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Il libro d'oro delle fate

[eBL 100 by Ablixia]


«L’ORO VA ALL’ORO …»

C’era una volta, in una città dell’ Oriente, un ricco commerciante il quale, dopo averlo molto
desiderato, ebbe finalmente dalla moglie un bellissimo figliuolo.
Quando nacque quel bimbo, un uccellino d’oro che la giovane madre teneva in una gabbietta, per
talismano, cantò:

«L’oro va all’oro,
Il bambino che nasce è un gran tesoro.»

Infatti Fulgore, chè così fu chiamato il fanciullo a cagione de’ suoi occhi che lucevano come stelle,
dimostrò fin dai più teneri anni un animo tanto generoso e tali doti di mente e di cuore, che lo
rendevano caro a chiunque lo avvicinava.
Perché egli fosse contento, bisognava lasciargli condividere balocchi e dolciumi, e ogni genere di
cose, coi ragazzi poveri ai quali la sorte avrebbe, se no, negato la più piccola gioia.
E anche quando fu grandicello egli coltivò di preferenza le sue amicizie fra i bisognosi, destinando
ad essi le piccole somme che il padre gli regalava, e talvolta dando i suoi panni a persone indigenti che
avevano appena la camicia addosso.
In ciò egli era coadiuvato dall' ottima madre sua, la quale coltivava in lui il sentimento della carità
come un raro fiore.
Ella soleva dirgli, quando Fulgore le chiedeva il permesso di fare qualche dono:
- Regala pure del tuo quanto vuoi, figliuolo. A che varrebbe possedere le ricchezze, se non si
provasse il piacere di dare agli altri ciò che loro manca? Dare, è il dovere del ricco, ma è altresì la sua
gioia, se ha l’animo degno dello stato a cui lo ha chiamato il destino.
- È proprio vero, mamma, quello che tu dici! Infatti, io non conosco maggior contentezza di quella
che provo dando ai poveri ciò di cui abbisognano. E non è mica il loro ringraziamento che mi
compiace! Ma appena consegno loro il denaro o l’oggetto richiestomi, sento in me una soddisfazione
ben più grande che non sia quella di ricevere io stesso, dal babbo o da te, i vostri regali, che pur
gradisco tanto.
E l’uccellino d’oro, che ci voleva sempre metter becco, cantava:

«L’oro va all’oro,
Chi benefica i poveri è un tesoro.»
- L’uccellino ha ragione! - diceva la buona madre accarezzando con una certa fierezza la te sta
ricciuta del figlio. - Tu sei il mio tesoro, caro Fulgore! Tu hai un cuoricino generoso e bello che mi
assicura del tuo avvenire. Conservati sempre così e sarai felice.... poiché bontà è sinonimo di felicità.
E il padre soggiungeva:
- Parole d’oro, moglie mia! L’uomo buono è sempre contento degli altri, perché è contento di sé.
Egli non conosce rancore, né odio, né invidia: è tutto amore, e perciò è tutto pace. Chi ha la pace, ha il
maggior bene che esista sulla terra.
Così ammaestrato, Fulgore batteva la via del bene ed era veramente un giovane felice.
Ma un giorno, quando egli ebbe di poco oltre passato i vent’anni, sua madre venne a morte, e così
egli ebbe a sopportare il più grande dolore della vita di un uomo. E poco dopo anche suo padre,
ammalatosi per il crepacuore di aver perduto la moglie, la seguì nella tomba lasciando Fulgore solo al
mondo, ma erede di un cospicuo patrimonio in ricche merci.
Il giovanotto, per altro, che non era nato per gli affari, non si sentì capace di continuare il
commercio, e, liquidata l’azienda paterna, si dedicò all’amministrazione de’ suoi averi.
Purtroppo però egli non era affatto un buon amministratore, perché, pur sapendo ridurre gli agi
personali ai quali era avvezzo, non poteva mai privarsi del piacere di aderire alle numerose richieste che
giornalmente gli venivano fatte dai poveri.
E così egli dava allegramente fondo alle sue ricchezze, e se qualcuno gli consigliava di tirare un po’ i
cordoni della borsa in previsione dell’avvenire, rispondeva:
- Chi è ricco di cuore non teme miseria.
E l’uccellino d’oro, dalla sua gabbietta, cantava:

«L’oro va all’oro:
Obolo dato, tesoro trovato.»

Ma dai oggi dai domani, venne il giorno in cui Fulgore si trovò senza un soldo: aveva dato tutto ai
poveri, perfino la sua casa, che era diventata un ospizio.
Gli rimaneva soltanto il vestito che aveva ad dosso, un bel cavallo bianco che gli era stato regalato da
sua madre, e l’uccellino d’oro.
Fulgore, afflitto più per gli altri, ai quali non poteva porgere assistenza, che per sé, non si perdè
tuttavia di coraggio e decise di andare per il mondo in cerca di fortuna.
Si accomiatò dal numeroso stuolo dei suoi beneficati che spargevano lacrime per la sua partenza,
tolse dalla gabbietta l’uccellino d’oro che si pose in seno, e, inforcato il cavallo, partì alla ventura.
Galoppa, galoppa, galoppò fino a buio, e sic come non aveva mangiato fin dalla mattina, era stanco e
affamato.
Lontano lontano, nella valle, si accendevano qua e là i primi lumi nelle sparse casette.
Fulgore giunse a un villaggio e bussò al primo usciolino che trovò.
- Chi è? - domandò una vocetta stridula, mentre il paletto scivolava nell’anello di ferro.
-Sono un viaggiatore, e cerco un tozzettino di pane per carità, - rispose Fulgore.
L’usciolino si aprì, e una vecchietta sporse il capo fuori.
Vedendo quel bel giovanotto montato su quel bel destriero, la vecchietta fece una risata dicendo:
- Vossignoria si burla di me. Non ha bisogno d’elemosina, un sì bel cavaliere!
- Nonnina, non badate alle apparenze. Lo sapete bene che l’abito non fa il monaco. Io ho fame
davvero, e cerco il pane della carità. —
La vecchina spalancò l’uscio, e Fulgore, legato il cavallo lì fuori, entrò nella misera casa e mangiò il
pane della carità.
La vecchina gli dette anche un po’ d’insalata senza condimento, perché era molto povera e non
aveva null’altro nella madia. E con quell’ insalata Fulgore nutrì il suo cavallo.
Poi la vecchina gli profferse di dormire sul suo pagliericcio; ma Fulgore, che si era riposato, volle
proseguire il suo viaggio e partì a notte fatta.
Galoppò per boschi e valli, e sorgeva l’alba quando egli attraversò un paesetto ben misero composto
di nere case.
Egli bussò all’ultimo usciolino che trovò, ma nessuno gli rispose.
Bussò di nuovo, e sentì nell’ interno un passo strascicato.
- Chi è? - domandò una vocina assonnata.
- Sono un viaggiatore e cerco un tozzettino di pane per carità.
Gli aprì una vecchina che gli strisciò una bella riverenza e gli porse il pane della carità il quale, per
esser dato da chi null’altro possedeva tranne quello, aveva virtù di ristorare quanto un buon pranzo.
Infatti Fulgore si sentì subito riposato e nutrito, e proseguì il suo viaggio.
Sul far della sera però, dopo aver galoppato per ben dodici ore, Fulgore, stanchissimo, si fermò a
una misera capanna spersa in mezzo alle stoppie, e ripeté la sua richiesta:
- Cerco un tozzettino di pane per carità.
La vecchietta che venne ad aprirgli volle che entrasse nella sua capanna insieme col cavallo; refocillò
cavallo e cavaliere con l’erba e col pane della carità, poi pregò Fulgore di narrarle la sua storia, perché si
maravigliava molto di vedere un signore con quei bei panni e con quel bel cavallo bianco, ridotto a
mendicare il suo pane.
Fulgore appagò il desiderio di lei narrandole come avesse consumato ogni suo avere per darlo ai
poveri, e la vecchina lo lodò e lo benedisse.
Poi soggiunse:
- Ti prego di pernottare nella mia capanna. Domattina all’alba tu partirai di qui fresco e riposato e
troverai meglio la tua strada.
Fulgore seguì il consiglio della vecchina e, coricatosi sul pagliericcio di lei, si addormentò subito d’un
sonno ristoratore.
Quella notte sognò la sua cara mamma, che gli sorrideva da una rupe d’oro e gli diceva dolcemente:
- Figlio del mio cuore, io ti proteggo nel tuo cammino e ti assisto nelle tue intenzioni.
A giorno fatto, Fulgore si svegliò, e mangiato ancora un poco del pane della carità, prese commiato
dalla vecchina.
- Non sia mai detto, - esclamò questa nel salutarlo - che un ospite simile a te parta di qui senza
portar via un mio ricordo. Prendi, mio bel signore, questo mazzettino di semplici che hanno virtù di
guarire ogni male. Io non ho altro da offrirti, ma il mio umile dono potrà esserti utile.
Fulgore la ringraziò del dono e dell’ospitalità, e si mise in viaggio.
Non sapeva neppur lui dove andava, e tuttavia era spinto dalla speranza.
Nessun rimorso gli pesava sul cuore e la povertà non gli dava sgomento. Era soddisfatto di se stesso,
perché sapeva di non aver dilapidato le sue ricchezze in vizi e bagordi, ma di aver dato fino a un
centesimo per amor del prossimo.
Egli si sentiva come circondato da un’atmosfera protettrice che gli tenesse lontano ogni male: erano
le mille e mille benedizioni di coloro che aveva sempre e sempre, fin che aveva potuto, sottratti ai
patimenti e agli stenti, e quelle benedizioni formavano alle sue spalle delle invisibili ali d’angelo che
infatti lo proteggevano e lo guidavano.
Galoppa, galoppa, galoppa, il bel Fulgore attraversava una foresta di palme, quando da una chiara
casetta mezzo nascosta fra il verde vide uscire di corsa una bella fanciulla che gettandosi davanti al suo
bianco destriero e alzando le piccole mani con gesto supplice gridò:
- Fermati, cavaliere, e se tu hai cuore d’uomo, vieni a soccorrere mia madre che muore.
È facile immaginarsi come il buon giovane non se lo facesse dire due volte: egli balzò di sella e seguì
la gentile fanciulla nella bianca casetta.
L’interno era misero, ma sopra una rozza panca giaceva una signora di nobile aspetto, così pallida e
consunta, che respirava a stento.
Già sul volto, dai lineamenti fini e signorili, si stendeva l’ombra della morte.
In un canto della stanza ardeva un braciere, e su quello bolliva un bricco d’acqua.
In meno di un momento, Fulgore preparò un infuso coi semplici donatigli dalla vecchina della
capanna, e lo versò goccia a goccia tra le labbra di quella signora.
Tanto lui quanto la bella fanciulla ne spiavano ansiosamente l’effetto.
E l’effetto fu magico.
La signora riprese a poco a poco i colori della vita, dischiuse i suoi grandi occhi buoni e sorrise. Il
suo respiro si liberò dal rantolo della morte, e di lì a poco essa poté parlare.
La gioia della ragazza era indescrivibile. Essa baciò con trasporto le mani di Fulgore chiamandolo il
salvatore suo e della madre.
E la buona signora prese a narrare al giovanotto in qual modo ella si fosse trovata morente nel cuore
della foresta di palme.
- Dovete sapere, - ella disse con dolce voce - che or fa un anno il mio caro sposo venne a morte; ma
prima di lasciar questa terra egli, che fu un saggio, ebbe una visione nella quale gli fu rivelato come, nel
solco di una valle, scorra un fiume le cui acque si convertiranno in oro se raccolte dallo sposo della mia
figliuola; poiché appunto detto fiume, sorgente perenne di ricchezza, è stato destinato dalle Fate in dote
a Fior di Rosa qui presente, la quale è stata destinata in sposa all’uomo più caritatevole della terra. Ma
per incontrare quest’ uomo, io dovevo camminare un anno, un mese e un giorno insieme con la mia
cara figlia.
- Scade oggi la data fatidica, ed io ero all’estremo delle forze, quando voi siete sopraggiunto, guidato
certo da un potere soprannaturale che ha voluto il nostro incontro.
Fulgore, richiestone dalla signora, narrò allora la sua storia, e quando egli tacque, la madre di Fior di
Rosa esclamò:
- Mia figlia è vostra, signore, perché non v’è dubbio alcuno che siate voi l’uomo più caritatevole del
mondo.
E fatti sposare i due giovani, li guidò alla foce del fiume «Amor», dove Fulgore poté convincersi che
l’acqua ch’egli ne raccoglieva si trasformava in oro.
Subito ne riempì parecchie bigonce, e con quel l’oro fece batter moneta; poi, costruita in quei pressi
la sua casa, stabilì di recarsi due volte l’anno, con la sposa, per il mondo, in cerca di mise rie da
sollevare. Ne trovò dappertutto - ma il fiume d’oro era inesauribile, e Fulgore poté fin che visse
beneficare il prossimo suo: perciò visse felice.
E l’uccellino d’oro canta ancora:

«L’oro va all’oro:
Chi fa la carità trova il tesoro.»
LA GALLINA D’ ORO

C’era una volta, nel paese delle Fate, una Gallina che non aveva mai messo il capo fuori dal
borghetto dov’era nata. Stanca di passarvi continuamente la vita, un giorno ella disse ai suoi amici:
- Voglio andare anch' io a vedere un po’ di mondo; non mi piace mica d’invecchiare in questo posto
senza aver visto altro! Mi ci vuole un po’ di cambiamento.
- Badate, le disse il Pavone d’Argento - io me ne pentii di aver lasciato la mia patria e di essermene
andato per il mondo!
E poi, lo sapete: - interloquì l’Uccello Azzurro se uscite dal regno delle Fate, vi con verrà di star
fuori un anno e un giorno.
Ma la Gallina non voleva consigli: volò via dal paese delle Fate e non si fermò fin che non giunse nel
mondo degli uomini.
Il viaggio fu parecchio lungo, e quando essa arrivò alla sua fine, non ne poteva proprio più. Andò
dunque a fermarsi in un’aia sopra un mucchio di grano, e, avendo una gran fame, cominciò a
becchettarne qualche chicco.
Alcune galline del vicinato erano andate a spasso e si erano spinte fino a quell’aia, e la nuova arrivata,
a cui piaceva la compagnia, fece subito amicizia con loro.
La sera, non sapendo dove andare ad albergare, ella si unì al loro stuolo, e le galline ce la lasciarono
stare senza darle noia.
Quando la massaia uscì fuori con una grembiulata di grano e le galline le corsero incontro, ella si
accorse che ve n’era una di nuovo che non apparteneva né a lei né a nessuna delle massaie di quei
pressi: l’avrebbe ben riconosciuta se l’avesse vista qualche altra volta, perché era proprio di una bellezza
speciale! Svelta e graziosa, aveva le penne tutte gialle come oro e della lucentezza di quel metallo.
«Chi sa di dove viene questa bella gallina!» pensò la donna. «Si dev’essere spersa. Eppure non sembra
punto spaurita!»
- Via, becca anche tu qualche chicco, se vuoi, - ella disse.
Poco dopo la Gallina viaggiatrice andò nel pollaio con le altre, e la mattina seguente ne uscì con loro,
ed era tanto franca che si sarebbe detto fosse nata lì.
Gli uccelli fatati non perdono mai le penne nel paese delle Fate, ma quando ne escono accade a loro
tutto quel che accade ai volatili comuni. Appena la massaia entrò quella mattina nel pollaio per vedere
se vi fossero punte uova, le diedero subito nell’occhio tre penne gialle e lucenti che brillavano fra la
paglia. La donna le raccolse, e con suo grande stupore si accorse che erano proprio d’oro, e di un oro
così bello e splendente, ch’ella non aveva mai visto l’uguale.
Quella contadina era per l’appunto una donna molto avida. Lasciò andar le uova trovate nel pollaio,
non importandole che nel cadere si schiacciassero tutte, e corse dietro alla prodigiosa Gallina per paura
che le scappasse. Appena poté acchiapparla, quella cupida e spietata donna si mise a strapparle lesta
lesta le penne per tirarne via più che poteva. La povera Gallina, tormentata crudelmente a quel modo,
schiamazzava e si divincolava; ma la venale contadina non se ne dava per intesa, e non la lasciò fin che
non l’ebbe quasi tutta spennata.
La povera bestia si trascinò lontano di lì filando sangue da tutte le parti.
- Ah! - sospirò l’infelice animale. - Era meglio se avevo dato retta al Pavone d’Argento! Ma che cosa
sarà mai di me, se devo stare un anno e un giorno in questo mondo dove sono venuta, come ha dello
I'Uccello Azzurro?! -
Pensando e ripensando, la Gallina d’ Oro finì col dirsi che forse la gente del mondo non era tutta
cattiva come quella donna, e che andando altrove potrebbe esser trattata diversamente.
Sicché, seguitando ad allontanarsi tutta malconcia com’era, visto un boschetto a poca distanza vi
penetrò e andò ad appollaiarsi sola sola su un ramo dei più bassi che vi fossero, e non si mosse di lì,
tanto era indolenzita, né quel giorno né per tutto il giorno seguente.
La contadina che l’aveva ridotta in quel dolente stato la cercò la mattina dopo dappertutto, sparse
grano anche in lontananza per attirarla, la chiamò con la voce più melliflua; ma la Gallina d’Oro non si
lasciava ormai acchiappar più. Essa rimase nel bosco fino a buio; poi, adagio adagio, scesa la notte, uscì
dal suo nascondiglio e andò a becchettare tutto il grano che la massaia aveva lanciato fino in vicinanza
del boschetto.
La mattina dopo la contadina, aprendo una cassetta dove aveva riposto tutte le penne tirate via al
povero animale, fece una brutta scoperta: sol tanto tre penne, quelle da lei trovate prima, erano d’oro: le
altre erano gialle e lucide, sì, ma penne comuni.
Frattanto la Gallina d’ Oro pensava come si sarebbe ormai nutrita, perché il grano che era giunto
vicino al boschetto lo aveva già beccato la sera prima. E poi la povera bestia sentiva di annoiarsi
mortalmente in quel bosco; sicché decise di uscir ne e andare a tentare miglior fortuna.
Prese dunque la strada maestra, fermandosi di tanto in tanto a beccar qualche mora alle siepi che la
fiancheggiavano, e non si fermò che la sera allorché vide una casa colonica assai più grande di quella da
cui si era allontanata.
Sull’aia v’erano una quantità innumerevole di galline, ed essa avrebbe desiderato di andare a unirsi a
loro; ma la massaia le incuteva paura, e la nostra viaggiatrice rimase per un pezzetto a guardar da
lontano se la donna se ne fosse andata.
Finalmente, appena l’ebbe veduta allontanarsi, la Gallina passò attraverso le sbarre del cancello che
v’era lungo la strada maestra ed entrò nel l’aia. Le altre, vedendola tutta spennacchiata e ancor
sanguinante, ne ebbero compassione e non le fecero guerra; anzi, la lasciarono beccare con loro e le
fecero posto nel pollaio.
Per sei giorni la Gallina d’ Oro rimase in quel luogo senza che nessuno, fuorché le altre galline,
l’avesse vista; ma la mattina del settimo giorno, mentre il capoccia guardava la massaia contar le uova,
gli giunsero all’orecchio queste parole dette da una pollastrina bianca alla nuova ospite del pollaio:
- Sicché, voi siete proprio quella Gallina d' Oro di cui abbiamo sentito parlare? Ma vi ritorneranno le
penne? Che cosa maravigliosa sarebbe! -
-Zitte, zitte! - disse una chioccia nera. - Non lo vedete che c’è il padrone? Lui capisce lutto quel che
noi si dice, lo sapete bene. -
Purtroppo era vero, e ormai il contadino aveva udito e compreso benissimo la domanda fatta dalla
pollastrina bianca; e venendo così a scoprire che v’era lì, vicino a casa, quella Gallina d’ Oro di cui egli
pure aveva udito parlare, fece chiudere tutti i cancelli e mise dei ragazzi a guardia di tutte le siepi perché
quel portentoso volatile non potesse fuggire. Accostandosi poi alle galline che, impaurite, erano andate
a rintanarsi in un angolo dietro casa, vide fra loro quella tutta spennacchiata e s’immaginò che si
trattasse di lei.
La prese dunque tra le mani quasi con rabbia, e vedendo che le erano rimaste soltanto poche penne
della coda, le tirò via con forza dicendo:
- Qualcuno è arrivato prima di me, a quanto pare; ma le penne vi rimetteranno, si spera, e in tanto vi
chiuderò io in uno stabbiolino da dove se potrete uscire sarete proprio brava! -
Difatti, stringendo tra le rozze mani la povera bestia, andò a portarla in una specie di capanno senza
finestre e ve la chiuse, mettendosi poi la chiave in tasca.
Quel contadino aveva in casa un garzone chiamato Gosto, uomo pieno di curiosità e parecchio
impaccioso, il quale aveva visto il suo padrone allontanarsi verso il capanno con quella povera Gallina
malmenata e tornare indietro senza di essa.
Quando fu buio, Gosto prese una chiave tutta arrugginita mercè la quale era riuscito altre volte a
entrar nel capanno, e avendolo aperto, mentre teneva la porta spalancata per veder bene dove poteva
esser l’animale, la Gallina d’ Oro, che si era appollaiata su un fastello di legna riposto
momentaneamente in quel luogo, spiccò subito il volo e passando di sul capo a Gosto non si fermò che
sui rami parecchio alti di un gelso che v’era lì presso.
Il garzone vide che era inutile provarsi nel buio a ricercarla, tanto più che bisognava evitare di far
rumore; sicché, appena rimesso dal suo sbalordimento, richiuse la porta con la chiave da lui posseduta,
e se ne tornò piano piano in casa, andando subito a dormire.
Frattanto la Gallina, rimasta sola, scese silenziosamente dal gelso, attraversò tutto il podere, e
quando in una siepe trovò una radura che le per mettesse d’insinuarvisi, ne uscì fuori e si allontanò più
speditamente che poté.
V’ è da immaginarsi lo stupore del contadino allorché andando la mattina dopo nel capanno non vi
trovò più la sua prigioniera.
Dopo essersi lambiccato parecchio il cervello, finì col pensare che, trattandosi di una gallina così
prodigiosa, vi doveva esser sotto qualche incantesimo; e si consolò ricordandosi di averle strappato
quelle penne della coda, che essendo tutte d’oro non dovevano avere poco valore.
Ritornò dunque a casa e andò a ricercarle nel ripostiglio dove le aveva nascoste; ma invece di
trovarle del prezioso metallo, si vide sotto gli occhi penne gialle appena buone per unger l’arrosto.
Tutte queste sorprese gli fecero dar balta al cervello, e pochi giorni dopo dovettero condurlo fra i
pazzi.
La povera Gallina d’ Oro ne aveva ormai abbastanza del mondo, e chi sa che cosa avrebbe dato per
ritornare nel paese delle Fate! Ma sic come le era vietato di riapparirvi fino a che non fosse trascorso un
anno e un giorno, tutto quello che poté fare fu di allontanarsi dai contadini e dalle case coloniche.
Dopo aver fatto un bel tratto di strada maestra costeggiando la siepe da cui era uscita, veduto dal
l’altra parte della via un prato su cui pascolava una mucca vi si recò, e di lì passando in altri prati, e poi
per vari campi, giunse a un podere in cui c’erano due ragazzi a spigolare.
La povera Gallina si rifugiò dietro a una massa di covoni per non esser vista, e vi rimase fino a buio,
quando cioè i ragazzi se ne furono andati.
Erano essi due orfani, nipoti di una povera vedova che abitava lì vicino, e la mattina dopo
ritornarono di nuovo a spigolare in quel podere. A mezzogiorno si misero a sedere sotto una siepe, e
ciascuno si levò di tasca un pezzetto di pane e lo mangiò: companatico non ne avevano, perché la loro
vecchia nonna era poverissima.
La Gallina d’ Oro, che aveva girato tutta la notte in quei pressi non arrischiandosi ad allontanarsi
molto per il timore di capitare fra gente barbara come quella ormai da lei esperimentata, guardava
attraverso la siepe quei ragazzi senza esser da loro veduta e ascoltando tutto ciò che essi dicevano.
Discorrevano del covoncino di grano che ave vano messo insieme spigolando, e se ne rallegra vano,
sapendo quanto ne sarebbe contenta la nonna quando lo porterebbero a lei; e veramente speravano
anche che con la farina di quel grano ella farebbe loro una bella schiacciata.
«Devono essere proprio poveri!» pensò la Gallina d’ Oro. «Ho paura che raccattino proprio tutte le
spighe, e che io non possa trovare nemmeno un chicco di grano da beccare! Se mi avvicinassi a loro?
Sono ragazzi piuttosto piccoli e credo che non si arrischieranno a farmi male; e poi, se si provassero,
scapperei e potrei andare a nascondermi.»
Ciò detto essa uscì dalla siepe e si fece vedere ai fanciulli tenendosi però un po’ scosta da loro.
Oh, che bella gallina! — gridò il più piccolo, che si chiamava Severino.
Poverina! — esclamò il più grande, che ave va, nome Gigetto. — L’hanno tutta spennata e
scorticata! —
Le buttò un bocconcino di pane, ma essendo caduto troppo vicino ai ragazzo, la Gallina non osò di
avvicinarsi per prenderlo; allora egli ne buttò un altro pezzetto più lontano da sé, e quello ella lo
raccolse subito col becco e lo mangiò avidamente, perché cominciava proprio a soffrir la fame.
Poi Severino prese una spiga di grano e, spicciolandola fra le dita, ne gettò i chicchi alla Gallina, la
quale nel vedere che quei bambini erano così buoni, si fece sempre più coraggio e si avvicinò a loro.
Essi continuarono a buttarle un po’ di pane fin che non lo ebbero finito, quindi se ne andarono
perché dovevano spigolare in un altro podere.
La Gallina d’ Oro tenne loro dietro a qualche distanza, e di tanto in tanto trovava un chicco di grano
e lo beccava.
A buio i due fanciulli andarono a casa e la Gallina si appiattò dietro un pagliaio poco discosto dalla
loro abitazione.
Anche la mattina seguente i due spigolatori uscirono fuori e si recarono in un altro campo poco
lontano; e la Gallina d’Oro andò a unirsi a loro, senza paura. A mezzogiorno le sbocconcellarono un
po’del loro pane, ed essa, già addomesticata, andava a becchettarlo perfino nelle mani dei fanciulli; la
sera, allorché ritornarono a casa, la Gallina non si nascose ma vi entrò con loro.
Quando la nonna dei due orfanelli vide in quale pietoso stato era ridotta la povera bestia, ne provò
grande compassione; le diede subito da mangiare un po’ di grano, le mise in un recipiente dell’acqua
limpida perché potesse dissetarsi, poi la prese sulle ginocchia e le fece un’unzione per tutto il corpicino
spennacchiato, calmando così il bruciore e il dolore che la Gallina sentiva ancora. Il povero animale si
sentì riavere, ed avendo quella buona donna posto tra due assi un bastone su cui la Gallinella potesse
comodamente appollaiarsi, essa dormì saporitamente tutta la notte.
Per quanto la donna vivesse molto meschina mente, non volle metter la Gallina fuori di casa la
mattina dopo, ma disse ai suoi nipoti:
- Teniamola noi, fin che abbiamo un po’ di grano da darle. Malata com’è, nessuno vorrà prenderla;
oppure, se qualcuno la fa andare in casa, sarà per tirarle il collo. -
«Meno male!» pensò la Gallina che udì quel discorso. «Finalmente ho trovato persone perbene. Non
mi moverò di qui fin che non sia spirato l'anno, e mi metterò in viaggio soltanto il giorno dopo, per
ritornare nel paese delle Fate.»
Ci volle un bel pezzo prima che la povera bestia si ristabilisse; ma finalmente si rimise bene in salute
e le ritornarono le forze, e con le forze le penne. Prima che l’anno finisse, essa luccicava tanto, che i due
ragazzi e la loro nonna dovevan fare solecchio per guardarla senza abbagliare.
Non è da dirsi le carezze che le facevano tutti e tre chiamandola con graziosi nomi. La Gallina d’
Oro non usciva mai di casa, perché le era rimasto ormai troppo cattivo ricordo delle sue vicende; e ciò
maravigliava assai la nonna e i nipoti; ma senza costringerla ad andar fuori, le pro curavano in casa tutto
quel che potesse bisognarle. Il becchime era piuttosto scarso, ma la Gallina sapeva che anche il grano
che le davano se lo leva vano di bocca quei poveretti che la tenevano, e non si lamentava mai.
Un giorno il minore dei due fratelli trovò in terra una penna gialla e brillante; la fece vedere a suo
fratello, e il giorno dopo ne trovò una an che il maggiore. La nonna, non sapendo che quelle penne
erano d’oro, le lasciò ai ragazzi che se ne infilarono una per ciascuno nel berretto.
Andando un giorno al prossimo borgo per far qualche spesuccia per la nonna, essi si trattennero un
po’ sulla piazza dove, essendo giorno di mercato, vari venditori ambulanti s’erano fermati con le loro
mercanzie.
Gigetto e Severino si accostarono ai banchi, ai carretti e alle cassette di quei venditori. Mentre erano
intenti a guardare con molta attenzione e bramosia tanti oggettini ben disposti nella cassettina di un
merciaio ambulante, e tenevano il capo chino su quella, il girovago rivolse loro la parola:
- Chi ve le ha date, ragazzi, codeste belle pennine che avete nei berretti?
- Son cascate a una gallina che abbiamo in casa noialtri, - rispose gentilmente Severino.
- Davvero? Me le fate veder perbene? Brillan tanto, che accecano. -
I due ragazzi compiacenti si tolsero i berretti, e il merciaio guardò proprio sott'occhio le penne, le
sfilò, le palpò, poi rimase un po’ indeciso se rinfilarle nei due berrettini.
- Fateci il piacere di rimetterle perbene al posto, - disse Gigetto - e rendeteci i berretti perchè è tardi
e bisogna andar subito a casa, se no la nonna sta in pensiero. -
Il merciaio non disse niente e restituì ai ragazzi i berrettini; ma appena si furono mossi per andarsene
richiuse la sua cassetta, se la mise al collo e tenne loro dietro silenziosamente.
Giunti che furono alla casupola nella quale era la nonna, appena i nipoti furono corsi da lei, il
merciaio si presentò sulla soglia e disse:
- Avete bisogno di nulla, massaia? Aghi, refe, bottoni, forbici, coltelli, librettini da leggere a veglia,
qualche balocco per codesti ragazzi? -
Mentre parlava, il merciaio non levava gli oc chi di sulla Gallina d’ Oro il cui luccichio gli aveva
subito indicato dove si trovasse.
- No, non ho bisogno di nulla, - rispose la donna. - E poi, non posso spendere, galantuomo, e
bisogna ch’io faccia a meno di tante cose. -
Il merciaio, senza dir nulla, cominciò a tirar fuori dalla cassetta alcune delle sue piccole merci ch’egli
sapeva bene potevano occorrere alla vecchietta o esser desiderate dai ragazzi; poi disse:
- Potrei anche barattar tutta questa roba con quelle due pennine che i vostri nipoti hanno nel
berretto; le vorrei appuntare sul mio che è nero e tutti mi domandano se porto lutto. -
La nonna si rivolse ai ragazzi e domandò loro se intendevano di fare il baratto. Nel vedere certi
graziosi giochetti che il merciaio aveva tirati fuori accortamente dalla sua cassetta, essi dissero subito di
sì.
- Ne avete altre di queste pennine? — domandò quell’uomo.
La vedova ne aveva messe da parte sette trovate in varie parti della casa, e che non aveva voluto
buttar via perché erano così lucenti; ma non si sarebbe mai immaginata che fossero veramente d’oro. Il
merciaio insisté per vederle, ed essa andò a prenderle nel panierino della calza dove le aveva nascoste.
Quell’uomo, oltre che la cassettina che teneva al collo con una larga cinghia, portava in giro sulle spalle
dei tagli di vestiti da uomo e da donna, e offrì di dare alla nonna tanta stoffa da farsi una gonnella per sé
e un paio di calzoncini per ciascuno dei suoi nipoti, se ella gli cedeva le piume che egli diceva di voler
vendere per adornamento di berretti.
La Gallina ne perderà tante, - disse per convincere la povera vedova - che ne potrete riprendere
quante volete. -
Pochi momenti dopo, il merciaio se n’andava con le nove penne d’oro, rallegrandosi dell’affare fatto;
e la nonna e i nipoti erano pure tutti con tenti di trovarsi in casa tanta roba, che non avrebbero davvero
potuto mai comprarsi.
Da quel giorno molte furono le penne che caddero alla Gallina d’Oro, come se quell’animale sapesse
che si rendeva tanto utile col perderle. I ragazzi e la loro nonna le raccoglievano appena le vedevano in
terra, e quando, dopo un mesetto, il merciaio ritornò, ne avevano messe insieme un bel mucchio.
Quella volta però la vedova chiese del denaro per cederle; e con quel che il merciaio pagò le penne, la
vecchietta si comprò una mucca.
Una seconda visita di quell’uomo fruttò alla vedova tanto denaro, da fare acquisto di un pezzo di
terra e prendere a giornata un robusto giovanotto per lavorarla.
Per farla corta, la Gallina d’ Oro seguitò fino alla fine dell’anno del suo esilio a perder penne, e la
nonna e i nipoti a metterle da parte, e il merciaio a comprarle pagandole sempre più care, tanto che la
povera vedova divenne una benestante, si fabbricò una più grande e più comoda casa, si comprò
galline, anatre, oche e tacchini, senza per altro permetter loro di stare a contatto con la Gallina d’ Oro
che non aveva mai messo più il capo fuori di casa e che se ne stava quasi sempre appollaiata sul bastone
preparatole dalla buona donna appena l’aveva vista arrivare in casa sua stanca e malconcia.
Già erano trascorsi i trecentosessantasei giorni prima del termine dei quali la Gallina d’ Oro non
avrebbe potuto far ritorno al paese delle Fate, e ora ch’essa era libera di ritornarvi non si risolveva a
partire, tanto si era affezionata ai suoi ospiti.
«Anderò via domani,» diceva tutti i giorni fra sé.
E così passò una settimana, e il riconoscente animale era sempre presso di loro.
«Hanno ancora bisogno di qualche altra delle mie penne,» pensava. «Ormai lascerò questa buona
gente quando avranno finito di fabbricar la casa.»
Il giorno dopo che la Gallina d’ Oro aveva preso questa risoluzione, mentre la nonna e i nipoti
stavano desinando, e avevano lasciato l’uscio aperto perché faceva molto caldo, videro affacciarvisi il
merciaio.
- Buon giorno, signoria, - disse quell’uomo alla nonna.
- Buon giorno, galantuomo. Siete venuto a prendere qualche altra penna? Ce n’ho un mucchietto di
là.
No, signora. Questa volta le penne non le vorrei. Son venuto a prendere la Gallina che le perde.
- La Gallina???
- Sì: che ve ne maravigliate tanto? Ve la pago bene, sapete. —
Ma la vedova e i ragazzi protestarono che non si separerebbero mai da quell’animale.
- Sentite, buona donna - disse il merciaio - per me, ve la lascerei volentieri la vostra bestia; ma
ascoltate come stanno le cose: l’orefice a cui diedi quelle penne, perché erano d’oro, posso anche
dirvelo ora, le vendè alla Regina, che se ne fece fare non so quali ornamenti, e per ultimo una corona, e
adesso Sua Maestà vuole assolutamente il volatile. Sicché dite quanto ne volete, e sarete subito pagata;
ma se fate sdegnar la Regina opponendovi al suo desiderio, potrebbe andarvi parecchio male, signora
mia.
- Purtroppo! Se la Regina desidera una cosa nessuno può dir di no! - esclamò la buona vecchia
piangendo.
- Me la mandi a prender lei e la consegnerò ai suoi inviati; ma quella povera bestia io non la vendo
davvero! -
Non ci fu verso di farle cambiare idea, e il merciaio se n’andò via di cattivo umore.
Quando egli si fu allontanato, la nonna e i nipoti non si potevano dar pace, e fino a tarda ora non
parlarono altro che della crudele separazione che certamente sarebbe avvenuta.
- Nonna, - disse Gigetto - non si potrebbe metter la Gallina in un paniere e andarcene lontano
lontano con lei?
- No, - disse Severino - è meglio restare a casa, ora che ci si sta tanto bene e che quella nuova sarà
presto finita. Diamo a Sua Maestà una penna per giorno e preghiamola di lasciare a noi la Gallina. -
Ma la povera nonna scosse il capo: sapeva che i desideri di una Regina non si possono discutere, e
che, quanto a scappare, era inutile: sarebbero stati ripresi e arrestati tutti. Sperava bensì che accadesse
qualche fatto per il quale la preziosa e amata Gallina restasse con loro.
Per due giorni non videro ritornare il merciaio, e la mattina del terzo la vedova e i ragazzi riaprivano
un po’ il cuore alla speranza, quando Severino, che era uscito nel campicello che anche lui e suo fratello
lavoravano, tornò frettolosamente in casa dicendo:
- Sento sonare i tamburi, e mi pare che si avvicinino da questa parte. —
Gigetto uscì fuori anche lui e tornò di corsa dicendo:
- Nonna, nonna! C’è un gran galoppio di cavalli a poca distanza.
- Poveretta me! - fece la vecchia. - Dev’esser la Regina che viene in persona a portarmi via la Gallina!
-
Difatti pochi momenti dopo si vide spuntar la cavalleria che precedeva la carrozza in cui si trovava la
Regina.
Giunti dinanzi alla casetta della vedova, i destrieri si fermarono facendo ala a una carrozza dorata
tirata da otto cavalli bianchi come il latte, e la sovrana scese sveltamente.
Aveva un vestito di raso celeste tutto guarnito con le piume della Gallina d’ Oro, e anche la collana
che le scendeva sul petto e la corona che le cingeva il capo erano fatte con quelle.
Mia buona donna, - disse la Regina avanzandosi con portamento maestoso - ho sentito dire che
avete presso di voi la Gallina d’ Oro, unica al mondo, e sono venuta a prenderla: dov ’è? -
La vecchietta strisciò una bella riverenza e rispose senza turbamento:
- Maestà, è impossibile che io mi separi dalla mia Gallina: i miei poveri ragazzi, che son tanto
affezionati a quell’ animale, non avrebbero più pace.
- Andiamo, non dite sciocchezze! - esclamò la Regina impaziente. - Non perdiamo tempo, vi prego:
fatemi veder subito la Gallina. -
Nel momento in cui la Regina diceva queste parole, la Gallina, che nel sentir tutto quel rumore era
volata sulla finestra e di lì su un albero che v’ era dinanzi alla casa, nello stender le ali fece piovere una
quantità di penne sul terreno erboso in cui si trovava in quel momento la Regina.
- Oh, che bellezza! - ella esclamò. — Presto presto, acchiappate subito quell’animale! — ella ordinò
a uno dei paggi che erano scesi dai sedili posti a tergo della carrozza dorata.
Il paggio si affrettò a obbedire e si arrampicò sull’albero dove la Gallina era andata ad appollaiarsi, e
dove seguitava a sbatter le ali facendone cadere una pioggia d’oro; ma proprio nel
momento in cui stava per agguantarla, essa volò più in alto, fino in vetta alle ultime fronde, e di lì si
librò nell’aria allontanandosi sempre più, fin che la Regina e tutti gli altri non la videro che come un
puntolino brillante che poco dopo scomparve dietro le vette dei monti che limitavano l’orizzonte.
La Regina rimase come impietrita a quello spettacolo, e quando si riebbe un poco e capì che nulla
v’era ormai più da fare in quel luogo, risalì silenziosamente in carrozza; e udendo il rullo dei tamburi
fece cenno ai soldati di smettere di sonare non potendo sopportare quel rumore.
Rimasta sola coi suoi nipoti, la vedova raccolse tutte le penne cadute alla Gallina d’ Oro in que gli
ultimi momenti del suo soggiorno fra loro, le quali formarono un bel mucchietto.
I due ragazzi, sebbene addolorati della partenza dell’ animale a cui volevano tanto bene, preferirono
che fosse volato via, piuttosto che saperlo posseduto da altri, fosse pure la stessa Regina. Chi sa che fine
avrebbe fatto, quella povera bestia! V’era il caso che la riducessero nello stato pietoso da cui la buona
vedova con tanta cura e pazienza l’aveva tratta! Nutrivano anche la speranza che un giorno o l’altro essa
potesse tornare; ma la nonna scommise che non si sarebbe rivista mai più, argomentandolo dal dono di
tante piume che l’animale aveva fatto loro prima di lasciarli.
Difatti la Gallina d’ Oro aveva subito diretto il volo al paese delle Fate da cui non le venne più voglia
di uscire, e dove forse vive ancora.
Le ultime sue penne d’oro raccolte dalla nonna furono lasciate in eredità ai nipoti che alla sua morte,
divenuti due giovanotti, col ricavato della loro vendita a peso d’oro poterono comprarsi due bei poderi
e trarne tal frutto, da condurre una comodissima vita.
LE TRE MELE D’ORO

