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Treccani – “Parole del XXI secolo” 2019

Franca d’Agostini

§ 1. Nuove avventure della verità

All’inizio del XXI secolo il concetto di verità è entrato in una nuova fase della sua storia. Ha cessato

di essere di interesse quasi esclusivo dei filosofi o dei religiosi, ed è comparso sempre più

frequentemente nel linguaggio pubblico. La circostanza più recente è la fortuna dell’espressione «post-

verità», scelta dall’Oxford Dictionaries come «parola dell’anno» del 2016. Dal 2016 a oggi la letteratura (di

ogni tipo) su post-truth (e la gemella fake news) è cresciuta in modo impressionante, se ne sono occupati e

se ne occupano esperti di comunicazione e media, scienziati della politica, filosofi dell’informazione,

giornalisti, sociologi della comunicazione, psicologi e scienziati cognitivi, studiosi di semiotica, di

epistemologia sociale, di filosofia politica.

Che vi sia un ‘problema verità’, sembra dunque evidente. Non sembra però che vi sia un’idea chiara

e condivisa circa la natura del problema, e le eventuali possibili soluzioni. Come è stato notato, il

concetto di post-verità viene utilizzato in modo molto vario, per indicare una quantità di fenomeni

diversi (Lorusso 2018, pp. 4-19). Più precisamente: non c’è alcun accordo sostanziale né sulla natura del

‘post’ (che cosa c’è di nuovo? quale epoca del vero è finita?) né sulla natura del concetto di cui si celebra

o si lamenta il tramonto.

Intendo dunque soffermarmi sui due elementi: il post- e la verità, con speciale riferimento al

secondo. In questo paragrafo tratterò il primo, dunque la risposta alle domande: c’è qualcosa di nuovo
che riguardi la verità? che cosa esattamente? Nel prossimo tratterò il secondo, dunque risponderò alla

domanda: di che cosa parliamo quando parliamo di verità, ci lamentiamo della sua assenza, delle sue

violazioni, o dell’indifferenza pubblica nei suoi confronti?

Va precisato che i concetti di post-verità e fake news sono oggi al centro di un settore di studi piuttosto

vasto, con una raffinata terminologia, che si avvale di complesse ricognizioni statistiche, di filosofia

dell’informazione e sociologia della cultura (un vero e proprio nuovo linguaggio). Dunque per i dettagli

è necessario riferirsi alle voci relative (v. ). La prospettiva in cui mi muovo in questa voce è focalizzata

sul concetto di verità esaminato dal punto di vista filosofico, più precisamente, dal punto di vista di ciò

che Aristotele chiamava «filosofia prima», e definiva appunto come «scienza della verità» (Aristotele,

Metafisica, II, 993b). Oggi non si parla di «filosofia prima», ma il settore di studi concepito da Aristotele

con questo nome, quello delle ‘teorie della verità’ (truth theories), costituisce un fertile e molto

frequentato ambito di ricerca, situato all’intersezione di logica, metafisica, epistemologia, filosofia del

linguaggio. È in questa prospettiva truth-theoretic (o anche, se si vuole, aletica – da aletheia, il greco ‘verità’),

che intendo affrontare l’argomento.

Post? – C’è davvero qualcosa di nuovo che riguardi il concetto di verità? Questa novità rappresenta

una rottura rispetto al passato? La prima prevedibile risposta è negativa. Concetti «primi» come ‘verità’

difficilmente subiscono svolte storiche significative. Il modo in cui li usiamo, l’importanza che vi

assegniamo possono mutare, ma con tempi molto lunghi e non lineari, con accelerazioni e ritorni.

Questo significa che l’espressione ‘post-verità’ è particolarmente infelice, dal punto di vista filosofico.

La definizione dell’Oxford Dictionaries ci dice che con questo termine dobbiamo intendere una speciale

condizione del linguaggio e del pensiero pubblico, tale per cui altri concetti-valori prendono

sistematicamente il sopravvento sulla verità. Per esempio, nella valutazione e nelle strategie dei politici

la ricerca del consenso prende il sopravento sulla ricerca di soluzioni realmente efficaci; nella

valutazione e nella scelta elettorale dei cittadini le emozioni prendono il sopravvento sulla

considerazione dei fatti. In un altro significato, generalmente accolto nella letteratura più recente,
l’espressione indicherebbe il successo delle nuove forme di inganno, manipolazione, distorsione delle

credenze, attive nella società digitalizzata, e i nuovi modi tecnologici di utilizzare tali risorse.

