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Franca d’Agostini
All’inizio del XXI secolo il concetto di verità è entrato in una nuova fase della sua storia. Ha cessato
di essere di interesse quasi esclusivo dei filosofi o dei religiosi, ed è comparso sempre più
frequentemente nel linguaggio pubblico. La circostanza più recente è la fortuna dell’espressione «post-
verità», scelta dall’Oxford Dictionaries come «parola dell’anno» del 2016. Dal 2016 a oggi la letteratura (di
ogni tipo) su post-truth (e la gemella fake news) è cresciuta in modo impressionante, se ne sono occupati e
Che vi sia un ‘problema verità’, sembra dunque evidente. Non sembra però che vi sia un’idea chiara
e condivisa circa la natura del problema, e le eventuali possibili soluzioni. Come è stato notato, il
concetto di post-verità viene utilizzato in modo molto vario, per indicare una quantità di fenomeni
diversi (Lorusso 2018, pp. 4-19). Più precisamente: non c’è alcun accordo sostanziale né sulla natura del
‘post’ (che cosa c’è di nuovo? quale epoca del vero è finita?) né sulla natura del concetto di cui si celebra
o si lamenta il tramonto.
Intendo dunque soffermarmi sui due elementi: il post- e la verità, con speciale riferimento al
secondo. In questo paragrafo tratterò il primo, dunque la risposta alle domande: c’è qualcosa di nuovo
che riguardi la verità? che cosa esattamente? Nel prossimo tratterò il secondo, dunque risponderò alla
domanda: di che cosa parliamo quando parliamo di verità, ci lamentiamo della sua assenza, delle sue
Va precisato che i concetti di post-verità e fake news sono oggi al centro di un settore di studi piuttosto
vasto, con una raffinata terminologia, che si avvale di complesse ricognizioni statistiche, di filosofia
dell’informazione e sociologia della cultura (un vero e proprio nuovo linguaggio). Dunque per i dettagli
è necessario riferirsi alle voci relative (v. ). La prospettiva in cui mi muovo in questa voce è focalizzata
sul concetto di verità esaminato dal punto di vista filosofico, più precisamente, dal punto di vista di ciò
che Aristotele chiamava «filosofia prima», e definiva appunto come «scienza della verità» (Aristotele,
Metafisica, II, 993b). Oggi non si parla di «filosofia prima», ma il settore di studi concepito da Aristotele
con questo nome, quello delle ‘teorie della verità’ (truth theories), costituisce un fertile e molto
frequentato ambito di ricerca, situato all’intersezione di logica, metafisica, epistemologia, filosofia del
linguaggio. È in questa prospettiva truth-theoretic (o anche, se si vuole, aletica – da aletheia, il greco ‘verità’),
Post? – C’è davvero qualcosa di nuovo che riguardi il concetto di verità? Questa novità rappresenta
una rottura rispetto al passato? La prima prevedibile risposta è negativa. Concetti «primi» come ‘verità’
difficilmente subiscono svolte storiche significative. Il modo in cui li usiamo, l’importanza che vi
assegniamo possono mutare, ma con tempi molto lunghi e non lineari, con accelerazioni e ritorni.
Questo significa che l’espressione ‘post-verità’ è particolarmente infelice, dal punto di vista filosofico.
La definizione dell’Oxford Dictionaries ci dice che con questo termine dobbiamo intendere una speciale
condizione del linguaggio e del pensiero pubblico, tale per cui altri concetti-valori prendono
sistematicamente il sopravvento sulla verità. Per esempio, nella valutazione e nelle strategie dei politici
la ricerca del consenso prende il sopravento sulla ricerca di soluzioni realmente efficaci; nella
valutazione e nella scelta elettorale dei cittadini le emozioni prendono il sopravvento sulla
considerazione dei fatti. In un altro significato, generalmente accolto nella letteratura più recente,
l’espressione indicherebbe il successo delle nuove forme di inganno, manipolazione, distorsione delle
credenze, attive nella società digitalizzata, e i nuovi modi tecnologici di utilizzare tali risorse.
dell’autoinganno) non sembra che il ‘post’ in ‘post-verità’ offra un’adeguata (vera) descrizione dei fatti.