C’era una volta un contadino che aveva una grande casa colonica sul fianco di un monte, e in essa si
trovava un fienile molto grande per riporvi il fieno.
Ma erano ormai due anni che del fieno egli ne riponeva poco, perché la vigilia del giorno di San
Giovanni, quando l’erba stava per esser falciata, la mattina, trovavano i prati tutti brucati come se la
notte vi fosse stato a pascolare una mandria di pecore.
Ciò era accaduto per due anni di seguito; e quando il terzo anno si avvicinò il tempo della mietitura,
il contadino, intimorito di dover perdere anche quell’anno la sua raccolta, chiamò i suoi tre figliuoli e
disse loro che qualcuno doveva rimanere a guardia dei prati la notte della vigilia di San Giovanni,
perché sarebbe stato un vero disastro se neppur quell’anno si fosse potuto raccogliere il fieno di cui
v’era così bella promessa.
Il maggiore dei tre figli disse di esser disposto a far la guardia lui, e assicurò che sarebbe stato bene
attento che né uomini né bestie si avvicinassero ai loro prati.
Sicché, quando scese la notte egli entrò nel fienile, che rimaneva proprio di faccia ai prati, pro
ponendosi di stare sveglio fino alla mattina; ma verso mezzanotte vi fu una così violenta scossa di
terremoto, che parve che le mura si aprissero e il tetto si scoperchiasse; sicché il giovanotto impaurito
uscì di corsa dal fienile allontanandosi parecchio dai prati: la mattina dopo l’erba era stata decimata e il
fienile rimase quasi vuoto come i due anni precedenti.
Il contadino s’inquietò parecchio e rimproverò suo figlio di non essere stato buono a nulla.
L’anno successivo, alla medesima scadenza, il contadino disse che questa volta bisognava proprio
che nella notte qualcuno stesse continuamente a vigilare; per cui il figlio mezzano disse che la guardia
l’avrebbe fatta lui con tutta la possibile accortezza.
Anche lui si nascose nel fienile e stette bene at tento se sentiva avvicinarsi qualcuno; ma quella notte
si scatenò un tremendo uragano, cosicché il rumore del vento impetuoso e della pioggia gl’impedì di
udire se qualcuno si avvicinasse ai prati: la mattina dopo quasi tutta l’erba che il giorno prima vi
cresceva così rigogliosa era sparita.
Quando si giunse alla vigilia di una nuova mietitura, il contadino era proprio disperato, e pensò di
star da se stesso a guardia della sua erba; ma Briciolino, il suo figlio minore, lo dissuase dicendogli:
- No, no, babbo, andate a letto voi, che avete tanto bisogno di riposarvi: ci sto io a far la guardia, e
vedrete che questa volta del fieno ne avrete tanto, che non entrerà nel fienile.
- Ma chetati! - esclamarono canzonandolo i suoi fratelli. - Sei alto quanto un soldo di cacio e non sei
buono che a trastullarti coi tuoi compagni e a scaldarti nel canto del fuoco, e pretendi di metterti a far la
sentinella dinanzi ai prati. Va’va’a letto, Briciolino, sarà meglio! -
Ma il giovinetto fece il sordo, e zitto zitto uscì fuori.
Lui non andò come i suoi fratelli dentro il fienile, ma si nascose in un campo che confinava con uno
dei prati.
Verso mezzanotte cominciò a grandinare con chicchi così grossi, che alcuni, battendo nel capo a
Briciolino, lo sbucciarono in più punti; ma egli rimase imperterrito al suo posto anche quando la
grandine, seguitando a cadere, lo ebbe ricoperto.
Nonostante il rumore che essa faceva, parve ad un tratto a Briciolino, che stava sempre in orecchio,
di udire un altro rumore tutto diverso.
Allora balzò in piedi, e al guizzo di un baleno egli poté vedere, in mezzo al prato vicino al quale si
trovava, un cavallo nero che pascolava. Era così grosso, grasso e ben fatto, che Briciolino non ne aveva
mai veduto uno così bello.
Un altro lampo fece rilevare al giovinetto che quel cavallo non soltanto era sellato e aveva i finimenti
tutti di rame, ma che portava in groppa una completa armatura da cavaliere, la quale era anch’essa di
rame ben luccicante.
- Guarda, guarda! - esclamò Briciolino. - Sei dunque tu che ci consumi tutto il fieno da quattro anni
a questa parte? -
Senza stare a far tanti discorsi, prese lo schioppo che aveva appoggiato a un gelso e, mirato il cavallo,
tirò; ma sebbene fosse sicuro di averlo colpito, l’animale non si mosse.
Allora Briciolino coraggiosamente si avvicinò, e il cavallo dondolò la testa come se lo incitasse ad
accostarsi ancora di più; il giovinetto stese una mano e lo palpò, trovandolo così agevole che poté
prenderlo per la briglia senza che l’animale facesse resistenza, e condurlo in un certo casotto che v’era
in un bosco piuttosto lontano di lì, e del quale Briciolino aveva per l’appunto la chiave in tasca essendo
andato quel giorno stesso a riporvi degli arnesi.
Verso le due di notte Briciolino, messo in sicuro il cavallo, ritornò a casa, si spogliò, andò a letto e
dormì qualche ora.
- Ci sei stato dimolto a far la guardia ai prati! - gli dissero i fratelli con un risolino canzona torio. - Ti
abbiamo sentito tornare poco dopo mezzanotte! Avrai avuto paura della grandine, eh?
- Già! — rispose Briciolino. - Tanto, con quel rumore che faceva cadendo, non si sentiva nulla, e ho
pensato meglio di ritornarmene a casa. -
Il padre si alzò di cattivo umore, immaginandosi che, come gli anni precedenti, nei prati non fosse
rimasto quasi nulla da mietere, e i due figli maggiori gli andarono dietro.
Splendeva un bel sole e tutto era già asciugato, nè rimaneva traccia della passata di grandine della
notte scorsa.
Giunti ai prati, con somma maraviglia i tre uomini videro che l’erba non era stata toccata e che si
ergeva folta e rigogliosa come il giorno prima.
Intanto Briciolino, che da lontano aveva veduto anche lui come i prati fossero intatti, mentre suo
padre e i suoi fratelli stavano a fare le maraviglie di quel bel fatto, andò nel bosco ed entrò nel casotto di
cui la chiave era affidata a lui, e dove non andava mai nessuno; e avendo portato con sé un po’ di fieno,
lo diede a Ramiro, così aveva messo nome al cavallo, per l’armatura di cui era carico.
Egli si trattenne tanto in ammirazione di quel l’animale e della sua bardatura, che dimenticò di
andare a mietere con suo padre e i suoi fratelli; i quali, non vedendolo, lo cercarono dappertutto e
finalmente pensarono che potesse essere nel casotto del bosco.
Quando Briciolino li sentì avvicinare, fu preso da una grande paura: credé che, vedendo il cavallo,
glielo prendessero, lo strapazzassero, per finir poi col venderlo; e tutto sgomento il ragazzo si voltò a
guardar verso la porta da cui entravano i suoi fratelli; ma mentre rivolgeva poi il viso tutto confuso
verso il cavallo, si accorse che l’animale era sparito e nel casotto non rimanevano che accette e altri
arnesi adoprati dai boscaiuoli.
- Che cosa fai qui, vagabondo? - disse il maggiore dei fratelli entrando e allungando un calcio che
fortunatamente Briciolino, con la sua sveltezza, poté schivare. - È questo il bel modo con cui ci aiuti a
mietere? Ma che cosa facevi qui? -
Il giovinetto mormorò qualche scusa, dicendo di esser venuto lì a ricercar la sua falce che credeva di
avervi lasciata, non trovandola in nessun luogo; e appunto, mentre fingeva di cercare, la sua falce
luccicò, senza ch’egli ve l’avesse posta, in un angolo del casotto.
Tutti i giorni Briciolino si recava a far la sua visita a Ramiro e a portargli un po’ di fieno, perchè
quando egli entrava solo nel casotto il cavallo ricompariva, sparendo soltanto allorché vi andava qualche
altra persona.
Trascorse in tal modo un anno, e l’anno seguente, alla vigilia della mietitura, il contadino chiamò il
suo figliuolo minore e gli disse:
- Senti, Briciolino, giacché l’anno passato fa cesti così buona guardia ai prati, dovresti andar tu anche
questa volta a vigilare; mi fido più di te che di quei dormiglioni dei tuoi fratelli. —
Il giovanetto non chiedeva di meglio, e venuta la notte andò a porsi nello stesso luogo di vedetta in
cui s’era messo l’anno passato.
Tutto si ripeté esattamente come la prima volta: la grandine, la vista di un cavallo, la schioppettata
inutile, la cattura dell’animale fatta da Briciolino che condusse anche quello nel solito casotto dove tutti
i giorni andò poi a vederlo e a portargli il fieno. Soltanto, questo secondo cavallo era grigio, e l’armatura
che portava sulla sella, invece di esser di rame, era tutta d’argento come i suoi fini menti. Il giovane lo
chiamò dunque Argentino.
Felice di posseder due cavalli, soltanto visibili a lui, Briciolino continuò lietamente le sue faccende
per tutto l’anno, fra gli scherni dei suoi fratelli che lo beffavano perché era meno alto di statura e più
mingherlino di loro, e fra le lodi di suo padre che si era tanto riavuto nel poter fare come in passato la
sua bella raccolta di fieno.
Giunti dopo un anno alla nuova mietitura, il contadino chiamò il giorno prima di essa il suo figliuolo
minore e gli espresse il desiderio che an che quella volta facesse lui la guardia ai prati.
Briciolino gli disse che stesse tranquillo, perché era sicuro che anche quell’anno vi sarebbe stata una
bella raccolta.
E' inutile raccontare come andarono le cose: ba sta dire che tutto si ripeté, che il fieno raccolto durò
fatica a entrar nel fienile, che Briciolino poté mettere un terzo cavallo nel casotto e andare a portargli
tutti i giorni il fieno; solamente, quest’ultimo cavallo era bianco e l’armatura che portava sulla sella,
come pure tutti i suoi finimenti, erano d’oro. Il giovane lo chiamò dunque Auro.
Erano così trascorsi tre anni, e Briciolino era ormai diciottenne. Il giovane non pensava che al suo
lavoro e al suo segreto possesso dei tre cavalli, struggendosi di poterli un giorno o l’altro cavalcare; e
poco dopo l’ultima mietitura l’occasione propizia si presentò.
Il Re del paese in cui abitava il contadino con la sua famiglia aveva una figlia bellissima che gli era
stata chiesta in moglie da più di un principe, ma che egli non aveva voluto maritare, tanto era il
dispiacere di doversi staccare da lei.
Immaginò dunque, quel Re, di mettere a un duro cimento i pretendenti alla mano di sua figlia, sicuro
che nessuno ne uscirebbe vittorioso, e così ella rimarrebbe ancora qualche anno presso di lui.
V’ era nel suo regno un’altissima montagna fatta a cono, tutta quanta d’avorio. Una tal maraviglia era
unica sulla terra, e la gente veniva dai più lontani paesi, perché nessuno, fin che non l’aveva vista,
credeva alla sua esistenza.
Il Re aveva fatto bandire in tutte le chiese e pubblicare su tutte le piazze, dentro e fuori del suo
regno, che egli avrebbe dato sua figlia in sposa al giovane principe, o almeno nobile, il quale, nei giorni
ch’egli indicava, riuscisse a salire fino in vetta a quella montagna e portasse a lui le tre mele d’oro che si
trovavano in grembo a una sta tua, pure d’oro, rappresentante sua figlia. Al vincitore il Re avrebbe pur
dato metà del suo regno.
Molti furono i cavalieri che si presentarono al l’ardua prova, tutti coperti di splendide arma ture, e
ciascuno era sicuro di vincere.
Tutto il popolo s’era affollato dinanzi alla montagna per assistere alla gara.
Anche i due fratelli di Briciolino avevano vo luto essere fra gli spettatori, ma quando egli ave va
dimostrato desiderio di unirsi a loro, si erano messi a canzonarlo e gli avevano detto che non
intendevano affatto di scomparire nel condurre con sé un giovanotto così brutto e stento, e, quel che
era peggio, con quei vestiti così trasandati e logori.
Difatti Briciolino era vestito malissimo perché nessuno si ricordava mai di fargli uno di quei begli
abiti che i suoi fratelli indossavano, né lui chiedeva mai nulla; ma un giovanotto stento non poteva dirsi
davvero: non era un colosso, no; ma un giovane di media statura, snello e ben proporzionato, e di
un’eleganza naturale nel portamento e nei modi:
- Allora, se non mi volete portar con voialtri, andrò da me, - disse pacatamente il giovane.
- Vestito a codesto modo? Ci farai una bella figura!
- Ma io vo per vedere e non per esser visto -, rispose Briciolino.
Quando i due fratelli maggiori giunsero dinanzi alla montagna, la videro brulicante di uomini a
cavallo che tentavano di ascenderla; ma non ap pena i destrieri, con gran fatica, tutti coperti di schiuma,
avevano oltrepassato le sue falde un po’ scabrose, i due versanti di essa erano così li sci che, mancando
il più piccolo incavo o il più breve aggetto per posarvi il piede, quei poveri animali sdrucciolavano
sull’avorio e precipitavano rotolando nella valle dove si ergeva la montagna.
Il loro esempio non toglieva ad altri cavalieri la bramosia di concorrere all’ambito premio; e tutti
pieni di baldanza essi salivano: ma nessuno oltrepassava il punto in cui li aspettava la morte.
Tanta era l’affluenza della gente venuta per godersi lo spettacolo di quel cimento, che i due fratelli di
Briciolino, per quanto lo cercassero con l’occhio tra la folla, non poterono scorgerlo. Poi dissero che
forse ci aveva pensato meglio ed era rimasto a casa.
Verso la fine della giornata, la Principessa, che assisteva alla gara da un palco eretto dinanzi al
versante meridionale della montagna, vedendo la tragica fine di tutti quei poveri giovani disse a suo
padre di sospender le gare e di sceglierle uno sposo ricorrendo a qualche altro mezzo meno crudele.
Mentre ella stava per alzarsi e andarsene con le sue dame, un lungo suono di tromba annunziò che
un altro cavaliere, il quale montava un fo coso cavallo nero, tentava l’ascensione della montagna.
La Principessa si volse, e l’aspetto di quel nuovo cavaliere, di una figura così snella e aggraziata nella
sua armatura di rame, le fece balzare il cuore. Essa non gli vedeva il volto nascosto sotto la visiera
abbassata, ma un animo le diceva che doveva essere bello e gentile come tutto il resto della sua persona.
Molti spettatori gli gridarono di non avventurarsi; la Principessa era combattuta da due di versi
sentimenti: avrebbe voluto col suo fazzoletto fargli segno di ritirarsi, e al tempo stesso provava una gran
bramosia che tentasse la prova e che la vincesse proprio lui, per potergli dare la mano di sposa.
Rattenendo il fiato, ella stette a guardare l’esito dell’audacia del nuovo cavaliere.
Salito sveltamente fino al punto in cui gli altri erano giunti con fatica, il suo cavallo nero bar dato di
rame si attaccò con le zampe al fianco della montagna, e la gente lo vedeva prodigiosamente progredire
su di essa; fino a che, ascesane una terza parte, il cavaliere voltò il cavallo e ritornò di dove era venuto.
Ma quando fu per toccar la valle, una delle mele d’oro che la statua posta in vetta al monte teneva in
grembo cadde come una palla e rimbalzò fino al cavaliere che la riprese destramente, quindi, messo il
cavallo di galoppo, sparì senza che nessuno potesse dire da qual parte se n’era andato.
Come era stato bandito, la sera stessa di quel giorno i cavalieri che avevano preso parte alla gara
avrebbero dovuto presentarsi a una festa data nel palazzo reale, e il giovane che avesse potuto mostrare
una delle mele d’oro tolta al grembo della statua avrebbe potuto continuare il giorno seguente nella gara
insieme coi nuovi cavalieri che vi si sarebbero cimentati.
Ma purtroppo nessuno comparve a quel ballo, perché, tranne uno, tutti i giovani che in quel giorno
avevano mostrato la loro audacia erano morti; e l’unico superstite non credé bene di recarvisi.
La Principessa ne fu molto afflitta.
La sera, quando i due fratelli tornarono a casa domandarono a Briciolino se era andato a veder la
gara; ma egli disse che dando retta al loro consiglio era stato invece a scaldarsi nel canto del fuoco.
Allora essi raccontarono al padre ed a lui le vicende di quella giornata, e descrissero con
ammirazione il cavaliere con l’armatura di rame, il solo che fosse uscito vivo dal cimento, sebbene non
avesse interamente vinto la prova.
Neanche il secondo giorno i due fratelli di Briciolino vollero mancare a quello spettacolo, e la sera,
tornati a casa, raccontarono che anche quel giorno erano morti tutti i cavalieri che s’ erano provati a
salir sulla montagna, tranne uno, venuto l’ultimo di tutti, quando già la Principessa s’ era alzata per
porre fine alle gare.
Quel cavaliere, essi narrarono, montava un cavallo grigio bardato d’argento, ed era interamente
coperto d’una magnifica armatura d’argento. Benché la gente lo sconsigliasse, con grande sveltezza il
suo cavallo aveva salito le falde della montagna, poi, come il giorno precedente, aveva cominciato la sua
faticosa ascensione, giungendo fino a due terzi di essa; ma a quel punto il cavaliere aveva voltato il
cavallo e se n’era ritornato da dove era partito; a un tratto però s’era veduto una delle mele d’oro cader
di grembo alla statua, scendere nella valle e rimbalzare in modo, che il giovane aveva potuto
destramente acchiapparla; quindi era sparito, senza che si sapesse da che parte era andato.
La sera nessuno dei cavalieri si presentò al ballo dato dal Re. La Principessa, costernata, non sapeva
che pensare della sparizione del bel cavaliere che con un altro po’ di sforzo poteva riuscire vincitore.
Non mancava ora che un giorno al termine delle gare; Briciolino pregò i fratelli di condurlo con loro,
desiderando di vederne almeno la fine; ma essi gli dissero che si vergognasse di pensare di andar con
loro con quell'unico vestito che aveva.
La sera, al loro ritorno, fecero al padre e al fratello il racconto di ciò che avevano veduto: dissero
cioè che tutto era andato come nei due giorni precedenti: soltanto, alla fine della giornata, quando la
Principessa era così presa dall’agitazione che perfino il popolo si accorgeva di qualche cosa
d’insolito in lei, era comparso, sopra un cavallo bianco bardato d’oro, un cavaliere con una completa
armatura d’oro, che non solo questa volta era arrivato, come se cavalcasse in piana terra, ai due terzi,
ma aveva continuato ad andare innanzi fin che non era giunto in vetta alla montagna e aveva raccolto
dal grembo della statua d’oro l’ultima mela rimasta di quel prezioso metallo; poi era ridisceso
velocemente, e giunto nella valle era sparito agli occhi di tutti come le due sere precedenti.
- Oh, come l’avrei visto volentieri quel bravo cavaliere! - esclamò Briciolino.
- Peccato che tu non ci fossi! - disse ironicamente il fratello maggiore. - Potevi paragonare la sua
bellezza alla tua.
- Perché non vai a vederlo al ballo di Corte? disse per canzonatura l’altro fratello. - Essendo stasera
l’ultima festa, non vi mancherà di certo. -
Quando tutti erano a letto, Briciolino si alzò.
Era un po’ mesto, perché dopo ogni gara uno dei suoi cavalli era sparito, e si figurava che andando
quella sera nel casotto non vi troverebbe più nemmeno quello bardato d’oro.
Tuttavia, volendo esserne sicuro, andò a fare secondo il solito la sua visitina al ripostiglio. Ahimè, la
stanzetta era vuota; ma nel posto dove c’era stato il cavallo, Briciolino vide le tre mele d’oro al
conquistatore delle quali il Re avrebbe dato la sua figliuola in moglie.
Il giovane non si arrischiava a presentarsi alla Corte per chiedere la mano della Principessa: era figlio
di un contadino e il Re aveva indetto la gara fra principi, o per lo meno fra giovani di antica e grande
nobiltà.
Anche quella sera le sale reali aspettarono in vano il cavaliere vincitore.
La Principessa non sapeva darsi pace della sua assenza.
- Possibile - diceva - che abbia affrontato quel grande pericolo per me, e poi non si presenti a
chiedere la ricompensa? Gli sono forse parsa tanto brutta da non volermi in isposa? Dev’essere proprio
un uomo singolare, unico al mondo, poi ché mio padre aveva promesso al vincitore anche la metà del
suo regno! -
La fanciulla cadde in così profonda malinconia, che il Re suo padre, dopo aver tentato ogni mezzo
per sollevarla, sentito dalla sua bocca che ella non potrebbe più tornare allegra fino a che non si fosse
presentato a chiedere la sua mano il giovane vincitore del cimento, per quanto dolente di doversi
separar dalla figlia e di esser costretto a cedere la metà del regno, piuttosto che vederla deperire, e forse
morire, credé meglio tentare ogni mezzo per rintracciare il giovane vincitore.
Ordinò dunque che bandissero per tutte le piazze del suo regno e fuori di esso che il giovane che
possedeva le tre mele d’oro si facesse pure avanti, chiunque egli si fosse, per ricevere dal Re il premio
promesso.
Allora Briciolino, che anche lui era parecchio dimagrato e si sentiva triste perché gli occhi della bella
Principessa lo avevano ferito, si fece animo, e siccome il padre mandava sempre lui al mercato a
vendere gli ortaggi e le frutta, una mattina si ripulì i vestiti meglio che poté, si lavò ben bene e si ravviò;
poi andò al casotto dove aveva nascosto dietro delle fastella le tre mele d’oro, prova della sua vittoria, le
pose in un panierino, le coprì con delle vere frutta colte allora nell’orto, vi pose sopra alcuni bei fiori
odorosi, e prima che in casa qualcuno fosse alzato s’incamminò alla città, e, appena giuntovi, si diresse
al palazzo reale.
Quando si presentò al guardaportone, egli disse che la Principessa aveva mandato a dire al contadino
suo padre di desiderar delle frutta sane e fresche, e suo padre si era affrettato a mandarle dentro quel
panierino le più belle che avesse trovate, pregandola di gradirle; soltanto, egli desiderava di riavere il
panierino che suo figlio stesso le aveva portato.
Quando la Principessa si alzò, secondo il solito molto mesta, la sua balia, che stava sempre a Corte
con lei, le portò come ogni mattina la colazione; ma la fanciulla disse che non poteva mangiare, e che la
sola cosa che se mai avrebbe potuto prendere sarebbe qualche frutto, sentendosi la gola arida e la bocca
riarsa.
La buona donna, che tanto si affliggeva nel veder la Principessa sempre malinconica, corse subito a
cercarle ciò che essa desiderava, e nell’anticamera trovò dei servitori che si. bisticciavano, poiché
qualcuno di loro diceva che bisognava portar subito quel panierino alla Principessa, qualche altro che
non conveniva portarle nulla senza prima chiederne il permesso al Re; e v’era anche chi proponeva di
levare i fiori e portare le belle frutta che v’erano sotto nella stanza dove mangiava la servitù e
dividersele, tanto la Principessa non ne avrebbe saputo niente; e poi quello non era un regalo da farsi a
lei.
Ma quando giunse la balia e vide quel panierino, tagliò corto a tutti i discorsi prendendolo per
vederne il contenuto; e siccome era di campagna e anche lei aveva tante volte coperto le uova o le frutta
coi fiori per portarle ai padroni, guardò sotto alle belle rose che le mani dei servitori avevano un po’
scomposte, e tutta contenta nello scorgervi delle bellissime pesche si affrettò a ritornare
nell’appartamento della Principessa.
La fanciulla si rasserenò un poco vedendo quei bei fiori, e da se stessa li accomodò in un
preziosissimo vaso; poi disse alla balia di togliere tutte le frutta e metterle in un grande vassoio che era
sulla tavola su cui ella soleva far colazione.
Ella stessa aiutò la donna a togliere dal panierino le belle pesche vellutate e alcune grosse albicocche
che vi si trovavano; ma giunte all’ultimo strato delle frutta, così la balia come la Principessa emisero un
grido.
La presenza delle tre mele d’oro di cui la Principessa aveva con tanta ansia atteso il ritorno la fece
rimanere come di pietra; quando si riebbe, le prese in mano, le guardò bene, le rigirò, e dai segni che
v’erano impressi perché nessuno potesse falsificarle, essa ebbe la certezza che si trattava proprio delle
tre mele già tenute in grembo dalla statua d’oro che era in vetta alla montagna e portate con sé dal
cavaliere che per tre volte s’era presentato a prender parte alla gara: la prima in una lucida armatura di
rame, la seconda in una brillante armatura d’argento, e la terza, nella quale aveva raggiunto proprio la
meta, in una sfolgorante armatura d’oro.
- Ma chi ha portato questo paniere? - domandò concitatamente la Principessa. - Chi ve lo ha dato,
balia? -
Il guardaportone aveva detto ai servitori che un contadinello aspettava nell’atrio del palazzo il
panierino vuoto, ma essi non si erano degnati di riferir quelle parole alla balia.
Quando la Principessa ebbe saputo come quelle frutta fossero pervenute nelle mani della donna,
essa la incitò ad andar subito a vedere da chi fosse stato portato quel panierino di fiori e frutta, e così di
bocca in bocca la balia venne a sapere che v’era nell’atrio del palazzo il contadinello che lo aveva
portato.
Sicura di far piacere alla Principessa, essa mandò subito a prendere il giovane, e scortandolo
attraverso molte sontuose sale della reggia, lo fece aspettare un momento in un salottino che precedeva
la camera della figlia del Re.
Alla notizia che vi era lì il portatore delle frutta, la fanciulla uscì di camera precipitosamente, ed
entrata nel salottino scòrse il giovane che, anche coi suoi rozzi e logori panni, appariva bello e gentile.
Appena lo vide, la Principessa si sentì tutta turbata: la statura, il portamento, le movenze di quel
giovane... Ma no, non poteva essere! Ed ella cominciò ansiosamente a interrogarlo, scongiurandolo di
farle sapere con tutta verità come fosse in possesso delle tre mele d’oro.
Allora Briciolino disse che avrebbe dovuto farle un lungo racconto, e incoraggiato dalla Principessa,
le riferì tutto ciò che di così prodigioso gli era accaduto in quegli ultimi tre anni, incominciando dal dirle
delle sue veglie a guardia del fieno, e narrandole poi l’apparizione e la cattura dei cavalli e la prova
ch’egli aveva voluto tentare con l’aiuto di essi.
Via via ch’egli parlava, la Principessa sentiva allargarsi il cuore, e guardava con occhi sempre più
amorosi il giovane che, infervorato nel suo racconto, col volto colorito, le pupille splendenti, appariva
bellissimo.
Quando egli fu giunto alla fine della sua narrazione, disse che non aveva osato presentarsi ai balli
della Corte né manifestarsi per avere il premio, essendo di troppo umile nascita e condizione; ma che
poi, udito bandire che Sua Maestà invitava il possessore delle tre mele, chiunque fosse, a presentarsi alla
Corte, si era arrischiato a farsi conoscere in quell’umile modo.
La Principessa, tutta commossa, corse da suo padre, e portando con sé la frutta d’oro gli fece il
racconto di quel che era accaduto.
Il Re, che sulle prime si era molto rallegrato nel veder sua figlia così raggiante di gioia, provò come
una trafitta al cuore al pensiero di doversi separare da lei e di dover cedere la metà del suo
regno; e per prendere almeno un po’ di tempo, finse di mostrarsi incredulo che le tre mele d’oro fossero
veramente quelle che già si trovavano in grembo della statua d’oro. Fattosi portare dinanzi il giovane, il
Re lo squadrò con piglio severo e gli disse:
- E chi mi assicura che voi siate proprio il le gittimo proprietario delle tre mele d’oro che avete
portate a mia figlia? -
Briciolino rimase tutto confuso e balbettò che non aveva nulla da aggiungere al racconto fatto alla
Principessa.
- Allora potete andare! - gli disse brusca mente il Re. - Ritornerete quando potrete giustificare la
provenienza delle tre mele preziose. -
E avendo steso l’indice per additare a Briciolino la porta, le tre mele d’oro ch’egli teneva in mano
caddero in terra, e il Re, la Principessa e Briciolino stesso rimasero intontiti nel vedere che a poco a
poco quelle mele s’ingrandivano, si aprivano, e sprigionavano il loro maraviglioso contenuto.
Dalla prima venne fuori un abito di raso bianco, calze e scarpette che ben vi si accompagna vano,
una collana d’oro e altri oggetti che andarono tutti in un baleno a rivestire Briciolino, stupefatto.
Dalla seconda uscì Auro, il cavallo bianco bar dato d’oro che aveva condotto Briciolino alla vittoria.
Dalla terza scattò la completa armatura d’oro indossando la quale il giovane era salito fino in cima
alla montagna d’avorio. In un momento, quell’armatura andò a ricoprire interamente Briciolino che
apparve così dinanzi agli occhi attoniti del Re e a quelli ridenti della Principessa, come s’era presentato
nell’ultimo giorno della prova.
Allora il Re non poté più dubitare né fingere di dubitare, e senza fare opposizione, concesse al
fortunato giovane la mano della graziosa Principessa e la metà del suo regno.
LA BUONA MOGLIE

