proclamano lo
stato d’eccezione, sospendono il diritto, privano della libertà.
La prendo alla lontana, dicevo. E infatti: seminario di Jacques Derrida presso l’École des hautes
études, a Parigi, 6 dicembre 2000, mercoledì, ore 17. Il filosofo comincia la sua lezione da una ben
stramba questione: «che cos’è un presidente?», domanda che gli sarebbe venuto persino più naturale
di porre se avesse potuto gettare uno sguardo approfondito sull’attuale scena politica italiana, ma
questa è un’osservazione che debbo tenere per me. Gli ascoltatori giunti in rue d’Ulm dovettero
comunque trovarla curiosa. Il seminario era dedicato infatti alla pena di morte, e Derrida lo teneva
dopo essersi lungamente occupato, l’anno prima, di Kant e Beccaria, dei discorsi abolizionisti di Hugo
e Camus, di colpa e punizione, legge del taglione e crudeltà.
Ma quel mercoledì sera Derrida si chiede che cos’è un presidente: dopo tutto, osserva, nei paesi in
cui vige la pena di morte, non è a lui che spetta l’ultima parola, non è lui che può concedere o rifiutare
la grazia? E da dove gli viene questa facoltà di ultima istanza, se non dall’antica eredità di un potere
sovrano, che è ora nelle sue mani? Non è difficile seguire il filo che Derrida tesse: dalla pena capitale
alla sovranità, che si manifesta massimamente nelle decisioni sulla vita e sulla morte. Decisioni
eccezionali, certo, ma proprio questo è il punto che Derrida sta commentando: sovrano è chi decide
sullo stato d’eccezione, secondo la celebre definizione di Carl Schmitt.
Dunque ci siamo: stato d’eccezione – lo stato d’eccezione che secondo Agamben il nostro Presidente
del Consiglio, Giuseppe Conte da Volturara Appula, si appresta a estendere indiscriminatamente a
tutto il territorio nazionale – vuol dire sovranità. Cioè potere di vita o di morte: ius vitae ac necis,
come dicevano i romani, e quando si nominano i Romani si deve sempre sospettare che dietro il diritto
si acquatti la forza più brutale.
Ora però Derrida aggiunge, con un certo senso della misura: ma voi ce lo vedete, un Presidente,
vestire simili panni? Dite quel che volete sul sovrano, ma un Presidente, in una democrazia
costituzionale, ne ha fin troppi, di limiti e condizionamenti di legge. A questi aggiungi quelli
dell’opinione pubblica e del mandato elettorale, e vedrai «in che modo l’esercizio della sovranità, nel
caso della presidenza, sia limitato». Poi, certo, vi sono ancora Paesi che mantengono nei loro
ordinamenti la pena capitale, ma facci caso: quei Paesi sono oggi chiamati a giustificarsi, non gli Stati
che invece l’hanno abolita.
Ebbene, perché l’ho presa così alla lontana, tirando in ballo la differenza fra la figura del sovrano e
quella del Presidente? Perché Agamben non è minimamente sensibile a questa differenza: il suo
paradigma biopolitico non la prevede, non la considera rilevante. E così non considera rilevanti molte
altre differenze, tutte più o meno riconducibili allo Stato di diritto e a ciò che caratterizza una
democrazia come liberale, per cui la chiusura delle scuole fino a sabato o Juventus-Inter a porte chiuse

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non sono ancora, per fortuna, l’anticamera della dittatura. Derrida ragionava, nel suo seminario, sul
comportamento dei candidati alle elezioni presidenziali, in Francia o negli Stati Uniti, e al modo in
cui dovevano, nel manifestare la propria opinione sullo stato d’eccezione (voglio dire: sulla pena di
morte), tener conto dei sentimenti dell’opinione pubblica.
Allo stesso modo il nostro povero Giuseppi, partito lancia in resta con i provvedimenti d’urgenza, si
è presto reso conto che le misure impositive prese ai fini del contenimento dell’epidemia devono pur
tener conto della realtà di un Paese, di un’economia e di una società che deve poter operare al netto
di ogni sfoggio di potere sovrano. Agamben non se ne è accorto, ma un minuto dopo il decreto legge
che lo ha tanto preoccupato, il presidente del Consiglio si è visto tirato dall’altra parte: riapriamo le
scuole, riapriamo gli stadi, riapriamo pure i bar a tarda sera. Lo stato d’eccezione piace poco,
evidentemente, e il premier tutta questa forza sovrana per proseguire con le gravi limitazioni della
libertà non ce l’ha.
Ora, non sta a me mettere ordine nelle decisioni assunte in queste settimane: non è facile. Ma se uno
si prendesse la briga di farne la cronologia, di seguirle passo passo, si renderebbe facilmente conto
che di tutto s’è trattato meno che dell’esercizio di un potere sovrano incondizionato. Se non altro
perché di presidenti se ne sono visti all’opera parecchi, e per un premier che decideva in un modo,
c’è sempre stato un governatore che decideva in un altro. Stiamo attenti, anzi: che non sia proprio la
scarsa dimestichezza con la decisione politica del presidente Conte (mi sia consentito l’eufemismo)
a non far venire la voglia di ben altri polsi assai più fermi, o almeno più coerenti.
Perché diciamo la verità: non è che la gente si sia fatta prendere dal panico, come dice Alessandro
Dal Lago sul Foglio. È peggio: è il decisore politico che non si è raccapezzato (altro eufemismo). E,
certo, è difficile pretendere dai cittadini un maggior self control di quello che han dimostrato in questi
giorni certi politici. Penso a Fontana: ma è mai possibile che in Lombardia chiuda tutto quello che si
può chiudere, avendo dichiarato però che si tratta di «poco più di una normale influenza»? E che dire
della sceneggiata della mascherina, che prima ce l’ha, poi se la mette ma se la mette male, poi se la
toglie, poi chissà?
Sappiamo molte cose, oggi, sui bias di conferma, su come circola l’opinione in Rete e come si rafforza
a prescindere dalla realtà, grazie alla circolazione delle fake news. Eccetera eccetera. Dopodiché
prima di dire “la gente”, diciamo pure “i politici” che han giocato irresponsabilmente a fare i primi
della classe, “gli scienziati” che si son dati sulla voce, rimbeccandosi l’un l’altro, e “i media” che
bombardano ventiquattrore su ventiquattro, infine “la gente”. Ma appunto: solo alla fine, e a parecchie
lunghezze di distanza.

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Enzo Ferrara - Numeri, virus, sanità e democrazia
[29 Febbraio 2020 – gli asini]

“Tutto poteva essere vero, tranne le notizie ufficiali” – Marc Bloch, 1921
Il mondo industrializzato soffre della sindrome da quantificazione: ha un bisogno acuto di contare e
rendicontare perché affida ai numeri ogni presunzione di conoscenza e ai bilanci ogni giudizio,
compresi quelli di ordine morale, sociale e pedagogico, meglio se certificati. È un grave rischio e un
limite, perché si finisce così per avere una visione incompleta, economicista della realtà e pure
farlocca quando si includono nei calcoli anche grandezze non quantificabili. In questa situazione ci
vuole poco – un invisibile microorganismo a RNA virale con diametro di 200 nanometri – per passare
dall’avere dei numeri per le valutazioni (OMS e ISS), al farsi un numero sbagliandole (la struttura
sanitaria in Lombardia) fino a dare i numeri (i governatori di Lombardia e Veneto) travisando i
fenomeni da governare, soprattutto quelli sociali e naturali.
I numeri servono per rappresentare il mondo, non per controllarlo. Preferiamo invece illuderci che ne
siano l’essenza, forse perché la rappresentazione matematica è asettica e possiamo fingere di esserne
solo spettatori e che non ci coinvolga. Per fare ciò dobbiamo comunque stare al gioco e finiamo così
per trascurare e dimenticare ciò che attraverso i numeri non è rappresentabile ma non per questo meno
importante. Facciamo anche di peggio, perché anche quando abbiamo numeri che rappresentano bene
la realtà, forse per la sacralità che attribuiamo loro facciamo poco o nulla per cambiarli, mentre
sarebbe proprio quello l’obbiettivo: fornirci un’idea approssimativa di come va il mondo non per
lasciare che resti tale ma per modificarlo, rendendolo migliore possibilmente assieme a noi che ci
viviamo dentro.
I numeri dell’epidemia da Coronavirus (Covid-19) aggiornati su scala mondiale li offre il Centro per
la scienza e l’ingegneria dei sistemi della Johns Hopkins University di Baltimora (USA), che in un
mappa virtuale del pianeta elenca il numero di casi (oltre 110.000 il 9 marzo 2020, con l’emergenza
che si sposta fuori dalla Cina), i decessi (3,5 % dei casi) e i guariti (più del 55 % dei casi, in crescita).
La loro distribuzione cambia rapidamente: la maggioranza resta concentrata fra Cina (80 %), seguono
Italia, Corea del Sud e Iran (6 % circa ognuna), mentre tutto il resto del mondo assieme non arriva
(ancora) al 2 %. I decessi seguono distribuzioni disomogenee al momento inattendibili su scala locale:
la Germania non registra finora nessun decesso con più di 1000 persone affette, mentre è attesa in
media una letalità del 3 % dei casi conclamati. La Brexit pare aver aiutato il Regno Unito che conta
finora meno di 300 casi in tutta la Gran Bretagna (20 guarigioni, 2 decessi). Si distinguono gli Stati
Uniti che registrano i casi non a livello di Confederazione ma per stati singoli, tutti concentrati nelle

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grandi città, inferiori a 500 complessivamente con 20 decessi. Sembra inoltre che le donne siano in
media meno vulnerabili degli uomini rispetto agli esiti più gravi dell’epidemia.
Come già sottolineato nell’intervista apparsa su “Lo Straniero” (N. 184, ottobre 2015) a David
Quammen, autore di Spillover. L’evoluzione delle pandemie (Adelphi 2014) la crescita della
popolazione umana, la sua maggiore esposizione in ecosistemi un tempo isolati e il suo impatto sugli
stessi aggravano la situazione, non per lo sviluppo dei virus che convivono con noi da sempre, ma
nel passaggio di questi dai loro originari ospiti animali all’uomo e poi nel meccanismo di diffusione
della malattia da uomo a uomo. Quando un nuovo virus infetta la prima vittima umana e impara a
replicarsi e trasmettersi da un essere umano all’altro, diventano determinanti i fattori legati alla
densità abitativa, ai sistemi di trasporto, ai viaggi e alla globalizzazione. Per cui, se un uomo in Cina
si ciba di un animale che ha un nuovo virus e si ammala, la nuova patologia (zoonosi) che un tempo
sarebbe rimasta circoscritta al suo villaggio o alla sua etnia, oggi invece molto rapidamente si estende
prima a Hong Kong o a un’altra delle megalopoli cinesi e poi da lì può viaggiare con il suo ospite
comodamente in aereo verso qualunque altra parte del mondo in meno di 12 ore. I tempi per un
intervento a posteriori di contenimento dell’epidemia sono estremamente ridotti in questa situazione
e mano a mano che il virus si diffonde (“cresce”) gli tiene il passo soltanto il lievitare dei costi
economici e sociali e del numero di vite perse. Per questo non bisognerebbe mai perdere di vista il
bene comune e collettivo della vera prevenzione.
Negli anni ’60 e ’70 del novecento il diritto alla salute “bene fondamentale individuale e interesse
collettivo” fu un punto di convergenza in Italia per la saldatura delle lotte studentesche con il
movimento di rivendicazione ed elaborazione culturale di operai, ricercatori e operatori sanitari che
si interrogavano sulla responsabilità della scienza nel perpetuare o sanare le ingiustizie di una società
classista. Le riflessioni si allargarono presto anche al riconoscimento della difesa dell’ambiente di
vita come naturale estensione della difesa della salute all’interno della fabbrica e alla necessità di
usare la costruzione scientifica come strumento inclusivo di un sapere collettivo, partecipato,
democratico. Si parlava allora della necessità di imparare a individuare non solo “le cause delle
malattie” ma – si badi bene – anche “le cause delle cause”, compito mai entrato nella formazione del
medico al quale invece si insegna non che le malattie epidemiche si sviluppano principalmente da
malnutrizione, insalubrità e sovraffollamento abitativo ma dall’incontro sfortunato con un virus o un
micobatterio nello stesso modo in cui si insegna che il cancro non deriva da un modo di produrre che
distribuisce il rischio per accentrare il profitto, ma dalla scelta incauta di comportamenti individuali
inappropriati.
Questa premessa è necessaria per comprendere a quale livello infimo di discussione e riduzione del
problema della salute di tutti e di ciascuno si sia ridotto il discorso pubblico ai tempi del Coronavirus.

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Eppure mai come in queste settimane paranoiche di emergenza e censura è apparsa chiara la
correlazione che quel movimento culturale – capace di dare a un paese che non se li merita più lo
Statuto dei lavoratori (1970) e il Servizio Sanitario Nazionale (1978) – svelava fra salute e
democrazia. Si parlava della malattia in generale come perdita di partecipazione e viceversa
dell’assenza di partecipazione come sintomo di malattia, analizzando la storia della medicina nella
prospettiva delle classi sottomesse e indicando come nemici della partecipazione democratica anche
in campo sanitario l’autorità senza autorevolezza, l’efficienza senza efficacia (attenta cioè al
funzionamento in senso tecnico ed economico ma non alla funzione delle istituzioni) e il
provvidenzialismo inteso come peggiorativo del paternalismo, che esige perfino la delega da coloro
che pretende di rappresentare.
Si valuti in questi giorni il livello di autorevolezza ed efficienza del Sistema Sanitario nelle tre regioni
(Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna) che più hanno spinto per l’Autonomia Differenziata, per
avere cioè libertà d’azione nel campo dell’educazione, dei trasporti e della sanità e cosa resta
dell’atteggiamento provvidenzialistico dei loro leader. Queste tre regioni ricche hanno oggi quasi il
90 % dei casi italiani di Covid-19: 60 % in Lombardia, 15 % in Veneto, 7 % in Emilia. Per la
Lombardia, che si vanta del miglior sistema sanitario regionale in Italia non è scandaloso pensare che
qualcosa non abbia funzionato. In provincia di Lodi, a Codogno – paese natale di Giulio Maccacaro
fondatore del Nuovo Sapere – uno dei focolai di diffusione del virus in Italia, non può essere
considerato normale il fatto che tra le persone contagiate dal paziente trentottenne (caso numero uno)
diverse settimane dopo la comparsa del Coronavirus in Cina vi siano stati anche operatori sanitari e
pazienti già ricoverati nell’ospedale locale. Come ha spiegato Vittorio Agnoletto “Le indicazioni
dell’Oms sulle precauzioni universali e i protocolli da rispettare per gli operatori sanitari sono molto
chiari. È sterminata la letteratura sull’obbligo dell’uso dei dispositivi di protezione individuale (…)
da parte del personale sanitario, sulle modalità di accoglienza, di ricovero dei cittadini con patologie
sospette e sulla gestione della sicurezza sanitaria nelle strutture ospedaliere. Misure da adottarsi
quindi non solo di fronte ad un paziente già fornito di diagnosi” (Il fatto quotidiano, 27 febbraio
2020).
Le responsabilità non vanno attribuite agli operatori dei servizi sanitari che stanno lavorando in
condizioni e con mezzi di emergenza, ma allo smantellamento progressivo del servizio sanitario
pubblico a favore di quello privato perseguito da decenni con sistematicità in Lombardia, come in
Veneto, Emilia Romagna e Piemonte, con tutta la deriva culturale e corruttiva che ne consegue. Si
veda La nebbia sulla sanità privata in Lombardia e altri saggi disponibili su internet di Maria Elisa
Sartor – curatrice del libro di Jacky Davis e Raymond Tallis, SOS SSN dall’Inghilterra. Come il
Servizio Sanitario nazionale inglese è stato tradito e come si è deciso di salvarlo (Jago edizioni 2017)

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– che spiegano bene le deformazioni che derivavano nel rapporto medico-paziente e nella correttezza
dell’informazione sanitaria dal profondo conflitto di interesse che mina la partecipazione democratica
nella sanità privata. Ne hanno fatto le spese non i grandi centri specializzati lombardi dove ci si può
curare con le migliori terapie disponibili al mondo, ma i servizi di prevenzione che sono stati ridotti
al minimo, i pronto soccorso in condizioni fortemente critiche, i medici di base e gli ambulatori
territoriali ridotti di numero mese dopo mese. Si noti – come riferisce Agnoletto – che il personale
addetto al trasporto interno dei malati in ospedale a Codogno non solo non era munito di mascherine
ma era costituito dai dipendenti di una cooperativa alla quale era stato esternalizzato il servizio, non
da professionisti del Servizio Sanitario Nazionale.
Per settimane mentre il governo nazionale mobilitava operatori, volontari della protezione civile e
l’esercito per l’emergenza, nessuna delle autorità regionali coinvolte ha ritenuto di invitare le strutture
sanitarie private a mettere a disposizione le proprie competenze e il proprio personale; eppure la sanità
privata è destinataria di somme ingenti da parte della Regione. Sembra che la tutela della salute
pubblica non le riguardi e nessuno sente il dovere di chiedergliene conto. Anzi – come ancora
sottolineato Agnoletto – in questi giorni di epidemia sono stati cancellati da parte delle strutture
sanitarie pubbliche una grande quantità di visite ed esami già prenotati anche con codice d’urgenza e
relative ad altri settori della medicina non coinvolti nella vicenda Coronavirus – come risulta dai
microfoni di “37e2”, la trasmissione sulla salute di Radio Popolare – per cui chi economicamente
poteva si è rivolto alla sanità privata che sta traendo ulteriori guadagni da questa situazione.
In numeri assoluti, i quasi 4.000 decessi al mondo (366 in Italia) correlati oggi con il Coronavirus
(SARS-CoV-2) comparso in Cina nel dicembre 2019 impallidiscono se confrontati su scala mondiale
con l’incidenza e la mortalità della malaria (219 milioni di casi, 435 mila decessi nel 2018 concentrati
in 16 paesi subsahariani e in India), della tubercolosi (8 milioni di casi, 2 milioni di decessi) e
dell’AIDS (1.7 milioni di casi nel 2018, 700.000 decessi).
In numeri relativi, le morti provocate dalla sindrome del Coronavirus (COVID-19) proiettando su
scala annuale i dati al momento disponibili, rappresentano lo 0.02 % (atteso in crescita) dei decessi
totali. In Italia intanto si contano ogni giorno circa 10 morti per incidenti automobilistici e altrettanti
per le malattie causate dall’amianto, 3 morti per incidenti sul lavoro, 1 morte ogni due giorni per
femminicidio. Le principali cause di morte al mondo sono le malattie cronico-degenerative legate al
processo di invecchiamento dell’organismo: le malattie del sistema circolatorio assieme ai tumori
rappresentano da anni le prime due più frequenti cause di morte, responsabili di circa il 70 % decessi.
Le malattie del sistema circolatorio sono la prima causa di morte soprattutto per le donne (40 %), lo
sono anche per gli uomini (34 %) ma statisticamente appena sopra i tumori (32 %). Molto meno
frequenti sono tutte le altre cause: le malattie dell’apparato respiratorio rappresentano la terza causa

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di decesso, sia per gli uomini sia per le donne ma sono sotto il 10 %, seguite dalle cause violente fra
gli uomini (5 %) e dalle malattie endocrine e del metabolismo (5 %) fra le donne, prevalentemente
imputabile al diabete mellito che da solo è responsabile del 4 % di tutti i decessi femminili.
Ciò che più cambia la prospettiva sul Coronavirus non è il tasso di letalità (3 % di decessi su casi
conclamati) e meno ancora la mortalità (0.2 % di decessi su tutti i casi totali ipotizzabili compresi
quelli asintomatici) ma, assieme all’incidenza elevata tipica di un’epidemia influenzale, il fatto che
non sia ancora stato trovato un vaccino per arginarne la diffusione come per la febbre emorragica del
Congo, il virus Ebola, le febbri di Lassa, Marburg e della Rift Valley in Africa, la febbre di Nipah in
India, e le sindromi respiratorie severe e acute (SARS) e del Medio Oriente (MERS). Per cui la
potenzialità di rischio del virus SARS-CoV-2 non è – nonostante tutti i numeri a disposizione –
calcolabile, considerando anche la possibilità di una sua ulteriore evoluzione; le conseguenze in
termini di impatto sulla salute dei cittadini sono fortemente dipendenti dalla possibilità di accesso e
dalla qualità dei servizi sanitari. È perciò opportuno adottare ogni possibile e ragionevole misura di
precauzione, ma non è detto che i maggiori sforzi debbano indirizzarsi solo a misure, controlli e
restrizioni per ostacolare contenere la sua diffusione.
La storia della salute insegna che molto più delle cure e delle terapie successive alla diagnosi hanno
recato beneficio all’umanità le azioni preventive direttamente incidenti sulle “cause delle cause” delle
malattie. Una buona nutrizione, l’accesso ad acqua potabile e un ambiente pulito prima di tutto, poi
le vaccinazioni, gli antibiotici e la profilassi alimentare con l’igiene negli ambienti di vita e di lavoro
hanno permesso agli italiani nei decenni successivi al secondo dopoguerra non solo di raddoppiare la
loro attesa di vita, da 40 a 80 anni, ma addirittura di aumentare mediamente di altezza di quasi 10 cm
(Giovanni Vecchi, In ricchezza e in povertà. Il benessere degli italiani dall’Unità a oggi, Il Mulino
2011). Ancora oggi il sostentamento alle partorienti e all’infanzia, l’educazione alimentare e sanitaria
e la difesa dell’ambiente sono estremamente più efficaci in termini di prolungamento dell’attesa di
vita rispetto a qualunque nuovo portentoso ritrovato chirurgico o farmacologico che può invece
certamente incidere sulla speranza di vita dei singoli che possono permetterseli.
All’inizio dell’epidemia, una rappresentante dell’Organizzazione mondiale della sanità ha ricordato
che di fronte a questa epidemia “siamo forti quanto è forte l’anello più debole della nostra catena”.
Parafrasava forse Zygmunt Bauman che in Individualmente insieme (Diabasis, 2008) paragonando la
società a un ponte spiega che, come la tenuta del ponte è determinata non dai pilastri più forti o dalla
loro somma ma dalla capacità del pilastro più debole e può crescere solo insieme alla portata di
quest’ultimo, così la fiducia e la ricchezza di risorse di una società si misurano dalla fiducia in sé e
dalla disponibilità di risorse a disposizione dei suoi segmenti più deboli e cresce con il crescere di tali
fattori. Paesi dal sistema sanitario zoppicante potrebbero essere travolti da un’ondata di ammalati che

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si è rivelata difficile da gestire perfino per un paese organizzato come la Cina ed è preoccupante
capire come reagirà il sistema sanitario statunitense notoriamente classista e non universalistico se
l’epidemia dovesse allargarsi anche in America.
Molti “padroni a casa nostra” sono ora preoccupati perché le quarantene imposte dai paesi confinanti
potrebbero fermare i braccianti stagionali provenienti dall’Europa dell’Est – soprattutto da
Macedonia e Romania – per la prossima stagione di raccolta nelle regioni del Nord Italia. Bauman li
ammonirebbe ricordando che questa situazione è anche colpa di un abbaglio dovuto alla lettura dei
numeri del mondo solo in chiave economica e contabile e che “Il perseguimento di una società più
coesa dal punto di vista sociale è la precondizione necessaria per la modernizzazione” (Z. Bauman,
Op. cit., p. 17). Quegli stessi politici che fino a pochi mesi fa perseguivano la criminalizzazione delle
Ong, oggi ne cercano le competenze: “abbiamo bisogno delle migliori energie, qualsiasi contributo,
da specializzandi a medici in pensione alle Ong, non solo è benvenuto ma assolutamente necessario”
– ha affermato l’assessore al welfaredella Lombardia, rispondendo all’offerta d’aiuto giunta da
Medici senza frontiere ed Emergency dopo l’ammissione di crisi ed emergenza della struttura
sanitaria regionale.
Ci si potrebbe consolare osservando che le quarantene imposte a commerci e spostamenti su scala
globale hanno ridotto le emissioni di CO2 in Cina di almeno il 25 % nelle ultime settimane, mentre
nelle metropoli del Nord Italia i livelli delle polveri sottili sono ai minimi storici. Era accaduto un
evento simile contro-intuitivo anche con il morbo della mucca pazza: l’insorgenza del prione che
trasmise all’uomo l’encefalopatia spongiforme bovina (BSE) portò negli anni’90 dello scorso secolo
a una riduzione dei consumi di carne, già allora eccessivi, che si sarebbe rivelata statisticamente più
benefica – in cinici e riduttivi termini numerici di bilancio fra mortalità – rispetto alle poche centinaia
di casi riscontrati in Europa, soprattutto in Gran Bretagna. Si tratta però di magre consolazioni che
non lasciano quasi traccia quando poi si supera il punto critico e si torna alla normalità.
Si consideri invece che la costituzione del Servizio Sanitario Nazionale universalistico nel 1978 in
Italia rappresentò un tentativo di rinnovamento della scienza e della medicina in alleanza con il
sistema democratico e con il mondo della ricerca e della formazione e si leggano anche solo le prima
due pagine di quella legge grondante di parole bellissime: formazione, coscienza, educazione,
cittadini e comunità, prevenzione, promozione, salvaguardia, salubrità, igiene, ambiente,
superamento degli squilibri territoriali, sicurezza del lavoro, partecipazione, tutela, integrazione,
eliminazione di ogni discriminazione e segregazione, recupero e reinserimento, identificazione ed
eliminazione degli inquinamenti (Legge 23 dicembre 1978, n. 833, Istituzione del SSN).
Oggi il mondo della conoscenza è dominato in forma totalitaria dalla dimensione tecnologica mentre
la politica delega al mercato la soluzione dei problemi economici a scapito della difesa di ambiente e

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salute. Non si parla più di prevenzione primaria facendo ricadere sui comportamenti individuali o
collettivi – perciò da controllare, reprimere, impedire – la responsabilità della malattia. Partecipazione
e libero scambio delle conoscenze restano però i caratteri fondanti della solidarietà fra lavoratori e fra
popoli, indispensabili a promuovere il soddisfacimento dei bisogni fondamentali selezionando i
processi e i beni in grado di soddisfarli, entro i limiti della natura (sostenibilità), contro lo sfruttamento
(eguaglianza e diritti) e l’inquinamento globale (ambiente e clima). Si tratta di un impegno culturale
e politico di ampio respiro che ribadisce la connotazione solidaristica della medicina come ricerca e
assistenza che necessita tanto di rigore scientifico quanto di rigore etico. Come infatti spiegava
Archibald Cochrane nella prefazione del suo libro del 1972, L’ inflazione medica. Efficacia ed
efficienza della medicina (fatto conoscere in Italia da Giulio Maccacaro nella collana Medicina e
Potere di Feltrinelli) le diseguaglianze sociali sono fonti di errore difficili da evidenziare nelle
valutazioni statistiche in campo sanitario. Qualunque sperimentazione clinica, qualsiasi indice di
efficacia per valutare un trattamento curativo, perde di rigore arrivando a fornire risultati falsi, se non
è accompagnato da un indice di equità socioeconomica. Vale anche e soprattutto per la lettura di
numeri e dati ai tempi del Coronavirus, la cui “causa delle cause” andrebbe ricercata nei villaggi più
poveri e indifesi della Cina interna e lì sanata utilizzando mezzi molto più semplici, democratici e dai
costi molto più economici di quelli che ci tocca adesso adottare per bloccare i virus – sempre
provenienti da altri luoghi e altre genti, ma solo nel nostro immaginario – ad ogni costo, rinunciando
anche a libertà che scioccamente credevamo irrinunciabili e gratuite.

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Guido Vitiello - Tra Foucault e il vaccino, io sceglierei il vaccino


Ho letto la risposta del filosofo Jean-Luc Nancy all’amico Giorgio Agamben, che ha definito il coronavirus "un'epidemia
inventata", e ho pensato al dilemma tra l'aria condizionata e il Papa di Woody Allen
[29 Febbraio 2020 – IlFoglio.it]

Tra l’aria condizionata e il Papa scelgo l’aria condizionata, diceva Woody Allen. Quando, nel 1962,
Elémire Zolla si ammalò gravemente ai polmoni, Cristina Campo lo fece visitare dal medico di
famiglia e lo costrinse a prendere i farmaci, come si fa con un bambino riottoso. Fosse stato per lui,
ha raccontato Attilio Bertolucci, “si sarebbe lasciato morire per tenere ‘fede’ ai dettami della medicina
orientale”. L’aneddoto me li ha fatti amare entrambi più di quanto li amassi già: lui, il nemico
teneramente donchisciottesco della scienza occidentale; lei, che ne condivide le avversioni ma al
dunque, col piglio di una generalessa, lo richiama alla realtà e gli salva la vita. Ci ho ripensato, ieri,
leggendo la replica del filosofo Jean-Luc Nancy all’amico Giorgio Agamben, che sul manifesto ha

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definito il coronavirus “un’epidemia inventata”, una “normale influenza” usata dai governi come
pretesto per invocare lo stato d’eccezione. C’è una nota di umorismo involontario: “Quasi trent’anni
fa”, racconta Nancy, “i medici hanno giudicato che dovessi sottopormi a un trapianto di cuore.
Giorgio fu una delle poche persone che mi consigliò di non ascoltarli. Se avessi seguito il suo
consiglio probabilmente sarei morto ben presto”. Nel 2004 Agamben annullò un corso alla New York
University perché le condizioni per l’ingresso negli Stati Uniti – la schedatura e il rilascio delle
impronte digitali – gli parevano figlie di un nuovo paradigma biopolitico totalitario. Spero che oggi,
al primo starnuto, tra un buon vaccino e Foucault scelga il vaccino.

Matteo Meschiari - Animali untori


[29 Febbraio 2020 – Antinomie.it]

In Armi, acciaio, malattie (Einaudi 1998), Jared Diamond dedica un capitolo al «dono fatale del
bestiame». Recuperando e rilanciando una narrazione divenuta celebre, Diamond spiega che la
cosiddetta rivoluzione neolitica, la domesticazione di alcuni animali, la promiscuità tra bestiame e
umani e la nuova densità demografica generata dall’economia agricola furono all’origine di epidemie
e pandemie nella nostra specie, condizioni che prima non esistevano. Nel Paleolitico dei selvatici e
spensierati cacciatori-raccoglitori, infatti, non mancavano certo gli agenti patogeni, ma in un’Europa
dove viveva al massimo mezzo milione di umani il contagio aveva vita difficile. Ciò non toglie che
maiali, topi, polli, conigli, pulci, zanzare e ovviamente anche cani e gatti possano trasmetterci
malattie. Si chiama zoonosi. Nel caso del Covid-19 la ricerca dell’animale untore sembra ancora in
alto mare. Si è parlato di pipistrelli, molluschi, rettili ma solo da pochi giorni qualcuno sta stringendo
il cerchio attorno al pangolino. Si è riscontrata infatti una corrispondenza al 90% tra un virus ospitato
da questi squamati mangiatori di formiche e il virus del momento. Tuttavia, nonostante la
pubblicazione di ben tre articoli scientifici, il mistero resta fitto perché i dati non sono concordi e la
percentuale non è sufficiente per riconoscere nel povero pangolino il vero colpevole. Il virus, prima
di passare all’uomo, potrebbe infatti aver transitato in un intermediario, che per ora non è stato
individuato. In attesa di una verità inequivocabile, dunque, non ci resta che abbozzare un altro tipo di
riflessione.
Tra il 2002 e il 2003 era di moda un altro coronavirus, quello della SARS, e nel 2004 il governo
cinese ordinò l’esecuzione tramite scarica elettrica o annegamento di 10.000 zibetti in quanto
identificati dai ricercatori come vettori intermediari del virus. La mattanza ebbe luogo nonostante gli

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avvertimenti dell’Ordine Mondiale della Sanità e delle Nazioni Unite, che ammonirono i Cinesi del
rischio di distruggere informazioni necessarie per profilare meglio il genoma del virus e addirittura,
in assenza di reali precauzioni sanitarie, di rinfocolare il contagio. Il problema, però, come fecero
notare medici e associazioni animaliste, non erano gli animali selvatici in sé ma il fatto che l’uomo
interagisce con loro in contesti innaturali, manipolandoli e mangiandoli. Una cosa analoga è avvenuta
nel 2016 quando 250.000 renne sono state abbattute in Siberia per prevenire la diffusione del batterio
dell’antrace. Questo non riappariva nella regione dei Nenet da almeno 70 anni e pare che avesse
viaggiato nella carcassa decongelata di una renna restituita dal permafrost. Aneddoti, forse, ma che
vanno letti in filigrana con un più ampio fenomeno, quello che con parola controversa definiamo
Antropocene. La dissoluzione ambientale non è infatti slegata da queste storie di contagio, perché la
deforestazione e il riscaldamento globale modificano gli habitat e spingono gli animali selvatici a
muoversi, facendoli entrare in contatto con noi e generando nella nostra mente dei nuovi bestiari
immaginari.
Ora, i fattori di interesse culturale sono due. La ritualizzazione in chiave contemporanea del capro
espiatorio e il confine sempre precario della relazione uomo-animale tra varie culture. Da un lato il
processo ad animali rei di qualche delitto, come i maiali condannati al rogo o i coleotteri scomunicati
da un tribunale ecclesiastico nel Medioevo. Dall’altro la fascia problematica del commestibile/non-
commestibile o del domestico/selvatico come precisi marcatori etnici. In entrambi i casi abbiamo due
modelli di animismo in atto. L’animale come catalizzatore non-umano di proiezioni di colpe umane
e l’animale come spirito guardiano dei confini identitari. In queste ore, sebbene la cosa sia passata in
ultima posizione, si sono moltiplicate note e comunicati che rassicuravano la gente sul fatto che i pet
non trasmettono il contagio. Forse un modo per contenere il deragliamento psicologico nella caccia
all’untore, già avviata con la ricerca mediatica un po’ forcaiola del «paziente zero», o forse un
semplice tentativo di esorcismo contro l’ansia. Ma la riflessione può spingersi oltre, smarcandosi
tanto dalle paure biopolitiche di Agamben quanto dalle preoccupazioni di Nancy sulle interconnesioni
tecniche. L’esperimento sociale o psicologico di questa “prova generale di contagio” sembra dirci
infatti che la ricerca dell’untore, sia esso in senso proprio o simbolico un animale reietto oppure un
famigerato soggetto politico oppure ancora un impalpabile ghost in the machine, non aiuta più molto
la riflessione. Anzi, anche l’intellettuale occidentale sembra incapace di smarcarsi dalla diade
veterotestamentaria “contaminazione-colpa”.
Certo, non esistono ricette pronte nell’emergenza. Basterebbe però un piccolo shift cognitivo per
generare straniamento e per uscire dal calderone narrativo di queste ore troppo confuse. Una prova di
deantropizzazione, per cominciare, magari raccontando la prospettiva dell’animale, del virus, dei
paesaggi contemporanei come agenti interessati. E non per fare zoofiction della zoonosi, ma per

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sottrarsi a uno scenario mentale da quarantena. Detto altrimenti, il materialismo dialettico sta
all’iperoggetto Antropocene come un antibiotico sta al virus. Non serve. Servirebbe molto di più farsi
un viaggio intellettuale nelle ontologie indigene di cui parla ad esempio Eduardo Viveiros de Castro.
Gli strumenti vanno insomma ripensati, le categorie filosofiche, politiche e antropologiche vanno
risintonizzate, l’ascolto degli attori del collasso deve includere in modo risoluto l’orizzonte dei non-
umani. Che ne sarà allora dei pangolini cinesi?
A fine gennaio, nei primi giorni di paura del contagio da Covid-19, ero a Firenze e si vedevano girare
le prime mascherine antibatteriche. Ero davanti a un chiosco che vendeva lampredotto e la donna che
lo pescava nella pentola fumante, lo tagliuzzava e lo conciava nel panino francese brontolava a bassa
voce contro tutti i passanti con gli occhi a mandorla. «Si mangiano i pipistrelli, questi qui, i pipistrelli,
bisognerebbe insegnargli le buone maniere, che certe schifezze non si mangiano, no, io questi li
farei… devono farsi civili. Ma mi dica, il lampredotto come lo vuole? Semplice con il pepe o salsa
piccante?». La memoria è sempre etnica, ideologica, identitaria, soprattutto quando si svuota o si
spegne. E la paura del contagio, anche quella di non saperne parlare, ci fa ricadere nel gioco dialettico
delle posizioni. Pangolini o mucca pazza? No. Zibetti, aragoste, tilacini.

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Wlodek Goldkorn - Contaminati dunque umani


Chiediamo alla politica una garanzia assoluta: rendere il corpo immortale. L’idea che la vita finisca è diventata
inaccettabile
[1 Marzo 2020 – l’Espresso]

Negli ultimi anni della sua vita Zygmunt Bauman amava citare (in pubblico come in privato) il saggio
di Sigmund Freud, “Il disagio della civiltà”, per riflettere sul fatto che noi umani siamo disposti a
rinunciare a una fetta della nostra libertà a favore della sicurezza. Per la verità Bauman rovesciava
l’ipotesi del padre della psicanalisi secondo cui gli umani tenderebbero invece a prediligere la libertà,
ma l’importante è quanta enfasi metteva il sociologo polacco, uno dei più acuti interpreti della
contemporaneità, sul concetto della sicurezza appunto. Diceva insomma che oggi Freud si sarebbe
ricreduto e spiegava quanto il bisogno della sicurezza derivi da sempre dalla paura di soffrire: a causa
delle forze della natura e perché i nostri corpi non sono immortali e sono soggetti alle malattie e al
deperimento. Ma aggiungeva che tutto questo è potenziato nel nostro tempo dal fatto che nel processo
di globalizzazione c’è stato il divorzio fra potere e politica.
Noi tutti, ci sentiamo smarriti perché oggi chi governa non può prendere decisioni, può solo
promettere di essere in grado di decidere. Ma sappiamo che si tratta di promesse che non potranno

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essere mantenute. E allora, non resta che l'emergenza. L'ultimo caso, in ordine cronologico è
l'emergenza coronavirus. Walter Benjamin, pensatore tedesco che si tolse la vita nel 1940, scrisse che
«lo stato di emergenza in cui viviamo è la regola». Certo, la formula risale all'epoca del nazismo e si
riferisce, alla lettera, al richiamo alla "tradizione degli oppressi", da recuperare in nome di un
riluttante Angelo redentore. Ma sull'ipotesi della non linearità della storia, dell'emergenza che non
cessa mai e che si insinua nella gestione ordinaria dei fatti sociali hanno, da allora, riflettuto filosofi
e pensatori: a partire da Michel Foucault e dall'idea della biopolitica, mai più attuale di oggi. Si tratta,
semplificando, di un'indagine su come il potere e lo Stato abbiano prodotto e gestito norme che
riguardano la nostra vita e i nostri corpi, e come in quel quadro sia fondamentale la questione della
sanità del corpo e della mente e dove le pratiche come reclusione e quarantena sono di primissima
importanza per disciplinare la società, per evitare l'imprevisto, per governare la vita degliindividui. E
oggi? L'idea dell'emergenza permanente si traduce nella richiesta, di noi cittadini della parte del
mondo ancora benestante, della garanzia di sicurezza (niente guerre, malattie guaribili, automobili
dotate di airbag, ma anche città perennemente sorvegliate da telecamere e familiari sempre a portata
dello smartphone). In altre parole (e anche su questo ironizzava Bauman) chiediamo a chi ci governa
una vita incui niente possa sorprenderci. Ma la fede che tale vita possa esistere è contradetta dai fatti
stessi della vita. Giorgio Agamben, uno dei filosofi píù influenti in Occidente e che su biopolitica,
stato d'eccezione e via elencando ha scritto centinaia di pagine, in una bella intervista (fra le rare che
concede) a un giornalista greco, spiegava come per esempio, la gestione dell'emergenza carestia fosse
fondamentale per il potere nella Francia di prima della Rivoluzione. Possiamo aggiungere altrettanto
riguardo all'Urss di Stalin, con la carestia in Ucraina negli anni Trenta. Le emergenze come essenza
del potere e soprattutto come via maestra verso i pieni poteri. Ecco, si è detto della paura delle
malattie, del decadimento del corpo, della morte. E come se (l'idea è spesso ribadita da molti
pensatori) il fatto che la vita a un certo punto finisce e vi subentra il nulla fosse diventato inaccettabile.
L'aveva intuito, per certi versi Slavoj Zizek, in un libro pubblicato in Italia diciannove anni fa (e
adorato dal nostro compianto Edmondo Berselli) "Il godimento come fattore politico". Fra le molte
cose di quel testo, il filosofo di Lubiana diceva come il godimento fosse legato all'esercizio del potere,
ma anche come il godimento sia diventato un dovere, in nome dell'edonismo, ma come questo dovere
avrebbe invece portato alla rinuncia e all'ascesi. Spiegava quanto siamo ossessionati da pratiche che
permettono una vita edonistica, ma la negano allo stesso tempo: per esempio il jogging, o la rinuncia
a fumare. Ma poi siamo contenti di aver fatto il sacrificio, in nome sempre del godimento e del corpo
che vive un'eterna giovinezza e di cui è garantita la salute. Roberto Esposito (fondamentale il suo:
"Bíos. Biopolitica e filosofia") interpellato sulla questione dell'immortalità e dell'emergenza che ci
proteggerebbe dalla vita, risponde che oggi il massimo sviluppo della tecnica «è staccare la nostra

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identità dal nostro corpo per trasferirla su un dispostivo elettronico e così darle una vita eterna». Là
dove fallì Orfeo che secondo un'interpretazione del mito si voltò indietro perché intuì che non avesse
senso riportare la sua amata Euridice fra i vivi (meglio il tenero ricordo), oggi può sopperire la
tecnologia. Ecco, tutto è possibile e se non lo è, vuol dire che qualcosa nella macchina che dovrebbe
regolare tutto, si è inceppato, quindi bisogna ricorrere all'emergenza. Ma emergenza significa anche
cordone sanitario per non permettere di contaminarci con altri, umani o non. Gli umani, con cui
adottare le procedure emergenziali, sono ovviamente nell'immaginario di questi ultimi anni, gli
immigrati (ma prima ancora c'è stata l'emergenza Balcani, con la guerra, imprevista, dato che la
caduta del Muro di Berlino avrebbe dovuto garantire l'eternità della democrazia liberale e la fine della
storia e poi l'11 settembre, nemesi della globalizzazione). Ed ecco quindi che per arginare l'ondata di
massa dei migranti che bussano alle nostre porte, conseguenza dei cambiamenti climatici, dei conflitti
armati fuori da quello che chiamiamo l'Occidente, della voglia di partecipare ai nostri modi di vita e
al nostro benessere, si è pensato di costruire nuovi muri, chiudere i porti, rendere la nostra società
immune dalla contaminazione con i corpi, perché i naufraghi si presentano come corpi, come vita
nuda, come un problema da gestire con la biopolitica. Ne ha scritto molto, ed èstata fra i primi a farlo,
anche su questo giornale, Donatella Di Cesare. L'emergenza immigrati ha portato secondo la filosofa
a escludere una parte dell'umanità dal "diritto ad avere diritti", di rinchiuderli nei luoghi (i campi di
internamento) dove il diritto non ha luogo perché è sospeso. Dell'illusione che una società possa
restare immune completamente da ogni contaminazione parla spesso Esposito. Il filosofo fa
un'analogia inquietante: «L'ossessione di immunizarsi, di evitare contaminazioni, porta il corpo
umano a sviluppare malattie autoimmunitarie che finiscono per distruggere il corpo stesso». La difesa
della vita così come è, la paura, portano alla morte e all'estinzione. Ora, è vero, il coronavirus richiede
misure sanitarie serie, isolamento dei malati e via elencando. Non è gusto in discussione. Ma la
filosofia emergenziale che l'accompagna, e che si è dispiegata con tutta la sua pervasiva potenza in
questi giorni, con il richiamo alla paura, all'idea che il mondo fuori da noi è un luogo di morte e di
pericolo, che il contatto con l'altro è foriero di sciagure, per cui è meglio alzare i ponti levatoi, un po'
come si faceva nel Medioevo, può avere conseguenze nefaste. Del resto, molto prima delle teorie
biopolitiche lo intuì bene un lombardo, romanziere, un po' scettico circa la natura umana, ma tutto
sommato ottimista, Alessandro Manzoni.

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Paul Mozur, Raymond Zhong e Aaron Krolik - In Coronavirus Fight, China Gives Citizens a
Color Code, With Red Flags
A new system uses software to dictate quarantines - and appears to send personal data to police, in a troubling precedent
for automated social control.
[1 Marzo 2020 - New York Times]

HANGZHOU, China - As China encourages people to return to work despite the coronavirus
outbreak, it has begun a bold mass experiment in using data to regulate citizens’ lives — by requiring
them to use software on their smartphones that dictates whether they should be quarantined or allowed
into subways, malls and other public spaces. But a New York Times analysis of the software’s code
found that the system does more than decide in real time whether someone poses a contagion risk. It
also appears to share information with the police, setting a template for new forms of automated social
control that could persist long after the epidemic subsides.
The Alipay Health Code, as China’s official news media has called the system, was first introduced
in the eastern city of Hangzhou — a project by the local government with the help of Ant Financial,
a sister company of the e-commerce giant Alibaba. People in China sign up through Ant’s popular
wallet app, Alipay, and are assigned a color code — green, yellow or red — that indicates their health
status. The system is already in use in 200 cities and is being rolled out nationwide, Ant says.
Neither the company nor Chinese officials have explained in detail how the system classifies people.
That has caused fear and bewilderment among those who are ordered to isolate themselves and have
no idea why.
The sharing of personal data with the authorities further erodes the thin line separating China’s tech
titans from the Communist Party government. The Times’s analysis found that as soon as a user grants
the software access to personal data, a piece of the program labeled
“reportInfoAndLocationToPolice” sends the person’s location, city name and an identifying code
number to a server. The software does not make clear to users its connection to the police. But
according to China’s state-run Xinhua news agency and an official police social media account, law
enforcement authorities were a crucial partner in the system’s development. While Chinese internet
companies often share data with the government, the process is rarely so direct. In the United States,
it would be akin to the Centers for Disease Control and Prevention using apps from Amazon and
Facebook to track the coronavirus, then quietly sharing user information with the local sheriff’s
office. Zhou Jiangyong, Hangzhou’s Communist Party secretary, recently called the health code
system “an important practice in Hangzhou’s digitally empowered city management” and said the
city should look to expand the use of such tools, according to state news media.

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Such surveillance creep would have historical precedent, said Maya Wang, a China researcher for
Human Rights Watch. China has a record of using major events, including the 2008 Beijing Olympics
and the 2010 World Expo in Shanghai, to introduce new monitoring tools that outlast their original
purpose, Ms. Wang said. “The coronavirus outbreak is proving to be one of those landmarks in the
history of the spread of mass surveillance in China,” she said.
In a statement, Ant Financial’s general counsel, Leiming Chen, said that Ant required all third-party
developers, including those offering health code services, to adhere to its data security and privacy
requirements, which include obtaining user consent before providing services. “The collaboration
between private and public sectors in epidemic control is a common global practice,” Mr. Chen said.
The early days of the epidemic seemed to expose the limits of Beijing’s expensive computerized
snooping. Blacklists targeting criminals and dissidents floundered at the task of monitoring entire
populations. Facial recognition proved easily flummoxed by face masks.
In response, China has stepped up its efforts to ensure, mostly with the help of old-fashioned human
enforcement, that citizens leave digital footprints wherever they go. Across the country, workers in
train stations and outside residential buildings record people’s names, national ID numbers, contact
information and details about recent travel. In some cities, residents now have to register their phone
numbers with an app to take public transportation. The Alipay Health Code’s creators say it uses big
data to draw automated conclusions about whether someone is a contagion risk. After users fill in a
form on Alipay with personal details, the software generates a QR code in one of three colors. A
green code enables its holder to move about unrestricted. Someone with a yellow code may be asked
to stay home for seven days. Red means a two-week quarantine.
In Hangzhou, it has become nearly impossible to get around without showing your Alipay code.
Propaganda-style banners remind everyone of the rules: “Green code, travel freely. Red or yellow,
report immediately.” At times during a recent visit, tensions over the code were evident. Two subway
guards said older passengers, annoyed by the phone checks, had cursed and yelled at them. When one
middle-age man barged through a line, a guard had to run him down. As she did, others slipped by,
their phones unchecked.
In a Feb. 24 news briefing, officials said that more than 50 million people had signed up for health
codes in Zhejiang Province, whose capital is Hangzhou. That is almost 90 percent of the province’s
population. Of these codes, 98.2 percent were green, which means nearly a million people had yellow
or red codes. An official webpage with questions and answers about the service says a yellow or red
code may be given to someone who has had contact with an infected person, visited a virus hot zone
or reported having symptoms in the sign-up form. This suggests that the system draws on information
about coronavirus cases and government-held data on plane, train and bus bookings. Beyond that,

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however, The Times’s analysis also found that each time a person’s code is scanned — at a health
checkpoint, for instance — his or her current location appears to be sent to the system’s servers. This
could allow the authorities to track people’s movements over time.
Ant Financial declined to answer questions about how the system worked, saying that government
departments set the rules and controlled the data. Alipay has 900 million users across China. Ant is
part-owned by Alibaba, whose shares trade in New York and are owned by major international
investors. Tencent, the Chinese internet giant that runs the messaging app WeChat, which has over a
billion monthly users, has also worked with the authorities to build its own health code system.
Leon Lei, 29, signed up for an Alipay code before leaving his hometown, Anqing, to return to work
in Hangzhou. At first, his code was green. But a day before he departed, it turned red, and he didn’t
know why. Anqing has not been especially hard hit by the virus, though it neighbors Hubei Province,
the center of the outbreak. On the road to Hangzhou, officers at two highway exits saw his digital
scarlet letter and stopped him from taking the exit. Only at a third exit was he allowed to pass.
“The broad rules aren’t public,” Mr. Lei said. “How it assigns red or yellow codes isn’t public. And
there’s no clear way to make your code turn green.”
Both Alibaba and Ant Financial have their headquarters in Hangzhou, and as the system expands
nationwide, other places may not enforce it as stringently. According to the Xinhua news agency, 100
Chinese cities were using the system within a week of its introduction in Hangzhou on Feb. 11.
Complaints began flooding social media almost as quickly.
Vanessa Wong, 25, works in Hangzhou but has been stuck for weeks in her hometown in Hubei
Province. She has no symptoms. But her health code is red, and both her employer and her housing
complex in Hangzhou require people to have a green code to be allowed back. So far, she has heard
nothing from the authorities about when she might expect her code to change color. Her best guess is
that it’s red simply because she is in Hubei. Hangzhou officials have acknowledged the unease the
system has caused. At a recent news conference, they urged citizens to report glitches and
inaccuracies to the authorities.
“Even if a yellow code or a red code appears, don’t be nervous,” said Tu Dongshan, the deputy
secretary-general of the city’s Communist Party committee. Holed up at home and unable to
concentrate on her work, Ms. Wong is feeling helpless. She cannot help noticing that the system
encourages a kind of regional prejudice.
“It divides people up based on where they’re from,” she said. “Isn’t that discrimination?”
With fear of the virus still acute, many in China take comfort in high-tech precautions, even if they
are at times impractical and dysfunctional. Doo Wang, 26, said her code was red for a day before it

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inexplicably changed to green. Calling a support hotline yielded no answers. Yet she still approves
of the system.
“If we had to use it indefinitely, that would be crazy — just way too big a pain,” Ms. Wang said. “But
for the epidemic, it makes sense.” She shrugged off the privacy concerns. “Alipay already has all our
data. So what are we afraid of? Seriously.”

Donatella Di Cesare - Anche per lo stato d’eccezione la paura è un boomerang


[1 Marzo 2020 – il Manifesto]

Sarà un caso che il panico sia esploso soprattutto in quelle regioni governate dai leghisti, dove da
tempo si istiga all’odio, si indica nell’immigrato il nemico pubblico, portatore di ogni morbo?
Sono in molti a chiederselo. E la domanda sembra trovare conferma nelle recenti uscite dei
governatori di turno. Con un colpo di scena l’uno tira fuori una mascherina per coprirsi,
«autoisolarsi», dichiararsi a rischio, per sé e per gli altri, istillando così di nuovo paura – se non fosse
che la mascherina nelle sue mani si muta in maschera e tutto assume contorni pagliacceschi.
L’altro rilancia le consuete discriminazioni – noi superiori, loro inferiori, noi sani, loro malati, noi
puliti, loro sporchi – e questa volta arriva all’iperbole grottesca dei «topi vivi», quella famosa
prelibatezza cinese che tutti conoscono.
Stride un po’ parlare qui di «stato d’eccezione», quel paradigma di governo attraverso cui leggere il
mondo attuale, come ce l’ha insegnato magistralmente Giorgio Agamben, il quale lo ha rilanciato su
queste pagine (il 26 febbraio scorso).
Al contrario di quel che qualcuno ha sostenuto, il paradigma resta nella sua validità. D’altronde è
ormai prassi quotidiana: le procedure democratiche vengono sospese da disposizioni prese nel segno
dell’emergenza. Un decreto di qua e un decreto di là: così cittadine e cittadini finiscono per accettare
«misure» che dovrebbero garantirne la sicurezza, ma che in effetti ne limitano fortemente la libertà.
I provvedimenti presi negli ultimi giorni da governo e regioni – in ordine sparso – sono emblematici.
Si giunge fino a chiudere i luoghi della cultura, a vietare manifestazioni e riunioni. Sono «misure»
che hanno – inutile dirlo – un sapore autoritario e un carattere inquietante.
Ma sembra che lo «stato d’eccezione» non basti per un mondo così complesso come quello
globalizzato, dove la paura svolge ormai un ruolo politico decisivo. Paura per l’estraneo, xenofobia,
quella che spinge a erigere barriere e muri, insieme, però, anche alla paura per tutto ciò che è fuori,

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exofobia, che induce a rinserrarsi nella propria nicchia, a immunizzarsi, proteggersi, guardando quel
che accade attraverso lo schermo rassicurante.
La pulsione securitaria è fomentata. Così come fomentata è quella che alcuni scambiano per
indifferenza, come se si trattasse di una questione etica, e che è piuttosto una tetania affettiva con
tanto di ragion di Stato. È indubbio che si usi biecamente la paura per governare. Proprio per questo
il sovranismo, soprattutto quello anti-immigrati, non è una riedizione del vecchio nazionalismo. È un
fenomeno nuovo: fa leva sul timore dell’altro, l’allarme per ciò che viene da fuori, l’ansia della
precarietà, la voglia di esserne immuni.
Ma questo è solo un aspetto. Perché il governante, che scherza con il fuoco della paura, finisce per
restarne bruciato. Mentre crede di amministrare a puntino l’odio, di gestire debitamente la paura, tutto
gli sfugge di mano. Questo è il punto: la governance, che vorrebbe governare all’insegna dello stato
d’eccezione, a sua volta è governata da quel che si rivela ingovernabile. È questo rovesciamento
continuo che colpisce, impressiona. Il modello qui è quello della tecnica: chi la impiega, viene
impiegato, chi ne dispone, viene scalzato.
La democrazia immunitaria è perciò un’inedita forma di governance dove la politica, ridotta ad
amministrazione, per un verso si rimette al dettato dell’economia planetaria, per l’altro si
autosospende abdicando alla scienza – «facciamo parlare gli esperti!» – che s’immagina oggettiva,
vera, risolutiva. Come se la scienza fosse neutra e neutrale, come se non fosse già da tempo
strettamente connessa con la tecnica, altamente tecnicizzata.
Così lo Stato di sicurezza si rivela uno Stato medico-pastorale che garantisce l’immunizzazione al
cittadino-paziente, pronto, dal canto suo, a seguire – tra diritto all’amuchina e divieto di ammucchiata
– ogni regola igienico-sanitaria che lo protegga dal contagio, cioè dal contatto con l’altro. Non si sa
dove finisce il diritto e dove comincia la sanità.
Il coronavirus, questo virus sovrano già nel nome, si fa beffe del sovranismo d’eccezione, che
vorrebbe grottescamente profittarne. Sfugge, glissa, passa oltre, varca i confini. E diventa metafora
di una crisi ingovernabile, di un crollo apocalittico. Ma il capitalismo, lo sappiamo, non è un disastro
naturale.

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Franco Astengo - Tra virus, autonomie locali e potere centrale
[1 Marzo 2020 – LaSinistraQuotidiana.it]

Roberto Esposito sotto il titolo “La biopolitica e il potere” ha affrontato (La Repubblica 29 febbraio)
il tema dominante nella più stretta attualità: quello dell’emergenza sanitaria.
Alcuni passaggi del suo intervento meritano di essere rimarcati proprio perché sollevano questioni di
fondo:
1) Il mutato rapporto tra autonomia della scienza e della tecnica (in questo caso sanitaria) e i diversi
livelli di decisionalità politica. L’egemonia della scienza e della tecnica appare fattore determinante
nel definire gli equilibri a livello geopolitico;
2) l’intreccio tra politica e vita biologica (l’autore affronta l’argomento nella prima parte del suo testo)
finisce con il provocare uno spostamento delle procedure democratiche ordinarie verso disposizioni
di carattere emergenziale. Ciò avviene in una fase di forte crisi della democrazia liberale dovuta al
processo di cessione di sovranità da parte dello “Stato – Nazione”. Cessione di sovranità avviato fin
dagli anni’90 in due direzioni: verso il decentramento interno e verso la sovranazionalità.
In Italia il quadro complessivo è condizionato inoltre dalla debolezza del sistema ormai da molto
tempo in forte difficoltà di legittimazione. Una difficoltà di legittimazione dovuta a ragioni molto
complesse legate al mutamento nella struttura politica, in particolare al riguardo del sistema dei partiti
su cui si era basata per lunghi decenni la nostra identità repubblicana e la nostra vita istituzionale sia
a livello parlamentare sia nelle autonomie locali. In questi giorni il nodo della decisionalità
d’emergenza è apparso quanto mai intricato da sciogliere rispetto alla relazione “centro – periferia”.
Quella tra “centro” e periferia è apparsa come una frattura tornata a definirsi come “dominante” nel
quadro di un modificarsi non ancora sufficientemente analizzato dell’insieme di stridenti
contraddizioni che stanno emergendo nella “modernità”.
In questi giorni si è anche tentato di proporre una “Costituzione materiale” fondata sul
rimodellamento della struttura dello Stato nel senso di un riaccentramento dei poteri. Un
riaccentramento dei poteri addirittura minacciato da un Presidente del Consiglio capace di perpetuare
sé stesso cambiando maggioranza, senza mai essere passato da una prova elettorale. Ovviamente,
negli anni scorsi, sul terreno del decentramento dello Stato e del cosiddetto “federalismo” sono stati
commessi degli errori, valutando malamente proprio il riaffacciarsi della frattura “centro-periferia”.
Si prenda ad esempio la frettolosa modifica del titolo V della Costituzione attuata dal governo di
centrosinistra nella fase finale della legislatura 1996-2001 e la messa in moto dell’infernale macchina
(mascherata dalla ricerca della stabilità di governo) dell’elezione diretta di Presidenti e Sindaci,una
modifica rivelatasi fonte di sprechi immensi e di ulteriore distacco tra i cittadini e le istituzioni.

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Adesso, però, è in atto un tentativo di passaggio verso una situazione nella quale le leve del potere
principale, quello di erogazione delle risorse, ritorna come elemento competitivo tra il potere centrale
e quello locale. Entrambi i soggetti intendono usarlo – ancora una volta – in funzione di una proposta
di contrattazione da “scambio politico”.
Le ordinanze amministrative, emanate approfittando della presunta emergenza,stanno già
(provvisoriamente?) modificando quei rapporti tra la prima e la seconda parte della Costituzione
Repubblicana che avevamo, a suo tempo (referendum costituzionali 2006 e 2016), giudicato
intangibili proprio per via del sottile equilibrio esistente tra diritti, doveri e attuazione delle norme in
materia delle strutture operative dello Stato e della società. Si sono così mutate le condizioni della
vita quotidiana variando i canoni stabiliti della relazione tra ii necessari riferimenti di governo della
cosa pubblica.
L’emergenzialità imposta dalla prevalenza della biopolitica capace di imporre una sudditanza alla
politica che ha “sbiadito le proprie coordinate ideologiche”(ancora Esposito nell’articolo citato) ha
così determinato uno scontro inedito tra l’ esercizio del potere di decisionalità e l’incombenza dettata
dai bisogni del territorio. Uno scontro sul quale si sono misurati i diversi livelli istituzionali con
andamenti ed esiti perlomeno opinabili. Emergono così tutte le storture di modelli di sviluppo posti
in maniera sbagliata sul piano della competizione interna e internazionale (come nel caso del Veneto).
Nel sistema politico italiano non sembrano stare più al loro posto i soggetti di intermediazione sociale,
di aggregazione del consenso, di formazione dell’opinione pubblica realizzata attraverso l’esercizio
di una funzione di pedagogia di massa.
Formazione dell’opinione pubblica, funzione di pedagogia di massa, aggregazione del consenso,
intermediazione sociale: tutti compiti ormai affidati ad agenzie “esterne” al sistema politico. Agenzie
“esterne” operanti prevalentemente nel campo dell’illusionismo mediatico che rispondono a proprie
specifiche sollecitazioni socio – economiche e agiscono per interessi di carattere sicuramente
particolare, corporativo se non addirittura di natura individualistica come avviene attraverso l’utilizzo
dei social network. Tutto questo si sta verificando in assenza – tra l’altro – di quegli organismi sovra-
nazionali cui erano state demandate nel tempo una parte delle prerogative statuali.
Ci sarebbe da discutere a fondo su questi temi ma pare ci si stia riducendo a schermaglie per arrivare
semplicisticamente all’esercizio di un potere quanto mai effimero e inconsistente rispetto al
velocissimo mutamento in atto nella realtà delle cose concrete.

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Luigi Zoja - Paranoia e virus
[1 Marzo 2020 – Doppiozero.com]

Il 11.9.2001, quando una aggressione terrorista distrusse le Torri Gemelle, abitavo a New York. Mi
misi a studiare tutto quello che riguardava la paranoia e cominciai a scrivere un libro sulla presenza
di questo disturbo: non nelle istituzioni psichiatriche ma nella popolazione “normale” e nella vita
qotidiana. Non ero rimasto sconvolto tanto dall’attacco: si conosceva già l’esistenza di un
fondamentalismo islamico paranoico, i proclami di Osama Bin-Laden si leggevano in internet. A
quello si poteva esser preparati. Nuova era invece la paranoia collettiva che in un attimo ci aveva
circondato. Quella che Jung chiamava “infezione psichica” stava contagiando tutti: malgrado i nostri
sforzi per mantenerci lucidi, anche me e i colleghi psicoanalisti.
Così, ho dedicato anni a studiare non l’11 settembre, ma il 12, 13 e così via. Lo scatenarsi di una
psiche primordiale nell’uomo comune di quello che si crede un mondo civilizzato. A New York
cominciarono a circolare le tipiche “voci”, che prendono vita spontaneamente nelle situazioni di
allarme e di pericolo collettivo: un ritorno involontario alla civiltà orale, studiato da Marc Bloch nella
Prima Guerra Mondiale. Alle voci, infatti, si crede più che alle notizie ufficiali. E in guerra, ogni
notizia è sottoposta alla censura militare. I bollettini dell’esercito dicono che tutto va bene, mentre
intorno si muore. Durante il 1914-18, nell’esercito francese nacque spontaneamente un proverbio:
“Tutte le notizie possono essere vere, tranne quelle dei comunicati ufficiali”. Va notata una cosa,
poco nota a chi non ha esperienza psichiatrica: le allucinazioni dei malati mentali gravi non sono
quasi mai visive: giungono in forma di voci. Questo termine, quindi, è molto efficace, perché
stabilisce un collegamento diretto tra il delirio del caso clinico psichiatrico e quello della società che
perde il controllo.
La casa in cui abitavo era fuori da Manhattan, in una zona verde. Vicino a noi stava un grande lago
artificiale che costituiva una delle principali fonti d’acqua per la città. Le “voci” sussurrarono che i
terroristi vi avrebbero gettato un potente veleno. Dopo poco, il racconto cambiò: i malvagi non
avrebbero utilizzato veleno, ma l’LSD, così avrebbe fatto impazzire la maggiore città americana.
Questa idea era non solo più credibile – dal momento che mancavano casi di avvelenamento – ma
anche più in sintonia con l’inconscio collettivo. Anche questa voce non era materialmente vera: non
successe nulla, l’unica novità furono i guadagni fatti dai venditori di acqua minerale. Ma, in modo
inconsapevole, finiva col risultare vera sul piano simbolico: gli abitanti di New York sembravano
vivere fra le allucinazioni, anche se non avevano ingerito LSD.
L’11 settembre fu l’unico attacco subito dagli Stati Uniti sul loro territorio durante la loro storia.
Nessuna aggressione terrorista di gravità paragonabile avvenne dopo: ma, come conseguenza, gli

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Stati Uniti andarono a far guerra in due paesi lontani, Afghanistan e Iraq. L’opinione pubblica e i
politici approvarono la mossa di Bush, il quale – proprio come si legge nelle descrizioni psichiatriche
della paranoia – dichiarò che la compiva per eliminare un arsenale di “armi di distruzione di massa”
accumulato da Saddam: e rivelatosi inesistente, quando gli invasori americani lo cercarono. Dopo
quasi due decenni gli USA, che possiedono metà delle forze militari del mondo, non le hanno ancora
davvero vinte: sono le guerre più lunghe della loro storia.
Questa constatazione ci porta già al cuore del problema: se si manifesta non sul piano individuale e
clinico, ma nella mentalità collettiva, la paranoia si diffonde per infezione psichica e fa perdere il
senso delle proporzioni. La comunicazione orale peggiora le cose, perché la sua estrema variabilità
semina il panico. Oggi il suo strumento di amplificazione sono i cosiddetti social, affidati ad ogni
individuo ed usati soprattutto per scaricare emozioni di cui il soggetto ha perso il controllo, anche
quando pretende di comunicare qualcosa di obbiettivo.
In questo periodo il mondo non fronteggia un potere terrorista distruttivo, ma un virus: dunque un
avversario che, all’opposto delle organizzazioni terroriste, non è guidato da un capo e non ha un
consapevole scopo. È troppo presto per sapere se si tratta di una epidemia o di una pandemia. Il covid-
19 è un virus è di tipo nuovo, solo recentissimamente è passato dagli animali all’uomo.
Nel 2018 un gruppo di esperti coniò il termine Disease X (malattia X) per una pandemia che, in un
futuro imprecisato, sarebbe passata dagli animali all’uomo, diffondendosi rapidamente nel mondo sia
per la mancanza di difese negli umani, sia per i contatti che legano ormai tutti i paesi attraverso la
globalizzazione. L’Organizzazione Mondiale della Sanità comunicò la notizia al mondo: ma non
sembra che gli stati abbiano stanziato grandi cifre per prevenire il male. Peter Daszak, uno degli
esperti a cui dobbiamo il termine Desease X, ha ora (28 febbraio 2020) confermato sulla prima pagina
del New York Times che il covid-19 è la malattia preannunciata 2 anni fa. Per il momento non solo
non esistono vaccini, ma nessuno, in nessuna popolazione, possiede contro di essa le difese che ci
riparano dalle malattie più “normali”. Le informazioni di cui disponiamo sul virus fanno pensare che
si tratti di qualcosa che ha analogie con la influenza: è più seria di questa, ma non è una malattia ad
alta mortalità, come le antiche epidemie o l’Ebola di recente. Ci sono invece sorprendenti analogie
con la peste nera che uccise buona parte della popolazione europea nel 1300. Anche allora la malattia
veniva da oriente attraverso la Via della Seta: dopo l’isolamento del Medio Evo, si stava velocemente
avviando una prima globalizzazione dei commerci. Giunse in Europa in groppa ai topi, a loro volta
trasportati con la merce nelle navi: oggi il contagio arriva dai loro parenti alati, i pipistrelli.
Le previsioni sono ben difficili, perché troppe sono le variabili in gioco. Sarebbe come azzardare che
tempo farà, diciamo, il 22 ottobre dell’anno prossimo: anche il metereologo più esperto non ci
proverebbe.

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Sulla infezione bacillare, dunque, dobbiamo sospendere il giudizio. Ma oltre a quella fronteggiamo
due problemi psicologici non piccoli.
Il primo, di non facile contenimento, riguarda appunto la paranoia. In teoria i politici e i mezzi di
comunicazione potrebbero fornire una informazione contenitiva, corrispondente a una psicoterapia di
massa. In pratica possono spesso peggiorare la situazione. Durante il fine settimana scorso il premier
Conte ha tenuto una lunga conferenza stampa. A un’ora di domande dei giornalisti sugli interventi in
corso rispondeva sempre che il governo aveva preso provvedimenti adeguati. Lo spettatore veniva
quindi indotto a immaginarsi due le possibilità: che non conoscesse i provvedimenti del suo stesso
governo; o che temesse di elencarli, magari perché avrebbe dato l’impressione di una situazione
gravissima? Purtroppo gli studi sulla paranoia ci informano che l’alludere senza dire – non offrendo
certezze ma rinforzando il sospetto - è proprio il modo migliore per nutrirla. In questo modo il primo
ministro ha rinforzato nell’ascoltatore la sensazione che ciò che lo preoccupava era soprattutto
difendersi da accuse di inadeguatezza, che nessuno gli aveva rivolto. Una valida collaborazione gli è
stata offerta da Fontana, governatore della Lombardia, residenza della maggioranza di casi accertati,
il quale ha ripetuto che la popolazione collabora ammirevolmente: come se suo compito fosse fugare
dubbi non sulla sanità, ma sulla possibilità che i cittadini si opponessero agli interventi sanitari.
Ugualmente de-costruttiva la giornalista Annunziata: che a raffica non avanzava una domanda, ma
almeno tre insieme, rivelando che la gestione dell’ansia era un problema, prima che per la
popolazione, per lei stessa. Una combinazione che ha garantito allo spettatore una anoressia di
risposte, ma obese crescite del panico. Come la paranoia, l’ansia è psicologicamente molto infettiva.
Piazzare davanti alle telecamere chi non riesce a trattenerla è un rischio sociale.
Anche i soldati della Prima Guerra Mondiale erano scagliati insieme nella stessa trincea da un caso
beffardo. Per rassicurarsi a vicenda, inventavano forme di saggezza popolare come il proverbio
dell’esercito francese. Oggi, i milioni di italiani gettati casualmente dalla minacciosa epidemia in una
comunanza virtuale di schermi finiranno purtroppo per uscire dal notiziario scuotendo la testa: “Tutto
potrebbe essere vero, tranne quello che dicono i comunicati e i telegiornali”. Solo col protrarsi nel
tempo, a parità di penetrazione del virus, la follia generale ora acuta dovrebbe recedere verso forme
più moderate.
La massa reagisce con la psicologia della massa. Ma sarebbe più esatto dire: della folla. Cioè di una
massa che si trova ad essere investita contemporaneamente da un unico problema per circostanze
casuali: la massa si ritrova tutta in piazza perché segue l’annuncio di un comizio, la folla, invece, è
quella che vi accorre inaspettatamente perché ha sentito una esplosione. Ora, si ricorda, quello del
virus non è un arrivo programmato: si è trattato di una esplosione inattesa. Ma a dirlo sono proprio i
mezzi di comunicazione o i politici a cui sarebbe spettato prendere sul serio l’allarme dato dalla OMS,

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avvertire la popolazione e investire in una prevenzione senza precedenti. Purtroppo, l’attenzione sia
dei primi che dei secondi è sempre più indirizzata ai tempi brevi: al massimo, alle prossime elezioni.
L’avversario – la pandemia – lavora invece sui tempi lunghi. Basta essere andati a scuola e aver
studiato I promessi sposi per ricordarsi che quella del 1630, descritta da Manzoni, era una delle
periodiche riapparizioni della peste in quei secoli. Purtroppo oggi il nostro orizzonte temporale si è
gravemente ridotto: non solo non si pensa in termini di secoli, ma la idolatria dei temi effimeri può –
indirettamente, tuttavia potentemente – contribuire a farci assegnare gli avvertimenti dell’OMS a uno
stantio passato manzoniano. Ci ritroviamo all’improvviso tutti insieme nella piazza virtuale, offerta
dallo schermo televisivo o del computer. Di fronte ad esso siamo una folla acefala, che proprio per
questo meriterebbe di trovare una guida nelle autorità e nei mezzi di comunicazione.
La seconda difficoltà psicologica collettiva deriva proprio dall’accorciarsi degli orizzonti temporali.
Dovremmo accettare che non abbiamo al momento sufficienti informazioni bio-mediche. In realtà
questo è sempre avvenuto nel corso del progresso scientifico. Di nuovo c’è il fatto che raramente ciò
riguardava il rischio di pandemie; e che siamo abituati alla comunicazione istantanea, soprattutto
attraverso internet e i social. Per significativa coincidenza con il nuovo virus, ci siamo anche abituati
a definire “virale” (traduzione dell’americano viral) una diffusione molto rapida, per contagio
psichico, di certi messaggi lungo la rete. Chi usa questa espressione, però, sottintende che simili
narrazioni possono essere sia cattive sia buone: mentre un virus è solo negativo. Stiamo comunque
ancora parlando di comunicazione generalizzata, non di informazione scientifica. Questa non può
essere istantanea: avrà bisogno dei suoi tempi, come sempre. Eppure, proprio negli ultimi anni stiamo
perdendo conoscenza di una verità elementare: il lavoro degli scienziati ha bisogno di tempo, per la
cura e per la prevenzione: proprio per questo l’OMS si era mossa già nel 2018. Però, quasi fino a ieri
non eravamo così “tossicodipendenti dall’immediato” (soprattutto dal controllo continuo dello
smartphone). Senza andare al secolo scorso, ancora ai tempi della SARS (2003) simili
“tossicodipendenti” erano infinitamente di meno: lo iphone è entrato in commercio solo nel 2007.
Oggi tutti possiedono uno smartphone, quindi la percentuale di popolazione che soffre di “astinenza
da notizie immediate” corrisponde alla maggioranza. Quando la maggior parte di una società è in una
crisi di acuta astinenza, essa soffre di un serio disturbo psichico collettivo. Gli storici possono
ricordarci che nel 1800 l’Inghilterra sottomise l’immensa Cina perché controllava non gli oceani, ma
il commercio dell’oppio: da cui buona parte del ceto medio cinese era dipendente. La nostra mente
non è più abituata ad aspettare e tantomeno a pensare con pazienza. Eppure anche i nostri pensieri
difficilmente sono istantanei: quelli veri giungono solo dopo qualche attimo, solo dopo averli
“chiamati”. La mente che interviene in modo istantaneo, dunque, si disabitua a pensare
articolatamente. Lungo questo percorso, la psiche si sta anche dissociando dal nostro corpo: che

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dovrebbe formare con esso un’unità, proprio come lo era negli animali o negli uomini storici, forse
in via di sparizione. In questa divaricazione, l’impazienza si associa a vistose patologie. Fino a ieri,
cucinare richiedeva attenzione e tempo, ma dava risultati gustosi aiutandoci a mantenere la salute e
la linea. Oggi si consumano cibi pronti: una conseguenza è l’esplosione incontrollata di obesità e
diabete. Gli esperti discutono il perché i quozienti di intelligenza, che nel 1900 continuavano a salire,
negli ultimi due decenni tendono a diminuire. Si tratta della nuova malattia del mondo, quella che è
stata chiamata “rovesciamento del Flynn Effect” (Flynn è lo studioso a cui dobbiamo la scoperta che
nel secolo scorso i quozienti lentamente salivano)? Potrebbe, comunque, corrispondere al periodo in
cui abbiamo cominciato a usare lo smartphone: o meglio, non tanto a usarlo, quanto a lasciare che
“lui”, prima delle nostre decisioni coscienti, scandisse il ritmo della giornata e della nostra mente.

Nunzio La Fauci - La lingua nel tempo del Coronavirus


[2 Marzo 2020 – Doppiozero.com]

Termine di un lessico tecnico-scientifico, coronavirus è, come parte del discorso, un nome comune:
“s[ostantivo] m[aschile] […], invar[iabile] - Gruppo di virus a RNA, morfologicamente caratterizzato
da una frangia di proiezioni superficiali a guisa di corona. I c[oronavirus] patogeni per l’uomo sono
responsabili di affezioni acute delle prime vie respiratorie, compresa una forma di raffreddore”. Ecco
quanto ne dice la voce del Supplemento al Lessico universale italiano dell’Istituto dell’Enciclopedia
italiana. La pubblicazione rimonta al 1985: è dunque escluso che il riferimento al raffreddore stia lì a
fare volontaria ironia. Capita tuttavia che l’ironia sia ultra-umana e se ne impipi delle volontà. Col
tempo, può così comparire persino in una voce enciclopedica, inattesa.
Coronavirus ce ne sono allora tanti: come tipi, s’intende; che siano d’altra parte tanti come repliche
di ciascun tipo va da sé: diversamente, non si parlerebbe in proposito di rischi di epidemia o,
addirittura, di pandemia. La gente del mestiere può trovarsi così nella necessità di battezzare un tipo
o un altro, per dirne e scriverne univocamente. Tra competenti, ciò può diventare indispensabile,
come si capisce. SARS-CoV-2 o n-CoV-2019 sono le designazioni proprie che gli specialisti hanno
dato al coronavirus che si è minacciosamente affacciato qualche settimana fa in una città della Cina
(tanto da essere anche detto coronavirus di Wuhan) e adesso viaggia per il mondo. Gli fa da vettore
l’apparato respiratorio di esseri umani, cui esso provoca una malattia denominata, sempre dagli
specialisti, COVID-19.

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Fuori dei laboratori e delle pubblicazioni scientifiche, questa panoplia di denominazioni non ha
ovviamente attecchito. Nella lingua d’uso, a furor di popolo, è stato invece il nome comune
coronavirus a trovarsi innalzato al rango di designazione propria. Come? Per via di ricorrenze
rigorosamente al singolare, quanto a numero grammaticale, e stabilmente precedute dall’articolo
determinativo, quanto a sintassi. Un (tipo di) coronavirus è così divenuto “il Coronavirus”. Quanto a
modello, un’antonomasia classica, come, per esempio, “l’Urbe”, “il (sommo) Poeta”, “il Duce” e, per
un confronto molto pertinente nel caso specifico, “il Maligno”.
A un maligno (reale o immaginario) che bussa alla porta difficilmente non si offre infatti il privilegio
e non si tributa l’omaggio di una denominazione propria e non soltanto effimera, si badi bene, nella
lingua comune che dà forma al senso comune. Per le vittime di una malattia, quella in atto è sempre
“la Malattia”, per quelle di una carestia, quella in atto è “la Carestia”, per quelle di un terremoto,
quello in atto è “il Terremoto”, per quelle di una depressione economica, quella in atto è “la (grande)
Depressione”. Pare questa una costante dello spirito umano, quale tale spirito si osserva appunto nella
lingua. E (va detto) meglio forse non si potrebbe altrove, dal momento che fuori della parola, le
testimonianze dello spirito umano resterebbero rade e, anche ove non rade, mute. Per numero
grammaticale e composizione, “il Coronavirus” che ricorre oggi nella lingua comune è dunque, già
per se stesso, parlante e dice, con la sua forma, di un vero e proprio costrutto ideologico.
“Il Coronavirus” non è tuttavia il solo aspetto parlante e forse neppure il principale, nell’odierno
discorso pubblico cresciuto a dismisura sul tema. Naturalmente, non è il solo, una volta che si sappia
inquadrare la questione da una prospettiva linguistica, come qui si sta proponendo di fare. Da una
prospettiva linguistica, ben inteso, che valorizza il dato correlativo e che non si esaurisce in banali
ricognizioni lessicali. Se c’è qualcosa infatti di profondamente errato in ciò che il senso comune
considera una lingua è la credenza che essa sia principalmente fatta di parole e che nelle parole si
annidi il quid della cultura che esprime e del relativo pensiero. Sistemi oppositivi, processi, categorie
delle lingue sono pensiero e pensiero del più sottile e rivelatore, per chi sa snidarlo e intenderlo.
Duecento anni fa, lo proclamava Wilhelm von Humboldt, cento, lo ribadiva e mostrava Edward Sapir.
Testi orali e scritti consacrati al Coronavirus o da esso suscitati oggi ne circolano a iosa. Tra gli
effimeri, ce ne sono di apertamente farneticanti, come ce ne sono di meglio atteggiati e, all’apparenza,
pensosi. Non sono i primi, ma i secondi o, più precisamente, è una loro parte a rivestire interesse, qui:
quelli in cui all’antonomasia “il Coronavirus” fa da contraltare “la scienza”. Lo insegnò Robert Musil:
è la stupidità come malattia della cultura (o di una pretesa cultura), non la luminosa stupidità degli
apertamente idioti e devianti a fare da inciampo alle discipline che, nella modernità, hanno preso per
oggetto di osservazione gli esseri umani. Di conseguenza, è la stupidità che pare il suo contrario, è la

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stupidità come soverchia adeguatezza al mondo a meritare da parte di tali discipline la più acuta
attenzione. Ecco appunto un caso.
Come coronavirus, anche scienza è nome comune. A differenza di coronavirus, scienza non è d’altra
parte un termine, cioè un elemento di una terminologia, ma una parola (la distinzione tra parole e
termini fu molto presente e cara all’intelligenza linguistica di Giacomo Leopardi ed è indispensabile
a un discorso filologico che scansi le correnti grossolanità). Scienza è più precisamente una parola
del lessico “fondamentale”: la classifica così e con ragione il Grande dizionario italiano dell’uso,
promosso e diretto da Tullio De Mauro. Nel dibattito pubblico sul Coronavirus, scienza ha ricorrenze
frequenti, com’è facile osservare, oltre che intendere. Lo si è peraltro anticipato: tali ricorrenze sono
al singolare, quanto a numero grammaticale, e accompagnate dall’articolo determinativo, quando a
sintassi. Scienza non vi ricorre come parte dei nessi “una scienza”, “le scienze” e così via, ma del
nesso “la scienza”, in modo significativo, se non assolutamente regolare.
Se, nei testi in questione, “il Coronavirus” è un’antonomasia, quindi apertamente una figura della
denominazione, “la scienza”, lungi dall’avervi valore denotativo, ne ha anch’essa uno connotativo e
figurato, stavolta dal lato di un’implicita predicazione. Sotto il segno della metonimia, funge infatti
da prosopopea.
A svelare la circostanza retorica, in un modo che più lampante non avrebbe potuto essere, è stato ciò
che in tale dibattito è accaduto, una volta che, evocata, “la scienza” determinata nel suo carattere
singolare si è affacciata sul proscenio. In effetti, appena “la scienza” ha preso la parola, l’incanto si è
rotto. C’è stato chi, per attitudine morale e, forse, debolezza personale, si è subito proposto di
incarnare e di esaurire quel numero grammaticale: “La science, c’est moi!”. Ha così mostrato come
sia potuto tradizionalmente accadere che prosopopea stia anche per un atteggiamento comunicativo
pieno di sussiegosa e arrogante aria di importanza. Non solo come reazione a questo modo tutto
sommato ingenuo di presentarsi come “la scienza”, c’è stato chi, presentando argomenti diversi, con
attitudini diverse, ha frantumato il singolare e, con esso, la determinatezza.
“La scienza”, come insieme morfologico e sintattico, si è così rivelato per quello che è: la veste
figurata, nel discorso, di un costrutto ideologico, sulla natura, sulla costituzione, sulla portata del
quale, si potrà eventualmente tornare un’altra volta, trattandosi, come ciascuno intende, di tema
vastissimo ed impegnativo.
Fuori di tale costrutto, quando con il pretesto marginale ed effimero del Coronavirus “la scienza” si
è pronunciata non ha potuto fare a meno di presentarsi come scienziati e scienziate, se si vogliono
usare anche qui qualificazioni oggi squalificate dalla loro corrività o, appunto meglio, come esseri
umani. Alla luce di regolate esperienze e di competenze acquisite, costoro hanno non solo
conoscenze, ma anche punti di vista e persino opinioni non necessariamente convergenti. E hanno

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tali conoscenze, tali punti di vista e tali opinioni non genericamente sul Coronavirus, cioè sopra
un’antonomasia, ma più precisamente e secondo le loro diverse specialità, tanto sul SARS-CoV-2 (o,
per sinonimia, n-CoV-2019), quanto sulla COVID-19: oggetti scientifici parecchio differenti, c’è da
supporre.
Scienze ce ne sono infatti numerose e, di norma, non solo non sono tutte concordi, perché ciascuna
guarda il mondo dalla sua prospettiva, ma capita anche che ci siano domande cui la sola risposta
(talvolta unanime) che possono dare è “Non si sa”. Tra le risposte possibili, la sola ad avere del resto
il tratto che la qualifica indubitabilmente come scientifica. Si oppone infatti ai tanti “si sa” che, beati
loro, sono in grado di proferire altri modi di concepire l’esperienza umana non solo del mondo, ma
anche dell’Aldilà.
Del fatto che sia andata così, con “la scienza” e “il Coronavirus”, bisognerebbe rendere grazie al
Cielo, se si volesse coltivare un po’ di quel buon senso che, perlomeno privatamente, fa appunto da
argine ai guasti provocati dal senso comune. Invece, lo sconcerto tra i corifei del dibattito pubblico e
tra i comunicatori in genere (che del senso comune si ergono ovviamente a campioni) è stato generale
e si sono udite aperte manifestazioni di delusione: “neppure la scienza...” o “anche la scienza...”,
esecrazioni combinate con “oltre la politica...”.
Insomma, non c’è più religione: anche gli scienziati non sono d’accordo e litigano.
Come se, negli ambienti scientifici, non lo si fosse mai fatto e non lo si facesse regolarmente. Come
se il diritto alla diversità di opinioni, alla messa alla prova di ciascuna, al dissenso, a uno scetticismo
ponderato nei modi ma dall’estensione illimitata non riguardasse il variegatissimo ambito
dell’avventura umana che, sulla soglia della modernità, crebbe e si sviluppò rivendicando proprio
come insopprimibile quel diritto. Come se, in occasione di un marginale ed effimero episodio
dell’eterna lotta contro “il Maligno” e quando capita la paura faccia novanta, “la scienza” non potesse
essere altro che un nome, un nome qualsivoglia, uno dei tanti possibili nomi per designare ciò che
scienza proprio non è (o non dovrebbe essere): la fede. Anzi, eternamente, “la Fede”: una, certa,
salvifica.

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Salvatore Palidda - Allarmismo, stato d’eccezione, eterogenesi della democrazia e
tanatopolitica: la sperimentazione con il Covid19
[2 Marzo 2020 – effimera.org]

Riprendo qui solo alcune considerazioni tralasciando quanto già pubblicato su Médiapart il 24
febbraio scorso. Dall’inizio dell’allarme per l’epidemia e/o pandemia (secondo le diverse
interpretazioni), sono stati pubblicati molti articoli. Fra i tanti quelli che mi sembra meritino
attenzione riguardano senza dubbio la critica alla gestione dell’evento per scatenare paura, paranoia,
allarmismo a volte esasperato, se non uno stato d’eccezione: oramai una tendenza abituale della
governance liberista che sfrutta a tale scopo ogni emergenza reale o gonfiata (e questo vale anche per
i terremoti in Italia da quello dell’Irpinia sino a quello più recente). Si approda così a ciò che gli amici
di Cultures&Conflits chiamano lo stato d’urgenza permanente, che autorizza ogni libero arbitrio e –
aggiungerei – rende ancor più facile la pratica dell’anamorfosi dello Stato di diritto democratico
mostrando così come la democrazia sia approdata all’eterogenesi cioè alla distopia.
Ma ci sono alcuni aspetti che sono stati alquanto trascurati, ad esempio la speculazione finanziaria ,
con l’eccezione di una intervista di Andrea Fumagalli con Fanpage.
La speculazione finanziaria per l’epidemia o la pandemia ipotetica o realmente possibile non è solo
quella che cinicamente hanno fatto i guru di questo campo, giocando sul crollo delle borse e l’aumento
dello spread ecc. E’ anche quella che si ammanta di spirito “umanitario” così come è avvenuto a
seguito dello tsunami del 2004 o del terremoto ad Haiti. Le popolazioni delle terre devastate non
hanno ricevuto quasi nulla e vivono in una condizione ancora peggiore di prima (si veda il caso
terribile di Haiti, oltre al libro di Naomi Klein). Al contrario gli investimenti nei catastrophe bonds
hanno generato rendimenti difficilmente immaginabili per altri tipi di bond (vedi articolo di Mauro
Bottarelli): oggi pari all’11% superiore al tasso Libor per quanto riguarda la tranche obbligazionaria
più rischiosa.
Questi bond sono stati creati per “aiutare le popolazioni dei paesi colpiti” da epidemie o pandemie
così come da altre catastrofi. Nel 2017, la Banca Mondiale ha emesso due tranches di catastrophe
bond (o Cat-bond) per finanziare il progetto Pandemic Emergency FinancingFacility. Entrambe
avevano due criteri raggiunti i quali scattava la clausola di default con la perdita di tutto
l’investimento: nel primo livello, occorreva arrivare a 2.500 morti nel paese epicentro della pandemia
(proclamata tale dall’OMS) più altri 20 in un Paese terzo. Nel livello della classe B, invece, il livello
di morti era molto più basso: d’altronde, ad alto rendimento deve corrispondere un rischio più alto
per l’investitore (da notare il rischio di questi sta in meno morti).