Gli esseri umani sono sempre stati sostanzialmente indifferenti alla verità, hanno sempre subito inganni
di ogni sorta e hanno sempre amato ingannare se stessi. Condizioni molto simili a quelle descritte sono
già state notate agli albori della democrazia: le «disavventure della verità», intese in questo senso (v.
D’Agostini 2002), incominciano con il nichilismo e il relativismo dei sofisti, nel V e IV secolo a. C. Esse
ricompaiono poi in età tardo-moderna, alla fine dell’Ottocento, quando Nietzsche lancia l’idea del
«nichilismo» come «fine del mondo vero». Quindi si ripresentano verso la metà del secolo successivo,
quando ci si accorge che i media distorcono sistematicamente la realtà e Guy Debord proclama
l’avvento della «società dello spettacolo» (Debord 1967). Infine culminano nella «Nietzsche-
Renaissance» degli ultimi decenni del secolo, da cui è sorto il postmodernismo, come un movimento di
interpretazione del presente che tentava di dare una valutazione ‘affermativa’ della crisi della modernità
(Vattimo 1985).
sbagliata, ma non c’è dubbio che nella fortuna dell’espressione sia in gioco qualcosa di importante. La
La prima circostanza degna di nota è che il destino della nozione di verità, le sue ‘crisi’ (sofistiche,
nichilistiche, mediatiche, consumistiche, ecc.) così come le sue fortune, sono strettamente legate ai
processi di democratizzazione (v. Fuller 2018, Lorusso 2018, D’Agostini-Ferrera 2019), ossia
all’ampliamento dei diritti individuali di parlare, partecipare, far valere le proprie idee. È un dato
facilmente osservabile. Se si ammette che chiunque abbia il diritto e il potere di esprimersi, il risultato è
prevedibile: gli individui spesso ingannano e si ingannano, e in generale non conoscono i rischi legati
alla pretesa di conoscenza e alla diffusione delle credenze attraverso il linguaggio, dunque niente può
fermare in linea di principio il diffondersi del falso, come menzogna, inganno e autoinganno. Era questa
l’osservazione che guidava la diagnosi anti-democratica degli antichi filosofi, esattamente nell’epoca in
cui apparve il concetto di verità nell’accezione filosofica. Platone e Aristotele notarono che i cittadini
non conoscono l’importanza dei concetti primi, come to kalon, to agathon, to alethes, tendono a trascurarli,
a usarli nel modo sbagliato. Alla difesa di questi concetti affidarono la loro critica della cultura del
tempo (Trabattoni 2016, pp. 36-42). Ed è in particolare la scoperta dei problemi pubblici legati all’alethes
Il vero democratizzato – Il secondo dato significativo è che mentre gli antichi filosofi potevano
permettersi di essere anti-democratici, noi non possiamo esserlo. Non tanto per ragioni di scelta etico-
politica, ma perché la democratizzazione (a prescindere dal successo politico delle democrazie attuali) è
un fatto oggettivo, che riguarda la scienza, l’arte, la cultura, la vita personale e pubblica degli individui.
Come sappiamo negli ultimi decenni del Novecento la produzione e diffusione del sapere e di quel che
si crede di sapere hanno avuto un’accelerazione formidabile, dunque le condizioni della ricerca di verità,
della conferma e del dissenso sul vero e il falso, sono cambiate, e forse i parametri e i criteri che fino a
Ecco dunque la diagnosi del ‘nuovo’ problema-verità che è possibile proporre: non siamo abituati al
democratico di farne uso. Il cambiamento è stato troppo rapido. Tutte le nostre strutture mentali e
istituzionali sono modellate sul vero (o sul creduto vero) proveniente ‘dall’alto’, da Dio, dalle oligarchie
scientifiche, giuridiche e politiche, oggi il vero (il presunto tale) viene da ogni parte, e non siamo ancora
pronti. È questa in fin dei conti la ragione del rapporto molto stretto tra nichilismo e democrazia, ed è
questa la ragione per cui si manifestano oggi le tipiche malattie di una gestione incontrollata delle
credenze e delle conoscenze: il disfattismo scettico (nessuno crede più a nulla, le fonti autorevoli
perdono autorità); il narcisismo dogmatico (ciascuno crede di saperne di più degli altri).
