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LO Specchio DI Aletheia

Giornalismo Internazionale (Sapienza - Università di Roma)

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LO SPECCHIO DI ALETHEIA – FAKE NEWS E POLITICA INTERNAZIONALE

CAPITOLO 1 – FAKE NEWS E GRANDI EVENTI DELL’ATTUALITA INTERNAZIONALE


1 Di cosa parliamo quando parliamo di post-verità (e di politica della post verità)
Anche l’Accademia della Crusca è intervenuta nel grande dibattito della post-verità, prendendo come spunto
gli Oxford dictionaries che nel 2016 hanno deciso di eleggere post-truth come parola dell’anno. Secondo la
definizione adottata si tratta di un aggettivo che denota circostanze nelle quali fatti obiettivi influenti
nell’orientare la pubblica opinione gli appelli all’emotività e le convenzioni personali. Gli O.D. specificano
che non si tratta di un termine nuovo, essendo stato usato per la prima volta dallo scrittore Steve Tesich in
un articolo del 92 su The Nation, ma che ha acquisito una nuova rilevanza grazie a due eventi del 2016: la
Brexit e le elezioni presidenziali in cui vinse Trump. In questo senso esso ha iniziato ad essere associato
prevalentemente a questioni politiche e per questo definibile come post-truth politics, per designare quella
politica che fa affidamento su asserzioni che sembrano vere ma che non hanno alcun fondamento nei fatti.
La Crusca nel nostro caso precisa che in italiano post-verità è usato sia con valore di aggettivo sia come
sostantivo, affinché lo si possa adattare ai sintagmi inglesi in cui si ritrova più diffusamente come nei casi di
post-truth politics, post-truth world, post-truth era. È quanto è stato adottato anche nella presente
trattazione, preferendo “politica della post-verità a politica post-verità (in cui sarebbe privilegiato il costrutto
anglizzante). Va poi precisato che il prefisso post sembra assumere il significato di oltre la verità, quindi non
di successione nel tempo ma di superamento della verità nel senso di una sostanziale irrilevanza e quindi
perdita di influenza. Il concetto di post-truth viene quindi direttamente collegato a quello della diffusione di
notizie false, secondo il termine d’uso comune sempre più utilizzato nel media nazionali. Ci troveremo
quindi in una fase in cui “l’unica cosa che conta è la truthness (veritezza), secondo la definizione del comico
statunitense Stephen Colbert: una cosa che sembra giusta, anche se non è basata sui fatti, e a cui le persone
vogliono credere perché conferma i loro preconcetti”. Molti commentatori hanno peraltro dubitato che
quello sotto esame sia un fenomeno nuovo, osservando come la diffusione di false notizie per perseguire
fini politici sia uno strumento che risale alla notte dei tempi. Basti pensare a come l’impiego della
propaganda di regime costituisca per molti versi una forma di politica della post verità ante litteram, o al
ruolo degli spin doctor nella comunicazione politica ed elettorale. Ma per quanto analogie possano essere
tracciate tra le manifestazioni preesistenti del fenomeno e quelle odierne, attualmente esso sembra aver
assunto caratteri distintivi, sia sul piano qualitativo che quantitativo, per così dire, che giustificano il conio e
l’utilizzo di un termine ad hoc per designarlo. Dal primo punto di vista, la verità oggi non sembra solo
falsificata, manipolata o contestata, bensì anche, e forse soprattutto, ritenuta di importanza secondaria.
Inoltre, se la contestazione della verità ufficiale si configura storicamente come una vera e propria virtù
democratica, laddove sia tesa a controllare l’operato delle istituzioni, gettare luce sugli abusi del potere e
scongiurare un eccesso di deferenza nei confronti dell’autorità costituita, oggi al contrario per politica post-
fattuale si intende una politica emotiva, appannaggio soprattutto se non esclusivamente di populismi che
fanno leva su pregiudizi diffusi, spesso contribuendo al loro rafforzamento, per acquisire consenso. Dal
secondo punto di vista, è indubbio che questo fenomeno si sia amplificato con internet e con il dilagare dei
social media, i quali sono una straordinaria cassa di risonanza per le fake news e favoriscono, a causa di
fenomeni quali le cosiddette filter bubble su cui si basano, la polarizzazione delle opinioni. La circostanza
che sempre più individui si informino sui social, facendo venir meno il ruolo di intermediazione dei
tradizionali mezzi di comunicazione di massa, sembra infatti favorire fenomeni e processi cognitivi quali
visioni pregiudiziali del mondo e interpretazioni emozionali delle informazioni. In questo contesto,
l’adesione a narrazioni complottiste è solo una delle modalità di comunicazione sui social in cui tali
meccanismi cognitivi vengono attivati. Come vedremo con la Brexit e con l’elezione di Trump, l’odierna
comunicazione politica ha portato all’estremo la tendenza a cavalcare l’emotività rispetto alla razionalità ed
è sempre più basata secondo Walter Quattrociocchi e Antonella Vinci, proprio in riferimento alla Brexit, sul
mancontento, sulle paure e sulla rabbia degli elettori: insomma sulla percezione di un presente e

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preoccupante ansiogeno. Si tratta di un tema profondamente legato all’idea della social liquida, frutto del
processo di globalizzazione, in cui le vecchie regole sono tramontate e le nuove stentano ad affermarsi,
generando paure e timori ancestrali. Il ruolo degli algoritmi e della polarizzazione dell’informazione online,
diventano progressivamente una discussione sempre più cacofonica e potenzialmente senza soluzione. Ecco
una possibile tipologia di fake news che ci aiuterà a sviluppare tale trattazione.

1.2 Le fake news: una possibile tipologia


Internet e i social network consentono la diffusione di informazioni ad alta velocità, comprese info false o
fuorvianti che possono avere gravi conseguenze sociali e politiche. E questo proprio grazie alla
disintermediazione consentita dal web. È noto a tutti che il potere dei media sulla percezione della realtà e
sulla formazione dell’opinione pubblica. O meglio, il potere dei media nel trasformare i fatti in notizie e
narrazioni. Sostanzialmente un fatto non esiste come news, cioè vicenda di un qualche interesse collettivo,
se non passa prima attraverso ripetitori radiofonici o televisivi; rotative di quotidiani e periodici, o attraverso
i molteplici canali della rete. Si rende quindi necessario dotarsi di strumenti adeguati al fine di impedire che
l’agenda dell’opinione pubblica sia dettata dalle fake news. Recentemente l’esperta di comunicazione
dell’università di Rhode Island, Renee Hobbs, sensibile alla promozione dell’alfabetizzazione digitale e della
lettura critica dei media, ha proposto una tipologia di fake news che si ritiene opportuno adottare ai fini
della presente esposizione. A questi dei tipi fondamentali individuati dalla Hobbes se ne aggiunge un
settimo: le teorie complottiste.

1.2.1 Disinformazione
Il primo tipo è la disinformazione: notizie false create per sviare l’avversario, come fanno le agenzie di
intelligence o le forze militari ma anche le aziende se vogliono confondere i concorrenti prima del lancio di
un prodotto. In inglese il termine disinformation è apparso nei dizionari solo a fine anni 80, sul modello del
russo dezinformatsiya. Secondo Ion Mihai Pacepa, un alto funzionario della polizia segreta rumena, che
disertò nel 1978, la parola sarebbe stata coniata dallo stesso Stalin dopo la seconda guerra mondiale. La
Grande Enciclopedia Sovietica nel 1952 definiva la disinformazione come disseminazione di rapporti falsi
finalizzati a confondere l’opinione pubblica e lasciava intendere che l’Unione Sovietica fosse bersaglio di
tattiche del genere da parte occidentale. Tra gli innumerevoli esempi di attività di disinformazione condotte
dai sovietici, poi venute alla luce, si annoverano i false rumors che l’AIDS fosse stato creato dal Pentagono o
che gli Stati Uniti fossero i veri artefici del sequestro della grande Moschea de La Mecca nel febbraio 1979.
Un esempio eclatante è anche rappresentato dalla vicenda che ha portato l’USA ad intervenire in Iraq nel
2003, giustificato dalla presunta dotazione di armi di distruzioni di massa da parte di Saddam Hussein dei
suoi altrettanto presunti legami con Al Qaida. In particolare, Marcello Foa ha evidenziato come dal punto di
vista della comunicazione, la guerra in Iraq abbia rappresentato un caso anomalo rispetto ai precedenti
conflitti combattuti dagli Usa (Haiti, Granada, Kosovo, Golfo, Panama e molti di quelli nell’ambito della
guerra fredda), in cui: le motivazioni reali dell’intervento non si discostano sensibilmente da quelle
annunciate in pubblico; il ricorso agli strumenti della disinformazione e della propaganda è finalizzato ad
accentuare gli argomenti a favore di un intervento che nel complesso è già ritenuto credibile e motivato
dall’opinione pubblica statunitense; l’esito del conflitto è sostanzialmente in linea con le aspettative sia del
governo che dell’opinione pubblica. L’intervento in Iraq, al contrario: è stato mosso da motivazioni
strategiche radicalmente diverse da quelle annunciate pubblicamente; gli spin doctor hanno dovuto
impiegare i propri sforzi per convincere il pubblico sia per evitare che venissero alla luce le incongruenze
della versione ufficiale; l’esito del conflitto di fatto sconfessa le promesse della Casa Bianca, che si trova a
dover fronteggiare un interesse dell’opinione pubblica che, dopo la caduta di Baghdad, anziché esaurirsi
rapidamente tende a crescere, costringendo gli spin doctor a ricorrere a un massiccio spin difensivo. È solo
tardivamente, inoltre, che la stampa americana recupera il suo ruolo tradizionale di watchdog del sistema, a
cui aveva sostanzialmente abdicato prima e nel corso del conflitto. Il concetto di disinformazione in inglese
si distingue da quello di misinformazione, che rimanda a un’informazione che può essere anche solo
involontariamente falsa. Eventualmente, il concetto di misinformazione può essere utilizzato per definire la

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disinformazione: quest’ultima costituisce infatti una misinformazione utilizzata volontariamente e


intenzionalmente per ingannare. Anche Alejandro Pizarroso Quintero considera la disinformazione come la
manipolazione di informazioni false deliberatamente orientata a guadagnare il consenso dell’opinione
pubblica, facendola rientrare nella più ampia categoria della propaganda, difatti “la propaganda non è
sempre disinformazione, mentre la disinformazione è sempre propaganda”.

1.2.2 Propaganda
Il secondo tipo è la propaganda. Non ha necessariamente la connotazione negativa che le ha affibbiato la
storia, soprattutto tra la prima e la seconda guerra mondiale, ma è comunque informazione che
strategicamente e abilmente viene confezionata per sostenere un’idea e conquistare il pubblico, parlando al
cuore prima ancora che alla mente. Come noto, il termina propaganda nasce in ambito ecclesiastico nella
seconda metà del seicento con riferimento alla propagazione e accettazione della dottrina cattolica. Nel 91 il
vocabolario della lingua italiana dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana definisce la propaganda come “azione
che tende a influire l’opinione pubblica, orientando verso determinati comportamenti collettivi, e l’insieme
dei mezzi con cui viene svolta.” In questo senso, si ribadisce che la disinformazione è solo una delle forme in
cui può presentarsi la propaganda, quella in cui si ricorre all’uso della menzogna come strumento di
persuasione di massa. Il fine della propaganda è quindi sempre quello di generare consenso, a prescindere
dalla natura delle informazioni che veicola se vere o false. Sta di fatto che il termine propaganda rimanda
sempre a qualche forma di persuasione organizzata, ed è così che la intendeva anche Edward Bernays,
ideologo storico degli spin doctor, che nella sua opera più importante, Propaganda del 1928, ne magnificava
il cinismo e le virtù manipolatorie.

1.2.3 Informazione di parte (partisanship)


Riguardo l’informazione di parte possiamo dire che esistono una pletora di siti, blog, canali Youtube che
veicolano informazioni non necessariamente false, ma sicuramente di parte, presentate in modo da
difendere interessi o portare avanti punti di vista di determinati settori e gruppi di interesse, ma per il
pubblico va bene così, perché ciò che contra oggi non è essere una testata affermata, ma saper comunicare
in modo veloce e personalizzato. È così che si cattura l’attenzione e intanto i click si moltiplicano e la
condivisione virale si traduce in profitto. I nuovi media che diffondono informazione di parte si pronunciano
su tutte le grandi questioni che stanno a cuore all’opinione pubblica: economia, politica, migrazione,
terrorismo, salute. Basti pensare ai grandi dibattiti che hanno diviso l’opinione pubblica negli ultimi anni:
vaccini, metodo stamina, accoglienza dei profughi, temi etici quali le unioni civili, temi ecologici come il
referendum sulle trivelle, il dibattito sull’Euro.

1.2.4 Errori giornalistici


Ma anche per il giornalista c’è in agguato la fake news legata all’errore umano, non frequente ma possibile.
È possibile infatti che sia la fonte a mentire e il giornalista non ha modo di accorgersene. Ad esempio si
possono citare i casi segnalati da Mario Pireddu sul sito doppiozero.com di Repubblica che ha riportato
come vera una notizia creata dal sito satirico Lercio e che ha pubblicato per vera la notizia di una presunta
dichiarazione di Trump contro la statua della libertà, ideata invece dal giornalista satirico Christofer Lamb,
professore di giornalismo d’inchiesta all’universtà di Indianapolis.

1.2.5 Satira/parodia e burla (hoax)


Altri due tipi di fake news sono la satira e la burla, una falsità divertente creata per far ridere. Sono sempre
notizie false, anche se in questi casi lo scopo è solo la parodia o critica del sistema. Ma se nel caso citato di
Lercio l’intento satirico è dichiarato esplicitamente, molti altri si muovono su una linea più ambigua e mirata
al clickbait. È il caso de Il fatto quotidaino o de il giomale, che per altro rientrano in quell’ampia categoria di
siti che alterano i nomi dei giornali più diffusi e conosciuti nel nostro paese. Più che di satira/parodia si parla
di hoax, che nella nostra lingua viene tradotto come burla, inganno o bufala. In essi la natura ingannevole
delle fake news e la loro contiguità con le suggestioni dell’antipolitica sono più evidenti. Claudio Lagomarsini
ad esempio riporta sul sito ilpost.it il caso di Rignano sul Membro: nelle settimane precedenti il referendum

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costituzionale del 4 dicembre 2016 il sito del fatto quotidaino affermava che a Rignano sull’Arno, paese
d’origine di Matteo Renzi erano state ritrovate 500.000 schede referendarie già segnate con il si. Dopo
essere stata rimossa dal sito per il clamore suscitato, la bufala è sopravvissuta su altre pagine, ma la località
del presunto ritrovamento è diventata Rignano sul Membro, ovviamente inesistente. Ma i casi di siti che
fanno della disinformazione a base nazionalpopulista-complottista la loro ragione di essere, lavorando sul
clickbait per guadagnare in traffico, visualizzazioni, utenti e quindi pubblicità sono veramente innumerevoli.

1.2.6 Teorie cospirazioniste


Come anticipato, Renee Hobbs non annovera le teorie cospirazioniste nella sua tipologia di fake news, forse
perché esse costituiscono dei corpi di enunciati, e non dei singoli enunciati. Si ritiene tuttavia annoverarle
nella tipologia proposta in questa sede, proprio per sottolineare il carattere di narrazioni che, per quanto
non veritiere, sono suscettibili di condizionare il modo in cui gli individui si rapportano alla realtà e le loro
scelte politiche. Quattrociocchi e Vicini riportano delle considerazioni di Karl Popper sulla teoria cospiratoria
della società, ancora di grande attualità: la spiegazione di un fenomeno sociale consista nella scoperta degli
uomini o dei gruppi che sono interessati al verificarsi di tale fenomeno (talvolta si tratta di un interesse
nascosto) e che hanno progettato e congiurato per promuoverlo. Questa concezione deriva, naturalmente,
dall’erronea teoria che, qualunque cosa avvenga nella società – specialmente guerre, disoccupazione,
povertà, carestie ecc. – è il risultato di diretti interventi di alcuni individui e gruppi di potenti. Io non intendo
affermare che di cospirazioni non ne avvengono mai. Al contrario, esse sono tipici fenomeni sociali. Ma il
fatto notevole che, nonostante la loro presenza, smentisce la teoria della cospirazione, è che poche di
queste considerazioni alla fine hanno successo. I cospiratori raramente riescono ad attuare la loro
cospirazione. Perché si verifica questo? Perché le realizzazioni differiscono così profondamente dalle
aspirazioni? Perché ciò è quanto avviene normalmente nella vita sociale, ci siano o non ci siano le
cospirazioni. La vita sociale non è solo prova di forza fra gruppi in competizione, ma è anche azione entro
una più o meno elastica o fragile struttura di istituzioni e tradizioni, azione che provoca, a parte
controazione consapevole molte reazioni impreviste, e alcune di esse forse anche imprevedibili, in seno a
questa struttura.
All’origine dell’attrazione esercitata dalle teorie cospirazioniste vi è il bisogno di trovare una ragione ultima
dei nostri disagi, il che ci porta a ricercare una logica superiore in grado di ridurre la complessità del mondo
e convogliare un’ansia generalizzata, un’insicurezza e un’incertezza diffuse, su paure specifiche. È per questo
motivo che le sindromi complottistiche non sono certo un fenomeno nuovo, basti pensare al caso “da
scuola” dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion, la cui vicenda è stata magistralmente ricostruita soprattutto
da Eco. È indubbio che a seguito degli attentati dell’11 settembre, si è assistito ad un proliferare di tesi
complottistiche, finalizzate ad offrire ricostruzioni dei fatti alternative rispetto alla loro versione ufficiale. Al
fine di identificare le teorie del complotto, il giornalista Daniel Pipes enuclea 4 presupposti ricorrenti:
l’accento posto dai sostenitori delle teorie complottiste sulla brama di potere come motivazione primaria
alla base dei complotti; la convinzione secondo cui chi trae beneficio da un evento deve averlo causato; la
persuasione che non sia tanto la storia ad essere costellata di complotti e cospirazioni, ma che la forza
motrice dell’intero corso del divenire sia essa stessa una grande cospirazione; nulla è accidentale, i fatti
storici, a cominciare da quelli che vengono immediatamente percepiti come rottura del quadro economico-
politico-sociale-tradizionale, siano da ricondurre a un progetto prestabilito in tutti i particolari da una mente
individuale o collettiva nascosta sia alla pubblica opinione sia al potere politico. Quest’ultimo tratto si
traduce nella ricorrente individuazione di presunte operazioni false flag per screditare le versioni ufficiali di
numerosi eventi di rilievo internazionale, e in particolare di attentanti terroristici.

1.3 Le fake news nella società connessa globale: fenomenologia dei social media
Sociale media è un termine generico che indica varie tecnologie e software che le persone utilizzano in rete
per condividere contenuti testuali, immagini, video e audio, potenzialmente in grado di raggiungere in
tempo reale un pubblico globale. Secondo wikipedia i social media possono assumere differenti forme
raggruppabili in 13 categorie: blog, buisness network (network professionali), Forum internet, microblog,

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photo sharing, review di prodotti e servizi, social bookmarketing, social gaming, social network, video
sharing e virtual world (realtà virtuali). Andreas Kaplan e Michael Haenlein già nel 2009 si sono occupati di
sei tipi di social media, distinti in base a parametri di presenza sociale/ricchezza mediatica e presentazione
di se, autosvelamento: blog, siti di social networking (es. Facebook), mondi virtuali di gioco, mondi virtuali
sociali (es. SecondLife), progetti collaborativi (es. Wikipedia), content communities (es. Youtube).

TABELLA 1- CLASSIFICAZIONE DEI SOCIAL MEDIA IN BASE AI PARAMETRI DI PRESENZA SOCIALE/RICCHEZZA


MEDIATICA E PRESENTAZIONE DI SE/AUTOSVELAMENTO

Social presence/media richness medium


Low medium high

High blogs social networking sites virtual social words

Self presentation/
Self-disclosure
low collaborative Content communities virtual game worlds
projects

I social network rappresentano un sottoinsieme del più vasto mondo dei social media, caratterizzati per
utilizzare la classificazione adottata in tabella, da un livello medio di presenza sociale/ricchezza mediatica e
da un livello alto di presentazione di se/autosvelamento. Secondo l’Enciclopedia Treccani: con l’espressione
social network si identifica un servizio informatico online che permette la realizzazione di reti sociali virtuali.
Generalmente i social network prevedono una resgistrazione mediante la creazione di un profilo personale
protetto da password e la possibilità di effettuare ricerche nel database della struttura informatica per
localizzare altri utenti e organizzarli in gruppi e liste di contatti. Le informazioni condivise variano da servizio
a servizio e possono includere dati personali, sensibili (credo religioso, opinioni politiche, inclinazioni
sessuali, ecc) e professionali. Sui social network gli utenti non sono solo fruitori, ma anche creatori di
contenuti. La rete sociale diventa un ipertesto interattivo tramite cui diffondere pensieri, idee, link e
contenuti multimediali. I social network hanno rivoluzionato l’informazione, consentendo di accedere senza
mediazioni a contenuti di ogni genere, e le stesse modalità di comunicazione con il mondo esterno. In
particolare, social molto frequentati da milioni di utenti come facebook, instagram, twitter, configurano uno
spazio virtuale dove è possibile produrre e ricevere contenuti in tempo reale, discuterli interagendo a
distanza con un numero pressocchè illimitato di altri utenti, entrare a far parte di comunità di pari,
confrontarsi con chi ha opinioni divergenti, condividere e approfondire notizie, idee ed esperienze senza
limitazioni di spazio e di tempo. Se tali cambiamenti in un primo momento hanno potuto figurare
l’affermazione di uno scenario ideale di democrazia dell’informazione, al punto da portare alcuni ad
ipotizzare la nascita di una vera e propria borghesia digitale, argomentando che nel futuro l’accesso
dell’informazione garantito da internet avrebbe creato una specie di realtà trasversale, priva di connotazioni
geografiche, politiche e socio economiche, il quadro odierno è molto più in chiaroscuro. I social media, in
particolare i social network, da un lato sono uno straordinario strumento di informazione, coinvolgimento e
mobilitazione su tutte le grandi questioni del nostro tempo, dall’altro come previamente osservato,
costituiscono un potente veicolo di diffusione di fake newa e favoriscono fenomeni quali la tendenza a
reperire informazioni che aderiscono al proprio sistema di credenza, l’affiliazione tra soggetti accomunati da
medesimi valori e visioni del mondo, la radicalizzazione e il rafforzamento reciproco delle proprie posizioni
(polarizzazione). Queste tendenze sono favorite dagli algoritmi dei principali social network, congegnati in
modo da aggiornare i propri contenuti (newsfeeds) con materiale simile a quello già fruito, determinando
fenomeni quali le summenzionate filter bubble (ecosistemi di informazione di informazione personali
soddisfatti da algoritmi che non ci esporrebbero a punti di vista conflittuali e che ci isolerebbero in personali
bolle di informazione, da software quali i bot, e dalle applicazioni di messagistica per smartphone quali
whatsApp. Non va sottovalutato l’impatto che i social media hanno avuto sui media tradizionali, basti

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pensare a come le testate giornalistiche abbiano perso il controllo sulla distribuzione degli articoli
pubblicati, che vengono filtrati da algoritmi e piattaforme perlopiù pubblicati, che vengono filtrati da
algoritmi e piattaforme opachi e imprevedibili. Peraltro, se un numero limitato di piattaforme diventa la
fonte principale di accesso alle informazioni, gli organi di informazione – i cui modelli di buisness sono
sempre più basati sul clickbait – sono portati a confezionare la loro offerta sulla base della domanda
manifestata sui social media, che non di rado consiste in junk food news, il cui valore non è più misurato in
termini di fattualità o di liquidità, bensì di viralità. Un’altra tendenza rivelata dalla Caporedattrice del
Guardian, è quella alla diffusione sui social media di argomentazioni fortemente connotate in senso razzista
e sessista, in generale di odio sociale. Questo evidenzia una ulteriore debolezza dei media tradizionali, in
questa fase: quella di dover rinunciare al proprio ruolo di gatekeeper della comunicazione, soprattutto
politica, ovvero di organi deputati a stabilire i limiti di ciò a cui è lecito dare voce. Se su tale funzione storica
dei media incombe evidentemente il rischio che essa possa essere utilizzata quale strumento di esclusione
di opinioni divergenti da quelle dominanti, è indubbio al contempo che i nuovi spazi attualmente generati
dal declino del post-fattuale, che oggi coincide perlopiù con quello populista. Non è un caso, pertanto, che il
world economic forum già nel 2013 inseriva la mininformazione massiccia digitale tra le principali sfide
globali. Alcuni commentatori, tuttavia, invitano a non trarre conclusioni affrettate in quanto il quadro non
sarebbe così allarmante. In particolare gli utenti dei social media avrebbero un grado di interazione del tutto
significativo con chi la pensa diversamente, fenomeni quali echo chambers (accomulazione dei medesimi
valori), riguarderebbero soprattutto le posizioni più estreme, e d’altro canto non bisognerebbe sottovalutare
le capacità di debunking oggi a disposizione. In questa ottica, quel che più manca è un’educazione all’uso e
alla gestione più consapevole di dati e informazioni: se abbiamo un problema lo abbiamo con l’uso del
senso critico più che con la tecnologia.