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Ad oggi, le due tranche di bond viaggiano tranquille verso la maturazione del prossimo luglio, non
essendo scattata alcuna clausola. E non si tratta di una novità, perché un precedente ci è stato offerto,
non più tardi della scorsa estate, da altrettante pandemicsecurities emesse in relazione all’epidemia
di Ebola nella Repubblica Democratica del Congo, i cui cat-bonds arrivarono infatti a 40 centesimi
sul dollaro di valore facciale senza che fosse però proclamata la pandemia globale.
Risultato? I 320 milioni di obbligazioni emesse garantirono lauti guadagni ai loro detentori,
nonostante gli oltre 1800 morti accertati.
Secondo alcuni, fra cui Olga Jonas, senior fellow all’Harvard Global Health Institute, la Banca
Mondiale, attraverso l’emissione di quei bond,ha fatto soltanto propaganda mediatica. Volevano solo
annunciare una nuova iniziativa che “impressionasse il mondo”. Più che altro che lo ingolosisse nei
suoi settori più attenti alle opportunità finanziarie, visto che con i rendimenti obbligazionari di tutto
il mondo ai minimi storici, l’11% di cedola appariva quasi come un’oasi nel deserto: non a caso, l’asta
registrò una sovra-iscrizione del 200%, stando ai dati ufficiali forniti dalla stessa Banca Mondiale.
Lo scorso luglio chi aveva scommesso sull’epidemia di Ebola è passato all’incasso dalla Banca
Mondiale. In Congo, nel frattempo, si è continuato a morire (causa mancato raggiungimento del
numero minimo richiesto di decessi). Come scrive Bottarelli“quando anche Bloomberg –non un blog
complottista– arriva a mettere a nudo le dinamiche finanziarie quasi a chiedere implicitamente a
istituzioni di livello mondiale un sussulto di dignità, il rischio che la morte si stia tramutando in fiches
di un lugubre casinò appare tutt’altro che remoto o frutto di impostazione preconcetta”.
In realtà siamo davanti a ciò che Foucault chiamava tanatopolitica (il lasciar morire) e che oggi – a
differenza dell’epoca pre-liberista – sembra prevalere rispetto alla biopolitica (il lasciar vivere per
meglio sfruttare, far pagare tasse ecc.). E ciò anche perché i dominanti sono terrorizzati dall’aumento
-secondo loro- incontrollato della popolazione mondiale che si sovrapporrebbe ai cambiamenti
climatici e quindi scatenerebbe migrazioni che diventerebbero invasioni fameliche e nemici politici
dei paesi ricchi.
E’ anche per questo che le “guerre climatiche” o batteriologiche immaginate da nuovi guru
postmoderni rischiano di provocare qualche catastrofe anche se il boomerang di queste trovate appare
molto probabile. Secondo alcuni, troppi laboratori segreti fabbricano virus che potrebbero anche non
essere capaci di controllare generando pandemie.
Ma la tesi più convincente sulla nuova più alta frequenza di epidemie e pandemie presunte o reali è
che l’ecosistema si è talmente degradato da provocare la diffusione di virus che prima avevano il loro
spazio in ambiti naturali sufficienti che oggi sono stati distrutti,,come, ad esempio le grandi foreste
(vedi articoli di Angelo Baracca, di Sonia Shahe di Mariella Bussolati).

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Enrico Bucci e Ernesto Carafoli - Alcuni punti fermi sul coronavirus
Quattro punti, riguardanti l'epidemia di SARS-CoV-2, su cui non si è sufficientemente insistito; quattro punti che
potrebbero aiutare a ricordare fatti acquisiti di cui non si parla e fare alcune ipotesi ragionevoli che potrebbero aiutare a
ricondurre l’atmosfera nei limiti della naturale attenzione richiesta.
[3 Marzo 2020 – scienzainrete.it]

L’articolo del 9 febbraio "2019 n-CoV: dobbiamo proteggerci anche dall’infodemia" aveva come
bersaglio i limiti dell’informazione sul problema dell’attuale emergenza, ed è stato evidentemente
gradito, giudicando dal numero di letture. È stato persino tradotto in cinese: un unicum, crediamo,
per gli articoli di Scienza in rete (chi avesse interesse può consultare la traduzione qui vicino).
Abbiamo deciso di scrivere questo commento perché, dal momento in cui abbiamo scritto il nostro
articolo, non sono affatto diminuite le interpretazioni incompetenti, e i fattoidi di vario genere su tutti
i canali mediatici e televisivi, ed è semmai aumentata l’atmosfera d'isteria generale: soprattutto per le
continue oscillazioni tra esagerazioni della gravità della situazione corrente e sottovalutazioni di ciò
che sta accadendo e accadrà nel prossimo futuro. Ci sembra pertanto necessario ricordare alcuni fatti
acquisiti di cui non si parla e fare alcune ipotesi ragionevoli: pochi punti che potrebbero aiutare a
ricondurre l’atmosfera nei limiti della naturale attenzione richiesta. Ecco quindi un breve elenco.

1. Non è vero, come si continua ossessivamente a dichiarare, che al momento non esistono composti
in grado di ostacolare SARS-CoV-2. Almeno due composti - uno è il remdesivir, farmaco antivirale
ad ampio spettro, l’altro è la clorochina, che è il più usato farmaco antimalarico- inibiscono con
differenti meccanismi d’azione l’abilità del virus di portare a morte colture cellulari umane: è un
effetto, come si dice , in vitro, che normalmente deve essere validato con molteplici trial clinici, ma
che, sulla scorta delle informazioni di tossicità già disponibili per il fatto che questi due composti
sono già stati usati su uomo, in questa situazione di emergenza ha portato ugualmente alla
sperimentazione su alcuni pazienti. Il primo paziente statunitense, un 35enne di Seattle in grave stato
di insufficienza polmonare, è stato trattato, e guarito, con il remdesivir. Il farmaco è stato messo a
disposizione dei medici cinesi, e dalle risposte che se ne hanno, sta avendo un eguale effetto positivo.
Da quanto si è potuto capire, il farmaco è stato inoltre usato anche per i due pazienti cinesi che sono
guariti dopo il lungo ricovero allo Spallanzani, per quanto in associazione con altri presidi terapeutici.
Ora, queste notizie sono sicuramente note agli esperti che si alternano sulla stampa e nei canali
televisivi: rimane quindi incomprensibile come mai, pur se la prudenza è di rigore, non si dia maggior
spazio alle notizie sulle terapie sperimentali per SARS-CoV-2. Non si contribuirebbe, dichiarando
che qualcosa di più che promettente c’è, a diminuire l’atmosfera avvelenata di questi giorni?

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C’è anche spazio per un commento sulla clorochina, l’altro farmaco in sperimentazione contro il
coronavirus. Per il momento, come uno di noi ha ricordato, i dati ottenuti su circa 100 pazienti in
Cina sembrano confermare un’efficacia della clorochina contro il virus, effetto atteso sulla base di
precedenti dati in vitro e in vivo e basato su un meccanismo ben noto.
Oltretutto, tutti sappiamo che la penetrazione della Cina in Africa ha assunto livelli imponenti: milioni
di cinesi vanno e vengono continuamente dall’Africa. Stranamente, però, l’Africa sembra sinora
scarsamente toccata da Covid-19. E questo nonostante le sue strutture igienico-sanitarie-diagnostiche
non siano di certo all’altezza di quelle Europee. Ma sappiamo anche che in Africa la malaria è ancora
un terribile flagello ed è noto che in Africa la clorochina è usata dovunque e largamente. E se fosse
questa la ragione della attuale scarsa penetrazione del Covid-19 in Africa?

2. Giorno dopo giorno si continua a dichiarare che, qui in Italia, “il numero dei guariti” supera quello
degli ammalati ancora ospedalizzati. Da cui si trae la nozione che, grosso modo, una metà degli
infettati - che fortuna! - se la sarebbe cavata. Qua e là, nelle dichiarazioni degli esperti, fa sì capolino
il concetto che solo una piccola percentuale degli infettati corre seri rischi, ma l’informazione è fornita
invariabilmente - che sia mediocre abilità didattica? – nel modo più tortuoso possibile, in modo che
nessuno può farsi un’idea della statistica reale. Ora, diciamolo chiaro e tondo: dire che il numero dei
guariti è suppergiù eguale a quello dei malati -titoli da otto colonne nelle prime pagine! - è una solenne
sciocchezza.
Quello che si DEVE dire è, sic et simpliciter, che molti di quelli che incontrano il virus nemmeno se
ne accorgono. Di quelli che manifestano sintomi, solo una percentuale minima, forse il 2% o 3% (alla
fine dell’emergenza saranno anche meno) ci lasciano le penne; un numero che certamente si vorrebbe,
e dovrebbe, evitare, ma che va considerato nella sua giusta dimensione. Questa è una malattia che
guarisce nella quasi totalità dei casi! Per essere ancora più chiari: non è né la febbre gialla né il vaiolo,
e non è nemmeno la MERS, né la SARS (queste ultime due condizioni sono causati da altri
coronavirus). Se lo si dicesse chiaramente, ribadendo il concetto che questa letalità, unita alla finora
bassa probabilità di contagio individuale, produce un rischio individuale nullo per chi non si trova in
zona ad alta densità di contagio. E si eviterebbero le code ai supermercati per comperare 50 scatolette
di tonno, 6 flaconi di amuchina o 50 bottiglie di acqua.
Naturalmente – vedi punto 4 – non è che, considerata la presenza di altre virosi molto più letali, si
debba abbandonare ogni precauzione e lasciare libero il virus di fare il suo lavoro; tuttavia, certamente
lasciare che il panico scateni comportamenti irrazionali e inutili favorisce la propagazione del virus,
perché, per esempio, causa spostamenti non necessari e un aumento di contatti fra portatori e
popolazioni non ancora esposte.

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3. C’è un altro punto molto importante, poco e male discusso sui media nazionali: quando è iniziato
il “dramma” Covid-19 in Italia? Per circa un mese ci siamo cullati nell’idea che, vabbè, c’era questa
noiosa cosa che era arrivata in gennaio dalla Cina, che avremmo dominato con alcune draconiane
misure che avrebbero solo dato fastidio ai nostri rapporti con la Cina (per carità di patria sorvoliamo
sugli aspetti tecnici delle suddette misure). Ma siamo sicuri di non aver chiuso le stalle quando i buoi
già erano scappati? L’idea non è peregrina e della possibilità di recente si è incominciato a parlare,
meglio sarebbe dire a sussurrare, fra gli esperti. Un’ipotesi, come la si è definita. Però da pochi giorni
qualcosa di non ipotetico, ma di reale, è inaspettatamente venuto alla luce, come uno di noi ha già
avuto modo di scrivere. Cos’è successo? È successo che alla fine di dicembre in un ospedale di
Piacenza (una ventina di chilometri da Codogno) si sono inaspettatamente osservate una quarantina
di polmoniti anomale. A fine dicembre non c’era naturalmente ragione alcuna di pensare al
coronavirus. Era un’osservazione strana, dovuta a chissà quale fenomeno non spiegabile: capita, in
medicina. Questo succedeva ben prima dello scoppio dell’emergenza da Covid-19 in Cina e quindi
nel mondo. Evidentemente, gli avvenimenti da febbraio in poi devono aver messo la pulce
nell’orecchio di alcuni medici, che hanno deciso di analizzare il sangue degli ex-malati di polmonite,
in questo caso di un secondo picco registrato circa a metà gennaio: e cosa hanno trovato? Anticorpi
contro coronavirus!
A meno di un’anomala concentrazione di coronavirus da raffreddore proprio nei malati di un picco
anomalo di polmonite, è quindi verosimile che le polmoniti anomale registrate tra fine dicembre e
inizio gennaio siano state causate dal coronavirus; il quale, prima della fine di dicembre, vale a dire
in tempi pre-allarme, era quindi già attivo in Italia. Di più: se i dati saranno confermati, tenuto conto
dei tempi di sviluppo della patologia polmonare da Covid-19, e del rapporto infettati/seriamente
ammalati, è giocoforza concludere che già nella seconda metà di dicembre centinaia di portatori
asintomatici, o lievemente sintomatici, di SARS-COV-2 giravano molto probabilmente per l’Italia.
Alcune cose rimangono ancora da capire: una, molto importante, è la ragione della morbidità e della
letalità del virus nello Hubei Cinese, che appare molto maggiore che al di fuori della Cina. È probabile
che più di un fattore vi abbia concorso, a iniziare dalla carica virale cui sono stati esposti coloro che
sono stati contagiati a Wuhan. Inoltre, come ha scritto molto bene l’epidemiologo Pierluigi Lopalco,
la letalità è un fattore che dipende anche da fattori estrinseci al virus, quali la possibilità di ricevere
cure appropriate: a Wuhan, con le strutture sanitarie in crisi per la congestione causata dal gran
numero di pazienti, la letalità è stata certamente aumentata rispetto anche al resto della Cina. Potrebbe
anche darsi che alcuni ceppi virali siano più aggressivi, e che da noi e in altre parti del mondo siano
giunte varianti meno aggressive di quella emersa a gennaio a Wuhan. Se questo sia il caso lo sapremo

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dall’analisi delle sequenze delle varianti del virus che sono state isolate sia da noi che altrove (in
database ne sono al momento disponibili oltre 100).

4. Come abbiamo scritto, il rischio personale di avere conseguenze serie per l’infezione virale rimane
basso. Il rischio a livello di organizzazione del sistema sanitario, tuttavia, è pari al rischio individuale
moltiplicato da 60 milioni e passa di italiani; di conseguenza, possiamo essere certi che le strutture
sanitarie, soprattutto nelle regioni più colpite e soprattutto per quel che riguarda la terapia intensiva,
saranno messe duramente alla prova. Perché questo effetto sia mitigato, non c’è che una possibilità:
diminuire il numero di pazienti giornalieri da ricoverare, cercando di “spalmare” il più possibile nel
tempo l’infezione di nuovi soggetti.
Per farlo, oltre alle misure suggerite da ISS e OMS, tra cui il lavarci bene le mani (come un
memorabile servizio illustrato del Corriere della Sera di qualche settimana fa ci ha “insegnato”), è
soprattutto necessario diminuire le occasioni di contatto con soggetti portatori inconsapevoli del virus.
Questo significa, se ci pensiamo bene, soprattutto diminuire la frequenza di tutti quei contatti
involontari con un gran numero di estranei, di cui non ci interessa granché; e in proposito si è
giustamente sottolineato il ruolo del telelavoro, della diminuzione degli spostamenti non necessari,
dell’evitare gli assembramenti. Tutte indicazioni di buon senso, che non dovrebbero alla fine essere
vissute come un’orribile quarantena per proteggerci da chissà quale peste, ma come una semplice
diminuzione di “contatti” con estranei (ove per contatti si intende quello sufficiente alla trasmissione
virale, cioè una distanza da un soggetto inferiore o uguale a due metri) utile a non sovraccaricare gli
ospedali oltre quello che inevitabilmente accadrà.
Ecco; questi sono alcuni dei punti su cui non si è, a nostro parere, sufficientemente insistito,
preferendo invece riempire i giornali e i media con titoli e dichiarazioni contrastanti, che arrivano
persino alla lotta politica tra fazioni avverse, fatta imputando all’altra parte ritardi ed omissioni, o
strumentalizzando gli occasionali dissensi fra gli esperti. Un tipo di comunicazione di cui, ribadiamo,
non c’è nessun bisogno, e che può provocare solo danno, lasciando il cittadino nell’incapacità di
stabilire quale sia la giusta attenzione da dedicare ad un fenomeno che ha un certo grado di rischio, e
su quale sia il contesto esatto del rischio paventato dagli esperti.

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Gianfranco Marrone - Coronavirus: una rete di senso
[3 Marzo 2020 – Doppiozero.com]

Mediaticamente, l’epidemia è una manna. Una notizia ghiotta che attira l’attenzione del pubblico
blasé, moltiplica l’audience e va avanti – ben più del suo oggetto – per contagio velocissimo: tutti la
vogliono, tutti la cercano. Per quale motivo? Presto detto: perché è imprudente smentirne la portata.
Chi si arrischia a gettare acqua sul fuoco quando, anche se per una percentuale bassissima, ci potrebbe
scappare il morto a catena?
A bocce ferme, sappiamo tutti qual è il contesto in cui una notizia del genere – poniamo, il coronavirus
cinese – si diffonde: quello di una società del rischio, come l’ha chiamata Ulrich Beck una trentina
d’anni fa, nella quale nulla deve essere lasciato al caso, tutto deve avere una ragione, e ci deve essere
sempre un capro espiatorio. Più si va avanti nella razionalizzazione tecnologica del mondo, nel
controllo capillare di uomini e cose, più l’alea si trasforma in destino: più si va, cioè, verso le società
tradizionali descritte dagli antropologi, dove non c’è evento del mondo che non abbia, invece che una
causa, un significato.
Oggi, per nulla paradossalmente, il massimo della precauzione porta a una moltiplicazione dei
disastri, i quali non finiscono di stupire coloro i quali – cioè tutti – pensano che una buona polizza di
assicurazione possa coprire qualsiasi incidente capiti loro. Ex post è tutto chiaro: i media trasformano
l’allarme in allarmismo, generano ansie incontrollate, scatenano il panico. Hanno gioco facile:
nessuno osa smentirli, nella recondita eventualità che, per una volta, possano aver ragione. E a nulla
vale citare le decine di casi precedenti, quando si sono paventati disastri inenarrabili – e tuttavia
narrati – che non hanno poi avuto luogo. Per fortuna, si dirà: una fortuna però assai facilmente
prevedibile e tuttavia, come di prammatica, mai prevista.
Basterebbe mettere in fila un po’ di numeri e di statistiche per rasserenare gli animi: quanti son stati
i morti nelle precedenti influenze? quante sono le vittime annuali di un raffreddore, di una botta di
caldo, di un incidente stradale, di un tifone improvviso, di un’incauta manovra dell’elettricista, degli
strafatti che pigiano a tavoletta l’acceleratore dopo una nottata in discoteca? Tantissimi, se confrontati
a quelli dell’epidemia in corso, dove le vittime possono ancora contarsi una a una. Ma nessuno lo fa,
nella paura che questa volta la paura sia giustificata o giustificabile: e se invece, questa volta, fosse
diverso?
L’indeterminatezza cognitiva genera continui scoppi passionali: meno si sa di questo virus, della sua
provenienza, dei ritmi della sua diffusione, per non parlare delle soluzioni per arginarlo, più si
assommano le preoccupazioni. Tutto diviene sospetto, tutto potrebbe essere infetto e perciò
contagioso. I monatti sono tra noi. Così, a dispetto di medici e operatori sanitari, che invitano alla

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calma e alla ragionevolezza offrendo timidi argomenti e qualche rapido calcolo delle vaghe
probabilità, giornali e televisioni, blog e social vomitano pagine su pagine, trasmissioni su
trasmissioni, post su post, amplificando angosce e speranze, timori e tremori, aumentando a dismisura
lettori e spettatori. Quando ti ricapita?
Ma i media, in fondo, non hanno mica tutti i torti. Sanno benissimo che se le mascherine vanno a ruba
a un ennesimo scoppio di tosse d’un cinese in gondola, una qualche ragione, per quanto incongrua,
ci deve pure essere. E non è detto che essi siano gli unici responsabili dell’allarmismo generalizzato.
Troppo facile, ammettiamolo, dare loro tutte le colpe, anche perché, facendolo, siamo ancora dentro
la logica – antropologicamente spiegabile, ma razionalmente insensata – della responsabilità a tutti i
costi, del peccato secolarizzato, della catena di ragioni che indietreggia sino a scovare il destino
crudele. E lì la storia qualche insegnamento dovrà pur avercelo consegnato.
Innanzitutto va ricordato il ruolo basilare del nostro immaginario pop, o se si vuole della cultura
globalizzata che surrettiziamente ci permea. Il virus, abbiamo appreso con un certo gusto dell’esotico,
ha preso piede in un mercato cinese di animali vivi, e con buona probabilità s’è propagato attraverso
alcune condotte di areazione. L’orientalismo evergreen si sposa con le centinaia di thriller blockbuster
che hanno deliziato le nostre serate invernali. In più, sappiamo delle curiose abitudini alimentari
diffuse in Cina, dove – si vocifera – quelli che per noi sono amabili pet finiscono regolarmente in
pentola, senza manco un controllo igienico circa la loro provenienza. Per non parlare della notoria
disaffezione che i cinesi hanno verso l’ambiente: lì le polvere sottili sono ai massimi. Inoltre, è noto
che da tempo il regime comunista, pur cedendo al capitalismo, non ha rinunciato alla dittatura, e
dunque alla censura: chi ci dice che le notizie che arrivano da Xi Jinping non siano filtrate in senso
ottimistico? E se i trecento e rotti morti fossero molti di più? La realtà fa corpo con la fantasia,
divenendo tutt’uno con essa: da cui la ulteriore rinascita del razzismo, che porta gli esercenti dei bar
a vietare l’ingresso agli asiatici e i leghisti a invocare ancora la chiusura delle frontiere. Tutto fa
brodo.
L’immaginario popolare ha però conseguenze tangibilissime: quasi tutte d’ordine economico. I
viaggiatori scarseggiano, gli aerei non partono, le merci restano nei magazzini, le borse crollano. Ci
stavamo appena abituando alle colonne di cinesi a cui spiegare l’Ultima Cena o il Colosseo, e a cui
servire Aperol spritz e maccheroni alla gricia, ed ecco che quest’insperato introito turistico si
assottiglia. Avevamo imparato a esportare vino, olio e altri manicaretti italici nei ristoranti di Pechino
e di Shangai, quand’ecco che ci ritroviamo con milioni di bottiglie in cantina. Per non parlare della
finanza, che prosperava grazie alle transazioni coi cinesi e che adesso ha il fiato corto. Perfino le
università avevano cominciato ad assumere i nostri cervelli in fuga, assorbendo gran parte della

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manodopera intellettuale in sovrappiù, ma sembra che la maggior parte di questi ragazzi stia tornando
a casa.
Ecco allora la politica, condannata a decidere suo malgrado quale strada seguire: se dare ascolto al
panico della gente o ai portafogli degli operatori turistici, commerciali e finanziari. Sapendo che
qualsiasi scelta sarà parziale, perciò sbagliata, ma comunque urgente e necessaria. Il famigerato
principio di precauzione, tanto invocato da filosofi e sociologi, parla chiaro: occorre decidere anziché
temporeggiare, osare piuttosto che temere, prendersi – rischiando – delle precise responsabilità. Per
gli uomini politici non è facile, certo: ma mica si chiamano decisori per caso. Qualcosa dovranno pur
fare, dove anche il non far nulla è una scelta: per quanto tempo mantenere l’allarme? dove e quando
costringere la gente in quarantena? quando si riapriranno i mercati? quando ripartiranno gli aerei?
quando ricomincerà il turismo. Come dire che la gravità del virus è faccenda, più che sanitaria,
politica. Il fatto che ogni governo nel mondo, rispetto ai medesimi fatti, sta reagendo in modo diverso
ne è l’ulteriore dimostrazione.
La catena delle cause si trasforma in una rete di senso, dove, come nelle lingue e nelle culture, tutto
si tiene e tutto si trasforma. La metafora del contagio che i mediologi hanno da tempo utilizzato nelle
loro raffinate analisi ritrova insomma la sua lettera, se ne nutre a sazietà, per tornare a funzionare a
più non posso. E poi dicono che la retorica non serve a niente.

Il coronavirus e lo stato di eccezione individuale


[4 Marzo 2020 – trad. it. di Le coronavirus et l'état d'exception en chacun, da lundimatin]

« Il potere è dominio: può solo vietare e imporre l’obbedienza. »


Michel Foucault

A chi crede ancora, lungo tutto lo spettro politico, che i nostri imperi si preoccupino realmente della
loro popolazione — «stavolta vogliono davvero il nostro bene» — o, detta altrimenti, che i nostri
imperi non nutrano alcun interesse in questa crisi sanitaria, ci permettiamo di rispondere aggiungendo
qualche riga all’eccellente descrizione fornita da Agamben sul Manifesto qualche giorno fa.
Promemoria per gli studenti della prima fila: il modello di contratto sociale che ha maggiormente
ispirato e tuttora ispira la rete di potere non è quello di Jean-Jacques Rousseau, ma quello del
Leviatano di Thomas Hobbes. Un’opera che ha dato vita ad altre correnti, tra cui quella utilitarista —
alla quale dobbiamo il Panopticon di Jeremy Bentham. Questo brillante trattato di urbanistica (Il

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Panopticon!), in mano ai nostri governanti, ha partorito la maggior parte dell’architettura carceraria,
ma anche di quella scolastica. Ma forse siete poco interessati alla scienza politica e all’urbanismo
carcerario, e vi starete chiedendo: «che rapporto ci sarà mai tra il contratto sociale e l’aspetto
terrorizzante di questa nuova influenza?»
Promemoria per gli studenti dell’ultima fila: l’etimologia di «strategia» viene da «strategemma»
(«complottista!»), e dovrebbe portarci a considerare un’evidenza: che l’astuzia dell’avversario è
sempre relativa, e si definisce sempre in rapporto alle nostre qualità percettive — alla nostra capacità
cioè di leggere tra le righe nei discorsi dei governanti e dei loro galoppini senza qualità.
Ma ahimè, non è la relatività ciò che limita le nostre qualità percettive; e l’astuzia dei governanti
opera unicamente per quelli che hanno fatto della loro stupidità uno sport da combattimento.
La strategia è la scienza (il cammino o il metodo: methodos) relativo ai mezzi che permettono a uno
strategos (il capo dell’esercito!) di difendere il proprio paese e sconfiggere il nemico.
(Sulla strategia, Trattato anonimo bizantino)
A partire da qui, il problema più grande è che la rete di potere conduce la propria guerra, in maniera
più o meno discreta e larvale («le nostre famose qualità percettive!»), non già contro altri stati o
imperi (secondo la definizione classica di guerra) ma contro la sua propria popolazione.
Quando non ci sono nemici, bisogna inventarli: regola numero uno di ogni geopolitica. Ecco perché
quando Giorgio Agamben dice che lo stato di eccezione è divenuto il paradigma normale di governo,
ci invita ovviamente a pensare l’incessante rinnovamento della figura del nemico, oltre alle nuove
leggi di stampo terrorista e alla militarizzazione (con polizia al seguito) delle nostre città.
Dalle flashball LBD al data mining passando per i droni e il 5G, non preoccupatevi: ci stiamo
avvicinando a Gattaca «per il vostro bene». Come dice giustamente il filosofo italiano: «si direbbe
che esaurito il terrorismo come causa di provvedimenti d’eccezione, l’invenzione di un’epidemia
possa offrire il pretesto ideale per ampliarli oltre ogni limite». E quando leggiamo la lista di restrizioni
previste dal decreto e riguardanti i comuni «colpiti» dall’influenza (per i quali invito alla lettura
dell’articolo), possiamo stare certi che un domani sarà impossibile per un professore di filosofia o un
cittadino militante descrivere qualcosa come una città ai suoi interlocutori.
«L’altro fattore, non meno inquietante, è lo stato di paura che in questi anni si è evidentemente diffuso
nelle coscienze degli individui e che si traduce in un vero e proprio bisogno di stati di panico
collettivo, al quale l’epidemia offre ancora una volta il pretesto ideale. Così, in un perverso circolo
vizioso, la limitazione della libertà imposta dai governi viene accettata in nome di un desiderio di
sicurezza che è stato indotto dagli stessi governi che ora intervengono per soddisfarlo».
Questo «vero e proprio bisogno di stati di panico collettivo» è il nodo centrale del contratto sociale
hobbesiano. Per passare dallo stato di natura (definito dalla guerra di tutti contro tutti) alla società

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civile (definita dal termine della guerra di tutti contro tutti), occorre accettare, sorretti dalla ragione,
un contratto attraverso il quale tutti «possano guadagnarci» — dato che, sottomettendosi, i cittadini
troverebbero sicurezza e libertà nel passaggio dal mito dello stato di natura all’artificio della società
civile. Si tratta di rimpiazzare una finzione con un’altra: ma questi racconti producono evidentemente
degli effetti reali. Al fine di assicurare la stabilità dello stato, il principe deve produrre e instillare la
paura, assicurando al contempo la sicurezza dei suoi cittadini. In altre parole: la garanzia che non
moriranno di morte violenta (la morta paradigmatica dello stato di natura hobbesiano).
Non è un caso allora che Hobbes sia stato uno dei primi a considerare il corpo come metafora dello
stato, o che sia ancor oggi il filosofo più studiato nelle facoltà di scienze politiche da Parigi a
Melbourne.
Dal corpo politico al corpo individuale, la Neolingua ci vende l’idea che dobbiamo prenderci cura di
noi stessi — quando invece è evidente, almeno a partire dalle ricerche di Canguilhem e di Foucault,
che il corpo è l’obiettivo per eccellenza del potere sovrano:
«Il momento storico delle discipline è il momento in cui nasce un’arte del corpo umano che non mira
solamente all’accrescersi delle sue abilità, e neppure all’appesantirsi della sua soggezione, ma alla
formazione di un rapporto che, nello stesso meccanismo, lo rende tanto più obbediente quanto più è
utile, e viceversa» (Michel Foucault, Sorvegliare e punire)
Lo dimostrano le centinaia di migliaia di cinesi in autoquarantena senza l’intervento della polizia, il
ritorno di fiamma della delazione, il «lato pratico» di due miliardi di videocamere «pubbliche».
Il biopotere che ci riguarda qui e ora rappresenta un approfondimento del potere disciplinare e della
società di controllo, dal momento che viene esercitato sia sull’individuo che sulla popolazione,
modificando radicalmente i termini del contratto: lo scambio di diritti e di doveri tra stato e cittadini
subisce un’integrazione di doveri da parte dello stato in ciascuno di noi; e la maggior parte dei
cittadini agisce inconsciamente contro ciò che le resta della città e dei diritti.
Chiudere il proprio quartiere contro «un’influenza terrorizzante» in maniera «autonoma»,
«organizzandosi solo tra vicini»: sostanzialmente il servizio militare volontario. Se va bene. Ma se
va male… è l’estensione del concetto di campo di concentramento al pianeta intero. O, perlomeno,
ciò che mi sono permesso di chiamare — in termini più penali e, beninteso, riallacciandomi ai lavori
di Agamben — lo stato di eccezione individuale.
Un’influenza come causa di uno stato di eccezione planetario, come arma di distruzione di massa
della paura: nessun complottista di professione (dal basso!) avrebbe osato immaginare un pitch del
genere. Da Euronews all’Università cattolica di Lovanio, nessuno smette di ripeterci in continuazione
una lista di semplici precauzioni, neanche fossimo dei bimbi di diciotto mesi. Eppure, malgrado tutto,
bisognerebbe considerare con un po’ di serietà il terzo consiglio fornito ai cittadini dell’impero (dopo

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1. Lavarsi le mani, e 2. Evitare di tossire o starnutire vicino ad altre persone). Un corollario
imagologico del secondo punto che ci permette di percepire come la rete di potere desideri aggravare
la psicosi diffusa: «3. Evitare i contatti con persone manifestanti sintomi respiratori». Traduzione:
«Prestate ancora attenzione ai sunniti e agli sciiti barbuti, sono e restano terroristi non solo tra le
rovine siriane ma anche in Iran. Ma, a dispetto di questo pericolo, cari concittadini, vogliate
inaugurare questo anno 2020 sotto il segno del sospetto per chi tossisce».
Non dobbiamo andare in panico perché ce lo chiedono. La seconda legge della termodinamica ha
certamente subito un’accelerazione a causa di questo sistema mondo, ma è ancora ben lontana dal
terminare l’opera.

29 febbraio 2020, Fulvius Styx

PS. Non prendere posizione, è prendere posizione per il disordine costituito.


PPS. Il disastro è prima di tutto il carattere durevole della catastrofe; durevole perché da rinnovare
incessantemente; da rinnovare incessantemente perché profittevole.
PPPS. «La sicurezza è libertà». Questa frase, beninteso, viene dalla più celebre distopia orwelliana,
quella plagiata da Marco Minniti, e rappresenta soprattutto la direttrice delle politiche economiche
cinesi, europee e americane.
PPPPS. Non si sa mai «tutta la verità» su niente. Nel mondo spettacolarmente capovolto, vero e falso
sono intercambiabili. Guy-Ernest Debord esclamava: «la vita concreta di tutti si è degradata in
universo speculativo». Siamo tutti filosofi per contingenza: impariamo a divenirlo per necessità, e
cominciamo a rimettere in questione automaticamente tutto ciò che portiamo, tutto ciò che
trasmettiamo, tutto ciò che vendiamo.
PPPPPS. Quando Agamben dice che lo stato di eccezione è divenuto il paradigma normale di
governo, bisogna intendere che la rete di potere governa tramite la crisi. In altre parole, che coltiva
un immaginario della catastrofe le cui problematiche ci riguardano, senza dubbio, ma sulle quali non
abbiamo alcuna presa. Che sia ambientale, sanitaria, terroristica o finanziaria, noi — popolo dal basso
— non abbiamo alcuna presa sui processi decisionali. «Tu parli tanto del cittadino, ma resta tutto
molto astratto». Il cittadino è prima di tutto una finzione giuridica, politica ed economica ereditata
dal contratto sociale e dall’illuminismo, e concretizzata (o, per meglio dire, riconcretizzata) dalla
rivoluzione francese e dai moderni stati-nazione. Un mito, prima di tutto, quello dell’individuo,
dell’essere integrato, intero, non separato, preso entro un rapporto di assoggettamento allo stato —
un rapporto almeno apparentemente retto dal dare-avere (il contratto) fatto di diritti e di doveri. Questa

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sottomissione consensuale definisce la figura del soggetto — quantomeno da un punto di vista di
grammatica istituzionale e di storia della lingua della rete di potere.
Le arti della guerra e del governo si sono sviluppate a tal punto negli ultimi millenni che abbiamo
finito per crederci a questa finzione, a questo mito, a questa figura. Sono state a tal punto naturalizzate
da noi occidentali che non ne mettiamo più in discussione né la positività né il luogo del loro esercizio.
Il cittadino è prima di tutto quell’essere che riceve il proprio nome e il proprio statuto attraverso la
propria natività. La nascita, e il luogo della nascita, diviene da quel momento in avanti il marcatore,
la cifra, la traccia della sovranità. Detta altrimenti, il primo respiro come persistenza della legge. Il
suo gesto ultimo, prima della crisi ambientale, era il voto. Oggi fa la differenziata e, quando il
portafogli lo permette, prova a mangiare bio. Altro di legale? Nulla. Ogni cittadino, in quanto tale, è
illegale e rivoluzionario poiché deve prima di tutto reinventare una qualche forma alternativa di città,
che è come dire che deve lottare contro la figura attuale della cittadinanza.
In quell’altrove che è qui, invece, lo straniero, il migrante, il deportato, il sans-papier senza nome
mettono in crisi questa costruzione giuridico-politico-economica. La eludono in quanto residuo dei
colonialismi di ieri e di oggi, con in quali l’occidente capitalista deve fare sempre i conti. E anche se
nessuno di noi sa dire con precisione perché parte della rete di potere si è affrettata a esclamare «level-
five-epidemic is a good option», «l’evento coronavirus» è destinato a incrementare a dismisura i
controlli alle frontiere, rendendo ancora più difficili gli spostamenti e l’accoglienza dei migranti.
L’eccezionale figura del deportato necessita di un immediato quadro di riferimento e di misure
assolutamente eccezionali — anche se gradualmente integrata dal diritto nazionale e internazionale,
dagli studi accademici e dai giornalismi al fine di canalizzare «il problema», di limitarlo proprio
ingigantendolo nel linguaggio e nell’immaginario sociale dominante.
Lo stesso processo si manifesta per quanto riguarda la figura del manifestante-rivoltoso a livello
nazionale come quella del terrorista a livello internazionale. Viene delineato il profilo della minaccia
per diffonderlo all’estremo, instupidire l’immaginario dei più e soprattutto per distrarre dalla minaccia
ultima: noi stessi.
PPPPPPPS: «Noi come minaccia ultima?» La diminuizione del plusvalore porta la rete di potere a
reinventare incessantemente forme minori di insostenibilità affinché ci si dimentichi della sua.

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Luca Paltrinieri - Prove generali di apocalisse differenziata
Le misure che i vari paesi stanno adottando per contrastare la diffusione del Coronavirus sono simili, ma le ragioni di
fondo che spingono i governi a farlo sono molto diverse. Siamo costretti a scegliere fra libertà e salvezza?
[4 Marzo 2020 – Antinomie.it]

Non si capisce se l’arrivo del Coronavirus in Italia annunci la fine della libertà, la fine dell’economia
o la fine di Agamben. Probabilmente, direte voi, di nessuno dei tre. Sicuramente, dico io, di tutti e
tre, e questi tre eventi sono riassumibili pressapoco come la fine del mondo, o piuttosto la fine di un
certo mondo. Prima di dire perché, vorrei tuttavia partire da alcuni dati di fatto che mi sembrano
incontrovertibili. Lo dico perché poi non vorrei ritrovarmi a discutere sui fondamenti: cioè uno può
benissimo essere climatoscettico, però non venga a parlare con me (io ho smesso). Voglio soltanto
fare qualche premessa per dirvi, come Michael Dummett: parto da qui, sono sincero sui miei
presupposti.

1) Il primo aspetto della fine della fine del mondo è quello propriamente, apocalittico. Cos’è
l’apocalisse, oggi per noi? È la fine del progresso, semplicemente, ovvero la fine dell’idea che i nostri
figli staranno, in un certo senso materiale, meglio di noi. In altre parole, si troveranno a pagare i conti
di quello che è stato, per almeno un secolo, un certo squilibrio tra commodities e risorse. Il
riscaldamento globale, il drammatico crollo della biodiversità (che pure non è necessariamente legato
al primo aspetto), l’inquinamento globale da plastica e altri materiali di produzione umana, il picco
petrolifero, sono solo alcuni aspetti di un’apocalisse necessaria che dipende dal modo stesso in cui è
stato immaginato il progresso. Ovvero come un progresso materiale legato all’intensificazione della
produzione e soprattutto alla sua distribuzione in una value chain mondiale, all’interconnessione
sempre più grande dei circuiti dell’economia mondiale. A questo stadio non so nemmeno se vale la
pena di parlare di capitalismo (il produttivismo sovietico, per esempio, non faceva meno danni a
livello ambientale, il modello cinese è ancora veramente capitalistico?), è un’intera visione del mondo
che sta andando in frantumi – o piuttosto, direbbe Wittgenstein, il mondo stesso.

2) Il punto fondamentale, mi sembra, è il livello di coscienza che il grande pubblico ha della cosa: gli
appelli di Greta Thumberg, gli orsi polari che penetrano nei villaggi russi, la scomparsa di certe isole,
la mortalità degli insetti impollinatori, sono notizie di tutti i giorni che tuttavia ignoriamo o preferiamo
ignorare nella vita di tutti i giorni. Perché questa situazione di dissonanza cognitiva? In primo luogo,
perché sono inaccettabili e incongruenti secondo il nostro ideale di libertà. Ciò che chiamiamo libertà
di scegliere il nostro destino è legato alle possibilità di consumare, ma anche di immaginare il futuro
secondo delle opzioni in qualche modo disponibili su un mercato.

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Il capitalismo verde è, almeno al livello di questa coscienza collettiva, il miglior compromesso
possibile, tra questa libertà di scelta e la sostenibilità globale. Ma sappiamo ancora tutti benissimo
che il capitalismo verde non funzionerà, e a parte abbandonarci al sogno di soluzioni tecnologiche
della crisi che sono letteralmente sempre di là da venire, bisogna accettare la conseguenza più o meno
inconscia. Malthus nel 1798 delineava già chiaramente l’alternativa: o si cambia il modo di vivere
(quelli che i francesi chiamavano les moeurs nel diciottesimo secolo, e che aveva più o meno a che
fare con sessualità e riproduzione) o si va incontro alla distruzione violenta di una parte sempre più
grande della popolazione (ciò che lui chiama positive check ovvero l’aumento della mortalità per
epidemia, carestia, guerra, etc.).
La storia umana è piena di esempi in questo senso: la peste nera ha rappresentato la scomparsa del
40% della popolazione europea, la seconda guerra mondiale, il 3% della popolazione mondiale, etc.
Solo che in una versione ulteriore del suo famoso trattato, Malthus, contraddicendo se stesso, delinea
una terza via: trasformare, grazie allo sviluppo economico, le «classi estreme» (le classi povere
esposte alle distruzioni epidemiche e alla carestia) in classi borghesi, che sapranno controllare meglio
la loro natalità grazie alla loro moralità superiore, trasformando il positive check in preventive check.
Malgrado l’ironia di Marx ed Engels, che mostravano come la traduzione di positive check in
preventive check significasse niente di meno che la messa a morte per fame di una parte consistente
del proletariato, è su questa via che – in tempi diversi e con diversi entusiasmi – si è ingaggiato il
Mondo (tranne, forse, la Corea del Nord).
La transizione demografica, ovvero il passaggio da un regime di alta natalità e alta mortalità a un
regime di bassa natalità e bassa mortalità, che stanno compiendo più o meno tutti i paesi del mondo
con calendari e modalità diverse, ne è la prova. E’ di ciò che ci felicitiamo quando diciamo che lo
sviluppo economico ha fatto uscire 500 milioni di cinesi e 100 milioni di brasiliani dalla povertà: un
certo equilibrio apparentemente virtuoso tra crescita demografica e benessere disponibile. Ora, però,
che questo modello si è tradotto in una catastrofe ecologica senza precedenti – antropocenica o
capitalocenica, c’è poca differenza –, si torna alla casella di partenza: positive check o preventive
check, bisogna scegliere. Poiché siamo incapaci di rinunciare a un certo modello di libertà e quindi
ad uno stile di vita, abbiamo scelto, più o meno consciamente (lo ripeto a scanso di equivoci), di
consegnare una parte consistente dell’umanità (probabilmente 1-2 miliardi nei prossimi 30 anni,
secondo le stime più o meno pessimiste) a morte violenta.

3) Il massacro non arriverà per tutti allo stesso modo, esso dipenderà fondamentalmente da ciò che i
collapsologi francesi chiamano l’effondrement (il collasso). Malgrado la polemica che può suscitare
una teoria non scientifica e contestabile su molti punti, mi sembra utile partire dalla definizione

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minimale di collasso: si dà collasso quando lo stato non è più capace di rispondere ai bisogni primari
di una parte consistente della popolazione (acqua, viveri, riscaldamento, sanità). Ciò significa che la
nozione di collasso è locale e differenziata perché dipende da un certo rapporto tra politica, ecologia
e territorio. Il collasso non arriverà di colpo, con gli angeli dell’apocalisse, ma in modo più o meno
sensibile in differenti parti del mondo: stati come lo Yemen, il Congo, la Siria o il Venezuela possono,
oggi, già dirsi collassati o in via di collasso. L’India è un esempio di fascistizzazione dello stato e di
collasso politico-sociale su sfondo di crisi climatica.
Ma più profondamente, il voto negli States per Trump, o per Bolsonaro in Brasile, o Salvini in Italia
è un voto di scambio fondato su una promessa: che in base alla propria nazionalità (in realtà in base
alla propria appartenenza a un certo gruppo sociale), si sarà tra i salvati e non tra i sommersi.
Parlando all’inconscio collettivo, il leader politico si rivolge al suo popolo promettendogli salvezza e
arche di Noé, specie rispetto agli altri – gli stranieri. Nel frattempo negozia in modo più o meno
esplicito le condizioni della salvezza con le classi che possono permettersela realisticamente grazie
alla continuazione oltre il tempo limite di politiche di crescita le quali, ovviamente, a livello globale,
sono completamente insensate.

Questo il panorama. Veniamo ora al coronavirus. Il coronavirus è effettivamente più di un’influenza


(come mostra esplicitamente il R0 di 2,5 – ovvero il potenziale di contagio), ma non oggettivamente
e in modo, per così dire, assoluto. Direi piuttosto che il coronavirus è più di un’influenza nel contesto
che è il nostro.
I paralleli con l’influenza spagnola del 1918 non sono del tutto ingiustificati: allora l’epidemia, che
pure era dovuta a un virus che aveva un R0 basso, colpì una popolazione debilitata dalla prima guerra
mondiale, in una situazione nella quale le strutture sanitarie esistenti non erano all’altezza del
problema. Né la popolazione cinese, né quella europea sono oggi così debilitate, ma in entrambi i
contesti c’è un problema comune, quello della capienza degli ospedali e della pertinenza di misure
sanitarie all’altezza, ovvero capaci di rispondere ad una domanda di assistenza proveniente
dall’utente.
Da questo punto di vista Agamben e Nancy hanno entrambi ragione, ma anche entrambi torto nella
misura in cui sembrano ragionare in un orizzonte mondiale omogeneo. In altri termini, la diffusione
del coronavirus provoca qui e là le stesse misure di confinamento, ma per ragioni del tutto diverse.
La Cina sta costruendo il futuro post-apocalittico del mondo: un futuro basato sulla pianificazione
della crescita economica e l’addomesticamento degli spiriti animali del mercato (il piano colossale di
controllo della natalità di qualche anno fa andava già in questo senso); un modello di governo
assolutamente non democratico (poiché non si tratta affatto di costruire un consenso attraverso il

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confronto delle opinioni, ma di retrocedere verso una base comune di valori unificanti il popolo cinese
nella marcia verso il dominio del mondo); una biopolitica che risponde a questi criteri, fondata sul
controllo totale, disciplinare della popolazione ma anche, contemporaneamente, sull’estensione della
protezione sociale e sanitaria a fasce sempre più larghe della popolazione (come dimostra l’ambizioso
piano di sicurezza sociale e sanitaria per tutta la popolazione cinese).
Ciò che è veramente inedito in Cina è l’idea stessa della presa in carico statale della salute della
popolazione, ciò che genera una domanda nuova, crescente ed esplosiva, una domanda di assistenza
sanitaria che prima era presa in carico dalla famiglia, dal villaggio, o semplicemente da nessuno.
In un contesto in cui il coronavirus rappresenta una minaccia di sovraffollamento per strutture
sanitarie e ospedaliere ancora fragili ma in via di costruzione, il lockdown permette di contenere
l’epidemia entro certi limiti appoggiandosi sulle strutture di uno stato «autoritario» (se questa parola
ha un senso in Cina) senza pertanto costituire alcuno «stato di eccezione». I cinesi stessi sembrano
consapevoli che quello che sta avvenendo non è null’altro che una tappa nella costruzione
dell’avvenire della Cina come unica potenza al mondo.
Veniamo all’Europa e più specificamente all’Italia. Qui non si costruisce nessun modello politico per
«il futuro», tutt’al più si gestisce come si può un presente di declino (alla faccia di chi continua a
parlare dell’Italia come «laboratorio biopolitico», ma de che? Laboratorio della fine del mondo?).
Come accenna Esposito alla fine del suo intervento, le ordinanze e i decreti promulgati dal governo
italiano hanno a che vedere, più che con l’estensione del dominio biopolitico, con la deliquescenza
dello stato-provvidenza, e più specificamente delle strutture sanitarie sottoposte a trent’anni di
distruzione programmatica dai governi di «dimagrimento» neoliberali e dal new public management.
Peraltro, la situazione è simile se non peggiore, nella Francia dalla quale scrive Nancy dove Macron
non solo ha portato a termine la distruzione del concetto stesso di ospedale, ma ha anche scaraventato
nel più severo burn out la quasi totalità del personale medico e sta letteralmente facendo morire di
fame buona parte del personale amministrativo (ciò che spiega la simpatia generale per il movimento
dei gilets jaunes, che non sono l’oggetto di pietà, ma di identificazione per una maggioranza della
popolazione). Probabilmente è la consapevolezza di questa distruzione che spinge Nancy ad
approvare certe misure di contenimento del virus, soprattutto se si considera che i primi ad essere a
rischio sono i più deboli come lui, già affetti da varie patologie, non solo perché più esposti al
coronavirus e alle sue conseguenze deleterie ma anche perché esposti al rischio della noncuranza,
dell’abbandono insomma, da parte di strutture mediche incapaci di gestire le emergenze anche
influenzali perché fondamentalmente ormai prive di risorse.
Ciò che viviamo in Europa, insomma, non è l’estensione della bio-politica come regime di una
potenza incarnata dallo Stato che fa vivere e abbandona il surplus alla morte, ma piuttosto assistiamo

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stupefatti, in questi giorni, alla prova che il neoliberalismo ha letteralmente annullato l’opzione
biopolitica moderna, ovvero la capacità di «far vivere» puntando sul circolo virtuoso tra sviluppo
economico e popolazione (in senso quantitativo ma anche qualitativo), opzione sulla quale si reggeva
da almeno tre secoli la possibilità stessa di ciò che noi «europei» chiamiamo libertà.
Come abbiamo visto questa opzione si è letteralmente e strutturalmente schiantata contro i limiti
ecologici che per tutto questo tempo hanno rappresentato l’impensato dello sviluppo. Agamben ha
tutte le ragioni di dire che lo stato di eccezione è diventato la regola, attraverso una legislazione
liberticida a colpi di decreto: il punto è che uscire dal circolo mortale sviluppo demografico-sviluppo
economico implica in primo luogo uccidere la libertà, o almeno ciò che noi chiamiamo libertà. Il virus
viaggia infatti sugli stessi circuiti globalizzati che sono il presupposto materiale della nostra
concezione della libertà. Per questo, l’emergenza epidemica del coronavirus si presenta, in Europa,
nientemeno che nei termini dell’arbitraggio tra libertà e salvezza: la questione di fondo è in che misura
lo Stato neoliberale, questa incarnazione terrena e intimamente pericolosa della Provvidenza, può
ancora permetterci una salvezza relativa, con quali mezzi, e per chi.
Dispiace fare appello a nozioni così rozze come l’inconscio collettivo per spiegare la psicosi collettiva
di questi giorni, ma in un certo senso le misure prese dal governo italiano rappresentano un modo di
parlare a questo inconscio, che è già, lo ripeto, un inconscio dell’apocalisse. Il problema centrale, mi
sembra, è come dare un’espressione concreta a questo inconscio senza tradurlo nei termini banale di
una scelta tra l’egoismo personale e la vita dei poverelli, poiché il problema centrale è ciò che
intendiamo per libertà ovvero per azione umana. L’opzione cinese della libertà come controllo del
globo non è solo, per quanto ci riguarda, una specie di incubo totalitario: semplicemente per noi, ora
e qui, in Europa, non è più un’opzione possibile. La risposta dei partiti autoritari europei, fascisti o
nazionalisti, che cercano di venderci una salvezza contro gli altri – i disperati del mondo che saranno
i primi a essere i sommersi – in cambio della libertà liberale di scelta e opinione, non è solo
moralmente insostenibile, è uno specchio per le allodole che nasconde l’inevitabile guerra di classe
tra i sommersi e i salvati da dentro le frontiere. La risposta di fondo, la vediamo tutti: l’unica
possibilità di salvare qualcuno implica già di farla finita con una certa idea della libertà come crescita
economica, scelta materiale e proprietà individuale. Bisogna ripartire, spinozianamente, non da ciò
che ci è permesso, ma da ciò che è possibile. Il virus ci pone ora davanti alla necessità di non lasciare
da soli i pochi che si sono già avventurati su questa strada.

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Antonio Floridia - Più che «stato d’eccezione», strategie incerte del nostro tempo
Coronavirus e politica. Quando entrano in gioco questioni di vita o di morte anche il bistrattato progresso mostra ancora
un senso. Semmai domina l’incertezza: di governo, regioni, sistema scientifico
[4 Marzo 2020 – il Manifesto]

Lasciando da parte le implicazioni politiche più immediate, e anche alcune miserie della cronaca
quotidiana, la vicenda del coronavirus sollecita una riflessione storica e d’epoca. Interessanti alcuni
paradigmi interpretativi: dall’idea di “biopolitica” alla logica dello “stato di emergenza”.
Due paradigmi interpretativi proposti dalla filosofia contemporanea espressi sulle pagine del
manifesto dagli interventi di Giorgio Agamben e Donatella Di Cesare.
Ma sono utili queste categorie a comprendere quel che sta succedendo? Possiamo davvero leggere la
gestione di questa “emergenza” alla luce di alcune categorie foucaultiane, ad esempio quella del
“governo pastorale” (una governance che si prende cura della “salute” del corpo e dell’anima degli
individui, li protegge, ne alimenta le paure ma nel contempo le sfrutta)? Perché si rischia di precipitare
su un terreno meta-storico, che ci fa perdere di vista il senso degli eventi e ci lascia, anche
politicamente, del tutto disarmati.
Sempre sul manifesto un autorevole “paleopatologo” concludeva dicendo che “per quanto possa
sembrare dolorosa, la limitazione delle relazioni sociali in questa fase è molto importante”, e
ricordava la lungimiranza della Repubblica di Venezia quando introdusse il principio della
“quarantena” per gli equipaggi delle navi apportatrici di epidemie.
Ebbene, a me pare che la chiave più utile sia oggi quella di leggere questa vicenda come una “cartina
di tornasole” che mette a nudo le fragilità del capitalismo globalizzato e che richiama come non mai
prima il tema del governo (e di un governo democratico) delle ineludibili interdipendenze che
segnano la nostra epoca.
Questo è il tema cruciale: la vulnerabilità di un sistema economico e di un sistema di relazioni sociali
che si inceppano, o rischiano di incepparsi, a fronte dell’imprevista insorgenza di un fenomeno
biologico e naturale, come quello di uno strano virus che sembra provenga dai pipistrelli. Ma, insieme,
qualcosa che ci richiama un semplice dato, ossia che non c’è una “storia eterna”, un corso e ricorso
della stessa logica di dominio: la scienza moderna oggi ci permette di capire e controllare questo
fenomeno “eccezionale”; non più tardi di un secolo fa, la “spagnola” falcidiò milioni di uomini.
Quando entrano in gioco “questioni di vita e di morte”, forse il tanto bistrattato concetto di
“progresso” mostra ancora un senso da non disprezzare. Se allarghiamo lo sguardo, la cultura
dell’illuminismo, l’idea che vi è stata realmente e può ancora procedere una qualche “civilizzazione”
della vita umana sulla terra, forse non è poi così obsoleta.

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D’altra parte non sembra che in questi giorni, nella povera Italia, sia in azione un qualche Potere,
metafisico e inafferrabile, pervasivo e insinuante, che sta etero-dirigendo le strategie dei governi
nazionali e regionali, o degli stessi organismi tecnico-scientifici che governano il sistema sanitario.
Strategie che, semmai, sono apparse talvolta incerte o contraddittorie: ma allora come si governa
l’“incertezza” nel nostro tempo? Ci sarà modo per la ricostruzione delle diverse fasi che ha avuto il
governo di questa vicenda, quali strategie comunicative e politiche sono state adottate dai diversi
attori, il ruolo della comunità scientifica. Ma, appunto, una vicenda specifica, da cui forse potrà trarre
maggiore vigore anche la difesa e il rilancio della sanità pubblica e della salute come bene comune.
Poi, certo, tutto il caso pone molti altri interrogativi. Ne accenno solo uno: come entrano il sapere
scientifico e le competenze tecniche nel processo politico e nel discorso pubblico? E come
interagiscono con la politica democratica? Se è inaccettabile una visione sacrale della scienza, lo è
altrettanto ciò che potremmo battezzare “populismo epistemologico”, un atteggiamento che
delegittima a priori, inonda di sfiducia e di sospetto, le “verità” (per definizione, sempre provvisorie)
della ricerca scientifica. Ma anche gli scienziati, per la loro parte, devono riflettere sul proprio ruolo;
e non è certo oggi riproponibile “il governo dei sapienti” di platonica ascendenza.
Uno degli esperti che hanno imperversato nei talk-show televisivi, tempo fa ha scritto un libro in cui
si proponeva di dimostrare “perché la scienza non è democratica”, e perché ognuno deve parlare “solo
di quel che sa”. Non solo tutto ciò non è possibile o realistico (perché nessuno può impedire che, nella
sfera pubblica, si parli di tutto), ma è anche sbagliato in linea di principio; potremmo consigliare di
leggere un classico del pensiero democratico, John Dewey, che – al contrario – proponeva il metodo
scientifico come modello di una comunità democratica: la ricerca, il dubbio, il procedere “per prove
ed errori”, il confronto pubblico, la definizione di “verità” parziali, sempre aperte alla verifica e alla
falsificazione.
Un procedimento fatto di public inquiry e di social learning. Solo se la scienza entra correttamente
nel dibattito pubblico, e mette in luce le premesse e le conseguenze politiche del proprio lavoro, si
potranno sconfiggere le “false notizie”. E forse anche la democrazia potrà guadagnarci qualcosa.

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Angela Balzano - L’incubatrice mostruosa o Sars Wars Cov-2
Di fronte alla diffusione del virus e al dispiegarsi dell’economia della catastrofe, al ritornello “bisogna difendere la
società” se n’è sovrapposto un altro: “bisogna curare la società”. Uno sciopero riproduttivo per sopravvivere nel
laboratorio-Italia
[4 Marzo 2020 – Dinamopress.it]

L’umanità potrebbe essere stata sopravvalutata, ma da quando essa ha raggiunto la cifra di otto
miliardi, ogni discorso sull’estinzione sembra completamente fuori luogo
Braidotti - Il postumano

Figurazione 1: Sars Wars Cov-2


Pare che l’“entità biologica” più diffusa sulla terra sia il virus, ottavo regno comprendente migliaia
di specie, alternativamente narrate come acerrime nemiche della sapiens. In questi giorni surreali,
mentre a reti e social unificati viene proiettato il film Sars Wars Cov-2, passeggio per le vie di una
Bologna svuotata e noto che il panico è aumentato ma almeno il traffico è diminuito. Il mood cinico-
ironico è l’unico con cui riesco a iniziare questa figurazione (e a vivere nella finzione). Respiro piano
e il mio quartiere sembra calmo calmo, strano strano (Nella mischia, AK47, 1996). Qui hanno chiuso
scuole e università, in altre città del nord hanno sospeso festival, annullato concerti, eventi culturali,
bloccato la programmazione di cinema e teatri, chiuso i locali dopo le 18:30. Siamo tutte invitate a
autodenunciarci nel caso fossimo entrate in contatto con un caso sospetto, rivolgendoci alla deputata
autorità. Solo che siamo un attimo confuse: dobbiamo recarci a un presidio medico/sanitario o in
caserma? I decaloghi delle regole da seguire aumentano insieme all’ansia e compaiono i primi militari
per le strade dei paesini lombardi. Sarà dura disintossicarci da quest’iniezione di auto-controllo
biomedico, in una parola biocontrollo. Finiscono le mascherine, i meme sull’amuchina non si
contano, si fa la spesa come se ci si dovesse rinchiudere in un rifugio anti-atomico per due mesi. Si
direbbe che il coronavirus abbia scelto una specie ospite piuttosto paranoica, già abbastanza
predisposta (Foucault direbbe addomesticata? docile?) ai dispositivi di sicurezza clinico-militari.
Basta uno starnuto e la paura inoculata da più di mezzo secolo di politiche della catastrofe ci atterrisce.
Un virus che per i governi (e le economie) occidentali può più di quello che possono i vecchi strumenti
dello stato nazione. La guerra globale permanente è biologica perché è razzista e classista. I virus
sono mostri da uccidere, poco importa se nella guerra contro il virus alcune popolazioni umane, alcuni
particolari gruppi di individui soccombono. Meglio chiudere le frontiere, e così siamo arrivate al
punto che è difficile persino capire quale stato chiude le frontiere a quale nazionalità, tutti comunque
chiudono le porte in faccia a qualcun*. In Italia si giunge a chiudere piazze e strade, non solo per
creare “zone rosse” in cui recintare le persone in quarantena, ma anche per vietare scioperi, cortei,

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assemblee, manifestazioni politiche. Il sistema immunitario biocapitalista non può accettarlo, ma
quando l’utero della terra genera mostri esso pare darsi più il compito di gestire la popolazione umana
che i mostri in sé: «innalzando il consumismo alla funzione di consumazione orgiastica della paura,
l’occidente è diventato i suoi mostri» (Braidotti, Madri, Mostri, Macchine 2005, 40).

Figurazione 2: Virus sapiens


E così cerchiamo i superdiffusori, di che nazionalità saranno? Cosa facciamo se i mostri in sé siamo
noi? Si cerca di preservare l’umano che conta, per esso il governo può ridurre le tasse, sospendere i
pagamenti delle principali utenze, tutto pur di preservare un minimo di nazione (ovvio l’umano che
conta sono le imprese, le banche, perché è per loro che sono in ultima istanza le sovvenzioni). Le
teorie complottiste potrebbero anche rispondere al vero (è tutto architettato ad hoc) così come
potrebbe essere vero che il virus c’è ed è pure un po’ incattivito (dai non fare la negazionista). Il punto
è che non cambierebbe nulla, non per chi è interessata a cogliere i rapporti di forza in essere e le loro
modalità di gestione: il dispiegarsi della governamentalità biopolitica occidentale. Come Illuminati,
non sono alla ricerca del “soggetto intenzionale”, non mi importa dell’eziologia, i virus ci precedono
e ci succederanno, mi importa della gestione della malattia e della funzione che essa assolve per
governi e mercati quando passa dall’essere circoscritta al corpo del singolo e al deputato istituto
disciplinare (l’ospedale) all’espandersi alla popolazione e al suo illimitato raggio di azione ai tempi
della globalizzazione. L’economia della catastrofe e la sua funzione politica hanno una storia che
precede la mia nascita, generazione postnucleare la mia, più abituata alla sporadicità e imprevedibilità
di un attentato terroristico che al preannunciato incrinarsi di rapporti internazionali, in qualche modo
almeno collocabili nello spazio-tempo. Per noi l’incidente fatale ha sempre più a che fare con il
disastro ecologico dalle conseguenze non arginabili, con la malattia e il pulsare di virus incattiviti
dalla circolazione di merci e individui. Può avvenire ovunque, posso morire anche io, il nemico può
essere chiunque, anzi il nemico è la vita in sé, dal momento che i virus su questo pianeta sono la
forma di vita più diffusa. Coincidenza ambigua: ora che la vita in sé diviene oggetto privilegiato di
molte scienze, oggi che la vita è plusvalore, essa si trova anche a funzionare come enzima
catalizzatore delle spinte neoliberiste&neofondamentaliste alla sicurezza, alla privatizzazione, alla
creazione di debito, al controllo e alla privazione di diritti.
E di fronte a tutto questo, il “laboratorio ospedaliero-militare italia”, il focolaio di ogni “dispositivo
patologizzante e normalizzante” non fa che ripetere lo stesso ritornello: bisogna difendere la società,
è questo il mantra dello stato-nazione, anche se per fare la guerra al virus faremo la guerra a noi stessi.
Anzi, soprattutto perché facciamo la guerra a noi stessi. Soprattutto perché, come in ogni guerra,
entriamo in crisi. Apprendo dal Corriere che scrivo in un venerdì nerissimo leggendo un articolo dal

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titolo Economia della paura: si dice questa sia la peggiore settimana dalla crisi finanziaria del 2008
dopo il crollo di Lehman Brothers. Contiamo le morti e i titoli in ribasso, se non ci spaventa il ceppo
corona ci spaventerà lo spread. In ogni caso dobbiamo aver paura, il virus ha attaccato il sistema
immunitario principale (il capitale) e il suo corpo prediletto (l’umano).
Nel complesso passaggio dal fordismo al postfordismo, all’economia politica dell’interesse succede
quella delle affezioni, che si organizza come forma trascendente-permanente di gestione
dell’insicurezza e della paura diffuse collettivamente. Questo significa che il tecnocapitalismo ha ben
compreso che l’unico mezzo per reggere alle sue crisi strutturali è attraversarle con l’intento di
riscrivere le produzioni desideranti delle soggettività, a partire dalle passioni e dai comportamenti che
mettono in circolazione. E se, come ci spiegava Spinoza, la paura è il desiderio che ci induce a evitare
un male maggiore ricorrendo a quello minore, dovremmo forse dedurne che consideriamo un male
maggiore la perdita della nostra salute e un male minore la perdita della nostra autodeterminazione?
Perché quelle in atto sono misure cautelari, di sicurezza, totalitarie, anatomo&biopolitiche al
contempo, in quanto fondate su dispositivi biomilitari in grado di far presa sia sul corpo singolo sia
sul corpo-massa della popolazione.
La salute prima di tutto. Come per ogni corpo, il nostro conatus è sempre sforzo di perseverare
nell’essere. In Spinoza l’essenza della singolarità è la sua stessa tensione: il desiderio di durare in
vita. Quando diciamo biocapitale diciamo soprattutto plusvalore generato a partire da e sottratto a
quella continua potenza in atto che è il desiderio di vita disseminato in tutti i corpi, compresi quelli
umani. Il biocapitale ha radici profonde, ci toccherà lavorare sui nostri sé, decostruire il sistema
immunitario cartesiano che ancora li separa dal tutto. Erroneamente, crediamo che la salute sia un
qualcosa di riconducibile ai singoli individui umani, la abbiamo privatizzata e rateizzata, facciamo
quanto in nostro potere (economico) per conservarla (e dunque vivere) sempre più a lungo. Ma la
salute umana non è forse interrelata a quella di tutte le altre creature terrestri?
Durante la settimana più nera per le borse dal 2008, in Antartide la temperatura ha raggiunto i 20
gradi. Ricorro con ironia all’antropomorfismo: si direbbe che il Polo Sud abbia la febbre, se fosse
nostra nipote la avremmo già “tamponata”. Spinoza mi insegna a non temere, non sarò relativista:
l’errore esiste, deriva da una cattiva conoscenza delle cause dei mali da evitare. Se solo ci sforzassimo
di esistere&conoscere, capiremo forse meglio che non può accadere che l’uomo non sia una parte
della natura (Spinoza, Etica, IV, cap. VII)?
Non si tratta di desiderare la nostra stessa morte, possiamo rifiutare lo stato di emergenza continuando
a vivere:
morire non è cosa facile da visualizzare «amichevolmente». Ma la battaglia non è l’unica via per
indicare il processo della vita mortale. Le persone che affrontano le conseguenze potenzialmente letali

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dell’infezione da virus HiV hanno ribadito che si può vivere con l’aids, non hanno accettato lo statuto
di vittime (o prigioniere di guerra?) (Haraway, Le promesse dei mostri, 2019, 117).
Non sarà facile visti i limiti alla libertà di movimento, ma noi eco/cyborg/transfemministe
continueremo ad andarcene in giro nel mezzo di Sars Wars Cov-2 e sequel spiegando quel po’ che
abbiamo capito: la Terra è un’incubatrice mostruosa, pare ci siano dei sapiens oltre ai virus. E nei
corpi dei sapiens pare ci siano centinaia di batteri, tanti quanti le cellule. Non siamo gli unici abitanti
della vita e della terra che ci ritroviamo tra le mani e sotto i piedi. Non siamo neppure più utili dei
virus alla salute terreste. Di sicuro agli ecosistemi marini messi a dura prova dal riscaldamento globale
da noi provocato fanno più bene loro dei sapiens, visto che infettando il plancton, rimettono in circolo
nutrienti essenziali per la catena alimentare dell’ecosistema e che pare abbiano proprietà utili alla
riduzione delle emissioni di carbonio. Nessuno sa cosa un virus può in potenza, figuriamoci una
parentela postumana virale contro il riscaldamento globale.

Anticorpi e parentele transfemministe: #scioperoriproduttivo!


Noi potremmo fare la nostra parte sia chiaro, non è che deleghiamo tutto il lavoro ai virus, dovremmo
mimarli, ricorrendo all’arte della mimesis femminista, dovremmo diffondere comportamenti
destabilizzanti e annichilenti. Haraway ci ricorda che i virus sono organismi «capaci di cambiare il
mondo […] contrabbandieri proteiformi» (2019, 52). La biologia li considera da poco ottavo regno
perché, ancora intrisa di vitalismo antropocentrista, non riesce a classificarli come vere e proprie
forme di vita, vi si riferisce con l’espressione “entità biologiche” e li spiega come ibridi in bilico tra
vivente e non vivente, parassiti perché per vivere e riprodursi hanno bisogno di un organismo che li
ospiti. Che questa spiegazione ci torni familiare anche per l’umano, è questo il mio augurio: siamo
tutt* in bilico tra la vita e la morte e abbiamo tutt* bisogno di un intero mondo che ci ospiti per vivere
e riprodurci. Gli anticorpi che siamo chiamat* a sviluppare non dovranno difenderci da Cov-3, ma
dall’iperproduttivismo capitalista (anche dalla recessione che si profila all’orizzonte) e
dall’imperativo che lo sorregge: tenete in vita l’umano prima di tutto!
Vedete, questo invito è tanto simile a quelli fatti in casi diversi e in assenza di #rischiocontagioCov-
2. Al ritornello bisogna difendere la società si è chiaramente sovrapposto il ritornello: bisogna curare
la società. Meglio ancora: bisogna far in modo che la società si curi da sola, che investa in
prevenzione, auto-terapia, auto-diagnosi/prognosi. Chi ha resistito fin ora si piegherà dinnanzi al
picco di contagi globali previsto per fine marzo. E dopo Sars Wars Cov-2 correremo tutti nei nostri
bioshop online a ordinare test genetici do it yourself che ci prediranno il rischio di contrarre il Cov-3
(lo facciamo già ora e lo facevamo prima, migliaia di individui “sani” già testano i loro geni per
vagliare la sola eventualità che possano in futuro contrarre determinate patologie). Intanto corriamo

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a lavarci le mani, almeno da quando ci siamo accorti che il virus esiste (perché fin tanto che era in
Cina non era mica certo no?). Intanto teniamoci a distanza 10 metri dalle persone che starnutiscono,
non lasciamo avvicinare il nemico mai e nel dubbio corriamo via veloci a disinfettarci con cloro e
alcol (ho parafrasato dal decalogo del Ministero della salute).
Disfunzionali, lente, già infette e pronte a infettare, corpi superdiffusori di empatia transpecie, mi
appello a voi ricorrendo all’hashtag più ironico e perciò affascinante pescato dalla mia bolla
prossemica: #quarantenaredistributiva! Dal canto mio, affetta dal desiderio di co-creare nozioni
comuni e perciò virali, aggiungo: #sospensionedellariproduzione #virusperilnonlavorounitevi!
Non metto l’ironia da parte, no. Mi aiuta a ritornare, lucidamente, su chi davvero paga le misure
emergenziali prese in nome dell’immunità della specie. Perché lo ricordiamo a stento in tempi di
mantenimento dello status quo, forse in questo caos proprio lo abbiamo rimosso: se le scuole
chiudono le/gli studenti dove stanno? A casa no? E a casa chi c’è? Avanti mamme, zie, sorelle, nonne,
si tratta di curare la società, chi deve farlo se non voi che l’avete sempre fatto? E gli/le insegnanti
delle scuole che non riceveranno alcun salario a causa della sospensione delle attività didattiche? Qui
potevo tranquillamente usare il femminile universale, tanto i contratti precari nella scuola pubblica
(per non parlare delle università) ce li hanno soprattutto le donne. E se gli anziani vengono quasi
obbligati a non uscir di casa, chi baderà a loro? E le/gli educatrici/ori? Ma il governo aiuta le medie
imprese, cioè aiuta le banche, pagando loro i debiti che le imprese non possono (o non potevano? o
non potranno?) pagare da sole.
Nell’emergenza saranno forse più palesi le contraddizioni che il capitale si trascina dietro? Non
Una di Meno vorrebbe portare queste contraddizioni per le strade l’otto e il nove marzo 2020, ma non
può farlo, perché a una settimana dallo sciopero la commissione di garanzia ne ha intimato la revoca.
In nome del virus e del padre: andate a messa, non scioperate! Semmai state a casa a prendervi cura
de* ragazz* che non stanno andando a scuola! Ma…se lasciassimo i ragazzi per strada, gli anziani da
soli a casa e noi ci disperdessimo in ogni dove, ovunque basta che non ci trovino laddove ci aspettano?
Saremo ciniche, cattive, cattivissime ragazze. Sarebbe favoloso, ma sarebbe comunque troppo poco.
Rischiamo l’adunata sediziosa? In molt* tra noi non temono i tamponi (si dice che ogni mese
sanguiniamo senza morire). Ci siamo allenat* alla zona rossa in un ventennio di lotte globali,
sopravvivendo a AIDS, aviaria e Sars 1. Ora, in nome del virus, il padre (lo stato-nazione) ci confina
a casa e sperimenta su vasta scala infocontrollo e sfruttamento digitalizzato. Magari ha colto
l’occasione, magari non era nemmeno del tutto preparato, ma mi auguro che quattro anni di sciopero
e dunque di lavoro politico comune sull’invisibilizzazione e l’atomizzazione del lavoro riproduttivo
ci abbiano fornito gli anticorpi necessari a sopravvivere nel “laboratorio ospedaliero-militare italia”.
Grazie a NUDM, so che ci sono migliaia di corpi indisposti a rinunciare a quella botta di endorfina

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che innescano gli incontri in strade liberate, corpi su cui non attecchisce alcuna revoca, che si sono
resi immuni al controllo, tessendo parentele e sviluppando anticorpi che si chiamano
trans/eco/cyborgfemminismo, corpi che in questi anni, insieme, si sono fatti marea.
Sapete quanti virus si porta dietro una marea? E quanto possono sopravvivere una volta sulla
terraferma? Lo sciopero riproduttivo è così: è virale. Possono provare a contenerne i focolai, ma
strisceremo impercettibili e muteremo casualmente, r/esisteremo. Che combattano da soli le loro Sars
Wars, noi facciamo lo #scioperoriproduttivo!

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Pierpaolo Ascari - L’epidemia non si vince in fondo al microscopio


Coronavirus. Il mestiere pericoloso del filosofo che invita a esplorare il mondo con il paradigma dello stato d’eccezione.
La sadica parodia del Don Ferrante nei Promessi Sposi
[5 Marzo 2020 – il Manifesto]

Quello del filosofo nella città appestata è un mestiere pericoloso. Non per niente, le critiche
all’articolo di Giorgio Agamben (il manifesto mercoledì scorso) sconfinano spesso nella critica di
aver fatto uso di paradigmi, chiamando in causa la possibilità stessa di esplorare il mondo sulla scorta
di modelli che consentano di coglierne le spinte inerziali, la tendenza e gli automatismi.
Si scrive paradigma, insomma, ma l’impressione è che si possa leggere «il modo in cui si produce e
riproduce la vita immediata», vale a dire quel genere di problemi che hanno da sempre suscitato
l’interesse e il talento del materialismo storico.
In questo senso la parodia più sadica del filosofo la troviamo nei soliti Promessi sposi, dove la peste
non risparmia neppure Don Ferrante, il quale «fu uno de’ più risoluti a negarla». A negare la forma
in cui veniva rappresentata e vissuta, che giudicava una «chimera», senza nulla togliere all’evidenza
della malattia o della morte. Antraci, esantemi, bubboni e foruncoli – diceva – non sono affatto delle
corbellerie ma «tutto sta a veder di dove vengano».
COME IL LEONE e la capra, appunto, che non diventano meno reali soltanto perché forniscono i
materiali indispensabili all’assemblaggio mitologico della chimera. E fin qui un’intera commissione
di epidemiologi, storici della medicina, scrittori ed etnografi non avrebbe avuto nulla da ridire, credo,
ma gli applausi sarebbero durati poco, perché le riflessioni di Don Ferrante avrebbero poi preso una
piega decisamente dogmatica. Tanto per cominciare il contagio non poteva corrispondere né a una
sostanza materiale, né a una sostanza spirituale, né a un accidente, vale a dire che non poteva esistere,
per cui il mistero dell’epidemia andava risolto al di là dei contatti tra gli individui, nel loro rapporto

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personale con le stelle. E fu «su questi bei fondamenti», conclude l’anonimo, che il filosofo non prese
alcuna precauzione, si mise a letto e morì.
NON CI SONO DUBBI, allora, che definendo immotivate le misure di emergenza, Agamben possa
essersi spinto nel campo delle frizioni tra i fondamenti e la vita immediata. Ma senza necessariamente
implicare un’adesione al principio per cui sovrano è chi decide dello stato d’eccezione, mi pare
incontestabile che le attuali misure di sicurezza non possano operare in deroga agli ultimi trent’anni
di ossessioni securitarie, le stesse che oltretutto hanno continuamente invocato l’emergenza per
rendere invisibile la svalutazione programmata di tutte le sicurezze sociali, compresa la sanità.
NON SI TRATTA di stabilire se i provvedimenti siano o meno scientifici, allora, ma di osservare il
modo in cui entrano in relazione con una specifica tendenza storica, quali siano le forme in cui
vengono percepiti e legittimati, come sono comunicati e poi fatti rispettare e cosa accade negli
slittamenti ai quali sembrano sottoposti nel passaggio dall’annuncio all’attuazione.
MI RENDO CONTO dell’ambiguità del caso, così esposto all’accusa di sospettare ovunque una
grande direzione d’orchestra, ma bisognerebbe sempre tenere a portata di mano la tesi di Henri
Lefebvre in base alla quale non è mai un piano ben definito, ma piuttosto il suo contrario a
caratterizzare le strategie di classe. Non un complotto, dunque, ma il contributo che anche le azioni
più disparate e contrarie possono fornire al consolidamento del medesimo rapporto di forze. E in
questa prospettiva è molto difficile negare che il virus, la quarantena e la chiusura degli istituti
scolastici abbiano potuto assumere forme diverse in corrispondenza delle differenti condizioni di
reddito, di genere o di razza. O sostenere che il salto di specie (il cosiddetto spillover) sia potuto
avvenire all’esterno della stessa natura storica in cui si determinano la crisi ambientale e il
cambiamento climatico.
Allo stesso modo, se davvero come sostiene Hannah Arendt lo stato totalitario si afferma quando «un
vicino di casa diventa a poco a poco un nemico più insidioso degli agenti ufficiali», non mi pare
saggio fare a meno di qualunque paradigma storico soltanto perché il coronavirus ha reso questa
insidia più oggettiva e apparentemente neutrale. Non sarà infatti quello stesso paradigma a operare
da tensore nel tentativo di comprendere l’originalità della nostra situazione e di arginarne gli effetti
più automatici, coattivi e indisturbati?
Il virus ha la straordinaria capacità di contrabbandare tutti questi problemi allo stato di natura, come
se anche le loro soluzioni potessero apparire in fondo ai microscopi. Non è così.
LA QUARANTENA avrà inevitabilmente a che fare con alcuni tratti paradigmatici della nostra epoca
non tanto perché siano i secondi a generare la prima, ma per il banalissimo motivo che entrambi
hanno a che fare con noi.

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Insomma, alla filosofia non poteva che venir assegnato un avvocato d’ufficio: perché d’accordo a
considerarlo sempre mutevole, non deterministico e poroso, ma qualche paradigma in grado di
abbracciare e promuovere una visione d’insieme non sarà stato del tutto inutile tenerselo stretto,
malgrado l’insofferenza del neoliberismo per qualsiasi genere di mediazione storica e concettuale.

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Simone Pieranni - Cina e coronavirus, l’anima taoista e l’abito confuciano


Il contrattacco cinese e l'Occidente. Con l'emergenza da coronavirus da Pechino arriva uno spiraglio di osservazione a
proposito del concetto di potere
[5 Marzo 2020 – il Manifesto]

Il fallimento dei test messi a disposizione dalle autorità sanitarie americane, insieme al sospetto che
il governo stia nascondendo i reali numeri del contagio di coronavirus negli Usa, ha portato a una
rivalutazione di quanto fatto, invece, dal governo cinese. Di ritorno dalla Cina gli emissari dell’Oms
hanno raccontato di ospedali all’avanguardia e macchinari ultramoderni, sostenendo che tutti noi
dovremmo ringraziare la Cina per come ha rallentato e limitato il contagio. Bruce Aylward, il leader
del team dell’Oms recatosi in Cina, ancora ieri sul New York Times ha sostenuto che «il contrattacco
cinese può essere replicato, ma richiederà velocità, denaro, immaginazione e coraggio politico».
Un allenatore italiano, tra i tanti al di là della muraglia, ha spiegato che il governo cinese pensa
davvero alla sua popolazione. La Cina ammalia e incanta, si sa. Ma nonostante questo, l’odierna
rivalutazione (dopo critiche per i ritardi e la censura delle informazioni) nasce da elementi
determinanti insiti nel rapporto tra potere politico e popolazione in Cina. Si dice che i cinesi abbiano
un’anima taoista (quasi sempre sottovalutata in Occidente) e un abito confuciano. L’anima la
mostrano spesso nella determinazione a non obbedire, alla legittima aspirazione alla ribellione, alla
«revoca del mandato» (la storia cinese è piuttosto ricca di rivolte); il vestito è il riconoscimento di un
sistema gerarchico (dalla famiglia allo Stato) in grado di governare non solo gli uomini, ma la natura
stessa.
Le due posizioni interagiscono, anziché negarsi, creando sempre qualcosa di nuovo. Il Pcc ha gestito
al meglio la crisi del coronavirus perché uno Stato paternalista è in grado di fare breccia su una
popolazione pronta a mobilitarsi in massa, a eseguire gli ordini se li ritiene giusti, corretti, volti a
un’armonia, a una forma di stabilità economica e sociale. Tanto più in momenti di crisi quando
quest’ultima è minacciata. Il Pcc è l’ago della bilancia sociale in Cina, unica istituzione ad ora in
grado di mantenere la stabilità. La popolazione lo sa e quando bisogna evitare il caos, il luan, segue
le direttive del partito, si mobilita. Ma di fronte ad abusi e ingiustizie la popolazione si ribella: in Cina

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ogni anno ci sono migliaia di «incidenti di massa» (il numero è segreto di Stato), che vanno dalla
protesta di qualche petizionista, fino a vere e proprie rivolte cittadine. Ancora una volta siamo di
fronte a due elementi, obbedienza e ribellione al potere, che non si annullano ma creano un nuovo
campo di confronto, in continua evoluzione.
La presupposta rigidità del sistema politico cinese è un’illusione tutta nostra. La «creatività» politica
con la quale la Cina – per limitarci agli ultimi 50 anni – ha gestito questioni politiche interne (e anche
internazionali, si pensi all’invenzione della teoria «un paese due sistemi» o quando nel 2010 il Pcc
«consigliò» a Google di spostarsi proprio a Hong Kong) è sempre viva, attiva, cangiante ed è garantita
dalla possibilità di concepire danze politiche che a noi appaiono contraddittorie.
In Cina, infatti, particolarmente rilevanti sono le caratteristiche del Pcc, un sofisticato congegno di
gestione del potere capace di sfaccettature minuziose, grande capacità di adattamento,
sperimentazione e di «visione»: prima dell’arrivo al potere di Xi Jinping – per ricollegarci alla rivalità
tra Cina e Usa e al coronavirus – in Cina si era assistito all’innalzamento sociale, politico e
amministrativo della figura dello scienziato, sfociato poi in cicli politici gestiti dai «tecnocrati». Hu
Jintao, presidente e segretario dal 2002 al 2012 è il fautore dello sviluppo scientifico del socialismo
con caratteristiche cinesi (e si trattò di un decennio che prometteva molti più cambiamenti di quelli
cui poi abbiamo realmente assistito). L’attuale dirompente motore tecnologico cinese è stato
puntellato in quella decade. Xi Jinping – il cui governo è più ideologico che tecnocrate – l’ha raccolto
e l’ha adeguato alle sue esigenze, interne ed esterne.
Negli Usa, dopo l’impeto degli anni ’40 alla ricerca (che avrebbe portato l’America a modellare i
sogni consumistici e culturali di quasi tutto il mondo e portare l’«innovazione» tecnologica da internet
agli iPhone), all’inizio degli anni ’80 in realtà inizia un lento declino degli investimenti statali
nell’ambito scientifico: la spesa pubblica per ricerca e sviluppo scende fino allo 0,6 per cento del Pil
nel 2017. Oggi ben nove paesi superano gli Stati Uniti. Entro il 2025 secondo «The Journal of the
American Medical Association», la Cina sostituirà gli Usa come leader mondiale nella ricerca e
sviluppo nel settore farmaceutico.
Dare importanza al ceto intellettuale, garantendo crescita e possibilità di fare ricerca con fondi e in
luoghi ad hoc, ha permesso al partito comunista cinese di sistemare due paletti fondamentali per la
sua attuale forza economica: da un lato, riservando un ruolo centrale alla scienza, ha finito per portare
i cosiddetti tecnocrati al potere nel primo decennio degli anni Duemila imprimendo un cambio
epocale (il passaggio della Cina da economia trainata dalle esportazioni a mercato interno florido ed
export di innovazione e prodotti di alto valore); dall’altro, ha posto sotto il controllo ideologico del
partito un’intera generazione di intellettuali, scienziati, professori universitari. I risultati si vedono
oggi.

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Si può trarre una lezione da tutto questo? Difficile a dirsi considerando la specificità cinese. C’è
piuttosto un punto di vista, uno spiraglio di osservazione oltre alla nostra «razionalità» occidentale, a
proposito del concetto di potere, tanto nella sua declinazione repressiva (il controllo sociale in Cina,
soprattutto grazie all’immenso sviluppo tecnologico, è pressoché totale) quanto nella sua potenzialità
di creare nuove dialettiche, nuove forme di governamentalità, all’interno di sistemi non democratici.
Si tratta di un progredire che potrebbe riguardare – presto o tardi – anche noi.

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Giovanni De Luna - La democrazia in emergenza alla prova della biopolitica


Le operazioni di sicurezza sanitaria al Tribunale di Milano l’altro giorno, dopo la scoperta che due magistrati si erano
ammalati di coronavirus
[5 Marzo 2020 – La Stampa]

A dettare i nostri comportamenti è un Comitato scientifico le cui direttive sono certificate e legittimate
dal governo. Di colpo, i gesti della nostra quotidianità (soffiarsi il naso, salutare con una stretta di
mano), la nostra esistenza biologica (la vecchiaia) e la nostra socialità (musei e bocciofile, teatri e
palestre) sono diventati oggetto di provvedimenti specifici che li sottraggono alla loro tradizionale
sfera privata per scaraventali nello spazio pubblico.
Il tentativo di impadronirsi della «nuda vita» dei propri sudditi è stato il cuore del progetto del
totalitarismo novecentesco, del nazismo in particolare: nel delirio di potenza hitleriano l'esistenza
biologica degli individui andava pienamente inserita nel circuito della statualità, occasione per
l'esercizio di un potere che si saziava umiliando e profanando i corpi delle sue vittime, riducendoli a
esseri biologicamente animali. Il lager fu il luogo in cui questo tentativo si mostrò in tutta la sua
mostruosità.
Al contrario, nel patto di cittadinanza che sorregge le costituzioni democratiche e liberali, oggetto
della sovranità dello Stato è sempre stata non la persona come semplice essere vivente con la sua
fisicità corporea, ma soltanto la persona come attore politico. Ed è proprio questa radice virtuosa della
democrazia che oggi viene messa alla prova dal dilagare del coronavirus. La strada imboccata dal
governo si fonda su una delega amplissima alla comunità scientifica, riconoscendole un biopotere al
quale la politica sembra aver rinunciato in quella che può apparire come una chiara manifestazione
di subalternità. Pure, proprio perché siamo in democrazia, la scienza è a sua volta tutt’altro che
monolitica e compatta e gli interventi degli scienziati - dilaniati da dispute accademiche e rivalità
mediatiche - spesso aggiungono contraddizioni a contraddizioni, contribuendo alla confusione
generale.

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In realtà oggi c’è un acuto bisogno di politica, di una politica in grado di ritrovare autorevolezza e
credibilità, abbandonando i percorsi che la hanno vista arenarsi sulle secche della fine del Novecento
e dal quale ereditiamo un paradosso straniante: a uno Stato sollecitato ad abbandonare tutti gli spazi
che lungo l’arco di un secolo si era conquistato intervenendo nel mercato, nella produzione,
nell’organizzazione complessiva della convivenza civile, a questo stesso Stato a cui si sono chiesti
continui passi indietro provando in tutti i modi a limitarne l’invasività e a ridimensionarne gli
interventi, ci si deve necessariamente affidare oggi per fronteggiare l’epidemia. Ed è anche in base a
questo paradosso che si spiega il modo affannoso con cui il governo cerca di destreggiarsi tra le
opposte esigenze di tutelare la salute pubblica senza danneggiare la produzione e il mercato.
Queste oscillazioni sono il prezzo che la politica paga agli «opposti estremismi» dell’antipolitica da
un lato e del mercato dall’altro. Una componente significativa del governo giallorosso, quella che
viene dai 5 stelle, è in grado di riproporre solo uno scontato «rispecchiamento» con quanto avviene
nel mondo dei social, oscillando tra furie ansiogene e sberleffi ironici, tra le bufale delle fake news e
i video delle burle; l’altra, incarnata dal Pd, insegue i frammenti dell’illusione di un mercato come di
un mondo perfetto in sé, che andava solo lasciato libero di essere se stesso, senza impedimenti.
È però il momento di riscoprire il significato più profondo della politica. In questi anni, a partire dalle
riforme del 1992-1993, proseguendo attraverso quella del 1999, la sanità è stata sottoposta a uno
stressante processo di «aziendalizzazione, frammentazione, esternalizzazione» che, attraverso una
privatizzazione sempre più spinta, ha portato alla riduzione dei letti ospedalieri di ben 70 mila unità.
A differenza del coronavirus, la scarsità di posti per la terapia intensiva oggi non ha quindi niente di
«naturale» ma è il frutto di scelte che appartengono integralmente alla congiuntura culturale e sociale
che stiamo vivendo; intervenire su queste scelte chiama in causa una politica che proprio
nell’emergenza può anche trovare un’occasione di riscatto. «Paiòn traversìe eppur sono opportunità»,
come diceva Giambattista Vico.

