ISBN 978-88-8063-958-9
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FABIAN ALFIE
LA “DONNA TAVERNA”:
LA BALLATA DELLE DUE COGNATE UBRIACHE
Gli antichi savi dicevano che si poteva scorgere tutto l’universo in un granello
di sabbia, e dicendo ciò intendevano che anche la minima parte del cosmo porta le
tracce di una storia più ampia, e di rapporti con altri elementi dispersi ed anche lon-
tani. Si potrebbe applicare una simile idea agli studi letterari: nei testi cosiddetti
minori si possono vedere molti filoni culturali, e i poeti anche inconsapevoli as-
sorbono varie idee importanti della loro epoca. Non bisogna avere il genio di un
Dante per rispecchiare molti aspetti essenziali della propria cultura ed introdurli
nei componimenti poetici. In altre parole, i testi minimi, anonimi, sperduti e di-
menticati sono veramente delle miniere, per così dire, di idee, concetti, e lingua del
tempo a cui risalivano, e scavando anche poco, chi è paziente può rivelare dell’oro.
Il soggetto di questa analisi è una di quelle poesie poco studiate, anonime, e senza
grand’influsso culturale, ma ciò non vuol dire che essa manchi del tutto di inte-
resse. Anzi, è un testo interessantissimo dal punto di vista della mentalità del Due-
cento.
La poesia sotto esame è Pur bii del vin, comadre, una ballata minore di sei
strofe ed un ritornello, il quale ha la rima baciata (XX). La ballata, che viene ri-
prodotta sotto, nell’appendice a questo studio, non è stata sottoposta a nessu-
n’analisi letteraria tranne che dagli editori delle rime contenute dai Memoriali
bolognesi. Le strofe sono composte di doppi settenari che seguono la rima AAAX,
ma lo schema metrico del componimento è irregolare perché la terza e la quinta
stanza adoperano delle rime imperfette. Inoltre il componimento reca delle carat-
teristiche del dialetto bolognese, che forse indicano la sua provenienza da quel
comune1. La ballata racconta le vicende di due comari che vanno in taverna, man-
giano troppo, si ubriacano, orinano, mangiano ancora di più, cercano di nuovo del
vino, maledicono i marinai nel porto, e rifiutano di tornare a casa dove dovrebbero
filare e tessere. Da questo brevissimo riassunto si può notare che la poesia aderi-
1 G. ROHLFS, Grammatica storica della lingua italiana, trad. italiana di T. Franceschi, Torino,
Einaudi, 1966: riguardo la tendenza dei dialetti settentrionali di rendere ‘z’ come ‘ç’ (i.e., «descalçà»)
vedi vol. I, p. 201, par. 153; e riguardo la tendenza dei dialetti settentrionali di rendere ‘g’ come ‘ç’
(i.e., «deçune») vedi vol. I, p. 211, par. 156.
1993, p. 133.
5 S. DEBENEDETTI, Osservazioni sulle poesie dei Memoriali Bolognesi, «Giornale storico della
Italia, in Da Guido Guinizzelli a Dante: nuove prospettive sulla lirica del Duecento, Atti del Con-
vegno di Studi (Padova-Monselice 10-12 maggio 2002), a cura di F. Brugnolo e G. Peron, Monse-
lice, Il Poligrafo, 2004, p. 263.
9 Ivi, p. XXXVIII.
10 Rime due e trecentesche tratte dall’Archivio di Stato di Bologna, cit., pp. XLII-XLIII.
11 S. DEBENEDETTI, op. cit., p. 27.
La ballata delle due cognate ubriache 43
oditi et endenditi. Entrambe le poesie furono trascritte dallo scriba Anthonius Gui-
donis de Argele, e dato che il codice inizia con due componimenti letterari, non
sembra che Anthonius le avesse copiate per riempire lo spazio. Sia la poesia sotto
esame che l’altra sono ballate, cioè sono in una forma poetica che veniva spesso
musicata. È dunque possibile che Anthonius le avesse sentite recitare invece
d’averle trascritte da una fonte letteraria. A questo punto, è importante ricordare,
tuttavia, che la distinzione tra la cultura orale e quella letteraria non era tanto netta
quanto sarebbe diventata nei secoli più recenti: è vero che durante il medioevo
solo i membri dei ceti più alti potevano leggere e scrivere, ma non era vero che la
cultura orale fosse esclusivamente praticata solo dalle classi subalterne, perché
essa non era aliena a nessuno12. In più, l’oralità e la letterarietà si reggevano l’una
all’altra13. Tutto questo suggerisce che non si può sapere di quale fonte si servisse
Anthonius, se di una fonte manoscritta o orale, ovvero di un’esecuzione orale,
forse con accompagnamento musicale, di un testo letterario.