CAPITOLO 2 I CASI DELLA BREXIT E DELL’ELEZIONE DI DONALD TRUMP


2.1 Impatto dei processi cognitivi sui comportamenti politici ed elettorali: il caso della Brexit
Il 23 giugno 2016 si è svolto il referendum della Brexit (sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione
Europea), che ha sancito il Leave con il 51,9% di preferenze contro il 48,1% del Remain, peraltro con sensibili
differenze tra le varie nazioni della Gran Bretagna. L’affluenza al voto è stata del 71,8% con circa 30 milioni di
votanti. La prima conseguenza della Brexit sono state le dimissioni del Premier conservatore David
Cameron, che si era impegnato a tenere un Referendum sull’UE già prima delle elezioni del 2015, sostituito
dall’allora Ministro dell’Interno Teresa May, parimenti a favore della permanenza, ma che aveva assunto un
ruolo molto più definito durante la campagna referendaria. A seguito del responso la May si è impegnata a
far rispettare la volontà del popolo britannico e il 29 marzo 2017 ha indirizzato al Presidente del Consiglio
Europeo Donald Tusk la lettera di notifica con la quale ha richiesto l’attivazione dell’articolo 50 del Trattato
sull’Unione Europea, che prevede un meccanismo di recesso volontario e unilaterale di un paese
dall’Unione. La campagna per il Leave è stata condotta dall’organizzazione vote Leave, guidata
dall’esponente del Partito Conservatore ed ex sindaco di Londra Boris Johnson, ma si è giovata anche del
supporto del leader dello UK Independence Party Nigel Farage, a sua volta fondatore di un altro comitato, il
Grassroot Out, che però non si è aggiudicato il riconoscimento di comitato ufficiale nazionale pro-Brexit. Le
posizioni di Vote Leave hanno inoltre incassato l’appoggio anche di una parte dei laburisti. La campagna a
favore della permanenza è stata invece condotta dal comitato “Britain Stronger in Europe”, fondato e
finanziato da Lord Stuart Rose, ex capo della multinazionale di vendita al dettaglio Marks & Spencer, e
diretto dal giovane esponente laburista Will Straw, oltre ad essere sostenuto indirettamente da personalità
quali in sindaco di Londra Sadiq Kahn e la leader del Partito Nazionale Scozzese Nicola Sturgeon. Laddove i
sostenitori del Remain nei mesi che hanno preceduto il referendum hanno richiamato i possibili danni
economici derivanti dall’uscita dall’UE, la campagna in favore del Leave ha fatto leva sulla diffidenza nei
confronti della burocrazia europea, sulla volontà di limitare la libera circolazione delle persone per
controllare meglio i propri confini e la sicurezza, sulla necessità di limitare l’ingresso di immigrati che
giungono nell’Unione Europea o dalla stessa Unione Europea che danneggiano i lavoratori britannici e sul

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desiderio di riconquistare la sovranità nazionale. In particolare, la campagna è stata egemonizzata da due


argomenti principali: 1) lasciando l’Ue la Gran Bretagna non sarebbe più stata soggetta alle richieste di
libero movimento dei lavoratori, potendo in qualche modo mantenere l’accesso al mercato unico; 2) dalla
separazione il Paese avrebbe potuto risparmiare 350 milioni la settimana da poter destinare al servizio
sanitario nazionale, divincolandosi quindi dalla costosa burocrazia di Bruxelles. In realtà, il contributo del
Regno Unito all’Ue, seguito allo sconto negoziato dalla Thatcher, è pari a 276 milioni di sterline, con una
somma significativa che torna indietro attraverso fondi sociali e sussidi vari. In questo contesto razzismo e
xenofobia sono stati una componente solo appena dissimulata negli argomenti a favore della Brexit. Gli
immigrati sono stati incolpati di provocare disoccupazione, bassi salari, pressioni sul servizio sanitario e su
scuole sovraffollate. Una tragica conseguenza di questo incitamento alla xenofobia è stato che Jo Cox,
giovane parlamentare laburista dello Yorkshire, è stata colpita a morte da un razzista armato di pistola a
pochi giorni dal referendum. Nel corso della campagna referendaria, c’è quindi stata una polarizzazione
delle opinioni, sulla base di pronostici di forte impatto emotivo e insufficientemente basati sui fatti (vedi le
ipotesi su elencate). Per limitarsi ai due suddetti argomenti-principe invocati dal Brexiteers, la falsa
asserzione secondo cui il Regno Unito trasferirebbe settimanalmente 350 milioni di sterline alla UE, e quella
secondo cui la fuoriuscita dalla UE avrebbe ridotto i flussi migratori nel Paese, entrambi sono stati smentiti a
poche ore dalla fine del voto da due campioni della Brexit. Anche il giornalista economico del Financial Time
Tim Harford si chiede come sia possibile che una campagna portata avanti sulla base di una manifesta
falsità, riaffermata anche dopo essere stata smentita da esperti indipendenti, abbia potuto perseverare e
vincere. Egli cita al riguardo l’infruttuoso tentativo di The Guardian di confutare l’asserzione incriminata.
Tutto porta a ritenere che il tale dibattito abbia svolto un ruolo fondamentale il già menzionato pregiudizio
di conferma, ovvero la tendenza, supportata da un’ampia letteratura scientifica e da numerose ricerche,
degli individui ad accogliere informazioni che sostengano le loro convinzioni, e a rifiutare quelle che le
contraddicono. Anche l’allarme lanciato dai sostenitori della Brexit circa un’onda travolgente di immigrati, in
particolare a seguito dell’imminente accesso della Turchia nell’Unione appare essere stato utilizzato ad arte
per attivare i processi cognitivi ed emozionali legati a paure e insicurezze più o meno profonde e
inconsapevoli. Ad esempio possiamo citare il manifesto sponsorizzato da Nigel Farage negli ultimi giorni
della campagna, raffigurante una lunga coda di migranti, accompagnata dallo slogan “Breaking Point: the EU
has filed us all”. Molti commentatori hanno duramente condannato l’operazione, accusando Farage di
incitazione all’odio razziale, spingendosi a tracciare un parallelo tra l’immagine, che ritraeva dei migranti
intenti a varcare il confine tra Croazia e Slovenia nel 2015, e una simile raffigurazione utilizzata dalla
propaganda nazista e mostrata da un documentario della BBC del 2005. Come segnala Dan Jones dalle
pagine del New Scientis, analizzando le risposte di più di undicimila utenti di Facebook, i ricercatori della
Online Privacy Foundation hanno osservato che sia i sostenitori della Brexit sia gli oppositori erano in grado
di interpretare correttamente le informazioni statistiche quando si trattava di valutare se una nuova crema
per la pelle procurava irritazioni cutanee. Questa dimestichezza con i calcoli, invece, li abbandonava quando
si ritrovavano davanti a statistiche che mettevano in discussione i fondamenti delle loro posizioni, per
esempio i dati sulla correzione tra l’immigrazione e l’aumento o il calo della criminalità. In altre parole, i fatti
non li portavano a rivedere le loro convinzioni sulla base delle prove empiriche.
I risultati delle ricerche svolte dalla suddetta fondazione confermano che la capacità dei votanti di valutare
razionalmente una determinata evidenza empirica a sostegno di un argomento collegato al referendum è
strettamente associata alla circostanza che tale evidenza supporti o meno le loro convinzioni personali. Si
evidenzia quindi la difficoltà degli individui di interpretare dati che non sostengono le loro posizioni
pregiudiziali su un dato argomento. Secondo i ricercatori della Online Privacy Foundation questo effetto del
confirmation bias si manifesterebbe per entrambi i fronti del dibattito sul referendum, ma con livelli
dissimili. Per quanto concerne il ruolo svolto dai Social Media nel determinare l’esito del referendum, il New
York Times, avvalendosi di un servizio di analisi dei social media (piattaforma CrowdTangle) ha comparato le
pagine di Facebook in cui si è registrata una maggiore interazione degli utenti attorno al termine Unione
Europea nel periodo che ha preceduto il referendum. Rimandando all’articolo del New York Times per una

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descrizione più approfondita dei risultati ottenuti, basterà segnalare che nei sei mesi antecedenti la data
chiave del 23 giugno, i post sulle pagine ascrivibili al fronte del Leave, con circa 11 milioni di interazioni,
hanno registrato circa il triplo di interazioni di quelle ascrivibili al fronte del Remain, circa 3,3 milioni. Trend
analoghi sono stati osservati su altri social media come instagram o twitter, malgrado, stando a quanto
riconosciuto dallo stesso direttore della comunicazione di “Vote Leave”, la campagna non abbia puntato su
tale social media, considerato piuttosto una echo chamber per parlamentari e giornalisti. La capacità di
orientare processi cognitivi ed emotivi, nonché di costruire narrazioni in grado di raggiungere ed influenzare
l’opinione pubblica, ha svolto un ruolo fondamentale in un altro evento politico che ha segnato il 2016:
l’elezione di Donald Trump.

2.2 Il potere dello storytelling: l’elezione di Donald Trump


Ogni importante competizione elettorale può essere letta come un confronto tra narrazioni intente a
motivare e coinvolgere emotivamente l’elettorato, nonché a trasmettere un senso di appartenenza, intente
quindi a svolgere un efficace storytelling. Nel caso dell’ultima campagna presidenziale USA, che a
confrontarsi fossero anche, e forse prima di tutto, due narrazioni contrapposte e inconciliabili, è stato
particolarmente evidente. Così come è stato evidente chi è emerso vincitore del confronto. Se la narrazione
della Clinton si è posta in continuità con quella, affermatasi a partire dal secondo dopo guerra, che vede gli
Stati Uniti quali i paladini dell’ordine liberale internazionale, inteso come un tutto, Trump si è presentato
quale vero e proprio outsider, in grado di rimettere in discussione tutti i punti fermi sul ruolo degli Usa nel
mondo. Per quanto riguarda i contorni della narrazione trumpiana, in molti ne hanno dipinto un quadro
dalle tinte fosche. Secondo Foreign Affairs ad esempio: se Trump avesse agito in rispetto delle sue
dichiarazioni che sono andate contro la politica degli Stati Uniti dal dopoguerra (commercio, alleanze,
tortura, diritti umani ecc), porrebbe fine al ruolo degli USA come garante dell’ordine mondiale liberale.
Trump è un populista che invoca alla paura dell’immigrato che “invade gli Usa”, il mondo è un posto oscuro
e pericoloso in cui gli Stati Uniti sono assediati dal terrorismo islamico. Tutto ciò, prettamente in linea con i
partiti di destra europei, nonché con i sostenitori della Brexit.
Al riguardo è stato osservato, naturalmente soprattutto negli ambienti democratici e liberal statunitensi, che
molte delle affermazioni su cui si è basata la campagna elettorale di Trump sarebbero state impensabili
anche solo in occasione delle elezioni del 2008. Come sottolineato da David Simas, Direttore politico alla
Casa Bianca sotto la presidenza Obama: se prima non sarebbe stato possibile esprimersi come Obama, in
virtù dell’esistenza di una comunicazione più istituzionale, adesso con i social network tutto è cambiato. Ci si
ritrova continuamente con persone che condividono tali frasi e di fatto questi social permettono questo tipo
di discorso.
Ma che ruolo hanno giocato i social media nel promuovere le rispettive narrazioni e determinare l’esito
della grande contesa? David Remnick, giornalista del New Yorker, ricorda come, mentre accompagnava
Barac Obama in un tour elettorale a favore della Clinton, nella Carolina del nord e a pochi giorni dall’election
day, fu testimone di una discussione molto animata tra il Presidente e il suo consigliere David Simas, a
proposito di un articolo apparso sul sito di informazione BuzzFeed, che descriveva come a Veles, una piccola
città della Macedonia, un gruppo di giovani locali stesse lucrando profumatamente pubblicando decine di
siti pro-Trump con centinaia di migliaia di follower su Facebook. Essi portavano notizie, poi rilevatesi false, o
comunque distorte, come l’endorsement di Trump da parte di papa Francesco o l’auspicio, formulato dalla
Clinton nel 2013, a che Donald Trump si candidasse per le Presidenziali, alla luce della sua integrità ed
onestà. Tali notizie erano state reperite perlopiù su siti partigiani statunitensi, tradotte in titoli
sensazionalistici e postate infine su quelli mecedoni, per essere condivise su facebook e altri social network
al fine di generare traffico sul web. Più click infatti venivano raccolti, più denaro veniva generato tramite gli
annunci pubblicitari pubblicati sugli stessi siti. La circostanza che i giovani macedoni intervistati da BuzzFeed
non avessero nessun interesse politico o ideologico a sostenere le ragioni di Donald Trump, ma un interesse
meramente pecuniario, è emblematica della centralità dei social media nella diffusione di fake news e della
complessità del fenomeno descritto con il termine di post-verità, nonché di quanto esso abbia pesato sulla

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campagna elettorale in questione. Un’analisi condotta dallo stesso sito BuzzFeed ha rilevato che nei tre mesi
finali della campagna presidenziale statunitense gli utenti di facebook hanno interagito maggiormente con
le 20 fake news più diffuse sui social network, rispetto alle 20 news più performanti dei media mainstream,
quali New York Times, Washington Post, Huffington Post, NBC News e altri.
Tabella 2. Fake news e Mainstream News: Trend delle interazioni su facebook durante la campagna
presidenziale pag 43:
Secondo l’esperto di fake news Craig Silverman, 17 delle 20 notizie false identificate nel corso dell’indagine
erano a favore di Donald Trump o contro Hillary Clinton, tra cui quelle secondo cui la Clinton avesse venduto
armi all’ISIS e che Trump avesse ricevuto l’endorsment di Papa Francesco. Per dare un’idea dell’entità delle
fake news maggiormente dibattute sui social media, prima o durante la campagna presidenziale, tra queste
si annoverano quelle secondo cui: il certificato di nascita di Barack Obama sarebbe falso; lo stesso Obama
sarebbe il fondatore dell’Isis; i coniugi Clinton sarebbero i responsabili di uno o più omicidi; il padre del
principale avversario di Trump alle primarie repubblicane del 2016, Ted Cruz, sarebbe stato ritratto in foto in
compagnia di Lee Harvey Oswald, prima dell’assassinio del Presidente J. F. Kennedy; Barack Obama avrebbe
ordinato l’intercettazione dei telefoni della Trump Tower durante la campagna presidenziale. Un’altra ricerca
pubblicata dall’Università di Oxford ha rivelato che nei giorni a ridosso dell’Election Day il social media
Twitter è stato inondato di messaggi inviati da chatbot (software progettato per simulare una conversazione
con un essere umano), quindi da utenti virtuali: fino a un quarto di tweet con hashtag collegati alle elezioni
erano inviati da profili altamente automatizzati. Si tratta di un fenomeno in crescita perché la tecnologia per
realizzare questo genere di botnet (reti di bot) e la posizione dominante di un piccolo numero di
piattaforme sociali sull’agenda mediatica è a sua volta una situazione abbastanza nuova nella società. Anche
in questo caso, i ricercatori di Oxford hanno rilevato un divario nell’uso dei bot a favore del candidato
repubblicano, molti dei quali tesi a danneggiare l’immagine di Hilary Clinton, ad esempio pubblicando foto
imbarazzanti, cavalcando l’impatto dei risvolti dell’inchiesta dell’FBI sul cosiddetto emailgate (parafrasando
il caso watergate in relazione a Nixon, parte da una serie di messaggini erotici del marito di una
collaboratrice della Clinton con una 15enne. Tra le email dell’uomo venne trovata una email con la Clinton,
contenente informazioni top secret su un normale account di posta e non governativo. Queste email
risalgono al periodo tra il 2009 e 2013 e riguardano anche l’attacco al consolato Usa di Bengasi dell’11
settembre 2012 in cui vennero uccisi l’ambasciatore americano in Libia e altri statunitensi), o diffondendo
notizie false, come quella secondo cui Hillary Clinton fosse stata arrestata. Inoltre, chi si aspettava che,
terminata la competizione elettorale, la polemica sull’uso spregiudicato di notizie false ed infondate si
sarebbe sopita, si è dovuto rapidamente ricredere. Così, nel corso della sua prima conferenza stampa, il 21
gennaio 2017, Sean Spicer, nuovo portavoce ufficiale della Casa Bianca, ha accusato i media di divulgare
cifre sottodimensionate e foto fuorvianti circa la partecipazione popolare alla cerimonia di insediamento del
Presidente Trump, dichiarando che si fosse trattato della più grande partecipazione di tutti i tempi ad una
inaugurazione. E ciò nonostante numerose evidenze, quali i dati del trasporto pubblico locale nella giornata
dell’insediamento, e le stesse foto della manifestazione, contraddicessero palesemente le sue affermazioni.
Il giorno seguente, durante la trasmissione televisiva Meet The Press, l’ex responsabile della campagna
presidenziale di Trump e suo stretto consigliere, Kellyanne Conway, ha utilizzato l’espressione fatti alternativi
per giustificare le affermazioni non corroborate da fatti di Spicer. L’episodio ha dato vita ad un ampio
dibattito sulla stampa e i social media. Numerosi giornalisti e commentatori negli States hanno stigmatizzato
l’espressione, che non sarebbe volta ad altro se non a respingere al mittente (la stampa), l’accusa di
diffondere notizie false, rafforzando una pericolosa tendenza a considerare legittime, false, rafforzando una
pericolosa tendenza a considerare legittime, non opinioni alternative, bensì fatti, quindi verità alternative.
Quasi a postulare una nuova categoria di rappresentazione del reale in cui a rilevare non sono le evidenze,
anche percettive, quali desumibili attraverso i sensi, ma una vera e propria versione alternativa della realtà,
a cui credere prescindendo dalla fattualità. Molti hanno così fatto riferimento alla neolingua del romanzo
1984 di George Orwell, in cui il pensiero indipendente o non ortodosso è stato bandito. Peraltro negli States
le vendite di questo romanzo sono salite vertiginosamente e il libro si è ritrovato in testa alla classifica dei

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best seller di Amazon. A fronte di questi sviluppi, che richiamano scenari degni dei più celebri romanzi
distopici, non sorprende che da più parti si invochino a gran voce maggiori misure e interventi in grado di
arginare un fenomeno che sembra destinata a condizionare ancora a lungo la politica mondiale.

2.3 Oltre la post-verità: decostruire il discorso post-fattuale


2.3.1 Fact-checking e debunking
Come in ogni sistema complesso, la comparsa di un elemento patologico (la diffusione virale di fake news)
ha determinato l’attivazione di risposte immunitarie anche nell’universo dell’informazione e della
comunicazione. Negli ultimi anni hanno così iniziato a proliferare verificatori di fatti, i cosiddetti
factcheckers, che peraltro hanno da sempre rivestito un ruolo centrale in ambito giornalistico. Un termine
legato a quello di factchecking è quello di debunking, con cui si intende un’attività volta ad appurare la
veridicità o falsità di un determinato contenuto, ovvero, per dirlo più prosaicamente, a smascherare bufale.
Non si tratta certo di un tema nuovo, basti pensare che il filologo e umanista quattrocentesco Lorenzo Valla
viene considerato da alcuni un debunker ante litteram, per aver dimostrato la falsità della cosiddetta
Donazione di Costantino, un documento alto-medievale che riconosceva al papato una serie di privilegi. Sul
web, a fronte di un’accelerazione della circolazione di fake news, si sono quindi moltiplicati i siti di fact-
checking e debunking: polifact.com (550.000 follower su Twitter), vince nel 2009 il premio Pulitzer per il
factcheking della copertura delle elezioni usa 2008. Il suo veritometro misura le percentuali di verità nelle
affermazioni dei politici e diventa un modello pronto all’esportazione via web per il factcheking. C’è poi il
progetto no profit Fact-Check.org della University of Pennsylvania. Le presidenziali francesi del 2012 sono
seguite da Veritometre, progetto congiunto del canale i>Tele e del sito Owni.fr. in Olanda, il factchecking
politico dei programmi elettorali è istituzionalizzato, affidato al Central Planbureau (CPB) del Ministero
dell’Economia. Tra i siti che utilizzano algoritmi per la verifica, lo statunitense CalimBuster (University of
Texas) e il britannico Fullfact.org. in Italia, dopo Lavoce.info, il factchecking politico diventa fenomeno social
con la start up PagellaPolitica.it .
Sempre nell’ambito del panorama italiano, tra i siti antibufale che hanno un discreto seguito si possono
citare il blog “il disinformatico” del “cacciatore di bufale” Paolo Attivissimo, le pagine “Bufale.it” o “Bufale
un tanto al chilo”, mentre lo stesso Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sulle pseudoscienze
(CICAP), benché nato ben prima della diffusione di internet, svolge attività che potrebbero essere definite di
debunking, a conferma di come i fruitori di informazione scientifica siano tra i principali sostenitori e fruitori
di informazione scientifica siano tra i principali sostenitori e fruitori di informazione svolta a smentire notizie
false o tendenziose. Factchecker e debunker sono oggetto sempre più frequente degli attacchi di chi li
accusa di imparzialità o di asservimento a interessi di parte, e le stesse grandi testate di informazione, come
il Washington Post e il New York Times, da sempre ritenuti tra i baluardi più seri e autorevoli
dell’informazione globale, possono ritrovarsi inseriti in una lista nera di propagatori di menzogne e tenuti
fuori dai briefing presidenziali. È anche per fare fronte comune contro i loro detrattori che alcuni verificatori
di notizie nel settembre 2015 hanno deciso di riunirsi sotto la sigla dell’international fact checking
networking e, a seguito dell’evento Global Fact 3, svoltosi a Buenos Aires nel giugno 2016, di darsi un codice
di condotta al quale attenersi. Facebook ha successivamente chiesti ai factchecker con cui collabora di
essere firmatari di tale codice come condizione minima per essere accettati quali third party fact checker del
social network. Oltre ad inviare a factchecker indipendenti headline sospette, il social network di Menlo
Park ha inoltre introdotto in aprile nel suo Newsfeed un decalogo per individuare le fake news invitando gli
utenti a denunciare contenuti ritenuti scarsamente affidabili, in modo che questi possano essere etichettati,
nonché si è impegnato ad affrontare la natura algoritmica del problema. Inoltre, il 27 aprile 2017, facebook
ha pubblicato un documento di 13 pagine che affronta la questione delle Information operations che si
avvalgono del social network, definite quali: azioni intraprese da attori organizzati per distorcere il
sentimento politico interno o estero. Queste operazioni possono utilizzare una combinazione di metodi,
notizie false, disinformazione o reti di conti falsi mirati a manipolare l’opinione pubblica. Tra l’altro, la nota di
Facebook ammette che in occasione delle elezioni presidenziali USA sono state rivelate attività sospette che

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non contraddicono le risultanze del rapporto CIA, NASA ed FBI. Il paper in sostanza attribuisce un ruolo alla
Russia nel furto di materiale dalle email del team della candidata democratica Hillary Clinton e nel tentativo
di inquinare la campagna elettorale. Tale questione è collegata a quella, più ampia, di come gli Stati tentano
di influenzare il sistema internazionale, soprattutto tramite le cosiddette narrazioni strategiche, definibili
come means for political actors to construct a shared meaning of international politics to shape the
behavior of domestic and international actors. Miskimmon, ‘O Loughlin e Roselle hanno individuato le
componenti principali di tali narrazioni: A. è orientato al futuro. Una narrazione strategica può riferirsi
passato o presente, ma come dispositivo strategico la sua utilità è per plasmare la politica in futuro. B. si
tratta di un’attestazione di identità. Esso articola una posizione distintiva (nazionale/regionale) su uno
specifico tema, dominio politico o in generale per quanto riguarda il luogo del paese all’interno della politica
mondiale o il sistema internazionale. C. il suo contenuto non è fisso. Una narrazione strategica è un
prodotto sociale dinamico e sempre negoziato sulla base di interazioni sia con le loro società che con altri
significanti esterni. D. Ha detto che i parametri di narrazione strategiche su cui uno stato può attingere è
delimitata dalla prevalente e le aspettative di tale stato. Queste intese possono essere derivate da letture di
narrazioni storiche che coinvolgono azioni precedenti o la loro reputazione. E. il suo pubblico è sia interno
che esterno. Strategiche narrazioni possono essere utilizzate per unificare un pubblico (domestico),
rivendicando l’identità e delineare e comunicare questa affermazione e la posizione all’interno della sfera
internazionale. I suoi narratori sono principalmente élite, non solo i capi di governo, ma anche la sicurezza
dei consulenti, professori e analisi politici in think-thank, università e istituti, nonché ministeri che
costruiscono la narrazione strategica attraverso le deliberative interazioni nelle comunità discorsive e poi
comunicarlo al grande pubblico attraverso discorsi, conferenze stampa, documenti ufficiali e altro ancora.
Inoltre, le narrazioni possono essere riformulate da giornalisti, formati di notizie e persino dai documentari.
Attraverso tutti questi canali e gatekeeper, le narrazioni vengono discusse e deliberate attraverso i media e
le lezioni “parlanti” o intellettualoidi, il pubblico molto più generale.
Il coinvolgimento di attori governativi ed élite politiche ed accademiche in uno mediatico e della
comunicazione complesso e penetrabile come quello odierno, rende ancora più impellente l’esigenza di
comprendere dinamiche e prospettive, promuovendo una cultura mediatica in grado di decostruire il
discorso post-fattuale nel lungo termine. Distinguere una notizia falsa pubblicata da un sito creato ad arte
per disinformare; saper attribuire il giusto collocamento politico a una testata, al fine di posizionarla
correttamente dal punto di vista dei suoi bias e dalla sua partigianeria; conoscere il funzionamento dei
social media e il ruolo degli algoritmi: tutti questi elementi fanno capo alla media literacy, alla capacità di
saper leggere i comportamenti dei media e saperli, di conseguenza, interpretare. Ed è ad essa quindi che
rivolgiamo la nostra attenzione.