Sergio Benvenuto - Benvenuto in clausura


[5 Marzo 2020 – Antinomie.it]

Non sono né un virologo né un epidemiologo, eppure mi sono fatto l’idea che – pur essendo io ultra-
settantenne, e quindi parte della popolazione a maggior rischio – ho poco da temere dal coronavirus
per la mia salute. «Per la mia» per ragioni di pura probabilità, come quando prendo un aereo: potrebbe
cadere, ma è improbabile. In effetti, finora ci sono stati 3000 morti nel mondo. Niente rispetto agli

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80.000 deceduti per banali influenze nel corso del 2019. I morti in Italia per l’epidemia (50 nel
momento in cui scrivo) sono probabilmente meno dei deceduti per incidenti stradali nello stesso
periodo, per non parlare dei morti sul lavoro. Insomma, non temo affatto il contagio. Mi preoccupa
piuttosto il contraccolpo economico per un paese, il nostro, da tempo in declino.
Ma so anche che la mia noncuranza, pur avendo una base razionale, è civicamente riprovevole: se
fossi un buon cittadino, dovrai comportarmi come se fossi in preda al panico. Perché tutto ciò che
facciamo in Italia (chiusura delle scuole, degli stadi, dei musei, ecc.) ha una funzione puramente
preventiva. Gioca sui grandi numeri, facendo appello a ciascun particulare.
Il panico che ha colto l’Italia (ma non solo, in tutta Europa non si parla d’altro) è stato insomma una
scelta politica – o biopolitica, come Roberto Esposito ci ricorda – voluta in primis
dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Perché oggi, in un’epoca in cui le grandi democrazie
producono leadership grottesche, sono le grandi organizzazioni sovra-nazionali come l’OMS – e la
World Trade Organization, e il Fondo Monetario Internazionale, e la Banca Centrale Europea, e le
altre banche centrali, ecc. – a prendere le vere decisioni (per fortuna), rimediando così in parte alle
bizze neo-fasciste delle democrazie. Tedros Adhanom, l’etiope che dirige l’OMS, è stato chiaro sulla
necessità di prevenire: sa che per ora il Covid-19 non crea disastri, e che potrebbe alla fine risolversi
in una influenza solo un po’ più infida. Ma potrebbe anche diventare ciò che l’influenza detta
«spagnola» fu nel 1918: infettò un terzo della popolazione mondiale provocando tra i 20 e i 50 milioni
di morti, più vittime di tutte quelle militari della guerra mondiale. Insomma, quel che fa paura non è
ciò che si sa, ma ciò che non si sa, e di questo virus sappiamo ben poco. Impariamo a conoscerlo
giorno dopo giorno, esso crea l’angoscia – non irrazionale – dell’ignoto.
Da notare che con la «spagnola» i poteri politici fecero esattamente il contrario di quello che stanno
facendo ora: tacquero sull’epidemia, perché in gran parte i loro paesi erano in guerra. Si chiama
«spagnola» perché all’epoca solo in Spagna, che non era in guerra, i media ne parlavano. Oggi i poteri
(ripeto, sempre più sovranazionali, anche in economia) hanno scelto la strategia del panico, in modo
da spingere la gente a isolare il virus. E in effetti, l’isolamento dei malati resta, da secoli, la strategia
migliore per soffocare epidemie non curabili. La lebbra fu contenuta in Europa – come ricorda anche
Foucault – proprio isolando il più possibile i lebbrosi, spesso relegati in isole fuori del mondo, come
Molokai nelle Hawaii, su cui sono stati girati vari film.
Nell’agosto 2011 mi trovai a New York mentre stava per essere investita dall’uragano Irene, che
aveva già devastato le Antille. Mi colpì come attraverso i media tutti gli esperti e i politici dessero
messaggi francamente catastrofisti ai cittadini: «sarà un disastro – dicevano – perché i newyorkesi
sono strafottenti, snob». In realtà i newyorkesi seguirono perfettamente le prescrizioni (anche io
sgombrai il giardino di casa seguendo le ordinanze), Irene passò su New York senza fare danni.

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Allora, quegli esperti e politici si erano del tutto sbagliati, si erano divertiti a terrorizzare la
popolazione? No, fu proprio perché la popolazione si era spaventata che il disastro era stato evitato.
In certi casi seminare il terrore può essere più saggio che prendere le cose “con filosofia”.
Mettiamo che l’Italia, presa nel suo insieme – dai media ai dirigenti governativi – avesse deciso la
strategia “spagnola”, di non prendere precauzioni lasciando che la Covid-19 si espandesse in Italia
come qualsiasi altra influenza. Tutti i paesi, anche europei, avrebbero subito isolato l’Italia,
considerata tutta intera un focolaio: questo avrebbe provocato danni economici ben più massicci di
quelli che, già ora notevoli, subisce l’Italia. Quando gli altri hanno paura – ad esempio gli israeliani
e i qatariani, che hanno proibito l’accesso agli italiani nei loro paesi – è meglio anche per noi avere
paura. Talvolta, aver paura è atto di coraggio.
Mettiamo che, una volta lasciata libera l’influenza, 10 milioni di italiani se la fossero presa. Se è vero,
come appare dai primi calcoli, che il coronavirus è mortale per il 2% di chi lo prende, questo significa
che sarebbero morti 200.000 italiani, per lo più anziani – ipotesi che molti non considerano del tutto
negativa, perché avrebbe dato respiro alle casse dell’INPS. Perché non sfrondare di un po’ di anziani
un paese che invecchia a vista d’occhio? – pensano senza dirlo. Non credo però che l’opinione
pubblica avrebbe accettato 200.000 morti, le opposizioni sarebbero insorte e il governo sarebbe stato
cacciato a furor di popolo, quindi Salvini avrebbe vinto le elezioni con il 60% dei consensi. Insomma,
le misure precauzionali pur così dolorose – soprattutto per i danni economici – sono il male minore.
Le misure prese in Italia non sono quindi, come sostiene uno dei miei filosofi preferiti, Agamben, il
risultato dell’istinto dispotico delle classi dirigenti, che amerebbero visceralmente lo «stato di
eccezione». Pensare che le misure prese in Cina, in Cora del Sud, in Italia, ecc., siano effetti di un
complotto è cadere in quelle che altri filosofi hanno chiamato «teorie cospiratorie della storia». Le
chiamerei interpretazioni paranoidi della storia, come i tanti milioni che sono convinti che l’11
settembre 2001 sia stato ordito dalla CIA. La mia colf, brava donna, è persuasa che l’epidemia sia
stata tramata da «gli arabi», con i quali lei intende, suppongo, i mussulmani. Che ci si ispiri alla
propria parrocchia o a Carl Schmitt, che si sia ignoranti o dottissimi, molti di noi hanno bisogno di
fabbricarsi i loro untori.
Sono spesso stupito di quanto spesso occorra ricordare a molti filosofi qualcosa che, parafrasando
Amleto, suona: ci sono molte più politiche in cielo e in terra che in tutta la tua filosofia.
Quando dico di essere convinto che questa epidemia produrrà calamità economiche (una crisi come
quella del 2008?) ben più che sanitarie, mi metto quindi in una prospettiva ottimista.
E anche io da domani cercherò, pur ridacchiando, di fare il buon cittadino. Eviterò certi luoghi
pubblici. Non andrò a trovare gli amici al Nord, e sconsiglierò loro di venire a trovarmi.

107
Del resto, gli effetti di questa epidemia rafforzeranno una tendenza che comunque avrebbe prevalso,
e di cui lo “smart working”, lavorare a casa evitando l’ufficio, è solo un aspetto. Sempre meno ogni
mattina ci imbarcheremo su mezzi pubblici o privati per andare in posti di lavoro; sempre più, col
computer, lavoreremo in casa, la quale diventerà anche il nostro ufficio. E grazie alle rivoluzioni
Amazon e Netflix non avremo più bisogno di fare shopping nei negozi, né vedere film al cinema, né
comprare libri nelle librerie: negozi, cinema, librerie (ahimè) spariranno, tutto si farà da casa. La vita
si “focolarizzerà” o si “accaseggerà” (dobbiamo già pensare ai neologismi). Anche le scuole
spariranno: attraverso aggeggi tipo skype, i ragazzi seguiranno da casa le lezioni dei professori. La
clausura generalizzata dovuta all’epidemia (o meglio, al prevenirla) diventerà la nostra forma di vita
abituale.

Dario Gentili - Il seme della norma


[6 Marzo 2020 – Antinomie.it]

Non è mia intenzione qualificare o quantificare la gravità del coronavirus: è più o meno grave di
un’influenza; non si tratta affatto di un’influenza, bensì di un virus ben più pericoloso. Con il passare
dei giorni, gli scenari più ottimistici stanno lasciando spazio a quelli più allarmanti. Le dichiarazioni
di medici e scienziati si susseguono e si rincorrono quotidianamente e – a contagio in pieno corso –
è difficile se non impossibile aspettarsi una presa di posizione unilaterale, chiara e netta. Come ormai
è difficile se non impossibile, nelle dichiarazioni degli esperti, discernere il contenuto scientifico dalle
indicazioni di ordine pubblico (ma non c’è da meravigliarsi, ci insegna Foucault).
A me sembra che il dibattito, aperto dall’articolo di Agamben, su «stato d’eccezione e coronavirus»
– l’emergenza coronavirus comporta l’instaurarsi di uno stato d’eccezione? – sia stato e sia fortemente
caratterizzato anch’esso da questa che è la premessa sottesa all’intero ordine del discorso
sull’epidemia: appunto la gravità o meno del virus. Fosse il coronavirus paragonabile più o meno a
un’influenza, allora le misure severe – limitazioni della mobilità, militarizzazione delle zone rosse,
sospensione di alcuni diritti – che le istituzioni stanno prendendo per fronteggiarlo configurerebbero
un “eccesso di governo” e quindi l’instaurazione di uno stato d’eccezione. Fosse invece il coronavirus
più pericoloso e letale di un’influenza pure aggressiva, allora le misure che si stanno prendendo
sarebbero proporzionate al caso, assolutamente “normali”.
Non intendo pormi su tale piano della questione – non solo non ho le competenze per esprimermi
sulla virulenza del corona, ma per di più credo che così si manchi quella che è l’effettiva pertinenza

108
della nozione di stato d’eccezione per comprendere quanto sta accadendo. Provo piuttosto a
individuare – stando all’Italia – i modi diversi con cui le politiche che finora sono state attivate per
far fronte all’emergenza dell’epidemia da coronavirus siano riconducibili alla nozione di stato
d’eccezione.
All’esplodere dell’epidemia in Cina, abbiamo assistito a un primo ricorso allo stato d’eccezione, che
definirei “sovranista”: innalzamento delle frontiere con la Cina, misure di controllo straordinarie e il
conseguente verificarsi di episodi di discriminazione se non proprio di razzismo. Ora, il fallimento
dell’opzione “sovranista” dello stato d’eccezione non è dipeso certo dal fatto che tali misure si siano
rivelate troppo blande, come sostenuto dalle destre nostrane, quanto piuttosto dal fatto che, per sua
natura, un’epidemia “sconfina” (detto tra parentesi, lo stesso discorso vale oggi, in epoca di
globalizzazione, per il “contagio” delle crisi economiche, che non a caso – come già Marx sapeva –
traggono il loro lessico dalla medicina e dalla epidemiologia in particolare).
Una volta che l’epidemia ha travalicato i confini nazionali e il contagio si sta diffondendo sul territorio
italiano, sono scattate le misure straordinarie di contenimento e il loro inasprirsi nel momento in cui
il contagio si sta diffondendo. Ed è a questo punto che il dibattito si è avviato – stato d’eccezione per
una situazione più o meno normale oppure normale applicazione di protocolli previsti per una
situazione eccezionale? Così posta la questione, ripeto, si dovrebbe risalire a una conoscenza provata
e comprovata della gravità del coronavirus – questione ancora aperta. Eppure, non credo sia
opportuno rinunciare del tutto alla nozione di «stato d’eccezione» per leggere almeno alcuni aspetti
della crisi che stiamo attraversando. Non parlo tuttavia di quello stato d’eccezione – in misura
maggiore o minore comunque “sovranista” – che si manifesta e si materializza in decreti d’emergenza
giustificati dalla eccezionalità della situazione, reale o presunta. Parlo piuttosto dello «stato
d’eccezione come regola», che si determina con il promuovere norme di condotta attraverso la
percezione indotta di una situazione d’emergenza che si tende a cronicizzare.
Un esempio di stato d’eccezione come regola tra i più consueti che si possano portare è, sul piano del
mercato del lavoro, la precarietà. La precarietà induce, rispetto a un mercato del lavoro in permanente
crisi occupazionale, ad accettare condizioni di lavoro sempre più straordinarie ed eccezionali fino a
che queste diventano la norma e sono regolamentate come tali. Per tornare al coronavirus, ma restando
nell’ambito del lavoro, in questi giorni di «emergenza», sui media, mi è capitato spesso e da parte di
esperti e professionisti di diversa appartenenza politica di ascoltare come misure eccezionali quali
lavorare da casa e in remoto – cosa consigliata per evitare il contagio – possa diventare di qui a breve
tempo una forma sempre più “normale” di lavoro. E così anche per quanto riguarda le lezioni a scuola
e all’università. In questo caso, non si tratta affatto di decreti d’emergenza volti a limitare alcune
libertà e diritti, bensì a rendere regola e norma alcune tendenze già previste. Qui non si tratta soltanto

109
di limitare temporaneamente gli assembramenti e la socialità, ma di promuovere una trasformazione
della società – già evidente peraltro – in direzione sempre più individualistica e atomistica, non solo
diffidente e spaventata verso lo straniero o il diverso, ma anche verso il compagno/a di lavoro o di
banco.
Insomma, all’interno della dinamica dello stato d’eccezione come regola, l’epidemia da coronavirus
potrebbe legittimare e accelerare trasformazioni già prevedibili e in corso. Quelle norme di condotta
che il coronavirus rende oggi “obbligate” potrebbero poi diventare “normali”. Non credo vada
ricercato lo stato d’eccezione come regola nei protocolli sanitari “eccezionali” a cui ci stiamo
attenendo, piuttosto va ricercato il profilarsi dello stato d’eccezione come regola in quel seme di
normalità che si cela in quelle norme e condotte che oggi si presentano come obbligate.

Andrea Cortellessa - Del buon uso di sé


[6 Marzo 2020 - Antinomie.it]

Non appena si è propagata, qui, quell’epidemia nell’epidemia che è stata la discussione originata dalla
risposta di Jean-Luc Nancy a Giorgio Agamben – discussione alla quale, non per caso, abbiamo dato
il titolo di un classico della retorica come Paradoxia Epidemica –, la prima persona alla quale
abbiamo pensato è stata Antonella Moscati. Non tanto perché alla scrittura di Nancy, negli anni, ha
dedicato traduzioni e curatele di grande sintonia, ma soprattutto perché nello stesso periodo ha
brevettato (sull’esempio, ma non alla maniera, di quel capolavoro prima letterario che filosofico – se
ha poi senso, distinguere le due categorie – che è L’intruso appunto di Nancy) un format in grado
come pochi, oggi, di dire le cose giuste; ma di trovare, anche, le parole giuste per dirle.
Il primo testo di Moscati che mi colpì in tal senso mi arrivò inaspettato, diciamo pure clandestino,
sulle pagine di «questipiccoli»: rivistina autogestita da un tipo da sempre votato alla clandestinità
come Clio Pizzingrilli. Era il 2007 e quelle pagine s’intitolavano Il canale di Otranto. Pagine che, in
tempi dal tema ancora non ossessionati come i nostri, sull’immigrazione – sui sentimenti contrastanti
che evocava, sui dilemmi politici che poneva, e che sempre più si capiva avrebbe posto – mi parvero
semplicemente perfette. Talché di pochi pezzi vado fiero, nella mia non invidiabile carriera di
gazzettiere, come di quello che scrissi per segnalarlo su «La Stampa».
Specifico di Moscati è il suo calibratissimo tono: sospeso in equilibrio miracoloso – non so dire
altrimenti che «perfetto», mi spiace se suoni retorico – fra il più “chiuso” ripiegamento
autobiografico, che vale squisitamente e solo per sé, e la più “aperta” riflessione filosofica, che

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idealmente vale per tutti. È il tono che informa piccoli ma sicuri capolavori della nostra lingua come
Una quasi eternità, Deliri e Una casa (tutti pubblicati da nottetempo). Le sue domande sono quelle
che fa, da sempre, chiunque pensi scrivendo: chi siamo, che cosa ci appartiene, a cosa apparteniamo.
Ma leggendo Patologie mi pare finalmente di capire da dove le venga, questo suo dono. È la malattia,
e più precisamente quella malattia che è il timore di ammalarsi (l’ipocondria, che alla malattia pensa
di continuo; o quell’ipocondria a rovescio – che ben conosco – che alla malattia si vieta fobicamente
di pensare), a dare accesso nella sua scrittura all’interfaccia segreto, alla ghiandola pineale che supera
l’eterno dualismo, imprecisamente detto “cartesiano”, fra mente e corpo, res cogitans e res extensa.
Da Marco Aurelio a Leopardi, a cavallo di letteratura e filosofia, c’è una lignée di scritture che si
fanno forza del corpo, e soprattutto del corpo che soffre, per conseguire una cognizione del dolore:
dove il genitivo è almeno tanto soggettivo che oggettivo. Si conosce per mezzo del dolore, cioè,
quando di quel dolore si cercano le ragioni: si cerca di farsene una ragione. E allora la scrittura –
come con formula nicciana diceva, alla fine dei suoi giorni, Gilles Deleuze – diventa una grande
«impresa di salute»: «un’irresistibile salute precaria».
Mentre scrivo queste righe, non senza turbamento, leggo un libro fresco di stampa. Lo ha scritto a
sua volta dall’interno della malattia – una malattia ben più grave – uno scienziato, espressione di una
cultura certo distante da quella di Antonella Moscati, Edoardo Boncinelli: che da tre anni, per un
complesso insieme di patologie cardiache e respiratorie, “vive in fin di vita”. Il suo titolo, preso da
Montale, è fuorviante. Essere vivi e basta, infatti, in realtà non basta. Come non può bastare leggere,
come pure in questi anni ci è toccato fare (con sofferenza, in qualche caso, unita all’imbarazzo),
analoghi diari di persone sofferenti: scritture che, di quella sofferenza, restano prigioniere senza
appello. Tocca invece saper fare, come diceva Pascal, un buon uso delle malattie: l’uso di sé che
queste parole sagge e insieme turbate, sagge in quanto turbate, mostrano di saper fare. Risponde a un
caso che i testi di Boncinelli e Moscati vedano la luce proprio adesso. Ma è per questo, credo, che ci
mostrano quello che tutti noi, oggi, da loro dovremmo imparare a fare.

Da Antonella Moscati, Patologie


Da noi, cioè nella nostra famiglia, qualunque malattia era mortale. Non perché avessimo una tara genetica, che so
un’emofilia congenita, un’anemia mediterranea o un disturbo del sistema immunitario che ci avrebbe messo a rischio
nel caso di qualunque malattia. Ma perché secondo noi, che una tara in verità ce l’avevamo, ma nel sistema nervoso e
nei pensieri piuttosto che nel corpo, qualunque malattia poteva nascondere una malattia mortale. Qualunque malattia
tranne la tonsillite che era inequivocabile per via delle sue placche e perché, come sempre diceva mio padre, reagiva
bene agli antibiotici, almeno in quei tempi in cui ancora non si sapeva che gli antibiotici potevano creare la cosiddetta
resistenza e quindi anche moltissimi germi che resistevano per l’appunto agli antibiotici stessi. Se, però, le placche erano
molto grandi e un po’ scure, cioè un po’ grigie ed estese fino all’ugola, sotto un’apparente tonsillite si poteva nascondere
la difterite, e dunque di nuovo una malattia mortale […] Nostro padre era medico. Ma per noi non era un vero e proprio

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medico, soprattutto perché era dermosifilopatico e questo produceva non poca confusione. In primo luogo perché di
questa specializzazione non si poteva parlare, men che meno a scuola, e noi, cioè noi sorelle e mia madre, preferivamo
dire dermatologo, anche se mio padre non perdeva occasione per sottolineare la sua qualifica di dermosifilopatico,
perché, come sempre diceva, lui della dermatologia se ne infischiava altamente, anzi addirittura l’odiava per via del fatto
che tutti andavano a chiedergli come far scomparire i foruncoli o far ricrescere i capelli, e lui che era un uomo onesto e
diceva sempre la schietta verità annunciava subito che non c’era nessuna medicina né contro l’acne né contro la caduta
dei capelli con il prevedibile risultato che i clienti, o meglio i pazienti che evidentemente pazienti non erano, da lui non
tornavano più. E in secondo luogo perché un medico di quel genere di malattie si sarebbe dovuto chiamare semmai
dermosifiloiatra come pediatra e otorinolaringoiatra oppure dermosifilologo come cardiologo e neurologo e non
dermosifilopatico come cardiopatico e psicopatico, un accostamento quest’ultimo che nel caso di mio padre non era
improprio. Nostro padre, quindi, per noi non era un medico vero e proprio, ma una specie di medico non medico. E noi
che eravamo le sue figlie volevamo seguirne le orme e diventare anche noi medici non medici, senza avere però né la
laurea né tanto meno la specializzazione in dermosifilopatia, anzi in dermosifiloiatria. Soltanto la mia prima sorella non
ha mai voluto diventare medico non medico, forse perché un medico lei l’ha trovato davvero e se l’è anche sposato.
Proprio perché era dermosifilopatico, cioè dermosifiloiatra, anzi sifiloiatra semplicemente e di preferenza, mio padre
credeva solo nella guaribilità delle malattie che, come la tonsillite, la sifilide e la scabbia, si vedevano a occhio nudo. E
di conseguenza la tonsillite, la sifilide e la scabbia erano per l’appunto le sue malattie predilette, ma in verità gli piaceva
anche la blenorragia, che peraltro pure in qualche modo si vedeva, soprattutto perché con una sola iniezione di
penicillina, al massimo retard, scompariva senza tracce. Mio padre, in effetti, si trovava a proprio agio soltanto fra
batteri famosi e manifesti, come streptococchi, gonococchi, treponemi pallidi, mentre tutto il resto patologico era per lui
avvolto nell’indistinto mistero. Inoltre aborriva le cosiddette – ma non da lui che mai nemmeno le nominava, bensì da
mio zio materno anche lui medico ma più giovane o dal mio futuro cognato, medico ancora più giovane – forme virali.
Anzi, mio padre neanche credeva che esistessero queste cosiddette forme virali, perché ai suoi tempi, cioè prima della
guerra, nessuno le conosceva e quindi nessuno le studiava […] L’influenza vera e propria, e non le pseudo influenze
ovvero le cosiddette ma, come ho detto, non da lui, forme virali, era la grande nemica di mio padre che la considerava
una delle peggiori malattie e non solo perché lui aveva sempre in mente la spagnola, ma soprattutto perché era convinto
che l’influenza, come d’altronde dice la parola stessa, influisse su tutto e soprattutto sui suoi nervi che erano già di per
sé a fior di pelle. E, infatti, come lui sempre diceva, una delle prime volte che aveva avuto un attacco di mente e di
pensiero, cioè di nervi, non so se la prima o la seconda volta, la causa era stata proprio un’influenza. Quando aveva
l’influenza, quindi, mio padre diventava molto suscettibile, ed era sicuro di morire o quanto meno di impazzire, tanto che
recitava nel letto certe sue litanie e decine di volte al giorno chiamava urlando mia madre che, pur essendo molto
paziente, finiva per spazientirsi anche lei. Noi, come ho già detto e ripetuto, non eravamo vaccinate contro quasi niente.
Avevamo fatto il vaccino contro il vaiolo, che a quell’epoca era obbligatorio, e avevamo tutte un cerchio rotondo sulle
nostre braccia. Il mio però era quasi invisibile perché ero stata vaccinata una volta sola, da bambina così piccola che
neanche me lo ricordo, e poi mai più. E di conseguenza ogni anno scolastico cominciava per me tra i tremori e le
preoccupazioni per via di quel falso certificato di avvenuta vaccinazione contro il vaiolo, che dovevo presentare ogni
anno. Eravamo anche state vaccinate contro la poliomielite, ma solo con il vaccino Salk, quello che s’iniettava – e mai
con il nuovo il vaccino Sabin che era cosa molto più semplice per i bambini, perché si succhiava su una zolletta di
zucchero. Inutile dire che a casa nostra regnava l’orrore per la cosiddetta trivalente, vaccino triplicato contro difterite,
tetano e pertosse, che non era obbligatorio, ma fortemente consigliato dai pediatri, come dicevano le madri delle bambine
della mia classe cui piaceva molto parlare di queste questioni vaccinali, come pure dei vantaggi della vitamina C.

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C’erano alcuni pediatri che andavano particolarmente di moda nel mio quartiere, quasi quasi fossero colori o articoli
di abbigliamento o anche marche di lavatrici e televisioni, noi però non li conoscevamo, per via della testa complicata
di mio padre e dei soldi che non avevamo, motivo questo secondo che in verità derivava dal primo. Mia madre se la
cavava con un “mio marito è medico e decide lui”, e io mi sentivo una derelitta esclusa da quel mondo di vaccini, medici
e vitamine di ultimo grido. Mia sorella era guarita dalla difterite con le iniezioni di siero nella pancia, e anche a me,
quando mi venne una specie di pertosse o tosse convulsa o canina che dir si voglia, furono fatte iniezioni di un certo
siero, nel posto solito, però, vale dire nei glutei o sul sedere. In effetti non si capì mai, se si fosse trattato di pertosse vera
e propria o di cosiddetta parapertosse. Fatto sta che molto più tardi, cioè a più di vent’anni, la mia nipotina di quattro
anni mi passò una bella tosse, pertosse o parapertosse chissà, che mi durò tutta l’estate, con gli accessi che mi facevano
vomitare ogni sera e il cosiddetto “tiro”, cioè una specie di sibilo che annuncia il soffocamento. Anzi proprio questo
cosiddetto tiro era la prova dirimente che una tosse fosse pertosse vera e propria, tanto che ogni volta avevamo la tosse
con sospetto di pertosse o tosse canina o convulsa che dir si voglia, dovevamo fare un sacco di esercizi di tosse provocata
per capire se avevamo il tiro oppure no. Alle elementari le mie compagne si ammalavano delle famose malattie
esantematiche. Le malattie esantematiche erano di due tipi: esantematiche con nome, come morbillo, varicella, rosolia,
o esantematiche numeriche, tipo quarta, quinta e sesta malattia. Se c’era un caso di questo genere di malattie nella mia
classe, io a scuola non potevo andarci per timore del contagio. Qui devo aggiungere che mio padre e di conseguenza
anche mia madre non consideravano la scuola come un obbligo, ma come un luogo dove si poteva andare solo quando
si era in perfetta salute, in classe non circolava nessuna malattia e le condizioni climatiche o atmosferiche erano
abbastanza clementi, quando non faceva tanto freddo, quando non pioveva né tirava vento forte. Tutti questi motivi mi
avevano già escluso dall’asilo, che comunque a casa mia era malvisto perché era considerato luogo per bambini poveri
e abbandonati, in altri termini come una specie di orfanotrofio, nonché dalla primina, e avevano anche fatto sì che in
prima elementare, benché avessi l’età giusta per andare alla scuola pubblica, mi avessero messo in una scuola privata,
perché nella scuola privata, come dice la parola stessa, c’erano meno bambini ­ – nella fattispecie cioè solo nove nella
prima classe e dodici nella seconda – e di conseguenza meno possibilità di contagio di malattie che ovviamente
aumentavano con il numero degli alunni. Il secondo motivo, che valeva però solo per mio padre di cui lei era la preferita,
era quello che la mia sorella terzogenita, cioè quella della difterite, aveva avuto solo la varicella e non il morbillo, con
la conseguenza che, se nella mia classe c’era un caso conclamato di morbillo o un caso dubbio di malattie simili, tipo
rosolia o esantematiche numeriche, si toglieva me dalla scuola e si mandava mia sorella dai nonni che a quell’epoca
abitavano al piano di sopra, perché ormai lei era adolescente e col morbillo avrebbe rischiato quasi tutto, cioè in effetti
la vita. Il risultato di questi allontanamenti preventivi durante le classi elementari fu che io presi la varicella in prima
media, con la febbre a quaranta, bruciori terribili, uso e abuso di talco mentolato, gli orecchioni nell’estate dei miei
dodici anni, e il morbillo nelle vacanze di Pasqua della quarta ginnasio, quando avevo quasi quindici anni e sarei dovuta
andare a Roma per uscire e magari sperimentare il primo bacio con un ragazzino che mi piaceva […]

Antonella Moscati – Covid-19


[6 Marzo 2020 – Antinomie.it]

Mai avrei pensato che i miei ricordi di un’infanzia ormai lontanissima potessero conoscere una forma di attualità. Né
tantomeno che quella che ho sempre considerato un’idiopatia familiare potesse toccare qualcosa d’interesse generale.
Evidentemente al fondo dei nostri ricordi, così come al fondo dei nostri pensieri, c’è sempre una scheggia che può
risuonare negli altri, in altri tempi e in altri luoghi. Vorrei comunque premettere a questi estratti di pagine scritte in

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tutt’altro contesto, profondamente ignaro di futuro, qualche considerazione sulle vicende legate a questa che ormai è
davvero una pandemia, alla quale la mia inguaribile ipocondria non può non guardare che con profonda preoccupazione
e morboso interesse. Curiosamente, però, forse perché anche il più buio tessuto delle angosce, dei catastrofismi e delle
proiezioni pessimistiche, si può tingere di un timido barlume di luce, fin da principio la nuova congiuntura determinata
dall’epidemia di coronavirus mi ha suggerito pensieri, che pur non potendo definire positivi, servivano a vedere le cose
da un punto di vista non solo catastrofico. Come se in questa pandemia ci fosse qualcosa di rivelatore che sospendeva per
un momento, metteva in epoché mi verrebbe da dire, alcune convinzioni e credenze, atteggiamenti, comportamenti e
abitudini nostre e del mondo, che credevamo impossibili non solo da cambiare ma perfino da mettere semplicemente in
dubbio. E questo non è solo un male. Colpiscono, per esempio, le immagini della Nasa che mostrano il cielo sopra Wuhan,
per la prima volta, chissà dopo quanto tempo, di colore azzurro. Forse i bambini e gli adolescenti di Wuhan neanche
sapevano, se non per sentito dire, che il cielo potesse avere quel colore e che gli orizzonti potessero dipingersi di paesaggi
e montagne e non solo di nebbie confuse. Il calo di C02 è stato veloce e improvviso, come mai nessun accordo
internazionale, strappato a fatica alle fauci di un’economia che è disposta a tutto in nome di profitto e crescita, avrebbe
potuto ottenere, e forse nemmeno immaginare. Colpisce il fatto che la pandemia rivela, come un oracolo spietato, che gli
autentici problemi cui siamo oggi confrontati sono problemi del mondo e che si possono affrontare solo al livello del
mondo. E che un’economia globalizzata che convive con gestioni particolari e sempre più particolaristiche della cosa
pubblica non può essere un modello universale oltre il quale neanche i nostri pensieri, per non dire le nostre realtà, possono
spingersi. Colpisce il fatto che, per un momento, che forse sarà breve ma che comunque ci potrà essere d’insegnamento
se sapremo approfittarne, si è strappata la certezza che l’economia sia il principio di regolazione del mondo, che non solo
le politiche statali, ma perfino comportamenti o i processi mentali singolari siano mossi e regolati dalle logiche del
profitto. Colpisce il fatto che ad ammalarsi siano stati ricchi e poveri, anzi spesso i ricchi primi dei poveri, i frequentatori
di crociere costosissime prima degli abitanti delle periferie povere delle grandi città, i manager prima degli impiegati e
talvolta quelli che in Francia si chiamano, con un’espressione che non riesco a non trovare ironica, les élus, cioè i
governanti prima dei governati. Colpisce il fatto che stiamo pagando e pagheremo le politiche europee di tagli alla ricerca,
alle spese sanitarie, al numero dei medici e degli infermieri, nonché l’ottuso rifiuto dei paesi membri di uniformare e
coordinare le formazioni universitarie e i sistemi sanitari, che adesso saranno chiamati a mostrare i loro punti forti e i loro
punti deboli, in una comparazione, forzatamente necessaria, alla quale nessun paese europeo, chiuso nella sua idiozia
nazionale, aveva mai voluto dedicare la benché minima riflessione. Mentre contemporaneamente si rivela la scelleratezza
della scelta delle case farmaceutiche europee e americane che hanno spostato l’intera produzione delle materie prime in
Cina e in India, dove non solo la mano d’opera è meno cara, ma dove soprattutto non ci sono leggi che limitino
l’inquinamento. Prima ancora che gli antibiotici diventino inefficaci per la produzione di batteri resistenti, saremo
confrontati con il fatto che gli antibiotici mancheranno sui mercati occidentali.Colpisce infine il fatto che questo virus ha
messo e metterà ognuno di noi nell’orrenda posizione in cui per troppo tempo abbiamo messo gli altri, profughi,
immigrati, senza tetto: esseri umani dai quali tenersi lontani, dai quali guardarsi, da guardare e toccare con diffidenza,
esseri umani da cui ritrarsi, da mettere in quarantena. Ora in quarantena siamo noi.

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Pier Aldo Rovatti - Tendenza alla dietrologia e piccole verità
[6 Marzo 2020 – Il Piccolo]

La scena della paura da contagio è piena di discorsi che si accavallano in un tentativo e di farci capire
cosa accade e di darci un orientamento. E se toccasse proprio a ciascuno di noi, al nostro senso di
responsabilità, costruire una qualche bussola nel mare delle verità? Mi riferisco alle verità diffuse
dagli esperti, dai politici, dall’informazione: ai tentativi di chiarire le idee della gente sempre un po’
dall’alto, spesso con il risultato di confonderle, mentre a noi, qua in basso, servirebbero piccole verità,
per riuscire a individuare a chi e a cosa dar retta, considerando che i regimi di verità con cui si pretende
di regolare e di tutelare le nostre vite non sono così trasparenti e persuasivi.
Anche accreditati intellettuali stanno pronunciando i loro pensieri con toni di sicurezza, cercando di
vedere il fondo della situazione e ipotizzando che cosa sta dietro. Giorgio Agamben, per esempio,
che qualche giorno fa ci ha detto che si sta montando ad arte uno “stato di eccezione” che permette
ai poteri istituzionali di governare a proprio piacimento. O Roberto Esposito che gli ha fatto eco
osservando che l’attuale situazione è la prova provata che la politica e la vita ormai sono strettamente
intrecciate. O Massimo Cacciari che stigmatizza il fatto che il tentativo di “chiudere tutto” è assurdo,
dunque fallimentare. Sono riflessioni perspicue che tentano appunto di guardare dietro per andare a
vedere come il virus potrebbe modificare la governance del nostro paese.
Non ci dicono però se dobbiamo stare in casa o possiamo vivere tranquillamente le nostre vite sociali.
L’epidemia è solo un espediente per esercitare legittimamente un potere disciplinare? Risponderei “sì
e no”, e tenterei di abbassare un poco la pretesa veritativa delle affermazioni, portando l’attenzione
sull’esigenza che ciascuno di noi possa diventare, anche in questo caso, un soggetto responsabile, non
guidato, non trascinato da idee esterne che rischiano subito di diventare ideologie o schemi mentali.
Possiamo prendere alcuni riferimenti: la scienza (come ci viene presentata la competenza scientifica),
la politica (come viene organizzata l’attuale anomalia), l’economia (come viene valutato il danno
materiale che ne deriva), l’informazione (è misurata oppure eccessiva?).
Nessuno di questi comparti appare tranquillizzante, da nessuno di essi riceviamo elementi sufficienti
a dare un riempimento al nostro bisogno di responsabilità. I virologi non concordano tra loro: i più
credibili sono quelli che confessano che “bisogna aspettare”. I politici, quando non utilizzano a fini
di propaganda questo problema così incalzante, fanno fatica a governare la diversità dei poteri
istituzionali, per cui finora ciascuna Regione era andata avanti da sé (per esempio, qui in Fvg ci
chiediamo che senso abbia avuto tenere aperti i cinema e chiuse le scuole).
Il mondo economico sta valutando il disastro annunciato, oltre che nel turismo, a livello dei piccoli
imprenditori, e spera che questa epidemia, come le precedenti, sia di breve durata. Comunque

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emergono ovvietà come la priorità a delle partite di serie A del calcio o il fatto che i ricchi se la
caveranno mentre i poveri pagheranno cari gli effetti del coronavirus.
Quanto all’informazione, essa corre il rischio di essere fin troppo invasiva. Non basta occupare i
palinsesti televisivi. Tutti ne siamo un po’ stanchi e vorremmo che l’argomento epidemia passasse
dai titoli di testa, che non possono che essere “gridati”, a riflessioni meno rumorose e più meditate.
Mi azzardo a credere che ciascuno di noi desidererebbe ridurre le dimensioni del fenomeno dentro
cui ci troviamo impigliati per renderlo – per così dire – più domestico.
Il senso di responsabilità che sto auspicando è qualcosa di simile a un cambiamento del punto di vista
tale per cui gli occhi che guardano corrispondano proprio ai nostri, miopi che siano, e non a quelli
che prendiamo a prestito da chi supponiamo ne sappia più di noi e dunque veda meglio. Niente sguardi
superiori, con i quali è come se ci vedessimo da fuori e fossimo in ogni momento il supervisore di
noi stessi. Non esistono, neppure nell’attuale contingenza, supposte superverità in grado di regolare i
comportamenti: se le sgonfiamo del potere che si arrogano troviamo dispositivi pieni di buchi, anche
se questo ci disorienta un poco poiché ci toglie utili stampelle. Ma ci toglie anche un pezzo di
soggettività al quale non possiamo rinunciare. Le “piccole verità”, di cui dovremmo nutrirci, non
disprezzano il sapere o la competenza ma ci servono per limitare il potere che vorrebbero esercitare
su di noi, quello di governare le nostre vite, cominciando dal demonizzare i contatti. Sta circolando
in questi giorni un’espressione del poeta inglese John Keats: “capacità negativa”, una capacità che si
nutre del dubbio. La responsabilità cui alludo qui (non avendo a disposizione una parola migliore) ha
a che fare con questo civile esercizio del dubbio che non è detto che debba essere fastidioso. Di certo
non può essere né egoistico né autoisolante, e ci permette – credo – di socializzare con chiunque.

Srećko Horvat - Il pericolo politico del nuovo virus


[6 Marzo 2020 - New Statesman, trad. it. Internazionale]

Il nuovo coronavirus è qualcosa di più di un’epidemia mortale. È anche una tela su cui sono proiettati
i timori e i pregiudizi più profondi. Ma è in questi momenti di diffusione del panico e della paranoia,
alimentati dalle immagini distopiche di città deserte e navi da crociera in quarantena, che è importante
capire qual è la ricaduta emotiva ma anche quali sono le conseguenze sull’economia politica.
Davanti alla paura del coronavirus è utile riflettere sul romanzo di Thomas Mann Morte a Venezia,
scritto nel 1912, in cui una misteriosa malattia (che poi si scoprirà essere il colera) si diffonde in quel
“paradiso” dei turisti. Alla base del romanzo c’è la paura orientalista della contaminazione

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proveniente dall’est : “l’orrore della diversità” di cui parla il protagonista Ashenbach quando scopre
che la malattia è arrivata dall’India e prima di raggiungere il Mediterraneo e Venezia si è diffusa in
tutta l’Asia. Nel quattrocento la città lagunare fu una delle prime a introdurre un sistema di quarantena
marittima. In Italia la quarantena ha una lunga storia: usata per la prima volta a Modena nel 1374 per
tenere fuori dalla città persone potenzialmente infette, fu poi usata per impedire l’ingresso nelle città
di stranieri, minoranze, ebrei e arabi. Diventò un mezzo per segregare alcune persone. Nel 1836
Napoli impedì con la quarantena la circolazione di prostitute e mendicanti, considerati portatori del
contagio. Con il nuovo coronavirus sono i cinesi a portare il peso del sospetto xenofobo.
Un virus non è solo un agente biologico che si riproduce nelle cellule vive di un organismo, ma è
anche parte di un’ideologia che considera “l’altro” come una malattia. Il 30 gennaio, dopo i primi
casi di coronavirus identificati in Italia, il leader della Lega Matteo Salvini, ha twittato: “E poi
eravamo noi a essere speculatori e catastrofisti. Frontiere aperte, incapaci al governo”.
E non sono solo i nazionalisti a usare il coronavirus per “dimostrare” che hanno ragione sulla chiusura
dei confini. “Anche i mezzi d’informazione progressisti hanno trattato il virus come se fosse
intrinsecamente cinese. Il 1 febbraio il settimanale tedesco Der Spiegel in copertina aveva la foto di
una persona in tuta protettiva, maschera antigas e con un iPhone in mano. Il titolo era “Made in
China”. Lo stesso giorno il titolo della copertina dell’Economist era: “Quanto diventerà grave?”, e
c’era l’immagine della Terra coperta da una mascherina fatta con la bandiera cinese.

Il razzismo della purificazione


Nel 1978 Susan Sontag nel suo libro Malattia come metafora condannava il linguaggio che attribuisce
la colpa alle vittime spesso usato per descrivere alcune malattie. A distanza di quarant’anni, si parla
ancora di malattie in modo semplicistico e gli si attribuisce un valore simbolico: il nuovo coronavirus
è usato come metafora per esprimere ogni genere di paure, compresa, come dimostrano lo Spiegel e
l’Economist, la paura della posizione dominante della Cina nell’economia globale. Le copertine dei
due settimanali rappresentano il pericolo economico che il virus costituisce per il capitalismo, cioè
per la produzione di merci, dagli iPhone alle auto Tesla.
Il coronavirus influisce in modo significativo sull’economia, soprattutto sul turismo e sulla
produzione. Ma non determinerà il crollo del neoliberismo – l’ideologia dominante degli ultimi
quarant’anni – il cui principio consiste nel proteggere l’economia di mercato dalle forze
democratiche. Come sostiene il filosofo Michel Foucault in due conferenze tenute al Collège de
France negli anni settanta, il neo-liberismo opera attraverso una nuova forma di governo che si
preoccupa del “controllo biopolitico delle popolazioni”. Questo obiettivo, che si raggiunge con
“tecnologie di controllo”, come l’assistenza sanitaria e le punizioni, può portare a quello che Foucault

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definiva il “razzismo di stato” e al razzismo della “purificazione permanente”. L’idea è stata ripresa
dallo storico canadese Quinn Slobodian, autore di Globalists. Nel 2018 Slobodian ha sostenuto sul
New York Times che l’estrema destra vuole introdurre una “globalizzazione modificata” basata
sull’ostilità verso l’immigrazione, in cui “la circolazione delle merci e del denaro sarà libera, ma non
quella delle persone”.
Il coronavirus non è una minaccia per l’economia neoliberista, ma anzi crea l’ambiente perfetto per
quell’ideologia. Ma dal punto di vista politico il virus è un pericolo, perché una crisi sanitaria potrebbe
favorire l’obiettivo etnonazionalista delle frontiere rafforzate e dell’esclusività razziale e quello di
interrompere la libera circolazione delle persone (soprattutto se arrivano da paesi in via di sviluppo)
assicurando però una circolazione incontrollata di merci e capitali.
Il timore di una pandemia è più pericoloso del virus stesso. Le immagini apocalittiche dei mezzi
d’informazione nascondono un legame profondo tra l’estrema destra e l’economia capitalista. Come
un virus ha bisogno di una cellula viva per riprodursi, anche il capitalismo si adatterà alla nuova
biopolitica del ventunesimo secolo.
Il nuovo coronavirus ha già influito sull’economia globale, ma non fermerà la circolazione e
l’accumulazione di capitale. Semmai, presto nascerà una forma più pericolosa di capitalismo, che farà
affidamento su un maggior controllo e una maggiore purificazione delle popolazioni.

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Mauro Portello - Sessantenni nello specchio del coronavirus


[6 Marzo 2020 – Doppiozero.com]

Ti viene da pensare al Diario della guerra del maiale dopo l’invito dell'assessore al Welfare della
Lombardia Giulio Gallera rivolto agli over 65 a non uscire di casa per prevenire il coronavirus. Ci si
sente sotto attacco, c’è poco da fare, sembra che il sistema si scateni come i giovani di Buenos Aires
del racconto di Bioy Casares che per una settimana cercano di eliminare “i maiali”, cioè tutti coloro
che hanno più di cinquant’anni. E tu, come “i maiali”, sei costretto a difenderti nascondendoti e
fuggendo le tue stesse abitudini. Ma come, dice Lella Costa: “Noi, i figli del boom, siamo carne di
cannone quando impongono di non andare in pensione, di lavorare sempre più, di rimboccarsi le
maniche e anche di contribuire a mantenere figli e nipoti. Poi, arriva questa malattia e ci dicono, in
sintesi, che siamo cagionevoli ed è meglio tenerci a casa. In realtà, mi sembra che questa Milano sia
piena di settantenni in forma, consapevoli, capaci di prendersi cura della loro salute. Perciò viene un
po' da ridere, all'invito a stare chiusi a casa.” (intervista in Repubblica-Milano del 04.03.2020).

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A un “esame di realtà” le ragioni della scienza sono evidenti e ineccepibili: le statistiche a
disposizione dicono che oltre quell’età si è più cagionevoli in generale e, oggi in Lombardia, più
esposti al contagio del coronavirus in particolare. Per questo è bene evitare di andare in giro
rischiando di essere contagiati e/o di intasare le strutture sanitarie che abbiamo a disposizione. Ma le
cose, evidentemente, non si possono risolvere con un semplice dato quantitativo poiché in gioco, a
questo punto, c’è il nostro intero sistema di vita a cui, pur con tutte le sue magagne, siamo attaccati.
Se poi in discussione c’è la dimensione della vecchiaia, il tema diventa assai controverso, e in effetti
con Lella Costa “viene un po’ da ridere”. L’invito a stare in casa è una promessa che ci viene fatta
di una rapida riconquista di benessere? O è una minaccia, un “togliti dai piedi che se ti ammali ci
costi troppo”? Tutto funziona finché tutto funziona, certo, ma quando le turbolenze di un sistema
arrivano in forma incontrollabile subito sbattiamo il muso contro le contraddizioni più o meno latenti
in cui viviamo.
I boomer sono tanti e sono una generazione che sta sperimentando per la prima volta nella Storia una
condizione di invecchiamento del tutto nuova basata su longevità e benessere economico. Sono
individui che hanno potuto uscire dai protocolli culturali che erano caratteristici del passato fino alla
seconda guerra mondiale (famiglia patriarcale) e sono riusciti a prendere in mano il loro destino socio-
affettivo e a governarlo fino in fondo. Sono dei “vecchi liberati”, che non obbediscono più ai doveri
stabiliti dalla tradizione, obbediscono solo ai propri convincimenti e desideri non facilmente
omologabili. Il fatto di continuare, anche oltre una certa età, a credere di poter determinare in misura
significativa il proprio futuro pone i “vecchi liberati” al centro della propria vita.
Scoprire ora, brutalmente, di poter essere collocati al di sotto di questa soglia di autodeterminazione
penso possa costituire un vero e proprio, concreto, spavento culturale. Percepire, sia pure a fronte di
un serio problema di salute collettiva, di poter essere messi da parte, è per i boomer, in qualche modo,
un affronto sociale. Sembra di essere passati repentinamente dalla tranquilla “statica” del decorso
naturale di una nuova vecchiaia, alla necessità di una “dinamica” reattiva che fa prefigurare una
società dove la vecchiaia potrebbe forse dover essere contesa e conquistata come un diritto.
È un passaggio cruciale quello che stiamo vivendo: in pochissimi giorni ci ritroviamo un qualche cosa
che ci inchioda alle nostre responsabilità, una minaccia alla nostra salute che sembra quasi l’effetto
delle nostre scelte economico-politiche globali. E il pensiero che le mutazioni climatiche e ambientali
che sono in corso possano a loro volta introdurre le condizioni di altri sconvolgimenti della salubrità
del mondo non è più così peregrino. Dopo tutto viviamo nel regno di Bios. Questo pensiero
destabilizza soprattutto chi si sente inequivocabilmente classificare come l’anello debole della catena,
debole ancorché essenziale. Se poi focalizziamo l’analisi sull’Italia dove gli equilibri demografici
sono fortemente a rischio – cosa che si ripete ormai da anni, ma che viene ancora colta come un

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semplice rilievo statistico o poco più – la scossa nervosa di questi giorni appare ancora più violenta,
la conflittualità tra popolazione giovane e “i maiali” con il loro peso eccessivo su una bilancia
economica sfavorevole alle nuove generazioni rischia oggettivamente di aumentare.
La vecchiaia, soprattutto quella più recente, si sta muovendo in un terreno di ricerca (vedi OK,
BOOMER!), i vecchi più giovani si stanno misurando con le molteplici opzioni che la società
occidentale offre loro, ma il tutto avviene in un quadro complessivo di fragilità, di titubanze culturali,
di insicurezze psicologiche, di nuove problematicità (pensiamo, per esempio, all’enormità delle
nuove solitudini). Se in un simile quadro arriva un meteorite inaspettato che rapidissimamente rimette
in discussione ogni cosa e costringe a rivedere, ancora, il paradigma (chiamiamolo così) è facile
immaginare una ripercussione scomposta e irrazionale. L’“infezione psichica” che ci sta colpendo
(Luigi Zoja in Paranoia e virus dà tutti gli elementi sostanziali di riflessione in merito) costringe
certamente a rivedere la narrativa sociale, e di conseguenza della vecchiaia. Quello che conta, credo,
è l’attenzione alla soglia di umanità che qualunque comportamento (economico, politico, psicologico)
dovrebbe rispettare.
Ora chiudo il pezzo, mi mancano 58 giorni al compimento dei 65, sono in casa, come previsto, me ne
andrò a fumare un sigaro nel mio ampio terrazzo, a guardare i monti e la città, passeggiando, come
se niente fosse, ma poi io esco, perché “ci si dovrebbe fidare un po' di più delle persone, molti di noi
sanno che cosa è giusto fare", come dice Lella Costa.

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Emma Gainsforth - L’epidemia e il bisogno di costruire un pensiero sulla fragilità


Pensare la fragilità, la cura e la responsabilità che abbiamo nei confronti degli altri richiede di abbandonare le narrazioni
tossiche biopolitiche, abiliste e ideologiche
[7 Marzo 2020 – Dinamopress.it]

Ho letto due cose buone sul coronavirus. Uno è un articolo di Augusto Illuminati, Annotazioni
marginali alle catastrofi, che parte dalla sua antipatia per il sapone antibatterico e compone un
sapiente, informato ed elegante elogio dei batteri e della nostra convivenza con essi – gettando in
cattiva luce, ovviamente, i virus, e implicitamente massacrando quell’uso teorico che si fa dei virus,
in ciò che continua a essere, per inciso, una produzione della nostra soggettività, postumana o
apocalittica che sia.
Il secondo scritto che mi ha dato la sensazione di tornare a respirare – a dire il vero precede il pezzo
di Augusto – è di Chiara Bersani, che come dice il sottotitolo, ci racconta l’effetto che ha la
«narrazione abilista di un’emergenza» su tutti quei soggetti che definiamo «deboli». Parla di

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un’occasione mancata: «Questo virus, il suo muoversi facilmente nel mondo, poteva diventare
occasione per ricordarci che siamo umani e in quanto tali siamo fragili. Avremmo potuto accettare
tutt* insieme che non siamo immortali, non solo noi soggetti deboli ma anche quel 40enne che sente
l’eterna potenza scorrere nelle sue ossa. Sarebbe stato bello per una volta cercare un senso più nobile
in un momento effettivamente speciale. Forse si sarebbe creato un precedente illuminato, forse la cura
di sé e degli altri avrebbe veramente occupato per qualche tempo il centro del mondo. E siccome sto
facendo un gioco di fantasia mi piace spingermi oltre e pensare che forse il capitalismo avrebbe
tremato vedendo vacillare i suoi finti corpi immortali e prestanti».
È stato a partire da questo pezzo, arrivato come una freccia una mattina in cui non riuscivo a lavorare,
in cui me ne stavo paralizzata di fronte allo schermo del computer, a metter in moto questo pensiero-
esigenza che è «facciamolo», non è tardi – ed è l’unica cosa su cui vorrei che lei cambiasse idea –
possiamo farne un inizio, anche ora.
Ho letto L’incubatrice mostruosa o Sars Wars Cov-2 di Angela Balzano, uscito su Dinamopress il 4
marzo. Nuovamente, il senso di una sconfitta immensa. Non era bastato il pezzo di Agamben, a suo
modo deriso sui social (ha persino generato dei meme). È certamente una reazione al panico indotto
dalla comunicazione schizofrenica delle istituzioni – ma su questo si poteva cominciare dicendo, cosa
che ho appreso da un conoscente informato, che l’Italia, a differenza della Germania, per esempio,
non ha alcun protocollo da attivare in situazioni del genere. Procedo: le strade si svuotano e
compaiono, al nord, le camionette dei militari. È il bio-controllo, in cui siamo tutt* tenut* ad
autodenunciarci al presidio medico-militare. Segue l’elogio del virus e della sua forma di vita. I virus
sono organismi «capaci di cambiare il mondo […] contrabbandieri proteiformi», ovviamente la
citazione è di Haraway e Balzano si augura che «torni familiare anche per l’umano», perché«siamo
tutt* in bilico tra la vita e la morte e abbiamo tutt* bisogno di un intero mondo che ci ospiti per vivere
e riprodurci».
La mia reazione è fortissima. Mi rendo conto che questo articolo tocca un tasto, che la mia reazione
è emotiva. Non siamo tutt* in bilico tra la vita e la morte, io, per esempio, non lo sono. Ma il fatto è
questo: mia padre ha un enfisema, mia madre si è ripresa ora da una polmonite, entra e esce
dall’ospedale da settembre. Io dovrei andare oggi a trovarli, e sono due giorni che mi misuro
compulsivamente la “febbre”. Ho 37.2: è febbre? Mia sorella mi dice che sono ipocondriaca, che
quello che ho si chiama, banalmente, hangover. Neanche mia madre crede sia febbre, mi dice vieni,
alla peggio, se ti metti a tossire, ti caccio. Ma ecco, sono nel loop della “misurabilità”, con tutto quello
che comporta, e non so che fare. I confini tra corpo sano e corpo infetto non sono facili, sono invisibili.
Si chiamano incubazione. Sono più difficili da decifrare di quelli tra corpo debole, fragile, e corpo

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potente, forte. E mischiano le categorie, formano un chiasmo: chiamano in causa gli effetti che ha il
mio corpo sano su un altro corpo che è fragile.
Penso: sono corpo sano nella fragilità che non è la mia ma in cui sono immersa. E questo, mi
sembra un modo per pensare la maniera di stare in questa relazione così difficile.
In questa difficoltà pensare che tutto sia biopolitico, o bio qualcosa, non mi aiuta. Non mi aiuta
pensare che lo Stato stia usando il virus per renderci più tristi. Non mi aiuta una chiamata a resistere,
ad attraversare comunque le piazze e i luoghi pubblici infettandoli – con riferimento ai cortei che
NUDM ha annullato. Balzano scrive: «so che ci sono migliaia di corpi indisposti a rinunciare a quella
botta di endorfina che innescano gli incontri in strade liberate, corpi su cui non attecchisce alcuna
revoca, che si sono resi immuni al controllo», e via dicendo. Il tono è entusiasta, ottimista, direi
esaltato. E mi ritrovo per l’ennesima volta a fare un pensiero, che ultimamente faccio spesso: penso
infatti che pensiamo troppo, che abbiamo letto troppo, studiato troppo, che ci siamo armati di discorsi
che poi ci rendono difficilissimo entrare in contatto davvero con la realtà, un contatto che spesso è
una frattura, un pezzo di dolore, qualcosa che manca, o che è andato male.
Mi viene in mente una battuta che io faccio spesso ai miei amici lacaniani: ma con tutto quel fardello,
con tutta quella teoria, come fa a lavorare un analista lacaniano? Ovviamente è una battuta ironica e
allo stesso tempo una mia curiosità reale, di sapere cos’è che in fondo fanno. La uso perché trovo sia
un’immagine e mi aiuta a formulare un dubbio. Ho la sensazione che a volte facciamo precedere i
discorsi al sentire, e siamo spaesati di fronte a tutto quello che non riusciamo ad anticipare, prevedere,
rassicurare. Che ci sono eventi che finiscono per essere usati come conferme, auto-conferme. Io
personalmente qui dentro mi sento scissa. Un ottimismo come quello che ho trovato in questo articolo
cancella pezzi interi di realtà, o meglio tratta questa realtà come un blocco, qualcosa da cui, nel nostro
“antagonismo” è possibile stare fuori. A chi esattamente stiamo dicendo «non ci avrete»? Io questo
soggetto non lo vedo.
Nel mio palazzo ho lanciato un’idea: scrivere. Usiamo una chat e abbiamo deciso di elaborare una
sorta di decalogo, delle regole belle che ci aiutino ad affrontare insieme la situazione, che significa in
sostanza parlare di quello che questa situazione significa per ognuno di noi e aiutarsi. Io penso ai miei
genitori, il mio coinquilino non riesce a guadagnare abbastanza, la mia vicina ha un sistema
immunitario compromesso, poi c’è chi non può partire, e via dicendo. Il mio coinquilino voleva
mandare il figlio in Calabria, ora che le scuole sono chiuse, a casa di parenti. Ha riflettuto con la
madre, hanno capito che non è una buona idea. Mi ha detto che Cosenza ha più o meno 200 mila
abitanti, l’unico ospedale che hanno è l’Annunziata, che ha 40 posti in rianimazione, e poi c’è il nulla.
Ora, a fronte di una considerazione che io trovo giusta, che è in sostanza “non ammalarsi per non far
ammalare gli altri”, cosa me ne faccio dell’idea dell’«auto-controllo biomedico»? Cosa me ne faccio

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dell’idea che l’ospedale è un “istituto disciplinare” quando a mia madre, in ospedale, è stata da poco
salvata la vita? Mi viene da pensare che chi può limitarsi a ripetere Foucault, come se bastasse davvero
questo per fare fronte a una situazione che è oggettivamente faticosa, non ci ha mai messo piede in
un ospedale – per altro europeo, dunque accessibile, gratuito, pubblico.
C’è un ottimo articolo di Simone Pieranni sul “Manifesto” che anche parla di potere. Eppure lo fa
informando – parla della Cina, di cui tendiamo ad avere un’idea sbagliata, preconcetta. Gli editoriali
(le opinioni) non possono sostituire l’informazione e le ingiunzioni a un ottimismo sfrenato e cieco
non servono a niente e a nessuno. Giusto manifestare la propria presenza disobbediente come si è
fatto nei flash mob del 6 ma senza enfatizzare, in questa particolare circostanza, lo scrollarsi di dosso
la trama di relazioni e di cura in cui siamo immesse.
Più che alla legge del padre io penso a mio padre reale, a casa, in difficoltà, con una forma di
demenza che lo confonde, che l’ha trasformato in bambino, improvvisamente. No, non ci penso
neanche un secondo a lasciare mio padre a casa da solo e, non-febbre permettendo, starò a casa con
lui.
Certo che mi prenderò cura di lui senza espormi gratuitamente, perché io ci tengo a che lui sia e
rimanga vivo e io cercherò di non ammalarmi per questo. Tutto ciò è ideologia, e credo sia offensivo,
e ignorante, nel senso letterale di ignorare tutto ciò che non serve la causa della forza, del “nostro”
(di chi?!) sentirci forti. E tutto ciò m’induce a domandare: è possibile che questo tipo di discorso, che
la “teoria” in generale, che è quel luogo in cui è stata prodotta intelligenza bellissima e necessaria,
ma anche il luogo in cui ci rintaniamo perché qui siamo bravi, sia addirittura diventato qualcosa a cui
ci rivolgiamo per non dover guardare, vedere, tutto quello che non ci torna? Ovvero, quello che ci fa
sentire impotenti. Lo dice Mark Fisher molto meglio di me, in Scritti politici. Il nostro desiderio è
senza nome, uscito da poco in italiano. Invita a rileggere Marcuse, per fare i conti con il negativo, a
stare attenti non a Spinoza, Deleuze, Negri, ecc., i suoi autori di riferimento, ma al modo in cui sono
stati usati.
Mette in guardia contro un vitalismo che è stato in realtà già appropriato dal capitale: che è infinita
potenza, volontarismo magico, in un’epoca in cui, piuttosto, è diventato urgente pensare il limite, la
misura, la natura finita dei corpi e delle risorse. Ecco, non saper stare in tutto ciò che ci sfugge (nel
negativo, come dice lui) si trasforma in una sorta di delirio di onnipotenza, che non fa bene, e che
non ci aiuta di certo a sconfiggere quello che ci fa male. Anzi, crea nemici dove non ci sono, crea
fronti e sensi di appartenenza che si producono per differenziazione, che sono privi di compassione,
di sentire, di possibilità reali di stare dove qualcosa fallisce, viene meno.
Mi ha suonato il vicino per chiedermi il termometro, per la sua compagna, che ha la febbre. Di
termometro ne abbiamo uno nel palazzo e ce lo passiamo. Sta cucinando, mi porterà il pranzo. Lui è

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guarito. La settimana scorsa mi è capitato di cucinare per lui. Andremo avanti così. Il mio coinquilino
è uscito per fare il giro dei clienti, ristoratori, che lo devono pagare. Sappiamo entrambi che tornerà
con poco. Quando avrà finito i soldi la spesa la farò io, ho pensato, che ho più soldi di lui. Mi ha detto
stamattina che potersi fermare è bello, anche nella difficoltà che questo comporta. Ma non ha usato
nessuno slogan, nessun hashtag, non si è detto forte, anzi, ci siamo detti fragili, e abbiamo ribadito il
desiderio che abbiamo di farla insieme, la nostra fragilità, spiegandocela, facendo in modo che piano
piano, nei giorni, diventi una cosa che possiamo dire, con parole che per adesso ancora non ci
vengono.

Rocco Ronchi - Le virtù del virus


[8 Marzo 2020 – Doppiozero.com]

Difficile non farsi prendere dal demone dell’analogia quando ci si misura con l’enormità dell’evento
pandemia. Nelle riflessioni che accompagnano il suo diffondersi a macchia d’olio, il Covid 19 è
diventato una sorta di metafora generalizzata, quasi il precipitato simbolico della condizione umana
nella post-modernità. Era già successo, quarant’anni fa, con l’Hiv e si ripete puntualmente oggi. La
pandemia si presenta come una sorta di experimentum crucis, grazie al quale sono verificate ipotesi
che dalla politica vanno agli effetti della globalizzazione, alla trasformazione della comunicazione
nel tempo della rete fino a raggiungere le vette della più rarefatta considerazione metafisica. Per
l’isolamento, la diffidenza e il sospetto a cui induce, il virus è infatti ora “populista” o “sovranista”.
Per le pratiche emergenziali a cui costringe sembra universalizzare quello “stato di eccezione” che il
Novecento teologico-politico ha lasciato in eredità al presente, confermando inoltre la tesi di Foucault
sul carattere biopolitico del potere sovrano nella modernità (un potere che avrebbe il suo correlato
nella produzione, gestione e amministrazione della “vita”). Per il suo essenziale anonimato sembra
poi condividere l’immaterialità che si denuncia nel vituperato dominio del capitale finanziario. Per la
sua capacità di contagio si coniuga perfettamente con la natura preriflessiva e “virale” della
comunicazione in rete. Last but non least il virus è il segno dell’eterna condizione umana. Casomai
ci fossimo colpevolmente scordati della nostra mortalità, finitezza, contingenza, mancanza,
ontologica deficienza ecc. ecc., ecco che il virus ce le rammenta, coartandoci alla meditazione e
rimediando così alla nostra distrazione di consumatori compulsivi. Queste considerazioni non sono
affatto illegittime. Sono, anzi, tutte pienamente fondate. In questo consiste però anche il loro difetto.
Se funzionano è perché riducono l’ignoto al noto. Esse fanno del virus l’evidenza intuitiva che, per

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dirla con la lingua della fenomenologia, viene a “riempire” una attesa d’ordine teorico. Per
l’intelligenza critica che si esercita sul fenomeno virus, Covid 19 è per lo più il nome da film di
fantascienza con cui si certifica un sapere pregresso.
Ma se il virus ha la caratteristica dell’evento (e sarebbe veramente molto difficile negargli questo
tratto) dell’evento deve avere anche la “virtù”. Gli eventi sono tali non perché “accadono” o, almeno,
non solo per quello. Gli eventi non sono i “fatti”. A differenza dei semplici fatti, gli eventi hanno una
“virtù”, una forza, una proprietà, una vis, cioè fanno qualcosa. Per questo l’evento è sempre
traumatico al punto che si può dire che se non c’è trauma non c’è evento, se non c’è trauma non è
successo letteralmente nulla. Ora, cosa fanno gli eventi? Gli eventi producono trasformazioni che
prima del loro aver luogo non erano nemmeno possibili. Cominciano infatti a esserlo solo “dopo” che
l’evento ha avuto luogo. L’evento, insomma, è tale perché genera del possibile “reale”. Si tenga
presente che “possibile” non vuole qui dire altro che praticabile. Possibilità significa poter fare
qualcosa. La possibilità non è niente di astratto, non è la libera immaginazione di altri mondi migliori
di questo. Se si rimane su un piano pragmatico, senza indulgere alla metafisica, possibilità è solo
“potenza” e potenza non è nient’altro che azione, attività determinata. La “virtù” dell’evento consiste
allora nel rendere possibile modalità operative che, “prima”, erano semplicemente impossibili,
addirittura impensabili. Ne consegue che l’evento può essere pensato solo a partire dal futuro che
genera (e non dal passato), perché trasforma, perché crea del reale e con esso del possibile. Il senso
comune è dunque nel giusto quando pensa l’evento come “occasione” per “fare di necessità virtù”.
Noi siamo troppo vicini all’evento Covid 19 per poter scorgere il futuro che reca in grembo e la nostra
umanissima paura ci rende dei testimoni inaffidabili, ma alcuni segni del cambiamento di paradigma
che esso comporta ci sono e mostrano un senso inatteso. Il più eclatante è probabilmente l’improvviso
tracollo dell’ideologia del “muro”. Il virus è arrivato nel momento in cui il pianeta sembrava
convergere nella condivisa persuasione che la sola risposta alle “minacce della globalizzazione”
consistesse nella ridefinizione di confini armati e di identità forti. Il populismo, che detesta i libri,
crede però, dogmaticamente, nel primato della “cultura” nel senso antropologico del termine. Il suo
senso della comunità è infatti storico, romantico e tradizionale. La sua comunità è locale per
definizione, il suo nemico giurato è l’astrazione frigida del cosmopolitismo. Ancora più estranea alla
sua sensibilità è poi la natura: nient’altro che una risorsa da sfruttare per il benessere della comunità
(vedi Bolsonaro e la deforestazione dell’Amazzonia, Trump e la sua indifferenza alla questione del
riscaldamento globale, l’odio salviniano per Greta…). Il populista non ha dubbi sulla tesi della
“eccezione umana”. Ne fa, anzi, un articolo di fede. Aggiungerei che se bacia il crocifisso è perché
vi vede confermata teologicamente proprio quella eccezione. Ebbene, il virus, nel giro di pochissimi
giorni, ad una velocità veramente pazzesca, ha costretto tutti, volenti o nolenti, a farsi carico, financo

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nei comportamenti più quotidiani (lavatevi le mani…), del destino della comunità mondiale e, ben
oltre ad essa, della comunità dell’uomo con la natura. Per sradicare il pregiudizio culturalista e
antropocentrico non c’è stato bisogno del lento e quasi sempre inefficace lavoro dell’educazione: è
bastato qualche colpo di tosse perché improvvisamente diventasse inaggirabile la responsabilità che
ogni individuo ha nei confronti del creato per il solo fatto di essere (ancora…) al mondo e se vuole
continuare a restare al mondo...
Con la forza oggettiva del trauma, il virus mostra che il tutto è sempre implicato nella parte, che “tutto
è in qualche modo in tutto” e che non ci sono nell’impero della natura regioni autonome che facciano
eccezione. Non ci sono nella natura “imperi negli imperi” come li chiamava Spinoza per irridere la
pretesa superiorità dello “spirito” sulla “materia”. Il monismo del virus è selvaggio e la sua
immanenza crudele. Se la “cultura” desolidarizza, se erige steccati e costruisce generi, se definisce
gradazioni nella partecipazione al titolo di essere umano e istituisce orrendi confini tra “noi” e i
“barbari”, il virus “accomuna” e costringe a pensare a soluzioni “comuni”. Nessuno nel tempo del
virus può più pensare di salvarsi da solo né può pensare di farlo senza coinvolgere in questo processo
la natura. Si dirà che la pandemia genera zone rosse, clausure domestiche, militarizzazioni del
territorio. E questo è indubbio. Ma qui il muro assume un senso completamento diverso dal muro che
il ricco costruisce per tenere lontano il povero. È un muro costruito per l’altro, chiunque esso sia. Nel
tempo del virus il “prossimo” è infatti ridotto radicalmente alla dimensione del “chiunque”. Il muro,
in tutte le sue forme compreso il metro di distanza al bar, viene allora costruito per supplire la stretta
di mano impossibile con quel “chiunque”. È una via di comunicazione e non il segno di una
esclusione. Prova ne è che la retorica fascista non ha potuto sbandierare quei muri come conferma
della bontà della sua proposta segregazionista. Di fronte alla strapotenza del virus ha dovuto riporre,
almeno momentaneamente, la sua più efficace arma.
Siamo troppo vicini all’evento anche per valutarne gli effetti sul piano politico. C’è tuttavia un fatto
che va registrato. Il virus sembra restituire alla politica il suo perduto primato. Il pensiero classico
metaforizzava questo primato del politico nell’immagine del pilota della nave che deve destreggiarsi
in un mare ostile. Essendo spiriti realisti, i classici sapevano che non c‘erano porti sicuri ove
approdare per porre fine al viaggio. La navigazione, dicevano, è necessaria, vivere non è necessario.
L’“elemento” in cui bagna il politico è una natura dove la fortuna, il caso, l’alea giocano un ruolo
ineliminabile. La “virtù” politica consisteva allora nel misurarsi con la strapotenza di questo
elemento, governandolo con astuzia (metis) e resilienza. Il politico è tale proprio perché depone
l’illusione “umana, troppo umana” di poter disporre della potenza degli elementi naturali, che invece
ha rappresentato il sogno metafisico dell’umanità “moderna”, quell’umanità che ha pensato il
rapporto con la natura nei termini di una guerra dello spirito contro la materia bruta. Primato del

126
politico significa governo della natura non dominio. E bisogna aggiungere, per chiarire la natura tutta
“politica” di questo governo, quella formula così cara a Platone: kata dynamin, per quanto è possibile
a un mortale. Ebbene, non c’è dubbio che è proprio l’ipotesi del dominio a venire ridicolizzata da un
colpo di tosse a Wuhan ed è all’intelligenza pragmatica del pilota che si fa appello per governare, per
quanto è possibile, la spontaneità di un processo che si fa in barba alle nostre intenzioni. Covid 19 ha
anche questa virtù: richiama la politica alla sua specifica responsabilità, le riconsegna quel primato
che aveva illusoriamente lasciato ad altre istanze sovrane, alle quali si era subordinata, dichiarando
la propria impotenza e accontentandosi di svolgere un ruolo esclusivamente tecnico. Dopo Wuhan,
invece, l’agenda non può che essere fissata da una politica che deve “barcamenarsi” (la virtù politica
era detta “cibernetica” dai greci, vale a dire nautica) nel mare in tempesta di un contagio progressivo
e apparentemente inarrestabile. Tant’è che ciò che fino a poche settimane sembrava solo una
irrealistica pretesa, è divenuto una sorta di parola d’ordine. La politica, si dice, deve avere la priorità
sull’economia. È questa che si deve piegare alle esigenze del Principe che ha cuore il destino del suo
equipaggio.
Il virus, infine, dispone alla meditazione. Non credo però che l’oggetto di questa meditazione sia la
contingenza dell’esistenza e la precarietà delle cose umane. Non abbiamo certo bisogno del Covid 19
per riflettere sulla nostra fragilità. Questa angoscia non ci ha mai veramente abbandonato (checché
ne dicano i giornalisti che dagli studi televisivi pontificano sul fatto che, grazie al virus, un’umanità
istupidita dai media, cioè da loro, avrebbe finalmente “riscoperto” la sua ontologica insicurezza). Il
virus declina piuttosto l’esistenza, la nostra come quella di tutti gli altri, nel modo del “destino”.
Improvvisamente ci siamo sentiti trascinati da qualcosa di strapotente, che si fa nel silenzio degli
organi, ignorando la nostra volontà. La libertà è così compromessa? Si deve avere una ben mediocre
idea della libertà per pensare che essa confligga con la fatalità dell’accadere. Tra le virtù del virus
bisogna annoverare la sua capacità di generare una idea più sobria di libertà: la libertà che si realizza
nel fare qualcosa di ciò che il destino fa di noi. Essere liberi è fare ciò che, nella situazione, si deve
fare. Non è una astrazione da filosofi, questa. La vediamo incarnata nell’operosità, nella serietà, nella
dedizione con cui migliaia di persone lavorano quotidianamente per rallentare il contagio.

127
Divya Dwivedi e Shaj Mohan - The Community of the Forsaken: A Response to Agamben and
Nancy
[8 Marzo 2020 – PositionsPolitics]

Per molto tempo l’India è stata un paese ricco di gente eccezionale, il che ha svuotato di significato
il concetto di ‘stato di eccezione’ o quello della sua ‘estensione’. I bramini sono eccezionali perché
solo loro possono presiedere ai rituali che regolano l’ordine sociale e perché non possono essere
toccati (meno che mai desiderati) da coloro che appartengono alle caste inferiori per tema di minare
la purezza del rituale. In tempi moderni, in alcuni casi, questo prevede servizi igienici separati per
loro. A loro volta anche i Dalit, le persone delle caste più basse, non possono essere toccate, e
tantomeno desiderate, dalle caste superiori perché ritenute le più ‘impure’. Come si può notare,
l’eccezione del bramino è diversa dall’esclusione del Dalit. Una delle caste dei Dalit chiamata ‘paria’
è diventata nell’opera di Arendt un ‘paradigma’, illuminandone tristemente la realtà di sofferenza.
Nel 1896, quando la peste bubbonica arrivò a Bombay, l’amministrazione coloniale britannica cercò
di contrastare il diffondersi della malattia con l’emanazione dell’Epidemic Diseases Act (legge sulle
malattie epidemiche) del 1897. Ma le barriere tra le caste, tra cui la richiesta da parte delle caste più
alte di ospedali separati e il rifiuto di ricevere assistenza medica da persone di caste inferiori
appartenenti al personale medico, andarono a sommarsi alle cause di morte per più di dieci milioni di
indiani.
La diffusione del coronavirus[1], che ha infettato più di 100.000 persone a quanto dicono le cifre
ufficiali, porta allo scoperto la domanda che oggi ci poniamo su noi stessi – Vale la pena di salvarci,
e a quale costo? Ci sono da un lato le teorie complottistiche, che vanno dalle ‘armi biologiche’ a un
presunto progetto globale di frenare le ondate migratorie. Dall’altro, ci sono fastidiosi equivoci, dalla
convinzione che il COVID-19 si propaghi attraverso la birra Corona, alle notazioni razziste sui cinesi.
Ma ancora più preoccupante è che, in questa con-giuntura di morte di dio e di nascita del dio
meccanico, perdura una crisi che riguarda direttamente il ‘valore’ dell’uomo. Si vede nelle reazioni
alla crisi climatica, nell’‘esuberanza’ tecnologica, e nel coronavirus.
Prima l’uomo si conquistava il proprio valore tramite svariate teo-tecnologie. Per esempio, ci si
poteva immaginare che creatore e creatura fossero la determinazione di qualcosa di precedente, per
esempio “l’essere”, dove il primo si dava come infinito e il secondo come finito. In una divisione di
questo tipo, si poteva pensare a dio come uomo infinito e all’uomo come dio finito. Nel nome
dell’uomo infinito gli dei finiti eleggevano i loro scopi. Oggi, deleghiamo la determinazione degli
scopi alla macchina, quindi il suo ambito a questo punto si può definire tecno-teologico.

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È in questa congiuntura particolare che vanno considerate le recenti osservazioni di Giorgio
Agamben, secondo il quale le misure di contenimento contro il COVID-19 vengono impiegate come
un’“eccezione” volta a permettere un incredibile ampliamento dei poteri dei governi nell’imporre
restrizioni straordinarie alle nostre libertà. Cioè, le misure adottate, con notevole ritardo, dalla
maggior parte degli stati per prevenire la diffusione di un virus che potenzialmente può uccidere
almeno 1% della popolazione, potrebbero condurre al livello successivo di “eccezione”. Agamben ci
chiede di scegliere tra “l’eccezione” e l’ordinario benché la cosa che lo preoccupi sia che l’eccezione
diventi la regola.[2] Jean-Luc Nancy ha in seguito risposto a questa obiezione osservando che oggi ci
sono solo eccezioni, vale a dire, tutto quello che un tempo consideravamo ordinario è ormai
infranto.[3] Nel suo ultimo saggio, Deleuze si riferiva a ciò che ci interpella alla fine di tutti i giochi
tra ordinarietà ed eccezioni come a “una vita”[4]; ovvero che si è afferrati dalla responsabilità quando
ci si confronta con una vita individuale che è nella presa della morte. Morte e responsabilità vanno
insieme.
Occupiamoci allora della non-eccezionalità delle eccezioni. Fino alla fine del 1800, negli ospedali
molte donne incinte dopo aver partorito morivano di febbre puerperale o di infezioni post-parto. A
un certo punto, un medico ungherese, Ignác Semmelweis, si rese conto che ciò succedeva perché le
mani degli operatori sanitari veicolavano agenti patogeni passando da un’autopsia a un paziente, o
dall’utero di una donna a un’altra, provocando così infezioni e morte. La soluzione proposta da
Semmelweis fu di lavarsi le mani dopo ogni contatto. Per questa ragione fu trattato come
un’eccezione e messo al bando dalla comunità medica. Morì di setticemia in manicomio, pare
contratta dopo essere stato bastonato dalle guardie. In realtà, i sensi delle eccezioni sono infiniti. Nel
caso di Semmelweis, la tecnica stessa per combattere le infezioni rappresentava l’eccezione. Nella
Politica, Aristotele ha parlato del caso dell’uomo eccezionale, come di colui che sa cantare meglio
del coro, che viene messo al bando in quanto dio tra uomini.
Non c’è un unico paradigma per l’eccezione. La via di una patologia microbica è diversa di quella di
un’altra. Per esempio, gli stafilococchi vivono all’interno del corpo umano senza arrecare difficoltà,
anche se scatenano infezioni quando la risposta del nostro sistema immunitario è “eccessiva”. Al
punto estremo dei rapporti non-patogeni, i cloroplasti nelle cellule vegetali e i mitocondri nelle cellule
del nostro corpo rappresentano delle convivenze antiche e ben assorbite tra specie differenti. In
particolare, virus e batteri non ‘intendono’ uccidere il loro ospite, perché non è sempre nel loro
‘interesse’[5] distruggere l’unico tramite che gli permette di sopravvivere. Sul lungo termine – milioni
di anni di tempo della natura – “tutte le cose imparano a vivere insieme” o per lo meno raggiungono
un equilibrio reciproco per lunghi periodi. Questo è il senso che ha il biologo della temporalità della
natura.

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In anni recenti, in parte in seguito a pratiche agricole, microrganismi che vivevano in modo
indipendente l’uno dall’altro si sono uniti e hanno cominciato a scambiarsi materiale genetico, a volte
solo frammenti di DNA e RNA. Quando questi organismi hanno fatto il “salto” e sono passati agli
esseri umani, a volte per noi sono cominciati disastri. Il nostro sistema immunitario percepisce questi
nuovi arrivati come uno shock e, sopravvalutandone le risorse, induce infiammazioni e febbre che
spesso uccidono noi e anche i microrganismi. Etimologicamente il “virus”[6] è legato al veleno. È un
veleno nel senso che quando un nuovo virus trova una soluzione negoziata con gli animali umani, noi
siamo già morti da un pezzo. Ossia, ogni cosa può essere considerata secondo il modello del
pharmakon (che è sia veleno che cura) se ci basiamo sul tempo della natura. Ma la distinzione tra
farmaco e veleno per lo più riguarda il tempo dell’uomo, l’animale meraviglioso. Ciò che si definisce
‘biopolitico’ prende posizione partendo dal presupposto di una temporalità della natura, e di
conseguenza trascura quello che è un disastro nell’ottica del nostro interesse in – la nostra
responsabilità per – “una vita”, cioè la vita di tutti coloro che rischiano di morire per aver contratto il
virus.
Qui sta il nocciolo della questione: siamo stati in grado di determinare gli ‘interessi’ del nostro sistema
immunitario dando luogo a eccezioni in natura, per esempio attraverso il metodo di Semmelweis di
lavarsi le mani e attraverso le vaccinazioni. Siamo una specie animale che non ha epoche biologiche
a sua disposizione per poter perfezionare ogni intervento. Per cui, anche noi, come la natura,
commettiamo errori di codifica e generiamo mutazioni in natura, rispondendo a ogni necessità nei
modi migliori che possiamo. Come ha fatto notare Nancy, l’uomo come eccezionale artefice di
tecnologie e meraviglioso a sé stesso, fu pensato molto tempo fa da Sofocle nella sua ode all’uomo.
Analogamente, diversamente dal tempo della natura, gli esseri umani si preoccupano di questo
momento, che deve condurre al successivo con la sensazione che noi siamo gli abbandonati: coloro
che sono condannati a chiedere “il perché” del loro esistere ma senza avere i mezzi per chiedere. O,
come precisava Nancy in una lettera privata, ‘abbandonati da nulla’. Il potere di questo “essere
abbandonati” è diverso dagli abbandoni rappresentati dall’assenza di cose particolari le une rispetto
alle altre. Questo essere abbandonati esige, come abbiamo visto in Deleuze, che ci si prenda cura di
ogni vita in quanto preziosa, pur sapendo al contempo che nelle comunità degli abbandonati possiamo
sperimentare la chiamata della vita individuale abbandonata di cui noi soli possiamo prenderci cura.
Altrove abbiamo chiamato l’esperienza di questa chiamata dell’abbandonato, e la possibile nascita
della sua comunità dalla metafisica e l’ipofisica, ‘anastasis’[7].

[1] Per pura coincidenza, il nome del virus è ‘corona’, la metonimia della sovranità.

130
[2] Il che ovviamente è stato percepito come una non-scelta da quasi tutti i governi dopo il 2001 per rendere
sicuri tutti i rapporti sociali in nome del terrorismo. La tendenza importante in questi casi è che la
securizzazione dello stato è proporzionata alla aziendalizzazione di quasi tutte le funzioni dello stato.
[3] Si veda, Jean-Luc Nancy, L’intruso, Cronopio, 2005.
[4] Si veda, Gilles Deleuze, Immanenza: una vita, Mimesis, 2010.
[5] È assurdo attribuire un interesse a un micro-organismo, e i chiarimenti a questo proposito potrebbero
occupare più spazio di quanto concesso per questo intervento. Oggi è altrettanto impossibile determinare
l’“interesse dell’uomo”
[6] Da notare che i “virus” esistono sulla linea critica tra vivente e non-vivente.
[7] Shaj Mohan, Divya Dwivedi, Gandhi and Philosophy: On Theological Anti-Politics, prefazione di J.-L.
Nancy, Londra, 2019.

India has for long been full of exceptional peoples, making meaningless the notion of “state of exception” or of
“extending” it. Brahmins are exceptional for they alone can command the rituals that run the social order and they
cannot be touched by the lower caste peoples (let alone desired) for fear of ritualistic pollution. In modern times this
involves separate public toilets for them, in some instances. The Dalits, the lowest castes peoples too cannot be touched
by the upper castes, let alone desired, because they are considered the most ‘polluting’. As we can see, the exception of
the Brahmin is unlike the exclusion of the Dalit. One of the Dalit castes named “Pariah” was turned into a ‘paradigm’
by Arendt, which unfortunately lightened the reality of their suffering. In 1896, when the bubonic plague entered Bombay,
the British colonial administration tried to combat the spread of the disease using the Epidemic Diseases Act of 1897.
However, caste barriers, including the demand by the upper castes to have separate hospitals and their refusal to receive
medical assistance from the lower caste peoples among the medical personnel, added to causes of the deaths of more
than ten million people in India. The spread of coronavirus[1], which has infected more than 100,000 people according
to official figures, reveals what we wonder about ourselves today—are we worth saving, and at what cost? On the one
hand there are the conspiracy theories which include “bioweapons” and a global project to bring down migration. On
the other hand, there are troublesome misunderstandings, including the belief that COVID-19 is something propagated
through “corona beer”, and the racist commentaries on the Chinese people. But of an even greater concern is that, at
this con-juncture of the death of god and birth of mechanical god, we have been persisting in a crisis about the “worth”
of man. It can be seen in the responses to the crises of climate, technological ‘exuberance’, and coronavirus. Earlier,
man gained his worth through various theo-technologies. For example, one could imagine that the creator and creature
were the determinations of something prior, say “being”, where the former was infinite and the latter finite. In such a
division one could think of god as the infinite man and man as the finite god. In the name of the infinite man the finite
gods gave the ends to themselves. Today, we are entrusting the machine with the determination of ends, so that its domain
can be called techno-theology. It is in this peculiar con-juncture that one must consider Giorgio Agamben’s recent remark
that the containment measures against COVID-19 are being used as an “exception” to allow an extraordinary expansion
of the governmental powers of imposing extraordinary restrictions on our freedoms. That is, the measures taken by most
states and at considerable delay, to prevent the spread of a virus that can potentially kill at least one percent of the human
population, could implement the next level of “exception”. Agamben asks us to choose between “the exception” and the
regular while his concern is with the regularization of exception.[2] Jean-Luc Nancy has since responded to this objection
by observing that there are only exceptions today, that is, everything we once considered regular is broken-through[1].

131
Deleuze in his final text would refer to that which calls to us at the end of all the games of regularities and exceptions as
“a life”;[4] that is, one is seized by responsibility when one is confronted with an individual life which is in the seizure
of death. Death and responsibility go together. Then let us attend to the non-exceptionality of exceptions. Until the late
1800s, pregnant women admitted in hospitals tended to die in large numbers after giving birth due to puerperal fever, or
post-partum infections. At a certain moment, an Austrian physician named Ignaz Semmelweis realized that it was because
the hands of medical workers carried pathogens from one autopsy to the next patient, or from one woman’s womb to the
next’s, causing infections and death. The solution proposed by Semmelweis was to wash hands after each contact. For
this he was treated as an exception and ostracized by the medical community. He died in a mental asylum suffering from
septicemia, which resulted possibly from the beating of the guards. Indeed, there are unending senses of exceptions. In
Semmelweis’ case, the very technique for combating infection was the exception. In Politics, Aristotle discussed the case
of the exceptional man, such as the one who could sing better than the chorus, who would be ostracized for being a god
amongst men. There is not one paradigm of exception. The pathway of one microbial pathology is different from that of
another. For example, the staphylococci live within human bodies without causing any difficulties, although they trigger
infections when our immune system response is “excessive”. At the extreme of non-pathological relations, the
chloroplasts in plant cells and the mitochondria in the cells of our bodies are ancient, well-settled cohabitations between
different species. Above all, viruses and bacteria do not “intend” to kill their host, for it is not always in their “interest”[5]
to destroy that through which alone they could survive. In the long term—of millions of years of nature’s time—
”everything learns to live with each other”, or at least obtain equilibria with one another for long periods. This is the
biologist’s sense of nature’s temporality. In recent years, due in part to farming practices, micro-organisms which used
to live apart came together and started exchanging genetic material, sometimes just fragments of DNA and RNA. When
these organisms made the “jump” to human beings, disasters sometimes began for us. Our immune systems find these
new entrants shocking and then tend to overplay their resources by developing inflammations and fevers which often kill
both us and the micro-organisms. Etymologically “virus”[6] is related to poison. It is poison in the sense that by the time
a certain new virus finds a negotiated settlement with human animals we will be long gone. That is, everything can be
thought in the model of the “pharmakon” (both poison and cure) if we take nature’s time. However, the distinction
between medicine and poison in most instances pertains to the time of humans, the uncanny animal. What is termed
“biopolitics” takes a stand from the assumption of the nature’s temporality, and thus neglects what is disaster in the view
of our interest in – our responsibility for – “a life”, that is, the lives of everyone in danger of dying from contracting the
virus. Here lies the crux of the problem: we have been able to determine the “interests” of our immune systems by
constituting exceptions in nature, including through the Semmelweis method of hand washing and vaccinations. Our kind
of animal does not have biological epochs at its disposal in order to perfect each intervention. Hence, we too, like nature,
make coding errors and mutations in nature, responding to each and every exigency in ways we best can. As Nancy noted,
man as this technical-exception-maker who is uncanny to himself was thought from very early on by Sophocles in his ode
to man. Correspondingly, unlike nature’s time, humans are concerned with this moment, which must be led to the next
moment with the feeling that we are the forsaken: those who are cursed to ask after “the why” of their being but without
having the means to ask it. Or, as Nancy qualified it in a personal correspondence, “forsaken by nothing”. The power of
this “forsakenness” is unlike the abandonments constituted by the absence of particular things with respect to each other.
This forsakenness demands, as we found with Deleuze, that we attend to each life as precious, while knowing at the same
time that in the communities of the forsaken we can experience the call of the forsaken individual life which we alone can
attend to. Elsewhere, we have called the experience of this call of the forsaken, and the possible emergence of its
community from out of metaphysics and hypophysics, “anastasis”.[7]

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[1] Coincidently, the name of the virus ‘corona’ means ‘crown’, the metonym of sovereignty.
[2] Which of course has been perceived as a non-choice by most governments since 2001 in order to securitize all social
relations in the name of terrorism. The tendency notable in these cases is that the securitization of the state is
proportionate to corporatization of nearly all state functions.
[3] See L’Intrus, Jean-Luc Nancy, Paris: Galilée, 2000.
[4] See “L’immanence: une vie”, Gilles Deleuze, in Philosophie 47 (1995).
[5] It is ridiculous to attribute an interest to a micro-organism, and the clarifications could take much more space than
this intervention allows. At the same time, today it is impossible to determine the “interest of man”.
[6] We should note that “viruses” exist on the critical line between living and non-living.
[7] In Gandhi and Philosophy: On Theological Anti-Politics, Shaj Mohan and Divya Dwivedi, foreword by Jean-Luc
Nancy, London: Bloomsbury Academic, 2019.