C’ era una volta una Regina prodigiosamente bella, ma superbiosa e bisbetica quanto mai.
Un giorno ella andò, come era solita, a fare una passeggiata in carrozza, e nei dintorni della capitale
vide sulla porta di una casupola un bambino zoppo e con le spalle curve.
La Regina, che non poteva soffrire le persone deformi, cominciò a canzonarlo, tanto che il povero
bambino si mise a piangere; sua madre, che era dentro la casupola, se ne rattristò molto, e poiché quella
malignità le pareva addirittura troppo grossa, andò dalle Fate a lamentarsi che la cattiva sovrana
deridesse un povero infelice.
- Vedrete che se ne pentirà! - dissero le Fate.
Quella Regina aveva un unico figlio, chiamato Giovannino, del quale ella andava orgogliosa perchè
era il più bel giovinetto che potesse trovarsi anche a girar parecchie miglia. Pochi giorni dopo accaduto
il fatto della canzonatura, Giovannino cominciò a empirsi d' ispidi peli nel viso e nelle inani, e via via
per tutta la persona; poi, invece di camminare come era solito, si mise ad andare a gattoni.... Insomma,
per farla breve, a poco a poco sua madre lo vide cambiato in un ripugnante maialino.
È facile immaginarsi l’orrore della Regina nel vedere una cosa a quel modo! Piangendo e
singhiozzando, ella corse dalle Fate e le supplicò di rendere al suo figliuolo il suo aspetto naturale; ma le
Fate le voltarono le spalle mormorando parole incomprensibili, sicché la Regina tornò alla reggia più
disperata che mai, e vi trovò Giovannino da far proprio disgusto da quant’era sudicio per essersi
rotolato nel fango.
Giovannino per altro sapeva tutto della propria sorte, perché la Fata sua comare gli aveva parlato in
sogno. Essa gli aveva detto che se una bella fanciulla non si fosse innamorata di lui così come era e lo
avesse sposato, sarebbe rimasto un animale immondo per tutta la vita.
Un giorno egli andò a girovagare per la campagna e arrivò a un mulino dove abitava un mugnaio con
le tre sue figliuole, le più belle ragazze del paese. V’era sulla soglia la maggiore, e Giovannino le si
avvicinò; ma ella lo respinse col piede dicendogli:
- Va’ nel tuo stalletto, brutta bestiaccia! -
Il povero Giovannino ruzzolò due scalini e si sentì proprio umiliato. Un Principe, esser trattato a
quel modo dalla figlia di un mugnaio!
Quando giunse a casa si chiuse in camera, e per parecchi giorni non volle né mangiare né bere.
Ma pure, dopo un po’ di tempo gli venne in mente di ritentare la sorte, e tornò al mulino.
La ragazza mezzana era seduta sugli scalini, ma quando Giovannino le si avvicinò, essa gli tirò un
calcio, gridandogli:
- Via, via di qui, orrendo animalaccio! -
Anche quella volta la tristezza di Giovannino fu grande, tanto era sicuro che nel mondo non
troverebbe mai una ragazza, non solo che accondiscendesse a sposarlo, ma nemmeno che lo guardasse
con compassione; per cui dovrebbe rimanere in quello stato tutta la vita.
Si buttò dunque sul letto, e per parecchio tempo vi rimase senza più muoversi.
Finalmente un giorno si sentì come spinto a uscir fuori, e sulle sue quattro zampe trotterellò fin che
giunse a poca distanza dal mulino. E da lontano vide la minore delle tre figlie del mugnaio la quale dava
da beccare ai pulcini.
«Se mi allunga una pedata quella bella ragazza, non mi rimane più nulla da sperare in questo mondo!»
pensò Giovannino mentre le si avvicinava.
Era tutto inzaccherato, perché per arrivar lì aveva dovuto attraversare parecchi pantani; tuttavia si
fece animo e si accostò alla graziosa Giustina, la quale, invece di respingerlo, disse benevolmente:
- Come ti sei insudiciato, poverino! -
Giovannino, molto incoraggiato, fece un altro passo e mormorò:
- Ditemi un po’, bella ragazzina, sarà mai possibile che mi vogliate un po’di bene?
- Ma sicuro, povero animaluccio! — rispose la fanciulla.
Questa risposta fece gongolar Giovannino, il quale, diventando sempre più ardito, bisbigliò:
- E.... sposare mi potreste, bella figliuola?
- Perché no? — replicò Giustina.
Allora il principe–quadrupede, non stando più in sé dalla contentezza, le disse di camminargli
accanto, e passo passo condusse fino alla reggia la fanciulla stupefatta.
I cortigiani si rallegrarono ch’egli avesse trovato la persona che poteva farlo ritornare nel suo antico
stato. Senza porre tempo in mezzo, fu tutto preparato per la cerimonia nuziale, e Giustina giurò fedeltà
a quello sposo di nuovo genere.
Quando però Giovannino fu in camera con la sua sposa, egli riprese immediatamente l’aspetto «lei
bel giovane che era prima, e a Giustina, che lo guardava con gli occhi sgranati, egli disse:
- Io rimarrò sempre così, a patto però che per tre mesi, tre giorni e tre ore nessuno ne sappia nulla, e
che tu sola mi veda come io sono. -
Naturalmente Giuslina promise che non avrebbe affatto parlato di quel prodigio, e per due mesi gli
sposi furono perfettamente felici. Ma poi la gente principiò a provare invidia che la figlia del mugnaio
fosse sempre tanto contenta e innamorata di suo marito, benché fosse un animale immondo, e vi fu chi
cominciò a mormorare che Giustina lo aveva sposato tanto per essere una principessa, ma che doveva
detestare Giovannino sotto quella forma; oppure che vi fosse sotto qualche mistero e che il Principe
non fosse sempre il brutto animale che sembrava.
Queste ciarle giunsero all’orecchio della Regina, che era già un po’ in sospetto, ed ella s’ingelosì
moltissimo perché era quasi sicura che la sua nuora fosse a conoscenza di cose ch’ella ignorava. Sicché
ella cominciò a tartassare la buona sposina, e una sera la chiamò a sé e le disse:
- Ditemi un poco, figliuola del mugnaio, come mai sposaste mio figlio?
- Perché gli volevo bene.
- È vero quel che ho sentito dire, che a volte mio figlio si trasforma in un bel giovanotto?
- Forse che sì forse che no.
- Ma com’ è mio figlio quando è solo con voi?
- Questo non ve lo posso dire. -
Ciò inasprì ancor più la Regina, che borbottò:
- Verrò da me a veder mio figlio quando dorme.
- Codesto non lo farete! - esclamò Giustina.
- No? Me lo vorreste forse impedir voi, pettegola che non siete altro? - gridò la Regina furibonda. -
V’ insegnerò io a rispondere a codesto modo a una Regina! Io verrò a vedere mio figlio quando mi pare
e piace, senza occuparmi se voi siate contenta o no. Io sono la Regina, e qui dentro comando io. E se
direte un’altra parola, vi farò tagliare codesta stupida testaccia.
- Allora passate in camera, - singhiozzò Giustina.
Per cui quella notte, quando Giovannino si fu addormentato, Giustina levò il segreto dalla porta e
lasciò passare la Regina; e quando la Regina vide suo figlio così bello, gridò:
- Oh, figliuolo, siete proprio uno splendore! —
Questa esclamazione svegliò Giovannino, il quale fu immediatamente cambiato in un uccello con
una lunga coda d’oro, che volò via dalla finestra dicendo a sua moglie:
- Per ritrovarmi dovrete camminar per sette anni, consumare sette paia di scarpe fatte di ferro, e
riempire con le vostre lacrime sette fiasche: allora soltanto potrò tornare a esser vostro marito. -
E si librò nell’aria lasciando dietro a sé come una scia dorata.
La povera figlia del mugnaio si sentì soffocar dai singhiozzi quando si accorse che Giovannino se ne
era proprio andato; ma ricordandosi delle parole da lui pronunziate nell’ allontanarsi, si procurò subito
sette paia di scarpe di ferro fatte alla sua misura e sette fiasche nelle quali raccogliere le lacrime che
verserebbe lungo la via, e cominciò il triste pellegrinaggio voluto dal destino. Per mesi e mesi essa
viaggiò superando montagne, attraversando pianure, passando per strade sassose, per balzi, per
scoscendimenti, pungendosi ai rovi, perdendo la via in contrade ignote, domandando a tutti quelli che
incontrava se avevano veduto l’uccello con la coda d’oro; ma nessuno le sapeva dare indicazioni.
Quando ebbe camminato per quasi sette anni e consumato tutte le scarpe fuorché il paio che aveva
in piedi, e pianto tanto da riempir con le sue lacrime le sette fiasche, rimanendo alla fine con gli occhi
inariditi, ella giunse a una folta foresta, e in una parte molto ombrosa vide una casetta. Affacciata alla
finestra c’era una vecchierella col viso pieno di rughe, e Giustina le domando:
- Buona donna, avreste per caso veduto l’uccello con la coda d’oro?
- No, carina mia, non l’ho veduto. Forse lo avrà visto mio marito Barberaccio; ma sarà meglio che vi
allontaniate prima ch’egli ritorni, perchè è un Orco, e se vi trovasse qui vi mangerebbe. Questo è il
paese degli Orchi.
- Cara signora Orchessa, per carità, fatemi passare in casa e nascondetemi in qualche posto. Forse
potrei venire a sapere dov’ è il mio Giovannino; e poi son così stanca, che stanotte non avrei forza di
fare un passo di più. -
L’ Orchessa non voleva accondiscendere a quel desiderio per la paura che suo marito tornando
divorasse quella poveretta che le faceva proprio pietà; ma Giustina insisté tanto, che finalmente l’
Orchessa la fece entrare e la nascose in una botte vuota.
Poco dopo giunse l’ Orco e cominciò a fiutar dappertutto; poi disse:
- Sento un buon odor di roba da mangiare. Dove l’hai riposta?
- Ma se non c’è nulla, vecchio balordo! - gli rispose sua moglie. - Stamani c’è stato gente a
domandare se qui si sapeva nulla d’ un certo uccello con la coda d’oro....
- Non ne so niente, io! - grugnì l’Orco.
- So invece che in questa casa c’ è roba da mangiare - lo sento all’odore.
E cavandosi di tasca uno zufolo magico cominciò a zufolare, e a quel suono, tutto quel che v’era in
casa cominciò a saltellare e a ballare, e a schizzare in qua e in là.
V’ è da figurarsi la povera Giustina dentro la botte! Veniva sbattuta da ogni parte ed era tutta
contusa; ma ella non proferì un lamento; e finalmente l’ Orco, rimasto persuaso che non v’ era nulla da
soddisfare il suo appetito, andò a letto tutto stizzito e affamato, e la mattina presto si levò e andò a
caccia.
Appena Barberaccio fu fuor di vista, l’Orchessa andò alla botte e ne fece uscire Giustina dicendole
benevolmente:
- Povera figliuola, quanto mi rincresce per voi! Chi sa come siete tutta ammaccature e lividi! E non
avete nemmeno potuto saper nulla dell’uccello che cercate. Prendete questa castagna e apritela in
qualche momento di gran bisogno. -
Giustina uscì fuori, e per tutta la giornata andò a girar per il bosco, fino a che, la sera, giunse a
un’altra casa, anche quella quasi nascosta in un folto di piante.
Ella bussò e chiese la carità di un alloggio per la notte.
- Oh, donnina mia, scappate più presto che potete! - rispose la vecchia che andò alla porta. - Non lo
sapete che questo è il paese degli Orchi? Il bosco ne è pieno. Se Ganascione vi trova qui quando ritorna
a casa, vi mangia in pochi bocconi.
- Cara signora Orchessa, io sto cercando l’uccello con la coda d’oro. Se vostro marito è davvero un
Orco, egli può sapere dove sia. Per carità, fatemi passare in casa, e potrebbe darsi che avessi la fortuna
di raccapezzar qualche cosa! -
La buona Orchessa s’impietosì, e fatta passare Giustina la nascose dentro una scarpa dell’ Orco.
Poco dopo entrò Ganascione e cominciò ad annusar l’aria.
- C’ è gente in questa casa! - disse a sua moglie.
- Gente? Ci son io, si sa. Via via, che cosa annusate, vecchio grullo? A proposito, stamattina è venuta
una ragazza a domandare se si sapeva nulla di un certo uccello con la coda d’oro.
- Io non conosco uccelli con la coda d’oro, - ruggì Ganascione - ma se trovo qualcuno nascosto in
casa mia, me la pagherete. -
E cavandosi di tasca un fischio si mise a fischiare fino a che tutte le masserizie e gli utensili che
v’erano in casa non andarono sottosopra: le seggiole furono scaraventate da mani ignote sul davanzale
della finestra; la tavola andò a batter contro il soffitto, e perfino le scarpe, in una delle quali era nascosta
Giustina, rimbalzarono a una grande altezza, poi ricaddero in terra capovolte. La poveretta credé di
morir soffocata, ma il suo crepacuore era di non aver potuto saper nulla di Giovannino.
La mattina dopo, quando Ganascione fu uscito di casa, la moglie dell’ Orco andò a tirar fuori dalla
scarpa la povera Giustina, e dopo averle rivolto qualche benevola parola le diede una nocciuola
dicendole:
- Prendete questa nocciuola e apritela in qual che momento di gran bisogno. -
La figlia del mugnaio se ne andò via tutta me sta, non sapendo dove rivolgere il passo, tanto si
sentiva stanca e indolenzita. Pure non volle fermarsi, e sebbene non potesse camminare svelta, quando
giunse la notte si trovò a un’altra casa proprio in fondo al bosco. V’era affacciata alla finestra una brutta
vecchia, che appena vide Giustina le vociò:
- Via, via di qui, scimunita, se no vi mando via io a furia di busse!
- Per piacere, signora, mi potreste dire se ave te veduto svolazzare per qui un uccello con la coda
d’oro?
- Andate via, levatevi di torno, voi e le vostre scarpacce di ferro! Io non ne so nulla dell’uccello con
la coda d’oro. Lo avrà visto di certo mio ma rito, perché lui va dappertutto e sa ogni cosa. Ne avrete
sentito parlare di Mangialupi! Se vi vede, potete star sicura che in un baleno vi sgranocchia con le scarpe
di ferro e tutto! Ah, ah, ah! -
E la vecchia diede in una risataccia.
- Per carità, signora, fatemi passare la notte in casa vostra! Potrei aver la fortuna di venire a sapere
dove si trova l’uccello che cerco. Via, siate buona, nascondetemi in qualche posto!
- Se non ve n’ importa d’esser mangiata, cara mia, venite pure, - rispose l' Orchessa con voce un po’
meno feroce.
E tirando la corda disse a Giustina di passare; e la nascose sotto un monte di sassi e di calcinacci che
erano in un cantuccio della cantina.
Nel più fitto della notte tornò a casa Mangialupi affamato e inviperito.
Appena entrato andò a girar per tutte le stanze, fiutando dovunque e dicendo:
- Qui c’ è carne fresca di bestia giovane!
-Ma chetatevi, vecchio barbogio! - barbugliò sua moglie. - Ditemi un po’: mi potete dar notizie,
Orchettaccio mio, di un certo uccello con la coda d’oro?
- Come mai vi preme di saperlo? E perché lo domandate a me? Son forse io il Re dei Venti? Ditemi
invece, ma ditemelo subito, se no vi va poco bene, dove avete nascosto la carne fresca. -
E siccome sua moglie, invece di rispondergli, si mise a rabbuffarlo, coprendolo di tutti i vituperi, egli
tirò fuori di tasca un piffero e fece una sonatina.
Allora tutta la casa cominciò a ballare: seggiole, stufa, armadi, tavole, tutto turbinava come se un
uragano facesse mulinare ogni cosa. Perfino l’ Orchessa non sfuggì a quella ridda vertiginosa e andò a
battere prima nei vetri delle finestre poi nel soffitto.
Quanto alla povera Giustina, che si trovava in cantina sotto un mucchio di sassi e di calcinacci, v’è
da immaginarsi se in quel turbinio ella riportò sgraffiature, scorticature e anche ferite. Quando, dopo un
pezzetto, Mangialupi si stancò e posò il piffero e tutto tornò in quiete, la poveretta era in uno stato da
far pietà e filava sangue dalla testa e dalle mani. Per fortuna Mangialupi non scese in cantina, e se ne
andò invece a letto bofonchiando e imprecando.
La mattina l’ Qrchessa andò a dire a Giustina che l' Orco era uscito, sicché prendesse subito il
contrattempo e scappasse. Sebbene la vecchia fosse divenuta così aspra e arcigna al contatto di suo
marito, Giustina con la sua dolcezza e con la sua forza d’animo, le aveva fatto tanta compassione, che
nel separarsi da lei essa le disse qualche buona parola.
- Avete sentito che cosa ha risposto stanotte Mangialupi quando gli ho domandato se sapeva nulla
dell’uccello con la coda d’oro? Chi ne sa qualche cosa, da quel che ho potuto raccapezzare, è il Re dei
Venti.
- Grazie, signora! - esclamò Giustina tutta rianimata per quell’ informazione. - Ma, per favore, me lo
sapreste dire dove sta di casa il Re dei Venti?
- La vedete quella montagna là difaccia? I Venti stanno tutti di casa lassù. Ma ora andate via, perché
se ritorna lui mi fate trovare a qual che dispiacere. Prendete questo pinolo e apritelo in qualche
momento di gran bisogno. -
La figlia del mugnaio ringraziò l’ Orchessa che, per quanto zotica e dura, le era stata di tanto aiuto, e
si mise in cammino per cercar la casa del Re dei Venti.
Prima di giungervi, dovè attraversare delle paurose boscaglie piene di rettili che la facevano
rabbrividire dallo spavento, guadar paludi e stagni, gettarsi a nuoto per traghettare dei fiumi, aprirsi la
via fra intricati folti di piante dove i pruni le scorticavano le mani e i piedi; ma finalmente essa arrivò
alle falde della montagna in vetta alla quale abitavano i Venti.
Allora si riposò qualche minuto per riprender fiato; poi incominciò a salire per l’erto sentiero che
conduceva in alto, fino a che giunse alla sommità e si fermò dinanzi alla porta spalancata di una specie
di fortezza dove una grande folata di vento la spinse in un’ampia sala a volta, senza mobili, perché tutta
la mobilia che già conteneva era stata dispersa dai Venti che lassù si sbizzarrivano proprio a loro
piacimento.
- Per piacere, Zeffiretto, - disse Giustina al vento che la sbatacchiava - mi sapreste dire dove si trova
l’uccello con la coda d’oro?
- Non saprei dirvelo; domandatene a mio fratello, il Vento di Levante: forse lui lo potrà sapere. -
E quel vento, che non era davvero lo Zeffiretto come gentilmente la viaggiatrice lo aveva chiamato,
bensì il Maestrale, uscì impetuosamente.
A un tratto Giustina si sentì investita da un soffio violento che quasi la sbattè contro il muro: era il
Vento di Levante che entrava. Ma nemmeno lui sapeva nulla dell’uccello con la coda d’oro; e se n’andò
via brontolando e lasciando la fanciulla tutta mesta e tremante.
Poi venne lo Scirocco, con un soffio più gentile, e disse che nemmen lui ne sapeva niente, ma che
forse il Tramontano poteva darle qualche informazione.
Il Tramontano entrò con gran furia e agghiacciò addirittura la stanza, facendo rabbrividire Giustina.
Le sue sfuriate furono tali, che tutta l’abitazione dei Venti ne fu scossa.
Veduta la donna che lo aspettava bubbolando, esso le domandò con asprissima voce:
- Che cosa volete da me?
- Signor Tramontano, avrei tanto desiderio di trovar l’uccello con la coda d’oro.
- L’uccello con la coda d’oro non è da queste parti, ma almeno mille miglia lontano di qui. Io lo so di
certo dov’ è, perché il Tramontano sa ogni cosa. Se non avete paura, montate a cavalluccio sulle mie
spalle e vi ci porterò io. -
Giustina era combattuta tra la gioia e la paura. La speranza di poter finalmente trovare l’oggetto delle
sue lunghe e faticose ricerche la esaltava; ma in pari tempo provava una tremenda apprensione al
pensiero di dover fare un così lungo viaggio in groppa a quel brusco e gelido personaggio. Ma la
bramosia di ritrovare il suo Giovannino vinse ogni titubanza, ed ella si aggrappò baldamente alle spalle
del Vento.
Il Tramontano si sferrò con fulminea veemenza attraverso lo spazio.
In un attimo ebbe varcato il mare; un momento dopo si trovava sulla più alta montagna della terra;
nel momento seguente piombava in un abisso; era tutto un alzarsi e abbassarsi, cambiar luogo con la
velocità di mille miglia all’ora.
La figlia del mugnaio, che gli tremava sul dorso, si sentiva screpolar tutta la pelle; poi le parve di
sentirla indurita e rugosa, e credette d’invecchiare e di diventar quanto mai brutta.
Com’era stanca! Il Tramontano andava con tanta foga, ch’ella durava fatica a respirare, e sentì di non
poter più reggere.
Finalmente il Vento scese in una vallata, e poco dopo depose Giustina sopra un bel prato, dinanzi a
una casa grande, di antico aspetto.
- Lo vedete quel castello? - disse il Vento.
- L’uccello che cercate sta là dentro; ma vi avverto che, cominciando da oggi, non è più un volatile,
bensì un bel Principe. Arrivederci, mia cara donnina, e buona fortuna! -
Così dicendo, egli si precipitò verso il Polo Nord per vedere che cosa accadeva nel suo regno
durante la sua assenza.
Appena la figlia del mugnaio ebbe ripreso fiato, girò a tergo del castello per cercare qualche usciolino
di servizio, non arrischiandosi a bussare alla porta della facciata. E prima che avesse tempo di picchiare
a una porticina da lei veduta, quella si aprì e ne uscì fuori un uomo che le rivolse così la parola:
- Che cosa volete, nonnina? - Nonnina davvero! Tale era diventata la poveretta, dopo tanti anni di
sofferenze. E oserebbe presentarsi in quello stato a Giovannino, che era adesso un avvenente giovane?
Egli non avrebbe certo voluto riconoscere in lei la graziosa sua sposa di sette anni prima, e v’era il caso
che la facesse scacciar di casa.
Gli occhi di Giustina si empirono di lacrime, ma essa le rattenne, e disse con voce ferma a
quell’uomo:
- Signor casiere, non potreste esser tanto buono da trovarmi qualche cosa da fare nel castello?
- Sentite: - rispose l’ interrogato - è andata via proprio oggi la ragazza che badava alle oche; se volete,
potete prender voi il suo posto: non sarà cosa da durar molta fatica. -
Giustina accettò subito, e le fu dato da badare una trentina d’oche.
Giunta con quelle presso un fiumiciattolo che costeggiava un campo, ella si specchiò nelle onde
limpide, e vide che era proprio diventata una vecchia bertuccia, con una pelle rugosa color patata, e che
i suoi poveri cenci coprivano una persona scarnita e curva.
- A che cosa mi son giovati tutti i sacrifizi e tutti i miei tormenti? - sospirò fra le lacrime la poveretta.
- Ora, anche se mi trovassi dinanzi Giovannino, egli fingerebbe di non riconoscermi. Se almeno avesse
avuto la forma di un brutto animale come quando lo sposai, poco sarebbe importato se ero ridotta così!
Ma ora lui è un bel Principe, e non vorrà più saperne di me! -
Mentre diceva in quel modo, le oche si misero a schiamazzare e dissero tutte insieme:
- Dove l' hai messa la castagna? -
Allora Giustina si ricordò del dono fattole dalla prima Orchessa, e cercatasi in fondo alla tasca la
castagna, la trovò e l’aprì. Ne uscì un maraviglioso vestito di seta tenue come un velo, del color dell’aria,
sul quale erano ricamati una quantità di uccelli d’oro. La figlia del mugnaio lo indossò, e subito tutte le
sue grinze scomparvero come per incanto, i suoi occhi celesti ripresero la loro fulgidezza, i suoi capelli
parvero fili d’oro, le sue mani divennero bianche e morbide; la persona le si raddrizzò, ed ella divenne
anche più bella di quando Giovannino l’aveva veduta al mulino.
Allorché le oche la videro a quel modo, fecero un allegro schiamazzo e gridarono tutte insieme:
- Com’è bella la nostra guardiana! -
Al rumore fatto dalle oche uscì fuori una vecchia Principessa che era la padrona di quel castello e
che s’era incapriccita di farsi sposare da Giovannino. Il Principe non ne voleva sapere, prima di tutto a
cagione dell’età di lei, e perché la sapeva cattiva; poi perché sperava sempre che Giustina giungesse a
sapere in che luogo egli si trovava, e venisse da lui.
Nasturzia, così si chiamava la vecchia Principessa, lo teneva prigioniero e non gli avrebbe mai
permesso di uscir fuori a fare la più piccola passeggiata.
Nasturzia vide dunque di sulla soglia Giustina, e s’invaghì del maraviglioso vestito ch’ella indossava.
- Oh, come vorrei aver io codest’abito! - ella disse alla moglie di Giovannino.
- Signora, posso donarvelo, ma a un patto.
- E quale?
- Che mi permettiate di passare la notte nell’appartamento del Principe.
- Va bene: posso concedervi di rimanervi fino a che domattina non canti il gallo, - replicò la
Principessa.
E le tolse di dosso il vestito.
La sera ella ordinò a un suo fidato servitore di porre un potente sonnifero nel vino che il Principe
avrebbe bevuto a cena, per modo che egli si addormentasse subito e fosse necessario portarlo a braccia
nel suo appartamento.
Poco dopo che la sua gente ve l’ebbe deposto, Giustina vi entrò e cominciò a piangere e a dire:
- Ho consumato sette paia di scarpe di ferro, per andare alla ricerca dell’ amor mio; ho empito sette
fiasche di amare e cocenti lacrime nei sette lunghi anni del mio tormento; ora io ho ritrovato il mio
Giovannino, il mio sposo.... ma egli dorme e non ode il mio lamento! -
Tutta la notte non fece che ripetere queste parole, avvicinandosi sempre più a suo marito perchè il
suono della sua voce lo risvegliasse; ma il sonnifero era così potente, che Giovannino dormì fino a
tarda ora, mentre Giustina, al canto del gallo, dovette ritornarsene a badar le oche.
Quando nel pomeriggio era sola nel campo, ella schiacciò la nocciuola, e ne uscì un vestito anche più
bello di quello del giorno innanzi. Era del color dell’aurora, e v’era ricamato il sole nel suo sorgere. E di
nuovo tutte le oche le si raccolsero intorno, lodando ancora la sua bellezza.
Come il dì precedente, Nasturzia uscì fuori, dimostrò desiderio di aver lo splendido vestito, e lo ebbe
alle stesse condizioni.
Ma anche quella sera l’astuta Principessa fece addormentare il Principe ricorrendo allo stesso
espediente; sicché, nonostante tutti i suoi gemiti e tutti i suoi lamenti, Giustina non fu udita, perchè
quando il gallo cantò, suo marito non si era ancora svegliato.
Il giorno dopo Giustina schiacciò il pinolo, e anche da quello uscì un magnifico vestito del colore di
una bella e placida notte orientale, nel quale erano ricamate la luna e le più splendide stelle. Poteva esser
veduto da non so quante miglia lontano, tanto scintillava.
Vi fu la solita ammirazione delle oche, vi fu una nuova comparsa della Principessa che richiese la
prodigiosa veste alle medesime condizioni. Giustina, la quale non aveva ormai più speranza che in
quella notte, dovette acconsentire, ma rimase con una grande tristezza nel cuore, perché se il suo
benamato Giovannino non si svegliava, ella doveva andarsene e rimaner separata per sempre da lui.
Ma la sera, prima di mettersi a cena, Giovannino domandò al suo coppiere:
- Ditemi un poco: come può essere andata che per due sere io mi sia addormentato a tavola?
- Dev’essere stato il vino, Altezza, - rispose il coppiere. - E, a proposito, tutte le notti noi udiamo
uscir gemiti e lamenti dalla vostra camera. Avete mai sentito niente, Altezza?
- Veramente ho dormito fino a tardi; ma stanotte starò attento, - rispose Giovannino.
E quella sera, invece di accostarsi alla bocca il suo bicchiere colmo di vino, ne gettò il liquido sotto la
tavola. Non vi fu dunque bisogno che lo conducessero a braccia nella sua camera perché l’altro vino
che si fece portare non conteneva sonnifero ed egli poté andarvi da sé.
Poco dopo entrò Giustina, col bell’aspetto che le era stato ridonato, ma tanto tanto triste! Essa
cominciò il suo racconto:
- Ho consumato sette paia di scarpe di ferro.... -
Ma non vi fu bisogno ch’ella continuasse: suo marito la riconobbe subito e le aprì le braccia e se la
strinse al seno. Le disse poi quanto l’aveva aspettata, essendo giunto dopo sette anni il momento ch’ella
venisse a riscattarlo: se ella non fosse arrivata quello stesso giorno a romper l’ incanto, o egli avrebbe
dovuto sposare la vecchia Nasturzia, o esser di nuovo trasformato in uccello.
La mattina dopo Giovannino, raggiante di gioia, uscì dal suo appartamento conducendo con sé la
sua graziosa e fedele sposina.
Quando Nasturzia li vide, capì che il suo potere era finito, e la rabbia e l’ invidia le fecero salire il
sangue alla testa con tanto impeto, ch’ella morì sul colpo.
Nella fiducia di sposare Giovannino il giorno in cui ella lo aveva veduto trasformarsi da uccello in
bel giovane, Nasturzia gli aveva fatto dono del castello e di tutte le terre e case da esso dipendenti;
cosicché egli ne rimaneva adesso il legittimo possessore, e insieme con la sua Giustina poté trascorrervi
felicemente la vita.
Pochi giorni dopo, Giovannino diede un gran pranzo per festeggiare il suo ritorno nel primitivo
aspetto e per far conoscere a tutti quanto fosse stata grande la fedeltà della sua sposa.
Re e Principi accorsero alla festa, e ciascuno si maravigliò della grande bellezza e delle maniere
squisitamente gentili di Giustina.
Giovannino e la figlia del mugnaio vissero moltissimi e prosperi anni, amandosi ogni giorno di più.
LA FONTANA DELLE PERLE

