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LE DIATRIBE E I FRAMMENTI
DIATRIBE
SUL PROGRESSO
Chi fa progresso per aver appreso dai filosofi che il desiderio riguarda i beni,
l'avversione è in relazione ai mali, e per aver appreso pure che non altrimenti
la serenità e l'impassibilità sopravvivono nell'uomo se non in quanto non
viene frustrato nell'oggetto dei suoi desideri, né incorre nell'oggetto della sua
avversione — costui ha completamente strappato da sé il desiderio e per il
momento l'ha messo da parte, mentre adopera l'avversione solo per quanto
dipende dalla sua scelta. Perché se vuole evitare qualcosa non dipendente
dalla sua scelta, sa che, un giorno o l'altro, incorrerà in un oggetto della sua
avversione e si rattristerà. Ora, se la virtù promette proprio di procurare la
felicità, l'impassibilità e la serenità, indubbiamente il progresso nella virtù è
progresso in ciascuno di questi stati, perché se c'è un termine al quale la
perfezione conduce una volta per sempre, il progresso segna un
avvicinamento ad esso.
Come va, allora, che ci troviamo d'accordo sulla natura della virtù, il
progresso, invece, lo cerchiamo e mostriamo altrove? Qual è l'opera della
virtù? La serenità. E chi fa progressi? Chi ha letto molti trattati di Crisippo?
Ma la virtù consiste forse nell’aver capito Crisippo? Se ciò fosse, il
progresso, per affermazione concorde di tutti, non sarebbe altro se non il
capire le molte opere di Crisippo. Ora, invece, ammettiamo concordemente
che un risultato ottiene la virtù e un altro riconosciamo ne ottiene
l'avvicinamento, e cioè il progresso nella virtù.
— Costui, si dice, può già leggere Crisippo anche da sé. — Per gli dèi,
uomo, progredisci a meraviglia: che progresso!
— Perché ti prendi gioco di lui? Perché lo distogli dalla coscienza delle sue
miserie? Non gli vuoi mostrare l'opera della virtù, onde apprenda ove abbia a
cercare il progresso? Cercala, miserabile, dove si svolge la tua opera. E dove
si svolge la tua opera? Nella sfera dei desideri e delle avversioni, onde non
fallisca negli uni e non incorra nelle altre; è negli impulsi e nelle repulse,
onde non erri; è nel dare o nel sospendere l'assenso, onde non sia tratto in
inganno. Ma i più importanti sono i primi due punti, e anche i più necessari.
Perché se sei in uno stato di paura o di dolore quando cerchi di non incorrere
in ciò che vuoi evitare, come potrai, in realtà, far progressi?
Tu, dunque, mostrami il tuo progresso in questo campo. E come se io
chiedessi a un atleta: « Mostrami le tue spalle » e quello mi rispondesse: «
guarda i miei manubri! » Pensaci da te ai tuoi manubri; io voglio vedere il
risultato dei manubri. « Prendi il trattato sull'impulso e guarda come l'ho letto
bene ». « Schiavo, non è questo ch'io cerco, ma come ti regoli nei tuoi
impulsi e nelle tue repulse, nei tuoi desideri e nelle tue avversioni, come ti
disponi a fare le cose, come ti applichi, come ti prepari, se in accordo alla
natura o in disaccordo. Perché, se in accordo, mostramelo e dirò che fai
progressi: se in disaccordo, vattene, e non spiegare soltanto i libri, ma
scrivine pure dello stesso tipo. Che ti giova, infatti? Non sai che tutto il libro
costa cinque denari? e chi lo spiega, pensi che ne valga più di cinque? Non
cercate mai, quindi, la sfera della vostra opera in un posto, il progresso in un
altro.
Dov'è, dunque, il progresso? Se uno di voi, staccatosi dagli oggetti esterni, si
rivolge tutto alla sua persona morale, la tiene in azione e l'esercita in modo da
renderla conforme alla natura, elevata, libera, priva d'impedimenti o
d'ostacoli, leale e riservata: se ha compreso che chi desidera o fugge cose
indipendenti da lui non può essere leale né libero, ma deve necessariamente,
egli pure, insieme a quelle, mutare e volgersi, deve necessariamente
sottomettere se stesso agli altri, a quanti cioè possono procurarle o impedirle;
insomma, se quando si leva al mattino, osserva e custodisce questi precetti, si
lava da uomo leale, da uomo riservato, mangia allo stesso modo, sforzandosi
di mettere in pratica, qualunque circostanza gli capiti, i princìpi direttivi,
come il corridore si comporta in ogni azione da corridore, il declamatore da
declamatore, ecco in verità chi fa progressi, ecco chi non invano s'è
allontanato da casa. Ma se si protende sul contenuto dei libri e per questo
s'affatica e per questo s'è allontanato dai suoi, io gli dico di tornarsene subito
a casa, e di non disprezzare gli affari di lì: in realtà, il fine per cui s'è
allontanato non ha valore. L'ha, al contrario, esercitarsi per strappare dalla
propria vita gemiti e lamenti, e gli «ohimè!» e gli «infelice ch'io sono! » e la
fortuna perversa e la sfortuna, e per comprendere che cos'è la morte, l'esilio,
la galera, la cicuta: in tal modo sarà in grado di dire in prigione «caro
Critone, se così piace agli dèi, così sia » e non, invece, «l'infelice ch'io sono!
povero vecchio, questo attendeva i miei capelli bianchi! » Chi s'esprime in tal
guisa? Pensate che stia per nominarvi un uomo ignobile e meschino? Non è
Priamo ad esprimersi così? Non è Edipo? Non i re, tutti quanti? Cos'altro
sono le tragedie se non la narrazione in verso epico di quel che provano
uomini affascinati dagli oggetti esterni? Se ci volesse un inganno per
comprendere che degli oggetti esterni e indipendenti dalla nostra libera scelta
nessuno ci riguarda, io accetterei senz'altro siffatto inganno, in seguito al
quale potessi vivere una vita serena e imperturbata: per parte vostra,
penserete da voi a quel che volete.
Che cosa, dunque, ci offre Crisippo? «Per renderti conto — egli afferma —
che non si tratta di falsità, quando parlo di ciò da cui provengono serenità e
impassibilità, prendi i miei libri e vedrai come sono veri e in armonia con la
natura i precetti che mi rendono impassibile. » Oh, la grande fortuna! Oh, il
grande benefattore che addita la via! Ebbene, a Trittolemo tutti gli uomini
hanno offerto sacrifici e altari, perché ci ha dato cibi ingentiliti, e a chi ha
trovato la verità, l'ha rischiarata, l'ha portata a tutti gli uomini — e non la
verità che fa vivere, ma quella che fa vivere bene — chi di voi ha elevato, per
questo benefìcio, un altare, o dedicato un tempio o una statua, chi si prosterna
davanti a Dio per questo benefìcio? Perché ci hanno dato la vite e il grano,
sacrifichiamo agli dèi, ma perché hanno prodotto nel pensiero umano un
frutto così bello, grazie al quale dovevano mostrarci il vero sulla felicità, per
questo, dico, non renderemo grazie a Dio?
Se uno, dice Epitteto, resiste a ciò che è d'una evidenza trasparente, non è
facile trovare contro costui un ragionamento che gli faccia mutare opinione.
E ciò non dipende né dalla sua forza, né dalla debolezza di chi lo istruisce,
ché quando, messo alle strette, quello s'impietra, come si potrà ancora usare
con lui il ragionamento?
Ci sono due forme di impietrimento: l'una colpisce l'intelligenza, l'altra il
senso morale, quando uno sia ostinato a non accettare l'evidenza e a non
desistere dal contraddire. Noi, in gran parte, temiamo la morte del corpo e
tutto escogiteremmo per non incorrervi, tanto è brutta! Della morte dell'anima
non ci curiamo affatto. E sì che, per Zeus, quand'uno è, proprio rispetto
all'anima, in condizione di non poter seguire nessun ragionamento e di non
intendere niente, riteniamo che stia male: ma se in qualcuno il senso morale e
la verecondia sono morti, allora parliamo anche di forza.
T'accorgi di essere sveglio? — « No — risponde — perché non me ne
accorgo neppure, quando, durante il sonno, ho l'impressione di essere
sveglio». — Dunque, non c'è differenza tra questa impressione e quella?—
Nessuna.
Posso continuare a discutere con costui? Quale fuoco, quale ferro posso
applicargli perché avverta che è morto? E se l'avverte, fa fìnta di niente: è
ancora peggio del morto. Il morto non comprende la contraddizione: sta
male. Costui la comprende, ma non ne è scosso, e non ne cava profitto: sta
ancora peggio. Gli sono stati strappati la verecondia e il senso morale: la
ragione non gli è stata strappata, ma è abbrutita. Dovrò chiamarla forza,
codesta? Non sia mai, a meno che non sia forza anche quella dei cinedi, i
quali fanno e dicono tutto quel che passa loro per la testa.
DELLA PROVVIDENZA
Da ogni cosa che accade nel mondo è facile lodare la Provvidenza, purché si
abbiano queste due qualità, la capacità di vedere nel loro insieme i singoli
avvenimenti e il sentimento della riconoscenza. In caso contrario, o non si
scorgerà il retto uso degli avvenimenti o non se ne proverà riconoscenza,
neppure scorgendolo. Se Dio avesse fatto i colori, ma non avesse fatto la
facoltà per contemplarli, quale utilità ne deriverebbe? Proprio nessuna. Se,
all'inverso, avesse fatto la facoltà ma le cose non fossero adatte a soggiacere
alla facoltà visiva, anche in tal caso, quale utilità ne deriverebbe?
Proprio nessuna. E poi, se avesse fatto i colori e la vista, ma non avesse fatto
la luce?
Neppur in tal caso ci sarebbe una qualche utilità. Chi ha adattato, allora,
questo a quello, e quello a questo? Chi ha adattato la spada al fodero, e il
fodero alla spada? Nessuno? Eppure, proprio da tale struttura dei vari prodotti
siamo soliti riconoscere che sono indubbiamente opere d'un artista, e non
costruite a caso. Ognuna di esse, dunque, rivela l'artista: e gli oggetti visibili,
e la visione e la luce non lo rivelano? E il maschio e la femmina, e la brama
di congiungersi l'uno all'altro, e la capacità di usare gli organi adatti, neppur
questo rivela l'artista? Ma certo: e la particolare struttura dell'intelletto che ci
mette in grado di non ricevere semplicemente le impronte delle cose
soggiacendo ai sensibili, ma anche di fare una scelta tra esse, di sottrarre, di
aggiungere, di comporne altre da noi, di passare, per Zeus, dalle une alle altre
che in qualche modo sono affini, tutto questo non riesce a smuovere taluni, e
a distoglierli dall'abbandonare l'artista? O ci spieghino chi è a produrre
ciascuna di queste cose o come è possibile che tante meraviglie, tanti
capolavori d'arte siano prodotti a caso e da sé.
E che? solo rispetto a noi si compiono tali cose? Molte, sì, solo rispetto a
noi, quelle specialmente di cui ha bisogno l'animale ragionevole, molte,
invece, le troverai comunì a noi e agli esseri irragionevoli. Ma questi riescono
anche a comprendere quel che accade? Nient'affatto. Perché altro è usare,
altro comprendere. Dio aveva bisogno di quelli che usano le rappresentazioni
e di noi che ne comprendiamo l'uso. Per ciò, quelli si limitano a mangiare, a
bere, a riposare, ad accoppiarsi e a compiere, ciascuno, quante altre cose
rientrano nell'ambito del loro agire, noi, invece, a cui ha concesso per di più
la facoltà di comprendere, non ci limitiamo a questo, ma se non ci
comportiamo come conviene, in modo ordinato e conseguente ciascuno alla
propria natura e costituzione, non raggiungeremo mai il nostro fine. Chi ha
costituzione differente, ha pure attività e fini differenti. Chi ha la costituzione
diretta esclusivamente all'uso, l'uso, in qualsivoglia maniera, gli basta, ma chi
ha pure l'intelligenza dell'uso, se non gli si aggiunge il modo, non
raggiungerà mai il fine. E allora? Dio da a ciascun animale la sua
costituzione: uno serve di cibo, uno è d'aiuto nel lavoro dei campi, un altro
fornisce formaggio, un altro, poi, è sfruttato per un altro fine in modo
analogo. Per queste funzioni che bisogno c'è di comprendere le
rappresentazioni e di poterle distinguere? L'uomo, invece, l'ha introdotto qui
per contemplare Lui e le sue opere, e non solo per contemplarle, ma anche
per interpretarle. Per questo è vergognoso che l'uomo cominci e termini allo
stesso punto degli esseri irrazionali: egli deve, piuttosto, cominciare di lì e
terminare là dove termina nei nostri riguardi la natura. Ed essa termina nella
contemplazione, nell'intelligenza e in un tenore di vita conforme alla natura.
Badate, dunque, a non morire, senza aver contemplato queste realtà.
Eppure fino a Olimpia ve ne andate per veder il capolavoro di Fidia e
sciagura ritiene ciascuno di voi morire senza averlo ricercato. E dove non è
necessario andare, perché già vi ci trovate e avete le opere sotto gli occhi, non
sentirete il desiderio di ammirarle e di contemplarle? Non capirete, dunque,
né chi siete, né perché siete nati, né che cos'è questo spettacolo al quale siete
stati ammessi?
— Ma si danno contrarietà e difficoltà nella vita.
— E a Olimpia non si danno? Non bruciate pel caldo? Non state stretti per la
ressa? Non prendete il bagno in condizioni disagevoli? Non v'inzuppate se
piove? Non siete deliziati dal tumulto, dalle grida, da altri fastidi? Eppure
ritengo che, contrapponendo tutte queste noie al valore dello spettacolo, voi
le accettiate e le tolleriate. E poi vediamo: non avete ricevuto delle facoltà per
sopportare tutto ciò che capita? La grandezza d'animo non l'avete ricevuta? Il
coraggio non l'avete ricevuto? La pazienza non l'avete ricevuta? E se ho
l'animo grande, che cosa più m'interessa quel che può capitare? Che cosa mi
trarrà fuori di me, che cosa mi sconvolgerà, che cosa m'apparirà doloroso?
Non userò la facoltà per il fine per il quale l'ho ricevuta, ma mi metterò a
piangere e a gemere su quel che accade?
— Va bene, ma mi cola il naso.
— E perché hai le mani, schiavo? Non per nettarti?
— E allora è ragionevole che nel mondo ci siano nasi che colano?
— Quanto sarebbe meglio che te lo nettassi invece di lagnarti! Che pensi ne
sarebbe stato di Eracle senza il famoso leone, l'idra, il cervo, il cinghiale,
certi uomini ingiusti e bestiali, che egli cacciò e di cui purificò la terra?
Che cosa avrebbe fatto se non ci fosse stato niente di questo? Non è chiaro
che, avvolto nelle coperte, avrebbe dormito?
Allora, in primo luogo, bighellonando in siffatta rilassatezza e placidità per
tutta la vita, non sarebbe stato Eracle; poi, se anche lo fosse stato, a che prò?
Come avrebbe usato quelle sue braccia, e l'altro vigore, la forza, la
generosità, se proprio quelle circostanze e quelle occasioni non l'avessero
scosso ed esercitato?
— E allora? se le doveva procurare da sé tali occasioni e cercare di spingere
da qualche parte nel suo paese il leone, il cinghiale, l'idra?
— Ma queste sono pazzie e scioccherie. Una volta che c'erano e che furono
trovati, potevano essere ben usati per rivelare ed esercitare Eracle.
Orsù, dunque, anche tu, consapevole di ciò, volgi lo sguardo alle facoltà che
hai e, dopo averle guardate, dì: « Adesso, o Zeus, mettimi nella congiuntura
che vuoi; io ho la costituzione datami da te e le risorse per guidarmi con
onore attraverso gli avvenimenti ». No, ma ve ne state seduti, tremando che
non vi abbia ad accadere qualcosa, piangendo, lamentandovi e gemendo di
quel che succede. E poi ve la pigliate con gli dèi. E, invero, che cosa può
seguire a una tale ignobiltà, se non l'empietà stessa? Eppure Dio non solo ci
ha dato le facoltà per sopportare tutto quel che può capitare senza esserne
abbassati o umiliati ma, come s'addiceva a un buon re, anzi, in realtà, a un
padre, ce le ha date non legate da impedimento, non costrette da necessità,
libere da ostacoli, ce le ha messe tutte a nostra disposizione, senza riservarsi
potere alcuno per impedirle o ostacolarle. Ora, con in mano tali facoltà libere
e vostre, voi non le usate, né vi accorgete che cosa avete ricevuto e da chi, ma
ve ne rimanete inerti, tra pianti e gemiti, alcuni, senza vedere il donatore e
senza conoscere il benefattore, altri, poi, corrivi per l'ignobiltà a biasimi e a
rimproveri contro Dio. E tuttavia, io ti posso dimostrare che hai risorse e
costituzione adatta per essere magnanimo e coraggioso; per giustificare i
biasimi e i rimproveri, quali risorse possiedi, mostramele tu.
Se è vero quel che dicono i filosofi sulla parentela tra Dio e gli uomini, che
cosa resta da fare a costoro se non seguire l'esempio di Socrate e cioè non
rispondere mai a chi vuol sapere la loro città: «sono cittadino d'Atene o
cittadino di Corinto », ma «cittadino dell'universo»? Perché dici di essere
ateniese e non semplicemente di quell'angolo di terra in cui fu gettato il tuo
povero corpo al momento della nascita? Ovvero è chiaro che derivi da un
principio superiore, che abbraccia non solo quell'angolo di terra, ma anche
l'intera tua casa, e, in una parola, il paese dove si è perpetuata fino a te la
stirpe dei tuoi antenati, e di qui, se mai, ti chiami ateniese o corinzio? Chi
dunque ha penetrato l'organizzazione dell'universo e ha capito che «di tutte le
cose la più grande, la più importante, la più universale è la società formata
dagli uomini e da Dio, e che da lui le forze generatrici scendono non solo fino
a mio padre e a mio nonno, ma a tutto ciò che sulla terra nasce e cresce,
specialmente agli esseri ragionevoli, giacché essi soli per natura partecipano
alla comunione divina, essendo legati a Dio per la ragione », perche non dirà
di essere cittadino dell'universo? e perché non figlio di Dio? perché avrà
timore di quel che può accadere tra gli uomini? Ma mentre la parentela con
Cesare o con un altro dei potenti di Roma è sufficiente a procurare una vita
sicura, al riparo dal disprezzo e da ogni trepidazione, l'avere Dio per creatore,
per padre, per protettore non ci strapperà agli affanni e ai timori?
— E di che mangio, dice uno, se non ho niente? — E come fanno gli schiavi,
come i fuggitivi? Su che si fondano quando abbandonano i padroni? Sui
campi, sui servi, sulle argenterie? Nient'affatto, ma su se stessi — e tuttavia
non manca loro il nutrimento. E il nostro filosofo dovrà confidare e riposare
negli altri, quando va in terra straniera, e non prenderà personalmente cura di
se stesso, e sarà da meno e più timido delle bestie irragionevoli le quali
provvedono ciascuna a se stessa, e non difettano né del cibo adatto né del
tenore di vita che a ciascuna si conviene e che si armonizza con la loro
natura? Secondo me, il vecchio maestro seduto al suo posto non dovrebbe
tendere a questo, a impedirvi, cioè, di avere un'idea bassa di voi e di fare, su
voi stessi, considerazioni basse o ignobili, ma badare piuttosto che non
capitino tra voi giovani di tale indole che, coscienti della loro parentela cogli
dèi, e sapendo che con altrettante catene siamo avvinti al corpo, a ciò che
esso possiede, e a quante altre cose, sotto questo aspetto, ci abbisognano per
sostenere e condurre la vita sulla terra, vogliono scagliar via tutto questo
come un peso, come una noia, come un'inutilità e ritornarsene dai parenti. In
questo cimento dovrebbe cimentarsi il vostro maestro, il vostro educatore, se
davvero fosse tale. Voi, allora, venendo da me, mi direste : « Epitteto, non ce
la facciamo più ad essere legati a questo povero corpo, a dargli da mangiare e
da bere, a farlo riposare, a pulirlo, e poi a portarcelo attorno da questo e da
quello.
Non è forse vero che sono cose indifferenti, queste, che non hanno nessuna
relazione con noi, che la morte non è un male? Non siamo in qualche modo
congiunti di Dio, non veniamo da Lui? Lascia, dunque, che torniamo là
donde siamo venuti, lascia che ci stacchiamo, una buona volta, da queste
catene che ci avvinghiano e ci gravano.
Qui, briganti, ladri, tribunali e tiranni, come li chiamano, ritengono di avere
un qualche potere su noi, proprio a causa di questo miserabile corpo e di ciò
che possiede. Lasciaci mostrare ad essi che non hanno potere su nessuno ».
E io a mia volta risponderei : « Uomini, aspettate il Dio. Quand'egli vi fa
segno e vi libera da questa servitù, allora fuggite verso Lui: per il momento
rassegnatevi a rimanere nel posto in cui v'ha collocato. Breve è, senza
dubbio, il tempo del soggiorno qui, e agevole per chi ha tali disposizioni.
Quale tiranno, quale ladro, quali tribunali possono ancora metter paura a chi
fa così poco conto del corpo e di quel ch'esso possiede.? Attendete e non
andatevene sconsideratamente ».
Tale dovrebbe essere l'atteggiamento dell'educatore verso i giovani ben
dotati. Ora, invece, che succede? Cadavere è l'educatore, cadaveri siete voi.
Quando vi siete empiti oggi, rimanete al vostro posto a piangere di che vi
sfamerete domani. Schiavo, se ne avrai, ne avrai; se non ne avrai, te ne andrai
via: la porta resta aperta. Perché ti lamenti? Dove c'è più posto per le
lacrime? Che ragione c'è ancora per adulare? Perché l'uno invidierà l'altro?
Perché ammirerà attonito quanti possiedono molto o coprono cariche, specie
se sono forti e facili all'ira? Che ci faranno? Di quel che possono fare non ci
preoccuperemo: quel che ci sta a cuore, essi non possono. Chi, dunque, potrà
dominare un uomo che ha tali disposizioni?
Qual era l'atteggiamento di Socrate a questo riguardo? come poteva essere
diverso da quello proprio di chi è convinto della sua parentela cogli dèi? « Se
adesso mi diceste — egli afferma — : noi ti lasciamo andare a patto che non
tenga più quei discorsi che finora hai tenuto e che non molesti i nostri giovani
o i vecchi, io vi risponderò che siete ridicoli: infatti ritenete che, se un vostro
comandante mi ha assegnato un posto, io devo conservarlo e mantenerlo e
preferire mille volte la morte prima di abbandonarlo, se, invece, Dio ci ha
assegnato un posto e indicato una linea di condotta, dobbiamo abbandonarla»
Ecco un uomo veramente congiunto con gli dèi. Noi, invece, ci consideriamo
alla stregua di ventri, di intestini, di organi sessuali, quando ci diamo in
braccio al timore e agli appetiti: e quelli che sono in grado di aiutarci per
quella strada, li aduliamo, e, insieme, questi stessi, li temiamo.
Uno volle che scrivessi per conto suo a Roma perché era piombato in ciò che
i più ritengono disgrazia: prima, infatti, era segnalato e ricco, poi, aveva
perduto ogni cosa e viveva qui. Ed io scrissi per conto suo in termini umili.
Egli, letta la lettera, me la restituì e disse: «Volevo il tuo aiuto, non la tua
compassione: non m'è accaduto alcun male ». Allo stesso modo, Rufo,
volendo mettermi alla prova, soleva dirmi : « Questo o quello ti capiterà da
parte del padrone». E siccome io gli rispondevo: «Sono cose umane» egli
replicava: «E perché andar da lui a implorarlo, se posso ottenere il medesimo
risultato da te? ». In realtà, ciò che si può avere da sé, sarebbe inutile e
sciocco volerlo ottenere da un altro.
Se riesco ad avere da me la grandezza e la nobiltà d'animo, vorrò ottenere da
te un campo, una somma di denaro, una carica? Non sia mai.
Non sarò davvero così incosciente delle mie risorse! Ma quando un uomo è
vile e meschino, che cos'altro si deve fare per lui se non scrivere delle lettere
come per un cadavere : « Concedici, per piacere, il cadavere del tale e un
sestario del suo miserabile sangue»? In realtà, costui è un cadavere e un
sestario di sangue miserabile: niente più. Se fosse qualcosa di più, capirebbe
che nessuno è infelice a causa di un altro.
Se ci fossimo accinti alla nostra opera con lo stesso slancio che mettono a
Roma i senatori per quanto ambiscono, indubbiamente avremmo concluso
qualcosa anche noi. Ricordo un uomo, più vecchio di me, ora prefetto
dell'annona in Roma, che passò di qui, ritornando dall'esilio: quante cose mi
disse, riandando la sua vita passata! per l'avvenire, poi, mi promise che, una
volta imbarcato, di nient'altro si sarebbe dato pensiero se non di trascorrere il
resto degli anni in pace e in tranquillità. «E invero, quanto mi rimane ancora
da vivere»?
E io gli risposi : « Non lo farai: il solo odore di Roma ti farà dimenticare tutti
questi propositi ». Anzi, aggiunsi che se gli fosse aperto un piccolo accesso a
corte, ci si sarebbe precipitato, pieno di gioia e di riconoscenza a Dio. « Se tu,
Epitteto, concluse, mi sorprendi a porre un piede a corte, pensa quel che vuoi
».
Ora, che fece? Prima che giungesse a Roma, gli presentarono una lettera da
parte di Cesare: lui la prese, dimenticò completamente tutti i propositi e, in
seguito, cominciò ad ammucchiare affare su affare. Vorrei stargli vicino
adesso e ricordargli i discorsi che mi tenne durante il viaggio di ritorno, e
dirgli: «Quanto sono più acuto di te nel far profezie! »
Che cosa voglio dire con ciò? Che l'essere vivente deve rimanere inattivo?
Non sia mai. Piuttosto, che noi non abbiamo un'attività. Ed ecco, io, prima
degli altri, appena si fa giorno, ricapitolo brevemente che cosa devo leggere a
scuola e mi dico subito : « che m'importa come quello espone il suo testo?
L'essenziale è dormire ». Eppure in che sono uguali le occupazioni di quelli
con le nostre? Se badate a quel che fanno, ve ne accorgerete. Il loro lavoro
non consiste nel passare tutto il giorno a prendere provvedimenti, a discutere,
a consigliarsi per un po'di grano, per un pezzo di terra, per interessi più o
meno simili? Dunque, è uguale leggere una proposta siffatta ricevuta da
qualcuno : «ti prego di autorizzarmi l'esportazione di un po' di grano » e la
seguente: «ti prego di esaminare come concepisce Crisippo l'amministrazione
dell'universo e quale funzione ha in esso la creatura ragionevole: esamina
anche chi sei tu e qual è il tuo bene e il tuo male »? Queste cose sono uguali a
quelle? Esigono uguale attenzione? ed è ugualmente brutto disinteressarsi
delle une e delle altre? E dunque? Noi soli non ce ne preoccupiamo e ci
lasciamo vincere dal sonno? No: ma molto prima voi, che siete giovani.
Perché, certo, anche noi, vecchi, a vedere i giovani giocare, mostriamo
desiderio di entrare nel gioco, noi pure. A più forte ragione, se vi vedessi
svegli e pieni d'entusiasmo, metterei anch'io ogni sforzo per aggiungere al
vostro il mio ardore.
Intorno agli dèi, c'è chi pretende che la divinità non esiste, altri che esiste ma
è inattiva, indifferente e non provvede a nulla, una terza categoria che esiste e
provvede, ma alle cose grandi e cioè ai fenomeni celesti, escluso ogni essere
che sta sulla terra: una quarta categoria afferma bensì che provvede anche
alle cose che stanno sulla terra e alle umane, ma solo in generale e non a
ciascuna in particolare: una quinta categoria, a cui appartengono e Odisseo e
Socrate ammette che neppur ti sfugge una mia mossa.
Come primissima cosa, è necessario esaminare ciascuna di queste posizioni,
quale si afferma con ragione, quale no.
Perché, se gli dèi non esistono, come sarà nostro fine seguire gli dèi? E se
esistono e non si curano di niente, pure in questo caso, come lo si affermerà
con ragione? E qualora esistano e si curino di qualcosa, se nessuna
corrispondenza c'è da loro agli uomini e, per Zeus, giù giù fino a me, come lo
si affermerà anche in questo caso con ragione? Esaminato tutto ciò, l'uomo di
perfetta virtù, sottomette il suo spirito a chi governa l'universo come i buoni
cittadini alla legge dello Stato. E chi impara deve accingersi alle lezioni con
questa disposizione: « come potrò seguire in tutto gli dèi, come vivere
contento sotto il governo divino, come diventar libero? » Perché libero è
colui al quale tutto accade in pieno accordo con la sua libera scelta e al quale
nessuno può essere d'ostacolo.
— Ma come? la libertà è forse mancanza di ragione?
— Non sia mai. Follia e libertà non coincidono.
— Ma io voglio che mi capiti tutto quanto mi pare, comunque mi paia.
— Tu sei folle, sragioni. Non sai che è una cosa bella, la libertà, una cosa
preziosa? E voler che mi capiti a caso quel che a caso mi pare, rischia non
solo di non essere una cosa bella, ma addirittura la più riprovevole di tutte.
Come ci regoliamo quando si tratta di scrivere? Voglio scrivere a mio piacere
il nome di Dione? No: imparo a volerlo scrivere come si deve. E per la
musica? Allo stesso modo. E, in generale, dove si tratta di arte o di scienza?
<Allo stesso modo.> Altrimenti non varrebbe la pena di imparare qualcosa,
se ci si dovesse regolare ciascuno secondo il proprio capriccio. E qui solo,
nell'argomento più grande e importante, quello della libertà, m'è permesso di
volere a caso? Nient'affatto, ma l'insegnamento consiste proprio nell'imparare
a volere ciascuna cosa, come essa è.
E com'è? Come l'ha ordinata l'Ordinatore. E ha ordinato che ci fossero estate
e inverno, fecondità e sterilità, virtù e vizi e tutti i contrari dello stesso genere
per l'armonia dell'universo, e a ciascuno di noi ha dato un corpo, membra del
corpo, beni e compagni.
Con siffatto ordinamento nella memoria bisogna andare a istruirsi, non per
cambiare lo stato delle cose (che non ci è concesso e non sarebbe certo
meglio) ma perché, conservando quel che ci circonda la sua condizione e la
sua natura, noi possiamo adattare il nostro spirito agli avvenimenti.
E, in realtà, è possibile fuggire gli uomini? Come lo potremmo? E mutarli,
stando insieme ad essi? Chi ce lo permette?
Che cosa rimane, quale procedimento si può escogitare per trattar con loro?
Un procedimento siffatto per cui essi agiranno secondo quel che pare a loro, e
noi, nondimeno, rimarremo in accordo con la natura. Ma tu sei indolente,
difficile a contentarti: se vivi solo, lo dici abbandono il tuo stato, se in mezzo
agli uomini, li chiami intriganti e ladri, biasimi i tuoi stessi genitori, i figli, i
fratelli, i vicini. Chi vive solo, invece, dovrebbe chiamare il suo stato
tranquillità e libertà, dovrebbe ritenersi simile agli dèi; chi vive in mezzo a
molti non dovrebbe dir tutto questo confusione, strepito, fastidio ma piuttosto
festa, baldoria, e così accettare tutto con contentezza. Qual è, dunque, il
castigo per quelli che non sanno adattarsi? Di stare come stanno. Uno si
dispiace di star solo? Resti nel suo abbandono. Uno si dispiace dei genitori?
Sia un figlio cattivo e si lamenti. Uno si dispiace dei figli? Sia un padre
cattivo. « Gettalo in prigione ». Quale prigione? Quella in cui si trova al
presente, perché ci si trova contro voglia: e dove si sta contro voglia, è
davvero una prigione. Per questo Socrate non si trovava in prigione, perché ci
stava di sua piena volontà.
« Così, la mia gamba deve essere zoppa ». Schiavo, e per una miserabile
gamba accusi l'universo? Non ne farai dono al tutto? Non te ne staccherai?
Non la cederai con gioia a chi te l'ha data? Ti irriterai e ti dispiacerai
dell'ordine stabilito da Zeus, quell'ordine ch'egli ha definito e disposto
insieme alle Moire le quali furono presenti alla tua nascita e filarono il tuo
destino? Non sai d'esser piccola parte rispetto al tutto? E questo vale per il
corpo, perché per la ragione non sei né inferiore agli dèi, né più piccolo: la
grandezza della ragione non si giudica né dalla lunghezza né dall'altezza, ma
dai pareri. Non vuoi, dunque, riporre il bene in ciò che ti fa simile agli dèi? «
Oh me infelice, con un padre e una madre tale! » E che? t'era forse concesso
di venir prima, fare una scelta e dire : « Costui si unisca a costei in questo
momento perch'io nasca »? No davvero. Bisognava, invece, che già
esistessero i tuoi genitori, in modo che tu poi fossi messo al mondo. E da
quali genitori? Proprio da quelli, tali quali erano. E poi, essendo essi quali
sono, non t'è dato nessun rimedio? Ignorando per quale fine possiedi la
facoltà visiva, saresti un disgraziato e un infelice, se presentandotisi i colori,
chiudessi gli occhi: ora, ignorando che hai la magnanimità e la nobiltà per
fronteggiare ogni caso, non sei più disgraziato e infelice? Ti si presentano
cose proporzionate alla capacità che hai e tu, proprio allora, la torci indietro
quando bisognerebbe tenerla bene spiegata e attenta. Non sei piuttosto grato
agli dèi che ti hanno messo al di sopra di tutte queste cose, né le posero alle
tue dipendenze, ma ti fecero responsabile solo di quel che dipende da te?
Riguardo ai genitori, t'hanno sciolto da ogni responsabilità, e così riguardo ai
fratelli, e così riguardo al corpo, alle sostanze, alla morte, alla vita. Di che
cosa, dunque, t'hanno fatto responsabile? Di quanto solamente dipende da te,
e cioè dell'uso conveniente delle rappresentazioni. E perché vuoi trascinarti
addosso ciò di cui non sei responsabile? È un crearsi molestie, questo.
Gli fu chiesto come si può mangiare in modo da piacere agli dèi. « Se si può
farlo come si deve, rispose, e cioè in maniera ragionevole, e così pure con
temperanza e misura, non lo si fa anche in modo da piacere agli dei? Quando
tu chiedi acqua calda e il servo non ti obbedisce, o, se t'obbedisce, te la porta
tiepida, o non si trova neppure in casa, allora, il non adirarsi, il non dare in
escandescenze non è piacere agli dèi? »
— Ma come sopportare tali persone?
— Schiavo, non sopporterai tuo fratello, che ha Zeus per padre, è nato, come
figlio, dallo stesso germe che te e dalla stessa discendenza celeste, ma per
essere stato collocato in una posizione un po' più eminente, t'atteggerai subito
a tiranno? Non ricorderai chi sei e su chi comandi? Non sono uomini della
tua stessa stirpe, fratelli per natura, discendenti di Zeus?
— Ma io ho un diritto d'acquisto su loro, essi non l'hanno su me.
— Vedi dove guardi? Non è sulla terra, sul baratro, su queste infelici leggi
che sono leggi dei morti? alle leggi degli dèi non guardi?
Gli fu chiesto in qual modo uno potrebbe convincersi che nessuna delle sue
azioni sfugge allo sguardo di Dio. «Non ti sembra, gli disse, che tutte le cose
formano un'unità? »
— Sì, rispose l'altro.
— E poi? le cose terrestri non ti sembra che simpatizzino con le celesti?
— Sì, replicò l'altro.
— E infatti, donde avviene che così ordinatamente, quasi per un comando
divino, quando Dio ordina alle piante di fiorire, fioriscono, quando ordina di
germogliare, germogliano, di portar frutto, portano frutto, di maturare,
maturano, e quando poi di spogliarsi nuovamente, di gettar via le foglie e,
raccolte in se stesse, di rimanere in quiete e di riposare, rimangono in quiete e
riposano? Donde avviene che in relazione al crescere o al calare della luna,
all'avvicinarsi o all'allontanarsi del sole, si notano nelle cose terrestri tante
trasformazioni e tanti cambiamenti d'uno in altro contrario?
Ma allora le piante e i nostri corpi sono così legati al tutto e simpatizzano tra
loro, e le anime nostre non lo saranno molto di più? E le nostre anime sono
così legate e avvinte a Dio, come parti e frammenti di Lui, e Dio non
avvertirà ogni loro movimento come un movimento che Gli è proprio e
connaturale?
Vediamo: tu sei in grado di riflettere sull'ordinamento divino e su
ciascun'opera divina, come pure sulle cose umane: nello stesso tempo, puoi
essere colpito da mille oggetti nei tuoi sensi e nella tua intelligenza e,
insieme, dare ad alcuni la tua adesione, ad altri rifiutarla o sospenderla; da
tanti e sì svariati oggetti conservi nell'animo tuo altrettante impressioni e
passi, mosso da queste, alle idee simili agli oggetti che per primi ti hanno
colpito e dai mille oggetti derivi e conservi le arti, l'una presso l'altra, e il
ricordo: e Dio non sarà capace di osservare ogni cosa e d'essere presente
dovunque e avere qualche comunicazione con tutte? Il sole riesce a
illuminare sì gran parte dell'universo e poca ne lascia senza luce, proprio
quella che è avvolta dall'ombra prodotta dalla terra: e Chi ha fatto e guida nel
suo corso anche il sole, piccola parte di Lui rispetto all'universo, Questi non
può accorgersi di tutto?
— Ma io, replica quello, non posso seguire nello stesso tempo tutte queste
cose.
— E chi ti dice che hai la stessa potenza di Zeus? Nondimeno egli ha messo
vicino a ciascuno, anche un guardiano, il demone proprio di ciascuno e ogni
uomo ha affidato alla sua protezione — ed è uno che non dorme e non si
lascia ingannare. A quale altro custode migliore e più premuroso avrebbe
potuto affidare ciascuno di noi? In conseguenza, quando chiudete la porta e
fate buio all'interno, ricordate di non dir mai che siete soli: non lo siete, in
realtà, ma c'è Dio nell'interno, e c'è il vostro demone.
E che bisogno hanno costoro di luce per vedere le vostre azioni? A questo
Dio dovreste anche voi prestar giuramento come i soldati a Cesare. Ma essi,
in quanto ricevono la paga, giurano di porre sopra tutto la salute di Cesare e
voi, che siete stati ritenuti degni di tanti e sì grandi doni, non presterete il
giuramento o, prestatolo, non lo manterrete? E qual è il giuramento? Di non
disobbedir mai, di non accusare né biasimare niente che vi sia stato concesso
da Dio, di non fare né subire contro voglia ciò che è inevitabile. È simile in
qualche modo questo giuramento a quello? Da una parte, i soldati giurano di
non porre niente sopra Cesare: voi, dall'altra, di mettere voi stessi sopra tutte
le cose.
DELLA PROVVIDENZA
Se è vero, come dicono i filosofi, che per un solo motivo tutti gli uomini
danno l'assenso, cioè la supposizione che la cosa stia così, o lo rifiutano, cioè
la supposizione che la cosa non stia così, o, per Zeus, lo sospendono, cioè la
supposizione che la cosa sia incerta: se, d'altra parte, è vero che la sola causa
che spinge verso un oggetto è la supposizione che mi torni utile: se, poi, è
impossibile giudicare utile una cosa e desiderarne un'altra, giudicare
conveniente una cosa ed essere spinti verso un'altra, perche irritarsi ancora
contro tanta gente? Si dice: sono ladri e furfanti.
— Che significa esser ladri e furfanti? Che si sono sbagliati su quel che è
bene e male. E bisogna irritarsi contro loro oppure averne compassione? Ma
mostra ad essi lo sbaglio e vedrai come si staccano dai falli. Se non vedono,
non hanno niente da preferire alla loro opinione.