In entrambi i significati (subordinazione della verità ad altri valori – dilagare dell’inganno e

dell’autoinganno) non sembra che il ‘post’ in ‘post-verità’ offra un’adeguata (vera) descrizione dei fatti.

Gli esseri umani sono sempre stati sostanzialmente indifferenti alla verità, hanno sempre subito inganni

di ogni sorta e hanno sempre amato ingannare se stessi. Condizioni molto simili a quelle descritte sono

già state notate agli albori della democrazia: le «disavventure della verità», intese in questo senso (v.

D’Agostini 2002), incominciano con il nichilismo e il relativismo dei sofisti, nel V e IV secolo a. C. Esse

ricompaiono poi in età tardo-moderna, alla fine dell’Ottocento, quando Nietzsche lancia l’idea del

«nichilismo» come «fine del mondo vero». Quindi si ripresentano verso la metà del secolo successivo,

quando ci si accorge che i media distorcono sistematicamente la realtà e Guy Debord proclama

l’avvento della «società dello spettacolo» (Debord 1967). Infine culminano nella «Nietzsche-

Renaissance» degli ultimi decenni del secolo, da cui è sorto il postmodernismo, come un movimento di

interpretazione del presente che tentava di dare una valutazione ‘affermativa’ della crisi della modernità

(Vattimo 1985).

Democratizzazione – In generale, interpretare la storia in termini di ‘post’ è una mossa filosoficamente

sbagliata, ma non c’è dubbio che nella fortuna dell’espressione sia in gioco qualcosa di importante. La

mia proposta è focalizzare l’attenzione su alcuni dati significativi.

La prima circostanza degna di nota è che il destino della nozione di verità, le sue ‘crisi’ (sofistiche,

nichilistiche, mediatiche, consumistiche, ecc.) così come le sue fortune, sono strettamente legate ai

processi di democratizzazione (v. Fuller 2018, Lorusso 2018, D’Agostini-Ferrera 2019), ossia

all’ampliamento dei diritti individuali di parlare, partecipare, far valere le proprie idee. È un dato

facilmente osservabile. Se si ammette che chiunque abbia il diritto e il potere di esprimersi, il risultato è

prevedibile: gli individui spesso ingannano e si ingannano, e in generale non conoscono i rischi legati

alla pretesa di conoscenza e alla diffusione delle credenze attraverso il linguaggio, dunque niente può

fermare in linea di principio il diffondersi del falso, come menzogna, inganno e autoinganno. Era questa
l’osservazione che guidava la diagnosi anti-democratica degli antichi filosofi, esattamente nell’epoca in

cui apparve il concetto di verità nell’accezione filosofica. Platone e Aristotele notarono che i cittadini

non conoscono l’importanza dei concetti primi, come to kalon, to agathon, to alethes, tendono a trascurarli,

a usarli nel modo sbagliato. Alla difesa di questi concetti affidarono la loro critica della cultura del

tempo (Trabattoni 2016, pp. 36-42). Ed è in particolare la scoperta dei problemi pubblici legati all’alethes

che segna la nascita della filosofia.

Il vero democratizzato – Il secondo dato significativo è che mentre gli antichi filosofi potevano

permettersi di essere anti-democratici, noi non possiamo esserlo. Non tanto per ragioni di scelta etico-

politica, ma perché la democratizzazione (a prescindere dal successo politico delle democrazie attuali) è

un fatto oggettivo, che riguarda la scienza, l’arte, la cultura, la vita personale e pubblica degli individui.

Come sappiamo negli ultimi decenni del Novecento la produzione e diffusione del sapere e di quel che

si crede di sapere hanno avuto un’accelerazione formidabile, dunque le condizioni della ricerca di verità,

della conferma e del dissenso sul vero e il falso, sono cambiate, e forse i parametri e i criteri che fino a

oggi ci avevano guidati in queste operazioni non funzionano più.