Le nuove avventure della verità – Ma giunti a questo punto dell’analisi si presenta un terzo dato
significativo, che è forse più incoraggiante. L’aspetto davvero nuovo della situazione attuale è che il
concetto di verità, a lungo considerato in fondo irrilevante se non dannoso in politica e nella vita
pubblica (v. Lynch 2004), sia tornato così potentemente al centro dell’attenzione. C’è, innegabilmente,
una nuova vicenda semantica che riguarda il concetto di verità: l’atteggiamento comune nei confronti di
questa antica parola è cambiato, sta cambiando. E non è detto che sia un male. Perché in definitiva,
riconoscere di avere ‘un problema di verità’ è già un passo importante sulla via della verità. Ma occorre
ancora capire che cosa esattamente intendiamo quando ci occupiamo di vero e falso.
Di che cosa parliamo quando parliamo di ‘verità’, chiediamo verità, cerchiamo la verità, ci
lamentiamo dei nostri fallimenti nel cercarla, o del dogmatismo di coloro che ritengono di possederla?
La filosofia contemporanea ha dato molte (troppe) risposte (Atchourioti 2015, Edwards 2019), ma ci
sono alcune linee di convergenza di cui dovremmo tenere conto. Esse possono servirci a eliminare
La funzione V – La prima questione da chiarire è che quando parliamo di verità in generale, non
stiamo parlando dei diversi contenuti veri o ritenuti tali che possiamo acquisire, ma piuttosto del concetto
di verità, ossia di quella funzione mentale e logico-linguistica che attiviamo quando diciamo o pensiamo
‘questo è vero/non è vero’, quando chiediamo o ci chiediamo: ‘sarà vero?’ (sul funzionalismo in teoria
La prospettiva concettuale presenta molti vantaggi. Anzitutto, possiamo avere dubbi sulla legittimità
di pretendere verità, di conoscere il vero in quanto tale, o di assumere che la proprietà dell’essere vero
sia una proprietà privilegiata; ma anche se così fosse, dobbiamo ammettere che questo concetto esiste
nelle nostre lingue, ed è interessante capire che cosa significhi, perché e come lo usiamo, quando e
come dovremmo usarlo, e perché alcuni (in particolare i filosofi tradizionali) pensano che sia un
concetto importante, e alcuni altri (filosofi e non) ritengono che sia un concetto dogmatico e anti-
democratico.
Inoltre, spesso non ci si intende perché alcuni dicono per esempio «esistono molte verità»
intendendo che esistono molti contenuti veri di diverso tipo, e anche diversi modi di descrivere una
stessa cosa o situazione. E non hanno torto. Ovviamente però la cosa o situazione, ovvero il fatto che
di volta in volta rende vero quel che si è detto, è un solo fatto, descritto in diverse sue parti, oppure con
linguaggi diversi. E d’altra parte esiste anche un solo concetto, applicato nei diversi casi nello stesso
modo. Per esempio, chi dice che ‘le balene sono mammiferi’ (enunciato vero, secondo la nostra
tassonomia naturale), o ‘Dio esiste’ (enunciato controverso) o ‘la Terra è piatta’ (falso) sono veri sta
usando – in buona o cattiva fede – una stessa funzione concettuale, e vuol dire una stessa cosa, anche
se le cose di cui parla sono molto diverse. Possiamo allora chiederci: che cosa vuol dire?
Realismo – La risposta più ovvia e più antica è anche la più semplicemente accettabile: chi dice ‘è
vero’ sta dicendo che il mondo (in senso lato) è fatto in un certo modo. Quando parliamo di verità, o ci
pensiamo, stiamo riferendoci a «come stanno le cose» (Platone, Cratilo, 385c). Il concetto V funziona
correlando il linguaggio (o il pensiero) al mondo, alla ricerca di un accordo tra l’uno e l’altro.