— Allora, questo ladro e questo adultero non dovrebbero essere messi a
morte? — Nient'affatto; esprimiti piuttosto così: «Quest'uomo che è caduto
nell'errore e si è ingannato sulle questioni più importanti, che ha perduto la
vista, e non la vista che distingue il bianco e il nero, ma quella
dell'intelligenza capace di distinguere il bene e il male, non dovrebbe essere
messo a morte?» Esprimendoti così, conoscerai quant'è inumano quel che
dici, che, infine, si riduce a questo:
«Ma, dunque, questo cieco e questo sordo, non si dovrebbero mettere a
morte?» E, infatti, se il danno più grande <è la perdita dei beni più grandi, e il
bene più grande> in ciascuno è la conveniente disposizione della persona
morale, perché, se uno ne è privo, ti irriti per giunta con lui? Uomo, se il tuo
atteggiamento per gli altrui mali dev'essere contrario a natura, abbine
compassione più che odio, ma lascia quegli atti corrivi all'offesa e all'odio.
Chi sei, uomo, per proferire quelle parole che suole proferire il volgo: «Togli
di mezzo questi maledetti e questi scellerati»? Sia pure: ma come hai
acquistato la saggezza tutto d'un colpo, che adesso sei aspro cogli altri?
E per qual motivo allora ci irritiamo? Perché apprezziamo gli oggetti che ci
vengono tolti. Non apprezzare le tue vesti e non t'irriterai contro il ladro: non
apprezzare la bellezza della tua donna e non t'irriterai contro l'adultero. Sappi
che il ladro e l'adultero non si trovano tra le cose di tua proprietà, ma tra
quelle che appartengono ad altri, che non dipendono da te. Se da quest'ultime
ti distacchi e non ne fai nessun conto, contro chi dovrai ancora adirarti? Ma
finché le apprezzi, adirati contro te stesso piuttosto che contro quelli. Guarda
un po': tu possiedi belle vesti, il tuo vicino no: hai una finestra e vuoi metterle
all'aria. Egli non conosce che cos'è il bene dell'uomo e immagina consista nel
possedere belle vesti — proprio come immagini tu. E allora non verrà e se le
prenderà? Ma tu fai vedere una focaccia a dei ghiottoni, te la metti a
trangugiare da solo, e pretendi che non te la rubino? Non provocarli, non aver
finestre, non mettere all'aria le tue vesti.
Anch'io, l'altro giorno, tenevo una lucerna di ferro davanti ai lari: sentii un
rumore sotto la finestra, mi precipitai. Trovai che la lucerna era stata portata
via. Riflettei che il ladro era stato spinto da un sentimento ben comprensibile.
E dunque? Domani, dissi, la troverai di terra cotta. Perché si perde quel che si
ha. «Ho perduto il mio vestito». Perché ce l'avevi.
«Mi duole la testa». E le corna ti dolgono? Perché irritarti, allora? Perdite e
affanni si hanno soltanto di quel che si possiede.
— Ma il tiranno m'incatenerà.
— Che cosa? La gamba.
— Ma mi staccherà...
— Che cosa? La testa. Che cosa non può incatenare né staccare? La persona
morale. Per questo gli antichi esortavano:
«Conosci te stesso». E allora? Bisognerebbe, per gli dèi, prendersi cura delle
piccole cose e, cominciando da queste, passare alle più grandi. «Mi duole la
testa.» Non dire «ohimè.» «Mi duole un orecchio». Non dire «ohimè.» Non
pretendo, beninteso, che non sia permesso di gemere; solo, non gemere nel
tuo intimo. E se il servo non si affretta a portarti la cintura, non strepitare,
non fare le smorfie esclamando «M'odiano tutti». Chi non l'odierà un uomo
siffatto?
D'ora in poi, fidando in questi princìpi, cammina diritto e libero: non nella
potenza del corpo devi fidare, come gli atleti: non essere invincibile al modo
degli asini.
Chi è allora l'invincibile? Quegli che nessuna cosa indipendente dalla sua
persona morale riesce a sconvolgere. Per il resto, percorrendo le varie
circostanze, una per una, le esamino, come si fa cogli atleti: «Costui ha
strappato la vittoria al primo che la sorte gli ha opposto. Che ne sarà del
secondo? Che succederà se scoppia il caldo? Che farà ad Olimpia?» E
così qui, se gli presenti un po' di denaro, lo disprezzerà. Ma se si tratta di una
bella ragazza? E se è al buio? E se si tratta di un po' di gloria? Se d'un po' di
insulti? Se d'un po' di lode? Se della morte? È in grado di vincere tutto
questo. E che succede se scoppia il caldo, cioè, se è ebbro, se è d'umor nero,
se è nel sonno? Questo è, per me, l'atleta invincibile.
Quando uno nella vita ha l'atteggiamento che si conviene, non sta con la
bocca aperta dinanzi alle cose di fuori. Uomo, che vuoi t'accada? Per me, mi
basta che desideri e avversioni siano conformi a natura, che negli impulsi e
nelle repulse segua la natura, — e lo stesso nelle intenzioni, nei progetti,
nell'assenso. E perché ci giri intorno, come se avessi inghiottito una spada?
«Volevo che chiunque m'incontrasse si riempisse d'ammirazione e mi
seguisse acclamando: ‘Oh, il grande filosofo!’» E chi sono costoro dai quali
vuoi essere ammirato? Non quelli che abitualmente definisci pazzi? E
allora? Dai pazzi vuoi essere ammirato?
SULLE PRENOZIONI
A EPICURO
Immagina anche Epicuro che per natura siamo esseri sociali, ma una volta
posto il nostro bene nella corteccia della carne, non può più parlare in altro
modo. Perché sostiene pure con energia che non bisogna tener in conto né
accettare alcunché scisso dalla natura del bene: e lo sostiene a ragione. In che
modo, dunque, se non esiste affetto naturale per i figli, ci possono sorgere
sospetti sul fatto che sconsigli il saggio dall'allevar bambini? Perché temi che
per essi vada incontro a dolori? Per il topo nutrito in casa va incontro a
dolori? Che gli interessa se un piccolo topino di dentro si mette a gridare
davanti a lui? Piuttosto egli sa che, una volta nato un bambinello, non è più in
nostro potere non amarlo e non interessarcene. Per questo dice che neppure al
governo dello Stato deve partecipare chi ha senno, perché sa bene ciò che
deve fare chi governa: per quanto, se vuoi vivere tra gli uomini come tra le
mosche, che cosa te l'impedisce?
Comunque, pur sapendo questo, ha il coraggio di affermare: «Non tiriamo su
i figli». Ma la pecora non abbandona il suo parto, e neppure il lupo; e l'uomo
l'abbandonerà? Che vuoi? che siamo stolidi come le pecore? Ma queste non li
abbandonano i figli. O crudeli come i lupi? Neppure questi li abbandonano.
Orvia, chi si lascia persuadere da te, vedendo il suo bambinello caduto in
terra che piange? Per conta mio, penso che se tua madre e tuo padre avessero
divinato che tu avresti parlato così, neppure in tal caso t'avrebbero esposto.
Sono le circostanze che rivelano gli uomini. Così, quando te ne capita una,
ricorda che Dio, come un istruttore, ti ha opposto a un duro e giovane
allenatore.
— Per qual motivo? si domanda.
— Perché tu divenga campione ai giochi d'Olimpia: e senza sudore non si
può. Mi sembra che nessuno abbia ottenuto una circostanza migliore della
tua, purché voglia, come un vero atleta, usare del tuo allenatore. Ecco che
adesso noi ti inviamo a Roma in qualità di esploratore. Nessuno invia un
esploratore vigliacco perché, udito appena un rumore o scòrta da una parte
qualunque un'ombra, se ne torni di corsa, tutto sconvolto, a riferire che i
nemici sono già arrivati.
Allo stesso modo, se tu adesso tornando, ci dicessi: «La situazione a Roma è
spaventosa: qualcosa di tremendo è la morte, qualcosa di tremendo è l'esilio,
la maldicenza, la povertà: fuggite, uomini, sono arrivati i nemici» noi ti
risponderemo: «Vattene; i tuoi vaticini tienteli per te: il nostro sbaglio è stato
solo d'aver mandato un simile esploratore.»
Prima di te fu inviato come esploratore Diogene e ci ha riferito notizie tutte
diverse. Egli dice: «La morte non è male, perché non è un disonore.» Dice:
«La cattiva fama è un rumore vano di uomini folli». E che cosa ci ha detto
sulla pena, sul piacere, sulla povertà questo esploratore! «La nudità —
afferma — è preferibile a ogni veste orlata di porpora: il suolo nudo per
dormire è la più morbida delle cucce». E a prova di ciascuna affermazione
egli porta la confidenza in se stesso, l'imperturbabilità, la libertà, e ancora il
suo corpo splendido e sodo. «Nessun nemico si avvicina — dice —: tutto è
pieno di pace». «Com'è possibile, Diogene?» «Guarda — risponde—: sono
stato forse colpito? sono stato forse ferito? son fuggito di fronte a
qualcuno?». Ecco un esploratore come si deve: tu, invece, vieni da noi e ci
racconti una frottola dopo l'altra. Non ci tornerai di nuovo per osservare più
esattamente le cose, senza paura?
— Che farò, dunque?
— Che fai, quando sbarchi dalla nave? Porti via il timone o i remi? Che cosa
porti via? Quel ch'è tuo, la boccetta dell'olio, la bisaccia. Così adesso, se
ricordassi quel che è tuo, non pretenderesti mai quel che è di altri.
Ti dice: «Deponi il laticlavo».
— Guarda: io ho Pangusticlavo.
— «Deponilo egualmente».
— Guarda: io ho solo la toga.
— «Deponi la toga».
— Eccomi nudo.
— «Ma tu mi muovi l'invidia».
E allora prenditi tutto il mio miserabile corpo. Quegli a cui io posso gettare il
mio povero corpo, devo ancora temerlo, costui?
— Ma non mi lascerà erede.
E che? Dimenticavo che nessuna di queste cose è mia? In che senso, allora,
diciamo che mi appartengono? Come il lettuccio nell'albergo. Quindi, se
l'albergatore morendo ti lascia i letti, bene; se li lascia a un altro, costui ne
sarà il padrone e tu dovrai cercarti un altro letto. E se non lo trovi, sdraiati per
terra, ma di buon animo, e russa e ricorda che le tragedie si svolgono tra i
ricchi, tra i re, tra i tiranni: nessun povero ha un ruolo nella tragedia se non
come coreuta. I re, invece, cominciano nell'abbondanza:
Inghirlandate il palazzo e poi, al terzo o al quarto atto :
O Citerone, perché m'hai accolto?
Schiavo, dove sono le ghirlande, dov'è il diadema? Non ti giovano affatto le
guardie del corpo? Perciò quando incontri uno di questi, ricordati che
t'imbatti in un eroe tragico, non in un attore, ma in Edipo stesso.
«Eppure quello è felice: cammina in mezzo a una numerosa scorta di gente».
Anch'io mi mischio alla folla e cammino in mezzo a una numerosa scorta di
gente. Ed ecco l'essenziale: ricorda che la porta sta aperta. Non essere più
timido dei ragazzini, ma, come quelli, quando il gioco non è più di loro
gradimento, dicono «Non gioco più», così anche tu, quando le circostanze ti
sembrano altrettanto spiacevoli, dì semplicemente «Non gioco più» e vattene:
se rimani, però, non lamentarti.
Mentre si teneva lettura sui sillogismi ipotetici, Epitteto disse: «È legge del
sillogismo ipotetico anche questa, accettare quanto consegue all'ipotesi. Ma
molto più importante è questa legge di vita: fare quanto consegue alla natura.
Perché, se in ogni campo e in ogni circostanza vogliamo custodire l'accordo
con la natura, è chiaro che in tutto dobbiamo mirare a non fuggire quanto le è
conforme, e a non accettare quanto le contrasta. Quindi, i filosofi si
esercitano dapprima nella teoria, un campo più facile, e così, poi, ci
conducono verso difficoltà più grandi, perché nella teoria niente si oppone a
che tiriamo le conseguenze dalle cose apprese, nella vita, al contrario, molti
fattori ci trascinano dall'altra parte. Fa ridere, pertanto, chi dice di volersi
esercitare prima nella pratica, perché non è affatto agevole cominciare dal più
difficile.
E tale difesa si dovrebbe portare a quei genitori che si crucciano perché i
figli si danno alla filosofìa. «Io sbaglio, padre, di certo, e non so quel che mi
spetta e mi conviene. Ma se è cosa che non si può apprendere né insegnare,
perché mi sgridi? Se poi si può insegnare, insegnamela: e se tu non sei in
grado, lascia che l'apprenda da chi dice di saperla. Via, che pensi? Che di mia
volontà mi getto nel male ed evito il bene? Non sia mai. Qual è allora la
causa del mio errare?
L'ignoranza. E non vuoi ch'io deponga l'ignoranza? A chi mai l'ira ha
insegnato l'arte del timone o della musica? E
ritieni che con la tua ira io impari l'arte della vita?».
Questo può dirlo solo chi ha messo mano a tale impresa. Ma se studia questi
argomenti e si reca dai filosofi soltanto chi nel simposio vuole ostentare di
conoscere i sillogismi ipotetici, che altro cerca costui se non di eccitare
l'ammirazione di qualche senatore vicino di tavola? Perché è laggiù che si
danno le grandi possibilità, mentre i ricchi di qui, laggiù, fanno la figura di
balocchi. Per questo è difficile dominare le proprie rappresentazioni, là dove
rilevanti sono i motivi di distrazione. So di uno che abbracciava piangendo le
ginocchia di Epafrodito e gli raccontava d'essere in miseria, perché non gli
era rimasto se non un milione e mezzo di sesterzi. Ed Epafrodito allora? Si
mise a ridere di lui, come voi? No: anzi, pieno di stupore, esclama:
«Disgraziato! Come potevi tacere, come rassegnarti?».
Così Epitteto aveva posto in imbarazzo quello che leggeva i sillogismi
ipotetici: l'altro, invece, che aveva proposto la lettura, s'era messo a ridere
alle sue spalle. «È di te stesso che ridi — gli disse Epitteto —: non hai
esercitato in precedenza il giovinetto, non sapevi se fosse in grado di tener
dietro a queste argomentazioni, e te lo sei preso senz'altro come lettore! E se
uno spirito non è in grado di tener dietro alla conclusione di un sillogismo
copulativo, ci fideremo dei suoi elogi, ci fideremo dei suoi biasimi, del
giudizio suo su quanto è bene o male? E se dice male di uno, costui ci baderà,
se loda uno, costui salirà in superbia? E come? Non sa trarre le conseguenze
neppure in una materia tanto mediocre! Ecco, dunque, il punto di partenza
della filosofia: rendersi conto della condizione in cui si trova la parte
direttrice della nostra anima, perché, qualora se ne sia esperimentata la
debolezza, si eviti di usarla per grandi imprese.
Adesso, invece, gente che non è in grado di ingozzare un boccone compra un
trattato e vi si getta sopra per divorarlo. Di conseguenza vomita o fa
indigestione: e poi coliche, reumi, febbri. Bisognerebbe che riflettessero un
po' sulle loro capacità. Certo, nel campo della teoria è più facile confutare chi
non sa, ma nella vita, nessuno si presta alla confutazione e, in più, odiamo chi
ci confuta. Eppure Socrate diceva di non accettare una vita che sfugga
all'esame critico».
DELLA FERMEZZA
II bene nella sua essenza consiste in una certa disposizione della persona
morale, il male in una certa disposizione della persona morale. Che sono,
allora, le cose esterne? Oggetti coi quali venendo a contatto la persona
morale realizzerà il proprio bene o il proprio male. Come realizzerà il bene?
Se non da importanza agli oggetti. Perché, se i giudizi sugli oggetti sono retti,
fanno la persona morale buona, se storti e stravolti, cattiva. Ecco la legge
posta da Dio: egli avverte:
«Se vuoi un bene, prendilo da te stesso». Ma tu dici: «No, piuttosto da un
altro.» Niente affatto, da te stesso. Pertanto, quando il tiranno minaccia, e mi
chiama in giudizio, io dico: «A chi fa minacce?»; se egli dice: «Ti metterò in
catene», io penso: «Alle mani fa minacce e ai piedi»; se dice: «Ti taglierò la
testa», io dico: «Alla testa fa minacce»; se dice: «ti getterò in prigione», «al
mio miserabile corpo, tutt'intero», e se mi minaccia l'esilio, lo stesso.
— Dunque, le sue minacce non ti toccano affatto?
— Affatto, se ho capito che non hanno niente a che fare con me: se, invece,
temo qualcuna di queste eventualità, allora sono io ad essere minacciato. Del
resto, chi ho da temere? Un uomo che è padrone di che cosa? Di quel che
dipende da me? Ma non esiste un tal padrone. Di quel che non dipende da
me? E che m'importa di ciò?
— Ma allora, voi filosofi, insegnate a disprezzare i re?
— Non sia mai. Chi di noi insegna a reclamare da loro qualcosa di cui essi
sono padroni assoluti? Prendi il povero corpo, prendi le sostanze, prendi la
reputazione, prendi i compagni della mia vita. Se c'è qualcuno che io spingo a
reclamare da loro una di queste cose mi si accusi a ragione.
— Sì; ma io voglio controllare anche i giudizi.
E chi t'ha dato siffatto potere? Come puoi superare il giudizio di un altro?
— Inculcandogli terrore, lo supererò.
— Tu ignori che il giudizio solo supera se stesso, non è superato da altro: la
persona morale, nient'altro può superarla, a meno che essa non superi se
stessa. Ecco perche anche la legge di Dio è efficacissima e giustissima:
«II più forte domini sempre sul più debole». «Dieci, si dice, sono più forti di
uno». Per che cosa? Per legare, per ammazzare, per condurti dove vogliono,
per strapparti le sostanze. Dunque i dieci superano l'uno in ciò in cui sono più
forti.
— E in che sono più deboli?
— Se l'uno ha i giudizi retti ed essi no. E che? In questo possono superarlo?
Com'è possibile? Se li mettiamo su una bilancia, il più pesante non dovrebbe
trarre giù il piatto?
Già, perché Socrate sopportasse ogni tormento da parte degli Ateniesi?
Schiavo, a che parli di Socrate? Di'come sta la cosa: perché il povero corpo
di Socrate fosse condotto e trascinato in prigione da gente più forte; si desse
la cicuta al povero corpo di Socrate e così rimanesse esanime. Ti sembra
strano tutto questo, ti sembra ingiusto e per ciò accusi Dio? E non ne ebbe
niente in cambio Socrate? Dov'era per lui l'essenza del bene? Chi vogliamo
ascoltare, te o lui? E lui, che dice? «Anito e Meleto mi possono ammazzare
sì, ma farmi danno, no» E ancora: «Se Dio vuol cosi, così sia ». Ma mostrami
che chi ha giudizi inferiori può trionfare di chi è superiore negli stessi giudizi.
Non lo mostrerai — ci vuoi altro! Infatti è legge di natura e di Dio questa: «il
più forte domini sempre sul più debole». In che? Dov'è più bravo. Un corpo è
più forte d'un altro corpo, i più di uno solo, il ladro del non-ladro. Per questo,
anch'io ho perduto la lucerna, perché nel vegliare, il ladro fu più bravo di me.
Ma egli ha acquistato la lucerna a un prezzo davvero alto: per una lucerna è
diventato ladro, per una lucerna sleale, per una lucerna bestiale. E tutto ciò gli
è parso guadagno.
Va bene: ma, ecco, uno mi prende per il mantello, mi trascina nell'agorà, e
altri schiamazzano: «Filosofo, che prò ti fanno i tuoi giudizi? Guarda, ti
cacciano in prigione; guarda, ti stanno per tagliare la testa». Ma a quale
formazione filosofìca potevo darmi per non essere trascinato via, se uno più
forte m'avesse afferrato per il mantello? per non essere cacciato in prigione,
se circondatimi in dieci, mi ci avessero cacciato dentro? E dunque, niente
altro ho appreso? Ho appreso a considerare che quanto accade, se è
indipendente dalla mia persona morale, non è niente nei miei riguardi. E
per rispetto alla circostanza presente non hai niente che possa giovarti?
Perché, allora, cerchi l'utile in una parte diversa da quella in cui è, a quanto
hai appreso? Del resto, io mi metto seduto da un canto nella prigione e dico:
«costui che s'è messo a schiamazzare contro di me, non ascolta né quel che
gli si spiega né a quel che gli si dice tien dietro, né, in una parola, si prende
cura di sapere quel che i filosofi dicono o fanno. Lascialo.»
«Ma tu, a tua volta, esci di prigione.»
«Se non vi fa più comodo ch'io resti in prigione, me ne vado; se vi fa ancora
comodo, ci ritornerò.»
«Fino a quando?».
— Fin quando alla ragione piace ch'io rimanga col mio povero corpo:
quando più non le piace, prendetelo e statevi sani!
Solo, non ci comportiamo illogicamente, non mollemente, non seguendo il
primo pretesto. Perché Dio, a sua volta, non lo permette: egli ha bisogno di
un mondo cosiffatto, di esseri cosiffatti che si muovono sulla terra. E se da il
segnale della ritirata come a Socrate, si deve obbedire a chi lo da, come a un
generale.
— E che? bisogna dirle ai più queste cose?
— Per quale scopo? Non basta convincersene personalmente? Quando ci
vengono vicino i ragazzi e battono le mani e gridano: «Oggi sono i Saturnali:
evviva!» diciamo forse: «Non c'è ragione di questo evviva?» No, davvero,
anzi battiamo le mani anche noi. Così tu, quando non riesci a mutar
l'opinione di taluno, considera ch'è un ragazzino e batti le mani con lui: se poi
non vuoi far così, non ti resta che tacere.
Questo si deve ricordare e sapere, inoltre, che, qualora siamo chiamati ad
affrontare una difficoltà di tal genere, è giunta l'occasione di mostrare se
abbiamo una vera educazione fìlosofìca. Un giovane che esce da scuola, di
fronte a una difficoltà è come chi s'è preoccupato di risolvere sillogismi.
Gliene propongono uno di facile soluzione? Dice:
«Proponetemene piuttosto uno più abilmente imbastito, perché mi eserciti.»
Anche agli atleti non garbano allenatori che sono pesi leggeri. «Non riesce a
sollevarmi» — dice uno. Ecco l'atteggiamento d'un giovane di buona natura.
E, invece, no: ma se l'occasione ti chiama, ti conviene piangere e dire:
«Vorrei imparare ancora». Che cosa? Se non l'hai imparato tutto ciò, in modo
da mostrarlo in pratica, a che scopo l'hai imparato? Io ritengo che qualcuno di
voi che state qui seduti si travagli in se stesso e chieda: «Non potrebbe
capitarmi adesso una difficoltà simile a quella capitata a costui? Che abbia a
logorarmi qui, seduto in un angolo, mentre potrei essere coronato in Olimpia?
Quando mi si annunzierà un combattimento tale?» Questa dovrebbe essere la
disposizione di tutti voi. Tra i gladiatori di Cesare ci sono taluni che si
lagnano perché nessuno li manda in gara né li accoppia, e pregano Dio e si
recano dagli organizzatori supplicandoli di farli combattere: e tra voi,
nessuno si mostrerà come loro? Vorrei proprio prender la nave per ammirare
questo spettacolo e vedere che fa il mio atleta, come se la sbriga col tema.
«Non lo voglio così — dice». Perché, dipende da te prendere il tema che
vuoi? T'è stato dato un corpo tale, tali genitori, tali fratelli, tale patria, tale
rango in essa patria: ora, tu vieni da me e mi dici «cambiami il tema». Non
hai risorse per usare ciò che t'è stato dato?
Dipende da te proporre il tema, da me bene svolgerlo? No. Ma tu dici: «Non
darmi un sillogismo con una siffatta maggiore disgiuntiva, ma un altro: non
portarmi siffatta conclusione, ma un'altra». Verrà presto il tempo in cui gli
attori tragici riterranno di essere maschere, calzari, vesti a strascico. Uomo,
tutto questo l'hai come materia e tema. Di' qualche parola perché sappiamo se
sei un attore o un buffone; che nel resto sono uguali l'uno e l'altro. Per ciò, se
si tolgono all'attore i calzari e la maschera e se ne mostri la sola ombra,
l'attore è sparito o sussiste ancora? Se ha voce, sussiste. Lo stesso, qui.
«Prendi il comando». Lo prendo, e, presolo, mostro come si comporta un
uomo che ha ricevuto educazione fìlosofìca. «Deponi il laticlavo, raccatta
degli stracci e mostrati in tale acconciatura». E che? non mi è concesso di
spiegare una bella voce? «E come sali adesso sulla scena?» Come testimone
chiamato da Dio. «Va', dunque, e recami testimonianza, che sei degno
d'essere inviato testimone da me. Forse un oggetto al di là della persona
morale è buono o cattivo? Faccio torto a qualcuno? Ho riposto l'utile di
ciascuno in altro che in lui?» Quale testimonianza dai a Dio? «Mi trovo in
gravi difficoltà, Signore; sono disgraziato. Nessuno si occupa di me, nessuno
mi da niente, tutti mi biasimano, sparlano di me». Sarà questa la tua
testimonianza? Vuoi disonorare la chiamata ch'egli t'ha rivolto, onorandoti
con tale onore e ritenendoti degno di inviarti a dare una testimonianza così
importante?
Ma uno che ha autorità ha pronunciato la sua sentenza: «Ti giudico empio e
sacrilego» Che t'è successo? «Sono stato giudicato empio e sacrilego».
«Niente altro?» «No.» Se si fosse pronunziato su un giudizio ipotetico e
avesse espresso questo parere: «Giudico falsa la proposizione: Se è giorno,
c'è luce», che ne sarebbe stato del giudizio ipotetico? Chi è giudicato in
questo caso, chi è condannato? Il giudizio ipotetico o chi s'è lasciato
ingannare al suo riguardo? E chi è costui che ha potere di pronunziare un
giudizio su te? Conosce che cos'è pietà ed empietà? Se ne è mai curato? L'ha
appreso? Dove? Da chi? Un musico non si cura certo di chi afferma che la
nota più alta è la più bassa, né il geometra di chi ritiene che i raggi d'una
circonferenza non sono uguali: e chi ha ricevuto una verace educazione
filosofica farà caso di un ignorante che da giudizi sulla santità e sulla
empietà, sull'ingiusto e sul giusto? Oh, i grandi torti di chi ha ricevuto
un'educazione filosofica! L'hai appreso qui tutto questo? I bei discorsi su tali
argomenti non vuoi lasciarli agli altri, a infelici omiciattoli, perché, seduti a
un angolo, guadagnino il loro salario o bubbolino che non buscano niente da
nessuno?
E tu, non vuoi farti avanti e mettere in pratica ciò che hai appreso? Non sono
le belle parole che ci mancano adesso: ne sono pieni i libri degli stoici di
belle parole! Che ci manca allora? Chi sappia usarne, chi sappia, nella realtà
della vita, dare testimonianza alle parole.
Prenditi questa parte, ti prego, onde in scuola più non ricorriamo ad esempi
antichi ma ne abbiamo uno dei nostri giorni.
E tutti questi problemi chi deve contemplarli teoricamente? Chi ha tempo.
Perché l'uomo si diletta a contemplare. Ma il brutto è contemplarli a guisa di
schiavi fuggitivi: bisogna, invece, mettersi a sedere in tutta tranquillità e
porgere orecchio ora all'attore tragico, ora al citaredo, ma non al modo di
quelli. Ecco, c'è uno che sta molto attento e prodiga elogi all'attore, e intanto
spia intorno: che se qualcuno pronuncia la parola «padrone», subito si
agitano, si sconvolgono.
È brutto, dico, che i filosofi contemplino in tal guisa le opere della natura.
Che cosa significa «padrone»? L'uomo non è padrone dell'uomo; lo sono la
morte e la vita, la gioia e l'affanno. E, invero, se non ci fosse tutto ciò,
conducimi davanti anche Cesare e vedrai come rimarrò tranquillo. Ma
quando egli avanza con quest'apparato, tuonando e folgorando, ed io ne sono
atterrito, che cos'altro faccio se non riconoscerlo, a guisa di schiavo, mio
padrone? E finché le sue minacce mi lasciano un po' di tregua, sto anch'io
come uno schiavo attento in teatro: prendo il bagno, bevo, canto, tutto con
paura e a disagio. Ma se riesco a sciogliermi dai miei tiranni, e cioè da tutto
quel che rende temibili i tiranni, quale affanno ho ancora, quale padrone?
Ebbene? bisogna annunziarle a tutti queste cose? No, ma bisogna adattarsi
agli incolti e dire: «Costui, ciò che ritiene bene per sé, lo consiglia anche a
me: io lo compatisco». Anche Socrate, mentre stava per bere il veleno,
compatì il secondino che piangeva e disse: «Che lacrime generose versa per
noi!». O forse gli dice: «È per ciò che abbiamo rimandato le donne»? No,
questo lo disse ai suoi intimi, a quanti erano in grado di comprenderlo.
Quanto al secondino, egli s'accomoda a lui, come si fa con un ragazzetto.
Quando entri in casa di qualche potente, ricorda che pure un Altro di lassù
osserva quel che succede e che a Questo più che a quello devi piacere.
Quest'Altro ti interroga :
— L'esilio, la prigione, le catene, la morte, il disonore, come li definivi a
scuola?
— Cose indifferenti.
— E adesso, come le definisci? Sono forse cambiate?
— No.
— E tu, sei cambiato?
— No.
— Dimmi, dunque, quali sono le cose indifferenti: dimmi pure le
conseguenze che ne derivano.
— Quelle che non dipendono dalla mia persona morale. Sono niente per me.
— Dimmi, poi, quali cose ritenete beni?
— La retta disposizione della persona morale e l'uso conveniente delle
rappresentazioni.
— E il fine, qual è?
— Venir dietro a te.
— E lo dici anche adesso?
— Sì, dico anche adesso lo stesso.
— E allora va', entra con fiducia, ricordatene e vedrai che cos'è un giovane
dotato d'una conveniente educazione filosofica in mezzo a gente che ne è
priva.
Io, certo, per gli dèi, immagino che proverai un sentimento di questo genere:
«Perché abbiamo fatto tante e sì grandi preparazioni per un niente? Questo
significa aver potenza? Questo il vestibolo, i camerieri, le guardie? Per
questo ho ascoltato tanti discorsi? Ma questo era proprio niente, ed io mi ci
sono preparato come fosse qualcosa di grande».
DELL’ATARASSIA
Bada bene, tu che ti presenti in tribunale, a quel che vuoi mantenere e dove
vuoi giungere. Se vuoi mantenere la tua persona morale in accordo con la
natura, tutto è sicuro, tutto è facile, non hai noie: infatti, siccome vuoi
mantenere ciò che è in tuo potere e che per natura è libero, e questo ti basta,
di che devi ancora preoccuparti?
Chi ne è padrone, chi può strappartelo? Se vuoi essere onesto e leale, chi non
te lo permetterà? Se vuoi fuggire impedimenti o costrizioni, chi ti costringerà
a desiderare ciò che non ti piace, o ad avversare ciò che, secondo te, non si
deve? E che? Prenderà, sì, il giudice contro te misure che sembrino
impressionanti: ma che tu ne soffra, volendo evitarle, come potrà farlo
questo? Se dunque dipende da te il desiderare e l'avversare, di che devi
ancora preoccuparti?
Ecco il tuo esordio, la tua esposizione, la tua prova, il tuo successo, la tua
perorazione, ecco ciò che costituisce la tua fama.
Per questo, a chi gli ricordava di prepararsi al processo Socrate rispose:
«Non ti sembra che mi ci sia preparato per tutta la vita?» «Con quale
preparazione?» «Ho mantenuto, disse, ciò che era in mio potere.» «In che
modo?» «Non ho
commesso mai ingiustizia alcuna, né privatamente né pubblicamente.» Ma se
vuoi mantenere anche le cose esterne, il tuo povero corpo, la tua piccola
sostanza, la tua misera reputazione, io ti dico: «Via, preparati
immediatamente e come meglio puoi; inoltre, studia il carattere del giudice e
il tuo avversario. Se conviene abbracciare le ginocchia, abbracciale; se
piangere, piangi; se gemere, gemi. Giacché subordini ciò che è tuo alle cose
esterne, sii d'ora in poi schiavo e non lasciarti trascinare da un'altra parte,
pronto, un momento, ad essere schiavo, un momento no, ma in tutta
semplicità e con piena convinzione o di qui o di lì: o libero o schiavo, o
educato o ineducato, gallo di razza o comune; colpito, sopporta fino a
morirne, ovvero ritirati subito. Ma non t'accada di subire una valanga di colpi
per poi ritirarti alla fine.
Che se questo è turpe, decidi allora subito: «Dov'è la natura delle cose
cattive e delle buone? Dov'è anche la verità»
Credi tu che, se avesse voluto mantenere i beni esterni, Socrate,
presentandosi ai giudici, avrebbe detto: «Anito e Meleto possono sì
ammazzarmi, ma farmi del male no»? Era così insensato da non vedere che
questa strada non
conduce là, ma altrove? E com'è che non tiene conto dei giudici, anzi si
mette a provocarli? Allo stesso modo, il mio Eraclito, avendo a Rodi una
piccola causa per un campicello, dopo aver provato ai giudici che diceva il
vero, giunto alla perorazione, disse: «comunque, non vi supplicherò, né mi
darò pensiero della vostra decisione, giacché a render conto siete più voi che
io». E così rovinò la causa. Per quale scopo? Vedi solo di evitare le
suppliche, di non aggiungere la frase: «io non supplico davvero». A meno
che non sia il caso di provocare deliberatamente i giudici, come fu per
Socrate. Se anche tu prepari una perorazione di quel genere, a che presentarsi
in tribunale, a che rispondere all'invito di comparizione? Se vuoi essere
crocifisso, aspetta e la croce verrà. Se poi la ragione ti esorta a comparire e a
far per lo meno del tuo meglio onde riuscire persuasivo, devi agire di
conseguenza, mantenendo, s'intende, quelli che sono i tuoi propri beni. Perciò
è ridicolo dire: «Dammi un suggerimento.» Che posso suggerirti? Piuttosto
dimmi: «Rendimi il pensiero capace di adattarsi a ciò che può accadere.»
Quanto all'altra espressione, è come se un illetterato domandasse:
«Dimmi che cosa devo scrivere, qualora mi si proponga un nome.» In realtà,
se io gli faccio scrivere il nome di Dione, e il maestro, venendo, gli propone
non il nome di Dione ma di Teone, che succede? Che scriverà? Se invece hai
appreso a scrivere, puoi essere preparato a tutto quel che ti viene dettato.
Altrimenti quale consiglio posso darti, sul momento?
Che se altrimenti suggeriscono le circostanze, che cosa dirai, o che farai?
Ricordati, dunque, di questo principio generale e non sarai mai privo di
consigli. Ma se rimani a bocca aperta davanti alle cose esterne, sarai
necessariamente trascinato in alto o in basso, secondo il capriccio del tuo
padrone. E chi è il tuo padrone? Chi ha potere su qualcuna delle cose che tu
vuoi raggiungere o avversare.
Epitteto stava dicendo che l'uomo è nato per la fedeltà e che chi la distrugge,
distrugge la caratteristica distintiva dell'uomo, quand'ecco entrare uno che
aveva la fama di letterato e che un giorno era stato sorpreso in adulterio nella
città. «Però, continuò allora, se respingiamo questa fedeltà per la quale siamo
nati e insidiamo la donna del vicino, che facciamo? Che altro se non mandare
in rovina e togliere di mezzo... chi? L'uomo fedele, l'uomo rispettoso, l'uomo
religioso. Questo solo? E i rapporti di buon vicinato non li togliamo di
mezzo? E l'amicizia, no? e lo Stato no? E in quale posizione veniamo a
metterci? Come posso trattarti, o uomo? Come vicino, come amico? Come
chi? Come
cittadino? Quale fiducia avrò in te? Certo, se tu fossi un vaso così guasto da
non essere più buono a nulla, saresti gettato fuori tra le immondizie e nessuno
ti verrebbe a raccattare di lì: e se, pur essendo uomo, non sei in grado di
compiere nessuna funzione umana, che faremo di te? Va bene: non puoi fare
l'amico: lo schiavo puoi farlo? Chi avrà fiducia in te?
Non vuoi per caso essere gettato anche tu nelle immondizie, come vaso
inutile, come letame? E poi dirai: «Nessuno si cura di me, che pur sono uomo
di lettere»? Sei un essere malvagio e inutile. Sarebbe come se le vespe
s'indignassero perché nessuno si cura di loro, anzi, le scansano tutti e chi può,
con un colpo, le schiaccia. Tu hai un pungiglione che reca fastidio e dolore,
se colpisce. Che vuoi dunque che facciamo di te? Non c'è ove metterti.
— Ma come! Le donne non sono proprietà di tutti, per natura?
— Lo dico anch'io. Pure il porcellino da latte è proprietà di tutti gli invitati.
Ma quando le porzioni sono state distribuite, accostati, se ti piace, a quella di
chi sta sdraiato vicino, e portagliela via, rubagliela senza farti accorgere,
oppure allunga la mano e assaggiala: e se non ti riesce di afferrare la carne,
impiastrati le dita di grasso e leccale. Un bel compagno di tavola davvero, un
convitato degno di Socrate!
— Ma vediamo: il teatro non è proprietà comune dei cittadini?
— Ebbene, quando si sono seduti, va', se ti piace, e caccia qualcuno dal suo
posto. A questo modo le donne sono proprietà comune di tutti per natura. Ma
quando il legislatore, come un convitante, le ha distribuite, non vorrai cercare
la tua parte anche tu, ma vorrai rapire quella degli altri e assaggiarla?
— Ma io sono un uomo di lettere, e interpreto Archedemo.
— E allora interpreta Archedemo e sii un adultero, senza fede, un lupo, una
scimmia, non un uomo. Che cosa te lo impedisce?
DELL’INDIFFERENZA
Dio è utile: ma anche il bene è utile. Naturale, quindi, che dov'è la natura di
Dio, ivi sia anche quella del bene. E qual è la natura di Dio? Carne? Non sia
mai. Campo? Non sia mai. Reputazione. Non sia mai. Egli è intelligenza,
scienza, retta ragione. Solo qua, dunque, assolutamente, cerca l'essenza del
bene. Perché, vuoi cercarla forse nella pianta? No. O
nell'essere senza ragione? No. Se, dunque, la cerchi nell'essere ragionevole,
dov'altro continuerai a cercarla se non in ciò che differenzia questo essere da
quelli irragionevoli? Le piante non usano neppure delle rappresentazioni e
per questo, rispetto ad esse, non parli di bene. Ha bisogno, dunque, il bene
dell'uso delle rappresentazioni. Di questo solo? Se così fosse, dì che pure
negli altri animali si trovano i beni, la felicità e l'infelicità. E invece non lo
dici e fai bene: che se anche hanno in alto grado l'uso delle rappresentazioni,
la coscienza, comunque, che all'uso si accompagna non l'hanno.
Ed è naturale: sono nati, in verità, per servire agli altri, non sono fini in se
stessi. L'asino, per esempio, è forse nato per essere un fine in se stesso? No,
ma perché noi avevamo bisogno di un dorso capace a portare qualcosa. Anzi,
per Zeus, avevamo pure bisogno che si movesse: per questo ha ricevuto la
capacità di usare delle rappresentazioni, altrimenti non era in grado di
muoversi. E del resto, lì si ferma il suo sviluppo. Se poi anche lui avesse in
qualche modo ricevuto la coscienza che s'accompagna all'uso delle
rappresentazioni, è chiaro, di conseguenza, che non sarebbe stato più
sottoposto a noi né ci avrebbe offerto tali servizi, ma sarebbe stato come noi,
simile a noi. Non vuoi, dunque, cercare la natura del bene in quella qualità, la
cui mancanza in tutti gli altri esseri ti impedisce di parlare di bene a loro
proposito?
— E che? Non sono opere degli dèi anch'essi?
— Senz'altro, ma non sono fini in se stessi, né parti della divinità. Tu,
invece, sei un fine, sei un frammento di Dio. Hai in te stesso una parte di lui.
E perché allora ignori la tua parentela? Perché non sai donde sei venuto?