Elettra Stimilli - Essere in comune a distanza


[9 Marzo 2020 – Antinomie.it]

Erriamo. In cerca di errori erriamo. Senza farla finita. Smarriti smarrite di fronte a un potentissimo
invisibile nemico. Ma è un nemico? E la nostra può essere una battaglia senza che guerra sia mai stata
dichiarata?
Quali le parole giuste?
Decreti su decreti continuano a essere emanati nel tentativo di far fronte a una situazione sempre più
urgente e grave. Decreti di emergenza, per una condizione fuori dalle regole ordinarie. Decreti che
cercano di arginare quanto appare totalmente fuori controllo.
Si cerca forse di controllare anche i minimi dettagli? Perché i dettagli sono importanti… C’è persino
chi dice che il buon Dio si nasconda nei dettagli.
Una cosa è ormai certa. Un’analisi adeguata non può servirsi solo di quanto credevamo di sapere.
Servono parole nuove …
Nuda è forse la vita colpita? Nude sono le vite degli abitanti di questo pianeta in tumulto?
Viviamo i nostri corpi come oggetti di angoscia, denudati difronte al prevalere della loro eccezionale
rilevanza. Corpi non solo vettori di epidemie. Ma anche mezzi che veicolano ciò che siamo. Mezzi di
comunicazione. Sintomi del nostro essere comune, contorni di epidermidi sensibili ed esposte, volti
a proteggerci e a concederci contatti. Possibili forme differenti di ciò che abbiamo respirato, appreso,
memorizzato, dimenticato, sognato… Mai solo singolarmente – è impossibile. Ma sempre in comune.

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Comune che non è mai ammasso, mescolanza, con-fusione. Mai unisono. Sicuramente mai quando si
coglie finalmente la sua potenza. La separazione e la distanza sono sue custodi. Custodi di relazioni
che non si temono, proprio perché messe alla prova.
Inutile tentare di ipotizzare forme di vita irrelate, teorizzare vite senza relazioni.
E inutile prendersela con la teoria quando qualcuno inciampa. L’astrazione è sempre reale. È una
delle forme più sublimi che il corpo assume, di cui ha bisogno.
Essere in comune a distanza è l’esercizio che rende possibile inventare nuove parole, nuove pose,
nuovi orizzonti. Infondo qualcosa sta già accadendo. Ma si tratta di un esercizio che ha bisogno di
molta pazienza.
Un esercizio che molte donne hanno sperimentato sulla propria pelle nei secoli, nelle loro case.
Riscopriremo la centralità della condizione domestica. Avremo la possibilità di scoprire finalmente
le sue potenzialità politiche di cui il privato non è privo. Con i corpi, il cui uso credevamo di conoscere
e che, se saremo docili e sapremo prestare l’attenzione adeguata, ci porteranno laddove non siamo
ancora mai stati.
È un’occasione. Non lasciamola andare.

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Marco Revelli - Siamo arrivati a una sorta di ground zero


Decreto Coronavirus. In medio stat virus, vien da dire. Nel senso che è quello il microscopico luogo geometrico in cui
precipitano e si rivelano tutte le linee di crisi del nostro tempo
[10 Marzo 2020 – il Manifesto]

Alla velocità della luce siamo arrivati a una sorta di ground zero. La decisione del governo di
trasformare l’intero Paese in un’unica, grande «zona rossa» – di arrestare così la vita sociale ed
economica per salvare la vita biologica – ne è l’emblema.
Nell’arco di meno di una settimana il mondo consueto in cui vivevamo si è rovesciato, e siamo
regrediti, d’un balzo, a un grado zero non solo dell’attività – dei movimenti, del lavoro, della
produttività – ma della relazionalità. E anche, vogliamo dirlo? della civiltà. È quanto accade quando
repentinamente la politica si rivela come bio-politica. E più che le regole umanizzate della Polis
valgono quelle elementari della sopravvivenza, del Bios.
IL FATTO CHE il provvedimento preso appaia al tempo stesso terribile e ragionevole – un ossimoro
– ci dice quanto a fondo in effetti il male sia arrivato a toccarci «nell’osso e nella carne» (per usare le
parole che nel libro di Giobbe il satana rivolge a dio), polverizzando d’un colpo ogni nostra

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consolidata abitudine. Ogni precedente «pensato» orientato alla convivenza civile in un «sistema
sociale», travolto dalle nuove – pre-umane, dis-umane – regole dei «sistemi viventi».
Il documento pubblicato pochi giorni fa (il 6 marzo) dalla Società degli anestesisti e rianimatori col
titolo di per sé inquietante, «Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi
e per la loro sospensione in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili», è
da questo punto di vista esemplare. I medici impegnati in prima linea ci dicono, in poche parole, che
«può rendersi necessario porre un limite di età all’ingresso in terapia intensiva».
IN PRESENZA di un afflusso superiore alle possibilità di ricovero la selezione tra chi salvare e chi
no avverrà con criteri anagrafici e biologici, anziché in base al puro (e casuale) ordine di arrivo (first
come, first served). «Non si tratta di compiere scelte meramente di valore – precisano – ma di
riservare risorse che potrebbero essere scarsissime a chi ha in primis più probabilità di sopravvivenza
e secondariamente a chi può avere più anni di vita salvata, in un’ottica di massimizzazione dei
benefici per il maggior numero di persone». Lo mettono nero su bianco per venire in soccorso alla
disperazione etica di chi, sul terreno, è chiamato a scegliere tra «sommersi e salvati». Per non farlo
sentire solo di fronte a una responsabilità «dis-umana». E lo fanno evocando l’«etica delle catastrofi»
e, appunto, principii da stato d’eccezione, consapevoli degli scenari d’altri tempi che quel pensato
fino a ieri impensabile può evocare (per la mia generazione è inevitabile rivedere sullo sfondo del
nostro triage la rampa di Auschwitz dove avveniva appunto l’erste Auswahl, l’orrenda «prima
selezione» in base alle condizioni fisiche e anagrafiche dei nuovi arrivati per «decidere» se mandarli
ai forni o al lavoro). Per tutte queste ragioni quello resta un documento umanissimo e disumano
insieme. Agghiacciante (per le sue implicazioni ultime) e comprensibile, per le sue ragioni immediate.
Per la terribile «forza delle cose» che lo muove.
È l’applicazione di un’impietosa «razionalità strumentale» (quella che impone di massimizzare i
risultati con le risorse disponibili) a una realtà che riduce la pietà a un lusso che non ci si può (più)
permettere. Merita – voglio sottolinearlo – il massimo rispetto, per le caratteristiche di chi l’ha redatto
e di coloro cui è diretto: le persone che per professione operano in prima linea, quotidianamente, con
rischio, sul fronte estremo della vita e della morte. Su di loro ogni giudizio critico sarebbe ingiusto.
SE UN’OSSERVAZIONE mi permetterei di fare, invece, non è tanto su quanto il documento dice,
ma su quanto non dice. In esso lo «squilibrio tra necessità e risorse disponibili» è dato come un
presupposto di fatto. Una sorta di dato di natura, come il virus in fondo. Così però non è. Se i posti in
rianimazione sono scarsi, è perché qualcuno (decisori pubblici, politici di governo, poteri economici
nazionali e internazionali, opinion leaders, operatori dell’informazione) ha deciso così per anni. Se in
Italia ne abbiamo 5.000 di contro ai 28.000 della Germania e agli oltre 20.000 della Francia, è in
conseguenza di scelte: quelle che hanno portato in dieci anni a negare 35 miliardi dovuti alla Sanità

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e a tagliare 70.000 posti letto. Se i nostri rianimatori sono costretti ad affrontare «dilemmi mortali» è
perché altri, sopra di loro, o intorno a loro, hanno determinato la scarsità che obbliga e rende feroce
la selezione. Questo dovrebbe concludere un’osservazione razionale che si sollevasse al di sopra del
campo «professionale» e giudicasse con uno sguardo «generale» o, appunto, «generalmente umano».
In questa luce anche il virus probabilmente si «umanizzerebbe». Non nel senso di diventare meno
feroce. Ma di rivelare quella specifica ferocia tipica di noi «ultimi uomini». Di offrire davvero, come
aveva intuito Susan Sontag, la malattia come metafora di una condizione umana e sociale. In fondo,
la sua logica selettivamente darwiniana in base alle chances di sopravvivenza, non è la stessa che
almeno un paio di decenni di egemonia neoliberista ci hanno inculcato con il principio di prestazione,
dichiarando inutili gli improduttivi (i «vecchi», in primis) e meritevoli i vincenti?
L’ISOLAMENTO cui ci obbliga, la rottura dei legami che impone come autodifesa, non è il
programma thatcheriano della cancellazione della società in nome dell’individualismo estremo fatto
codice genetico? Lo stesso crollo dei mercati finanziari sotto l’urto del morbo e della paura, non è il
segno di quella fragilità strutturale del finanz-capitalismo a suo tempo denunciata dai pochi «gufi»?
In medio stat virus, vien da dire. Nel senso che è quello il microscopico luogo geometrico in cui
precipitano e si rivelano tutte le linee di crisi del nostro tempo.
Quando tutto questo sarà finito, dovremo ben ripensare l’intero nostro universo di senso, a cominciare
dall’insostenibilità del dispositivo egemonico che sembrava fino a ieri immortale. E per farlo servirà
anche a noi un cambiamento, radicale, di sguardo, linguaggio, categorie e progetto.

Giorgio Agamben - Contagio


[11 Marzo 2020 – Quodlibet.it]

L’untore! dagli! dagli! dagli all’untore!


Alessandro Manzoni, I promessi sposi

Una delle conseguenze più disumane del panico che si cerca con ogni mezzo di diffondere in Italia in
occasione della cosiddetta epidemia del corona virus è nella stessa idea di contagio, che è alla base
delle eccezionali misure di emergenza adottate dal governo. L’idea, che era estranea alla medicina
ippocratica, ha il suo primo inconsapevole precursore durante le pestilenze che fra il 1500 e il 1600
devastano alcune città italiane. Si tratta della figura dell’untore, immortalata da Manzoni tanto nel

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suo romanzo che nel saggio sulla Storia della colonna infame. Una “grida” milanese per la peste del
1576 li descrive in questo modo, invitando i cittadini a denunciarli:
«Essendo venuto a notizia del governatore che alcune persone con fioco zelo di carità e per mettere
terrore e spavento al popolo ed agli abitatori di questa città di Milano, e per eccitarli a qualche tumulto,
vanno ungendo con onti, che dicono pestiferi e contagiosi, le porte e i catenacci delle case e le
cantonate delle contrade di detta città e altri luoghi dello Stato, sotto pretesto di portare la peste al
privato ed al pubblico, dal che risultano molti inconvenienti, e non poca alterazione tra le genti,
maggiormente a quei che facilmente si persuadono a credere tali cose, si fa intendere per parte sua a
ciascuna persona di qual si voglia qualità, stato, grado e conditione, che nel termine di quaranta giorni
metterà in chiaro la persona o persone ch'hanno favorito, aiutato, o saputo di tale insolenza, se gli
daranno cinquecento scuti…»
Fatte le debite differenze, le recenti disposizioni (prese dal governo con dei decreti che ci piacerebbe
sperare – ma è un’illusione – che non fossero confermati dal parlamento in leggi nei termini previsti)
trasformano di fatto ogni individuo in un potenziale untore, esattamente come quelle sul terrorismo
consideravano di fatto e di diritto ogni cittadino come un terrorista in potenza. L’analogia è così chiara
che il potenziale untore che non si attiene alle prescrizioni è punito con la prigione. Particolarmente
invisa è la figura del portatore sano o precoce, che contagia una molteplicità di individui senza che ci
si possa difendere da lui, come ci si poteva difendere dall’untore.
Ancora più tristi delle limitazioni delle libertà implicite nelle disposizioni è, a mio avviso, la
degenerazione dei rapporti fra gli uomini che esse possono produrre. L’altro uomo, chiunque egli sia,
anche una persona cara, non dev’essere né avvicinato né toccato e occorre anzi mettere fra noi e lui
una distanza che secondo alcuni è di un metro, ma secondo gli ultimi suggerimenti dei cosiddetti
esperti dovrebbe essere di 4,5 metri (interessanti quei cinquanta centimetri!). Il nostro prossimo è
stato abolito. È possibile, data l’inconsistenza etica dei nostri governanti, che queste disposizioni
siano dettate in chi le ha prese dalla stessa paura che esse intendono provocare, ma è difficile non
pensare che la situazione che esse creano è esattamente quella che chi ci governa ha più volte cercato
di realizzare: che si chiudano una buona volta le università e le scuole e si facciano lezioni solo on
line, che si smetta di riunirsi e di parlare per ragioni politiche o culturali e ci si scambino soltanto
messaggi digitali, che ovunque è possibile le macchine sostituiscano ogni contatto – ogni contagio –
fra gli esseri umani.

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Massimo De Carolis - La minaccia del contagio
[11 Marzo 2020 – Quodlibet.it]

Ora che la tempesta mediatica sul coronavirus comincia a placarsi, lasciando trasparire almeno
qualche dato ragionevolmente certo, mentre l’intero territorio nazionale è sottoposto a un regime di
eccezionalità mai sperimentato fino ad ora, si può forse azzardare qualche considerazione
sull’intreccio tra il piano biologico e quello politico dell’emergenza in corso, senza temere di
mescolare i due livelli e di contribuire così alla confusione generale.
Il primo dato che non sembra contestabile è il ritmo esponenziale con cui aumentano ricoverati e
morti, raddoppiando di numero ogni due o tre giorni. Il contagio epidemico insomma non è
un’illusione, ma un dato reale, che potrebbe saturare le capacità del nostro sistema ospedaliero nel
giro di un paio di settimane, con conseguenze sociali drammatiche in regioni come la Campania o la
Sicilia, in cui l’assalto ai presidi sanitari è già un fenomeno frequente, per cause molto più futili.
Un dato invece molto più rassicurante, anche se non del tutto certo, è che il numero di persone che
hanno contratto il virus con sintomi lievi possa essere molto più alto di quanto risulti dai controlli
effettivi. È possibile insomma che il virus sia meno letale e il “picco” di riduzione dei contagi più
vicino di quanto si possa temere, come del resto confermano i dati positivi dalla Cina. Si può quindi
sperare che l’epidemia si esaurisca, alla fine, senza mietere i milioni di morti della spagnola o
dell’asiatica.
Ovviamente, la speranza è rafforzata dalla maggiore efficienza, rispetto al passato, delle tecnologie e
dei sistemi sanitari. Più difficile è, invece, misurare l’utilità effettiva delle misure politiche adottate.
L’impressione comunque è che si ispirino a un principio non privo di buonsenso. In astratto, se nelle
prossime tre settimane nessuno, in Italia, si avvicinasse mai a nessun altro (se, per assurdo, mogli e
mariti smettessero di dormire assieme, i genitori non accarezzassero più i figli e i medici non si
avvicinassero ai pazienti), il contagio diventerebbe impossibile e l’emergenza sparirebbe. Le misure
di governo sembrano avere lo scopo di avvicinarsi il più possibile a questo ideale. Il loro obiettivo è,
se non cancellare la vita sociale, quanto meno sospenderla fino a nuovo ordine, incanalando la
comunicazione nei meccanismi a distanza dei social network e dello smart working. Giusto o
sbagliato che sia, il ragionamento sembra condiviso dalla stragrande maggioranza della popolazione,
che si sta adattando alle nuove regole con zelo sorprendente. Forse non tutti si spingono a considerare
“criminali” e “irresponsabili” i ragazzi che, nonostante tutto, si riuniscono per festeggiare un
compleanno o gli anziani che si ostinano a bere il caffè al bar. Ma di certo, al momento, l’obbedienza
alle regole è rafforzata dalla riprovazione sociale che colpisce con severità i trasgressori. Esigere
perciò un’attenuazione o persino una revoca delle misure sarebbe, al momento, un esercizio futile e

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impopolare, tanto più che nessuno sembra disporre di ricette alternative. Resta il dato di fatto, però,
che si tratta di misure inquietanti, che polverizzano il legame sociale e impongono all’intera
popolazione un regime di solitudine e controllo poliziesco fin troppo simile alle esperienze più buie
del passato politico recente. La questione cruciale perciò è capire se si tratta davvero e solo di una
semplice parentesi, o se stiamo assistendo a una prova generale di quella che potrebbe diventare la
condizione di vita ordinaria nella società del prossimo futuro.
Il dubbio è giustificato dal fatto che la distruzione del legame sociale e l’ossessività del controllo in
nome della “salute pubblica” non nascono certo col coronavirus. È da almeno un secolo che i
meccanismi sociali moderni tendono a generare una società basata sull’isolamento, in cui la
spontaneità della vita sociale è percepita come un intralcio o persino una minaccia alla stabilità del
sistema. Il punto è che, in passato, il sistema produttivo non poteva fare a meno di corpi, voci e mani
che operassero assieme: poteva limitare e controllare la promiscuità ma non eliminarla del tutto. Oggi
invece possiamo, grazie alle meraviglie della tecnologia. Per la prima volta quindi, per quanto suoni
paradossale, la macchina che riproduce la società può disfarsi del tutto della socialità squisitamente
umana, senza pagare un prezzo troppo alto. Cosa ci garantisce, allora, che non si stia attrezzando a
questo passo? Per evitare malintesi, chiariamo subito che a sciogliere il dubbio non sarà in nessun
caso un complotto, una Spectre o una qualche personificazione più o meno occulta del Potere. I
fenomeni sociali non hanno una regia, ma sono il frutto di un numero indeterminato di forze e di
spinte indipendenti. Non ci sono burattinai, ma solo burattini che spingono il teatrino, ognuno a suo
modo, con più o meno forza, in una direzione o nell’altra, spesso a dispetto delle proprie intenzioni
consapevoli. Quando l’epidemia sarà finita, ci sarà sicuramente un ritorno festoso alla socialità, che
nessun governo democratico si sognerà di proibire. Di sicuro però molte aziende decideranno che il
ricorso allo smart working è in fondo conveniente, e chiederanno ai dipendenti di non smantellare le
postazioni di emergenza tirate su alla meglio in camera da letto. Molti benpensanti noteranno che la
chiusura dei locali di movida è un vantaggio per la sicurezza pubblica, purché non leda gli interessi
dei ristoratori e del turismo. E di sicuro molte forze politiche “identitarie” ci ricorderanno che i
contagi, in genere, allignano in particolar modo tra barboni e immigrati (anche se disgraziatamente
non in questo caso) e che la salute pubblica richiede un’igiene inflessibile. Più in generale, tutti noi
scopriremo che, in ultima analisi, non c’è vita sociale che non comporti un rischio di contagio, come
non c’è vita organica che non rischi la malattia e la morte. E ci troveremo perciò di fronte a un
interrogativo politico basilare: fino a che punto siamo disposti a mettere a repentaglio, sia pure in
forma minima, la nostra sicurezza biologica per cenare con un amico, per abbracciare un bambino o
semplicemente per chiacchierare con gli sfaccendati che tirano tardi in piazza? Dove collochiamo

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l’asticella a partire dalla quale la nostra felicità sociale diventa per noi prioritaria rispetto alla
salvaguardia della salute? E l’esistenza politica più importante della sopravvivenza biologica?
È un bene che il coronavirus ci costringa da un giorno all’altro a porci simili interrogativi, perché
dalla risposta che daremo nei fatti (e non solo a parole) potrebbe dipendere l’assetto della società
futura.

Marco Olivetti - Coronavirus. Così le norme contro il virus possono rievocare il «dictator»
L’emergenza per l’epidemia di Covid-19 impone provvedimenti eccezionali, ma la Costituzione non va in quarantena.
Servirà elaborare soluzioni più compatibili.
[11 Marzo 2020 – L’Avvenire]

In un momento di evidente emergenza, come quello causato dalla diffusione in Italia del nuovo
coronavirus, interrogarsi sulla compatibilità con la Costituzione delle misure sinora adottate dal
Governo potrebbe sembrare un lusso che non possiamo permetterci. Ma questo approccio al
problema, che forse istintivamente è inevitabile, equivarrebbe a mettere la Costituzione in quarantena,
muovendo dall’idea che essa vale per i tempi normali e non per quelli eccezionali. Un’idea, questa,
assai risalente, che potrebbe trovare la propria radice ultima nella Dittatura cui i romani facevano
ricorso in situazioni di pericolo per la Repubblica, introducendo in quel caso una figura giuridica – il
dictator, appunto – che per sei mesi sostituiva i consoli. Le Costituzioni scritte, dalla fine del
Settecento a oggi, hanno ripreso in vario modo questa idea, individuando organi e procedure per la
gestione delle situazioni di macro e di micro–emergenza: stati di guerra, stati di assedio, stati di
emergenza di vario tipo. In effetti, in tali fasi della vita civile, la forza della Costituzione si attenua,
ma nei tempi più recenti si tende sempre più a sottolineare che essa non viene meno, e opera invece
in modo diverso rispetto alle situazioni ordinarie. Le conseguenze principali sono due: una, che
attiene alla Costituzione dei diritti, consente la compressione dei diritti fondamentali (ma non, di
norma, la loro completa soppressione); l’altra, che concerne la Costituzione dei poteri, individua
organi e procedure appositi, diversi da quelli ordinari, per far fronte all’emergenza.
Il Governo italiano ha sinora fatto ricorso a due strumenti. Da un lato ha inquadrato la situazione di
emergenza generata dal nuovo coronavirus come un evento igienico–sanitario idoneo a far scattare
l’apparato della Protezione civile e ha dichiarato a tal fine lo stato di emergenza sanitaria. D’altro
lato, quando il virus ha investito direttamente e drammaticamente alcune parti del territorio italiano,
ha adottato un decreto legge (il n. 6 del 2020), che ha individuato una serie di interventi limitativi
delle libertà e di altri diritti fondamentali e ne ha rimesso l’attuazione a decreti del Presidente del

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Consiglio dei ministri. In questo quadro, tre dpcm (sigla che, appunto, indica i decreti del Presidente
del Consiglio) si sono susseguiti in pochi giorni, per far fronte all’emergenza.
Con il sistema attuale il Presidente del Consiglio viene di fatto abilitato a stabilire quali limitazioni
dei diritti fondamentali possono essere adottate. Uno schema che appare problematico Solo a crisi
terminata sarà possibile una valutazione sulla adeguatezza e sulla coerenza di queste misure,
considerate nel merito.
L’ultimo di essi, datato 9 marzo 2020, regola attualmente la materia richiamando ed estendendo
all’intero territorio nazionale quanto stabilito il giorno precedente, 8 marzo, per la Lombardia e alcune
province di Piemonte, Veneto, Emilia Romagna e Marche. Letti assieme al decreto legge 6 del 2020,
questi decreti hanno messo in campo la più intensa limitazione dei diritti fondamentali garantiti dalla
Costituzione dal momento in cui questa è in vigore, cioè da 72 anni a questa parte: non è solo limitata
la libertà di circolazione, ma anche quella di riunione, così come il diritto all’istruzione, il diritto al
lavoro e la libertà di iniziativa economica, nonché, almeno in parte la libertà di manifestazione del
pensiero, la libertà religiosa e la stessa libertà personale, pur con una serie di meccanismi di
flessibilizzazione dei divieti e delle prescrizioni che in taluni casi li riducono a mere raccomandazioni.
Solo a bocce ferme, vale a dire a emergenza superata, sarà possibile una valutazione sulla adeguatezza
e sulla coe- renza di queste misure, considerate nel merito. Ed è bene dire fin d’ora che una attenta
verifica tecnica dovrà essere compiuta, auspicabilmente da parte di una Commissione tecnica, che
sottoponga un rapporto al Parlamento e all’opinione pubblica. Nel frattempo, ci si può chiedere se le
procedure che il Governo ha deciso di seguire siano costituzionalmente corrette. L’Italia, infatti, a
differenza della Cina, che ha adottato misure ancor più drastiche nella provincia dell’Hubei, è uno
Stato costituzionale di diritto e non un regime totalitario, e anche quanto sta accadendo in questi giorni
non può sfuggire al limite costituzionale, anche se è inevitabile che ogni snodo del sistema
costituzionale sia messo in tensione in circostanze come quelle attuali, come del resto accade per la
vita dei cittadini.
Due osservazioni si impongono. La prima è che le basi costituzionali del sistema di disciplina
dell’emergenza regolato dalle norme sulla protezione civile sono fragili. Si tratta infatti di un sistema
cresciuto gradualmente nella legislazione ordinaria e riordinato con una riforma dei primi giorni del
2018. Tale sistema, in particolare, è del tutto privo di una fase parlamentare nell’esame della
dichiarazione dello stato di emergenza. Esso, inoltre, è stato applicato a una emergenza sanitaria
quantomeno stiracchiandone un po’ la portata, dato che le sue norme sono concepite per emergenze
di altro tipo (soprattutto calamità naturali). Esso, quindi, non individua i provvedimenti limitativi dei
diritti fondamentali e anche per questo il Governo è intervenuto con il decreto legge n. 6 del 2020.
Quanto a tale decreto legge, esso autorizza limitazioni assai invasive ai diritti fondamentali, ma lo fa

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in maniera generica, sicché tutte le regole sono delegificate, in quanto il loro contenuto è rimesso a
decreti del Presidente del Consiglio. Questi ultimi sono sottratti a qualsiasi controllo preventivo, dato
che non sono emanati dal Presidente della Repubblica (come decreti legge e regolamenti) e non sono
sottoposti a conversione in legge come i decreti legge e quindi non sono soggetti a esame
parlamentare. Il Presidente del Consiglio diventa quindi una specie di dictator, abilitato a stabilire
effettivamente quali limitazioni dei diritti fondamentali possono essere adottate. Questo schema
appare costituzionalmente problematico e ci si può chiedere se le esigenze di efficacia che hanno
spinto a disegnarlo non possano essere soddisfatte con soluzioni procedurali più compatibili con la
struttura costituzionale italiana.

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Mario Pezzella – Sarà un 8 Settembre?


[11 Marzo 2020 – leparoleelecose.it]

Il nostro primo ministro, citando Churchill, dice che stiamo attraversando l’“ora più buia”; speriamo
invece che non sia un nuovo 8 settembre. Voglio alludere al fatto che da una sensazione di
invulnerabilità dei corpi, di odio contro lo “straniero” e di identificazione col potere, si sta passando
– in brevissimo tempo e non si sa per quanto – a una condizione di radicale insicurezza ontologica e
politica, in cui tutti i parametri precedenti di comprensione e di riferimento sono sospesi e oscillanti.
Vedo che i filosofi discutono a proposito del contagio: è vero, è falso, è virtuale, è biopolitico, serve
a introdurre uno stato d’emergenza, no l’emergenza c’è già, bisogna confidare nella scienza, no la
scienza è una macchinazione, etc. È probabile che il paradigma biopolitico non spieghi interamente
il presente stato di cose. Il “governo dei corpi” sta lasciando il posto a un disordine reattivo della
natura, che pone in primo piano l’emergenza ecologica: la situazione attuale deriva dall’incapacità
crescente a governare in modo non autodistruttivo la vita biologica.
Ecologia non vuol dire idealizzazione della natura: la quale non è solo una madre benefica e
generativa, ma anche una forza “empia” (Leopardi), aorgica e dissolvente. Però sta a noi trovare un
ragionevole accordo con essa e potenziare l’uno o l’altro polo. La politica di dominio e il governo
della vita, come si è articolato nel neoliberismo, sta producendo la sua stessa autosospensione, il suo
interno dissolvimento, un’implosione: più che un potere emergenziale, i governanti europei stanno
esibendo la loro tragica incapacità nel contenere l’emergenza climatica, biologica e umanitaria,
prodotta dal dominio reale del capitale. L’immagine della folla impazzita che a Milano cerca di
prendere l’ultimo treno per il Sud per fuggire dalle restrizioni sanitarie (e diffondere ovunque il

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contagio) non suscita associazioni con lo stato d’eccezione o col governo disciplinare dei corpi; mi
ricorda piuttosto le fotografie degli sfollati e dei soldati in fuga dopo l’8 settembre del 1943, con un
governo incapace di prevedere le reazioni emotive ai suoi provvedimenti e alle sue scelte, e il panico
di un paese diffidente, opaco, umiliato, confuso e ottusamente egoista. Non dunque la rigidità di uno
stato d’eccezione, ma la decomposizione molecolare di un organismo che fino a pochi giorni prima
mascherava il suo interno sfasciume.
Più importante è capire lo stato d’animo che si sta diffondendo: e cioè la percezione acuta della
precarietà sociale ed esistenziale in cui siamo. Quando Heidegger scriveva in Essere e tempo di un
essere-per-la-morte e dell’angoscia come tonalità affettiva dominante, la sua generazione usciva dagli
anni della guerra mondiale e dell’epidemia di Spagnola. Heidegger negherebbe il nesso tra questi fatti
“ontici” e la sua riflessione “ontologica”, ma invece a me sembra impensabile separare drasticamente
le due cose. Diciamo che una circostanza “ontica” particolarmente acuta, critica e grave, può
costringere a portare l’attenzione anche sulla natura ontologica e antropologica del nostro essere. E
inoltre: mette a nudo la sostanza di una comunità, se è una società in grado di affrontare situazioni
estreme o se è invece così malata da rischiare di soccombere.
Nel 1926 Siegfried Kracauer (che nulla ha in comune con Heidegger e con la sua filosofia) fa
considerazioni analoghe nel suo libro sugli impiegati: “Meno essa [l’attività economica] è sicura del
suo proprio significato, più essa impedisce alla massa di chi lavora di rimetterlo in questione. Ma se
essi non possono perseguire uno scopo che abbia un senso, allora la fine ultima – la morte – perde
anch’essa di significato. La loro vita, che per meritare questo nome dovrebbe essere confrontata con
la morte, si fossilizza e ritorna indietro, verso la giovinezza: questa giovinezza da cui proviene diviene
il suo compimento perverso, perché un vero compimento è in effetti vietato”.
Più che di giovinezza (che era un topos degli anni Venti) oggi si dovrebbe parlare dell’infantilismo
eterno e spettrale della distrazione, della fantasmagoria del divertimento, del sempre libero degg’io,
dello sport negli stadi, delle palestre, degli apericena, dei Papeete da cui il Capitano escrementa i suoi
proclami, dei fascistelli e dei fascistoni, mascherati, ridesti o dormienti, simboli di un essere sociale
invaso e terrorizzato da Thanatos, che ha perso ogni senso dell’Eros, dell’amicizia e del legame. È il
capitalismo bello pronto per essere infornato nel fascismo, che devia le paure, fa da psicofarmaco
all’angoscia e scatena l’aggressività sull’estraneo innocente. Ciò che per Heidegger era la chiacchiera,
per Kracauer era la distrazione. La distrazione è la stupidità esistenziale diffusa che di fronte alla
morte, alla malattia, alla guerra, rende possibile solo due reazioni complementari, entrambe
inadeguate e scomposte: la negazione del pericolo, o il panico dinanzi alla sua ombra non più
rinviabile e minacciosa. Entrambe rivelano il primitivismo magico-arcaico in cui sta precipitando
l’inconscio sociale. I vescovi fiorentini hanno vietato di scambiarsi il segno della pace durante il rito

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della messa. A Lourdes hanno chiuso l’accesso alle acque miracolose. Giusti provvedimenti, per
carità, per un laico illuminista. Che però mettono a nudo spietatamente quanto la fede religiosa sia
diventata un gadget turistico, che non regge di fronte a uno stato di necessità. Si deve stare, per misura
igienica, ad almeno un metro di distanza l’uno dall’altro. Esiste una sincronia tra le malattie fisiche e
il male oscuro dell’animo di una società, come il primo Foucault, decisamente il più interessante, ha
mostrato nella Nascita della clinica. La distanza fredda che c’è in questo schifo di capitalismo tra i
nostri corpi e le nostre anime, ora si fisicizza e trova una rappresentazione prescrittiva. Viene a nudo
ciò che in effetti siamo da molto tempo. I “distanti” si aggirano circospetti nei centri commerciali, nei
duomi turistici, nei bar, sorvegliando attenti gli sputi e gli starnuti: e poi passano all’opposto e
pretendono apericena, ammucchiate campestri e abbuffate compensatorie. Ernst Jünger scrisse di
essersi accorto che il mondo stava cambiando quando – durante la prima guerra mondiale – in una
delle ultime cariche di cavalleria della storia, i prodi cavalieri furono falciati in pochi minuti dalle
mitragliatrici. Noi, che al solo vedere un fucile col tappo ci butteremmo in un fosso, ci accorgiamo di
essere letteralmente incapaci di affrontare razionalmente il pericolo. Così si chiudono le scuole, si
isolano le zone rosse e intanto la gente si accalca nei treni che portano in altre regioni prima che il
governo abbia il tempo di fermarli, diffondendo forse più virus in ventiquattr’ore che nel mese
precedente. Il governo dei corpi sembra sopraffatto dall’eterogenesi dei fini, lo stato d’eccezione dalla
teoria delle catastrofi. Un po’ come la prescrizione rigida a un malato di non bere vino, mentre quello
di notte si fa una bottiglia di whisky scozzese.
Fino a qualche tempo fa c’erano anche autorità sportive che proponevano di continuare a giocare le
partite di calcio a porte aperte. Com’è stata creata e alimentata questa regressione infantile della
coscienza? Poi, passata l’emergenza se passa, tutto ricomincia per un po’ come prima, fino al
prossimo urto collettivo e tutti ritornano – starei per dire festosamente – alle proprie patologie e ai
propri dolori abituali, e ai surrogati chimici e psichici con cui li si costringe a tirare avanti.
Se lo stato d’emergenza del contagio dovesse durare a lungo e se ad esso si sommassero altri fattori
di crisi, come l’arrivo in un’Europa ammalata di milioni di migranti siriani e una recessione
economica difficilmente reversibile, è anche possibile che il “nostro mondo” così come lo abbiamo
fino ad ora conosciuto, prenda termine: nella condotta di vita quotidiana, nello stato d’animo
dominante, nella politica. La capacità del capitale di produrre una “distruzione creatrice” o una
“innovazione distruttiva” potrebbe stavolta seriamente incrinarsi. Categorie come consumismo,
incremento del Pil, sviluppo e liberismo, potrebbero divenire incomprensibili come geroglifici
dell’età della pietra e un aut-aut ritenuto obsoleto – socialismo o barbarie – riacquistare una
improvvisa attualità. In ogni caso, la percezione oscura che il mondo sempre più asfittico in cui
abbiamo vissuto la nostra vita potrebbe ora finire è una delle radici dell’angoscia che si sta

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diffondendo come tonalità affettiva dominante. L’angoscia, ha scritto Freud, è cosa diversa dalla
paura ragionevole e determinata di fronte a un pericolo concreto. È una percezione generalizzata di
dissoluzione del reale, una crisi della presenza, come avrebbe detto Ernesto de Martino. Negazione
isterica o il panico che ne è l’inverso sono dunque i fenomeni secondari di questo sfondo inquietante.
Se poi veniamo alla politica è chiaro che l’alternativa tra una soluzione autoritaria della crisi e la
necessità di cambiare lo stesso modo di produzione diverrebbe lacerante. Cosa di più facile che
realizzare un colpo di stato in una situazione di angoscia ingestibile? Quale richiesta di autorità e di
Padri padroni potrebbe emergere dall’inconscio del collettivo?
Per la prima volta nella mia vita, ho la percezione che effettivamente il sistema neoliberista potrebbe
non reggere di fronte all’impatto congiunto delle tre forze: epidemia, crisi economica e crisi
migratoria (e la guerra o le guerre che le accompagnano).
Tra le premesse del nazismo c’è sicuramente – a leggere Benjamin e Kracauer – la stupidità o la
distrazione o la chiacchiera massiccia e diffusa nella Germania degli anni Venti e del suo primo aborto
di consumismo. La stupidità va presa sul serio, è forse lo stato d’animo che più ancora della violenza,
del risentimento e dell’umiliazione predispone al fascismo: o meglio è il loro necessario
complemento, perché li copre di un velo spesso di ignoranza e inconsapevolezza, così che possano
agire in modo primordiale e massificato. Il razzismo è stupido perché muta il male concreto in
pericolo immaginario, il nemico effettivo in un fantasma terrificante di alterità (che reincarna in forma
paranoica gli esseri umani). La stupidità è l’inverso della follia di Don Chisciotte: prende i mostri
reali per innocui mulini a vento. I grandi comici, tra cui vanno annoverati anche il Flaubert di Bouvard
et Pecuchet e Joyce con l’Ulisse, hanno sempre intuito il suo lato minaccioso e oscuro, la sua
predisposizione alla rovina e alla violenza.
Come potrebbe il nostro “popolo” – predisposto all’infantilismo e alla disgregazione psichica da
decenni di berlusconismo e dall’utopia cialtrona e ipocrita del neoliberismo europeo – reagire in modo
adulto alla situazione estrema in cui ci troviamo? Invece di affrontare il pericolo avremo la tentazione
di fuggire, come un bambino che ha paura del buio e a cui manca la mamma. E potremmo divenire
sensibili alle seduzioni di un capo, che ci prometta di riconquistare la nostra ebetudine attonita. Mi
aveva sorpreso una frase degli Impiegati di Kracauer, secondo cui un popolo che ha perduto la
consapevolezza della fragilità del corpo e della possibilità della morte, non è capace di alcuna
rivoluzione, ma solo di una sottomissione passiva. Non la capivo. Forse vuol dire che chi è in grado
di sopportare l’incertezza della vita ed è consapevole della sua finitezza, è anche capace di ribellarsi
quando il poco tempo che ci è concesso gli viene sottratto da un potere insensato. Invece, nella
distrazione ottusa, la fuga dalla morte è talmente caotica che si procede in fila ordinata verso il burrone
come i ciechi di Brueghel. Si può leggere su openonline del 7 marzo, a proposto di uno stato

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d’emergenza che per eterogenesi dei fini sfocia nel caos: “Una transumanza umana, di quelle che
bene si prestano a romanzi distopici o a film su cataclismi e sventure: si potrebbe definire così quello
che sta avvenendo in molte località montane e sciistiche del nord Italia. E sembra non esista
coronavirus che la montagna possa temere. ‘Psicologicamente i monti danno rassicurazione’. Qui, da
più di una settimana, è un andirivieni senza sosta di gente che, dalle città vicine, ma anche dalla
Lombardia e dalla Liguria cerca un posto per sottrarsi agli stop e alle limitazioni previste da ordinanze
e decreti ministeriali… ‘Impianti sciistici saturi, maestri di sci in affanno per la troppa domanda, sci
club pieni…’. La grande fuga è dovuta soprattutto a tutti quei genitori che si sono rifiutati di tenere i
figli in città, a casa da scuola. ‘Anziché una vita cittadina costretta tra quattro mura e poco altro,
preferiscono portare i ragazzi a fare lezione di sci o nei cinema di montagna, o nei pub. Qui tutto è
aperto e funzionante’. Si lavora, senza sosta”. Nell’ultimo decreto (8 marzo) il governo ha dovuto
specificare che anche gli impianti sciistici vanno chiusi. Evidentemente non si era neanche
lontanamente accorto di questa reazione distopica della gente.
Afferma Umberto Galimberti in una intervista televisiva che l’angoscia di fronte a un pericolo
indeterminato è talmente insopportabile che si cerca il più presto possibile di incarnarlo in un capro
espiatorio tangibile e concreto: gli untori, i pazienti zero. Fino a un certo punto il ruolo del feticcio è
stato rappresentato, anche in Italia, dai cinesi. Ora l’incarnazione del male siamo diventati noi. Quanto
tempo dovrà passare perché gli altri (intendo il resto del mondo) non vedano più questo fantasma
appollaiato sulle nostre spalle? Ora conosciamo sulla nostra pelle il razzismo: la trasformazione della
malattia che ci minaccia in colpa, la perdita della singolarità nell’indistinto di una massa o di un
“popolo”, disprezzato in quanto tale. E noi? Si invoca una cultura della solidarietà, molto difficile
dopo che decenni di neoliberismo ci hanno resi astratti e separati l’uno dall’altro: in rete l’odio si
scarica sul vicino e sull’avversario politico, il meccanismo di attribuzione di colpa continua
incessante, a scala nazionale. Debitori, colpevoli, falliti, e ora anche untori.
Si cerca anche di mitigare l’angoscia dicendo: tanto muoiono solo i vecchi e i malati di altre patologie
(il che poi non è così vero). Questa specie di eugenetica spontanea è davvero orribile. È come un
nazismo così sepolto nell’inconscio da poter esser pronunciato quasi con innocenza. Cosa volete dire?
Che sopravvivono i forti, i puri, i belli e che gli altri non contano niente? È la prima volta, mi pare,
che si parla di un’epidemia in termini generazionali, con i “giovani” e i sani contrapposti ai “vecchi”
e ai deboli, in fondo parassiti sacrificabili, verso cui viene a galla un malcelato sentimento di ostilità.
La malattia non fa che evidenziare una insofferenza latente, anche questa derivante dal mito
neoliberista dell’efficienza e dell’imprenditoria di se stessi.
“Paure e immaginazioni”, racconta il Boccaccio, si impadroniscono della gente di Firenze durante la
peste, per cui alcuni si rifiutano di prestare i più elementari soccorsi ai malati, e altri si danno alla più

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sfrenata baldoria, bevendo e dandosi alle orge fino allo sfinimento: ed entrambi così incrementano il
male in maniera esponenziale. Qualcosa di simile si vede nel Settimo sigillo di Bergman, o nel
Nosferatu di Herzog. Ma in realtà per noi è un po’ diverso: sono le stesse persone, che il lunedì si
barricano in casa, e il martedì sono già stanchi ed esausti di qualsiasi disciplina, e trapassano dal
governo dei corpi alla trasgressione priva di senso. In una democrazia sociale (cosa che la nostra
società dello spettacolo è lontana da essere) si dovrebbe ricorrere a quella che i Greci chiamavano
fronesis, l’arte di discernimento nel particolare, caso per caso; in mancanza della quale è quasi
inevitabile che dopo un certo punto l’insofferenza si alterni col panico, con la ricerca dell’untore-
nemico, e con la richiesta di un potere autoritario. Allo stato d’animo dell’angoscia, dovrebbe
sostituirsi quello che Leopardi nella Ginestra, dinanzi alla potenza incombente del Vesuvio, definisce
“vero amor”, e cioè la capacità di sostenersi reciprocamente “negli alterni perigli e nelle angosce della
guerra comune”. Questa risposta all’angoscia dell’esistenza (che non la cancella), articolata
politicamente, era l’ispirazione fondamentale del socialismo, ancor prima della lotta di classe. Era,
sarà, la sua tonalità affettiva predominante.

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Pietro Saitta - Coronavirus, l’epidemia vista da un bar di Messina


[11 Marzo 2020 – napolimonitor.it]

Vorrei che nessuno tra quanti leggeranno le prossime righe mi giudicasse intimista. O, peggio che
mai, come un egocentrico che crede che la propria banale vita meriti di essere messa in mostra e
raccontata come se fosse speciale. Ma, d’altra parte, non saprei come parlare dell’esperienza di vivere
nell’epidemia prescindendo da me stesso. Ed è in questo senso che parlerò di me stesso e del mio
quotidiano come oggetto sociologico. Di me stesso, cioè, come individuo interno a un mondo di
pratiche, relazioni e significati. Oppure, se si preferisce, come soggetto che percepisce il circostante
e lo produce insieme ad altri, sforzandosi però di individuare il senso esplicito o nascosto delle proprie
azioni sociali. Quando è stato pubblicato il primo decreto della presidenza del consiglio dei ministri,
ero seduto a un tavolino del bar-libreria che da anni è la mia casa, al cui interno ho scritto libri e
un’infinità di articoli (“il tuo ufficio”, lo definiscono amici e colleghi). Ho ripetutamente letto e
commentato la norma con i proprietari del bar. La loro è di fatto una cooperativa: un piccolo “impero”
dell’industria culturale alternativa locale, che va dalla libreria alla promozione di incontri culturali,
sino al clubbing, in inverno così in estate. Mentre leggevo il decreto insieme a quelli che sono insieme
amici e gestori di fatto della mia vita culturale e del mio quotidiano, pensavo che avevo voglia di

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riprendere in mano il capitolo sulla norma contenuto in Lineamenti di Sociologia del Diritto, un
vecchio libro di Vincenzo Ferrari su cui mi sono formato durante il dottorato di ricerca, a cavallo tra
il vecchio e il nuovo secolo. Non ricordo esattamente né tutte le tipologie di norme né tutte le
caratteristiche che Ferrari individuava. Di certo, però, quello che avevo davanti non sembrava un atto
“normativo”: non era realmente prescrittivo e non prevedeva sanzioni. Era, soprattutto, meramente
“indicativo”: elencava cioè una serie di comportamenti auspicabili, da cui si poteva però derogare in
presenza di determinate condizioni correlate soprattutto allo spazio. Uscito da solo a fumare una
sigaretta sulla soglia del bar, mi ritrovai a domandarmi se quell’atto – un atto comunicativo, ancora
prima che una fonte normativa – potesse essere preso sul serio. Solo pochi giorni prima, su altre
pagine, avevo osservato come il governo avesse praticato per settimane una comunicazione
contraddittoria del rischio, optando alla fine per una condotta performativa incentrata sull’autorità,
ma non sull’autorevolezza. La natura meramente “indicativa” del nuovo decreto confermava questa
impressione: non vi era nulla che potesse farlo ritenere un atto serio. Un atto, cioè, volto a costituire
come seria una situazione. Mancando di questa qualità, il decreto mi apparve subito come un atto che
richiedeva di essere aggirato. Spenta la sigaretta, rientrai e apostrofai il gruppo di gestori seduti torvi
intorno a un tavolo, dicendo che non c’era ragione di preoccuparsi troppo. Bisognava essere etici e
responsabili, dissi loro. Ma stando al decreto, la serata prevista quella notte al club e anche le prossime
non andavano annullate: bisognava semplicemente calcolare un numero approssimativo di persone
per metro quadro che garantisse la possibilità che queste mantenessero una certa distanza tra loro.
Bisognava dunque limitare gli ingressi, introducendo magari delle liste. Certo, si sarebbe operato in
perdita, ma era il solo modo per limitare i danni di un’impresa che ho definito “impero”, ma che in
realtà opera sempre al limite della sostenibilità economica. E che, soprattutto, dà di che vivere o
integrare i redditi a qualche decina di persone.
Qualche giorno dopo quella prima discussione, la comunicazione del rischio si è fatta più seria, se
non più coerente. Gradualmente è cresciuta la percezione della gravità e l’angoscia. Il “mio” bar,
tuttavia, non ha risentito eccessivamente della situazione. È stato soltanto sabato sera, osservando i
clienti regolari del bar, che ho cominciato a riflettere con più forza su me stesso, sulla situazione
collettiva e sugli altri avventori. In realtà, già da un paio di giorni ho cominciato a lavarmi più spesso
le mani: un gesto che non è esattamente una coazione per me. Ho aumentato il riguardo per mio padre
che, pur perfettamente autonomo e in salute, si avvicina agli ottant’anni. Ieri sera sono andato a fare
la spesa per lui e gliel’ho portata a casa per evitare che uscisse.
Non direi che sono preoccupato per la mia vita. Se lo fossi non fumerei decine di sigarette al giorno
a partire da quando apro gli occhi, non ignorerei il catarro che in certi periodi risale denso per la mia
gola, mi metterei a dieta e andrei in palestra (tutte cose che evito di fare da quando, dopo quindici

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anni di body-building, sono diventato foucaultiano e avverso alla biopolitica; foucaultiano ma
disinteressato alla cura del sé, che mi annoia moltissimo). Inoltre, come ripeto spesso, anche se non
vorrei essere messo alla prova troppo presto, vivere o morire sono per me la stessa cosa. Non sono
dunque preoccupato. Ciò nonostante qualcosa sta succedendo al mio interno e, pur essendo nella
pratica del quotidiano, e al di là dei discorsi pubblici, sostanzialmente anomico e disaffiliato come
molti, sento crescere in me una “responsabilità”.
Non saprei ben definire questo sentimento. Ma lo sento emergere con chiarezza quando, seduto
all’interno del bar, osservo diversi gruppi di clienti e, in particolare, una comitiva di uomini e donne
tra i trenta e i quarant’anni, professionisti, scapoli, che, come ogni giorno, si accalca intorno allo
stesso tavolo a partire da un certo orario. Sono tutte persone che conosco, con gradi differenti di
intimità. Non sto con loro in quell’istante solo perché al bar amo stare da solo. Leggo, scrivo e
preferisco essere io ad avvicinarmi a persone e gruppi, incluso questo.
Osservo dunque la solita comitiva. E improvvisamente avverto fastidio. So – sento – che neanche
loro sfuggono ai comunicati che si susseguono in rete e alla coltre di pesantezza che si sta
impadronendo del paese. Improvvisamente la “regina” di quella comitiva – un’architetta e video-
maker che conosco bene e la cui risata si eleva frequentemente nel rumore del bar – si siede accanto
a me. È, come sempre, bella e curatissima. Il ritratto stesso della noncuranza, si direbbe in realtà. Si
siede e mi dice: «Mi sento pesante. Non ho paura per me. Ho paura per mio padre, che sta avendo
tutti quei problemi col cuore e la tiroide». Poco dopo si allontana, pronta a reimmergersi nella bolgia
di corpi che ingurgitano cocktail.
Ogni tanto vado fuori a fumare e il tema è sempre lo stesso. Gestori e impiegati di questa impresa
articolata in bar e club sono cupi. Anche loro non hanno paura per le proprie persone. Ma comprendo
che pure loro stanno maturando un senso di responsabilità simile al mio. Tuttavia sono “bloccati”.
Inizio a capirlo quando commentiamo la scelta di una discoteca commerciale che la sera prima ha
organizzato un evento e che oggi si ritrova sotto minaccia di una sanzione da parte della locale
amministrazione cittadina. Racconta uno dei miei interlocutori che gli organizzatori della serata
avevano acquistato un termometro laser con cui misurare la temperatura dei clienti, promettendo di
escludere coloro che avessero tracce di febbre. Infine qualcuno – un consigliere di quartiere – aveva
diffuso un video in cui centinaia di persone ballavano in pista e il cui hashtag era “stiamo benissimo”.
Il risultato è che oggi sono su tutti i giornali locali, additati come irresponsabili e avidi.
Ridiamo amaramente. Ma, com’è banale a dirsi, e come tanti hanno notato, ci ripetiamo che questa
crisi non è semplicemente sanitaria. È, per i miei amici così come per gli altri esercenti, il fantasma
di una crisi economica che si concretizza. Concerti bloccati e limitazioni agli ingressi significano
meno introiti, ma anche spese fisse e tasse a cui fare fronte con il risparmio. Mentre fumo guardo

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attraverso le vetrate. Il bar è tutt’altro che pieno. Ma le poche comitive si affollano intorno ai tavoli.
Non resisto e dico allora ai miei amici gestori: «Bisogna essere responsabili, imporre una distanza;
dire ai clienti che la politica del locale è che non sono consentite più di tre persone per tavolo». «Ma
come facciamo? – è però la risposta – Possiamo davvero imporre alla gente di non sedersi insieme?
Se siamo migliori amici e ci spartiamo il sonno, che differenza fa che stiamo seduti qui o da un’altra
parte? Capisci, bisognerebbe fare come in Cina: dovrebbero dirci di andare tutti a casa. Ma come
possiamo imporre alla gente di stare lontana un metro, se non lo vogliono fare? Come posso andare
da quelli ora e dire loro mi spiace, dovete stare più lontani di così?».
Mentre torno al mio tavolo rifletto sul fatto che anche io non sto a casa, come il video di un’anestesista
arrabbiata, attiva in una zona rossa, invita invece a fare dalla schermata del mio cellulare. Come
sempre, in ragione del fatto che uso il bar come una postazione di lavoro, sto a più di un metro dalle
persone e adesso offro le nocche, anziché la mano, a chi si avvicina per salutarmi. Ma non posso
sempre evitare le strette di mano di persone che entrano e, a volte, anche i baci e gli abbracci. Non
posso evitare di prestare un accendino a chi me lo chiede. Non posso fare a meno, insomma, di
espormi virtualmente al contagio. Soprattutto, come i membri della comitiva dinanzi a me, non so
davvero starmene a casa, dove comunque passo una gran parte della mia giornata.
Improvvisamente, mentre osservo il gruppo che mi sta davanti, mi viene in mente che io e loro
trattiamo il virus come se fosse una sigaretta o l’ennesimo negroni. Accettiamo cioè il fatto di poter
essere vittime consapevoli della nostra esposizione a un fattore di rischio, ma escludiamo dalla nostra
percezione intima la possibilità di essere vettori di una malattia che potrebbe avere effetti blandi su
di noi, ma seri su altri. Rifiutiamo, cioè, il nostro ruolo potenziale di vettori.
Inoltre – chissà se più alla maniera di uno Zingaretti, che di un kamikaze nichilista – vedo
improvvisamente che la parte più istintuale di me vive queste sortite serali, oltre che come un
automatismo, anche come un atto di resistenza contro un dispositivo retorico. Un dispositivo,
naturalmente, che questa volta è tutto tranne che tale. Ma che ciò nonostante è fatto di espressioni
linguistiche ed evocazioni di climi morali che, sia pure con modalità specifiche e per un oggetto di
natura quasi completamente differente, hanno inseguito per settimane il repertorio linguistico-
securitario permanente in questo paese. Ossia il linguaggio e il clima morale che sono parte della
grammatica politica italiana da alcuni decenni.
Quel linguaggio e quel clima che ha fatto sì che io sia indifferente e sospettoso dell’idea di sicurezza
perché refrattario alla menzogna pubblica. Alla menzogna, cioè, che per decenni ha accompagnato le
politiche in materia di criminalità o immigrazione. È naturalmente un abbaglio quello di cui parlo, in
questo caso. È chiaro e lo so. Ma questo mio sentire intimo e istintivo è il frutto di un lento processo
di costituzione della cittadinanza – ossia di me stesso – che ha avuto come esito la costruzione di

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particolari tipi di soggetti. Individui, come nel mio caso, che per un complesso di ragioni ideologiche
e per posizionamento rispetto alle verità pubbliche dominanti, possono diffidare del discorso di stato;
oppure, più semplicemente, soggetti che possono avere interiorizzato l’idea di una inattendibilità dei
pericoli al punto da diventare di fatto indifferenti ai richiami.
La qual cosa ci riporta a un tema a me molto caro, quello della capacità delle emergenze, delle crisi
o dei disastri di mettere a nudo l’ordinario più che l’inconsueto. Che nello specifico significa, tra le
altre cose, che i corpi della comitiva noncurante dell’epidemia che si staglia davanti a me riflette
l’impossibilità di immaginare un’astrazione come la società. Sono persone e relazioni che esistono
nella comunità e nel presente – per esempio, nell’asintomaticità della propria condizione attuale di
salute. Inoltre, li vedo improvvisamente come corpi orientati da un principio di piacere e
dall’aspirazione a una libertà di poche ore, che segue un quotidiano di sforzi e isolamento volti alla
produzione. Forse riflettendomi in loro, li vedo come individui che, nonostante tutto, esprimono un
bisogno elementare di comunità – ossia di tangibilità, data dalla frequentazione di persone con cui
sviluppare un’intimità extra-familiare. Per qualche istante divento così benigno nei loro confronti e
trovo che, lontani dall’essere semplicemente incoscienti o irresponsabili, esprimono bisogni
elementari, che seguono un quotidiano produttivo ordinario malgrado l’emergenza. Ciò che richiede
spostamenti e incontri, e che sottintende obblighi fiscali e giuridici: la risultanza e la contraddizione
di un sistema che dichiara l’emergenza, ma richiede loro di vivere e operare come sempre. Mi sembra
così che esprimano un bisogno reattivo, improntato su un comunitarismo triviale, che è più forte di
qualsiasi concettualizzazione astratta di società e di responsabilità nei confronti di un’alterità
ugualmente prossima, ma fondamentalmente priva di volto. Concezioni, dunque, fondamentalmente
astratte perché prive di vero significato. Ma dopo tutto – mi ritrovo a chiedermi – chi avrebbe dovuto
inculcare in modo non retorico questa idea all’interno di un’organizzazione collettiva essenzialmente
categoriale, oltre che competitiva e per larga parte impolitica com’è quella in cui sono cresciuti e
diventati adulti?
Osservo così che in questo quadro è possibile, al massimo, temere di infettare i padri e le madri
anziane e malate (senza, però, sapere davvero rinunciare all’immersione nella bolgia). Ma come
immaginare di potere contagiare un volto senza faccia e senza nome, senza peraltro averne
l’intenzione? In questo quadro, semi-anomico e tuttavia normale, esito di una precisa pedagogia
pratica, come stupirsi del fatto che il comportamento in tempo di guerra non differisca da quello in
tempo di pace? Come fare a esigere, cioè, una cittadinanza attiva e responsabile quando questa stessa
idea è niente più che una nozione astratta su un manuale di educazione civica, smentita peraltro
continuamente dalla pratica politica complessiva? Ci vuole davvero coraggio e ingenuità a esigerla e

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invocarla. Con questo pensiero finisco il mio negroski e decido di tornare a casa. È tutto sommato
presto, ma davvero non ce la faccio a tirare tardi. Non so se domani esco.

Panagiotis Sotiris - Against Agamben, is a democratic biopolitics possible?


[12 Marzo 2020 - The future lasts a long time blog]

Il recente intervento di Giorgio Agamben che legge le misure implementate in risposta alla pandemia
da Covid-19 come un esercizio di biopolitica dello “stato di eccezione” ha scatenato un importante
dibattito su come pensare in termini di biopolitica.
La precisa nozione di biopolitica, così come è stata formulata da Michel Foucault, rappresenta un
importantissimo contributo alla nostra comprensione dei cambiamenti legati al passaggio alla
modernità capitalista, specialmente in relazione ai modi in cui vengono esercitati il potere e la
coercizione. Dal potere come diritto sulla vita e la morte che i sovrani detengono, passiamo al potere
come un tentativo di garantire la salute (e la produttività) delle popolazioni. Ciò conduce ad una
espansione senza precedenti di tutte le forme di intervento e coercizione dello stato. Dalle
vaccinazioni obbligatorie, ai divieti di fumo negli spazi pubblici, la nozione di biopolitica è stata
utilizzata di volta in volta come la chiave per comprendere la dimensione politica e ideologica delle
politiche sulla salute.
Nello stesso tempo la nozione di biopolitica ci ha permesso di analizzare vari fenomeni, spesso
repressi nella sfera pubblica, dai modi in cui il razzismo cerca di trovare fondamenti “scientifici” ai
pericoli che si corrono con le tendenze all’eugenetica. Sicuramente Agamben l’ha usata in maniera
costruttiva, in questo tentativo di teorizzare le moderne forme dello “stato d’eccezione”, vale a dire
spazi in cui forme estreme di coercizione vengono messe in pratica, un esempio fra tutti, in un campo
di concentramento.
La gestione della pandemia da Covid-19 ovviamente solleva una serie di questioni associate alla
biopolitica. Molti commentatori hanno suggerito che la Cina ha fatto diversi passi avanti nel contenere
o rallentare la pandemia, perché ciò ha permesso di implementare una versione autoritaria della
biopolitica, che include l’uso di una quarantena estesa e il divieto di attività sociali, la qual cosa è
stata facilitata dal vasto arsenale delle misure di coercizione, sorveglianza e monitoraggio e dalle
tecnologie che lo stato cinese ha a sua disposizione.
Alcuni commentatori hanno anche suggerito che, poiché le democrazie liberali mancano della stessa
capacità di coercizione o di investire di più sulla modifica volontaria del comportamento individuale,

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non riescono a prendere le stesse misure e questo potrebbe minare il tentativo di contenere la
pandemia. Ad ogni modo, penso che sarebbe una semplificazione porre il dilemma tra una biopolitica
autoritaria e il liberale affidamento su persone che fanno delle razionali scelte individuali.
Inoltre, è ovvio che affrontare le misure di salute pubblica, come la quarantena o le “distanze sociali”,
come se fossero unicamente questioni biopolitiche in qualche modo offusca il loro potenziale di
utilità. In assenza di un vaccino o di efficaci trattamenti anti-virali, queste misure, che appartengono
al repertorio dei manuali di salute pubblica del XIX secolo, possono ridurre il pericolo, in particolare
per i gruppi vulnerabili. Questo è vero specialmente se pensiamo che anche nelle economie capitaliste
avanzate le infrastrutture della salute pubblica sono in via di smantellamento e non possono realmente
sostenere il picco della pandemia, a meno che vengano prese misure per ridurre la velocità della sua
espansione. Qualcuno potrebbe dire che, contrariamente a quanto sostiene Agamben, a causa del
collasso del sistema sanitario, la “nuda vita” potrebbe essere vicina più al pensionato in lista d’attesa
per un respiratore o un letto in terapia intensiva che all’intellettuale alle prese con le ricadute delle
misure di quarantena.
Alla luce di quanto sopra, vorrei suggerire un diverso ritorno a Foucault. Penso che a volte
dimentichiamo che Foucault ha una concezione altamente relazionale delle pratiche del potere. In
questo senso, siamo legittimati a porre la questione della possibilità di una biopolitica democratica o
anche comunista.
Per dirla in altre parole: c’è lo spazio per pratiche collettive che aiutino davvero la salute delle
popolazioni, incluso le modifiche del comportamento su larga scala, senza una parallela espansione
di forme di coercizione e sorveglianza?
Lo stesso Foucault, nei suoi ultimi lavori, indica una direzione, intorno alla nozione di verità,
parrhesia e cura di sé. Nel suo originalissimo dialogo con la filosofia antica, suggerisce una politica
alternativa del bios che combina la cura individuale e collettiva in strategie non coercitive. In tale
prospettiva, le misure sulla riduzione della mobilità e sulla distanza sociale ai tempi dell’epidemia, o
sul divieto di fumo negli spazi pubblici chiusi, o il divieto di attività individuali e collettive che
danneggiano l’ambiente potrebbe essere il risultato di decisioni collettive discusse democraticamente.
Questo significa che dalla mera disciplina ci spostiamo alla responsabilità, nei riguardi degli altri e di
noi stessi, e dalla sospensione della socialità ad una sua trasformazione operata coscientemente. A
tali condizioni, invece di una paura permanente individualizzata, che disintegra ogni senso di coesione
sociale, avanziamo l’idea di uno sforzo collettivo, di un coordinamento e una solidarietà che in tali
emergenze sanitarie possono essere importanti tanto quanto le cure mediche.
Ciò offre la possibilità di una biopolitica democratica, che può basarsi anche sulla democratizzazione
della conoscenza. L’aumentato di accesso alla conoscenza, in linea con il bisogno di rendere popolari

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le campagne, rende possibili i processi di decisione collettiva basati sulla conoscenza e sulla
comprensione e non solo sull’autorità degli esperti.

Biopolitica dal basso


La battaglia contro l’HIV, la lotta contro lo stigma, lo sforzo per far comprendere alla gente che non
è la malattia di “un gruppo ad alto rischio”, la richiesta di educazione al sesso sicuro, il finanziamento
alla ricerca sulle terapie e l’accesso ai servizi di salute pubblica,non sarebbero stati possibili senza
lotte dei movimenti come ACT UP. Si potrebbe dire che questo senza dubbio è stato un esempio di
biopolitica dal basso. E nella congiuntura attuale i movimenti sociali hanno molto spazio per agire.
Possono chiedere immediate misure per aiutare il sistema sanitario pubblico a sostenere il carico extra
causato dalla pandemia. Possono puntare al bisogno di solidarietà e all’autorganizzazione collettiva
durante una crisi, di contrasto al panico “survivalista” individualizzato. Possono insistere affinché il
potere (e la coercizione) di stato sia usato per canalizzare le risorse dal settore privato in direzioni
socialmente necessarie. E possono esigere un cambiamento sociale in quanto elemento indispensabile
per salvare le vite.

Giorgio Agamben’s recent intervention which characterizes the measures implemented in response to the Covid-19
pandemic as an exercise in the biopolitics of the ‘state of exception’ has sparked an important debate on how to think of
biopolitics. The very notion of biopolitics, as it was formulated by Michel Foucault, has been a very important contribution
to our understanding the changes associated with the passage to capitalist modernity, especially in regards to the ways
that power and coercion are exercised. From power as a right of life and death that the sovereign holds, we pass to power
as an attempt to guarantee the health (and productivity) of populations. This led to an expansion without precedent of all
forms of state intervention and coercion. From compulsory vaccinations, to bans on smoking in public spaces, the notion
of biopolitics has been used in many instances as the key to understand the political and ideological dimensions of heath
policies. At the same time it has allowed us to analyse various phenomena, often repressed in the public sphere, from the
ways that racism attempted to find a 'scientific' grounding to the dangers of trends such as eugenics. And indeed Agamben
has used it in a constructive way, in this attempt to theorise the modern forms of a ‘state of exception’, namely spaces
where extreme forms of coercion are put in practice, with the concentration camp the main example. The questions
regarding the handling of the Covid-19 pandemic obviously raise issues associated with biopolitics. Many commentators
have suggested that China made steps towards containing or slowing the pandemic, because it could implement an
authoritarian version of biopolitics, which included the use of extended quarantines and bans on social activities, which
was helped by the vast arsenal of coercion, surveillance and monitoring measures and technologies that the Chinese state
has at its disposal. Some commentators even suggested that because liberal democracies lack the same capacity for
coercion or invest more on voluntary individual behaviour change, they cannot take the same measures and this could
inhibit the attempt to deal with the pandemic. However, I think that it would be a simplification to pose the dilemma as
one between authoritarian biopolitics and a liberal reliance on persons making rational individual choices. Moreover, it
is obvious that simply treating measures of public health, such as quarantines or ‘social distancing’, as biopolitics
somehow misses their potential usefulness. In the absence of a vaccine or successful anti-viral treatments, these measures,

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coming from the repertoire of 19th century public health manuals, can reduce the burden, especially for vulnerable groups.
This is especially true if we think that even in advanced capitalist economies public health infrastructure has deteriorated
and cannot actually stand the peak of the pandemic, unless measures to reduce the rate of its expansion are taken. One
might say that contra Agamben, ‘naked life’ would be closer to the pensioner on a waiting list for a respirator or an ICU
bed, because of a collapsed health system, than the intellectual having to do with the practicalities of quarantine measures.
In light of the above I would like to suggest a different return to Foucault. I think that sometimes we forget that Foucault
had a highly relational conception of power practices. In this sense, it is legitimate to pose a question whether a democratic
or even communist biopolitics is possible. To put this question in a different way: Is it possible to have collective practices
that actually help the health of populations, including large-scale behaviour modifications, without a parallel expansion
of forms of coercion and surveillance?
Foucault himself, in his late work, points towards such a direction, around the notions of truth, parrhesia and care of the
self. In this highly original dialogue with ancient philosophy, he suggested an alternative politics of bios that combines
individual and collective care in non coercive ways.
In such a perspective, the decisions for the reduction of movement and for social distancing in times of epidemics, or for
not smoking in closed public spaces, or for avoiding individual and collective practices that harm the environment would
be the result of democratically discussed collective decisions. This means that from simple discipline we move to
responsibility, in regards to others and then ourselves, and from suspending sociality to consciously transforming it. In
such a condition, instead of a permanent individualized fear, which can break down any sense of social cohesion, we
move the idea of collective effort, coordination and solidarity within a common struggle, elements that in such health
emergencies can be equally important to medical interventions.
This offers the possibility of a democratic biopolitics. This can also be based on the democratization of knowledge. The
increased access to knowledge, along with the need for popularization campaigns makes possible collective decision
processes that are based on knowledge and understanding and not just the authority of experts.
Biopolitics form below
The battle against HIV, the fight of stigma, the attempt to make people understand that it is not the disease of ‘high risk
groups’, the demand for education on safe sex practices, the funding of the development of therapeutic measures and the
access to public health services, would not have been possible without the struggle of movements such as ACT UP. One
might say that this was indeed an example of a biopolitics from below.
And in the current conjuncture, social movements have a lot of room to act. They can ask of immediate measures to help
public health systems withstand the extra burden caused by the pandemic. They can point to the need for solidarity and
collective self-organization during such a crisis, in contrast to individualized “survivalist” panics. They can insist on state
power (and coercion) being used to channel resources from the private sector to socially necessary directions. And they
can demand social change as a life-saving exigency.

“Against Agamben: Is a Democratic Biopolitics Possible?”


[16 Marzo 2020 – E-flux.com]
Amidst the widespread Covid-19 outbreak in Italy and other parts of the world, Giorgio Agamben published a widely
circulated article describing government-imposed restrictions on movement and social contact as forms of biopolitical
control amidst a “state of exception.” At the website Critical Legal Thinking, Panagiotis Sotiris pushes back against
Agamben’s characterization of biopolitical interventions as inherently repressive. Arguing for a “biopolitics from below,”
Sotiris suggests that in this time of fear and isolation, we imagine “collective practices that actually help the health of

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populations, including large-scale behaviour modifications, without a parallel expansion of forms of coercion and
surveillance.”

Sarantis Thanopulos - La profilassi come eccezione alla vita


Il contagio sociale. Ancora sull'intervento di Giorgio Agamben. Le misure cautelative devono lasciare uno spazio di
interpretazione e elaborazione personale che le rende più applicabili e funzionanti.
[12 Marzo 2020 – il Manifesto]

Giorgio Agamben ha affermato sul manifesto che, sull’onda della paura del Coronavirus, e in nome
della sicurezza, si impongono gravi limitazioni della libertà, «lo stato d’eccezione come paradigma
normale di governo». L’intervento di Agamben è stato criticato per un aspetto secondario –
l’assimilazione della malattia causata dal virus a una normale influenza – e la sua importanza
minimizzata. Nello stato d’eccezione, in cui oggi stiamo vivendo, apparentemente decidono gli
«scienziati». In realtà essi non decidono granché sia perché non dispongono ancora di prodotti
interferenti con lo sviluppo del virus o di vaccini, sia perché i dati a loro disposizione non sono
sufficientemente accurati per calcolare il vero grado di contagiosità e di pericolosità dell’infezione
(manca uno screening per campioni statisticamente validi di popolazione).
L’Istituto Superiore di Sanità afferma che il vero problema sarebbe non tanto la mortalità quanto la
difficoltà di accogliere un numero di pazienti molto elevato nei servizi di terapia intensiva
nell’eventualità che i contagi aumentassero molto rapidamente. Di qui la necessità di introdurre
misure cautelative urgenti – aggirando il parlamento e sospendendo la Costituzione – non seguendo
dati specifici e criteri scientifici ben definiti, ma parametri generali empirici di interruzione drastica
dei contatti sociali.
L’interruzione è pienamente efficace quando è il più possibile restrittiva, ma superata una certa soglia
di restrizione anche un regime totalitario non potrebbe supportarla perché metterebbe in discussione
la sopravvivenza stessa delle persone. La maggior restrizione dovrebbe garantire una minore
diffusione del contagio, ma non in modo proporzionale perché la diffusione del virus attraverso le
relazioni umane è molto più imprevedibile delle sue vie di entrata nel corpo umano.
In generale le misure devono lasciare uno spazio di interpretazione e elaborazione personale che le
rende più applicabili e funzionanti, diversamente creano uno stato di rassegnazione depressiva (lo
stato psichico non adatto per affrontare, se si manifesta, la malattia) o una reazione trasgressiva (di
sabotaggio della profilassi).

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Quando le misure cautelative diventano troppo restrittive e impositive, mettono in crisi le nostre
relazioni e la psicologia collettiva e minano il consenso libero ad esse. La retorica della campagna
«io sto in casa» e lo slogan «cambiamo le nostre abitudini» (piuttosto che sospenderle
momentaneamente e selettivamente), come se vivere negli spazi aperti, nei luoghi di incontro e di
conversazione (gli alveoli che fanno respirare le comunità e la democrazia) fossero usanze nocive,
sono operazioni di plagio vero e proprio, che infantilizzano e passivizzano i cittadini.
L’oggetto vero della limitazione non è la libertà di circolazione bensì la libertà d’interpretazione
(senza la quale la prima perde il suo senso). Lo stato d’eccezione non solo sospende o abolisce
l’ordinamento giuridico, le regole che introduce si impongono, non possono essere oggetto di giudizio
e interpretate. Quando viene meno l’interpretazione, il consenso alle regole viene dettato dalla paura.
A questo punto però la paura non è più rivolta all’oggetto reale della preoccupazione che ha indotto
la politica di profilassi, ma ad un pericolo indefinito che riguarda la vita stessa. Soprattutto se una
crisi sociale profonda e un degrado altrettanto profondo del nostro rapporto con il mondo hanno creato
un senso di destabilizzazione psichica forte. Lo stato d’eccezione incombe come forma di governo
normale tutte le volte che prende forma un assetto fobico collettivo che non difende altro se non se
stesso. Quando cioè l’eccezione si manifesta nella sua nudità: come eccezione alla vita.

Dalli all'untore! O del ritorno della colonna infame ai tempi della quarantena digitale
[12 Marzo 2020 - Laboratorio Occupato Morion]

Prima premessa. Non siamo complottisti.


Seconda premessa, tanto per evitare fraintendimenti. Siamo consapevoli dell'emergenza sanitaria in
corso, convinti di dovere modificare le nostre abitudini. In tal senso, abbiamo deciso di sospendere
eventi e concerti, di fare dunque la nostra parte per evitare di aggravare la situazione di un sistema
sanitario già pesantemente provato. Inoltre stiamo mettendo in campo (in sicurezza) un'azione di aiuto
della fascia più esposta in città, ovvero degli anziani. Tutto questo è ok, lo sappiamo e lo facciamo...
Però.
Però siamo un collettivo, una comunità fatta di uomini e donne, giovani e meno giovani, operai e
ricercatrici, studentesse e partite IVA, eterosessuali e gay, cisgender e queer. Siamo divers*, ma tutt*
abituat* a vivere assieme, non solo a telefonarci molto, a chattare molto, a scriverci molto, a laikarci
molto. La nostra vita è scandita da assemblee, riunioni, cortei, azioni, serate, viaggi, trasferte,
occupazioni, colazioni, pranzi e cene. Sì, troviamo anche il tempo di studiare (spesso assieme) e di

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lavorare (a volte assieme, per rendere il lavoro meno penoso). Ci amiamo, ci odiamo, ci troviamo
d'accordo, litighiamo, assieme facciamo ottime cose, assieme facciamo cazzate.
Capirete dunque il nostro smarrimento di fronte ad un dispositivo in cui il bene comune viene a
coincidere con la stretta su molte forme della vita in comune, in particolare su quelle che si basano
sull'autonoma cooperazione sociale. Pensiamo qui alla brusca interruzione di ogni comune corporeo
che non sia quello in atto in alcuni luoghi di lavoro e consumo o che non sia mediato dalle tecnologie
digitali.
Voi direte, quanto cazzo la fate lunga! Si tratta di un mese, non fate gli idioti. Bene, l'abbiamo capito,
e vi rimandiamo alla seconda premessa.
Capirete però la nostra necessità di non fermarci all'evidenza sanitaria, messi di fronte ad un'epidemia
in cui lo stato d'eccezione funziona non tanto come dispositivo di imposizione (non ancora
perlomeno), ma soprattutto di auto-imposizione di una vita in isolamento e come produzione di un
sentimento diffuso di colpevolizzazione e auto-colpevolizzazione del sociale. Un sentimento dedito,
in primis, ad additare gli untori, troppo spesso dimenticando le cause sistemiche che pesano
incredibilmente sulla crisi in atto. Certo i giovani hanno il dovere della consapevolezza del loro
privilegio rispetto ai vecchi, nulla da dire, ma il privilegio è discorso complesso. Chiudersi in casa,
ad esempio, implica il privilegio di avere una casa. Quella che non hanno i migranti al confine tra
Grecia e Turchia, uccisi e respinti da eserciti e squadracce fasciste (che #nonsonorestateacasa), quella
che non hanno i migranti nei nostri CPR (di cui nulla si sa), quella che non hanno i nostri poveri
nostrani, quella che non hanno i carcerati, giustamente in rivolta, ma condannati dal sentimento
digitale che, dall'alto dei nostri divani (se vogliamo proprio metterla sui luoghi comuni), se ne fotte
di quella debolezza e di quella subalternità.
Ci pare sproporzionata la rabbia diretta verso chi non resta a casa rispetto a quella indirizzata nei
confronti di chi ha smantellato per decenni il nostro sistema sanitario pubblico. Ci pare significativa
la difficoltà nel proporre qualsiasi tentativo di contestualizzazione. Perché, ad esempio, non ci
agitiamo così anche per le decine di migliaia di morti causati ogni anno dall'inquinamento dell'aria?
Non sono meno morti di altri. Non sono morti virtuali.
Non è dunque l'incoscienza, o peggio il privilegio della giovinezza, che ci spinge ad una riflessione
ulteriore, alla necessità cioè di non arrestarsi al primo e più semplice livello di responsabilità, quello
di isolarsi. Sarà pure una questione passeggera e noi ci adeguiamo (non siamo mesmerizzati
dall'ideologia), ma questo tempo del coronavirus è, dal nostro punto di vista, uno spaventoso esercizio
di prefigurazione in negativo, una finestra su un possibile scarto verso una società ancora più
atomizzata, individualizzata, smaterializzata, disciplinata ed autodisciplinante. Ciò non significa che
i poteri costituiti abbiano voluto il Coronavirus o che non ne usciranno provati anche loro, né significa

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sentirsi deresponsabilizzati di fronte alla malattia; però, per chiunque abbia in orrore l'orizzonte di
una società digitalizzata e autodisciplinata, socialmente atomizzata ed iperproduttiva, delatoria ed
impoverita, il momento di agire e pensare è adesso. I nostri anticorpi sociali vanno cercati in fretta,
per evitare che troppi elementi di questo quadro distopico si sedimentino nella realtà, una volta
passata l'emergenza.
Così, la frequentazione dei social network, in questi giorni desta non poca preoccupazione. Il
disappunto social investe qualsiasi forma collettiva di risposta alla crisi del Coronavirus. Tutto ciò
che non si può ricondurre al #iorestoacasa è degno dello sgomento più ovvio, dei giudizi più
sprezzanti, degli insulti e dei più palesi auguri di morte dolorosa. Si critica essenzialmente
l'irresponsabilità e si tira in ballo l'arroganza del privilegio della giovinezza che non terrebbe conto
dei più deboli e dei più anziani.
Non è facile per noi leggere post e commenti, è come rimanere impregnati nella melassa digitale del
nostro tempo, un'amalgama social che tiene insieme sovranisti, sessisti, fustigatori (destri e sinistri)
di radical-chic e, non nascondiamocelo, pure qualche attivista: militanti o ex-militanti che divenuti
(evidentemente) orfani delle loro comunità politiche, sono rimasti soli con Facebook. Il Coronavirus
ha fatto il miracolo, nell'infosfera digitale si trovano finalmente assieme l'educata progressista e il
sovranista, l'alfiere della scienza ed il maschilista, il giovane "responsabile" e chi applica discutibili
criteri meritocratici alla cura.
Il Coronavirus, visto da un punto di vista sociale, produce due frutti avvelenati, apparentemente
contrapposti. Il primo è la tanto paventata psicosi, il secondo (più preoccupante dal punto di vista
antropologico) è un effetto generalizzato di autodisciplina nel quadro di una società fortemente
atomizzata e individualizzata.
C'è un confine sottile, oggi, tra l'invito a prendersi cura responsabilmente della salute collettiva, da
una parte, e la riduzione volontaria di ognuno di noi a difensore individualizzato (anche
inconsapevole) della ragion di Stato e dell'unità nazionale. Anzi, assistiamo alla sconsolante
sovrapposizione di queste due tensioni, e i social network sono, in questo senso, un osservatorio
privilegiato.
Verrebbe da dire che non c'è veramente opposizione tra i paradigmi del biopotere e dello stato
d'eccezione. Da un punto di vista politico non possiamo non renderci conto di come il richiamo,
completamente biopolitico, ad assumersi la responsabilità collettiva di rallentare il contagio attraverso
l'isolamento, funzioni in realtà come biopotere autodisciplinante, in fantastica sintonia con lo stato
d'eccezione che, all'Italiana, ci è stato farsescamente imposto qualche giorno fa. Eppure si tratta di
una farsa che ci renderà un po' meno liberi di prima.

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Se, ai tempi della Colonna Infame, la peste si propagava nelle processioni religiose organizzate a
scopo di salvezza, oggi, al contrario, sappiamo che gli assembramenti sono pericolosi. Una cosa però
non è cambiata da allora, la brutta abitudine della moltitudine di additare gli untori. Nel '600 se ne
occupava il popolo delle processioni, con il sostegno dei governanti, oggi se ne incarica la
manifestazione del popolo all'interno dell'arena digitale. Il "popolo della rete" è un'espressione meno
vacua di quanto si creda. E allora giù! "Dalli all'untore!". Dalli a chi si riunisce, discute, a chi insieme
ad altri riesce a non farsi paralizzare dal terrore. In questa narrazione il probabile collasso della sanità
pubblica in Italia è totalmente addebitato alla figura del disertore. Se, il linguaggio istituzionale è
ormai declinato in chiave bellica, il traditore non è chi ha sottratto le armi al popolo, chi ha inquinato
l'aria per decenni, chi ha depotenziato la sanità pubblica, ma chi oggi mette in luce il dato politico
dietro al dispositivo sanitario e chi cerca di inventare altri modi di vita in comune dentro la crisi.
Certa imprudenza delle nostre forme di vita (che pure oggi accettiamo di modificare) e certa
imprudenza del nostro pensiero non sono il frutto di scanzonata cazzonaggine, al contrario sono
costituenti della nostra tensione politica verso la difesa di una dimensione comune, di un incontro che
riaffermi un dispositivo di gioia. È un vecchio arnese spinoziano quello della gioia, lo prendiamo a
prestito per definire l'intensificazione della capacità di agire e di pensare. Un'intensificazione che
avviene solo nell'incontro, nell'affezione con corpi, tra corpi. Sì, perché al contrario della cattiva
coscienza della rete (che è un agglomerato digitale con effetti antropologici decisivi), chiusa nella sua
modalità giudicante e inerziale (eco della parola d'ordine, dello stato d'eccezione, della ragion di
stato), noi, pensando assieme, trovano la forza di agire. Quella che l'epidemia di isolamento in corso
ci ha sottratto.
Come si fa ad accettare la riduzione della complessità del discorso unicamente al discorso medico?
Tale riduzione indica, in questo momento, l'abdicazione di una posizione libertaria e comune. Opporsi
a questa riduzione non è una scelta fatta a cuor leggero (né signfica mancare di riconoscenza nel
confronti del grande lavoro di tutto il personale medico-sanitario), ma è una scelta, dal nostro punto
di vista, necessaria.
Del resto, dal clima che si respira in rete, capiamo che la responsabilità di superare "la parola d'ordine"
di questo intreccio tra scienza e potere costituito, è qualcosa di cui gli individui digitali non possono
farsi carico: troppo informati, troppo impauriti, troppo trasparenti, troppo colpevolizzati, troppo presi
nell'autocompiacente trappola dell'espressione continua.
Nel 2003, nel tempo della "giustizia infinita" di Bush, Jacques Rancière lamentava il fatto di essere
entrati nel tempo di una "svolta etica della politica". Con questa formula intendeva la fine della
politica in quanto ambito in cui si contrapponevano diverse morali, diversi diritti e, udite udite,
perfino diverse violenze. La fine di tale epoca lasciava spazio ad una fase di indistinzione, in cui

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l'ordine globale neoliberista spadroneggiava opponendo astrattamente bene e male, giustizia e terrore.
Al dissenso, sale della politica, seguiva una società monolitica basata sul consenso. Oggi le
circostanze sono molto diverse, ma simili in alcuni effetti, la comunità di fronte alla malattia non è
più fatta di differenze e contrasti, ma di una sommatoria di individui in cui le asimmetrie si azzerano,
scomparendo sotto il peso del terrore pandemico. Certo, la vulgata vuole che nostri anziani siano
difesi dall'indisciplina dei nostri giovani, ma i "non nostri", i migranti, i carcerati, i poveri soffrono
l'esclusione più completa, l'invisibilizzazione più totale.
Dai tempi dello scritto di Rancière lo stato d'eccezione non ha cessato di mostrare la sua portata
globale, ma rimaniamo d'accordo con il filosofo francese nell'idea che l'orizzonte di Agamben, quello
di una salvezza messianica al fondo di una catastrofe infinita, sia insufficiente.
Noi ci ostiniamo a cercare una pratica possibile della politica radicale e del dissenso, anche ora, anche
qui, dal centro di una delle zone rosse. La nostra imprudenza non è il frutto di irresponsabilità, semmai
l'opposto. Ci siamo assunt* la responsabilità di rompere quel discorso, che, rassicurato
dall'emergenza, finisce non solo per proteggere la salute collettiva, ma anche per riaffermare il
consenso e l'unità del comando e del sapere esperto. Tutti elementi che vediamo dispiegarsi in questi
giorni con grande chiarezza.
Allora, diciamo noi, rivolgendoci a chi ancora non è paralizzato dalla paura: cosa dovremmo fare?
Prendercela con chi si organizza, con chi esce? O magari organizzarci per protestare a Venezia,
Milano o Roma (pure in mascherina e a distanza di sicurezza) per chiedere che la si faccia finita con
il decennale disinvestimento nella sanità pubblica?
La regione Veneto, a guida leghista, da molti anni ha contribuito ad aggravare la situazione. Se,
secondo le normative ministeriali, si ha diritto a 3,7 posti letto ogni 1000 abitanti, l'ineffabile Zaia,
per adeguarsi a questa direttiva, ha tagliato, in proporzione, molti più posti letto al pubblico che al
privato. E il privato che fa? Se teoricamente le sue risorse sono a disposizione della sanità pubblica
in caso di emergenza, stiamo utilizzando a pieno queste risorse? Se ne sa troppo poco.
Prendiamo il decreto ministeriale n. 70 del 2015, esso indica, tra le altre cose, che il numero di posti
letto ospedalieri sia stabilito in rapporto al numero di abitanti. Questo criterio è totalmente
insufficiente, posti e servizi vanno definiti anche secondo altre discriminanti come l'età anagrafica
(Venezia, ad esempio, è una città "anziana") e le patologie più diffuse. In più, se è vero che la
quarantena ce la siamo inventati in Laguna, oggi in città non c'è un centro epidemiologico.
Perché, ancora a Venezia, il sindaco latita e non ha messo in piedi alcuna task force per fronteggiare
l'emergenza? Perché non ci sono gli uomini per assistere i famosi "più deboli" che qui sono soprattutto
le persone anziane? Certo, noi ci stiamo organizzando per aiutare le persone in difficoltà (per lo meno
quelle del nostro sestiere) con la spesa di alimentari o medicine, avendo cura di entrare in contatto

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con loro sempre in sicurezza, cioè indossando mascherina e guanti. Rimane però, sotto questo aspetto,
un vergognoso vuoto istituzionale. Non dovremmo pretendere, oltre quanto già fatto dal governo,
molte più stabilizzazioni nel settore del sanità pubblica e nuovi assunzioni immediate?
Siamo quindi socialmente capaci, oltre al richiamo all'isolamento, di imporre un cambio di passo
necessario nella gestione della sanità, in vista della prossima epidemia?
Non dovremmo, poi, porci il problema di aprire o riaprire uno spazio politico sul terreno delle
biotecnologie, un mercato globale in cui è normale sperimentare su virus e altri vettori genetici, in
nome della mercificazione della vita?
Non dovremmo, infine, essere in grado, come propone in questi giorni l'ADL (un sindacato di base),
di ottenere un reddito di quarantena per tutte le lavoratrici e i lavoratori precari di qualsiasi settore,
colpiti dal blocco delle attività. E se proprio tutto si blocca, gli operai e le operaie devono farne le
spese un'altra volta? Tutto per fare contenta Confindustria?
Noi la risposta a queste domande ce la siamo data. Il problema vero, ci pare, è che troppi non se le
siano nemmeno poste.

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Augusto Illuminati - Sentinella, a che punto è la notte?