Una forma basilare di realismo (il realismo aletico, v. Alston 1996), è dunque presupposta in ogni uso del
concetto. Quando per esempio le madri dei desaparecidos argentini chiedevano verità sul destino dei
loro figli e mariti dissidenti, quando si cerca di combattere il negazionismo riguardo ai campi di
sterminio, quando i poliziotti o i giudici indagano sui crimini commessi, quando chiediamo verità sulle
torture di Guantanamo, sulla Brexit, sulle dichiarazioni dei capi di stato e dei potenti della Terra,
quando siamo bersagliati da informazioni opposte e non abbiamo risorse per capire e giudicare, ebbene
in tutti questi casi, vogliamo sapere, siamo impegnati a cercare, o a smascherare, come siano andate le
cose e come le cose stiano realmente. Ci sono state molte teorie della verità nel Novecento e in questi
due decenni del XXI secolo, ma nessuna è mai riuscita in fondo a scalzare questa semplice evidenza.
La tesi d’indipendenza – Per quanto ovvio, il realismo aletico ha alcune caratteristiche interessanti che
già ci fanno capire quanto il concetto V sia importante e problematico nello stesso tempo. La prima è
che l’uso del concetto non implica alcuna idea precisa e predeterminata circa come sono fatti i fatti, ‘le
cose’ di cui si tratta. In effetti parliamo di verità in relazione a una quantità di ‘cose’ diverse, che si
presentano in modi molto diversi. Per esempio, il pubblico ministero dice: ‘l’imputato dice che non
sapeva che la ragazza fosse minorenne, ma ciò non può essere vero, perché conosceva la madre da
molto tempo’, in questo caso i ‘fatti’ di cui il pm parla sono le credenze dell’imputato, dunque non
propriamente fatti duri e crudi, empiricamente avvertibili. Ammettiamo anche che ‘se Oswald non ha
ucciso Kennedy l’ha fatto qualcun altro’ sia vero, dunque ammettiamo fatti condizionali, e ‘non c’è birra
in frigorifero’ può essere vero, dunque ammettiamo fatti negativi, e sappiamo che ‘esiste la radice di
due’ è vero, dunque ammettiamo fatti matematici, e ‘Napoleone morì a Sant’Elena’, ‘le balene sono
mammiferi’, ‘tutti gli uomini sono mortali’ sono per noi veri, dunque per noi esistono (aleticamente)
Tutto ciò in definitiva vuol dire soltanto che per parlare sensatamente di verità e per usare il
concetto relativo non abbiamo bisogno di avere una metafisica specifica, una precisa idea circa la natura
delle cose esistenti. Il nostro uso del concetto è ontologicamente neutrale. Ci basta soltanto la tesi
d’indipendenza, ossia l’idea che esiste un mondo, distinto dal nostro pensiero-linguaggio e indipendente
dal fatto che lo conosciamo o no: se ‘Dio esiste’ è vero, ciò significa che il mondo ospita l’oggetto-Dio,
La tesi di esclusione – Questo significa anche che l’uso di V non postula una vera e propria
‘corrispondenza’ tra fatti e discorsi, o credenze, cioè un isomorfismo tra gli uni e gli altri. L’esistenza di un
mondo, senza presupporre una relazione simmetrica tra l’uno e l’altro, né presupporre che i due termini
siano in qualche modo simili, o che la funzione V sia applicata in modo del tutto indipendente dai
Arriviamo dunque a un altro ovvio anche se controverso risultato. Usare il concetto di verità
significa presupporre una differenza tra le descrizioni sì e quelle no, tra le ricostruzioni-interpretazioni
buone e quelle cattive, in quanto in accordo o in disaccordo con la realtà. C’è dunque un elemento
normativo nell’uso del concetto, e si può esprimere attraverso una seconda tesi: la tesi di esclusione. Dire
che ‘p’ è vera significa escludere la sua negazione, ossia escludere che ‘p’ sia falsa. Possiamo avere
qualche dubbio, per esempio sostenendo che a volte una proposizione sembra vera, ma sembra vero
anche il suo opposto, dunque si tratterebbe di contraddizione vera, una verità senza esclusione del falso
(Priest 2006). Ma non è del tutto esatto: a normali condizioni, e per l’uso comune, politico, giuridico,