C’era una volta una Fata potentissima che era stata eletta Regina di tutte le Fate.
Bisogna sapere che a quei tempi usava che ogni cento anni vi dovesse essere tra le Fate una specie
d’ispezione, e cioè che la Regina si recasse a veder coi propri occhi quali Fate si portavano bene e quali
male.
Quella nuova Regina si mise dunque in viaggio, e fermandosi in tutti i luoghi dove erano le sue
suddite, ne trovò talune che meritavano lodi, mentre altre meritavano rimproveri e anche castighi; ed
ella fu giusta con tutte.
Finalmente la Regina arrivò in un bosco i cui alberi crescevano in vetta a montagne dirupate, ed
erano tanto alti e stendevano un’ombra così fitta, che sotto di essi l’erba rimaneva sempre verdeggiante.
Ma di quel luogo così verde e scuro e fresco la gente aveva un certo timore e se ne teneva lontana.
La Regina delle Fate, però, non aveva paura di niente, e desiderava di addentrarsi in quel bosco
perché voleva vedere una piccola Fata nata soltanto da tre giorni e a cui sua madre aveva do nato la
fonte che v’era in quel bosco.
La Regina trovò infatti la piccola Fata sola sola presso la fonte: era una bella fonte di acqua
limpidissima che sgorgava di fra i massi, saltellava fra le pietre, scorreva un poco e andava a nascondersi
fra il musco.
Quella fonte metteva allegria a vederla, e anche la piccola Fata a cui apparteneva doveva esser molto
giuliva, perché quando la Regina le si ac costò, ella stava ballando nell’ombra accompagnandosi col
canto di una fresca voce argentina: si sa che le Fate hanno l’abilità di cantare, come pure di correre
dappertutto, appena nate.
La Regina delle Fate non aveva figli ma andava matta per i bambini, e via via che ne ve deva uno le
sembrava il più grazioso di quanti ne avesse mai conosciuti: e così quando si trovò dinanzi agli occhi
quella Fatina, le parve che vaghe in quel modo non ve ne fossero mai state al tre. E in verità essa poteva
dirsi proprio una maraviglia, coi suoi capelli d’oro, gli occhi celesti e le gotine rosee; inoltre sua madre,
essendo stata informata della visita della Regina, le aveva fatto un vestito di teletta d’argento guarnito di
verde e di turchino che era proprio una galanteria.
- Dimmi un po’, carina, - domandò con dolcezza la Regina delle Fate a quella graziosa bamberottola
- lo sai chi sono io?
- Oh, sì! — rispose la Fatina. - Voi siete Sua Maestà.
- Che bimba intelligente! - esclamò la Regina. - E tu chi sei?
- Io sono la piccola Fata della Fonte, ai comandi di Vostra Maestà.
- Brava! Che bella rispostina! E ora che cosa vorresti che ti donassi, tesoretto?
- Delle perle, - rispose la Fatina.
- E perle tu avrai, e tutte quelle che tu puoi desiderare. La tua fonte non butterà che perle, e tu ne
farai ciò che vuoi; ma bada, tu dovrai contarle a una a una.
- Anzi, ci ho piacere, - rispose la piccola Fata - così potrò accorgermi anche se me ne prendessero
una, e io non intendo di darne a nessuno.
- Ma se vuoi tenerti le perle tutte per te, bi sognerà che allora tu te ne stia qui sola sola, senza mai
allontanarti da questo luogo.
- Ho piacere anche di codesto, - replicò la piccola Fata - perché così canterò da me e mi baloccherò
con le mie perle, e se Vostra Maestà me ne dà il permesso, mi chiamerò la Fata della Fonte delle Perle. -
La Regina le accordò quanto essa chiedeva, poi proseguì il suo viaggio.
La piccola Fata rimase nel bosco e vi crebbe, divenendo la più bella delle giovani Fate che vi fossero
nel mondo. Essa volle che sotto alla sua fonte vi fosse una bella vasca di marmo bianco e che
spuntassero fiori variopinti sul verde musco che la circondava. L’acqua scaturiva zampillando nel centro
della vasca ed era per la Fata una vera delizia mettersi nel mezzo ad essa, vestita col suo abito di teletta
d’argento guarnito di verde e di turchino, che le rimaneva parecchio corto via via che cresceva, e di fare
schizzar l’acqua in alto, tanto in alto che pareva arrivasse al sole; e ogni gocciola d’acqua che si alzava
nell’aria, nel ricadere diveniva una perla: una bella perla bianca. Ve n’erano delle più grosse e delle più
piccole, e il fondo della vasca di marmo ne era pieno. Poi crebbero tanto, che sarebbero traboccate se la
Fata non avesse pensato di praticar nel fondo della vasca qualche foro da cui scappassero via le più
piccole.
Quelle piccole perle scorrevano sotto terra, e non era difficile che da qualche crepaccio ne uscisse
fuori qualcuna e si spargesse per i fianchi della montagna; ma nessuno vi badava, e le rare persone che
passavano di lì, nel vederne alcune le prendevano per semplici gocce d’acqua.
Benché avesse tutte quelle perle, la giovane Fata ne bramava sempre di più, e tutta la sua de lizia era
di adornarsene. Le più grosse e le più belle essa le infilava in un filo d’oro e le intrecciava fra i suoi
capelli; ne faceva vezzi, braccialetti, cinture; al suo vestito di teletta d’argento aveva aggiunto una bella
frangia di perle.... Nessuna Fata poteva vantarsi di possederne altrettante. Come le aveva ordinato la
Regina, essa le contava ad una ad una, e quando la sera si addormentava sul musco, le contava anche
nel sonno.
Era così invaghita delle sue perle e gelosa di esse, che non lasciava mai la sua fonte per la paura che
sopravvenisse gente e ne rubasse qualcuna durante la sua assenza.
Così durò per un pezzo, fin che un bel giorno la Fata, avvezza a non veder mai nessuno e
desiderando di andare a trovar sua sorella, che era Fata essa pure e dimorava fuori di quel bosco, in una
torre di cristallo sopra una rupe, si mise in dosso le perle più belle, e per la prima volta la sciò la
fontana. Essendo Fata, poteva contare anche da lontano le nuove perle che cadrebbero nella vasca.
Essa fu ben contenta di veder sua sorella, e si divertì ad arrampicarsi fino in cima alla torre di
cristallo dove quella abitava.
Di lassù volse uno sguardo tutt’ intorno, e a un tratto esclamò:
-Bisogna che io vada via subito! Mi manca una perla!... No, non una perla: due perle. Anzi, ne
mancano tre, proprio tre.
- Che importano tre perle? - disse sua sorella. - Non ne hai forse tante? -
Ma l’altra ribattè che non v’era maggior disgrazia di quella di perder le perle possedute, e se ne andò
via in gran fretta.
Mentre traversava la foresta si accorse che delle perle ne mancavano altre due, e si affannò a giunger
presto alla fontana, perché non era di quelle Fate che hanno il potere di esser trasportate dove
desiderano.
Giunta che vi fu cercò il ladro, ma non vide che uno scricciolo, appollaiato sull’orlo della vasca di
marmo, il quale aspettava che ricadesse una gocciola per raccoglierla nel becco.
- Ah, siete voi, ladroncello, che mi rubate le perle! - gridò la Fata furibonda.
- Scusate, signora; - replicò lo scricciolo tutto impaurito nel vederla così irritata - io non ho fatto che
bere qualche goccia d’acqua.
- Qualche goccia d’acqua? Ma non lo sapete, uccellaccio ribaldo, che ogni goccia d’acqua che avete
bevuto sarebbe divenuta una bella perla cadendo nella vasca? Guardate in fondo, e vedrete: tutte le
perle che vi sono erano prima gocce di acqua.
- Ma, signora, io vi assicuro che non ne sapevo proprio nulla, - rispose lo scricciolo con grande
umiltà, poiché non aveva mai contemplato una signora splendida come la Fata della Fonte delle Perle. -
Ho veduto un po’ d’acqua, avevo sete, e mi sono arrischiato a bere. «Di certo» pensavo «la buona Fata a
cui appartiene questa fonte non si sdegnerà se bevo una gocciola d’acqua!» E posso assicurarvi, signora,
- soggiunse l’uccellino chinando reverentemente il capo dinanzi alla Fata - che un’acqua così buona non
l’avevo mai sentita. Spero che mi perdonerete. -
Quella Fata era un po’ impetuosa, ma non aveva cattivo cuore; ella abbassò dunque benigna mente
lo sguardo sullo scricciolo, e disse:
- Siete uno scioccherello, uccellino mio, a non distinguere le perle dall’acqua! Per questa volta vi
perdonerò; ma badate bene di non farlo più.
- Oh, no, no, signora, potete star tranquilla! - rispose concitatamente l’uccello. - E adesso, signora,
posso ritornarmene al palazzo?
- Al palazzo? - ripeté la Fata. - Di che palazzo parlate? -
Siccome ogni creatura, umile o potente, ha la sua storia, quella dello scricciolo era la seguente.
Quell’ uccellino aveva fabbricato il nido nel giardino del palazzo del Re, e vi stava
comodissimamente, quando il Principe ereditario lo scovò, lo prese, e lo avrebbe ucciso se sua sorella
non fosse giunta in tempo per salvargli la vita. Anzi, la Principessa fece di più, perché portò la povera
bestiolina, che era quasi morta dallo spa vento, in camera sua, e la fece porre in una gabbia grande e
bella in cui potesse un po’ svolazzare e star senza pericolo; ma siccome la Principessa sapeva che è
difficile che un uccello sia contento di star prigioniero, ella permetteva allo scricciolo di far tutti i giorni
una volatina, e lasciava aperta una delle finestre di camera perché potesse ritornarvi senza disturbar
nessuno.
Questo fu il racconto che lo scricciolo fece alla Fata, non in poche parole come abbiamo fatto qui,
ma adoprandone molte, perché cinguettava tanto volentieri che non avrebbe più smesso.
La Fata lo lasciava dire, e frattanto ella s’era accostata alla fonte e ne mandava in alto lo zampillo
perché le sue gocce potessero ricadere in perle che ella si studiava di riprendere nel palmo della mano;
ma alcune le sfuggivano e le si spargevano per il collo e per le spalle, altre le entra vano nei capelli e vi
rimanevano; molte poi le passavano di fra le dita e cadevano nella vasca.
- Oh, signora, come siete bella! - esclamò allora lo scricciolo. - E quanto mi diverto a ve dervi
scherzare con tutte codeste perle!
- Siete un uccellino parecchio simpatico, - disse la Fata. - A proposito, come vi chiamate?
- Nuccio, signora, - rispose lo scricciolo, in chinando di nuovo il capino. - La Principessa mi chiama
sempre Nuccio.
- Non vi confondete con la Principessa, - disse la Fata con voce un po’ aspretta - e state attento a
quel che vi dico io: ci stareste a fare un giochetto con me con queste perle? Io ve le butterei, e voi le
riprendereste nel becco; ma dovreste ributtarle subito nella vasca; finita la partita, vi lascerò bere una
goccia d’acqua, perché siete un uccello così piccino che una goccia d’acqua vi basterà. —
Lo scricciolo si dimostrò molto contento di giocare con la Fata, sicché cominciarono subito la
partita: la Fata raccoglieva in perle le gocce che ricadevano e le gettava allo scricciolo che le raccoglieva
nel becco, una dopo l’altra, naturalmente, e poi le rigettava nella vasca.
Quell’uccellino era così destro ed accorto, che giocava benissimo, e furono soltanto tre le perle che
non poté raccogliere. La Fata era tutta con tenta e diceva di non essersi mai divertita a quel modo.
Insomma, giocarono fin che non si sentirono ambedue proprio stanchi; e allora la Fata disse:
- Via, Nuccio, basta per oggi. Bevi una goccia d’acqua e va’ pure alla reggia; ritornerai do mani e
faremo qualche altra giocata; ma ricordali di non parlar con nessuno della mia Fonte delle Perle.
- Nemmeno con la Principessa? - domandò lo scricciolo.
- No davvero! - esclamò la Fata. - Bada che se tu dicessi qualche cosa, non ti perdonerei mai;
ricordati che sono una Fata, e che potrò ri saperlo subito e punirti immediatamente. -
Lo scricciolo promise di non fiatare, e volò via per rientrar nella reggia e nella sua gabbia: aveva una
gran paura che la Principessa gli domandasse dov’ era stato, come tante volte faceva; ma per l’appunto
quel giorno ella aveva saputo da suo padre di essere stata promessa in matrimonio al re delle Isole dei
Diamanti; per cui, con la mente tutta piena di quel pensiero, ella non si accorse nemmeno quando lo
scricciolo rientrò in camera dalla finestra: l’uccellino fece meno rumore che poteva e si mise a
becchettare adagio adagio la sua cena, benché non avesse avuto mai tanto appetito: l’acqua cambiata in
perle non era stata sufficiente a togliergli la fame.
Il giorno dopo lo scricciolo ritornò alla Fonte delle Perle, e si divertì nello stesso modo con la Fata.
Quando fu stanco, essa gli fece bere la gocciola d’acqua; ma avendole l’uccellino chiesto il permesso di
bagnarsi alla fonte, la Fata non volle concederglielo; anzi, si mostrò scontenta di quella domanda.
Quando lo scricciolo tornò a casa e volò in gabbia, la Principessa non era in camera, e allorché vi
entrò, l’uccellino s’ era già addormentato col capino sotto l’ala.
Le cose andarono in tal modo per un pezzo: tutti i giorni lo scricciolo volava alla Fonte delle Perle, e
dopo il solito giuoco con la Fata tornava a casa ed entrava in gabbia nella camera della Principessa, la
quale, tutta occupata del suo corredo, non pensava nemmeno a domandargli dove era stato.
Intanto la Fata aveva preso tanto a benvolere lo scricciolo, che pensò di affidare a lui la custodia
della fonte mentre ella ritornava a far visita a sua sorella. L’uccellino veramente non rimaneva volentieri
lì solo; ma la Fata gli promise che la sua assenza sarebbe breve.
- Ritornerò prima che tramonti il sole, - ella disse - e tu intanto potrai divertirti con le perle; ti
permetto anche di bere tre gocce d’acqua; ma mi raccomando che tu non smetta mai di far la guardia
alla fonte; e se tu vedessi accostarsi qualcuno, basterà che tu mi chiami per tre volte: io ti udrò ed
accorrerò subito. -
Lo scricciolo promise di obbedirla e rimase accanto alla fonte mentre la Fata si recava da sua sorella.
Egli si mise a far da sé dei giochetti con le perle, fino a che non si sentì stanco; allora bevve tre gocce
d’acqua, poi si mise sull’orlo della vasca e cominciò a pensare che un bagno fresco sarebbe una gran
bella cosa. Era una giornata caldissima, la Fata si trovava lontana di lì....
«Non ne saprà mai nulla,» disse fra sé l’uccellino.
E allora stese le ali e si tuffò nell’acqua facendo un bagno che gli diede il più gran godi mento
provato in vita sua. Gustava ancora beata mente il piacere di quell’ immersione e pensava di andare fra
qualche momento ad asciugarsi le penne al sole, allorché sentì un gran rumore che empiva l’intera
foresta: era il Re che vi passava in carrozza; ma lo scricciolo non lo sapeva, e quell’ insolito rumore lo
spaventò tanto, che perse proprio la testa, e invece di chiamar tre volte la Fata affinché accorresse,
come essa gli aveva pro messo di fare in caso di pericolo, volò con tutta la rapidità permessagli dalle sue
piccole ali al palazzo in cui aveva la gabbia, e non si credé salvo che quando si trovò, tutto affannato,
dentro quella.
Accadde per l’appunto che la Principessa fosse a provarsi il vestito da sposa in camera sua quando
l’uccellino vi entrò.
- Che c’ è, Nuccio? - ella domandò. - Che mai ti è accaduto?
- Mi bagnavo nel bosco, - rispose lo scricciolo - quando ho sentito un gran fracasso che mi ha
spaventato, sicché sono volato a casa. Guardate: non mi sono neanche asciugato. -
Così dicendo l’uccellino scosse le ali, e una bella perla ruzzolò in fondo alla gabbia.
- Ma questa è una perla! - esclamò la Principessa, stupefatta. - Dimmi un po’, Nuccio: dove sei stato
a bagnarti perché ti sia rimasto fra le piume una perla così preziosa?
- Una perla? - ripeté lo scricciolo il quale, non sapendo che cosa rispondere, si fingeva tutto
sorpreso.
- Sicuro, una perla! - disse la Principessa che se l’era posta nella palma della mano e stava
guardandola. - La perla più grossa, più bianca, più perfetta di quante perle io abbia mai viste. Dove l’hai
raccolta? -
Lo scricciolo cercò di sviare il discorso, ma la Principessa insisté tanto per sapere la provenienza
della perla, che l’uccellino, dopo essersi fatto pro mettere un assoluto segreto, le raccontò della Fata e
della Fonte delle Perle.
Quando la Principessa ebbe udito quel prodigio, fu presa da una grande smania di recarsi a vederlo,
e disse allo scricciolo di accompagnarla subito al luogo dov’ era la fonte; ma l’ animalino si rifiutò
recisamente di condurvela, e allora essa cercò d’ indurlo a portar via dalla fonte qualche altra perla e
darla a lei; ma lo scricciolo non volle accondiscendere a far quella cattiva azione.
- Ebbene, almeno terrò questa perla che ti è caduta di fra le piume, - disse la Principessa.
E l’uccellino, comprendendo che era inutile opporvisi, rispose che acconsentiva.
Quando, il giorno dopo, il grazioso volatile ritornò alla fonte, trovò la Fata con un gran cipiglio e si
sentì subito investire con queste parole:
- Come mai ieri scappasti via dalla mia fonte prima ch’ io fossi tornata?
- Sentii un gran rumore, e mi spaventai tanto, che presi il volo.
- E perché non mi chiamasti?
- Me ne dimenticai.
- Mi manca una perla, sai? Che cosa ne hai fatto? -
Lo scricciolo ebbe paura a dire la verità, sicché rispose:
- Io mi baloccavo con le perle, quando una mi sfuggì di tra le zampe e cadde fra l’erba; e non mi
riuscì di ritrovarla.-
La Fata avrebbe potuto saper la verità consultando il libro degl’ incantesimi; ma lo aveva riposto
sotto un sasso in fondo alla vasca, e c’erano sopra tante perle, che le ci sarebbe voluto troppa fatica a
tirarlo fuori.
- Malissimo! - ella disse all’uccellino. - Peggio non ti potevi comportare, e mi hai fatto proprio
stizzire; ma se per questa volta ti per dono, tornerai a scontentarmi?
- Oh, no davvero! - rispose lo scricciolo.
E così fecero la pace e passarono un’altra allegra giornata.
Appena fu in possesso della perla, la Principessa mandò a chiamare il gioielliere di Corte e la diede a
lui perché vi facesse una bella monta tura, volendo adornarsene nel giorno delle sue nozze. Il gioielliere
disse di non aver mai veduto una perla di quella bellezza, e allora la Principessa, invece di esser tutta
contenta di averla, cominciò a fare il broncio e ad affliggersi di non poter avere tutte le altre perle della
fonte.
Quella notte non riuscì a prender sonno tanto quel pensiero l’assillava; e la mattina quando si alzò
aveva già preso la risoluzione di andar da sé alla ricerca della Fonte delle Perle e d’impossessarsi di
qualcuna di esse.
«La Fata ne ha tante, mi ha detto lo scricciolo,» pensava la Principessa «che non se ne accorgerà
neppure se io ne prendo qualcuna; e che bella cosa sarà poi per me essere rammentata come la
principessa delle Perle che ha sposato il re delle Isole dei Diamanti!»
Quel giorno lo scricciolo non ebbe tanta fretta di recarsi dalla Fata, e spiccò il volo piuttosto tardi;
ma la Principessa, che aveva osservato tutta la mattina ogni movimento di lui, uscì subito fuori appena
l’uccellino se ne fu andato, e rivolse i suoi passi dalla parte dove lo aveva veduto volare, né si fermò fin
che non ebbe trovato un bosco in cui s’immaginò fosse andato a posarsi.
Insinuandosi allora nel folto degli alberi, la Principessa scrutò il bosco con tanta attenzione, che
finalmente si trovò presso la Fontana delle Perle e attraverso i rami essa vide, senza esser veduta, la Fata
e Nuccio che giocavano a palla con le perle. A un tratto Nuccio volò via, e la Fata, che era stanca, si
adagiò sul musco per fare un sonnellino.
La Principessa aspettò un poco; poi, piano pia no, in punta di piedi, si avvicinò all’orlo della vasca di
marmo, e incavando le palme e protendendole vi raccolse quante perle potevano conte nere; quando
furono piene, essa vuotò le perle fra il musco e si accinse a prenderne delle altre per farne un bel
mucchietto; ma la Fata, che anche sonnecchiando non aveva fatto che contare, si accorse di tutte quelle
che mancavano, e balzando in piedi disse aspramente:
- Chi mi ruba le perle? -
La Principessa rimase allibita e non poté rispondere una parola; allora la Fata riprese, con la stessa
voce piena di sdegno:
- Chi vi ha portata qui?
- Io bramavo alcune perle della vostra fonte.... - rispose la Principessa.
- E come sapete che qui v’ è una fonte che butta perle? - domandò la Fata.
- Me lo disse lo scricciolo, - replicò la Principessa.
- Ma chi siete? - chiese la Fata.
- Io sono la figlia del Re, - disse la Principessa — e sto per sposare il re delle Isole dei Diamanti; e
poiché la vostra fonte si trova nel regno di mio padre, mi figuravo che mi donereste alcune perle per
regalo di nozze.
- Voi non avrete nemmeno una perla della mia vasca: - disse la Fata - quelle sono perle che io tengo
tutte per me. Ma ritornate a casa dalla via per cui siete venuta, e quando giunge rete a piè di quello
scoscendimento che avrete certo veduto nel venir qui, e che si troverà alla vostra destra, prima di uscire
dal bosco, soffermatevi, e vedrete che da tutte le parti di esso scendono perle: quelle lì potete
raccoglierle; sono le più piccole, che a me non preme serbare.
- E posso prendermele tutte? - domandò la Principessa.
- Tutte fino a una; - replicò la Fata - ma badate che vi do questo permesso per una volta soltanto; e
benché possiate trattenervi quanto vi piacerà e portar via tutte quelle perle di' cui potrete caricarvi, vi
proibisco di farvi ritorno, poi ché non avrete da me nemmeno una perla di più. -
Benché la Principessa giudicasse la Fata molto egoista a non lasciare prendere qualcuna delle perle
grosse, ella pensò che anche le piccole erano meglio che nulla; sicché la ringraziò e se ne andò per la
stessa via da cui era venuta.
Ella trovò alla sua destra, prima di uscire dal bosco, lo scoscendimento di cui le aveva parlato la Fata,
e vide con piacere che lungo di esso scorrevano delle perle non tanto grosse, ma vaghissime e bianche e
lucide sotto il lume di luna. La Principessa cominciò a raccoglierle più sveltamente che le fu possibile.
- Me ne farò un bel vezzo; - diceva frattanto.
- ma siccome sono piccole, ce ne vorranno parecchie. -
Poi, quando ne ebbe raccolte tante da farne un vezzo a più fili, le venne voglia di prenderne molte
altre per un diadema; e dopo di quello, quante ne occorrevano per parecchi braccialetti; e poi per una
cintura come l’aveva vista alla Fata; inoltre bramò una bella guarnizione per la sua veste da sposa, e altre
perle per anelli, orecchini, spilloni, gioielli che desiderava almeno in due diverse montature; poi ancora
perle per regalare alle sue dame, e altre per tenerle in serbo per sé; insomma, benché passasse tutta la
notte a raccoglier perle, arrivata all’alba le pareva di non essere ancora a mezzo.
Era molto stanca, ma siccome il permesso di portarle via le era dato per quell’ unica volta, pensava
che sarebbe stata una sciocca a non farne la più grossa provvista che poteva. Sicché, via via
che le perle scendevano dal fianco del monte, l’avida Principessa le raccoglieva, e più ne aveva, più ne
desiderava.
Quando il Re seppe che sua figlia era rimasta fuori tutta la notte, entrò in grande agitazione. Corse
subito dallo scricciolo che aveva la gabbia nella camera di lei, e gli domandò se poteva dar gliene
notizie. Tutto quello che l’uccellino poté dirgli fu che quando era andato a fare la sua solita volatina,
aveva lasciato in camera la Principessa, ma che al suo ritorno non ce l’aveva trovata più. Nessuno
sapeva nulla, e una sola cosa era certa: che la Principessa non aveva passato la notte nella reggia.
Il Re suo padre era disperato, e il re delle Isole dei Diamanti, che era arrivato per celebrar le sue
nozze con la Principessa, perdè subito l’appetito tanto stava in apprensione.
Il padre della Principessa mandò a ricercarla da tutte le parti, e alcuni suoi messaggeri, essendo
penetrati nel bosco dov’ella era, la ritrovarono quasi sfinita dalla stanchezza e dalla fame, ma sempre
affannata a raccoglier perle. Quando parlarono di riportarla alla reggia, ella disse che non v’era nemmen
da pensarci: che andassero a dire al Re che le restavano ancora troppe perle da radunare prima che ella
potesse indursi a lasciare quel luogo.
Il Re fu addoloratissimo di veder ritornare i suoi inviati senza la Principessa, e quando seppe dove
l’avevano trovata, che cosa stava facendo e che cosa aveva detto:
- Cerca le perle? - esclamò. - Ma che bi sogno ha di perle, se domani deve sposare il re delle Isole dei
Diamanti? Sarà meglio che vada io stesso a vedere. -
Ma quando il Re ebbe raggiunto la Principessa e veduto tutte le perle da lei radunate e quelle che
stava ancora raccogliendo, e dopo che essa gli ebbe detto che quando fosse andata via di lì non
potrebbe più ritornarvi a cercar perle, egli convenne che sarebbe stato un peccato non lasciar che ne
prendesse quante poteva.
- Ebbene, mia cara, - egli disse a sua figlia.
- io pregherò il re delle Isole dei Diamanti di aspettare ancora un giorno o due, e in questo tempo
potrete continuare a raccoglier perle. Ma frattanto non sarebbe bene che io portassi via queste e le
mettessi in sicuro sotto chiave? -
La Principessa acconsentì: il Re prese con sé tutte le perle da lei radunate, che già formavano un bel
monticino, e le ripose in alcuni grandi scrigni del suo palazzo. Informò poi il re delle Isole dei Diamanti
che la Principessa era in sicuro, e lo pregò di rimandare di alcuni giorni il matrimonio. Il fidanzato
aggrottò un po’ le ciglia, ma per non mostrarsi scortese col suo futuro suocero disse che avrebbe
aspettato la Principessa sette giorni. Nel sapere intanto che era sana e salva, egli riacquistò l’appetito.
Ma trascorsi che furono i sette giorni la Principessa non ragionava di tornare, poiché la sua bramosia
di aggiunger perle a perle era insaziabile; allora suo padre si raccomandò al fidanzato di
aspettare altri sette giorni, durante i quali la Principessa non smise mai la sua affannosa occupazione; e
così seguitarono per un pezzo: la Principessa a raccoglier perle, suo padre a serrarle, il re delle Isole dei
Diamanti a concedere un’altra proroga di sette giorni; fino a che quest’ultimo si stancò di aspettare, e
una bella mattina se ne partì senza dire una parola a nessuno; e andando difilato dalla regina degli
Smeraldi le chiese la mano di sua figlia, e poiché gli fu concessa, sposò quella Principessa, senza metter
tempo in mezzo.
Quando l’antica fidanzata e suo padre lo seppero ne furono un po’ sdegnati; ma la Principessa si
consolò presto pensando che tutte le perle che potrebbe ancora raccogliere la compenserebbero dei
diamanti che s’era lasciata sfuggire. Per cui seguitò a radunarne quante più poté, e quando ne ebbe un
gran mucchio suo padre andò a prenderle con un sacco, le portò alla reggia e le chiuse in quanti altri
scrigni e cofani poté trovare.
Ma essendo ormai pieni tutti i mobili in cui poteva riporle, si rifece da una parte per vedere se in
qualcuno di essi vi fosse ancora rimasto un po’ di posto per le altre. Aperto il primo stipo egli gettò un
grido:
- Misericordia! Che cosa è successo? -
Aprì un altro stipo, e ne schizzarono fuori delle gocce d’acqua. Corse ai cofani, li schiuse con
trepidazione: ma anche in essi non vide saltellare che gocce d’acqua, e nemmeno la più piccola perla.
Perché la Fata aveva accordato alla Principessa di raccoglier le perle, ma non di affidarne ad altri la
custodia, e appena che il Re aveva creduto di averle poste in sicuro, essa le aveva trasmutate in gocce
d’acqua.
Dinanzi a quell’ inaspettato spettacolo il Re rimase per un momento come impietrito; poi prese una
tal furia, che il sangue gli andò alla testa e morì di congestione cerebrale.
La Principessa si addolorò moltissimo della morte di suo padre; ma ella disse di esser decisa a
seguitare a raccoglier perle e non affidarle più a nessuno; e rimasta presso quel dirupo non si mosse più
di lì, dove ancora continua a cercarle e ad ammassarle, perché, quantunque ne abbia dei monti, non le
sembrano mai abbastanza.
Quando lo scricciolo tornò a volare nella foresta, la Fata lo rimproverò di aver rivelato alla
Principessa il segreto della Fontana delle Perle; ma l’uccellino si raccomandò con tale ardore di esser
perdonato e andò a carezzarle tanto delicatamente i piedi col suo capino, che la Fata disse:
- Ebbene, ti perdonerò anche questa volta, ma bada che se vengo a sapere che hai di nuovo
chiacchierato, non ti farò più uscir dalla foresta. -
E così, mentre la Principessa raccoglie le sue perle a piè del dirupo, la Fata e lo scricciolo seguitano i
loro giuochi con le perle della fontana. Ma nessuno ha mai potuto raccapezzare in quale foresta quella
fontana si trovi, né su quale montagna cresca quella foresta, né in qual parte del mondo sorga quella
montagna. E forse è bene così.
ACQUA E FUOCO