[12 Marzo 2020 – Dinamopress.it]

Non è la fine del mondo, ma di un mondo. Anzi, è la crisi profonda di un mondo e, in quanto tale,
apocalittica, cioè rivelatrice. E quel mondo è la globalizzazione neoliberale, i cui fragili flussi e catene
di fornitura e consumo sono stati sconvolti e interrotti da una pandemia che forse hanno contribuito
a suscitare, di sicuro ad amplificare e accelerare.
Una crisi simultanea della domanda e dell’offerta di merci e del suo combustibile fossile, una crisi
aggravata da una simultaneità geografica che non ha consentito la classica manovra compensatoria di
scarico territoriale secondo sviluppo ineguale. Crisi dell’economia reale che si è riflessa nella finanza
e non crisi finanziaria con ricaduta sull’economia industriale e sull’occupazione, come nel 2008.
Questa crisi era latente (e ampiamente preannunciata da almeno un paio d’anni a livello sia strutturale
che dei movimenti anomali di borsa), crisi che non aspettava che un segnale celeste per appalesarsi
agli stupiti mortali e i quattro cavalieri dell’apocalisse sono prontamente arrivati, innestando la
speculazione oracolare dei virologi invece che degli ammutoliti quanto inoperosi teologi e degli
arroganti quanto poco profetici economisti. La piaga sanitaria è ben reale e forse è soltanto la prima
di un ciclo di fenomeni virali non privi di riferimento al dissesto ambientale e climatico e più

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direttamente alla cattiva ibridazione antropica con la flora e la fauna, con la deforestazione e
l’allevamento intensivo. Ma con essi si intreccia in modo indistricabile una piaga economica, di cui
abbiamo ancor più diretta responsabilità, e che rischia di segnare in profondità la fase di ripresa civile
e demografica dopo i colpi del morbo.
La gestione neoliberale della globalizzazione non è stata in grado, sia nella versione protezionistica
Usa sia in quella debolmente pluralistica UE sia in quella della grande armonia cinese, di equilibrare
i flussi e stabilizzare gli interessi economici e geopolitici, così che le cinghie di trasmissione logistiche
e i flussi di merci e di informazioni sono saltati in aria alla prima avvisaglia epidemica. Sono dapprima
risorti muri e odi xenofobi, poi i virus hanno infiltrato la trama delle mascherine e le barriere sovrane,
portando tutti al collasso, uno dopo l’altro, finché Trump è rimasto con il cerino in mano («il virus
cinese è sbucato dal nulla») e forse con la prospettiva più agghiacciante di futura catastrofe.
Cosa mostra la crisi in corso e quali punti di intervento suggerisce?
Essa mostra l’insostenibilità di una globalizzazione fondata sul lavoro precario, illegale,
irrazionalmente distribuito per logica strutturale profonda, organizzato su piattaforme per i servizi e
su lavoro servile per la produzione. Diciamo su isole occidentali di lavoro qualificato e comunque
sempre meno retribuito e su una ben più vasta base di rider di pizze a domicilio, conducenti di Uber,
magazzinieri e distributori di Amazon, piccoli host di Airbnb nella metropoli, bambini-schiavi che
fabbricano merci ed eserciti di produttori, raffinatori e distributori di droga nella periferia globale e
all’interno della metropoli come immigrati. Basta un niente per far saltare questo sistema squilibrato
e renderne complicata la ricostruzione, anche una volta attenuata la pandemia. La crisi finanziaria –
per quanto appariscente (bastino i dati sui crolli di borsa su entrambe le sponde dell’Atlantico e del
Pacifico che saranno obsoleti già al momento della pubblicazione) è solo la manifestazione
superficiale di una crisi dell’economia reale, del suo sistema nervoso e sanguigno globale, da cui si
esce solo con un ciclo diverso – o ancora del capitale o con altra gestione di classe.
Abbassiamo però umilmente lo sguardo alla sola situazione italiana, che è stata in Occidente il
focolaio maggiore del Covid-19 e probabilmente lo sarà pure della crisi. I soldi in deficit Conte ce li
ha messi subito ed è andato a scalare da 3 a 25 miliardi di euro, come se dovesse salvare una banca.
Il che significa che al governo hanno capito che bisogna puntellare il sistema prima che crolli. E su
cassa integrazione estesa, sconti fiscali, sostegno del reddito per varie fasce per il momento non
fanno obiezioni (almeno a parole), perfino il premiato duo Alesina&Giavazzi, spiega che tutto è
lecito, costi quello che costi, per sostenere la domanda e le abitudini di spesa, addirittura garantire
incondizionatamente i lavori in essere quale ne sia la forma contrattuale.
Naturalmente le aspettative di riequilibrio si fondano sull’ipotesi di una stagnazione delle lotte sociali,
che però è ipotesi evanescente quando finirà la paura del virus e degli assembramenti e

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scarseggeranno denaro e merci – una classica situazione deflattiva di stagnazione. Al momento però
il governo Conte, con il decisivo supporto del Pd, ne esce relativamente bene: ha imposto la sua unità
nazionale, silenziando Salvini e rifiutando di concedere all’opposizione un commissario con pieni
poteri che avrebbe realizzato in forma sbilenca i deliri del Pepetee Beach e comunque indebolito la
compagine di governo, ha ottenuto un voto di fiducia pressoché unanime sulle misure di sforamento
del deficit e rinviato ad autunno (e oltre) le elezioni regionali e il referendum costituzionale, tagliando
le unghie e forse le palle al molesto pressing delle destre. La bandiera del voto anticipato raggiunge
in soffitta i barconi e Bibbiano. Magari pure l’autonomia differenziata e il taglio dei parlamentari.
Sicuramente le promesse di revisione radicale dei decreti Sicurezza, insomma una perfetta operazione
democristiana.
Tanto che adesso possiamo parlare di un Conte 3: dopo il Presidente ostaggio della maggioranza
giallo-verde a trazione salviniana e il Presidente del cartello di convergenza M5S-Pd-renziani,
abbiano finalmente un Presidente davvero autonomo, o forse meglio un ticket Conte-Gualtieri che ha
emarginato pentastellati, taglieggiatori di Italia Viva e parte del Pd e punta a governare il trapasso
dalla crisi sanitaria a quella economica e a nuovi assetti europei.
Ma cosa sta già succedendo, in attesa degli annunciati provvedimenti governativi per il sostegno al
lavoro e alle imprese? Che prevedibilmente verteranno sull’estensione della Cassa integrazione in
deroga e dei congedi parentali straordinari, sul blocco dei contributi e delle imposte per le partite Iva,
ecc. – secondo l’abituale strategia italiana di puntare a «una molteplicità di interventi, ammortizzatori
sociali, sgravi fiscali, ecc., [rispondendo] all’universalismo necessario con particolarismi e
discrezionalità», come sul nostro sito scrivono le Clap proponendo un reddito di quarantena. Questo
dovrebbe coprire proprio le figure non tutelate dai meccanismi di compensazione tipici del lavoro
dipendente formale – operatori sociali, dipendenti di cooperative, lavoratrici e lavoratori del terzo
settore, della cultura e dello spettacolo, finto e vero piccolo lavoro autonomo, ristorazione, alberghi,
palestre, turismo, formazione ecc., che vanno incontro a un blocco totale e di non breve periodo delle
retribuzioni e del reddito – come ben documenta, a proposito del terziario romano, Sarah Gainsforth.
A questo si aggiungono due problemi altrettanto grossi. Il primo è la pressione sui dipendenti del
settore pubblico per usufruire di ferie e permessi, fino a suggerire di scalare i giorni di assenza dal
TFR, invece di considerarli correttamente giorni di malattia fuori da ogni limite, alla stessa stregua
dell’obbligo a non uscire di casa per ridurre il contagio. Il secondo è la dilagante rivolta spontanea
(cioè non supportata e quindi boicottata dalle centrali sindacali) degli operai di fabbrica, che non
vogliono diventare le cavie per l’incubazione del Coronavirus solo per salvaguardare il loro regime
di sfruttamento. Gli assembramenti di protesta sono proibiti, mentre li si consente nei capannoni e

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alla catena di montaggio. Forse vale la pena di capovolgere la situazione. Perfino le aziende che
vogliono tenersi (viva) la manodopera qualificata cominciano a chiudere.
Nello stesso tempo il reddito di cittadinanza pentastellato non riesce a mantenere i suoi criteri
workfaristici e condizionali, facendo circolare a cerchi concentrici di distanza gli pseudo-lavori
inventati dal giulivo esperto del Mississippi: non ci sono i posti né li si potrebbe raggiungere per il
blocco degli spostamenti né i comuni si sognano di svolgere lavori di pubblica utilità. Un reddito di
quarantena può costituire una soluzione provvisoria per unificare figure eterogenee di assistenza ed
erogazione di mezzi di sussistenza ai milioni di precari non coperti da assicurazioni di disoccupazione
garantite contrattualmente. Il problema è oggi di sopravvivenza, domani di riattivazione della
domanda, senza di cui le aziende italiane, oltre tutto bloccate sul versante esportazioni dalla presente
catastrofica interruzione delle catene di forniture a distribuzione, non riusciranno ad avere un mercato
interno. Sempre che siano sottratti al contagio gli operai che oggi ne sono minacciati per la miopia di
Confindustria e le incertezze del Governo. Inutile aggiungere che queste misure, valide per italiani e
migranti, lavoratori formali o informali, soggiornanti e “clandestini” ­ cioè per la forza-lavoro
effettiva che produce ricchezza e che consuma, devono accompagnarsi a un potenziamento del
welfare, a cominciare dalla tutela della salute, che va ben oltre il sacrosanto aumento delle strutture
ospedaliere e di terapia intensiva criminalmente tagliate nel corso degli anni dalle strategie neoliberali
dei governi di destra e di centro-sinistra.
Nessuno si illude che bastino provvedimenti emergenziali, pur indispensabili in una situazione di
emergenza. L’uscita dalla crisi pandemica non segnerà l’uscita dalla crisi economica e il
finanziamento congiunturale con lo sforamento del debito dovrà fare i conti con cambiamenti di
struttura della spesa pubblica e del prelievo fiscale. Lotta all’evasione fiscale, certo (lo biascicano e
lo biascicheranno tutti), ma anche imposizione patrimoniale straordinaria, interventi sul regime
proprietario delle imprese strategiche e inversione delle privatizzazioni. Il lavoro intermittente e
supersfruttato che fioriva intorno alle vecchie filiere neoliberali esplose non si ricostituirà più bello e
felice che pria e all’ordine del giorno verranno – ancora in un regime capitalistico – consistenti
aumenti salariali e reddito incondizionato di cittadinanza. In alternativa un caos “virale”, migrazioni
di popoli e guerre – è più che possibile. Diamoci da fare per impedirlo.
Al viandante nel deserto che domanda a che punto è la notte, la sentinella una risposta gliela dà e
come. Interlocutoria ma con un bel rimpallo di responsabilità: «la notte sta per finire, ma l’alba non
è ancora spuntata; tornate di nuovo perciò a domandare; non vi stancate, insistete!» (Isaia, 21). La
pressione e la lotta devono continuare per uscire dalla quarantena e recuperare la grande salute. Non
sarà una passeggiata né una festa di gala. Questo l’abbiano capito in questi giorni, “stando a casa”
come prescritto.

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Barbara Battaglia - Coronavirus e legge. «La Costituzione, il nostro più grande anticorpo»
In tempi di decreti d'emergenza e autocertificazioni, un parere giuridico su quanto sta accadendo in Italia da Ilaria Valenzi,
avvocata, consulente legale della Federazione delle chiese evangeliche in Italia.
[13 Marzo 2020 – Riforma.it]

Sono tante le libertà che vengono a mancare, nei giorni della pandemia del coronavirus. E’ giusto o
sbagliato che ciò avvenga, in democrazia? E cosa ci dobbiamo aspettare?
Ne abbiamo parlato con Ilaria Valenzi, avvocata, consulente legale della Federazione delle chiese
evangeliche in Italia (Fcei), ha conseguito un dottorato di ricerca in autonomia individuale e
autonomia collettiva.

In un articolo pubblicato ieri l'altro su Avvenire, a firma di Marco Olivetti, si evoca il ruolo del
dictator, che, in epoca romana, in situazione di pericolo per la Repubblica, sostituiva i consoli.
Abbiamo qualcosa da temere?
La prima riflessione che mi sento di fare è che dobbiamo in questa fase più che mai usare le parole in
modo corretto e preciso. Spesso, in maniera forse anche un po’ approssimativa, si utilizzano termini
in modo esclusivamente divulgativo, e così perdono parte della loro potenza. Espressioni come
“dictator” o lo “stato di eccezione”, così come è stato citato pochi giorni fa da Giorgio Agamben (in
un editoriale del filosofo su Il manifesto, del 26 febbraio scorso, intitolato appunto “Lo stato
d’eccezione provocato da un’emergenza immotivata”, ndr), vanno spiegate molto bene. Perchè
secondo i filosofi del diritto il contrario dello stato di diritto, lo stato di eccezione, è quello retto da
una figura totalitaria che fa in buona sostanza tutto ciò che vuole. Carl Schmitt, filosofo del diritto e
dello Stato, vede realizzato lo stato d’eccezione nel Terzo Reich.
Dunque questo non ha attualmente alcuna corrispondenza con la realtà. Noi non siamo in uno stato
di eccezione ma in uno stato di emergenza: uno stato che viene dichiarato con un decreto legge che
determina una serie di procedure per la tutela generalizzata della popolazione, come ad esempio lo
sforzo e l’uso più ampio della Protezione civile. Si tratta di un tipo di situazione che permette una
compressione delle libertà ma non la loro sospensione, ciò vuol dire che i nostri diritti – ancorché
compressi – sono tutelati. Siamo e restiamo uno Stato di diritto.

Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha emanato diversi decreti (DPCM), fino all’ultimo di
ieri sera, 11 marzo. Quali sono le specifiche dei vari strumenti giuridici messi in campo fino ad ora?
In primis Conte ha emanato un decreto particolare, un decreto-legge, il numero 6 del 23 febbraio
scorso, che è uno strumento di legislazione di emergenza e d’urgenza previsto dalla nostra

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Costituzione, all’articolo 77, che consente, in casi straordinari, che la funzione legislativa non venga
attivata dal parlamento ma dal potere esecutivo.
Nella nostra storia la decretazione d’urgenza non è una rarità, c’è stato ad esempio un picco altissimo
di misure di questo tipo negli anni di piombo, ed è poi rimasta sempre nella cultura giuridica di questo
paese.
La forza del decreto-legge è che, dopo 60 giorni, se non convertito in legge, non ha più valore di
legge, il che significa che se non c’è un passaggio in parlamento non si tramuta in legge.
Dunque con il decreto-legge numero 6 del 2020 il governo ha dichiarato la costruzione generale di
dichiarazione dello stato d’emergenza, e ha rimandato le modalità applicative e la sua attuazione
specifica ai decreti successivi del Presidente del Consiglio – i DPCM – che non sono norme di legge
“alta” ma norme di legge amministrativa.

C’è poi tutta la partita dell’autocertificazione.


I DPCM non hanno un potere “totale”, il governo ha cercato quindi di declinarne ulteriormente le
misure, all’interno della cornice degli strumenti a disposizione. Ed ecco quindi il ricorso a uno
strumento già molto diffuso in Italia che è l’autocertificazione, cioè la certificazione che ogni
cittadino può compilare autonomamente, in cui dichiara di essere in una determinata condizione di
necessità , per potersi muovere ad esempio da una parte all’altra della città in cui vive. Se
l’autocertificazione non è veritiera, scatta la sanzione. Quindi il diritto alla mobilità, ad esempio, non
è negato ma è garantito nei limiti nel DPCM.
Chiaramente c’è un problema del potere di repressione – di come viene esercitato -, che si pone
sempre all’attenzione del diritto. Ma la ratio è che la salute pubblica è un bene che pesa di più di altri
beni costituzionali. Il diritto funziona così: la sanzione ha in questo caso una funzione di garanzia di
diritti per tutti.

Il paragone con quanto fatto a Wuhan è possibile, considerate le differenze tra l’Italia e il sistema
politico della Repubblica Popolare Cinese?
Dobbiamo ricordare che noi viviamo in uno Stato di diritto, uno Stato democratico: nonostante le
compressioni dei diritti, noi abbiamo piene tutele. Gli strumenti di esercizio del diritto sono
diversissimi, tra una democrazia e uno Stato totalitario: noi abbiamo l’autocertificazione, in un regime
c’è il controllo. In Italia possiamo valutare ciò che è giusto e sbagliato, c’è un controllo a posteriori,
non preventivo.
Vedremo nei prossimi giorni quali saranno gli effetti delle sanzioni, ma pensiamo sempre a ciò che
accade in altri sistemi penali, molto più duri.

167
E ricordiamo anche che le norme che sono state attuate rispettano già il sistema penale, perchè non
è possibile creare norme penali senza un coinvolgimento del parlamento, e quindi sottolineo che le
sanzioni rientrano in norme già previste dal Codice Penale, come ad esempio l’articolo 650
sull’inosservanza dei provvedimenti dell’autorità.

Superata l’emergenza, come ne uscirà lo Stato di diritto?


Concordo con chi chiede che al termine di questo periodo di crisi vi sia una commissione di
valutazione dei provvedimenti emanati. Ritengo anche che alcuni risvolti della crisi andranno
assolutamente affrontati, come l’utilizzo dei big data e il rispetto della privacy legata in particolare ai
dati sanitari raccolti in questi mesi.
Ma credo che tutto sommato l’esercizio del bilanciamento tra i diritti costituzionali siamo in grado di
farlo, non ho timori per lo Stato di diritto. Abbiamo un grosso anticorpo: è la nostra Costituzione.

Luca Casarotti - L’emergenza per decreto


Un giurista analizza il testo dei Dpcm sul Coronavirus. Sono dispositivi che mirano a produrre effetti psicologici prima
che giuridici. L’indeterminatezza delle proposizioni rischia di aprire il campo alla discrezionalità del potere
[13 Marzo 2020 – Jacobin.it]

Il nucleo di questa mia riflessione è apparso tra i commenti al terzo “Diario virale” di Wu Ming. Mi
sembra utile riprenderlo e ampliarlo qui, per proseguire il discorso su come uscire collettivamente
dalla paura. Per le conseguenze pratiche che stanno producendo, i decreti del presidente del consiglio
dei ministri (Dpcm) promulgati l’8 e il 9 marzo sono la sineddoche dell’intera politica statale di
gestione dell’epidemia di Covid19: guardati nel loro aspetto testuale, sono due atti – il precedente più
ancora del successivo – che mirano a produrre effetti retorici e psicologici prima che giuridici. Lo
stesso vale per quello promulgato, terzo in quattro giorni, la sera dell’11 marzo. Per spiegare cosa
intendo dire, prendo in esame alcune delle norme più rilevanti che questi decreti hanno introdotto.
Nella conferenza stampa che ha preceduto la pubblicazione in Gazzetta ufficiale (quest’ultimo in
sostanza solo un atto dovuto, dato che il testo era noto dalla sera prima), il premier Conte ha voluto
sottolineare che il decreto dell’8 marzo avrebbe contenuto soprattutto raccomandazioni e inviti. Quel
Dpcm puntava cioè a (tentare di) persuadere più che a prescrivere. A cominciare dalla disposizione
fondamentale, quella dell’art. 1, comma 1, lettera a):
Evitare ogni spostamento delle persone fisiche […] salvo che per gli spostamenti motivati da
comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero spostamenti per motivi di salute.

168
A parte l’innecessaria ripetizione del sostantivo «spostamenti», che non è il punto, il verbo «evitare»
è uno di quelli che non ci si aspetta in una norma giuridica. Se qualcuno mi dice di evitare di fare
qualcosa, non mi sta imponendo di non farla. Dunque io potrei farla lo stesso, disattendendo l’invito
a evitare. E ancora, lettera b):
ai soggetti con sintomatologia da infezione respiratoria e febbre (maggiore di 37,5° C) è fortemente
raccomandato di rimanere presso il proprio domicilio e limitare al massimo i contatti sociali,
contattando il proprio medico curante.
Anche qui l’italiano zoppica («contatti», «contattando»), ma di nuovo non è questo il punto: il punto
è che la disposizione esprime una forte raccomandazione, ma nessun comando.
Per questo ho definito il decreto un provvedimento retoricamente orientato. La retorica, buona o
cattiva che sia, è la tecnica che serve a persuadere, mentre la norma giuridica solitamente esprime un
comando o un permesso. Si dirà: cosa c’è di sbagliato nel fare solo raccomandazioni? In fondo, un
invito è preferibile a un ordine. Meglio la soft law della hard law. Di sbagliato c’è questo: che
l’indeterminatezza delle proposizioni lascia spazio alla discrezionalità e a forme coercitive non
immediatamente decifrabili.
A decreto appena pubblicato, infatti, sono sorti quesiti sulla sua applicazione: in particolare, su come
si sarebbero controllati gli spostamenti delle persone, e su quali sarebbero state le sanzioni per chi si
fosse spostato senza giustificato motivo. Al riguardo, già nella giornata di domenica, il Ministero
dell’interno ha emanato una circolare in cui è scritto che spetta ai prefetti disporre posti di blocco per
fare controlli a campione, che i controllati devono autocertificare le ragioni dei loro spostamenti, e
che quelli ritenuti ingiustificati sono punibili ai sensi dell’art. 650 del codice penale. Chi violasse il
divieto assoluto di spostamento previsto per le persone in quarantena dall’art.1, comma 1, lettera c)
del Dpcm, aggiunge la circolare, potrebbe commettere il delitto di cui all’art. 452 cod. pen. Con la
direttiva ministeriale ai prefetti rientra dunque dalla finestra il diritto penale, solo all’apparenza
cacciato dalla porta con gli inviti e le raccomandazioni del Dpcm. In realtà è lo stesso Dpcm, all’art.
4, comma 2, a richiamare l’art. 650 cod. pen.:
Salvo che il fatto costituisca più grave reato, il mancato rispetto degli obblighi di cui al presente
decreto è punito ai sensi dell’articolo 650 del codice penale, come previsto dall’art. 3, comma 4, del
decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6.
L’art. 650 punisce la trasgressione «a un provvedimento legalmente dato dall’autorità» con l’arresto
fino a 3 mesi e con l’ammenda fino a 206 €. Nella prassi, poi, la pena irrogata per questa
contravvenzione è praticamente sempre quella pecuniaria. Pena che con il procedimento di oblazione
(vale a dire: quando la si paga spontaneamente senza attendere la sentenza di condanna) è ridotta alla
metà. Detto cosa prevede, sull’art. 650 dovremo tornare a breve, parlando dei decreti del 9 e dell’11

169
marzo. Intanto appuntiamoci che, anche solo stando alla lettera del Dpcm, non rientrano nell’ambito
sanzionatorio le raccomandazioni e gli inviti contenuti nel decreto.
Quanto al fatto che la circolare ministeriale menziona l’art. 452 del codice penale, l’informazione ha
avuto il suo ruolo nell’alimentare la paura, diffondendo inesattezze anche gravi. Chi trasgredisce il
decreto rischia la reclusione fino a dodici anni, ha scritto ad es. il Sole24ore. Le cose non stanno così.
Ecco il testo dell’art. 452 del codice penale:
Chiunque commette, per colpa, alcuno dei fatti preveduti dagli articoli 438 e 439 è punito:
1) con la reclusione da tre a dodici anni, nei casi per i quali le dette disposizioni stabiliscono la
pena di morte;
2) con la reclusione da uno a cinque anni, nei casi per i quali esse stabiliscono l’ergastolo;
3) con la reclusione da sei mesi a tre anni, nel caso in cui l’articolo 439 stabilisce la pena della
reclusione.
Quando sia commesso per colpa alcuno dei fatti preveduti dagli articoli 440, 441, 442, 443, 444 e
445 si applicano le pene ivi rispettivamente stabilite ridotte da un terzo a un sesto.
La reclusione dai 3 ai 12 anni è prevista al n. 1), che rimanda agli artt. 438 e 439, nella parte in cui
questi stabiliscono la pena di morte. Ma essendo la pena di morte stata abolita dal codice penale con
il decreto luogotenenziale 10 agosto 1944 n. 224, il n. 1) dell’art. 452 s’intende implicitamente
abrogato. La pena massima che può essere irrogata in applicazione dell’art. 452 è 5 anni (n. 2).
Scrivere che chi trasgredisce il decreto rischia il carcere fino a 12 anni è errato, e alimenta un panico
già alle stelle dopo venti giorni di emergenza. Questo va detto, ma va detto altrettanto chiaramente
che a monte dell’errore giornalistico c’è una circolare ministeriale che si richiama all’art. 452 in
maniera molto impropria. L’intento del ministero è di evocare il timore della sanzione penale per chi,
con un comportamento colposo, contribuisse al rischio di propagazione dell’epidemia. L’art. 452,
infatti, rimanda a sua volta all’art. 438, che appunto punisce il pericolo di causare un’epidemia
«mediante la diffusione di germi patogeni». Ma il reato di epidemia non è affatto stato pensato per i
comportamenti a cui il ministero vorrebbe applicarlo, seppure nella sua declinazione colposa. Il
manuale di diritto penale di Giovanni Fiandaca ed Enzo Musco ne presenta così la ratio: «Questa
fattispecie, sconosciuta ai codici precedenti, è stata introdotta dal legislatore del Trenta in base alla
considerazione che l’evoluzione scientifica ha (almeno teoricamente) incrementato la possibilità di
procurarsi colture di germi patogeni, al fine di provocare e diffondere epidemie». Insomma, nulla a
che vedere con violazioni dell’isolamento imposto dalla quarantena. Teniamo oltretutto conto che
l’art. 438, a cui il 452 – come detto – rimanda, punisce chi causa un’epidemia. E chi può, ora, anche
solo determinare il pericolo di causare un’epidemia, dato che l’epidemia è già in atto?

170
L’ulteriore Dpcm promulgato la sera di lunedì nove marzo, oltre a estendere a tutta Italia le misure
adottate il giorno prima per la Lombardia e per quattordici province tra Veneto, Piemonte e Marche,
e oltre a sospendere le competizioni sportive, ha posto un divieto assoluto di assembramento, su cui
va spesa qualche parola. Ecco com’è formulato: «Sull’intero territorio nazionale è vietata ogni forma
di assembramento di persone in luoghi pubblici o aperti al pubblico». Ora, a ogni divieto corrisponde
una sanzione, e in questa disposizione la sanzione non è espressa. Il che, in primo luogo, ne rende
oscura la comprensione ai destinatari. Una disposizione scritta in questo modo contiene un unico
messaggio: sappiano tutti che esiste un divieto. Dunque ottiene, ancora una volta, un effetto retorico-
psicologico. Nella logica dell’emergenza, lasciar aleggiare lo spettro di un generale divieto, senza
precisarne i confini, induce paura.
A proposito di retorica (e di ideologia, dato che ogni retorica è la traduzione verbale di un’ideologia):
non sorprendono, ma comunque preoccupano il compiacimento e la voluttà con cui esponenti di tutte
le forze di maggioranza e opposizione, nella giornata del 9 marzo, hanno scritto e pronunciato le
parole «zona rossa», chiedendone l’estensione a tutto il paese. Matteo Renzi non si è accontentato, e
l’11 marzo ha dichiarato che tutta l’Europa dovrebbe essere un’unica zona rossa.
Tornando al divieto d’assembramento, la convinzione generale è che, in mancanza di una sanzione
espressa, chi lo trasgredisca sia punito ai sensi dell’art. 650 del codice penale. Ma questo non è affatto
sicuro. I giuristi più lucidi se ne sono accorti. La norma del codice penale, lo abbiamo visto, punisce
la trasgressione ai provvedimenti legalmente dati dall’autorità. Come si legge nel commentario al
codice penale diretto da Emilio Dolcini e Gian Luigi Gatta, per provvedimento si intende un atto
«diretto a una o più persone determinate o determinabili in relazione a contingenze attuali e presenti»:
dunque un atto che ha le caratteristiche dell’individualità (diretto a una o più persone) e della
concretezza (emesso in contingenze attuali e presenti). Il divieto di assembramento è invece generale
e astratto: vale cioè per tutti i soggetti tenuti a rispettare le norme dell’ordinamento giuridico, e
riguarda una situazione ipotizzata in via preventiva nel decreto; non casi verificatisi in un dato luogo
e in un dato momento. Generalità e astrattezza, cioè le caratteristiche della norma giuridica, sono
l’opposto di individualità e concretezza, cioè le caratteristiche del provvedimento. Quella che pone il
divieto assoluto di assembramento è quindi senza alcun dubbio una norma giuridica. Sempre nel
commentario diretto da Dolcini e Gatta si legge che la violazione delle norme giuridiche «per
opinione unanime non è sanzionata dall’art. 650», e che l’inosservanza di una norma giuridica «può
essere repressa solo con la sanzione dalla norma stessa eventualmente stabilita, dovendosi concludere,
in mancanza di previsioni sanzionatorie, che la disposizione non sia obbligatoria». E il divieto di
assembramento, che – ripetiamolo – è posto da una norma giuridica, non solo non richiama l’art. 650

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del codice penale, ma non prevede nessun’altra sanzione per i trasgressori. Quindi le denunce per
violazione dell’art. 650 che hanno cominciato a fioccare sono quasi certamente infondate.
Identica l’interpretazione che si deve dare al Dpcm dell’11 marzo. Il decreto impone la sospensione
di alcune attività economiche, ma non prevede sanzioni per l’inosservanza. Anche in questo caso,
quindi, sarebbe sbagliato ogni richiamo all’art. 650 del codice penale.
Del Dpcm dell’11 marzo colpisce anche un altro aspetto: l’enorme distanza tra il suo effettivo
contenuto e le parole d’ordine con cui politica e media lo hanno propagandato. Se lo slogan bipartisan
che ne ha prima chiesto e poi salutato l’adozione è stato «chiudiamo tutto», niente di simile emerge
dalla lettura del decreto. Interessata dalla sospensione, infatti, è una parte del terziario, mentre per gli
altri settori è raccomandata o prescritta la continuazione delle attività. La sera dell’11 marzo, dopo il
discorso del presidente del consiglio in diretta su tv e social, abbiamo potuto accorgerci della
discrepanza tra piano della propaganda e piano dei fatti. Da un lato i media amplificavano il plauso
trasversale agli schieramenti politici che ha accolto le parole di Conte. Dall’altro, fuori dalla bolla
mediatica, c’era la paura di tante e tanti fra noi: librai indipendenti preoccupati per le conseguenze
della chiusura, figlie di titolari di piccoli negozi in pensiero per i genitori, lavoratrici e lavoratori (la
maggior parte) per i quali la produzione non si ferma a dispetto dei rischi. Un divario paradigmatico,
che mostra chi il potere chiama a sopportare il peso dell’emergenza.

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Fulvio Vassallo Paleologo - Diritto alla salute e diritti di libertà, cosa resterà dello stato di
diritto?
[13 Marzo 2020 – ADIF]

1.Le recenti limitazioni imposte in nome del diritto alla salute ai diritti di libertà, di circolazione e di
riunione, per tutti, e persino alla libertà personale, con riferimento alla condizione delle persone
detenute o sottoposte al regime di detenzione amministrativa, pongono difficili questioni sul piano
dell’efficacia e della compatibilità con il sistema di garanzie previsto dalla Costituzione , dalle leggi
interne e dal diritto sovranazionale. La diffusione dei casi di positività al COVID 19 e l’aumento delle
vittime si deve affrontare con misure incisive e tempestive, ma ci dobbiamo chiedere tutti cosa resterà
del nostro vivere sociale e delle garanzie democratiche dopo che questa terribile pandemia abbia
superato il suo picco più alto. Nessuno si può illudere che le misure restrittive adottate per tutto il
territorio nazionale in questi ultimi giorni durino soltanto alcune settimane, ci vorranno mesi, forse
anni, per un recupero della libertà di corcolazione, ed a fronte della probabile caduta del regime

172
Schengen, e della stessa capacità regolatrice della mobilità umana da parte degli stati, nulla sarà più
come prima. Anche a livello internazionale.Dopo l’Austria anche la Slovenia ha chiuso le sue
frontiere con l’Italia e presto altri paesi potrebbero fare lo stesso. Un dura lezione per i sovranisti che
volevano chiudere le frontiere italiane a fronte di una invasione inesistente.
Chiariamo subito che non si vuole mettere qui in discussione la necessità e l’urgenza di misure atte a
contrastare la diffusione del COVID 19 limitando i contatti interpersonali, in un momento in cui in
Italia il sistema sanitario pubblico, dopo anni di espansione della sanità privata, non sembra reggere
la domanda di assistenza in terapia intensiva che si moltiplica giorno dopo giorno. Una situazione che
i cittadini del meridione d’Italia scontano da anni ricorrendo per le cure delle malattie più gravi alle
strutture sanitarie meglio organizzate del nord, oggi irraggiungibili. Si può dire che la situazione di
emergenza che si vive in Lombardia, come in Piemonte, in Emilia-Romagna e nel Veneto, riguarda
tutti gli italiani e non solo i residenti in quelle regioni. Come pure è condivisa la sofferenza per le
troppe vittime che questa pandemia sta producendo. Indipendentemente dalla loro età.
Si tratta però di capire che su queste misure di emergenza, adotatte anche in ritardo sui territori più
colpiti, alcune parti politiche stanno basando un preciso progetto di potere utilizzando le autonomie
locali e regionali in funzione antigovernativa in modo da costringere il governo centrale a fare proprie
scelte che sono imposte attraverso alcuni Presidenti di regione, piuttosto che decisioni del Parlamento
basate sui pareri forniti da comitati tecnici o gruppi di esperti. Mentre il Parlamento è di fatto
paralizzato, dopo gli ostruzionismi delle opposizioni, dagli allarmi sanitari, il potere esecutivo sembra
procedere con modalità che si sottraggono ad una verifica politica ed a quasiasi controllo da parte
dell’ordine giudiziario, con una concentrazione di poteri nei prefetti mai vista in precedenza. Una
modalità di governo che si era già palesata in passato, sul terreno del controllo degli ingressi delle
persone migranti, e che ora si riproduce all’ennesima potenza a fronte dell’emergenza del COVID
19. Con sviluppi ancora imprevedibili in vista dell’ulteriore espansione della pandemia e di
conseguenze economiche disastrose che produrranno, dopo le prime settimane di attesa e di
confinamento nelle case, una forte conflittualità sociale. Come si può già rilevare dalle proteste
attorno alle carceri e dentro gli istituti di pena, che non possono essere semplicisticamente liquidate
con un richiamo a non meglio identificati disegni eversivi gestiti dall’esterno. La situazione di
sovraffollamento delle carceri era già nota da tempo, ed i provvedimenti degli ultimi governi hanno
accresciuto ulteriormente la popolazione carceraria. Quattordici morti in pochi giorni, dopo la rivolta
scoppiata nel carcere di Modena dove si era verificato un caso di positività al virus, richiedono misure
concrete e indagini approfondite.
Al di là delle scelte imposte al governo dall’opposizione che muove i Presidenti di regione come
pedine di un gioco delle parti bene orchestrato, al punto che al Presidente del consiglio è persino

173
sfuggita la definizione del capo dell’opposizione come “ministro”, le autorità periferiche vanno
ancora oltre, come si sta verificando dopo l’ultimo Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri
(DPCM) del 9 marzo scorso. Lo si avverte dalla pressione delle forze di polizia che comprimono,
anche con comandi verbali non formalizzati, la residua libertà di circolazione consentita dai
provvedimenti del governo, e adesso se ne ha una conferma definitiva, con l’assegnazione al prefetto
dei poteri di ricorrere all’esercito per l’adempimento di funzioni di pubblica sicurezza, come è
previsto da una circolare emanata il 12 marzo dal ministro dell’interno Lamorgese.

2.Secondo quanto comunicato dall’ANSA, e ripreso da varie agenzie, “anche i militari potranno
fermare i cittadini per controllare se rispettano le disposizioni previste dai decreti per l’emergenza
coronavirus. Lo ribadisce la circolare del Viminale per una corretta applicazione delle norme
introdotte con l’ultimo Dpcm. La circolare richiama il decreto del 23 febbraio 2020 e sottolinea: “al
personale delle forze armate impiegate, previo provvedimento del Prefetto competente, per assicurare
l’esecuzione delle misure di contenimento…è attribuita la qualifica di agente di pubblica sicurezza”.
L’articolo 2 comma 5 del decreto in questione prevedeva infatti espressamente che ” al personale
delle Forze armate impiegato, previo provvedimento del Prefetto competente, per assicurare
l’esecuzione delle misure di contenimento di cui agli articoli 1 e 2 e’ attribuita la qualifica di agente
di pubblica sicurezza”. Come si prevedeva già con la estensione alle forze armate delle facoltà di
polizia di cui all’art. 4 della legge 22 maggio 1975, n. 152 (legge Reale).
La “sanità”, può costituire un limite generale alla libertà di circolazione e soggiorno prevista dall’art.
16 della Costituzione, ma solo se lo prevede la legge, e non l’atto amministrativo a contenuto
discrezionale, e soltanto la legge può costituire il fondamento di accertamenti ed ispezioni che
limitino la libertà di domicilio ai sensi dell’art. 14 della Costituzione.
Questi poteri eccezionali si sono basati nel tempo su situazioni di particolare allarme per l’ordine
pubblico. L’articolo 4 della legge n. 152/1975, recante “Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico”,
prevedeva che, in casi eccezionali di necessità e d’urgenza, che non permettono un tempestivo
provvedimento dell’autorità giudiziaria, gli ufficiali ed agenti della polizia giudiziaria e della forza
pubblica nel corso di operazioni di polizia possono procedere, oltre che all’identificazione,
all’immediata perquisizione sul posto, al solo fine di accertare l’eventuale possesso di armi, esplosivi
e strumenti di effrazione, di persone il cui atteggiamento o la cui presenza, in relazione a specifiche
e concrete circostanze di luogo e di tempo, non appaiono giustificabili. In tali casi la perquisizione
può estendersi, per le stesse finalità, al mezzo di trasporto utilizzato da tali persone per giungere sul
posto. Di tali perquisizioni deve essere redatto un verbale che va trasmesso, entro quarantott’ore al
procuratore della Repubblica”.

174
Anche la legge 26 marzo 2001, n. 128, “Interventi legislativi in materia di tutela della sicurezza dei
cittadini”, conosciuta come “pacchetto sicurezza”, che recava norme volte ad arginare la criminalità
prevedeva, tra l’altro, la possibilità di fare ricorso alle Forze armate per lo svolgimento dei compiti
di sorveglianza e vigilanza del territorio, liberando in tal modo il personale delle Forze di polizia da
tali incombenze per consentirgli di concentrare maggiormente la sua azione nel diretto contrasto della
criminalità. In particolare, l’articolo 18 stabiliva che, in relazione a specifiche ed eccezionali esigenze,
è consentito impiegare personale militare delle Forze armate per il controllo di obiettivi fissi, edifici
istituzionali ed altri di interesse pubblico. A tal fine, il Consiglio dei ministri, su proposta del
Presidente del Consiglio, di concerto con i Ministri dell’interno e della difesa, adotta specifici piani
per l’utilizzazione di tale personale da parte dei prefetti delle province in cui si sono verificate le
specifiche ed eccezionali esigenze sopra citate. Il personale militare è posto a disposizione dei prefetti
ai sensi dell’articolo 13 della legge 1° aprile 1981, n. 121, “Nuovo ordinamento dell’Amministrazione
della pubblica sicurezza” (comma 1).
Ci si deve interrogare a questo punto sull’attuale impatto sociale e sulla reale efficacia di questa
misura, che assegna adesso ai militari funzioni di agenti di pubblica sicurezza, una misura che
apparentemente richiama la precedente operazione “Vespri siciliani” seguita nel 1992 alle stragi di
mafia, con la quale si attribuiva al personale militare la qualifica di agenti di pubblica sicurezza per
identificare e perquisire persone e mezzi di trasporto, al fine di prevenire e contrastare la criminalità
di stampo mafioso.
La delega di funzioni di pubblica sicurezza ai militari si insrisce nel solco dell’operazione “Strade
sicure” promossa dal governo Berlusconi nel 2008, ancora attiva nel corso di quest’anno, ma che si
propone oggi con caratteristiche assai diverse, in un momento di completo esautoramento delle
assemblee elettive, e con una concentrazione di poteri in capo all’esecutivo ed alle prefetture, e
dunque ai comandi militari, mai vista in precedenza. Ai tempi delle operazioni antimafia “Vespri
siciliani” i militari dell’esercito si spostavano sulle strade in funzione di pubblica sicurezza
muovendosi in pattuglie formate con agenti di polizia o con carabinieri, oggi sembra loro riconosciuta
una completa autonomia, seppure per effetto della richiesta di intervento da parte della prefettura a
fronte dei divieti di circolazione imposti per contrastare il COVID 19.
Appare però evidente come mentre in passato i militari dell’esercito avevano prevalenti funzioni di
sorveglianza di luoghi come stazioni ed aereoporti, esposti al rischio terrorismo, o di sedi e persone
esposte a rischio per le loro attività, come i magistrati, oggi le forze armate vengono dotate di un
potere diretto di controllo sulla libertà di circolazione dei cittadini, e degli stranieri, di tutti i
soggiornanti nel territorio dello stato, con conseguenze che allo stato non sono prevedibili, sul piano

175
del rispetto dei diritti di libertà previsti dalla Costituzione e dalle Convezioni internazionali, che
comunque non possono ritenersi sospesi per effetto di una serie di decreti del governo.

3.Il tema dell’attribuzione di compiti di ordine pubblico a militari inquadrati nell’esercito rimane
assai controverso. La frammentazione delle forze di polizia alle quali si assegna oggi il delicatissimo
compito di limitare la libertà di circolazione delle persone, cittadini e stranieri, regolari ed irregolari,
conferma l’esistenza di un sistema di controllo difuso sulla libertà dei citadini, che appare privo di un
reale coordinamento, che non potrà essere garantito certo dalle prefetture, e di modelli condivisi ed
omogenei di intervento. Se a questo sommiamo i poteri di ordinanza attribuiti ai sindaci in materia di
sicurezza pubblica, scopriamo di essere di fronte ad una situazione assolutamente non prevedibile, a
seconda dei diversi territori. Gli articoli 117 e 118 della Costituzione prevedono diverse forme di
coordinamento Stato-Regioni-enti locali in materia di ordine pubblico e sicurezza che non sembrano
certo garantiti dai provvedimenti di urgenza adottati dal governo a fronte dell’emergenza COVID 19.
A questo punto si dovrebbe adottare una legge a livello nazionale che fissi tutte queste competenze e
dia certezza del diritto, senza affidare poteri discrezionali tanto ampi, in questo momento di
emergenza, ad autorità come i prefetti o i vertici militari.
Quali forme di controllo giurisdizionale sull’operato delle forze armate e delle stesse forze di polizia
impiegate in operazioni di pubblica sicurezza che limitano la libertà di circolazione sono oggi previste
ed effettivamente azionabili, in un momento in cui viene fortemente limitata la libertà di circolazione
e si è ridotto l’accesso alle sedi della giustizia, con il blocco quasi completo del funzionamento di
Tribunali e organi di difesa legale?
Sono certamente da sanzionare i comportamenti irresponsabili di chi si sottrate alle limitazioni
previste dalle leggi e dai decreti del governo. Ma quale possibilità di difesa effettiva rimane ai
cittadini, ed in particolare ai soggetti più vulnerabili, come gli immigrati irregolari, o trattenuti nei
centri di permanenza per i rimpatri o per coloro che vengono espulsi dal sistema di accoglienza?
Analoghi problemi si potrebbero porre per i cittadini italiani e per le persone straniere in regola con
il permesso di soggiorno. Sono già numerosi i casi di persone fermate soltanto perchè uscite di casa
ed intimate verbalmente di farvi rientro, senza alcuna valutazioni delle ragioni del loro movimento,
che la legge ammette ancora per attività di esercizio fisico, oltre che per l’acquisto di generi di prima
necessità e per motivi di salute. Si stanno moltiplicando le condizioni di clandestinità per tutti coloro
che sono privi di un alloggio stabile come gli occupanti di case. Per non parlare della situazione dei
senza fissa dimora, decine di migliaia di persone allo sbando da tempo, che oggi vengono individuate
come la nuova categoria degli “untori” e ricevono denunce in serie.

176
Sulla carta rimane il chiaro principio scolpito dall’art. 24 della Costituzione (e confermato dalla
Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo), chiunque può agire in giudizio per la tutela dei propri
diritti e dei propri interessi legittimi, ma quanto sarà possibile garantire effettivamente questo diritto
alla difesa ? E quanto resteranno le forze dell’ordine, ormai dotate di un enorme potere discrezionale
nella valutazione dei comportamenti individuali, nel solco di quella imparzialità e di quel principio
di legalità che in base alla Costituzione ne deve caratterizzare ogni attività soprattutto quando
interferisce con i diritti di libertà ? Abbiamo già visto quale uso abbiano fatto alcuni prefetti del potere
di ordinanza per impedire riunioni democratiche di lavoratori che rischiavano di perdere il posto di
lavoro.
Come si rileva in dottrina, secondo quanto ha osservato la Corte Costituzionale riguardo al potere dei
sindaci di emanare ordinanze in materia di sicurezza urbana, ogni conferimento di poteri
amministrativi deve rispettare il principio di legalità sostanziale, posto a base dello Stato di diritto».
Secondo la Consulta, «non è sufficiente che il potere sia finalizzato dalla legge alla tutela di un bene
o di un valore, ma è indispensabile che il suo esercizio sia determinato nel contenuto e nelle modalità,
in modo da mantenere costantemente una, pur elastica, copertura legislativa dell’azione
amministrativa» .
Le odinanze prefettizie che già negli scorsi anni limitavano la libertà di circolazione nelle cd. zone
rosse sono state un precedente che è opportuno considerare per valutare la legittimità dei compiti che
gli stessi prefetti possono assegnare oggi a militari dell’esercito con funzioni di pubblica sicurezza.
Dopo l’istituzione di tante “zone rosse” adesso tutta l’Italia è diventata una gigantesca “zona rossa”.
E le basi legislative delle attività di pubblica sicurezza in materia di libertà di circolazione appaiono
sempre più incerte.
Occorre ribadire, come hanno fatto i primi commentatori dei provvedimenti emergenziali adottati dal
governo in materia di COVID 19, ” il richiamo al fondamentale dictum della Corte Costituzionale
risalente alla sentenza n. 8/1956 in materia di ordinanze prefettizie: “efficacia limitata nel tempo in
relazione ai dettami della necessità e dell’urgenza; adeguata motivazione; efficace pubblicazione nei
casi in cui il provvedimento non abbia carattere individuale; conformità del provvedimento stesso ai
principii dell’ordinamento giuridico”; ribadito dalla sentenza n. 26/1961 che tornò a qualificare le
ordinanze di necessità ed urgenza come “atti amministrativi vincolati ai presupposti dell’ordinamento
giuridico” .
Siamo tutti chiamati ad esercitare in prima persona il massimo sforzo di sorveglianza democratica. Si
corre il rischio che, di fronte al prevedibile aggravarsi della crisi sanitaria, presto anche l’Italia possa
ricorrere all’ art. 15 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, secondo cui “in caso di guerra o in caso di altro pericolo pubblico che minacci la vita

177
della nazione” le parti contraenti possano adottare misure in deroga agli obblighi pattizi – con
l’eccezione dell’intangibilità del diritto alla vita – nella “stretta misura in cui la situazione lo richieda
…“. Nessuno, in una Unione Europea tanto sfilacciata e sotto il ricatto dei governi sovranisti,
muoverebbe un dito per salvare la fragile democrazia italiana, dopo che tutti i paesi dell’Unione si
stanno affrettando a sbarrare le frontiere Schengen e non sembrano disposti ad offrire alcuna
solidarietà sul piano economico.

4. Tocca adesso ai cittadini autorganizzarsi sui territori per svolgere una attività capillare di
monitoraggio, e di documentazione, anche dalle proprie case, su attività di pubblica sicurezza
caratterizzate da uno spettro tanto ampio di discrezionalità. Spetta alle organizzazioni non
governative, a tutte le associazioni che si battono per i diritti umani, promuovere le reti legali di difesa
sociale già esistenti per garantire un effettivo accesso alla giustizia e la tutela legale nei procedimenti
penali che dovessero essere aperti per effetto di accertamenti arbitrari da parte delle diverse autorità,
adesso anche l’esercito, alle quali si sono attribuiti poteri tanto estesi di controllo sulla mobilità delle
persone.
Occorre garantire soluzioni immediate di accoglienza straordinaria per i senza fissa dimora e va
ricostituito il sistema di accoglienza per i richiedenti asilo ed i titolari di protezione, bloccando le
espulsioni in corso.
Le carceri vanno decongestionate, anche con misure straordinarie, e va garantito un regime
controllato di comunicazione con l’esterno, come osserva anche il Garante nazionale per i detenuti e
le persone private della libertà personale, senza pregiudizio per i regimi altenativi alla detenzione che
vanno ampliati. Al loro interno devno essere garantiti gli stessi standard di sicurezza sanitaria che
sono previsti per tutti i cittadini, questo vale tanto per gli operatori penitenziari che per le persone
detenute. L’art. 32 della Costituzione che garantisce il diritto alla salute vale per tutti, ovunque si
trovi, quale che sia la sua condizione giuridica.
Vanno evacuati i centri di detenzione amministrativa, con la chiusura immediata dei CPR ( centri per
i rimpatri) bloccando immediatamente gli ingressi di altre persone da sottoporre al regime di
trattenimento amministrativo, anche a fronte del blocco delle procedure di espulsione, effetto delle
scelte di chiusura delle frontiere e dei voli dall’Italia adottate dai paesi di origine. Vanno comunque
applicate, ovunque possibile, le procedure alternative al trattenimento nei CPR previste dalla legge.
Sul piano politico più generale vanno salvaguardati e rinforzati tutti i canali di comunicazione, anche
a livello internazionale, per mantenere alta la circolazione di idee e la partecipazione democratica in
un momento in cui viene interdetta la libertà di riunione. Anche per prepararsi ai prossimi scossoni
che verranno dalla politica quando le destre passeranno all’attacco per consolidare il controllo politico

178
e il supporto di ampi settori delle forze dell’ordine, che già detengono. In un paese che, a partire dalle
false emergenze immigrazione, si è dimostrato indifferente rispetto alla lenta erosione subita dai
principi democratici sanciti dalla nostra Costituzione.
Ed ecco cosa significa l’autonomia regionale in questa materia, e non ci sono solo i presidenti delle
regioni del Nord ad imporre la loro linea al governo, qualcuno, più a sud, è convinto di potere fare
tutto da solo.

Coronavirus, ordinanze Presidente Campania nn.15 e 16 del 13-03-2020


Ulteriori disposizioni del Presidente della Regione Campania per la prevenzione e la gestione
dell’emergenza epidemiologica da COVID-2019.
Ordinanza del Presidente Regione Campania n.15 del 13/3/2020
….Omissis
Art.1
“Con decorrenza immediata e fino al 25 marzo 2020, su tutto il territorio regionale, è fatto obbligo a
tutti i cittadini di rimanere nelle proprie abitazioni. Sono consentiti esclusivamente spostamenti
temporanei ed individuali, motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità,
ovvero spostamenti per motivi di salute”
Art.2
” Ai sensi della presente ordinanza, sono considerate situazioni di necessità quelle correlate ad
esigenze primarie delle persone, per il tempo strettamente indispensabile, e degli animali d’affezione,
per il tempo strettamente indispensabile, e comunque in aree contigue alla propria residenza,
domicilio o dimora”
omissis…

Coronavirus, l’ordinanza di De Luca: “Quarantena obbligatoria per chi è in strada senza motivo, 14
aprile data chiave”
“Avevo deciso di non intervenire. Ho taciuto e taccio sui dpcm, ora non è il momento delle analisi,
poi ci interrogheremo sulla legittimità di tale strumento, sostanzialmente inoppugnabile, che sfugge
al controllo di parlamento, presidente della Repubblica e corte costituzionale. E non mi si dica che é
impugnabile in sede di giustizia amministrativa, perché la vedo dura. Si collocano in una zona grigia
tra atto politico ed atto amministrativo con una incidenza fortemente restrittiva dei diritti
fondamentali. Vabbè avremo tempo di parlare di riserva di legge e principio di legalità. Ora facciamo
quadrato! Ma quello che, ora, non può essere tollerato é il crescendo giuridico di De Luca. Oggi ha
emanato una ordinanza, la n. 15, da Stato di polizia, si è sostituito agli organi dello Stato, disponendo

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provvedimenti non attuativi, esecutivi o integrativi, ma molto più restrittivi degli atti statali. Da
stasera, la libertà di circolazione, in Campania, con provvedimento amministrativo regionale é di fatto
non limitata, ma negata. C ‘è un limite all’approccio sostanzialistico del diritto, e soprattutto del
rispetto dello Stato di diritto.”.
Alberto Lucarelli , costituzionalista, Professore di Dirtto Costituzionale Università Federico II di
Napoli

________________________________________________________________________________

Enrico Monacelli - Vivere e morire in uno stato di eccezione


Per essere all’altezza della situazione che ci ha inglobato, è ora di uscire dai recinti troppo noti di una teoria critica stanca
e asfissiante.
[15 Marzo 2020 – Not/Neroeditions.com]

Da quando è iniziata la nostra piccola fine del mondo virale, penso spesso ad alcune storie, ad alcuni
tormentoni subculturali a cui mi ero inconsciamente appassionato prima che tutto cominciasse, prima
che le mie forze cognitive fossero risucchiate dalle montagne russe esponenziali del contagio e dalla
preoccupazione della febbre incipiente. Penso o, per meglio dire, sono spesso vittima di pensieri
intrusivi e sconclusionati, ad esempio, su una delle ultime passioni delle nuove, giovani destre e di
una nutrita legione di memer post-ironici: le nostre kafkiane condizioni di vita nel prossimo futuro.
Più precisamente, ricordo involontariamente e con un certo sgomento come, fra ottobre dell’anno
scorso e metà gennaio, molti destrorsi «alternativi» e user anonimi, con le rispettive waifu come foto
profilo, passassero intere giornate su Twitter e 4chan indignati, più o meno ironicamente, dall’idea
puramente ipotetica di dover essere costretti a vivere, nei catastrofici anni che ci aspettano, in
appartamenti-capsula (in inglese, pods) mangiando insetti. Il disgusto e la repulsione nascevano, se
la mia memoria dei giorni prima del disastro non mi inganna, da due articoli: uno pubblicato dal blog
reazionario ZeroHedge – scritto, a quanto pare, da Tyler Durden in persona – e l’altro dalla CCN; nel
primo caso si analizzava, con una certa fantasia, la follia delle condizioni abitative a Los Angeles, e
nel secondo i radicali cambiamenti alimentari che dovremo affrontare a causa della crisi climatica
che stiamo vivendo. Da qui, nacque una lunga serie di tweet e post in cui si giurava fra il serio e il
faceto che, qualsiasi cosa fosse accaduta, avremmo fatto di tutto per non abbandonare la nostra
umanità e, soprattutto, non ci saremmo mai e poi mai ridotti a vivere in una capsula a mangiare insetti.
La parata di guaiti e meme terminò in un’escalation letale che partorì un’immagine apocalittica,
un’incarnazione estrema di questa futura regressione insettoide: il letto da gaming – ultima
metamorfosi della sedia pieghevole e iperconfortevole da gamer, adatta a interminabili sessioni

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videoludiche, anticipazione funesta di un’umanità rinchiusa in celle minuscole, collegata per via
endovenosa al fever dream della rete, immobile e smidollata.
In questo caso, il mio parassita cognitivo, la mia involontaria ossessione per questa cazzata può
giustificare la sua esistenza senza troppi problemi. Dopotutto, alla luce di quanto accaduto nelle
ultime due settimane, c’è qualcosa di profetico in questa paranoia collettiva, in questa indignazione
anti-alienazione, terrorizzata dall’idea di regredire nel ventre sicuro di case troppo piccole per i nostri
bisogni e desideri. Verrebbe da dire che era nell’aria, se non suonasse così macabro. Nessuno di noi
poteva immaginare che ci saremmo ritrovati effettivamente rinchiusi in casa, in difesa del bene
collettivo, costretti a misurare quanto le nostre abitazioni ci stiano strette e a misurarci la febbre a
vicenda fra un messaggio e l’altro; è come se, intimamente, già lo prevedessimo e lo temessimo – e
lo desiderassimo, forse. Oggi tutto questo sembra un sinistro esercizio di veggenza.
Eppure, fosse anche solo per vantarmi di quanto i miei pensieri intrusivi siano concettualmente
pregnanti, credo che il motivo per cui questa idea sia diventata una mia ossessione ricorrente durante
il mio periodo di reclusione antivirale sia un altro, più astratto. Credo che il motivo sia Giorgio
Agamben. Ma lasciatemi spiegare.
Analizzando questo fenomeno di massa (all’incirca), l’anonimo autore del caustico blog Totalitarian
Collectivism, una delle voci più interessanti della blogosfera anglosassone, ha sottolineato due punti
relativamente ovvi, ma sicuramente interessanti, che caratterizzano questo meme. Questo tormentone
è palesemente mosso, infatti, da due pulsioni inconsce fondamentali, da due spinte diverse e
complementari.
La prima è quella che potremmo definire una pulsione xenofoba, nel senso più letterale e meno
emotivo/moraleggiante del termine. Questo meme ci fa ridere, ci fa provare una certa repulsione o ci
terrorizza perché abbiamo una paura folle dell’Altro, dei cambiamenti radicali che ci attendono e
dell’incomprensibilità del mondo che ci circonda e che ci circonderà. Alla radice di questo fenomeno
c’è l’idea, nemmeno troppo implicita, che la modernità implichi una perdita di umanità in favore di
un Altro ignoto e antisociale, una distruzione di quella comunità umana che ci garantisce una sorta di
stabilità e normalità di specie. Isolandoci e ingozzandoci di insetti, il proverbiale stivale orwelliano
che calpesta un volto umano per sempre, simbolo della modernità più efferata e fuori controllo,
elimina qualcosa di essenzialmente e unicamente umano, cancella la nostra vicinanza col «prossimo»
e con noi stessi, avvicinando pericolosamente e inevitabilmente la nostra espunzione dalla faccia della
Terra. Per questo, secondo la legione di indignati, memer e shitposter, queste barbarie devono essere
fermate e l’umanità deve essere preservata, ad ogni costo. Mangiare scarafaggi ci fa schifo, ma mai
quanto lo shock del futuro prossimo che ci attende e le sue conseguenze.

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In secondo luogo, e questa è forse l’osservazione più interessante, questo immaginario pulp,
conservatore e antimoderno, ha un’altra funzione, meno ovvia e che scivola sotto la soglia della
coscienza. Per comprenderla, dobbiamo prendere questo meme sul serio, cercare di capire cosa dice
su di noi e sul nostro futuro. Se tentassimo, infatti, di prendere alla lettera lo scenario proposto dal
meme, dovremmo ammettere che nessuno di noi, realisticamente parlando, si troverà a vivere in una
capsula, abitazione fin troppo futuristica per l’avvenire di questo pianeta, e la scelta di mangiare
insetti potrebbe essere, per l’appunto, una scelta e non un obbligo del Grande Leviatano climatico. In
altre parole, dovremmo constatare che chi si oppone a questo stile di vita, ironicamente o meno, non
sta combattendo contro qualcosa di reale, ma sta allucinando uno scenario sci-fi in cui lui o lei è
l’eroico e il quasi sicuramente vittorioso protagonista, che non dice nulla di concreto sul futuro della
nostra specie.
Questa regressione mortifera e questo orrore culinario non hanno evidentemente una funzione
predittiva, e non sono mossi dalla volontà di fermare una tendenza degenerativa realmente in atto
nella società contemporanea, ma sono delle narrazioni fantastiche, collettivamente nutrite e mobilitate
per sublimare e semplificare una crisi complessa e cognitivamente difficile da mappare e controllare.
Se, infatti, è indubbiamente vero che le condizioni di vita stiano peggiorando rapidamente e che i
cambiamenti climatici richiederanno interventi e azioni potenzialmente dolorose, è altrettanto vero
che la capsula e il piatto di insetti sono solo simboli pallidi e facilmente addomesticabili di un
immiserimento e di una catastrofe sociale e politica che facciamo fatica a concepire e immaginare in
tutte le sue profonde e tremende implicazioni. Sono un miraggio divertente, che osserviamo per non
prendere atto della realtà che ci si para davanti. Citando l’anonimo blogger: «La miseria e la paura
della nostra vita quotidiana vengono rimpacchettate e ci vengono vendute come distopia. Le
contraddizioni del nostro sistema ci vengono raccontante come un racconto di fantascienza e vengono
estetizzate, appiattite e messe a una distanza di sicurezza. […] Una vita in una capsula e una dieta a
base di insetti non sono argomenti di cui vale la pena parlare quando c’è gente che già è costretta a
vivere in appartamenti minuscoli ingozzandosi di fast food di merda. Come sempre, queste fantasie
sono le ansie di chi sta relativamente bene, convinto che gli orrori che stanno già colpendo gli altri
toccheranno anche a lui».
Questo Giano bifronte, claustrofobico e entomofago, davanti xenofobo, terrorizzato del non-umano
e perso in un eterno attacco di panico, e dietro allucinato e illuso, mi è tornato ricorsivamente in mente
leggendo i brevi articoli di Giorgio Agamben sul covid-19, usciti in queste ultime settimane. La
struttura dei questi saggi striminziti, d’altronde, non è troppo diversa dalla fantascienza fiacca e
asfittica dei mangiatori di blatte. Letti in controluce e con una certa attenzione, gli articoletti di

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Agamben rivelano entrambi i volti di questo tipo di narrazione apocalittica, risultando una versione
colta, chiaramente involontaria, di questo folklore digitale.
A una rapida lettura, infatti, la caratteristica che appare più evidente è che il filo rosso che unisce i
due scritti è un crasso conservativismo e un terrore, al limite della fobia irrazionale, di quello che la
catastrofe virale sta facendo alla comunità umana, entità aprioristicamente buona e degna di essere
preservata, anche a costo di negare un disastro senza precedenti nella storia recente.
Più precisamente, rileggendo gli articoli si può rintracciare un vero e proprio climax di orrore, che
parte con un gentile rifiuto della gravità del virus, scandito da frasi come «Di fronte alle frenetiche,
irrazionali e del tutto immotivate misure di emergenza per una supposta epidemia dovuta al virus
corona» e «La sproporzione di fronte a quella che secondo il Cnr è una normale influenza»,
affermazioni invecchiate in maniera davvero grottesca nel giro di qualche giorno, per proseguire con
analisi dal fiato sempre più corto sulla restrizione delle nostra libertà, senza chiaramente spiegarci
che cosa voglia davvero dire essere liberi, questo valore inalienabile e supremo, in un corpo sociale
abitato da un virus così aggressivo, che culminano in un grido disperato, degno del peggior moralismo
ecumenico: «Il nostro prossimo è stato abolito». Chiamate un esorcista!
È facile vedere come questo arco narrativo non sia altro che la manifestazione di un certo tipo di
panico, di un rifiuto irrazionale di guardare in faccia la situazione e di affrontare il compito difficile
e sgradevole di dare una forma a un’etica del contagio, della cura, della reclusione e della morte.
Non potendo o non volendo affrontare l’Altro che ci si para davanti, questo prossimo nostro – il virus
– totalmente cieco e privo di ogni riguardo nei confronti del tessuto socioculturale, Agamben si chiude
in posizione fetale finché riesce, e quando la situazione si mette male lancia un vuoto j’accuse contro
l’inevitabile decorso del virus e le reazioni, comprensibilmente dure, del corpo collettivo ammalato.
Ovviamente, e mi imbarazza profondamente il sentirmi in obbligo di sottolinearlo, la mia critica non
è un’apologia servile alle misure prese finora dal governo – e con «dure reazioni del corpo sociale
ammalato» intendo una casistica molto più ampia rispetto alle azioni del macchinario statale, casistica
che comprende anche rivolte, azioni di protesta e l’organizzazione di reti di mutuo soccorso, on e
offline – ma, se l’unica via propriamente critica è l’impossibilità di discutere le condizioni concrete,
tecniche e politiche di questa pandemia e la difesa dogmatica della «libertà» a discapito di tutto e
tutti, lasciatemi il mio stato d’eccezione!
In fin dei conti, è facile vedere come questo arco narrativo non sia altro che la manifestazione di un
certo tipo di panico, di un rifiuto irrazionale di guardare in faccia la situazione e di affrontare il
compito difficile e sgradevole di dare una forma a un’etica del contagio, della cura, della reclusione
e della morte. È un’analisi mossa dallo stesso disgusto che ci fa dire «no, costi quel che costi non
vivrò in una capsula e non mangerò uno scarafaggio», è lo stesso rifiuto ipermoralista e totalmente

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impotente di affrontare la «malvagità» del mondo che ci circonda. Negare la gravità della situazione
e lagnarsi per la perdita di una supposta libertà, pre-lapsaria e pre-viroide, permette ad Agamben di
non affrontare il gelo artico dei calcoli della medicina e della clinica della catastrofe, le difficoltà di
chi cerca di costruire nuove comunità fra le rovine e l’imbarazzo e il peso di immaginare una condotta
veramente etica, fedele alla realtà che ci circonda e in grado di non cadere supina davanti alla gravità
della situazione. Gli permette, in altre parole, di dar voce al proprio disgusto nei confronti del trauma
del presente, senza doverci far niente. Come ha affermato Davide Grasso, nell’unica critica davvero
centrata dei questi ultimi exploit agambeniani: «Certa critica teorica, in ambito accademico e
“militante”, ha scelto di ritagliare per sé il vezzo esclusivo ed escludente del negativo puro: si limita
ad analizzare le dinamiche di potere, chiamandosi fuori dal problema decisivo che esso rappresenta
anche per la trasformazione».
Sotto questo rifiuto esplicito e francamente poco interessante, serpeggia, però, il lato davvero
insidioso e totalmente allucinatorio dell’analisi agambeniana, il rovescio della medaglia che ci
permette di vivere in una versione addomesticata e simulata della realtà che ci circonda, in cui ogni
agente naturale rispetta la nostra teoria critica e ne supporta incondizionatamente gli assiomi e le
conclusioni. L’inconscio di questo rifiuto moralistico del presente, infatti, nasconde la volontà di
estendere le nostre categorie teoriche a tutto il reale, inglobandolo e soffocando ogni asperità,
cauterizzando immediatamente la lacerazione cognitiva della pandemia.
Gli articoli di Agamben sono una vera e propria parata di personaggi fantastici e fantasmatici, esseri
luminosi e autoevidenti, che mascherano la gravità della situazione, l’addomesticano e la incasellano
in categorie note e facilmente riconoscibili.
Il protagonista assoluto è lo stato di eccezione, ossia la categoria schmittiana che descrive quei
momenti in cui il potere sovrano sospende la validità delle leggi dello Stato. Questa categoria politica,
centrale per l’opera di Agamben, è stata usata, seppur sotto mentite spoglie, per descrivere un po’
tutta la storia politica mondiale, dal diritto romano fino al terrorismo contemporaneo.
Ovviamente, anche davanti ai decreti del governo italiano contro il covid-19 ci ritroviamo ad aver a
che fare con questo volto notissimo. Altrettanto ovviamente, davanti a una categoria che sembra poter
essere estesa indefinitamente a tutto il reale, dovremmo chiederci se non sia ormai divenuta – o se
non sia sempre stata – una dotta finzione, un’allucinazione di massa per persone a cui la massa non
piace poi tanto, utile solo a semplificare il sofferto e imprevedibile percorso della nostra specie su
questo pianeta. Come gli insetti e la capsula ci facevano simulare una versione controllata e
semplificata delle apocalissi future, così lo stato d’eccezione ci permette di allucinare una crisi
mondiale in cui ogni rivolgimento e shock sono già stati previsti e dominati dalle nostre teorie.

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Come se non bastasse, a fianco di tale maschera teorica abbiamo un vero e proprio cast di celebrities
astratte della teoria critica post-agambeniana, che ci cullano durante la nostra traversata di questo
Stige pandemico: lo stato di eccezione come nuovo paradigma di governo, la militarizzazione della
vita quotidiana, le gravi limitazioni della libertà (individuale?), il cittadino anonimo e normale che
prima poteva tramutarsi in terrorista in ogni momento e oggi può diventare senza preavviso un
pericoloso vettore del contagio – cosa che, a livello epidemiologico, è un vero e proprio truismo, dato
che il virus pare non nutrire particolari predilezione per determinate categorie culturali, la storia
umana in generale e nemmeno per la scolastica medievale… – e, vertice del kitsch da peste nera, I
promessi sposi. Tralasciando la pregnanza di ogni singolo concetto mobilitato in questi articoli, è
tremendo constatare come il piano di contenimento del danno pandemico stilato dalla teoria critica
fossa già scritto da decenni e presentire come questo copione si ripeterà per ogni crisi a venire, a
discapito delle complessità e delle sofferenze che dovremo affrontare. È triste ed evidentemente
inutile criticare il covid-19 con le stesse categorie con cui abbiamo criticato George W. Bush junior,
allucinando un lavoro culturale che evidentemente non stiamo facendo e cercando una protezione
cognitiva dalla realtà che non possiamo e non potremo trovare.
Dalla mia critica, è bene notarlo, non discende logicamente la necessità di abbandonare ogni finzione
e di toccare con mano il reale, senza mediazioni. Non credo, infatti, nei contatti immediati e nella
conoscenza intuitiva, ma nel lavoro comunitario di dare e ricevere ragioni che motivino le nostre
azioni, le nostre forme-di-vita e le nostre previsioni. Sarebbe irresponsabile da parte mia spingere i
miei lettori ad affrontare il presente senza illusioni e senza fantasmi a cui aggrapparsi. Inoltre, davanti
a un virus totalmente ignoto, tanto a livello concettuale e intellettuale quanto a livello immunitario e
biologico, ogni previsione, ogni tentativo di controllo e immunizzazione, ogni decreto statale e ogni
atto sovversivo sono dei salti nel buio, delle elaborate finzioni e delle bugie, più o meno innocenti,
che potremo valutare solo sul piano pratico e in differita, in un futuro in cui tutti gli effetti del virus
si saranno fatti carni, un tempo che potrebbe non essere esattamente prossimo.
Ciò che invece vorrei discendesse logicamente da quanto detto è la necessità di essere all’altezza della
situazione che ci ha inglobato, uscendo dai recinti troppo noti di una teoria critica stanca e asfissiante.
Di non sacrificare gli scioperi spontanei, le rivolte in carcere, gli esperimenti e i fallimenti, i polmoni
collassati e gli organismi guariti sull’altare di una semplicità concettuale posticcia e anemica, di un
«già visto e già sentito» inutile e vuoto. Di teorizzare il disastro, non per unificare e comprimere la
molteplicità della normalità estrema che ci è toccata in sorte, ma per de-privatizzare e rendere
pubbliche le nostre ulcere cognitive e le nostre nevrosi davanti a un fenomeno inumano, che ci ha
colti totalmente alla sprovvista e che ha mandato in tilt ogni nostra categoria concettuale. Per esporci

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all’aperto e alla vertigine della pandemia. Per essere all’altezza della nostra ferita, e dei nostri colpi
di tosse.

Paolo Flores d’Arcais - Filosofia e virus: le farneticazioni di Giorgio Agamben


[16 Marzo 2020 – MicroMega]

In questi tempi amarissimi di corona virus può venire in soccorso la filosofia, che essendo per
definizione “amore della sapienza”, cioè di sapere e saggezza, ci aiuta a capire il più possibile e a re-
agire nel modo più consono e salutare (al corpo e all’anima, che sono poi la stessa cosa: “And if the
body were not the soul, what is the soul?”, Walt Withman). Potrebbe (e dovrebbe). Ma quanti sono i
filosofi che amano davvero il sapere/saggezza e lo coltivano, anziché preferire lo spaccio di
superstizioni e/o ruminazioni teologiche, prediligere funambolismi spirituali e/o esorcismi
antiscientifici, crogiolarsi e/o grufolare in mediocri deliri di narcisismo?
Leggiamo le perle di anti-sapere/saggezza distillate qualche giorno fa (11 marzo) da un filosofo di
rinomata audience internazionale, che si porta molto, massime nel mondo accademico statunitense,
saturo di post (post-heideggeriano, post-foucaultiano, post-derridiano, post-post), ma non solo:
Giorgio Agamben.
Il titolo del suo breve ma densissimo testo è “Contagio” e da esergo/sottotitolo sta mezza riga dei
“Promessi sposi” di Manzoni: “L’untore! dagli! dagli! dagli all’untore!”.
La tesi del filosofo post è che in Italia abbiamo una “cosiddetta epidemia del corona virus”, da cui
segue ingiustificato “panico”, del quale “una delle conseguenze più disumane” consiste nel
diffondersi della “stessa idea di contagio”. Il problema non è il contagio, insomma, che non c’è
(Agamben aveva già proclamato l’epidemia come invenzione il 26 febbraio) ma che se ne diffonda
l’idea. Idea che al filosofo post sembra più o meno abominevole, in quanto “era estranea alla medicina
ippocratica” e trova “il suo primo inconsapevole precursore durante le pestilenze che fra il 1500 e il
1600 devastano alcune città italiane”. Del resto due settimane prima aveva scritto contro le
“frenetiche, irrazionali e del tutto immotivate misure di emergenza per una supposta epidemia dovuta
al virus corona”.
A dimostrazione che non esiste il contagio, ma sola la diffusione (il contagio!) della sua idea, visto
che l’epidemia è “supposta” ma in realtà sono “i media e le autorità” che “si adoperano per diffondere
un clima di panico”, il filosofo post trascrive dal Manzoni la “grida” del 1576 del governatore di
Milano:

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“Essendo venuto a notizia del governatore che alcune persone con fioco zelo di carità e per mettere
terrore e spavento al popolo ed agli abitatori di questa città di Milano, e per eccitarli a qualche tumulto,
vanno ungendo con onti, che dicono pestiferi e contagiosi, le porte e i catenacci delle case e le
cantonate delle contrade di detta città e altri luoghi dello Stato, sotto pretesto di portare la peste al
privato ed al pubblico, dal che risultano molti inconvenienti, e non poca alterazione tra le genti,
maggiormente a quei che facilmente si persuadono a credere tali cose, si fa intendere per parte sua a
ciascuna persona di qual si voglia qualità, stato, grado e conditione, che nel termine di quaranta giorni
metterà in chiaro la persona o persone ch'hanno favorito, aiutato, o saputo di tale insolenza, se gli
daranno cinquecento scuti…”.
Il buon Manzoni mai avrebbe immaginato che il suo romanzo sarebbe stato letto al contrario di quanto
voleva dire, fino all’improntitudine più estrema. Questo testo è attualissimo, infatti, non già perché
Manzoni stigmatizzandolo neghi l’idea del contagio (che era realissimo e anzi sarà moltiplicato dalle
processioni volute dal cardinal Borromeo) bensì all’opposto, perchè Manzoni fustiga innanzitutto le
autorità che troppo a lungo preferiscono ignorare il contagio. Perché il governatore Ambrogio Spinola
ritiene più urgenti le esigenze della guerra in corso e rifiuta le misure proposte dalle autorità sanitarie,
e perché una volta riconosciuto che la peste c’è e si diffonde (per contagio!), nell’ignoranza e
superstizione dell’epoca se ne fa carico agli “untori” anziché agli invisibili e allora sconosciuti agenti
patogeni. Ci si inventa una causa, la punizione di Dio per i peccati, i malvagi “con fioco zelo di carità”
che vanno ungendo (del resto, per l’attuale contagio di corona virus, la colpa è del governo che vuole
creare “un vero e proprio bisogno di stati di panico collettivo” per poter procedere con la sua libido
di “stato d’eccezione”, sostiene Agamben, visto che il contagio non c’è ma solo l’abominevole idea
del contagio).
Che contro le epidemie la prima misura da prendere fossero isolamento e quarantene, tuttavia, era
stato capito anche prima che si immaginasse cosa fossero virus e batteri, tant’è che Boccaccio
ambienta il suo Decamerone proprio nell’autoisolamento in una villa fiesolana di tre giovani e sette
giovinette (e relative servitù) di privilegiate sostanze.
Insomma, c’è il contagio, che non è un’idea criminalmente inventata da media e governo per poter
“militarizzare” zone del paese, ma non ci sono gli untori, proprio perché ciascuno di noi può essere
veicolo del virus, dunque del contagio, e l’unico modo per combattere il realissimo contagio e
contrastare la pandemia sono le misure di isolamento e le quarantene, mentre i laboratori lavorano a
trovare medicinali efficaci e un vaccino.
Ma il filosofo post post ne trae la “morale” opposta (del resto per lui l’epidemia è “cosiddetta”, gonzo
chi se la beve, serve al governo per imporre “eccezionali misure di emergenza”). Non è l’esistenza
del virus, e le modalità della sua trasmissione, che rendono ogni persona un potenziale moltiplicatore

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del contagio se continua nella sua vita normale, di modo che per evitare di diventare involontari
“untori” è necessario attenersi alle misure più scrupolose che limitino la circolazione del virus. No,
non è così. Sono invece proprio “le recenti disposizioni” che “trasformano di fatto ogni individuo in
un potenziale untore”. Sono cioè le limitazioni che il governo pone alla diffusione del virus
(all’involontaria trasformazione di ciascuno di noi in “untore”) che secondo il filosofo post ci
costringono a vivere l’un l’altro come potenziali untori. Ai manuali di logica, nel capitolo dedicato
alle “fallacie”, sarà d’uopo aggiungere una nuova fattispecie: la fallacia dell’untore, o fallaciagamben.
Il governo, agendo per limitare il contagio (che però sappiamo non esiste, poiché non era contemplato
nella medicina ippocratica, benché anche Atene abbia avuto la sua peste e di contagio morì il suo
cittadino più illustre) è dunque colpevole della “degenerazione dei rapporti fra gli uomini”. E infatti
con tali misure “l’altro uomo, chiunque egli sia, anche una persona cara, non dev’essere né avvicinato
né toccato”, segue salace ironia sui metri di distanza che le profilassi propongono. Al filosofo post
non viene neppure il sospetto che non toccare la persona cara per qualche settimana sia la rinuncia
(molto dolorosa, moltissimo) per poterla poi toccare ancora per anni e anni, anziché dover andare a
toccare solo la sua tomba. E che proprio in questa rinuncia consista “amare il prossimo”, “prossimo”
che invece stante il filosofo post il governo col suo decreto ha “abolito”. Del resto il governo sta
diffondendo il panico per poter chiudere “una buona volta le università e le scuole”, dove
evidentemente il filosofo post immagina che si insegni ancora la santa medicina ippocratica anziché
quella che, dal tempo di cattivi maestri tipo Pasteur e Koch, si incaponisce a indagare le diverse forme
di contagio e i suoi agenti patogeni.
In realtà queste misure il governo le ha inizialmente subite, piegandosi alle sempre più pressanti
insistenze degli scienziati. Ci siamo trovati di fronte a un caso rarissimo di eterogenesi dei fini
virtuosa: proprio una politica screditata ha dovuto arrendersi alle richieste di misure radicali anti-
contagio che venivano dal mondo scientifico medico, non avendo autorevolezza per scegliere
diversamente. Perciò se ha ragione il filosofo post, che si tratti di potere che vuole terrorizzarci, a
complottare non è il governo ma i medici, insomma il complotto dei camici bianchi nemici del popolo,
già Stalin ne aveva denunciato uno.
Complotto, il contagio? Complotto di folli masochisti, allora, visto che medici e infermieri sono i più
esposti, i più “in trincea”, quelli che più di ogni altro subiscono il peso materiale e psicologico di
questi giorni amarissimi e pagano un prezzo talvolta al limite dell’eroismo.
Il filosofo post può comunque già vantare alcuni adepti non da poco alle sue farneticazioni, ad
esempio l’ex bellezza Carla Bruni in Sarkozy, che ha voluto svaccare in pubblico con baci plateali e
messa in scena di un finto soffocamento, perché “non abbiamo paura di niente, non siamo femministe
e non abbiamo paura del Coronavirus, nada!”. Anche per il filosofo post quella del contagio è tutta

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una manfrina, messa in atto dalla “tendenza crescente a usare lo stato di eccezione come paradigma
normale di governo”.
Ora, il nostro governo è assai mediocre, la sua principale virtù è che il possibile governo alternativo
(dei Salvini e Meloni, con o senza Berlusconi ciliegina) sarebbe infinitamente peggiore
(infinitamente). Ma forse un lampo di consapevolezza (dunque di saggezza) della propria mediocrità
lo ha spinto a seguire le indicazioni della scienza medica, con un anticipo di parecchi giorni su quanto
sta avvenendo nel resto d’Europa. Peccato che poi permetta a un capo di Stato straniero in abito
bianco di andarsene in giro per il centro di Roma, benché non abbia nessuna necessità di farlo, e
dunque in violazione delle disposizioni decretate (i vescovi italiani una volta tanto ligi alle leggi,
avevano chiuso le chiese, ma Francesco le ha fatte riaprire, e il governo zitto e mosca).
Si dice giustamente che una volta debellato l’epidemia da virus (che per il nostro filosofo post, non
dimentichiamolo mai, è “supposta”, sono “i media e le autorità” che “si adoperano per diffondere un
clima di panico, provocando un vero e proprio stato di eccezione”) dovranno cambiare molte cose. In
realtà cambieranno solo se ci sarà un grande e instancabile movimento di opinione e di lotte per
imporre i radicali mutamenti necessari. Che potrebbero riassumersi in due emergenze (anche se il
filosofo post ha in grande uggia il termine): più eguaglianza e più illuminismo, scienza, ricerca. Senza
di che la democrazia non ce la farà.
Più eguaglianza: il costo per debellare il contagio e spegnere l’epidemia (che secondo il nostro
filosofo post, vedi il titolo del suo testo del 26 febbraio, è “L’invenzione di un’epidemia”) sarà
gigantesco, e comporterà dunque un lungo periodo di costi/sacrifici. Che andranno affrontati con una
altrettanto gigantesca redistribuzione delle ricchezze, a partire da una misura elementare e doverosa,
senza la quale ogni altra misura non farà che rendere esponenziale l’ingiustizia: disoccultare le
ciclopiche fortune nascoste in conti, società di comodo e cassette di sicurezza dei paradisi fiscali e
comunque all’estero, così eclissate perché (quasi) sempre frutto di illegalità, sia essa da corruzione o
da grande evasione (o mafie, o intreccio tra le fattispecie). Obbligo di denunciare queste ricchezze
immediatamente, e automatico sequestro definitivo e irreversibile (oltre a pesanti sanzioni penali,
pesanti al punto da essere deterrenti) di quelle che non lo saranno, con conseguente reato di
ricettazione per qualsiasi banca e istituto finanziario le nasconda. Tanto per cominciare, sia chiaro.
Poi più-eguaglianza-ogni-giorno dovrà diventare la bussola di ogni politica economica e sociale.
Più illuminismo, scienza, ricerca. Non se ne può più delle superstizioni, dei guru e dei santoni, anche
quando s’impancano a filosofi o psicoanalisti. È auspicabile che per la filosofia si inauguri una
stagione in cui stella polare torni ad essere l’amore di sapere/saggezza, e il sapere è quello delle
scienze, non delle elucubrazioni oniriche para o post teologiche. La filosofia può avere un ruolo
importante nel diffondere lo spirito critico, vaccino irrinunciabile per la vita democratica, massime in

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tempi di fake news, dove non si distingue più tra verità e opinione e la menzogna è solo un “fatto
alternativo”, come spiegò la portavoce di Trump dopo l’ennesima bugia del presidente, platealmente
evidenziata da documenti audiovisivi. Per cominciare, allora, bisognerà mettere da parte il bon ton
corporativo, anche a rischio di ostracismo della gilda delle filosofie post post oggi egemoni, e non
temere di cominciare a pronunciare qualche modesta verità, ad esempio riconoscere intanto che la
filosofia dell’untore e della “invenzione di un’epidemia”, propinataci dal filosofo Giorgio Agamben
il 26 febbraio e l’11 marzo, è una filosofia del cazzo.

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Franco Bifo Berardi – Cronaca della psicodeflazione


L’imprevisto trasforma quel che la volontà non ha saputo trasformare. Ma ora si tratta di riattivare l’energia rinnovabile
dell’immaginazione
[16 Marzo 2020 - Not/neroeditions]

You are the crown of creation


And you’ve got no place to go
Jefferson Airplane, 1968

«La parola è un virus. Forse il virus dell’influenza era un tempo una cellula sana. Ora è un organismo parassita che invade
e danneggia il sistema nervoso centrale. L’uomo moderno non conosce più il silenzio. Prova a interrompere il discorso
sub-vocale. Prova dieci secondi di silenzio interiore. Incontrerai un organismo resistente che ti impone di parlare.
Quell’organismo è la parola.»
William Burroughs, The Ticket that Exploded

21 febbraio
Tornando da Lisbona, all’aeroporto di Bologna una scena inattesa. All’ingresso ci sono due umani
completamente coperti da una tuta bianca, con elmetto luminescente e uno strano arnese tra le mani.
L’arnese è una pistola termometro ad altissima precisione che manda lucine violette tutt’intorno. Si
avvicinano a ogni passeggero, lo fermano, gli puntano la lucina violetta sulla fronte, controllano la
temperatura, poi lo lasciano andare. Un presentimento: stiamo attraversando una nuova soglia nel
processo di mutazione tecno-psicotica?

28 febbraio
Da quando sono tornato da Lisbona non riesco a fare altro: ho comprato una ventina di tele di piccole
proporzioni e le dipingo con colori a vernice, frammenti fotografici, matita, carboncino. Non sono un

190
pittore, ma quando sono nervoso, quando sento che sta succedendo qualcosa che mette in vibrazione
dolorosa il mio organismo, per rilassarmi mi metto a scarabocchiare. La città è silenziosa come se
fosse ferragosto. Le scuole sono chiuse, i cinema chiusi. Non ci sono studenti in giro, non ci sono
turisti. Le agenzie di viaggio cancellano intere regioni dalla carta geografica. Le convulsioni recenti
del corpo planetario stanno forse provocando un collasso che costringe l’organismo a fermarsi, a
rallentare i movimenti, a disertare i luoghi affollati e le frenetiche contrattazioni quotidiane. E se
questa fosse la via d’uscita che non riuscivamo a trovare, e ora ci si presenta nella forma di
un’epidemia psichica, di un virus linguistico generato da un bio-virus? La Terra ha raggiunto un grado
di irritazione estremo, e il corpo collettivo della società è da tempo in uno stato di stress intollerabile:
la malattia si manifesta a questo punto, modestamente letale, ma devastante sul piano sociale e
psichico, come una reazione di autodifesa della Terra e del corpo planetario. Per le persone più
giovani è solo un’influenza fastidiosa. Quel che provoca panico è che il virus sfugge al nostro sapere:
non lo conosce la medicina, né lo conosce il sistema immunitario. E l’ignoto tutt’a un tratto ferma la
macchina. Un virus semiotico nella psicosfera blocca l’astratto funzionamento dell’economia, perché
le sottrae i corpi. Vuoi vedere?

2 marzo
Un virus semiotico nella psicosfera blocca l’astratto funzionamento della macchina, perché i corpi
rallentano i loro movimenti, rinunciano finalmente all’azione, interrompono la pretesa di governo sul
mondo e lasciano che il tempo riprenda il suo flusso nel quale nuotiamo passivamente, secondo la
tecnica natatoria che si chiama «fare il morto». Il nulla inghiotte allora una cosa dopo l’altra, ma si è
dissolta nel frattempo quell’ansia di tenere insieme il mondo che teneva insieme il mondo. Non c’è
panico, non c’è paura, ma silenzio. Ribellarsi si è rivelato inutile, dunque fermiamoci. Quanto a lungo
è destinato a durare l’effetto di questa fissazione psicotica che ha preso nome di coronavirus? Dicono
che la primavera ucciderà il virus, ma potrebbe al contrario esaltarlo. Non ne sappiamo niente, come
possiamo sapere quale temperatura preferisce? Poco importa quanto letale sia la malattia: pare lo sia
modestamente, e speriamo che presto si dissolva. Ma l’effetto del virus non è tanto il numero di
persone che debilita o il piccolissimo numero di persone che uccide. L’effetto del virus sta nella
paralisi relazionale che diffonde. Da tempo l’economia mondiale ha concluso la sua parabola
espansiva, ma non riuscivamo ad accettare l’idea della stagnazione come nuovo regime di lungo
periodo. Ora il virus semiotico ci sta aiutando alla transizione verso l’immobilità.
Vuoi vedere?

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3 marzo
Come reagisce l’organismo collettivo, il corpo planetario, la mente iperconnessa sottoposta per tre
decenni alla tensione ininterrotta della competizione e dell’iperstimolazione nervosa, alla guerra per
la sopravvivenza, alla solitudine metropolitana e alla tristezza, incapace di liberarsi dalla scimmia che
ruba la vita e la trasforma in permanente stress, come un drogato che non riesce mai a raggiungere
l’eroina che pure gli danza davanti agli occhi, sottoposto all’umiliazione della disuguaglianza e
dell’impotenza? Nella seconda parte del 2019 il corpo planetario è entrato in convulsione. Da
Santiago a Barcellona, da Parigi a Hong Kong, da Quito a Beirut, folle di giovanissimi si sono
riversate in strada, a milioni, rabbiosamente. La rivolta non aveva obiettivi precisi, o piuttosto aveva
obiettivi contraddittori. Il corpo planetario era preso da spasmi che la mente non sapeva guidare. La
febbre è cresciuta fino alla fine dell’anno Diciannove. Poi Trump ammazza Soleimani, nel tripudio
del suo popolo. Milioni di iraniani disperati scendono in piazza, piangono, promettono una vendetta
strepitosa. Non succede niente, bombardano un cortile. Nel panico tirano giù un aereo civile. E così
Trump vince tutto, il gradimento nei suoi confronti sale: gli americani si eccitano quando vedono il
sangue, gli assassini sono da sempre i loro prediletti. Intanto i democratici iniziano le primarie in uno
stato di tale divisione che solo un miracolo potrebbe portare alla nomination il buon vecchietto
Sanders, unica speranza di una vittoria improbabile. Dunque nazismo trumpista e miseria per tutti e
sovrastimolazione crescente del sistema nervoso planetario. È questa la morale della favola? Ma ecco
la sorpresa, il capovolgimento, l’imprevisto che vanifica ogni discorso sull’inevitabile. L’imprevisto
che stavamo aspettando: l’implosione. L’organismo sovreccitato del genere umano, dopo decenni di
accelerazione e di frenesia, dopo alcuni mesi di convulsione urlante senza prospettive, chiuso in un
tunnel pieno di rabbia di urla e di fumo, è finalmente colpito dal collasso: si diffonde una
gerontomachia che ammazza per lo più ottantenni, eppure blocca, pezzo dopo pezzo, la macchina
globale dell’eccitazione, della frenesia, della crescita, dell’economia… Il capitalismo è
un’assiomatica, cioè esso funziona sulla base di una premessa indimostrata (necessità della crescita
illimitata che rende possibile l’accumulazione di capitale). Tutte le concatenazioni logiche ed
economiche sono coerenti con quell’assioma, e nulla può essere concepito né tentato al di fuori di
quell’assioma. Non c’è una via politica per uscire dall’assiomatica del Capitale, non c’è un linguaggio
capace di parlare l’esterno del linguaggio, non c’è nessuna possibilità di distruggere il sistema, perché
ogni processo linguistico si svolge all’interno di quell’assiomatica che non rende possibili enunciati
efficaci extrasistemici. La sola via d’uscita è la morte, come abbiamo imparato da Baudrillard. Solo
dopo la morte si potrà cominciare a vivere. Dopo la morte del sistema, gli organismi extrasistemici
potranno cominciare a vivere. Ammesso che sopravvivano, naturalmente, e di questo non v’è
certezza. La recessione economica che si prepara potrà ucciderci, potrà provocare conflitti violenti,

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potrà scatenare epidemie di razzismo e di guerra. È bene saperlo. Non siamo culturalmente preparati
a pensare la stagnazione come condizione di lungo periodo, non siamo preparati a pensare la frugalità,
la condivisione. Non siamo preparati a dissociare il piacere dal consumo.