Ecco dunque la diagnosi del ‘nuovo’ problema-verità che è possibile proporre: non siamo abituati al

vero democratizzato (o in corso di rapida democratizzazione), non conosciamo ancora il modo

democratico di farne uso. Il cambiamento è stato troppo rapido. Tutte le nostre strutture mentali e

istituzionali sono modellate sul vero (o sul creduto vero) proveniente ‘dall’alto’, da Dio, dalle oligarchie

scientifiche, giuridiche e politiche, oggi il vero (il presunto tale) viene da ogni parte, e non siamo ancora

pronti. È questa in fin dei conti la ragione del rapporto molto stretto tra nichilismo e democrazia, ed è

questa la ragione per cui si manifestano oggi le tipiche malattie di una gestione incontrollata delle

credenze e delle conoscenze: il disfattismo scettico (nessuno crede più a nulla, le fonti autorevoli

perdono autorità); il narcisismo dogmatico (ciascuno crede di saperne di più degli altri).

Le nuove avventure della verità – Ma giunti a questo punto dell’analisi si presenta un terzo dato

significativo, che è forse più incoraggiante. L’aspetto davvero nuovo della situazione attuale è che il

concetto di verità, a lungo considerato in fondo irrilevante se non dannoso in politica e nella vita
pubblica (v. Lynch 2004), sia tornato così potentemente al centro dell’attenzione. C’è, innegabilmente,

una nuova vicenda semantica che riguarda il concetto di verità: l’atteggiamento comune nei confronti di

questa antica parola è cambiato, sta cambiando. E non è detto che sia un male. Perché in definitiva,

riconoscere di avere ‘un problema di verità’ è già un passo importante sulla via della verità. Ma occorre

ancora capire che cosa esattamente intendiamo quando ci occupiamo di vero e falso.

§ 2. Una parola straordinaria

Di che cosa parliamo quando parliamo di ‘verità’, chiediamo verità, cerchiamo la verità, ci

lamentiamo dei nostri fallimenti nel cercarla, o del dogmatismo di coloro che ritengono di possederla?

La filosofia contemporanea ha dato molte (troppe) risposte (Atchourioti 2015, Edwards 2019), ma ci

sono alcune linee di convergenza di cui dovremmo tenere conto. Esse possono servirci a eliminare

alcuni fraintendimenti e radicate divergenze (D’Agostini 2019).

La funzione V – La prima questione da chiarire è che quando parliamo di verità in generale, non

stiamo parlando dei diversi contenuti veri o ritenuti tali che possiamo acquisire, ma piuttosto del concetto

di verità, ossia di quella funzione mentale e logico-linguistica che attiviamo quando diciamo o pensiamo

‘questo è vero/non è vero’, quando chiediamo o ci chiediamo: ‘sarà vero?’ (sul funzionalismo in teoria

della verità v. Lynch 2009).

La prospettiva concettuale presenta molti vantaggi. Anzitutto, possiamo avere dubbi sulla legittimità

di pretendere verità, di conoscere il vero in quanto tale, o di assumere che la proprietà dell’essere vero

sia una proprietà privilegiata; ma anche se così fosse, dobbiamo ammettere che questo concetto esiste

nelle nostre lingue, ed è interessante capire che cosa significhi, perché e come lo usiamo, quando e

come dovremmo usarlo, e perché alcuni (in particolare i filosofi tradizionali) pensano che sia un

concetto importante, e alcuni altri (filosofi e non) ritengono che sia un concetto dogmatico e anti-

democratico.

Inoltre, spesso non ci si intende perché alcuni dicono per esempio «esistono molte verità»

intendendo che esistono molti contenuti veri di diverso tipo, e anche diversi modi di descrivere una

stessa cosa o situazione. E non hanno torto. Ovviamente però la cosa o situazione, ovvero il fatto che
di volta in volta rende vero quel che si è detto, è un solo fatto, descritto in diverse sue parti, oppure con

linguaggi diversi. E d’altra parte esiste anche un solo concetto, applicato nei diversi casi nello stesso

modo. Per esempio, chi dice che ‘le balene sono mammiferi’ (enunciato vero, secondo la nostra

tassonomia naturale), o ‘Dio esiste’ (enunciato controverso) o ‘la Terra è piatta’ (falso) sono veri sta

usando – in buona o cattiva fede – una stessa funzione concettuale, e vuol dire una stessa cosa, anche

se le cose di cui parla sono molto diverse. Possiamo allora chiederci: che cosa vuol dire?