C’era una volta una Felce che aveva una sorella chiamata Acqua e un fratello chiamato Fuoco. La
sorella, che era la maggiore dei tre, essa l’aveva veduta fin da quando era nata, ma il fratello non stava
presso di loro, sicché Felce non lo conobbe che quando era molto cresciuto.
Essa voleva dunque un gran bene a sua sorella perché era scherzosa e saltellava sempre vicino a lei, e
rideva e cantava; e col suo bel vestito di un grazioso colore, cangiante ora in celeste ora in verdolino,
guarnito d’argento, le sembrava proprio impareggiabile.
Fuoco ritornò a casa dopo un lungo soggiorno fatto presso suo zio, il sultano Sole, e Felce si
spaventò molto nel vederlo con quel capo di capelli rossi e con gli occhi così accesi.
- Per carità, non ti avvicinare, sai! - essa gridò. - Mi par che tu mi debba bruciare e farmi morir
subito.
- Aspetta, allora: - disse Fuoco cavandosi di tasca un paio di lenti affumicate e mettendosele sul naso
- lo zio Sole mi ha dato queste per evitare ogni disgrazia.
- Sì, sì, ho capito; ma intanto non ti avvicinare a me, fammi il piacere, - ripeté Felce tutta tremante
dalla paura. - Prima di tutto, sei vestito di rosso e codesto colore io non lo posso soffrire. -
Difatti Fuoco aveva un bell’abito scarlatto tutto orlato d’oro, e se ne teneva molto; ma volendo esser
compiacente con sua sorella disse:
- Aspetta un po’: lo zio Sole mi diede un mantello che farà proprio al caso; quando mi vedrai con
quello non avrai più paura. -
Così dicendo si tolse di tasca un mantello grigio così morbido e fine, che arrotolandolo poteva entrar
benissimo in una delle sue tasche.
Questo è il mio mantello color fumo, - disse ma veramente - soggiunse - me lo metto meno che
posso, e per il solito quando sono di cattivo umore. Per cui, ti prego, non mi dire d’ indossarlo spesso.
Ora che l’ho, non ti dà più noia il mio vestito rosso, eh?
- E come se mi dà noia! - esclamò Felce. - Codesto mantello è tanto leggero, da esser quasi
trasparente. Ce ne vorrebbe uno più grave.
-Io posso far diventar più grave anche questo, sai! - replicò Fuoco. - Ma bada, più grave che è il
mantello, più divento bisbetico io.
- Non importa, - disse Felce. - Basta che non veda più codesto rosso! -
Fuoco si accigliò e parve irritato; ma contentò la sorella e raffittì tanto il tessuto del suo mantello,
che il rosso del vestito non si vide più; ma nel cambiar grossezza il mantello cambiò anche colore e
divenne nero.
- Così va bene? - disse avvicinandosi a sua sorella. - E ora spero che tu mi permetterai di darti un
bacio. -
Felce cacciò un urlo.
- Un bacio? Un bacio a me? Per scottarmi col tuo vestito o tingermi col tuo mantello!
- Come sei scontrosa e sgarbata! - disse Fuoco che quando aveva indosso il mantello non misurava
più le parole. - E io voglio baciarti per forza, invece! - esclamò tutto alterato protendendo il viso verso
la sorellina.
Ma Acqua, la sorella maggiore, gli saltò lievemente addosso e tutta scherzosa lo fece voltare e
ritirare.
Fuoco, però, che quando s’ era messo il mantello non ammetteva scherzi, dopo avere aspramente
rimproverato la sorella maggiore fece per avventarsi a lei.
Acqua rimbalzò sveltamente e diede in una risata argentina.
- Tu non mi fai paura con tutte le tue stizze, - gli gridò - perché non mi costerebbe nulla mostrarti
che ho su te molto potere; ma sei mio fratello e ti rispetto, per cui, come vedi, mi ritiro invece di
cimentarmi con te. -
Fuoco si tolse gli occhiali e parve fulminar la sorella coi suoi occhi accesi; ma Acqua gli si avvicinò
con un saltellino, e il fratello fu pronto a rimetterseli. Allora cercò di togliersi il mantello, ma Acqua
andò a fargli una carezzina sul viso, e allora il mantello gli diventò più grave e più nero che mai. Fuoco
si sentiva quasi soffocare dal suo peso, ed ebbe appena fiato di gridare:
- Ma intendi forse di farmi morire asfissiato? Ricevo proprio una bell’ accoglienza al mio arrivo! -
Acqua disse che aveva fatto per chiasso, e allora il fratello rifece la pace con le sorelle; ma Felce
appena lo vedeva accostarsi a lei si ritirava, e non ci fu verso che gli volesse dare un bacio.
- Mi rallegro del tuo ritorno, - disse - e ti voglio bene, ma devi sempre stare un po’ discosto da me.
- E allora, per andare più d’accordo, sarà meglio che ritorni via, - replicò messer Fuoco. - Ho ancora
vari paesi da visitare, e un po’ per volta voglio conoscerli tutti.
- E così io, - disse Acqua. - Non ti rincresce mica, Felciolina, se ti lascio per un po’ di tempo?
- No, no, - rispose Felce. - Va’ pure con Fuoco: io vi auguro buon viaggio. -
Nel suo intimo Felce provava un vero piacere di rimanere un po’ tranquilla: non poteva vincere la
paura che Fuoco le faceva, e Acqua la stancava un poco coi suoi salti e coi suoi scherzi continui.
Fratello e sorella maggiore si misero dunque d'accordo per viaggiare insieme, e Felce non si mosse
dal luogo fresco e ombreggiato in cui si trovava. Salutandoli quando partirono, li assicurò che non si
sarebbe scostata di lì e avrebbe aspettato a prender marito al loro ritorno.
- Forse te lo troveremo noi marito, Felciolina, - disse Fuoco che, sebbene un po’ irascibile e
violento, in fondo era proprio buono - e ti porteremo uno sposo giovane, vivace e brillante.
- No, no! - ribattè Acqua. - Per nostra sorella ci vuole invece un uomo un po’ maturo, posato e
modesto.
- Ma che cosa dite tutti e due? - esclamò Felce un po’ stizzita. - Credo che meglio di tutti possa
giudicar io che cosa mi ci vuole: io voglio l’ Uomo Savio.
- Come mai hai fermato il pensiero su lui, Felciolina? - domandò Acqua.
- Perché lui è assennato, mentre io sono una pazzerella, - rispose Felce. - E poi ho sentito dire che
sta in un luogo tanto bello, e io mi struggo di aver proprio una casa mia. Certo, non sto male nemmeno
qui; ma avrei bisogno di un buon riparo nell’inverno e di maggior ombra nell’estate.
- E quando avremo scovato quest’ Uomo Savio, Felciolina, vuoi che te lo portiamo qui o desideri
andar tu da lui?
- Non saprei.... - rispose Felce. - Ma sarà meglio che venga qui lui; io non ho mai fatto un passo, e
non saprei da che parte rifarmi, si capisce. Da quando son nata sto seduta, e seduta morirò di certo. -
Acqua e Fuoco ripeterono alla sorella i loro addii e si misero in viaggio. Le avevano fatto due
promesse nel lasciarla: di veder di scovare l’ Uomo Savio e di non bisticciarsi mai; ma fatto appena
mezzo miglio, cominciarono a discutere: non si trovavano d’accordo sulla via da prendere per cercare l’
Uomo Savio.
- Io lo so dove è possibile trovarlo, - disse Fuoco. - Lo zio Sole ha un palazzo di rame in vetta a una
montagna ardente, e l’ Uomo Savio non può esser che lì. Andiamoci, prendendo per quel viottolo a
destra.
- No, no, - disse Acqua. - Io so bene che sta in una casa di limpido cristallo che sorge sopra un’ isola
tutta verde. L’ ho visto tante volte quel luogo, e prendendo quel sentiero a sinistra ci si arriva in un
momento.
- Come se un Savio potesse vivere in una casa di cristallo! - sogghignò messer Fuoco.
- Come se un Savio potesse vivere in un palazzo di rame! - sghignazzò madama Acqua.
Per quanto l’uno e l’altra dicessero, non riuscirono che a trovarsi d’accordo in una cosa: se pararsi,
andarsene ciascuno per conto suo.
Fuoco prese il viottolo a destra, Acqua prese il sentiero a sinistra, voltandosi in tal modo le spalle.
- Bada di non attaccar brighe per la strada, - gridò la sorella al fratello - perché hai un gran
caratteraccio, sai!
- Quanto a me, non aver paura, - replicò Fuoco. - Sta’ piuttosto attenta tu, a tener la lingua a freno. -
Quanto a questo, non ci pensar nemmeno,io mi so contenere, sai!
- E anch’ io. -
E fino a che non si furono allontanati, tanto da non vedersi e non udirsi più, non si chetarono.
Il loro viaggio non fu senza incidenti, perché ambedue erano un po’ presuntuosi e attacchini. Faceva
molto freddo, e Fuoco camminava già da un pezzo in campagna, quando, giunto nei dintorni della città,
vide una vecchia casa cadente. La casa apparteneva a un uomo molto avaro che vi abitava con un
nipotino.
Fuoco spinse l’uscio e andò in cucina; vi trovò l’avaro seduto dinanzi al camino in un fornello del
quale c’erano due o tre tizzi spenti di carbone, e in un canto della cucina il suo nipotino che tremava e
piangeva dal freddo.
- Che cos’ ha quel bambino? - domandò Fuoco.
- I ragazzi berciano sempre, si sa! - replicò l’avaro.
- Ho paura che codesto pianga perché gli fa freddo, - disse Fuoco.
- E che cosa gli posso far io, se ha freddo?
- Dovreste almeno mettere un altro po’ di carbone in codesto fornello. -
- Ma che! Il soffietto s’ è rotto, e io non ho la possibilità di accenderlo. -
Invece non era vero: l’avaro faceva così sol tanto per risparmiare il carbone.
- Allora ci penserò io ad accendere il carbone - disse Fuoco.
E aperta la bocca ne fece uscire una tal fiamma, che subito andò a lambire certi strofinacci che erano
attaccati alle pareti, i quali incendiarono dei vecchi mobili, e i mobili incendiarono le pareti di legno.
Messer Fuoco intanto era salito per la cappa del camino fin sul tetto e s’era messo a saltarvi sopra
allegramente. La vecchia casa ardeva da cima a fondo, e lui non pensava nemmeno che v’era dentro
non solo l’avaro, ma anche un bambino!
L’incendio non si limitò a quella casa, ma tutte le case che v’erano in quel gruppetto furono
danneggiate dalle fiamme; e sebbene fosse divorata interamente soltanto quella dell’avaro, tutti furono
d'accordo nell’ inveire contro messer Fuoco che era un individuo molto maligno e spietato; e quel la
povera gente non ebbe pace fin che non l’ebbe cacciato via.
Anche madama Acqua ebbe le sue vicende in viaggio. Dopo essersi separata dal fratello, per un bel
pezzo di strada non incontrò nessuno e si sentì piuttosto uggiosa; ma poi, postasi a camminare
seguendo il corso di un fiumicello, vide un giovane che andava a prender la fidanzata per celebrar le
nozze.
- Buon giorno; - disse Acqua - si fa la stessa strada, a quanto pare. Ho piacere di trovare un po’ di
compagnia perché mi annoiavo ad andare innanzi sola sola.
- Veramente io della compagnia non ne ho bi sogno, — disse ridendo il fidanzato — perché vado a
prender moglie.
- Davvero? Vengo anch’io con voi, allora, così vedrò la sposa. -
Il fidanzato storse un po’ la bocca, poi disse:
- Ebbene, se volete veder la sposa, non importa che veniate dietro a me: quando si ritorna di chiesa
si passa di qui, e potrete vederci benissimo tutti e due; no, no, con me non dovete venire! — insisté,
vedendo che quella sfacciatella stava per muoversi.
Acqua rimase male e prese quel rifiuto per un affronto; ma dissimulò il suo scontento, e dicendo
semplicemente che avrebbe aspettato, rimase lì tranquilla, mentre il fidanzato saltò in una barchetta e
remò per passare all’altra riva.
Dopo un’ oretta si udirono suoni, canti e risa, e Acqua vide la comitiva nuziale di là dal fiume.
La sposa era vestita con molta eleganza e aveva in capo la ghirlandina di fiori d’arancio; lo sposo le
stava accanto orgoglioso della bellezza di lei!
Quando egli vide Acqua le fece un cenno col capo e disse ridendo:
- Ora potete guardarla, la sposa.
- Grazie! — rispose Acqua.
Il giovane diede la mano alla fidanzata, ed ella scese nella barchetta e vi sedè; ma mentre egli stesso
stava per saltarvi e mettersi accanto a lei, il fiumicello si gonfiò in un baleno e la forza delle sue onde
trasportò così lontano la barchetta con la sposa dentro, che dopo un momento non si ve deva più.
Lo sposo imprecava e si strappava i capelli; la sposa mandava alte grida; tutti coloro che l’avevano
accompagnata alzavano le braccia al cielo, implorando: ma la barchetta non si fermò fino a che non fu
giunta dinanzi a un mulino, dove il mugnaio poté rattenerla.
Intanto lo sposo era corso lungo il margine del fiume, ma gli ci volle un pezzo prima di poter
raggiungere la sposa.
Egli capì che tutto il male era stato fatto da quella sguaiata dell’ Acqua che per veder bene in viso la
sposa si era sollevata oltremodo. Egli strinse i pugni e li stese minacciosamente verso lei; ma la
sguaiatella lo salutò gorgogliando un così grazioso «Arrivederci, sposo», che il buon giovane non poté
trattenersi dal ridere.
Acqua e Fuoco produssero altri guai durante il loro viaggio alla ricerca dell’ Uomo Savio. Non lo
facevano per malignità, ma piuttosto per sventatezza, e l’ultimo impiccio in cui si misero fu il peggiore
di tutti.
Era accaduto che dopo aver fatto l’ intero giro del mondo, i due fratelli erano ritornati nel punto
preciso in cui si erano separati, e mentre Fuoco entrava in un bosco da una parte, Acqua vi penetrava
dall’altra. Fuoco vi si era appena avanzato, allorché incontrò una lepre che correva disperatamente per
salvar la pelle.
- Perché fuggi? - le domandò.
- Un daino m’ insegue, - rispose la lepre senza fermarsi.
Difatti un momento dopo comparve un daino che anch’ esso pareva avesse le ali alle gambe.
- Dove vai? - gli domandò Fuoco.
- Do la caccia a una lepre, - replicò l’animale - e una volpe dà la caccia a me. -
Dopo qualche altro momento passò di gran carriera la volpe.
- Che c’ è? - le domandò Fuoco.
- Corro dietro a un daino, - essa rispose - ma dietro a me ci sono i cani e i cacciatori. - E schizzò via.
Vennero poi i cani e i cacciatori, e quando messer Fuoco chiese loro dov’ erano diretti, un cacciatore
rispose:
- Seguiamo la traccia di una lepre, di un daino e di una volpe.
- Allora verrò anch’ io insieme con voi, - disse Fuoco. - State a vedere che cosa son capace di fare. -
Ciò detto spalancò la bocca e respirò forte e scosse la chioma, talché tutti i rami degli alberi
cominciarono a incendiarsi, e dopo pochi minuti la foresta era tutta in fiamme.
Acqua frattanto, dopo essersi riposata per un poco in un acquedotto che attraversava la foresta,
s’inoltrava nella foresta stessa, quando udì un gran fracasso.
Si mise a guardare, e vide la lepre che arrivava tutta ansimante e trafelata.
- Che cosa ti è successo? - disse.
- Oh! - rispose la povera lepre. - Il daino mi dava la caccia, quando è venuto il Fuoco e ha messo in
fiamme tutta la foresta. -
Venne poi il daino, con le lacrime che gli gocciolavano lungo le gote.
- Si morirà tutti! - gemè il povero animale. - È inutile fuggire. -
E stramazzò in terra.
Dopo di lui giunse la volpe.
- Siamo condannati a bruciar vivi, - essa squittì. - Non me ne importa più nulla se vengono i
cacciatori! -
Comparvero dietro a quell’animale i cani e i cacciatori, ansimanti e stravolti, ma si fermarono tutti
insieme in un punto, tanto non v’ era scampo: il Fuoco li circondava da ogni parte.
- Daccapo! - fece Acqua. - Ecco mio fratello che ne ha fatta un’altra delle sue! Ma ora lo servo io. -
E balzando fuori dell’acquedotto, la corrente irruppe e si sparse per la foresta, e il Fuoco do vette
affrettarsi a mettersi il mantello. Ma mentre l’onda si spandeva e si sollevava sempre più, la lepre, il
daino, la volpe, i cani e i cacciatori urlavano:
- Per carità! Ora si affoga tutti! L’acqua è peggio del Fuoco. Come si fa a liberarsi? -
Ma Acqua disse soltanto:
- Buoni, buoni, non abbiate paura!
E passò oltre.
Si era avanzata di poco allorché incontrò Fuoco e gli disse:
- Bravo ragazzo! Hai fatto un altro dei tuoi stupidi scherzi, eh? Ma ti ho servito io. -
E lì cominciarono a litigarsi, e non smisero fino a quando non udirono un gran fracasso e delle grida
dietro a loro. Guardarono, e videro la lepre, il daino, la volpe, i cani e i cacciatori che, tutti infuriati,
cercavano di liberare il bosco dal Fuoco e dall’ Acqua, ed emettevano le grida più minacciose contro
loro.
Per salvare la propria vita Fuoco e Acqua dovettero uscire dalla foresta, e corsero e corsero, con
tutta la velocità che fu loro possibile, fin che giunsero a rifugiarsi in una caverna, dove entrarono per
nascondersi.
Sulle prime in quel buio non videro nulla, ma dopo un poco si accorsero che lì dentro c’era un
omiciattolo seduto su una pietra, con un drago nero steso ai suoi piedi.
Fuoco e Acqua si spaventarono tanto alla vista di quel drago, che stavano per correr via; ma quel
l’uomo li chiamò e domandò loro chi fossero.
- Noi siamo Fuoco e Acqua, - essi risposero. - Ma voi chi siete?
- Io sono l’ Uomo Savio. -
I due viaggiatori provarono molta gioia a quella risposta: era tanto che camminavano, e ora
sentivano proprio la stanchezza e il bisogno di riposo. Ma non si arrischiarono di avvicinarsi a
quell’omino per paura del drago.
Non abbiate paura di lui; - disse loro l’Uomo Savio - per ora non si muove, state tranquilli. È il più
bel drago che esista, ma anche il più pigro: io l’ ho preso prima con le buone e poi con le cattive, ma
non ho ottenuto nulla. Sebbene lo abbia perfino frustato, non c’ è stato verso di farmi trasportare un
po’ a spasso da lui; è tanto che sono in questa grotta e desideravo di uscire un po’; e appunto per questo
avevo fatto fare quella bella carrozzina che vedete costì già attaccata a lui; ma se non vuol venire, che
cosa ci posso fare?
- Morde? — domandò Acqua.
- Se morde? Non ve l’ho detto che è tanto pigro che non fa il minimo movimento?
- Ma ci penserò io a metterlo in moto! — disse Acqua.
- E anch’io! - esclamò Fuoco. - Vedrete che a noialtri due ci riuscirà di toglierlo alla sua
poltronaggine. -
Acqua andò dietro al drago e s’insinuò adagio adagio nel suo corpo, rinchiudendovisi; Fuoco invece
gli saltò sul collo e prendendolo per le corna lo incitò a andare innanzi. Sulle prime il drago rimase al
suo posto, ma prese un’espressione più torva e feroce di quel che già avesse; poi, quando sentì dentro di
sé Acqua e sul collo Fuoco, s’infuriò: i suoi occhioni tondi luccicarono come due tizzi accesi, e si mise a
dimenarsi, a fischiare, a sbavare, tanto che l’Uomo Savio non si arrischiò ad avvicinarsi.
Né Fuoco né Acqua potevano invece averne paura: Acqua era al sicuro dentro di lui, Fuoco lo
teneva per le corna; fin che il drago, non potendone più, dopo un grande starnuto si precipitò fuori
della caverna, emettendo dalle narici fumo e vapore.
- Fermatevi, fermatevi! - gridò l’ Uomo Savio. - Non vi allontanate senza di me. -
Ebbe appena tempo di montare nel carrozzino, perché il drago prese subito il volo e non si
soffermò che quando fu giunto al famoso bosco in cui Fuoco e Acqua avevano prodotto poco prima
tanti guai.
Il daino, la lepre, la volpe, i cacciatori e i cani erano sempre alla loro ricerca per punirli mortalmente;
nel vedere Fuoco sopra il drago essi cominciarono a urlare e spinsero verso lui i loro cavalli; ma Fuoco
avvertì Acqua del rischio che correvano, e fra tutt’ e due guidarono così bene il drago, che in un
momento esso si era lasciato molto indietro il bosco coi suoi pericoli.
Giunti nel fresco recesso della sorella, la vista di quel drago spaventò immensamente Felce; ma
subito Fuoco balzò a terra e Acqua uscì dal corpo del mostro il quale, appena toccato il suolo, ritrovò la
sua poltroneria e rimase immobile.
Frattanto l’ Uomo Savio, uscito dalla sua carrozzina, si avvicinò a Felce, e dopo averle fatto un
gentile saluto le lodò il contegno dei suoi due fratelli.
Felce fu tutta contenta, e allora Acqua e Fuoco si ritirarono lasciandola sola con l’ Uomo Savio.
Quando, un’ora dopo, essi tornarono presso la sorella, questa annunziò loro che si era fidanzata con
l’ Uomo Savio ma a patto che le facesse una bella casina tutta di vetro.
Senza perder tempo il fidanzato la fece costruire, poi, postavi dentro Felce, la mise nella sua
carrozzina, rimasta sempre attaccata al drago.
Siccome esso era sempre restio a muoversi, e non obbediva alle ingiunzioni del suo padrone di
condurlo subito nella propria residenza, Acqua e Fuoco lo fecero obbedire col solito sistema.
Ripartirono dunque tutti insieme, e giunti a destinazione Fuoco e Acqua lasciarono la loro so rella
con lo sposo; ma nel separarsi le promisero di nuovo di non bisticciarsi mai più; però, con tutta la loro
buona volontà, furono ben poche le occasioni in cui Fuoco e Acqua non si trovassero in contrasto.
L’UOMO DELLA FORTUNA