4 marzo
Questa è la volta buona? Non sapevamo come liberarci della piovra, non sapevamo come uscire dal
cadavere dal Capitale; vivere in quel cadavere ammorbava l’esistenza di tutti, ma ora lo shock prelude
alla deflazione psichica definitiva. Nel cadavere del Capitale eravamo costretti a sovrastimolazione,
a costante accelerazione, a competizione generalizzata, e supersfruttamento a salari decrescenti. Ora
il virus sgonfia la bolla dell’accelerazione. Da tempo il capitalismo si trovava in condizione di
stagnazione irrimediabile. Ma continuava a pungolare gli animali da soma che noi siamo, per imporci
di continuare a correre, anche se ormai la crescita era divenuta un miraggio triste ed impossibile.
La rivoluzione non era più pensabile, perché la soggettività è confusa, depressa, convulsiva, e il
cervello politico non ha più alcuna presa sulla realtà. E allora ecco una rivoluzione senza soggettività,
puramente implosiva, una rivolta della passività, della rassegnazione. Rassegniamoci. Tutt’a un tratto
questo appare come uno slogan ultrasovversivo. Basta con l’agitazione inutile che dovrebbe
migliorare e invece produce solo peggioramento della qualità della vita. Letteralmente: non c’è più
niente da fare. E allora non facciamolo. È difficile che l’organismo collettivo si riprenda da questo
shock psicotico-virale e che l’economia capitalistica ormai ridotta alla stagnazione irrimediabile
riprenda il suo cammino glorioso. Possiamo sprofondare nell’inferno di una detenzione tecnomilitare
di cui solo Amazon e il Pentagono hanno le chiavi. Oppure possiamo dimenticare il debito, il credito,
il denaro e l’accumulazione. Quel che la volontà politica non è riuscita a fare potrebbe farlo la potenza
mutagena del virus. Ma questa fuoriuscita occorre prepararla immaginando il possibile, ora che
l’imprevedibile ha lacerato la tela dell’inevitabile.

5 marzo
Si manifestano i primi segnali di cedimento del sistema borsistico e dell’economia, gli esperti di
questioni economiche osservano che questa volta a differenza del 2008 non serviranno a molto gli
interventi delle banche centrali o degli altri organismi finanziari. Per la prima volta la crisi non
proviene da fattori finanziari e neppure da fattori strettamente economici, dal gioco della domanda e
dell’offerta. La crisi proviene dal corpo. È il corpo che ha deciso di abbassare il ritmo. La
smobilitazione generale da coronavirus è un sintomo della stagnazione, ancor prima di esserne una
causa. Quando parlo di corpo intendo complessivamente la funzione biologica, intendo il corpo fisico
che si ammala, seppure in modo abbastanza blando – ma intendo anche e soprattutto la mente, che

193
per ragioni che non hanno nulla a che fare con il ragionamento, con la critica, con la volontà, con la
decisione politica, è entrata in una fase di passivizzazione profonda. Stanca di elaborare segnali
troppo complessi, depressa dopo l’eccessiva sovreccitazione, umiliata dall’impotenza delle sue
decisioni di fronte all’onnipotenza dell’automa tecnofinanziario, la mente ha abbassato la tensione.
Non che la mente abbia deciso qualcosa: è l’improvviso abbassarsi della tensione che decide per tutti.
Psicodeflazione.

6 marzo
Naturalmente si può sostenere l’esatto contrario di quello che ho detto: il neoliberismo, nel suo
matrimonio con l’etnonazionalismo, deve compiere un salto nel processo di astrazione totale dalla
vita. Ecco allora il virus che costringe tutti a casa, ma non blocca la circolazione delle merci. Eccoci
sulla soglia di una forma tecnototalitaria in cui i corpi saranno per sempre consegnati, controllati,
telecomandati. Su Internazionale esce un articolo di Srecko Horvat (traduzione da New Statesman).
Secondo Horvat, «il coronavirus non è una minaccia per l’economia neoliberista, ma anzi crea
l’ambiente perfetto per quell’ideologia. Ma dal punto di vista politico il virus è un pericolo, perché
una crisi sanitaria potrebbe favorire l’obiettivo etno-nazionalista delle frontiere rafforzate e
dell’esclusività razziale e quello di interrompere la libera circolazione delle persone (soprattutto se
arrivano da paesi in via di sviluppo) assicurando però una circolazione incontrollata di merci e
capitali.
Il timore di una pandemia è più pericoloso del virus stesso. Le immagini apocalittiche dei mezzi
d’informazione nascondono un legame profondo tra l’estrema destra e l’economia capitalista. Come
un virus ha bisogno di una cellula viva per riprodursi, anche il capitalismo si adatterà alla nuova
biopolitica del XXI secolo. Il nuovo coronavirus ha già influito sull’economia globale, ma non
fermerà la circolazione e l’accumulazione di capitale. Semmai, presto nascerà una forma più
pericolosa di capitalismo, che farà affidamento su un maggior controllo e una maggiore purificazione
delle popolazioni».
Naturalmente l’ipotesi formulata da Horvat è realistica. Ma io credo che questa ipotesi più realistica
non sia realistica, perché sottovaluta la dimensione soggettiva del collasso, e gli effetti di lungo
periodo della deflazione psichica sulla stagnazione economica. Il capitalismo ha potuto sopravvivere
al collasso finanziario del 2008 perché le condizioni del collasso erano tutte interne alla dimensione
astratta del rapporto tra linguaggio finanza ed economia. Non potrà sopravvivere al collasso
dell’epidemia perché qui entra in campo un fattore extrasistemico.

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7 marzo
Mi scrive Alex,il mio amico matematico: «Tutte le risorse di supercalcolo sono impegnate per trovare
l’antidoto al corona. Stanotte ho sognato la battaglia finale tra i biovirus e i virus simulati. In ogni
caso l’umano è già fuori, mi sembra». La rete di calcolo globale sta dando la caccia alla formula
capace di contrapporre l’infovirus al biovirus. Occorre decodificare, simulare matematicamente,
costruire tecnicamente il corona-killer, per poi diffonderlo. Nel frattempo l’energia si ritira dal corpo
sociale, e la politica mostra la sua impotenza costitutiva. La politica è sempre più il luogo del non
potere, perché la volontà non ha presa sull’infovirus. Il biovirus prolifera nel corpo stressato
dell’umanità globale. I polmoni sono il punto più debole, sembra. Le malattie respiratorie si
diffondono da anni in proporzione all’estendersi nell’atmosfera delle sostanze irrespirabili. Ma il
collasso avviene quando, incontrando il sistema mediatico, intrecciandosi con la rete semiotica, il
biovirus ha trasferito la sua potenza debilitante al sistema nervoso, al cervello collettivo, costretto a
rallentare i suoi ritmi.

8 marzo
Durante la notte il presidente del consiglio Conte ha comunicato la decisione di mettere in quarantena
un quarto della popolazione italiana. Piacenza Parma Reggio e Modena sono in quarantena. Bologna
no. Per il momento. Nei giorni scorsi ho sentito Fabio, ho sentito Lucia, e avevamo deciso di vederci
stasera per una cena. Lo facciamo di tanto in tanto, ci vediamo in qualche ristorante o a casa di Fabio.
Sono cene un po’ meste anche se non ce lo diciamo, perché sappiamo tutti e tre che si tratta del residuo
artificiale di quel che un tempo accadeva in maniera del tutto naturale diverse volte alla settimana,
quando ci vedevamo dalla mamma. Quell’abitudine di vederci a pranzo (o, più raramente, a cena)
dalla mamma era rimasta, nonostante tutti gli eventi gli spostamenti i cambiamenti, era rimasta dopo
la morte del babbo: ci si vedeva a pranzo dalla mamma tutte le volte che era possibile. Quando mia
madre si è trovata nella condizione di non poter più preparare il pranzo, quell’abitudine è terminata.
E poco alla volta, è cambiato il rapporto tra noi tre. Fino ad allora, pur avendo ormai sessant’anni
avevamo continuato a vederci quasi tutti i giorni in modo del tutto naturale, avevamo continuato a
occupare lo stesso posto a tavola che occupavamo quando avevamo dieci anni. Intorno alla tavola si
svolgevano gli stessi rituali. La mamma stava seduta vicino al fornello perché questo le permetteva
di continuare a occuparsi della cottura mentre si stava mangiando. Io e Lucia parlavamo di politica,
più o meno come cinquant’anni prima, quando lei era maoista e io ero operaista. Questa abitudine
finì quando mia madre entrò nella sua lunga agonia. Da allora dobbiamo convocarci a cena, talvolta
andiamo in un ristorante asiatico che si trova sotto i colli, vicino alla Funivia sulla strada che porta a
Casalecchio, talvolta andiamo nell’appartamento di Fabio, al settimo piano di un edificio popolare

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oltre il ponte lungo, tra Casteldebole e Borgo Panigale. Dalla finestra si vedono i prati che costeggiano
il fiume, e lontano si vede il colle di San Luca e sulla sinistra si vede la città. Bene, nei giorni scorsi
avevamo deciso di vederci questa sera a cena. Io dovevo portare il formaggio e il gelato, Cristina,
moglie di Fabio, aveva preparato le lasagne. Stamattina tutto è cambiato, e per la prima volta – ora
me ne rendo conto – il coronavirus è entrato nella nostra vita, non più come un oggetto di riflessione
filosofica, politica, medica, o psicoanalitica, ma come un pericolo personale. Prima è arrivata una
telefonata di Tania, la figlia di Lucia che da un po’ di tempo vive a Sasso Marconi con Rita. Ha
telefonato Tania per dirmi: ho sentito dire che tu, la mamma e Fabio volete cenare insieme, non fatelo.
Io sono in quarantena perché una delle mie allieve (Tania insegna yoga) è medico al Sant’Orsola e
qualche giorno fa è risultata positiva al tampone. Ho un po’ di bronchite e allora hanno deciso di fare
il tampone anche a me, in attesa del referto non posso muovermi di casa. Io le ho risposto facendo lo
scettico, ma lei è stata implacabile, e mi ha detto una cosa abbastanza impressionante, cui non avevo
pensato ancora. Mi ha detto che il tasso di trasmissibilità di un’influenza comune è dello zero virgola
ventuno, mentre il tasso di trasmissibilità del coronavirus è di zero virgola ottanta. Per intenderci: nel
caso di una normale influenza dovete incontrare cinquecento persone per incontrare il virus, nel caso
del corona basta incontrarne centoventi. Interesting. Poi lei, che sembra essere informatissima perché
è andata a farsi il tampone e quindi ha parlato con quelli che stanno proprio in prima linea sul fronte
del contagio, mi dice che l’età media dei morti è ottantun anni. Ecco, questo lo sospettavo, ma ora lo
so. Il coronavirus ammazza i vecchi, e in particolare ammazza i vecchi asmatici (come me).Nella sua
ultima comunicazione Giuseppe Conte, che mi sembra una persona per bene, un presidente u n po’
per caso che non ha mai smesso di avere l’aria di uno che ha poco a che vedere con la politica, ha
detto: «pensiamo alla salute dei nostri nonni». Commovente, visto che mi trovo nel ruolo
imbarazzante del nonno da proteggere. Abbandonati i panni dello scettico, ho detto a Tania che la
ringraziavo e che avrei seguito le sue raccomandazioni. Ho telefonato a Lucia, ne abbiamo parlato un
po’ e abbiamo deciso di rimandare la cena. Mi rendo conto di essermi infilato in un classico doppio
legame batesoniano. Se non telefono per disdire la cena mi metto nella condizione di poter essere un
untore fisico, di poter essere portatore di un virus che potrebbe uccidere mio fratello. Se invece
telefono, come sto facendo, per disdire la cena, mi metto nella condizione di essere un untore psichico,
cioè di diffondere il virus della paura, il virus dell’isolamento.
E se questa storia dovesse durare a lungo?

9 marzo
Il problema più grave è quello del sovraccarico cui è sottoposto il sistema sanitario: i reparti di terapia
intensiva sono al limite del collasso. C’è il pericolo di non poter curare tutti coloro che hanno bisogno

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di un intervento urgente, si parla della possibilità di compiere delle scelte tra pazienti che possono
essere curati e pazienti che non possono essere curati. Negli ultimi dieci anni sono stati tagliati 37
miliardi al sistema sanitario pubblico, i reparti di terapia intensiva sono stati ridotti e il numero di
medici di base è drasticamente diminuito. Secondo il sito quotidianosanità.it, «nel 2007 il Ssn
pubblico poteva contare su 334 Dipartimenti di emergenza-Urgenza e 530 pronto soccorso. Ebbene
10 anni dopo la dieta è stata drastica: 49 Dea sono stati tagliati (-14%) e 116 Pronto soccorso non ci
sono più (-22%). Ma il taglio più evidente è sulle ambulanze, sia quelle di Tipo A (emergenza) che
quelle di Tipo B (Trasporto sanitario). Nel 2017 abbiamo quelle di Tipo A si sono ridotte del 4%
rispetto a 10 anni prima mentre quelle di Tipo B si sono dimezzate (-52%). Da notare anche come
siano diminuite drasticamente le ambulanze con il medico a bordo: nel 2007 il dottore era presente
nel 22% dei veicoli, mentre nel 2017 appena nel 14,7%. Tagliate del 37% anche le Unità mobili di
rianimazione (erano 329 nel 2007, sono 205 nel 2017). La stretta ha riguardato anche le case di cura
accreditate che in ogni caso hanno molte meno strutture e ambulanze rispetto agli ospedali
pubblici».«Dai dati si nota come vi sia stata una progressiva contrazione dei posti letto su scala
nazionale, molto più evidente e rilevante sul numero di posti letto pubblici rispetto alla quota dei posti
letto a gestione privata convenzionata: il taglio dei 32.717 posti totali in 7 anni riguardava
prevalentemente il pubblico con 28.832 posti letto in meno rispetto al 2010 (-16.2%), rispetto ai 4.335
posti letto in meno del privato accreditato (-6.3%)».

10 marzo
«Siamo onde dello stesso mare, foglie dello stesso albero, fiori dello stesso giardino».Questo è scritto
sulle decine di casse contenenti mascherine in arrivo dalla Cina. Quelle stesse mascherine che
l’Europa ci ha rifiutato.

11 marzo
Non sono andato in via Mascarella, come faccio generalmente l’undici marzo di ogni anno. Ci si
ritrova davanti alla lapide che ricorda la morte di Francesco Lorusso, qualcuno fa un discorsino, si
deposita una corona di fiori oppure una bandiera di Lotta Continua che qualcuno ha conservato in
cantina, e ci si abbraccia, ci si bacia tenendosi stretti. Non me la sono sentita di andare questa volta,
perché non me la sentirei di dire a qualcuno dei miei vecchi compagni che non ci possiamo
abbracciare. Da Wuhan arrivano foto di persone festanti, tutte rigorosamente con la mascherina verde.
L’ultimo paziente affetto da coronavirus è stato dimesso dagli ospedali costruiti in fretta per contenere
l’afflusso. All’ospedale di Huoshenshan, la prima tappa della sua visita, Xi ha elogiato medici e
infermieri definendoli «gli angeli più belli» e «i messaggeri di luce e speranza». Gli operatori sanitari

197
in prima linea hanno intrapreso le missioni più ardue, ha detto Xi, definendole «le persone più
ammirevoli della nuova era, che meritano i più alti elogi». Siamo entrati ufficialmente nell’era
biopolitica, in cui i presidenti non possono nulla, e solo i medici possono qualcosa, eppure non tutto.

12 marzo
Italia. Tutto il paese entra in quarantena. Il virus corre più veloce delle misure di contenimento. Io e
Billi mettiamo la mascherina, prendiamo la bicicletta e andiamo a far spesa. Solo farmacie e mercati
alimentari possono restare aperti. E anche le edicole, compriamo i giornali. E le tabaccherie. Compro
cartine per farmi le canne, ma l’hashish scarseggia nella sua scatoletta di legno. Presto sarò senza
droga, e in piazza Verdi non c’è più nessuno dei ragazzi africani che vendono agli studenti. Trump
ha usato l’espressione «foreign virus».
All viruses are foreign by definition, but the President has not read William Burroughs.

13 marzo
Su Facebook c’è un tizio spiritoso che ha postato sul mio profilo la frase: ehi Bifo, hanno abolito il
lavoro. In realtà il lavoro è abolito solo per pochi. Gli operai delle industrie sono in rivolta perché
devono andare in fabbrica come sempre, senza mascherine o altre protezioni, a mezzo metro di
distanza uno dall’altro. Il collasso, poi la lunga vacanza. Nessuno può dire come ne usciremo.
Potremmo uscirne, come prevede qualcuno, nelle condizioni di un perfetto stato tecno-totalitario. Nel
libro Black Earth, Timothy Snyder spiega che non c’è condizione migliore per la formazione di regimi
totalitari che le situazioni di emergenza estrema, in cui la sopravvivenza di tutti è in gioco. L’AIDS
creò la condizione per un diradarsi del contatto fisico, e per il lancio di piattaforme di comunicazione
senza contatto: Internet è stato preparato dalla mutazione psichica denominata AIDS. Ora potremmo
benissimo passare a una condizione di permanente isolamento degli individui, e la nuova generazione
potrebbe interiorizzare il terrore del corpo altrui.
Ma cosa è il terrore?
Terrore è una condizione in cui l’immaginario domina completamente l’immaginazione.
L’immaginario è l’energia fossile della mente collettiva, le immagini che l’esperienza vi ha
depositato, limitazione dell’immaginabile. L’immaginazione è l’energia rinnovabile e
impregiudicata. Non utopia ma ricombinazione dei possibili. C’è una divaricazione nel tempo che
viene: potremmo uscirne immaginando una possibilità che fino a ieri appariva impensabile:
redistribuzione del reddito, riduzione del tempo di lavoro. Eguaglianza, frugalità, abbandono del
paradigma della crescita, investimento delle energie sociali nella ricerca, nell’educazione, nella
sanità. Non possiamo sapere come usciremo dalla pandemia le cui condizioni sono state create dal

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neoliberismo, dai tagli alla sanità pubblica, dall’ipersfruttamento nervoso. Potremo uscirne
definitivamente soli, aggressivi, competitivi. Ma potremmo uscirne invece con una gran voglia di
abbracciare: socialità solidale, contatto, eguaglianza.
Il virus è la condizione di un salto mentale che nessuna predicazione politica avrebbe potuto produrre.
L’eguaglianza è tornata al centro della scena. Immaginiamola come il punto di partenza per il tempo
che verrà.

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Wolf Bukowski - La viralità del decoro. Controllo e autocontrollo sociale ai tempi del Covid-
19. Prima puntata
[16 Marzo 2020 – Wumingfoundation.com]

Parto da me
Il partire da sé è di certo il paradigma imperante nella narrazione del lockdown che stiamo vivendo.
Non mi sottraggo, anche se, in seguito, criticherò questo approccio, diventato ormai una neoplasia
dell’ego nel centro di un’epidemia virale. Ma dunque: anche io, come tanti, come quasi chiunque in
questi giorni che mai ci saremmo aspettati di vivere, ho cambiato più volte opinione, modificato
posizionamenti; mi sono, insomma, incessantemente interrogato. Le persone con cui ho scambiato
messaggi e telefonate lo sanno, non ne ho fatto mistero.
La domanda fondamentale che mi sono posto, come tanti e tante, è quella articolata attorno al tema
della «responsabilità», ovvero la possibilità di diventare veicolo di contagio verso persone più fragili.
La questione non è certo inedita, neppure autobiograficamente: è la stessa che, più o meno, mi ha
ispirato cautele nella trasmissione di virus «banali». Ho scoperto, per esempio, di avere già una
piccola scorta di mascherine in casa, usate per condividere spazi ristretti quando ero costantemente
colpito dalle influenze che portava a casa mia figlia dalle scuole elementari. E quindi: non sono
immune da tali preoccupazioni, come non lo sono dai virus.
D’altra parte però mi colpiva e mi interrogava anche la continuità delle strategie del «contenimento
del contagio», per come si manifestavano nei provvedimenti delle istituzioni, con le loro ormai
classiche esigenze di, diciamo così, contenimento del degrado, e quindi con il securitarismo.
Preso dal gorgo tra Scilla e Cariddi, seppur fermo nella mia clausura appenninica, un punto di
equilibrio possibile mi erano sembrate le parole di Pietro Saitta su Napoli Monitor. Nell’articolo la
dichiarazione di intimismo prelude a un riflessione in realtà politicizzata e storicizzata, che riconosce
la propria iniziale repulsione per il dispositivo retorico utilizzato nell’emergenza contingente, perché

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sovrapponibile alla «menzogna» securitaria «che per decenni ha accompagnato le politiche in materia
di criminalità o immigrazione». Nello sviluppo della riflessione, Saitta dichiara di assumere su di sé
la scelta della «responsabilità», smettendo quindi di condurre la vita ordinaria e di frequentare un
luogo affollato – nonostante il securitarismo dei provvedimenti governativi. Ecco, mi sono detto, un
punto di equilibrio possibile, un frammento di legno con cui affrontare il naufragio.
Ma anch’esso era provvisorio. Poco dopo – si era ormai all’11 marzo – la pressione degli eventi mi
ha costretto a spostare di nuovo centro della mia attenzione. Illustro qui tre fatti per me determinanti:
1) lo stato ha dispiegato in modo ancor più vistoso la propria forza militare, ed esteso il confusivo
apparato di legislazione d’urgenza, per imporre un azzeramento della vita sociale senza neppure
cercare un punto di equilibrio tra la riduzione delle libertà individuali e le esigenze di contenimento
del contagio – con la plateale eccezione di lavoratori costretti a uscire per lavoro, cosa che acuiva
l’indifferenza a quel «punto di equilibrio». Questo sviluppo, che emerge con tratti trasparentemente
autoritari, avrebbe dovuto aprire uno spazio di riflessione proprio sul suo punto eminentemente
politico: ovvero su dove sia corretto porre il «punto di equilibrio» di cui sopra. E invece accade
l’opposto, e cioè che
2) dalla «responsabilità» verso la collettività, assunta nel senso morale e politico indicato da Saitta,
le prese di posizioni di tanti soggetti (anche critici del neoliberismo) viravano e direi precipitavano
verso l’adesione totalmente depoliticizzata e acritica alle forme, ai modi, persino ai vezzi del discorso
governativo. Il sacrosanto «non bisogna mettere in discussione la realtà dell’epidemia» scivola, ops,
in un attimo, nel «non bisogna mettere in discussione il modo in cui il governo affronta l’epidemia»;
e anzi: bisogna aderirvi fino alle più intime fibre. Ovviamente ciò non è sempre esplicito, e anzi
qualcuno avverte che la propria non è «servile apologia» delle misure governative, ma si tratta
semplicemente di excusatio non petita, e dunque accusatio manifesta. Di fatto, si è accettato che lo
spazio politico della lotta – compresa quella indispensabile delle idee – fosse azzerato. Azzerato, ma
indossando gli occhiali rosa, e cioè:
3) la differenza tra i posizionamenti dei critici del neoliberismo rispetto a «tutti gli altri» viene posta
in un altrove, in un al-di-là, ovvero al dopo il coronavirus. La politica diventa così teleologia; nulla
differisce dalle istituzioni nel modo in cui si affronta il presente ma, ecco la fantasia consolatoria,
«domani sconfiggeremo il neoliberismo».
Quello che così viene nascosto è il fatto che, avendo rinunciato a politicizzare e sottoporre a critica
le scelte di cui al punto 1, nonché gli automatismi emotivi del punto 2, è assai probabile che il «dopo
il coronavirus» non arrivi mai, esattamente come non siamo mai usciti dalla crisi dei subprime del
2007-2008. Oltretutto, come spiegato qui e qui (ma ci tornerò sopra), questo potrebbe essere vero,
per un lungo periodo di tempo, anche dal punto di vista strettamente sanitario.

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Ripoliticizzare (il «decoro» e le misure di contenimento). Un gran sbattimento.

Lo sforzo – una fatica da salmoni, con esaltati ai lati del torrente a gettar sassi – fatto su queste pagine
è stato da subito quello di ripoliticizzare il totalmente depoliticizzato, tecnicizzato e sanitarizzato.
Ovvero: la risposta dei poteri pubblici all’epidemia. Già in questo abbiamo un’abbagliante
similitudine con il decoro. Mettere in questione il «decoro», da anni a questa parte, ha significato
essere additati come «rompicoglioni», «spocchiosi e marginali», da destra e da (con ancora più
acredine) manca: «siete voi che fate vincere la destra». Perché il «degrado», si sa, è impolitico, lo si
vede coi propri occhi, è «questione di buonsenso».
«Voi vivete nei quartieri bene, figli di papà, come vi permettete di dire che il decoro e la sicurezza
sono una roba di destra? Venite qui»: questo è stato ripetuto ad nauseam e contro ogni evidenza a chi
ne scriveva, ma anche ai movimenti, ai centri sociali, ai singoli e singole che si opponevano alla
retorica (razzista e classista) del degrado. «Venite qui a vedere»: testimonianza diretta totalmente
emotiva, in cui i «fatti» sono rappresentati in modo così semplicistico da diventare una caricatura dei
fatti. E come se lo scegliere, decodificare, selezionare e commentare un fatto piuttosto che un altro
non fosse un’operazione di arbitrio, anche nel senso nobile del termine. Come se non fosse,
precisamente, lo spazio della lotta politica, l’affermare un fatto tra i mille e renderlo importante.
Si è visto in opera questo meccanismo nel collasso della storia sulla memoria. «Mio nonno conosceva
uno ammazzato dai partigiani, e dice che era una bravissima persona» diventa il fatto storico davanti
al quale è imprescindibile prendere posizione, non il rivolo di un processo complessivo; e, quel che è
peggio, prendere posizione su quel tragico dettaglio diventa il pretesto inattaccabile per non prendere
posizione sulla tragedia nel suo complesso, o per prendere una posizione ma-anchista e veltroniana.
Questa stessa primazia del testimone la si vede in opera oggi nel – cito a memoria dai social – «qui
si muore, che cazzo me ne frega se multano la gente in giro e di cosa dicono i Wu Ming
sull’epidemia».
Il «che cazzo me ne frega» è evidentemente la negazione dello spazio della politica, della riflessione
pubblica. Ma lo è anche, in modo più sottile, il «qui si muore»; quando invece, se si provi a riflettere
e quindi ad affrontare i problemi, è necessario sapere come sia costituito quel qui (cioè, per dire, in
quale sistema sanitario, con quale storia, quali scelte a monte e valle) e anche quel muore (come si
muore, in quale serie storica di morti, in che rapporto con altre morti, con quali caratteristiche
individuali, eccetera).
Questo approccio è esattamente lo stesso che abbiamo visto mille volte in opera nelle campagne
contro il degrado. «Qui si combatte il degrado, non si fa politica»; e anche: «se non vivi qui non puoi
capire». Dove quel qui, di nuovo, è una parola agitata per affermare il diritto esclusivo del testimone

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(ma poi spesso: del sedicente tale) a trarre conclusioni generali, azzerando lo spazio della riflessione
pubblica. Riflessione pubblica che non è un vezzo da fighetti, come viene suggerito implicitamente,
ma è il solo modo in cui in cui si possono affontare ed eventualmente risolvere problemi sistemici
(come è un’epidemia, come lo sono il disagio sociale e la criminalità).
Nella politica del decoro i politici – i primi a seminare e raccogliere depoliticizzazione, in solo
apparente paradosso – fanno cherry picking di richieste che arrivano dai cittadini e, da quelle più
congrue rispetto alle loro intenzioni, traggono e plasmano il mito dell’ascolto: «Io do retta ai cittadini,
Tizio e Caio mi hanno scritto chiedendo che quel centro sociale fosse sgomberato perché produce
degrado, spaccio e rumore». Ovviamente si tratta di un mito, e come ogni mito si alimenta di una
selezione accurata (ma occulta) di materiale. Per esempio: migliaia di cittadini e cittadine bolognesi
hanno scritto e manifestato per chiedere che XM24 fosse lasciato nella sua sede «storica», e sono
restati totalmente inascoltati. Sono, al contrario, i pochi che hanno firmato la squallida petizione pro-
sgombero delle sezioni zombie del Pd in quartiere a diventare i cittadini a cui viene «prestato ascolto».
Populismo virale
Lo stesso sindaco bolognese, Virginio Merola, ripete l’operazione il 13 marzo quando, per giustificare
la chiusura dei parchi – che aggrava le condizioni di vita delle persone costrette al lockdown
domestico – rilancia il supposto messaggio di una cittadina, ma di una cittadina che, in base alla
categoria professionale, diventa portatrice di una verità indiscutibile, quindi di nuovo di una verità
depoliticizzata e priva di sfaccettature: «Bisogna capire che la vita normale non si può continuare.
Ieri ho ricevuto numerose segnalazioni di cittadini allarmati, tra queste quella che mi ha colpito di più
me l’ha inviata una coordinatrice infermieristica che, tornando a casa dal lavoro, ha visto il parco
affollato e ha provato un forte senso di frustrazione rispetto al suo lavoro quotidiano. […] Da oggi
chiusi 32 parchi e giardini pubblici, chiusi anche gli orti comunali.»
Ovviamente l’impressione dell’infermiera (anzi: «coordinatrice infermieristica», si noti il dettaglio
squallidamente gerarchico) non ha alcun fondamento scientifico; è, appunto, un’impressione da
social, che però produce effetti un quanto validata due volte: e come cittadina ascoltata dall’autorità,
e come «persona competente». La testimonianza non veicola situazione precise: solo il «parco
affollato», che potrebbe peraltro essere stato affollato ma a distanza di sicurezza. Siamo così, con il
rilancio meroliano, nei pieno del populismo penale, all’interno del quale
«[s]i parla, si ragiona e si rilasciano le dichiarazioni sulla base dei luoghi comuni sociali e delle
convinzioni diffuse, quasi sempre per assecondarle, difficilmente per contraddirle […]. In una logica
di destatisticalizzazione la percezione del rischio e la sua amplificabilità in un contesto di dibattito
pubblico diventa più importante, al punto di oscurarlo, del quadro reale dei fenomeni. (Manuel
Anselmi in Populismo penale: una prospettiva italiana, 2015).»

202
Nasce così – ma il merito non va a Merola, non sopravvalutiamo neppure nel male questo piccolo
sindaco – il populismo virale.
Un genitore e un figlio che camminano nel parco o giocano a palla – e abitano assieme – che diavolo
di contagio possono produrre?
Un genitore, e magari l’altro genitore, e il figlio e la sorella, che vivono in una casa piccola, che livello
di sofferenza psicologica possono sviluppare, se neppure al parco possono più andare?
Oppure, per porre a un piano superiore la domanda: esiste uno spazio, nell’interstizio tra i saperi
specialistici, per la politica?
E ancora: esiste uno spazio per i saperi specialistici che siano non solo quelli del virologo ma anche
quelli della salute pubblica complessiva, dello psicologo, forse anche del cardiologo (che
conseguenza avrà la riduzione dell’attività motoria sugli anziani a cui è stata messa addosso la paura
persino della passeggiata solitaria, considerando anche che l’anziano faticherà a riprendere
l’abitudine perduta?). No, la risposta è no.

«Ho l’autocertificazione, porto la spesa alla nonna…»


«E dov’è la mascherina?» Clicca per ascoltare Cappuccetto Rosso ai tempi dell’emergenza, di Filo
Sottile.
E, cambiando il punto di vista e assumendo – con disagio – quella che Filo Sottile in uno straordinario
apologo chiama mentalità guardiacaccesca, esiste la possibilità che si ottenga un intervento mirato a
disperdere i casi di reale assembramento nei parchi? Reali, e non quindi quattro persone che a distanza
di legge tirano a un canestro?
No, non esiste, nonostante la mobilitazione delle forze dell’ordine e dell’esercito. Lo spazio della
politica quindi non esiste; ma non esiste neppure lo spazio di un’esecuzione puntuale delle leggi:
disperdere quell’assembramento, multare quei soggetti determinati… Esiste solo l’azzeramento dello
spazio pubblico.
Così, proprio come si faceva (come si fa) per il decoro togliendo le panchine, via i cesti da basket!
Ecco la sindaca di San Lazzaro di Savena, l’iperrenziana Isabella Conti:
«Pensate che a me non dispiaccia dovere togliere i canestri? Pensate che non mi pianga il cuore
dovervi dire che non potete giocare? In questi anni abbiamo lavorato come matti per rendere i nostri
parchi luoghi perfetti per stare insieme, ma adesso non si può».
Dopo aver imposto il decoro sui parchi, insomma, non restava che renderli perfetti – ovvero eliminare
quel residuo di degrado che ancora li attraversava: gli esseri umani.
Ma sui parchi tornerò anche nella seconda parte.
[Fine della prima puntata]

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Giuseppe Campesi - Foucault al tempo del COVID-19
[16 Marzo 2020 – studiquestionecriminale]

Mentre il paese precipita in una sorta di distopia disciplinare, con i militari autorizzati a pattugliare
le strade e il Presidente del Consiglio dei Ministri che governa l’emergenza a colpi di DPCM,
dall’Inghilterra apprendiamo che un altro modello di gestione dell’emergenza sanitaria è stato
elaborato e si appresta ad essere attuato. Un modello che parte proprio dal presupposto che i costi
delle misure di sicurezza messe in atto in l’Italia, e che molti altri paesi si apprestano ad adottare,
oltre che socialmente e politicamente insostenibili, sarebbero anche, in ultima analisi,
controproducenti. Ciò per due ordini di motivi, uno di natura socio-politica, l’altro di natura
epidemiologica.
Sotto il primo profilo, l’argomento è che alla lunga la popolazione comincerebbe a stancarsi delle
misure restrittive, che per essere attuate con una qualche efficacia necessiterebbero di un coefficiente
di coercizione che nessuna democrazia può forse permettersi. Inoltre, i prevedibili costi economici di
una protratta paralisi delle attività sociali metterebbe ben presto in discussione la legittimità di un
approccio, che per produrre risultati in termini epidemiologici ha bisogno di una rigida e prolungata
implementazione.
Sotto il secondo profilo, l’idea è che lasciando circolare il virus in maniera più o meno controllata tra
la popolazione, tenendo al contempo al riparo i soggetti più vulnerabili, si produrrebbe in breve tempo
un effetto di “immunità di gregge”, molto simile a quello prodotto dai vaccini. Tale effetto avrebbe il
vantaggio di porre al riparo la popolazione da future ricadute.
Non sono certo nelle condizioni di discutere nel merito della validità di tale piano dal punto di vista
epidemiologico, ma anche se si trattasse di una ipotesi solida dal punto di vista scientifico è evidente
che essa suscita sconcerto soprattutto sul piano etico e politico. Quale il costo in termini di sofferenze
e perdita di vite umane che siamo disposti a pagare per ottenere l’immunità di gregge? Ancora una
volta ci tocca tirare in ballo Foucault e il suo celebre potere di “far vivere o respingere nella morte”.
La crudezza biopolitica della proposta del governo inglese ci mette a disagio ben più del
disciplinamento sociale a cui siamo assoggettati in queste ore. Addirittura, auspichiamo che gli altri
governi si affrettino a comprimere i diritti e le libertà individuali, seguendo l’indicazione delle
istituzioni sanitarie internazionali.
Si è detto che Boris Johnson è stato ispirato da un gruppo di consulenti che si rifà alla ‘teoria del
nudge’ elaborata, tra gli altri, dal giurista e politologo Cass Sunstein. Probabile. Tuttavia, se
l’approccio adottato in Cina, e a seguire in Italia, richiama immediatamente alla mente la logica

204
disciplinare, quello proposto in Inghilterra ricorda molto da vicino i modelli neoliberali di governo e
gestione della sicurezza descritti da Foucault nei suoi Corsi al College de France della fine degli anni
’70. Se la disciplina, “concentra, fissa, rinchiude”, la governamentalità neoliberale della sicurezza
“lascia fare”. Non che lasci fare tutto, dice Foucault, ma “a un certo livello il lasciar fare è
indispensabile”. Le tecnologie di sicurezza rispondono ai rischi senza pretendere di eliminarli, bensì
cercando di “frenarli e regolarli” ma lasciando al contempo che essi producano i loro effetti, “il
meccanismo di sicurezza cerca di annullare i fenomeni senza ricorrere alla forma del divieto, bensì
favorendo l’autoannullamento progressivo dei fenomeni. Si tratta di arginarli in limiti accettabili,
invece di imporre loro una legge che dice di no”.
Non saprei dire in questo momento quale dei due approcci alla gestione del rischio sia preferibile,
siamo di fatto oggetto di un colossale e inedito esperimento sociale di massa in cui due modelli, quello
disciplinare e quello governamentale, sono messi concretamente alla prova. Entrambe le strategie
vengono presentate come espressione di una razionalità tecnico-scientifica, sebbene una più
direttamente ispirata dal sapere medico, l’altra dalle scienze economiche e sociali. Non avendo
risposte, mi limito a concludere sottolineando come in ogni politica di gestione dei rischi e della
sicurezza si nasconda una deriva tecnocratica che rischia di offuscare le questioni politiche di fondo.
Se, come suggeriva Luhmann, esiste sia un rischio da assunzione di rischio (modello
governamentale), che un rischio da non assunzione di rischio (modello disciplinare), in ultima analisi
in materia di politiche di sicurezza non vi sono alternative decisionali prive di costi. Il sapere tecnico
offre strumenti utili a calcolare e prevedere in certa misura i costi delle nostre decisioni, ma non può
dirci quali siamo disposti ad accettare o meno.

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Giorgio Benigni - Il governo è il commissario


[16 Marzo 2020 – Linkiesta.it]

Non ci sono precedenti. Su questo non c’è dubbio. Viviamo in uno stato di emergenza, quello generato
dall’epidemia di COVID-19, che la nostra vita democratica non aveva mai vissuto. La Storia si prende
l’onere, o forse il gusto, di dirci che la sua “fine” non è prossima e rivela una drammatica e potente
creatività.
Anche la vita istituzionale come la vita privata di ognuno di noi conosce delle scosse, delle
sollecitazioni, delle forzature cui non era abituata. Per la prima volta, come peraltro già
autorevolmente ricordato da Marco Olivetti e Francesco Clementi, un atto formalmente

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amministrativo, un semplice decreto ministeriale, sebbene nella denominazione enfatica e solenne di
DPCM (Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri) si prende il compito di sospendere alcuni
fondamentali diritti costituzionali. Se si eccettuano infatti l’inviolabilità personale, di domicilio e di
corrispondenza, i successivi articoli della nostra Costituzione quali la libertà di circolazione (art. 16),
quella di riunione (art.17) e indirettamente quella di associazione (art. 18) fino alla libertà di culto
(art. 19) sono stati tutti fortemente alterati dall’iniziativa del Governo per fronteggiare l’epidemia,
oltre ovviamente a diritti sociali come quello all’istruzione e più in generale ai diritti al lavoro e alla
libera iniziativa economica.
Dal punto di vista costituzionale viviamo una parziale ma profondissima sospensione della
Costituzione, uno stato d’eccezione appunto, che potrebbe oggettivamente rientrare in una delle
categorie giuridiche coniate dalla dottrina nel corso del ‘900: la dittatura commissaria. Questo avviene
quando un governo adotta dei provvedimenti che, pur sospendendo la Costituzione, sono in realtà
finalizzati alla sua custodia, alla sua sopravvivenza, al suo mantenimento, non al suo stravolgimento.
I Romani avevano il concetto di salus rei publicae che a noi gioca il doppio senso sia di “salvezza
dello stato” che “salute dei cittadini”. Ecco. Siamo a questo punto.
Di fronte al diffondersi dell’epidemia l’apparato giuridico e ordinamentale ordinario risulta
inadeguato. C’è bisogno di prendere delle decisioni ulteriori, delle decisioni che giuridicamente
vengono chiamate “misure” e che si giustificano solo ed esclusivamente come azioni di contrasto alla
minaccia. Nel caso di specie esse hanno un chiaro termine di riferimento: la presenza di almeno un
contagiato dall’epidemia in un determinato territorio. Questo quanto previsto nel decreto decreto
legge n. 6 del 23 febbraio 2020 approvato in via definitiva il 4 marzo che ha stabilito il principio
generale e che avrebbe anche disposto all’art. 3 che i successivi adeguamenti delle misure sarebbero
stati emanati attraverso DPCM.
E infatti così è stato. Il primo DPCM quello che istituiva la “zona rossa” di Codogno e Vo Euganeo
e chiudeva le scuole in Lombardia e Veneto è del 23 febbraio, seguito da un altro DPCM il 25 febbraio
sulle manifestazioni sportive e infine quelli del 1°, 4, 8 e 9 marzo che avrebbero esteso a tutta Italia
le misure inizialmente previste per il nord. Sei decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri in 15
giorni per sospendere alcuni diritti fondamentali a 60 milioni di abitanti.
A questo punto è il caso di domandarsi se questa produzione normativa sia in linea oppure sia deviante
rispetto all’impianto della nostra Costituzione. La tesi di questo intervento, che qui viene anticipata è
che, pur in assenza di una esplicita previsione da parte del testo, ovvero della lettera della
Costituzione, quanto operato dal Governo sia pienamente dentro la legittimità costituzionale, sia in
senso formale che sostanziale.

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La prima cosa da osservare è che, come è stato anche riportato negli interventi sopracitati, la
Costituzione italiana è priva di una disciplina per lo stato di emergenza; del resto l’esperienza storica
aveva insegnato ai costituenti che disciplinare una previsione del genere in Costituzione come ad
esempio era stato fatto dalla Costituzione di Weimar, non aveva in nessun modo garantito da svolte
o derive autoritarie. Nè una esplicita legislazione sullo stato d’assedio come nell’ordinamento dello
stato liberale avrebbe poi evitato l’avvento del fascismo. La Costituzione italiana quindi, proprio ai
sopracitati articoli 16 e 17 prevede limitazioni in via generale al diritto di circolazione e riunione per
motivi di “salute e sicurezza” e “sicurezza e incolumità pubblica” ma non prevede espressamente ed
esplicitamente casi di sospensione dei diritti fondamentali così profondi ed estesi come quelli adottati
in Italia tra il febbraio e il marzo 2020 dal governo in carica. C’è però una disposizione, un solo
articolo, il n. 78 quello relativo alla guerra, che delinea sebbene con procedure sfumate, una facoltà
in capo al governo di adottare provvedimenti di alterazione del sistema costituzionale. Rileggiamolo:
“Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari. Si tratta forse
dell’articolo meno applicato, anzi per fortuna mai applicato, in oltre 70 anni di storia repubblicana
eppure uno tra i più studiati, analizzati, interpretati dalla dottrina proprio per le implicazioni che
evoca. Uno dei primi interpreti fu, proprio nel decennale numero uno della Costituzione nel 1958,
Leopoldo Elia che, portando avanti una lettura “americana” della nostra Costituzione con un notevole
e coraggiosa intuizione, tuttora oggetto di dibattito, affermò che una decisione irreversibile come
quella sulla guerra, il Parlamento la potesse fare, appunto sul modello statunitense, attraverso una
mozione congiunta delle due assemblee, senza necessariamente dover ricorrere al procedimento
legislativo. Tale interpretazione rileva qui circa l’opportunità o meno di relativizzare la forma della
legge come manifestazione unica e sola della volontà dello Stato, anche e a maggior ragione in
situazioni straordinarie e di necessità, come appunto quelle determinate da una situazione di conflitto
armato. Quello che invece appare giuridicamente e politicamente insormontabile dal punto di vista
della vita democratica è il rapporto di fiducia tra Parlamento e Governo: è solo in funzione di quello,
che il governo può adottare quei provvedimenti “necessari” che proprio perché tali, possono
sospendere l’esercizio di alcuni diritti fondamentali. Si badi bene, su questo è illuminante il dibattito
dei costituenti: “poteri necessari” non “pieni poteri” che sarebbero essi sì totalmente
anticostituzionali. Cosa siano questi “poteri necessari” il cui conferimento la dottrina attribuisce alla
forma legislativa è un compito che il Costituente ha affidato ai posteri e alla storia, ma è chiaro il
senso e la consegna: sono quei poteri “necessari” a contrastare e sconfiggere il nemico che ha
minacciato la sicurezza dei cittadini e quindi la sopravvivenza della Costituzione.
Ora, non c’è bisogno di grande fantasia per cogliere le evidenti analogie tra l’azione che si svolge per
contrastare l’invasione del nemico e quella per contrastare il propagarsi di una epidemia.

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Ecco allora che il decreto legge n.6 2020 approvato dalla Camera il 26 febbraio 462 voti a favore e 2
contrari e approvato dal Senato il 4 marzo con proporzioni simili, rappresenta una sorta di mandato
al governo a contrastare l’epidemia, sviluppando quindi l’analogia, un sorta di “conferimento al
Governo dei poteri necessari” proprio come recita l’art. 78 della Costituzione.
E a questo punto è opportuna una ulteriore osservazione relativamente al senso di questa disposizione.
Essa è collocata dopo gli art. 76 e 77 che sono quelli concernenti la legislazione delegata e i decreti
legge, la ratio della collocazione fa supporre che si tratti di una terza e più grave forma di potestà
legislativa del governo i cui contorni però sono lasciati volutamente indeterminati perché comportano
la possibilità di sospendere le garanzie costituzionali e , in quanto “poteri necessari” sono
evidentemente da modulare e calibrare a seconda delle necessità, difficilmente insomma possono
essere tipizzati.
Lo strumento del DPCM è quindi, dato il contesto, quello risultato più efficace e immediato e quindi
funzionale allo scopo. E’ vero che formalmente con questo strumento contrariamente al DPR
(Decreto del Presidente della Repubblica, sempre un atto governativo regolamentare, ma di rango
lievemente superiore e di procedura più complessa, ci sarebbe stato il controllo del Presidente della
Repubblica ma dobbiamo riconoscere che la firma della più alta magistratura della Repubblica c’è
stata nel decreto legge n. 6 che è la fonte giuridica dei sei DPCM che hanno accompagnato la gestione
quotidiana dell’emergenza epidemica: pensare di coinvolgere il Presidente della Repubblica nella
gestione tecnico pratica della crisi o attraverso la trasformazione dei DPCM in DPR o addirittura con
i decreti legge sembra a chi scrive, essere frutto per un verso di eccesso di zelo, come se il Presidente
della Repubblica avesse bisogno di un atto formale per esercitare la sua pressione di garanzia e non
svolgesse nella sostanza già un ruolo di controllo preventivo di costituzionalità, ma è evidente che
queste non sono valutazioni in punta di diritto; per altro verso questa impostazione sembra essere
frutto di una visione ancora legata alla legge come unica e sola forma di manifestazione della volontà
dello Stato mentre questa trova la sua espressione essenzialmente nel rapporto politico istituzionale
di fiducia tra Parlamento e Governo, ovvero nella funzione condivisa di indirizzo politico, rapporto
che diventa la fonte di legittimazione di un provvedimento tecnicamente amministrativo come un
DPCM ma capace di sospendere temporalmente alcuni diritti costituzionali. Del resto, da giuristi
eminenti come Carlo Esposito e Giuseppe De Vergottini, è stata già rilevata la inidoneità dei decreti
legge ad essere “provvedimenti d’urgenza derogatori della Costituzione” proprio perché per natura
destinati a diventare legge, quindi a entrare stabilmente e permanentemente nell’ordinamento, mentre
proprio i DPCM avrebbero quel carattere connesso all’occasionalità e alla particolarità e non quindi
alla generalità e astrattezza tipico della legge, che li rende maggiormente idonei a svolgere una
funzione di sospensione dentro un contesto derogatorio.

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In conclusione, occorre innanzitutto riconoscere che le novità giuridiche portate dalla crisi epidemica
siano effettivamente tali, degli apax, ma anche proporzionate alla straordinarietà del fenomeno che ci
si è trovati a contrastare. Pur nella novità della fonte, il DPCM che sospende la Costituzione, inalterato
è stato nella forma il rapporto istituzionale che dà sostanza a questi provvedimenti ossia il rapporto
di fiducia tra Parlamento e Governo con in più, nella fattispecie in oggetto, anche il coinvolgimento
elle opposizioni. Si potrebbe quindi dire che si vive una situazione paradossale di sospensione della
Costituzione ma in costanza dello stato di diritto. Niente infatti fa presagire che si possa passare ad
uno stato di polizia. Le limitazione nei diritti sono infatti erga omnes e rispettano pienamente l’art. 3
della Costituzione ovvero non sono in base al sesso, alla razza, alla religione, alle opinioni politiche,
alle condizioni personali e sociali.Stiamo nel limite, non stiamo nell’arbitrio. Non c’è un potere
assoluto e illimitato. Stiamo nello sforzo di salvaguardare la Costituzione materiale del paese. Uno
sforzo che può comportare anche la sospensione per un certo lasso di tempo della costituzione
formale. Per tutte queste ragioni non hanno senso se non in una logica di mero opportunismo politico,
le discussioni sulla necessità o meno di un commissario per la gestione dell’epidemia denominata
COVID-19. Si possono senz’altro individuare figure tecniche che ottimizzino aspetti logistici
connessi a rendere efficaci le misure. Ma il solo commissario, ovvero il solo soggetto chiamato a
poter alterare situazioni giuridiche allo scopo di conseguire i più efficaci risultati di contrasto non è,
nella Costituzione italiana, un nome e un cognome, ma è il Governo, un organo collegiale che anche
e proprio in virtù di questa collegialità è il solo “power comitted for the advantage of the
commonwealth” (John Locke) e quindi il solo Commissario a poter derogare legislazione e
Costituzione.

Giorgio Agamben - Chiarimenti


[17 Marzo 2020 – Quodlibet.it]

Un giornalista italiano si è applicato, secondo il buon uso della sua professione, a distorcere e
falsificare le mie considerazioni sulla confusione etica in cui l’epidemia sta gettando il paese, in cui
non si ha più riguardo nemmeno per i morti. Così come non mette conto di citare il suo nome, così
nemmeno vale la pena di rettificare le scontate manipolazioni. Chi vuole può leggere il mio testo
Contagio sul sito della casa editrice Quodlibet. Piuttosto pubblico qui delle altre riflessioni, che,
malgrado la loro chiarezza, saranno presumibilmente anch’esse falsificate.

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La paura è una cattiva consigliera, ma fa apparire molte cose che si fingeva di non vedere. La prima
cosa che l’ondata di panico che ha paralizzato il paese mostra con evidenza è che la nostra società
non crede più in nulla se non nella nuda vita. È evidente che gli italiani sono disposti a sacrificare
praticamente tutto, le condizioni normali di vita, i rapporti sociali, il lavoro, perfino le amicizie, gli
affetti e le convinzioni religiose e politiche al pericolo di ammalarsi. La nuda vita – e la paura di
perderla – non è qualcosa che unisce gli uomini, ma li acceca e separa. Gli altri esseri umani, come
nella pestilenza descritta da Manzoni, sono ora visti soltanto come possibili untori che occorre a ogni
costo evitare e da cui bisogna tenersi alla distanza almeno di un metro. I morti – i nostri morti – non
hanno diritto a un funerale e non è chiaro che cosa avvenga dei cadaveri delle persone che ci sono
care. Il nostro prossimo è stato cancellato ed è curioso che le chiese tacciano in proposito. Che cosa
diventano i rapporti umani in un paese che si abitua a vivere in questo modo non si sa per quanto
tempo? E che cosa è una società che non ha altro valore che la sopravvivenza?
L’altra cosa, non meno inquietante della prima, che l’epidemia fa apparire con chiarezza è che lo stato
di eccezione, a cui i governi ci hanno abituati da tempo, è veramente diventato la condizione normale.
Ci sono state in passato epidemie più gravi, ma nessuno aveva mai pensato a dichiarare per questo
uno stato di emergenza come quello attuale, che ci impedisce perfino di muoverci. Gli uomini si sono
così abituati a vivere in condizioni di crisi perenne e di perenne emergenza che non sembrano
accorgersi che la loro vita è stata ridotta a una condizione puramente biologica e ha perso ogni
dimensione non solo sociale e politica, ma persino umana e affettiva. Una società che vive in un
perenne stato di emergenza non può essere una società libera. Noi di fatto viviamo in una società che
ha sacrificato la libertà alle cosiddette “ragioni di sicurezza” e si è condannata per questo a vivere in
un perenne stato di paura e di insicurezza.
Non stupisce che per il virus si parli di guerra. I provvedimenti di emergenza ci obbligano di fatto a
vivere in condizioni di coprifuoco. Ma una guerra con un nemico invisibile che può annidarsi in
ciascun altro uomo è la più assurda delle guerre. È, in verità, una guerra civile. Il nemico non è fuori,
è dentro di noi.
Quello che preoccupa è non tanto o non solo il presente, ma il dopo. Così come le guerre hanno
lasciato in eredità alla pace una serie di tecnologie nefaste, dai fili spinati alle centrali nucleari, così
è molto probabile che si cercherà di continuare anche dopo l’emergenza sanitaria gli esperimenti che
i governi non erano riusciti prima a realizzare: che si chiudano le università e le scuole e si facciano
lezioni solo on line, che si smetta una buona volta di riunirsi e di parlare per ragioni politiche o
culturali e ci si scambino soltanto messaggi digitali, che ovunque è possibile le macchine sostituiscano
ogni contatto – ogni contagio – fra gli esseri umani.

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Enrico Palandri - L’angelo dell’apocalisse
[17 Marzo 2020 – Doppiozero.com]

C’è un magnifico quadro di Gian Domenico Tiepolo a San Polo in cui ritrae Vincent Ferrer, un
predicatore domenicano morto 300 anni prima noto ai suoi tempi come l’angelo dell’apocalisse. Tutte
le religioni sono da sempre piene di questi annunciatori: se hai con Dio un dialogo tanto intimo da
poter ascoltare dalla sua voce il rischio della fine imminente dell’umanità, è difficile che di questo

211
annuncio tu possa far altro che una predica. Un discorso alle folle in cui per definizione non si ascolta
o partecipa, ma si arringano gli altri, che magari si distraggono e parlano tra loro.
Il quadro di Tiepolo però è dominato in realtà da un’altra figura in primo piano: si copre il viso con
il bavero della giacca, non si capisce bene se sia un uomo o una donna. Forse il giovane non
sopravvivrà alle sciagure annunciate dal predicatore, ma non vi partecipa. C’è qualcosa di estraneo,
curioso e distaccato che è anche la chiave di un suo segreto. Forse malizioso. Chissà cosa pensa, se
cerca di dissimulare il suo dissenso, come era stato abituale per chiunque pensasse a cose stravaganti
come l’eliocentrismo negli anni della controriforma. Come deve essere stato apparire liberali nella
Germania nazista o nell’Italia di Mussolini, negli anni del comunismo di Stalin o di Mao. Apparire
qualunque cosa, perché le ossessioni identitarie creano sempre un altro di qualche tipo, religioso,
sessuale, etnico, ideologico.
O forse e comunque sempre: le opinioni, per altro incerte, esporrebbero quel giovane come chiunque
di noi a qualche pericolo. Del resto, sarebbe mai possibile non avere opinioni? Possiamo fare altro
che nasconderle? O forse ha qualche altra ragione per guardarci in modo tanto misterioso? Dai
Pulcinella di cui ha scritto Giorgio Agamben a Il nuovo mondo, altro splendido ed enigmatico ritratto
del futuro (che in realtà non vediamo, a noi sono visibili solo le spalle di quelli che lo guardano), in
Tiepolo l’enigma di cosa sia abitare il proprio tempo ci avvicina a una curiosa latenza. Sopravvivremo
al coronavirus? Alle tante e diverse catastrofi che si addensano sui nostri orizzonti? Quelli privati e
quelli pubblici? Al nostro contraddittorio cercare e fuggire la morte? Chi lo sa, anzi certamente alla
fine non si sopravvive, il pericolo che il giovane avverte è che comunque, qualunque cosa dicessimo,
verrebbe travisata e consegnerebbe ai persecutori di una o dell’altra parte.

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Raoul Vaneigem - Coronavirus


[17 Marzo 2020 – trad. it. da lundimatin 19 Marzo 2020]

Mettere in dubbio la pericolosità del Coronavirus, è sicuramente assurdo. D'altra parte, non è
altrettanto assurdo che un'interruzione in quello che è il normale decorso delle malattie venga fatta
oggetto di un simile sfruttamento emotivo, e che risvegli quell'arrogante incompetenza che anni fa
era riuscita a spazzare via dalla Francia perfino la nube di Chernobyl? Ovviamente, sappiamo con
quanta facilità lo spettro dell'apocalisse esca dalla sua scatola per impadronirsi del primo cataclisma
che gli si offre, per giocare così con le rappresentazioni del diluvio universale, e spostare quella che
è la griglia della colpa sul terreno sterile di Sodoma e Gomorra. La maledizione divina è sempre stata

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un utile complemento al potere. Almeno fino al terremo di Lisbona del 1755, quando il marchese di
Pombal, amico di Voltaire, approfittò del sisma per massacrare i gesuiti, ricostruire la città secondo
le sue idee e liquidare allegramente i suoi rivali politici attraverso degli esperimenti «proto-stalinisti».
Eviteremo di insultare Pombal, per quanto odioso sia stato, paragonando il suo colpo di stato
dittatoriale alle misere misure che il totalitarismo democratico sta applicando in tutto il mondo
all'epidemia di Coronavirus.
Quant'è cinico dare la colpa del propagarsi del flagello alla deplorevole inadeguatezza delle risorse
mediche impiegate! Per decenni il bene pubblico è stato minato e smantellato, vittima di una politica
che favorisce gli interessi finanziari a spese della salute dei cittadini. Ci sono sempre più soldi per le
banche e sempre meno letti e infermieri per gli ospedali. Quali buffonate useranno per nascondere
ancora il fatto che questa gestione catastrofica del catastrofismo è inerente al capitalismo finanziario,
globalmente dominante, e che è proprio lui che oggi lotta globalmente a nome della vita, del pianeta
e delle specie da salvare. Senza cadere in questa recrudescenza del castigo divino per cui l'idea
sarebbe quella che la Natura si sta sbarazzando dell'uomo come se fosse un parassita gradito e
dannoso, non è però inutile ricordare che per millenni lo sfruttamento della natura umana e della
natura terrestre ha imposto il dogma dell'anti-fisica, dell'anti-natura. Il libro di Éric Postaire, "Le
epidemie del XXI secolo", pubblicato nel 1997, conferma quali sono stati gli effetti disastrosi della
persistente denaturalizzazione, che vado denunciando da decenni. Facendo riferimento al dramma
della «mucca pazza» (che era stato predetto da Rudolph Steiner già nel 1920), l'autore ci ricorda che,
oltre ad essere indifesi contro alcune malattie, bisogna rendersi conto che a poterle causare è lo stesso
progresso scientifico. Nel richiedere un approccio responsabile alle epidemie ed al loro trattamento,
mette sotto accusa quella che Claude Gudin chiama la «filosofia del cassiere». Egli ci pone la seguente
domanda: «Se subordiniamo la salute della popolazione alle leggi del profitto, fino al punto di
trasformare in carnivori gli animali erbivori, non corriamo così forse il rischio di provocare delle
catastrofi che saranno fatali per la Natura e per l'Umanità? I governi, com'è noto, hanno già risposto
unanimamente SÌ. Ma che importa, visto che il NO degli interessi finanziari continua cinicamente a
trionfare?»
E ci voleva il Coronavirus per dimostrare ai più miopi che la denaturalizzazione per ragioni di
redditività può avere delle conseguenze disastrose per la salute universale (salute che viene gestita
senza disinnescare un'Organizzazione Mondiale le cui preziose statistiche servono a giustificare la
cancellazione degli ospedali pubblici)? Esiste una chiara correlazione tra il Coronavirus ed il collasso
del capitalismo globale. Allo stesso tempo, non è meno ovvio che ciò che ci sta travolgendo e
sopraffacendo, insieme all'epidemia del Coronavirus, è una peste emozionale, una paura isterica, un
panico che nasconde quella che è la mancanza di terapie, e perpetua il male spaventando il paziente.

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Durante le grandi epidemie di peste del passato, la gente faceva penitenza e proclamava la propria
colpa auto-flagellandosi. E non è forse interesse degli amministratori della disumanizzazione globale
persuadere le persone che non c'è modo di uscire dal miserabile destino che viene loro inflitto? E che
l'unico modo è quello della flagellazione della servitù volontaria? La formidabile macchina mediatica
non fa altro che ripetere la vecchia menzogna dell'impentrabile ed ineluttabile decreto celeste, in cui
il folle denaro ha soppiantato gli dei sanguinari e capricciosi del passato.
Lo scastenarsi della barbarie poliziesca contro pacifici manifestanti ha ampiamente dimostrato che la
legge militare è l'unica cosa che funzioni efficacemente. Adesso confina donne, uomini e bambini
nella quarantena. Là fuori, c'è la bara, dentro c'è la televisione: la finestra aperta su un mondo chiuso!
Si tratta di un condizionamento capace di aggravare il malessere esistenziale appoggiandosi alle
emozioni logorate dell'angoscia, ed esacerbate dalla cecità di una rabbia impotente. Perfino le bugie
cedono il passo al collasso generale. Il cretinismo statale e populista ha raggiunto i propri limiti. Non
si può negare che ci sia in corso un esperimento. La disobbedienza civile si sta diffondendo e sta
sognando società che sono radicalmente nuove perché sono radicalmente umane. La solidarietà libera
dalla loro scorza individualista gli individui che non hanno paura di pensare con la propria testa.
Il coronavirus si è trasformato nel marchio rilevatore del fallimento dello Stato. Almeno questo, per
le vittime della reclusione forzata, è qualcosa cui pernsare. Quando ho pubbliccato le mie «Modeste
proposte per gli scioperanti», ci sono stati alcuni amici che mi hanno parlato di quanto fosse difficile
ricorrere al rifiuto collettivo, da me suggerito, di pagare tasse e imposte. Oggi, però, l'evidente
bancarotta dello Stato corrotto è la prova di una declino economico e sociale che sta facendo sì che
le piccole e medie imprese, il commercio locale, i bassi redditi, le aziende agricole familiari e perfino
le cosiddette libere professioni siano assolutamente insostenibili. Il collasso del Leviatano è riuscito
a convincerci in maniera più rapida di quanto avevano fatto i nostri sforzi per abbatterlo.
Il Coronavirus ha fatto di meglio ancora. La cessazione delle attività produttive nocive ha ridotto
l'inquinamento del mondo, salvando da una morte programmata milioni di persone: la natura respira,
i delfini tornano nuotare e a giocare in Sardegna, i canali di Venezia liberatisi del turismo di massa
riscoprono l'acqua chiara, il mercato azionario crolla. La Spagna decide di nazionalizzare le cliniche
private, come se avesse riscoperto la sicurezza sociale, come se lo Stato si ricordasse dello stato
sociale che ha distrutto.
Niente viene dato per scontato, tutto comincia. L'utopia continua a gattonare a quattro zampe.
Abbandoniamo alla loro celestiale inanità i miliardi di banconote e di idee vuote che circolano sulle
nostre teste. Quel che importa è «farci gli affari nostri» lasciando che la bolla degli affari crolli e
imploda. Stiamo attenti alla mancanza di audacia e fiducia in sé stessi!

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Il nostro presente non consiste nel confinamento che ci viene imposto dalla sopravvivenza, ma è
l'apertura ad ogni possibilità. Quelle misure che lo Stato oligarghico è costretto ad adottare, e che fino
a ieri aveva ritenuto impossibili, sono solo effetto del panico. Dobbiamo rispondere a quello che è il
richiamo della vita e della terra da riconquistare. La quarantena favorisce la riflessione. Il
confinamento non sopprime la presenza sulla strada, ma la reinventa. Permettetemi di pensare, cum
grano salis, che l'insurrezione della vita quotidiana continua ad avere insospettabili virtù terapeutiche.

Contester le danger du coronavirus relève à coup sûr de l’absurdité. En revanche, n’est-il pas tout aussi absurde qu’une
perturbation du cours habituel des maladies fasse l’objet d’une pareille exploitation émotionnelle et rameute cette
incompétence arrogante qui bouta jadis hors de France le nuage de Tchernobyl ? Certes, nous savons avec quelle facilité
le spectre de l’apocalypse sort de sa boite pour s’emparer du premier cataclysme venu, rafistoler l’imagerie du déluge
universel et enfoncer le soc de la culpabilité dans le sol stérile de Sodome et Gomorrhe. La malédiction divine secondait
utilement le pouvoir. Du moins jusqu’au tremblement de terre de Lisbonne en 1755, lorsque le marquis de Pombal, ami
de Voltaire, tire parti du séisme pour massacrer les jésuites, reconstruire la ville selon ses conceptions et liquider
allègrement ses rivaux politiques à coups de procès « proto-staliniens. » On ne fera pas l’injure à Pombal, si odieux qu’il
soit, de comparer son coup d’éclat dictatorial aux misérables mesures que le totalitarisme démocratique applique
mondialement à l’épidémie de coronavirus. Quel cynisme que d’imputer à la propagation du fléau la déplorable
insuffisance des moyens médicaux mis en œuvre ! Cela fait des décennies que le bien public est mis à mal, que le secteur
hospitalier fait les frais d’une politique qui favorise les intérêts financiers au détriment de la santé des citoyens. Il y a
toujours plus d’argent pour les banques et de moins en moins de lits et de soignants pour les hôpitaux. Quelles pitreries
dissimulera plus longtemps que cette gestion catastrophique du catastrophisme est inhérente au capitalisme financier
mondialement dominant, et aujourd’hui mondialement combattu au nom de la vie, de la planète et des espèces à sauver.
Sans verser dans cette resucée de la punition divine qu’est l’idée d’une Nature se débarrassant de l’Homme comme d’une
vermine importune et nuisible, il n’est pas inutile de rappeler que pendant des millénaires, l’exploitation de la nature
humaine et de la nature terrestre a imposé le dogme de l’anti-physis, de l’anti-nature. Le livre d’Eric Postaire, Les
épidémie du XXIe siècle, paru en 1997, confirme les effets désastreux de la dénaturation persistante, que je dénonce
depuis des décennies. Evoquant le drame de la « vache folle » (prévu par Rudolf Steiner dès 1920), l’auteur rappelle
qu’en plus d’être désarmés face à certaines maladies nous prenons conscience que le progrès scientifique lui-même peut
en provoquer. Dans son plaidoyer en faveur d’une approche responsable des épidémies et de leur traitement, il incrimine
ce que le préfacier, Claude Gudin, appelle la ’ philosophie du tiroir caisse ’. Il pose la question : « A subordonner la
santé de la population aux lois du profit, jusqu’à transformer des animaux herbivores en carnivores, ne risquons-nous
pas de provoquer des catastrophes fatales pour la Nature et l’Humanité ? » Les gouvernants, on le sait, ont déjà répondu
par un OUI unanime. Quelle importance puisque le NON des intérêts financiers continue de triompher cyniquement ?
Fallait-il le coronavirus pour démontrer aux plus bornés que la dénaturation pour raison de rentabilité a des
conséquences désastreuses sur la santé universelle - celle que gère sans désemparer une Organisation mondiale dont les
précieuses statistiques pallient la disparition des hôpitaux publics ? Il existe une corrélation évidente entre le coronavirus
et l’effondrement du capitalisme mondial. Dans le même temps, il apparaît non moins évidemment que ce qui recouvre
et submerge l’épidémie du coronavirus, c’est une peste émotionnelle, une peur hystérique, une panique qui tout à la fois
dissimule les carences de traitement et perpétue le mal en affolant le patient. Lors des grandes épidémies de peste du
passé, les populations faisaient pénitence et clamaient leur coulpe en se flagellant. Les managers de la déshumanisation

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mondiale n’ont-ils pas intérêt à persuader les peuples qu’il n’y a pas d’issue au sort misérable qui leur est fait ? Qu’il
ne leur reste que la flagellation de la servitude volontaire ? La formidable machine médiatique ne fait que ressasser le
vieux mensonge du décret céleste, impénétrable, inéluctable où l’argent fou a supplanté les Dieux sanguinaires et
capricieux du passé. Le déchaînements de la barbarie policière contre les manifestants pacifiques a amplement montré
que la loi militaire est la seule chose qui fonctionnait efficacement. Elle confine aujourd’hui femmes, hommes et enfants
en quarantaine. Dehors, le cercueil, dedans la télévision, la fenêtre ouverte sur un monde fermé ! C’est une mise en
condition capable d’aggraver le malaise existentiel en misant sur les émotions écorchées par l’angoisse, en exacerbant
l’aveuglement de la colère impuissante. Mais même le mensonge cède à l’effondrement général. La crétinisation étatique
et populiste a atteint ses limites. Elle ne peut nier qu’une expérience est en cours. La désobéissance civile se propage et
rêve de sociétés radicalement nouvelles parce que radicalement humaines. La solidarité libère de leur peau de mouton
individualiste des individus qui ne craignent plus de penser par eux-mêmes. Le coronavirus est devenu le révélateur de
la faillite de l’État. Voilà au moins un sujet de réflexion pour les victimes du confinement forcé. Lors de la parution de
mes Modestes propositions aux grévistes, des amis m’ont remontré la difficulté de recourir au refus collectif, que je
suggérais, d’acquitter les impôts, taxes, prélèvements fiscaux. Or, voilà que la faillite avérée de l’État-escroc atteste un
délabrement économique et social qui rend absolument insolvables les petites et moyennes entreprises, le commerce
local, les revenus modestes, les agriculteurs familiaux et jusqu’aux professions dites libérales. L’effondrement du
Léviathan a réussi à convaincre plus rapidement que nos résolutions de l’abattre. Le coronavirus a fait mieux encore.
L’arrêt des nuisances productivistes a diminué la pollution mondiale, il épargne une mort programmée à des millions de
personnes, la nature respire, les dauphins reviennent batifoler en Sardaigne, les canaux de Venise purifiés du tourisme
de masse retrouvent une eau claire, la bourse s’effondre. l’Espagne se résout à nationaliser les hôpitaux privés, comme
si elle redécouvrait la sécurité sociale, comme si l’État se souvenait de l’Etat-providence qu’il a détruit. Rien n’est acquis,
tout commence. L’utopie marche encore à quatre pattes. Abandonnons à leur inanité céleste les milliards de bank-notes
et d’idées creuses qui tournent en rond au-dessus de nos têtes. L’important, c’est de « faire nos affaires nous-mêmes »
en laissant la bulle affairiste se défaire et imploser. Gardons-nous de manquer d’audace et de confiance en nous ! Notre
présent n’est pas le confinement que la survie nous impose, il est l’ouverture à tous les possibles. C’est sous l’effet de la
panique que l’Etat oligarchique est contraint d’adopter des mesures qu’hier encore il décrétait impossibles. C’est à
l’appel de la vie et de la terre à restaurer que nous voulons répondre. La quarantaine est propice à la réflexion. Le
confinement n’abolit pas la présence de la rue, il la réinvente. Laissez-moi penser, cum grano salis , que l’insurrection
de la vie quotidienne a des vertus thérapeutiques insoupçonnées.

Guillermo Hurtado - La pandemia, la filosofía y la democracia


[17 Marzo 2020 - La Razón]

¿Qué repercusiones tendrá la pandemia del Covid-19 para la democracia? Una manera de comenzar
a responder esta pregunta desde la filosofía consiste en retomar el concepto de “estado de excepción”
examinado por Giorgio Agamben.
La idea es la siguiente: para proteger a sus ciudadanos de la supuesta amenaza terrorista, en algunas
de las llamadas “democracias occidentales” se han puesto en suspenso los derechos individuales. Esta

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estrategia se hizo evidente después de los atentados del 11/9/2001. A partir de entonces, los gobiernos
de Estados Unidos y otros países europeos pasaron por encima de la ley para espiar, torturar e incluso
asesinar a sospechosos de pertenecer a grupos terroristas. Ante estas medidas extraordinarias, se
esperaba que los ciudadanos se hicieran de la vista gorda. El argumento —nunca formulado de manera
oficial— es que hay ocasiones en que para proteger la democracia, un Estado democrático debe actuar
como uno autoritario. O dicho de otra manera: hay veces en las que para proteger el orden jurídico
hay que romperlo impunemente. Sin embargo, como señala Agamben, lo que se plantea como una
circunstancia excepcional, se prolonga indefinidamente.
Las medidas en contra del terrorismo son un caso paradigmático de lo que Michel Foucault llamó
“biopolítica”. De acuerdo con Foucault, el Estado moderno ejerce su poder mediante el control de los
cuerpos de los seres humanos que están bajo su dominio. Las nuevas tecnologías han elevado el nivel
de control de la biopolítica a niveles antes inimaginables. Desde esta perspectiva, la idea de la
democracia como el gobierno del pueblo se desdibuja. Si el Estado nacional y las corporaciones
transnacionales nos vigilan y controlan de múltiples maneras, ¿qué sentido tiene decir que somos
nosotros quienes nos gobernamos a nosotros mismos? Consideremos ahora qué podríamos decir sobre
la nueva pandemia con la ayuda de estas herramientas conceptuales. En lo que podríamos llamar el
“estado de cuarentena” lo que se privilegiaría, por encima de la democracia, es la preservación de la
salud frente a la amenaza invisible y recurrente del virus.
El experimento social que se realizó en China para contener el brote epidémico es un ejemplo
impresionante de lo que quizá veremos con más frecuencia en un futuro próximo. Todos los recursos
del Estado chino se utilizaron al máximo y, con ello, en opinión de algunos, quedaron legitimados
por su brutal efectividad. La oferta implícita es simple: si usted quiere vivir en un mundo impoluto,
sin el peligro del contagio, no se preocupe demasiado por la democracia y permita que el Estado y las
corporaciones controlen aún más su vida individual.
El fenómeno de la pandemia abarca toda la experiencia humana. No dejemos que su manejo quede
en las manos de una élite política, científica o militar. Se puede estar o no de acuerdo con Foucault o
con Agamben, pero la filosofía, entendida como ejercicio crítico, no puede permanecer callada.

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Enzo Ferrara - Epidemiologia, epidemie e storia
[17 Marzo 2020 – gli asini]

“Ecco perché io credo che un altro modo di cogliere il senso del passaggio dalla medicina curativa a
quella preventiva sia nel rendersi consapevoli che la diagnosi della malattia non ci basta più: ci
occorre la diagnosi di salute”
G.A. Maccacaro – Napoli, 1968

L’epidemiologia – la più umanistica delle discipline mediche – è una scienza sottovalutata forse
perché non è correlabile con attività produttive, anzi è ostativa di queste quando ne rivela le
contraddizioni e gli impatti sulla salute e sull’ambiente. Poiché solitamente valuta a ritroso le
conseguenze dei fenomeni socio-sanitari, viene considerata principalmente come una scienza
difensiva della salute – che è la vera enorme merce di scambio sul mercato globale. Anche questa è
una sottovalutazione perché se correttamente e liberamente applicata, l’epidemiologia come scienza
predittiva e preventiva non avrebbe semplicemente impedito o almeno ridotto l’esito di tanti mali del
progresso in materia di salute e sanità (l’amianto, il mercurio, il piombo, i depletori dell’ozono, le
troppe sostanze cancerogene disperse nell’ambiente) ma avrebbe anche potuto – e ancora potrebbe –
dare un contributo unico per alleviare scientificamente i mali sociali ed economici che
sistematicamente accompagnano le disparità di salute su scala locale e globale.
Nel libro di Archibald Cochrane, L’inflazione medica (Feltrinelli, Milano 1973) la distinzione fra
efficacia ed efficienza nella medicina, che è possibile facendo un buon uso dell’epidemiologia, mette
a nudo tutte le contraddizioni del concetto moderno di salute e delle modalità con le quali si tende a
trattare i problemi sanitari oggi: con ottica da un lato tecno-efficientista, dall’altro compassionevole.
Cochrane, che aveva vissuto sul campo la drammaticità delle scelte sanitarie in condizioni estreme
come medico delle brigate internazionali in Spagna 1936 e in un campo di prigionia a Malta durante
la seconda guerra mondiale, esortava a portare la discussione sull’economia politica della salute
abbandonando queste visioni, lontane dal bisogno e concentrate sui singoli casi. Occorre ridurre al
minimo le soluzioni ipertecnologiche in medicina, costose e insostenibili, che facilitano sia chi
sostiene i sistemi privati perché “non si può continuare a spendere tanto per la sanità pubblica”, sia
coloro che da tutt’altra parte politica rivendicano la necessità di estendere a tutti quelle stesse cure
perché erroneamente le considerano uniche risolutrici dei problemi di salute pubblica scordando i
vantaggi economici e sociali delle politiche di prevenzione.
Prima di chiederci se sia giusto e sostenibile l’aumento illimitato delle spese sanitarie – suggeriva
Cochrane – è necessario sapere a cosa queste possono davvero servire. Nel modello sanitario

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consumistico, si inganna la richiesta di efficacia con l’esibizione di efficienza abbinando alla cura
costi elevati e spettacolarità tecnologica, due elementi di consolazione della modernità. Ma se non
c’è efficacia, cioè se non cala la richiesta di cura ma addirittura la si persegue come occasione di
profitto – vedasi il sistema sanitario privato, – nessun sistema sanitario è in grado di sostenere a lungo
la situazione. Occorre perciò sempre un ragionamento anche sulle “cause delle malattie” per
debellarle non solo con la cura quando si manifestano con tutta la loro potenza distruttiva ma alla loro
origine quando ancora sono riducibili con la prevenzione – come accade con i vaccini, l’igiene, la
profilassi alimentare. E se questo non bastasse, occorrerebbe allora un discorso ancor più
approfondito sulle “cause delle cause delle malattie”, che è esattamente e urgentemente ciò che
dovremo fare per la catastrofe del Coronavirus, collettivamente, appena dopo l’emergenza. È questo
il vero campo di lavoro e di affermazione dell’epidemiologia come scienza al servizio dell’uomo. Si
aggiungerebbe così alle caratteristiche del Servizio Sanitario – concludeva Cochrane – oltre
all’aggettivo nazionale, preziosissimo per la collettività ma con efficacia da verificare, anche quello
più qualificativo e indispensabile di razionale.
Anche la storia delle epidemie è una questione troppo sbrigativamente emarginata sia nella cultura
scientifica occidentale sia in quella umanistica. Se si guarda alla storiografia andando oltre la visione
tradizionale che la prefigura come sola analisi degli eventi geopolitici in un flusso ininterrotto di lotte
per il potere e si allarga lo sguardo su intervalli storici che travalicano i singoli e gli interessi
individuali, si possono vedere cambiamenti che si estendono attraverso i secoli e che integrano la
storia delle popolazioni, dei gruppi sociali o dei cicli economici e istituzionali con le variazioni
biologiche e ambientali.
Quando le caravelle di Cristoforo Colombo attraversarono l’Atlantico, la densità di popolazione fra
le diverse aree del mondo – più o meno civilizzato e conosciuto dall’Europa all’India, alla Persia, al
Perù alla valle dello Yangzi in Cina – era in media sostanzialmente identica. La distribuzione degli
esseri umani dipendeva per lo più dalla disponibilità di risorse e dal clima locale. Quando gli abitanti
dei due mondi, il vecchio e il nuovo, vennero per la prima volta a contatto, gli occidentali avevano
vantaggio non solo in termini di capacità culturali e tecnologiche come la polvere da sparo e l’acciaio,
ma anche in termini biologici per le risorse disponibili grazie all’allevamento degli animali: carne,
latte, fibre, cuoio e concimi per l’agricoltura. Anche gli amerindi avevano un vantaggio non
secondario in termini evoluzionistici: fino al 1492 avevano sofferto molto meno degli euroasiatici e
degli africani gli effetti delle malattie infettive da zoonosi, trasmesse all’uomo proprio per la
convivenza con gli animali da allevamento.
L’invasione degli europei nelle Americhe, oltre che per la violenza direttamente esercitata con lame
e schioppi, ebbe conseguenze devastanti per le popolazioni indigene anche a causa di virus e batteri

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di nuova importazione, paragonabili soltanto agli effetti della peste nera che colpì l’Europa e il Medio
Oriente nel XIV secolo. Per converso, in Europa arrivò rapidamente la sifilide fino ad allora
totalmente sconosciuta come le patate, il mais, i pomodori, il tabacco, il cacao e i tacchini. Colombo
fece ritorno con due sole caravelle nel marzo 1493: la prima epidemia di sifilide si registrò nel vecchio
mondo poco più di due anni più tardi, il 6 luglio 1495, diffusa dai soldati quando i resti dell’esercito
di Carlo VIII si scontrarono nella Battaglia di Fornovo con le truppe spagnole e la lega degli Stati
italiani.
Gli intrecci fra le storie della società e della natura sono anche più profondi e inattesi di quanto
immaginiamo. L’occupazione delle Americhe da parte degli europei sarebbe stata economicamente
improduttiva senza lavoratori da impiegare per il loro sfruttamento. Quando i primi conquistadores
si accorsero che gli amerindi delle odierne Bahamas, del Nicaragua e della costa brasiliana venuti a
contatto con l’uomo bianco erano falcidiati non solo da malattie a epidemia ciclica come il vaiolo, il
colera e la peste, ma anche da patologie endemiche in Europa come il morbillo, la varicella, la
scarlattina o semplici influenze, provarono a soggiogare popolazioni più a sud e più interne in
Sudamerica, ma solo per osservare anche per queste il rapido sviluppo di pestilenze che cancellarono
intere etnie. Soltanto la peste di Giustiniano nel VI secolo aveva creato nell’intero bacino del
Mediterraneo una tale carenza di popolazioni da schiavizzare. I mercanti cristiani e musulmani
dovettero spostare le razzie verso l’Europa nordoccidentale – verso le popolazione che chiamiamo
slave usando un aggettivo che in inglese corrisponde al sostantivo schiavo – e verso l’Africa interna.
Lo stesso accadde nel XVI secolo per l’impiego di manodopera schiavizzata nei territori del nuovo
mondo. Cronologicamente, i primi commercianti di schiavi dall’Africa verso le Americhe con scalo
a Capo Verde furono i portoghesi: si calcola che nel 1551 un decimo della popolazione di Lisbona
fosse costituita da schiavi africani, nelle zone interne del Portogallo la loro percentuale era anche più
elevata.
È evidente allora l’errore che si commette nel fare storiografia senza considerare oltre a quella
culturale la storia della natura e dell’evoluzione biologica che nel nostro immaginario appare quasi
immobile ma che ha invece condizionato e condiziona le nostre pretese di civiltà. Esiste, insomma,
una sovrapposizione di prospettive da considerare ciascuna nel proprio livello di complessità per
l’analisi delle vicende umane e naturali che più frequentemente di quanto non si pensi convergono e
si manifestano come momenti di discontinuità che a noi appaiono come singolarità ma che
rappresentano invece il punto di confluenza di un cambiamento multiforme. È un’ipotesi valida anche
per la pandemia da coronavirus che stiamo vivendo in questi giorni: il primo caso nella storia umana
di un’epidemia che si sviluppa e colpisce a distanza di poche settimane l’una dall’altra tutte le nazioni
e le popolazioni del mondo. Un evento che non sarebbe stato possibile, perlomeno non con la velocità

220
(altro totem della modernità) e l’inesorabilità che osserviamo adesso, fino a pochi decenni fa in un
mondo non ancora globalizzato e antropizzato in modo ubiquitario.

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Giorgio Cuscito - Tanta solidarietà e qualche insidia: perché la Cina aiuta l’Italia contro il
coronavirus
BOLLETTINO IMPERIALE Pechino offre sostegno a Roma per rinvigorire i loro rapporti a un anno dalla sua adesione
alle nuove vie della seta. Oltre le mascherine: il piano di Huawei per il digitale della sanità nostrana è un’incognita
securitaria.
[17 Marzo 2020 – Limesonline]

L’invio all’Italia da parte della Cina di forniture e personale medico e le proposte di collaborazione
tecnologico-sanitaria non sono solo il prodotto della solidarietà di fronte alla pandemia di
coronavirus. Nei piani della Repubblica Popolare contano due obiettivi.
Il primo è scrollarsi di dosso l’immagine di epicentro della pandemia che sta colpendo il pianeta e
rinvigorire il suo soft power. Sia paventando l’ipotesi di non essere la culla del virus, sia offrendo il
proprio aiuto ai paesi stranieri. Tra questi, oltre all’Italia, figurano anche Belgio, Spagna, Etiopia,
Namibia e Filippine. La realizzazione delle “nuove vie della seta della salute” proposta da Pechino
formalizzerebbe l’impulso cinese a guidare il progresso sanitario nella cornice della Belt and Road
Initiative (Bri, o nuove vie della seta). La Repubblica Popolare ha annunciato da poco di aver
raggiunto il picco di contagi e sta gradualmente rimettendo in moto l’economia, che sta subendo
pesantemente l’impatto della pandemia. L’emergere di nuovi casi nello Hubei (focolaio del
coronavirus) lascia intendere che il problema non è ancora risolto. Tuttavia, Pechino ha bisogno della
fiducia straniera per rilanciare le esportazioni e gli investimenti, essenziali per la crescita cinese.
Il secondo obiettivo della Cina è rianimare i rapporti con Roma a un anno dalla sua adesione alla Bri.
Per la Cina, l’appoggio di Roma alle nuove vie della seta ha in primo luogo una valenza politica.
L’Italia non è semplicemente l’unico paese del G7 ad aver aderito al progetto geopolitico cinese. È
innanzitutto parte della sfera d’influenza degli Usa. La penisola ospita infatti diverse basi militari
americane e Nato. Allo stesso tempo, le aziende cinesi Huawei e Zte sono impegnate nello sviluppo
della rete 5G sul suolo italiano, seppur monitorate dal governo dopo l’attivazione del golden power
nel campo delle telecomunicazioni. Il coinvolgimento dei due colossi cinesi nella tattica degli aiuti
indica gli interessi di lungo periodo di Pechino nella penisola.
A oggi, le nuove vie della seta non hanno determinato i risultati auspicati dall’Italia. Trieste e Genova
non sono ancora snodi della sua rotta marittima. Le esportazioni del nostro paese nella Repubblica

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Popolare sono aumentate solo dell’1% e quest’anno potrebbero registrare un forte calo a causa della
pandemia. Inoltre, gli Usa si sono rivalsi contro l’Italia in maniera più o meno diretta. Prima hanno
colpito con i dazi alcuni beni alimentari nostrani. Poi hanno indotto Roma a rinunciare allo sviluppo
di moduli pressurizzati per la stazione spaziale cinese e a firmare un altro accordo con la Nasa.
Pechino vuole dare nuova linfa al rapporto con Roma approfittando della crisi in corso.
A inizio marzo l’Italia, secondo paese al mondo per numero di contagi, ha chiesto l’attivazione del
Meccanismo della protezione civile dell’Ue per ottenere forniture mediche. La tardiva reazione
comunitaria e la difficoltà nostrana nel reperire un adeguato numero di mascherine dall’estero hanno
consentito alla Cina di intervenire facilmente.
Come ipotizzato dal Bollettino Imperiale, la Repubblica Popolare sta rapidamente utilizzando
l’esperienza determinata dal coronavirus per alimentare la propria crescita nel campo sanitario e
tecnologico e trarne benefici anche all’estero. Connettendo la via della seta digitale e quella della
salute. Il supporto di Huawei, Zte, Alibaba e Xiaomi all’Italia evidenzia le implicazioni tecnologiche
delle relazioni tra Roma e Pechino, da tempo criticate dagli Usa. Le ambizioni di Huawei vanno oltre
la donazione di forniture mediche. L’azienda si è offerta di sviluppare una rete cloud per connettere
alcune strutture ospedaliere con le unità di crisi in tempo reale e di collegare i più importanti centri
italiani con gli ospedali di Wuhan.
Il miglioramento della connessione digitale tra le strutture sanitarie italiane contribuirebbe alla loro
efficienza. Tuttavia, il suo affidamento a Huawei genererebbe delle serie incognite per la tutela delle
infrastrutture critiche in questione e per la gestione dei dati che esse conservano sullo stato di salute
della popolazione. Zte ha regalato duemila mascherine al Comune dell’Aquila. Il destinatario non è
casuale. Presso il Tecnopolo d’ Abruzzo, l’azienda cinese ha avviato un Centro d’innovazione e
ricerca per la sperimentazione del 5G insieme all’Università dell’Aquila. Jack Ma, fondatore di
Alibaba, ha donato all’Europa 100 mila tamponi e 1,8 milioni di mascherine, delle quali 500 mila
sono state assegnate all’Italia. Le forniture dirette verso la penisola hanno fatto scalo nell’hub di
Alibaba dell’aeroporto di Liegi (Belgio). Si tratta di un’area di 220 mila metri quadri gestita
dall’azienda cinese Cainiao per smerciare i prodotti venduti dal gigante dell’e-commerce in Europa.
Le donazioni e il personale medico inviati dalla Croce Rossa cinese hanno avuto l’impatto mediatico
più forte. Merito anche della rilevanza attribuitagli dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio,
consolidato sostenitore della sintonia con Pechino. Si tratta della terza squadra inviata dalla Cina dopo
quelle giunte in Iran e Iraq. Con sé ha portato 30 tonnellate di materiale tra ventilatori, respiratori,
elettrocardiografi, mascherine e altri dispositivi sanitari. Formalmente, Pechino ha voluto rispondere
alle 18 tonnellate di materiale sanitario inviato dall’Italia a Wuhan lo scorso febbraio.

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Il presidente cinese Xi Jinping ha detto al presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte che
arriveranno altri medici e prodotti sanitari. Segno che la cooperazione tra Pechino e Roma si
intensificherà. La consegna di mille respiratori – frutto dello stanziamento di Intesa Sanpaolo, Class
Editori, Xinhua e Bank of China – indica invece il rafforzarsi dell’interazione sino-italiana nel settore
dell’informazione. Di questa vi era traccia anche nei memorandum siglati durante la visita di Xi
Jinping in Italia del marzo 2019.
Le donazioni da parte di enti legati alla Repubblica Popolare (vedi la provincia dello Zhejiang,
un’azienda lattiero-casearia dello Hunan e l’Unione degli imprenditori Italia-Cina) e da imprese
cinesi (vedi il gruppo Fosun) alla Lombardia, al Piemonte, alla Calabria e alla Sardegna ambiscono
invece a sviluppare un clima favorevole alla ripresa delle attività imprenditoriali una volta superata
la crisi sanitaria.
La narrazione della condivisa lotta contro il coronavirus potrebbe diventare la base su cui promuovere
la sintonia sino-italiana quest’autunno, in occasione del cinquantesimo anniversario dell’apertura dei
rapporti diplomatici tra Italia e Repubblica Popolare. È probabile che la Cina offra il suo aiuto a molti
altri paesi. A cominciare da quelli africani, dove i contagi accertati stanno aumentando. Nel
continente, Pechino deve tutelare i suoi cittadini e le sue attività economiche e militari. Inclusa la
base di Gibuti. L’invio di mascherine e tamponi da parte di Jack Ma negli Usa lascia intendere che la
Repubblica Popolare potrebbe attuare in maniera sistematica la tattica degli aiuti anche con
Washington. Alla luce delle crescenti tensioni statunitensi, difficilmente il presidente Usa Donald
Trump accetterà il sostegno cinese.
A maggior ragione, Pechino potrebbe tendere la mano alla Casa Bianca. Così da metterla davanti a
un bivio: accogliere la proposta – e quindi l’efficacia della via della seta della salute – oppure rifiutarla
e alimentare un dibattito interno agli Stati Uniti sull’importanza della salute dei cittadini.