Non vuoi ricordare, quando mangi, chi sei tu che mangi e a chi dai da
mangiare? Quando soddisfi i tuoi bisogni sessuali chi sei a far ciò? Quando ti
dai alla vita sociale, quando eserciti il corpo, quando discuti, non sai che un
dio nutri, che un dio eserciti? Un dio porti intorno, disgraziato, e l'ignori.
Pensi ch'io alluda a un dio d'argento, al di fuori, o d'oro? In te stesso lo porti,
e, senza accorgertene, lo deturpi con pensieri impuri, con atti sconci. Davanti
alla statua di un dio, non oseresti far neppure una delle azioni che fai. E
davanti a Dio stesso che nel tuo intimo tutto osserva e tutto ascolta, non ti
vergogni né di pensarle né di farle, o uomo incosciente della tua stessa
natura, oggetto della collera divina?
Noi, del resto, quando mandiamo un giovane fuori di scuola per qualche
affare, perché temiamo che non si comporti come si deve, che non mangi
come si deve, che non soddisfi i suoi bisogni sessuali come si deve, che si
degradi avviluppandosi di stracci, o vada in superbia per i suoi vestiti
ricercati? Costui non conosce il dio che è in lui, costui non sa con chi s'è
messo in viaggio. Ma gli lasceremo dire: «volevo averti con me»? Dove stai,
non hai Dio? E con lui, chi altro cerchi? E lui potrà parlarti in maniera
diversa da questa? Certo, se fossi una statua di Fidia, l'Atena o lo Zeus, ti
ricorderesti di te stesso e dell'artista, e, se avessi qualche sentimento,
baderesti a evitare qualunque azione indegna di chi t'ha fatto e di te stesso e a
non mostrarti in atteggiamento sconvenevole agli occhi dei visitatori: ora che
t'ha fatto Zeus, non ti importa niente come dovrai mostrarti? E c'è qualche
eguaglianza tra questo artista e quello, tra quest'opera e quella?
Qual opera d'artista ha, per ciò stesso, in sé le facoltà che traspaiono dalla
fattura? Non è forse pietra, o bronzo, o oro, o avorio? Anche l'Atena di Fidia,
una volta stesa la mano e accolta su di essa la Vittoria, rimane così per
sempre, mentre le opere di Dio si muovono, respirano, usano le
rappresentazioni, formulano giudizi. Opera di tanto demiurgo, vuoi
disonorarla? E che? Non solo ti ha fatto, ma ti ha affidato e consegnato a te
solo: non vuoi ricordarti di questo, ma disonorerai per di più la consegna? Se
Dio t'avesse affidato un orfano, lo trascureresti così? Ora t'ha dato in mano te
stesso e ti dice: «Non avevo un altro più fidato di te: custodiscimi costui
come vuole la sua natura, riservato, fedele, di alti sensi, senza paura, senza
passione, imperturbato». E tu non lo vuoi custodire?
Ma diranno: «Come va che costui ha aggrottato le ciglia e si da un'aria tanto
solenne?» II mio portamento non è ancora come dovrebbe. Non ho ancora
abbastanza confidenza con ciò che ho imparato e condiviso. Continuo a
temere la mia debolezza. Lasciate che ci prenda confidenza e vedrete allora
uno sguardo conveniente, un'attitudine conveniente: allora vi mostrerò la
statua, quando sarà rifinita e scintillante. Che v'immaginate? Ciglia
aggrottate? Non sia mai. Forse lo Zeus d'Olimpia contrae le ciglia? Anzi, il
suo sguardo è sicuro, come deve averlo chi sta per dire: non si può revocare
né trovar falsa la mia parola.
Così io mi mostrerò a voi, fedele, riservato, generoso, imperturbabile. Forse,
anche immortale, non sfiorato da vecchiaia, non tòcco da malattia? No; bensì
nell'atto di morire come un dio, nell'atto di sopportare una malattia come un
dio. Questo ho in mio potere, questo posso: tutto il resto non l'ho in mio
potere, né lo posso. Vi mostrerò il vigore d'un filosofo. Quale vigore? Un
desiderio sempre soddisfatto, un'avversione che non incorre mai in ciò che
vuole evitare, un impulso conforme al dovere, un divisamente diligente, un
assenso non precipitato. Ecco quel che vedrete.
Non è una cosa qualunque adempiere soltanto la parte di uomo. Che cos'è
l'uomo? Un essere animato, ragionevole, mortale, si dice. Orbene, in virtù
dell'elemento razionale, da chi ci distinguiamo? Dalle bestie selvagge. E da
chi altro?
Dalle pecore e da animali simili. Vedi, dunque, di non agire mai come una
bestia selvaggia: altrimenti, hai distrutto l'uomo e non hai adempiuto la tua
parte. E neppure come una pecora: altrimenti, anche in tal modo, s'è distrutto
l'uomo.
«E quand'è che agiamo da pecore?» Se agiamo per amor del ventre, o degli
istinti sessuali, se agiamo
sconsideratamente, sordidamente, con noncuranza, a che ci siamo degradati?
A pecore. E che cosa abbiamo distrutto?
L'elemento razionale. Se agiamo per il desiderio di contendere, o di
danneggiare, o spinti dall'ira o dalla violenza, a che ci siamo degradati? A
bestie selvagge. Ne segue che alcuni di noi sono grosse bestie feroci, altri,
invece, animaletti malvagi e piccini, riguardo ai quali è il caso di dire: «fosse
almeno un leone a divorarmi!».
Da tutte queste azioni è distrutta la parte dell'uomo.
Quand'è che una proposizione copulativa si conserva valida? Quando
adempie la sua funzione, sicché la sua validità consiste nella verità delle
proposizioni che la costituiscono. E una proposizione disgiuntiva? Quando
adempie la sua funzione. E i flauti, la lira, il cavallo, il cane?
Che meraviglia se anche l'uomo allo stesso modo si conserva, allo stesso
modo si distrugge? Ognuno cresce e si conserva mediante le opere che gli si
confanno: il falegname mediante quelle del falegname, il grammatico
mediante quelle del grammatico. Ma se uno si abitua a scrivere in modo
sgrammaticato, necessariamente si rovina e si distrugge l'arte. Così un agire
rispettoso conserva nell'uomo il carattere rispettoso, lo distrugge, invece, un
agire irrispettoso: atti di fedeltà conservano l'uomo fedele, atti contrari lo
distruggono. A loro volta, azioni contrarie accrescono caratteri contrari:
l'impudenza l'impudente, l'infedeltà l'infedele, la calunnia il calunniatore, la
collera il collerico, infine un prendere e un dare sproporzionati l'avaro.
Per questo i filosofi raccomandano di non limitarsi solo a imparare, ma di
aggiungere anche la pratica e poi l'esercizio.
Col passare del tempo, infatti, ci siamo abituati a fare il contrario di quel che
abbiamo appreso e mettiamo
continuamente in uso opinioni contrarie alle giuste. Se non metteremo in uso
anche queste, non saremo altro che commentatori di pareri altrui. Ora, chi di
noi non è capace di dissertare sui beni e sui mali? Per esempio: certe cose
sono buone, altre cattive, altre indifferenti. Buone le virtù e quanto partecipa
delle virtù: cattive le contrarie: indifferenti la ricchezza, la salute, la
reputazione. Ma se nel bel mezzo della nostra dissertazione, si fa rumore un
po' troppo forte o uno dei presenti si mette a ridere di noi, restiamo
sconcertati. Dove sono, filosofo, i princìpi di che parlavi? Da dove li
prendevi per proporceli? Dalle labbra, senza dubbio, di lì. Perché vai
sconciando risorse altrui? perché giocando con cose della più grande
importanza? In verità, altro è riporre pani e vino in dispensa, altro mangiare.
Quel che si mangia viene digerito, distribuito per l'organismo, diventa nervi,
carne, ossa, sangue, bel colorito, sana respirazione. Quel che hai messo in
disparte, puoi prenderlo quando vuoi e mostrarlo, ma nessun giovamento te
ne viene se non d'esserne creduto il proprietario. Che differenza c'è tra il
commentare questi insegnamenti e gli insegnamenti di altre scuole?
Mettiti a sedere, adesso, e disserta sulla dottrina di Epicuro: forse disserterai
più abilmente di Epicuro stesso. Perché dirti stoico, perché ingannare la folla,
perché contraffare il giudeo, se sei greco? Non vedi per quale ragione si dice
che costui è giudeo, costui siriano, costui egiziano? E quando ci accorgiamo
che uno pencola tra due partiti, siam soliti dire:
«non è giudeo, ma vuole contraffare il giudeo.» Quando, però, prende lo
spirito del battezzato e del seguace convinto, allora sì, è e si chiama
veramente giudeo.
In tal modo anche noi siamo pseudo-battezzati, giudei di nome, in realtà
tutt'altra cosa, in disaccordo coi nostri princìpi, ben lontani dal mettere in
pratica le dottrine che esponiamo e che siamo orgogliosi di conoscere. Così,
nonostante l'incapacità di adempiere la parte di uomo, vogliamo assumerci
anche quella del filosofo. Fardello enorme: è come se uno incapace di
sollevare dieci libbre, pretendesse di sollevare il masso di Ajace.
Considera chi sei. Prima di tutto uomo, cioè uno che non possiede niente più
importante della persona morale ma a lei subordina il resto, e tale persona
morale possiede libera da schiavitù e da soggezione. Osserva, dunque, da chi
ti distingui per la ragione. Ti distingui dalle bestie selvagge, ti distingui dalle
pecore. Oltre ciò, sei cittadino del mondo e parte di questo mondo — e non
una delle parti subordinate, ma delle dominanti, perché puoi comprendere il
governo divino e riflettere sulle conseguenze. Ora, che cosa esige il ruolo di
cittadino? Di non aver nessun interesse personale, di non prendere decisioni
su nessuna cosa quasi fosse isolato, bensì di agire come la mano o il piede, se
ragionassero e comprendessero l'ordine naturale — che, certo, non avrebbero
né impulsi né desideri se non riferendoli al tutto. Perciò dicono bene i filosofi
che se l'uomo di virtù perfetta prevedesse il futuro, coopererebbe alle
malattie, alla morte, alle mutilazioni, perché si renderebbe conto che tutto
questo gli è stato assegnato dall'ordinamento universale e che è più
importante il tutto della parte, la città del cittadino. Ora, siccome noi non
prevediamo il futuro, nostro dovere è di tenerci stretti a ciò che nella scelta è
più conveniente, giacché proprio per questo siamo nati. Dopo ciò, ricorda che
sei figlio. A che ci si obbliga, sostenendo questa parte? A considerare del
padre tutto quel che si possiede, a essergli soggetto in tutto, a non biasimarlo
mai presso alcuno, a non dire né fare ciò che possa essergli dannoso, a
rinunciare a se stessi in ogni cosa e a cedergli, cooperando con lui, nei limiti
del possibile. Dopo ciò, sappi che sei anche fratello.
Questa parte ti obbliga ad essere deferente, compiacente, benevolo nelle
parole, a non contendere mai col fratello per nessuna delle cose indipendenti
dalla tua scelta, ma a lasciargliele di buon grado, per accrescere il tuo
vantaggio in ciò che dipende da te. Vedi, infatti, che cos'è acquistare la bontà
d'animo a prezzo di un piatto di lattuga, all’occorrenza, o d'un seggio: che
guadagno! Dopo ciò, se sei senatore d'una città, ricordati che sei senatore;
<se> giovane, che giovane; se vecchio, che vecchio; se padre, che padre.
Perché sempre, ognuno di questi nomi, se lo si considera attentamente,
suggerisce le azioni appropriate.
Ma se tu, allontanatoti da tuo fratello, lo critichi, io ti dico: «Hai dimenticato
chi sei e che nome hai». Se tu fossi fabbro e usassi male il martello, avresti
dimenticato il mestiere di fabbro: ora, se hai dimenticato i doveri di fratello e
da fratello sei diventato nemico, riterrai di non aver scambiato niente con
niente? Se da uomo, animale domestico e socievole, sei diventato una fiera
selvaggia, pronta a nuocere, a insidiare, a mordere, non hai perduto niente?
Devi perdere proprio una moneta per soffrire danno? e nessun'altra perdita
reca danno all'uomo? Vediamo: se buttassi via le cognizioni letterarie o
musicali, riterresti codesta perdita un danno: e se butterai via il senso del
pudore, la dignità, la gentilezza, non lo conterai niente? Eppure, quelle si
perdono per una causa esterna e indipendente da noi, queste, invece, per
causa nostra: inoltre, quelle, non <è bello> averle, né è brutto perderle,
queste, invece, e il non averle e il perderle è un disonore, un biasimo, una
vera disgrazia. Che cosa distrugge chi subisce nefandezze? L'uomo. E chi le
compie? Molte altre cose e, nondimeno, anche l'uomo. Che cosa distrugge
l'adultero? L'uomo riservato, padrone di sé, onesto, il cittadino, il vicino. Che
cosa distrugge chi va in collera? Qualche altra cosa. E chi è in timore?
Qualche altra cosa. Nessuno è cattivo senza perdita o danno. Del resto, se
consideri danno solo la perdita del denaro, tutti costoro non subiscono né
danno né pena, che anzi, all'occasione, traggono profitto e guadagnano,
qualora riescano ad ottenere denaro da una di quelle azioni. Bada bene che se
riconduci tutto alla miserabile moneta, neppure chi perde il naso soffrirà un
danno secondo te.
— Ma sì — dice — perché il suo corpo resta mutilato.
— Orsù, chi ha distrutto il senso stesso dell'odorato, non ha perduto niente?
E non c'è alcuna facoltà dell'anima, il cui possesso giova, la cui perdita è
danno?
— Quale vuoi dire?
— Non abbiamo un senso naturale di riservatezza?
— Si.
— E chi lo distrugge non subisce un danno, non si priva di niente, non getta
via niente di ciò che è suo?
Non abbiamo per natura un sentimento che ci fa essere fedeli, amorosi,
servizievoli, pazienti l'uno dell'altro? E quindi, chiunque si lascia danneggiare
in uno di questi sentimenti non subisce pene, non subisce danni?
— E che? non devo rendere ingiuria per ingiuria?
— Prima di tutto, considera che cosa è l'ingiuria e ricorda ciò che hai
ascoltato dai filosofi. Perché, se il bene è nella persona morale, e così pure il
male, guarda se le tue parole non si riducono a questo: «E dunque? poiché
costui ha fatto un torto a se stesso, commettendo un'ingiustizia contro di me,
non farò io un torto a me stesso, commettendo
un'ingiustizia contro di lui?» Perché non consideriamo la questione in questi
termini, invece di vedere un danno quando si tratta di una perdita nel corpo o
negli averi, non vederlo, al contrario, quando la perdita colpisce la persona
morale?
Che non soffre certo di testa, chi s'inganna o commette ingiustizia, né di
occhi, né di sciatica e neppure perde un campo.
Ma noi non vogliamo altro che questo: quanto poi a sapere se la nostra
persona morale si manterrà riservata e fedele o spudorata e infedele, non ci
interessa molto, salvo che si tratti di farne una perorazione a scuola. Per
questo, finché si deve perorare, progrediamo, ma al di fuori, no, neppur tanto
così!
DELLA DIALETTICA
SULL’ANSIETA’
Quando vedo un uomo in ansia, dico: Che mai vuole costui? Se non avesse
voluto una cosa non in suo potere, come sarebbe ancora in ansia? Ecco
perché il citaredo non è in ansia quando canta da solo, ma quando si presenta
in teatro, pur se possieda una voce più che bella e sappia suonar bene: in tal
caso, infatti, non vuole soltanto cantar bene ma anche aver successo — e
questo non è più in suo potere. Del resto in ciò che sa, è sicuro: portagli un
profano qualunque e non se ne cura. Ma per ciò che non sa e che ha
trascurato, ecco dov'è in ansia. Che significa ciò? Che non conosce che cosa è
la folla né l'applauso della folla: ha imparato senza dubbio a toccare la prima
e l'ultima corda della cetra, ma l'applauso della moltitudine, che cosa sia, che
valore abbia nella vita, egli non lo sa e non se ne è interessato. Necessario,
quindi, che tremi e impallidisca.
Che non sia citaredo, quando pur lo vedo pieno di paura, non posso dirlo, ma
qualche altra cosa posso dirla, e non una sola, ma molte. E prima di tutto lo
chiamo straniero e dico: quest'uomo non sa in che parte della terra vive, ma,
pur abitandovi da tanto tempo, ignora le leggi della città, i suoi costumi, ciò
che è permesso e ciò che non è permesso. E
neppure ha per caso preso con sé uno, esperto in legge, che gli dicesse e
spiegasse ciò che è legale. Ma un testamento non lo redige senza sapere come
bisogna redigerlo o senza aver preso con sé uno che lo sappia, né fa
altrimenti quando appone il sigillo su un atto di malleveria o compila una
garanzia: invece, senza consultare un uomo di legge, maneggia desideri e
avversioni, impulsi, piani, progetti. Come, senza un uomo di legge? Egli non
sa che vuole ciò che non gli è concesso e rifiuta ciò che è nell'ordine delle
cose necessarie: non sa, quindi, né ciò che è suo, né ciò che è d'altri. Se lo
sapesse, non troverebbe mai ostacolo, mai impedimento — e non sarebbe mai
in ansia. E come no? Si teme forse ciò che non è male?
— No.
— E poi? Ciò che è bensì male, ma di cui si può impedire la realizzazione?
— Neppure, in nessun modo.
— Se, dunque, le cose indipendenti dalla nostra scelta non sono né buone né
cattive, quelle dipendenti, invece, sono tutte in nostro potere, e nessuno può
strapparcele o imporcele se non vogliamo, dov'è più posto per l'ansia?
Ma noi siamo in ansia per il nostro povero corpo, per i nostri poveri averi,
per che cosa avrà a pensare Cesare, non certo per alcuna di quelle cose che
stanno dentro di noi. Lo siamo forse per il timore di ammettere il falso?
— No, che questo dipende da me.
— O di avere impulsi contrari alla natura?
— Neppure per questo.
— E allora, quando vedi uno che impallidisce, come il medico,
argomentando dal colore del paziente, dice «questo soffre di bile, questo di
fegato» dì anche tu così: «Costui soffre nei suoi desideri e nelle sue
avversioni, non va bene, ha la febbre». Perché nient'altro fa cambiar colore,
fa tremare, fa battere i denti, fa rannicchiare e poggiare or su un piede [ed ora
sull'altro].
Per ciò Zenone non era affatto in ansia quando doveva incontrare Antigono,
perché di tutto ciò che lui stimava, l'altro non aveva nessun potere, mentre di
quanto aveva il potere l'altro, non si curava lui. Al contrario, quando
Antigono stava per incontrarsi con Zenone, era in ansia; e giustamente,
perché voleva piacergli, il che non rientrava nelle sue possibilità: quanto a
Zenone, non voleva piacergli non più che un artista a un ignorante. Voglio
piacerti? In cambio di che? Sai tu la norma, alla cui stregua un uomo è
giudicato da un altro? Ti è mai importato conoscere che cos'è l'uomo buono e
l'uomo cattivo e come si diventa l'uno o l'altro? Perché dunque non sei tu
stesso un uomo buono?
— Come, dice, non lo sono?
— Il fatto è che nessun uomo buono piange o geme, né si lamenta, né muta
colore, né trema né dice: «come mi
riceverà? come mi ascolterà?» Servo, come gli parrà. Che t'interessa di quel
che dipende da altri? Perché, lo sbaglio non è suo se accoglie malamente le
tue parole?
— Come no?
— E può succedere che uno sbagli, l'altro soffra il male?
— No.
— E allora perché sei in ansia per le cose altrui?
— Certo, sto in ansia come gli parlerò.
— Ebbene, non puoi parlargli come vuoi?
— Ma ho paura di confondermi.
— Se dovessi scrivere il nome di Dione, avresti paura di confonderti?
— Niente affatto.
— Per quale motivo? Non è perché ti sei preso cura di scrivere?
— Come no?
— E poi? se dovessi leggere, non si darebbe lo stesso caso?
— Lo stesso.
— Qual è il motivo? È che ogni tecnica ha in sé qualcosa che ispira forza e
sicurezza nell'ambito del suo dominio. Non hai appreso a parlare? E che
cos'altro hai appreso in scuola?
— Sillogismi e argomenti equivoci.
— A che scopo? Non per disputare da bravo?
E disputare da bravo non significa dire a proposito, senza tentennamenti, con
intelligenza, e ancora senza inciampi, senza imbarazzi, con sicurezza,
insomma, in ogni argomento?
— Sì.
E allora a cavallo, in pianura, opposto a un fante, tremi per un
combattimento in cui tu sei preparato, quello no?
— Già, ma lui ha il potere di uccidermi.
— Dimmi la verità, infelice, e non fare il gradasso: non ritenerti filosofo,
non disconoscere i tuoi padroni, ma finché hai il corpo che offre una presa,
segui chiunque sia più forte. Socrate era esercitato nell'arte del parlare, egli
che discuteva coi tiranni, in quel suo modo, coi giudici, nella prigione stessa.
Diogene era esercitato nell'arte del parlare, egli che si rivolgeva, con quel suo
tono, ad Alessandro, a Filippo, ai pirati, a chi l'aveva comprato. <Lascia tutto
ciò> a loro, che ne prendono cura, che sono coraggiosi. Tu torna ai tuoi
affari, e non allontanartene mai: torna al tuo angolo, mettiti a sedere, intreccia
sillogismi e mostrali a un altro: Non è in te, certo, l'uomo capo di città.
A NASONE
Un giorno entrò un romano col figlio e si mise ad ascoltare una lezione.
«Questo, disse Epitteto, è il tenore del mio insegnamento» — e tacque. E
poiché quello lo pregò di seguitare «Ogni arte — riprese — quando la si
impartisce, comporta fatica per il profano, per chi ne é inesperto. I prodotti
delle arti, invece, mostrano subito la loro utilità in considerazione del fine al
quale sono destinati e hanno, per la massima parte, qualcosa di attraente e di
dilettoso. Per esempio, assistere e seguire il modo con cui si apprende il
mestiere di calzolaio è seccante, ma la calzatura è cosa utile, e guardarla
d'altronde, fa piacere. Così, la tecnica del carpentiere è in sommo grado
noiosa per un profano, che assista per caso all'insegnamento, ma l'opera ne
mostra l'utilità. Questo potrai osservarlo molto meglio nel campo della
musica.
Se sei presente a una lezione di musica, ti sembrerà l'insegnamento più
seccante di tutti, invece, la produzione musicale è dolce e gradita alle
orecchie dei profani. E nel nostro caso il compito di chi filosofa ce lo
rappresentiamo così: bisogna adattare la volontà agli avvenimenti in modo
che niente di quel che accade sia contro il nostro volere, e di quel che non
accade non accada proprio ciò che noi vogliamo. Da ciò risulta che quanti
hanno ben organizzato tale compito non falliscono nei desideri e non
incorrono in ciò che vogliono evitare, menano da parte loro una vita senza
dolori, senza timori, senza turbamenti, osservando col prossimo le relazioni
naturali o acquisite — relazioni di figlio, di padre, di fratello, di cittadino, di
sposo, di sposa, di vicino, di compagno di strada, di capo, di suddito.
Così, più o meno, ci rappresentiamo il compito di chi filosofa. Rimane da
cercare, dopo ciò, come si realizzerà.
Vediamo che il carpentiere diventa carpentiere mediante un insegnamento, il
timoniere diventa timoniere mediante un insegnamento. Forse che anche nel
nostro caso non basta voler essere un uomo di perfetta virtù, ma bisogna
imparar qualcosa? Cerchiamo allora qual è. Dicono i filosofi che la prima
cosa da imparare è questa: esiste Dio, provvede all'universo, e non gli si
possono tener nascoste non solo le azioni, ma neppure i pensieri o i
sentimenti. Inoltre, quali sono gli dèi, perché, proprio nelle qualità che in essi
si trovano, deve cercare di rassomigliare loro, secondo le sue forze, chi vuole
ad essi piacere e obbedire — se la divinità è fedele deve esser fedele
anch'egli, se libera, libero anch'egli, se benefica, benefico anch'egli, se
generosa, generoso anch'egli e così di seguito, come imitatore di Dio, deve
fare e dire ogni cosa.
— Da dove bisogna cominciare, allora?
— Se acconsenti, ti dirò che per prima cosa devi intendere il significato delle
parole.
— Sicché io, adesso, non intendo il significato delle parole?
— Non l'intendi, no.
— Come le uso, allora?
— Come gli illetterati usano il linguaggio scritto, come le bestie le
rappresentazioni, perché altro è l'uso, altro l'intendimento. Se ritieni di
intenderle, prendi la parola che vuoi e saggiamoci, se veramente l'intendiamo.
— Certo, esser messi alla prova è penoso per un uomo abbastanza avanti
negli anni e che, per suo destino, ha già partecipato a tre campagne.
— Lo so anch'io. Perché tu, adesso, sei venuto da me come se non avessi
bisogno di niente. E di che cosa potresti immaginare di aver bisogno? Sei
ricco, hai figli, forse, anche moglie e molti servi. Cesare ti conosce, possiedi
in Roma un gran numero di amici, compi i tuoi obblighi, sai ricambiare il
bene a chi ti fa bene e il male a chi ti fa male. Che ti manca? Se io ti dimostro
che è la cosa più necessaria ed importante per la felicità, e che fino a questo
momento tutto hai curato più che ciò che dovevi, e se concludo con
quest'ultima osservazione: «tu non conosci che cosa è Dio, né che cos'è
l'uomo, né che cosa è il bene, né che cosa è il male», forse puoi tollerare di
non sapere quanto non ti riguarda, ma se aggiungo che ignori te stesso, come
potrai tollerarmi e subire l'esame e rimaner fermo? In nessun modo, ma
t'allontani subito malcontento. Eppure, che male ti ho fatto? A meno che
anche lo specchio non faccia male a chi è brutto, mostrandogli com'è: a meno
che anche il medico non offenda il malato, dicendogli: «Brav'uomo, in
apparenza non hai niente, in realtà, sei febbricitante: per oggi niente cibo,
bevi acqua». In questo caso nessuno commenta: «che affronto tremendo!»:
ma se dici a uno: «i tuoi desideri sono infiammati, le tue avversioni sono
meschine, i tuoi disegni contraddittori, i tuoi impulsi non accordati alla
natura, le tue opinioni inconsiderate e false» — quello subito se ne va ed
esclama: «M'ha fatto un affronto!».
Succede, nelle nostre cose, come in una fiera. Vi si conducono a vendere
mandrie di bestie e di buoi: c'è una gran folla di uomini, alcuni intenti a
comprare, altri a vendere: solo pochi sono venuti per mirare lo spettacolo
della fiera, come si svolge, perché, chi l'ha organizzata, e per qual fine. Lo
stesso accade qui, nella fiera della vita: alcuni, come mandrie di bestie, di
niente si preoccupano più che del foraggio, quanti, cioè, vi lasciate attrarre
dai beni, dai campi, dai servi, dalle cariche — tutto questo non è che
foraggio: pochi sono gli uomini che frequentano la fiera per amore dello
spettacolo.
«Che cos'è il mondo? Chi l'amministra? Nessuno? E com'è possibile che,
mentre una città o una casa non riescono a reggersi, neppure per brevissimo
tempo, senza qualcuno che le amministri e se ne prenda cura, una costruzione
così vasta e bella sia amministrata in modo tanto ordinato a caso e come
capita? C'è dunque qualcuno che la governa. Chi è?
In che modo la governa? E noi, chi siamo che da Lui fummo fatti, e per
quale compito? E abbiamo davvero un legame con lui, una relazione, o no?»
Ecco i sentimenti di questi pochi: e in conseguenza, a questo solo si
dedicano, a studiare la fiera prima di andarsene. Con quale risultato? Sono
derisi dai più: proprio come nell'altro caso gli spettatori dai trafficanti: e
anche le bestie, se potessero riflettere, deriderebbero quanti apprezzano altra
cosa che il foraggio.
Quando taluni ascoltano discorsi di questa sorta, che bisogna essere saldi, che
la volontà è libera per natura e senza costrizioni, mentre tutte le altre cose
sono soggette a impedimenti, a costrizioni, sono schiave e in potere altrui,
immaginano che si deve stare irrevocabilmente a qualunque decisione si sia
presa. Ma innanzi tutto, bisogna che sia sana la decisione. Voglio, sì, che ci
sia vigore in un corpo, ma il vigore d'un corpo sano, d'un corpo allenato: se
mi ti mostri col vigore d'un frenetico e te ne vanti, ti dirò: «uomo, cerca chi ti
curi. Questo non è vigore, ma debolezza, al contrario».
Qualcosa di simile accade nell'anima a quelli che mal comprendono questi
discorsi. Così, per esempio, un mio amico, senza nessun motivo, decise di
lasciarsi morire di fame. Lo seppi quand'era già il terzo giorno che aveva
cominciato il digiuno: andai da lui e gli chiesi che fosse successo.
— Ho deciso, disse.
— Bene, ma che cosa ti ci ha spinto? se la tua decisione è retta, ecco, noi ti
sediamo vicino e ti aiutiamo a uscir di vita: se illogica, mutala.
— Bisogna stare a quel che s'è deciso.
— Che fai, brav'uomo? non a tutto quel che s'è deciso, ma a quel che s'è
deciso rettamente. Perché, se adesso ti viene in testa che è notte, non cambiar
idea, se ti piace, ma restale fedele e dì pure che bisógna restar fedeli alle
proprie decisioni. Non vuoi porre questo principio e fondamento, osservare,
cioè, se la tua decisione è sana o no, e soltanto dopo, costruire su tale base
fermezza e solidità?
Ma se ci sottoponi un fondamento putrido e cascante, non si può più
costruire e quanto più vi accumulerai sopra materiale, e materiale solido,
tanto più rapido sarà il crollo.
Senza alcun motivo ci strappi alla vita un amico, un familiare, un cittadino
delle stesse città, della grande e della piccola: inoltre compi un omicidio,
distruggi un uomo che non ha commesso nessun'ingiustizia e pretendi che
bisogna stare alle proprie decisioni. Se per caso ti fosse venuto in mente di
ammazzarmi, dovevi stare alle tue decisioni?
Quello, allora, a fatica, mutò parere. Anche ai nostri giorni, taluni, non è
facile rimuoverli dai loro propositi, sicché mi sembra d'aver compreso solo
adesso il significato, che prima ignoravo, del detto corrente: «un pazzo, non
lo si può né persuadere né spezzare». Che non mi accada d'avere per amico
un saggio ch'è pazzo! Non c'è niente di più difficile a trattare. «Ho deciso».
Già: anche i pazzi! E quanto più ferme sono le loro decisioni erronee, tanto
più hanno bisogno di elleboro. Non vuoi fare quel che fanno i malati,
chiamare il dottore? «Son malato, signore: aiutami. Guarda che devo fare:
mio dovere è obbedirti».
Così pure in questo caso. «Non so che cosa devo fare e sono venuto per
impararlo». Nient'affatto, ma: «Parlami d'altro: su questo ho la mia buona
decisione». E di che altro? C'è cosa più importante e utile del convincersi che
non basta prendere una decisione e rifiutarsi dì cambiarla? È la forza dei
pazzi, questa, non dei sani.
— Voglio morire, se mi ci costringi.
— Perché, uomo? Che t'è accaduto?
— L'ho deciso.
— Meno male che non hai deciso di uccidermi: sono salvo!
— Non accetto denaro.
— Perché?
— L'ho deciso.
— Sappi che il vigore che adesso impieghi per non accettar denaro, niente
vieta che un giorno, dandogli un indirizzo illogico, lo impieghi proprio per
accettarlo, e poi dirai: «Ho deciso», com'è il caso di un corpo malato e
soggetto a flussi d'umore, in cui l'umore scorre talvolta da questa parte,
talvolta da quella.
Così pure un'anima debole non si sa da quale parte inclini: ma quando a
questa inclinazione e a questa tendenza s'aggiunge vigore, allora al male non
si può recare aiuto e diventa incurabile.
— Dov'è il bene?
— Nella persona morale.
— E il male?
— Nella persona morale.
— E ciò che è né l'uno né l'altro?
— In ciò che non dipende dalla persona morale.
— Ebbene? Chi di noi ricorda questi princìpi fuori della scuola? Chi
s'esercita da sé a rispondere ai fatti come risponderebbe alle domande: «è
giorno, sì?» «Certo». E poi: «è notte?» «No» Ancora: «le stelle sono in
numero pari?»
«Non posso dirlo». Quando ti si presenta del denaro, ti sei esercitato a
rispondere come si deve: «Non è un bene»? Ti sei impratichito in questo
genere di domande o solo a confutare sofismi? Che meraviglia, allora, se nel
campo in cui ti sei esercitato, sei superiore a te stesso, nel campo che hai
trascurato, resti quel che sei? Per quale motivo l'oratore che ha coscienza di
aver scritto un bel discorso, d'averlo imparato bene a mente, d'avere una voce
gradita per pronunciarlo, è tuttavia in ansia? Perché non si contenta del puro
esercizio oratorio»
E che vuole? La lode dei presenti. Ora per acquistare abilità nell'arte s'è
esercitato, ma nella lode e nel biasimo non si è esercitato. Ha mai sentito da
qualcuno <che cos'è la lode>, che cos'è il biasimo, quale la natura di
entrambi? Quali lodi conviene ricercare, quali biasimi conviene evitare?
Quando s'è esercitato in questi esercizi conformemente a questi princìpi? E
perché ti meravigli ancora se nel campo che ha studiato, differisce dagli altri,
nel campo, invece, in cui non si è esercitato, somiglia ai più?
Così il citaredo sa suonare la cetra, canta bene, indossa una bella veste e
tuttavia, quando si presenta sulla scena, trema.
Certo, quelle cose le conosce, ma che cosa sia la folla, non lo sa, né che cosa
siano le grida e le risa della folla. Ma neppure che cosa è l'ansia sa, se è di
pertinenza nostra o altrui, se è possibile o no farla cessare. Per ciò se lo si
applaude, esce tutto gonfio: se invece lo si deride, quella povera vescica
d'aria è punta e s'affloscia.
Qualcosa di simile succede anche a noi. Che ammiriamo? Le cose esterne.
Di che ci preoccupiamo? Delle cose esterne.
E poi non riusciamo a comprendere com'è che siamo in timore, com'è che
siamo in ansia? Che succede quando
riteniamo mali gli avvenimenti che ci sovrastano? Non possiamo non essere
in timore, non possiamo non essere in ansia. E poi diciamo: «Signore Iddio,
come posso sfuggire all'ansia?» Pazzo, le mani non ce l'hai? Non te le fece
Dio? E
ora mettiti seduto e prega che non ti gocci il naso: puliscitelo piuttosto e
smettila di muover biasimi. Dunque, in questo caso Dio non t'ha dato niente?
Non t'ha dato la costanza? Non t'ha dato la magnanimità? Non t'ha dato il
coraggio? E
con le mani che hai, cerchi pure chi ti pulisca il naso? Ma di tutto questo non
ci curiamo, né ci preoccupiamo. Datemi un uomo solo al quale interessi come
va fatta una cosa, il quale si preoccupi non del risultato, ma del suo atto
stesso.
Chi si preoccupa, camminando, della sua azione? Chi, deliberando, della sua
deliberazione e non di ottenere l'oggetto della sua deliberazione? E se
l'ottiene, si inorgoglisce e afferma: «Che bella deliberazione, la nostra! Non
te lo dicevo, io, fratello, che, quando noi l'abbiamo ben studiato, l'affare non
può non riuscire nel modo previsto?» Se poi il risultato è tutto diverso, si fa
piccino, il disgraziato, e non trova niente da dire su quel che è accaduto. Chi
di voi, per questo, non ha consultato l'indovino? Chi di voi non ha praticato
l'incubazione per sapere come agire? Chi? Datemi dunque, ch'io lo veda,
questo unico uomo che da tanto tempo cerco, quest'uomo che veramente è di
nobile stirpe e di nobile natura: sia giovane, sia vecchio, datemelo.
Che meraviglia, dunque, se siamo consumati nelle cose materiali, mentre
nelle nostre azioni siamo meschini, inetti, di nessun valore, timidi,
noncuranti, insomma vere e proprie nullità? Il fatto è che non ce ne siamo
curati nel passato né ce ne interessiamo al presente. Ma se temessimo non la
morte o l'esilio, bensì il timore che ne abbiamo, ci eserciteremmo a non
incorrere in ciò che ci appare male. Ora, invece, a scuola siamo formidabili e
linguacciuti e se capita la più piccola ricerca intorno a una qualunque
questione, siamo capaci di esaminare a fondo le conseguenze: passa alla
pratica e troverai disgraziati nàufraghi. Ci piombi addosso una
rappresentazione perturbatrice e conoscerai in che cosa ci esercitavamo e ci
addestravamo. Ne segue che, a causa di tale trascuratezza, noi accumuliamo
senza fine difficoltà e ce le fìngiamo più grandi di quel che sono. Così
quand'io, mentre navigo, mi piego sull'abisso o guardo il mare all'intorno e
non riesco a scorgere la terra, subito esco fuori di senno e immagino che devo
ingozzare tutta quell'acqua se faccio naufragio, e non mi viene in mente che
me ne bastano tre orcioli. Che cosa, dunque, mi perturba? il mare? No, ma il
mio giudizio. Così pure, quando c'è il terremoto, immagino che la città stia
per crollarmi addosso: e non basta, invece, un sassolino a farmi schizzar via il
cervello?
Che cosa ci tormenta, allora, che cosa ci fa uscir di senno? Che cos'altro se
non i nostri giudizi? Chi va via e si stacca dai familiari, dagli amici, dai
luoghi, dalle relazioni abituali, che cos'altro lo tormenta se non il suo
giudizio? I bimbi si mettono subito a piangere se la nutrice s'allontana di un
passo, ma se ricevono un pasticcino, dimenticano la pena. Vuoi che
somigliamo anche noi ai bimbi? No davvero, per Zeus. Che, in realtà, penso,
non sarà certo un pasticcino a influenzarci, ma i giudizi retti. E quali sono i
giudizi retti? Quelli sui quali l'uomo deve meditare tutto il giorno per non
attaccarsi ad alcuna cosa altrui, — né ad amico, né a luogo, né a ginnasio, e
neppure al suo corpo, — e, insieme, per ricordare la legge ed averla davanti
agli occhi. Qual è la legge? Quella divina: attendere alle cose proprie, non
desiderare le altrui, usare di ciò che ci è concesso, non bramare quanto non ci
è concesso: quel che ci è tolto, restituirlo prontamente e lì per lì, grati per il
tempo che ce ne siamo serviti, se non vuoi piangere dietro la nutrice e la
mamma.
Che importa da quale oggetto ci si lascia vincere e da quale oggetto si
dipende? In che cosa sei superiore a uno che piange per una ragazzetta, se ti
lamenti per un misero ginnasio, per un misero portico, per un gruppo di
giovani e simili passatempi? Arriva un altro lamentandosi che non berrà più
l'acqua di Dirce. Perché, l'acqua Marcia è inferiore a quella di Dirce? «Ma io
ero abituato a quella». Ti abituerai egualmente a questa. Che se poi ti ci senti
attaccato, piangi pure per essa e cerca di comporre un verso sul tipo di quello
d'Euripide: Le terme di Nerone e l'acqua Marcia
Vedi come nasce una tragedia quando un fatto comune capita a uomini
dissennati.