2.3.2 Educare all’alfabetismo digitale e mediatico


Etichette e algoritmi possono senz’altro contribuire a ridurre l’impatto delle fake news ma un ruolo cruciale,
nel medio e lungo termine, deve essere svolto da strategie educative in grado di rendere i consumatori e i
creatori di contenuti mediatici più attivi e responsabili. Devono essere in altre parole promossi programmi di
digital e media literacy, oggi ancora scarsamente diffusi. È quanto sostiene con forza la Prof.ssa Renee
Hobbs, che abbiamo incontrato in occasione di una conferenza tenuta presso il Dipartimento di
Comunicazione e Ricerca Sociale, La Sapienza: “siamo noi che di fronte a ciò che Internet ci propone
dobbiamo porci delle domande. Dobbiamo affinare, potenziare e esercitare il nostro senso critico.
Dobbiamo insegnarlo ai ragazzi fin dalla scuola, con programmi di ICT e media literacy. Di fronte a un
articolo sia in carta che digitale, quello che ci si deve chiedere è: chi l’ha scritto e per quale motivo? Quali
tecniche vengono utilizzate per catturare l’attenzione del lettore e tenerlo incollato allo schermo o alla
pagina? Questo vale per ogni genere di comunicazione: il titolo, l’immagine, i colori, i font. C’è una
molteplicità di elementi che sono chiamati ad attrarci e lusingarci. E poi dobbiamo chiederci: questo
contenuto, quali punti di vista rappresenta, quali valori? Che messaggio vuole dare e come può risuonare su
audience diverse? Ci potrebbe essere una parte della storia che viene omessa o lasciata in ombra?

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Secondo la ricercatrice, gli studiosi di alfabetizzazione mediatica hanno condensato decenni di teoria su
media, tecnologia, cultura, alfabetizzazione e istruzione in alcuni concetti chiave, che rappresentano i
principi fondamentali della propria comunità scientifica: 1) tutti i media rappresentano costruzioni sociali
della realtà, congegnate per avvalorare un particolare insieme di valori o una determinata visione del
mondo; 2) il pubblico è costantemente impegnato in un negoziato sul contenuto semantico dei media, che
viene interpretato in base a bisogni personali, ansie, desideri, contesti familiari e culturali; 3) i messaggi
mediatici possono vantare un grado significativo di potere sociale (es. capacità di influenzare i
comportamenti individuali e collettivi) nell’ambito di sistemi politici, sociali ed economici; 4) tali messaggi
utilizzano codici e linguaggi afferenti ad una pluralità di generi e forme espressive e comunicative; ogni
medium ha una propria grammatica e codifica della realtà in un modo specifico; 5) i media influenzano i
comportamenti individuali e hanno un impatto su formazioni sociali e culturali in ogni comunità e nazione.
Date queste premesse, la Hobbs si chiede quali siano le conoscenze, competenze e abilità più importanti
oggi per essere cittadini, produttori e consumatori mediatici consapevoli e responsabili, distinguendo due
principali orientamenti in cui si è articolata la riflessione sull’alfabetismo mediatico: “i sostenitori
dell’alfabetizzazione mediatica sono allineati con una delle due prospettive primarie: l’empowerment e
quindi in che modo le conoscenze e le capacità di pensiero critico, siano un impegno attivo per la strada del
supporto della partecipazione civica, mentre un altro enfatizza la protezione, concentrandosi sui potenziali
pericoli e rischi di esposizione a contenuti o comportamenti offensivi o dannosi. La prospettiva di
empowerment include approcci che enfatizzano l’alfabetizzazione visiva, che è associata alla natura
mutevole di partecipazione, gioco e identità nel contesto di internet e dei social media. Un orientamento
protezionistico è evidente negli approcci all’alfabetizzazione mediatica che enfatizzano le prospettive
critiche sul contenuto dei media, le istituzioni dei media e la proprietà dei media, esplorando le questioni
del potere istituzionale ed esaminando la qualità, la credibilità, l’equità, la giustizia sociale, le questioni della
rappresentazione e la circolazione delle idee in pubblico discorso. Alcuni educatori vedono l’alfabetizzazione
mediatica come un mezzo per affrontare i complessi effetti dei media sugli individui e sulla società, mentre
altri vedono un’inevitabile espansione del concetto di alfabetizzazione, inclusa la dimensione sia ricettiva
che produttiva, le quali suggeriscono i concetti di scrittura e lettura.
Per proseguire la sua aspirazione a diffondere una cultura dell’alfabetizzazione mediatica, Renee Hobbs ha
fondato il Media Education Lab, da lei diretto e che organizza per lo scopo delle scolarship e servizi diretti
alla comunità. Tra i suoi progetti presentati in Italia ci sono: Mind Over Media: Analyzing Contemporary
Propaganda, una piattaforma online basata sul concetto di crowdsourcing (collaborazione su un progetto di
più persone attraverso internet) che consente di visionare e discutere esempi di messaggi propagandistici in
formato stampa, video o digitale, nonché di scambiare opinioni sui benefici o danni che potenzialmente
possono arrecare. La prof. Si è anche soffermata sulla crisi dei media tradizionali, una crisi che andrebbe
affrontata veicolando i contenuti dell’informazione con criteri di immediatezza, personalizzazione, facilità
nel farsi capire e trovare sui canali dove il pubblico è presente per poter recuperare reputazione, credibilità
e audience. L’esperta di comunicazione ha infine lamentato la scarsa attenzione dedicata dalle istituzioni
pubbliche alle campagne di alfabetizzazione mediatica, che hanno beneficiato soprattutto negli USA, del
sostegno del settore privato, evidenziando come occorra fare molto di più nel coinvolgimento delle
istituzioni formative a ogni livello.

2.3.3 Diplomazia e fake news


Gli sviluppi tecnologici degli ultimi anni, l’ingresso nell’era digitale, l’avvento di internet, l’affermazione di
mezzi di comunicazione che consentono contatti immediati tra individui e istituzioni senza barriere spaziali e
temporali, sono tutti fattori che hanno anche avuto un forte impatto sulla politica internazionale. Come
osserva Henry Kissinger: per gran parte della storia, il cambiamento tecnologico si è sviluppato nel corsi di
decenni e secoli di progressi incrementali che hanno affinato e combinato le tecnologie esistenti. Anche
innovazioni radicali potrebbero nel tempo essere inserite all’interno di precedenti dottrine tattiche e
strategiche: i carri armati erano considerati in termini di precedenti tratti da secoli di guerra di cavalleria; gli

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aeroplani furono concettualizzati come un’altra forma di artiglieria, le navi da guerra come forti mobili e i
portaerei come piste di atterraggio. La novità dell’era attuale è il tasso di cambiamento della potenza di
calcolo e l’espansione della tecnologia dell’informazione in ogni sfera dell’esistenza. Gli smartphone dotati
di dispositivi individuali ora possiedono informazioni e capacità analitiche oltre la gamma di molte agenzie
di intelligence di una generazione fa. Le corporazioni che aggregano e controllano i dati scambiati da questi
individui esercitano il potere di influenza e sorveglianza eccedendo quelli di molti stati contemporanei e di
poteri ancora più tradizionali. Questi cambiamenti si sono verificati così rapidamente da superare la maggior
parte dei tentativi da parte di coloro che non hanno esperienza tecnologica di comprendere le loro
conseguenze più ampie. Attirano l’umanità in regioni finora inspiegabili, anzi non concepite.
In un contesto così fluido, le diplomazie sono chiamate a riflettere sulle modalità attraverso cui raccolgono,
verificano e condividono le informazioni. Una riflessione ancora più urgente sulla propagazione di fake news
riguarda i problemi di comunicazione e di interpretazioni dei fatti. I fatti, infatti, sono raramente
autoesplicativi: la loro valenza e interpretazione dipendono in larga misura da elementi di contesto,
perlomeno nell’ambito della politica estera. Quindi, l’informazione nelle relazioni tra Stati, deve essere
inquadrata nel più ampio contesto storico, politico e culturale in cui si esplica. Questa condizione oggi
sembra soddisfatta: poiché l’informazione è così accessibile e la comunicazione è istantanea, c’è una
diminuzione dell’attenzione sul suo significato, o persino sulla definizione di ciò che è significativo. Questa
dinamica può incoraggiare i responsabili delle politiche ad aspettare che sorga un problema anzichè
anticiparlo e a considerare i momenti di decisione come una serie di eventi isolati piuttosto che come parte
del continuum storico. Quando ciò accade, la manipolazione delle informazioni sostituisce la riflessione
come principale strumento politico. Allo stesso modo, Internet ha la tendenza a diminuire la memoria
storica.
Nelle situazioni di crisi, inoltre, le nuove tecnologie permettono di comunicare in tempo reale gli eventi,
favorendo il giornalismo partecipativo, che consente allo spettatore di un evento di testimoniare i fatti in
modo diretto, finendo quindi egli stesso per svolgere una funzione di mediazione della realtà, sovvertendo
così il modello tradizionale di produzione e fruizione della notizia. Questi sviluppi chiamano in causa le
istituzioni governative, comprese quelle responsabili della politica estera, chiamate a prendere posizione
riguardo un evento nel giro di minuti e non più di ore. In termini di policymaking, la sfida principale consiste
nell’essere in grado di entrare tempestivamente nello spazio dell’informazione, minimizzando al contempo i
rischi di essere successivamente smentiti al momento in cui i fatti verranno chiariti. Il giornalista britannico
Nik Gowing definisce ciò F3 dilemma, che riguarda sia i media tradizionali sia i policymaker, al momento
dello scoppio della crisi: dovrebbero essere i primi ad entrare nello spazio dell’informazione? Quanto
dovrebbero essere veloci? Ma quanto potrebbero essere imperfetti i loro commenti e in che modo
potrebbero minare sia la percezione pubblica che la fiducia, rimbalzando quindi sulla credibilità
dell’istituzione? Per quanto riguarda anche la circolazione di notizie false, si pone il rischio che i responsabili
governativi prendano posizione senza aver verificato adeguatamente la veridicità. E la stessa attività di
verifica nella notizia, talvolta, diventa secondaria rispetto alla gestione delle conseguenze della sua
diffusione. Episodio in Iran nel 2009: all’indomani della rielezione di Ahmandinejad alla Presidenza delle
Repubblica, nelle strade di Theran i giovani dell’Ondaverde manifestavano contro i risultati elettorali, un
livello di protesta mai raggiunto dopo la rivoluzione del 1979. Le forze di sicurezza reagirono duramente
contro i manifestanti, lasciando sul campo morti e feriti. Mentre i principali network internazionali
scorrevano immagini riprese dagli smartphone dei manifestanti, sugli schermi di tutto il mondo iniziarono
ad apparire le notizie che le varie ambasciate di tutto il mondo stavano dando rifugio ai feriti. La notizia era
priva di fondamento e pur sapendolo, diversi ministri occidentali si sentirono in obbligo di reagire poiché
incalzati dai giornalisti. Pur con grande cautela e facendo appello ad un abbassamento della tensione, alcuni
ministri occidentali si dissero pronti ad interventi umanitari, comprendenti l’assistenza ai feriti, ove questa
fosse stata richiesta e consentita dalle autorità iraniane. In realtà nessuna ambasciata accolse i feriti, le
autorità iraniane non lo avrebbero permesso, tuttavia, alcune ambasciate, compresa quella italiana, unica
tra le missioni UE, rilasciarono dei visti ad alcuni feriti nelle manifestazioni, e le autorità italiane

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consentirono a questi ultimi di recarsi ed essere assisiti all’estero. Se si pensa, poi, che la circolazione di
falsità è imputabile anche agli attori pubblici, ponendo una serie di criticità proprio sul piano dei rapporti
diplomatici, e che alcune falsità possono sopravvivere molto di più al di la del normale ciclo di informazione,
si deduce come la funzione diplomatica debba essere adeguatamente attrezzata per affrontare lo scenario
che è venuto a determinare. La percezione, è peraltro, che i funzionari diplomatici siano già ben
equipaggiati per affrontare l’emergenza fakenews. Questo in virtù di una forma mentis naturalmente
orientata alla verifica dei fatti e quindi nell’attivazione di factcheking, cominciando dalla verifica delle fonti.
Si tratta di anticorpi che sarebbe comunque bene rafforzare con mirate attività di educazione mediatica, in
particolare nell’ambito dei programmi di formazione e aggiornamento professionale.
Per fare un altro esempio delle tante variabili in gioco nel fenomeno, possiamo parlare della crisi tra Qatar e
altri tre Paesi del Golfo (Arabia Saudita, Emirati Arabi e Baherin), una vicenda che presenta tutti gli
ingredienti che alimentano il dibattito sulle politiche della post-verità. La notte tra il 23 e 24 maggio 2017, la
televisione di Stato “Qatar Tv” e l’agenzia di stampa governativa “Qatar New Agency” diffondevano alcune
presunte dichiarazioni rilasciate dall’Emiro del Qatar durante una cerimonia militare, in cui egli si sarebbe
distanziato dalla linea degli altri Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo sui più sensibili dossier
regionali (ruolo dell’Iran, rapporti con Hezbollah, Hamas e Fratellanza Musulmana), esprimendo valutazioni
molto critiche sull’Amministrazione Trump. La Qatar News Agency”, in particolare, pubblicava sul suo sito
web un rapporto in cui le dichiarazioni attribuite all’Emiro erano presentate più dettagliatamente. Le
dichiarazioni sono state immediatamente riprese dai media internazionali, nonché dalle agenzie di stampa
governative saudita ed emiratina. Esse sono state però tempestivamente smentite dalle autorità qatarine,
che le hanno attribuite ad un attacco informatico. Secondo la versione di queste ultime, esse avrebbero
notato la comparsa del rapporto sul sito dell’agenzia stampa alle 00,15 del 24 maggio ed all’una circa veniva
rilasciato un comunicato che ne affermava il carattere non autentico e contraffatto. Alcune fonti stimano che
il rapporto sia rimasto online circa mezz’ora prima della sua rimozione, sia dal sito dell’agenzia sia dalle sue
pagine sui social media. Secondo il direttore dell’ufficio per le comunicazioni del Qatar. Anche il Twitter feed
della QNA sarebbe stato hackerato e avrebbe riportato falsi tweet attribuiti al Ministro degli Esteri del Qatar,
con cui questi richiedeva agli Ambasciatori di alcuni Paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo di lasciare
il Paese entro 48 ore. Nei giorni successivi all’incidente, i media di diversi paesi del golfo, hanno contestato a
varie riprese la tesi dell’hackeraggio informatico, e si è acceso un duro confronto mediatico tra le emittenti
satellitari Al Arabya e Al Jazaera. Arabia Saudita, Baherin, Emirati Arabi Uniti ed Egitto hanno quindi deciso
di bloccare l’accesso online ad Al Jazaera sul loro territorio. Al Arabya da parte sua, ha mandato in onda un
video della Qatar TV che proverebbe l’autenticità del rapporto della QNA. La Qatar Tv ha replicato con un
programma chiamato La Veritò, al fine di confutare la ricostruzione dei fatti dell’emittente con sede a Dubai.
Il 4 giugno, Al Jazaera ha inoltre dato grande risalto alle email dell’Ambasciatore emiratino a Washingotn,
intercettate e diffuse da un gruppo di hackers anonimi, che dimostrerebbero l’esistenza di una campagna
orchestrata dagli EAU e da un think-thank statunitense filo-israeliano per screditare il Qatar in funzione anti-
iraniana. Il 5 giugno Arabia Saudita, Baherin, EAU ed Egitto hanno annunciato la rottura delle relazioni
diplomatiche con Doha e adottato una serie di misure molto dure nei confronti del Qatar. Le tensioni latenti
tra i vari paesi coinvolti nella crisi sono quindi esplose in occasione di un conflitto che ha visto contrapporsi
versioni diverse, e quindi per definizione non conciliabili, della realtà, o se vogliamo, della verità.

2.4 Conclusioni Aperte


Per una materia così attuale e in continuo divenire, ci vengono in soccorso alcuni grandi vegliardi dei nostri
tempi. Secondo Henry Kissinger filosofi e poeti hanno a lungo operato una distinzione tra informazione,
conoscenza e saggezza, ma la cifra della nostra epoca è l’accento sulla sola informazione, corollario di
eccesso di attenzione al contingente, a scapito delle dimensioni più alte della coscienza. Egli ricorda al
riguardo i versi di T. S. Eliot: dov’è la vita che abbiamo perduto? Dov’è la saggezza che abbiamo perduto
sapendo? Dov’è la conoscenza che abbiamo perduto nell’informazione? Nell’era di internet, l’eccessiva
attenzione al contingente fa si che i leader politici, sempre più costretti a prendere decisioni tempestive

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senza ponderarne adeguatamente le conseguenze, soffrano seri limiti di visione strategica. La stessa
diplomazia risente di queste intemperie. Sempre Kissinger osserva come i mandanti di istruzioni
diplomatiche, un tempo, fossero costretti a prendere in considerazione le contingenze che potevano
emergere nel periodo necessario affinché le istruzioni fossero recapitate ed attuate, il che consentiva una
riflessione più pacata sugli effetti dell’azione diplomatica. Inoltre, se già nella sfera sociale solo le personalità
più forti sono in grado di resistere alla pressione, esercitata dal gruppo di pari, sempre più tramite i social
media, a non assumere posizioni impopolari, in quella politica tale dinamica è aggravata dalla ricerca di
consenso che domina l’azione politica. Attenzione monopolizzata dall’informazione in tempo reale e azione
politica dominata dalla ricerca spasmodica del consenso, che spesso sfocia in posizioni demagogiche, già di
per se queste condizioni configurano uno scenario critico della contemporaneità. Ad esse vanno aggiunte lo
sganciamento della sfera economica da quella politica e la crisi dei sistemi politici nazionali, a seguito del
processo di globalizzazione; la frammentazione delle identità e l’incertezza esistenziale che
contraddistinguono la modernità liquida, come acquisito dalla grande lezione di Bauman; la crisi
dell’autorità che interessa la società occidentale, collegata a sua volta alla perdita della dimensione della
profondità denunciata da Hannah Arendt. Uno scenario ora aggravato anche dal dilagare della post-verità.
L’accento posto su emozioni e credenze, a scapito dei fatti, costituisce infatti il terreno ideale per l’affermarsi
oggi di movimenti populisti che sfruttano la domanda di identità sul palcoscenico dei social media per
ottenere consensi facili, perdendo di vista la priorità del bene collettivo. L’affermazione dei soggetti politici
che cavalcando l’onda del populismo e della disinformazione ha come conseguenza la messa in discussione
di principi e valori che hanno rappresentato la stella polare dell’ordine internazionale negli ultimi decenni, e
che ne costituiscono l’essenza stessa: il multilateralismo quale metodo prioritario per la gestione delle sfide
globali; la mediazione come strumento fondamentale per assicurare una soluzione condivisa e duratura ai
conflitti; la centralità del ruolo riconosciuto alle donne in ogni società e in particolare in quelle segnate da
conflitti; l’importanza della non proliferazione di armi di distruzione di massa quale fattore essenziale per
garantire la pace e la sicurezza internazionale; lo sviluppo di una consapevolezza ambientale e in materia di
diritti umani; la necessitò di tutelare e preservare la diversità culturale ed i simboli storici dell’identità dei
popoli; la libertà di religione o credo, sia nella dimensione individuale che in quella collettiva. Principi e
valori a cui non è certo estranea la grande lezione illuministica. Tzvetan todorov, in una riflessione dedicata
ai tratti principali dell’illuminismo, ha identificato quelli che considera i cinque termini chiave dello spirito
illuminista: autonomia, laicità verità, umanità, universalità. Gli illuministi avevano capito che i detentori del
potere non devono avere alcuna influenza sul discorso della ricerca del vero. Solo il popolo ha la fonte di
ogni potere, per cui nulla è superiore alla sua volontà. Quest’ultima, tuttavia, non ha presa sulla verità, la cui
ricerca non può dipendere dalla deliberazione pubblica. L’assioma dell’indipendenza della verità viene
assunto a tutela della stessa autonomia dell’individuo, che di fronte al potere può sempre appellarsi al vero.
In anticipo sui tempi, Todorov rileva anche la preoccupante tendenza odierna a svuotare la nozione stessa di
verità. Citando lo studio di Kolakoski sul romanzo 1984, osserva come già dall’esperienza totalitaria la
distinzione tra verità e menzogna avesse perso di rilevanza, a fronte del predominio di criteri di convenienza
puramente utilitaristica. Il totalitarismo non poteva più nemmeno essere accusato di mentire, essendo
riuscito ad abolire l’idea stessa di verità. Si tratta di un pericolo in cui non incorrono solo i sistemi totalitari
ma le stesse democrazie, come dimostrato dall’attuale messa in discussione del concetto di verità- in una
fase in cui corriamo il rischio di transitare dalla civiltà della ragione a quella dell’emozione, in cui l’oggettività
è sostituita dall’opinione, l’attendibilità della fonte di fascinazione della testimonianza, l’autorevolezza della
spiegazione dall’incatenamento della narrazione, l’appello a rimettere in primo piano la preoccupazione
della verità, a fondamento dell’ambito democratico, non può essere ignorato. Si tratta di un primo punto
fermo nel cercare la bussola per orientarsi in questo tempo.

CAPITOLO 3 INTERCONNESSIONI: PUBBLICI DIGITALI E NARRAZIONI DELLA POLITICA INTERNAZIONALE ALLA


PROVA DELLE FAKE NEWS
3.1. Il contesto: il sistema mediale ibrido come moltiplicatore di narrazioni internazionali

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Il panorama politico internazionale risente di una crescente trasnazionalizzazione delle informazioni,


esaltata dalle geografie variabili della rete. In tal modo, la possibilità di rivolgersi alle opinioni pubbliche non
domestiche e di manipolare e influenzare lo spazio informativo si alimenta tramite un’attività
transfrontaliera, che accresce e moltiplica l’opportunità di declinare le narrazioni strategiche in degli
obiettivi situati. Le attività di influenza del dibattito pubblico, quindi, sono parzialmente modellate dal
contesto nel quale gli attori e i loro oppositori proiettano le loro contestazioni informative. Secondo
Chadwick, i cambiamenti nell’ecosistema mediale portano ad una ridefinizione dei rapporti di potere che
interessano la politica e le relazioni con le opinioni pubbliche. Lo stesso potere è un elemento chiave per
comprendere quello che l’autore definisce sistema mediale ibrid, nel quale le logiche dei vecchi e nuovi
media collimano e si intersecano, implicando la costruzione relazioni tra attori molteplici basate su
adattamento e confluenze, impostando i propri obiettivi e modificando gli scopi (e le forme espressive) degli
altri, definendo un contesto relazionale fluido, evolutivo, nel quale convivono modelli simbolici basati sulla
simultanea coesistenza di concentrazione e diffusione di potere. Entro tali termini, i cittadini-utenti hanno la
possibilità di rivolgere il loro bisogno informativo verso diverse piattaforme, rendendo l’informazione
politica un elemento poliforme che si sviluppa nei continui flussi di un’agenda setting intermediale. Online e
offline sono mondi informativi interdipendenti, poiché i media broadcast tradizionali possono usufruire di
fonti grassroot (movimenti di base che hanno origine da privati cittadini che emergono dal basso), così
come i blogger o realtà amatoriali possono rimediare i contenuti promossi dai colossi dell’informazione. In
questo senso, la comunicazione politica sfugge ai canonici cicli produttivi, restando invischiata in un
costante dibattito tra pubblici interconnessi che eccede il momento della messa in onda: nei termini
dell’autocomunicazione di massa, i contenuti possono sfuggire ai propri produttori, per diffondersi
viralmente, aggiungere chiavi di lettura oppositive, acquisire nuovi significati simbolici presso comunità
interpretative uniformi. Ovviamente, più i media ricorrono all’utilizzo delle informazioni presenti sui social
network per costruire le loro storie, maggiore è la possibilità di imbattersi in attivisti, oppositori, concorrenti
che utilizzano tutti gli stessi strumenti di diffusione informativa per compattare i soggetti simili e influenzare
le forme e i contenuti del dibattito politico. Questo conduce a diversi modelli di coesistenza: da un lato
l’aspetto collaborativo come ad esempio nei casi in cui le logiche dei gruppi digitali o auto-rappresentati,
hanno avuto dei media mainstream per pubblicizzare la loro storia, oppure racchiuso nella logica win-win
(Wikileaks non sarebbe stato un fenomeno politico-culturale senza i media mainstream, anche se avrebbero
costituito una storia irrinunciabile per i professionisti dell’informazione); dall’altro è innegabile la
persistenza della tensione competitiva, non solo tra sistemi mediali, ma tra le élite che pretendono di
influenzare le storie e i frame che le caratterizzano. I social, quindi, offrono l’opportunità di alterare il
percorso dell’informazione politica, intervenendo sui rapporti di potere che ne determinano il controllo,
agendo e anche modellando le attività e le pratiche connesse al consumo e creando nuove logiche
moltiplicatrici di distribuzione. Per Gainous e Wagner i social media concorrono nel cambiare i processi
sottesi all’apprendimento politico entro due aspetti fondamentali: 1) basandosi sull’adesione volontaria alle
reti comunicative, i social permettono di selezionare solo quei contenuti in grado di rafforzare o confermare
le proprie credenze, evitando l’esposizione a idee, opinioni, utenti contrastanti. Di fatto gli internauti si
rifugiano in un universo informativo selettivamente unilaterale. 2) Le reti oltre e malgrado il tradizionale
impianto mediatico, permettendo agli attori politici la definizione autonoma di contenuti informativi.
Secondo i due autori i nuovi media partecipano al processo dell’informazione delle opinioni pubbliche
politicizzate in un flusso composto dai seguenti passaggi: a) gli individui ricevono prevalentemente
informazione delle opinioni pubbliche politicizzate in un flusso composto dai seguenti passaggi: a) gli
individui ricevono prevalentemente informazioni che non contraddicono i loro assunti consolidati; b)
l’utilizzo dei social media e la predisposizione delle piattaforme influenzano e incrementano la
partecipazione (anche intesa come espressione pubblica delle proprie idee); c) i social media rendono
cristallizzate le opinioni, inducendo la polarizzazione e l’estremizzazione delle stesse. Williams e Delli
Carpini, tuttavia, esprimono perplessità riguardo al sentire comune e accademico circa i mutamenti
determinati dall’espansione digitale, prevalentemente connessi a una generale sfiducia verso il giornalismo