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Sergio Benvenuto - Chi è socievole oggi non sta in società


[18 Marzo 2020 – Leparoleelecose.it]

La reazione immediata dei sovranisti – eufemismo nobilitante per significare neo-fascisti – alla
pandemia di coronavirus è stato il riflesso tipico degli xenofobi: chiudere le frontiere, identificando
il covid-19 con lo Straniero. È quel che ha fatto Trump bloccando prima di tutto le comunicazioni
con l’Europa, senza far nulla all’interno. Il pericolo viene sempre da fuori, mai da dentro. Si dice che
questa pandemia avrebbe tolto il terreno alla propaganda dei neo-fascisti (nei quali includo Trump,

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Johnson, Salvini, Erdogan…). In effetti, quando chiunque può essere infetto, il pericolo non viene da
fuori – dall’Africa, dalla Cina, dai mussulmani, ecc. – e nemmeno da un altro all’interno nominabile,
circoscrivibile, isolabile, come lo sono stati per secoli gli ebrei in Europa. Il pericolo viene da
chiunque, anche dal bambino, dal nonno, dall’amante. Come ha detto il giornalista Massimo Giannini,
“Noi non siamo in pericolo. Noi siamo il pericolo.” Le opposizioni significanti basilari del nostro
schmittiano essere animali politici – noi/loro, me/l’altro – saltano, tutti siamo egualmente pericolosi
o egualmente salvatori, il rom non è più pericoloso di mia figlia, le categorizzazioni razziste perdono
d’un colpo tutto il loro fascino mobilitante.
In questo quadro, non mi preoccupa che i vari paesi europei abbiano sospeso Schengen. Sarebbe stato
inquietante se fosse stato una chiusura di ogni paese rispetto all’altro, in realtà non è che una delle
chiusure a tutti i livelli: ciascun cittadino si chiude all’altro.
Scrive Giorgio Agamben, filosofo molto illustre:
Ancora più tristi delle limitazioni delle libertà implicite nelle disposizioni è, a mio avviso, la degenerazione
dei rapporti fra gli uomini che esse possono produrre. L’altro uomo, chiunque egli sia, anche una persona
cara, non dev’essere né avvicinato né toccato e occorre anzi mettere fra noi e lui una distanza che secondo
alcuni è di un metro, ma secondo gli ultimi suggerimenti dei cosiddetti esperti dovrebbe essere di 4,5 metri
(interessanti quei cinquanta centimetri!). Il nostro prossimo è stato abolito.
È difficile immaginare una reazione altrettanto superficiale. L’epidemia in effetti rovescia i cliché,
secondo cui se amo il mio prossimo lo devo abbracciare, baciare, stringermi a lui o a lei come
sardine… Oggi mostro affetto per l’altro proprio tenendolo a distanza. È questo il paradosso che fa
saltare tutti i pigri schemini ideologici (ideologico non in senso marxista), di sinistra e di destra, per
non dire di quelli populisti.
La propaganda edificante di politici e media fa appello al nostro egoismo oltre che al nostro altruismo:
“se eviti gli altri, proteggi gli altri ma anche te stesso.” Ora, questo spesso non è affatto vero. Si sa
che i giovani possono essere infetti come tutti, ma è raro che si ammalino; tutti sappiamo che questa
pandemia è un senilicidio, che le persone veramente a rischio sono quelle dai 65 in su.
Un mio giovane amico mi tiene a distanza di almeno tre metri, e mi sorride. Apprezzo molto quel suo
non-gesto, perché so che, soprattutto, lui sta proteggendo me, che sono vecchio. È vero, sta
proteggendo anche gli anziani di casa sua, suo padre, sua madre… Comunque gli sono grato. Più
l’altro conserva una distanza da me, più lo sento vicino. Perciò Agamben non ha capito nulla di quel
che sta succedendo nella molecolarità delle relazioni umane.
Al contrario, i giorni scorsi ho incontrato varie persone che non rispettavano la distanza di sicurezza
dagli altri, senza guanti né mascherina, si dicevano scettici sulla gravità del morbo… Ho potuto
constatare dai loro discorsi che erano persone sostanzialmente ciniche, nel fondo asociali. Chi è
socievole oggi non sta in società.

224
Un clown grottesco come Boris Johnson ha detto ai britannici “Preparatevi a perdere molti dei vostri
cari prematuramente”. Ma perché non rivolgersi anche ai morituri, e dire “preparatevi a perdere la
vita”? Come se la morte fosse sempre e solo la morte dell’altro. Forse voleva dire “preparatevi a
perdere i vostri anziani….” Per BoJo, chi morrà, chi ha tutte le carte in regole per morire, perde anche
la qualità di interlocutore, non è nemmeno più un “tu”. L’Italia ha deciso diversamente: di andare in
quarantena, di paralizzarsi economicamente, per proteggere i propri seniores. Tra i quali c’è anche
Agamben, nato nel 1942. Sento qualcosa di eroico in questa strenua difesa di chi non ha molto da
vivere.

L’eccezione come cura


1.
Ho in cura delle persone che hanno attraversato lunghi periodi di auto-quarantena: per mesi, per anni,
non uscivano mai di casa. Se erano soli, uscivano solo per fare la spesa alimentare, per andare alla
posta. Se avevano un lavoro, lo avevano lasciato; se erano studenti, avevano interrotto gli studi.
(Alcuni hanno chiesto e ottenuto il reddito di cittadinanza, il che – a mio avviso – asseconda la loro
sindrome.) È una sindrome che non ha nome – la si chiama agorafobia, ma in realtà queste persone
di solito non hanno paura degli spazi aperti, bensì delle altre persone, della folla che circonda, urta,
spinge. Li chiamerei claustrofilici, rubando il termine al mio maestro in psicoanalisi, Elvio Fachinelli,
autore di un libro, Claustrofilia appunto (di Adelphi). Una donna oggi matura, anni fa aveva paura di
prendere l’AIDS andando negli autobus, sostenendosi alle maniglie pendenti. Altri restano in casa
per ipocondria: pensano di essere assediati dalla morte, spiano ogni sensazione o sintomo fisiologico
come indice di una patologia funesta. Uno di essi, per mesi chiuso da solo in casa, raccoglieva le
proprie urine e le metteva in boccette trasparenti, allineava queste boccette su un lungo scaffale, e le
contemplava per ore: studiando i cambiamenti di colore, cercava di intuire di quali possibili malattie
queste colorazioni fossero il segnale. Altri sono etichettati come ossessivi-compulsivi gravi. Hanno
paura degli altri – e degli oggetti in quanto li si condivide con gli altri – come fonte continua di
infezione. Escono indossando guanti, scongiurano di non essere toccati. Non possono mai andare in
wc di case estranee, tanto meno in wc di esercizi pubblici. In certi casi, restano sempre in piedi, anche
al lavoro, per non essere toccati da una sedia… L’impurità assedia la stessa casa: avvolgono nel
cellophane tutto ciò che la mano deve afferrare: maniglie delle porte e dei tiretti, valvole dei rubinetti.
Anche loro tendono a restare chiusi in casa, ma per evitare il contagio.

Oggi lo stato d’eccezione per il covid-19 ci chiede di pensare come questi soggetti considerati
gravemente patologici. Ero particolarmente curioso di vedere come questi “morbosi” avrebbero

225
reagito a norme che vanno nello stesso senso della loro claustrofilia. Ebbene, vi reagiscono
benissimo!
Quella che da ragazza era convinta di prendere l’AIDS in autobus ora consola la madre anziana che
è angosciata, ma che non ha mai avuto di quelle fobie. L’uomo che aveva paura di incrociare la gente
del quartiere ora esce per fare le compere e chiacchiera con gli altri senza nemmeno usare guanti né
mascherina. Una donna che aveva paura di prendere infezioni dappertutto non teme affatto il
coronavirus, ma anzi rassicura le amiche spaventate. E potrei portare altri esempi.
Quando la catastrofe cessa di essere soggettiva e diventa oggettiva, è come se questi soggetti fossero
più attrezzati dei “normali” a farvi fronte. È come se la collettivizzazione delle angosce le facesse
traslocare dal fantasma alla realtà. Sembra che queste persone debbano vivere sempre in uno stato di
eccezione. Loro sono zona rossa. Così, quando questo stato irrompe nel reale, quando è imposto
dall’esterno, va bene. Non hanno più bisogno di mettere in atto il fantasma. Il trauma reale lenisce la
ferita immaginaria. È come se angoscia dovesse esserci da qualche parte: se c’è fuori di loro, non c’è
più bisogno che sia in loro.

2.
Questa ritrovata saggezza di chi eccede in angoscia mi ricorda un’altra catastrofe che vissi: quella del
terremoto in Campania del 23 novembre 1980. Io allora ero a Napoli, nella casa di mia madre. Stando
all’ultimo piano, potei vivere fino in fondo l’impensabile, inattesa iperbole del terremoto.
Al piano di sotto abitava Antonietta, nota in tutto il quartiere Vomero come Tonina La Pazza. Figlia
unica di un mite professore di matematica dei licei, dotato di due occhiali spessi e di una cera
perennemente malinconica. Da bambino avevo paura di quella ragazza bella ma enigmatica, con i
suoi occhi mobili come le fiamme sembrava sempre guardare oltre di te dietro le tue spalle, verso un
altrove che solo lei percepiva. Si fermava a lungo davanti alle porte dei negozi biascicando frasi
incomprensibili ed eseguendo gesti sibillini, come strega posseduta da un demone invisibile. Si diceva
che talvolta lasciasse sul pavimento dell’ascensore condominiale pozzanghere di urina. Più giovane,
copulava senza esitazione, ovunque, con qualsiasi uomo che, approfittando della sua follia, le si
proponesse. Da piccolo, tremai quando un giorno la ninfa venne a casa nostra e si esibì in una sonata
al pianoforte, che eseguì perfettamente. Sapevo che non era pericolosa, ma la follia spaventa perché
getta uno squarcio di eccesso e di infinito nel mondo addomesticato e finito del quotidiano. Le madri
del quartiere dicevano di tanto in tanto alle loro figlie ancora piccole: “Non fare così, altrimenti finirai
come Tonina!”
Morto il padre triste, Tonina era rimasta sola in quell’appartamento al piano di sotto, ed era diventata
l’incubo dei vicini. Il suo problema era oltrepassare una qualsiasi soglia, innanzitutto quella della

226
propria casa: ossessiva iperbolica, una forza misteriosa la respingeva a ogni uscio, da qui un numero
indefinito di gesti a ghirigoro, formule borbottanti, va e vieni come in una danza a scatti. Spesso la
paralisi era tale che citofonava a qualche vicino con voce piagnucolosa e implorante per farsi aiutare:
il malcapitato doveva raggiungerla, prenderla per un braccio, e con fermezza spingerla a varcare la
barriera immaginaria, in un tira-e-molla che poteva durare a lungo. Era una malata spettacolare,
intrusiva, esibizionista, sontuosamente estroversa.
La sera del terremoto la incontrai in strada: sembrava un’altra. Era scappata di casa come tutti noi,
gli inceppi ossessivi si erano dissolti come d’incanto. Deambulava senza intoppi, parlava
normalmente, sembrava ringiovanita. Lei chiese con molta calma ad alcuni vicini terrorizzati: “E se
ci sono stati danni alle nostre case, chi pagherà le riparazioni?” Una preoccupazione del tutto sensata,
ma in quei frangenti quella inquietudine economica venne interpretata come segno della sua abituale
follia, le si disse: “Ma come, in un momento come questo, ti preoccupi dei soldi?” Pochi giorni dopo,
passata la grande paura, proprio questo divenne l’assillo di tanti: chi riparerà i danni? E quando?
Tonina anticipava di ore quel che si sarebbe imposto come il tema dell’anno nelle zone terremotate.
Insomma, mentre i miei vicini normali non ragionavano più, Tonina invece era la più assennata. A
differenza di tanti altri, se ne salì tranquillamente a casa e se ne stette buona. Il terremoto aveva
guarito – per qualche giorno – la sua schizofrenia. Si diceva che fosse diventata matta per un trauma,
ma ora un trauma l’aveva guarita.
Dopo Tonina tornò a essere l’handicappata solita. La metamorfosi mi ha fatto però riflettere sulla
natura della psicosi. E se gli psicotici – e non solo loro, tutti i grandi fobici – fossero esseri che
possono dare il meglio di sé solo in situazioni eccezionali, catastrofiche, straordinarie? Non è forse
la routine, la calma ciclicità delle giornate indolenti, a farli impazzire? Come Napoleone non poteva
vivere senza intraprendere qualche guerra. Analogamente Tonina, che aveva vissuto l’infanzia con i
bombardamenti forsennati della guerra, si era strutturata per vivere solo in un mondo d’angoscia, i
suoi tic segnalavano la sua incapacità di vivere nel mondo protetto e ovattato da un padre amorevole
che viveva per lei. Molte pazzie sono dovute a un’estenuante carenza di traumi? Le catastrofi sono
medicina per alcuni?

227
Giacomo Manzoli - Il più grande esperimento nella storia: tra realtà e immaginario
Una quarantena indistinta. L’Italia è il primo paese al mondo si chiude in casa non un singolo territorio ma la nazione
intera. Nel giro di pochi giorni, la vita di sessanta milioni di persone è stata completamente sconvolta. L’esito è
imprevedibile: ma lo studio è interessante anche perché riguarda un popolo non abituato ad assoggettarsi all’autorità
[18 Marzo 2020 – cantierebologna.it]

La prima avvertenza è che questo articolo non prende posizione su una situazione che ha comportato
decisioni politiche estremamente dure e gravose, dettate dalle relazioni tecniche dei medici
(epidemiologi in particolare), sull’onda di una enorme pressione sociale e mediatica. Se queste
decisioni siano state giuste o sbagliate, lo dirà il tempo. Allo stato attuale dei fatti, questi
provvedimenti sono sembrati ai decisori, e alla maggior parte dei loro cittadini, ragionevoli, nel senso
letterale di provvedimenti ispirati da valide ragioni. Ciò di cui qui ci occupiamo è un aspetto specifico
di una vicenda che può essere fatta iniziare pochi giorni fa, ad esempio l’11 marzo 2020, quando è
stato emanato l’ultimo Dpcm del governo italiano, che stabilisce misure estremamente restrittive con
cui si obbliga l’intera cittadinanza a uscire esclusivamente per motivi “essenziali”, un termine sul
quale le interpretazioni possono essere – e in effetti sono – piuttosto variegate.
Tuttavia, la storia della specie umana segue un filo che – secondo l’antropologo Jared Diamond –
rappresenta un susseguirsi ininterrotto di cause prossime e cause remote. Pertanto, per capire ciò che
è avvenuto l’11 marzo 2020 si può risalire ad avvenimenti accaduti in un arco temporale che i
paleontologi fissano entro una forbice piuttosto ampia, tra i 300 mila e i 130 mila anni fa. E’ in quel
periodo, infatti, che fa la sua comparsa sul pianeta terra un tipo di animale, l’homo sapiens, che si
differenzia dalle altre forme di vita per due caratteristiche strettamente correlate fra di loro. La prima
è che si tratta di una delle creature meno specializzate in relazione all’ambiente. Non possiede infatti
caratteristiche specifiche (forza, dimensione, artigli…) che gli consentono di prevalere singolarmente
in nessun ambiente specifico. Questa sua debolezza, però, fa sì che questa specie abbia sviluppato
una straordinaria fluidità nell’adattarsi a diverse situazioni, laddove creature assai più specializzate,
appena cambiano scenario, hanno scarsissime probabilità di sopravvivere. Così, la necessità di
adattamento dell’homo sapiens è diventata progressivamente una predisposizione, perché ha reso via
via premiante lo sviluppo di uno specifico organo, il cervello, che è assai più grande (in proporzione),
più articolato e complesso di quanto non avvenga nelle altre specie, anche le più simili.
Ragionamenti articolati, capacità di astrazione, affinamento di sistemi di trasmissione e stoccaggio
delle informazioni, tutte cose che consentono forme di socialità straordinariamente complesse e una
evoluzione che negli ultimi 10.000 anni è stata insignificante sotto il profilo biologico (la selezione
naturale ragiona in termini di milioni di anni) ma clamorosa sotto il profilo culturale, ovvero sociale.
Perché non dobbiamo dimenticare che l’homo sapiens, per quanto in cima alla catena alimentare e

228
per quanto si rappresenti come fatto “a immagine e somiglianza di Dio”, resta pur sempre una creatura
che fa parte del regno animale. Dunque, il suo vantaggio intellettuale gli ha consentito uno sviluppo
di crescita più o meno costante all’incirca fino al 1800 del calendario mariano, quando sul pianeta si
contavano circa un miliardo di persone. I fattori di regolazione della sua crescita erano
sostanzialmente due: l’aggressività, che lo portava ad assumere atteggiamenti distruttivi nei confronti
delle organizzazioni di simili considerate rivali per l’accaparramento di risorse scarse, e la
competizione con altre specie che fanno parte del regno animale o sono ai limiti di esso. Non tanto le
grandi creature, quelle singolarmente più specializzate di cui si è detto (orsi, coccodrilli, ippopotami,
tigri…), rispetto alle quali la maggiore capacità di organizzazione risultava quasi sempre vincente,
bensì quelle microscopiche, gli organismi monocellulari come i batteri o addirittura quelle acellulari
come i virus, la cui capacità di riproduzione poteva dar vita a contagi capaci di sterminare percentuali
rilevanti della popolazione (vaiolo, peste, polio, influenza spagnola…).
Dunque, ancora fino all’Ottocento, le guerre, le conseguenti carestie e soprattutto le epidemie
determinavano una mortalità infantile e altri meccanismi automatici capaci di mantenere costante,
ovvero equilibrato, il ritmo di crescita degli homines sapientes, ovvero degli esseri umani
genericamente intesi.
Questo equilibrio – per così dire “naturale” – si è definitivamente infranto nel corso dell’ultimo
secolo, allorché le guerre hanno assunto una dimensione progressivamente più contenuta e lo sviluppo
della microbiologia e della farmacologia su scala industriale ha consentito di rendere pressoché
inoffensive, in buona parte del pianeta, le minacce provenienti dal microcosmo, grazie a vaccini,
antibiotici e farmaci retrovirali di vario tipo.
Ecco allora che il pianeta si è progressivamente conformato a misura di homo sapiens, la cui società
si è avviata a diventare una sola, strettamente interconnessa (lo sviluppo delle comunicazioni e dei
trasporti, la caduta delle frontiere, la cosiddetta globalizzazione…), affluente, cioè sicura e con risorse
abbondanti per la maggior parte degli abitanti della terra. Questo ha portato a un aumento
esponenziale del numero degli individui, passati dal miliardo che più o meno esistevano nel 1800 ai
quasi otto miliardi di oggi. A questo tasso di crescita, è logico prevedere che la popolazione umana
arrivi a decuplicarsi nell’arco di quello che per la biologia è un battito di ciglia, vale a dire tre secoli.
Questo fenomeno clamoroso, oltre a comportare una serie di esternalità positive (a nessuno può
dispiacere il crollo della mortalità infantile) ha determinato anche numerose conseguenze negative,
prima fra tutte quella ambientale, percepita come un’emergenza epocale, capace di mettere a
repentaglio la sopravvivenza stessa della specie. E, ovviamente, si è modificata profondamente la
sensibilità degli esseri umani, almeno di quella larghissima parte di essi che partecipa di questo
progressivo innalzamento degli standard di vita.

229
Questa rottura di tutti gli equilibri che avevano regolato il rapporto fra gli uomini e il loro stesso
ecosistema (la Natura) oggi viene chiamata, con fascinazione e paura, “antropocene” ma era già stata
notata agli albori della rivoluzione industriale, dando vita a una serie di speculazioni, più o meno
scientificamente attendibili, che vanno dalle teorie di Malthus nel Settecento al celebre Rapporto sui
limiti dello sviluppo degli anni Settanta del Novecento, fino a Greta Thunberg (fra gli “apocalittici”)
o Hans Rossling (fra gli “integrati”, per i quali, nonostante tutto, il mondo sta diventando un posto
migliore).
Anche l’uomo della strada, quello che recepisce con relativa cognizione di causa queste informazioni,
si accorge che l’aria che respira è sempre più inquinata, che le città dove abita sono sempre più grandi,
che i centri abitati si susseguono con sempre minore soluzione di continuità, che il traffico e
l’affollamento stanno determinando cambiamenti di stili di vita sostanziali (dalla raccolta
differenziata al fatto che sempre meno abitanti dei centri storici possiedono un’automobile) e capisce
che il mondo cambia a una velocità che rende il futuro una gigantesca incognita.
Artisti, scrittori, cineasti, pittori e così via, il cui talento consiste principalmente nel dare una forma
alle configurazioni dell’immaginario collettivo, hanno da tempo iniziato a confrontarsi con questo
tipo di inquietudini. Già alla fine dell’800, in un’epoca segnata dal positivismo ma anche dal primo
grande processo di urbanizzazione, H.G. Wells immaginava, ne La guerra dei mondi, un’invasione
di alieni che falcidiavano buona parte dell’umanità prima di soccombere agli invisibili batteri terrestri
rispetto ai quali non avevano alcun anticorpo. Del resto, Wells scriveva nel 1897, nello stesso periodo
in cui Pasteur svolgeva i celebri esperimenti che avrebbero condotto alla scoperta dei vaccini e appena
sette anni dopo che Dmitri Ivanovsky aveva per primo isolato un organismo non batterico in grado di
infettare le cellule. Chi potessero essere questi alieni è stato oggetto di molteplici interpretazioni,
specialmente a seguito delle infinite versioni cinematografiche che hanno declinato la storia nelle
maniere più fantasiose. Secondo Susan Sontag, ad esempio, gli alieni della fantascienza americana
degli anni Cinquanta, più che alla minaccia comunista alimentata dal maccartismo, erano la
personificazione del disagio creato dalle generazioni nate e cresciute in un nuovo mondo postbellico,
nel quale tutti i valori tradizionali sarebbero stati messi in discussione. E non è forse un caso che,
recentemente, ben due serie televisive abbiano riproposto il romanzo di Wells: una miniserie inglese,
trasmessa dalla Bbc e ambientata a fine Ottocento, e una americana, prodotta dalla Fox e ambientata
ai giorni nostri. Questo rinnovato interesse per un mondo spopolato e preda di una paranoia diffusa
per una minaccia per lo più invisibile non fa che riprendere in forme tradizionali quello che è stato il
grande mito degli ultimi decenni. Ovvero, l’idea di un pianeta in cui la normalità dell’esistenza
ipertecnologica subisce un arresto e un repentino regresso per via spesso degli zombie (creature che
sono vittime di un virus e diventano il prototipo del corpo infetto e minaccioso) ma anche di una

230
misteriosa scomparsa dell’energia elettrica (come nel recente Revolution) o di ragioni semplicemente
insondabili (come in Leftovers, dove all’improvviso sparisce il 2% dell’umanità). D’altra parte, due
dei successi globali di maggiore impatto delle ultime stagioni cinematografiche sono stati altrettanti
blockbusters derivanti dall’universo fumettistico Marvel. Il primo è Black Panther, che nel mondo ha
incassato circa 1,4 miliardi di dollari al solo box office e racconta di un regno africano che cela il
proprio benessere a tutti i paesi limitrofi, dove invece si muore di fame e di malattie che nel mondo
“civilizzato” sono debellate da decenni. Il secondo è in realtà un dittico, composto da Avengers:
Infinity War e Avengers: Endgame. Complessivamente, questi due film si sono avvicinati ai cinque
miliardi di dollari al solo box office, a dimostrazione di una spaventosa capacità di attrazione per gli
spettatori di tutto il mondo. Anche in questo caso, si racconta di una minaccia dal potere quasi
metafisico (un supercattivo galattico chiamato semplicemente Thanos…), che con uno schioccare di
dita fa scomparire all’improvviso metà della popolazione del pianeta Terra perché è convinto che sia
l’unico modo per salvarne il futuro, ripristinando l’ordine naturale delle cose.
Non ci vuole un raffinato conoscitore della psicologia delle masse per capire che questi racconti
popolari, tanto più significativi perché risultato di una elaborazione collettiva e non filtrati dalle
ossessioni private di personalità autoriali, danno vita a qualcosa che può essere collocato alla
confluenza fra la proiezione di un desiderio inconfessabile (Umberto Eco parlava di “segreto amore
per le catastrofi”) e il sentimento di una incombente minaccia di proporzioni inaudite.
Ed è questa la prospettiva in cui si inserisce la percezione e la ricezione diffusa del fenomeno Covid-
19 che sta modificando le abitudini quotidiane e le modalità relazionali di larga parte degli esseri
umani. O, per meglio dire, di quella parte di essi che è abituata a standard di vita (a cominciare
dall’aspettativa di vita) e sanitari particolarmente alti.
Ebbene, la risposta che è stata data dai governi delle principali potenze economiche mondiali, a un
certo punto della diffusione del contagio, è consistita nella sospensione di tutte le attività non
essenziali e nella quarantena indistinta. In particolare, l’Italia è stato il primo paese al mondo nel
quale il provvedimento ha riguardato non una singola città o territorio, ma la nazione nella sua
interezza. Nel giro di pochi giorni, la vita di sessanta milioni di persone è stata completamente
sconvolta. Sono state chiuse le scuole, le università, i parchi, i cinema, i teatri, ogni forma di
aggregazione, i centri e ogni tipo di attività sportiva, la quasi totalità degli uffici pubblici e delle
aziende private, chiuse le frontiere, ridotti al minimo i trasporti. Alle persone è stato intimato di
chiudersi in casa e di non uscire se non in caso di necessità primarie. In pratica, l’intera popolazione
è tecnicamente segregata e il paese nella sua interezza è guidato dalla logica della medicalizzazione
di massa che è garantita da quello che (sempre tecnicamente: non è un giudizio o una critica, ma la
descrizione di un fatto) non può essere definito se non uno stato di polizia, nel quale serve un

231
lasciapassare per circolare e nel quale le strade sono deserte e perfino l’accesso ai beni di prima
necessità, se non razionato, è comunque soggetto a procedure estremamente rigorose. Per non parlare
dell’ossessiva concentrazione dei media sul tema e del sempre più frequente richiamo all’identità e
all’unità nazionale. E tutto questo per un arco temporale comunque ampio (di almeno tre settimane)
che potrebbe prolungarsi per una quantità di tempo imprecisata.
Ora, da un lato questi provvedimenti sono inevitabili, se praticamente tutti i paesi ne stanno adottando
di analoghi: vale a dire che i cittadini si aspettano che vengano presi questi provvedimenti e sono –
almeno in linea teorica – disposti a pagarne il prezzo. Dall’altro lato, le conseguenze sono
difficilmente calcolabili, sia in termini di impatto produttivo (si dice che saranno garantiti i servizi
essenziali, a partire dalle forniture alimentari, ma nessuno sa con certezza se si sarà in grado di
rispettare questa garanzia), sia in termini di impatto economico (si parla di misure in aiuto di tutta
una serie di categorie di persone, ma nessuno sa se gli interventi saranno sufficienti a coprire le
esigenze né per quanto tempo dovranno essere reiterati), sia per quanto riguarda l’impatto
complessivo sulla salute pubblica.
Da questo punto di vista, a incuriosire non è tanto la prevedibile ricaduta che le centinaia di migliaia
di interventi rimandati, visite e analisi sospese, cambiamento delle abitudini alimentari e di
movimento comporterà, quanto le conseguenze psicologiche di questa quarantena estesa a una intera
popolazione di decine di milioni di persone. C’è un intero filone di studi che riguarda le conseguenze
delle catastrofi (dai “disaster studies” alla “trauma theory”) ed è noto quali e quante forme di stress
post traumatico abbiano dovuto affrontare coloro che sono stati sottoposti a forme di restrizione, dai
detenuti nelle carceri o nei manicomi, ai militari che hanno dovuto affrontare la guerra di trincea
durante la Prima Guerra Mondiale, fino ai ragazzini costretti a vivere diverse settimane in una grotta
thailandese. Esperienze ben più tragiche ed estreme di quelle che siamo obbligati a vivere noi italiani
in questo periodo, sottoposti a una blanda forma di arresti domiciliari, assistiti dalla televisione, dai
nostri cari, dal computer, dallo smartphone, da tutte quelle tecnologie che in buona parte ci
consentono di svolgere anche in remoto le nostre attività lavorative e di portare avanti una discreta
socialità, sia pure mediata.
Tuttavia, è innegabile che ci troviamo di fronte a un vero e proprio esperimento di psicologia sociale
che coinvolge l’intera popolazione ma che potrebbe avere esiti completamente diversi a seconda delle
condizioni e della predisposizione dei soggetti coinvolti. Perché ci sono gli abitanti dei grandi centri,
completamente attraversati dalle fibre ottiche, e quelli delle aree periferiche dove le connessioni sono
instabili e precarie. Quelli che vivono interconnessi e che possono godere di una biblioteca digitale e
di una videoteca pressoché illimitate, ma anche quelli che non godono di un simile privilegio. Quelli
che vivono in nuclei familiari compositi, per i quali il problema, nel tempo, potrebbe essere la

232
convivenza in spazi ristretti, nei quali può esplodere la frustrazione di dover negoziare ogni istanza
individuale. E quelli che invece vivono da soli, per i quali la solitudine potrebbe rivelarsi una fonte
micidiale di depressione. Ci sono le persone che hanno relazioni stabili e positive, per le quali la
convivenza potrebbe perfino costituire un vantaggio, rinsaldando rapporti soggetti all’usura dei troppi
impegni e di una vita frenetica e competitiva, ma anche relazioni usurate o fortemente sbilanciate, per
le quali la convivenza coatta potrebbe trasformarsi in un incubo e in un ampliarsi della reciproca
estraneità e dell’aggressività. Ancora, ci sono soggetti psicologicamente solidi, capaci di affrontare
la situazione con metodo e di trovare al loro interno gli strumenti per rendere questa fase un periodo
di crescita o consolidamento. E ci sono soggetti fragili, strutturalmente precari che, abbandonati a se
stessi, alle prese con le paure dettate da una situazione di incertezza, potrebbero vedere amplificate
le loro nevrosi e fobie fino a livelli difficili da controllare.
L’esito di questo involontario esperimento, a cominciare da quanto si sarà in grado di contenere
all’interno di esso la maggior parte delle “cavie”, è imprevedibile. Ma a rendere interessante la cosa,
oltre alle dimensioni e alla natura estremamente variegata degli individui coinvolti, c’è il fatto che –
nell’insieme – si tratta di una popolazione che non è abituata ad assoggettarsi all’autorità (come ad
esempio quella cinese), ma ad avere ampli margini di autonomia, nei quali esercitare una soggettività
forte e articolare la propria socialità secondo traiettorie sofisticate. Gente che esce spesso, che si
incontra, che viaggia, che ha reti importanti di relazioni. Per quanto tempo sarà possibile convincerli
a rispettare le disposizioni e quali conseguenze queste lasceranno sul loro assetto psichico
complessivo? Quanto tempo ci metteranno a tornare alla normalità, con quali cicatrici o con quale
bagaglio, quali abitudini si consolideranno e quali verranno rapidamente abbandonate per riprendere
quelle sospese? Questi saranno temi oggetto dello studio e dell’attenzione delle scienze sociali per i
decenni a venire, e in particolare di quegli studiosi che si occupano di capire come le interazioni si
consolidano e si modificano, producendo effetti positivi o negativi sull’equilibrio del cervello di
questo potentissimo e delicato organismo che è l’homo sapiens. Di certo, a differenza degli alieni di
Wells, sappiamo che lo sviluppo di vaccini, farmaci retrovirali e immunità di gruppo non tarderanno
a manifestarsi e dunque, per quanto grave e dolorosa sia la situazione, per quante potranno essere le
vittime e pesanti le esternalità dei provvedimenti, non sarà il coronavirus a far estinguere questa
specie. Il Covid-19 non è Thanos e le sue vittime non hanno niente a che spartire con gli zombie.

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Wolf Bukowski - La viralità del decoro. Controllo e autocontrollo sociale ai tempi del Covid-
19. Seconda puntata
[18 Marzo 2020]

I parchi, luogo di degrado e di contagio


Lo scorso 13 marzo Beppe Sala, già maître della più grande spaghettata per il capitalismo italiano,
poi sindaco «di sinistra» di Milano, ha annunciato la chiusura dei parchi recintati della città;
«ovviamente», ha aggiunto contrito, non è possibile farlo con quelli non recintati. La recinzione dei
parchi – che andrà estendendosi a passo di marcia nel prossimo futuro – è ben più di un topos del
«decoro»; essa è, in qualche modo, il suo marchio di fabbrica.
Nella New York di fine Ottanta e inizio Novanta, una città che portava ancora i segni della crisi
economica del 1975, convergono infatti due movimenti. Uno è quello schiettamente securitario e
poliziesco che troverà espressione nella «tolleranza zero» di Rudy Giuliani; l’altro, meno noto, è
quello della «quality of life». Si tratta di ciò che da noi è stato chiamato «decoro».
Nella genesi del movimento per la «quality of life» i parchi sono fondamentali. I parchi poco curati,
perché abbandonati dai servizi di giardinaggio pubblici (la municipalità aveva tagliato quasi della
metà i giardinieri!) vengono infatti «adottati» da gruppi di cittadini bianchi e di classe media. Costoro
– anziché usare il loro peso politico per ottenere nuove assunzioni nei servizi pubblici – indossano la
salopette più stilosa, comprano le cesoie più ergonomiche, e giocano a fare i giardinieri volontari,
tronfi d’orgoglio. Come scrive Fred Siegel, apologeta e teorico della «quality of life»:
«These efforts cultivate character as well as flowers. They catalyze neighborhood energies and can
become an emblem of pride for local communities.»
Ma la redenzione (classista) degli spazi pubblici è una strada in salita, e presto i volenterosi giardinieri
del decoro realizzano di non potersi più accontentare di mettere a dimora ciclamini. Di notte, infatti,
gli spettri urbani, non sapendo dove altro andare, tornano ad abitare i parchi:
«mentally ill, homeless, transvestite prostitutes, as well as the usual drunks and drug addicts, [that]
sleep in the park and use its bathrooms for sex.»
Ed ecco quindi la soluzione: ringhiere e cancelli. Si realizza così quella fusione tra risposta al disagio
sociale e architettura ostile che ancora oggi è tipica delle politiche del «decoro». E qui platealmente,
come accennava Wu Ming in introduzione al primo di questi due articoli, «basta sostituire “degrado”
con “contagio” e il gioco è fatto».
Ha detto mio cuggino medico a Milano
Nello stesso videomessaggio Beppe Sala annuncia la sanificazione delle strade di Milano. Anche qui
ciò che accade è qualcosa che era già perfettamente tipico prima del Covid:

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1) politici e media mainstream producono contenuti emotivi e allarmistici (di solito è la destra a fare
da apripista, ma in questa fase la sinistra punta al sorpasso);
2) una fake news – un accorato audio Whatsapp che circola di chat in chat: «stasera ci ha telefonato
uno dei nostri amici medici di Milano» – declina quello stesso messaggio in modo da spargere il
terrore: «utilizzate solo un paio di scarpe per uscire: il virus riesca a rimanere vivo per 9 giorni
sull’asfalto»;
3) il contenuto della fake news – cioè, tecnicamente: della stronzata – rientra dalla finestra nel
dibattito pubblico, e gli stessi politici e media che hanno prodotto il terreno di coltura in cui poteva
svilupparsi ora possono interpretarlo in modo fermo ma rassicurante, dicendo: stiamo facendo tutto
il necessario, niente panico ci siamo noi (tecnicamente: ci sono mamma e papà).
La sanificazione delle strade si diffonde come un delirio (un costoso delirio) per tutta la penisola;
flutti di candeggina spazzano via ogni residuo di ragione dalle strade del paese, e nella tempesta
d’ipoclorito di sodio è quasi impossibile udire la voce della «scienza», ovvero proprio quel sapere
che i politici fingono teatralmente di ascoltare. E la scienza dice, inequivocabilmente, che tale prassi
non serve a niente e, anzi, inquina:
«Non vi è evidenza che spruzzare ipoclorito di sodio all’aperto, massivamente, sui manti stradali,
possa avere efficacia per il contrasto alla diffusione del CODIV-19 dal momento che le
pavimentazioni esterne non consentono interazione con le vie di trasmissione umana. Si ritiene invece
che iniziative mirate, rivolte a superfici in ambiente interno o esterno destinate a venire a contatto con
le mani, possano conseguire risultati migliori in ottica di prevenzione di diffusione del contagio. E’
comunque da sottolineare che l’ipoclorito di sodio, componente principale della candeggina, è
sostanza inquinante che potrà nel tempo contaminare le acque di falda, direttamente o attraverso i
suoi prodotti di degradazione. Si invitano pertanto i Sindaci a tenere conto di queste indicazioni,
concentrando gli sforzi nella direzione di maggior efficacia degli interventi di lotta al COVID-19.
(Arpa Piemonte, 15 marzo)»
Sarà da indagare – in futuro – come il «non vi è evidenza» del lessico scientifico, che nell’esempio
citato significa, grossomodo, «abbiamo verificato fatti e letteratura, e non serve a un cazzo», sia lost
in translation nel discorso pubblico fobico, che ne trae invece la conclusione opposta: «non c’è
evidenza ma facciamolo lo stesso, tanto male non fa». Quando invece fa male: perché alimenta la
paura inutilmente, perché distoglie energie da prassi sensate (sanificare i corrimano), e perché
inquina.
«Spruzza, spruzza, ché male non fa!»

Diffondere la paura piuttosto che contenere il contagio

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La malafede pseudoscientifica dei candeggiatori di strade ha il suo perfetto corrispondente
nell’abbandono sbracato di alcuni presupposti giuridici di fondo; anzi di quello che regge l’intero
sistema, il cosiddetto «principio di libertà», espresso dall’articolo 13 della costituzione:
«Non è ammessa forma alcuna di […] restrizione della libertà personale, se non per atto motivato
dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge.»
Il punto non è – giova ripeterlo per i duri di comprendonio – escludere che sia necessaria, in questa
situazione, una restrizione anche forte delle libertà personali. Non sto facendo «negazionismo del
virus»; e tantomeno libertarianismo spicciolo (dell’intreccio tra diritti civili e sociali abbiamo
discusso ampiamente qui). Sto dicendo che più sono forti quelle restrizioni più devono essere precisi
e correttamente delimitati i «casi e modi previsti dalla legge».
E invece i DPCM vigenti sono costruiti esattamente all’opposto: le loro disposizioni contengono in
ultima sostanza un unico messaggio, quello che «esiste un divieto». E, come spiega nel suo prezioso
post Luca Casarotti,
«[n]ella logica dell’emergenza, lasciar aleggiare lo spettro di un generale divieto, senza precisarne
i confini, induce paura.»
La diffusione della paura, non il «contenimento del contagio», è la prima cura praticata dalla classe
politica sul corpo sociale – in perfetta continuità con il securitarismo. La vaghezza legislativa produce
effetti confusivi: Sandra Zampa, sottosegretaria alla salute, cerca di far chiarezza sulla possibilità di
fare attività all’aperto (sport o passeggiata), e dice che si può fare. Nello stesso momento, sul sito
della polizia, si usa una formulazione involuta con cui si «raccomanda di non spostarsi per fare una
passeggiata (se lo facessero tutti ci si ritroverebbe in massa in strada) o per andare a trovare un
amico». Formulazione in cui si mischia una cosa concessa (la passeggiata), con una probabilmente
vietata (visitare un amico); e il tutto sulla base di una motivazione che ha la stessa pregnanza logica
del «World Jump Day» del 2006, il flash mob con cui, saltando in modo coordinato, si immaginava
di poter spostare l’asse terrestre. Sempre contemporaneamente, la stessa polizia di stato fa girare
un’infografica che dice che si può fare attività motoria all’aperto.
Questa situazione si traduce – ed è davanti agli occhi di chiunque voglia vederlo – nel totale arbitrio
concesso alle forze dell’ordine, nella sospensione della certezza del diritto (un valore borghese? Sì,
certo: quel valore borghese che ti consentiva di non finire al gabbio senza almeno un processo), e
apre un varco a due fenomeni complementari.
Il primo è il terrore paralizzante per i cittadini, che temono di non poter fare quello che invece possono
fare – e che non ha nulla a che vedere con la diffusione del virus. Persone che avrebbero bisogno di
fare attività fisica e non la fanno, persone che ritengono sia obbligatorio indossare la mascherina in

236
automobile da soli, altre che pensano che pur vivendo insieme devono camminare a un metro di
distanza…
Questo terrore per alcuni si rovescia nel suo contrario: l’immenso piacere voyeuristico di spiare, fare
delazione, mandare foto sui social additando altri che pure si stanno comportando perfettamente
secondo le regole.
Il terreno alla fascistizzazione della società, dissodato dall’ideologia del «decoro», viene oggi
inondato di sementi; domani germoglierà messi abbondanti.
Il secondo effetto è riconoscibile nel malcelato godimento della classe politica locale, che si trova
investita del potere pressoché illimitato di rilanciare al rialzo qualsiasi divieto previsto dalle leggi
emergenziali nazionali. Nell’imporre misure prive di ogni razionalità rispetto all’epidemia agiscono
tanto le personali e pubbliche paranoie e idiosincrasie, quanto il protagonismo del sindaco, frutto
avvelenato della sua elezione diretta, sciaguratamente voluta dal parlamento nel 1993 (col voto
favorevole dell’ex-Pci).
A sån sté a la fira ed San Làzer… mo an i era ‘nción! Un deserto.
La già citata Isabella Conti, sindaca renziana di San Lazzaro di Savena, dichiara per ordinanza il
«divieto di utilizzare le biciclette per ragioni ludico-ricreative», e presto si genera in calce al video in
cui lo annuncia un vero assalto di fanatici nei confronti dei pochi che chiedono il rispetto della legge
(ovvero il poter fare attività sportiva, per non devastarsi nel corpo oltre che nello spirito). I fanatici
scrivono cose come «vai a fare in culo e stai a casa, senza rompere i coglioni»; oppure «ma perché
per una volta non si prova tutti a fare quello che ci viene chiesto invece di voler sempre fare i primi
della classe???» (come se non fosse Conti a voler fare la prima della classe, imponendo divieti non
previsti dalla legge!); «Robe da matti. Un Paese in ginocchio e questo vuole andare in bicicletta!»;
«…si vanno a spulciare i decreti ma …ora occorre usare il buon senso/senso civico…».
A Messina il sindaco Cateno de Luca è costretto a ritirare – ma di volta in volta reitera, con piccole
modifiche – ordinanze «coprifuoco» in aperto contrasto con le norme emanate dal governo; e l’altro
De Luca, Vincenzo, quello campano, «vieta le passeggiate» con un’ordinanza che il giurista Alberto
Lucarelli giudica anticostituzionale. Immagino facilmente la reazione-fotocopia degli haters-di-
regime: «Ah, il signor professore va a spulciare la costituzione ma… occorre usare il buon
senso/senso civico!».
Tutto ciò avviene per mezzo di «ordinanze», ovvero dello strumento utilizzato e abusato since 2008
contro le finte emergenze della «sicurezza urbana» e del «decoro». Anche se apparentemente, in
questo caso, l’uso delle ordinanze è giuridicamente più fondato (il sindaco è responsabile in questioni
di salute pubblica), esse sono utilizzate sostanzialmente nella logica del «decoro», e non in quella del
«contenimento del contagio». Esse accontentano, ma soprattutto provocano e amplificano, i più bassi

237
istinti nella base elettorale; plasmano una popolazione che chiede di essere governata con la paura,
non con una qualche forma di ragionevolezza (neppure con la ragione epidemiologica). D’altronde,
come dice una stucchevole poesia circolata in rete la settimana scorsa,

«Una voce imponente, senza parola


ci dice ora di stare a casa, come bambini
che l’hanno fatta grossa, senza sapere cosa,
e non avranno baci, non saranno abbracciati.»

Siamo bambini che l’hanno fatta grossa; e politici fanaticamente neoliberisti, nella loro quasi totalità
responsabili o complici (per appartenenza di partito) dello smantellamento della sanità pubblica, sono
mamma e papà. In Sardegna, premurosi, si preoccupano persino di operare un controllo sulle notizie
che potrebbero arrivare a sos pitzinnos: «non è un programma per bambini, cambia canale!». Siamo
di fronte, a ben vedere, a uno di quei rari e dolorosi casi in cui sarebbe opportuna la revoca della
potestà genitoriale.
Gioite agnelli, è quasi Pasqua!

O ancora, in un tripudio di immagini di docilità autolesionista, siamo non solo bambini ma pecore
spaventate dal lupo-virus:
«Un gregge di pecore o di capre che percorre insieme un sentiero. La pecora è davvero soggiogata
al pastore? Oppure ciò che determina il legame tra il pastore e ogni singolo animale, provo a supporre,
è soprattutto il sentimento della fiducia, la logica pratica e sicura della fiducia, qualcosa che corre tra
gli uni e gli altri come una maglia energetica?»
Bucolico, eh? Peccato che ciò che corre tra pastore e pecora sia lo sfruttamento economico, e infine
la lama del coltello.

Nel gregge si sta in sicurezza. Ecco un agnello.


Ma questa infantilizzazione e ovinizzazione non sono una novità nel panorama culturale. Siamo nel
campo ampiamente analizzato da Daniele Giglioli, quello del paradigma vittimario, in cui si realizza
«ciò che l’egemonia corrente ingiunge oggi di essere, e cioè sottomessi, spaventati, bisognosi di
protezione, desiderosi solo di essere governati – bene possibilmente; ma è lo stesso.» (Critica della
vittima, Nottetempo, 2014)
L’essere vittima ci definisce, dice Giglioli, come soggetti meritevoli di ascolto in base non a «ciò che
facciamo, ma [a] ciò che abbiamo subito, ciò che possiamo perdere, ciò che ci hanno tolto». Tutta

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l’ideologia del «decoro», a ben vedere, è innestata di vittimismo. E questo proprio mentre, in
apparente paradosso, gli illeciti del «degrado» sono spesso illeciti victimless. Chi è infatti la vittima
di un senzatetto che dorme su una panchina? Lui e lui solo: in primis del capitalismo che gli ha tolto
una casa, poi del «decoro» che gli toglierà anche la panchina. Ebbene: la magia del «decoro» è quello
di rendere in modo immaginario tutta la città «vittima» del «degrado», e quindi vittima del senzatetto
che dorme tra i cartoni. Che emerga quindi un immaginario vittimario in questa occasione non mi
stupisce; esso, come quasi tutto ciò che accade ora, era già lì.
Lo spazio del discorso social è occupato militarmente da chi assume la postura del dar voce alle
vittime, del parlare «per conto delle vittime». E si cerca così di zittire chi ragiona sulla complessità
sociale di questa crisi perché sarebbe – a parere insindacabile degli autodichiarati portavoce delle
vittime – non abbastanza empatico. In realtà neppure chi si pone come portavoce delle vittime sta,
nel momento in cui parla, facendo qualcosa di concreto per le vittime reali. Non sta, per esempio,
costruendo un respiratore: sta ragionando astrattamente. Proprio come chi ragiona sulla complessità,
ma col di più di agitare una clava retorica.
Ma c’è di peggio: se il nazionalismo italiano è storicamente vittimista, il vittimismo italiano diventa
immediatamente nazionalista, e questi giorni di bandiere e inni dal balcone sono qui a dimostrarlo;
mentre i giorni che seguiranno potrebbero vedere la sua mutazione in fascismo (quali vesti assumerà
tale fascismo non è dato sapere. Di certo non l’impolverato orbace: sarà più un tessuto tecnico). Non
escludo che il canto della marcetta diventerà obbligo nelle scuole, quando riapriranno; ma ciò che
dell’inno più mi colpisce – come nota anche questo commento – è quel suo verso, «siam pronti alla
morte», che suona oggi non solo sinistro, ma anche beffardo.
Perché la nostra società, con tutta evidenza, a tutto è pronta tranne che «alla morte». Viene qui al
pettine un nodo gigantesco: la rimozione della morte dal nostro panorama sociale, rinforzata da anni
di favolette berlusconiane – diventate in seguito articoloni pseudoscientifici de La Repubblica – che
ci promettevano di arrivare belli sani e arrapati fino a 120 anni. Poi arriva un virus da pipistrelli e ci
dimostra che non è così, che non è per niente così.
Che ne faremo, domani, di questa agnizione arrivata tra capo e collo? La seppelliremo sotto montagne
di fantasie tardo-adolescenziali sul postumano, sull’immortalità e gli innesti glam tra organico e
inorganico, oppure proveremo a ritracciare strade, individuali e collettive, che ci aiutino ad affrontare
l’inaffrontabile, a manipolare quell’inaccettabile che dà senso alla nostra vita, ovvero la sua finitezza?
«C’è dell’oro, credo, in questo tempo strano. Forse ci sono d[r]oni»**

Torno, qui e nell’epilogo, all’inizio di questa coppia di articoli. Dicevo allora, ricapitolando all’osso:
1) lo stato dispiega la propria forza militare ignorando – nelle confusive e contraddittorie modalità

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che si è detto – l’esigenza di trovare «un punto di equilibrio» tra la riduzione delle libertà e le esigenze
di contenimento del contagio;
2) lo spazio politico (anche tra i critici del neoliberismo) viene occupato da una «responsabilità»
individualizzata e acritica; e il giusto «non bisogna mettere in discussione la realtà dell’epidemia»
diventa troppo facilmente «non bisogna mettere in discussione il modo in cui il governo affronta
l’epidemia».
Se non esiste quindi il «punto di equilibrio» di cui al punto 1, e se non esiste spazio politico e morale
che si ponga al di fuori delle modalità di «contenimento del contagio» (modalità che non è dato
discutere: «lasciate parlare gli esperti!»), allora è chiaro che ogni intervento di controllo operato dal
potere è lecito, se ha una funzione – cioè se riesce a accreditarsi retoricamente come – utile al
contenimento del contagio. Il mirror non è più black: la distopia del controllo totale è già in opera, e
riflette il nostro presente.
A Forlì i droni sorvegliano i parchi; per non dire del solito Nardella che usa il principale strumento
del suo governo scopofilo, le mille telecamere dotate di AI, al fine di scovare assembramenti; ai
telegiornali già si commentano i tracciati dei telefonini che dimostrerebbero che «la gente esce troppo
spesso»; e sempre più di frequente si leggono cenni quasi acritici al metodo coreano, ovvero al
tracciamento tramite gps, app e tecnologie di sorveglianza di ogni spostamento e di ogni vita sociale.
Se non mettiamo in discussione 1 e 2, quindi, dovremo per la stessa logica accettare tutto, anche
perché sarà un lento scivolamento – non un «prendere o lasciare», a cui sarebbe semplice opporsi – e
perché tutto sarà in nome del «contenimento del contagio». Quindi accetteremo, tra le altre cose, la
fine della possibilità di lottare (assembramento illegale rilevato! Inviare l’esercito!) per fermare il
disastro sociale e ambientale; cioè per fermare anche quello smantellamento dei servizi sanitari
pubblici e quell’ecocidio che hanno generato e amplificato la potenza epidemica stessa.
Si tratta di un vero e proprio paradosso virale da cui sarà necessario trovare una via d’uscita.

Ritorno a me
Scrive Roccosan, in un commento:
«Il “parto da me” non dovrebbe diventare […] un’operazione narcisistica ma […] un momento
metodologico di un’indagine […]. Può allora descriversi fenomenologicamente una giornata di
quarantena a patto che serva per definire i campi di forze con cui si entra in relazione e le modalità di
tale relazione. In questo modo si può abbozzare un primo diagramma dentro cui certamente si trovano
anche l’Io e il narcisismo ma che è anche uno strumento utile a riordinare, le storie, i piani di analisi
e le interpretazioni disponibili».

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Sono d’accordo; ed è proprio quello che fa Pietro Saitta nell’articolo che cito in quel paragrafo
iniziale. La mia critica al «partire da sé» era indirizzata invece a certe narrazioni intimiste, a un uso
pubblico privo di mediazioni delle proprie sacrosante angosce; e infine alla retorica del «mostrare la
ferita». Mostrare la ferita è legittimo, è giusto; talvolta è personalmente liberatorio: facciamolo tutti
e tutte, pure più spesso di così, e mica solo nell’occhio del lockdown.
Ma facciamolo con la piena consapevolezza che non ha potenziale rivoluzionario. Il «mostrare la
ferita» è da tempo perfettamente integrato al neoliberismo, al coaching aziendale, all’aumento della
performance tramite il (peloso) ascolto. E infatti il ministero della salute, già il 14 marzo, ha prodotto
un «cartellino» di regime da appendere alla porta (rigorosamente chiusa) per imparare a «gestire lo
stess».
Mostra la tua ferita, noi ti aiutiamo a gestirla, ma la società non cambia. Quindi avanti, dritti, verso il
prossimo ecocidio e la prossima epidemia.

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È giusto sorvegliare gli spostamenti delle persone contro il coronavirus?


La Lombardia ha iniziato a farlo, usando dati anonimi forniti dagli operatori telefonici, ma ci sono dubbi sull'utilità
dell'iniziativa e preoccupazioni per la privacy
[18 Marzo 2029 – Il Post]

Da alcuni giorni la regione Lombardia utilizza un sistema per analizzare gli spostamenti della
popolazione durante l’epidemia da coronavirus, attraverso una collaborazione con i principali
operatori di telefonia mobile. Stando alle informazioni fornite dalla regione, i dati sono raccolti in
forma aggregata e anonima e consentono di farsi un’idea sulle distanze percorse da chi si muove con
un cellulare in tasca, in modo da verificare il rispetto delle restrizioni sugli spostamenti decise dal
governo per contenere il coronavirus. Seppure su scala più piccola, e per ora con sistemi più limitati,
l’iniziativa lombarda ricorda le soluzioni di sorveglianza adottate in Corea del Sud e in Cina contro
il coronavirus, che hanno sollevato molte perplessità da parte degli esperti sulla tutela dei dati
personali.

Lombardia
L’assessore per la Ricerca, Innovazione, Università, Export e Internazionalizzazione della
Lombardia, Fabrizio Sala, ha spiegato martedì in un collegamento video che dai dati cellulari risulta
ancora un numero eccessivo di spostamenti in regione, invitando nuovamente la popolazione a
rimanere il più possibile a casa. Il dato viene rilevato grazie ai ripetitori della rete cellulare: quando

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ci si sposta con uno smartphone in tasca, questo cerca costantemente i ripetitori più vicini a cui
collegarsi per mantenere il segnale. Ogni ripetitore copre una “cella”, una porzione di territorio,
quindi quando un cellulare passa da una cella a un’altra si può calcolare con una buona
approssimazione il suo spostamento. Le celle si incrociano e sovrappongono, quindi analizzando
queste sovrapposizioni si possono ottenere informazioni ancora più dettagliate sulla posizione di ogni
cellulare. Sala ha spiegato che la regione ha ottenuto i dati dagli operatori telefonici e ha poi effettuato
alcune analisi, mettendo per esempio a confronto le giornate antecedenti la scoperta dei primi casi da
coronavirus nel lodigiano con quelli degli ultimi giorni, con le restrizioni del governo. Mediamente
gli spostamenti sulle lunghe distanze all’interno della Lombardia si sono ridotti del 60 per cento, un
risultato che secondo Sala non è ancora sufficiente per consentire un buon contenimento dei contagi.
Il calo più significativo si è registrato nelle giornate subito dopo l’emanazione del decreto con le
misure del governo, poi gli spostamenti sono tornati ad aumentare, fatta eccezione per il fine
settimana dove si è assistito a una riduzione più significativa. Sala ha parlato di spostamenti di almeno
300-500 metri, quindi secondo il suo giudizio superiori a quelli che dovrebbero fare in media le
persone per le uscite essenziali almeno in città, per esempio per fare la spesa o portare fuori il cane.
La regione non ha però fornito molte altre informazioni, né sull’effettiva estensione temporale delle
rilevazioni giornaliere né sulle distanze più consistenti coperte durante gli spostamenti. È bene
ricordare che ci sono numerosi lavori che non possono essere eseguiti da casa e che rendono quindi
necessario lo spostamento di molte persone, che devono raggiungere il posto di lavoro.
Le compagnie telefoniche forniscono spesso dati di questo genere, in forma aggregata, ad altre società
che li impiegano per statistiche e applicazioni di vario tipo. Diverse app per la navigazione satellitare,
per esempio, sfruttano questi dati per fare previsioni sul traffico nei vari momenti della giornata,
fornendo di conseguenza tragitti alternativi su strade meno trafficate. È più raro che queste
informazioni siano utilizzate dalle istituzioni e in molti hanno sollevato dubbi e preoccupazioni circa
la tutela della privacy degli utenti, anche nel timore che ci possano essere ulteriori iniziative più
invasive come avvenuto all’estero.

Corea del Sud


Sul tema del tracciamento degli spostamenti per contenere l’epidemia da coronavirus, la Corea del
Sud è sicuramente il paese che ha investito più risorse e sperimentato soluzioni. Il governo sudcoreano
da settimane utilizza dati raccolti dalle reti cellulari, dai sistemi GPS, dalle transazioni effettuate con
carta di credito e dalle telecamere di videosorveglianza per tracciare la popolazione. Le informazioni
sono poi mostrate in forma anonima su un sito web dedicato e inviate anche tramite SMS a chi
potrebbe avere incrociato un infetto, in modo da ridurre la catena dei contagi.

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A inizio marzo, la Corea del Sud aveva registrato in pochi giorni un aumento consistente di casi
positivi alla COVID-19, la malattia causata dal coronavirus, e aveva messo in atto diverse politiche
per tenere sotto controllo la situazione, per esempio con un uso estensivo dei test per rilevare la
presenza del virus. Dopo essere stato per alcuni giorni il paese con più casi positivi dopo la Cina, la
Corea del Sud è rapidamente scesa nella classifica, diventando con 8mila casi il quinto paese, superato
da Spagna (quasi 12mila), Iran (oltre 16mila) e Italia (più di 31mila). La riduzione dei contagi è stata
attribuita soprattutto all’impiego estensivo dei test per identificare rapidamente i casi positivi,
isolandoli dal resto della popolazione, mentre non è ancora chiaro se i sistemi di sorveglianza abbiano
avuto un ruolo rilevante. Il governo sudcoreano ritiene comunque che in una situazione di emergenza
come l’attuale sia lecito sorvegliare il più possibile gli spostamenti. “È vero che l’interesse pubblico
tende a essere più enfatizzato dei diritti umani dei singoli in una situazione con malattie infettive” ha
ammesso Jeong Eun-kyeong, direttore dei Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie della
Corea del Sud. Jeong ha anche detto che si sta lavorando per trovare il giusto “equilibrio” tra la
sorveglianza sanitaria e la tutela della privacy.
I dati sugli spostamenti resi pubblici dal governo sono anonimi, ma comunque piuttosto dettagliati,
al punto da rendere possibile l’identificazione dei luoghi in cui è stato un proprio conoscente o
familiare. Il Washington Post ha pubblicato alcuni esempi dei messaggi che si possono ricevere sugli
infetti in circolazione. Nella città di Daejon, per esempio, più di un milione di smartphone ha ricevuto
un messaggio con l’avviso su una persona risultata positiva che era stata al: “Magic Coin Karaoke a
Jayang-dong intorno alla mezzanotte del 20 febbraio”. Un altro messaggio, diffuso a Cheonan, ha
invece avvisato i residenti su un infetto che aveva fatto visita all’”Imperial Foot Massage alle 13:46
del 24 febbraio”. Il dettaglio su orari e luoghi rende possibile l’identificazione delle singole persone,
almeno ai loro conoscenti più stretti, e potrebbe quindi portare a situazioni di emarginazione sociale
o ancora più pericolose. Una donna, che ha chiesto di rimanere anonima, ha spiegato al Washington
Post di avere smesso di frequentare un bar per omosessuali nella sua città: “Se inconsapevolmente
contraessi il virus, quell’informazione sarebbe diffusa in tutto il paese. È spaventoso quanto l’idea
che qualcuno sveli il tuo orientamento sessuale in pubblico.”
Inizialmente i dati sugli spostamenti e i loro orari erano forniti dal governo in database di non
semplice consultazione, cosa che offriva qualche tutela in più per la privacy. Nelle ultime settimane,
singoli informatici e aziende produttrici di app hanno invece iniziato ad attingere a quei dati,
incrociandoli tra loro per creare applicazioni più semplici da consultare, ma con informazioni molto
più dettagliate sulle attività del prossimo. Un sito che si chiama Coronamap ha attirato in pochi giorni
più di 14 milioni di visitatori.

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Nel 2015 il governo della Corea del Sud aveva ricevuto numerose critiche per non avere fornito
tempestivamente informazioni sulla diffusione della MERS, altra malattia infettiva causata da un
coronavirus che aveva provocato un numero preoccupante di contagi. Memori di quell’esperienza, le
autorità sudcoreane hanno realizzato diverse soluzioni per tracciare i contagi, fare più test possibile e
fornire informazioni dettagliate alla cittadinanza, non solo sui malati, ma anche sui contagiati in
circolazione.

Cina
Altri paesi hanno adottato misure simili a quelle della Corea del Sud, su scale e con intensità diverse.
In Cina il governo ha sfruttato i propri sistemi di sorveglianza di massa per tenere traccia dei
contagiati e dei potenziali nuovi contagi. I sistemi impiegati violano il diritto alla privacy dei cittadini
per i nostri standard, ma sono utilizzati senza particolari problemi in un paese con un assetto non
democratico e nel quale la popolazione è abituata a fare i conti con le continue ingerenze da parte
dell’autorità. Oltre alla videosorveglianza, alcune delle app più popolari in Cina come WeChat e
AliPay sono state impiegate per diffondere informazioni sul coronavirus e per indicare agli utenti se
mettersi o meno in quarantena per precauzione. Secondo diversi analisti, queste app forniscono inoltre
dati e statistiche al governo, nell’ambito dei suoi programmi di sorveglianza, che prima dell’epidemia
avevano scopi diversi e legati al controllo della popolazione.

Efficacia e privacy
Ricercatori ed esperti sostengono che sia ancora presto per dire se il controllo tramite rete cellulare,
l’impiego di app e di dati GPS siano efficaci e utili per contenere un’epidemia, mentre l’isolamento
degli infetti, un alto numero di test per trovare precocemente i positivi e le buone pratiche igieniche
(come lavarsi spesso le mani) si stanno rivelando certamente utili. La sorveglianza di massa ha inoltre
un costo sociale dal punto di vista della tutela dei cittadini ancora difficile da calcolare, rispetto ai
benefici tutti da dimostrare che potrebbe portare nel contenimento del coronavirus. Associazioni e
attivisti per la tutela della privacy ricordano che potrebbero essere adottate soluzioni intermedie e
meno invasive, per esempio per fare in modo che i dati sugli spostamenti non siano gestiti in forma
centralizzata, quindi in possesso di un unico soggetto, ma in una rete condivisa. In questo modo le
informazioni potrebbero essere gestite sui singoli smartphone, riducendo anche il rischio di perdite o
furti di dati sensibili. Il regolamento per la protezione dei dati nell’Unione Europea (GDPR) offre
diverse tutele e protezioni per ogni cittadino, ma prevede comunque alcune eccezioni per casi di
emergenza e di utilità pubblica. L’impiego di dati aggregati sulle reti cellulari che sta conducendo la

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Regione Lombardia non sembra violare le regole, ma iniziative di ulteriore controllo ipotizzate negli
ultimi giorni potrebbero invece porre diversi problemi per la privacy.
Non è inoltre chiaro come le istituzioni intendano utilizzare i dati che stanno raccogliendo in futuro,
quando l’epidemia sarà terminata. Governi e singoli gestori di siti e applicazioni potranno avere a
disposizione un’enorme mole di informazioni sugli spostamenti della popolazione, che potrebbero
essere poi impiegate per scopi diversi da quelli per cui erano state raccolte. Sul tema della
sorveglianza tramite cellulari e coronavirus, Antonello Soro, il Garante per la protezione dei dati
personali, ha detto che: “Non esistono preclusioni assolute nei confronti di determinate misure in
quanto tali. Vanno studiate, però, molto attentamente le modalità più opportune e proporzionate alle
esigenze di prevenzione, senza cedere alla tentazione della scorciatoia tecnologica solo perché
apparentemente più comoda, ma valutando attentamente benefici e costi, anche in termini di sacrifici
imposti alle nostre libertà”.

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Luca Sofri - Si diventa un po’ fascisti


[18 Marzo 2020 – Wittgenstein]

Non è niente di nuovo la considerazione storica e sociologica per cui la paura è il principale incentivo
alla richiesta di maniere forti, di regimi autoritari, di limitazioni delle libertà individuali in favore di
regolamentazioni e interventi più severi da parte di autorità di vario genere. E anzi, i fautori di questo
tipo di regimi e approcci hanno capovolto spesso il rapporto di causa ed effetto, cercando di diffondere
con la forza o con le parole una crescente misura di paura proprio per spingere la richiesta, appunto,
di regimi autoritari.
In queste settimane – dopo che da diverse parti in mezzo mondo si lavorava per costruire paure
artificiose da anni, con successo – è arrivata da dove meno la si aspettava una paura vera, concreta,
fondata, enorme. Che da una parte fa poco al caso di chi si augura maniere forti perché – a differenza
delle paure che suggeriscono i manuali di propaganda – non si accompagna a un nemico contro cui
eccitare e indirizzare la rabbia. Non è escluso che da destra – sono capaci di tutto – presto comincino
a sostenere che “la sinistra è amica del coronavirus”, ma è una retorica che fa un po’ fatica: per quanto
stupidi tu ritenga i tuoi elettori, aizzarli a odiare una palletta microscopica coi pispoli intorno non è
facile nemmeno per i più spericolati fomentatori d’odio.
D’altra parte, però, questa paura naturale, reale, motivata, sta generando già quote di naturale, reale,
motivato fascismo in tutti: intolleranza estrema e richieste di repressione verso chi esce di casa (con

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punte di giustizia fai da te e fanatismo tra il ridicolo e l’inquietante), indulgenza verso misure di
censura persino sui libri, che in altri tempi sarebbero state assai discusse per le loro implicazioni, un
sentimento diffuso di dover ognuno di noi difendere una necessità superiore, sentimento che ci
legittima e ci mette tutti in una divisa, gran voglia di chiamare la polizia, denunciare qualcuno, o
intervenire noi stessi. Rallegramenti per le punizioni esemplari. Il titolo a tutta pagina del Corriere di
oggi. Persino, nel nostro piccolo, spazientimenti da parte dei moderatori dei commenti sul Post nei
confronti di espressioni di stupidità su cui di solito siamo più tolleranti. “Se non la capite con le buone
bisogna essere un pochettino più aggressivi”, ha detto oggi Fontana. E ognuno di voi avrà esempi
intorno a sé, e dentro di sé. Stiamo diventando – un pezzetto alla volta, piano piano – più intolleranti,
più desiderosi di intransigenza, più inclini alla disciplina imposta con le cattive, e senza andare per il
sottile.
Senza pensarci troppo.
È normale, certo. È motivato, spesso. È bene?
Voi fateci caso.

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Fabrizio Maronta - Il coronavirus e i mercati finanziari: siamo a Sarajevo 1914


La pallottola è la pandemia. L’arciduca Francesco Ferdinando è il neoliberismo. O cambia il sistema o soccombiamo tutti.
A partire dall’Europa.
[18 Marzo 2020 – Limesonline]

Le banche centrali azzerano il costo del denaro, rendendo gratuito prenderlo a prestito in quantità
pressoché illimitate. Varano massicci programmi di acquisto del debito pubblico, per sostenere le
finanze dei governi che si apprestano a inondare le rispettive economie di aiuti per sostenere reddito
e produzione durante la pandemia di coronavirus. Eppure, le borse registrano picchiate verticali, nel
migliore dei casi paurose oscillazioni. Caso più unico che raro, queste coinvolgono insieme azioni e
obbligazioni, anche pubbliche, a cominciare dai titoli del Tesoro americano. Bene rifugio per
eccellenza insieme all’oro, le cui quotazioni salgono quando tutto il resto perde valore per la fuga
degli investitori. In questo caso invece si fugge da tutto, ammassando liquidità sotto il materasso in
attesa di tempi migliori. Perché in questi drammatici frangenti niente sembra funzionare? Perché il
panico attanaglia tutti i mercati e tutti i settori?
La spiegazione impone di guardare in tutte le direzioni: ieri, oggi e domani.

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Ieri
Siamo nei primi anni Ottanta, all’alba dell’era reaganian-thatcheriana che nei decenni successivi
avrebbe imposto al mondo post-guerra fredda il paradigma neoliberista codificato nel Washington
consensus. I livelli mondiali del debito cominciano a salire man mano che i tassi praticati dalla Federal
Reserve – e di riflesso dalle altre principali banche centrali – calano e la deregolamentazione rende
sempre più facile al sistema finanziario prestare denaro. La politica ha trovato la ricetta della felicità,
capace di far crescere l’economia in barba agli shock di offerta, come le crisi petrolifere degli anni
Settanta. E in barba al tendenziale calo della domanda aggregata, per la ridotta capacità di spesa dello
Stato e dei redditi da lavoro indotta dalla trickle down economics, che punta sui tagli fiscali alle fasce
alte di reddito nella messianica (mai provata) convinzione di beneficiare a cascata (trickle down) il
resto dell’economia privata, la cui efficienza è assunta a dogma.
Nel 2008, alla vigilia della grande recessione, il debito pubblico e privato è grande tre volte
l’economia mondiale: un picco storico. La crisi riduce sensibilmente la componente privata (via
fallimenti a catena e nazionalizzazioni), ma non quella pubblica. Complice il denaro ultra-economico
degli ultimi 11 anni, entrambe le componenti tornano a salire, tanto che oggi il settore privato
statunitense (le aziende) ha debiti per il 75% del pil nazionale. Più del 2008.
In questi 16 mila miliardi di dollari di passività si annidano i cosiddetti zombie. Si tratta di società
quotate in borsa, ben il 16% del totale dell’indice Dow Jones e oltre il 10% dei listini europei, secondo
la Banca dei regolamenti internazionali. Il loro flusso di cassa non basta nemmeno a ripagare gli
interessi sui debiti contratti. Realtà tecnicamente fallite, concentrate in comparti – auto, turismo,
trasporti – falcidiati dal coronavirus e in settori nel frattempo divenuti architravi dell’economia
statunitense, come quello estrattivo (gas e petrolio da scisti). A fianco a questi casi limite, vi sono le
società che, per evitare la stretta regolamentare post-2008, si sono sottratte alla quotazione di borsa
facendosi acquistare con operazioni che sovente hanno sommerso gli acquirenti di debiti. Ne deriva
che, oggi, la società americana media posseduta da un fondo azionario genera debiti per circa sei volte
i profitti annuali: il doppio della soglia oltre la quale le agenzie di rating classificano un titolo come
spazzatura.

Oggi
L’epocale crisi del coronavirus colpisce economie pesantemente indebitate e assuefatte a costi del
denaro quasi nulli, che lasciano poco margine di manovra alle politiche monetarie delle banche
centrali. Quando un giorno sarà scritta la storia di questa crisi, purtroppo solo agli inizi, andrà tra
l’altro smascherato l’inganno della presunta indipendenza delle banche centrali dai governi. La
dipendenza c’è eccome, ed è delle peggiori, perché subdola. Le banche centrali, Fed in testa, hanno

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comprato trent’anni di tempo alle classi politiche. Consentendo loro di cavalcare i benefici elettorali
del turbocapitalismo post-sovietico e della turbofinanza a esso consustanziale. Infischiandosene della
necessità di concepire un piano B. Di interrogarsi sulla tenibilità di tale modello. Di esercitare un
pensiero (auto)critico e minimamente strategico.
Il temuto cigno nero, l’evento più o meno improbabile e altamente dirompente, chiude la spensierata
parentesi. Palesando la fragilità di un sistema economico e finanziario strutturato per sottostimare i
rischi onde massimizzare i profitti a breve, brevissimo termine. Una “stabilità destabilizzante”, come
l’ha definita Hyman Minsky, prodotto di decenni di eccessi eretti a sistema. Gli artefici di questo
mondo e gli operatori economici che lo animano nella maggior parte dei casi sono avidi, non stupidi.
È ormai chiaro che il virus, imponendo draconiane misure di distanziamento sociale, strozza al
contempo offerta e domanda. Dunque sia la capacità di produrre sia la possibilità di acquistare – e in
prospettiva di disporre dei redditi sufficienti ad alimentare il consumo, stante il rischio concreto di
fallimenti a catena e relativi costi occupazionali indotti dalla pandemia.
Questo lo hanno capito tutti. Anche perché, in Italia come altrove, l’economia contemporanea si fonda
su assunti intrinsecamente instabili. Oltre al debito, l’elenco è lungo. Il just in time, l’azzeramento
delle scorte di magazzino per ridurre all’osso i costi, che cozza con il progressivo allungamento delle
filiere produttive. La precarizzazione del lavoro, con fasce consistenti di popolazione il cui
sostentamento non ammette pause lavorative, che fa a pugni con la progressiva estensione del credito
anche al consumo. Il disinvestimento nel pubblico e nelle sue reti infrastrutturali, a cominciare dalla
sanità, grande negletta di quasi tutti i paesi ad alto reddito, malgrado il generale invecchiamento
demografico e la necessità di sostenere poderosi apparati produttivi. Da ultimo, il predominio dei
servizi: pari al 65% dell’economia mondiale, sono caratterizzati dal massiccio ricorso al precariato e
da piccole-medie imprese, la cui sopravvivenza è vincolata al flusso di cassa. Qui, più che altrove, si
annida il rischio di fallimenti capaci di far impennare disoccupazione e sofferenze bancarie.
Il mercato vede il pericolo. Valuta l’insostenibilità dei fondamentali. Assiste alla relativa impotenza
delle Loro maestà i banchieri centrali. Vede la politica debole e divisa. Va nel panico.

Domani?
Questa crisi è sistemica. A posteriori, il virus sarà la pallottola che uccide l’arciduca Francesco
Ferdinando, l’evento rapsodico che dà la spallata a un equilibrio ormai troppo precario per reggere
alla prova della realtà e della storia. La sistematicità della crisi, di cui il 2008 apparirà l’inquietante
anteprima, implica che il sistema deve cambiare. Pena il suo (nostro) inaccettabile soccombere. A
delinearsi sono sviluppi capaci di sovvertire l’ambiente geopolitico, oltre che economico.

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Innanzi tutto, il ritorno diretto e indiretto dello Stato nella vicenda economica. La pandemia è infatti
globale solo nella sua spietata veste biologica. (Geo)politicamente, essa palesa diversità di approcci,
priorità, risposte, su cui occorrerà indagare nei mesi e anni a venire. Fin da subito, manifesta la
continua salienza dello Stato come unità organizzativa e garante di ultima istanza delle collettività in
esso raccolte. Il che non esclude coordinamento e collaborazione; ma derubrica ad abbaglio la pretesa
del suo completo superamento. Un’umanità culturalmente e geograficamente iperdifferenziata che si
conta in miliardi, necessita di unità organizzative minime. Il limes non è di per sé foriero di sventure,
se individua ambiti di organizzazione e azione che scongiurino il caos e consentano di mettere a
sistema intelligenze, risorse, volontà. Abbiamo costruito un Internet globale articolato in nodi e ci
siamo scordati che la realtà geopolitica necessita anch’essa di un’architettura di base che consenta
agli individui di avere un riferimento culturale, istituzionale, psicologico. Un posto da chiamare casa.
In prospettiva, vi sono qui le premesse per il superamento del paradigma neoliberista. La cui maggiore
pecca non sta nel “globalismo”, bensì nella concezione dell’individuo come strumento dell’economia,
quando dovrebbe essere l’opposto. Gli appelli ormai ubiqui, in tutti i settori e tutti i paesi (Stati Uniti
compresi), perché i governi si facciano garanti di un’economia che rischia il collasso – come del resto
già nel 2008 – sono sintomatici di un tabù che pare infrangersi contro l’onda d’urto dell’incertezza.
L’estrema alternativa novecentesca, il dirigismo di stampo autoritario, è ricetta già sperimentata e
non troppo rimpianta. Sulla possibilità di trovare altre vie tra i due estremi, l’Europa potrebbe –
dovrebbe – avere qualcosa da dire, se riuscisse a proferir verbo.
L’Europa. Ad architettura filosofico-fiscale corrente, un importante ritorno dello Stato a garanzia
dell’equità e tenuta dei sistemi economici e sociali è impraticabile. Perché implicherebbe (implicherà)
la sconfitta dell’ordoliberismo tedesco e della relativa “austerità” contabile. E perché esige un
coordinamento politico inedito, essendo la politica economico-fiscale – cioè l’azione dei governi, che
nel caso di economie relativamente piccole e fortemente interconnesse come quelle europee non può
che essere concertata per reggere nel medio-lungo termine – l’unica in grado di arrivare dove l’azione
delle banche centrali non può più.
Su questo, occorre essere assolutamente chiari. O l’Europa finalmente si fa, o si frantuma. In entrambi
i casi, questo 2020 non lascerà il tempo che ha trovato.

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Gabriele Capolino - Non torneremo più alla normalità. Ecco come sarà la vita dopo la pandemia
Il distanziamento sociale, sostiene un’analisi del MIT Technology Review, durerà ben più di qualche settimana. Lo
dimostra una simulazione dell’Imperial College di Londra. In un certo senso, accompagnerà la vita e il lavoro di tutti per
sempre. Con un'esplosione dei servizi di una nuova Shut-in Economy
[18 Marzo 2020 – milanofinanza.it]

“Per fermare il coronavirus dovremo cambiare radicalmente quasi tutto quello che facciamo: come
lavoriamo, facciamo esercizio fisico, socializziamo, facciamo shopping, gestiamo la nostra salute,
educhiamo i nostri figli, ci prendiamo cura dei nostri familiari”. Così comincia un’analisi di Gordon
Lichfield, direttore di MIT Technology Review (il magazine della prestigiosa università americana)
dedicato ai cambiamenti nella vita personale e nel mondo del business che la pandemia finirà per
cristallizzare anche dopo che sarà attenuata. “La maggior parte di noi probabilmente non ha ancora
capito, e lo farà presto, che le cose non torneranno alla normalità dopo qualche settimana, o
addirittura dopo qualche mese. Alcune cose non torneranno mai più”.
Lichfield parte dalla constatazione, davanti alla quale si è arreso anche il governo inglese, che ogni
Paese abbia bisogno di fare come l’Italia, cioè appiattire la curva dei contagi: imporre un
distanziamento sociale per rallentare la diffusione del virus per evitare il collasso del sistema
sanitario. Ciò implica che la pandemia deve durare, attenuata, fino a quando non ci sarà un numero
sufficiente di persone che hanno avuto il Covid-19 in modo da lasciare la maggior parte degli altri
immuni (supponendo che l'immunità duri per anni, cosa che non sappiamo) o che nel frattempo non
si trovi un vaccino.
Quanto tempo ci vorrebbe e quanto devono essere draconiane queste restrizioni sociali? Trump ha
detto che "con diverse settimane di azione mirata, possiamo svoltare l'angolo e capovolgere la
situazione in fretta". In Cina, sei settimane di isolamento cominciano ad alleggerire la situazione, ora
che i nuovi casi sono caduti in prescrizione.
Ma non finirà qui. Finché qualcuno nel mondo avrà il virus, le epidemie continueranno a ripetersi,
senza controlli rigorosi per contenerle. In un rapporto di martedì 17, i ricercatori dell'Imperial College
di Londra hanno proposto un metodo di controllo: imporre misure di distanziamento sociale più
estreme ogni volta che i ricoveri nei reparti di terapia intensiva (ICU) iniziano ad aumentare, e
rilassarli ogni volta che i ricoveri diminuiscono.
Nel grafico 1 all'inizio di questa pagina, la linea arancione è quella dei ricoveri in terapia intensiva.
Ogni volta che superano una soglia, per esempio, 100 alla settimana, il paese dovrebbe chiudere tutte
le scuole e la maggior parte delle università, adottando il distanziamento sociale. Quando scendono
sotto i 50 ricoveri, queste misure verrebbero revocate, ma le persone con sintomi o i cui familiari
hanno sintomi rimarrebbero comunque confinate a casa.

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Periodi ripetuti di distanziamento tengono sotto controllo la pandemia. Fonte: Imperial College

Come si misura la "distanza sociale"? I ricercatori la definiscono così: "Tutte le famiglie riducono del
75% i contatti al di fuori della famiglia, della scuola o del posto di lavoro". Significa che ognuno fa
tutto il possibile per ridurre al minimo i contatti sociali e, nel complesso, il numero di contatti
diminuisce del 75%. Secondo questo modello, concludono i ricercatori, il distanziamento sociale e la
chiusura delle scuole dovrebbero essere in vigore per circa due terzi del tempo, attivo due mesi e un
mese in pausa, fino a quando non sarà disponibile un vaccino, il che richiederà almeno 18 mesi (se
funziona). Diciotto mesi !? Sicuramente ci devono essere altre soluzioni. Perché non costruire più
unità di terapia intensiva e trattare più persone contemporaneamente, per esempio?
Beh, nella simulazione dei ricercatori, non risolve il problema. Senza il distanziamento sociale
dell'intera popolazione, anche la migliore strategia di mitigazione (che significa isolamento o
quarantena dei malati, dei vecchi e di coloro che sono stati esposti, più la chiusura delle scuole)
porterebbe comunque a un'ondata di malati gravi otto volte superiore a quella che il sistema
statunitense o britannico possono affrontare (nel grafico 2 è la curva blu più bassa; la linea rossa piatta
è il numero attuale di posti letto in terapia intensiva). Anche se si impostassero fabbriche per sfornare
letti e ventilatori e tutte le altre strutture e forniture, si avrebbe comunque bisogno di molti più
infermieri e medici per prendersi cura di tutti.
Si potrebbe allora imporre restrizioni per un solo lungo periodo di cinque mesi? Non va bene neanche
così: una volta eliminate le misure di distanziamento, la pandemia scoppierebbe di nuovo, solo che
questa volta sarebbe in inverno, il momento peggiore per sistemi sanitari già troppo tesi.
E se si decidesse di essere brutali, fissando una soglia molto più alta del numero di ricoveri in terapia
intensiva oltre la quale innescare il distanziamento sociale, accettando quindi che molti più pazienti
muoiano? A quanto pare non fa molta differenza. Anche negli scenari meno restrittivi dell'Imperial
College, saremmo nel sacco in più della metà del tempo.

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Quindi, sostiene Lichfield, non si sta parlando di un'interruzione temporanea. È l'inizio di uno stile di
vita completamente diverso.

Vivere in uno stato di pandemia


Secondo Technology Review, a breve termine ciò sarà estremamente dannoso per le imprese che
contano su un gran numero di persone che si riuniscono in massa: ristoranti, caffè, bar, discoteche,
palestre, hotel, teatri, cinema, gallerie d'arte, centri commerciali, fiere dell'artigianato, musei,
musicisti e altri artisti, luoghi sportivi (e squadre sportive), sedi di congressi (e produttori di
congressi), compagnie di crociera, compagnie aeree, trasporti pubblici, scuole private, centri diurni.
Per non parlare dello stress dei genitori spinti a far studiare a casa i loro figli, delle persone che
cercano di prendersi cura di parenti anziani senza esporli al virus, delle persone intrappolate in
relazioni extramatrimoniali, e di chiunque non abbia un ammortizzatore finanziario per affrontare le
oscillazioni del reddito.
Ci sarà comunque una stagione di adattamento: le palestre cominceranno a vendere attrezzature per
esercizio a casa e fare sessioni online, vedremo un’esplosione di nuovi servizi di quella che si può già
definire la Shut-in economy. Ci si può consolare con il fatto che le nuove abitudini diminuiranno
l’impatto ambientale dei viaggi, favoriranno il ritorno a filiere produttive locali, a un maggior ricorso
al camminare e alla bicicletta. Ma lo sconvolgimento di molte, molte imprese e mezzi di sussistenza
sarà impossibile da gestire. Uno stile di vita da recluso non è sostenibile per periodi così lunghi.
Quindi come possiamo vivere in questo nuovo mondo? Una parte della risposta , spera Lichfield, sarà
nel miglioramento dei sistemi sanitari, con la costituzione di unità di risposta alle pandemie in grado
di muoversi rapidamente per identificare e contenere le epidemie prima che comincino a diffondersi.
Poi occorre sviluppare la capacità di aumentare rapidamente la produzione di attrezzature mediche,
kit di test e farmaci. Sarà troppo tardi per fermare la Covid-19, ma sarà d'aiuto per le future pandemie.
A breve termine, probabilmente troveremo compromessi imbarazzanti che ci permetteranno di
mantenere una certa parvenza di vita sociale. Forse le sale cinematografiche toglieranno metà dei loro
posti, le riunioni si terranno in sale più grandi con sedie distanziate, e le palestre richiederanno di
prenotare gli allenamenti in anticipo, in modo che non si affollino.
In definitiva, verrà ripristinata la capacità di socializzare in sicurezza, sviluppando modi più sofisticati
per identificare chi sia a rischio di malattia e chi no, e discriminando legalmente chi lo è.
Si possono vedere i primi segnali nelle misure che alcuni paesi stanno prendendo. Israele utilizzerà i
dati di localizzazione dei cellulari, con cui i suoi servizi segreti rintracciano i terroristi, per rintracciare
le persone che sono state in contatto con i portatori noti del virus. Singapore effettua una ricerca

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esaustiva dei contatti e pubblica dati dettagliati su ogni caso conosciuto, tutti tranne l'identificazione
delle persone per nome.
Naturalmente nessuno sa esattamente come sarà questo nuovo futuro. Ma si può immaginare un
mondo in cui, per salire su un volo, forse si dovrà essere iscritti a un servizio che tracci i vostri
spostamenti attraverso il vostro telefono. La compagnia aerea non sarebbe in grado di vedere dove
siete andati, ma riceverebbe un avviso se foste stati vicini a persone infette o a punti caldi della
malattia. Ci sarebbero requisiti simili all'ingresso di grandi spazi, edifici governativi o snodi di
trasporto pubblico. Scanner della temperatura installati ovunque, e il vostro posto di lavoro potrebbe
richiedere l'uso di un monitor che misuri la vostra temperatura o altri segni vitali. Dove i locali
notturni chiedono una prova dell'età, in futuro potrebbero chiedere una prova di immunità, una carta
d'identità o una sorta di verifica digitale tramite il vostro telefono, che dimostri che siete già guariti o
che siete stati vaccinati contro gli ultimi ceppi del virus.
Ci si adatterà anche a queste misure, così come ci si è adattati ai sempre più severi controlli di
sicurezza aeroportuale in seguito agli attacchi terroristici. La sorveglianza invasiva sarà considerata
un piccolo prezzo da pagare per la libertà fondamentale di stare con altre persone.
Come al solito, però, il vero costo sarà sostenuto dai più poveri e dai più deboli. Le persone che hanno
meno accesso all'assistenza sanitaria, o che vivono in zone più esposte alle malattie, saranno ora più
frequentemente escluse dai luoghi e dalle opportunità aperte a tutti gli altri. I gig-worker, quelli che
fanno lavoretti e sono molto in giro, come autisti, idraulici, istruttori di yoga freelance, vedranno il
loro lavoro diventare ancora più precario. Gli immigrati, i rifugiati, i clandestini e gli ex detenuti
dovranno affrontare l'ennesimo ostacolo all'ingresso nella società, prevede Lichfield.
Inoltre, a meno che non ci siano regole severe su come viene valutato il rischio che possiate
ammalarvi, i governi o le aziende potrebbero scegliere qualsiasi criterio: per esempio, siete ad alto
rischio se guadagnate meno di 50.000 dollari all'anno, vivete in una famiglia con più di sei persone e
in alcune precise parti del Paese. Ciò provocherebbe un margine per la distorsione algoritmica e la
implicita discriminazione, come è successo l'anno scorso con un algoritmo utilizzato dalle compagnie
di assicurazione sanitaria degli Stati Uniti, che finiva per favorire inavvertitamente i bianchi.
Il mondo è cambiato molte volte, e sta cambiando di nuovo. Tutti noi dovremo adattarci a un nuovo
modo di vivere, di lavorare e di creare relazioni. Ma come per tutti i cambiamenti, ci saranno alcuni
che ci perderanno più degli altri, e saranno quelli che hanno già perso troppo. Il meglio che possiamo
sperare, conclude l’analisi di Lichfield, è che la profondità di questa crisi costringa finalmente i Paesi
e gli Stati Uniti in particolare, a porre rimedio alle palesi ingiustizie sociali che rendono così
intensamente vulnerabili ampie fasce della loro popolazione.