Realismo – La risposta più ovvia e più antica è anche la più semplicemente accettabile: chi dice ‘è

vero’ sta dicendo che il mondo (in senso lato) è fatto in un certo modo. Quando parliamo di verità, o ci

pensiamo, stiamo riferendoci a «come stanno le cose» (Platone, Cratilo, 385c). Il concetto V funziona

correlando il linguaggio (o il pensiero) al mondo, alla ricerca di un accordo tra l’uno e l’altro.

Una forma basilare di realismo (il realismo aletico, v. Alston 1996), è dunque presupposta in ogni uso del

concetto. Quando per esempio le madri dei desaparecidos argentini chiedevano verità sul destino dei

loro figli e mariti dissidenti, quando si cerca di combattere il negazionismo riguardo ai campi di

sterminio, quando i poliziotti o i giudici indagano sui crimini commessi, quando chiediamo verità sulle

torture di Guantanamo, sulla Brexit, sulle dichiarazioni dei capi di stato e dei potenti della Terra,

quando siamo bersagliati da informazioni opposte e non abbiamo risorse per capire e giudicare, ebbene

in tutti questi casi, vogliamo sapere, siamo impegnati a cercare, o a smascherare, come siano andate le

cose e come le cose stiano realmente. Ci sono state molte teorie della verità nel Novecento e in questi

due decenni del XXI secolo, ma nessuna è mai riuscita in fondo a scalzare questa semplice evidenza.

La tesi d’indipendenza – Per quanto ovvio, il realismo aletico ha alcune caratteristiche interessanti che

già ci fanno capire quanto il concetto V sia importante e problematico nello stesso tempo. La prima è

che l’uso del concetto non implica alcuna idea precisa e predeterminata circa come sono fatti i fatti, ‘le

cose’ di cui si tratta. In effetti parliamo di verità in relazione a una quantità di ‘cose’ diverse, che si

presentano in modi molto diversi. Per esempio, il pubblico ministero dice: ‘l’imputato dice che non

sapeva che la ragazza fosse minorenne, ma ciò non può essere vero, perché conosceva la madre da

molto tempo’, in questo caso i ‘fatti’ di cui il pm parla sono le credenze dell’imputato, dunque non
propriamente fatti duri e crudi, empiricamente avvertibili. Ammettiamo anche che ‘se Oswald non ha

ucciso Kennedy l’ha fatto qualcun altro’ sia vero, dunque ammettiamo fatti condizionali, e ‘non c’è birra

in frigorifero’ può essere vero, dunque ammettiamo fatti negativi, e sappiamo che ‘esiste la radice di

due’ è vero, dunque ammettiamo fatti matematici, e ‘Napoleone morì a Sant’Elena’, ‘le balene sono

mammiferi’, ‘tutti gli uomini sono mortali’ sono per noi veri, dunque per noi esistono (aleticamente)

fatti storici, fatti biologici e fatti totali.

Tutto ciò in definitiva vuol dire soltanto che per parlare sensatamente di verità e per usare il

concetto relativo non abbiamo bisogno di avere una metafisica specifica, una precisa idea circa la natura

delle cose esistenti. Il nostro uso del concetto è ontologicamente neutrale. Ci basta soltanto la tesi

d’indipendenza, ossia l’idea che esiste un mondo, distinto dal nostro pensiero-linguaggio e indipendente

dal fatto che lo conosciamo o no: se ‘Dio esiste’ è vero, ciò significa che il mondo ospita l’oggetto-Dio,

a prescindere dal fatto che lo si sappia o meno.

La tesi di esclusione – Questo significa anche che l’uso di V non postula una vera e propria

‘corrispondenza’ tra fatti e discorsi, o credenze, cioè un isomorfismo tra gli uni e gli altri. L’esistenza di un

concetto come V ci dice semplicemente che il nostro pensiero-linguaggio è capace di descrivere il

mondo, senza presupporre una relazione simmetrica tra l’uno e l’altro, né presupporre che i due termini

siano in qualche modo simili, o che la funzione V sia applicata in modo del tutto indipendente dai

linguaggi, dai contesti, dalle convenzioni.