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professionale e a una progressiva prevalenza della componente soft delle notizie, a detrimento della
copertura seria delle questioni politiche. Per i due autori, tali opinioni, seppur ampiamente suffragate dalla
letteratura di riferimento (e, impressionisticamente auto-evidenti) finiscono per essere degli assunti che
impoveriscono il dibattito intorno ai punti critici e alle potenzialità dell’ambiente informativo digitale. Si può
essere d’accordo nel dire che la determinazione di quanto si definisce “notizia” e quanto non lo sia, possa
dirsi decisamente sfumata, preferendo, come indicano i due autori, un altrettanto divisione problematica tra
quanto pertiene ai public affairs media e quanto, invece, rientra nel calderone della popular culture,
piuttosto che ricorrente al fortunato termine ibrido infotainment, che in realtà contribuisce a confondere le
suggestioni sull’informazione. Così, il focus per determinare quanto sia politicamente significativo così, il
focus per determinare quanto sia politicamente significativo sta nella forza interpretativa del concetto di
pubblico, indicando in tale prospettiva tutte quelle questioni considerate importanti per una moltitudine di
persone. In tal senso si interpreta la corsa dei media a vocazione pubblica verso gli oggetti culturali, i
personaggi e le celebrità, le storie personali; ma si individua anche la rilevanza degli elementi politici o
politicizzanti inseriti nei prodotti di finzione o di intrattenimento popolare. I due autori, non negano la
distinzione tra fiction e non-fiction che indubbiamente determina la differenza tra cosa possiamo definire
informazione giornalistica e gli altri generi, ma rifiutano la auto-evidenza di tale distinzione. Si pensi al
concetto di “news-story” e al legame con le narrazioni strategiche: la narrativizzazione delle vicende
internazionali con finalità politiche egoistiche include, in casi estremi, ma non per questo infrequenti, una
componente finzionale; sia questa l’esaltazione di alcune componenti biografiche dello stato, come si
enfatizza con il nation branding, sia la creazione stessa di occasioni politiche che si prestano a diventare
storie (es. l’invenzione delle armi di distruzione di massa in Iraq per legittimare l’intervento statunitense e
favorire la creazione di una coalizione internazionale; oppure la costruzione televisiva del salvataggio di
Jessica Lynch). A tal proposito, è necessario valutare i contesti entro i quali tali narrazioni prendono forma:
quanto è politicamente rilevante nel senso di notiziabile non può essere determinato aprioristicamente
considerando la forma, il contenuto, o la fonte, ma è inesorabilmente frutto di una contestazione, o di un
occultamento, a loro volta determinati da scelte politiche. Nel mercato dei media globali, il flusso dei
prodotti mediali è molto più di una semplice commercializzazione dei contenuti. Questo, come evidenzia
Price, è uno spazio connotato dall’interdipendenza dove si dipanano regole, formali o informali, che
contribuiscono a modellare le narrazioni comuni, nelle quali ideologie in competizione agiscono sulla forza
di governi o di nazioni, creando un’arena globale dove le narrazioni internazionali diventano un
supplemento o un sostituto rispetto all’utilizzo diretto della forza. Ovviamente, in un sistema multicentrico
(che riguarda più centri), le decisioni che riguardano lo stato non coinvolgono più direttamente lo stato:
Price indica l’esistenza di peculiari costellazioni domestiche, formate da un insieme di ideologia, tecnologia,
demografia e storia, che influenzano la regolamentazione dei media e di conseguenza il loro utilizzo; alle
quali si aggiunge la dimensione della geopolitica. L’utilizzo dei tradizionali strumenti di potenza si
ripercuoter sul modellamento del sistema mediale: basti pensare a come le operazioni di peacekeeping
siano sovente accompagnate da un deciso intervento di regolamentazione dei media locali. Lo stato
contemporaneo è quindi impegnato su due fronti: 1) il primo versante riguarda la protezione del proprio
ambiente informativo contro incursioni indesiderate; 2) il secondo coinvolge l’opportunità di influenzare o di
alterare le strutture mediali al di fuori dei propri confini. È chiaro che in un contesto tanto complesso, lo
sforzo unilaterale di controllo sui media, sebbene sia una tentazione invocata da più parti, debba
soccombere alla chiara multilateralità dell’apparato informativo globale, nel quale il mito del centro mediato
è parzialmente eroso dalla centralità delle reti. In questo ambiente si sviluppa quello che Price definisce
mercato delle lealtà: i contendenti del potere transnazionale utilizzano la regolamentazione degli apparati
della comunicazione per influire sull’immaginario e sulle identità; questo cartello comunicativo multi-
attoriale opera per mezzo del governo, che a sua volta è parte dello stesso cartello. Oltre ai tecnicismi legali,
la gestione dello spazio informativo sia da parte di un insieme di attori che da parte di un gruppo di potere,
prevede una serie di narrazioni e di idee che permettono di imbrigliare una serie di lealtà molteplici e
fluttuanti. In questo modo si attiva un processo circolare per il quale il controllo sulle narrazioni che

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viaggiano globalmente è una condizione di stabilità politica; tale controllo può essere minato in caso di
incertezze o cambiamenti, ma le narrazioni sono efficaci solo quando gli attori che le propongono hanno
raggiunto una certa credibilità e stabilità, anche solo nelle percezioni collettive (dimostrando di nuovo del
loro ruolo nella definizione delle vicende internazionali). In un interscambio non privo di fisiologiche
asimmetrie, alcuni soggetti, come stati, governi, gruppi di interesse, corporation, media riescono a
contestualizzare elementi effimeri, come le narrazioni (con i loro miti, i loro simboli evocativi, i loro frame)
per realizzare avanzamenti nel potere economico e militare o giustificare tali elementi materiali rendendoli
presentabili o coerenti con le aspettative transnazionali; allo stesso tempo, i cittadini che consumano queste
narrazioni politicamente artefatte ripagano l’impegno tramite una cristallizzazione delle affiliazioni,
dimostrata attraverso la partecipazione alle dimensioni visibili della cittadinanza, così come nell’inclusione
di tali narrazioni nella costruzione della propria identità. La lotta per la visibilità finisce quindi per interferire
con il concetto stesso di obiettività, portando la nostra riflessione verso due nodi teorici volutamente aperti:
1) l’importanza, allo stato attuale, delle questioni che riguardano l’etica dei media e dei loro estensori,
coinvolgendo questioni come la fiducia, l’accesso ai media, la diffusione delle informazioni necessarie alla
deliberazione; 2) la più particolaristica questione della responsabilità dei decisori politici e dei loro
consiglieri circa la veridicità delle storie internazionali che propongono e concorrono a strutturare le
narrazioni strategiche: è indubbio che parte della diffusa diffidenza verso le notizie ufficiali e i media
tradizionali sia stata provocata dallo svelamento di tecniche di spin doctoring eccessive e costruite tramite
un’aggressiva falsificazione della realtà. L’ibridazione e la moltiplicazione delle realtà possibili determinano,
quindi, l’espressione dei media considerati politicamente rilevanti. Stando a Williams e Delli Carpini, i media
politicamente rilevanti offrono le opportunità per capire, deliberare e agire riguardo a 1) le condizioni della
vita quotidiana; 2) la vita dei membri della comunità; 3) le norme e le strutture che modellano queste
relazioni. Questo consente di considerare rilevanti, per la vita politica, tutti quei materiali simbolici dei quali
effettivamente i cittadini fruiscono, contribuendone alla diffusione e alla disseminazione, che possono
essere lontani dalle forme pre-digitali di comunicazione politica (i meme possono essere un valido
esempio), e il cui impatto può essere modulato con differenti livelli di significatività (quindi ci saranno
persone che utilizzeranno tali forme squisitamente social di comunicazione per desumere dell’effettiva
informazione politica; per altri saranno un approssimativo indicatore del clima di opinione; per altri ancora
un mezzo espressivo identitario e così via). Per questo motivo, nel resto del capitolo, si indagherà il legame
tra le reti transnazionali di opinione e i media digitali, le forme espressive che si stanno affermando nella
politica internazionale e nell’utilizzo diplomatico del concetto di fake news.

3.2.1 I networked publics


Per capire l’importanza delle informazioni competitive internazionali, e per valutarne con compiutezza
l’impatto sulle decisioni politiche globali, occorre con compiutezza l’impatto sulle decisioni politiche globali,
occorre ricostruire i pubblici di riferimento: in altri termini, cosa potenzialmente potrebbero fare tali
informazioni sulle persone (interessando la dimensione degli effetti) e, viceversa, cosa potrebbero fare le
persone con tali informazioni (riflettendo, quindi sulle attività dei pubblici). Una contestualizzazione così
ampia ha il pregio di giustificare la rincorsa statale verso la colonizzazione dello spazio digitale, tramite
l’inserimento in reti comunicative dei peculiari linguaggi. Riportiamo per questo i contributi in grado di
restituire la coralità, anche se a volte dissonante, delle voci che aiutano a definire i pubblici transnazionali.
Per circoscrivere la ricostruzione dei pubblici attorno alle tecnologie di rete, particolare significatività è
offerta dalla descrizione dei networked publics per opera di boyd. Secondo l’autrice, questi pubblici
reticolari sono simultaneamente a) lo spazio costruito attraverso l’impiego di tecnologie di rete; b) un
collettivo immaginato che emerge come risultato dell’intersezione tra persone, tecnologie e pratiche. Questi
pubblici mostrano caratteristiche che esemplificano la loro rilevanza nelle strategie che prevedono la
diffusione di informazioni. I materiali simbolici attorno ai quali si aggregano questi pubblici interconnessi
sono caratterizzati da: -persistenza. I contenuti immessi online sono automaticamente registrati e archiviati
grazie alla funzione di archivio svolta dalle piattaforme digitali e dalle pagine personali; - replicabilità. Il

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contenuto digitale può essere duplicato, condiviso, trasferito da una piattaforma all’altra; - scalabilità. La
visione potenziale di un contenuto è significativa, questo perché tale attributo non dipende dalla volontà
individuale di amplificazione ma da quanto un collettivo sceglie di mostrare, indicando, cioè, una forma di
coordinamento tra individui e una rilevanza intersoggettiva di un contenuto; - ricercabilità. I contenuti
possono essere rintracciati tramite la ricerca, comportando l’autonomia dai soggetti che pubblicano i
contenuti (come nel caso dei messaggi Twitter accompagnati da un hashtag), e suggerisce l’esistenza di
pubblici determinati, che autonomamente e attivamente scelgono di relazionarsi con un contenuto ed,
eventualmente, con i suoi estensori. Non a caso, nella scelta di dedicarsi alla formazione “affettive”
costituite dai pubblici in rete, Papacharissi sostiene che i media digitali invitino le persone a sentire il loro
posto nell’attualità, intervenendo nello sviluppo delle notizie e partecipino a variegate forme di
mobilitazione civica. I social media e i SNS vengono quindi definiti come “storytelling infrastructures” o
“storytelling devices” dove la dimensione narrativa si intreccia con quella emozionale per dare visibilità e
voce a soggetti tradizionalmente emarginati dalla politica. Internet pluralizza quindi le sfere della politica,
ma non necessariamente questo è un fattore di democratizzazione: le attività online non possono essere
confuse con quelle offline. Tuttavia, secondo l’autore i media digitali riescono a intaccare la stabilità di
gerarchie potenti, agendo sulla visibilità di aggregati digitali che possono trasformarsi in veri e propri
movimenti di rivalsa o di cambiamento sociale. Questa visibilità può crescere nel tempo, consentendo alle
attività in rete di energizzare e coordinare folle altrimenti disorganizzate, facilitando la formazione di
pubblici interconnessi attorno a comunità reali o immaginate. Questa posizione è importante per
comprendere la diffusione di materiali informativi alternativi poiché mette in gioco più aspetti: - l’affettività:
il ruolo delle emozioni nel processare informazioni di tipo politico e nell’aggregare movimenti sociali è,
ormai, un leit-movit assodato nelle riflessioni intorno ad internet. Questo implica un deciso
ridimensionamento del tema della razionalità nel campo delle decisioni politiche o nella sfera pubblica così
come teorizzata da Habermas), sia da parte degli elettori che da parte delle autorità che determinano lo
stile di conduzione delle relazioni internazionali, lasciando il passo a quelle forme affettive di razionalità
influenzate dalle attualizzazioni degli umori degli individui; - la rilevanza dei legami deboli e latenti. I SNS
facilitano la partecipazione della vita collettiva attivando legami latenti, il cui impatto è sempre soggetto
all’espressione delle potenzialità in contesti variegati: questi legami, tuttavia, sono il nucleo infrastrutturale
delle formazioni politiche. Quando le folle digitali si coalizzano attorno a comunità, non stanno rinverdendo
legami forti come quelli offline della famiglia ad esempio: se non sempre questi aggregati si sublimano in
azioni fuori dal dominio del web, hanno un certo impatto nei modi dell’espressione e nei codici culturali che
disvelano il potenziale dell’immaginazione collettiva. Anzi, per Papacharissi, quelli digitali sono dei “posti
terzi”, luoghi di incontro informali, lontani dai contesti di interazione quotidiana come la famiglia o la casa,
ma essenziali, allo stesso modo per creare un senso civico comune, dei legami comunitari e di un capitale
sociale. In questi terzi posti convergono frequentemente attività politiche, economiche, sociale e culturali, e
prendono forma espressioni politiche che sono in linea con i repertori individuali di auto-espressione, con le
esigenze espresse dalla lifestyle politics e con la reinterpretazione personale dei temi e degli attori della
politica. In questo spazio ibrido, dove vengono meno i confini tra pubblico e privato, tra impegno politico e
intrattenimento ludico, tra profitto e civismo, si possono quindi individuare alcune tendenze, che saranno
prese in rassegna di seguito, che, a nostro avviso, sono determinanti per la specificità delle fake news intese
quasi come genere mediale: 1) l’espressione delle preferenze politiche nell’epoca della
commercializzazione; 2) nuovi repertori online: partecipazione e sfiducia alla prova delle azioni connettive;
3) la costruzione discorsiva e digitale della realtà politica internazionale; 4) le varie forme della mediazione
politica: l’eredità dei media attivisti e di protesta; 5) le storie reticolari: la produzione informativa dei
pubblici connessi o per i pubblici connessi.

3.3 L’espressione delle preferenze politiche nell’epoca della commercializzazione


La logica commerciale è una conseguenza diretta della caratterizzazione degli spazi digitali come luoghi
ibridi: al loro interno è possibile la coesistenza tra espressioni commerciali e personali. Questo si esprime sia

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nella tendenza alla commercializzazione dei media mainstram, sia nella vocazione al profitto dei media
digitali, rendendo la politica transnazionale online un’incessante mediazione tra attori statali o governativi e
fornitori di servizi. In questo scenario, quindi, i media digitali di massa hanno un ruolo critico nella
trasformazione dello spazio del discorso anche politico in un ambiente in cui prevalgono gli interessi
pubblicitari e lo stile comunicativo ad essi connesso. Ciò va di pari passo con la proliferazione di dinamiche
neoliberali all’interno dello stesso dominio politico. Come nota Dahlgren, il potere politico si allontana
sempre più dal dominio formale per convergere verso il settore privato, come espresso dalle logiche
neoliberali che condizionano lo sviluppo sociale. Secondo l’autore, tendenze come la privatizzazione
imperante, la mercificazione dei beni pubblici, il trasferimento di attività tradizionalmente destinate ai
policy makers nelle mani di autorità tecniche private, l’ostracismo pubblico verso i critici del neoliberismo,
cui si aggiunge la piena maturità delle tecniche del marketing politico applicate ai processi elettorali,
determinano una progressiva percezione della depoliticizzazione della vita pubblica. In particolare, la
crescente presenza di un network eterogeneo di organizzazioni private che possono mostrare diversi gradi
di autonomia rispetto ai governi eletti e alle legislature, cui sono delegate funzioni statali, complica, per i
cittadini, i già complessi processi che coinvolgono la legittimazione, il controllo e l’accountability. Questo,
quindi, conduce verso un’inesorabile (anche perché parzialmente intenzionale) depoliticizzazione, nella
quale si occulta o si minimizza il carattere politico del decision making, istillando un deciso senso di
presentabilità dell’efficienza (principalmente supposta) degli attori economici, o votati al profitto, nella vita
pubblica. Ciò, tuttavia, può portare all’ambivalente accettazione di tale devoluzione di competenze di parte
dei cittadini, al punto che non è raro che istituzioni puramente governative si mascherino, seppure anche
solo retoricamente, da agenzia indipendente. In altre parole, la depoliticizzazione è una strategia che può
essere utilizzata per abdicare alla responsabilità politica al fine di creare giudici fortemente basati su valori
emotivi in settori della policy privi di precedenti storici o di accordi sociali. In questo modo, alcuni elementi
contingenti al web, come le architetture o i valori dell’economia politica espressi dagli attori dominanti,
finiscono per condizionare le pratiche degli utenti, nel duplice rapporto che interessa la personalizzazione e
la commercializzazione, influenzando la partecipazione politica, o la creazione e diffusione di informazioni in
grado di influenzarla. Dall’altro lato, la commistione tra il politico e le strategie di consumo di delinea nella
tendenza del political consumerism: le scelte di consumo dei singoli possono tramutarsi in azioni di
pressione per cambiare pratiche istituzionali di mercato. In consumo stesso è un luogo di espressione
politica, contribuendo a innovare i linguaggi e le espressioni di partecipazione democratica. Infatti, si
svelano arene inusuali composte dai mercati e dalla politica del consumo privato, dove i cittadini
acquisiscono voce politica declinata in nuove e diverse forme espressive, enfatizzando la responsabilità
individuale al fine del raggiungimento del benessere collettivo. In questo senso, l’area del consumo si
trasforma in un punto di accesso alla politica, dando la possibilità di essere inclusi in arene altrimenti chiuse,
contribuendo a fissare l’agenda, o a intaccare l’immagine di uno stato (si pensi alle chiamate al boicottaggio
dei prodotti israeliani come possa influire anche sulle strategie di rappresentazione). Inoltre, il consumo è
politica poiché interessa e coinvolge issues politiche in senso classico, come quelle che riguardano le
relazioni di potere e l’allocazione dei valori nelle società complesse, e il ruolo delle grandi aziende private in
tutto questo. Certamente, l’incessante istillazione dell’idea dei media come giganti economici che fanno gli
interessi di gruppi ristretti e interessati, ha avuto la sua parte nell’incidere sul consumo mediale dei soggetti
che hanno ripiegato la loro attenzione verso fornitori di notizie percepiti più congeniali ai propri bisogni
informativi o percepiti come non corrotti. Questo anche perché è proprio il linguaggio del consumo a fornire
un set di azioni tipiche, come il boicottaggio o il consumo critico che possono essere applicate anche ai
media se intesi come mercato; soprattutto quando, in un compiuto clima multicentrico, è molto difficile
definire quali attori transnazionali abbiano interessi pubblici o privati. Ancora una volta, emerge la
combinazione del ruolo privato di consumatori e quelli di pubblico cittadino, in spazi digitali che accolgono
entrambe le identità; in questo senso l’azione collettiva di matrice individuale fa in modo che questi
partecipino a forme attive di subpolitica, dove gli individui prendono decisioni e si esprimono
pubblicamente nelle pratiche della loro vita quotidiana. Come suggerisce Penney, l’espressività commerciale

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è legata a una tradizionale asimmetria, per la quale le figure pubbliche riconosciute hanno avuto e coltivato,
spazi di divulgazione del proprio pensiero grazie ai mezzi di comunicazione di massa, mentre per i cittadini
comuni questa possibilità è stata fornita solo recentemente dalle piattaforme digitali, che consentono
l’espressione del proprio pensiero (anche politico) in pubblico. Le piattaforme digitali, attraverso forme
pubblicitarie come loghi, slogan e simboli, rendono i media virali media essenzialmente politici,
legittimandone le forme più caratteristiche. In una visione estremizzata l’autore sostiene che in ogni
dimostrazione dei nostri gusti online (like, condivisioni), non siano altro che un favore pubblicitario nei
confronti dei produttori di contenuti diversi dall’individuo stesso. I contenuti digitali, risentono del legame
partecipativo tra creatore e ricevitore. Per Penney, la diffusione di conteuti anche politici nei social, è una
pratica determinata dall’inoltro selettivo (selective forwarding). Il ruolo dell’utente è incentrato sulla
selezione dei materiali mediali preesistenti e sulla diffusione degli stessi presso la propria rete di contatti,
tramite piattaforme che consentono l’immissione controllata e programmata dei contenuti. Si assume,
dunque, che vi sia un’uguale dignità, nell’alveo dell’auto-esternazioni intese come forme di partecipazione
politica, tra la distribuzione e la fase di creazione dei contenuti. La circolazione delle informazioni non è
ancillare rispetto alla produzione degli stessi, poiché consente di determinare la salienza e la rilevanza dei
contenuti presso i pubblici di riferimento. Penney ridefinisce quindi l’attenzione verso l’azione “di curatela”,
dove l’assemblaggio e la ridistribuzione di contenuti rappresentano una forma di azione ormai radicata negli
utenti di internet, come dimostrato dalle capacità di riproduzione dei significati sottese alla cultura del
remix illustrata da Castells, nella quale i processi di autocomunicazione di massa che prevedono la
deconestualizzazione, la personalizzazione, il riassemblaggio di contenuti preconfezionati attraverso i nodi
dei media “spreadable”, implicano le capacità di riproduzione di significati slegati e parzialmente autonomi
dai contesti di produzione. In questo modo, un ingente numero di soggetti contribuisce e rafforza la
diffusione di contenuti fabbricati da un nucleo, seppur competitivo, di produttori (all’interno dei quali si
possono annoverare anche quei soggetti istituzionali dotati di competenze professionali), rendendo la
sponsorizzazione di contenuti, rilevante nell’ottica di reti omogenee di influenza personale. Le fake news
possono quindi godere del particolare assottigliamento del legame tra auto espressione politica e
centralizzazione della produzione dei contenuti: non appare certo distopica la possibilità che attori
politicamente interessati mascherino da contenuto autonomo narrazioni competitive anche non veritiere,
ma in grado si smuovere reti di condivisori. Questo va riportato a due principi: 1) quanto è privato è
pubblico; quello che è pubblico diventa privato. Occorre di nuovo approfittare della definizione dei
networked publics di boyd per illustrare alcune dinamiche che prevedono la presenza di: a) audience
invisibili; b) contesti collassati; c) confini sfocati tra pubblico e privato. Questo significa che non si può avere
la certezza delle audience di riferimento e delle traiettorie che intraprenderanno i contenuti: si può
supporre che in piattaforme in cui vige la possibilità di rendere il proprio profilo privato i pubblici
immaginati di riferimento siano rappresentati dalla propria lista di contatti (o una porzione di questi); ma
cosa succede a quei contenuti pubblici che vengono prodotti proprio con l’intenzione di raggiungere
audience tanto ampie quanto indeterminate, come con la partecipazione ai trending topic di Twitter, o alla
redistribuzione dei contenuti tramite lo strumento del retweet? Contemporaneamente, l’indeterminatezza
temporale, la mancanza di confini spaziali e di riferimenti sociali rende azzardato anche formulare ipotesi di
ricezione dominante, lasciando alle singole disposizioni individuali la possibilità di decodifica, con esiti
anche paradossali: si pensi al passaggio dalla definizione di fake news come forma espressiva legata
all’umorismo, alle fake news come strumenti di manipolazione della realtà, tanto da diventare sinonimo di
disinformazione. La separazione dei due poli si trova nelle capacità situate di lettura individuale. Infine, va di
nuovo specificato come la scelta di proferire contenuti politici o politicizzanti sul proprio profilo privato o
personale sia non solo una scelta privata, ma una dimensione espressiva della propria individualità; così
come temi che attenevano, nell’epoca pre-moderna, alla sfera privata, siano diventati oggetto di
rivendicazione politica (si pensi alla salute, alle polemiche sui vaccini).
2) ciò che è virale è commerciale. È chiaro quindi come non sia casuale la scelta di adottare uno stile
consono al marketing nella funzione identitaria statale (ad esempio la sottesa accettazione delle logiche

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della commercializzazione implicata nel fenomeno del nation branding); soprattutto perché si considera
assodata la logica prevaricatrice del capitalismo globalizzato al punto da ritenerla familiare nel pubblico e
negli attori governativi. Una possibile spiegazione, seppur con alcuni evidenti limiti, può essere letta
nell’idea di Dean di communicative capitalism, che nasce dalla critica della convinzione che la democrazia
possa essere conquistata attraverso i mercati, e per la quale le forme comunicative reticolari, che inducono
al mito della partecipazione e al feticismo della tecnologia, siano, in realtà, sintomo di una progressiva
spoliticizzazione della politica stessa. La circolazione dei contenuti nella rete comunicativa globale, toglie gli
attori politici rilevanti dall’obbligo di rispondere ai cittadini e agli attivisti: piuttosto, si satura l’ambiente
mediale con i propri messaggi, cercando di superare, per volume o spettacolarità, quelli della controparte;
al posto dell’auspicato dialogo si assiste a un moltiplicarsi dei fronti di resistenza. L’efficacia politica di tale
strategia dipende dal contesto: negli spazi comunicativi affollati, è molto più facile che i messaggi vengano
dispersi. Viceversa, l’eco dei messaggi governativi sarà vasta quando le voci ammesse sono limitate,
rendendo l’informazione centralizzata sempre efficace. In altre parole, nel contesto digitale contemporaneo,
la comunicazione efficace è quella di chi urla più forte: per frequenza di propagazione dei messaggi
(algoritmi e bot), per raggiungimento di nicchie (echo cambers), per delegittimazione degli avversari.