«Quando potrò riammirare Atene e l'acropoli?» Infelice, non ti basta quel
che vedi ogni giorno? Che cosa puoi vedere più possente e più grande del
sole, della luna, degli astri, della terra tutta, del mare? Se comprendi davvero
chi governa l'universo e lo porti in te puoi desiderare ancora qualche pietra o
dei marmi elegantemente lavorati? E quando dovrai lasciare proprio il sole e
la luna, che farai? Piangerai in un cantuccio, come i bimbi? Ma dunque, a
scuola che facevi, che ascoltavi, che imparavi? Perché ti dichiaravi filosofo,
mentre potevi dichiarare la verità e dire: «ho studiato qualche introduzione
alla filosofìa, ho letto qualche trattato di Crisippo, ma non ho toccato neppure
la soglia della filosofìa? Che parte ho in quell'opera in cui Socrate ebbe tanta
parte, egli che morì a quel modo e che visse a quel modo? in quell'opera in
cui Diogene ebbe tanta parte?» T'immagini uno di costoro che piange o si
adira perché non vedrà più quello o quella, perché non vivrà più in Atene né a
Corinto, ma, all'occorrenza, in Susa o in Ecbatana? Colui che a suo piacere
può andar via dal banchetto e abbandonare il gioco, si lamenta ancora se
rimane? Non continua ad assistervi come a un gioco, finché l'anima sua ne
sente l'attrattiva? Indubbiamente, un uomo siffatto sopporterà l'esilio
perpetuo o l'esilio della morte, se tale è la condanna.
Non vuoi essere svezzato alla tua età come i bambini e prendere un alimento
più consistente, senza piangere per le poppe o per le nutrici — che sono
pianti di vecchie? —
«Ma se mi staccherò da loro, le addolorerò». Le addolorerai tu?
Nient'affatto: ma, come te, il loro giudizio. Che devi fare, allora? Gettalo via,
ed esse il loro, se vogliono far bene: altrimenti, piangeranno — ma per colpa
loro.
Uomo, come si dice, perdi una buona volta la testa per la felicità, per la
libertà, per la magnanimità. Alza infine il capo come chi s'è staccato di
servitù, osa levare gli occhi a Dio e dirgli: «Serviti di me, oramai, per quel
che vuoi: i miei pensieri sono i tuoi, io sono tuo: niente rifiuto di quel che ti
pare: conducimi dove vuoi, cingimi il vestito che vuoi. Vuoi ch'io abbia
autorità, che viva da privato, che rimanga in patria, che vada in esilio, che sia
povero, che sia ricco?
Io ti giustificherò di tutto questo davanti agli uomini; mostrerò la natura di
ogni cosa». E invece, no: ma seduto in un ventre di vacca aspetta che la
mamma ti porti da mangiare. Se Eracle fosse rimasto a casa, in mezzo ai suoi,
chi sarebbe stato? Euristeo, non certo Eracle. Ebbene: percorrendo il mondo,
quanti familiari si procurò, quanti amici? Eppure niente ebbe più amico di
Dio; per questo fu creduto figlio di Dio e lo era davvero. Per obbedire a Lui,
percorse la terra purificandola dall'ingiustizia e dall'iniquità. Tu, però, non sei
Eracle e non puoi purificare gli altri dai loro mali: non sei Teseo per
purificare l'Attica dai suoi: purificati dai tuoi, allora. Strappa, adunque, dalla
tua mente, invece di un Procuste e di uno Scirone, l'affanno, il timore, il
desiderio, l'invidia, la malevolenza, l'avarizia, la mollezza, l'intemperanza.
Tutto ciò non si può cacciar via se non levando lo sguardo à Dio solo, a Lui
solo aderendo, ai suoi ordini consacrandosi. Ma se desideri altro, seguirai tra
pianti e gemiti chi è più forte di te, cercando sempre al di fuori la felicità,
senza poterla mai trovare, perché la cerchi dove non è, e tralasci di cercarla
dove è.
DELL’INCOERENZA
SULL’AMICIZIA
Ciò che si prende a cuore, è giusto che si ami. Forse gli uomini prendono a
cuore le cose cattive? No davvero. Ma forse ciò che non li riguarda affatto?
Neppure questo. Rimane, dunque, che solo le cose buone prendono a cuore: e
se le prendono a cuore, le amano. Perciò, chi è esperto nelle cose buone,
saprà anche amarle: chi, invece, non è in grado di discernere le buone dalle
cattive, e quelle che non sono né buone né cattive dalle altre due, come
potrebbe ancora amarle costui? Di conseguenza, il saggio solamente può
amare.
Ma come? — si dice. Io, pur essendo stolto, amo tuttavia il mio piccino.
— Mi meraviglio davvero, per gli dèi, come tu riconosca, così, su due piedi,
di essere stolto. Che ti manca? Non usi delle sensazioni, non discerni le
rappresentazioni, non dai al corpo i cibi che gli si addicono, non le vesti, non
la casa?
Come puoi dunque ammettere di essere stolto? Perché spesso, per Zeus, sei
tratto fuori di te dalle tue rappresentazioni, e ne sei sconvolto e ti vincono coi
loro motivi persuasivi: e talora queste cose le supponi buone, poi, le stesse,
cattive, e più tardi, né buone né cattive — e insomma sei preda del dolore, del
timore, dell'invidia, del turbamento, dell'incostanza — per ciò ammetti di
essere stolto. E nell'amicizia non sei incostante? Ricchezza, piacere, in una
parola, gli stessi oggetti esterni talora li ritieni buoni, talora cattivi: e le stesse
persone non le ritieni talora buone, talora cattive? e non le tratti talora da
amico, talora da nemico? e non le approvi talora, talora le biasimi?
— Certo: sono questi i sentimenti che provo.
— E poi? chi è rimasto ingannato nei confronti d'un uomo, pensi possa
essergli amico?
— No davvero.
— E chi è volubile nella scelta dell'amico, pensi gli sia affettuoso?
— Neppure costui.
— E chi adesso lo ingiuria e più tardi lo guarda con ammirazione?
— Neppure costui.
— Ebbene: non hai visto mai dei cuccioletti che scodinzolano e scherzano
fra loro, di fronte ai quali hai esclamato: «non c'è niente di più amoroso»? Ma
per capire che cosa sia l'amicizia, getta tra loro un pezzo di carne e lo saprai.
Getta pure tra te e il tuo figliolo un campicello e saprai come il tuo figliolo
vorrà subito sotterrarti e come tu pregherai per la morte del tuo caro figlio. E
poi dirai: «che ragazzo ho allevato! già da un pezzo vuol farmi i funerali».
Getta una fanciulletta tutta elegante e amala, tu, il vecchio, e l'altro, il
giovane, o, se vuoi, una briciola di gloria. Se poi c'è un rischio da correre,
dirai le stesse parole del padre di Admeto: tu vuoi veder la luce e il padre,
credi, no?
Pensi che quello non amasse il suo figliolo quand'era piccino, e non
trepidasse quando aveva la febbre, e non dicesse spesso: «Quant'era meglio
che l'avessi io!»? Poi, al sopraggiungere della prova, al suo avvicinarsi, vedi
che belle frasi si scambiano! Eteocle e Polinice non erano nati dalla stessa
madre e dallo stesso padre? Non erano cresciuti insieme, non avevano vissuto
insieme e insieme diviso la stessa tavola, lo stesso letto? Non si erano spesso
baciati l'un l'altro? Tanto che, se uno li avesse visti, si sarebbe messo a ridere
dei filosofi, io penso, per tutto quel che di paradossale dicono sull'amicizia.
Ma, ecco, cade in mezzo ad essi, come un pezzo di carne tra i cani, la
questione del regno: vedi come parlano:
Eteo. Su, davanti a quale porta ti porrai?
Pol. Perché me'1 chiedi?
Eteo. Affrontarti voglio e ucciderti.
Pol. Ho la stessa brama anch'io.
Ecco i loro voti.
Perché, in generale — non vi fate illusioni — ogni vivente non ha nulla che
gli sia caro quanto il proprio interesse: quindi, tutto quel che gli sembra
d'ostacolo ad esso — sia fratello o padre o figlio o amato o amante — odia, lo
ripudia, lo maledice. Perché non c'è niente ch'egli per natura ami quanto il
suo interesse: questo è per lui padre, fratello, parenti, patria, Dio. Per ciò
quando ci sembra che gli dèi ci impediscano di raggiungerlo, noi li
insultiamo, anche loro, ne buttiamo giù le statue, ne bruciamo i templi, come
Alessandro fece incendiare il tempio di Asclepio perché era morto il suo
diletto. In conseguenza, se si riesce a far coincidere l'interesse e la pietà,
l'onestà, la patria, i genitori, gli amici, allora tutto questo è salvo: ma se da
una parte c'è l'interesse, dall'altra gli amici, la patria, i parenti, e il giusto
stesso, tutto questo va in malora, soverchiato dall'interesse. Dove sono l'«io»
e il «mio»? lì inclina di necessità il vivente: se nella carne, è essa che domina,
se nella persona morale, è essa che domina, se nei beni esterni, sono essi che
dominano.
Se, dunque, il mio «io» si trova dov'è la persona morale, solo allora io sarò
come si deve, amico, figlio, padre. Che in tal caso sarà mio interesse
custodire la fedeltà, la riservatezza, la pazienza, la temperanza, la solidarietà,
e mantenere le mie relazioni sociali. Se, invece, da una parte pongo il mio
«io», dall'altra l'onestà, allora acquista forza il detto di Epicuro, secondo il
quale l'onestà o non è niente o, se mai, una semplice opinione volgare.
Da tale ignoranza ebbero origine le lagnanze tra Ateniesi e Spartani, tra
questi due popoli e i Tebani, tra il Gran Re e l'Ellade, tra questi due e i
Macedoni e adesso tra i Romani e i Geti: così, nei tempi passati, i fatti di Ilio
ebbero la stessa origine. Alessandro era ospite di Menelao e se uno li avesse
visti trattarsi così amichevolmente tra loro, non avrebbe creduto a chi diceva
che non erano amici. Ma una piccola cosa fu gettata in mezzo a loro,
un'elegante donnina: per essa, ecco la guerra. Così adesso, quando vedi amici
o fratelli che paiono avere gli stessi sentimenti, non pronunciarti subito sulla
loro amicizia, neppure se giurano e dicono che niente potrà separare l'uno
dall'altro. Non è fedele la parte direttrice dell'anima nell'uomo inetto: è
instabile, incapace di giudicare, sopraffatta ora da una, ora da un'altra
rappresentazione. E non cercare, come fa il volgo, se questi uomini hanno
avuto gli stessi genitori e sono cresciuti insieme, sotto lo stesso pedagogo, ma
soltanto dove pongono il loro interesse, se nelle cose esterne o nella persona
morale. Se nelle cose esterne non dirli amici, non più che fedeli, sicuri,
coraggiosi o liberi — e neppure uomini, se hai senno. Non è un modo di
pensare da uomini quel che li spinge a mordersi e a ingiuriarsi tra loro, a
occupare i luoghi deserti o le pubbliche piazze, come i banditi le montagne, e
a mettere a nudo davanti ai tribunali misfatti da banditi, o ad essere
intemperanti, adulteri, corruttori e a commettere quanti altri delitti gli uomini
compiono l'uno contro l'altro: tutto ciò trae origine da un unico e solo
pensiero, dal ritenere cioè se stessi e le proprie cose tra gli oggetti
indipendenti dalla scelta morale. Ma se tu senti che questi uomini ripongono
veramente il bene là solo dov'è la persona morale, dov'è l'uso retto delle
rappresentazioni, non cercar oltre, né se sono figlio e padre né se fratelli né se
sono stati lungo tempo insieme e vivono da compagni: ne sai abbastanza per
affermare con fiducia che sono amici, come anche fedeli e giusti. Dov'altro si
può trovare l'amicizia se non dov'è la fedeltà, la riservatezza, la dedizione a
quel che è nobile e a niente di tutto il resto?
«Ma mi ha circondato d'attenzioni per tanto tempo! e non m'amava?» Che ne
sai, schiavo, se ti ha circondato di attenzioni, allo stesso modo che lustra le
sue scarpe o le bestie? Che ne sai se, diventato una roba inutile, egli non ti
scaglierà via, come una tavoletta sfasciata? «Ma è mia moglie e per tanto
tempo siamo vissuti insieme!» E per quanto tempo è vissuta Erifìle con
Anfiarao, madre, per di più, di figli, di molti figli? Poi venne a cadere tra loro
una collana.
Che cos'è una collana? È il giudizio che si da di siffatte cose. E fu, essa, la
forza selvaggia, fu, essa, la forza distruttrice dell'amicizia, che non permise a
una donna d'essere sposa, a una madre, madre. Chi di voi, dunque, ha
sinceramente a cuore o di essere amico di qualcuno, o di guadagnarsi
l'amicizia di un altro, distrugga tali giudizi, li odi, li strappi dall'anima sua.
Così, in primo luogo, non dovrà rivolgersi biasimi, né opporsi a se stesso, né
pentirsi, né tormentarsi: allo stesso modo, poi, si comporterà cogli altri,
quanti sono del tutto uguali a lui: con chi è dissimile, invece, sarà tollerante,
condiscendente, mite, disposto al perdono, come si fa con un ignorante, con
uno che s'è disperso in una materia della massima importanza: non sarà aspro
con nessuno, perché conosce bene le parole di Platone: «è contro sua voglia
che l'anima viene privata della verità» In caso contrario, voi agirete in tutto
come gli amici e berrete insieme e vivrete sotto lo stesso tetto e navigherete
sulla stessa nave e potrete avere anche gli stessi genitori. Perché lo possono
anche i serpenti: ma amici non sono i serpenti, né lo sarete voi, finché avete
quei giudizi selvaggi e perversi.
Uno gli disse: «Sono venuto spesso da te, desiderando di ascoltarti e non mi
hai risposto mai. Adesso, se puoi, ti prego, dimmi qualcosa.»
— Pensi tu, gli rispose, che, come di ogni altra cosa, così del parlare si da
un'arte, e che chi la possiede, parla con competenza, chi non la possiede, con
incompetenza?
— Certo.
— E allora, chi trae dalla parola giovamento per sé e può con la parola
giovare agli altri, non parlerà con competenza, mentre chi ne ritrae piuttosto
danno per sé e danno per gli altri, sarà incompetente in quest'arte del dire?
Alcuni troverai che ne ricavano danno, altri giovamento. E quelli che
ascoltano, ricavano tutti giovamento da ciò che ascoltano, o anche di questi,
troverai alcuni che ne traggono giovamento, altri danno?
— È lo stesso, certo, anche di questi, rispose.
— Dunque, anche qui, chi ascolta con competenza ne trae profitto, chi senza
competenza, danno?
Ne convenne.
— Ma allora, si dà una certa competenza come nel parlare, così
nell'ascoltare?
— Pare.
— Se vuoi, considera la cosa pure in questo modo. A chi appartiene, a tuo
giudizio, toccare secondo le regole uno strumento musicale?
— Al musico.
— E fabbricare una statua come si deve, a chi appartiene, a tuo giudizio?
— Allo scultore.
— E guardarla con competenza, non ti par che esiga proprio nessun'arte?
— L'esige, senz'altro, anche questo.
— Se, dunque, parlare come si deve appartiene a un competente, t'accorgi
che anche ascoltare con profìtto appartiene a un competente? Come si debba
fare per compiere queste due azioni in modo perfetto e con profìtto, se vuoi,
lasciamolo da parte per il momento, perché ne siamo entrambi molto distanti:
ma un punto in cui ciascuno, mi sembra, dovrebbe convenire, è che ha
bisogno di un certo quale esercizio sulla maniera di ascoltare chi voglia
ascoltare i filosofi. O non ti pare? Di che cosa, dunque, devo parlarti?
Mostramelo. Intorno a che cosa sei in grado di ascoltarmi? Intorno ai beni e
ai mali? Di chi? del cavallo, forse?
— No.
— Del bove, allora?
— No.
— E che? Dell'uomo?
— Certo.
— E sappiamo che cos'è l'uomo, quale la sua natura, quale la sua nozione?
Abbiamo le orecchie sufficientemente aperte a questo problema? E la natura,
comprendi che cos'è e sei in grado di seguire sufficientemente le mie parole?
E dovrò usare una dimostrazione con te? Come? Perché, tu comprendi che
cos'è una dimostrazione, come si fa, con quali mezzi?
e anche quali procedimenti sono simili alla dimostrazione, senza esserlo? Sai
che cos'è il vero e che cosa il falso? Che cosa segue a un'altra, come
conseguenza, che cosa contraddice a un'altra, ovvero è in opposizione a essa,
o in disaccordo? Ma devo spingerti alla filosofìa? Come mostrarti la
contraddizione per cui tanti uomini contendono intorno al bene e al male,
intorno all'utile e all'inutile, se non sai neppure che cos'è la contraddizione?
Mostrami, insomma che cosa concluderò discutendo con te. Eccita il mio
desiderio. Come il pascolo adatto alle pecore, eccita in esse, apparendo, il
desiderio di mangiare — desiderio che non sarà eccitato, se mostri loro una
pietra o un pane — così ci sono in noi certi desideri naturali anche di parlare,
quando appare l'ascoltatore adatto, quando provoca lui stesso. Ma se sta
vicino come una pietra o un sacco di foraggio, in che modo potrà eccitare in
un uomo un desiderio? La vite non dice al contadino «Prenditi cura di me»,
ma col solo mostrargli che gli gioverà, se la cura, lo spinge con ciò stesso a
coltivarla.
E i piccini, così irresistibili e vivaci, chi non spingono a giocare con loro, a
strisciare in terra con loro, a balbettare con loro? Ma con un asino, chi sente il
desiderio di scherzare o di ragliare? Anche se piccolo, è sempre un asinello.
Perché, dunque, non mi dici niente?
— Solo questo posso dirti: l'uomo che ignora chi è e perché è nato e in quale
mondo si trova e insieme a chi vive in società e quali sono i beni e i mali, le
cose oneste e le disoneste, e non comprende né un ragionamento né una
dimostrazione, né che cos'è il vero né che cos'è il falso e non è in grado di
discernerli, quest'uomo non potrà conformarsi alla natura né nei desideri, né
nelle avversioni, né negli impulsi, né nei disegni, né nell'assenso, né nel
rifiuto, né nella sospensione del giudizio: insomma, sordo e cieco andrà
intorno, credendo di essere qualcuno, mentre in realtà è un nulla. È la prima
volta adesso che si verifica ciò? Non è invece vero che, da quando esiste la
stirpe umana, tutti gli errori e le infelicità sono venuti da questa ignoranza?
Perché contendevano tra loro Agamennone e Achille? Non perché
ignoravano quali cose fossero utili e quali inutili? Non pretende l'uno che
giova rendere Criseide al padre, mentre l'altro afferma che non giova? Non
pretende l'uno che deve prendere la ricompensa dell'altro, l'altro, invece, che
non deve? E non dimenticarono per questo chi erano e per qual fine erano
venuti? Orsù, uomo, perché sei venuto? Per procurarti delle amanti o per
combattere? «Per combattere». Contro chi? Contro i Troiani o contro gli
Elleni? «Contro i Troiani». E, dunque, lasci Ettore e snudi la spada contro il
tuo re? Tu, poi, ottimo tra tutti, lasci i doveri del re e ti metti a contendere per
una fanciulletta col più bellicoso dei tuoi alleati, un uomo che dovevi, invece,
circondare d'ogni cura e riguardo? E ti mostri inferiore a un abile gran
sacerdote che ha ogni sorta di attenzioni per i nobili guerrieri? Vedi quali
effetti produce l'ignoranza di ciò che è utile?
— Ma sono ricco anch'io.
— Forse più ricco di Agamennone?
— Ma sono anche bello.
— Forse più bello di Achille?
— Ma ho anche un'elegante capigliatura.
— E Achille non l'aveva più bella e bionda? e non la pettinava con cura e in
foggia elegante?
— Ma in più sono forte.
— Puoi sollevare un macigno grande come quello di Ettore o di Aiace?
— Ma sono anche di nobile progenie.
— Discendi forse da una madre dea, da un padre rampollo di Zeus? E poi,
che gli serve tutto questo, quando, seduto in disparte, piange per una
fanciulletta?
— Ma sono un oratore, io.
— E lui non lo era? Non vedi come tratta Odisseo e Fenice, i più esperti tra i
Greci nell'arte della parola? come chiude ad essi la bocca? Solo questo posso
dirti, e neppure con grande entusiasmo.
— Perché?
— Perché tu non mi hai stimolato. Che cosa posso guardare in te perché ne
sia scosso come i cavalieri dai cavalli di buona razza? Il misero corpo? Lo
curi in modo così sconcio. Le vesti? Anch'esse, sono così effeminate. Il
portamento, lo sguardo? Non c'è proprio niente. Quando hai desiderio di
ascoltare un filosofo, non dirgli: «Non mi dici niente?», ma mostragli solo la
capacità che hai di ascoltarlo, e vedrai come lo spingerai a parlare.
Un giorno, uno dei presenti gli chiese: «Devi convincermi che la logica è
utile».
— Vuoi che te lo dimostri? gli disse allora.
— Sì.
— E devo ricorrere a una dimostrazione? L'altro convenne.
— E come saprai, continuò Epitteto, che non t'inganno con un sofisma?
Il nostro uomo si tacque.
— Lo vedi, concluse allora, come tu stesso ammetti che questa conoscenza è
necessaria se, senza essa, non sei neppure in grado di sapere se è necessaria o
no?
Ogni sbaglio implica una contraddizione. Infatti, poiché chi sbaglia non vuole
comportarsi in modo sbagliato, ma retto, è chiaro che non fa ciò che vuole.
Per es. il ladro, che vuol compiere? Quel che gli è utile. Quindi, se il rubare
non gli è utile, non fa quel che vuole. Ora, ogni anima razionale avversa per
natura la contraddizione, e finché non s'accorge di essere in contraddizione,
niente la ritiene dal compiere azioni contraddittorie: accortasene, è
assolutamente necessario che si stacchi dalla contraddizione e fugga, proprio
come per dura necessità riprova il falso chi del falso abbia coscienza
— ma finché non gli appare nella sua realtà, lo approva come vero. È
dunque abile a ragionare e, insieme, a esortare e a confutare chi può porre
davanti a ciascuno la contraddizione che lo induce nello sbaglio e provargli
chiaramente come non fa quel che vuole, ma quel che non vuole. Se si riesce
a mostrare questo a un uomo, tornerà indietro da sé. Però, finché non gli si
mostri, nessuna meraviglia che persista nel suo fallo, perché egli agisce
immaginando di essere retto.
Per questo Socrate, facendo assegnamento su tale capacità dell'uomo,
diceva: «Io non ho l'abitudine di invocare altro testimonio delle mie parole e
mi contento sempre di chi discute con me, richiedo il suo suffragio, esigo la
sua testimonianza, e, pur essendo uno, mi basta per tutti.» Conosceva, infatti,
ciò che scuote l'anima razionale: simile a una bilancia, essa inclinerà, si
voglia o no. Mostra al principio direttivo dell'anima la sua contraddizione e
se ne staccherà: ma se non gliela mostri, accusa te stesso e non chi non riesci
a persuadere.
SULL’ELEGANZA
Tre sono i campi in cui deve esercitarsi chi vuole acquistare la perfetta virtù:
— il primo riguarda i desideri e le avversioni, onde non sia frustrato nei
desideri né incorra in ciò che avversa;
— il secondo, gli impulsi e le repulse, in una parola, il dovere, onde si
comporti in modo ordinato, con ponderatezza, senza negligenza;
— il terzo, infine, l'inerranza e la circospezione nel giudicare, in una parola,
i casi di assenso. Di questi, il più importante e in sommo grado urgente, è
quello riguardante le passioni. La passione non si produce altro che quando il
desiderio sia frustrato o l'avversione incorra in ciò da cui rifugge. Ecco ciò
che apporta sconvolgimenti, tumulti, sfortune, disgrazie, che apporta dolori,
gemiti, invidie, che ci da in braccio all'invidia e alla gelosia, a causa delle
quali non possiamo ascoltare la ragione.
II secondo riguarda il dovere perché, certo, non devo essere impassibile
come una statua, ma osservare le relazioni naturali e acquisite, da uomo pio,
da figlio, da fratello, da padre, da cittadino.
II terzo appartiene a quanti hanno già compiuto progressi e riguarda la
sicurezza di ciò che s'è detto, onde non si insinui, neppure nel sonno, una
qualche rappresentazione inesaminata, neppure negli stati di allegria prodotta
dal vino o di furore. «Questo è aldilà dei nostri compiti» si dice. Già: i
filosofi d'oggi, messo da parte il primo e il secondo campo di studio, si
occupano del terzo — ragionamenti amfibologici, o procedimenti mediante
interrogazione o ipotetici o sofismi come il Mentitore. — «Perché, certo — si
dice — anche chi attende a tali materie deve evitare di cadere in errore». «E
chi è costui?» «L'uomo di perfetta virtù.» «A te, dunque, manca solo questo?
Nel resto hai finito di esercitarti? Quando si tratta del miserabile denaro ti
sottrai all'errore? Se vedi una bella ragazzetta, resisti all'immagine che ti si
presenta? Se il tuo vicino entra in possesso di una eredità, non ti senti
mordere? Ora, dunque, non ti manca altro che la incrollabilità nei giudizi?
Infelice! queste stesse cose le impari pieno di timore e ti angusti se qualcuno
ti disprezza e chiedi se qualcuno parla di te. E se uno, venuto a trovarti, ti
dice che, sorta la questione chi fosse il migliore filosofo, uno dei presenti
affermò che quell'unico filosofo era il Tal dei Tali, la tua animuccia, ch'era di
un dito, diventa di due cubiti. Ma se un altro presente alla discussione ha
ribattuto: 'Hai detto una sciocchezza: non vale la pena di ascoltarlo, quello.
Che sa infine? Conosce i primi rudimenti e niente più', esci fuori di te,
impallidisci e ti dai subito a gridare: 'Glielo farò vedere io chi sono, che sono
un grande filosofo'. Già, lo si vede da tale comportamento. Perché vuoi
mostrarlo in altro modo? Non sai che proprio così Diogene mostrò un sofista,
tendendo il dito medio, poi, mentre quello era infuriato: 'Ecco, disse, il Tal
dei Tali: ve l'ho mostrato'? Perché l'uomo non si mostra a dito come un sasso
o un pezzo di legno, ma quando si mostrano i giudizi di uno, allora lo si
mostra da uomo.»
Vediamo quindi anche i tuoi giudizi. Non è chiaro che la tua persona morale
non la tieni in alcun conto e volgi lo sguardo fuori, a ciò che non dipende
dalla tua scelta: che cosa dirà quello, quale impressione farai alla gente, di
letterato o di uno che ha letto Crisippo o Antipatro? Se ti ci si aggiunge
Archedemo, non vuoi altro. Perché ti angusti ancora nel timore di non
mostrarci chi sei? Vuoi sapere che impressione ci hai fatto? L'impressione di
uno che si presenta meschino, scontento, iracondo, timido, che di tutto si
lagna, che tutti accusa, che non trova mai pace, millantatore:
quest'impressione ci hai fatto. E adesso, vattene e leggi Archedemo; se poi un
topo cade giù e fa rumore, sei morto. Una morte così t'aspetta, come quella
che colpì — chi mai? — Crinide. Anche lui si dava grandi arie perché capiva
Archedemo. Disgraziato, non vuoi mettere da parte queste cose che non ti
riguardano affatto? Conviene che le imparino quanti sono in grado di farlo
senza essere turbati, quanti possono dire: «Non mi adiro, non mi addoloro,
non invidio, non soffro impedimenti, né costrizioni. Che c'è ancora? Ho
tempo a disposizione: me ne sto tutto tranquillo. Vediamo come bisogna
trattare le premesse amfìbologiche nelle argomentazioni. Vediamo come,
stabilita un'ipotesi, si eviti di cadere nell'assurdo». A costoro appartengono
tali questioni. A chi sta bene s'addice accendere il fuoco, pranzare e,
all'occorrenza, cantare e danzare: ma quando la barca sta affondando, tu mi ti
presenti e spieghi la vela più alta!
CAPITOLO III
MISCELLANEA
Uno gli domandò com'era che, sebbene la logica fosse allora coltivata di più,
in passato c'era tuttavia più progresso.
«Quale campo si coltiva di più adesso — replicò Epitteto — e in quale c'era
più progresso nel passato? Perché in quello che oggi si coltiva, si troverà
anche oggi progresso. Oggi, infatti, ci si affatica a risolvere sillogismi e in
questo campo si fa progresso: una volta ci si affaticava a custodire la parte
direttrice dell'anima in conformità con la natura e qui c'era progresso. Non
scambiare i due campi e se t'affatichi in uno, non cercare il progresso
nell'altro. Vedi piuttosto se qualcuno di noi, tutto proteso a mantenersi
conforme a natura e a vivere così, non faccia progresso: che non ne troverai
nessuno.
L'uomo buono è invincibile, perché non scende in lotta dove non è superiore.
«Se vuoi quel che io possiedo in campagna, prendilo: prendi i servi, prendi le
cariche, prendi il povero corpo. Ma non riuscirai a far sì che il mio desiderio
sia frustrato né che la mia avversione incorra in ciò da cui rifugge». In questa
sola lotta egli scende, nella lotta con le cose dipendenti dalla volontà. E allora
come non dovrà essere invincibile?
Uno gli chiese che cosa fosse il senso comune. Egli replicò: «Si potrebbe
chiamare orecchio comune quello che si limita a distinguere i suoni, mentre
quello che distingue i toni non è più comune ma da artista. Così ci sono delle
cose che uomini non del tutto pervertiti vedono in grazia delle facoltà
comuni. Tale atteggiamento dell'intelligenza io chiamo il senso comune.»
Non è facile spingere in avanti giovani snervati, come neppure prendere il
cacio coll'amo: quelli ben dotati, invece, se anche li respingi, si attaccano
sempre più alla parola. Così, anche Rufo soleva spesso respingere i giovani e
usava tale prova per distinguere quelli ben dotati da quelli che non lo erano:
— perché diceva che «come il sasso, seppur lo scagli in alto, ricadrà giù in
terra, in forza della sua struttura, così chi é ben dotato, quanto più lo si
respinge, tanto più si volge ove natura lo chiama.»
Gli si presentò uno che andava a Roma per una causa riguardante un onore
che gli spettava. Saputo il motivo per cui partiva, siccome quello gli aveva
chiesto che pensasse della faccenda. — «Se mi chiedi — rispose Epitteto —
che cosa farai a Roma, se cioè vincerai o perderai la causa, non ho alcun
principio al riguardo, ma se mi chiedi come
dovrai comportarti, posso dirti che, se hai giudizi diritti, bene, se erronei,
male. Perché, in ogni caso, movente dell'azione è per ciascuno il giudizio. E,
in realtà, che cosa ti ha fatto bramare d'essere designato patrono degli abitanti
di Cnosso? Il giudizio. Che cosa ti fa adesso salpare per Roma? Il giudizio. E
pur col mare tempestoso, con pericoli e spese? » «È necessario». E chi te lo
dice? Il giudizio. Dunque, se di tutto causa sono i giudizi e uno ha giudizi
erronei, quale è la causa, tale l'effetto. O forse abbiamo tutti giudizi sani, e tu
e il tuo avversario? E com'è allora che siete in disaccordo? Ovvero tu li hai
più sani di lui? Perché? Perché ti pare. Ma anche a lui pare, e anche ai pazzi.
È un criterio falso, questo. Mostrami piuttosto che hai fatto un esame dei tuoi
giudizi e te ne sei preso cura, e che, come adesso t'imbarchi per Roma per
essere patrono degli abitanti di Cnosso e non ti basta rimanere a casa col
titolo che hai, ma ne desideri uno maggiore e più atto a metterti in vista, così,
un tempo, t'imbarcasti per fare una disamina dei tuoi giudizi e gettarne via
qualcuno, se era erroneo. Da chi ti sei recato per questo scopo? Quale tempo
ti sei prescelto per ciò? Quale periodo di vita? Ripercorri da te questi
momenti, se hai ritegno di me, solo con te stesso. Quand'eri bambino,
esaminavi i tuoi giudizi? E non facevi anche allora quel che facevi, come lo
fai adesso? Quando poi, già ragazzo, ascoltavi gli oratori e declamavi tu
stesso, che cosa immaginavi ti mancasse? Quando poi, giovane, prendevi
ormai parte al governo e difendevi le cause e salivi in fama, chi più ti
sembrava alla tua altezza? Quando avresti sopportato di essere esaminato da
qualcuno perché avevi giudizi falsi? Che cosa vuoi ti dica? — «Aiutami in
questa faccenda.» Non ho princìpi da darti alla bisogna, e se sei venuto da me
per questo, non sei certo venuto da me come filosofo, ma come saresti andato
da un erbivendolo o da un calzolaio. — Ma, allora, i filosofi per che scopo
hanno i loro princìpi? — Per questo, che qualunque cosa accada, la Parte
direttrice della nostra anima sia e continui ad essere fino alla fine in accordo
con la natura. E ti par poco questo? — No, è la cosa più grande. — E allora?
C'è bisogno di poco tempo? Ed è possibile ottenerla con una visita fugace? Se
puoi, fallo.
Poi dirai: — «Mi sono incontrato con Epitteto: è stato come incontrare un
sasso o una statua». Già, perché mi hai veduto e niente più. Ma con un uomo
in quanto uomo s'incontra chi riesce a saperne esattamente i giudizi, e, a sua
volta, gli svela i propri. Apprendi i miei giudizi, mostrami i tuoi e così dì
d'esserti incontrato con me. Ci metteremo alla prova a vicenda: se io ho un
giudizio cattivo, strappalo: se l'hai tu, via, tiralo fuori. Questo significa
incontrarsi con un filosofo. E, invece, no: ma «passiamo di qui e nel mentre
si noleggia l'imbarcazione, possiamo pure visitare Epitteto: vediamo che mai
dice.» Poi esci e «Proprio un nulla era Epitteto: sbagliava parlando,
commetteva dei barbarismi.» Che cos'altro siete venuti a giudicare?
«Ma se mi dò a questo, dice qualcuno, non possiederò più campi, come
neppure tu; non possiederò più coppe d'argento, come neppure tu; e neanche
le greggi belle, come neppure tu.» A ciò basterebbe forse rispondere: — «Ma
non ne ho bisogno: tu, invece, se sei riuscito ad avere molto, hai bisogno di
altro, e, volente o nolente, sei più pitocco di me.» — «E di che ho bisogno?»
— Di quel che non hai: di possedere la calma, di conformare il tuo pensiero
alla natura, di non essere turbato. Ci sia o no il patrono, che m'importa?
Importa a te. Io sono più ricco di te: e non mi angustio di quel che Cesare
penserà di me: non adulo nessuno per tale scopo. Questo io possiedo al posto
del vasellame d'argento, al posto del vasellame d'oro: tu hai suppellettili
d'oro, e di terracotta la ragione, i giudizi, l'assenso, gli impulsi, i desideri. Ma
quando tutto ciò lo possiedo conforme a natura, perché non mi applicherò
pure alla logica? E, infatti, ho tempo libero: il mio intelletto non è trascinato
di qua o di là; che farò, non essendo trascinato né di qua né di là? Che cosa
più di questa s'addice all'uomo? Voi, quando non avete niente da fare, vi
turbate, ve ne andate a teatro o gironzolate senza mèta: e il filosofo, perché
non eserciterà la sua ragione? Tu bada ai tuoi cristalli, io all'argomento del
«Mentitore»: tu alle tue porcellane, io al sillogismo del «Negatore». A te,
tutto quel che hai sembra poco: a me, le mie cose, tutte, molto.
Insaziabile è la tua brama, la mia s'appaga. Ai bambini che ficcano la mano
in un vaso dal collo stretto e cercano di tirar su i fichi secchi, capita lo stesso:
se riempiono la mano, non riescono più a estrarla, e allora piangono.
Lasciane un po' e la tirerai fuori. Anche tu, lascia qualche desiderio da parte:
non bramar molto e l'otterrai.
MISCELLANEA
DELL’ESERCIZIO
MISCELLANEA
Come i mediocri coristi non possono cantare da soli ma insieme a molti, così
taluni non possono andare attorno da soli.
Uomo, se sei qualcuno, vattene attorno anche da solo, e conversa con te
stesso e non nasconderti nel coro. Lasciati burlare, talvolta, guardati attorno,
scuotiti per conoscere chi sei.
Quando uno beve acqua o compie un'azione che lo tiene in esercizio, prende
ogni occasione per dirlo a tutti. — «Io bevo acqua». — «Ma tu bevi acqua
solo per bere acqua? Uomo, se ti fa prò bere, bevi: se no, è ridicolo il tuo
agire. Se poi ti giova e la bevi, sta' zitto con quanti non sopportano chi fa
diversamente da loro. E che? Vuoi piacere proprio a costoro?».
Delle azioni alcune si compiono per un dovere principale, altre per le
circostanze, altre per calcolo, altre per esigenze di vita comune, altre, infine,
per un piano prestabilito.
Queste due cose bisogna strappare agli uomini, la presunzione e la diffidenza.
Presunzione è credere di non aver bisogno di niente; diffidenza, invece,
ritenere di non poter vivere sereni tra tante circostanze. La presunzione la
distrugge la confutazione: e con questo cominciava sempre Socrate. Poiché
poi non si tratta di cosa impossibile, esamina e ricerca. Tale ricerca non ti
porterà nessun danno, anzi, il filosofare sta quasi tutto qui, cercare come si
possano avere desideri e avversioni senza impedimenti. — «Io sono più di te,
che mio padre è stato console.» Dice un altro: — «Io sono stato tribuno, tu
no.» Se fossimo cavalli, diresti: — «Mio padre era più veloce» oppure: —
«Io ho tant'orzo e tanta biada» oppure: — «I miei pettorali sono magnifici.»
Ma se alle tue parole io replicassi: — «Sia pure: vogliamo correre?» Ebbene,
non c'è niente per l'uomo che corrisponda a quel che è la corsa per il cavallo,
in base a cui distinguere il peggiore dal migliore? Non c'è per caso il rispetto,
la lealtà, la giustizia? Mostrati superiore in queste virtù, affinchè sia superiore
da uomo. Se mi dici: — «Io sferro calci potenti», ti risponderò a mia volta
che «vai superbo per un'azione da somaro.»
Chi scende di frequente a contatto cogli altri o per ciarlare o per partecipare a
un simposio o semplicemente per stare insieme, dovrà di necessità o
agguagliarsi a loro o trasportarli nel suo ordine di idee. Perché, se si pone un
tizzo mezzo spento vicino a uno che brucia, o quello spegnerà questo o
questo infocherà quello. Essendo, dunque, il pericolo tanto grande, bisogna
essere molto circospetti nell'impegnarsi in siffatte relazioni con gli uomini
comuni, ricordando che chi si stropiccia a persone sporche di fuliggine, è
impossibile non se ne buschi un po' anche lui.
Che cosa farai se quello parla di gladiatori, di cavalli, di atleti, o, peggio
ancora, di uomini: «II tale è cattivo, il tale buono: questo è riuscito bene,
questo male»; o, ancora, se schernisce, se mette in ridicolo, se è una mala
lingua? Chi di voi ha la preparazione del citarista che, presa la lira, non
appena tocca le corde, avverte quali sono scordate e accorda lo strumento? o
la capacità che aveva Socrate il quale in ogni circostanza trascinava a sé
quanti stavano con lui? Come potete averla? Piuttosto, sarete voi e di
necessità abbindolati dagli uomini comuni.
E perché essi sono più forti di voi? Perché essi le loro chiacchiere putride le
dicono con convinzione, voi, i vostri bei discorsi a fior di labbra: e quindi
sono senza mordente, senza vita, e si deve nauseare chi ascolta le vostre
esortazioni, la vostra miserabile virtù, decantata in tutti i toni. Ecco come vi
superano gli uomini comuni. Perché in qualunque campo il giudizio è forte, è
un giudizio invincibile. Perciò, finché non saranno ben ferme in voi le idee
giuste e non avrete ottenuto una certa forza per garantirne la sicurezza, io vi
consiglio di essere circospetti nello scendere a contatto cogli uomini comuni:
se no, giorno per giorno, come cera al sole, si scioglieranno le poche cose
notate a scuola.