Arriviamo dunque a un altro ovvio anche se controverso risultato. Usare il concetto di verità

significa presupporre una differenza tra le descrizioni sì e quelle no, tra le ricostruzioni-interpretazioni

buone e quelle cattive, in quanto in accordo o in disaccordo con la realtà. C’è dunque un elemento

normativo nell’uso del concetto, e si può esprimere attraverso una seconda tesi: la tesi di esclusione. Dire

che ‘p’ è vera significa escludere la sua negazione, ossia escludere che ‘p’ sia falsa. Possiamo avere

qualche dubbio, per esempio sostenendo che a volte una proposizione sembra vera, ma sembra vero

anche il suo opposto, dunque si tratterebbe di contraddizione vera, una verità senza esclusione del falso

(Priest 2006). Ma non è del tutto esatto: a normali condizioni, e per l’uso comune, politico, giuridico,
scientifico del termine, parlare di verità significa dire che non vogliamo ingannarci ed essere ingannati,

dunque significa voler escludere il falso.

Scetticismo – Possiamo a questo punto rispondere alla domanda sul perché il concetto V sia apparso

nei nostri linguaggi, e perché e come diventi importante nelle nostre vite. Da quel che si è detto,

vediamo che l’uso di V presuppone l’indipendenza della realtà, ma anche la nostra capacità di

descriverla, e (soprattutto) di valutare le descrizioni eliminando (o cercando di eliminare) l’inganno e

l’errore. Tutto ciò è implicito nella nozione di a-letheia, la parola che viene lanciata nella lingua greca

proprio all’epoca della prima sperimentazione democratica, e che etimologicamente significa «non-

nascondimento» (da lanthano, nascondo, più alfa privativa). Il concetto V è la funzione che correla il

linguaggio-pensiero alla realtà, alla ricerca o alla conferma dell’accordo tra l’uno e l’altra: la sua nascita

come concetto è dovuta al fatto che il rapporto con la realtà è sempre presente nei nostri discorsi e

pensieri, ma sappiamo che tale rapporto può fallire. Dunque ci occorre quel lavoro di conferma o

smentita, ricerca e descrizione dei fatti (fact-checking, fact-searching, fact-saying), che è appunto svolto

grazie alla funzione V.

Ci accorgiamo allora che l’a-letheia ha uno scopo fondamentalmente critico, negativo: la sua ragione

d’essere è evitare l’inganno e l’errore, la sua funzione è eminentemente scettica, nel senso che appartiene

di diritto alla skepsis, la ricerca. Il concetto V appare ufficialmente nelle nostre menti quando non c’è

verità, quando abbiamo dubbi e perplessità, quando sospettiamo il vero, ma non lo vediamo

riconosciuto con chiarezza; quando ragioniamo, ossia tentiamo di trarre da quel che sappiamo essere

vero (premesse) nuove verità (conclusioni).

Dogmatismo? – La natura fondamentalmente scettica (critica, inferenziale, discussiva) del concetto V è

stata spesso trascurata e fraintesa. Heidegger per esempio ha tenuto conto dell’etimo di ‘verità’ come

«non nascondimento» ma senza metterla in contatto con il lavoro della skepsis (v. Heidegger, 1943). In

particolare, nel Novecento si è incominciato a pensare che la parola stessa, ‘verità’, veicolasse un

atteggiamento necessariamente dogmatico. È questa l’intuizione di fondo che ha ispirato per esempio

autori come Richard Rorty, o Gianni Vattimo, aperti «nemici della verità» che Bernard Williams ha
chiamato «filosofi negatori» (Williams 2002). Certo se ci si mantiene alla prospettiva concettuale essere

nemici dei concetti è assurdo, ma ci sono ragioni di pensare che l’uso del concetto V non sia esente da

rischi.