Il componimento si basa sull’ideologia medievale della taverna, locus simbo-
lico dell’eccesso: eccesso di cibo, di vino, e di sesso14. Attraverso centinaia di testi
medievali, la taverna era il luogo dove ci si ubriacava, si giocava a dadi e si per-
deva tutto il denaro, si cercavano le prostitute, e ci si svegliava nudi la mattina
dopo per la strada su un mucchio di sterco, derubati. La taverna simboleggiava
tutto ciò che era negativo del medioevo: era un’anti-chiesa, che preferiva i vizi
alle virtù, metteva la follia sopra l’intelligenza, e proponeva l’incontinenza invece
della temperanza15. La religione, per così dire, di questa anti-chiesa era l’ebbrezza,
il vizio che coinvolgeva tutte le altre: come scrive Martha Bayless, chi si ubriacava
poteva essere descritto al centro di una serie di oggetti tipici (i bicchieri, i dadi, le
taverne, i tavernai, e le prostitute) oppure in situazioni di degradazione comica (il
vomito, la nudità, l’orinazione pubblica)16. Perciò la lode del vino divenne un
luogo comune delle letterature comiche del medioevo, resa famosa dai poeti go-
liardici e poi tradotta in italiano dai giocosi del Duecento: basti pensare ai versi del
senese Cecco Angiolieri17. Ed è per questo che il titolo di questo intervento è La
Donna Taverna (con le lettere maiuscole), perché tramite le loro azioni le prota-
12 E. VITZ, Orality and Performance in Early French Romance, Cambridge, D.S. Brewer, 1999,
pp. IX-X.
13 C. LINDAHL, Earnest Games: Folkloric Patterns in the Canterbury Tales, Bloomington - In-
The University of Michigan Press, 1999, pp. 3-4. Per una descrizione del Paese di Cuccagna come
luogo di abbondanza, vd. H. PLEIJ, Dreaming of Cockaigne: Medieval Fantasies of the Perfect Life,
New York, Columbia University Press, 2001, p. 3.
15 A. COWELL, op. cit., p. 6.
16 M. BAYLESS, Parody in the Middle Ages: The Latin Tradition, Ann Arbor, Michigan Univer-
quando scrisse che voleva morire in taverna perché le sue labbra non fossero lontane dai vini: «Meum
est propositum in taberna mori, / ut sint vina proxima morientis ori» (vv. 49-50).
44 Fabian Alfie
goniste della ballata, due donne indistinte l’una dall’altra, diventano quasi la per-
sonificazione dell’ideologia della taverna medievale.
A partire dal ritornello, il poeta anonimo localizza la ballata nella taverna. Una
donna esorta la sua comare a bere il vino senza annacquarlo, così da facilitare l’eb-
brezza: «Pur bii del vin, comadre – e no lo temperare / ché lo vin è forte, – la testa
fa schaldare» (vv. 1-2). Il contrasto del vino e l’acqua era un topos goliardico tra-
dizionale, ad esempio nel componimento Denudata veritate dei Carmina burana
(codice dell’XI-XII secolo), che consiste di un dialogo fra il vino e l’acqua quando
si trovano nello stesso bicchiere: l’acqua è il portavoce per il cristianesimo men-
tre il vino simboleggia il corpo e la sua peccaminosità. Nel ritornello della ballata
il concetto dominante è chiaro: l’ebbrezza porta alla follia («la testa fa schaldare»).
Nessuna parte di una ballata è importante quanto il ritornello perché, come il ter-
mine indica, esso si sarebbe ripetuto dopo ogni strofa, rinforzando il proprio mes-
saggio.