Ritiratevi, dunque, in qualche luogo, lontano dal sole, finché le vostre idee
sono di cera. Anche per questo i filosofi consigliano di abbandonare la patria;
in realtà, le antiche abitudini trascinano e non lasciano che cominci a imporsi
un altro costume, e neppure sopportiamo chi ci incontra ed esclama: «Ecco,
quello filosofa, ed è così e così.» Allo stesso modo i medici mandano in altri
paesi, in altri climi chi soffre di malattie croniche: e fanno bene. Anche voi,
quindi, inducete abitudini differenti al posto delle antiche: rendete ben ferme
le vostre idee, esercitatevi con esse. E invece, no: ma ve ne andate di qui agli
spettacoli, ai combattimenti dei gladiatori, nei ginnasi coperti, nel circo: poi,
di lì venite qui, e ancora di qui ritornate lì, sempre gli stessi. E nessuna bella
abitudine, nessuna attenzione né cura di voi stessi: non osservate mai: —
«Come uso le rappresentazioni che mi capitano? Secondo natura o contro
natura? In che modo rispondo ad esse? Come si deve o come non si deve?
Dico a quanto è indipendente dalla mia libera scelta che non ha niente da fare
con me?». Se non vi comportate ancora così, fuggite le antiche abitudini,
fuggite gli uomini comuni, se volete davvero cominciare ad essere qualcuno.
SULLA PROVVIDENZA
Quando ti si annuncia qualcosa che possa turbarti, abbi a portata di mano che
nessuna notizia rientra, in alcun modo, in ciò che dipende dalla persona
morale. Ti si può forse annunciare che hai avuto un brutto pensiero o un
brutto desiderio?
No davvero. Ma che è morto qualcuno, si. Ebbene: a te che importa? O che
qualcuno dice male di te. E a te che importa? O che tuo padre sta facendo dei
preparativi. Contro chi? Forse contro la tua persona morale? Come potrebbe?
Ma contro il tuo misero corpo, contro le tue misere sostanze: sei salvo, non è
contro di te. Però il giudice ti condanna per delitto d'empietà. E Socrate non
l'hanno condannato i giudici? È forse opera tua il loro verdetto? No. E perché
continui a dartene cura? C'è un compito proprio di tuo padre e, se non
l'adempie, ha distrutto in sé il padre, l'uomo che ama la sua creatura, la
persona cortese. Non pensare che subisca altre perdite per questo. Perché non
si sbaglia mai in un campo e in un altro si soffre il danno. A sua volta,
compito tuo è di difenderti in modo fermo, rispettoso, tranquillo: altrimenti,
sei tu che hai distrutto in te il figlio, l'uomo rispettoso e nobile. E poi? Il
giudice è al sicuro da ogni pericolo?
No, ma corre lo stesso pericolo anch'egli. Perché, dunque, continui a temere
il giudizio che pronuncerà? Che cosa c'è tra te e il male di un altro? Il male
tuo è di difenderti male: guardati soltanto da questo, che poi una tua
eventuale condanna o assoluzione, com'è compito di un altro, così è pure
male di un altro. «Quello ti minaccia». Me? No. «Ti biasima.» Se la vedrà lui
come adempie il suo compito. — «Sta per condannarti ingiustamente.» È un
infelice.
SUL CINISMO
Uno dei suoi conoscenti il quale manifestava propensione per il cinismo gli
chiese: «Che uomo deve essere chi vive da cinico e quale il vero significato
della faccenda?» Epitteto rispose: L'esamineremo con calma: però, questo
posso dirtelo, che chi si accinge a un'impresa così vasta senza un dio, incorre
nell'ira divina e altro non vuole che coprirsi d'infamia agli occhi di tutti.
Perché neppure in una casa bene amministrata uno si fa avanti e dice a se
stesso: «Devo essere io l'amministratore», se no, il padrone, accortosene e
notato che quello s'è messo pomposamente a impartire disposizioni, lo
trascina fuori e lo punisce. Così succede anche in questa grande città. C'è
pure qui un padrone di casa che ogni cosa dispone. «Tu sei il sole.
Percorrendo l'orbita celeste, sei in grado di dar origine all'anno e alle stagioni,
sei in grado di far crescere i frutti e di nutrirli, di suscitare i venti e di
trattenerli, di riscaldare misuratamente il corpo degli uomini: Va' dunque,
percorri la tua orbita e metti così in movimento le cose, dalle più grandi alle
più piccole. Tu sei un vitellino: se appare il leone fa'quel ch'è il tuo compito,
se no, ti dorrai. Tu sei un toro: avanza e combatti. Questo ti tocca e ti
conviene e sei in grado di farlo. Tu sei capace di condurre l'esercito contro
Ilio: sii Agamennone. Tu sei in grado di scendere in singolar tenzone con
Ettore: sii Achille». Ma se Tersite, fattosi avanti, pretendesse il comando, o
non l'otterrebbe o, ottenutolo, si coprirebbe d'infamia di fronte a tantissimi
testimoni.
Tu anche, prendi consiglio sulla questione con avvedutezza: non è come ti
sembra. «II mantelletto lo porto io adesso e l'avrò anche in seguito: duro è
adesso il mio giaciglio e lo sarà in seguito: prenderò pure una bisaccia e una
mazza e andando attorno comincerò a interrogare chiunque incontro e a
morderlo e se vedo che taluno a forza di pomate si depila o si aggiusta i
capelli o s'aggira da ogni parte in vesti scarlatte, lo rampognerò.» Se
t’immagini una faccenda del genere, va' via lontano, non accostarti, che non è
per te: se poi te l'immagini qual è in realtà e non te ne ritieni indegno,
esamina a che grande impresa metti mano.
In primo luogo, per ciò che ti riguarda direttamente, non devi mostrarti più
qual sei adesso in nessuna delle tue azioni, né biasimare Dio o uomo: devi
sopprimere del tutto i desideri e trasferire l'avversione ai soli oggetti che
rientrano nell'ambito della persona morale: non devi aver collera, non ira, non
invidia, non compassione: non ti deve apparir bella una ragazzetta, non la
povera reputazione umana, non un misero amasio, non un misero dolce. Devi
apere che gli altri uomini si proteggono con muri, con case, con tenebre,
quando cedono a una di queste tentazioni e hanno molti mezzi per
nascondersi. Ha chiuso la porta, ha posto uno davanti alla camera da letto:
«chiunque viene, devi dire: sta fuori, non ha tempo a disposizione.» II cinico,
invece di tutto questo, deve mettere il rispetto a sua difesa: se no, nudo e
all'aria aperta, si esporrà al biasimo. Il rispetto è per lui la casa, la porta, i
servi a guardia della camera da letto, le tenebre.
Perche né deve voler celare, lui stesso, qualcuna delle sue cose (se no, è
perduto, ha distrutto in sé il cinico, l'uomo dalla vita all'aria aperta, l'uomo
libero: ha cominciato a temere qualche oggetto esterno, ha cominciato ad
aver bisogno di qualcosa che lo nasconda) e neppure è in grado di farlo, se
vuole. In realtà, dove si nasconderà e come? E se, per caso, questo maestro di
tutti, questo pedagogo cade in una di quelle azioni, che gli capiterà
necessariamente? Chi teme queste cose, può far coraggio e continuare a
dirigere con tutto il cuore gli altri? Non si può, è impossibile.
Prima di tutto, devi render pura la parte direttrice della tua anima, e disporre
una tale linea di condotta: «Ora la materia con cui ho da fare è la mia mente,
come il falegname ha il legno, come il calzolaio il cuoio: mio compito è il
retto uso delle rappresentazioni. Il povero corpo non ha nessun rapporto con
me: le sue parti non hanno nessun rapporto con me.
La morte? Venga quando vuole, sia di tutto il corpo, sia di una parte.
L'esilio? E dove mi possono cacciare? Fuori del mondo, no davvero. E
dovunque andrò, lì c'è il sole, lì la luna, lì le stelle, i sogni, i presagi, i
colloqui cogli dèi.» Però, pur avendo raggiunto siffatta preparazione, il vero
cinico non se ne può contentare, ma deve sapere d'essere stato inviato da Dio
in qualità di messaggero, per mostrare agli uomini, che, in rapporto al bene e
al male, s'ingannano e cercano l'essenza del bene e del male là dove non è, e
non badano dov'è, e come Diogene condotto davanti a Filippo dopo la
battaglia di Cheronea, deve sapere di essere un esploratore.
In realtà, il cinico è esploratore di questo — quali oggetti sono amici agli
uomini, quali nemici — e quindi, condotta un'esplorazione accurata, deve
venire ad annunciare la verità, senza essere sbigottito dalla paura al punto da
denunziare nemici inesistenti e senza essere in alcun altro modo turbato o
sconvolto dalle rappresentazioni.
Perciò, all'occorrenza, egli deve potersi levare in piedi e, salito sulla scena
tragica, pronunciare le parole di Socrate:
«Ohimè, uomini, dove vi lasciate trascinare?» che fate, disgraziati?
v'aggirate, come ciechi, di su e di giù: v'incamminate per un'altra strada dopo
aver abbandonato la vera, cercate altrove ciò che rasserena e rende felici,
dove non esiste, e non prestate fede a un altro che ve lo mostra. Perché
cercarlo nelle cose esterne? Non è nel corpo. Se non credete, guardate
Mirone, guardate Ofellio. Non è nelle ricchezze. Se non credete, guardate
Creso, guardate i nostri ricchi, di quanti lamenti è piena la loro vita! Non è
nelle cariche. Se non altro, quelli che sono stati consoli due e tre volte
dovrebbero essere felici — e invece non lo sono. Su questo argomento,
dunque, a chi presteremo fede? A voi che guardate dal di fuori le loro cose e
vi lasciate abbagliare dalle apparenze, o a loro stessi? Che dicono?
Ascoltateli, quando si lamentano, quando gemono, quando ritengono che
proprio per i consolati, per la gloria, per la posizione altolocata la loro
condizione è più disgraziata e pericolosa. Non è nel regno. Se no, Nerone
sarebbe stato felice e Sardanapalo. Ma neppure Agamennone era felice, per
quanto sia stato più fine di Sardanapalo e di Nerone: anzi, mentre gli altri
russano, lui, che fa?
dalle radici, a gran ciocche, strappava dal capo le chiome
E quali sono le sue parole?
Così vado errando egli dice — e sono turbato ed il cuore mi balza fuori del
petto.
Infelice! Quale delle tue cose si trova in cattiva condizione? Le ricchezze?
No. Anzi, molto oro possiedi e molto bronzo.
Il corpo? No. Che cosa, dunque, sta male in te? Quella che, qualunque sia, da
te trascurata e rovinata, ci fa desiderare e avversare, avere impulsi e repulse.
E com'è stata trascurata? Ignora la vera natura del bene, a cui è naturalmente
portata e la vera natura del male, che cosa possiede di proprio, che cosa le è
estraneo. E quando una di queste cose a lei estranee sta male, esclama:
«Ohimè! gli Elleni sono in pericolo». Infelice parte direttrice dell'anima, essa
sola negletta e non curata! «Devono morire i Greci, annientati dai Troiani».
Se non li ammazzano i Troiani, non moriranno? «Sì, ma non tutti insieme».
Che differenza c'è? Se la morte è male, muoiano tutti insieme o uno per uno,
è ugualmente male. E poi, cos'altro deve succedere se non che il corpo e
l'anima si separano? «Nient'altro.» E se i Greci sono distrutti, t'è forse chiusa
la porta? non t'è lecito morire? «Sì, m'è lecito.» E perché gemi?: «Oh, me
infelice, che sono re e porto lo scettro di Zeus!» Ma non si da un re
disgraziato, non più che un dio disgraziato. Che sei? Un pastore, in verità. E
piangi proprio come i pastori, quando il lupo ha rapito un capo del gregge.
Perché anche questi uomini sui quali hai il comando sono gregge. Su che
cosa, infatti, avevi il comando? Era forse in pericolo il vostro desiderio,
l'avversione, l'impulso, la repulsa? «No — risponde — ma è stata rapita la
moglie di mio fratello.» E non era un grande guadagno non aver più una
moglie adultera? «Ci lasceremo disprezzare dai Troiani?» E chi sono i
Troiani? Uomini assennati o sciocchi? Se assennati, perché siete in guerra
con loro? e se sciocchi, che ve ne importa?
«Ma allora il bene dov'è, se non è in questo? Diccelo, signor messaggero ed
esploratore.» «Dove non pensate né volete cercarlo. Se volevate, lo trovavate
in voi, né andavate errando fuori di voi, né cercavate le cose estranee, quasi
fossero vostra proprietà. Rivolgetevi, dunque, in voi stessi, imparate a
conoscere le prenozioni che avete. Quale cosa v'immaginate sia il bene? È la
serenità, è ciò che procura felicità, è la libertà da impedimento. Orsù, non ve
l'immaginate grande per sua natura? ed eccellente no? e innocuo no? Tra
quali oggetti, dunque, s'ha da cercare la serenità e la libertà da ostacoli? Tra
quelli schiavi o tra quelli liberi?» «Tra i liberi.» «E il miserabile corpo l'avete
libero o schiavo?» «Non lo sappiamo.» «Non sapete che è schiavo della
febbre, della podagra, dell'oftalmia, della dissenteria, del tiranno, del fuoco,
del ferro, di chiunque è più forte?» «Certo, è schiavo». «E come può essere
ancora libera da impedimenti una delle parti del corpo? Come può essere
grande o eccellente ciò che per natura è senza vita, è terra, è fango? Ebbene?
Non avete niente che sia libero?» «Proprio niente.» «E chi vi può costringere
ad ammettere ciò che appare falso?» «Nessuno.» «Chi a non ammettere ciò
che appare vero?» «Nessuno.» «Qui, dunque, vedete che c'è in voi qualcosa
di libero per natura. E, poi, desiderare e avversare, sentire impulsi o repulse,
prepararsi o proporsi qualcosa, chi di voi lo può senz'aver accolto la
rappresentazione dell'utile o del non-conveniente?» «Nessuno.» «Anche qui,
dunque, avete qualcosa non soggetta a impedimenti e libera. Disgraziati,
coltivate allora questa cosa, prendetevi cura di essa, cercate qui il bene.»
E com'è possibile che viva sereno chi non possiede niente, chi è nudo, senza
casa, senza focolare, sordido, senza schiavi, senza città? Ecco, v'ha mandato
Dio uno che, a fatti, ve ne dimostri la possibilità. «Guardatemi: sono senza
casa, senza città, senza beni, senza schiavi: il mio giaciglio è la terra: non ho
moglie, non figli, non una casetta, ma la terra soltanto e il cielo e un unico
mantelletto. Eppure, che mi manca? Non sono senza dolori, non sono senza
timori, non sono libero? Quando uno di voi m'ha visto fallire nei miei
desideri, quando cadere nelle mie avversioni? Quando ho biasimato Dio o
uomo, quando ho rimproverato qualcuno? Forse uno di voi m'ha visto
accigliato? Come tratto quelli che vi mettono paura o meraviglia? Non come
schiavi? Chi, vedendomi, non ritiene di vedere il suo re e il suo padrone?».
Ecco le parole degne d'un cinico, eccone il carattere, eccone il proposito.
Invéce no, voi dite: quel che fa il cinico è una povera bisaccia, la mazza, le
mascelle smisurate, e ingozzare tutto quanto gli danno o metterlo in serbo, o
offendere inopportunamente chiunque incontri, oppure mostrare bella la
spalla. A una tale impresa vedi con quale spirito bisogna metter mano?
Prendi prima lo specchio, guarda le tue spalle, renditi conto dei fianchi e
delle gambe. Ai giochi d'Olimpia vuoi iscrivere il tuo nome, uomo, e non a
una gara qualunque fredda e misera. Non è permesso a Olimpia essere vinti
soltanto e andarsene: in primo luogo ci si deve esporre all'infamia dinanzi a
tutto il mondo, non solo dinanzi agli Ateniesi o ai Lacedemoni o ai
Nicopolitani; in secondo luogo, deve essere coperto di percosse chi scende
sconsideratamente nell'agone e prima delle percosse deve soffrire la sete,
dev'essere arso dal bruciore e mandar giù tanta sabbia.
Prendi con molta avvedutezza una decisione, conosci te stesso, interroga la
divinità, non accingerti all'opera senza il Dio. Perché, se egli t'incoraggia, la
sua volontà, sappilo bene, è che tu diventi grande o che riceva molte
percosse.
Infatti, anche questo è uno splendido elemento legato alla vocazione del
cinico: bisogna che sia percosso al pari di un asino e che, mentre viene
percosso, ami quanti lo percuotono, come padre di tutti, come fratello. E
invece no: ma se uno ti percuote, mettiti a gridare là in mezzo: «O Cesare,
vedi che ho da subire nella pace che hai dato? Andiamo dal proconsole.» Ma
per un cinico che cos'è Cesare, o il proconsole, o qualche altro, se non Chi lo
ha mandato e a cui serve e cioè Zeus? Chi altro invoca se non Lui? Non è
convinto che qualunque contrarietà subisca è Lui che lo esercita?
Eracle, esercitato da Euristeo, non riteneva di essere infelice, ma senza
esitazione eseguiva tutti gli ordini e costui, allenato ed esercitato da Zeus, si
metterà a gridare e andrà in furore, lui che è degno di portare lo scettro di
Diogene?
Ma ascolta quel che dice costui, bruciato dalla febbre, a chi gli passa davanti:
«Teste vuote, esclamava, non volete fermarvi? Eppure per ammirare la lotta o
la morte degli atleti, intraprendete un cammino tanto lungo fino a Olimpia: e
la lotta di un uomo con la febbre non volete vederla?» Certo un uomo siffatto
avrebbe subito biasimato il dio che l'aveva mandato, per un trattamento tanto
indegno! egli che, invece, era orgoglioso di quelle circostanze e riteneva di
essere spettacolo degno ai passanti. E perché lo avrebbe rimproverato?
Perché gli dava decoro? Di che può accusarlo? Di mettere in mostra nel
modo più fulgido la sua virtù? Ma via, che cosa dice della povertà, della
morte, della fatica? Come soleva paragonare la sua felicità a quella del Gran
Re? Anzi, riteneva che non si dovesse fare neppure il paragone.
Infatti, dove sono turbamenti, dolori, timori, desideri irrealizzati, avversioni
inefficaci, invidie, gelosie, da qual parte può entrare la felicità? E dove i
giudizi sono falsi, di necessità esistono tutte queste passioni. Il giovane gli
domandò: «E se cade malato e un amico lo invita a recarsi in casa sua per
esser curato si lascerà convincere?» E dove mi darai un amico del cinico? —
replicò Epitteto? Bisogna che anche quest'altro sia tale da meritarsi di essere
annoverato tra gli amici di lui. Bisogna che sia anche egli compartecipe dello
scettro e della dignità regale e degno servitore, se vuoi essere ritenuto degno
della sua amicizia, come Diogene fu amico di Antistene e Cratete di Diogene.
O pensi che se uno, passandogli vicino, gli dice «addio», gli è perciò stesso
amico e il cinico riterrà costui degno di riceverlo in casa?
Perciò, se t'immagini e ti rappresenti la cosa in tal modo, è meglio che ti
guardi intorno e cerchi un bel mucchio di letame, entro il quale avere la
febbre — un mucchio che ti ripari dal vento di settentrione, onde non ti
colgano i brividi di freddo. Ma tu mi dai l'impressione di voler andare in casa
di qualcuno per un certo tempo a ingrassare. E perché allora metti mano a
impresa siffatta?
«Ma il matrimonio, chiese il giovane, e i figli, specialmente, saranno
accettati dal cinico?» — Se mi dai una città di saggi — replicò Epitteto —
forse non sarà facile che qualcuno s'indirizzi al cinismo. E in realtà a prò di
chi abbracciare una tale condotta di vita? Tuttavia, se l'ammettiamo per
ipotesi, niente gli proibirà di sposarsi e di far figli, perché la sua donna sarà
una persona simile a lui, e il suocero uno simile a lui e i figli saranno allevati
nella stessa maniera. Ma, date le condizioni attuali, quasi di combattimento,
non è necessario che niente distragga il cinico, perché tutto dedito al servizio
del Dio, possa incontrarsi cogli uomini, senza essere legato ad alcun dovere
privato né trattenuto da relazioni, le quali se viola, non conserverà più in sé
l'uomo di perfetta virtù, se osserva, distruggerà il messaggero e l'esploratore e
l'araldo degli dèi? Vedi che deve prestare taluni servizi al suocero, taluni
renderne agli altri parenti della moglie, alla moglie stessa: ridotto a curare chi
non sta bene o a provvedere alla casa, finirà per essere escluso dalla sua
professione.
Per tralasciare il resto, deve pensare alla pila ove riscaldi l'acqua per il
bimbo, per lavarlo nel catino, alla lana per la moglie che ha partorito, all'olio,
al lettino, ai bicchieri — e così si moltiplicano le suppellettili — e non
parliamo delle altre faccende e distrazioni. E dove va a finire quei mio re, che
attende agli interessi di tutti:
cui son commesse le genti e ha cura di affari sì grandi il quale deve
sorvegliare gli altri, quelli che si sono sposati e quelli che hanno avuto figli
— chi tratta bene la moglie e chi male, chi bisticcia, quale casa è ben
piantata, quale no — il quale, come un medico, deve portarsi attorno a tastare
il polso? «Tu hai la febbre, tu soffri di dolori al capo, tu ai piedi: tu astienti
dal cibo, tu mangia, tu evita il bagno, tu hai bisogno d'un taglio, tu d'una
bruciatura.» Dov'è più il tempo libero per chi è avviluppato nei doveri
personali? Non deve procurare mantelletti ai bimbi? non li deve mandare dal
maestro di scuola, con le tavolette, con gli stili, coi blocchetti per appunti? e
non deve preparar loro anche il lettuccio? perché non possono essere Cinici,
appena usciti dal ventre materno: altrimenti, era meglio esporli al momento
della nascita che lasciarli perire in tal guisa. Guarda a che riduciamo il cinico,
come gli togliamo il regno. «Già, ma Cratete si sposò.» Tu mi parli di un caso
particolare che scoppiò in seguito a un amore appassionato e accenni a una
donna ch'era un altro Cratete. Noi, invece, prendiamo in esame i matrimoni
comuni e senza alcuna particolarità ed esaminando così troviamo che, in
siffatte circostanze, il matrimonio non è affare di prima importanza per il
cinico.
«E allora — chiese il giovane — come potrà più il cinico mantenere in vita
la comunità umana?» «In nome di Dio, sono più utili agli uomini quelli che
introducono nel mondo due o tre brutti musi al posto loro o quelli che,
secondo le loro possibilità, sorvegliano tutti gli uomini, che cosa fanno, come
vivono, di che si prendono cura, di che non si prendono cura contrariamente
al loro dovere? Così, ai Tebani recarono più giovamento quanti lasciarono
loro i figli che Epaminonda, morto senza prole? E più di Omero ha giovato
alla società Priamo che ha generato cinquanta vituperi di figli o Danao o
Eolo? Eppure il supremo comando militare e la composizione d'un'opera
potranno tener lontano dal matrimonio e dalla procreazione dei figli un uomo,
il quale, tuttavia, non sembrerà che vi abbia rinunciato per niente: e il regno
del cinico non compenserà altrettanto siffatta rinuncia? Non è forse che non
ci rendiamo mai conto della grandezza di lui e che non ci rappresentiamo a
dovere il carattere di Diogene, ma fissiamo lo sguardo sui Cinici di adesso,
cani della mensa, custodi della porta, che in niente sono simili a quelli se non
nel mandar venti e in nient'altro?
Che allora questi ragionamenti non ci moverebbero affatto e non ci
stupiremmo se il cinico non si sposa o non fa figli.
Uomo, tutto il genere umano egli ha per prole — gli uomini per figli, le
donne per fìglie: con questo spirito a tutti si accosta, con questo spirito di tutti
si cura. O credi che per un'ingerenza indebita riprende chi incontra? Come un
padre lo fa, come un fratello, come un servo del padre comune che è Zeus.
Se vuoi, chiedimi pure se parteciperà al governo dello Stato. Sciocco, cerchi
un governo più grande di quello di cui fa parte? ovvero presentatosi agli
Ateniesi tratterà delle entrate o delle vendite, egli che deve parlare a tutti gli
uomini, ugualmente agli Ateniesi, ugualmente ai Corinti, ugualmente ai
Romani e non di rendite né di entrate, né di pace né di guerre, ma della
felicità e dell'infelicità, della fortuna e della sfortuna, della schiavitù e della
libertà? E un uomo che tratta affari di tal sorta, tu mi domandi se parteciperà
al governo dello Stato? Chiedimi pure se coprirà delle cariche: io ti ripeterò:
«pazzo, quale carica più grande di quella che copre?».
Naturalmente un uomo siffatto ha bisogno pure di un fisico di una certa
qualità. Perché se si presenta consunto, debole, pallido, la sua testimonianza
non fa più la stessa impressione. In effetti, non solo mostrando i beni
dell'anima egli deve persuadere gli uomini comuni che si può essere
eccellenti senza tutto ciò che è oggetto della loro ammirazione, ma deve pure
dimostrare nel suo corpo che una regola di vita semplice, frugale, all'aria
aperta, non nuoce alla salute: «guarda, di questo sono testimone io e il mio
corpo.» Così faceva Diogene: e infatti, andava dattorno tutto lucente e il suo
corpo stesso attirava l'attenzione della folla. Il cinico che desta compassione
sembra un pezzente: tutti gli voltano la faccia, tutti lo canzonano. E neppure
deve mostrarsi sudicio, perché gli uomini non l'abbiano a scacciare per
questo, ma la stessa sua austerità deve essere schietta e attraente.
Deve pure aggiungersi al cinico in abbondanza bellezza fìsica e acutezza di
mente (se no, diventa moccio e nient'altro), perché sia pronto e disposto ad
affrontare qualunque circostanza. Per esempio, uno disse a Diogene: «Tu sei
quel Diogene che non crede agli dèi?» «Com'è possibile — rispose — se ti
ritengo maledetto dagli dèi?» Un'altra volta Alessandro s'avvicinò a lui che
dormiva e gli disse:
Tutta la notte non deve dormire chi regge i consigli ed egli, ancora mezzo
assopito, gli replicò: Cui son commesse le genti e ha cura d'affari sì gravi.
Ma soprattutto la parte direttrice dell'anima sua deve essere più pura del sole:
se no, sarà necessariamente ciarlatano o inetto, giacché, invischiato egli
stesso nel vizio, riprenderà gli altri. Bada, infatti, che significa ciò. Ai re e ai
tiranni di questo mondo, pure se sono perversi, le guardie e le armi danno la
possibilità di riprendere gli altri e anche il potere di punire i trasgressori; al
cinico, invece, tale possibilità gliel'offre la propria coscienza e non le armi né
le guardie.
Quand'egli sa che veglia per gli uomini, che s'affatica per loro, che si mette a
dormire puro e più puro ancora il sonno l'abbandona, e riflette che ogni suo
pensiero è qual s'addice a uno caro agli dèi, servo e partecipe del governo di
Zeus, che in ogni occasione è pronto a dire:
Conducimi, o Zeus, e tu anche, o Destino e «se così piace agli dèi, così sia»,
perché non avrà l'ardire di parlare con libertà ai suoi fratelli, ai figli, in una
parola, ai suoi consanguinei?
Per questo motivo chi ha una tale disposizione di spirito non è né indiscreto
né intrigante, perché non si intriga nei fatti degli altri, quando esamina le cose
umane, ma nei suoi. Altrimenti dì che anche lo stratego è intrigante, quando
passa in rassegna i soldati, li ispeziona, li difende e punisce gli indisciplinati.
Ma se riprendi gli altri nascondendo una focaccia sotto il braccio, io ti dirò:
Perché piuttosto non te ne vai in un angoletto a mangiarti quel che hai
rubato? Che c'è tra te e i fatti degli altri? Chi sei? Sei il toro o la regina delle
api? Mostrami i segni del comando come quelli che la natura da alla regina
dell'alveare. Se fossi un fuco e reclamassi il regno sulle api, non pensi che i
tuoi concittadini ti rovescerebbero come le api fanno coi fuchi?
E uno spirito di sopportazione tale deve avere il cinico da sembrare ai più
insensibile, addirittura un sasso: nessuno lo insulta, nessuno lo percuote,
nessuno lo oltraggia: il suo povero corpo lo ha dato a chi lo vuole perché ne
faccia quel che gli pare. Egli sa bene che di necessità l'inferiore è superato dal
superiore, proprio dov'è inferiore, e che il miserabile corpo è inferiore ai più,
il più debole ai più forti. Perciò egli non scende mai in quella gara in cui può
essere vinto, ma dalle cose altrui si ritrae subito, ciò che è soggetto ad altri
non agogna.
Ma là dov'è il regno della persona morale e l'uso delle rappresentazioni, là
vedrai quanti occhi possiede sì che Argo, puoi bene affermarlo, in confronto
a lui, era cieco. Dov'è un assenso precipitoso, un impulso sconsiderato, un
desiderio inattuato, un'avversione inefficace, un fine non raggiunto, un
biasimo, una meschinità o un'invidia? Qui è tutta la sua attenzione, tutto il
suo sforzo: per il resto russa supino: c'è tranquillità assoluta. Non ci stanno
ladri della persona morale, non ci stanno tiranni. E del misero corpo? Sì. E
delle miserabili ricchezze? Sì. E anche delle cariche e degli onori. Ma che
gliene importa, a lui, di queste cose? E se qualcuno se ne serve per
spaventarlo, lui gli dice: «Va', cerca i ragazzini. A questi fanno paura le
maschere: io so che sono di coccio e che dentro non c'è niente».
Tale il carattere dell'impresa sulla quale prendi consiglio. Quindi, se ti va, in
nome di Dio, rimanda la decisione e considera innanzi tutto se sei preparato.
Vedi che cosa dice Ettore ad Andromaca:
«Suvvia, le dice, è meglio che te ne vada a casa a tessere, che degli uomini è
cura la guerra, di tutti quanti e di me, specialmente».
In tal modo egli riconosceva non solo la sua personale preparazione ma anche
la incapacità della donna.
Prima di tutto, dì a te stesso chi vuoi essere: poi, in accordo con la decisione
presa, fa' quel che fai. Perché vediamo che quasi in ogni altro campo succede
così. Quelli che si allenano stabiliscono dapprima chi vogliono essere e poi,
in accordo con la decisione presa, fanno quel che devono: se corridore nel
dolico, tale vitto, tale marcia, tale massaggiatura, tale ginnastica: se corridore
nello stadio, le prescrizioni saranno tutte diverse: se contendente nel pentatlo,
ancora più diverse. Lo stesso troverai nelle arti. Se vuoi essere carpentiere,
avrai da fare questo e questo, se fabbro quest'altro. Perché se ogni nostra
azione non la riportiamo a un fine, agiremo a caso: se la riportiamo a un fine
sconveniente, commetteremo un errore. Rimane da determinare qual è il
riferimento comune e quale il riferimento particolare. Prima di tutto agisci da
uomo. Che cosa implica questo? Un agire non da pecora, anche se a modo, e
non dannoso, al pari d'una bestia selvaggia. Il riferimento particolare è in
relazione all'occupazione e alla persona morale di ciascuno. Il citaredo deve
agire da citaredo, il carpentiere da carpentiere, il filosofo da filosofo, l'oratore
da oratore.
Dunque, quando dici: «Venite qua e ascoltate le mie letture», bada, innanzi
tutto, di non agire a caso: poi, se trovi che c'è un riferimento al quale riporti
la tua azione, osserva se è quello giusto.
Vuoi far del bene o essere lodato? Ecco, senti subito chi dice: «Che
m'interessa della lode della folla?» E dice bene.
Perché non interessa neppure al musico, in quanto musico, né al geometra.
Dunque, vuoi far del bene? A che fine? Diccelo perché corriamo anche noi
nella sala dove tieni lettura. Ora, può uno giovare agli altri, senza trarne egli
stesso giovamento? No: infatti, chi non è carpentiere non può giovare agli
altri nell'arte del carpentiere, né chi non è calzolaio nell'arte del calzolaio.
Vuoi dunque sapere se hai tratto qualche giovamento? Porta qua i tuoi
giudizi, filosofo. Che si ripromette il desiderio?
Di non essere frustrato. E l'avversione? Di non incorrere in ciò che avversa.
Ebbene, realizziamo ciò che si ripromettono desiderio e avversione? Dimmi
il vero: se mentisci, ti dirò: «Tempo fa, siccome i tuoi ascoltatori si
raccoglievano con una certa freddezza e non ti acclamavano, te ne uscisti
mortificato. Un altro giorno, essendo stato lodato, giravi attorno e dicevi a
tutti: «Che impressione t'ho fatto?» «Sei stato magnifico, signore: te lo giuro
sulla mia vita.» «Come ho recitato quel punto?»
«Quale?» «Dove ho descritto Pane e le ninfe.» «Superbamente.» E poi mi
dici che nei desideri e nelle avversioni segui la natura? Via, cerca di
persuadere un altro. E quel tale, proprio l'altro giorno, non lo lodavi contro la
tua opinione? E quell'altro non lo adulavi, il figlio del senatore? Vorresti che
i tuoi figli gli somigliassero? «Non sia mai.» «E perché allora lo lodavi e lo
circuivi?» «È un giovane nobile e desideroso di ascoltar discorsi.» «Donde lo
sai?» «È un mio ammiratore.» «Hai dato la prova giusta.»
E poi, che credi? Non ti disprezzano costoro di nascosto? Quando un uomo
consapevole di non aver fatto né pensato niente di buono trova un filosofo
che gli dice: «Ottima indole la tua: sei schietto e puro» che altro dice,
secondo te, se non «costui ha bisogno di me?» Oppure dimmi, quale prova ha
dato della sua ottima indole? Ecco: sta con te da tanto tempo, ti ha ascoltato
discutere, t'ha ascoltato declamare. E ha posto ordine nelle sue cose? è
rientrato in sé? s'è accorto delle sue cattive condizioni? Ha smesso la
presunzione? Cerca chi gli insegnerà qualcosa? «Sì, lo cerca», dice. Chi gli
insegnerà come ha da vivere? No, pazzo, ma come debba esprimersi. Per
questo, infatti, ti guarda ammirato. Ascoltalo, senti le sue parole. «Costui
scrive con un'arte squisitissima, molto meglio di Dione.» È tutt'un'altra cosa.
O forse dice:
«Costui è un uomo pieno di rispetto, leale, imperturbato?» Se anche l'avesse
detto, gli avrei chiesto: «poiché costui è leale, questo leale che cos'è?». E se
lui non aveva risposta da darmi, avrei aggiunto: «Prima impara di che parli e
poi parla.»
Con tali disposizioni tanto brutte, rimanendo a bocca aperta davanti a chi ti
loda e contando chi ti viene ad ascoltare, vuoi far bene agli altri? «Oggi
m'hanno ascoltato molti di più.» «Molti, certo.» «Cinquecento, pensiamo.»
«Una bazzecola: facciamo mille.» «Non sono mai venuti in tanti ad ascoltar
Dione.» «E come potrebbe averne tanti?» «E poi sono fini intenditori di
discorsi.» «II bello, signore, riesce a scuotere anche un sasso». Ecco le
espressioni di un filosofo, ecco la disposizione di uno che vuole far bene agli
uomini: ecco uno che ha ascoltato la ragione e ha letto le opere socratiche
come se derivassero da Socrate stesso e non da Lisia e da Isocrate.
«Mi sono più volte meravigliato con quali mai argomenti... No, ma con
quale mai argomento, che questa forma è più piana di quella.» Non le leggete
come le canzonette queste opere? Perché se per lo meno le leggeste come si
deve, non indugereste su certi punti, bensì guardereste all'altro: «Anita e
Meleto possono sì ammazzarmi, ma farmi danno, no» e ancora «perché io
sono sempre siffatto da non dare ascolto a nessuna cosa di me se non alla
ragione che, dopo l'esame, mi sembra la migliore.»
Perciò, chi ha mai sentito Socrate dire: «so qualcosa e l'insegno?» Ma li
mandava chi da uno, chi dall'altro. Di conseguenza gli facevano visita,
credendo di essere da lui raccomandati ai filosofi, ed egli li conduceva e li
raccomandava a loro. No: invece, secondo voi, mentre li accompagnava,
diceva: «Vieni ad ascoltarmi oggi che parlo in casa di Quadrato.»
Che cosa ascolterò da te? Vuoi farmi vedere che metti insieme le parole con
eleganza? Sì, con'eleganza, uomo: e che bene rappresenta per te? «Ma tu
lodami» — «Che cosa intendi per lodare?» — «Dimmi: oh! e: stupendo!»
Ecco, lo dico. Ma se lode è qualcosa che i filosofi ripongono nella categoria
del bene, che lode posso darti? Se il bene consiste nell'esprimersi in modo
corretto, insegnamelo e ti loderò. E dunque? Si devono ascoltare di malanimo
costoro? Non sia mai. Io neppure il citaredo ascolto di malanimo, ma forse
per questo devo mettermi in posizione e suonare la cetra?
Senti che dice Socrate: «e neppure s'addice, cittadini, che alla mia età io mi
presenti a voi a modellarvi di bei discorsi, come potrebbe fare un oratore
giovinetto.» «Un oratore giovinetto», dice: per che in realtà è un mezzuccio
elegante scegliere parolette, metterle insieme e, alla presenza della gente,
leggerle o recitarle con una certa nobiltà e, durante la lettura, soggiungere:
«Non molti sono in grado di tener dietro à queste cose: per la vostra vita, lo
giuro!».
Ma il filosofo invita a una conferenza? O non piuttosto, come il sole attira a
sé il nutrimento, così anch'egli attira a sé quelli cui farà del bene? Quale
medico invita la gente a sottoporsi alle sue cure? Eppure so che adesso in
Roma i medici rivolgono tale invito, mentre, quando c'ero io, eran loro ad
essere invitati. «Ti invito a venire da me per sentire che stai male e tutto
prendi a cuore eccetto quel che dovresti e ignori il bene e il male e sei misero
e disgraziato.» Bell'invito!
Eppure, se non producono quest'effetto le parole del filosofo sono morte e
morto chi le pronuncia. Soleva dire Rufo:
«Se trovate modo di lodarmi, le mie parole sono un nulla.» E pronunciava la
frase in modo tale che noi, seduti accanto a lui, credevamo davvero, ognuno
per sé, che qualcuno gli avesse parlato dei nostri difetti: così fortemente egli
era legato alla realtà, così vividamente poneva davanti agli occhi di ciascuno
le sue debolezze.
È una clinica, uomini, la scuola di un filosofo: non si deve uscirne gioiosi,
ma pieni di dolori. Perché non ci venite sani, ma uno ha la spalla slogata, un
altro un ascesso, un altro una fìstola, un altro dolori di capo. Ed ecco, io mi
seggo e vi dico pensieruzzi e parolette, perché voi mi lodiate e poi ve ne
andiate e l'uno porti via la spalla come l'ha portata venendo, l'altro la testa
nelle stesse condizioni di prima, l'altro la fìstola, l'altro l'ascesso? Ed è per
questo che i giovani si sono allontanati di casa, hanno lasciato i loro genitori,
gli amici, i parenti, gli averi, per gridare «bravo» a te che reciti le tue
parolette? Questo faceva Socrate o Zenone o Cleante?
Bene, ma non c'è uno stile esortatorio? — Chi lo nega? Come ce n'è uno
confutatorio e un altro didascalico. Chi ha mai detto, però, che oltre questi ce
ne fosse un quarto, ostentativo? Che è lo stile esortatorio? La capacità di
mostrare agli uomini, a ciascuno in particolare e alla folla in generale, la
contraddizione in cui si dibattono e, inoltre, come di tutto si preoccupano più
che di ciò che veramente vogliono. Perché, in effetti, vogliono i mezzi che
portano alla felicità e li cercano altrove. E per questo bisogna che si
dispongano un migliaio di scanni, che si mandino gli inviti, e che tu, avvolto
in veste elegante o nel mantello, salga in cattedra per dipingerci la morte di
Achille? Basta, per gli dèi, io vi prego, basta, per quant'è in voi, di disonorare
parole e gesta nobili! L'esortazione più efficace il conferenziere la fa quando
mostra agli ascoltatori di aver bisogno di loro. Oppure dimmi: chi mai,
ascoltando le tue letture o le tue discussioni, s'è sentito in ansia per se stesso,
è rientrato in se stesso, o, uscito dalla sala, ha esclamato: «M'ha punto sul
vivo, il filosofo: non devo agir più cosi»? E, invece, se tu fai buona
impressione, non dirà all'amico: «Con che eleganza ha esposto il brano su
Serse» e l'altro: «No, è stato meglio quello sulla battaglia delle Termopili»?