scientifico del termine, parlare di verità significa dire che non vogliamo ingannarci ed essere ingannati,
Scetticismo – Possiamo a questo punto rispondere alla domanda sul perché il concetto V sia apparso
nei nostri linguaggi, e perché e come diventi importante nelle nostre vite. Da quel che si è detto,
vediamo che l’uso di V presuppone l’indipendenza della realtà, ma anche la nostra capacità di
l’errore. Tutto ciò è implicito nella nozione di a-letheia, la parola che viene lanciata nella lingua greca
proprio all’epoca della prima sperimentazione democratica, e che etimologicamente significa «non-
nascondimento» (da lanthano, nascondo, più alfa privativa). Il concetto V è la funzione che correla il
linguaggio-pensiero alla realtà, alla ricerca o alla conferma dell’accordo tra l’uno e l’altra: la sua nascita
come concetto è dovuta al fatto che il rapporto con la realtà è sempre presente nei nostri discorsi e
pensieri, ma sappiamo che tale rapporto può fallire. Dunque ci occorre quel lavoro di conferma o
smentita, ricerca e descrizione dei fatti (fact-checking, fact-searching, fact-saying), che è appunto svolto
Ci accorgiamo allora che l’a-letheia ha uno scopo fondamentalmente critico, negativo: la sua ragione
d’essere è evitare l’inganno e l’errore, la sua funzione è eminentemente scettica, nel senso che appartiene
di diritto alla skepsis, la ricerca. Il concetto V appare ufficialmente nelle nostre menti quando non c’è
verità, quando abbiamo dubbi e perplessità, quando sospettiamo il vero, ma non lo vediamo
riconosciuto con chiarezza; quando ragioniamo, ossia tentiamo di trarre da quel che sappiamo essere
stata spesso trascurata e fraintesa. Heidegger per esempio ha tenuto conto dell’etimo di ‘verità’ come
«non nascondimento» ma senza metterla in contatto con il lavoro della skepsis (v. Heidegger, 1943). In
particolare, nel Novecento si è incominciato a pensare che la parola stessa, ‘verità’, veicolasse un
atteggiamento necessariamente dogmatico. È questa l’intuizione di fondo che ha ispirato per esempio
autori come Richard Rorty, o Gianni Vattimo, aperti «nemici della verità» che Bernard Williams ha
chiamato «filosofi negatori» (Williams 2002). Certo se ci si mantiene alla prospettiva concettuale essere
nemici dei concetti è assurdo, ma ci sono ragioni di pensare che l’uso del concetto V non sia esente da
rischi.
Se uso ‘vero’, se penso in termini di vero e falso, è perché voglio dire no a qualcosa o a qualcuno (tesi
di esclusione). È legittima questa mia pretesa? Molte ragioni ci dicono che non sempre lo è. La maggior
parte delle credenze che riteniamo vere sono incomplete (Veca 2018): sono mezze verità, il loro essere
ritenute vere dipende da convenzioni, linguaggi, consuetudini, e dalla nostra esperienza, che è spesso
deviata, parziale e frammentaria. Si può dire allora che parlare di verità significa dimenticare questa
semplice evidenza, simulando di possedere categoricità e completezza dove completezza non c’è. Gli
argomenti a vantaggio dell’idea di V come concetto dogmatico sono normalmente tre. 1. Poiché il vero
ha una radice nei fatti e i fatti in se stessi sono oggettivi e immodificabili (tesi d’indipendenza), dire ‘è
vero’ all’interno di una discussione è come «dare pugni sul tavolo», evocare a proprio vantaggio «la
forza delle cose» e dunque chiudere violentemente la discussione (v. A. Ross, citato da Barberis 2013, p.
63). 2. Poiché il vero supera i linguaggi e i limiti della conoscenza individuale, credere di possedere la
verità è come presumere di avere «lo sguardo di Dio» (Putnam 1981, p. 57). 3. La «trascendenza» del
vero è stata storicamente interpretata in termini religiosi. La Chiesa cristiana è sorta appunto
appropriandosi del linguaggio filosofico greco, e lanciando così l’identificazione di Dio e verità (v.