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Nadia Urbinati - Non arrendiamoci a "tacere e obbedire"
Sembra che tutta la responsabilità sia dei cittadini. Dove sta la responsabilità delle istituzioni che oggi minacciano di
prendere misure ancora “più rigorose”? La scienza non ha tutte certezze, quanto durerà la "temporanea" limitazione della
libertà?
[18 Marzo 2020 – HuffingtonPost.it]

Ho letto su Facebook un messaggio molto eloquente: “Sì è vero, lo stato di diritto sta saltando; sì è
vero, le nostre libertà sono decurtate al massimo. Ma si tratta di scegliere: o la vita o la libertà; e
ancora più, o il sacrificio per gli altri o la nostra libertà”. Dopo questo post, leggo il comunicato del
governatore lombardo, che di fronte ai numeri dei contagi che non scendono, minaccia misure ancora
più restrittive. Come mio padre si rivolgeva a me bambina, così Fontana si rivolge ai lombardi:
“Amici, se non la capite con le buone bisognerà essere più aggressivi. I numeri non si riducono [...].
Per ora lo chiediamo, se si dovesse andare avanti chiederemo al governo di emanare provvedimenti
più rigorosi”. Che provvedimenti saranno quelli “più rigorosi”? Che cosa c’è di “più rigoroso”
dell’uscita con autocertificazione solo per i casi concessi?
Sembra di capire che la responsabilità di tutto ricada sui cittadini – abituati alla loro libertà, che
reclamano il bisogno di fare un po’ di moto. E dove sta la responsabilità delle istituzioni che oggi
minacciano di prendere misure ancora “più rigorose”? Vi è amnesia delle scelte prese in un recente
passato, scelte che hanno maltrattato e indebolito il sistema sanitario pubblico? Parliamo, per
esempio, delle scelte della Regione Lombardia. Secondo i dati del Ministero della Salute (consultabili
sul web) l’anno 2017 mostra questo: i ventilatori polmonari erano 1 ogni 4.130 abitanti in Lombardia;
1 ogni 2.500 in Emilia-Romagna; 1 ogni 2.250 abitanti in Toscana, e 1 ogni 2.550 abitanti in Veneto.
Il rischio di collasso del sistema è già contenuto in questi numeri. La responsabilità è l’arma che i
cittadini nelle democrazie costituzionali hanno e che le norme, anche quelle che regolano
un’emergenza come questa, presumono – non ci sono altre misure. Non si cono scorciatoie. Non c’è
posto per la repressione militare e lo stato di polizia. In aggiunta, la nostra responsabilità non è
illimitata e non può essere contrastata con la minaccia di maggiori repressioni. Ma vi è anche un
risvolto etico in questa politica della minaccia: non possiamo come cittadini accettare di portare sulle
nostre spalle tutto il peso dei limiti del sistema sanitario – del resto deleghiamo le funzioni di governo,
non governiamo noi direttamente. E le scelte dei governi, nazionali e regionali, devono essere
contemplate nell’attribuzione dei livelli di responsabilità. E invece, non abbiamo sentito ancora una
parola di autocritica.
Non dovremmo vergognarci di mettere in dubbio questa logica di un’escalation della repressione. Se
la nostra libertà è il problema, allora c’è poco altro da dire.

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Ci viene detto che reprimere e chiuderci in casa è una soluzione temporanea. Ma quanto durerà il
“temporaneo”? Gli scienziati non sembrano sicuri di saper dare una risposta certa – e sulle loro
certezze si basano, invece, le scelte dei nostri governanti. Non conoscono ancora bene il modo in cui
il virus si diffonde e come e se muta e spesso dissentono tra loro prendendosi anche a male parole in
pubblico, come fanno i politici. Se la scienza sulla quale questo intero sistema di limitazione delle
nostra libertà non ha certezza, perché scandalizzarsi tanto con noi profani che ci ostiniamo a cercare
il sole e l’aria, e che stiamo lentamente andando in depressione? Dobbiamo per caso attendere il
vaccino prima di uscire di casa? E dobbiamo sentirci in colpa per la resilienza di questo virus o subire
reprimende da parte di chi ci governa per sollevare questi dubbi?
Più delle norme emergenziali, si deve temere l’espansione di questa mentalità dispotica, che vorrebbe
neutralizzare dubbi e domande. Tacere e obbedire. Ma non è un male fare le pulci al vero se,
sosteneva J.S. Mill, il vero si atteggia a dogma – se poi è un ‘vero’ in costruzione, allora i dubbi e le
domande sono perfino un bene!

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Patricia Peterle - Metà indifferenza e metà cattiveria


[18 Marzo 2020 – Antinomie.it]

«[…] al Governo rincresce di essere stato costretto a esercitare energicamente quello che considera
suo diritto e suo dovere, proteggere con tutti i mezzi la popolazione nella crisi che stiamo
attraversando, quando sembra si verifichi qualcosa di simile a una violenta epidemia […] e
desidererebbe poter contare sul senso civico e la collaborazione di tutti i cittadini per bloccare il
propagarsi del contagio». E ancora: «Il Governo è perfettamente consapevole delle proprie
responsabilità e si aspetta da coloro ai quali questo messaggio è rivolto che assumano anch’essi, da
cittadini rispettosi quali devono essere, le loro responsabilità, pensando anche che l’isolamento in cui
ora si trovano rappresenterà, al di là di qualsiasi altra considerazione personale, un atto di solidarietà
verso il resto della comunità nazionale». Due frammenti che descrivono un contesto d’urgenza
provocato da una violenta epidemia che pare minacciare tutti e contro la quale governi e cittadini
devono lottare insieme, anche se per bloccarla è necessario l’isolamento al fine di evitare il contagio
e la conseguente propagazione.
Uno scenario, quello provocato dall’epidemia del coronavirus, che ha stravolto nelle ultime settimane
i ritmi dell’ordinaria vita quotidiana in zone molte diverse tra di loro sparse per il mondo. Il termine
epidemia deriva dal greco ἐπί «sopra» e δῆμος «popolo», e in termini medici si riferisce a un morbo

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che si espande indifferentemente sopra appunto un popolo, attaccando tutti, non importa età, sesso o
razza. In termini mitologici lo stesso termine può riferirsi alle feste dedicate ad Apollo in Delfo e
Mileto, e a Diana in Argo. Certamente, non si tratta di una festa quella a cui assistiamo, forse, se lo
sarà, sarà quella del virus e della sua propagazione in tutti i continenti. Virus che senza pregiudizi e
senza badare a ricchi e poveri non dice di no ad un corpo passibile di essere contaminato, sia esso in
Africa, in Cina, in Europa, negli Stati Uniti o in America Latina.
I brani succitati, che paiono descrivere la realtà vissuta in Cina qualche mese fa e, ora, in Italia, non
sono un annuncio di Conte, ma appartengono al romanzo Cecità (1995) di José Saramago. Da un
giorno all’altro, una città e i suoi abitanti si vedono in preda a un’epidemia di cecità che provoca un
collasso e costringe tutti a cambiare i propri modi di vita, le proprie forme di vita. Ambientato in un
luogo indefinito, in un tempo indeterminato, con personaggi che non hanno un nome, il romanzo di
Saramago mette in atto una potente macchina narrativa per riflettere sui rapporti umani, sul potere,
sulla paura ingenerata dall’epidemia, sulla sopraffazione.
Non è ovviamente la prima volta che il tema del contagio viene affrontato in letteratura: da Boccaccio
a Manzoni, da Camus a Canetti e a Jack London, esso è un argomento che ha sempre attratto perché,
appunto, mette in risalto una serie di implicazioni che riguardano il comportamento umano (basti
vedere negli ultimi giorni l’aumento esponenziale di vendita nelle librerie di questo tipo di narrativa).
Ma si potrebbe arrivare al Lucrezio del De Rerum Natura o a Tucidide, con la descrizione della peste
che colpì Atene nel 430 a.C., il cui resoconto non manca di sottolineare la difficoltà di agire
razionalmente. Nel Novecento, come sappiamo, parlare della peste diviene sempre più una forma
allegorica, come avviene nel testo di Saramago o in quello di Camus, col suo inconfondibile incipit,
«Oggi la mamma è morta».
Libri di epoche e stili molto diversi che si interrogano sul timore che l’uomo ha di «essere toccato
dall’ignoto», come afferma Elias Canetti nel suo capolavoro Massa e potere, tradotto da Furio Jesi:
«Dovunque, l’uomo evita d’essere toccato da ciò che gli è estraneo. Di notte o in qualsiasi tenebra il
timore suscitato dell’essere toccati inaspettatamente può crescere fino al panico». Tanto più quando
si tratta di un elemento non del tutto conosciuto, che può soffrire delle mutazioni e il cui espandersi
lascia dietro di sé una scia di morti. Se bloccare il virus non è ancora possibile, è però possibile seguire
i numeri, i dati che vengono comunicati ad ogni istante. Tutto questo grazie a una modernità sempre
più connessa con l’aiuto dei mezzi tecnologici: ipercomunicazione e iperinformazione. Però quella
che dovrebbe essere un elemento di mediazione e magari di prevenzione, l’accessibilità
all’informazione, non ha ancora avuto un ruolo decisivo contro il diffondersi del coronavirus. A
questo proposito si fa interessante ricordare le parole di Calvino in una delle sue Lezioni: «Alle volte
mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza,

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cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e
di immediatezza».
L’ipercomunicazione e l’iperinfomazione non hanno dunque finora aiutato nella prevenzione, anzi.
Forse tutto appariva così lontano – un focolaio cinese –, il cui sbarco in altre parti sembrava una
possibilità molto remota. Senza prevenzione e senza immediatezza di azione, ora, il covid-19 sfida e
fa collassare i sistemi sanitari, mette a nudo le debolezze di un’Europa che si dimostra impreparata e
di un’Italia che ormai si ferma e chiede ai cittadini di pensare alla comunità e, momentaneamente, di
rinunciare alla libertà di andare e venire.
Ed ecco qui come il legame tra politica e medicina, che ovviamente non si limita a questa specifica
congiuntura, diviene sempre più evidente nella nostra contemporaneità. Lo stato di emergenza
provocato dall’epidemia virale ha di conseguenza attivato uno stato di emergenza politico. La
dedizione della politica nei confronti della “cura” dei cittadini e dello stato seguono questa linea della
biopolitica. Come dice Roberto Esposito, «tutti i conflitti politici attuali hanno al centro la relazione
tra politica e vita biologica», un tratto della deformazione della politica e, al contempo, della sua
decomposizione.
Gli stessi che hanno testimoniato da lontano (attraverso i vari schermi) la crisi vissuta in Cina,
l’aumento dei contagi, i decessi, la mancanza di mascherine e amuchina, ora la vivono da vicino, anzi,
sulla pelle, sia in modo diretto che indiretto. L’espansione a qualsiasi latitudine, in modo così veloce
– come se tutti noi fossimo delle possibili prede in una specie di nuovo game mondiale –, mette in
evidenza il nostro esiguo equilibrio, quasi sempre nascosto dietro alle immagini e ai numeri di un
mercato che pensa più che altro al suo progresso caotico. E ora, anzi, è questo stesso mercato che
sembra patire, ancorché ci sia sempre qualcuno che ci guadagna. Ma che cos’è successo in questi
mesi? Una parte del mondo si credeva protetta? C’era un’armatura invisibile? Pare che tante tappe,
nozioni e percezioni siano state trascurate. Ci si potrebbe chiedere se il pregiudizio verso l’altro,
considerato diverso, potrebbe essere una delle risposte al complesso quadro al quale assistiamo oggi.
Ma guardare all’esperienza dell’altro forse in questo momento è una via d’uscita.
Le prime parole di Agamben hanno stimolato un effervescente dibattito. La sorveglianza
dell’epidemia è legata alla sorveglianza dei singoli. Le azioni d’emergenza, lo stato di eccezione che
si vive, da un lato necessario, avranno anch’esse un costo salato. Una specie di colpo di stato messo
in scena da un elemento esterno: il virus e la sua paura. Se l’ignoto, potentissimo, è il coronavirus che
affligge tutti, ci costringe a stare a casa come se fossimo dei prigionieri, l’ignoto sarà anche ciò che
si presenterà dopo questa tempesta virale. Ora siamo preoccupati, come è giusto che sia, con
l’epidemia, ma ci sarà anche un post coronavirus. L’ingovernabilità del virus, a cui tutti assistiamo,
gli altissimi numeri di decessi e contagiati, come ha sottolineato Žižek, può ravvivare altre epidemie

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di virus ideologiche che in alcuni erano forse dormienti. Le macerie lasciate non saranno poche, sia
a livello economico che esistenziale. In effetti questo vivere su una strana soglia, una specie di campo
minato di necessarie costrizioni, risveglia negli stessi corpi delle angosce.
Senz’altro una visione di mondo è implosa, si è frantumata con l’arrivo del coronavirus o era già
implosa e ora si presenta in modo così virulento sul corpo dello stato e dei singoli cittadini.
L’emergenza di solito richiede l’urgenza; ma noi già viviamo il più delle volte, senza renderci conto,
sotto il regime dell’emergenza. Però un’emergenza significa anche imparare sul punto del collasso,
rompere con i giochi del possibile davanti a un imprevisto. L’esigenza di una uscita dall’ordinario si
impone ora anche sul piano economico e a livello mondiale; e la società patisce con isolamenti e
chiusure, mentre il coronavirus mette a rischio l’economia globalizzata. Il coronavirus non attacca
solo il corpo dell’uomo, la sua viralità si espande e, pian piano, infetta vari livelli del nostro stare al
mondo. «È di questa pasta che siamo fatti: metà di indifferenza e metà di cattiveria», si legge in un
altro passaggio di Cecità.

La paura dell’altro, da ciò che viene da fuori, se da un lato è una misura protettiva, dall’altro ci toglie
dal contatto (e contagio) appunto con l’altro, ci isola in un egoismo sempre più crescente, che ora
nelle vesti del discorso virale può catturarci ancor di più; ma essa è soprattutto un’altra metamorfosi
della crisi in cui siamo inseriti come umani e come comunità.

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Non si muore di virus, ma soprattutto di gerarchia


[19 Marzo 2020 – comidad.org]

Nel 2017 i grandi quotidiani riportavano nelle pagine interne gli sconcertanti dati della mortalità per
influenza: tremila morti, che superavano il record già registrato per la stessa malattia nel 2015, quando
vi erano stati duemilacinquecento morti. Nel mostrare i preoccupanti dati, i media approfittavano
ovviamente dell’occasione per fare propaganda alle vaccinazioni antiinfluenzali, senza peraltro
fornire parallelamente il dato di quanti vaccinati avessero contratto ugualmente la malattia. Nel 2014
la lobby dei vaccini aveva già spinto i giornali a fornire cifre inquietanti sulla mortalità dovuta a
patologie connesse all’influenza: settemila morti l’anno. Forse la cifra era gonfiata in funzione della
vendita di vaccini; sta di fatto che le statistiche sulla mortalità avevano assunto in quel periodo le
stesse dimensioni che si attribuiscono adesso alla presunta emergenza virale. Ed in effetti sinora nulla

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prova che l’attuale virus rappresenti una minaccia maggiore delle consuete epidemie di influenza,
che, quanto a mortalità, non sono affatto bazzecole.
Il 2015 era stato però l’anno in cui si era dovuto prendere atto che la mortalità della popolazione
anziana, sia per influenza sia per altre malattie, aveva assunto i ritmi comparabili con quelli degli
stenti dovuti a una guerra, oppure per un drastico passaggio da un modello sociale/economico ad un
altro, come era avvenuto nella ex Unione Sovietica, dove la vita media era crollata in seguito alle
privatizzazioni. Tutto ciò avrebbe dovuto liquidare come “bufale” e “fake news” le proiezioni
dell’Istat sull’aumento della aspettativa di vita, con la conseguente “necessità” di strette
pensionistiche; ma dai media non si può pretendere tanto.
Il dato che indirettamente si traeva dalle statistiche di mortalità del 2015 e del 2017 era, ed è, il
decadimento del sistema sanitario pubblico, incapace ormai di far fronte alle normali epidemie
stagionali. Le notizie sull’aumento della mortalità venivano passate dai media, senza però quella
grancassa e quello strepito che avrebbero messo in evidenza clamorosamente che anni di tagli alla
sanità pubblica e di assistenzialismo pubblico alla sanità privata ora presentavano il conto non ai
responsabili, bensì ai soggetti più deboli. Tutte le notizie, anche le più scioccanti, erano infatti
confinate alle pagine interne dei quotidiani.
L’epidemia di quest’anno è arrivata invece con l’accompagnamento del frastuono mediatico a causa
dell’emergenza sanitaria denunciata dal governo cinese. Si sarebbe dovuto riflettere sul fatto che in
Cina la vera emergenza era quella dell’ordine pubblico dovuta alla rivolta di Hong Kong; e sarebbe
stato facile notare che le misure restrittive antivirus adottate dal governo cinese avevano impedito che
il contagio della ribellione si propagasse a tutto il sud-est della Cina. Ma quelle riflessioni non sono
state fatte. Evidentemente l’emergenza sanitaria conveniva anche qui. Se lo scopo del governo cinese
era quello di bloccare il separatismo cantonese, al contrario in Italia l’emergenza virus è diventata
uno strumento del separatismo delle Regioni del nord.
Alcuni hanno acutamente rilevato che l’eccesso di attenzione mediatica avrebbe scoperto il bluff di
quelle Regioni del nord, in particolare la Lombardia, che si vantavano di un sistema sanitario di
eccellenza. Che il sistema sanitario lombardo abbia anche delle eccellenze di livello mondiale, non
c’è dubbio; ciò che però è venuto a mancare in questi anni di finanziamento pubblico a strutture
private come il San Raffaele, è stata quella base logistica che consentisse di fronteggiare le consuete
recrudescenze stagionali. Finché le morti per influenza avvenivano in relativo silenzio, tutto bene;
ma ora sotto i riflettori dei media allertati dal nuovo virus, le tare del mitico sistema sanitario
lombardo sarebbero venute alla luce. Per allontanare da sé l’onta dello smascheramento, la Regione
Lombardia avrebbe scelto la strada dell’enfatizzazione dell’emergenza sanitaria per discolparsi con
un alibi inattaccabile, confermato sia dalla propaganda cinese, sia dal solito lobbying delle

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multinazionali farmaceutiche, che storicamente caratterizza l’azione dell’Organizzazione Mondiale
della Sanità.
Si tratta di una ricostruzione molto fondata, che intravede però solo un aspetto dell’uso
dell’emergenzialismo. La Regione Lombardia non solo ha potuto costruirsi un alibi con cui coprire
le proprie annose magagne e i propri storici bluff, ma ha persino potuto scavalcare il governo per
esaltare il ruolo dell’autonomia regionale, tutto ciò in linea con la rivendicazione separatista.
L’emergenzialismo non è mai solo alibi, è sempre potere.
Nel momento in cui la Regione Lombardia ha lanciato strumentalmente l’emergenza, il governo si è
trovato di fatto con le spalle al muro. Si è detto che il Governo era di fronte ad una scelta: o privilegiare
subito l’aspetto sanitario e quindi bloccare l’economia, oppure, come hanno fatto altri Paesi
preservare l’attività economica per evitare che un crollo della produzione e dei consumi si traducesse
in un impoverimento tale da causare le condizioni di un peggioramento delle condizioni di vita con
la conseguente maggiore vulnerabilità alle malattie.
In realtà il Governo italiano questa possibilità di scelta non l’ha avuta e ciò a causa della collocazione
dell’Italia ai gradi infimi della gerarchia mondiale. Se l’Italia avesse adottato di fronte al virus una
linea analoga a quella degli USA, della Germania, della Francia e del Regno Unito, sarebbe stata
immediatamente accusata di nascondere quella “verità” che invece la Regione Lombardia segnalava.
Le gerarchie sono più pericolose dei virus. Per un mese si è andati avanti con l’assurdo di una
Lombardia sotto contagio, mentre la limitrofa Svizzera, continuamente attraversata dai frontalieri
italiani, sarebbe stata invece immune.
Ma, proprio perché l’emergenza è potere, era difficile che il contagio dell’emergenzialismo non si
diffondesse anche in quei Paesi che per la loro posizione gerarchica avrebbero potuto esimersi. Ad
esempio, il governo francese ha sfacciatamente approfittato del divieto alle manifestazioni imposto
col pretesto sanitario, per imporre quella “riforma” pensionistica bloccata da mesi di rivolte.
Lo spettacolo italiano di un intero popolo costretto agli arresti domiciliari (anzi, al 41 bis), ha indotto
molti commentatori a supporre che vi sia stata una regìa occulta per liquidare la democrazia. In realtà
la “democrazia” non c’è adesso ma non c’era mai stata neppure prima. Una delle fole più diffuse è
che il potere abbia bisogno del consenso, mentre in effetti il consenso ce l’ha perché è il potere. Se
c’è poi una categoria sopravvalutata è quella del consenso, di cui il potere, nel caso, può benissimo
fare a meno, come ci ha dimostrato Macron.
Regìe non ce ne sono state. L’emergenzialismo funziona in automatico come una cordata di interessi
che si agganciano e nell’emergenza ogni lobby va ad inzuppare il suo biscotto: le lobby delle
multinazionali farmaceutiche, le lobby delle multinazionali del parasanitario, le lobby delle
multinazionali delle piattaforme informatiche ed anche le lobby finanziarie, che nei crolli di Borsa

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hanno trovato modo di fare facili acquisizioni di posizioni azionarie in aziende di valore. Molti
commentatori hanno esplicitamente accusato la presidente della Banca Centrale Europea, Christine
Lagarde, di aver fatto dell’aggiotaggio con la sua dichiarazione di non voler comprimere gli spread,
poiché quelle dichiarazioni hanno innescato un ribasso dei titoli che è stato una manna per gli
speculatori. Vero. Questi aggiotaggi pero la BCE li faceva anche ai tempi di Draghi e sempre a scapito
delle banche italiane.
Ciò a cui assistiamo rientra in gran parte nel falso movimento. In effetti è una riconferma di
meccanismi già consolidati da tempo. Il problema è che l’emergenzialismo è un contagio che
coinvolge tutti i centri di potere, per cui ognuno ha da dire la sua, dai presidenti di Regione sino agli
amministratori condominiali. Il meccanismo è stato messo in moto e chissà quando si deciderà a
rallentare.

Cristian Fuschettodi - C'è chi pensa che il coronavirus sia un complotto dei governi
L’allarme per la diffusione di un virus giudicato pericoloso da scienziati, medici, ricercatori e sistemi sanitari di mezzo
mondo è uno scenario di fronte al quale l’idea stessa di un’epidemia inventata, come ha fatto Giorgio Agamaben, può
fare breccia solo su un immaginario desideroso di trovare conferme a ipotesi estreme di biopotere e in fin dei conti
antiscientifico.
[19 Marzo 2020 – AGI.it]

La filosofia deve forse difendere la scienza? Forse no. Senz’altro merita di essere difeso l’uomo che
vi si affida. È ora di riconoscere l’onestà di un gesto che, contro la critica del potere che assoggetta
la vita, prova a tessere l’elogio morale della scienza che la vita la salva. In questo viene in soccorso
un brevissimo testo che Emmanuel Lévinas scrisse ispirato dalla missione di Jurij Gagarin.
Lévinas guarda l’uomo volare nello spazio e, incantato come il resto dell’umanità da quell’impresa
senza precedenti, sente di assistere al manifestarsi di una potenza morale. Medici, scienziati,
ricercatori di tutto il mondo sono oggi come Jurij Gagarin, non sono la tecnica che sottomette, sono
invece l’umanità che osa.
Da quando la politica è diventata biopolitica, la medicina e i medici sono diventati quello che un
tempo erano la chiesa e i preti: strumenti quando non anche artefici del Potere. Oggi si governa in
nome della salute dei corpi e non più in quello della salvezza delle anime, e così gli antagonisti duri
e puri del sistema sono diventati, coerentemente, anche antagonisti della scienza e della medicina.
Decenni di imperante letteratura foucaltiana nei dipartimenti di filosofia hanno generato mostri
divenuti mainstream tra riviste, pagine culturali, intellettuali impegnati e giovani di belle speranze.

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Nel dibattito culturale italiano il discorso sul biopotere è finito per diventare un affluente del fiume
di per sé già abbastanza voluminoso dell’antiscientismo. I teorici del biopotere sono divenuti coreuti
del sospetto, osservatori ostili delle dinamiche della scienza medica e delle tecnologie. E ciò è
avvenuto, bisogna pur dirlo, nonostante Michel Foucault.

Nascita della biopolitica


Erano gli anni ’70, la filosofia e in particolare la filosofia politica era pressoché un’ancella delle
ideologie e Foucault ebbe il coraggio oltre che il genio di innovarne codici e linguaggi introducendo
nel teatro della critica al potere figure inedite come la medicina sociale, la demografia, la statistica.
Stato, ragion di stato, sovranità, legittimità diventano nei suoi corsi nozioni sempre più periferiche,
mentre spiega ai giovani studenti del College de France che già nel ‘700 il cuore del potere del sovrano
non consiste più nel poter condannare a morte i suoi sudditi ma diventa quello di far presa sulla vita
della popolazione, vale a dire che chi comanda comincia per la prima volta a considerare come suo
dovere politico occuparsi della natalità, della mortalità, dell’igiene e della morbilità di chi vive su un
determinato territorio.
Come se a un certo punto al cospetto del sovrano non ci fossero più dei soggetti di diritto ma solo
esseri viventi. “Si potrebbe dire – scrive Foucault ne La volontà di sapere – che al vecchio diritto di
far morire o di lasciar vivere si è sostituito un potere di far vivere o di respingere nella morte”. Nel
corso tenuto nel semestre del 1977-78 (su YouTube sono disponibili le registrazioni audio del corso),
Foucault spiega che “Non c’è la natura da una parte e, dall’altra, il sovrano e il rapporto di obbedienza
che gli si deve. Esiste invece una popolazione”. E la popolazione è molto diversa dal popolo, non è
un concetto politico ma demografico, medico e poi anche biologico. “La popolazione – precisa
Foucault – è tutt’altra cosa rispetto a una collezione di sudditi di diritto differenziati per statuto,
localizzazione, beni, cariche, uffici; essa è invece un insieme di elementi che, da un lato, si radicano
nel regime generale degli esseri viventi e, dall’altro, offrono un terreno di presa per trasformazioni
dettate dall’autorità, ma ponderate e calcolate”. Con Foucault la teoria politica si arricchisce e si
complica: scopre di dover fare i conti anche con la salute e le malattie.

Giorgio Agamben e l’epidemia inventata


Ad aver avuto il merito di sollevare nuovamente la questione del biopotere è stato in questi giorni
Giorgio Agamben, intellettuale finissimo universalmente apprezzato e, suo malgrado, sovente
idolatrato. Sarebbe ingenuo e forse ingeneroso definire Agamben un foucaultiano, certo è che il
successo del suo Homo sacer, pubblicato nel 1995 e poi oggetto di un lavoro notevolissimo che ha
tenuto impegnato il pensatore romano per più di 20 anni con altri nove volumi in cui sono stati

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introdotti nel dibattito filosofico concetti poi divenuti patrimonio comune della filosofia
contemporanea (come quello di “sacertas”, di “nuda vita”, di “campo”, di “forma-di-vita”, la
dicotomia “bios/zoe”), ha segnato come pochi altri e a livello globale la lettura del concetto di
biopolitica.
In quel testo Agamben introduce il concetto di stato di eccezione come “dispositivo” di potere, ne
traccia la genealogia nel diritto romano e arriva alla contemporaneità legandolo in primo luogo alle
crescenti misure di medicina sociale. Nelle sue istanze decisive, il potere fa appello a uno stato di
eccezione e revoca in questione la nuda vita. Oggi, ribadisce Agamben, “siamo in uno stato di
eccezione permanente” (qui l’intervento di Agamben all’Istituto Italiano di Studi Filosofici in cui
parla dello stato di eccezione).
Non è allora un caso che sia bastato un breve articolo di Agamben pubblicato sul Manifesto dedicato
all’emergenza innescata dall’epidemia di coronavirus a generare una nuova ondata di sospetti nei
confronti del potere che si esercita sulle nostre vite, del potere che in nome della salvaguardia della
salute avanza e conquista spazi i più intimi con buona grazia di cittadini ridotti a poco più di servitori
volontari. L’“invenzione di un’epidemia”, così il filosofo ha definito l’emergenza legata al diffondersi
del coronavirus.
“I media e le autorità si adoperano per diffondere un clima di panico, provocando un vero e proprio
stato di eccezione, con gravi limitazioni dei movimenti e una sospensione del normale funzionamento
delle condizioni di vita e di lavoro in intere regioni”. Com’è possibile che ciò accada? si domanda
Agamben. Si possono indicare due ragioni. La prima: si manifesta ancora una volta la tendenza
crescente a usare lo stato di eccezione come paradigma normale di governo. “Si direbbe che esaurito
il terrorismo come causa di provvedimenti d’eccezione, l’invenzione di un’epidemia possa offrire il
pretesto ideale per ampliarli oltre ogni limite”. La seconda: indurre stati di panico serve al potere per
rispondere alla crescente esigenza di rassicurazione. “Così, in un perverso circolo vizioso, la
limitazione della libertà imposta dai governi viene accettata in nome di un desiderio di sicurezza”.
La voce della scienza nel discorso di Agamben è relegata a un comunicato del Cnr che attesterebbe
la scarsa pericolosità del coronavirus, con dati di mortalità poco superiori a quelli di una normale
influenza. Tralasciando pure il fatto che non è così, che proprio i dati del Cnr non consentono di
minimizzare la pericolosità dell’epidemia divenuta intanto pandemia, è interessante notare che nello
scenario tracciato dal filosofo la medicina si presterebbe a svolgere il ruolo di complice di un potere
che in nome della scienza dispone della libertà degli uomini. Ci sarebbero spazi politici autentici
sottratti ai cittadini nel momento in cui prima che cittadini, cioè soggetti politici, donne e uomini
vengono considerati solo esseri viventi bisognosi di cure.

263
Medici e scienziati ingranaggi del potere?
Ad Agamben, tra gli altri, ha risposto il giorno dopo Jean Luc Nancy, che come Agamben ha dedicato
al rapporto tra scienze della vita, tecnica e potere lavori di grande peso. Nancy fa notare ad Agamben
che al suo ragionamento sfugge qualcosa. Agamben non vede che in un mondo tecnicamente
interconnesso, l’eccezione diviene la regola. “Non bisogna sbagliare il bersaglio: una civiltà intera è
messa in questione, su questo non ci sono dubbi. Esiste una sorta di eccezione virale – biologica,
informatica, culturale – che ci pandemizza. I governi non ne sono che dei tristi esecutori”. Le parole
di Nancy sono significative. Una civiltà intera è messa in questione perché in un mondo eretto sulla
tecnica, che poi sarebbe il mondo umano, non c’è spazio per qualcosa che somigli allo spazio puro di
un’esistenza autentica non contaminata dai saperi né dai poteri tecnologici. Nel mondo umano diventa
complicato persino distinguere tra vita e artificio, tra condizioni naturali e condizioni tecniche di
esistenza.
È per questo, conclude Nancy, che pensare a scienziati e medici come ingranaggi di un potere che
riduce spazi di libertà in nome di pandemie inventate finisce per somigliare “più a una manovra
diversiva che a una riflessione politica”. Nancy riporta poi l’episodio autobiografico di quando i
medici gli dissero che avrebbe dovuto operarsi al cuore (ne è venuto fuori un libro assai bello,
L’Intruso). “Giorgio fu una delle poche persone che mi consigliò di non ascoltarli. Se avessi seguito
il suo consiglio probabilmente sarei morto ben presto”.
La tesi dell’epidemia inventata come critica del potere sulla vita non ci parla solo di un’insofferenza
nei confronti del Potere, segnala un’insofferenza nei confronti della tecnica, di cui il medico e
l’epidemiologo non sono altro che maschere. Il discorso di Agamben è utile perché nella sua
semplicità e al di là delle intenzioni stesse del pensatore, esprime in modo cristallino il sospetto che
gran parte del pensiero filosofico nutre nei confronti della scienza e della tecnologia, saperi e poteri
tacciati di ridurre a meri oggetti natura e uomini.
“La medicina è una scienza; la professione medica un’arte fondata su di essa” scrive Hans Jonas. Il
sapere medico legittima l’esercizio di un potere tecnico sui corpi in nome del ripristino dei corpi allo
stato di salute. Nel caso del sapere epidemiologico l’intervento tecnico è sul corpo sociale ed è qui,
ne deducono molti interpreti del biopotere, che il sapere e la scienza mostrano la loro connivenza con
il Potere. La scienza medica, come tutte le scienze, si mostra come una forza che trasforma in oggetto
qualunque cosa su cui posi il suo sguardo. Scienza e tecnica diventano in fin dei conti altri nomi della
volontà della potenza. Agamben non sposa questa tesi ma pare difficile non trovare assonanze tra il
suo discorso e il radicale scetticismo di chi ha considerato scienza e tecnica strumenti di un potere
che non ha altri scopi se non quello di diventare più grande.

264
L’allarme per la diffusione di un virus giudicato pericoloso da scienziati, medici, ricercatori e sistemi
sanitari di mezzo mondo è uno scenario di fronte al quale l’idea stessa di un’epidemia inventata può
fare breccia solo su un immaginario desideroso di trovare conferme a ipotesi complottarde di
assoggettamento della politica alla scienza, della scienza alla tecnica e della tecnica a una volontà di
potenza che non vorrebbe altro che sé stessa. Si odono forti gli echi della lezione di Emanuele
Severino e dei suoi nuemrosi epigoni.

La lezione di Lévinas: è la tecnica a far brillare l’umanità dell’uomo


Ma in questi tempi, in questi giorni, più interessante che difendere scienza e tecnologia sarebbe
riuscire a difendere l’uomo che vi si affida. Sarebbe forse riuscire a sfoggiare contro la critica del
potere che assoggetta la vita l’elogio morale della scienza che la vita la salva. Per poterlo fare ci viene
in soccorso un brevissimo testo che Emmanuel Lévinas scrisse ispirato dalla missione di Jurij Gagarin
nello spazio nell’aprile del 1961 (qui il video dell’impresa di Gagarin). In Heidegger, Gagarin e noi,
il più grande filosofo morale del XX secolo, apprezzatissimo dallo stesso Agamben, fa i conti con il
simbolo stesso della potenza tecnologica raggiunta dall’uomo, la conquista dello spazio, e al contrario
dei filosofi che vi intravedevano minacce lui vi scorgeva speranze. “Sarebbe urgente – scrive Lévinas
– difendere l’uomo contro la tecnologia del nostro secolo. L’uomo vi avrebbe persa la sua identità
per entrare come un ingranaggio in un’immensa macchina dove ruotano cose ed esseri. Ormai esistere
equivarrebbe a sfruttare la natura”. La tecnica è pericolosa, potrebbe far saltare il pianeta, ci minaccia
tutti. Eppure, mette subito in chiaro Lévinas, “I nemici della società industriale, per lo più, sono dei
reazionari”. Lévinas ce l’ha con Heidegger e con gli heideggeriani, addita apertamente questa
“prestigiosa corrente del pensiero moderno proveniente dalla Germania e che inonda i recessi pagani
della nostra anima occidentale”. Secondo questa corrente di pensiero “Gli uomini avrebbero perso il
mondo. Essi non conoscerebbero più altro che la materia posta davanti a loro, opposta (objectée) in
qualche modo alla loro libertà, essi non conoscerebbero altro che oggetti”.
È questa la cornice intellettuale, quasi una mentalità, che ha dato senso alla retorica del luogo, al mito
dell’autenticità del radicamento contro la violenza sradicante della tecnica. Il pensiero razionale, la
logica che neutralizza la natura e la trasforma in oggetto conoscibile allontana l’uomo dal “mistero
delle cose”, ci insegna Lévinas, e fa brillare il volto umano nella sua nudità. Lévinas ci parla di una
tecnica molto diversa rispetto quella che imperverserà nel dibattito tanto caro agli heideggeriani,
severiniani, galimbertiani e per molti versi agambeniani, che continuano a vederla attraverso
l’esclusiva lente deformante di una volontà di potenza che nasconderebbe agli uomini la verità delle
cose, che ci priverebbe di un mondo umano e di un’esistenza autentica, che restringerebbe la nostra
libertà a causa, per esempio, di emergenze inventate.

265
Lévinas guarda l’uomo volare nello spazio e, incantato come il resto dell’umanità da quell’impresa
senza precedenti, sente di assistere al manifestarsi di una potenza morale. “Ciò che è ammirevole
nell’impresa di Gagarin non è certamente il suo magnifico numero da luna-park che impressiona le
folle. […] Ciò che conta […] è la scienza che ha reso possibile l’impresa e tutto ciò che, a sua volta,
suppone di spirito di abnegazione e di sacrificio. Ma forse, ciò che conta sopra tutto, è aver
abbandonato il Luogo. Per un’ora un uomo è esistito al di fuori di ogni orizzonte – intorno a lui tutto
era cielo, o, più esattamente, tutto era spazio geometrico. Un uomo esisteva nell’assoluto dello spazio
omogeneo”. Per un'ora l'uomo è stato l'umanità. Gli uomini e le donne impegnati negli ospedali,
professionisti di un’arte che si radica nella scienza, infermiere stremate e crollate sulla tastiera di un
computer, ricercatori che con la potenza di calcolo di server interconnessi su un globo diventato un
unico immenso paese tracciano le evoluzioni di un’epidemia tutt’altro che inventata, matematici che
grazie a sofisticati algoritmi ne spiegano le traiettorie, scienziati che in corsa contro il tempo studiano
e testano potenziali vaccini grazie a banche dati enormi e sistemi di intelligenza artificiale ormai in
grado di figurare una sintesi tra supercomputer e homo sapiens, tutti loro come Gagarin nel 1961 sono
anch’essi sulla frontiera di un assoluto.
Come Gagarin, sono anch’essi l’umanità che osa.

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Dario Accolla - Runner, untori e il bisogno di odiare chi esce da casa


[19 Marzo 2020 – Linkiesta.it]

L'immagine dei settanta mezzi militari che portano le salme delle vittime di coronavirus fuori da
Bergamo, per condurle nei forni crematori delle località vicine, ci riporta l'esatta dimensione della
tragedia che stiamo vivendo. Anche come spettatori passivi, nella solitudine delle nostre dimore.
Quell'immagine ci mette in contatto con l'emergenza reale dei luoghi maggiormente colpiti
dall'infezione: troppi contagi, un sistema sanitario quasi al collasso, l'enorme numero dei decessi.
Quell'immagine, insieme all'orrore che ha suscitato, mi riporta a una reminiscenza scolastica: il carro
con i cadaveri delle persone colpite dalla peste, così come descritto nel XXXI capitolo de I promessi
sposi. Manzoni così scriveva: «I cadaveri di quella famiglia furono, d'ordine della Sanità, condotti al
cimitero suddetto, sur un carro, ignudi, affinché la folla potesse vedere in essi il marchio manifesto
della pestilenza. Un grido di ribrezzo, di terrore, s'alzava per tutto dove passava il carro; un lungo
mormorìo regnava dove era passato; un altro mormorìo lo precorreva».

266
Non voglio ovviamente sostenere che i mezzi militari siano stati consegnati alla visione del pubblico
per generare un effetto simile a quello descritto dallo scrittore lombardo – la misura si rese necessaria
per far capire al popolo ancora titubante che il contagio di peste c'era davvero – ma l'eco della paura
che queste immagini si lasciano dietro, con il mormorio che precede e segue, è di natura analoga. A
rileggere i due capitoli che parlano della peste a Milano si possono rintracciare straordinarie
somiglianze con quanto tutti e tutte noi stiamo vivendo adesso, man mano che i numeri sui contagi e
le vittime vengono aggiornati a cadenza quotidiana. E a parer mio, quelle pagine andrebbero rilette
per capire un po' meglio cosa sta succedendo nell'Italia del 2020 che si trova a dover gestire il Covid-
19.
Facciamo un passo in avanti, rispetto a I promessi sposi, e torniamo alla nostra quotidianità. Riporto
le parole di un mio contatto su Facebook. Si chiama Paola (nome di fantasia) e lavora in fabbrica. È
una di quelle persone che non possono stare a casa, insomma, e scrive: «Sono stanca.
Psicologicamente e fisicamente stanca. Esco dal lavoro e mi fermo al semaforo rosso. Ho giù il
finestrino, mi godo il sole. Sento un urlo "stai a casa assassina! Dovete stare a casa sennò ci uccidete
tutti!". Mi giro e dalla cascina che costeggia la strada, una tizia alla finestra sta gridando. Proprio
rivolta a me». La donna alla finestra l'ha vista fuori casa e la sua reazione è violenta. «Una tizia che
non mi conosce, che non sa nulla della mia vita, non sa perché sono fuori casa, si sente in diritto di
gridarmi le sue frustrazioni dalla finestra. Non ci siamo mai viste prima ma lei, sicura tra le mura
domestiche intenta a salvare il mondo, giudica me, l'assassina fuori casa senza motivo». Non è l'unico
caso. Tra le bacheche dei miei amici, il "restare a casa" è più di un obbligo dovuto a una misura
governativa. È un discrimine morale. Fa la differenza tra la vita e la morte. E se esci diventi un
assassino. In automatico.
Tornando alla peste di Milano e a I promessi sposi, ciò che Manzoni scrive di quel contagio è analogo
a molte cose che abbiamo visto nelle settimane passate. All'inizio pochi casi, qua e là, nel territorio.
Alle voci lontane di ciò che avveniva altrove, il popolo ha prima minimizzato, sottovalutando le prime
avvisaglie d'allarme: «Ma [...] ciò che fa nascere un'altra e più forte maraviglia, è la condotta della
popolazione medesima, di quella, voglio dire, che, non tocca ancora dal contagio, aveva tanta ragion
di temerlo. [...] sulle piazze, nelle botteghe, nelle case, chi buttasse là una parola del pericolo, chi
motivasse peste, veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo iracondo».
Nel romanzo troviamo anche la necessità di trovare un paziente zero: «Il Tadino e il Ripamonti vollero
notare il nome di chi ce la portò il primo, e altre circostanze della persona e del caso» possiamo
leggere. L'autore ricorda che «nasce una non so quale curiosità di conoscere que' primi e pochi nomi
che poterono essere notati e conservati». Dopo di che, non appena ci si convince che il problema è
reale, scatta un secondo meccanismo: trovare una categoria sulla quale far ricadere la colpa di quanto

267
avvenuto. Ne I promessi sposi questa categoria era quella dell'untore: «Contro di essi» leggiamo sul
sito della Treccani, «si scatenò spesso l’ira popolare, e si dette anche corso a persecuzioni
giudiziarie». Gli untori nell'Italia di oggi non sono persone che impiastrano i muri con sostanze
appiccicose e unte. Sono, invece, quanti e quante decidono di uscire di casa.
E oggi, come nella Milano della peste, le persone affacciate ai balconi o connesse ai social sul proprio
monitor del computer osservano attente per scoprire chi "infrange la legge", con tanto di delazioni e
fotografie e pubblicate su Facebook, per consegnare alla gogna pubblica il colpevole di turno: «Gli
animi, sempre più amareggiati dalla presenza de' mali» leggiamo nel XXXII capitolo, questa volta, e
«irritati dall'insistenza del pericolo, abbracciavano più volentieri quella credenza: ché la collera aspira
a punire: [...] le piace più d'attribuire i mali a una perversità umana, contro cui possa far le sue
vendette, che di riconoscerli da una causa, con la quale non ci sia altro da fare che rassegnarsi». E
quindi: «Con una tal persuasione che ci fossero untori, se ne doveva scoprire, quasi infallibilmente:
tutti gli occhi stavano all'erta». La parola che oggi sembra aver sostituito "untore", con tanto di
trasmigrazione di significato, è quella di runner. Coloro che vanno a fare attività fisica all'aperto. E,
più in generale, chi non sta a casa.
Uscire all'aperto per fare attività fisica è qualcosa che i decreti attualmente in vigore permettono
(sebbene alcuni enti locali hanno già avviato delle restrizioni). Si legge, infatti, sul sito del Ministero
dell'Interno alla voce "Spostamenti": «L’attività motoria all’aperto è consentita purché non in gruppo.
Sono sempre vietati gli assembramenti». Mi rendo conto che, nel momento in cui scrivo – giovedì 19
marzo, ore 13:21 – questa possibilità è messa in discussione. Ancora in troppi non si rendono conto
della differenza tra poter usufruire di una libertà e abusarne. E, come avviene spesso, il rischio è
quello che la venga tolta a chiunque. Eppure fare attività fisica è, per ora, permesso. Da soli e
mantenendo le distanze di sicurezza.
È una questione di salute, anche mentale. Non tutte le persone vivono in appartamenti grandi. Non
tutte le persone hanno un balcone o un terrazzo fiorito, dove prendere il sole. Molte persone hanno
bisogno di un momento all'aria aperta – e parlo di chi si comporta con senso di responsabilità – per
ragioni di equilibrio psico-fisico. E la salute mentale è salute. Tutto questo per dire, anche, che
andrebbe tenuta ben presente una differenza tra chi si avvale di tale possibilità seguendo le regole e
chi ne abusa. Gridare, indistintamente, assassino a chiunque (come Paola, magari, che va a lavoro
perché deve) è un modo come un altro di avvelenare il clima sociale. E ciò non è salutare.
Non sono l'unico che si interroga sull'enormità di questo atteggiamento collettivo, per cui il runner –
novello untore – o chi va fuori casa, per svariati motivi, è visto come un criminale da additare e punire,
senza se e senza ma. «Siamo sicuri davvero» si interroga Giulio Cavalli su Left «che sia scoppiato
tutto questo enorme improvviso senso civico e invece non covi da qualche parte, sotto la brace, l’ansia

268
di potere dare una faccia e un nome a un colpevole qualsiasi per avere la soddisfazione di odiare e di
sentirsi assolti come serenamente e quotidianamente avveniva prima del Coronavirus? Chiedo, eh».
Silvia Kuna Ballero, sul suo blog, scrive parole più che condivisibili. Riporto uno stralcio: «Chi crede
seriamente che prendere una boccata d’aria per strada in sicurezza sia una grave violazione del senso
civico sta sostenendo un pensiero non molto diverso dalla superstizione. Sta negando la possibilità,
vivaddio data al cittadino, di valutare le circostanze per agire in modo responsabile gestendo i margini
di libertà che gli sono dati (il che non vuol dire aggirare la legge, dato che è proprio la legge che
fornisce questi margini)». Insomma, torna il discorso sulla differenza tra atteggiamento responsabile
e abuso.
Atteniamoci dunque sempre alle disposizioni in vigore – con le eventuali ed ulteriori restrizioni del
caso – e cerchiamo di non essere noi stessi/e, in buona sostanza, il veicolo di un altro tipo di virus:
quello dell'odio. Di chi ha bisogno di un capro espiatorio che prima era il migrante che viene a mettere
a repentaglio la nostra civiltà, poi è il cinese che viene a contagiarci e adesso è chiunque esca di casa,
atto fisico che sarebbe sufficiente ad uccidere chicchessia e a vanificare il lavoro del personale delle
professioni sanitarie. Il virus non è un uccello che vola via dal nostro corpo nel momento in cui
lasciamo le nostre dimore per aggredire persone tanto ignare quanto più meritevoli, per il solo fatto
di rimanere chiuse nei propri appartamenti.
Il virus è qualcosa che viene trasmesso anche a causa di comportamenti irresponsabili. Cerchiamo di
valutare, dunque, quei singoli comportamenti. E, quando non abbiamo gli strumenti per valutarli,
cerchiamo di rimanere in silenzio. Sempre preferibile, quando non si hanno validi argomenti per
suffragare le proprie ipotesi. O il rischio è quello di gridare all'untore. Con tutto ciò che ne consegue,
con il suo carico di violenza e irrazionalità. Lo ha già scritto Manzoni, nelle pagine del suo romanzo.
Sarebbe il caso di andare a rileggerlo.

Judith Butler - Capitalism Has its Limits


Judith Butler discuss the COVID-19 pandemic, and its escalating political and social effects in America.
[19 Marzo 2020 – Versobooks.com]

The imperative to isolate coincides with a new recognition of our global interdependence during the
new time and space of pandemic. On the one hand, we are asked to sequester ourselves in family
units, shared dwelling spaces, or individual domiciles, deprived of social contact and relegated to
spheres of relative isolation; on the other hand, we are faced with a virus that swiftly crosses borders,

269
oblivious to the very idea of national territory. What are the consequences of this pandemic for
thinking about equality, global interdependence and our obligations toward one another? The virus
does not discriminate. We could say that it treats us equally, puts us equally at risk of falling ill, losing
someone close, living in a world of imminent threat. By the way it moves and strikes, the virus
demonstrates that the human community is equally precarious. At the same time, however, the failure
of some states or regions to prepare in advance (the US is now perhaps the most notorious member
of that club), the bolstering of national policies and the closing of borders (often accompanied by
panicked xenophobia), and the arrival of entrepreneurs eager to capitalize on global suffering, all
testify to the rapidity with which radical inequality, which includes nationalism, white supremacy,
violence against women, queer, and trans people, and capitalist exploitation find ways to reproduce
and strengthen their powers within the pandemic zones This should come as no surprise.
The politics of health care in the US brings this into relief in a distinctive way. One scenario we can
already imagine is the production and marketing of an effective vaccine against COVID-19. Clearly
eager to score political points that will secure his reelection, Trump has already sought to buy (with
cash) exclusive US rights to a vaccine from a German company, CureVac, funded by the German
government. The German Health Minister, who could not have been pleased, confirmed to the
German press that the offer was proffered. One German politician, Karl Lauterbach, remarked: "The
exclusive sale of a possible vaccine to the USA must be prevented by all means. Capitalism has
limits." I presume he objected to the “exclusive use” provision and would be no more pleased with
the same provision, were it to apply to Germans only. Let us hope so, because we can imagine a world
in which European lives are valued above all others – we see that valuation playing out violently at
the borders of the EU.
It makes no sense to ask again, what was Trump thinking? The question has been posed so many
times in a state of utter exasperation that we cannot possibly be surprised. That does not mean that
our outrage lessens with every new instance of unethical or criminal self-aggrandizement. If he were
successful in his effort to buy the potential vaccine and restrict its use to US citizens only, does he
believe that US citizens will applaud his efforts, thrilled by the idea that they are delivered from a
mortal threat when other peoples are not? Will they really love this kind of radical social inequality,
American exceptionalism, and affirm his self- described “brilliant” way of cutting a deal? Does he
imagine that most people think, that the market should decide how the vaccine is developed and
distributed? Is it even thinkable within his world to insist upon a world health concern that should
transcend market rationality at this time? Is he right to presume that we also live within the parameters
of such an imagined world? Even if such restrictions on the basis of national citizenship do not come
to apply, we will surely see the wealthy and the fully insured rush to secure access to any such vaccine

270
when it becomes available, even if the mode of distribution guarantees that only some will have that
access and others will be abandoned to continuing and intensifying precarity. Social and economic
inequality will make sure that the virus discriminates. The virus alone does not discriminate, but we
humans surely do, formed and animated as we are by the interlocking powers of nationalism, racism,
xenophobia, and capitalism. It seems likely that we will come to see in the next year a painful scenario
in which some human creatures assert their rights to live at the expense of others, re-inscribing the
spurious distinction between grievable and ungrievable lives, that is, those who should be protected
against death at all costs and those whose lives are considered not worth safeguarding against illness
and death.
All this takes place against the US presidential contest in which Bernie Sanders’ chances of securing
the Democratic nomination seem now to be very remote, though not statistically impossible. The
new projections that establish Biden as the clear front-runner are devastating during these times
precisely because both Sanders and Warren stood for Medicare for All, a comprehensive public
healthcare program that would guarantee basic health care to everyone in the country. Such a program
would put an end to the market-driven private insurance companies who regularly abandon the sick,
mandate out-of-pocket expenses that are literally unpayable, and perpetuate a brutal hierarchy
between the insured, the uninsured, and the uninsurable. Sanders’ socialist approach to healthcare
might more aptly be described as a social democratic perspective that is not substantially different
from what Elizabeth Warren put forth in the earlier stages of her campaign. In his view, medical
coverage is a “human right” by which he means that every human has a right to the kind of health
care that they require. But why not understand it as a social obligation, one that follows from living
in society with one another? To compel popular consensus on such a notion, both Sanders and Warren
would have to convince the American people that we want to live in a world in which none of us
denies health care to any of the rest of us. In other words, we would have to agree to a social and
economic world in which it is radically unacceptable that some would have access to a vaccine that
can save their lives when others should be denied access on the grounds that they cannot pay or could
not secure insurance that would pay.
One reason I voted for Sanders in the California primary along with a majority of registered
Democrats is that he, along with Warren, opened up a way to re-imagine our world as if it were
ordered by a collective desire for radical equality, a world in which we came together to insist that
the materials that are required for life, including medical care, would be equally available no matter
who we are or whether we have financial means. That policy would have established solidarity with
other countries that are committed to universal health care, and so would have established a
transnational health care policy committed to realizing the ideals of equality. The new polls emerge

271
that narrow the national choice to Trump and Biden precisely as the pandemic shuts down everyday
life, intensifying the precarity of the homeless, the uninsured, and the poor. The idea that we might
become a people who wishes to see a world in which health policy is equally committed to all lives,
to dismantling the market’s hold on health care that distinguishes among the worthy and those who
can be easily abandoned to illness and death, was briefly alive. We came to understand ourselves
differently as Sanders and Warren held out this other possibility. We understood that we might start
to think and value outside the terms that capitalism sets for us. Even though Warren is no longer a
candidate, and Sanders is unlikely to recover his momentum, we must still ask, especially now, why
are we as a people still opposed to treating all lives as if they were of equal value? Why do some still
thrill at the idea that Trump would seek to secure a vaccine that would safeguard American lives (as
he defines them) before all others? The proposition of universal and public health reinvigorated a
socialist imaginary in the US, one that must now wait to become realized as social policy and public
commitment in this country. Unfortunately, in the time of the pandemic, none of us can wait. The
ideal must now be kept alive in the social movements that are riveted less on the presidential campaign
than the long term struggle that lies ahead of us. These courageous and compassionate visions mocked
and rejected by capitalist “realists” had enough air time, compelled enough attention, to let increasing
numbers – some for the first time – desire a changed world.
Hopefully we can keep that desire alive.

Il capitalismo è giunto al suo limite


Nel tempo e nello spazio della pandemia, l’imperativo di isolarsi costituisce un’inedita forma di
riconoscimento della nostra interdipendenza globale. Ci viene chiesto di auto-segregarci all’interno di unità
familiari, condividendo spazi vitali o domicili privi di contatto sociale, relegandoci in sfere di relativo
isolamento, proprio mentre un virus attraversa disinvoltamente i confini, letteralmente ignaro della nozione
di “territorio nazionale”. Quali conseguenze sortisce questa pandemia sul modo in cui pensiamo
l’uguaglianza, l’interdipendenza globale e le nostre reciproche obbligazioni? Il virus non fa alcuna
discriminazione. Si potrebbe dire che ci tratta in modo egualitario, mettendoci di fronte all’uguale rischio di
ammalarci, di perdere chi amiamo, di vivere sotto una cappa di minaccia imminente. Nel modo in cui si muove
e colpisce, il virus illumina dunque l’uguale precarietà della comunità umana. Al contempo, il fatto che alcuni
stati e regioni abbiano mancato di prepararsi in modo adeguato alla possibilità di una pandemia (e gli Stati
Uniti sono i membri più illustri di questa cricca), passando il loro tempo a implementare politiche nazionaliste
di chiusura dei confini (dando spesso man forte a forme deliranti di xenofobia) e il conseguente arrivo sulla
scena di imprenditori senza scrupoli pronti a fare profitti sulla sofferenza globale, testimoniano della pari
rapidità con cui la disuguaglianza radicale trova modi per riprodursi e per rafforzare il suo potere nelle zone
maggiormente colpite dall’epidemia. Non sorprende, chiaramente. Si tratta di quella disuguaglianza radicale
che permea proprio il nazionalismo, il suprematismo bianco, la violenza eteropatriarcale, lo sfruttamento

272
capitalistico. La politica sanitaria statunitense consente di cogliere questo aspetto in modo peculiare.
Abbiamo già alcuni elementi che consentono di immaginare lo scenario relativo alla produzione e alla vendita
di un vaccino contro il Covid-19. Chiaramente desideroso di accumulare punti politici che gli assicurino la
rielezione, Trump ha tentato di comprarsi (con dollari alla mano) l’esclusiva statunitense sul vaccino da una
industria tedesca, la CureVac, fondata dallo stesso governo nazionale. Il ministro della salute della Germania,
non particolarmente lieto dell’offerta di Trump, l’ha poi effettivamente confermata alla nazione, e un politico
tedesco, Karl Lauterbach, ha chiosato: «La vendita esclusiva di un possibile vaccino agli Stati Uniti deve
essere prevenuta con ogni mezzo. Il capitalismo ha dei limiti». Chiaramente, mi auguro che Lauterbach si
stesse opponendo all’“uso esclusivo” del vaccino da parte degli Stati Uniti, e che sarebbe ugualmente
contrario nel caso in cui un vaccino diventasse prerogativa della sola Germania. C’è infatti da scongiurare
l’uguale pericolo di un mondo in cui le vite di alcuni europei sarebbero più importanti di altre – metro di
giudizio che già vediamo violentemente all’opera ai confini dell’Unione Europea. La mia idea è che siamo
arrivati a un punto in cui non ha più senso chiedersi a cosa starà pensando Trump. Ce lo siamo chiesti così
tante volte, in condizioni di così grande esasperazione, che non ci sorprende più nulla. Ciò non significa certo
che il nostro sdegno diminuisca a ogni sua nuova uscita immorale o criminale. Ma, supponiamo, nel caso in
cui riuscisse nel suo intento di comprare l’esclusiva sul potenziale vaccino, restringendone l’accesso ai soli
cittadini statunitensi, Trump crede che costoro plaudiranno alla sua impresa, eccitati all’idea di sentirsi
sollevati dalla minaccia della morte, mentre il resto della popolazione nel mondo non lo è affatto? Trump
crede che il suo popolo apprezzerà questa forma di disuguaglianza sociale radicale e di “eccezionalismo
americano” e che appoggerà il suo modo «brillante» (come lui stesso lo definisce) di concludere un affare?
Trump ritiene forse che la maggior parte delle persone condivida l’idea che debba essere la logica
capitalistica a decidere della produzione e della distribuzione di un vaccino? Nella sua idea di mondo è
contemplata l’ipotesi di una politica sanitaria globale in grado di trascendere la razionalità di mercato? Ha
ragione, Trump, di sospettare che i parametri di questo mondo immaginario siano già quelli in cui ci troviamo
a vivere questa circostanza? Infatti, anche nel caso in cui l’applicazione di restrizioni all’accesso al vaccino
sulla base dell’appartenenza nazionale dovesse restare solo un delirio, assisteremmo sicuramente a una gara
al miglior offerente quando sarà disponibile, nonché a un modo di distribuzione che garantirà un accesso
limitato, accrescendo forme di abbandono sociale e intensificando la precarietà. A rendere discriminatoria
l’azione del virus, in altre parole, sarà la disuguaglianza sociale ed economica. Il virus, di per sé, non
discrimina: siamo noi umani a farlo, costituiti e animati come siamo dai poteri del nazionalismo, del razzismo,
della xenofobia, del capitalismo. Sembra alquanto probabile che da qui a un anno assisteremo a uno scenario
raccapricciante in cui alcune vite rivendicheranno il proprio diritto di vivere alle spese di altre vite,
riscrivendo in modo inedito la distinzione tra vite degne di lutto e vite indegne, ossia tra vite che meritano di
essere protette a ogni costo dalla malattia e dalla morte e vite considerate invece immeritevoli di questa stessa
salvaguardia. Come se non bastasse, tutto ciò si verifica nel contesto della campagna elettorale statunitense,
in cui le possibilità per Bernie Sanders di diventare il candidato democratico sembrano a dir poco remote, se
non statisticamente impossibili. Le nuove proiezioni che indicano al contrario Joe Biden sono devastanti,

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specialmente alla luce del fatto che sia Sanders sia Elizabeth Warren avevano nel loro programma Medicare
for All, una forma di politica sanitaria universale che avrebbe garantito un’assistenza di base a chiunque,
negli Stati Uniti. Un programma del genere avrebbe chiaramente messo fine al sistema delle assicurazioni
private regolato dal mercato, che puntualmente abbandona alla propria morte chi non può permettersi
un’assicurazione dai costi a dir poco esorbitanti, e che perpetua una brutale gerarchia tra “assicurati”, “non
assicurati” e “non assicurabili”. L’approccio alla sanità presentato come socialista di Sanders era in realtà
una forma di socialdemocrazia non molto diversa da quella sostenuta anche da Warren nei primi stadi della
sua campagna elettorale. Secondo Sanders, il diritto alle cure mediche è un “diritto umano”: ciò significa che
ciascun essere umano avrebbe diritto al tipo di cure mediche di cui necessita. Eppure, perché non intendere
le cure mediche come una forma di obbligazione sociale, che deriva dal mero fatto di vivere insieme in società?
Per ottenere consenso popolare attorno a una simile concezione, Sanders e Warren avrebbero dovuto
convincere la società americana del fatto che vogliamo vivere in un mondo in cui il bisogno individuale di
cure mediche non si fonda sulla negazione del bisogno altrui – in un mondo sociale ed economico, in altre
parole, in cui sarebbe radicalmente inaccettabile che l’accesso a un vaccino salvavita costituisse prerogativa
di alcuni a scapito di altri, per il semplice fatto che questi altri non possono permetterselo economicamente,
né possono permettersi un’assicurazione. Una delle ragioni per le quali ho dato il mio voto a Sanders nelle
primarie della California (in cui i democratici costituiscono la maggioranza), è che insieme a Warren ha
consentito di iniziare a re-immaginare il mondo sulla base di nuovi presupposti, come se questo mondo potesse
essere governato da un desiderio collettivo per l’uguaglianza radicale: un mondo in cui saremmo ad esempio
d’accordo nel ritenere che i beni materiali necessari alla vita, proprio come le cure mediche, dovrebbero
essere ugualmente accessibili, a prescindere da chi siamo e da quali siano le nostre disponibilità economiche.
Una politica di questo tipo si fonderebbe sulla solidarietà con le altre nazioni impegnate anch’esse
nell’implementazione di una politica sanitaria globale, così da istituire una politica transnazionale, volta a
realizzare l’ideale dell’uguaglianza. Tutto il contrario, in altre parole, da ciò che si evince dagli ultimi
sondaggi: il futuro confronto tra Trump e Biden, proprio mentre la pandemia sconvolge la vita quotidiana,
promette un’intensificazione della precarietà di chi non ha una casa, un’assicurazione sanitaria e un reddito.
L’idea che saremmo potuti diventare un popolo desideroso di un mondo in cui la politica sanitaria avrebbe
distribuito egualmente le proprie risorse tra tutte le vite e in cui sarebbe stato distrutto il monopolio
capitalistico sulle cure mediche, da cui dipende la distinzione tra chi merita di vivere e chi di morire
abbandonato alla propria malattia, ha avuto vita breve. Abbiamo preferito continuare a pensarci
diversamente dalla possibilità offertaci da Sanders e Warren. Spero che ora inizieremo a comprendere
diversamente la necessità di pensare e giudicare al di fuori dei termini che il capitalismo regolarmente
appronta per noi. Warren non è più tra i candidati ed è poco probabile che Sanders recuperi il suo slancio
iniziale. Ma noi dobbiamo continuare a chiederci, specialmente in un momento come questo: perché siamo
così ostili nei riguardi dell’idea che tutte le vite abbiano un eguale valore? Perché così tante persone godono
all’idea che Trump possa assicurarsi l’esclusiva su un vaccino in grado di salvaguardare le «vite americane»
(come le definisce lui) a scapito di altre? La proposta di una politica sanitaria universale e pubblica ha

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indubbiamente riacceso un’immaginazione socialista negli Stati Uniti, anche se una simile immaginazione
dovrà pazientare ancora per essere realizzata in termini di politica sociale e di impegno pubblico. La sfortuna
è che nessuno, in tempo di pandemia, può più aspettare. La realizzazione di un ideale di uguaglianza radicale
deve essere portata avanti dai movimenti sociali meno impegnati nelle campagne elettorali e più nelle lunghe
lotte che si aprono davanti a noi. Anche perché visioni come queste, animate dal coraggio e dalla compassione,
respinte e ridicolizzate dai “realisti” asserviti al capitalismo, sono state in grado, per la prima volta dopo
molto tempo, di guadagnare attenzione mediatica e di far crescere consenso attorno al desiderio di cambiare
il mondo.
Possa non abbandonarci la speranza di mantenere vivo questo desiderio.

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Gaetano Azzariti - I pieni e solitari poteri del capo del governo extraordinem
Stati di eccezione. Quel che più preoccupa è l’idea che in fondo si può uscire dall’emergenza con nuove, straordinarie
regole anche per l’ordinaria amministrazione.
[19 Marzo 2020 – il Manifesto]

Come tutelare la nostra democrazia costituzionale dalla pandemia? Anzitutto riconoscendo lo stato
di necessità nel quale siamo precipitati, ma negando al tempo stesso ogni possibile generalizzazione.
Lo stato d’eccezione non è il paradigma fondativo le nostre comunità politiche, non è la regola, non
può neppure essere legittimato come strumento di governo, deve invece nei limiti del possibile essere
circoscritto. Se, infatti, non si può negare che la necessità “di fatto” assurga a fonte autonoma qualora
provvedimenti siano necessari per fronteggiare esigenze improvvise e imprevedibili che mettono in
discussione l’esistenza stessa dello Stato e della comunità di riferimento, non si deve accettare che
terminato lo “stato di necessità” la rottura delle regole prosegua. In alcuni casi è la stessa costituzione
a indicare i limiti dell’eccezione, in altri tutto avviene fuori da ogni previsione normativa, nel vuoto
delle norme.
Così mentre la nostra costituzione prevede espressamente che si possano limitare le libertà di
circolazione e di riunione per motivi di sanità, sicurezza o incolumità pubblica, essa appare più
indeterminata sugli strumenti e i modi per far concretamente fronte ad una tale evenienza. Stabilisce
– all’articolo 16 – che sia la legge in via generale a porre limiti, ma quali siano le specifiche misure
da adottare non può essere stabilito “in via generale”.
Per questo si espande la responsabilità del Governo il quale dovrà adottare i provvedimenti necessari.
Nel caso del Coronavirus l’attuale esecutivo ha adottato una serie di decreti legge (atti aventi forza di
legge), ma, soprattutto, ha definito le specifiche norme di attuazione – legittimate non dalla

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costituzione bensì dallo stesso decreto – con una serie di Dpcm, ovvero atti cui è responsabile il
Presidente del consiglio dei ministri, sentiti altri responsabili politici (ministri o presidenti di regione),
senza alcun intervento formale né del presidente della Repubblica, che non emana tali atti, né del
Parlamento, che non converte simili decreti.
Dunque, una piena e solitaria assunzione di responsabilità politica del Presidente del consiglio in
carica in materia di diritti fondamentali del cittadino.
È una prassi conforme a quanto la costituzione ha stabilito? Direi di no. Sono atti illegittimi? Anche
in questo caso darei una risposta negativa. È l’autoassunzione di un potere extraordinem che si
legittima per via di necessità. Posta in questi termini credo si comprenda bene come non si possano
sottovalutare né le esigenze che muove il Governo a salvaguardare la salute pubblica in una situazione
di fatto di estremo pericolo, né la necessità di delimitare il più possibile – nel tempo e nel contenuto
– le deroghe o le sospensioni della legalità ordinaria.
Anche il Parlamento è sotto shock e sta adottando misure di necessità. La distanza tra quel che
dovrebbe fare e quel che può fare è abissale. La costituzione assegna proprio alle Camere il controllo
e le decisioni finali negli stati di emergenza, ma in questo momento appare paralizzato, avendo
stabilito di sospendere le sedute, non riuscendo neppure più a votare in fretta a furia i provvedimenti
necessari per far fronte alla pandemia.
Si possono criticare le decisioni organizzative assunte che appaiono del tutto arrese difronte ai pur
sconvolgenti avvenimenti (lo ha fatto su queste pagine Massimo Villone e dunque non vi torneremo),
ma quel che ancor più preoccupa è l’idea che si sta diffondendo: che in fondo dalla tragedia si può
uscire con nuove e più efficienti regole che valgano anche per il futuro, nell’ordinaria
amministrazione.
È il caso esemplare del voto a distanza. Personalmente credo che anche in questa fase di necessità si
possano trovare modalità organizzative per assicurare un voto in presenza garantendo tutte le misure
di sicurezza necessarie (voto scaglionato e tempi dilazionati), ma non è questo il problema di fondo:
ammesso che si ritenga che lo stato di necessità imponga una tale misura, bisognerebbe almeno
riconoscere che si tratta di una deroga legittimata dallo stato di necessità, non certo una regola da
introdurre per migliorare l’efficienza dei lavori del Parlamento.
In fondo – se così ci si dovesse orientare – vista la “necessità” e considerata la natura dell’organo,
sarebbe essenziale che fossero i Presidenti della Camere, in accordo con tutti i gruppi, sentiti gli uffici
di presidenza, che autorizzassero la deroga in via d’eccezione, ribadendo di fatto in tal modo la
legittimità delle attuali diverse normative previste dai regolamenti parlamentari.

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Insomma, il pericolo più grave in questa situazione è che qualcuno possa pensare che si possa in
fondo proseguire anche cessato lo stato di necessità, magari teorizzando uno stato d’eccezione
permanente.
Vorrei essere chiaro sul punto: un Governo (fosse anche con l’appoggio del Parlamento) che adottasse
misure simili a quelle attualmente assunte in assenza di pandemia e in materie che non implichino la
salvaguardia del diritto fondamentale alla salute (ma anche “interesse della collettività” scrive la
costituzione) porrebbe in atto fatti eversivi della legalità costituzionale.
Nessuna assimilazione è possibile tra l’attuale eccezionale stato di necessità e le ordinarie crisi
perpetue o le emergenze perenni cui siamo abituati in tempi “normali”. Riconoscere, limitare e
circoscrivere gli stati d’eccezione per evitare che qualcuno si senti autorizzato, “passata la peste”, ad
utilizzare gli stessi mezzi per affrontare la crisi economico sociale – chessò in materia di migrazioni
– ponendo così in essere un colpo di stato permanente.
Nella Roma antica, com’è noto, esisteva una figura giuridica che permetteva di salvare la Repubblica
nelle situazioni in cui era messa in gioco la sua sopravvivenza. Il Senato trasferiva tutti i suoi poteri
ad un soggetto per un massimo di sei mesi. Poi, cessato il pericolo, ma anche solo trascorso invano il
tempo definito, nessuno era più autorizzato a porre in essere atti “dittatoriali”.
Quando qualcuno (Silla prima, Cesare poi) pensarono di estendere lo stato di emergenza e si fecero
confermare oltre il tempo i pieni poteri ecco che la dittatura da “commissaria” si fece “sovrana”, e la
Repubblica capitolò. Ancora oggi è questa la sfida più grande. Se infatti adesso sopportiamo
limitazioni di libertà disposte in piena e solitaria responsabilità dal Governo pro tempore in carica, lo
facciamo per necessità, avendo ad esso trasferito di fatto i poteri sovrani.
Consapevoli però che se dopo aver sconfitto il terribile e invisibile nemico non si dovesse tornare alla
normalità rischieremmo di precipitare nel buio della Repubblica.

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Jean-Luc Nancy - Un virus troppo umano


[20 Marzo 2020 – Antinomie.it]

Come è stato spesso affermato, a partire dal 1945 l’Europa ha esportato le sue guerre. Caduta in
frantumi, non ha saputo fare altro che diffondere la sua disunione nelle sue ex-colonie e secondo le
sue alleanze e le sue tensioni con i nuovi poli del mondo. Tra questi poli l’Europa non era altro che
un ricordo, sebben fingesse di avere un avvenire.

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L’Europa dunque importa. Non solo merci, come fa da molto tempo, ma anzitutto popolazioni: un
processo che non è nuovo, ma che ora diventa più pressante, se non travolgente, al ritmo dei conflitti
esportati e dei disordini climatici (che hanno avuto origine nella stessa Europa). Ed ecco che oggi
importa un’epidemia virale.
Cosa vuol dire? Che non si tratta solo di una propagazione: questa ha i suoi vettori e le sue traiettorie.
L’Europa non è il centro del mondo, tutt’altro, ma si sforza di svolgere il suo vecchio ruolo di modello
o di esempio. Altrove ci possono essere attrattive molto invitanti, opportunità impressionanti. Alcune,
tradizionali e a volte un po’ logore, si trovano in Nord America, altre, più innovative, in Asia o in
Africa (il Sud America è a parte, avendo molte caratteristiche europee che si amalgamano con delle
altre). Ma l’Europa sembrava – o credeva di rimanere – più o meno desiderabile, perlomeno come
rifugio.
Il vecchio teatro delle esemplarità – la legge, la scienza, la democrazia, l’apparenza e il benessere –
continua a suscitare desideri, di oggetti, tuttavia, ormai usurati, se non addirittura fuori uso. Rimane
quindi aperto agli spettatori, anche se non è molto accogliente per coloro che non possono permettersi
simili desideri. Non c’è da stupirsi se un virus entra in scena.
Non c’è da stupirsi neppure se qui genera più confusione che là dove è nato. Perché in Cina si era già
sul piede di guerra, che si tratti di mercati o di malattie. In Europa vi era invece un certo disordine:
tra le nazioni e tra le aspirazioni. Il risultato di tale disordine è stata l’indecisione, l’agitazione e un
difficile adattamento. D’altra parte, gli Stati Uniti hanno presto riacquistato il loro superbo
isolazionismo e la loro capacità di prendere decisioni nette ed immediate. L’Europa è sempre stata
alla ricerca di se stessa – andando anche alla ricerca del mondo, scoprendolo, esplorandolo e
sfruttandolo, prima di smarrirsi di nuovo.
Mentre il primo focolaio dell’epidemia sembra in procinto di essere controllato e molti paesi ancora
poco colpiti si chiudono agli europei come ai cinesi, l’Europa diventa il centro dell’epidemia. Il
Vecchio continente sembra aver accumulato gli effetti dei viaggi in Cina (affari, turismo, studi), quelli
dei visitatori provenienti dalla Cina e da altri paesi (affari, turismo, studi), quelli della sua incertezza
generale e, infine, dei suoi dissidi interni.
È forte la tentazione di caricaturare la situazione nel modo seguente: in Europa si tratta del “si salvi
chi può!”, altrove del “a noi due, virus!”. O ancora: in Europa, gli indugi, gli scetticismi, l’incredulità
degli “spiriti forti” (nell’antico significato dell’espressione), occupano più spazio che in molte altre
regioni. È questa l’eredità della ragione raziocinante, libertina e libertaria – ovvero di ciò che per noi,
vecchi europei, rappresentava la vita stessa dello spirito.
Così, l’inevitabile ripetizione dell’espressione “misure eccezionali” fa apparire il fantasma di Carl
Schmitt attraverso una sorta di amalgama affrettata. Il virus diffonde così la narrazione di una bravata

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ostentata. Non lasciarsi ingannare è un imperativo che viene prima del sottrarsi al contagio – il che
equivale ad essere ingannati due volte – e forse raggirati da un’angoscia mal repressa. O da un
sentimento puerile d’impunità o di spavalderia…
Ognuno (me incluso) avanza la sua osservazione critica, dubbiosa o interpretativa. Filosofia,
psicoanalisi, politologia del virus corrono veloci.
(Fatta eccezione per la gustosa poesia di Michel Deguy, Coronation, sul sito della rivista Po&sie).
Ciascuno di noi discute e dibatte perché abbiamo una lunga abitudine alle difficoltà, alle lacune e alle
indecisioni. Su scala mondiale, sembra che dominino piuttosto la fiducia in se stessi, il controllo e la
decisione. È perlomeno questa l’immagine che possiamo avere o che tende a costituirsi
nell’immaginario mondiale.
Il coronavirus in quanto pandemia è, a tutti gli effetti, un prodotto della globalizzazione. Ne precisa i
tratti e le tendenze, è un libero-scambista attivo, combattivo ed efficace. Partecipa al grande processo
attraverso il quale una cultura si dissolve, mentre si afferma qualcosa che, più che una cultura, è un
meccanismo di forze inestricabilmente tecniche, economiche, dominanti ed eventualmente
fisiologiche o fisiche (si pensi al petrolio o all’atomo). È vero che, allo stesso tempo, il modello della
crescita è messo in discussione al punto che il presidente della Repubblica francese si sente in dovere
di farlo presente. È possibile che siamo davvero costretti a spostare i nostri algoritmi – ma non ci
sono prove che questo possa compiersi per lasciar emergere uno spirito diverso.
Perché non è sufficiente debellare un virus. Se la padronanza tecnica e politica risulta fine a se stessa,
trasformerà il mondo in un campo di forze sempre più tese le une contro le altre, sprovviste ormai di
tutti gli alibi civilizzatori una volta validi. La brutalità contagiosa del virus si diffonde sotto forma di
brutalità gestionale. Ci troviamo già di fronte alla necessità di dover scegliere coloro che hanno diritto
alle cure. (Non si dice ancora nulla sulle inevitabili ingiustizie economiche e sociali.) Non v’è alcun
calcolo subdolo di fantomatici e machiavellici complottisti. Né abusi particolari da parte degli Stati.
Esiste solo la legge generale delle interconnessioni, il cui controllo è la posta in gioco dei poteri tecno-
economici.
Di questo divino il virus attesta l’assenza, dato che ne conosciamo la costituzione biologica.
Scopriamo, anzi, fino a che punto il vivente sia più complesso e meno comprensibile di quanto
immaginassimo. E quanto anche l’esercizio del potere politico – quello di un popolo, quello di una
ipotetica “comunità” per esempio “europea” o di regimi più energici – sia un’altra forma di
complessità a sua volta meno comprensibile di quel che sembri. Capiamo ora meglio a che punto il
termine “biopolitica” sia derisorio in questa situazione: la vita e la politica ci sfidano
contemporaneamente. Il nostro sapere scientifico ci espone a dipendere solo dal nostro potere
tecnologico, e tuttavia non esiste una pura e semplice tecnicità, poiché lo stesso sapere porta con sé

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delle incertezze (basta leggere gli studi che vengono pubblicati). Non essendo univoco il potere
tecnico, ancor meno può esserlo un potere politico chiamato a rispondere, contemporaneamente, a
dati oggettivi e ad attese legittime.
Certo, è comunque una presunta oggettività a dover guidare le decisioni. Se questa oggettività è quella
del “confinamento” o della “distanziazione” fino a quale punto di autorità si può giungere per farla
rispettare? E, nella direzione opposta, dove comincia l’arbitrarietà interessata di un governo che vuole
– è solo un esempio tra tanti possibili – preservare i giochi olimpici da cui si attende diversi benefici,
attesa condivisa da molte imprese e manager di cui il governo è, in parte, strumento? Oppure quella
di un governo che coglie l’occasione per infiammare il nazionalismo? La lente d’ingrandimento virale
accentua i tratti delle nostre contraddizioni e dei nostri limiti. E’ un principio di realtà che bussa alla
porta dei principi di piacere. La morte lo accompagna. La morte che abbiamo esportato con le guerre,
le carestie e le devastazioni, la morte che avevamo pensato confinata in qualche altro virus, o al cancro
(quest’ultimo in espansione quasi-virale), eccola che ci aspetta dietro l’angolo. Guarda un po’! Siamo
umani, bipedi senza piume dotati di linguaggio, ma sicuramente né sovraumani né transumani.
Troppo umani? O forse occorre comprendere che non si può mai esserlo troppo? E che è proprio
questo a superarci infinitamente?

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Mario Farina - Su Agamben e il contagio. Il ruolo della filosofia e la comune umanità.


[20 Marzo 2020 - leparoleelecose.it]

Ha destato un discreto sgomento, almeno nel piccolo mondo della filosofia, la reazione di Giorgio
Agamben alla particolare situazione sociale e politica nella quale l’emergenza sanitaria, ormai
globale, ha gettato il paese. È probabile che il lettore anche distratto di Agamben avrebbe potuto
anticipare con un certo agio quale sarebbe stata la sua posizione. Come in uno sketch da
avanspettacolo, se ci avessero chiesto di imitare a bocce ferme un ipotetico Agamben che commenta
un’ipotetica quarantena imposta per decreto avremmo tutti sciorinato un credibile repertorio di stati
d’eccezione, cittadinanze coatte e corpi sottratti alla socialità. Ma la realtà, si sa, si diverte sempre a
umiliare l’immaginazione e allora il vero Giorgio Agamben non solo ha confermato tutto il suo
repertorio, ma si è spinto a battibeccare con le sacrosante critiche piovuto un po’ da ogni dove (la
nuvola più alta è senz’altro quella di Nancy, mentre la più volgare ha la firma di Flores d’Arcais).
L’ultimo post del suo blog, pubblicato in data 17 marzo e ineffabilmente intitolato Chiarimenti
(ineffabilmente perché anziché chiarire si limita a ribadire), contiene a mio modo di vedere la più

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grossolana tra le sviste del più tradotto filosofo italiano vivente. «È evidente» scrive Agamben «che
gli italiani sono disposti a sacrificare praticamente tutto, le condizioni normali di vita, i rapporti
sociali, il lavoro, perfino le amicizie, gli affetti e le convinzioni religiose e politiche al pericolo di
ammalarsi. La nuda vita – e la paura di perderla – non è qualcosa che unisce gli uomini, ma li acceca
e separa».
C’è una capziosa viziosità nel ragionamento di Agamben, che non tiene conto di come, ad esempio,
il sacrificio di «praticamente tutto» sia fatto non semplicemente per salvaguardare la propria vita, ma
specialmente per proteggere quella degli altri. Ma non è questo il punto. Il punto è piuttosto la
profonda e lacerante solidarietà che una certa corrente di pensiero, autonomo e libertario, ha finito
per mostrare con le tendenze più estreme, e violente, del liberismo economico. Perché quella «nuda
vita» che secondo Agamben dovremmo essere capaci di disprezzare – traduzione tendenziosa e
retorica del benjaminiano «bloße Leben», più prosaicamente rendibile con «mera vita» – non è altro
che il benessere minimo del nostro corpo, base essenziale e irrinunciabile sulla quale si edifica quella
comune umanità che sola, universalizzata, può essere fonte dell’eguaglianza tra gli uomini. D’atro
canto, il «praticamente tutto» che agli occhi di Agamben, colpevolmente, l’Italia sacrifica sull’altare
della vita corrisponde – probabilmente con una gaffe non voluta – ai «rapporti sociali», che Agamben
dovrebbe ben saper essere sempre storici e vigenti.
Vengono allora in mente i balli pubblici fatti dai sostenitori di Bolsonaro quando hanno dato manforte
al loro presidente per denunciare il complotto internazionale sulla pandemia, oppure le prime
posizioni assunte dai più volubili Trump e Boris Johnson, che hanno pensato di salvare la produzione
economica – sì, esatto, «i rapporti sociali» – sull’altare della vita e del benessere pubblico, vale a dire
sull’altare della comune umanità, lasciando indietro i deboli esclusi dalla comunità dei liberi. Lette
in questo contesto, le parole di Agamben assumono un significato decisamente più comprensibile.
Sarebbe un errore intenderle come frutto di una radicalizzazione, magari lodevole ma a oggi
sconveniente, di un principio di libertà individuale. Corrispondono piuttosto a una difesa di quel
«praticamente tutto» che non intende sacrificare: la propria posizione all’interno dei rapporti sociali
vigenti come individuo proprietario, come persona sociale che gode di affetti e di tutto ciò che la
società mette a sua disposizione. Questo individuo proprietario, la cui individuale umanità è
pienamente realizzata, non è disposto a sacrificare la propria posizione per la difesa della vita, vale a
dire ciò su cui solo può essere edificata e realizzata quella comune e universale.
Mi è capitato di leggere parole di sconforto di fronte alle esternazioni di Agmaben. Già la filosofia
naviga in pessime acque, si dice, se in più facciamo questo genere di figure, è difficile rivendicare
una posizione nel dibattito pubblico. Capisco, ma di nuovo, non credo sia questo punto. Quello che
stiamo vivendo in relazione alla pandemia di coronavirus (a proposito, Agamben da che mi risulta è

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l’unico a chiamarlo «il virus corona», come fosse in nome proprio) non è quasi nemmeno il tempo
della scienza. È piuttosto il tempo della pratica, della tecnica della medicina d’assalto che prova a
mettere una pezza a un mondo che sembra essersi rotto male. E questo è un fatto di cui la filosofia
deve prendere atto. Viene comodo in proposito chiamare in causa Hegel, o meglio l’atteggiamento
che Johann Friedrich Herbart, per altri versi suo nemico, riconosceva in Hegel lodandone la peculiare
forma di empirismo: l’umiltà di accogliere i dati del dibattito scientifico per quello che erano, senza
la pretesa di insegnare alla scienza il suo mestiere.
Per ragioni che sfuggono alle sue intenzioni, Agamben ha fatto un buon servizio al pensiero filosofico.
La crisi sanitaria che stiamo vivendo mostra nettamente una tendenza chiarificatrice, che è quella di
estremizzare e rendere visibili le storture sociali. Mentre io lavoro in mondo smart dal salotto di casa,
miei coetanei rischiano il contagio, costretti a lavorare spesso per pochi soldi. Le distinzioni sociali
diventano evidenti, chiare e plastiche. E così lo diventano anche le tendenze sottese ai pensieri che le
interpretano. Evidenza che forse mancava poco più di un anno fa quando, sempre sul suo blog ospitato
dalla casa editrice Quodlibet, Giorgio Agamben prendeva le distanze dalla petizione pubblica in
favore della legge sullo ius soli. «La patria», scriveva citando Francesco Nappo, «sarà quando tutti
saremo stranieri», cioè quando saremo tutti sottratti a uno ius e non sottomessi a esso. Ma lo ius di
cui si parlava in quel caso, e oggi lo si vede chiaramente, non era un’arma di aggressione, ma uno
strumento di protezione della libertà e dei diritti di donne e uomini che ne erano privati.
Di fronte a una crisi umana e sanitaria come quella che stiamo vivendo la filosofia può allora
conservare un compito. E questo compito è quello di assumere i dati che le arrivano e contribuire a
fare chiarezza. Richiamando ancora Hegel, è la nottola di Minerva che deve farle da guida. A modo
loro, anche le parole di Agamben hanno contribuito a fare chiarezza. Nella loro fossilizzazione su
schemi di pensiero consolidati, sono state in grado di mostrare i limiti dei quali soffre, oggi, una
corrente di pensiero che dalla seconda metà degli anni Settanta ha preteso di porre al centro del
proprio progetto l’autonomia dell’individuo, assolutizzandolo. Appare chiaro, oggi, che il diritto e i
decreti, e con essi lo stato, non sono per forza una limitazione della libertà individuale. A volte, come
in questo momento, possono essere strumento di protezione e realizzazione della sua libertà. A patto,
certo, di avere come obiettivo non un’astratta idea della propria individuale libertà di proprietario, ma
la diffusione dell’uguaglianza tra gli uomini come universalizzazione della comune umanità.

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Sarantis Thanopulos e Fabio Ciaramelli - L’epidemia, la «Città» e il vivere e filosofar
[20 Marzo 2020 – il Manifesto]

Fabio Ciaramelli: «Sarantis, a differenza di te, non credo che nell’intervento di Agamben l’equazione
tra coronavirus e “influenzavirus” sia stata un elemento marginale. Mi sembra invece che ne
costituisse non solo il punto di partenza ma il fondamento teorico: un fondamento che si sta rivelando
sempre più chiaramente falso. Concordo con Roberto Esposito che, pur situandosi in una prospettiva
biopolitica vicina ad Agamben, gli ha rimproverato la mancanza di senso delle proporzioni. Perciò,
in definitiva, pur condividendo le tue considerazioni successive sulle minacce alla sopravvivenza
psichica, non ne condivido l’attacco.
A mio avviso, nonostante l’ammirazione per Giorgio Agamben e per le sue brillanti teorie, penso che
stavolta abbia preso una cantonata (glielo ha fatto notare anche Jean-Luc Nancy)».
Sarantis Thanopulos: «Fabio, la tesi di Agamben sullo stato d’eccezione che sta diventando normale
modalità di governo, regge bene anche senza l’equazione tra Coronavirus e virus dell’influenza. La
teoria biopolitica ha trovato nell’elaborazione di Agamben un ampliamento importante del suo
respiro: il vivere ridotto in “nuda” (cruda) vita, fondamento di un’eccezione permanente alla libertà
e alla democrazia. Nella gestione della quarantena, nei suoi slogan principali e nella pressione
psicologica a cui siamo sottoposti, mi sembra dominante la logica del vivere per sopravvivere, per
non morire. Nessun parola spesa per le persone che si amano al di là delle case di famiglia, per i
familiari separati tra città diverse, per gli amici che non possono incontrarsi, per chi la casa non ce
l’ha, o vive in case opprimenti, per i desideri, le emozioni, i sentimenti che amano gli spazi aperti,
che viaggiano non nei social ma nelle strade del mondo.
Questo potere psicologico/ideologico dei bisogni biologici, che sovrintende l’emergenza, ci mostra
la natura vera dello stato d’eccezione che incombe su di noi oggi, che non è più, come pensava Karl
Schmidt -come non lo è stato nell’epoca nazista- la sospensione o abolizione di un ordinamento
giuridico per decisione politica, ma una mentalità collettiva anonima: l’assetto psichico
antrophofobico dell’individuo desolato, eremos di Epitetto, che abolisce la politica e diventa forza di
legge, governo a danno di tutti. Non trovi inquietante l’affermazione “decidono gli scienziati”, cioè
nessuno?».
Fabio Ciaramelli: «Sono d’accordo, come hai scritto, che gli scienziati non possano dare una risposta
definitiva e infallibile alle nostre paure, neanche in questo caso. Trattandosi d’un virus nuovo e finora
praticamente sconosciuto, è ovvio che la medicina – la quale, tra l’altro, non è una scienza, ma una
tecnica basata su dati scientifici – possa solo muoversi “per tentativi ed errori”. Ma questa volta, con

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gli ospedali intasati e il contagio dilagante, in base a criteri prudenziali e precauzionali, non vedo che
altro si sarebbe potuto consigliare agli organi competenti.
E infine, quanto al rischio che le misure antivirus decise dalle autorità politiche possano costituire
una minaccia per la nostra democrazia costituzionale, non sarebbe male se la nostra hybris filosofica
facesse un passo indietro. Più di tante riflessioni di filosofi, m’hanno fatto pensare le parole d’un
bravo giornalista, Andrea Giardina, che ha così concluso il suo reportage sul virus: “Se serve a salvare
vite, la democrazia può essere sospesa, almeno per qualche ora. “Primum vivere, deinde
philosophari”».
Sarantis Thanopulos: «La politica di Pericle aveva grandi limiti, ma sono sempre valide le sue parole:
“Amiamo il bello con sobrietà (senza futilità estetizzanti) e filosofiamo (amiamo il pensiero critico)
senza essere molli)”. Non temiamo i sacrifici, ma li facciamo per prendere in mano la gestione della
città per risanare i disastri del passato e per non fare dell’avvenire la ripetizione di emergenze».

[da il Manifesto, 19 Marzo 2020]

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