3.4 Nuovi repertori online: partecipazione e sfiducia alla prova delle azioni connettive
Per comprendere l’importanza delle azioni interconnesse che coinvolgono la condivisione dei contenuti,
occorre nuovamente partire dall’espressione politica come attività di auto-affermazione individuale che
determina la visibilità delle rivendicazioni dei pubblici affettivi. Per Papacharissi non tutti i discorsi che si che
si fanno sui SNS hanno potenziale politico, ma sono certo dotati di una certa rilevanza politica tutti quegli
atti in grado di attraversare il pubblico e il privato. I contenuti condivisi e ricondivisi sono delle azioni che
rappresentano il sé nelle conversazioni pubbliche che interessano le pratiche della vita quotidiana. Quindi i
post o i tweet sono tentativi di connessione auto referenziale della propria esperienza privata con le
discussioni pubbliche. Questa forma mediata di espressione del se deve condividere con le limitazioni
imposte dalle caratteristiche strutturali delle piattaforme (ad esempio il limite dei caratteri imposti da
Twitter): per Papacharissi i soggetti con spirito performativo, rinegoziano costantemente limiti e norme,
acquisendo competenze quasi letterarie che consentono di costruire, grazie ad azioni collaborative ma non
collettive, il vernacolo, dominante negli specifici SNS, parzialmente autonomo dai codici di espressione
personali. Ovviamente, il coinvolgimento emotivo è rilevante per definire i testi che fungono da connettori e
da espressione comunitaria sui social media: ecco perché molte delle contro-notizie fanno leva
sull’individuazione di sentimenti anche negativi come la rabbia o l’indignazione, ma che possono causare
l’innesco di nuovi fenomeni insorgenti. Proprio i momenti di slancio affettivo rendono possibile lo
storytelling del sé politico, al punto che le impressioni emotive possono aiutare a ripogrammare l’habitus
che determina la predisposizione all’interesse pubblico e civico, alla connessione con individui percepiti
come simili. Papacharissi, che ha rivolto la sua indagine empirica verso i movimenti di protesta contro
l’ordine stabilito (sollevazioni in Egitto o le rivendicazioni degli aderenti al movimento Occupy), nota come
questi siano caratterizzati da tre elementi:
- digitalizzazione interconnessa;
- generalizzata espressione di indignazione, scontento, disaccordo con i regimi esistenti;
- una materialità supportata dagli algoritmi.
Per Wigt i movimenti di protesta che si sono verificati nella storia recente, anche se derivano sicuramente
da contingenze politiche contestuali, mostrano in realtà due elementi fondamentali comuni: 1) sono uniti
dalla rivalsa verso l’ordine liberale e 2) i partecipanti sono motivati dalla volontà di poter giudicare e
controllare le élite economiche e i rappresentanti politici. Per l’autore vi è molto di più del semplice
individualismo politico o della disponibilità delle nuove piattaforme online. Questi si trovano al crocevia di
sviluppi che hanno rilevanza per l’intero sistema delle relazioni internazionali e che ne decideranno gli
scenari futuri: a) la piena maturità dell’età dell’informazione; 2) la crisi finanziaria globale e la risposta
indicata dagli stati (o la loro inattività); c) il generalizzato declino della fiducia e della legittimazione della

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politica, molto più facile da esternare pubblicamente per mezzo dei media digitali. È in questo ambito che
possiamo definire la produzione e condivisione di storie come un elemento caratteristico delle mobilitazioni
mediate digitalmente, così come definite da Bennet e Segerberg. L’affermazione di una politica
transnazionale, secondo i due autori, rende paradossalmente più plausibile il ripiegamento politico
individuale, dove ciò che conta è l’esperienza, che si traduce nell’adozione di brand politici personalizzati e
organizzati attorno agli stili di vita individuali e alle reti sociali nelle quali si è immersi. Secondo gli autori,
queste mobilitazioni mediate digitalmente hanno alcune caratteristiche comuni:
- raggiungono velocemente ampie dimensioni, secondo i dettami della scalabilità; riescono a produrre
mobilitazioni offline e online ad ampia partecipazione; - hanno obiettivi flessibili e multi-issues (ad esempio,
possono occuparsi di economia e di ambiente; - sfruttano le potenzialità della rete nella costruzione di
repertori di protesta adattivi, condividendo e incrementando l’utilizzo di software open access, coltivando
un’etica inclusiva; -sfruttano la natura virale della comunicazione, così che le persone possano condividere
le loro informazioni (anche in senso critico od oppositivo) senza che ci sia la necessità di ricevere l’innesco
nell’agenda da parte dei mass media.
In questo contesto, possiamo affermare che il proprio spin informativo possa aiutare a coalizzare individui
che includono le narrazioni dominanti nel processare (che razionalmente ed emotivamente) le informazioni
che portano a risultati politici. La natura epidemica delle notizie nelle reti di fiducia rende queste ultime
particolarmente attraenti per coloro che scelgono di utilizzare l’immissione contenutistica come strumento
di competizione. È proprio il ruolo delle organizzazioni stabili, assieme al peso specifico dei media digitali, a
tracciare la differenza tra i due tipi di logiche che muovono i gruppi organizzati di rivendicazione politica: la
logica dell’azione collettiva e quella dell’azione connettiva. La logica dell’azione collettiva prevede un forte
impegno organizzativo, un ingente investimento da parte dell’individuo (nei costi sociali, materiali o
identitari) a fronte di guadagni, rispetto alle proprie rivendicazioni marginali: in altre parole, si assiste a una
professionalizzazione del coordinamento dei movimenti. La logica dell’azione connettiva, invece, sfrutta le
potenzialità dei media digitali per organizzare senza che vi sia la necessaria presenza delle organizzazioni,
rende meno impegnativa la partecipazione perché non ha bisogno di una definizione forte del senso
comunitario, e proprio per questo riesce a catalizzare grandi masse di pubblici. Così, se la logica dell’azione
collettiva si ritrova prevalentemente dietro ai movimenti di rivendicazione con una forte organizzazione, in
cui è palese il senso di sacrificio e dai repertori definiti e strutturati, l’azione connettiva può raggruppare
soggetti tendenzialmente depoliticizzati, dall’impegno fluttuante e non totalizzante, che realizzano,
nell’appartenenza ai movimenti online, soprattutto una volontà espressiva individuale. L’azione collettiva,
quindi, è interrelata con le caratteristiche dei network publics:
- i media digitali sono gli agenti in grado di organizzare, definire e amplificare le formazioni sociali che
convergono attorno ai contenuti;
- vige un regime paritario che si basa su una collaborazione volontaria per produrre un bene dalla supposta
rilevanza pubblica, in cui entrano in gioco le differenti abilità dei soggetti nella produzione o nella
valutazione dei contenuti immessi e nelle azioni propedeutiche all’ottenimento di un qualche tipo di
risultato. La ricompensa che deriva dalla partecipazione a tali reti è ancora una volta soggettiva: si attesta in
un mix che coinvolge la soddisfazione personale per il riconoscimento dato al proprio contributo alla rete o
per i risultati ottenuti, che tuttavia derivano dalla somma di quei contributi che sono considerati
personalmente soddisfacenti. I prodotti di questo tipo d’azione sono molto variegati, attestandosi entro un
raggio che coinvolge le azioni più ludiche (es. partecipare a giochi online) a quelle più impegnative come
produrre contenuti culturali e informativi;
- l’azione connettiva lascia tracce digitali: le storie condivise, commentate, modificate dagli aggregati online
sopravvivono alla loro possibile disgregazione. Quindi, le smentite, seppur tempestive a notizie false sono
messe in pericolo dalla rivitalizzazione di storie di parte di possibili foraggiatori di indignazione. Ancora,
queste azioni lasciano un segno nelle pratiche degli utenti online. Con pratiche si intende una serie di azioni
reiterate e riutilizzate, che vengono ripetute nelle routine degli utenti internet, spesso senza chiedersi il
significato: archiviare, mettere in mostra, presenziare o commentare, sono solo alcune delle resistenze che

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possono essere stilisticamente influenzate da un tipo di partecipazione contenziosa.


In questo tipo di azioni sono quindi accettati sia dei frame di rivendicazione simbolicamente inclusivi, nei
quali azioni di protesta sono comprensive delle diverse ragioni personali che inducono alla contestazione di
situazioni cui si rivolge il desiderio di cambiamento; il tutto viene coadiuvato da un’apertura tecnologica, per
la quale l’apertura delle piattaforme consente la redistribuzione di contenuti polisemici. In tutto questo,
l’azione dello Stato, o degli attori ufficiali, in questa rete di dissidenza apparentemente autorganizzata
sembrerebbe marginale, se non si riflettesse sulla tipologia di reti collettive e connettive. Bennet e
Segerberg indicano tre tipi di azioni che differiscono per il grado di interconnessione con le organizzazioni
stabili:
-azioni collettive mediate dalle organizzazioni; -azioni connettive avviate dalla folla; -azioni connettive ibride
avviate dalle organizzazioni. Queste azioni variano da un’assoluta rigidità organizzativa a un protagonismo
rilevante delle folle. Il modello ibrido di azione connettiva, è invece, quello che può spiegare come gli attori
ufficiali siano in grado di tramutarsi in sobillatori degli umori generali. Le organizzazioni adottano il modo
caratteristico con cui i pubblici organizzano il loro impegno, tramite discorsi aperti e in formati interattivi,
che permettono la scelta di condivisione e di manipolazione dei contenuti. Necessariamente, le relazioni
che si istaurano nella rete sono aperte, sia le richieste di azione pressanti, che i frame che organizzano le
collettività sono sfumate, così come è sfociato il brand dell’attore che propone cause, contenuti,
rivendicazioni, che, ricordiamo, si espandono attraverso il vasto impego di escamotage digitali affinché le
persone scelgano a cosa interessarsi e il modo più congeniale di mostrare il proprio interesse. In questo
modo, gruppi organizzati forti possono sfruttare i legami deboli della rete, giocando sulla credibilità degli
estensori del messaggio, sulla personalizzazione dello stesso e sulla pervasività multi-piattaforma.
TABELLA 3 AZIONI CONNETTIVE E COLLETTIVE
AZIONE CONNETTIVA – RETI ABILITATE DALLA FOLLA
coordinamento organizzativo: scarso o informale;
tecnologie: accesso individuale su larga scala, impiego di tecnologie sociali e a più livelli;
contenuto comunicativo: frame emergenti e inclusivi;
espressione personale: esternata tramite i SNS
ruolo delle organizzazioni: il coinvolgimento di organizzazioni formali preesistenti può essere evitato.
AZIONE CONNETTIVA. RETI ABILITATE DALLE ORGANIZZAZIONI
coordinamento organizzativo: debole;
tecnologie: procurate dalle organizzazioni (sia personalizzate, sia commerciali)
contenuto comunicativo: frame inclusivi generati dalle organizzazioni
espressione personale: qualche forma di moderazione organizzativa delle esternazioni tramite i SNS
ruolo delle organizzazioni: sullo sfondo, in reti dai legami deboli
AZIONE COLLETTIVA – RETI MEDIATE DALLE ORGANIZZAZIONI
coordinamento organizzativo: forte
tecnologie: SNS utilizzati dalle organizzazioni per gestire la partecipazione e coordinare gli obiettivi
contenuto comunicativo: frame che richiamano l’azione collettiva
espressione personale: gestione dei SNS da parte delle organizzazioni – enfasi sulle reti interpersonali per
costruire relazioni utili alle azioni collettive;
ruolo delle organizzazioni: in primo piano, con la formazione di coalizioni nelle quali le differenze sono
appianate dall’intervento organizzativo.

CAPITOLO 4 – LA COSTRUZIONE DELLA REALTA INTERNAZIONALE: FORME E FRAME DELLE STORIE DIGITALI
4.1 La costruzione discorsiva e digitale della realtà politica e internazionale
Le azioni degli individui digitali, la loro comprensione del mondo, i modi e le forme della partecipazione
sono incarnati in molteplici materiali che caratterizzano e determinano, in panorama informativo e
contenutistico. Si sostiene con Dahlgren, che partecipare alle pratiche mediali digitali, qualsiasi esse siano,
coinvolge sempre la politica, indipendentemente dal carattere, lo scopo o il contesto: questo percorso è

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strettamente connesso con la lotta. La democrazia per l’autore è quindi ancorata nei percorsi culturali della
società: essa emerge dai discorsi e da tutte le altre forme di comunicazione. Così, l’autore identifica due
forme di partecipazione connessa ai media: quella che coinvolge tutti quei soggetti attivi nella produzione
dei contenuti; quella che via media, più ampia e indeterminata perché comprende tutti quei domini sociali
che si estendono oltre i media, per i quali questi fungono da facilitatori, oppure tutti quei contesti e
questioni apparentemente lontane dalla vita quotidiana, a cui i media ci connettono.
Per Couldry e Hepp, i media sono molto più che canali e contenitori di contenuti centralizzati e centralizzanti
e centralizzanti: essi comprendono attualmente, piattaforme che, per un numero significativo di individui,
sono spazi dove, attraverso la comunicazione, avviene la messa in scena del sociale; così, costruendo la loro
argomentazione sul classico lavoro di Berger e Luckmann, i due autori sostengono che se la realtà è una
costruzione sociale, allora una parte considerevole del senso sociale, è da imputare ai media. Non è quindi
importante valutare solo i contenuti o le forme attraverso essi si manifestano, ma in accordo con i due
autori, si può parlare di fenomenologia materialista: la realtà non è costruita solo dai media, ma anche dalle
infrastrutture, guidate dai dati, sulle quali ripongono crescente fiducia le formazioni sociali (es. ruolo politico
della proliferazione per finalità elettorali, funzione di algoritmi). Quindi, la mediatizzazione è estesa in modo
che i blocchi tecnologici sui quali si costruisce il senso del sociale, siano, a loro volta, basati sui processi
tecnologici di mediazione. Per questo, la partecipazione digitale, costretta dalla tecnologia, ma anche
adattabile, fa in modo che si costruisca un senso della realtà, anche politica, che ha conseguenze estese ben
oltre il dominio del web. In questo senso, Dahlgren sostiene che le pratiche e le culture civiche includono
forme variegate di attività comunicativa, che non si limitano al discorso (dal vivo o mediato), ma che
comprendono forme espressive diverse da quelle nelle quali ci si aspetterebbe di trovare la politica (arti
visive, teatro, commedia). Quindi, la manipolazione dello spazio del discorso politico è un mezzo per
influenzare le molteplici forme entro cui si manifesta la partecipazione politica (che trascende il momento
dell’espressione elettorale canonica): è certo la costruzione mediale del mondo politico, e la conseguente
collocazione dell’individuo al suo interno, i valori promossi dalle istituzioni dominanti, i livelli di fiducia
coltivati e trasmessi, influiscono sulla realtà sociale e quindi anche la posizione politica degli individui, così
come il posizionamento internazionale degli attori rilevanti. Il web è quindi inteso come uno spazio
quotidiano dove si fanno largo le espressioni culturali, ed essendo composto da tecnologie ubique e
pervasive, riesce a influenzare e costruire il mondo politico degli individui. Proprio perché è chiaro il ruolo
ambivalentemente sociale e individuale delle scelte espressive compiute online, il potenziale di confronto di
tali discorsi polisemici dipende dalle skills dei singoli. Se è vero che la moltiplicazione dei punti di accesso al
discorso politico rende gli individui meno disposti ad accettare supinamente i discorsi del potere, se è
accettato che il post-bipolarismo e la disponibilità tecnologica abbiano ampliato i fronti di rappresentazione,
se si sostiene che la mediazione delle situazioni internazionali per frame ricorrenti abbia comunque avuto il
pregio di rendere i soggetti in grado di comprendere quanto accade nel mondo, va anche detto che il
controllo di quei discorsi negli spazi mediali è una tattica per imbrigliare e indirizzare le opinioni pubbliche,
indicando come il potere internazionale si costruisca anche attraverso una strategia diffusa di fabbricazione
dei soggetti sociali, non necessariamente attraverso concetti di conflitto, ma con l’impiego di strumenti che
interessano i sistemi di conoscenza e le pratiche di ampio scopo sociale. Quindi, le presunte competenze
espanse diventano illusorie perché alimentate da un mercato informativo il cui obiettivo primario è
l’imposizione di qualche forma di potere. Perciò le fonti di informazione che vengono trasmesse dai media
non sono neutrali, ma seguono delle logiche tecniche, sociali e politiche/economiche, e quindi lo sforzo
dell’indirizzamento delle info suggerisce che sia i pubblici e le loro relazioni sono costruite dai media e dalle
fonti di informazione stesse. Il cittadino che monitora, si trova a sorvegliare uno scenario in cui i depistaggi
sul mondo sociale si travestono da informazione giornalistica, dove le capacità di interpretare i cambiamenti
culturali, le norme, i valori, che nella tarda modernità compete al soggetto, finisce per includere dinamiche
di potere nelle narrazioni discorsive, evolutive e autobiografiche del sé. Thompson, sul legame tra i mezzi di
comunicazione, sostiene che nella costruzione del sé, esso rischi di incorporare porzioni consistenti di
contenuto ideologico, cioè proveniente da una fonte asimmetricamente più potente, e di basare su di

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queste le proprie performance pubbliche. Se per l’autore questa condizione poteva essere riscontrata nel
separare i contesti di produzione e di ricezione, caratteristiche dei media broadcast, che determinava che i
soggetti semplici non avessero idea delle strategie e delle manipolazioni o dei processi produttivi che erano
dietro la formazione dei contenuti; oggi tale forma ideologica si nasconde dietro all’illusione di verità e di
uguaglianza che interessa i contenuti e gli attori in rete: è facile pilotare azioni che hanno le forme delle
azioni spontanee, disattivare la razionalità a fronte dell’indignazione o della costruzione delle situazioni
critiche, facendo leva sulla presunta omogeinizzazione che rende apparentemente indistinguibili i produttori
dai ricevitori, finendo per incidere sulle credenze individuali. Come sostiene Dahlgren, i percorsi discorsivi
possono avviare, stimolare, moltiplicare le forme della pratica politica, oppure possono chiuderla, tramite
quei meccanismi narrativi che conducono verso la depoliticizzazione, la sfiducia, l’esclusione deliberata di
soggetti sociali, la costruzione intenzionale delle paure, il depotenziamento dell’azione individuale. In tal
modo, la proliferazione e la moltiplicazione di informazione politica rilevante rende difficile prevedere
conseguenze dirette della comunicazione politica sull’acquisizione e reiterazione dei messaggi sponsorizzati
da particolari organizzatori. Come evidenziato da Couldry e Hepp, allora, per motivare le scelte politiche
individuali, non è importante solo il contesto culturale e storico di riferimento, ma lo sono altrettanto le
abilità di selezione dei cittadini, rischiando la formazione di nicchie o bolle dove il filtro di delimitazione dei
contenuti preconizza una visione parziale e ideologicamente definita della realtà. Andrejevic sostiene che si
sia ormai nel pieno di ciò che definisce “infoglut”, surpluls informativo: la disponibilità tecnologica offre
molte più informazioni di quante se ne possano effettivamente assimilare, mentre cresce la sensazione di
non essere mai abbastanza informati sulle questioni rilevanti. Ciò sarebbe una conseguenza dell’adesione al
postmodernismo inteso come chiave interpretativa: tutte le realtà sono costruite anche perché si è
sviluppata un’ossessione per il potere d’immagine e della percezione della reputazione. Per questo motivo
gli attori rilevanti non sono interessati alla produzione di contro-narrazioni quanto all’utilizzo del mezzo per
sovraccaricare ulteriormente ogni narrazione dominante con un’infinità di altre possibili narrazioni.
L’indeterminatezza della narrazione è quindi un obiettivo strategico esasperato dalla decostruzione delle
prove fattuali a supporto con continui tentativi di debunking e contro debunking. Sono proprio i soggetti
rilevanti a enfatizzare la contingenza e l’indeterminatezza della verità a fronte dell’effettiva disposizione di
risorse di potere: ecco perché la post-verità è come se fosse in ultima istanza, una strategia conservativa,
poiché dedita a mantenere invariate le relazioni di potere già esistenti (sebbene si mascheri spesso da
populismo o da contropolitica). Brommesson ed Ekengren riflettono sul processo di mediatizzazione della
politica estera, intendendo il processo nel quale i media si sviluppano in un’istituzione altrimenti
indipendente un potere tanto significativo da influenzare con le loro logiche, altri settori sociali. Così, per i
due autori, la visione classica della politica estera è caratterizzata da lungimiranza e dall’adesione a principi
relativamente stabili; mentre la politica estera influenzata dai media diventa incentrata sugli elementi
tradizionali o unici di un determinato evento o soggetto politico, esagera le differenze di opinione,
trasformando il processo decisionale in un conflitto polarizzato tra due diverse possibilità. Tale influenza
mediale è quindi più plausibile nelle culture politiche che tendono verso il conflitto, agendo sia sulla forma
(processo decisionale) che sui contenuti (dimensione della policy). Quindi, la politica estera mediatizzata
sarà sensazionalistica e tenderà a soddisfare le rivendicazioni mediatiche considerate maggioritarie; basate
su questioni estemporanee che riguardano la sicurezza militare e i diritti individuali. Queste ambiguità sono
facilitate dalle forme digitali, che hanno reso il fenomeno delle fake news più plausibili.

4.2 Le varie forme della mediazione politica: l’eredità dei media attivisti e di protesta
Per comprendere l’ascesa delle fake news è doveroso analizzare come i media digitali siano stata
un’occasione di realizzazione delle forme espressive alternative o di attivismo. Si rifletta sulla consonanza tra
il panorama informativo delineato dalle fake news e i suoi pubblici e caratteristiche dei progetti alternativi o
attivisti di Lievrouw: sono sperimentali, possono impiegare sia i vecchi che i nuovi media, si caratterizzano
per la diversità dei punti di vista espressi, hanno delle audience eclettiche o subculturali, si concretizzano
attraverso forme di partecipazione amatoriale o volontaria, manifestano diversi gradi di marginalità nei

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confronti dei media istituzionali. Questi media non solo riflettono, o mettono in discussione la cultura
mediale mainstream, ma contribuiscono a costruirla o a intervenire nelle forme e nelle pratiche della stessa.
Se ricostruiamo la questione dell’informazione digitale con gli strumenti dei cultural studies (Hartley),
diventa esplicativo guardare al giornalismo seguendo i crismi della cultura popolare. Si tratta di, quindi, di
riconfermare la sorpassata dicotomia tra cultura popolare come luogo esclusivo dell’intrattenimento e il
giornalismo come parte attiva nel processo democratico: entrambi gli impianti fanno parte dello stesso
sistema testuale sotteso, quello che, con diversi casi di adesione, si rapporta al realismo. Ci sono quindi
delle forme di giornalismo, come quello popolare, che hanno avuto responsabilità maggiori nel defraudare
l’espressione democratica rispetto al presunto potenziale anestetizzante della cultura di massa, così come,
se si cerca di mobilitare le persone attorno a una qualsiasi causa, occorre conoscere e sfruttare i trucchi che
reggono i testi popolari. Ad esempio, la stampa radicale, parla il linguaggio di chi cerca di rappresentare,
utilizzando un’astuta combinazione di razionalismo e di emozioni; fornendo contemporaneamente
indicazioni per l’agire individuale e modellizzazioni di quanto è pubblico, molto più di quanto sarebbe stato
possibile ottenere utilizzando singolarmente il giornalismo razionale oppure la cultura popolare emotiva. La
cultura alternativa della rete ha portato dunque intuizioni e fornito suggerimenti agli attori che vogliono
utilizzare le informazioni per perturbare l’ambiente internazionale. È sufficiente esplorare la tassonomia dei
generi dei media alternativi e attivisti proposta da Lievrouw per comprendere il contesto in cui si sono
affermate la fake news. Un genere è un tipo di espressione o comunicazione utili tra i membri di una
comunità o di una situazione particolare: particolari forme usate ad un proposito, acquistano rilevanza e
delimitano confini per pubblici-comunità definiti e accomunati da una medesima percezione sociale, della
cultura e pratica tecnologica. L’eredità dei media alternativi di Lievrouw si manifesta in 5 generi: 1) culture
jamming (sabotaggio culturale): prende in prestito le forme tipiche della cultura popolare, ricalcandone
immagini, testi e suoni e si dedica alla critica culturale e al commento delle vicissitudini economiche e
politiche. Qui avvengono le appropriazioni sottoculturali dei prodotti della cultura dominante, come
espresso da azioni che ricalcano ed esaltano la commistione tra politica e consumo come il guerriglia
marketing o che fanno ironia come i meme (porzioni digitali che condividono caratteristiche comuni di
contenuto, forma o atteggiamento stilistico; sono creati con la consapevolezza delle altre unità di contenuto
modellate sullo stesso formato; contribuiscono alla loro ideazione, imitazione e trasformazione gli utenti di
internet). Nell’ambito delle fake news si ritrovano i meme in molteplici forme: hastag parodistici, ricalco dei
media broadcast nelle forme grafiche o nelle intestazioni ingannevoli di siti che diffondono fake, l’utilizzo di
politici in forme sfortunate che con finalità denigratoria. Es. nel cyberspazio russo, Obama è stato più volte
oggetto di meme razzisti; meme su Clinton del 2011 che con occhiali scuri controlla il suo Blackbarry con
una palese non dimestichezza. In suo onore verrà aperto un Tumblr, Text from Hilary, con la possibilità per
gli utenti di inviare la ricostruzione di ipotetiche conversazioni con personaggi politici, attori e celebrità. La
Clinton stessa partecipa al gioco tanto da condividere l’immagine come immagine del profilo una volta
sbarcata su Twitter. Da questa foto inizia il dubbio se la Clinton stesse usando account di posta elettronica
privati, come poi dimostreranno le indagini e che furono un motivo di sfiducia da parte dei suoi opponenti
nelle elezioni del 2016). Queste espressioni sono emblematiche di quanto, nel suo saggio sulle aggregazioni
subculturali giovanili, Hebdige definiva bricolage: così come le sottoculture prendono in prestito,
decontestualizzano e donano altri significati agli oggetti (fisici o simbolici) della cultura dominante, essa può
a sua volta, appropriarsi degli elementi sottoculturali. Forse, uno degli elementi che ha favorito il passaggio
dalle fake news come ironia, alle fake news come simulacro della verità sta proprio nella già citata
ibridazione per cui i media ritenuti seri hanno scelto di ospitare contenuti attinenti alla satira politica. 2)
Alternative computing: coinvolge le abilità informatiche, le linee di comunicazione, le infrastrutture mediali.
Assume le forme di attività pratiche come l’hackeraggio, la condivisione di sistemi open source, la
divulgazione di file. Lo scopo originario di questo genere era di partecipare alla diffusione delle
informazioni. Nell’ambito delle fake news, questo genere si traduce nelle manipolazioni tecnologiche
necessarie a far acquisire rilevanza alle proprie informazioni. Es: creazione di bot con l’obiettivo di intasare
determinati hastag, o con funzione di controllo del potere, come nel caso di Wikiedits, la cui funzione è di