Non a caso le idee del ritornello vengono amplificate attraverso tutto il com-
ponimento. Il primo verso della prima stanza lo dice chiaro e tondo: le due comari
andarono in taverna («giernosen le comadri – tramb’ad una maxone», v. 3). Il
poeta insiste sull’ambientazione della ballata quando, dopo l’orinazione, nella
quarta strofa le due comari tornano alla cucina della stessa taverna («Elle gierno
ala stuva» cioè alla stufa, v. 15). Dopodiché la golosità delle due comari viene
rappresentata in pieno: nella prima strofa bevono cinque barili e un quarto di vino,
solo per assaggiarlo, ma nonostante ciò rimangono a digiuno (vv. 4-6). Nella se-
conda strofa, una comare suggerisce di mettere una cannuccia alla botte per poter
berne ancora di più: «mettàmoi la canella, – per noi lo .mbiviamo» (v. 8). Nella
quarta stanza, mangiano sette capponi (v. 16), e poi un cappone lardato (v. 18), ma
ancora non sono sazie: «ché ’n corp’avëan vento» (v. 17)18. Per rinforzare l’idea,
il poeta chiude la quarta stanza ripetendo l’espressione che ha usato nella prima:
«per bocha savorare» (v. 18). Il poeta ribadisce che quello che mangiano è solo un
assaggio, enfatizzando l’insaziabilità delle comari. E nell’ultima strofa si sbafano
ancora gli gnocchi, le lasagne, e sette ciotole di minestra (v. 24). Non si può dare
un’interpretazione definitiva del significato del cibo, ma le immagini di abbon-
danza erano tipiche della letteratura carnevalesca19. Il simbolismo del cibo fa
pensare anche al Paese della Cuccagna, con la sua sovrabbondanza e i suoi pia-
18 Chiaramente questa è un’espressione dell’epoca per indicare la fame, oppure lo stomaco vuoto.
Dante, per criticare le prediche vane del clero, scrive: «sí che le pecorelle, che non sanno, / tonan
del pasco pasciute di vento, / e non le scusa non veder lo danno» (Par. XXIX, 106-108). Decenni
dopo, nell’introduzione della quarta giornata del Decameron Giovanni Boccaccio descriverà le cri-
tiche a lui mosse con una espressione simile: «E son di quegli ancora che, piú dispettosamente che
saviamente parlando, hanno detto che io farei piú discretamente a pensare dondʼio dovessi aver del
pane che dietro a queste frasche andarmi pascendo di vento» (l, 8).
19 M. ZACCARELLO, Una forma istituzionale della poesia burchiellesca: la ricetta medica, co-
smetica, culinaria tra parodia e nonsense, in Nominativi fritti e mappamondi: il nonsense nella let-
teratura italiana, Atti del Convegno di Cassino, 9-10 ottobre 2007, a cura di G. Antonelli e C.
Chiummo, Roma, Salerno, 2009, p. 47.
La ballata delle due cognate ubriache 45
ceri20, ed è stato notato che nel pensiero medievale c’erano molte somiglianze tra la
Cuccagna e la taverna21. Nella ballata il poeta pone l’enfasi sull’abbondanza quando
descrive il ritorno delle comari alla taverna: «Giernosen le comadre – trambedue
ala festa» (v. 27). Chiaramente il termine festa ha una risonanza religiosa, ma la ri-
sonanza è ironica perché nella poesia dell’epoca il cibo era la sineddoche del vizio
della gola, e quindi veniva usato per satireggiare l’insegnamento della Chiesa22.
Va anche detto che la golosità indicava i piaceri corporei, e il corpo umano è
il vero bersaglio della satira del componimento. Nella seconda e terza strofa una
comare aiuta l’altra ad orinare sulle radici di un albero (vv. 9-12). Con l’orina-
zione il poeta introduce nel componimento un intreccio di allusioni alla nudità, in-
nanzitutto quando la comare chiede all’altra di alzarle la gonnella («elçàive la
gonella, / façamo campanella» vv. 9-10), poi rinforzato con il termine che usa per
indicare lo scorticamento dell’albero («ella deschalçà l’albore» v. 12). Non è for-
tuito che una nave al porto è piena di tessuti («lino» vv. 20, 22), oppure che alla
fine della poesia le due protagoniste non vogliono ordire e tessere (v. 26) perché
sottolineano la nudità. La ballata si localizza in una taverna medievale, e dunque
per forza evoca la nudità delle due comari ubriache.