È facile dunque cadere nella trappola, e usare il concetto in modo dogmatico. Eppure, in questo
modo non ci si mantiene fedeli allo scopo e alla funzione per cui la parola ‘verità’ è stata creata, e
soprattutto si viola la verità «di secondo ordine». È vero ciò che riteniamo (o diciamo essere) tale?
Questa domanda non viene posta, nei tre casi citati. 1. Dare pugni sul tavolo invece di giustificare e
argomentare significa rinunciare a chiedersi se quel che si asserisce come vero lo sia realmente; 2.
presumere di avere lo sguardo di Dio significa sostituirsi alla realtà nella sua capacità di rendere vero
quel che diciamo; 3. le verità trasmesse dalla religione sono verità narrate, in quanto tali possono avere
sparsi contenuti veri, ma non possono ambire allo status di ‘vere’ verità.
La verità a testa in giù – Ritornando allora alle nuove avventure del concetto di verità, si può capire il
rapporto con il (problema del) vero e del falso che potrebbe nascere – forse sta nascendo – con il
progressivo democratizzarsi della conoscenza e della vita personale e sociale. Nel lungo tempo dell’età
tardo-antica, poi del medioevo, quindi nell’età moderna e tardo-moderna, il concetto V, lanciato
all’epoca della democrazia greca, ha finito per significare l’opposto di quel che significa, ed è stato usato
per scopi opposti a quelli per cui è stato creato. L’antica aletheia ha cessato di essere la forza critica e
scettica del pensiero individuale, ed è diventata requisito esclusivo di un potere proveniente ‘dall’alto’:
condizioni di produzione e diffusione della conoscenza (più precisamente del sapere e di quel che si
crede di sapere), e se vale la diagnosi suggerita, possiamo dire che la gestione anti-democratica del vero
è ora profondamente in crisi, le antiche autorità aletiche stanno perdendo la loro voce. Da questo punto
di vista la verità (il concetto) era per così dire ‘a testa in giù’, e ora sta tornando alle sue radici scettiche,
e al suo luogo naturale: il lavoro del pensiero individuale. Certo, il «vero democratizzato» non è la fine
della verità dogmatica, è piuttosto la sua «esplosione» («la postverità non nega la verità. La moltiplica e
la privatizza», Lorusso 2018). È questa condizione che caratterizza le nuove avventure della verità. Una
condizione indubbiamente complessa. Per i filosofi tradizionali la paideia filosofica, l’educazione al vero,
Riferimenti
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Alston, W. (1996), A Realist Conception of Truth, Cornell University Press, Ithaca, New York
D’Agostini F. e M. Ferrera (2019) La verità al potere. Sei diritti aletici, Einaudi, Torino
D’Agostini, F. (2002) Disavventure della verità, Einaudi, Torino
D’Agostini, F. (2019) “Misunderstandings About Truth”, Church, Communication and Culture, 4, 3, pp.
226-286
Debord, G. E. (1967) La società dello spettacolo, tr. it. a cura di P. Stanziale, Stampa Alternativa, Roma
2002
Heidegger, M. (1943) Sull’essenza della verità, tr. it. U. Galimberti, La Scuola, Brescia 1973
Lynch, M. (2004) La verità e i suoi nemici, tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2007
Lynch, M. (2009) Truth As One and Many, Oxford University Press, Oxford
Nietzsche, F. (1888) Ecce homo, tr. it. a cura di R. Calasso, Adelphi, Milano 1969
Putnam, H. (1981) Ragione, verità e storia, tr. it. il Saggiatore, Milano 1987
Trabattoni, F. (2016) “Platone”, in Id. (a cura di) Storia della filosofia antica, vol. II Platone e Aristotele,
Veca, S. (2018) L’idea di incompletezza. Quattro lezioni, Feltrinelli, Milano (seconda edizione)
Williams, B. (2002) Genealogia della verità, tr. it a cura di S. Veca, Fazi, Roma 2005