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registrare le modifiche alle pagine Wikipedia, e tramite la traccia degli indirizzi IP, segnalare agli utenti se tali
modifiche sono di matrice governativa. Un altro fenomeno è Google bombing, ovvero la progettazione di
pagine sapientemente indicizzate per risultare in cima ai risultati di ricerca. O ancora, si rifletta sulla
creazione di sistemi di notifica che avvertono l’utente sulla presenza di un contenuto che riguarda la propria
parte in causa, per permettere tempestivi e massicci commenti partigiani, e non bisogna dimenticare le
crescenti indicazioni per costruire contenuti in grado di amplificare le crescenti indicazioni per costruire
contenuti in grado di amplificare le crescenti indicazioni per costruire contenuti in grado di amplificare la
propria visibilità sfruttando gli algoritmi interni alle piattaforme (si pensi ad esempio al click baiting). Questa
partecipazione tecnologica alla produzione, diffusione e fruizione dell’informazione è, a nostro avviso, da
considerarsi strutturale, al punto che le forme, identificate da Karpf, di analytic activism, che si
concretizzano nel feticismo della misurazione delle attività online, hanno dato i natali a una cultura del test,
concretizza nell’immissione, quasi laboratoriale, di informazioni differenziate per pubblici traget, che ha
concretamente cambiato il modo in cui le organizzazioni pensano alle proprie strategia, alla tattica e il
potere. Tale meccanismo di monitoraggio di soggetti digitali dalle abitudini di consumo tracciabili, associato
alla possibilità di sperimentazione delle opzioni comunicative più efficaci, finisce per favorire i soggetti più
forti sia nel termine di competenze e soprattutto delle risorse economiche, che spesso coincidono con
soggetti potenti offline. Per Gillespie gli algoritmi di pubblica rilevanza producono e certificano quanto è
considerato conoscenza, influendone sulle logiche e sulla percezione della stessa (sono gli algoritmi a
suggerirci cosa dobbiamo conoscere). Essi, quindi, disegnano i percorsi di inclusione di quanto può dirsi
rilevante, e anticipando le razioni degli utenti, essendo in grado di prevedere cosa possono generare le
reazioni a specifici contenuti. Inoltre gli algoritmi sono in grado di valutare secondo rilevanza, anche se il
criterio con la quale essa viene valutata è oscuro per la maggior parte dei profani, e può dunque essere
piegato a scelte politiche che restringono la conoscenza appropriata e legittima. Finiscono così, gli algoritmi
ad influenzare la pratica degli utenti, anche politica, poiché contribuiscono a disegnare pubblici calcolati,
dalle uniformità interne, rendendo più facile la produzione di messaggi politicamente mirati. Gli algoritmi
quindi, contrastano la logica editoriale, considerata soggettiva a fronte di scelte procedurali di una macchina
(omettendo che la loro ideazione è pur sempre il frutto di un disegno umano). 3) Giornalismo partecipativo:
questo genere mediale ricalca la tecnica del reportage, del commento ai fatti di attualità, dell’influenza e
dell’innesco delle opinioni pubbliche. Tradizionalmente questo genere si concretizza in forme persistenti,
come la gestione di siti di informazione o di blog personali, al fine di includere nelle narrazioni soggetti o
questioni sottorappresentate, oppure per promuovere forme autonome di giornalismo investigativo.
Nell’era delle fake news, resistono quindi forme di promozione informativa rappresentati da siti di
informazione e blog personali partigiani, a cui si aggiungono le forme della pretesa di testimonianza. Infatti,
si fa leva sul potenziale della rappresentazione diretta per presentare, invece, testimonianze manipolate. Si
pensi alla ricontestualizzazione di immagini o dichiarazioni, al diffondersi di rumors che viaggiano anche
grazie al rapporto di fiducia che si instaura tra appartenenti alla medesima rete, alla manipolazione di video
che restituiscono elementi quasi propagandistici, artefatti, spacciati per realtà scevra da manipolazioni
professionali. La possibilità di immettere i contenuti rilevanti direttamente all’attenzione pubblica,
semplicemente postando sui SNS, ha condotto a quello che Allan definisce accidental journalism: si pensi a
quell’utente twitter che ha postato in diretta la cattura di Osama Bin Laden, non avendo idea di cosa stesse
accadendo e addirittura lamentandosi degli incessanti rumori di elicotteri vicino casa. La perdita della
mediazione professionale può essere letta nella descrizione della testimonianza come pratica evolutiva del
giornalismo, così come sostenuta da Allan. Per l’autore, il convincimento dei pubblici mediante i produttori
in prima persona è dato dalla percezione dell’immediatezza: si verifica il passaggio della narrazione
immediata da testimonianza personale (non affidabile, casuale) alla pretesa di realismo (se lo si vede, o se lo
vede qualcuno come me, allora è vero). Proprio l’informazione internazionale dovrebbe mettere in guardia
su questo aspetto: ad esempio si può riflettere sulle critiche che possono essere formulate ai testimoni per
eccellenza, come i soggetti embedded che affiancano i militari in occasione dei conflitti, costretti, dalle
logiche delle azioni o dall’impossibilità di mostrare una realtà diversa da quella celebrativa, pena la revoca

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del posto privilegiato, a mostrare un’esperienza mutilata e strumentale alla volontà militare o governativa.
Come nota Chouliaraki, specialmente nei conflitti, esiste una sorta di economia della testimonianza, che
delimita i confini di quanto è giusto e decoroso nella presentazione giornalistica della guerra e delle
sofferenze. Ci sono dunque nelle immagini, delle precise qualità estetiche indirizzate a un agire morale,
spesso finalizzate ad attivare la logica della pietà. Alcuni modi di rappresentare i conflitti sono percepiti più
autentici; spesso si suppone che siano le voci della strada quelle più adatte a raccontare i conflitti. Ma cosa
accade quando queste testimonianze provengono dagli attori impegnati nel conflitto? Come si può
verificare l’autenticità e la buona fede delle immagini immesse in situazioni di contestazioni complesse, in
cui ogni soggetto che immette i contenuti ha un preciso obiettivo politico, come dimostrano le notizie dal
campo che provengono da confronti anche di difficile ricostruzione, come quello siriano, oppure quello in
Ucraina? La fiducia nella presa diretta deve essere quindi accompagnata dallo spettro della disinformazione;
non a caso, alcune strategie comunicative ufficiali fanno leva sulla decostruzione delle testimonianze dalle
aree di interesse geopolitico. Ad esempio, l’account twitter della coalizione internazionale impegnata verso
l’Isis non si limita ad elencare le operazioni militari, ma dimostra la sofferenza dei civili smontando le false
promesse dei materiali di propaganda dello Stato Islamico. 4) Mobilitazione mediata: quest’area interessa i
movimenti sociali, l’identità personale, le forme politiche culturali degli stili di vita. Nei termini dell’attivismo
digitale, questo si esprime nelle mobilitazioni sui social media, al fine di catalizzare la partecipazione degli
individui e di fornire esempi di lifestyle. Quindi si leggono gli appelli alla condivisione, le azioni individuali di
commento oppositivo ai contenuti dei media mainstream, la discussione nelle piattaforme sociali, la
capillare e fedele diffusione presso i propri contatti di informazioni provenienti da fonti partigiane, la
partecipazione ad iniziative di azione mediata (es. sostituzione dell’immagine profilo sui social, produzione
di contenuti con specifici hastag, l’ostentazione pubblica del supporto per una particolare fazione politica,
un leader, una causa). 5) Conoscenza comune: questo genere attiene al dominio che riguarda la conoscenza
esperta, le istituzioni e i saperi accademici tecnici. Dalle tensioni collaborative della rete emerge un
patrimonio di conoscenze auto-generate che, nel dominio dei media alternativi, si sono tradotte in
tassonomie classificatorie dell’informazione generata dal basso come ad esempio Wikipedia. Per
comprendere la portata di questo genere nella diffusione delle fake news, è necessario ricordarne gli esordi:
secondo Lievrouw, questa forma collegiale di definizione della conoscenza collettiva è profondamente
radicata nella cultura hacker. Questo significa che gli esperti non sono definiti dal loro status (appartenenza
all’accademia tradizionale), ma dalle loro capacità tecniche. Ciò ha quindi portato alla contestazione delle
autorità tradizionali ed infatti, le forme di produzione collettiva del sapere hanno portato alla convinzione
che chiunque può essere esperto in qualcosa, rendendo obsoleto lo stato di esperto riconosciuto. Si pensi a
wikileaks, alla ormai rituale pubblicazione di email e documenti prima delle scadenze elettorali: è ovvio che
una tale mole di materiale può essere scandagliata solo a fronte di un massiccio coinvolgimento di individui
interessati, il che conduce a due ulteriori punti di riflessione: a) la familiarità con l’idea che documenti
governativi privati celino qualcosa di losco; b) la conseguente mentalità scandalistica che rischia di
influenzare i controlli pubblici verso un’ottica confermativa (se ci si aspetta di trovare attività sospette, molto
probabilmente queste saranno rese auto-evidenti dalla predisposizione, anche implicita, degli utenti
sentinella).
Bisogna ribadire che questi generi espressivi hanno a che vedere con l’individualità dei soggetti che
popolano la rete. Piuttosto che rappresentare un generico interesse collettivo, la partecipazione individuale
ai panorami informativi interessa un insieme complesso di disposizioni, capacità, familiarità con
l’espressione pubblica delle proprie opinioni, dedizione e impegno; presentando tuttavia, gradi differenti di
indipendenza e opposizione ai domini tradizionali (sia politici, sia informativi). I movimenti che pretendono
di avere un qualche ruolo sociale, quindi, devono prima di tutto assumere una connotazione culturale, e il
loro successo sarà quindi connesso alla capacità di trasmettere obiettivi e rivendicazioni particolari al di
fuori della sfera di influenza limitata, traslando, quindi, le questioni di interesse attraverso codici e
narrazioni. In una cultura mediale digitale più personale, scettica, ironica, idiosincratica, collaborativa e
quasi inconcepibilmente diversificata le istituzioni si adeguano, o manipolano, pubblici partecipativi,

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imitando, o alternativamente imponendo, codici culturali e forme narrative.


TABELLA 4 – l’eredità dei media attivisti e di protesta nella cultura delle fake news
genere espressione nelle fake news
culture jamming parodia, calco delle forme dei media broadcast, meme, decontestualizzazione e
ricontestualizzazione illimitata degli elementi politico-culturali; ibridazione di generi
e formati.
alternative attività pratiche e manipolazioni tecnologiche, bot, algoritmi, google bombing,
computing software open source; click baiting, alfabetizzazione alle competenze tecniche.

Giornalismo siti e blog personali partigiani, pretesa di testimonianza, ricontestualizzazione di


partecipativo immagini, testi, dichiarazioni, diffusione di rumors tramite reti fiduciarie,
manipolazione di elementi informativi.

Mobilitazione appelli all’azione, iniziative individuali di commento oppositivo, diffusione di


mediata informazioni presso la propria rete di contatti, forme di azione mediale (sostituzione
di immagine del profilo, hastag concertati, espressione pubblica di supporto)

Conoscenza comune forme collettive di indicizzazione della conoscenza, delegittimazione e messa in


discussione della autorità del sapere tradizionali; moltiplicazione dei centri di sapere

dal basso, azioni di svelamento collettive.

4.3 Le storie reticolari. La produzione informativa dei pubblici connessi o per i pubblici connessi
La proliferazione digitale di informazioni, la velocizzazione degli ambienti produttivi, l’emancipazione dalle
routine giornalistiche tradizionali moltiplica ed espande i messaggi politicamente rilevanti ed i loro effetti.
Per questo, il fenomeno delle fake news è indagabile solo con la consapevolezza della persistenza degli
aspetti che attengono all’ambito dei media studies consolidati. Ogni aspetto finora illustrato, finisce per
ridefinire e interessare problemi noti ai processi informativi come agenda setting, framing e gatekeepimg,
senza contare le ripercussioni sulla ridefinizione dei confini professionali del giornalismo. Si è quindi visto,
nell’ottica della tensione commerciale, che parte delle espressioni politicizzate dei cittadini consistono
nell’inoltro selettivo di materiali, anche palesemente parziali, ma considerati significativi per la professione
pubblica della propria individualità. Recuperando il contributo di Penney, occorre quindi ricordare che tale
opzione posiziona i cittadini in una competenza simile a quella delle pubbliche relazioni, enfatizzando la
dimensione di selezione parziale e di amplificazione. Dell’esposizione per alcune verità circostanziali o per
specifiche narrazioni a scapito di altre, e quindi applicando una lente strategicamente distorcente alla realtà
dei fatti. Secondo Penney questo sarebbe un’ulteriore conseguenza del surplus informativo: quando più voci
si ritrovano a competere per l’attenzione di pochi frammenti e distratti, allora, è proprio la cura delle
informazioni sui SNS che permette ai cittadini di partecipare al processo dell’agenda setting che è
notoriamente politico e persuasivo. La strutturazione delle preferenze, l’occultamento di aree nelle quali
sarebbe plausibile un intervento decisionale e discorsivo, l’estensione sintomatica delle aree di non decision
making amplificano la suggestione per la quale il potere agisce con più forza quando nascosto, incluso
quando pone al vaglio dell’attenzione pubblica solo alcuni problemi fabbricati ad arte, mentre ne nasconde
altri. Inoltre, sono proprio il carattere partigiano dell’informazione, il carico ideologico delle notizie,
l’impiego della satira, alla pretesa del giornalismo dal basso che foraggiano gli attivisti alla promozione
strategica dell’informazione presso gli individui a loro affini. Si può predire quindi, che questo finisca per
influenzare anche la dimensione dei valori notizia. Cosa rende possibile che le fake news diventino notizie di
valore per i loro pubblici di riferimento? Possiamo ipotizzare che per quanto riguarda le informazioni
competitive immesse nell’ambiente digitale riguardanti la politica internazionale, le plausibili fake news
seguano queste linee di interesse: - storie recenti, improvvise, non ambigue e vicine (alla cultura, classe,
luogo). La fama delle fake news strettamente connesse con l’attualità, di solito è legata ai periodi elettorali,
interessati da un flusso continuo e ininterrotto di informazioni riguardo ai candidati, alle loro esternazioni,

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alle dichiarazioni di supporto: è difficile per un utente distratto, interrogarsi sulla plausibilità di ogni singolo
elemento se non particolarmente motivato; nonché tale tendenza deve dirsi interrelata alla piena
cittadinanza dei sondaggi di opinione come strumento strategico di comunicazione politica (fake su papa
Francesco che avrebbe dichiarato il suo plauso all’elezione di Trump). Si può anche riflettere sul senso di
urgenza di alcune notizie che determinano la propagazione immediata e acritica presso i propri contatti (ad
esempio fornendo l’allerta terrorismo). Inoltre, bisogna riflettere sulla non ambiguità delle notizie: nelle
fake essa si sublima in un’esasperazione del manicheismo, cancellando ogni possibile sfumatura
interpretativa. Anche il punto della vicinanza riguarda la rilevanza individuale del singolo
nell’interpretazione delle notizie e della loro veridicità: non devono presentare elementi culturalmente
contrastanti rispetto a quanto si è già predisposti a credere, devono essere confermative della posizione del
singolo, rispettando la comunità di appartenenza.
- Storie sull’economia, la politica governativa, l’industria e la finanza, gli interni (seguendo la logica del
conflitto o dell’interesse umano), i disastri. L’elenco di questi elementi ritenuti notiziabili, appare un chiaro
motivo del perché uno degli eventi internazionali maggiormente interessato dal proliferare delle fake news
sia stato quello della brexit. Si può sostenere quindi, che le fake news , con le loro fonti, strategie produttive,
verifiche leggere aspirino a calcare, e soppiantare, quanto comunemente inteso come hard news, mirando
all’influenza sull’agenda in corso. Come sostiene Baym, grazie a un controllo più saldo sulla propria agenda
editoriale (sottraendosi alla tiranni delle breaking news), le fake news possono concentrarsi su quei temi ad
alto tasso di modernità, come la politica interna o estera, sacrificati o deliberatamente nascosti dai media
mainstream a vocazione commerciale.
- Storie che riguardano le nazioni di élite (Usa, Regno Unito, Europa) e le persone di élite. Possiamo
supporre che le storie manipolative internazionali saranno rivolte sempre più a quelle nazioni che
interessano i propri obiettivi strategici, rappresentandosi alternativamente come nazioni di élite o come
nazione che sfida le élite (Russia, utilizzo dell’informazione nell’ambito dei conflitti in Ucraina o in Siria).
Inoltre, le notizie internazionali mirano a ridefinire le persone considerate élite: o decostruendole in senso
dispregiativo (es. le questioni sollevate durante la campagna elettorale statunitense riguardo alla Clinton);
oppure opponendo una nuova élite parossisticamente popolare: studiosi esperti, leader di un gruppo di
riferimento che fungono da guida e leadership d’opinione.
- Storie che includono appelli alle ideologie e ai discorsi dominanti, nelle quali cultura e storicità sono
mascherate da fenomeni naturali e consensuali. Le narrazioni strategiche consentono di influenzare il
posizionamento di un attore nel sistema internazionale, la rappresentazione degli stati concorrenti, oppure
aiutano a fornire una linea interpretativa di quanto accade. Quindi, proprio a causa del loro potenziale
condizionamento degli eventi, non possono dirsi neutre. Le narrazioni comprendono appelli alle ideologie
dominanti: siano queste quelle ristrette e unificatrici di un gruppo pragmatico che aspirano dunque a
diventare dominanti; sia tenendo presente, al loro interno, l’opportunità di decostruzione e di
sovvertimento delle stesse (es. critica al blocco euro-statunitense intrapresa dalle fake news di
fabbricazione russa, e a come queste servano a catalizzare i gruppi di scontenti dell’ordine liberale).
- Storie che interessano i lettori o gli spettatori, ripiegando sul senso comune, sull’intrattenimento, sul
dramma (ricalcando quindi le logiche della funzione) e spesso corredate da elementi visuali. Le fake news
incorporano elementi che tendono alla drammatizzazione, all’esagerazione, allo scatenamento di reazioni
viscerali, aggiungendo possibili manipolazioni iconografiche che rendono le storie più credibili e condivisibili
sui social. Tabloidizzazione, spettacolarizzazione, sospensione della razionalità, insieme a elementi visuali
iconici che rendono più plausibile la diffusione delle fake news.
Possiamo quindi sostenere che le fake news siano in grado colonizzare tutte le categorie di notizie
tradizionalmente oggetto di attenzione mediale: le notizie che riguardano lo stato, il buisness (che riportano
la situazione economica e sono funzionali all’economia dei media), quelle interessanti per i cittadini
consumatori e dedite quindi agli aspetti della vita quotidiana; notizie stuzzicanti o sensazionali. Il secondo
grado delle operazioni di agenda setting, il processo di framing, è a sua volta implicato nei cambiamenti che
le fake news portano all’ambiente informativo ibrido. Occorre valutare come su internet i valori notizia

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tradizionali debbano dirsi condizionati dai punti di vista che emergono dalla moltitudine di pubblici
interconnessi, interferendo sulla loro autonomia. Si può supporre che nell’ecosistema mediale complesso le
fake news abbiano un potere di agenda setting sia a livello di salienza degli attributi, sia nell’influenza tra
diversi operatori mediali. È così che, implicitamente per i fruitori, ma non necessariamente così
ingenuamente per i creatori, le fake news contribuiscono a suggerire le relazioni contestuali tra i singoli item
che compongono una notizia: es. quando si tratta la politica energetica come questione che riguarda la
politica estera, si nascondono le eventuali opportunità domestiche, e si fornisce una possibile chiave
interpretativa a peculiari relazioni internazionali (si può credere che esistano rapporti più o meno
amichevoli tra stati proprio in virtù di tali relazioni). O ancora si pensi al possibile trasferimento, nelle menti
degli individui, delle ripetute connessioni tra migranti ed episodi di criminalità e disagio urbano. In tal senso,
le fake news, spesso rilanciate da media partigiani, possono espandersi fino a interessare l’agenda mediale
più ampia. È in tali termini che va letto il condizionamento dei frame, soprattutto quando i media
politicamente orientati si adoperano alla diffusione di temi volutamente divisivi e controversi, grazie ai quali
questioni altrimenti marginali riescono a diffondersi sino a diventare di interesse naturale. In tali termini
deve dirsi possibile il processo di framing reticolare: allora, il processo grazie al quale si stabilisce una
particolare definizione di un problema, un’interpretazione causale, una valutazione morale o alcune
soluzioni raccomandate emerge anche grazie all’azione collettiva. Sono quindi le piattaforme che rendono
possibile sia alle élite sia alle folle di partecipare a determinate forme simboliche e interdipendenti alla
formazione di narrazioni. Secondo Papacharissi, dunque, le forme di notizie affettive presentano processi
collaborativi di gatekeeping e framing che prevedono la partecipazione di attori globali e locali, facilitata
dalla facilità con cui le piattaforme digitali si prestano alla costruzione collettiva delle storie. Quindi per
l’autrice il processo della formazione delle notizie digitali è composto da 3 passaggi: gli autori digitali
elevano collettivamente notizie altrimenti isolate e altri nodi ritenuti importanti all’attenzione pubblica, in
modo da organizzare il flusso delle notizie, in maniera collaborativa ma strategicamente determinata; le
pratiche di gatekeeping e del framing online trasformano il modo in cui un evento è trasformato in una
storia: diventano importanti l’istantaneità, la produzione collettiva ma indirizzata dalle élite, la solidarietà e
il riconoscimento tra pari, l’ambiente immediato, o digitalmente costruito nel quale si pensa che le storie
possano sortire qualche effetto; le affrondance della piattaforma, assieme ai valori notizia insiti nei pubblici,
producono forme di notizia che sono, per loro stessa natura affettive. Queste notizie, quindi ricalcano le
tradizioni dello storytelling per produrre una contro-narrazione dominante. La pratica digitale è quindi
un’occasione di empowerment per soggetti altrimenti privi di una voce pubblica, specialmente quando si
trasforma in rivalsa verso l’ordine precostituito.
La questione è ovviamente più complessa. Si può recuperare la dimensione politica del processo di framing
per intuire come i cambiamenti non possano dirsi né immediati, né votati a una volontà di emancipazione
inclusiva e democratica. Il framing è, infatti, un processo complesso che interessa quattro livelli differenti: la
cultura, le menti delle élites e dei professionisti della comunicazione; i testi comunicativi e la mente di ogni
singolo cittadino. I frame sono dunque presenti negli stock culturali: non nascono ex novo, ma hanno
bisogno di appigli culturali strategicamente determinati. Vi sarà, quindi, anche nell’approccio reticolare, la
possibilità di selezionare alcuni aspetti di una realtà percepita e costruire messaggi che evidenziano la
connessione tra di essi in maniera da promuovere una particolare interpretazione. Il framing si configura
come un processo e prodotto organizzativo; uno strumento strategico politico: agisce sull’individualità, sulla
percezione delle collettività politicamente motivate. La reiterazione di frame in molteplici testi fornisce a
una porzione di cittadini, politicamente determinate, la capacità di richiamare associazioni mentali che
contribuiscono alla strutturazione della realtà percepita. Infatti, i frame sono diacronici, agiscono nel tempo
e solo se riproposti. Quando sufficientemente ripetuti, i frame non necessitano neanche di una particolare
elaborazione intellettiva: es. tutti sappiamo riconoscere immediatamente cosa è accaduto quando qualcuno
ci nomina 11 settembre o Muro di Berlino. Ecco perché i frame devono mostrare tratti ripetuti (parole,
simboli, elementi iconografici) ed essere culturalmente congruenti con le aspettative dei pubblici. Non a
caso, è ormai consolidato quanto affermato da Benford e Snow riguardo ai frame come strumenti di