C’era una volta un Re che aveva un unico figlio, e questo si chiamava Magiotto.
Quando il giovane ebbe diciotto anni, suo padre dovette partire a capo del proprio esercito per
muover guerra a uno Stato confinante. Egli affidò la reggenza del regno a suo figlio, ma gli proibì di
ammogliarsi fin che non fosse di ritorno lui.
Trascorse parecchio tempo. Il Principe governava saviamente e non rivolse mai il suo pensiero al
matrimonio; ma quando ebbe compiuto il venticinquesimo anno, cominciò a pensare che gli sarebbe
piaciuto di avere, come tanti altri giovani, una bella sposa; e a poco a poco questo pensiero divenne in
lui così assillante, ch’egli non trovava più requie.
Si ricordava per altro ciò che suo padre aveva detto, e aspettò ancora un pezzo ad ammogliarsi, fin
che, passati ormai dieci anni che il Re era andato alla guerra, Magiotto radunò i suoi cortigiani e partì
con un gran seguito alla ricerca di una sposa.
Non sapeva nemmen lui che strada prendere, per cui nei primi venti giorni andava un po’ a caso.
Alla fine del ventesimo però, egli si trovò senza saperlo nell’accampamento di suo padre.
Il Re si mostrò lieto di veder suo figlio e aveva una grandissima quantità di cose da domandargli e a
cui rispondere; ma quando udì che, invece di esser venuto per fare una visita a lui, Magiotto s’era messo
in viaggio per cercar moglie, s’ irritò moltissimo e disse:
- Andate pure dove vi pare, ma solo; io non permetto che vi portiate dietro nemmeno uno dei miei
gentiluomini. -
Ma un fedele scudiere non volle a nessun costo lasciare il Principe e lo seguì furtivamente.
Essi viaggiarono per monti e per valli, e finalmente giunsero a un paese detto Città d’ Oro.
Il Re della Città d’ Oro aveva una bella figliuola, e il Principe, che ne aveva sentito parlare, anelava di
vederla.
Magiotto fu accolto festosamente, perché era un giovane di bell’aspetto e di modi cortesi; per cui
non mise tempo in mezzo, e chiese subito la mano della Principessa ai regali genitori di lei, che
gliel’accordarono con gioia.
Furono celebrate subito le nozze, e i festeggia menti e le esultanze si protrassero per un mese intero.
Alla fine di quel mese gli sposi si misero in cammino per andare nel paese di cui il Principe era
reggente; ma siccome il viaggio non si poteva fare senza tappe, gli sposi passarono la prima sera in un
albergo.
Nella casa tutti dormivano, e soltanto il fedele scudiero vegliava.
Verso mezzanotte egli udì tre corvi che, appollaiati sul tetto, discorrevano insieme.
- V’è qui una bella coppia arrivata stasera, - sussurrò il primo corvo. - Dico la verità, è un peccato
che quei due sposi debbano perder la vita così presto.
- Davvero! - esclamò il secondo corvo. - Perché domani, quando batterà mezzogiorno, il ponte sul
Fiume d’ Oro si sfascerà proprio mentre essi ci passano a cavallo.
- Ma, lo sapete? - fece il terzo corvo. - Chiunque sia stato ad ascoltarci e poi racconti ciò che ci
siamo detti fra noi, sarà cambiato in pietra fino alle ginocchia. -
Ciò detto i tre corvi spiccarono il volo.
Subito dopo vennero tre piccioni.
- Anche se per un caso loro propizio il Principe e la Principessa uscissero sani e salvi dal ponte,
morirebbero egualmente, - dissero quegli ani mali - poiché il Re sta per mandar loro incontro una
carrozza di aspetto sontuosissimo, ma quando essi vi si saranno seduti, imperverserà un tal vento, che
solleverà la carrozza e la farà turbinare fino a grande altezza; poi essa ricadrà in terra di scoppio, e i
Principi rimarranno uccisi. Ma chiunque abbia potuto udirci e riferisca le nostre parole, diverrà di pietra
fino alla cintola. -
Ciò detto, i tre piccioni volarono via, e sul tetto vennero a posarsi tre aquile.
Lo scudiero udì far dalle aquile questo discorso:
- Qualora la giovane coppia sfuggisse ai pericoli del ponte e della carrozza, il Re troverebbe un altro
modo per sbarazzarsene, dando a Magiotto e alla sua sposa una splendida veste ricamata per ciascuno:
appena se la saranno messa indosso, prenderanno fuoco e moriranno.... Ma chiunque possa aver udito
le nostre parole e le sparga, diverrà di pietra dal capo ai piedi. -
La mattina seguente, di buon’ora, i viaggiatori si alzarono e fecero colazione. Ognuno cominciò a
parlar dei propri sogni; per ultimo lo scudiero disse:
- Grazioso Principe, io ho sognato che se Vostra Altezza si attenesse a tutti i consigli che io potrei
darle, ritorneremmo a casa sani e salvi; ma che se Vostra Altezza non lo facesse saremmo perduti. I
miei sogni non m’ingannano mai, per cui vi supplico di seguire ogni mio consiglio per tutto il resto del
viaggio.
- Oh, non c’è bisogno di dar tanto peso a quel che si sogna! - disse il Principe. - I sogni sono come
le nuvole, si dileguano col sole. Ma, insomma, per non tenervi in pensiero e per contentarvi, vi
prometto di fare ciò che desiderate. -
E ripresero subito il loro viaggio verso casa.
A mezzogiorno giunsero al Fiume d’ Oro. Mentre si avviavano al ponte lo scudiero disse:
- Lasciamo qui la carrozza, Altezza, e camminiamo un po’ a piedi. La città è poco distante, e là
potremo trovar facilmente un’altra vettura in migliore stato di questa che ha le ruote assai malandate e
che potrebbero farci rimanere a mezza strada. -
Il Principe guardò bene la carrozza: veramente le ruote non gli pareva che presentassero il pericolo
temuto dal suo scudiero; ma avendo dato la sua parola di ascoltarlo, volle mantenerla.
Scesero dunque di carrozza e caricarono i bagagli sui cavalli.
Gli sposi passarono a piedi il ponte, ma lo scudiero disse che avrebbe fatto traghettare il fiume ai
cavalli per rinfrescarli e pulirli dalla polvere di cui erano coperti.
Magiotto e sua moglie giunsero senza incagli all’altra riva, e comprarono in città un’altra carrozza,
poi ricominciarono il loro viaggio; ma si erano appena mossi, quando furono raggiunti da un inviato del
Re, il quale disse al Principe:
- Sua Maestà il Re vostro padre manda a Vostra Altezza questa bella carrozza assai più comoda di
quella che avete, e più degna del vostro grado, acciocché possiate fare un più conveniente ingresso nella
vostra città ed essere maggiormente ammirato dal popolo. -
Il Principe rimase così sorpreso e contento di quel bel dono, che non aveva parole per ringraziare;
ma lo scudiero disse subito:
- Altezza, permettetemi di esaminar la carrozza prima che vi montiate con la Principessa; vorrei
vedere se tutto è proprio in ordine, se è abbastanza forte per farci continuare con sicurezza il lungo
viaggio; altrimenti potrete restare in quel la in cui siete, che è costruita perfettamente. - Il Principe si
piegò a quel desiderio pieno di zelo, e lo scudiero, dopo aver esaminato di fuori e di dentro la carrozza,
disse, scotendo il capo:
- Questa carrozza è magnifica, ma non è adatta a percorrer le strade assai aspre per cui dovremo
passare; guardate, Altezza, com’ è fragile. -
E dato qualche colpo in alcune delle sue parti, la rese inservibile al trasporto dei viaggiatori.
Essi ripresero dunque la loro strada nella carrozza che avevano comprata, e dopo qualche ora
giunsero al confine del regno del padre di Magiotto.
Lì furono raggiunti da un secondo inviato il quale disse che il Re aveva mandato loro due splendide
vesti e li pregava d’ indossarle per fare il loro ingresso nella capitale. Ma lo scudiero supplicò il Principe
di non farne di niente, e non gli diede pace fino a che non ebbe ottenuto che mettesse in pezzi quelle
vesti.
Il vecchio Re era furibondo nel vedere che tutte le sue arti fallivano, perché la legge del suo regno
ingiungeva che quando il Principe ereditario fosse ammogliato, il padre dovesse cedergli la corona.
Il vecchio Re si fece dunque ricondurre sollecitamente nei suoi Stati, e vi giunse prima del l’arrivo di
Magiotto. Egli lo ricevè seduto sul trono, con la corona in capo e brandendo lo scettro che a nessun
costo avrebbe voluto cedere.
«Ma come avrà fatto Magiotto a sventare tutte le mie arti?» egli pensava.
E appena suo figlio fu dinanzi a lui gli disse:
- Mio caro Magiotto, prima di tutto mi rallegro del vostro felice ritorno in patria; ma mi rincresce
che non abbiate voluto accettare il dono da me fattovi di quella splendida carrozza e di quelle vesti
maravigliose: vorreste dirmi perché faceste rovinar la carrozza e mettere in pezzi le vesti?
- Sire, - rispose Magiotto - se devo dirvi la verità, il guasto della carrozza e la distruzione delle vesti
rincrebbero molto anche a me; ma il mio scudiero mi aveva pregato di lasciare a lui l’ intera direzione di
ciò che poteva occorrere per il nostro viaggio, assicurandomi che se la Principessa ed io volevamo
tornare a casa sani e salvi, bisognava fare come egli consigliava. -
Il vecchio Re, tutto sdegnato, fece subito adunare il Consiglio, e lo scudiero fu condannato a morte.
Poiché avevano sentenziato di farlo impiccare, la forca fu rizzata difaccia al palazzo reale; vi
condussero il condannato e gli lessero la sentenza.
Già stavano per passargli al collo la fune, quando egli chiese che gli fosse concesso di dire qual che
parola. Avutone il permesso, egli narrò come nel viaggio di ritorno gli augusti sposi e lui si fossero
fermati la prima sera per pernottare in un albergo, e che non potendo dormire egli s’ era messo alla
finestra ed erano giunti al suo orecchio certi segreti colloqui fatti prima da tre corvi, poi da tre piccioni e
per ultimo da tre aquile.... Ma appena ebbe riferito ciò che avevano detto i corvi, egli sentì uh gelo
invadergli la parte inferiore della persona, e nel medesimo istante si pietrificò fino ai ginocchi.
Il Principe gli gridò che bastava quanto aveva già detto, ma lo scudiero volle portare fino in fon do il
suo racconto, e alla fine di esso era diventato tutto di pietra dal capo ai piedi.
Il Principe provò un dolore inesprimibile per la perdita di quel fedelissimo scudiero; e ciò che più lo
angustiava era il pensiero che egli fosse stato cambiato in pietra per la sua fedeltà. Non trovando più
pace, egli deliberò finalmente di mettersi in viaggio e di non tornare nella sua patria fino a che non
avesse trovato il modo di rendere al suo benamato scudiero il suo stato naturale.
Viveva ancora a Corte la balia del Principe. A lei Magiotto confidò il suo proposito e volle che
durante la sua assenza quella buona donna vegliasse sulla Principessa sua moglie.
- Ho paura che starete fuori un pezzo, mio caro figliuolo! - disse la balia. - Non vi sarà possibile
ritornare fin che non abbiate trovato l’Uomo della Fortuna; se non vi può aiutar lui, purtroppo dovrete
abbandonare l’impresa. -
Il Principe si mise dunque alla ricerca di quest'Uomo della Fortuna. Nel proprio regno non poté
trovarlo, e allora ne uscì e andò a farne ricerca in una boscaglia dove camminò tre giorni e tre notti
senza incontrare anima viva.
Alla fine del terzo giorno giunse presso un fiume sulla cui riva egli vide un grande mulino. Lì egli
passò la notte, e la mattina, quando si alzò per andarsene il mugnaio gli domandò:
- Mio bel gentiluomo, dove andate così solo solo? -
E il Principe gli disse che andava a cercar l’Uomo della Fortuna.
Allora il mugnaio riprese:
- Ebbene, se lo trovate, vi pregherei di do mandargli come mai, sebbene io abbia un ottimo mulino,
con tutte le sue masserizie in ordine, e tanta gente mi porti il grano da macinare, io sia tanto povero che
duro fatica a campare giorno per giorno. -
Il Principe gli promise d’ informarsene e pro seguì la sua strada.
Camminò per altri tre giorni, e alla fine del terzo egli si trovò presso una piccola città. Era assai tardi
quando vi giunse, ma non la vide illuminata in nessuna parte, e per quanto vi camminasse, non gli riuscì
di scorgere una casa dove poter entrare.
Finalmente, andando sempre innanzi, vide un lumicino alla finestra di un palazzotto; vi bussò, e
aperto che gli ebbero egli si trovò in una stanza dove tre ragazze scherzavano fra loro. Magiotto
domandò a una di esse se fosse possibile avere asilo per quella notte; e gli fu gentilmente risposto di sì.
Le tre ragazze apparecchiarono subito una tavolina e gl’ imbandirono da cena, poi andarono a
preparargli la camera.
La mattina seguente, quando egli prese commiato da loro, le ragazze gli domandarono dove
intendeva di andare; ed egli fece loro tutto il racconto della trasformazione del suo povero scudiero
della quale accusava se stesso.
- Principe, - disse una delle tre ragazze - noi vi auguriamo di trovare l’ Uomo della Fortuna; e se,
come speriamo, v’ imbatterete in lui, abbiate la bontà di domandargli da parte nostra come mai noi, che
non ci possiamo poi dir tanto brutte, abbiamo passato la trentina senza che nessuno ci abbia chieste in
moglie. Avete veduto da voi che siamo anche educate, e buone donne da casa. -
Il Principe le assicurò che ne avrebbe chiesto spiegazione, e si rimise in cammino.
Ben presto si trovò in un’altra foresta, e gli ci volle una giornata e una nottata intera prima di
giungere alla fine di essa. Finalmente, uscitone, trovò un ruscelletto che era diverso da tutti quelli «la lui
fin allora veduti, perché invece di scorrere saltellava, sempre nello stesso punto e parlava.
- Figlio di Re, — disse con voce argentina - chi ti conduce in questi orridi luoghi? Son più di cento
anni che io mi trovo qui, e tu sei la prima persona che vedo passare.
- Ve lo posso dire, - rispose il Principe - se ritrarrete per un momento le vostre acque in modo ch’io
possa passare. -
Il ruscello fu compiacente, e il Principe poté passare all’altra riva senza bagnarsi; allora si mise a
sedere sul margine erboso e narrò la sua storia al ruscello.
- Quando avrai trovato l’Uomo della Fortuna, - esclamò il ruscello - fammi il piacere di domandargli
come mai io, che ho le onde così fresche e cristalline, non ho nemmeno un pesciolino nelle mie acque.
-
Il Principe promise di contentarlo e riprese il suo viaggio.
Dopo essersi allontanato un bel pezzo dalla foresta, egli si trovò in una piccola valle attraversando la
quale giunse a una casetta rustica e trovatone l’uscio aperto vi entrò per chiedere da dormire.
Vide che nell’ interno della casetta tutto era lindo e lucido, e che dinanzi a un caminetto acceso
sedeva una vecchierella d’aspetto affabilissimo.
- Buon giorno, buona donna! - disse Magiotto.
- Siate il benvenuto, figliuolo mio. Che cosa vi conduce da queste parti?
- Cercavo l’ Uomo della Fortuna, - rispose il Principe.
- Allora siete capitato proprio nel luogo dove potete trovarlo, perché io sono sua madre, - riprese la
vecchietta. - Ora però non è in casa: è andato a zappare nella vigna: potete andar da lui, se volete. Ecco
qui due zappe. Quando lo troverete, mettetevi a zappare anche voi, ma non gli dite una parola. Ora
sono le undici: quando vedrete che si mette a sedere per far colazione, imitatelo e mangiate con lui;
quando avrà finito, vi farà qualche domanda, e voi gli esporrete francamente i vostri guai: lui risponderà
a qualunque domanda gli facciate.
Ciò detto essa gl’ insegnò la strada, e il Principe andò e fece come gli era stato consigliato. Dopo che
ebbero mangiato, quell’ uomo e lui si stesero sull’erba per riposare.
A un tratto l ’Uomo della Fortuna cominciò a parlare e disse:
- Ma che razza di persona siete, che non si sente la vostra voce?
- Veramente, muto non sono; - replicò il giovane - ma sono quello sventurato Principe il cui fedele
scudiero fu trasformato in una statua di pietra, e bramerei sapere come farlo ritornare nel suo naturale
aspetto.
- Fate bene a occuparvene perché lo merita. Ritornate indietro, e quando giungerete a casa, vostra
moglie darà in quel momento alla luce un bambino. Prendete tre gocce del sangue del dito mignolo di
quel bambino, soffregate con esse i polsi del vostro scudiero con un filo di un’erba che vi darò io, ed
egli ritornerà com’era.
- Avrei da domandarvi un’altra cosa, - disse il Principe quando lo ebbe ringraziato. - In una foresta
non molto lontana di qui, v’ è un bel ruscello, ma non vi si trova dentro nemmeno un pesciolino: come
mai?
- Ciò dipende perché nessuno v’ è mai ancora affogato; ma state bene attento di esser già molto
vicino all’altra riva prima di dargli questa risposta, altrimenti potreste esser voi la prima vittima.
- Ora vorrei chiedervi un’ altra spiegazione. Nel venir qui trovai una notte asilo in casa di tre ragazze;
erano tutte e tre bene educate, brave massaie e graziose fanciulle, ma mi dissero che nessuna di esse è
stata mai chiesta in moglie da alcuno. Perché?
- Perché quando hanno spazzato la casa gettano fuori le immondizie in faccia al Sole.
- E come mai il mugnaio che ha un bel mulino ben provvisto dell’occorrente al suo mestiere, e tutto
il giorno non fa che macinar grano, è così povero, che dura fatica a campare giorno per giorno?
- Perché quel mugnaio è un egoista, e vuol tutto lui, senza dar nulla a chi ha bisogno. -
Il Principe si cavò di tasca un taccuino e vi scrisse tutte le risposte avute. Poi ringraziò calda mente l’
Uomo della Fortuna e si mise in cammino per tornare a casa.
Quando giunse al ruscello si sentì subito domandare dalla voce argentina delle sue onde, se gli
portava buone notizie.
- Ve le dirò quando sarò all’altra riva, - rispose Magiotto.
Il ruscello ritrasse subito le sue acque e lo lasciò passare. Giunto che fu in cima al ciglione, il Principe
disse:
- Ascoltate, ruscello: l’ Uomo della Fortuna dice che non avrete abitatori fin che qualcuno non sia
affogato nelle vostre onde. -
Appena che quelle parole gli furono uscite di bocca, il ruscello si gonfiò e straripò inondando il
ciglione su cui era salito Magiotto. Ma poiché egli stava in guardia, si tenne ben saldo, e soltanto gli
spruzzi dell’acqua gli bagnarono la persona. Per tre volte il ruscello fece giunger fin sul ciglione le sue
ondate; poi si calmò e riprese placidamente il suo corso.
Allora il Principe scese di sulla scarpata, andò ad asciugarsi al sole, poi riprese il suo cammino.
Giunto nella foresta, bussò all’abitazione delle tre cortesi e avvenenti ragazze che gli avevano dato
albergo e portò loro la risposta dell’ Uomo della Fortuna: di non buttar cioè più la spazzatura in faccia
al Sole.
Passò poi dal mulino, e riferì al mugnaio la spiegazione avuta circa il suo meschino stato.
Appena che il Principe fu di ritorno in patria, accadde che una banda di ladri cercasse di traghettare
il ruscello con un bel cavallo che avevano rubato: ma quando furono a mezzo, le onde si gonfiarono in
tal modo, che li travolsero tutti: e da allora in poi esso ebbe il suo regolare corso d’acqua ben popolato
di pesci.
Le tre sorelle, appena non insultarono più il Sole col gettargli in faccia le immondizie, trovarono
tutt’e tre marito in una settimana.
Il mugnaio cominciò ad assistere il suo prossimo, e in breve tempo arricchì.
Giunto nel suo palazzo, il Principe trovò che sua moglie aveva dato allora allora alla luce un bel
bambino. Senza perdere un momento, egli punse con uno spillo il dito mignolo del piccino, e con le tre
gocce di sangue che ne uscirono strofinò, mediante il magico filo d’erba, i polsi dell’uomo di pietra, il
quale fece un grande scossone e con immenso fragore sprigionò dalle rigide membra il fedele scudiero
in carne e ossa.
Nel veder ciò, il vecchio Re, schiumante di rabbia, fece per scagliarsi furiosamente su lui, ma a un
tratto fu visto vacillare e cadere in terra: era morto.
Lo scudiero rimase con Magiotto proclamato subito Re, e se né lui né il suo padrone sono morti, egli
lo serve di certo tuttora.
IL REGNO DEI BAMBINI