E questo si chiama ascoltare un filosofo?
Quel che altri fanno contro natura, non sia un male per te, giacché non sei
nato per essere umiliato insieme ad essi né per dividerne la triste sorte, bensì
la sorte felice. Se uno è disgraziato, ricorda che è disgraziato per colpa sua: e,
invero, Dio tutti gli uomini li ha fatti per la felicità, per la tranquillità. A tale
scopo ha dato delle risorse, concedendo a ognuno cose che gli sono proprie e
cose che gli sono estranee: quelle soggette a impedimenti, al furto, alla
necessità non sono proprie, quelle libere da impedimento sì: ora, la natura del
bene e del male, come conveniva a chi si prende cura di noi e ci protegge al
pari di un padre, l'ha posta tra le cose proprie. «Ma io sono andato via da lui e
lui geme». E perché ha ritenuto proprie le cose altrui? Perché, quando gioiva
al tuo cospetto, non rifletteva che eri mortale e potevi andartene via? Perciò
paga il fio della sua pazzia. E tu di che? Perche compiangi te stesso? Ovvero
neanche tu ti sei preoccupato di questo, ma, al pari delle donnette
insignificanti, stavi insieme agli oggetti che ti procuravano godimento come
se dovessi starci per sempre, fossero luoghi, uomini, occupazioni? Ed ora ti
sei seduto piangendo, perché non scorgi le stesse persone e non t'aggiri negli
stessi luoghi. Meriti davvero di essere più misero dei corvi e delle cornacchie,
cui è lecito volare dove vogliono ed edificare altrove i loro nidi e attraversare
il mare, senza sospirare né rimpiangere quelli antichi. «Già: tale
comportamento è dovuto al fatto che sono irragionevoli.» A noi dunque la
ragione è stata largita dagli dèi per disgrazia, per infelicità, per farci menare
la vita miseri e gemebondi? Oppure siano tutti gli uomini immortali e
nessuno se ne vada via e neppur noi andiamo via altrove, ma restiamo qua,
abbarbicati come le piante: e se qualcuno dei nostri amici se ne va,
piangiamo, seduti in un canto, mentre poi, se torna, danziamo e facciamo
chiasso come i ragazzini!
Non ci svezzeremo una buona volta e non ricorderemo ciò che sentimmo dai
filosofi? A meno che non li abbiamo
sentiti come si sentono gli incantatori, quando dicevano che questo mondo è
una città sola, come pure la sostanza di cui è stato composto, e così una sola è
la necessità di un movimento periodico e d'un ritirarsi di alcune cose dinanzi
ad altre: queste si disperdono, quelle spuntano, queste rimangono nello stesso
posto, quelle si muovono. Tutte le cose sono piene di amici, in primo luogo
di dèi, poi di uomini intimamente uniti per natura tra loro: e bisogna che
alcuni rimangano insieme tra loro, che altri se ne vadano, che gli uni godano
di chi rimane con essi, che gli altri non si addolorino di chi se ne va. E
l'uomo, oltre essere per natura magnanimo e in grado di disprezzare tutto
quanto è indipendente dalla libera volontà, ha pure questa prerogativa, di non
essere radicato né attaccato alla terra, ma di recarsi ora in un luogo, ora in un
altro, talvolta sotto la spinta della necessità, talvolta per il semplice bisogno
di vedere. E a Odisseo accadde qualcosa di simile:
vide di molte genti le città e il pensier ne conobbe e anche prima a Eracle
toccò di fare il giro della terra tutta: per osservare degli uomini lo spirito
ingiusto ed il retto, per disperdere e abbattere quello e immettere questo al
suo posto. Eppure quanti amici, pensi, ebbe a Tebe, quanti ad Argo, quanti ad
Atene, quanti ne acquistò nel suo errabondare per la terra, egli che potè pure
sposare, come gli parve giunto il momento, e fece figli e i figli lasciò senza
sospiri, senza rimpianti e neppure come orfani, quando se ne staccò?
Sapeva, infatti, che nessun uomo è orfano, ma di tutti, sempre e
continuamente è il Padre a prendersi cura. In realtà, non come una favola
aveva ascoltato che Zeus è padre degli uomini, egli che, se mai altri, Zeus
riteneva e invocava padre suo e cogli occhi fìssi in Lui compiva le sue gesta.
Per questo gli era possibile vivere felice dovunque. Non possono mai
coincidere la felicità e il desiderio di ciò che non si ha. Qualsiasi essere felice
deve possedere quanto vuole e somigliare a chi è sazio: non deve aver sete,
non fame. «Ma Odisseo soffriva sospirando la moglie e piangeva seduto su
uno scoglio.» E tu credi in tutto a Omero e alle sue favole? Certo, se Odisseo
piangeva davvero, che altro era se non un disgraziato? E quale uomo di
perfetta virtù è disgraziato? Senza dubbio, l'universo è governato male, se
Zeus non si preoccupa dei suoi cittadini, di farli simili a sé, felici. Tale
supposizione, però, è ingiusta ed empia: e se Odisseo piangeva e gemeva,
non era un uomo buono. Chi è buono se non sa chi è? E chi lo sa, se ha
dimenticato che quante cose vengono all'esistenza sono corruttibili e che non
è possibile per un uomo rimaner sempre insieme a un uomo? E allora?
Desiderare l'impossibile è da schiavi, è da sciocchi, è proprio di chi è
straniero nell'universo e si schiera contro Dio nell'unica maniera possibile,
armato dei suoi giudizi.
«Ma mia madre geme se non mi vede». E perché non ha appreso il senso di
questi ragionamenti? Non dico, certo, che non bisogna cercare di non farla
piangere, bensì che non bisogna volere a ogni costo le cose altrui. Il dolore di
un altro è cosa estranea per me, il mio è cosa mia. Al mio dolore metterò fine
a ogni costo perché è in mio potere: all'altrui dolore, invece, cercherò di
metter fine secondo le mie possibilità, ma non cercherò di raggiungere
l'intento a ogni costo.
Altrimenti scenderò in lotta contro Dio, mi opporrò a Zeus, gli resisterò in
quel che è la sua amministrazione dell'universo. E il prezzo di tale empia
lotta, di tale disobbedienza non lo pagheranno i figli dei figli, ma io
personalmente, durante il giorno e di notte, balzando alle visioni dei sogni,
tutto turbato, tremando a ogni notizia, subordinando la mia imperturbabilità a
lettere che non sono mie. Giunge uno da Roma. «Purché non rechi qualche
male». Quale male ti può capitare là dove non sei? Viene dall'Ellade. «Purché
non rechi qualche male.» Ma così ogni sito può essere per te motivo di
disgrazia. Non ti basta essere disgraziato dove ti trovi, ma vuoi esserlo anche
al di là del mare e a causa di lettere? È questa la solidità delle tue cose? «Ma
allora se mi muoiono gli amici di là?» Che cosa muore se non creature
mortali? O come vuoi invecchiare senza vedere nello stesso tempo la morte
di qualcuno dei tuoi cari? Non sai che nel lungo tempo molti e diversi
avvenimenti devono accadere? La febbre ha la meglio su questo, il ladro su
quello, il tiranno su quell'altro ancora. Questo è il nostro ambiente, questi i
nostri compagni, freddo e caldo, cibi disadatti, viaggi di terra e di mare, vènti,
circostanze diverse: e uno lo distruggono, l'altro lo cacciano in esilio, uno lo
mandano in un'ambasceria, l'altro in una spedizione militare. Siediti, dunque,
sbigottito di fronte a tutto ciò, singhiozzando, sfortunato, disgraziato,
assoggettandoti a ciò che è altro da te, e che non è una cosa sola, e neppure
due, ma diecine e diecine di migliaia.
Questo ascoltavi dai filosofi, questo apprendevi? Non sai che è una
campagna militare l'affare della vita? Uno deve restare di guardia, un altro
uscire a esplorare, un altro a combattere. Non è possibile che rimangano tutti
nello stesso posto, e neppure è bene. Tu, invece, senza pensare a compiere gli
ordini del comandante, ti lagni quando ti viene affidato un compito un po'
duro, e non capisci a che riduci l'esercito, almeno per parte tua. Che, certo, se
tutti ti imiteranno, non ci sarà più chi scavi fosse, non chi munisca valli, non
chi faccia la sentinella di notte, non chi si esponga al pericolo: appariranno
tutti soldati inetti.
Così pure, se sei marinaio su una nave, abbi un incarico solo e mantienilo:
ma se c'è da salire sull'albero, rifiutati, se c'è da correre a prua, rifiutati. Quale
nocchiero ti sopporterà? e non ti getterà via come un vaso inutile, te, che non
sei se non d'impiccio e di cattivo esempio agli altri marinai? Lo stesso qui: è
una campagna militare la vita di ciascuno, campagna militare lunga e varia.
Devi mantenere l'atteggiamento del soldato e fare ogni cosa al cenno del
comandante, divinando, se è possibile, ciò che vuole.
Perché non c'è confronto tra questo comandante e un comandante ordinario,
né per la potenza né per l'eccellenza del carattere. Sei stato posto in una città
imperiale e non in umile condizione, che sei senatore non per un anno, ma
per sempre. Non sai che un uomo di tale rango deve interessarsi ben poco
dell'amministrazione familiare, ma spesso ha da lasciar casa, sia per
comandare sia per obbedire o per coprire una magistratura o per militare
nell'esercito o per amministrare giustizia? E vuoi attaccarti come una pianta
agli stessi posti e abbarbicartici con le radici? «Perché è gradito.» E chi lo
nega? Ma anche il brodo è gradito, anche una bella donna è gradita. Cos'altro
dicono quelli che ritengono fine il piacere?
Di chi è questo tuo linguaggio, te ne accorgi? Non è di Epicurei e di Cinedi?
E allora, se agisci come loro, se pensi come loro, ci tieni i ragionamenti di
Zenone e di Socrate? Non getterai via, il più lontano possibile, queste cose
altrui di cui ti adorni e che non ti si addicono affatto? Che altro vogliono
quelli se non dormire senza impedimento e senza costrizioni, alzatisi, poi,
sbadigliare in tutta tranquillità, pulirsi il viso, poi, scrivere e leggere a loro
piacere, poi, ciarlare di qualcosa, applauditi dagli amici, checché dicano, in
seguito, fare una passeggiata e dopo un breve giro lavarsi, poi mangiare e poi
mettersi a giacere nel modo che s'addice a persone siffatte — perché dire la
parola? si può congetturare.
Ma via, dimmi anche tu il tuo genere di vita, quello che desideri, o seguace
della verità e di Socrate e di Diogene. Che cosa vuoi fare in Atene? Proprio
quel che ho detto? O forse dell'altro? E perché ti professi stoico? Quelli che
falsamente si attribuiscono la cittadinanza romana sono severamente puniti, e
quelli che falsamente si attribuiscono un titolo e un nome sì grande e
venerando dovranno andarsene impuniti? Ovvero questo non è possibile ed è,
invece, legge divina, incrollabile, inevitabile quella che irroga le pene più
grandi a chi è reo dei delitti più grandi? Che dice? «Chi pretende ciò che non
gli spetta affatto, sia un impostore, sia un ambizioso: chi disobbedisce al
governo divino sia abietto, sia servo, provi dolore, invidia, misericordia, e,
insomma, sia disgraziato e gema».
«Ebbene? Vuoi ch'io presti i miei servizi a quell'uomo? Che mi diriga verso
le sue porte?» Se lo esige la ragione per il bene della patria, dei parenti, degli
uomini, per qual motivo non ci vai? Verso le porte del calzolaio non ti
vergogni di dirigerti, quando hai bisogno di scarpe, né verso quelle del
fruttivendolo, quando hai bisogno di lattughe: e verso quelle dei ricchi sì,
quando hai un bisogno analogo? «Certo, perché il calzolaio non lo guardo
stupito» E non guardare neppure il ricco. «E il fruttivendolo non lo adulerò.»
E non adulare neppure il ricco. «E come otterrò ciò di cui ho bisogno?» Ti
dico forse di andarci per ottenere ciò che vuoi? e non invece solo per
compiere quel che ti si addice? «Perché, dunque, mi ci devo recare?» Per
andarci, per compiere, da parte tua, i doveri di cittadino, di fratello, di amico.
Per il resto, ricorda che sei andato da un calzolaio, da un erbivendolo, che
non dispongono di nessuna cosa grande o importante, anche se la vendono
cara. Tu vai come se andassi a comprar lattughe: costano un obolo e non un
talento. Così qui.
L'affare esige ch'io frequenti quelle porte: bene, ci andrò. Che parli in questo
modo: bene, parlerò. Ma devo anche baciargli la mano, devo lusingarlo con
lodi. Va' via: questo costa un talento, non giova a me né alla città né agli
amici ch'io distrugga un cittadino onesto e un amico.
Già, ma se non riesci, darai l'impressione di non averci posto tutto l'impegno.
Ancora una volta hai dimenticato perché ci sei andato? Non sai che l'uomo di
perfetta virtù nessun'azione compie per dare impressione, bensì per agire
bene?
«Che utilità gli viene dall’agire bene?» E che utilità viene a chi scrive il
nome di Dione come si deve? Il fatto stesso d'averlo scritto così. «E premio
nessuno?» E tu per l'uomo buono cerchi un premio più grande del compiere
azioni belle e giuste? In Olimpia nessuno pretende altro, anzi ti sembra
sufficiente ricevere la corona olimpica. E ti par tanto poco e insignificante
essere uomo di perfetta virtù e felice? Per questo scopo sei stato introdotto
dagli dèi in questa città e, dovendo già metter mano alle azioni da uomo,
rimpiangi le nutrici e le mammelle e ti abbattono e ti rendono effeminato
pazze donnette piangenti? E così, non cesserai mai di essere un ragazzino
sciocco? Non sai che chi si comporta da ragazzino, quanto più avanza negli
anni, tanto più diventa ridicolo? In Atene non vedevi chi andavi a visitare?
Sì, chi volevo. Anche qui, desidera vedere quest'uomo e vedrai l'uomo che
vuoi: solo, non agire in maniera meschina, non agire con desiderio o
avversione e le tue cose andranno bene. Tale condizione, però, non deriva dal
materiale atto di andare e neppure di fermarsi sulla soglia della porta, ma
dall'interno, dai giudizi che si hanno. Quando hai disprezzato le cose esterne
e indipendenti dalla libera scelta e nessuna ne ritieni più tua, bensì tue queste
soltanto, giudicare come si deve e così pure opinare, propendere, desiderare,
avversare, dov'è più possibilità di adulazione, di meschinità? Perché
rimpiangi ancora la pace di lì? perché i luoghi a te familiari? Attendi un po' e
anche questi, a loro volta, ti diverranno familiari. Ma se hai un'indole tanto
ignobile, anche quando ti stacchi di qui, piangi e gemi. «In che modo devo
essere, allora, affezionato ai miei?» Da uomo nobile, da uomo fortunato. La
ragione non esige mai che l'uomo si avvilisca né che si abbatta né che si
assoggetti ad altro, né che biasimi mai Dio o uomo. Sii, dunque, ti prego,
affezionato ai tuoi in modo da non derogare a questi princìpi; che se a causa
dell'affetto ai tuoi — qualunque cosa tu intenda con questo nome — devi
essere schiavo e infelice, allora non ti giova essere affezionato. In realtà, che
cosa ti proibisce d'amare qualcuno come una persona mortale, come una
persona destinata a emigrare? Socrate non amava i suoi figli? Sì, ma da
libero, da uomo memore che bisogna essere prima di tutto caro agli dèi. Per
questo non trasgredì nessuno dei doveri dell'uomo buono, né parlando in sua
difesa, né stabilendo la pena contro se stesso, né, ancor prima, mentre era
buleuta o soldato.
Noi, invece, ci procuriamo contenti ogni pretesto per essere ignobili, — e per
alcuni sarà il figlio, per altri la madre, per altri i fratelli. Eppure nessuno ha
da essere per noi motivo di infelicità, anzi, tutti devono essere motivo di
felicità, specie il dio che ci ha disposto a tal fine. Suvvia, Diogene non amava
nessuno, egli, così mite e umano che per la comunità degli uomini sottopose
di buon grado il suo corpo a tante fatiche e a stenti? Ma li amava in che
modo? Come conveniva a un ministro di Zeus: se ne prendeva sì cura, ma
insieme rimaneva sottomesso al Dio. Per questo ogni terra gli era patria, e a
lui solo, e nessuna a preferenza delle altre: preso prigioniero non rimpiangeva
Atene, né i conoscenti di lì e gli amici, ma si metteva a vivere coi pirati stessi
e tentava di correggerli. Più tardi, venduto a Corinto, viveva com'era vissuto
prima in Atene e se anche fosse arrivato tra i Perrebi, avrebbe fatto lo stesso.
Così si conquista la libertà. Per ciò diceva: «Da quando Antistene mi ha fatto
libero, non sono stato più schiavo». E come lo fece libero?
Senti che dice: «M'insegnò quel che era mio e quel che non era mio. Gli
averi non sono miei: i consanguinei, i familiari, gli amici, la reputazione, i
luoghi consueti, la compagnia degli uomini, tutte queste cose sono altrui. 'Ma
proprio tuo, allora, che cos'è? L'uso delle rappresentazioni.' E tale uso mi fece
vedere che io lo possiedo libero da impedimenti, da costrizioni: nessuno può
intralciarmi, nessuno può spingermi con la forza a farmi usare le mie
rappresentazioni diversamente da come voglio. Chi dunque ha ancora
dominio su me? Filippo o Alessandro o Perdicca o il Gran Re?
come potrebbero? Chi si lascia superare dall'uomo, deve essere superato
molto prima dalle cose.» Perciò, chiunque non si lascia vincere né dal
piacere, né dalla fatica, né dalla fama, né dalle ricchezze, e può, quando gli
piaccia, andarsene, sputando il suo miserabile corpo tutt'intero in faccia a
qualcuno, di chi è ancora schiavo? A chi è sottoposto?
Ma se viveva volentieri in Atene, ed era soggetto a un certo tenore di vita, le
sue cose erano in potere di chiunque, e uno più forte sarebbe stato padrone di
causargli dolore.
Pensi come avrebbe adulato i pirati perché lo vendessero a un ateniese,
perché vedesse una buona volta il Pireo splendido, e le lunghe Mura, e
l'Acropoli? Ma chi saresti stato guardandole, o schiavo? Un servo, un tapino.
E quale giovamento ne avresti avuto? — Nessuno, ma sarei stato un uomo
libero. — Mostrami in che modo libero. Ecco, ti tiene stretto quegli, chiunque
sia, che ti strappa dal solito tenore di vita e dice «sei mio schiavo: dipende da
me proibirti di vivere come vuoi, da me rilassare i legami, da me umiliarti:
quand'io voglio, ti allieterai ancora ed esultante te ne tornerai ad Atene». Che
dici a costui che ti riduce in schiavitù? Chi puoi presentargli come
emancipatore? O non osi levargli neppure gli occhi in faccia, ma, lasciando i
molti discorsi, lo supplichi di liberarti? Uomo, con viso gioioso devi
incamminarti per la galera, affrettandoti, precedendo chi ti conduce. Ecco,
non sai deciderti a vivere in Roma e desideri l'Ellade? E quando devi morire,
anche allora scoppierai a piangere dinanzi a noi, che non puoi vedere Atene e
neppure passeggerai per il Liceo?
Per questo ti sei allontanato dal tuo paese? Per questo hai cercato di
incontrarti con qualcuno da cui trarre profitto?
Quale profitto? Di risolvere più speditamente i sillogismi o di esaminare gli
argomenti amfibologici? E hai lasciato fratelli, patria, amici, familiari per
tornare con un corredo di siffatte nozioni? Sicché non ti allontanavi da casa
per acquistare la costanza di carattere e l'imperturbabilità? non perché,
immunizzato contro ogni danno, non accusassi nessuno, non biasimassi
nessuno, nessuno ti offendesse e così mantenessi le tue relazioni senza alcun
impedimento? Un bel commercio è quello che hai organizzato, sillogismi,
argomenti equivoci e ipotetici! E se ti piace, mettiti seduto nel mercato e da'
le tue prescrizioni, come chi spaccia rimedi. Non negherai di conoscere anche
quel che hai imparato per non accusare d'inutilità i princìpi filosofici? Che
male t'ha fatto la filosofìa? In che t'ha fatto torto Crisippo perché con la tua
condotta criticassi come inutili le sue fatiche? Non ti bastavano tutti i mali
che avevi in casa e che ti erano cagione di dolore e di pianto, anche se non te
ne allontanavi, ma te ne sei tirati addosso degli altri? Se aumenti il numero
dei tuoi familiari ed amici, ti procurerai motivi maggiori di gemere: lo stesso
se ti attacchi a un'altra terra. E perché vivi? Per ammucchiare intorno a te
dolori su dolori e renderti così disgraziato? E questo me lo chiami affetto per
i tuoi? Quale affetto, uomo? Se è bene, non deve essere causa di male alcuno:
se è male, non ha niente a che fare con me. Io sono nato per i miei beni, ma
per i mali, no, non sono nato.
Quale esercizio si richiede, dunque, a questo scopo? In primo luogo,
quell'esercizio principale e importantissimo che si trova subito, quasi sulla
soglia e cioè di non ritenere inalienabile l'oggetto a cui ti affezioni, ma nello
stesso conto d'una pignatta o d'un bicchiere di vetro, sicché, caso mai vada in
frantumi, tu, ricordandone la natura, non ne rimanga turbato.
Cosi pure nel nostro caso: se baci il tuo figliolo, o il fratello o l'amico, non
abbandonare la tua fantasia a ogni sogno e non lasciare che la tua contentezza
si sbrigli dove vuole, ma reprimila, moderala, come fanno quelli che stanno
dietro al trionfatore ricordandogli che è uomo. Qualcosa di simile ricorda
anche tu: che ami un oggetto mortale, che ami un oggetto non tuo: ti è stato
concesso per il momento, e non in maniera inalienabile né per sempre, ma,
come il fico, come l'uva, in una determinata stagione dell'anno; quindi, se ne
senti la brama d'inverno, sei pazzo. Così se desideri un figlio o un amico
quando non t'è concesso, sappi che brami un fico d'inverno. In realtà, quel
che é l'inverno rispetto al fico lo è ugualmente ogni circostanza prodotta
dall'universo rispetto a quanto essa esige ci sia strappato.
Del resto, nel momento stesso in cui godi di qualcosa, póniti davanti alla
mente le rappresentazioni contrarie. Che male c'è se nel baciare il tuo figliolo
dica balbettando: «domani morrai»? e così con un amico: «domani partirai o
tu o io, e non ci vedremo più»? — Ma tutto ciò è di cattivo augurio, —
Anche alcuni incantesimi lo sono, ma siccome fanno bene non me ne curo:
purché, però, facciano bene. E tu chiami di cattivo augurio cose diverse da
quelle che indicano un male? Di cattivo augurio è la vigliaccheria, di cattivo
augurio l'ignobiltà, il gemito, il dolore, l'impudenza: ecco le parole di cattivo
augurio. E tuttavia non bisogna neppure esitare a pronunciarle per tenerci in
guardia contro le cose. Mi dici di cattivo augurio una parola che indica un
processo naturale? dì allora di cattivo augurio anche il mietere le spighe,
perché significa la distruzione delle spighe: già, ma non dell'universo. Dì
allora di cattivo augurio anche il cader delle foglie o il seccarsi del fico e
l'appassirsi dell'uva. Si tratta, in tutti questi casi, di mutamenti da uno stato
precedente in uno diverso: non distruzione ma un'ordinata disposizione e
amministrazione. Tale è l'andar via dal proprio paese, un piccolo mutamento:
tale è la morte, un mutamento più grande, ma non da ciò che al presente è,
verso il nulla, ma verso ciò che al presente non è. «Non sarò più allora?» No:
ma sarai una cosa diversa da quella di cui al presente il mondo ha bisogno.
Perché anche tu nascesti non quando hai voluto, ma quando il mondo ebbe
bisogno.
Perciò, l'uomo di perfetta virtù, ricordando chi è e donde è venuto e da chi è
stato generato, è tutto proteso a questo solo, ad assolvere il suo compito in
maniera disciplinata e docile a Dio. «Vuoi che io rimanga ancora?» Da uomo
libero, da uomo generoso, come tu hai voluto, perché, in quel che è mio, mi
hai fatto libero da impedimenti. Ed ora non hai più bisogno di me? Con
buona fortuna per te! Sono rimasto fino a questo momento per te, e non per
altri: ora, obbediente a te, mi ritiro» «Come ti ritiri?» «Ancora una volta,
come tu hai voluto: da libero, da ministro tuo, da uomo che si rende conto dei
tuoi ordini e delle tue proibizioni. E fin quando continuerò a vivere tra le cose
tue, chi vuoi che io sia?
magistrato o cittadino privato? senatore o plebeo? soldato o comandante?
precettore o capo di casa? Il posto e l'ufficio che m'hai dato, come dice
Socrate, morirò mille volte prima di abbandonarlo. Dove vuoi ch'io stia? A
Roma, o ad Atene, o a Tebe o a Giaro? Solo, ricordati di me in quel luogo. Se
mi mandi dove non c'è possibilità di vivere in maniera conforme alla natura
umana, me ne andrò, non disobbedendoti, ma come se tu mi dessi il segnale
della ritirata. Non ti abbandono — non sia mai! — ma mi rendo conto che
non hai bisogno di me. Se invece è possibile vivere conforme a natura, non
cercherò altro luogo da quello in cui mi trovo, né altri uomini da quelli coi
quali mi trovo.»
Questi pensieri ti siano presenti di notte, lo siano di giorno: scrivili, leggili,
intorno a essi fa' conversazione da solo a solo, con un altro: «Puoi aiutarmi in
questo?»
Poi avvicinati a un altro e a un altro ancora. E se succede uno di quei casi
cosiddetti indipendenti dalla volontà, subito il pensiero che non era
inaspettato sia il primo a darti sollievo. Di grande utilità è in tutte le cose
poter dire: «Sapevo d'aver generato un mortale». Così dirai anche tu: e inoltre
«sapevo d'essere mortale» e «sapevo ch'avrei potuto lasciare la mia terra »,
«sapevo ch'avrei potuto essere cacciato in esilio», «sapevo ch'avrei potuto
essere gettato in prigione». Se poi rifletterai in te stesso e cercherai l'origine
di quel caso, ti ricorderai subito che ha la stessa provenienza dei fatti
indipendenti dalla volontà, dei fatti, cioè, che non sono in mio potere. Quindi,
che relazione ha con me? C'è poi l'argomento più importante: «Chi l'ha
mandato?» II sovrano o il comandante, lo Stato o la legge dello Stato.
«Dammelo, perché io devo sempre obbedire alla legge in ogni occasione.»
Poi, quando la immaginazione ti morde (che questo non dipende da te)
combàttila con la ragione, debellala: non lasciar che acquisti forza o che vada
avanti, passo per passo, rappresentandosi quanto vuole e come vuole. Se stai
a Giaro, non immaginarti la vita di Roma e gli svaghi di chi ci vive e quelli
che godresti anche tu col tuo ritorno, ma sii tutto proteso a vivere con
coraggio a Giaro, come s'addice a chi vive a Giaro. E se vivi a Roma, non
immaginarti la vita di Atene, ma bada soltanto a quella di lì.
E al posto di tutti gli altri svaghi opponi quello derivante dalla
consapevolezza che tu obbedisci a Dio e che non a parole ma a fatti adempì il
dovere dell'uomo di perfetta virtù. Quant'è bello poter dire a se stesso: «quel
che in gli altri adesso nelle loro dissertazioni magnifìcano di parole, credendo
di affermare l'incredibile, io lo compio: essi pure, seduti ai loro banchi,
analizzano le mie virtù, fanno ricerche su me, mi esaltano: di tutto questo
Zeus volle che proprio io dessi una dimostrazione in me; volle inoltre sapere
se aveva un soldato come si deve, un cittadino come si deve, e volle
presentarmi agli altri uomini, per dare loro una testimonianza riguardo ai casi
indipendenti dalla volontà umana: 'vedete che avete paura senza ragione, che
invano desiderate ciò che desiderate. Non cercate di fuori il bene, cercatelo in
voi stessi: se no, non lo troverete'. Per questo adesso mi conduce qua, adesso
mi manda là, mi mostra povero agli uomini, senza una carica, ammalato: mi
invia a Giaro, mi caccia in galera. Non per odio: non sia mai! — e chi può
odiare il migliore dei suoi servi? — non per trascuratezza — perché, certo,
Egli non trascura neppure la più umile delle creature, ma per esercitarmi, ed
usare di me come testimone agli altri. Posto a un servizio siffatto, continuerò
a pensare dove sono o con chi o che cosa dicono di me? Non sono tutto
proteso verso Dio, verso i suoi comandi, verso i suoi ordini?.
Se avrai queste massime costantemente presenti, se le mediterai sempre con
te stesso e te le porrai a portata di mano, non avrai più bisogno di chi ti
consoli né di chi ti faccia forza. Perché brutto non è non aver da mangiare,
ma non aver un ragionamento capace di allontanare la paura e l'affanno. Una
volta immunizzato contro l'affanno e la paura, ci sarà più per te tiranno o
guardia o cesariano, soffrirai perché uno è stato nominato funzionario o
perché altri sacrificano sul Campidoglio nell'atto di prender possesso della
loro carica, tu, che hai ricevuto sì importante autorità da Zeus? Solo, non
vantartene, non esserne vanaglorioso, ma mostrala con la tua condotta: e se
nessuno se ne accorge, contentati di vivere sano e felice.
Non ti vergogni d'essere più vile e ignobile degli schiavi fuggitivi? Come
fanno questi, quando si danno alla fuga e lasciano i padroni, su quali campi si
fondano, su quali servi? Non si procurano di nascosto quel poco che basti per
i primi giorni e poi si spingono per terra e per mare, escogitando artifìci su
artifici per sostenersi? E quale mai fuggitivo è morto di fame? E tu tremi che
t'abbia a mancare il necessario e passi le notti insonni. Disgraziato, così cieco
sei e non vedi la via, dove conduce la mancanza del necessario? Dove
conduce? Dove conduce anche la febbre, un sasso che ci colpisce: alla morte.
E questo non l'hai detto varie volte tu stesso agli amici, non le hai spesso lette
tali cose, non le hai spesso scritte? Quante volte ti sei vantato che a morire,
per lo meno, eri convenientemente disposto? — «Si: ma i miei soffriranno la
fame.» Ebbene? Forse la loro fame conduce in qualche altro posto? Non è per
caso la stessa discesa? Gli inferi non sono gli stessi? Non vuoi figgere laggiù
gli occhi, intrepido contro ogni povertà e ogni bisogno, laggiù dove hanno da
discendere anche i ricchissimi, e quelli che coprono le cariche più alte e gli
stessi re e i tiranni e anche tu, affamato, se così vuole il destino, essi, invece,
mentre scoppiano d'indigestione e d'ubriachezza? T'è stato mai facile vedere
un pezzente che non fosse vecchio? o non era invece decrepito? Pur passando
al gelo notte e giorno, buttati in terra e cibandosi giusto di quanto è
necessario, si riducono a tal punto da non poter neanche morire: e tu, uomo
fìsicamente perfetto, con mani e piedi, temi tanto la fame? Non sei in grado
di attinger acqua, non di scrivere, non di fare il pedagogo, non di guardare le
porte degli altri? «Ma è turpe abbassarsi a questa necessità». Impara prima
quali sono le cose turpi e poi dicci che sei filosofo. Per il momento, non farlo
dire neppure a un altro.
Turpe è per te una cosa che non ti appartiene, della quale non sei tu la causa,
che ti ha colpito a tua insaputa, come un dolor di testa o la febbre? Se i tuoi
genitori erano poveri, ovvero, erano si ricchi, ma hanno lasciato eredi altre
persone, e, pur in vita, non ti sovvengono in nulla, è forse turpe tutto questo
per te? E questo imparavi dai filosofi? Non hai mai sentito che quel che è
turpe è biasimevole, e che quel che è biasimevole merita biasimo? E chi puoi
biasimare per un'azione che non gli appartiene, che neppure ha compiuto? È
forse opera tua che tuo padre abbia un'indole siffatta? O ti è lecito riformarlo?
Ti è concesso? Ebbene? Devi proprio volere quel che non ti è concesso, o,
non ottenendolo, vergognartene? Cosi, dunque, con tutto il tuo filosofare, ti
sei abituato a guardare gli altri e a non sperare niente da te stesso? E allora
singhiozza e gemi e mangia, pieno di timore che non abbia cibo domani:
trema per i miserabili schiavi, che ti rubino qualcosa, che ti fuggano, che
muoiano. Vivi dunque così, e non aver mai tregua, tu che solo a parole ti sei
accostato alla filosofìa e i suoi principi, per quanto è in te, hai disonorato,
dimostrandoli inutili e dannosi a chi li accoglie: tu non hai mai desiderato la
fermezza d'animo, l'imperturbabilità, l'impassibilità: per questo scopo non hai
mai frequentato nessuno, ma per i sillogismi molti: non hai mai provato
attentamente da te alcuna delle tue rappresentazioni:
«sono in grado di sostenerla o no? che mi rimane?» ma come se tutto stesse
bene e al sicuro, ti sei spinto subito all'ultimo punto, quello che riguarda
l'incrollabilità, per avere incrollabile che cosa? La codardia, l'ignobiltà,
l'ammirazione per i ricchi, il desiderio irrealizzato, l'avversione inefficace:
ecco le cose della cui sicurezza ti davi pensiero.
Non dovevi far dapprima qualche acquisto dalla ragione e poi renderlo
saldo? Hai visto mai costruire un fregio per disporlo intorno a un muro
inesistente? E quale portiere vien messo a guardia d'una porta inesistente? Ma
tu badi a poter dimostrare, che cosa? Badi che i sofismi non ti scuotano, da
che cosa? Mostrami prima che custodisci, che misuri, che pesi, e poi, a queste
condizioni, fammi vedere la bilancia o il medimmo. O fino a quando
misurerai la polvere? Non devi mostrare ciò che fa gli uomini felici, che da
alle loro cose l'andamento ch'essi vogliono, per cui non devono biasimare
nessuno, accusare nessuno, ma obbedire all'amministrazione dell'universo?
Questo mostrami. «Ecco: te lo mostro, dice uno, ti risolverò i sillogismi». Ma
questa è la misura, schiavo, non è il misurato. Per ciò adesso paghi il fio
d'aver trascurato qualcosa: tremi, passi le notti insonni, ti consigli con tutti; e
se i tuoi disegni non dovessero piacere a tutti, li riterresti cattivi.
E poi temi la fame, come sembra. Eppure non è la fame che temi: piuttosto,
hai paura di non avere il cuoco, un servo che pensi alle provviste, un altro che
ti calzi, un altro che ti vesta, altri che ti massaggino, altri che ti seguano,
perché nel bagno, spogliato e disteso come chi è crocifìsso, sia massaggiato
di qua e di là, mentre l'alipte, standoti presso, dice:
«Voltati, dammi il fianco, tu prendigli la testa, porgimi la spalla», e poi,
tornato dal bagno in casa, strepiti «nessuno porta da mangiare?» e più tardi,
«sparecchia: lava la tavola con la spugna.» Questo temi — di non poter
vivere una vita da malato, laddove impara la vita dei sani, come la vivono gli
schiavi, come la vivono i lavoratori, come chi filosofa davvero, come la visse
Socrate — e aveva moglie e figli —, come la visse Diogene, come Cleante
che andava a scuola e insieme attingeva acqua. Se vuoi ottenere ciò,
dappertutto l'otterrai e vivrai pieno di fiducia. In che? Nell'unica cosa in cui è
possibile aver fiducia, in ciò che è leale, scevro da impedimenti, inalienabile
e cioè la tua libera volontà. Perché ti sei fatto così inutile e vano che nessuno
vuole accoglierti in casa, nessuno prendersi cura di te? Eppure uno strumento
sano e utile, quand'è gettato via, chiunque lo trovi lo raccatterà e lo riterrà un
guadagno, te, al contrario, nessuno riterrà guadagno, ma ciascuno un danno.
Così non puoi offrire neppure l'utilità d'un cane o d'un gallo. E perché vuoi
ancora vivere, essendo qual sei?
Quale uomo bravo teme che gli manchi il cibo? Ai ciechi non manca, agli
zoppi non manca, mancherà all'uomo bravo?
Ma al bravo soldato non manca chi l'assoldi e neppure al lavoratore, né al
calzolaio: e all'uomo bravo mancherà? E Dio trascura in tal modo le sue
creature, i ministri, i testimoni, dei quali soltanto si serve per mostrare agli
incolti che egli esiste, e bellamente governa l'universo, e non trascura gli
affari umani e che per l'uomo bravo niente è male né in vita né in morte?
«Va bene: ma quando non mi procura il cibo?» Che altro fa se non darmi il
segnale della ritirata, come un bravo comandante? Io obbedisco, e seguo
applaudendo il mio capo, esaltando le sue opere. Perché son venuto quando
Egli ha stabilito e me ne torno adesso che Egli stabilisce; in vita questo fu il
mio compito, esaltare Dio e da solo e cogli altri — sia uno, siano molti. Non
mi da molto, né in abbondanza, non vuole ch'io viva mollemente: ma neppure
a Eracle lo dava, al figlio suo, che anzi un altro era re di Argo e di Micene, e
lui riceveva gli ordini, s'affaticava, si esercitava. Ed Euristeo, chiunque fosse,
né di Argo né di Micene era re, egli che neppure di se stesso lo era: ma Eracle
fu signore e guida di tutta la terra e del mare, la purificò dall'ingiustizia e
dall'illegalità, v'introdusse giustizia e purezza: e tutto questo compieva nudo e
solo. E Odisseo, quando fu gettato naufrago sulla spiaggia, forse che la
povertà lo umiliò, forse che lo infranse? Ma come si presentò alle vergini per
chiedere il necessario? — e sì che mendicare da un altro il necessario pare
davvero la cosa più vergognosa. — Come leone nutrito sui monti.
Su che si fondava? Non sulla gloria, non sulle ricchezze, non sulle cariche,
ma sulla sua forza e cioè sui giudizi ch'aveva di ciò che dipende e non
dipende da noi. È solo questo che rende liberi, non soggetti a impedimenti,
che leva in alto il collo degli umiliati, che fa guardare in faccia i ricchi e i
tiranni con occhi imperterriti. Ed è questo il dono del filosofo: e tu non verrai
avanti con coraggio, ma tutto tremante per le tue vesti meschine, per le tue
meschine argenterie?
Disgraziato, in tal modo hai sciupato finora il tuo tempo?
«Va bene: ma sé cadrò malato?» «Cadrai malato come si deve.» «E chi mi
curerà?» «Dio, gli amici.» «II mio giaciglio sarà duro.» «Ma da uomo.» «Non
avrò un'abitazione confortevole.» «T'ammalerai in un'abitazione non
confortevole.»
«Chi mi farà da mangiare?» «Chi lo fa agli altri: starai male come Mane.»
«E qual è il termine della malattia?» «Quale altro se non la morte? Rifletti
che per l'uomo il colmo d'ogni male, della ignobiltà, della vigliaccheria non è
la morte bensì il timore della morte? Contro questo timore, ti prego,
esercitati, ad esso siano rivolti tutti i discorsi, gli esercizi, le letture, e ti
renderai conto che così soltanto gli uomini acquistano la libertà.»
SULLA LIBERTA’
Libero è chi vive come vuole, chi non può essere costretto né ostacolato né
forzato, i cui impulsi sono privi di impedimenti, i cui desideri raggiungono il
segno e le avversioni non incorrono in ciò da cui rifuggono. Chi vuol vivere
in errore? Nessuno. Chi vuol vivere facendosi ingannare, agendo
temerariamente, essendo ingiusto, sfrenato, scontento della propria sorte,
meschino? Nessuno. Ma nessun uomo dappoco vive come vuole: dunque
neppure è libero. E chi vuole vivere addolorato, intimorito, invidiando,
compassionando, desiderando senza ottenere, avversando qualcosa e
cadendoci dentro? Nessuno. E troviamo un uomo dappoco che non ha dolore
o paura, che non incorre in ciò da cui rifugge, che ottiene ciò che vuole?