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mobilitazione di gruppi sociali: al loro interno vi sono agenti significativi attivamente impegnati nella
costruzione e nel mantenimento di un significato. Il frame in questa visione è un momento attivo (quando
mette in moto, o quando si suppone che questo retroagisca sulle azioni dei fruitori), processuale, poiché
dinamico e in evoluzione, contenzioso, quando coinvolge la generazione di frame interpretativi che non si
limitano a differire da quelli esistenti, ma li sfidano ed eventualmente rimpiazzano. La molteplicità dei
luoghi digitali in cui si possono sviluppare frame non deve tuttavia determinare l’irrilevanza. Quelli che Davis
nella sua analisi di mediatizzazione del potere chiama élites of power, sono molteplici siti e livelli, nei quali
trovano espressione e risonanza rivendicazioni stratificate dal locale al globale, dove élite geograficamente
disperse (le élite sono primariamente quelle che sanno cavalcare l’ibridità dei sistemi mediali
contemporanei) oppure comunità politiche che esprimono attività localizzate, sono in grado, comunque di
avere conseguenze a livello macro. Le culture delle élite sono legate alle relazioni di potere poiché
esercitano forme di influenza sulle cognizioni private costantemente in evoluzione, sui processi di decision
making e sulle pratiche, che in forma aggregata, finiscono per avere un impatto, anche materiale sulla
società. In pratica, i frame disvelano come convenzioni e routines produttive possono traslare eventi politici
in template, modelli pronti su cui sovrapporre le notizie. Per tale motivo le fake news per Cuhsion vanno
ben oltre le contro-narrazioni, ma riguardano direttamente la competizione politica. Bird e Dardenne
affermano che sua opportuno ripensare al modo in cui si guarda alle notizie: non sarebbero solo un
resoconto dei fatti, ma una forma di story telling che funziona in chiave mitologica. La differenza tra notizia
come mito e notizia come story telling: il mito è funzionale alla produzione di narrazioni preesistenti che
aiutano a mantenere un senso di continuità e aiutano a imprimere ordine al mondo, mostrandosi come
rassicuranti e usando a tal fine argomentazioni spesso lontane dalla realtà. Lo story telling andrebbe invece
interpretato in senso estensivo: sono facilmente riscontrabili alcune tendenze, nel giornalismo, che
richiamano le narrative non fattuali; ad esempio sarebbero una sopravvivenza della matrice narrativa
finzionale alcuni elementi giornalistici come la presenza frequente di un’introduzione aneddotica negli
articoli, o la matrice letteraria che persiste in alcuni stili o modelli di giornalismo. Lo storytelling, quindi,
mantiene qualche legame con la realtà: le storie che ne derivano sono frutto di una sistematizzazione anche
cronologica degli eventi, ai quali si cerca di imporre coerenza e significato. È poi nella direzionalità
dell’intervento che si può tracciare un’ulteriore differenza tra miti e storie: mentre i miti non possono
rivendicare una specifica paternità, facendo parte di ampi depositi culturali condivisi, le storie, grazie alla
loro capacità di costruzione del mondo possono essere modellate dai soggetti che desiderano il potere,
tramite il duplice meccanismo di coinvolgimento delle audience e del sistematico occultamento di alcune
porzioni di realtà. È per questo che le storie possono impiegare miti per manovrare le opinioni pubbliche
negli affollati spazi della comunicazione politica; sebbene diversamente dalle notizie reali, che si suppone
siano espositive, le fake news e in particolare le fake news reticolari, sono obbligate a utilizzare più voci e
punti di vista per apparire anche più razionali e divulgative. Per questo la contemporanea emersione di
narrazioni dominanti, anche conflittuali ma riconoscibili, accomuna le fake news ad altri stratagemmi della
comunicazione politica. Ad esempio ciò accade nella retorica populista: è quasi un espressione tradizionale
che i temi dell’anti-politica vengano impugnati da coloro che vogliono utilizzare l’espediente del castigo
all’establishment per modellare a loro favore le lotte all’interno della società: è così che i miti abbastanza
intuitivi, e che ben si prestano al confronto politico, come quello dell’eroe, dell’outsider, di Robin Hood,
sono sviluppati al fine di indirizzare i cittadini contro la classe politica. Non a caso nei discorsi populisti, il più
delle volte sono stati visti come una forma di rivalsa popolare.
Possiamo sostenere poi, che esiste una cittadinanza mediale, la quale prevede l’uso dei media per la
formazione di una propria identità, l’organizzazione delle relazioni associative, per la realizzazione di azioni
che facciano slittare la rivendicazione consumistica in strategie popolari di ridefinizione del potere. Se da un
lato questa forma di cittadinanza, meno settaria di quella basata esclusivamente sulle forme di
appartenenza culturale, può accogliere le persone tradizionalmente escluse dalla partecipazione politica,
dall’altro lato queste forme di impegno sono modellate sugli esempi conflittuali, competitivi, plebiscitari che
emergono dai contenuti mediali. Le comunità prodotte dai contenuti retroagiscono, quindi, sulla politica

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formale. Per tale motivo, la qualità dell’offerta mediale è rilevante: per Hartley, mentre i media emancipano
gli individui verso le forme di azione e comprensione personali e collettive, sono tuttavia responsabili per
forme di cittadinanza sciocche, basate su forme di informazione contaminate, quando non proprio
assimilabili, dall’intrattenimento. Questa forma di silly citizeship si nutre di frammentarietà e ibridazione.
Non a caso l’autore analizza in tali termini la campagna, messa in moto da azioni partigiane nel 2009 che
sosteneva che Barack Obama non fosse in realtà, dotato della cittadinanza statunitense. La notizia ha fatto il
giro dei blog e dei media mainstream internazionali e questo significa che non esistono contenuti rilevanti o
innocui anche quando sono opportunatamente smentiti. Nella sua critica alla monolitica concezione di sfera
pubblica proposta da Habermas, Nancy Faser afferma che le democrazie attuali sono caratterizzate
dall’emersione dei cosiddetti contro-pubblici subalterni. Questi si caratterizzano come arene discorsive
parallele dove membri di gruppi sociali subordinati inventano e fanno circolare contro-discorsi, che a loro
volta permettono loro di formulare interpretazioni oppositive della loro identità, interessi e bisogni. Non
sempre questi pubblici sono virtuosi, anzi alcuni di questi hanno una natura anti-democratica e anti-
egualitaria, così come i gruppi a vocazione democratica possono mettere in atto meccanismi di esclusione.
Tuttavia, il concetto supera il separatismo, poiché lo scopo di questi gruppi è di far circolare il più possibile i
loro discorsi presso le arene di discussione più ampie. I contro pubblici, in società complesse e stratificate, si
presentano quindi in una duplice veste: da un lato si configurano come spazi di ritiro e di aggruppamento;
dall’altro sono la base di addestramento per le attività di agitazione mirate a ottenere l’attenzione dei
pubblici più ampi. La partecipazione, quindi, è strettamente connessa con l’illusione di poter parlare
finalmente con la propria voce, ed è coincidente con la costruzione e con l’espressione pubblica della
propria identità secondo i linguaggi e gli stili personali, ma influenzati dal gruppo di appartenenza. La
distinzione dell’autrice tra pubblici deboli (soggetti la cui partecipazione deliberativa è limitata alla
formazione di opinione) e pubblici forti (soggetti impegnati nelle formazioni di opinioni e nei processi
decisionali, come i parlamentari), sia allo stato, in forte dubbio. Se la realtà internazionale è una realtà
strutturalmente costruita, allora i materiali e i significati che circolano in arene frammentarie influiscono e
condizionano i processi decisionali che avvengono anche fuori dagli spazi politici codificati, ma che
influiscono con quanto accade al loro interno. La qualità dell’informazione politica ha quindi impatto sulla
qualità della politica, pertanto, le condizioni informative da auspicare sono queste: garantire ed esaltare la
diversità dell’informazione o dalle fonti deputate all’informazione politica; evitare l’emarginazione
strutturale di alcune categorie di cittadini, garantendo la pluralità dei temi rappresentati e dei problemi
sottoposti all’attenzione politica; tenere conto dei formati in cui si presenta l’informazione (es. facendo
attenzione all’eccessivo ricorso all’intrattenimento); bilanciare le strategia di innesco di meccanismo di
identificazione personale spesso egoistica e le esigenze di coesione sociale; prestare attenzione al feedback,
valutando come i membri del pubblico rispondono ai messaggi, tentando di non limitare i tentativi
comunicativi a forme emotive di espressione pubblica delle proprie credenze politiche. Possiamo supporre,
quindi, che nel prossimo futuro, parte della credibilità dello stato, condizione necessaria e risultato
dell’impiego e del possesso di soft power, passi per la credibilità dell’informazione creata e diffusa nei
processi di comunicazione internazionale.

CAPITOLO 5 – FAKE NEWS E RELAZIONI INTERNAZIONALI


5.1 L’impatto delle fake news nell’era delle Arrested Wars
Per comprendere la portata dell’impatto delle fake news sul sistema delle relazioni internazionali odierno,
occorre riflettere sulla trasformazione del rapporto tra i mezzi di informazione e la diffusione delle notizie
sui temi apicali del contesto globale, con particolare riferimento alla comunicazione su aree di crisi, guerre e
conflitti. Secondo lo schema utile di Hoskins e O’Loughlin, dalla fine della guerra fredda a oggi, siamo passati
attraverso tre stadi evolutivi tra i mezzi di informazione e diffusione di info su aree di crisi, guerre e conflitti.
La prima risale alla metà degli anni 90, costituendo l’apice delle broadcast wars, con la possibilità di
mandare in diretta le immagini sulle guerre in corso (guerra del Golfo, o del Kosovo), pur dovendo
sottostare ai limiti e al filtraggio imposti dalle autorità governative e militari. La seconda si ha dall’inizio del

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nuovo secolo, in cui l’ascesa del web ha permesso una mediatizzazione più ampia degli eventi di rilievo delle
relazioni internazionali: è il periodo delle diffused news, caratterizzato da un flusso digitalizzato di notizie,
video e immagini, reso ancor più caotico non solo dalla mancanza di riferimenti spaziali delle aree di
conflitto, a causa dell’avvento del terrorismo internazionale e deterritorializzato, ma anche dall’ascesa dei
SNS e di strumenti come gli smartphone, capaci di svincolare la generazione di notizie di rilievo sui conflitti
dalla presenza di media outlet nelle aree di conflitto. Questa fase, si è poi evoluta in quella attuale,
caratterizzate da conflitti dalla narrazione semplice, tra due contendenti chiaramente identificabili e dalla
durata relativamente breve (es. le due guerre del golfo) e le diffused wars passavano attraverso un racconto
centrato sull’unico attore chiaramente individuabile (le forze di sicurezza e militari occidentali) impegnate
ad affrontare un nemico sfuggente e deterritorializzato, ma allo stesso tempo impalpabile e coriandolizzato
(come Al Qaeda nelle due modalità prime e leaderless), le arrested wars sono conflitti difficili da risolvere e
allo stesso tempo complessi da narrare, finendo per coinvolgere attori dalle alleanze meno nette che in
passato; soprattutto le arrested wars sono lunghe nello svolgimento e non lineare nello scoppio di violenza
alternato a momenti di stasi come evidenziato dagli eventi che dal 2014 affliggono l’Ucraina e la Siria.
Quello delle arrested wars, inoltre, è un contesto internazionale il cui le istituzioni governative e militari (le
più sorprese dall’impatto dei media digitali nell’ambito della politica internazionale) hanno iniziato a
sfruttare le nuove tecnologie comunicative per generare delle apposite narrazioni strategiche per
controllare il flusso informativo (specialmente sui contesti di crisi), oltre a sperimentare nuove tattiche di
orientamento sia dalle opinioni pubbliche che dei decisori politici (o l’identificazione, a scopo difensivo) di
fake news. In un tale contesto i media sono diventati molto più efficaci nel descrivere conflitti, propagare
informazioni sulle aree di crisi, consentire a parti belligeranti (spesso attori non statali) di entrare nel flusso
informativo riuscendo a captare su di sé l’attenzione di pubblici precedentemente irraggiungibili, come
dimostra il caso delle campagne comunicative del sedicente Stato Islamico nel periodo tra il 2014 e 2016. I
sistemi mediatici, inoltre, sono diventati capaci di arrestare un conflitto, cristallizzandone alcune
caratteristiche precedentemente sfuggenti o di ardua individuazione operando soprattutto in tre modi: a)
arresto della incomprensione: molti conflitti, pur riferendoci solo al periodo che va dalla fine della guerra
fredda a oggi, sono stati a lungo poco compresi da parte dell’opinione pubblica globale. Specialmente negli
anni 90 l’emergere della maggiore conflittualità intrastatale, soprattutto per l’ascesa dell’etnonazionalismo
ha reso alcune crisi difficili da capire sul piano delle responsabilità, delle ragioni profonde dello scoppio
delle violenze, dell’andamento, persino delle aree di svolgimento; il pensiero corre soprattutto alle guerre
jugoslave o allo scontro tra hutu e tutsi in Ruanda. Altri conflitti sono stati, per molto tempo addirittura
dimenticati, come nel caso delle due guerre che, tra il 1996 e il 2004 hanno ruotato attorno allo
Zaire/Repubblica Democratica del Congo. Pensare che nell’era della digitalizzazione e della copertura
mediatica globale possano esistere aree di crisi dimenticate è poco plausibile; al massimo potranno
palesarsi casi di guerre ignorate, note all’opinione pubblica globale, ma che sa essa ricevono scarsa
attenzione. Allo stesso modo la carenza di comprensione sulle ragioni di una crisi e sul suo andamento
sembrano passate, laddove il flusso informativo è continuo persino in aree di conflitto caratterizzate da
un’elevata complessità come ben rappresenta il caso siriano; b) arresto della copertura mainstream: le
arrested wars, lunghe, pericolose, prive di un fronte, caratterizzate da una difficoltà notevole per i media
tradizionali di documentare le sofferenze e gli avvenimenti, sono narrate, soprattutto grazie al contributo
dei SNS, alla generazione di foto e video da parte delle forze combattenti o dei civili la cui propagazione è
immediatamente amplificata dai grandi media oultet, perennemente alla ricerca di immagini e notizie sugli
eventi in corso. Quest’ultima dinamica ha consentito anche ad attori locali, come lo Stato Islamico, di
irrompere nel flusso di notizie con portata globale, attraverso la creazione di video scioccanti che venivano
elevati al grado di pubblico dominio dalla copertura mainstream e, in seguito, dai social networks più diffusi;
c) arresto del controllo da parte delle istituzioni militari: al contrario dei conflitti del recente passato, gestiti
con perizia sia sul campo che nella comunicazione da parte degli organismi militari, le arrested wars, a causa
della loro scarsa linearità, lunghezza nel tempo, difficoltà nella chiara identificazione delle forze
contrapposte, sono molto più difficili da controllare sia per le forze combattenti direttamente coinvolte sul

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territorio sia per le grandi potenze che, dall’estremo, provano a gestire dei conflitti così complessi attraverso
il minor coinvolgimento possibile delle proprie forze. In questo complesso scenario, che caratterizza le
relazioni internazionali attuali, si inserisce il recente fenomeno della propagazione di fake news in grado di
influenzare tanto i decisori politici quanto, soprattutto, le opinioni pubbliche nella difficile comprensione di
un evento di politica internazionale. Il contesto è quello delle difficoltà a governare le crisi internazionali e a
gestire i conflitti, il cui la comunicazione politica è cambiata con l’ascesa dei SNS e in cui i grandi media
fanno sempre più affidamento sui contributi provenienti dai cittadini-giornalisti o da cittadini-testimoni per
raccontare gli eventi di rilievo della politica internazionale, si aprono ampi spazi per entità, governative e
non, che, sia attraverso la produzione di video o immagini false o parzialmente false che mediante la
propagazione di finte notizie, possono cercare di mutare il framing, la percezione e la comprensione di crisi,
conflitti ed eventi delle relazioni internazionali.

5.2 Le fake news e le relazioni internazionali


Tre grandi attori globali si stanno adattando a quanto detto su, anche se con velocità differenti. Le istituzioni
politiche si stanno calando nella nuova realtà con lentezza, mentre quelle militari stanno iniziando a
sviluppare tecniche di gestione del flusso di notizie sempre più efficaci; i grandi media outlet, al contrario,
sembrano essersi calati rapidamente nel nuovo scenario, allargando il perimetro dell’ecosistema mediale e
trascinando a livello planetario le notizie provenienti dalla massa in espansione dei cittadini-
testimoni/cittadini-giornalisti. In tal modo queste entità si sono rimodulate in un’attività che, in buona parte,
è di controllo delle notizie provenienti dal basso, annunciando anche chiaramente al pubblico quando una
notizia non è ancora confermata, per diffonderla comunque; in tal modo si addossa l’incompletezza della
notizia alla fonte stessa e al bisogno di verifica pur senza rinunciare di perseguire l’imperativo della velocità.
Uno scenario con queste caratteristiche è quindi ideale per l’aumento degli effetti delle fake news. Se le
entità governative sono ancora in fase di adattamento a questo clima, se le istituzioni militari cercano di
gestire e sfruttare i SNS nella creazione di frame interpretativi delle aree di crisi, se i grandi organi mediatici
amplificano la diffusione delle notizie dal basso con meccanismi di controllo relativamente efficaci o
impiegati successivamente al lancio delle notizie, allora delle notizie progettate e realizzate per ottenere un
determinato spostamento nella percezione dell’opinione pubblica rispetto ad una crisi, possono avere un
impatto notevole sull’andamento delle relazioni internazionali. Esse, da decenni, prevedono che l’inganno,
la creazione di notizie appositamente realizzate, il tentativo di disorientare gli avversari con notizie e
informazioni verosimili, ma inventate, operino a vantaggio del perseguimento di una linea strategica o per
giustificare lo scoppio di un conflitto. Tuttavia, queste operazioni, nel passato erano dirette prevalentemente
verso le élite governative degli stati rivali, mentre ora, nella battaglia quotidiana per la conquista dei cuori e
delle menti delle opinioni pubbliche (interne ed esterne) sono proprio i grandi pubblici globali a costituire
l’obiettivo primario delle fake news. La posta in gioco è elevatissima: in un mondo in cui i conflitti interstatali
sono radicalmente diminuiti rispetto al passato, e in cui le crisi internazionali ruotano attorno a gravi conflitti
interni elevati a livello internazionale dall’azione e dagli interessi delle grandi potenze e degli attori locali, la
conquista della legittimazione della società civile globale è divenuta di fondamentale importanza. Non si
tratta solo della tendenza di giustificare sempre meno l’impego della violenza nella risoluzione dei conflitti,
ma soprattutto di generare una pressione da parte delle opinioni pubbliche sulle istituzioni governative e
militari affinché una determinata crisi venga risolta con o senza l’uso della forza (una riedizione del do
something factor comparso già venti anni fa nel periodo dell’Effetto Cnn. Peraltro bisogna tenere conto del
fatto che, esiste una forte persistenza negli individui delle credenze basate su notizie rivelatesi infondate. Il
mantenimento di una errata percezione, anche di fronte a prove e informazioni che la smantellano rischia di
sminuire l’opera di agenzie istituzionali, organizzazioni non governative e attori mediatici impegnati
nell’opera, ormai continua di debunking e fact checking. Il ciclo informazione errata/correzione è destinato a
diventare usuale e con tempi sempre più accorciati mano a mano che i soggetti coinvolti nelle operazioni di
contrasto alle fake news diventano sempre più efficienti, ma la capacità dei soggetti bersaglio di notizie
fasulle di riprogrammare la loro percezione, rispetto alle correzioni emerse dal debunking, resta un aspetto

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ancora poco noto nella realtà contemporanea. I vertici politici e militari, ma anche attori non governativi
coinvolti pesantemente in una crisi, possono avere un duplice ruolo di ingannatori o di ingannati a seconda
che siano palesemente produttori o bersaglio delle fake news. Le attività di spin doctoring, che ormai
guidano la gestione dei flussi di notizie e i tentativi di creare opportune narrazioni strategiche da parte delle
autorità governative sono chiamate sempre più spesso a operare secondo la canonica doppia funzione
offensiva e difensiva riguardo le fake news: nel primo caso loro si opereranno per infangare la fama
avversaria; nel secondo tenteranno di restaurare la reputazione di una istituzione governativa o militare. Nel
senso difensivo, gli spin doctoring possono far parte di una più ampia azione strategica di soft power per
cercare di smascherare le fonti di notizie dirette contro uno stato, operare un eventuale processo di
riabilitazione della reputazione di uno stato o, infine, di promuovere un’azione che, agli occhi dei pubblici,
possa mettere in risalto i tentativi, da parte di un élite governativa, di stabilire la verità su un evento di
politica internazionale. Per quanto riguarda l’impiego di fake news in senso aggressivo, un esempio è la
strategia della Russia nella crisi Ucraina, che comprensiva di strumenti violenti, ma anche non letali, a
comunciare dall’informazione. L’uso massiccio di troll impiegati per inserire commenti favorevoli al
comportamento tenuto dal Cremlino, specialmente nella fase di assorbimento della Crime nello spazio
russo, attraverso commentatori o blogger impiegati allo scopo, ha prodotto distorsioni di rilievo nel modo in
cui il tema è stato dibattito nei siti specializzati e nei quotidiani online. Si suppone che questa macchini di
Putin (come emerso da un documento dell’Agenzia per la Ricerca su Internet, trapelato in occidente), fosse
composto da 600 persone impegnate a commentare quotidianamente almeno 50 notizie su vari media
outlet online e a gestire 6 account facebook e 10 account twitter. L’operazione, secondo la stessa
documentazione, poteva contare su un budget iniziale di 19 milioni di dollari. L’obiettivo generale,
attraverso false opinioni e notizie riportate senza fonte, era quello di costruire un racconto alternativo a
quello che compariva sui media occidentali, allo scopo di influenzare il framing della crisi ucraina. La
comunicazione online entrava dunque a far parte di una complessa serie di strumenti che vanno
dall’aggregazione armata sino alla guerra psicologica e di informazione, in quella che è stata definita hybrid
war. Lo scopo principale di questa linea strategica è quello di impiegare mezzi, politici, economici,
informatici, comunicativi, finanziari e militari per mantenere gli avversari in un continuo status di
sbilanciamento e disorientamento, il tutto evitando l’uso della forza bruta ed evitando le immediate e
prevedibili ritorsioni della comunità internazionale. Pinnoniemi e Racz, in una brillante ricerca mirata a
identificare il grado di penetrazione delle metanarrazioni, generate in Russia in quel periodo, nelle opinioni
pubbliche di alcuni paesi dell’Unione Europea, sono giunti a queste conclusioni: a) la scarsa conoscenza del
contesto ucraino ha permesso a tali metanarrazioni russe di esercitare una distorsione nella percezione
generale della crisi; b) l’azione di costruzione di metanarrazioni più efficace è stata portata avanti dagli attori
governativi come il Ministero degli Esteri attraverso la ripetizione di termini e metanarrazioni che, col tempo
hanno fatto sentire la loro influenza anche sui media occidentali (ad esempio la autodefinizione della Russia
come uno spettatore passivo o della Russia come legittimo protettore della popolazione ucraina in lingua
russa); c) le metanarrazioni generate dai media russi, generalmente hanno esercitato una scarsa influenza
sui media mianstream dei paesi europei (Germania, Finlandia, Estonia, Svezia, Rep Ceca, Ungheria, Polonia
e Slovacchia) venendo relegata, al massimo, a una opinione proveniente dall’altra parte della barricata; d) in
alcuni casi clamorosi, come l’abbattimento del volo MH17, i media europei si sono impegnati nel tentativo
di demolire le metanarrazioni russe; e) alcuni organi di informazione, specialmente giornali, più vicini per
affiliazione politica alla Russia, hanno ripreso in modo più ampio termini e frasi delle metanarrazioni russe
rispetto ai media generalisti; f) la tecnica migliore per combattere gli effetti delle fake news è quella di
portare avanti una tenace azione investigativa, basata sui fatti, sull’acquisizione di prove e di conoscenza.
Una tale operazione richiede però, oltre alla volontà di un attore mediatico, anche denaro e personale. Altre
ricerche hanno notato che la Russia ha proseguito a impiegare fake news e metanarrazioni, anche se con
modalità adattate alla situazione, dopo il suo intervento diretto nel conflitto siriano. In questa occasioni le
metanarrazioni avevano per obiettivo quello di rappresentare l’intervento di Mosca come un’operazione
contro lo Stato Islamico, mantenendo in secondo piano i veri obiettivi strategici (la permanenza del potere

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di Assad) e tattici (attacchi contro le forze ribelli moderati). Si tratta di un approccio che, in parte, ha dato i
suoi frutti dato che non si è manifestata una chiara opposizione occidentale alla prosecuzione di questa
linea di azione almeno fino all’intervento diretto della Turchia (paese Nato). La guerra ibrida rientra in una
strategia ritenuta da un collaboratore di Putin che si chiama non linear war, e cioè un’azione destrutturante
nei confronti di conflitti e crisi; la linearità, i punti di riferimento di un conflitto, per opinioni pubbliche,
media e decisori politici, siano essi coinvolti o spettatori, diventando più sfumati. Le fasi canoniche (crisi,
schieramenti, battaglia, risoluzione), le parti in causa (eserciti regolari, forze paramilitari, popolazione civile)
diventano meno comprensibili e più complessi da raccontare. La durata temporale si prolunga, sino a durare
anni, consentendo l’inserimento di opportune metanarrazioni in eventi difficili da raccontare e che escono
ed entrano dai vertici dell’agenda mediatica a seconda della drammaticità degli eventi. La non linearità delle
crisi, come quella siriana e ucraina, permette alla Russia di provare a manipolare i media e i pubblici
occidentali, basandosi sui tradizionali simpatizzanti all’estero o cercando nuovi alleati attraverso un ampio e
contraddittorio ventaglio di messaggi e metanarrazioni che toccano i temi più vari; antieuropeisti ,
antiamericani, omofobi sono i più importanti gruppi toccati dalle metanarrazioni russe che, non
necessariamente in modo volontario, finiscono per fare da cassa di risonanza al caleidoscopio di notizie
false o tendenziose, rilanciate dai media ufficiali o da soggetti mediatici online russi.