Una comare si meraviglia dell’enorme quantità di orina che produce l’altra:
«Per Deo, quel buxo stagna! / ché fat’ài tal lavagna / podrixi navegare» (vv. 13-
14). In questo episodio il poeta sottolinea l’eccesso poiché logicamente c’è un
forte legame tra il lago di orina e la quantità di vino che la comare beve. L’orina
implica più dell’eccesso, però. L’escremento non era solamente un sottoprodotto
dei processi fisici, perché portava un simbolismo culturale, implicante un giudi-
zio morale: la sporcizia era simbolo sì, ma ancora di più, era la conseguenza di-
retta e concreta del peccato umano23. In altre parole, che la comare orini indica
metaforicamente la sua degradazione fisica e morale nella taverna: inoltre l’azione
laida dipinge la comare come un essere in carne ed ossa, con tutte le debolezze del
corpo umano. Da questa prospettiva la “Donna Taverna” può anche essere vista
come una “Donna Corpo” oppure, come avrebbero detto nella Germania medie-
vale, una Frau Welt: un simbolo della putrefazione del mondo24.
Come è stato già suggerito, nel pensiero medioevale la sporcizia aveva anche
delle dimensioni morali. Chi è sporco è anche inferiore sulla scala sociale, e può
contaminare fisicamente e moralmente le altre persone intorno25. È importante
stronomic Utopias, in Imagined States: Nationalism, Utopia, and Longing in Oral Cultures, a cura
di L. Del Giudice e G. Porter, Logan, Utah State University Press, 2001, p. 42.
22 G. CRIMI, Per una retorica del cibo nella poesia comico-realistica fra Tre e Quattrocento,
ture from Juvenal to Chaucer, Albany, State University of New York Press, 1990, p. 110.
25 W. MILLER, The Anatomy of Disgust, Cambridge MA, Harvard University Press, 1997, pp. X-XI.
46 Fabian Alfie
che le protagoniste della ballata siano due comari, cioè due donne anziché uomini.
Più del corpo maschile, il corpo femminile era considerato incline alla sporcizia,
perché nel medioevo il sangue mestruale si associava allo sterco, al muco, e al-
l’orina. Per citare solo un esempio, sant’Agostino, riferendosi agli orifizi femmi-
nili, scrisse che nasciamo tra l’orina e le feci («inter faeces et urinam nascimur»)26.
L’essere umano, con tutti i suoi buchi, aveva un corpo aperto, sgocciolante, da cui
fuoriuscivano liquidi repellenti: e il corpo della donna, in particolare, era ancora
più aperto e generava più lordura del corpo maschile, senza dubbio a causa della
peccaminosità femminile. Dunque, in questa ballata le comari sono simboli per ec-
cellenza del corpo e dei suoi appetiti.
Con la rappresentazione delle due comari si dovrebbe leggere questa ballata
alla luce della vasta letteratura misogina del medioevo. La storica Lynn Martin fa
menzione di questa ballata in uno studio più ampio del topos della donna insu-
bordinata, collegando il luogo comune al soggiogamento sociale delle donne in
tutta l’Europa medievale27. Gran parte dei concetti misogini risalivano alla lette-
ratura patristica, e si ispiravano spesso alle satire classiche di Giovenale ed Ora-
zio. Nonostante avesse le radici nella letteratura latina, col passar dei secoli
l’insegnamento misogino dei Padri della Chiesa penetrò nella cultura orale e nella
letteratura minore. Spesso si personificavano i vizi con le donne28, perché le donne
erano più corporee degli uomini29: si diceva che la relazione della femmina al ma-
schio rispecchiasse la superiorità dell’anima sul corpo.30 Nella produzione lette-
raria dell’epoca il binomio donna-corpo era un luogo comune, e veniva amplificato
da vari scrittori. Agostino lo considerò in modo letterale, scrivendo che Dio creò
Adamo a Sua immagine, cioè come un essere spirituale, mentre formò Eva da una
costola, cioè come un essere fisico31. Secoli dopo, basandosi su Agostino, Gilbert
de Poitiers scrisse che il vir rappresenta anche metaforicamente lo spirito, e la mu-
lier il corpo o il senso32. In termini generali, in quest’ottica la femmina era vera-
mente il corpo, e quindi le donne sentivano più fortemente gli impulsi fisici, come
26S. MORRISON, Excrement in the Late Middle Ages: Sacred Filth and Chaucer’s Fecopoetics,
New York, Palgrave MacMillan, 2008, pp. 25-26.