Nessuno. Dunque non è neppure libero.
Qualora codeste parole le ascolti uno che è stato console due volte, se
aggiungi: «tu, però, sei saggio e non hanno niente a vedere con te» allora ti
perdonerà: ma se gli dici la verità e cioè «in fatto di schiavitù non c'è
differenza alcuna tra te e quelli che sono stati venduti tre volte» che cos'altro
dovrai aspettarti se non le busse? «Come? Sono schiavo io? — dirà.
Mio padre è libero, mia madre libera: nessuno m'ha comprato, anzi sono
senatore e amico di Cesare: sono stato console e molti schiavi possiedo.» In
primo luogo, ottimo senatore, tuo padre era probabilmente schiavo della tua
stessa schiavitù e anche la madre e il nonno e, per ordine, tutti gli antenati. Se
poi erano in sommo grado liberi, che ha da vedere con te questo? E che? se
essi erano nobili e tu ignobile? essi impavidi e tu vigliacco? essi temperanti e
tu dissoluto?
«Ma che ha da vedere questo, dirà, con la condizione il di servo?» «Secondo
te, non ha da vedere niente con la condizione di servo, agire contro voglia,
costretto, gemendo?» «Va bene, riprende: ma chi mi può costringere se non
Cesare, padrone di tutti?» «Dunque, d'avere un padrone, l'hai ammesso tu
stesso: che sia padrone comune di tutti, come dici, non ti sia un conforto, ma
riconosci di essere schiavo in una grande casa. Allo stesso modo, anche i
Nicopolitani sogliono gridare: 'Per la fortuna di Cesare siamo liberi'».
Tuttavia, se ti piace, mettiamo per il momento da parte Cesare e dimmi
piuttosto: Non sei mai stato innamorato di qualcuno? D'una ragazzetta, d'un
ragazzetto, d'uno schiavo, d'un libero? «Ma che ha da vedere questo con
l'essere schiavo o libero?» — E dall'innamorata non t'è stata mai imposta
un'azione che non volevi? Non hai mai adulato il tuo schiavetto? Non gli hai
mai baciato i piedi? Eppure, se ti si costringesse a baciare quelli di Cesare, lo
riterresti un oltraggio e il colmo del despotismo. Che altro è la schiavitù? Di
notte non sei mai andato dove non volevi? Non hai mai speso quel che non
volevi? Non hai mai parlato tra gemiti e pianti, non hai mai sopportato
oltraggi, non sei mai stato messo alla porta? Ma se ti vergogni di confessare
le tue bravure, guarda quello che dice e fa Trasonide che pure ha fatto più
campagne militari di te, probabilmente: prima di tutto esce di notte quando
Geta non osa uscire, o se talora è costretto dall'altro, esce dopo aver molto
imprecato e maledetto la sua triste schiavitù. E che dice? Ecco:
M'ha fatto schiavo una ragazza vile assai ciò che nessuno dei nemici mai
potè.
Disgraziato, che sei schiavo d'una ragazza e, per di più, d'una ragazza molto
vile. E perché continui a dirti libero?
perché vanti le tue campagne? E poi chiede la spada e si adira con chi per
prudenza non gliela da e invia regali alla ragazza che lo detesta, supplica e
piange: poi, dopo un piccolo successo, va in superbia. A meno che proprio
allora non sapesse più come si fa per non aver desideri e timori, costui
possedeva la libertà?
Considera, a proposito degli animali, in che senso usiamo il concetto di
libertà. Alcuni allevano leoni addomesticati dopo averli chiusi in gabbia,
danno loro da bere, e c'è chi se li porta pure a spasso. Ma chi dirà che questo
leone è libero? Non è invece tanto più schiavo quanto più la sua vita è molle?
E quale leone in possesso di sentimento e di ragione vorrebbe essere uno di
codesti leoni?
E poi, quegli uccelli che, presi e messi in gabbia, vengono allevati, che cosa
soffrono nel tentativo di fuggire? Ce ne sono alcuni che si lasciano morire di
fame pur di non adattarsi a siffatta esistenza: quanti poi continuano a vivere
lo fanno a stento, con difficoltà, struggendosi, e se trovano un piccolo
pertugio, si lanciano subito fuori. Tanto è il loro desiderio di avere la libertà
naturale, di essere indipendenti e non impediti! Che male c'è per te in questo?
«Come parli?
Sono nato per volare dove voglio, per vivere sotto la volta celeste, per
cantare quando voglio — tu mi strappi tutto e dici: «che male c'è?».
Per questo diremo liberi solo quegli animali che non si assoggettano alla
cattività, ma, appena catturati, la fuggono con la morte. Così anche Diogene
dice in un punto che c'è un mezzo solo per raggiungere la libertà ed è di esser
sempre pronti a morire contenti. E al re dei Persiani scrive: «Lo stato degli
Ateniesi, non lo puoi ridurre in schiavitù, non più che i pesci.» — «Come?
Non li prenderò? » — « Se li prendi, dice, ti lasceranno subito e se ne
andranno via, come i pesci. Infatti, se prendi un pesce, muore: così, se pure
questi muoiono, una volta presi, quale utile ti verrà dalla tua spedizione
militare?». Ecco la voce d'un uomo libero, che ha esaminato con cura la
faccenda e ha trovato la soluzione come si doveva. Ma se la cerchi dove non
sta, qual meraviglia se non la trovi mai?
Lo schiavo fa voti d'esser lasciato subito libero. Perche? Secondo voi
desidera versare il denaro agli appaltatori delle vigesime? Nient'affatto.
Piuttosto, egli immagina che fino a questo momento, per non aver ottenuto la
libertà, è impedito e sfortunato. «Se vengo affrancato, dice, ecco
immediatamente la felicità completa; non mi prendo più cura di nessuno,
rivolgo la parola a tutti da pari e uguale, viaggio dove voglio, vengo donde
voglio e dove voglio.» Poi è messo in libertà, ed ecco che non ha più da
mangiare e cerca chi possa adulare, da chi possa pranzare: e allora, o fa
scempio del corpo sottoponendosi a ogni vergogna e, se anche si procura una
greppia, cade in una schiavitù molto più dura della precedente, oppure, se
acquista una certa agiatezza, da quell'uomo sciocco che è, si da all'amore di
una ragazzetta e, non ottenendolo, si dispera e rimpiange la schiavitù.
«Infine, che male avevo? Era un altro a vestirmi, un altro a calzarmi, un altro
a nutrirmi, un altro a curarmi, quando cadevo malato, e a ben poco si
riduceva il mio servizio per lui. Ora, invece, disgraziato, quanto soffro,
schiavo non di uno ma di tanti! Eppure, continua, se riesco ad ottenere
l'anello, allora vivrò in piena serenità e felicità.» E dapprima, per ottenerlo,
subisce quel che si merita: ottenutolo, poi, siamo daccapo. E poi dice: «Se
partecipo a una campagna militare, sarà la liberazione da tutti i mali». Va in
guerra, soffre quel che può soffrire un mariolo e nondimeno cerca una
seconda campagna e una terza. Alla fine, quando ha raggiunto proprio il
culmine ed è diventato senatore, allora è uno schiavo che va in Senato, allora
è schiavo della schiavitù più splendida e magnifica.
Badi a non essere più sciocco, e impari piuttosto, come diceva Socrate, la
natura di ogni cosa, e adatti non a sproposito le prenozioni ai casi particolari.
Perché è questa la causa di tutti i mali degli uomini, non riuscire ad adattare
le prenozioni comuni alle cose particolari. Noi, invece, pensiamo chi a una
causa, chi a un'altra. Per costui è star male.
Nient'affatto: è che non adatta le prenozioni. Per quello è andar pitoccando:
per quello aver un padre o una madre arcigna, per quell'altro non godere i
favori di Cesare. E invece la causa è sempre la stessa e unica, non saper
adattare le prenozioni. E infatti, chi non ha la prenozione del male, che il
male è una cosa dannosa, da fuggirsi, da rimuoversi in ogni modo?
Prenozione non contraddice a prenozione, se non si venga ad applicarle. Qual
è, dunque, questo male dannoso e da fuggirsi? Secondo costui non essere
amico di Cesare: è fuori strada, ha sbagliato la giusta applicazione, si
angustia, va in cerca di cose che non hanno niente a che fare con l'argomento,
perché, ottenuta l'amicizia di Cesare, non ha ottenuto, nondimeno, quel che
cercava. In realtà, cos'è quel che ognuno cerca? Essere tranquillo, essere
felice, far tutto a proprio piacere, non soffrire impedimenti né costrizioni.
Dunque, quando è diventato amico di Cesare, cessano per lui gli ostacoli,
cessano le costrizioni, è tranquillo, è sereno? A chi lo chiediamo? Chi
abbiamo più fededegno di quello stesso ch'è diventato amico di Cesare?
Vieni avanti e dicci quando dormivi più placido, adesso o prima di diventare
amico di Cesare? Ecco la sua risposta prontissima: «basta, per gli dèi, ti
prego, di schernire la mia sorte! non sai le mie sofferenze, disgraziato! Il
sonno non mi visita più, ma arrivano, uno dopo l'altro, e mi dicono: 's'è già
svegliato, già esce'. E allora imbarazzi, allora preoccupazioni.» Suvvia:
quando pranzavi con più gioia, adesso o prima?
Ascolta che dice anche a questo proposito: se non è invitato si tortura, se è
invitato, pranza come uno schiavo presso il padrone, badando, nel mentre, a
non dire né a commettere qualche sciocchezza. E che teme, secondo te?
D'essere fustigato come uno schiavo? E donde a lui un timore d'una fine tanto
bella? Piuttosto, come si conviene a un uomo del suo calibro, amico di
Cesare, egli teme di lasciarci la testa. Quando prendevi il bagno più
placidamente? Quando t'esercitavi più liberamente? Insomma, quale vita
preferiresti vivere, quella di adesso o quella d'un tempo? Posso giurare che
nessuno è tanto insensato o bugiardo da non lamentarsi delle sue disgrazie,
quanto più è amico di Cesare.
Ora, dal momento che i cosiddetti re non vivono come vogliono e neppure
gli amici dei re, c'è ancora chi è libero?
Cerca e troverai, che la natura t'ha dato i mezzi per scovare la verità. Se poi
non sei in grado da te, impiegando solo queste risorse, di giungere a una
conclusione, ascoltala da quelli che hanno già fatto la ricerca. Che dicono?
«Ti sembra un bene la libertà?» — «II più grande.» — «E chi ottiene il bene
più grande, può essere infelice o star male?» «No.» —
«Dunque, quanti vedi infelici, inquieti, gemebondi, afferma pure senza
esitare che non sono liberi.» — «L'affermo.» —
«Prescindiamo, quindi, ormai, da quel che può essere vendita o compera e
altrettanti strumenti riguardanti la proprietà: infatti, posto che quanto hai
ammesso sia giusto, se il Gran Re è infelice, non è libero, e neppure un
piccolo re o chi è stato console una volta o due.» — «Sia pure».
Rispondimi ancora a questa domanda: «Ti sembra una cosa grande e nobile
la libertà? una cosa preziosa?» «Come no?»
— «E chi ottiene una cosa tanto grande, tanto preziosa, tanto nobile, può
essere meschino?» — «Non è possibile» — «Allora, quando vedi uno che si è
assoggettato a un altro o lo adula contro le sue convinzioni, dì senza esitare
che anche costui non è libero: e non soltanto se agisce così in vista d'un
pranzetto, ma anche d'una provincia o d'un consolato.
Piuttosto chiama schiavi in stile ridotto quelli che agiscono in tal modo per
piccole cose, gli altri, com'è giusto, schiavi in grande stile.» «Ammettiamo
anche ciò.» «Non ti sembra che la libertà consista nella piena padronanza, nel
pieno arbitrio di se stessi?» «Come no?» «Dunque, colui che è in potere altrui
impedire e costringere, dì pure senza esitare che non è libero. E non guardare,
per favore, gli avi suoi o i proavi, né cercarne l'atto di vendita o di compera,
ma se gli senti dire dal profondo del petto e con commozione 'padrone', anche
se lo precedono dodici fasci, chiamalo schiavo. E se gli senti dire 'disgraziato
me! che soffro', chiamalo schiavo. E, insomma, se lo vedi piangere,
biasimare, essere inquieto, chiamalo schiavo adorno di pretesta.
Se poi non fa niente di tutto questo, non dirlo ancora libero, ma cerca di
conoscerne i giudizi, se in qualche modo sono soggetti a costrizioni, a
impedimenti, a turbamenti. E se lo trovi così, chiamalo schiavo in ferie per i
Saturnali: dì che il padrone è andato via: quando tornerà, conoscerai la sua
condizione.» «Chi tornerà?» «Chiunque ha il potere su qualcuna delle cose
che egli vuole, o di procurargliela o di strappargliela.» «Così, dunque,
abbiamo tanti padroni?» «Proprio così.
Perché le cose abbiamo innanzi tutto come padroni — e son molte —:
attraverso le cose, necessariamente, saranno nostri padroni quelli che su
qualcuna di esse hanno potere. Certo, nessuno teme Cesare per se stesso, ma
la morte, l'esilio, la confisca dei beni, la galera, l'ignominia. E nessuno ama
Cesare, a meno che non sia degno di grande stima, bensì la ricchezza
amiamo, il tribunato, la pretura, il consolato. E quando amiamo o odiamo o
temiamo tali oggetti, necessariamente saranno nostri padroni quelli che ne
dispongono. Per ciò li adoriamo pure come dèi: infatti, pensiamo che è divino
ciò che ha la possibilità di rendere il benefìcio più grande. Quindi
sussumiamo in modo sbagliato: 'ma costui ha la possibilità di rendere il
benefìcio più grande'. Di necessità, però, anche la conclusione di tali
premesse è tratta in modo sbagliato.
Che cosa, dunque, rende l'uomo privo di impedimenti e padrone di se stesso?
Non certo la ricchezza né il consolato né le province né l'impero: bisogna
scovare qualche altra cosa. Ora, riguardo allo scrivere, che cosa ci permette
di farlo senza impedimenti e senza intralci?» — «La scienza dello scrivere.»
— «E riguardo al suonare la cetra?» — «La scienza del suonare la cetra.» —
«Dunque, anche riguardo al vivere, la scienza del vivere. Com'è il principio
in generale, l'hai sentito: consideralo, però, anche nelle sue applicazioni
particolari. Chi desidera cosa dipendente da altri può essere senza
impedimenti?» — «No.» — «Può essere senza intralci?» — «No.» —
«Dunque, neppure libero. Sta bene attento, adesso: non abbiamo proprio
niente dipendente da noi soli? o tutto? ovvero certe cose da noi, certe da
altri?» — «Come dici?» — «Se vuoi che il corpo sia integro, dipende da te o
no?» — «Non dipende da me.» — «E se vuoi star bene in salute?» —
«Neppur questo.» — «E se vuoi esser bello?» — «Neppur questo.» —
«Vivere o morire?» — «Neppur questo.» — «Dunque il corpo è cosa altrui,
soggetta a chiunque sia più potente di te.» — «Va bene.» — «E un campo,
dipende da te possederlo quando vuoi, per quanto vuoi, e come vuoi?» —
«No.» — «Gli schiavi?» — «No.» — «Le vesti?» — «No.» — «Una
casetta?» — «No.» — «I cavalli?» — «Niente di tutto questo.» — «E se vuoi
a ogni costo che i tuoi figli vivano o tua moglie o tuo fratello o gli amici,
dipende da te?» — «Neppur questo». «Dunque, non hai proprio niente
soggetto al tuo potere, dipendente da te solo? O hai qualcosa di questo
genere?» — «Non lo so.» — «Esamina allora in tal modo e osserva. Può
qualcuno farti assentire al falso?» — «Nessuno.» «Dunque, nel campo
dell'assenso, sei privo di impedimenti e di intralci.» — «E sia.» — «Bene: ad
avere l'impulso verso ciò che non vuoi, ti può costringere qualcuno?» — «Sì,
che quando mi minaccia morte o catene, mi costringe a questo.» — «Ma se tu
disprezzi la morte e le catene, gli baderai ancora?» — «No.» — «Ed è affar
tuo disprezzare la morte o no?» — «Mio.» — «Ed è affar tuo anche aver
l'impulso o no?» — «Ammettiamo che sia mio.» — «E rifiutare qualcosa di
chi è? Tuo anche questo.» — «E che succede se io ho l'impulso a camminare
e quello mi impedisce?» — «Quale parte di te impedirà? Forse il tuo
assenso?» — «No, ma il miserabile corpo.» — «Già, al pari di un sasso.» —
«Va bene, però io non cammino più.» — «E chi t'ha detto che camminare è
affar tuo, privo di ostacoli? Io dicevo privo di ostacoli solo aver l'impulso:
dove c'è bisogno del corpo e della sua cooperazione, già da un pezzo hai
sentito che non c'è niente di veramente tuo.» — «Ammettiamo anche
questo.» — «E a desiderare ciò che non vuoi, ti può costringere qualcuno?»
— «Nessuno.» — «E a proporti o a intraprendere qualcosa o, semplicemente,
a usare delle rappresentazioni che ti si presentano, ti può costringere
qualcuno?» — «No davvero: e tuttavia mi potrà proibire di raggiungere,
nonostante il mio desiderio, l'oggetto del mio desiderio.» — «Ma se tu
desideri un oggetto che è proprio tuo e che è quindi privo di impedimenti,
come te lo potrà proibire?» «In nessuna maniera.» — «E chi ti dice che è
privo di impedimenti chi desidera cose altrui?» — «Ma allora la salute non
devo desiderarla?» — «No, e nessun'altra cosa altrui. Quel che non è in tuo
potere procurarti o mantenere quando vuoi, è cosa altrui: lungi da essa non
solo le mani, ma molto prima il desiderio. Altrimenti ti sei fatto schiavo, hai
offerto il collo, se guardi con stupore ciò che non è tuo, se ti senti trasportato
con passione verso qualsiasi cosa soggetta ad altri e mortale.» — «La mano
non è mia?» — «È un membro tuo, ma per natura è fango, soggetto a
impedimenti, a costrizioni, schiavo di chiunque sia più forte. E perché ti
nomino la mano? Tutto il corpo lo devi trattare come un asinello carico, per
quanto tempo è possibile, per quanto tempo è concesso: ma se si fa una
requisizione e un soldato te lo piglia, lascialo, non opporti, non brontolare: se
no, sarai picchiato e perderai nondimeno l'asinello. Ora, se questo dev'essere
il tuo atteggiamento rispetto al corpo, bada che ti resta da fare delle altre
cose, quante cioè si procurano in vista del corpo. Se il corpo è l'asinello, le
altre cose saranno i freni dell'asinello, i basti, i ferri, l'orzo, il fieno. Lascia
anche tutto questo, liberatene con più fretta, con più gioia che non hai fatto
dell'asinello.
Quando ti sarai procurato questa preparazione e ti sarai esercitato a
distinguere le cose altrui dalle tue, le cose soggette a impedimento da quelle
non soggette, e a ritenere le une dipendenti da te, le altre no, e a dirigere
accuratamente il tuo desiderio da una parte, l'avversione dall'altra, c'è ancora
qualcuno che temi?» — «Nessuno.» E in realtà, per che cosa temerai? Per le
cose tue, in cui è la sostanza del bene e del male? E chi ne ha il potere? Chi te
le può strappare? Chi metterci un ostacolo? Non più che non lo si può mettere
a Dio. Temerai forse per il tuo corpo, per i tuoi averi? per cose altrui? per
cose che non hanno niente a vedere con te? E a che altro badavi dapprincipio
se non a distinguere le cose tue e le cose non tue, quelle dipendenti da te e
quelle non dipendenti da te, quelle soggette a impedimento e quelle non
soggette a impedimento? Per quale motivo ti sei accostato ai filosofi? Per
essere nondimeno sfortunato e disgraziato?
Ma in tal caso non sarai senza timore e turbamento. E il dolore, che ha da
vedere con te? Il timore di cose che si aspettano, diventa dolore quando sono
presenti. Ma tu che cosa bramerai ancora? Perché delle cose dipendenti dalla
tua volontà, in quanto ti sono belle e presenti, hai un desiderio moderato e
composto: di quelle indipendenti dalla tua volontà, non senti tale desiderio
per cui si provochino in te certi ardori irrazionali, violenti e oltre ogni misura
impetuosi. Sicché, quando tale è il tuo atteggiamento verso le cose, quale
uomo può ancora metterti paura? Cos'ha di terrificante l'uomo per l'uomo, sia
che gli appaia, o gli parli, o, semplicemente, stia con lui? Non più che il
cavallo per il cavallo, o il cane per il cane, o l'ape per l'ape. Sono le cose
piuttosto che mettono paura a ciascuno, e quando uno le può concedere o
strappare, allora, anche costui mette paura.
In che modo, quindi, si abbatte l'acropoli? Non col ferro, non col fuoco, ma
coi giudizi. Perché, se abbiamo distrutto l'acropoli materiale della città,
abbiamo forse distrutto anche quella che ci oppone la febbre, quella che ci
oppongono le belle ragazze, l'acropoli, insomma, che è in noi, abbiamo
cacciato i tiranni che sono in noi e che teniamo giorno per giorno presso
ciascuno di noi, talvolta gli stessi, tal'altra diversi? Ma di qui bisogna
cominciare, proprio di qui bisogna distruggere l'acropoli e cacciare i tiranni:
tralasciare il miserabile corpo, le sue membra, le facoltà, gli averi, la fama, le
cariche, gli onori, i figli, i fratelli, gli amici e ritenere di altri tutte queste
cose. E se i tiranni sono espulsi di qui, perché assedierò ancora l'acropoli, per
conto mio, almeno? Se resta, che mi fa? Perché caccerò ancora le guardie del
corpo?
Dove ne avverto più la presenza? Per altri essi portano i bastoni, le aste, le
spade. Io non sono stato mai impedito nella mia volontà né costretto contro la
mia volontà. Come sarebbe possibile? Ho unito i miei impulsi a Dio. Egli
vuole ch'io abbia la febbre: anch'io lo voglio. Vuole che imprenda qualcosa:
anch'io lo voglio. Vuole che desideri: anch'io lo voglio.
Vuole che ottenga alcunché: è anche la mia volontà. Non vuole: non è la mia
volontà. Perciò voglio morire: per ciò voglio esser messo alla tortura. Chi può
ancora impedirmi contro la mia opinione o costringermi? Non più che non lo
si potrebbe con Zeus.
Così fanno pure i viaggiatori più prudenti. Uno ha sentito che la strada è
infestata da briganti: non osa mettercisi da solo, ma attende la compagnia
d'un ambasciatore o d'un questore o d'un proconsole e, unendosi a questi,
procede sicuro.
Allo stesso modo agisce il saggio nel mondo. «Molte sono le rapine, i
tiranni, le tempeste, le perplessità, le perdite delle cose più dilette. Dove
rifugiarsi? Come procedere al riparo dai briganti? Quale compagnia attendere
per marciare sicuri?
A chi unirsi? A quello, che è ricco, che è stato console? Che utilità me ne
viene? Ecco: lo spogliano: geme, si lamenta.
E poi, se proprio il mio compagno di viaggio mi si rivolta contro e si mette a
derubarmi? Che farò? Sarò amico di Cesare e come amico di lui nessuno mi
farà torto. Prima di tutto, per diventarlo, quanto devo soffrire e sopportare,
quante volte e da quanti devo essere derubato! Se poi lo divento, egli resta
pur sempre un mortale. E se per una qualche circostanza mi si fa nemico,
dove mai sarà bene ch'io ripari? Nel deserto? Ma via, non ci giunge la febbre,
là? Che succede allora? Non si può trovare un compagno di strada sicuro,
leale, forte e non insidiatore?». Così riflette e pensa che se si unisce a Dio,
marcerà sicuro.
In che senso dici «unirsi»? Così: quel che Dio vuole anch'egli vuole, e quel
che Dio non vuole, neppur egli vuole. E come ottener questo? Altrimenti,
forse, che osservando i disegni di Dio e il suo governo? Che cosa mi ha dato
di veramente mio, di mio proprio arbitrio e che cosa si è lasciato per sé? Le
cose dipendenti dalla mia volontà le ha date a me, le ha fatte soggette a me,
prive di ostacoli e di impedimenti. Ma il corpo, ch'è di fango, come poteva
farlo privo d'impedimenti? Quindi l'ha sottoposto al moto periodico
dell'universo, come i beni, le masserizie, la casa, i figli, la moglie. E perché
scendo in lotta con Dio? Perché voglio cose che non rientrano nell'ambito
della volontà, cose che non m'è stato assolutamente concesso di avere? Ma
come devo volerle? Com'è stato concesso e per quanto si può. Ma chi le ha
date se le riprende. E perché mi oppongo? Dico che non solo sarò sciocco
ricorrendo alla violenza contro chi è più forte, ma anche, e soprattutto,
ingiusto. Da chi le ho avute queste cose venendo quaggiù? Me le ha date mio
padre. E a lui chi? E il sole chi l'ha fatto, e i frutti chi, e le stagioni chi, e
l'unione e la comunanza reciproca degli uomini, chi?
E allora, avendo ricevuto tutte le cose da un Altro e lo stesso tuo essere, ti
adiri e biasimi chi te le ha date, se te ne strappa una? Chi sei e per che scopo
sei venuto? Non ti ci ha introdotto Lui? Non ti ha mostrato Lui la luce? Non
ti ha dato cooperatori? Non t'ha dato anche i sensi? Non la ragione? E in che
qualità t'ha introdotto? Non come un mortale?
Non come chi doveva vivere insieme a un po' di carne sulla terra, per
ammirare l’amministrazione di Dio, glorificarlo insieme agli altri e celebrarlo
cogli altri, per breve tempo? Non vuoi, dunque, finché t'è concesso, ammirare
la processione e la festa, poi, quando Dio te ne trae fuori, andartene, dopo
averlo adorato e ringraziato per quanto hai udito e veduto? «No, volevo
rimanere ancora alla festa». Già: anche gli iniziati vogliono essere istruiti di
più nei misteri e, probabilmente, anche gli spettatori a Olimpia vogliono
vedere altri atleti: ma la festa ha dei limiti. Va', staccatene, da persona
riconoscente e rispettosa: fa' spazio ad altri. Devono nascere altri pure, come
sei nato tu, e, nati, avere un posto, una casa, il necessario. E se i primi non si
ritirano, che resta ad essi? Perché sei insaziabile? Perché riluttante? Perché
opprimi il mondo?
«Sì: ma io voglio con me i miei figlioli e mia moglie.» — «Perché, sono
tuoi? E non di chi te li ha dati? Non di chi ha fatto anche te? E, dunque, non ti
staccherai dalle cose altrui? Non ti ritirerai davanti a chi vale di più?» — «E
perché mi ha introdotto a queste condizioni?» — Se non ti garbano, vattene
via. Non se ne fa niente di uno spettatore che biasima la sua sorte: ha bisogno
di uomini che partecipino insieme al tripudio e alle danze, onde più forte sia
l'applauso, l'invocazione agli dèi, l'esaltazione della festa. Gli indifferenti, i
timidi, non senza gioia li vedrà ritirarsi dalla riunione, perché, quando erano
presenti, non si comportavano come esigeva la festa, non adempìvano i
doveri che loro convenivano, ma si rattristavano, accusavano il demone, la
sorte, gli altri, incoscienti di quanto avevano ottenuto e delle possibilità che
avevano contro le avversità e cioè la grandezza d'animo, la nobiltà, l'ardire, la
libertà stessa, che adesso è oggetto della nostra ricerca. «Ma perché ho avuto
queste cose?» — «Per usarne.» — «Fino a quando?» — «Fin quando vuole
chi te le ha prestate.» — «Ma se mi sono necessarie?» — Non ti ci attaccare,
e non lo saranno. Non dire che ti sono necessarie e non lo saranno.
Ecco i pensieri in cui bisognerebbe esercitarsi da mattina a sera. Incomincia
dalle cose più piccole, dalle più fragili, un bacile, un bicchiere, e così poi
spingiti alla veste, al cagnolino, al cavallino, al campicello: di qui a te stesso,
al corpo, alle membra del corpo, ai figli, alla moglie, ai fratelli. E dopo un
minuzioso esame da ogni parte, gettale lontano da te; purifica i tuoi giudizi,
che non ti si attacchi qualcosa non tua, che non ti si incarni, che non ti
addolori, staccandosi da te.
E mentre ti eserciti, giorno per giorno, come fai nel ginnasio, non dire che
filosofi (è un'espressione pretenziosa, questa) ma che mostri il tuo
emancipatore. Ecco veramente la libertà. In questo modo fu affrancato
Diogene da Antistene e disse che non poteva essere più ridotto in schiavitù da
nessuno. E, in conseguenza, come fu fatto prigioniero? come trattò i pirati?
chiamò forse padrone qualcuno di loro? Non mi riferisco certo alla parola,
perché non ho paura del vocabolo, ma all'atteggiamento di cui il vocabolo è
espressione. Come li riprendeva perché nutrivano male i prigionieri?
E come fu venduto? Cercava forse un padrone? Piuttosto un servo. E una
volta venduto, come si rivolse al suo signore?
Gli disse subito che non doveva vestire come vestiva e neppure portare i
capelli come li portava: quanto ai figli aggiunse in che modo dovevano
vivere. Che c'è di strano? Se quell'uomo avesse comprato un maestro di
palestra, l'avrebbe trattato da servo o da padrone negli esercizi della palestra?
Lo stesso se avesse comprato un medico o un architetto: e così, in ogni
campo, è assoluta necessità che l'esperto guidi l'inesperto. Dunque, in
generale, se uno possiede la scienza della vita, chi altro se non lui deve essere
il padrone? Chi è il signore sulla nave? — II timoniere.— Perché? Perché chi
gli disobbedisce è punito. — Ma quello mi può frustare. — E lo può
impunemente? — lo pensavo di sì. — E, invece, poiché non lo può
impunemente, non ne ha la possibilità: infatti, nessuno resta impunito quando
agisce male. — E qual è la punizione per chi ha messo in catene il suo
schiavo? che ne pensi? — Proprio l'averlo messo in catene: e ne converrai
anche tu, se vuoi salvare la definizione che l'uomo non è una bestia, ma un
animale mansueto.
Quand'è che l'uva sta male? Quando si trova in una condizione innaturale. E
il gallo? Lo stesso. Dunque, anche l'uomo.
E qual è la natura dell'uomo? Mordere, tirar calci, gettare in prigione,
mozzare la testa? No, ma fare del bene, aiutare gli altri, invocare gli dèi.
Quindi, che tu lo voglia o no, sta male quando agisce senza riflettere.
Di conseguenza Socrate non stette male? — No; bensì i giudici e gli
accusatori. — E neppure Elvidio a Roma? —
No; bensì chi l'uccise. — Ma come dici questo? — Proprio come tu non dici
che sta male il gallo uscito vittorioso dal combattimento anche se ferito, bensì
quello che senza ricevere un colpo è stato sconfìtto, e non chiami felice il
cane che non insegue niente e non s'affatica, ma quando lo vedi grondante di
sudore, quando lo vedi affaticato, e spezzato dalla corsa. Che c'è di
paradossale se affermiamo che il male d'ogni cosa è ciò che ripugna alla sua
natura? È un paradosso, questo? Perché? Non lo dici tu di tutte le altre cose?
E per qual motivo solo rispetto all'uomo la pensi diversamente? Ma il dire,
come facciamo noi, che la natura dell'uomo è mansueta, socievole, leale, non
è forse un paradosso? — No davvero. — E allora, come non subisce danno
chi è frustato, o gettato in galera o decapitato? Non è affatto così: se costui si
comporta nobilmente, non ne esce invece con un guadagno e con un attivo,
mentre il danneggiato è chi soggiace alle tentazioni più durevoli e
vergognose, chi da uomo diventa lupo, vipera, o vespa?
Orsù, dunque, rivediamo i punti sui quali s'è raggiunto l'accordo. Libero è
l'uomo che non soggiace a impedimenti, che ha a portata di mano le cose
come vuole, mentre quello che si può impedire, o costringere o ostacolare, o
spingere ad agire contro voglia, è schiavo. E chi non soggiace a impedimenti?
Chi non desidera nessuna delle cose altrui. E quali sono le cose altrui? Quelle
che non dipende da noi avere o non avere, o avere d'una certa qualità o in
certe condizioni.
Perciò il corpo è una cosa altrui, le membra del corpo sono cose altrui, gli
averi sono cosa altrui. Quindi se ti affezioni a una di queste cose, come se
fosse tua, pagherai il fio che si merita chi desidera cose altrui. La strada che
conduce alla libertà, la sola che è liberazione dalla schiavitù è poter dire una
buona volta con tutto il cuore:
Conducimi, o Zeus, e tu anche, o Destino, là dov'è il fine a me da voi
assegnato.
Ma che dici filosofo? Ti chiama il tiranno per farti dire qualcosa indegna di
te. Gliela dici o no? Rispondimi. «Lasciami esaminare.» — «Esaminerai
adesso? E quand'eri a scuola, che cosa esaminavi? Non ti interessavi di quel
che è bene, di quel che è male, e di quel che non è né l'uno né l'altro?» — «Sì
che l'esaminavo.» — «E quali erano le vostre conclusioni?» — «Che le cose
giuste e belle sono buone, le cose ingiuste e brutte, cattive.» — «E il vivere è
forse un bene?» — «No.» — «E il morire, forse, un male?» — «No.» —
«Forse la galera?» — «No.» — «Ma un discorso ignobile e sleale, il tradire
l'amico, l'adulare il tiranno, che vi apparivano?» — «Mali.» — E allora? Tu
non esamini la questione adesso né l'hai mai esaminata né ti sei mai
consigliato in proposito. E poi che razza di esame è vedere se mi si addice,
quando sono in grado di procurarmi i beni più grandi e di non procurarmi i
mali più grandi? Bell'esame e necessario, che richiede un lungo consiglio!
Ma perché ti burli di noi, uomo? Tale esame non si fa mai. Se davvero
immaginavi che le cose brutte sono male, (le cose belle sono bene), le altre né
male né bene, non ti saresti fermato su questo punto, nemmeno per sogno!
che potevi risolvere subito il problema con la tua mente, come se lo scorgessi
cogli occhi. E, infatti, quando esamini se il nero è bianco? se il grave è
leggero? non segui, forse, quel che si presenta distintamente ai sensi? E come
va che adesso dici di esaminare se cose indifferenti siano da fuggirsi più dei
mali? Ma tu non hai codesti giudizi e la morte e la galera non ti appaiono
cose indifferenti, bensì i mali peggiori mentre le parole e le azioni
disonorevoli non sono mali, ma piuttosto cose senza alcuna relazione con noi.
Perché così ti sei abituato da principio: «Dove sto? A scuola. E mi ascolta
qualcuno? Parlo in compagnia di filosofi. Ma adesso sono uscito di scuola.
Togli di mezzo tutta questa roba da studenti e da pazzi.» Così il filosofo
testimonia il falso contro l'amico, così il filosofo fa la parte del parassita, così
si vende a prezzo, così in Senato uno non dice quel che pensa: e intanto, dal
di dentro il suo giudizio grida e non è un freddo e misero concettuzzo sospeso
ad argomentazioni sconsiderate, come a un capello, ma un giudizio gagliardo
e abile e addestrato a contatto con la realtà.
Controlla come ascolti le mie parole: Non dico: «l'è morto il figliolo»: come
potresti sopportarle? ma: «Ti si è rovesciato l'olio, t'hanno bevuto il vino».
Oh ti si avvicinasse qualcuno mentre sei tutto eccitato per dirti soltanto:
«Filosofo, a scuola t'esprimi diversamente: perché ci inganni? Perché
pretendi di essere uomo quando sei verme?» Mi piacerebbe avvicinarmi a
uno di questi filosofi, in preda alla foia, per vedere come si gonfia, che razza
di parole proferisce, se ricorda il suo nome e i ragionamenti che ascolta o
dice o legge.
E che hanno da vedere tutte queste cose con la libertà? «Oltre queste, non ce
ne sono altre che han da fare con lei, lo vogliate voi, ricchi, o no.» — «E che
cosa te lo prova?» — Che altro se non voi stessi? Voi che avete un signore
così potente e vivete ai suoi cenni e alle sue mosse, che vi perdete d'animo
s'egli guarda uno solo di voi col corruccio negli occhi, voi che corteggiate le
vecchie e i vecchi e dite: «Non sono in grado di far questo: non.mi è lecito.»
Perché non ti è lecito? Non mi ti opponevi poco fa, affermando di essere
libero? «Me l'ha proibito Aprilla.» Dì la verità, schiavo: non fuggire i tuoi
padroni, non negare, non ardire di mostrare il tuo emancipatore, con tante
prove della tua schiavitù.
Eppure chi è costretto da amore a compiere azioni contrarie alle sue
opinioni, che vede il meglio e nello stesso tempo non ha forza di seguirlo,
qualcuno potrebbe ancora ritenerlo degno di perdono, in quanto è posseduto
da una passione violenta, e, in certo modo, divina. Ma te, chi ti potrebbe
sopportare che ti dai all'amore di vecchie e di vecchi, e le smocci, le lavi, le
corrompi con doni e, malate, le curi come uno schiavo e intanto fai voti che
muoiano e interroghi i medici se stanno finalmente in punto di morte? O,
ancora, quando in vista di quelle grandi e venerande cariche e dignità, baci le
mani dei servi altrui, sì che non sei schiavo neppure di liberi? E poi mi
passeggi intorno pieno di sussiego, pretore, console. Non so come hai
ottenuto la pretura, donde hai preso il consolato, chi te l'ha dato? Quanto a
me, non vorrei neppure vivere se dovessi la mia vita a Felicione, sostenendo
il suo sopracciglio e la sua servile arroganza, perché so che cosa è un servo
fortunato in apparenza ma tumido di superbia.
Tu dunque, dice qualcuno, sei libero? — Lo voglio, per gli dèi, e fo voti per
esserlo, ma non riesco ancora a fissare gli occhi in faccia ai padroni; ancora
pregio il povero corpo e faccio gran conto di conservarlo integro, anche se
integro non l'abbia. Però posso mostrarti un uomo libero, per non farti più
cercare un esempio. Diogene era libero. Donde gli venne?
Non certo dall'essere nato da liberi, (e in verità non lo era) ma da ciò che lo
era lui stesso, perché aveva reciso tutti gli appigli della schiavitù, e non c'era
né modo che qualcuno lo assalisse, né motivo di prenderlo per ridurlo in
schiavitù.
Quanto aveva si poteva sciogliere agevolmente, quanto aveva era
semplicemente accostato a lui. Se ti fossi spinto contro i suoi beni, te li
avrebbe lasciati piuttosto che venirti dietro per essi: se contro la gamba, la
gamba, se contro tutto il miserabile corpo, tutto il suo miserabile corpo: lo
stesso per i familiari, per gli amici, per la patria. Perché sapeva donde li
aveva e da chi e a quali condizioni li aveva presi. Ma i veri genitori, gli dèi, e
la patria vera non li avrebbe mai abbandonati né avrebbe lasciato a un altro di
prestare loro più obbedienza e più sottomissione, né alcun altro sarebbe
morto più volentieri per la patria. Non cercava mai di far vedere che la sua
azione era in prò dell'universo, ma ricordava che ogni avvenimento di lì
deriva e per quella patria si compie ed è ordinato da chi l'amministra. Quindi,
osserva come si esprima e scriva: «Per questa ragione, Diogene, egli dice, ti è
lecito incontrarti a tuo piacere anche col re dei Persiani e con Archidamo, re
dei Lacedemoni.» Forse perché era nato da genitori liberi? Ma allora, tutti gli
Ateniesi, tutti i Lacedemoni e i Corinti erano nati da schiavi che non
potevano incontrarsi con quelli a loro piacere, anzi li temevano e li
blandivano! Perché, dunque, egli dice che gli è lecito? «Perché questo
miserabile corpo io non ritengo mio, perché non ho bisogno di niente, perché
per me la legge — e nient'altro — è tutto». Ecco ciò che gli permetteva di
essere libero.