C’era una volta un Re e una Regina che avevano un regno piccolissimo: il Re si chiamava Bertoldo e
la Regina, Liliana.
Bertoldo non era punto ambizioso né desiderava ingrandirsi; pure, siccome a tempo di suo padre
c’erano stati nel regno un gran siniscalco, un ministro delle finanze e un agente delle tasse, volle
nominarli anche lui; fece altresì batter moneta ed emanò dei decreti a cui i suoi sudditi dovevano
obbedire.
A gran siniscalco, il Re aveva nominato suo suocero, che si chiamava Cabosce, uomo franco,
sincero, giusto, dotalo di buon senso, il quale, prima di prendere una risoluzione, ponderava molto le
cose.
Il genero, che aveva una sconfinata fiducia nel senno del suocero, non faceva nulla senza chiedergli
consiglio.
Tutte le mattine Cabosce andava dal Re e faceva colazione con lui; poi parlavano di affari; ma spesso
spesso quel ministro gli diceva:
- Sire, scusatemi se ve lo dico, ma di certe cose non ve ne intendete; lasciate fare a me, e tutto andrà
bene: ciascuno deve occuparsi di quello per cui ha più attitudine.
- E io che cosa devo fare, allora? - replicava il Re.
- Quel che volete voi: farete compagnia alla Regina, vi gingillerete un po’ nell’orto... per voi ci vuol
codesto.
- Forse tu dici bene, - rispondeva il Re. - Mi rimetto in te, dunque. -
Tuttavia, per non scadere nella considerazione del suo popolo, nei giorni festivi il Re si rivestiva col
manto di tela rossa sparso di gigli d’oro stampati, si metteva in capo una corona di cartone dorato, e
brandiva lo scettro di legno, dorato anche quello: aveva comprato tutta quella roba da un vecchio
comico ambulante che ormai non recitava più.
La regina Liliana accudiva alle faccende domestiche. Marito e moglie menavano una vita placida e
felice, aspettando che il cielo volesse conceder loro la grazia di un figlio.
Dopo due anni di matrimonio la ottennero, e i loro voti furono perfino sorpassati, perché dopo il
primo maschio ne ebbero altri tre, e poi tre femmine.
Quando quei sette figliuoli furono grandicelli, i loro genitori e molte persone della Corte
cominciarono a stillarsi il cervello sulla via che dovevano far loro prendere; perché il regno era tanto
piccolo, che sarebbe stato difficile spartirlo.
Inoltre quei sette fanciulli avevano poca soggezione dei genitori, e crescevano bizzosetti, cocciuti,
svogliati, e con parecchi altri difetti.
La Regina madre s’impensieriva molto sulla loro sorte.
Una mattina che la Regina faceva dei biscottini, scòrse sulla spianatoia un topolino celeste che ne
rosicchiava uno. Essa fece l'atto di scacciarlo, ma poi rimase ferma col braccio: quel topolino le
sembrava molto strano.
Intanto l’ animaletto s’ era impadronito del biscotto pronto per mettere in forno, e se lo portava
sotto la cappa del camino.
Corsa dietro al topo per togliergli la sua preda, la Regina vi trovò invece una vecchina tutta grinzosa,
alta appena un palmo.
Dopo parecchie smorfie e alcune parole poco intelligibili, quella minuscola vecchia formò una croce
con la paletta e con le molle, con la granata vi tracciò sopra tre circoli e tre triangoli, emise sette
strillettini, poi buttò per aria la granata facendosela ricadere dietro le spalle. Nonostante il suo terrore,
alla Regina non era sfuggito che la vecchia, nel tracciar quei circoli e quei triangoli, aveva pronunziato
distintamente le tre parole: fiducia, discrezione, felicità. Pensava che cosa potessero significare, quando
un rumore che veniva dalla stanza attigua la trasse dalla sua meditazione. Le parve di riconoscer la voce
di Cadicino, che era il maggiore dei suoi figliuoli, e subito accorse; ma appena aperto l’uscio vide tre
grossi scarafaggi ciascuno dei quali teneva fra le zampe una delle sue figliuole, e tre grandi libellule con
le ali azzurre e trasparenti, ciascuna delle quali aveva a cavalcioni uno dei Principini.
Tutti quegli animali, involandosi sveltamente dalla finestra, si misero a cantare in coro una graziosa
melodia col ritornello: «Vola, vola».
Ma quel che più agitò la Regina fu di vedere in mezzo ad essi Cadicino fra le zampe del topo celeste:
l’uno e l’altro erano su un piccolo carro formato da un enorme guscio di lumaca color di rosa e tirato da
due cardellini. Il topo era più grande assai di quel che non siano per il solito quegli animali.
Carro, scarafaggi e libellule partirono con tanta velocità, che la Regina li perdette subito di vista.
Allora si mise a piangere e a urlare con quanto fiato aveva.
Il Re, che la udì, accorse seguito dal gran siniscalco, e volle sapere la cagione del suo dolore; ma la
povera madre non poteva rispondergli che esclamando:
- Ah, Sire, ci hanno rapito i nostri figliuoli!
Il Re ordinò a Cabosce di prendere in antica mera due schioppi; poi corse fuori all’ impazzata per
raggiungere e uccidere i rapitori.
Era partito da circa un’ora, e la Regina, che non aveva più lacrime, tante ne aveva versate, udì cadere
qualche cosa accanto a lei, e vide ai suoi piedi un foglietto piegato in quattro. Lo aprì subito con grande
ansietà, e vi lesse queste parole:
«Non state in pensiero, cara Liliana, e ricordatevi che la vostra felicità dipende dalla fiducia e dalla
discrezione. Dovete sperar tutto dalla vostra amica, che è la fata Topetta, dell’ Isola dei Bambini.»

Quel biglietto calmò l’ agitazione della Sovrana; e allora, rivolgendosi a un fanello che era andato a
posarsi sul parato del suo letto, gli disse:
- Fanello, per carità, guardate di darmi di tanto in tanto notizie dei miei ragazzi; io farò per voi
qualunque cosa mi chiediate. -
A tali parole l’uccellino battè le ali, cantò e spiccò il volo; e la Regina, credendo che quello fosse un
modo per dire che acconsentiva, lo ringraziò e gli fece un grande inchino.
Intanto il Re e il gran siniscalco, stanchi per aver corso inutilmente, ritornarono a casa e trovarono la
Regina così tranquilla che ne rimasero scandalizzati. Quella calma irritò tanto il Re, che avrebbe preso
una furia con lei, se il gran siniscalco non si fosse messo a dirgli che i figliuoli danno sempre molto da
fare ai genitori, procurano loro sempre dei dispiaceri, e che per mantenerli ci vuole una grande spesa.
- Mio suocero non dice male! - esclamò allora il Re. - Tutti quei marmocchi a lungo andare mi
avrebbero rovinato: dovrei ringraziare chi mi ha sbarazzato di loro. -
La Regina ebbe paura di dir troppo e tacque per prudenza, e il Re, non avendo altro da aggiungere,
tornò nel suo gabinetto a fare una partita a carte col gran siniscalco.
Mentre alla Corte del re Bertoldo si dicevano queste cose, la fata Topetta aveva trasportato i sette
fanciulli nell’ Isola dei Bambini.
Quell’ isola non era abitata che da fanciulli posti sotto la protezione delle Fate, e da coloro addetti a
servirli; vi regnava continua primavera; gli alberi e i prati erano sempre ricoperti di frutta e di fiori, e la
terra vi produceva spontaneamente, senza bisogno di coltivarla, tutto quel che poteva riuscir grato al
gusto e alla vista; vi si trovavano incantevoli passeggiate, molti e ameni giardini pieni di carrozzine tirate
da cani barboni con lunghi orecchi; ma la cosa più attraente erano le camere dei fanciulli, con le pareti
di zucchero caramellato, i pavimenti di scorza di limone candita e i mobili di squisito marzapane.
Quando i bambini erano buoni, potevano mangiar di tutta quella roba senza che nessuno si
accorgesse che era stata sbocconcellata o addentata, perché i pezzi mancanti ritornavano subito. Oltre a
ciò, per le strade e per i viali di quell’ isola si trovavano sempre ogni specie di bambole magnificamente
vestite, che camminavano e ballavano da sé veramente bene.
Le bambine che non erano né superbiose né ghiotte né disobbedienti, bastava che desiderassero
dolci e frutta, e subito se li trovavano in mano; pensavano di prender la bambola, e subito la bambola
saltava loro in collo e si lasciava vestire e spogliare, accarezzare e sculacciare con una compiacenza e
una sottomissione incredibili. Ma quando le bambine erano state cattive, se andavano per prender la
bambola se la vedevano scappar di sotto gli occhi con una smorfia, e le frutta e i dolci che prendevano
diventavano amarissimi.
I bambini poi, quando non erano né caparbi né bugiardi né pigri, avevano Pulcinella, aquiloni,
racchette, e tutti i giocattoli che si può immaginare; ma quando la Fata ne era scontenta, i Pulcinella li
canzonavano e scoprivano tutte le loro marachelle, gli aquiloni non intendevano d’ innalzarsi, e le
racchette si trovavano sfondate: insomma, nulla riusciva loro.
Mentre i figli di Bertoldo e di Liliana rimanevano nell’ Isola dei Bambini, furono messi in uso tutti i
mezzi possibili e immaginabili per vincere la caparbietà dei quattro maschi e l’albagia delle tre femmine,
e bisogna dire che in capo a quattro anni la fata Topetta, governatrice dell’ isola, era riuscita a cambiare
del tutto il loro carattere e la loro educazione.
Essi erano già grandicelli, e la Fata pensava di riportarli ai loro genitori; ma prima volle recarsi a
vedere come questi si trovassero. E vi andò sola, lasciando i sette Principini nell’isola.
Quando ella giunse nel piccolo regno del re Bertoldo, lo trovò tutto in subbuglio, ed eccone il
motivo: da un pezzo la casa in cui Sua Maestà dimorava cadeva in rovina. Tenuto consiglio col suo
primo architetto, il Re aveva risoluto di fabbricarne una di sana pianta: ma gli mancava il più e il meglio:
gli mancavano i quattrini. Per averli, bisognava gravare di tasse il suo piccolo popolo; e il Re, consigliato
dal gran siniscalco, non voleva saperne di sacrificare i suoi sudditi. Allora il ministro delle finanze e
l’agente delle tasse cominciarono a biasimarlo, dicendo che non sapeva far valere i suoi diritti, che era
inutile di esser Re se non intendeva di comandare, che i sudditi erano fatti per pagare e i Re per
spendere, e simili altre baggianate: lo esortarono, insomma, a non dar retta al gran siniscalco il quale,
secondo loro, non capiva nulla addirittura.
Il Re non sapeva più a chi dar retta ed era proprio impensierito.
Ma la fata Topetta, che per qualche tempo era stata testimone di quanto avveniva in quella Corte,
volle trarre d’ impaccio Bertoldo, e un bel giorno il Re, alzatosi all’ alba, fu stranamente sorpreso nel
trovarsi in una casa nuova nuova e ammobiliata con quanto era necessario. Non si sapeva proprio
raccapezzare. Quando poi aprì una delle finestre della sua camera, invece del suo orticello scòrse un
prato sparso di aiuole fiorita in mezzo al quale c’era un bel laghetto, e in fondo un bosco di piante
d’alto fusto.
Il Re stette per qualche tempo a guardare quel prodigio; poi la sorpresa diede luogo alla gioia, ed egli
corse al letto della Regina che ancora dormiva e la svegliò gridandole:
- Moglie, moglie mia, alzatevi subito: venite a vedere una casa nuova nuova, degli splendidi giardini!
Guardate se vi raccapezzate un po’ voi: io non ci capisco proprio niente. -
La Regina si mise alla finestra col Re, e dopo aver guardato un po’ fuori, egli la condusse a fare il
giro di tutti gli appartamenti; quindi scesero a passeggiare insieme nel nuovo giardino.
Tutte quelle maraviglie incutevano al Re come un sacro terrore; ma la Regina, che indovinava a chi
fosse dovuto quel cambiamento, non aveva paura: tuttavia non parlò.
Erano ancora ambedue in quello stato d’animo, allorché il gran siniscalco, a cui non era stato più
possibile trovare la vecchia casa del Re, entrò nella nuova, più per curiosità che nella speranza di
trovarvi i Sovrani: anche lui non aveva mai visto che lì vi fosse un palazzo e non sapeva capacitarsi
come ora potesse trovarvisi.
Il Re fu molto contento quando vide entrare il suocero, e tenendo sempre a braccetto la Regina,
volle fare una seconda volta il giro di tutte le stanze perché il gran siniscalco le vedesse. Ed egli pure se
ne compiacque moltissimo.
V’ è da figurarsi quanto si parlò dappertutto di quell’avventura singolare: c’era chi diceva che le Loro
Maestà avevano un bel coraggio a stare in una casa fabbricata certamente dalle Fate; altre persone
dicevano invece che il Re e la Regina facevano benissimo, e che sarebbe stata una gran bella cosa se
tutti gli stabili del regno si fossero rinnovati a quel modo.
Ma poi, siccome è facile assuefarsi alle cose nuove e al benessere, le Loro Maestà finirono col non
discorrer più di quel prodigio, e così fece il popolo.
Di tasse intanto non si parlò più, gli alti funzionari si rappattumarono; soltanto l’architetto non
sapeva darsi pace e non faceva che maledire le Fate e la magia.
Mentre la Fata dell’ isola dei Bambini produceva tutte quelle maraviglie, lesse nell’animo di Liliana
tanta riconoscenza per lei, che, prendendo sempre più a cuore il suo bene, volle mostrarsi segretamente
a quella buona Regina, e la rassicurò sulla sorte dei suoi figli, facendole sapere come li avesse ben
educati ed emendati di tutti i loro difetti; poi, dopo averle raccomandato di starsene ancora fiduciosa, di
esser paziente e prudente se voleva conseguire la felicità, la lasciò con rincrescimento per ritornare nell’
Isola dei Bambini.
Appena vi fu giunta, la Fata venne informata di un evento inaudito, di cui non vi era esempio negli
annali dell’isola. Alcuni fanciulli assai discoli e caparbi, che tuttavia erano stati tante volte perdonati, con
la complicità delle bambole loro amiche si erano ammutinati; lo spirito di ribellione s’ era così
propagato in poco tempo, che c’era voluto gran fatica a ristabilire la calma: per giungervi, era occorso
prima di tutto imprigionar le bambole nelle loro scatole; e quanto ai fanciulli, alcuni erano stati
condannati a mangiar per merenda soltanto pane duro, altri a stare a letto per un mese.
La Fata approvò quei provvedimenti; ma siccome bisognava dare un esempio, condannò i più discoli
a esser per cento anni burattini, e li costrinse a servir di divertimento al popolo nei vari regni
dell’universo; ma bisogna pur dire che ella si lasciò andare a tanta severità, anche perché sapeva che i
suoi sette protetti non avevano preso parte alla ribellione.
Lieta del loro contegno, se li fece venir dinanzi, e lodandoli assai promise loro una bella ricompensa.
Ella pensava di ricondurli presto ai loro genitori; ma prima di separarsene, si propose di condurli in
visita presso la Regina delle Fate al fine di ottenere da lei qualche bel dono per ciascuno di essi.
Ma per recarsi dalla Regina delle Fate si doveva fare un lungo viaggio, parte per terra, parte per mare.
Ella non si sgomentò; e fatto conoscere il suo proposito ai giovinetti, partì con essi per quel lungo
viaggio. Quei cari fanciulli, pieni di gioia e di riconoscenza, seguirono la giudiziosa Fatina.
Il viaggio si compiè felicemente, e i sette figli del re Bertoldo furono dotati, dalla Regina delle Fate,
delle sette virtù. Quindi tornarono alla Corte del Re loro padre.
Il Re e la Regina, pieni di gioia e di riconoscenza, nel rivedere i loro figliuoli così cresciuti, così belli e
così gentili, caddero ai ginocchi della Fata e l’abbracciarono piangendo.
Dopo averli rialzati, la Fata fece segno di voler parlare: ognuno prestò attenzione, fuorché il Re, la
cui gioia era così grande, che quasi non vedeva né udiva più nulla; finalmente, quand’ebbe perduto tutto
il fiato a gridare «evviva i miei figliuoli», si mise in calma, e allora la Fata si espresse così:
- Cari Sovrani, io vi consegno i vostri sette figliuoli ben vestiti e ben pasciuti e dotati tutti e sette
delle sette virtù. Questo dono prezioso, fatto loro dalla Regina delle Fate, vale più di ogni tesoro della
terra. Custoditelo nei loro cuori, per la loro felicità e per quella dei popoli che essi saranno chiamati a
governare. E con ciò, vi dico addio e vi auguro salute e prosperità. -
E la Fata disparve dopo avere strisciato una bella riverenza.
ELIANA E BIANCHINO

C’era una volta una ragazza coi capelli del color dell’ oro, e così cresputi che le formavano un’aureola
intorno al capo; si chiamava Eliana, ed era tanto buona e così allegra, che tutti le volevano bene e
stavano volentieri con lei senza badare che fosse la figliuola di un bracciante.
I suoi genitori abitavano in una casupola posta in un luogo aspro e solitario, quasi tutto circondato
da balze di monti.
Eliana correva con l’agilità di un camoscio, e quando si riposava fra i fiori selvatici, il suo più gran
divertimento era di stare a veder le api che volavano di fiore in fiore per suggerne il miele. Poiché la
fanciulla non dava loro noia, nemmeno quegli utili insetti davano noia a lei, ma pareva la riconoscessero
quando la vedevano avvicinarsi.
Un giorno, mentre Eliana era seduta sopra una balza e le api ronzavano intorno a lei, l’ Ape Regina
le disse:
- Ti piacerebbe, Eliana, di venire a star sempre con noi? È un piacere, sai, in un posto come questo,
dove c’ è abbondanza di timo, di nipitella e di tanti altri fiorellini aromatici.
- Sì, lo credo anch’io; - rispose la fanciulla -ma io devo stare a casa mia col babbo e con la mamma.