5.3 Le strategie di contrasto alle fake news come forma di soft power
intraprendere iniziative legate alla gestione competitiva delle informazioni da parte degli stati, implica una
fiducia nell’imposizione del soft power attraverso le azioni concrete. La gestione dello spazio immateriale
non è semplicemente indirizzata alla difesa dei propri margini decisionali, evitando che le opinioni
pubbliche transnazionali si trovino sopraffatte da contenuti palesemente distorcenti, ma diventa un
investimento sulla credibilità degli attori coinvolti. Quindi, mostrarsi interessati all’integrità dello spazio
informativo può instillare impliciti parallelismi per i quali, se uno stato si impegna per garantire un sistema
informativo credibile, sarà esso stesso credibile e, di conseguenza, risulteranno più accettabili le richieste
internazionali da questo avanzate, tramutando l’ostentazione di valori in risultati politici. Per questa ragione
gli attori internazionali si sono dimostrati reattivi nella ricerca di soluzioni al problema, non delegando la
questione fake news nell’esclusiva speranza di auto-regolamentazione mediale: non ci sono in gioco solo
interessi politici, ma anche un’azione diplomatica che potrebbe cambiare l’immagine degli stati.
Nell’ambiente internazionale complesso, in cui hanno luogo tali narrazioni, la coltivazione del soft power è
invocata dai molteplici attori che cercano di ritagliarsi un ruolo nel condizionamento del sistema
multicentrico. Si possono quindi riscontrare una serie di risoluzioni o di azioni intraprese dai seguenti attori,
estranei al sistema mediale codificato dall’appartenenza alla comunità giornalistica: - le istituzioni
internazionali; -i singoli stati; - le piattaforme e i gestori di servizi digitali; -cittadini e organizzazioni
volontarie. Le risposte internazionali mostrano la complessità di uno spazio sovranazionale in cui la sinergia
tra dimensione macro e micro nella risoluzione dei problemi è contemporaneamente collaborazione e
ricerca di affermazione. Ecco alcune iniziative di contrasto alle fake news che dimostrano come l’intervento
multiattoriale, anche se inserito in un processo gerarchico, sia necessario proprio in virtù di un’evoluzione
che insiste sul condizionamento dei fenomeni sovranazionali interni, commerciali e individuali.
- UE, il controllo della frontiera informativa: le pressioni affinché l’UE intervenisse sono iniziate nel 2014,
quando l’invasione russa in Crimea ha innescato una serie di rappresentazioni non veritiere degli eventi
internazionali, indirizzate agli stati cerniera confinanti, ripetendo il copione della guerra fredda, al quale si è
aggiunta la possibilità di espandere i propri contenuti globalmente grazie alla rivoluzione digitale. In seguito
alle pressioni di alcuni stati membri, nel 2015 l’UE fonda l’agenzia East StratCom Task Force, il cui compito
non è solo quello di contrastare la disinformazione, ma di agire tramite un piano di comunicazione
strategica che prevede 3 obiettivi: una comunicazione efficace delle attività UE rivolta ai paesi dell’Est
Europa; un generale irrobustimento dell’ambiente mediatico degli stati membri e degli stati più fragili (come
nel caso delle repubbliche baltiche, con lo scopo di garantire e rafforzare i media indipendenti; migliorare le
capacità europee di produzione e di diffusione delle risposte alle attività di disinformazione intraprese dagli

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attori esterni. La task force è impiegata in una serie di azioni ad ampio raggio, non limitate alla
decostruzione delle fake news, ma concentrate sulla coltivazione di climi d’opinione nei quali le notizie
sfavorevoli all’UE attecchiscano difficilmente. A oggi, le attività europee si sono rivolte principalmente verso
tre ambiti: programmazione e realizzazione di una comunicazione strategica basata su analisi focalizzate,
dando spazio alla spiegazione delle politiche europee e alle narrazioni positive; comunicazione
appositamente indirizzata alla gestione delle issues emergenti rilevanti; analisi delle tendenze della
disinformazione, spiegando le narrazioni e i miti cui queste si poggiano.
Il team multilingue è formato da dieci esperti di comunicazione, non ha budget dedicato e si affida alle
risorse destinate alla comunicazione strategica. Il ruolo di questa task force non è quello della
contropropaganda, quanto quello di identificare e di correggere i contenuti di disinformazione. Le contro-
narrazioni sono parzialmente indipendenti dalle metanarrazioni da decostruire: Bjola e Pamment
identificano una dimensione ideologica nel contenimento digitale. Infatti, insistere sul ruolo positivo dell’UE
per la vita quotidiana dei cittadini, piuttosto che sull’esclusivo confronto frontale sui temi oggetto di
contestazione, presuppone contare sull’efficacia e sull’attrattività dei propri valori e delle politiche di
riferimento, rafforzando il ruolo delle idee nella gestione degli affari internazionali. Proprio in chiave di
ripristino del soft power è stata lanciata la task force Disnformation Reviwe: sito lanciato nel 2015 e che
mostra esempi di disinformazione diffusa dal Cremlino, selezionando tutti quei messaggi che promuovono
una visione parziale, falsa o distorta degli eventi internazionali, oppure sono in linea con le operazioni di
propaganda del governo russo. Proprio la sua attenzione sul messaggio che sul messaggero, mostra una
certa consapevolezza dei processi epidemici della diffusione delle informazioni: non è più sufficiente bollare
una fonte come inaffidabile per arginare il problema, quando lo spin informativo fa in modo che siano
media innocui, così come le singole iniziative degli utenti digitali, ad avvalorare e diffondere visioni parziali e
politicamente orientate. Negli articoli del sito, così come nella newsletter settimanale (in lingua inglese o
russa), si mostra: se l’articolo è falso confrontandolo con i fatti, se il messaggio è identificabile con le linee
espressive dall’informazione pro-Cremlino, o semplicemente ispirato a queste. Lo scopo di questa attività di
debunking prevede quindi la coltivazione delle capacità di distinzione dei cittadini: se ne ravvede una traccia
nella modalità narrativa delle storie decostruite (vengono valutate le fonti illustrando come si possano
trovare dati alternativi grazie alle attività di grandi organizzazioni internazionali, mostrando storie che
esemplificano il clima generale di censura e limitazione, e che quindi contribuiscono a minare l’efficacia
delle narrazioni russe). Per questo, l’agenzia East StratCom Task Force si avvale anche della consulenza di
una rete di circa 400 esperti, tra giornalisti, funzionari governativi, membri di ONG provenienti da oltre 30
paesi per decostruire i miti promulgati dall’informazione russa, come quelli che ricordano una
rappresentazione vittimistica della Russia di fronte ad un Europa predatrice. Tutte queste strategia sono
delle operazioni politiche e strategiche. Per tale ragione, Bjola e Pamment sono scettici nella valutazione
dello strumento Disinformation Review: in parte la complicazione risiede proprio nell’identificazione delle
notizie problematiche. I funzionari europei e i documenti ufficiali, come notano i due autori, sono soliti
esprimere la differenza tra disfinformation (distorsione intenzionale dell’informazione) e misinformation
(che presuppone una distorsione non intenzionale): se la gravità delle azioni può essere determinata dalla
consapevolezza della manipolazione dell’informazione (ma non certo giustificata dagli standard etici della
professione giornalistica) è tuttavia difficilmente verificabile la volontarietà delle azioni. Non a caso, la stessa
ricerca sui media si è spesso interrogata sull’intenzionalità delle distorsioni che intercorrono nel processo di
framing: il framing, come azione da parte del mittente del messaggio, è a volte deliberato, a volte
accidentale, a volte istintivo. Ciò significa che non sempre è possibile debellare miti collettivi
inconsciamente radicati e rassicuranti per un vasto numero di individui; ai problemi si aggiungono le
molteplici declinazioni del concetto stesso di parzialità. Secondo Entman, vi sono tre possibili accezioni del
termine parzialità: parzialità per distorsione, include le notizie che distorcono volontariamente la realtà;
parzialità di contenuto, individua la presenza di modelli di framing che favoriscono l’approvazione di una
parte nei contenziosi che riguardano la gestione del potere statale; la parzialità decisionale, indaga sulle
motivazioni che spingono i professionisti dei media a produrre contenuti faziosi. La complessa interazione

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tra questi fattori rende appena sufficiente la volontà di illustrare le notizie false come panacea della crisi
informativa europea, soprattutto quando non si è chiari sulla politicizzazione delle reti di debunking. Infatti
per i due autori, le reti di de-costruttori di miti sono esplicative di una natura ancora informale (quando
approssimativa): l’autocandidatura su base volontaria dei cosiddetti “mith-busters”, se da un lato suggerisce
un approccio inclusivo fondato sulle potenzialità collaborative della diplomazia pubblica, dall’altro ha lo
scontato effetto di catalizzare i soggetti provenienti da queste aree tradizionalmente impegnate in confronti
competitivi con la Russia. Ne deriva quindi che solo alcune aree sono sovrarappresentate rispetto ad altre e
si rischia che le stesse aree soggetto di attenzione finiscano per suggerire una lettura politicizzata in senso
competitivo delle operazioni europee, vanificandone l’universalità della volontà di imposizione del soft
power. In tale ottica si spiegano gli intenti dell’analoga operazione informativa Nato: agenzia StratCom, che
non nasconde la sua volontà di coltivare una propria peculiare forma di comunicazione, proprio per
garantire il successo di forme di competizione che coinvolgano l’hard power. L’agenzia si propone di
contribuire alle attività della Nato grazie a programmi di comunicazione strategica, considerata parte
integrale nel conseguimento degli obiettivi militari e politici dell’Alleanza Atlantica: come dice la nota
informativa dell’org. “non si può immaginare un’operazione di successo senza una comunicazione strategica
chiaramente definita ed efficiente”. I partecipanti dell’agenzia sono reclutati tra civili e militari, esponenti del
mondo accademico o di imprese private. I prodotti dell’agenzia si sono distinti per la capacità di analisi dei
fenomeni informativi contemporanei: nel 2017 ad es. sono stati studiati i fenomeni che hanno coinvolto le
campagne informative russe rivolte ai paesi dell’area baltica, così come le interpetazioni diffuse nella lettura
russa sugli eventi della seconda guerra mondiale, arrivando a formulare una continua e persistente
comunicazione strategica difensiva. Comunque, la rincorsa ai temi non credibili rischia di minare le
percezioni dell’agenzia, che si espone alla possibile legittimazione degli argomenti di confronto.
- Le attività statali, tra difesa e mascheramento: le iniziative statali centralizzate presentano sempre il rischio
di essere interpretate come interventi censori. Per tale ragione sono interessanti quei casi nei quali la
presenza di un attore che agisce all’interno di un framework nazionale attivi quei processi di persuasione
morale che fungano da attivatori di soft power. Si consideri il caso delle sanzioni, comminate all’emittente in
lingua inglese ispirata dal Cremlino RT, da parte dell’agenzia britannica di regolamentazione della
comunicazione Ofcom. Nel 2015 TR è stata sanzionata per aver infranto le regole di emittenza in alcuni suoi
programmi, tra cui due episodi della serie Truthseeker, incluso uno in cui si insinuava che la BBC avesse
inscenato un attacco chimico del regime di Assad in Siria. Nel programma si riportava che un reclamo per la
questione, sollevato da un singolo spettatore, fosse in realtà un’ampia investigazione pubblica contro la BBC,
così come si raccontava che l’emittente pubblica britannica avesse manipolato un’intervista a un medico
siriano che descriveva il suo lavoro di cura delle vittime di un attacco chimico. In un altro episodio, si
sosteneva che nell’est dell’Ucraina fosse in atto un genocidio spalleggiato dal governo ucraino: la versione
del governo ucraino ha occupato circa 6 secondi dalla mezz’ora di testimonianze che avvaloravano tale
affermazione. L’azione di monitoraggio delle trasmissioni RT ha un deciso significato per il disvelamento
delle possibili opzioni di contrasto da parte delle entità statali. La strategia britannica mostra due aspetti
fondamentali: l’attenzione, seppur nella difesa del proprio sistema mediatico, verso la rappresentazione di
notizie di politica internazionale rispetto alle vicende di politica internazionale, che significa l’interesse verso
la correttezza informativa tout court; la delega ad agenzie georeferenziate, ma non internamente
sovrapponibili con lo stato, allontana il rischio di dipingere le operazioni di difesa informativa come una
mera policy governativa. Queste strategie chiarificano la tendenza della nuova diplomazia pubblica, che
prevede l’interessamento a questioni globali ad ampio raggio, anche a rischio di occultare parzialmente la
visibilità dello stato.
- Le piattaforme e i fornitori di servizi digitali alla prova della responsabilità. Includere i fornitori di servizi
digitali tra i soggetti interessati al soft power internazionale è un percorso obbligato se si considerano le
grandi corporation transnazionali come attori in grado di condizionare l’andamento della politica
internazionale: gli spazi commerciali digitali ospitano ormai numerose funzioni della diplomazia, sono uno
strumento con il quale si modella e si proietta l’identità dello stato, eppure mantengono le loro condizioni di

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autonomia e di indipendenza, come esemplificato dalla persistenza della vocazione commerciale. Per
questo, chiedere che siano gli operatori digitali a vigilare sulla veridicità delle informazioni significa ritenerli
responsabili e rilevanti nella cogestione dei processi degli affari internazionali: accettare un tale ruolo, per
essi, vedrebbe un necessario adattamento al fine di garantire quell’apertura e trasparenza che motiva gli
esperimenti di diplomazia diffusa. Ciò metterebbe gli operatori digitali e gli stati in una posizione di
reciproca subordinazione, considerando che gli obiettivi di quanto è politico, e di quanto invece è
commerciale, non possono essere totalmente sovrapponibili. Così, la ricerca del soft power, per i colossi
digitali, si traduce più nelle sfumature della responsabilità di impresa che in quelle del benessere collettivo:
il timore è che gli utenti scelgano di migrare verso altri lidi, con un conseguente calo degli introiti
pubblicitari, o che i servizi informativi mainstream recidano le embrionali forme di collaborazione per
sviluppare forme alternative di digitalizzazione rosicchiando utenti influenzati dall’affidabilità del brand. I
principali operatori digitali hanno messo in campo diverse strategie per mitigare l’irruenza delle fake news:
per alcuni paesi, ad esempio, Google ha reso disponibile in tag Fact Check per le notizie che appaiono tra i
risultati di Google news e presentano una verifica dei fatti. L’etichetta precede gli articoli nei quali si validano
le affermazioni dei politici, oppure la veridicità di notizie curiose, spesso riportate dai media senza gli
opportuni controlli sulle fonti, ed è basata sulle indagini di apparati informativi algoritmicamente definiti
come dotati di autorità giornalistica. Nell’impossibilità di vagliare tutti i contenuti che circolano in una
piattaforma pensata per l’immissione di post a carattere personale, anche Facebook insiste in una strategia
di riconoscimento delle informazioni veritiere: da aprile 2016, un post in homepage indica agli utenti come
scovare le fake news, fornendo consigli e indicazioni. Tuttavia, vi è chi sostiene che il ruolo ricoperto nella
società attuale dalle notizie fruite attraverso i SNS obblighi gli stessi a garantire equità nella visibilità dei
contenuti: il problema di Facebook non sarebbe esclusivamente nelle notizie false, ma negli algoritmi che
permettono che quelle notizie abbiano una rilevanza maggiore delle altre. Secondo Philips Howard,
dell’Oxford Internet Studies, la colpa principale dei SNS starebbe proprio nell’occultare i dati raccolti e cosa
gli algoritmi se ne fanno di quei dati, lasciando i sondaggisti e i funzionari governativi ad arrancare nella
conoscenza dell’effettivo stato dell’opinione pubblica, intellegibile solo attraverso le risposte di un limitato
campione di individui (spesso deliberatamente contrarie alle effettive credenze) a sondaggi di exit poll. I
social media, invece, sono in grado di conoscere istantaneamente le tendenze delle opinioni pubbliche e i
punti di frattura con la politica consolidata; i gestori dei SNS hanno assistito al trionfo delle fake news
nell’indirizzo dei contenziosi elettorali, sono in grado di comprendere i fattori scatenanti, quali sono i temi
più a rischio, i soggetti più inclini, e tuttavia si sono limitati ad arginare il fenomeno con azioni cosmetiche
quando l’ambiente democratico era già viziato. Per Howard quindi, sebbene non esista alcun tipo di obbligo
legale nella diffusione dei dati, anche in forma aggregata da parte degli operatori mediali, ne sarebbe
auspicabile una condivisione con le autorità per sondare l’opinione pubblica nei momenti elettorali,
valutandone le oscillazioni diverse dalle predizioni del vincitore, e per garantire il supporto a sondaggi di
tipo deliberativo, nei quali in confronto con soggetti esperti rende i cittadini decision makers più consapevoli
e informati. Va chiarito che il pensiero di questo autore si inserisce in un ambizioso ed utopico progetto per
il quale i dati raccolti attraverso quei dispositivi di utilizzo quotidiano che registrano informazioni personali,
talvolta indicati come strumenti di controllo invisibili nelle mani di governi autoritari, sarebbero le
fondamenta di una futurabile pax techinca, garantita dalla disponibilità tecnologica, dall’apertura e
trasparenza conoscitiva e dalla possibilità di trasformare i progetti di impegno civico in esperienze reticolari
guidate dai dati.
- Il ruolo delle organizzazioni ai cittadini. Molte delle opzioni di contrasto analizzate finora prevedono la
partecipazione attiva degli utenti, tramite l’addestramento al riconoscimento delle fake news promosso
dagli attori istituzionali e commerciali. Molte delle attività dei cittadini, tuttavia, diventano modelli di
ispirazione per le strategie ufficiali. Tra queste, vi è il caso del sito StopFake.org, fondato a Kiev nel 2014 che
si prefigge di mostrare la disinformazione riguardo alla crisi ucraina diffuse tramite i media mainstream russi
e internet. Lo scopo della comunità di StopFake è di rendere partecipi gli utenti di internet nello scoprire ed
esporre i casi di manipolazione sulle vicende ucraine, anche grazie alla possibilità di segnalare essi stessi

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notizie false. In tal modo, la verifica delle notizie diventa espressione di partecipazione politica, poiché si
presenta come una forma di assistenza ideologica volontaria che contribuisce agli obiettivi politici di governi
o altri attori, non a caso, la piattaforma è tradotta in più lingue. Grazie a esperimenti come questi, le
narrazioni strategiche e le pretese identitarie sono quindi costrette a passare attraverso il vaglio dell’analisi
localizzata, il potere delle opinioni pubbliche transnazionali quando non indifferenti alle ingerenze e alle
falsificazioni dei governi stranieri. StopFake ha acquisito un ruolo di autorità culturale nel processo di
debunking poiché è il primo sito che si occupa prevalentemente di smontare atti di propaganda di governi
stranieri, mentre solitamente il factcheking viene applicato alle affermazioni indirizzate ad audiences locali
da parte dei politici di uno stesso paese. La differenza con il fact checking Usa, è che esso risente delle
peculiarità del giornalismo tradizionale nazionale, per cui a ogni opinione è solitamente contrapposta
un’opinione espressione della fazione divergente. Le questioni incriminate poi, sono date al vaglio di
professionisti accademici che spesso rivelano come le notizie possono presentare innegabili elementi di
verità, ma essere organizzate in maniera fuorviante, esasperando alcuni aspetti. In ogni caso, il principio di
base che muove il fact checking è differente: se nel contesto statunitense si inserisce in un’ottica in cui si
suppone che i media facciano il loro lavoro seguendo l’etica prevalente, e per questo si può concentrare
sulle singole dichiarazioni dei singoli politici. StopFake si confronta con un lavoro certosino si propaganda
aggressiva da parte di un attore che non esita a inquinare le informazioni, a partire dalle fonti,
concentrandosi quindi sullo svelamento delle fake news. Per questo possiamo dire che tutte le storie che si
trovano su StopFake sono false, anche se si potrebbe obiettare che le operazioni di decostruzione operate
dai cittadini siano espressione di una volontà geopolitica e quindi parziali perché finiscono per diventare
delle narrazioni strategiche. I media russi, hanno iniziato a citare spesso StopFake come interlocutore nelle
loro storie e questo contribuisce a minarne la sua percezione di indipendenza. Tuttavia, è ovvio che le
operazioni di indirizzo informativo del Cremlino e dei gruppi di volontari non sono sovrapponibili nel
momento in cui StopFake cerca di alfabetizzare i propri utenti alla ricerca dell’autonoma verità, attraverso
apposite guide sul loro sito. Sienkiewicz suggerisce che l’immensa mole di lavoro grazie alla quale una
moltitudine di utenti, volontari e non pagati, ha passato al vaglio le informazioni provenienti dalla Russia a
seguito della caduta del volo MH17 della Malaysian Airlines nei pressi di Donetsk, ha contribuito a un
cambiamento culturale nella percezione di questi lavoratori non retribuiti, diversi dagli esperti accreditati,
nel fronteggiare la corazzata propagandistica di uno stato di certo non a corto di mezzi. Quanto analizzato
mostra come non sia possibile isolare uno strumento di ripristino dell’informazione corretta: nell’ambiente
mediale complesso che caratterizza la modernità, solo un approccio di tipo combinato può garantire un
efficace antidoto alle manipolazioni propagandistiche, anche considerata la peculiare forma che le
narrazioni strategiche russe, travestite da fake news, adottano per mimetizzarsi nel sistema mediale. Va
ricordato che lo scopo di queste non è semplicemente quello di delineare una realtà alternativa, ma quello
di istillare dubbi, paranoie, forme di disinteresse evasivo neo confronti dei resoconti della politica
internazionale, anche esacerbando quegli aspetti divisivi che catalizzano nicchie frammentarie (le spinte
separatiste, la sfiducia verso l’UE, la critica ai modelli economici liberali, i timori sollevati dalle tendenze
migratorie globali). Lucas e Pomerantsev suggeriscono che le strategie di contrasto dell’inquinamento
informativo, di matrice sovranazionale e istituzionale, come quelle promosse dall’UE, debbano
necessariamente attestarsi su fondamenti di diversa intenzionalità e lungimiranza, generando azioni di tre
tipologie:
1) Tattico: azioni che mirano a decostruire i fenomeni informativi e a garantire la programmazione degli
interventi. Si suggerisce di sviluppare e praticare un’analisi continuativa dei social media, al fine di
monitorare le conversazioni in rete e i contenuti diffusi, ma anche per affinare le capacità di ascolto, pilastro
delle successive pianificazioni delle operazioni di diplomazia pubblica. Inoltre si auspica la volontà di agire
tramite una chiara regolamentazione europea del sistema dei media, per fornire i necessari appigli
legislativi alle possibili sanzioni e poi, parte delle operazioni europee dovrebbero mirare alla
responsabilizzazione dei cittadini. Infine, sarebbe necessario agire su specifici segmenti di pubblico: è il caso
della riconciliazione con le audience di lingua russa (ad esempio, attraverso la proposta di narrazioni in

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grado di affievolire i risentimenti storici sedimentati), oppure delle azioni dirette alle nicchie, attraverso la
segmentazione mirata dei messaggi da diffondere online oppure il dialogo strategico.
2) Strategico: mira a prevenire l’insorgenza delle fake news e delle narrazioni propagandistiche stabilendo
una presenza continua e affidabile nello spazio mediatico internazionale. Sarebbero quindi plausibili le
operazioni di rafforzamento del broadcasting pubblico in quelle aree più a rischio d’infiltrazione russa (stati
cuscinetto). Inoltre, in uno spazio mediale ibrido, è necessario garantire gli strumenti di emancipazione
dall’influenza russa: non solo gestendo un canale informativo di stampo europeo, ma investendo sulla
produzione di contenuti di intrattenimento che allontanino le persone dalla dipendenza dal sistema mediale
russo.
3) A lungo termine: queste operazioni comportano gli interventi in grado di fornire gli anticorpi per
prevenire gli abusi mediali: da un lato si dovrebbe agire sulla consapevolezza dei cittadini, aumentandone le
competenze grazie alla diffusione della media literacy; dall’altro occorrerebbe privare i promotori di fake
news dai foraggiamenti economici per scalfirne la sopravvivenza, ad esempio dissuadendo le aziende dal
comprare spazi pubblicitari in quei media che promuovono discorsi razzisti o violenti. Tuttavia le tecniche
russe sono abbastanza prevedibili e semplici, di conseguenza non sarebbero poi così complicate da
contrastare. Le risposte occidentali al fenomeno, però, secondo i due analisti, sono state eccessivamente
cerebrali e caute, complicate, replicando il linguaggio felpato della diplomazia e finendo per confondere le
politiche che si tentava promuovere. Se lo scopo della propaganda russa è quello di confondere lo spazio
informativo, allora già il supporre che possano esistere due versioni della stessa storia, significa che il
Cremlino ha ottenuto un risultato significativo, ad esempio perché si metterebbero in dubbio risultati politici
ottenuti mediante processi codificati e quindi legittimi; o perché sarebbero posti in discussioni i valori
sottesi all’ordine vigente. Le risposte suggerite hanno senso se inserite nell’ambito dei processi di framing
che sostengono le narrazioni strategiche. Infatti, il metodo di contrasto basato sulle rappresentazioni si
sosterrebbe sui seguenti pilastri: analisi dei prodotti informativi per verificare gli stock di contenuti
ricorrenti; valutazione dell’adeguatezza delle risposte. Non sempre è necessario rispondere ai miti con i fatti,
soprattutto quando la controparte agisce con il proposito di istillare il dubbio, negare una notizia, in realtà,
permette di solidificarla nelle rappresentazioni del pubblico. Soprattutto, quando le notizie sono
deliberatamente indirizzati alla polarizzazione delle nicchie, la decostruzione tramite strumenti mainstream
rischia di ingigantirne e amplificarne la portata e la rilevanza per quei pubblici che non ne sarebbero venuti
in contatto tramite i consumi mediali tradizionali; rifiuto della rincorsa propagandistica, ad esempio non
agendo a propria volta sulle manipolazioni identitarie, sulle strategie di branding, aggressive, sulla
negazione dei dati, sui frame distorcenti; produzione di narrazioni strategiche localistiche: non sempre le
narrazioni devono essere universalizzanti, ma è proprio la declinazione geografica delle ricostruzioni
autobiografiche o storiche di uno stato a garantire una migliore ricezione delle stesse.
Le narrazioni consapevolmente ideate, non manipolative, basate sulla promozione di valori attrattivi e
inclusivi sono un accorgimento efficace per permettere di gestire attraverso il soft power i confronti
informativi che non solo hanno conseguenze sulla strutturazione dei sistemi di credenze e di
rappresentazione collettive, ma che contribuiscono a scalfire l’hard power nel mettere a repentaglio la
sicurezza collettiva. È in questa accezione che le narrazioni sono compiutamente strategiche, poiché
finalizzate al conseguimento di obiettivi che rispondono alle esigenze del confronto politico.

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