Se uso ‘vero’, se penso in termini di vero e falso, è perché voglio dire no a qualcosa o a qualcuno (tesi

di esclusione). È legittima questa mia pretesa? Molte ragioni ci dicono che non sempre lo è. La maggior

parte delle credenze che riteniamo vere sono incomplete (Veca 2018): sono mezze verità, il loro essere

ritenute vere dipende da convenzioni, linguaggi, consuetudini, e dalla nostra esperienza, che è spesso

deviata, parziale e frammentaria. Si può dire allora che parlare di verità significa dimenticare questa

semplice evidenza, simulando di possedere categoricità e completezza dove completezza non c’è. Gli

argomenti a vantaggio dell’idea di V come concetto dogmatico sono normalmente tre. 1. Poiché il vero

ha una radice nei fatti e i fatti in se stessi sono oggettivi e immodificabili (tesi d’indipendenza), dire ‘è

vero’ all’interno di una discussione è come «dare pugni sul tavolo», evocare a proprio vantaggio «la

forza delle cose» e dunque chiudere violentemente la discussione (v. A. Ross, citato da Barberis 2013, p.

63). 2. Poiché il vero supera i linguaggi e i limiti della conoscenza individuale, credere di possedere la

verità è come presumere di avere «lo sguardo di Dio» (Putnam 1981, p. 57). 3. La «trascendenza» del

vero è stata storicamente interpretata in termini religiosi. La Chiesa cristiana è sorta appunto

appropriandosi del linguaggio filosofico greco, e lanciando così l’identificazione di Dio e verità (v.

D’Agostini 2002, pp. 43-56).

È facile dunque cadere nella trappola, e usare il concetto in modo dogmatico. Eppure, in questo

modo non ci si mantiene fedeli allo scopo e alla funzione per cui la parola ‘verità’ è stata creata, e

soprattutto si viola la verità «di secondo ordine». È vero ciò che riteniamo (o diciamo essere) tale?

Questa domanda non viene posta, nei tre casi citati. 1. Dare pugni sul tavolo invece di giustificare e

argomentare significa rinunciare a chiedersi se quel che si asserisce come vero lo sia realmente; 2.

presumere di avere lo sguardo di Dio significa sostituirsi alla realtà nella sua capacità di rendere vero

quel che diciamo; 3. le verità trasmesse dalla religione sono verità narrate, in quanto tali possono avere

sparsi contenuti veri, ma non possono ambire allo status di ‘vere’ verità.
La verità a testa in giù – Ritornando allora alle nuove avventure del concetto di verità, si può capire il

rapporto con il (problema del) vero e del falso che potrebbe nascere – forse sta nascendo – con il

progressivo democratizzarsi della conoscenza e della vita personale e sociale. Nel lungo tempo dell’età

tardo-antica, poi del medioevo, quindi nell’età moderna e tardo-moderna, il concetto V, lanciato

all’epoca della democrazia greca, ha finito per significare l’opposto di quel che significa, ed è stato usato

per scopi opposti a quelli per cui è stato creato. L’antica aletheia ha cessato di essere la forza critica e

scettica del pensiero individuale, ed è diventata requisito esclusivo di un potere proveniente ‘dall’alto’:

dalle oligarchie religiose, politiche, scientifiche.

Ma precisamente nel Novecento l’avanzare della democratizzazione ha mutato profondamente le

condizioni di produzione e diffusione della conoscenza (più precisamente del sapere e di quel che si

crede di sapere), e se vale la diagnosi suggerita, possiamo dire che la gestione anti-democratica del vero

è ora profondamente in crisi, le antiche autorità aletiche stanno perdendo la loro voce. Da questo punto

di vista la verità (il concetto) era per così dire ‘a testa in giù’, e ora sta tornando alle sue radici scettiche,

e al suo luogo naturale: il lavoro del pensiero individuale. Certo, il «vero democratizzato» non è la fine

della verità dogmatica, è piuttosto la sua «esplosione» («la postverità non nega la verità. La moltiplica e

la privatizza», Lorusso 2018). È questa condizione che caratterizza le nuove avventure della verità. Una

condizione indubbiamente complessa. Per i filosofi tradizionali la paideia filosofica, l’educazione al vero,

dovrebbe correggere le tendenze umane all’errore, all’indifferenza epistemica, al dogmatismo,

all’inganno e all’auto-inganno. Una promessa difficile ma forse non impossibile da mantenere.

Riferimenti

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