L’Ape pensò un momento, poi disse:
- È una bella cosa avere il babbo e la mamma! Di mio padre io non me ne ricordo, ma a mia madre
volevo un gran bene. Ma insomma, ti ripeto che qui con noi staresti bene: abbiamo l’alveare nel cavo di
quel tronco di quercia, e il miele non manca davvero, te l’assicuro io.
- Lo credo, ma.... E poi, come potrei fare a entrarci, nel cavo del tronco, io?
- Veramente sei parecchio alta e grassoccia, - disse l’ Ape Regina - forse ci staresti un po’ a disagio.
Non ci confondiamo, dunque: che tu venga o no con noi, ti vorremo bene lo stesso.
- Grazie, - disse Eliana. - Ma che rumore è questo?
- Oh, è il Gigante che va a caccia! Ma quello è un uomo tremendo, che ci sciupa tutti i fiori passando
a cavallo con una muta di cani. Io non lo posso proprio soffrire!
Ciò detto, l’ Ape Regina volò via lesta lesta e tutta stizzita.
Eliana, spinto lo sguardo nella valle, vide il Gigante sopra un cavallo nero di enorme grandezza.
Aveva un aspetto così terribile ed era tanto colossale, che la fanciulla cominciò a tremare dalla paura, e
andò a nascondersi fra i massi per non esser vista.
Difatti il Gigante e altri cacciatori che erano con lui non la scòrsero, intenti com’erano a inseguire
una povera coniglia bigia e il suo conigliolino che era bianco come la neve.
La coniglia bigia, sebbene fuggisse per la valle con quanta forza aveva, fu presa e uccisa; ma il
conigliolino bianco si arrampicò fra i massi e andò a cadere proprio in grembo a Eliana, la quale lo
prese nelle sue braccia e corse via con lui come se avesse le ali ai piedi, giungendo in pochi momenti a
casa.
Il Gigante e i cacciatori non potevano spingersi su quei massi e non si confusero a far ricerca del
conigliolino; ma si contentarono di portar via la grossa coniglia che avrebbe accresciuto la cena del
Gigante.
Eliana era molto contenta di aver con sé quel conigliolino. Gli fece subito un letto di musco e di
felci, gli legò al collo un bel nastrino di seta rossa che la mamma le metteva la domenica nei capelli, e gli
fece perfino a maglia due calzerotti perché non si sciupasse i piedini quando con le due zampette di
dietro saliva con lei sulle balze del monte. Lo portava sempre con sé, e il bell’animalino si accucciava
buono buono ai suoi piedi per tutto il tempo ch’ella stava a far conversazione con le api.
Anche le api fecero festa a Bianchino, così lo chiamava Eliana, e ogni giorno si affezionavano
maggiormente a lui e gli mettevano da parte le erbette più tenere e saporite perché facesse merenda
quando arrivava.
Quando Eliana si recava nel borgo a far qualche spesa, Bianchino andava sempre con lei, e tutti si
fermavano a vederlo camminare soltanto sulle zampe di dietro come un ometto; sicché quando
qualcuno rammentava Eliana, non la separava mai da Bianchino, e se si voleva dire che due persone
erano inseparabili, si paragonavano a Eliana e Bianchino.
Intanto il Gigante invecchiava, e non potendo più andare a caccia era sempre di pessimo umore.
Aveva sentito parlare di Eliana e del suo animalino, e gli era venuto una voglia grandissima di avere in
casa la fanciulla e il coniglio.
Una sera egli disse a sua moglie:
- Ho sentito parlare di una ragazza che ha i capelli dorati come il sole; dicono che quando la notte
c’è lei in una stanza non occorre accendere i lumi, tanto splende la sua chioma. Sarebbe un bel
risparmio per noi, no? Andate un po’ a cercarla, e quando sarà qui vedrò se per caso quei capelli fossero
proprio d’oro, e allora.... so che ha sempre con sé un coniglio bianco, e ho piacere di avere anche
quello, perché sento dire che fa crepar dalle risa coi suoi sgambetti e a vederlo camminare su due zampe
sole e far le giravolte come una ballerina. Mi divertirò un po’ con quell’ animaluccio, e quando mi avrà
stancato, me lo cocerete per cena. -
La moglie del Gigante era una buona donna, ma sapeva che suo marito non voleva esser mai
contraddetto, e non si sarebbe arrischiata a disobbedirgli per non esser picchiata a morte.
Si affrettò dunque ad andar fuori e informarsi dove stava una certa ragazza coi capelli d’oro che
andava sempre fuori con un coniglio bianco.
Subito le fu indicata la casetta solitaria dove viveva la fanciulla, e la donna vi si recò; ma Eliana non
era in casa, e la moglie del Gigante, dopo aver parlato coi genitori di lei, combinò che la sera, quando
essa fosse di ritorno, l’avrebbero subito mandata al castello del Gigante insieme col coniglio bianco.
- Mio marito è incomodato, - disse la donna - e poiché è caduto in grande malinconia, il medico ha
consigliato di procurargli qualche distrazione. Sicché, avendo sentito dire che vostra figlia possiede un
coniglio bianco proprio speciale e che mette in tutti tanta allegria, voglio provare se, nel vederne i
giochetti, egli si sollevasse un po’ e guarisse. -
Veramente i genitori di Eliana erano parecchio inquieti di quella richiesta e non mandavano punto
volentieri la figlia in casa del Gigante che sapevano quanto mai crudele; pure, per paura di qualche sua
vendetta, quando tornò Eliana le dissero della visita ricevuta e di ciò che si richiedeva da lei. Ma per
tenerla presso di loro qualche ora di più, le fecero credere di aver fissato ch’ella andasse in casa del
Gigante il giorno dopo.
- Domattina ti alzerai presto, Eliana, - le disse sua madre - prenderai con te una serqua d’ uova
fresche che faranno bene al Gigante che è incomodato, e starai un poco in casa sua con Bianchino che
lo distrarrà.
- Va bene, mamma, - rispose Eliana che, quantunque avesse molta paura del Gigante, non voleva
che sua madre se ne avvedesse, per non procurarle maggior dispiacere.
E dato un bacio ai suoi genitori andò a letto.
Eliana dormiva in uno stanzino, e accanto al suo letto aveva fatto una cuccettina tutta di musco e
felci per l’animalino ch’ella tanto amava.
Quella sera la fanciulla si addormentò subito, ma Bianchino rimase sveglio, e verso mezzanotte,
quando non si udiva alcun rumore né nella casetta né fuori, quella bestiuola balzò sul letto di Eliana e si
mise a soffregarle delicatamente il viso con uno zampino.
La fanciulla si svegliò subito, e al lume di luna che entrava dalla finestra riconobbe il suo Bianchino.
- Ebbene, che c’ è? - domandò la fanciulla. - Hai sete, caro Bianchino? Si deve andare a cercare un
po’ d’acqua?
- No, non ho sete, grazie; - rispose il conigliolino - ma parla più piano, Eliana, perché nessuno ci
senta. Ho bisogno di dirti subito una cosa molto importante: bada bene domattina di non andare con le
uova e con me nel castello del Gigante, perché te ne troveresti molto male, bambina mia. Egli vuole che
coi tuoi lucidi capelli tu gli faccia lume in casa sua, e appena tu fossi là, caccerebbe le mani nella tua
chioma, e vedendola d’oro com’è, te la taglierebbe; poi, quando io lo avessi fatto un po’ divertire
camminando sulle due gambe di dietro e facendo le mie giravolte e i miei salti, direbbe a sua moglie di
sgozzarmi e cucinarmi per cena.
- Oh, me lo figuravo anch’ io, - disse Eliana - che ci fosse pericolo per te e per me nell’andare in
quel castello! Ma che cosa si fa, conigliolino? Se non ci vede andar da lui, il Gigante è capace di venir
qua da se, e chi sa il male che può fare alla mia famiglia!
- Per ora non si può muovere perché è malato, e questo è qualche cosa, - rispose Bianchino. - Senti,
Eliana, fa’ tutto quello che ti dico io e non pensare ad altro. Tra poco, quando vedrai albeggiare, levati e
va’ all’uscio di strada in punta di piedi, aprilo senza far rumore, ed esci fuori. Anderemo su per la
montagna e ci nasconderemo cosi bene in quelle balze, che nessuno potrà scovarci, vedrai. -
Eliana seguì questo consiglio: appena vide un po’ di chiarore saltò il letto, si vestì, mise al coniglio
bianco il collarino di seta rossa e i calzerottini rossi di lana, poi aprì piano piano la porta e uscì fuori.
Nessuno di casa udì, e la fanciulla e il suo compagno cominciarono subito a salir pei greppi che
erano intorno alla casupola e arrivarono nel luogo dove Eliana era solita di mettersi a sedere per far
conversazione con le api.
L’Ape Regina sua amica venne subito fuori, e propose di nasconderla insieme col coniglio bianco nel
cavo di un albero; ma per quanti sforzi facesse, Eliana era troppo alta e massiccia per potervi entrare.
- Oh, se fossi stata bassa e secca! - esclamò la fanciulla piangendo.
- Zitta, zitta, Eliana! - disse Bianchino. - Sta’ tranquilla, che qualche scampo lo troveremo.
Camminiamo un altro pochino. -
Frattanto, appena fatto giorno, il Gigante, furibondo di non aver veduto la sera prima la fanciulla e il
suo coniglio, mise in moto una quantità di uomini perché andassero alla ricerca di Eliana e la portassero
a lui viva o morta.
Quegli uomini, accompagnati da grossi cani, si avviarono alla casupola della fanciulla, e quando vi
giunsero trovarono i genitori di essa in grande agitazione perché si erano accorti che era partita senza le
uova e s’ immaginavano che fosse fuggita per non esser mandata al castello del Gigante.
Tanto i genitori che gl’ inviati si misero alla ricerca della fanciulla salendo perfino sul tetto, e di lassù
la madre vide che Eliana si trovava sopra una delle balze dove le api avevano il loro alveare.
- Eccola là, - gridò la donna, ormai desiderosa che sua figlia seguisse coloro che erano stati mandati
a cercarla, per la paura delle grandi sventure che sarebbero di certo piombate sulla sua casa se il Gigante
non fosse contentato.
Gli uomini e i cani corsero verso il luogo dove si vedeva la ragazza; ma Eliana, che s’era rimessa in
cammino col suo coniglio, s’impaurì nel sentire tanti urli e abbaiamenti che si avvicinavano, e gridò:
- Oh, vengono a prender noi, Bianchino! Torniamo, torniamo indietro! Una volta le api mi offrirono
di rimaner sempre con loro facendo diventare ape anche me. Andiamo subito da loro: mi
raccomanderò perché mi trasformino in pecchia.
- E io che cosa farò? - disse il coniglio. - Acchiapperanno me e mi uccideranno.
- Diremo alle api che ti trasformino in una formica: va bene?
Intanto i cani, saliti fino alla balza dove essi erano, si avvicinavano fiutando; gli uomini li incitavano,
e anch’ essi correvano con tutta la loro forza; ma mentre urlavano: ‹‹ Eccola, eccola! L’abbiamo presa!»,
la fanciulla disparve dinanzi ai loro occhi, ed essi non videro che una bell’ape dorata che volava in alto.
Nella sua rabbia, uno di quegli uomini fece un salto per prender col suo berretto l’ape, e quasi quasi
l’avrebbe acchiappata se in quel momento un’acuta puntura in un calcagno non lo avesse fatto piegare
per veder che cosa vi fosse. Non fu per altro in tempo a scorgere il formicolone che lo aveva bucato,
perché il conigliolino bianco in esso trasformato era stato pronto a sparire in un crepaccio del terreno.
Gli uomini e i cani seguitarono per un pezzo a cercare, e ritornarono a frugare anche nella casupola;
ma dopo qualche ora d’inutili ricerche dovettero ritornarsene mogi mogi al castello.
- Chi sa dove sarà andata la nostra povera figliuola! - dissero i genitori quando seppero che Eliana
non era stata trovata.
- Avrà fame e sete, - gemeva sua madre quando a mezzogiorno non la vide giungere.
E senza nemmeno mangiare, la povera donna corse fuori portando con sé un pezzo di schiacciata
con l’uva e un po’ di latte; ma per quante ricerche facesse perfino fra i massi e sui rami degli alberi, ella
non riuscì a trovar traccia di sua figlia. Tornata a casa tutta in lacrime disse al marito:
- Ho paura che la povera Eliana si sia smarrita! Chi sa che cosa potrà accaderle!
- Purtroppo si sarà spersa nello scappare! - sospirò il padre della fanciulla. - Ma per fortuna c’è con
lei Bianchino; egli è tanto accorto, che vedrete, non le accadrà nulla di male. -
Dopo avere aspettato fino a tarda ora facendo le più strane supposizioni, i genitori di Eliana
andarono a prendere un po’ di riposo.
- Sai che cosa ho sognato stanotte? - disse a sua moglie, svegliandosi, il padre della fanciulla.
- Mi pareva di vedere svolazzare Eliana su tanti fiorellini e suggerne il miele; e insieme con lei c’era
anche il suo coniglio bianco.
- Guarda che combinazione! - esclamò la donna. - Ho fatto anch’ io lo stesso sogno. Mi pareva che
Eliana dicesse che aveva bisogno di un po’ di caprifoglio, e che Bianchino rispondesse: «Fattelo portare
da tuo padre».
- Perdindera! - esclamò il babbo di Eliana.
- Lo voglio portar davvero, un po’ di caprifoglio, lassù all’alveare, per vedere che cosa succede. -
E andato a una siepe lì prossima colse un fascio di ramoscelli di quella pianta fiorita e andò sulla
balza dove solevano aggirarsi le pecchie.
Ma non ve n’era fuori nemmeno una, e dopo avere aspettato un poco, egli depose fra alcuni massi il
suo fascio e se ne tornò a casa.
La notte seguente tanto lui che sua moglie fecero il medesimo sogno: videro cioè la loro figlia che
suggeva avidamente i fiori del caprifoglio, poi rideva, e aveva un bel visino rotondo e roseo.
- Questo sogno dà buona speranza, - disse il padre.
Passarono settimane e mesi senza che giungesse a quei poveretti alcuna notizia della loro figliuola;
ma essi seguitavano a sognarla sana, robusta e contenta, e anche quello era per loro un po’ di conforto.
Il Gigante mandava ogni due o tre giorni sua moglie a sentire se la ragazza era tornata, e avendone
risposta negativa, si accresceva sempre più in lui la frenesia di avere in casa Eliana e il suo coniglio.
I genitori di Eliana, a cui la moglie del Gigante raccontava quanto egli s’imbestialisse tutte le volte
che ella tornava a casa senza la fanciulla, pensavano che era meglio averla così lontano da loro,
piuttosto che nel castello di quell’uomo feroce.
Trascorsero sette anni durante i quali, tranne che nei sogni, quella povera gente non seppe più nulla
della figlia; nell’inverno dell’ottavo anno il padre si ammalò gravemente e in pochi giorni morì; e appena
una settimana dopo sua moglie lo seguì nella tomba.
In quello stesso inverno morì anche la moglie del Gigante, ma il Gigante, sebbene sempre
infermiccio, seguitò a vivere. Trovandosi solo, egli mandò a chiamare un suo nipote detto il Principe
perché aveva avuto per madre una Principessa.
Quel nipote era un bellissimo giovane, di alta statura, ma non un gigante, ed era buono quanto era
cattivo suo zio.
Il vecchio Gigante, che era ricchissimo e aveva ammassato nel castello una quantità grandissima di
sacchi d’oro, era tuttavia avido di metterne insieme sempre di più.
Egli sapeva che in una città non molto lontana da dove egli abitava era venuta a stare una Gigantessa
sua biscugina che possedeva un immenso tesoro. Se fosse stato meno vecchio e non malato l’avrebbe
chiesta in moglie, ma non potendo sposarla lui pensò che potrebbe essere un ottimo partito per suo
nipote, e in tal modo altro oro sarebbe venuto con lei nel castello.
Il Gigante mandò dunque una persona di sua fiducia per domandare alla Gigantessa se voleva
sposare il nipote che stava con lui, e in tal caso se intendeva portare in dote tutto il suo tesoro.
L’inviato ritornò con la risposta della Gigantessa, che era che il Principe le sarebbe andato a genio e
che, sposandolo, essa avrebbe portato in dote tutto il suo tesoro, ma che egli le pareva troppo basso di
statura. Poi, dopo aver pensato un poco, ella aveva soggiunto:
- Se per altro imparasse a camminar sui trampoli, potrei sposarlo. -
Il Gigante chiamò uno dei suoi servi e gli ordinò di andare a dire al Principe di recarsi subito da lui.
Gli fu risposto che il giovane non era in casa.
E dov’ è andato? - fece il Gigante di cattivo umore.
- Gigantesca Eccellenza, - rispose il servo - il signor Principe è andato sulle balze della montagna
come fa tutti i giorni.
- Davvero? - disse il Gigante con un gran cipiglio. - Correte subito a dirgli che torni a casa perché ho
bisogno di parlar con lui. -
Di fatti il Principe era sulle balze. Non si divertiva in nessun posto come lì, dove stava delle ore a
contemplare una piccola ape gialla, brillante come se fosse d’oro e tanto graziosa, la quale andava di
continuo a svolazzare fra i fiori e di tanto in tanto si fermava a suggerne qualcuno. Ma ciò che più
faceva senso al Principe, era di veder quell’ape calar di tanto in tanto fino in terra e avvicinarsi a un
formicolone che pareva seguisse di continuo ogni movimento di lei.
Il giorno in cui il Gigante mandò a richiamare suo nipote, l’ape s’era messa a ronzargli intorno al
capo, e allora il giovane le aveva detto:
- Vieni sulla mia mano, bell’animalino. -
Subito l’ape dorata era andata a posarsi sulle sue dita, mentre il formicolone saliva fino in cima a un
filo d’erba e stava a guardare ogni movimento di lei.
Il Principe fu molto contento di veder la pecchia così condiscendente.
- Vorrei che poteste parlare, mia piccola ape, - egli disse - così potrei sapere se avete qualche
desiderio, e appagarlo. -
Ma l’ape non rispose che con un piccolo ronzio, e dopo un poco volò via.
Immediatamente il formicolone si mosse e andò dalla parte dove s’ era diretta la pecchia.
Allora il Principe se ne ritornò a casa.
- Dove siete stato? - grugnì il Gigante appena vide entrar suo nipote.
- Ho girellato un po’ sulle balze, — rispose il giovane.
- Va bene; ma domani non importa che ci ritorniate, - grugnì di nuovo il tremendo signore.
- Domani anderete a far qualche complimento alla Gigantessa che io intendo che voi sposiate, e
intanto procuratevi subito un paio di trampoli e esercitatevi a camminar su quelli, perché essa vuol
vedervi alto al pari di lei.
- Sposare la Gigantessa??? - esclamò il giovane stupefatto e pieno d’ira. - Ma nemmeno per sogno!
- E io vi dico che dovrete farla vostra moglie e portarla qui presto!
- Ma perché devo sposarla per l’appunto io?
- Perché ha un sotterraneo pieno di sacchi d’oro, e nessun' altra donna al mondo possiede altrettante
ricchezze, capite?
- A proposito d’oro, zio: oggi ho visto un’ape d’oro; è la prima che mi capita di vedere, e mi sono
proprio acceso per lei.
- Acceso!? Per un’ape! - fece con un altro formidabile grugnito il Gigante che da quando era
sdentato non poteva articolar bene le parole. - Peccato che non la possiate sposare!
- Ma io sposerei molto più volentieri un’ape, che la Gigantessa! - rispose il Principe molto irritato.
- Bravo, bravo! Vi prendo in parola, - disse furibondo lo zio. - Sposerete subito quell’ape che vi ha
fatto diventar matto a codesto modo.
- Benissimo, - rispose il Principe ridendo - così non sarò più tormentato perché sposi la Gigantessa.
-
Il Gigante battè rabbiosamente i piedi in terra e mostrò i pugni al nipote. Lo sapeva molto tenace, e
capì che non cambierebbe idea.
E poiché anche i giorni successivi il giovane era corso sulle balze per andare a ritrovar la piccola ape,
il Gigante s’incaponì di fargliela sposar per davvero.
Ne riparlò dunque col nipote dicendogli di far prontamente la sua scelta tra la Gigantessa e l’ insetto.
Ma il Principe rispose che preferiva vedersi per tutta la vita legato a un’ape, che a quella donna colossale
ch’egli non amava.
Il Gigante mandò dunque molti inviti ai suoi conoscenti per assistere alle prossime nozze del nipote
con una pecchia d’oro.
Fece fare per l’alata sposa un vestitino di seta bianca con un lungo velo e una minuscola corona di
brillanti per fermarglielo sul capo.
Il matrimonio doveva aver luogo sulla balza dove le api avevano il loro alveare, e lassù la mattina del
matrimonio si fece condurre anche il Gigante, in portantina.
Il Principe vi era salito sveltamente a piedi e si era fatto fare per l’occasione un vestito di raso celeste
tutto ricamato d’oro che faceva ancor più risaltare la sua bellezza. Dietro a lui veniva uno stuolo di
gentiluomini e di dame in splendide vesti, anch’ essi a piedi poiché le carrozze non potevano salir su
quei greppi.
Quel bel corteo era preceduto da quaranta musicisti che sonavano arie adatte alla circostanza.
Il Principe camminava alla testa di tutta quella schiera, e appena si fu avvicinato alla balza dov’erano
le pecchie, l’ape d’oro gli andò incontro e gli si posò su un dito.
- Ah, è codesta la fidanzata? - disse sogghignando il Gigante.
- Sì, - rispose il Principe - questa è l’ape a cui voglio bene.
- E codesto coniglio che avete dietro è il vostro paggio? - domandò il Gigante.
Il giovane si voltò e vide difatti il coniglio bianco ritto sulle zampe posteriori, calzato di rosso, e col
suo bel fiocchetto di seta rossa al collo.
- Non saprei come sia qui, - egli rispose - ma giacche c’ è, farà da paggio alla sposa.
- Va bene, - grugnì il Gigante.
E fatto uscire di fra le persone del seguito una dama e colui che doveva unire in matrimonio i
fidanzati, ordinò di compiere la sua cerimonia.
La dama, che aveva portato con sé in una scatolina tutto l’apparato nuziale della sposa, la rivestì con
l’abito di seta bianca e l’ammantò col bianco velo fermandolo sul suo capino con la minuscola corona
di diamanti.
Si avvicinò poi il personaggio che doveva unir la coppia, e domandò al Principe:
- Siete contento di sposar l’ape d’oro che si è posata sul vostro dito?
- Sì, - rispose il Principe con voce vibrante.
- E voi siete contenta di sposare il Principe sul cui dito vi siete posata? - domandò alla pecchia.
- Sì, - rispose con voce chiara e ferma l’ape.
Il Principe le infilò allora nella zampina anteriore sinistra il minuscolo anello d’oro che aveva portato
con sé.
Ma appena compiuto quell’atto, in mezzo allo sbalordimento generale, si vide accanto al Principe
una bellissima fanciulla coi capelli d’oro, candidamente vestita da sposa e col lungo velo bianco fermato
da una fulgida corona di diamanti. Nel dito anulare della mano sinistra le brillava il cerchietto d’oro col
quale il Principe le aveva dato la sua fede di sposo.
Era inutile cercar più l’ape, e tutti capirono che quella trasformazione doveva essere opera di un
incanto.
- Eccomi ritornata sotto il mio vero aspetto! - disse Eliana rivolgendosi al Principe. - Non vi
pentirete di avermi per sposa? -
Il giovane riconobbe nella voce argentina della fanciulla il soave ronzio dell’ape d’oro, e le rispose
con espansione:
- Tu sarai sempre, e sotto qualsiasi forma, la mia diletta! -
Allora i quaranta musicisti incominciarono a sonare, e il corteggio si mosse con a capo il Principe che
dava il braccio alla sua vaghissima sposa, e immediatamente dietro a loro veniva Bianchino,
camminando impettito con tutta la dignità richiesta dall’occasione.
Uno sciame di pecchie guidate dalla loro Regina seguì a volo gli sposi. Eliana aveva offerto di
ospitarle tutte nel castello, ma l’Ape Regina le aveva detto:
- No, bella sposa, il nostro alveare era troppo piccolo per te, e il tuo castello sarebbe troppo grande
per noi. Ti lasceremo appena sarai nella valle, augurandoti una vita felice. -
E così fecero.
La portantina che conteneva il Gigante veniva per ultimo, perché i sedici uomini che la sostenevano
a fatica non poterono affrettarsi, anzi rimasero un po’ indietro.
Quando il Gigante giunse nel suo castello e i suoi uomini lo ebbero rimesso a sedere nella
grandissima poltrona da cui non poteva alzarsi da sé, egli vide la sala piena di gentiluomini e di dame,
ma gli sposi non v’ erano.
- Dov’ è mio nipote? Dov’ è sua moglie? - domandò accigliandosi.
Il suo fido servo si accostò e gli disse:
- Gigantesca Eccellenza, vostro nipote e la sua sposa non hanno messo piede nel castello, perché il
Principe desidera di far vedere un po’ di mondo alla sua consorte, e prega Vostra Eccellenza gigantesca
di scusarlo se starà per qualche tempo assente. -
Il Gigante prese una tal furia, che coi calci da lui tirati, non potendosi alzare, sfondò il pavimento e
coi pugni spezzò la poltrona, tanto che cadde in terra battendo una tempia e rimase morto sul colpo.
Gl’ invitati fuggirono spaventati, lasciando intatti tutti i rinfreschi di cui v’ era una lauta
imbandigione.
Il Principe s’ era accorto che più si avvicinavano al castello più la sua sposa tremava; chinando il
capo per guardarla, le aveva visto il viso bianco come il suo vestito; sicché le aveva domandato se aveva
paura di andare a star col Gigante, e sinceramente essa gli aveva risposto di sì.
Allora il Principe aveva pensato di portarla subito a fare un viaggio, e di tornare al castello quando
non vi fosse più il tremendo Gigante, che essendo molto vecchio poteva avere ormai poco da vivere.
Eliana aveva acconsentito a partire purché Bianchirlo andasse sempre con loro. E così fu; e allorché
la cara bestiolina, che era sempre molto bene informata delle cose di questo mondo, seppe da una lepre
che il Gigante era morto, riferì la notizia ad Eliana ed al Principe, e quando essi furono stanchi di
viaggiare tornarono al castello dove passarono poi felicemente tutta la vita, ed ebbero numerosa prole.
Poiché per altro il coniglio bianco amava molto la campagna, e anche ad Eliana piaceva assai, come
quando era bambina, andare a saltar su pei greppi, essa fece restaurare la sua casetta silvestre, e di tanto
in tanto andava a passarvi una giornata, pensando con mesto affetto ai suoi genitori che ivi erano morti,
e salendo coi suoi bimbi e con Bianchino a far visita alle buone api che sempre l’accoglievano con vera
festa e le facevano fare merenda col loro miele squisito.

FINE

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