27 A.L. MARTIN, The Role of Drinking in the Male Construction of Unruly Women, in Medieval
Sexuality: A Casebook, a cura di A. Harper e C. Proctor, New York, Routledge, 2008, pp. 98-112.
Per una prospettiva storica ancora più ampia, ma senza riferimento alla ballata sotto esame, vd. N.
Z. DAVIS, Women on Top, in Society and Culture in Early Modern France: Eight Essays, Stanford,
Stanford University Press, 1975, pp. 124-151.
28 C. FRUGONI, The Imagined Woman, in Silences of the Middle Ages, a cura di C. Klapisch-
Sexism: Images of Woman in the Jewish and Christian Traditions, New York, Simon and Schuster,
1974, p. 156.
32 M.T. D’ALVERNY, op. cit., p. 120.
La ballata delle due cognate ubriache 47
il mangiare, il bere, la libidine, e l’avarizia: come scrive Howard Bloch, per il me-
dioevo la donna era tutto appetito33. L’immagine stereotipata della donna era quella
di una persona che passava il giorno in taverna, tracannando vino e pettegolando
con le sue amiche34. Tutta questa ideologia dell’insaziabilità femminile è in gioco
nella ballata delle due comari.
La misoginia non si limita solamente alla sottolineatura dell’appetito estremo
delle donne, poiché nella ballata è possibile scorgere un altro aspetto legato al-
l’antifemminismo. Nella quinta strofa una comare fa menzione di una nave la cui
stiva è piena di vino: potrebbero andare al porto e soddisfare la loro golosità: «Una
nave, comadre, – de vin è çunt’al porto […] emplèmon ben lo corpo» (vv. 19, 21).
Poi le comari maledicono i marinai dell’altra nave che trasporta i tessuti: «et un’al-
tra [nave] de lino: – lo marinar sia morto![…] e la barcha deo lino – vad’en fondo
de mare!» (vv. 20-22). Basandosi sull’epistola paolina che imponeva alle donne
il silenzio, gli scrittori misogini del medioevo caratterizzavano il linguaggio fem-
minile come eccessivo e fastidioso. San Girolamo scrisse che l’unico uomo che
non litigava era scapolo, e il chiasso delle mogli rovinava la vita dei mariti che al-
trimenti sarebbe stata tranquilla35. Come scrive Bloch, per gli uomini del me-
dioevo la donna è una rissa36. Quando le donne stanno insieme, hanno scritto altri,
creano discordie che potrebbero minacciare la pace e l’ordine della società37. Nella
ballata, le comari non solo maledicono i marinai sulla nave piena di tessuti, ma nel-
l’ultimo verso rifiutano di tornare a casa dove tocca loro tessere e filare, cioè fare
il lavoro femminile: è un’espressione di disobbedienza nei confronti dei loro ma-
riti. La loro visita in taverna costituisce una minaccia alla stabilità delle loro fa-
miglie e, per estensione, della loro comunità.
In conclusione, bisogna osservare come l’immagine della femmina golosa
porta facilmente a quella della donna loquace. Nel Duecento non c’era nessuna se-
parazione tra i peccati della gola e quelli verbali, perché le due categorie furono
messe sotto la rubrica di “peccati della lingua”. Intorno al 1250, Guillaume de
Peyrault compose il compendio dei peccati della lingua, annoverandoli a 2438 e
collegandoli alla golosità39: la gola portava naturalmente al peccato verbale tra-
mite gli organi orali e digestivi. La comare che maledice i marinai sarebbe sem-
brata del tutto normale all’uditorio a causa dell’enorme quantità che ella aveva
ingerito: si vede chiaramente che la comare è incline ai peccati della lingua. Que-
sta ballata comica offre uno spiraglio sul pensiero misogino del Duecento: non è
the Deviant Speaker, Cambridge, Cambridge University Press, 1997, pp. 16-18.
39 C. CASAGRANDE - S. VECCHIO, I peccati della lingua. Disciplina ed etica della parola nella
cultura medievale, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1987, pp. 132-133.
48 Fabian Alfie
Testo:
Presentazione p. 7
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