E perché tu non creda ch'io ti porti l'esempio di un uomo solitario, senza
moglie né figli né patria né amici né congiunti capaci di piegarlo e di
rimuoverlo dal suo proposito, prendi Socrate e bada che ebbe moglie e
figliuoli, ma li considerava cose altrui, ebbe una patria, per tutto il tempo che
fu necessario e nel modo che fu necessario, e amici e congiunti, ma tutti
subordinati alla legge e alla spontanea accettazione della legge. Perciò,
quando doveva andare in guerra, era il primo a partire e sul campo di
battaglia si esponeva ai pericoli sprezzando la vita: ma, inviato per ordine dei
tiranni da Leonte, siccome considerava l'atto turpe, neppure si consigliò sul
da farsi, pur sapendo che, all'occorrenza, sarebbe dovuto morire. Che conto
ne fece? Qualcos'altro voleva salvare, non la miserabile carne, ma la lealtà e
il rispetto. Sono questi i valori intangibili, non subordinati a nessuno. Poi,
dovendo parlare in difesa della sua vita, si comporta forse come chi ha figli,
come chi ha moglie? No, ma come chi è solo. E dovendo bere il veleno, come
si comporta? Poteva mettersi in salvo e Critone stesso l'esortava: «Fuggì per i
tuoi figli». Che risponde? Lo considerava un guadagno? E per quale causa?
Egli piuttosto ha di mira la dignità e tutto il resto non guarda, neppure ci
pensa. Perché non voleva, egli dice, salvare il miserabile corpo, ma ciò che la
giustizia accresce e mantiene, mentre l'ingiustizia impicciolisce e distrugge.
Socrate non si salva a prezzo d'un'azione turpe, egli che non volle procedere
alla votazione nonostante l'ordine degli Ateniesi, egli che non calcolò i
tiranni, egli che tenne così nobili discussioni sulla virtù e sulla eccellenza
morale: non è possibile ch'egli si salvi a prezzo di un'azione turpe, ma
morendo si salva, non fuggendo. E anche il bravo attore si salva, se si arresta
al momento giusto più che se recita fuori tempo. Che faranno allora i figlioli?
«Se mi recavo in Tessalia, vi sareste presi cura di loro: e quando sarò partito
per l'Ade, non ci sarà nessuno a prendersene cura?» Vedi con quale grazia
chiama la morte e come ci scherza sopra! Se eravamo io e tu al posto suo,
dopo aver subito stabilito con un ragionamento fìlosofico che «chi riceve
ingiustizia ha da difendersi con le stesse armi»
e aggiunto che «sarò utile a molti se resto in vita, ma se muoio a nessuno»,
ce ne saremmo fuggiti, anche se bisognava scappare da un buco. E in che
modo saremmo stati d'utilità a qualcuno? E dove lo saremmo stati se quelli
rimanevano in Atene? Ovvero, se eravamo utili vivendo, non avremmo recato
agli uomini molto maggiore utilità morendo nel tempo e nel modo debito? E
adesso che Socrate è morto, non certo di meno, anzi di più, giova agli uomini
il ricordo di quanto, ancora in vita, egli ha fatto o detto.
Attendi a questo, a questi giudizi, a questi discorsi; a questi esempi poni
attenzione se vuoi essere libero, se desideri la cosa nel suo vero valore. Che
meraviglia se alcunché di così grande lo compri a un prezzo tanto alto e caro?
Per quella che volgarmente si ritiene libertà alcuni si strangolano, altri si
precipitano dall'alto, talvolta intere città vanno addirittura distrutte: per la
libertà vera, non esposta a insidie e sicura, quando Dio ti richiede quel che
t'ha dato, non vi rinuncerai?
Non cercherai invece, secondo l'espressione di Piatone, non solo di morire,
ma anche di essere torturato, cacciato in esilio, frustato, in una parola, di
restituire tutto quel che è di altri? Sarai, dunque, schiavo tra schiavi, anche se
diecimila volte console, anche se sali al Palazzo — schiavo, nondimeno. E
t'accorgerai che i filosofi dicono forse cose contrarie alle apparenze, come
pure Cleante ammetteva, ma non contrarie alla ragione. Conoscerai, per
esperienza, che sono vere e che oggetti tanto ammirati e ambiti non sono di
nessuna utilità per chi li ottiene, mentre quelli che non li hanno ottenuti
immaginano che, avendoli presso di sé, possiederanno tutti i beni: poi,
quando li hanno, l'ardore è lo stesso, l'irrequietezza la stessa, e così la nausea,
la brama di ciò che non possiedono. In realtà, non saziandovi di quel che
desiderate si conquista la libertà, bensì sopprimendo il desiderio. E affinchè ti
renda conto che dico il vero, come ti sei affaticato per quelle cose, così sposta
i tuoi sforzi a queste: veglia per ottenere un giudizio che ti faccia libero,
onora, invece d'un ricco decrepito, un filosofo, fatti vedere alle sue porte: non
ci rimetterai di dignità, se ti vedranno, e non te netornerai vuoto né senza
guadagno se ti ci rechi come si deve. In ogni caso, prova, per lo meno:
provare non è vergogna.
Riguardo a questo punto devi fare innanzi tutto attenzione a non legarti mai
con qualcuno dei tuoi antichi conoscenti o amici in maniera da scendere al
suo livello: se no, distruggerai te stesso. E se ti si insinua il sospetto: «gli
apparirò ingenuo e non si comporterà più con me come prima» ricorda che
niente si fa senza pagare e che non è possibile essere quello d'un giorno se
non si agisce allo stesso modo.Scegli dunque quel che preferisci: o continuare
ad essere amato dagli antichi amici, restando simile all'antico te stesso, o,
diventando migliore, non aver più il medesimo affetto. Se questa seconda
alternativa è migliore, volgiti immantinente ad essa e non ti distraggano altre
considerazioni. Perché nessuno può far progressi quand'è incerto tra due
partiti; ma se hai posto questo al di sopra di tutto, se a questo solo ti vuoi
dedicare, se per questo vuoi compiere ogni sforzo, lascia tutto il resto. Se no,
codesta incertezza produrrà due risultati: non farai progressi come dovresti,
non otterrai ciò che prima ottenevi: prima, infatti, quando desideravi
sinceramente oggetti di nessun valore, eri gradito agli amici. Non puoi
eccellere nell'una condizione e nell'altra, ma è necessario che, quanto acquisti
nell'una, altrettanto perda nell'altra. Se non bevi con quelli coi quali bevevi,
non puoi apparire ai loro occhi gradito come allora. Scegli dunque: vuoi
essere ubriacone e gradito ad essi oppure astemio e sgradito? Se non canti
con quelli con cui cantavi, non puoi essere amato da loro come allora: scegli,
dunque, anche qui quel che vuoi. E se è meglio essere rispettoso e modesto
che sentir dire: «È un compagno gradito!» lascia le altre cose, gettale, voltati
indietro: non c'è niente in comune tra te ed esse. Se poi questo non ti piace,
inclinati tutto dalla parte opposta: sii un cinedo, un adultero, agisci in
conseguenza e otterrai ciò che vuoi. E salta in piedi e grida il tuo entusiasmo
al ballerino. Parti così differenti non si confondono: non puoi fare Tersite e
Agamennone. Se vuoi essere Tersite, devi essere gobbo e calvo; se
Agamennone, invece, grande, bello e affezionato ai tuoi sudditi.
Ricorda che non solo la brama delle cariche e della ricchezza rende meschini
e soggetti agli altri, bensì anche la brama della tranquillità, dell'ozio, dei
viaggi, dell'erudizione. Insomma, qualunque sia l'oggetto esterno, il valore
che gli si da, rende soggetti ad altri. Che differenza c'è tra chi desidera essere
senatore e chi desidera non esserlo? che differenza c'è tra chi desidera una
carica e chi desidera una condizione privata? Che differenza c'è tra chi dice:
«Oh me infelice, non posso far niente, che sono attaccato ai libri come un
cadavere!» e chi dice: «Oh me infelice, non ho un momento per leggere»? Le
salutazioni e le cariche sono cose esterne e indipendenti dalla volontà, com'è
anche il libro. Per qual motivo vuoi leggere? Dimmelo. Perché, se ti dai alla
lettura solo per dilettarti o apprendere qualcosa, sei frivolo e misero; se,
invece, riporti la lettura al suo vero fine, qual altro può essere se non la
serenità? E, infatti, se la lettura non ti da serenità, a che giova? «Ma me la da,
si dice: e mi infastidisco proprio perché devo rinunciarvi.» Che razza di
serenità è questa che uno qualunque riesce a impedire — e non dico Cesare o
un amico di Cesare, ma un corvo, un auleta, la febbre, un'infinità di cose?
Mentre la serenità non ha niente di così proprio quanto di essere continua e al
riparo da ogni impedimento.
Ora sono chiamato a far qualcosa: vado via sull'istante, la mente fìssa ai
modi che si devono osservare per agire con rispetto, con sicurezza, senza
desiderare o avversare alcuna cosa esterna: inoltre, bado agli uomini — che
dicono, come agiscono — e non per malanimo né per aver qualcosa da
biasimare o da deridere, ma con l'occhio rivolto in me stesso, caso mai cada
anch'io negli stessi difetti. «Come potrò liberarmene? Pure io una volta avevo
dei difetti: ora non più, grazie a Dio». Orsù, se hai agito così, se ti sei
occupato di tali faccende, hai compiuto un'azione peggiore che se avessi letto
mille versi o ne avessi scritto altrettanti? Quando mangi, ti dispiace di non
leggere? Non ti basta di mangiare secondo le regole che hai letto? E quando ti
lavi? E quando fai la ginnastica? Per qual motivo, dunque, non ti comporti in
tutto allo stesso modo, e quando accosti Cesare e quando accosti quell'altro?
Se ti conservi libero da emozioni, impassibile, calmo, se guardi più a quel che
succede che a essere guardato, se non sei geloso di chi ti è anteposto negli
onori, se non ti sconvolgono gli oggetti, che ti manca? I libri? Come? Perché?
Non è anche il leggere una preparazione a vivere? Ma il vivere si materia di
cose diverse dai libri. Sarebbe come se un atleta, entrando nello stadio,
piangesse perché non si esercita di fuori. Proprio per questo ti esercitavi:
questo lo scopo dei manubri, della polvere, dei giovani allenatori. E li cerchi
adesso ch'è tempo dell'azione? È come se, trattandosi di dare l'assenso e
presentandocisi alcune rappresentazioni catalettiche, altre acatalettiche, non
volessimo discernerle, ma leggere un trattato sulla catalessi.
E quale ne è il motivo? Che non abbiamo mai letto per questo scopo, non
abbiamo mai scritto per questo scopo, per usare, cioè, conformemente a
natura le rappresentazioni che ci si mostrano, una volta venuti a contatto con
la realtà, ma ci limitiamo ad apprendere quel che si dice, a poterlo spiegare ad
altri, ad analizzare un sillogismo, ad esaminare un argomento ipotetico.
Naturalmente, dove c'è sollecitudine, c'è anche impedimento. Vuoi ad ogni
costo quel che non è in tuo potere? Allora, sii soggetto a impedimenti, a
ostacoli, sii frustrato nel tuo desiderio. Se leggessimo i trattati «sull'impulso»
non per sapere che cosa si dice dell'impulso, ma per regolarci bene nei nostri
impulsi; se leggessimo i trattati «sul desiderio e sull'avversione» per non
essere mai frustrati nei nostri desideri e per non incorrere in ciò che vogliamo
evitare; se leggessimo i trattati «sul dovere», perché, memori delle nostre
relazioni, la nostra condotta non fosse né sconsiderata né in contrasto con
quelli, allora, certo, non ci infastidiremmo di non poter leggere, ma saremmo
soddisfatti di compiere le azioni richieste dalle nostre mutue relazioni e non
conteremmo quel che abbiamo avuto l'abitudine di contare finora: «Oggi ho
letto tanti versi, ne ho scritti tanti» piuttosto: «Oggi ho usato dei miei impulsi
nel modo indicato dai filosofi: desideri non ho avuto, e l'avversione solo per
quanto dipende dalla mia volontà: non mi sono lasciato intimidire da Tizio,
non mi sono lasciato confondere da Caio: mi sono esercitato nella pazienza,
nell'astinenza, nell'aiutare gli altri». Così potremmo rendere grazie a Dio per
ciò di cui gli si deve render grazie.
Ora, invece, non ci accorgiamo che, sebbene in altro modo, ci rendiamo pur
noi simili ai più. Uno teme di non raggiungere quella carica, tu, di
raggiungerla. No, uomo: ma, come deridi chi teme di non arrivare alla carica,
così deridi anche te stesso. Non c'è differenza tra chi ha sete perché è
febbricitante e chi odia l'acqua, al pari dei rabbiosi.
E come potrai ancora dire con Socrate: «Se così piace a Dio, così sia»?
Secondo te, se Socrate desiderava darsi bel tempo nel Liceo o nell'Academia
e conversare giorno per giorno coi giovani, avrebbe fatto di buon grado tante
campagne quante ne fece? O non si sarebbe messo a piangere e a gemere:
«Povero me! eccomi qua, disgraziato, infelice, mentre potevo prendere il sole
al Liceo»? Perché, era questo il tuo compito, prendere il sole? E non invece,
essere sereno, privo di impedimenti, privo di ostacoli? E come sarebbe stato
ancora Socrate, se si fosse lamentato in tal guisa? Come avrebbe composto
ancora dei peani in prigione?
Insomma, ricorda che qualunque oggetto apprezzerai al di fuori di quanti
rientrano nell'ambito della tua persona morale, hai distrutto la persona
morale. E sono al di fuori dell'ambito della persona morale non solo le
cariche, ma anche il rifiuto d'una carica, non solo l'azione, ma anche l'ozio.
«Sicché adesso, devo vivere in mezzo a tanto strepito?» Che chiami strepito?
Il vivere tra molti uomini? E che c'è di penoso? Fa' conto di stare a Olimpia,
ritieni che lo strepito sia una festa. Anche lì, chi grida da una parte, chi da
un'altra, chi fa una cosa, chi un'altra, chi spinge uno, chi un altro. Ai bagni c'è
ressa. E chi di noi non gode di questa festa e non se ne stacca rattristato? Non
mostrarti scontento né schifiltoso per quel che accade. «L'aceto è cattivo: è
aspro, infatti.» — «II miele è cattivo; infatti, mi sconvolge la digestione.»
«Non voglio verdura.» Allo stesso modo: «Non voglio stare in ozio, che
significa essere sequestrati dal mondo.» «La ressa non mi piace, che significa
chiasso.» Ma se le circostanze ti portano a vivere solo o con pochi, chiama
allora questa tua condizione tranquillità e sappi usarne per un fine
conveniente: parla con te stesso, prova le tue rappresentazioni, tieni in attività
le prenozioni. Se poi capiti in mezzo alla folla, dì che si tratta d'una gara,
d'un'accolta, d'una festa, e cerca di partecipare alla festa insieme agli altri.
Quale spettacolo più gradito per chi ama gli uomini che un gran numero di
uomini? Mandre di cavalli o di buoi le vediamo con piacere: quando
contempliamo tante imbarcazioni ci rallegriamo: chi si cruccia guardando
tanti uomini? «Ma m'infastidiscono coi loro gridi!» Oh, è il tuo udito che
viene impedito. A te che importa? Viene forse impedita anche la facoltà che
usa le rappresentazioni? E chi ti proibisce di usare il desiderio e l'avversione
in modo conforme a natura, e cosi l'impulso e la ripulsa? Quale ressa è da
tanto? Da parte tua, ricorda soltanto i precetti generali: «che cos'è mio, che
cosa non è mio? che cosa m'è dato? quale azione vuole farmi compiere
adesso Dio, quale non vuole?» Poco fa, voleva che tu vivessi in ozio, parlassi
con te stesso, scrivessi di ciò, leggessi, ascoltassi, ti preparassi — e avesti a
tal fine tempo sufficiente. Ora ti dice: «Vieni finalmente nell'agone, mostraci
che cosa hai imparato, come ti sei allenato. Fin quando vorrai esercitarti da
solo? È già tempo di vedere se sei uno di quegli atleti degni della vittoria o di
quelli che vanno per il mondo, sempre sconfìtti.» Perché ti infastidisci? Non
c'è agone senza chiasso. Ci devono essere molti allenatori, molti tifosi, molti
dirigenti, molti spettatori. «Ma io volevo vivere in pace.» E allora piangi e
gemi, come meriti. Per uno privo di educazione filosofica e riluttante alle
disposizioni divine quale altro castigo è maggiore dell'addolorarsi, del
gemere, dell'invidiare, in breve, dell'essere disgraziato e sfortunato? E da
tutto ciò non vuoi staccarti?
Come me ne staccherò? — Non hai spesso sentito che devi estinguere del
tutto il desiderio, rivolgere l'avversione esclusivamente a quel che rientra
nell'ambito della persona morale, e tutto il resto devi metterlo da parte, corpo,
averi, reputazione, libri, chiasso, cariche, non cariche? Dovunque ti pieghi, ti
sei fatto schiavo, sottoposto, sei diventato soggetto a impedimenti, a
costrizioni, interamente in potere degli altri. Ma ti siano a portata di mano le
parole di Cleante:
Conducimi, o Zeus, e tu anche, o Destino.
Mi volete a Roma? Eccomi a Roma. A Giaro? Eccomi a Giaro. Ad Atene?
Eccomi ad Atene. In carcere? Eccomi in carcere. Ma sol che tu dica: «quando
si può andare a Atene?» sei finito. È necessario, infatti, che questo desiderio,
rimanendo incompiuto, ti renda infelice, compiendosi, vano e orgoglioso per
cose di cui non si deve inorgoglire, se poi incontri degli ostacoli, disgraziato,
giacché incorri in ciò che non vuoi. Lascia dunque tutto questo. «Bella è
Atene.» Ma la felicità è molto più bella, la tranquillità, l'imperturbabilità, la
padronanza assoluta sulle tue cose. «A Roma c'è chiasso, ci sono le
salutazioni.» Ma la serenità compensa tutte le molestie. Quindi se viene il
momento di fare una di queste cose, perché non togli di mezzo l'avversione
che hai per esse? Per quale necessità sopportare siffatti pesi come un asino
bastonato? Se no, bada che devi essere sempre schiavo di chi ti può procurare
la liberazione, di chi ti può porre ostacolo ovunque, e costui devi sempre
onorare, come un cattivo genio.
Una sola è la strada per la serenità — questo pensiero abbilo a portata di
mano all'alba, durante il giorno, di notte staccarsi da quanto è indipendente
dalla scelta morale, niente ritenere proprio, affidare tutto alla divinità, alla
fortuna, di tutto fare amministratori costoro, giacché Zeus stesso li ha fatti
tali: tu, da parte tua, occupati dell'unica cosa veramente tua, non soggetta a
impedimento, e se leggi, riferisci ad essa la lettura — e così pure se scrivi o
se ascolti. Perciò, non posso dire amante del lavoro uno di cui so soltanto che
legge o scrive: anche se si aggiunge che lo fa per notti intere, non posso dirlo
ancora, se non conosco a qual fine riferisce la sua fatica. Perché neppure tu
dici amante del lavoro chi sta sveglio per una ragazzetta: quindi neppur io.
Ma se lo fa per la gloria, lo dico amante della gloria, se per il denaro, amante
del denaro, non del lavoro. Se invece riferisce il lavoro alla parte direttrice
dell'anima sua, onde sia e si svolga conforme a natura, allora solo lo dico
amante del lavoro. Non distribuite mai lodi e biasimi in rapporto a cose che
possono essere buone o cattive, ma solo in rapporto ai giudizi. Perché questi
sono ciò che ciascuno possiede per sé ed essi rendono le azioni belle o brutte.
Ricordando ciò, godi di quel che hai e accetta con gioia quel che il momento
porta. Se vedi qualcosa che hai appreso e meditato realizzartisi nell'azione,
rallegrati per essa. Se hai smesso del tutto o moderato la malignità, il vezzo
del biasimo, la precipitazione, la volgarità del linguaggio, la sconsideratezza,
la trascurataggine, se non sei più scosso da ciò che prima ti scoteva e neppure
come prima, allora puoi celebrare la festa, giorno per giorno, oggi perché ti
sei comportato bene in un'azione, domani in un'altra. Quanto maggior motivo
di offrire un sacrifìcio che non il conseguimento d'un consolato o d'una
prefettura! Quelle cose ti vengono da te stesso e dagli dèi; queste, ricorda chi
le da, a chi le da e per qual fine. Nutrito di tali considerazioni, sei ancora
incerto dove troverai la felicità, dove piacerai a Dio? Non da ogni luogo gli
uomini distano ugualmente da Dio? Non da ogni luogo hanno la stessa
visione di quel che succede?
CONTRO I LITIGIOSI E I BRUTALI
Che cosa rende temibile il tiranno? Gli sgherri, dice uno, le loro spade, il
capo della guardia del corpo, e quelli che respingono chiunque si presenta. —
Perché, allora, se conduci un ragazzino da un tiranno che sta in mezzo ai suoi
sgherri, non ne ha paura? Non è perché il ragazzino non li avverte? E se uno
li avverte e avverte pure che hanno le spade e tuttavia si presenta al tiranno
proprio con l'intenzione di morire in qualche maniera e cerca chi lo possa
agevolmente uccidere, ha forse paura degli sgherri costui? — No, perché
vuole proprio quel che li rende temibili. — Se poi gli si presenta uno che non
vuole né morire né vivere a ogni costo, ma come gli è dato, che cosa
proibisce a costui di presentarglisi senza paura? — Niente.— E se uno
conserva anche rispetto agli averi lo stesso atteggiamento che ha costui per il
corpo, e così rispetto ai figli e alla moglie, se, insomma, a causa d'una follia o
d'una disperazione, sia ridotto in tale condizione che non calcoli affatto averli
o non averli, ma, come i ragazzi che giocano con le conchiglie s'interessano
del gioco senza badare alle conchiglie, così anche costui non fa alcun conto
degli oggetti e gode soltanto di giocare con essi e di trattarli, quale tiranno
sarà ancora temibile per costui, quali sgherri, quali spade?
Quindi, sotto la spinta della follia uno può raggiungere tale disposizione
riguardo a queste cose, e anche sotto la spinta dell'abitudine, come i Galilei; e
sotto la spinta della ragione e della dimostrazione nessuno può apprendere
che Dio ha fatto tutte le cose del mondo e il mondo stesso, tutto quanto,
libero da impedimento, col suo fine in se stesso, e le parti per servire ai
bisogni del tutto? Tutti gli altri esseri sono esclusi dal poter intendere il
governo di Dio, ma l'animale dotato di ragione possiede mezzi per trarre tutte
queste conclusioni, che cioè egli è una parte e una ben determinata parte e
che è bene per le parti cedere al Tutto. Inoltre, essendo per natura nobile,
magnanimo, libero, s'accorge che delle cose che lo circondano, alcune sono
prive di impedimento e in suo potere, altre soggette a impedimento e in
potere di altri: prive di impedimento quelle sottoposte alla libera scelta,
soggette a impedimento quelle non sottoposte alla libera scelta. Per ciò se
ripone il suo bene e il suo utile soltanto in quelle che sono prive di
impedimento e alla sua dipendenza, sarà libero, sereno, felice, immune da
danno, d'alto sentire, pio, riconoscente per ogni cosa a Dio, nessuno
biasimerà mai di quel che accade, nessuno accuserà: ma se li ripone nelle
cose esterne e indipendenti dalla libera scelta, andrà necessariamente incontro
a impedimenti, a ostacoli, si farà schiavo di quanti hanno potere sulle cose
che egli ammira stupito e pauroso, sarà necessariamente empio come chi
ritiene di essere maltrattato da Dio, ingiusto, desideroso di procacciarsi
sempre più roba, sarà necessariamente meschino e gretto.
E se uno ha compreso questo, che cosa gli proibisce di vivere in modo
tranquillo e piano, aspettando con calma tutto quel che può accadere e
rassegnandosi a quel ch'è già accaduto? «Vuoi darmi la povertà?» Dammela e
saprai che cos'è la povertà quando incontra un bravo attore. «Vuoi darmi le
cariche?» Dammele. «Vuoi darmi una condizione lontana dalle cariche?»
Dammela. «Le pene?» Dammi anche le pene. «L'esilio?» Dovunque vado,
starò bene. Perché anche qui, non è per il luogo che io mi trovavo bene, ma
per i giudizi che voglio portare sempre con me. Infatti, non me li può
strappare nessuno ed essi soltanto sono miei e inalienabili e mi bastano,
ovunque sia, checché faccia. «Ma è già tempo di morire.» Che intendi per
morire? Non drammatizzare la faccenda, ma dì piuttosto come sta veramente:
«è già tempo che la materia sia di nuovo reintegrata negli elementi dai quali
fu composta.» E che c'è di terribile in questo? Che sta per distruggersi nel
mondo, che sta per avvenire di strano, di irragionevole?
In vista di questo il tiranno mette paura? Per questo sembra che i suoi sgherri
abbiano spade lunghe e taglienti? Ad altri sì: quanto a me, ho già esaminato
tutto: su me nessuno ha potere. Sono stato fatto libero da Dio: conosco i suoi
ordini, nessuno può più trascinarmi in schiavitù: ho l'emancipatore ideale e
giudici ideali. «Non sono padrone del tuo corpo?»
Ebbene? che ha da vedere con me? «Non dei tuoi miseri averi?» Ebbene?
che ha da vedere con me? «Non di esiliarti o d'incatenarti?» Ma a tutto questo
e all'intero mio povero corpo io rinuncio in tuo favore, quando vuoi. Prova, ti
prego, il tuo potere e saprai fin dove s'estende.
«Chi devo ancora temere? Le guardie del corpo? Per paura di che? Che mi
respingano? Se mi sorprendono a voler entrare, mi respingano pure.» «E
perché t'appressi alle porte?» «Perché ritengo conveniente partecipare al
gioco, finché il gioco dura.» «E allora, come non sarai respinto?» II fatto è
che, se nessuno mi riceve, non voglio entrare, ma preferisco sempre quel che
succede. In realtà, secondo me, quel che Dio vuole è meglio di quel che
voglio io. Aderirò a Lui, suo ministro e suo seguace: i miei impulsi sono uniti
a Lui, i miei desideri sono uniti a Lui, in breve la mia volontà è unita a Lui.
Nessuna porta si chiude in faccia a me, ma a chi fa forza per entrare. E per
qual motivo io non faccio forza per entrare? Perché so che dentro non si
distribuisce nessun bene a chi è entrato. Ma quando sento che è ritenuto beato
uno perché ha ricevuto un onore da Cesare, dico: «E che gli capita? <una
provincia, un'amministrazione>. Forse, anche il giudizio che si deve avere
d'una provincia? forse anche la capacità di reggere l'amministrazione? Perché
dovrei spingermi avanti? Uno getta fichi secchi di qua e di là: i ragazzi
cercano di afferrarli e se li contendono l'uno all'altro, ma gli uomini no, che li
calcolano poco. Se uno gettasse conchigliette, neppure i ragazzi le
afferrerebbero. Ebbene: vengono distribuite le provincie: se la vedano i
ragazzi. Denaro. Se la vedano i ragazzi. Preture e consolati. Se li strappino i
ragazzi: siano messi alla porta, siano picchiati, bacino la mano di chi li da,
dei loro servi: per me sono fichi secchi.» Ma se, mentre quello getta a caso i
fichi, me ne cade uno in seno? Lo prendo e me lo mangio. Fin qui si può far
conto anche di un fico secco. Ma che mi curvi e scosti un altro o sia scostato
da un altro e aduli chi li getta non vale la pena né per un fico né per
alcun'altra di quelle cose non buone che i filosofi mi hanno persuaso a non
ritenere beni.
Mostrami le spade degli sgherri. «Guarda: sono tanto grandi e come
aguzze!» E che fanno queste spade così grosse e aguzze? — «Uccidono.» E
la febbre che fa? «Niente altro.» — E una tegola che fa? «Nient'altro.» —
Vuoi dunque che ammiri e mi prosterni davanti a tutto questo e me ne vada
attorno, schiavo di tutto? Non sia mai. Ma una volta capito che quanto viene
alla luce deve pure perire, onde il mondo non si fermi né soffra ostacoli, non
fa differenza se la fine me la procurerà la febbre o una tegola o un soldato;
anzi, dovendo fare un paragone, so bene che il soldato la procurerà con meno
dolore e più in fretta. Di conseguenza, quand'io più non temo niente di ciò
che il tiranno può farmi, né più bramo alcunché di quanto può procurarmi,
perché dovrei ancora guardarlo con stupore, perché ancora guardarlo con
maraviglia? Perché temere gli sgherri? Perché rallegrarmi se mi parla e mi
accoglie con cortesia e riferire agli altri come parla con me? È forse Socrate,
è forse Diogene, che la sua lode costituisce una testimonianza in mio favore?
Ho forse invidia del suo carattere? No: è piuttosto per continuare il gioco che
mi reco da lui, e gli obbedisco fin quando non mi dia un ordine sciocco e
sconveniente. Che se mi intima: «Recati da Leonte di Salamina» gli dico:
«Cerca un altro; io non gioco più.» «Portalo in galera.» E io lo seguo, perché
anche questo è nel gioco. «Ma ti sarà mozzata la testa». E la sua dovrà
sempre rimanere al suo posto, e così quella di voi, suoi sudditi? «Ma sarai
buttato via, senza sepoltura». Se io sono il cadavere, sarò buttato via; se sono
qualcosa di diverso dal cadavere, dì con più garbo come sta la faccenda e non
spaventarmi, che ai ragazzini metton paura queste cose e agli sciocchi. Ma se
uno, entrato una volta nella scuola di un filosofo, non conosce chi è, merita
veramente di aver paura e di adulare quelli che un giorno adulava — se non
ha imparato ancora che non è carne, né ossa né nervi, bensì ciò che di tutto
questo usa e che governa le rappresentazioni e le comprende.
Già, ma dottrine come queste fanno disprezzare le leggi. — Al contrario,
quali dottrine più di queste rendono chi le accetta sottomesso alle leggi?
Legge non è, però, il capriccio d'un pazzo. Eppure, guarda come anche verso
costoro ci dispongano in modo conveniente, insegnandoci a non pretendere
mai da loro niente di ciò in cui possono esserci superiori. Esse ci insegnano a
rinunciare al miserabile corpo, a rinunciare agli averi, ai figli, ai genitori, ai
fratelli, a cedere in ogni cosa, ad abbandonare ogni cosa: fanno eccezione
solo per i giudizi che pure Zeus volle fossero possesso riservato di ciascuno.
A quale violazione di leggi alludi, a quale stoltezza? Dove sei migliore e più
forte di me, ivi cedo a te: ma dove, poi, io sono migliore, fammi posto tu.
Perché io me ne sono preso cura, di questo, tu no. A te interessa abitare in
case di marmo, inoltre, farti servire da schiavi e da affrancati, indossare vesti
pregiate, possedere gran numero di cani da caccia, di citaredi, di attori tragici.
Li pretendo io, forse? Ma tu, ti sei mai preso cura dei giudizi? o della ragione
ch'è in te? Sai di quali elementi è formata, com'è composta, come si articola,
che facoltà ha, e di quale natura? E perché t'infastidisci se un altro, che se ne
è preso cura, ha la meglio su te in questo campo? — Ma queste cose sono le
più importanti. — E chi ti proibisce di dedicarti ad esse e di prendertene
cura? Chi più di te ha a portata di mano libri, tempo libero, persone che
l'aiutino? Solo, volgiti di quando in quando ad esse, consacra, magari, un po'
di tempo alla parte direttrice della tua anima. Considera cos'è ciò che
possiedi, donde è venuto, esso che usa tutto l'altro, tutto l'altro mette alla
prova, sceglie e rigetta. Certo, finché ti occuperai delle cose esterne, le
possiederai come nessuno, quelle, ma la parte direttrice dell'anima tua, sarà
come la vuoi avere, e cioè sordida e negletta.
Non dovete mai elogiare né biasimare alcuno per cose che possono essere
buone o cattive, e neppure dovete ascrivere ad alcuno perizia o imperizia:
così vi terrete lontani da sconsideratezza e insieme da malevolenza. «Costui
si lava in fretta.» Fa male? Nient'affatto. E allora? Si lava in fretta. — E
dunque, sta tutto a posto? — No davvero: ciò che procede da giudizi retti sta
a posto, ciò che procede da giudizi storti, non sta a posto. Quindi, finché non
sai con quale giudizio si compie ciascuna azione, non lodarla né biasimarla. E
il giudizio non è facile coglierlo dalle cose esterne.
«Costui è falegname.» Perché? «Perché usa la scure.» Che significa ciò?
«Costui è musico perché canta.» Anche ciò che significa? «Costui è
filosofo.» Perché? «Porta il pallio e la zazzera.» E i ciarlatani che portano? Di
conseguenza, quando si vede uno di costoro agire in maniera sconcia, subito
si dice: «Ecco che fa il filosofo!» mentre per quel comportamento sconcio,
bisognerebbe piuttosto dire che quegli non è filosofo. Che se prenozione e
professione di filosofo consistono nel portare pallio e zazzera, parlerebbero a
ragione: ma se consistono piuttosto nell'essere immune da colpa, dal
momento che quello non compie quanto pur professa di essere, perché non
gli tolgono il titolo? E per verità, così si fa negli altri mestieri. Quando si
vede uno che lavora male d'ascia, non si dice: «Che utile c'è nell'arte del
falegname? Guarda che porcherie combinano i falegnami!» bensì, tutt'al
contrario, si dice: «Questi non è un falegname perché lavora male d'ascia!»
Allo stesso modo, se si ascolta uno che canta male, non si dice: «Ecco come
cantano i musici!» ma piuttosto: «costui non è un musico.» Solo nel caso
della filosofia la gente si comporta così: quando vede uno che agisce contro
la professione di filosofo, non gli toglie mica il titolo di filosofo, ma
ammesso che è filosofo e stabilito, da quanto è accaduto, che si comportava
male, conclude che il filosofare non giova a niente.
E qual è il motivo? che alla prenozione del fabbro diamo un valore preciso e
a quella del musico e degli altri artisti ugualmente: a quella del filosofo no,
ma quasi fosse confusa e indistinta nella nostra mente, cerchiamo di coglierla
solo dagli oggetti esterni. E quale altra arte si acquista coll’abito e colla
zazzera, e non ha pure dei princìpi, una materia, un fine? E qual è la materia
del filosofo? il pallio forse? No, ma la ragione. E quale il fine? Portare il
pallio, forse? No, ma possedere retta la ragione. E quali i princìpi? Forse
quelli che riguardano il modo di farsi folta la barba o fluente la zazzera? No,
ma piuttosto, come dice Zenone, conoscere gli elementi della ragione, la
natura di ciascuno di essi, i loro reciproci rapporti e le conseguenze che ne
derivano. Non vuoi vedere prima se, comportandosi sconciamente, il filosofo
compie quanto professa di essere e quindi biasimare quel modo di agire?
Adesso, invece, che tu hai giudizio, se lui compie un'azione, a tuo parere,
cattiva, dici: «Guarda il filosofo!» (come se fosse conveniente chiamare
filosofo chi compie tali azioni) e ancora: «È questo il filosofo?», mentre,
«Guarda il fabbro!» non lo dici, quando sai che uno di essi è adultero o
ingordo, e neppure «Guarda il musico!». Così poco intendi anche tu la
professione del filosofo, ma scivoli e ti confondi per noncuranza.
Però, anche quelli che sono chiamati filosofi si servono di cose né buone né
cattive per attuare la loro professione: hanno appena preso il pallio, si son
fatti appena crescere la barba, che subito gridano «Sono filosofo!». Ma
nessuno dirà «Sono musico» se ha comprato il plettro e la cetra, e neppure
«sono fabbro» se si è messo cappuccio e grembiule: si adatta, certo, l'abito
all'arte, ma il nome lo si prende dall'arte, non dall'abito. A ragione, quindi,
Eufrate diceva: «Ho cercato di tener nascosto per molto tempo che
filosofavo: e indubbiamente, aggiungeva, m'è giovato. Infatti, in primo luogo,
sapevo che tutte le mie buone azioni non le compivo perché c'era chi mi
guardava, ma per me stesso: stavo composto a tavola per me, ero modesto nel
guardare e nel camminare: tutto per me e per Dio. In secondo luogo, come
solo scendevo in lotta, così pure solo mi compromettevo: se compivo
un'azione turpe o sconveniente, la causa della filosofìa non era compromessa,
da parte mia, e neppure danneggiavo gli altri, cadendo in fallo da filosofo.
Per ciò, quanti ignoravano il mio piano, restavano stupiti come, pur trattando
tutti i filosofi e vivendo con loro, non filosofassi. E che male c'era se il
filosofo si riconosceva dalle mie azioni e non dai segni esterni?».
Guarda come mangio, come bevo, come dormo, come sopporto le cose,
come me ne astengo, come accorro in aiuto degli altri, come impiego
desiderio e avversione, come osservo le relazioni naturali o acquisite senza
confusione e senza impedimenti: di qui giudicami, se puoi.
Ma se sei cosi ottuso e cieco da non ritenere nemmeno Efesto un bravo
fabbro, qualora non gli veda un cappuccio in testa, che male c'è a essere
ignorato da un giudice tanto sciocco?
Allo stesso modo Socrate era sconosciuto ai più, e molti si recavano da lui
nella convinzione di essere presentati ai filosofi. S'irritava, forse, come noi e
diceva: «Non ti sembro filosofo, io?» No, ma li prendeva e li presentava: a lui
bastava di essere filosofo e, tutto contento, non si rodeva di non apparire tale,
perché aveva davanti agli occhi il suo compito. E qual è il compito dell'uomo
di perfetta virtù? Avere molti discepoli? Nient'afFatto. Se la vedano quelli
che hanno tale ambizione. Esaminare sottilmente principi diffìcili? Anche
questo, se lo vedano altri. E allora in quale campo era qualcuno e voleva
esserlo? Dove ci sono danno e utilità. «Se qualcuno può danneggiarmi, egli
dice, non concludo un bel nulla: se attendo che un altro mi sia d'utilità, sono
proprio un nulla. Voglio qualcosa e non succede: sono un infelice». A tale
prova sfidava chiunque e non mi sembra che abbia ceduto ad alcuno. A far
che cosa, secondo voi? Ad annunciare e a dire: «Ecco chi sono io»?
Non sia mai, ma ad essere qual era. Perché, poi, è proprio d'un pazzo e d'un
fanfarone dire: «Sono impassibile e imperturbabile. Non ignorate, uomini,
che mentre voi vi dimenate e tumultuale per roba di nessun conto, io solo mi
sono staccato da ogni turbamento.» Così, non ti basta non sentire affatto il
dolore se non fai il bando: «Raccoglietevi tutti, che soffrite ai piedi, al capo,
che avete la febbre, e voi, storpi e ciechi, e guardate come sono libero da ogni
acciacco»? È un agire vuoto e grossolano codesto, a meno che, al pari di
Asclepio, non sia in grado pure tu di mostrare sull'istante con quali cure
possano guarire anch'essi, e, a questo scopo, porti, come esempio, la tua
salute.
Tale è, in realtà, il cinico, ornato da Zeus di scettro e di diadema. Egli
afferma: «Perché vi rendiate conto, uomini, che cercate la felicità e
l'imperturbabilità non dove si trovano ma dove non si trovano, ecco, io sono
stato mandato a voi da Dio come esempio, io che non possiedo né beni né
casa né moglie né figli, ma neanche un letto né una tunica né un mobile.
Eppure, vedete come sono florido di salute. Fate la prova su me e se mi
vedete imperturbato, ascoltate i rimedi e i mezzi con cui sono stato curato».
Questo è già un atteggiamento umano e nobile. Ma vedete di chi è questo
compito: di Zeus o di chi Zeus ritiene degno di una tale missione, onde non
sveli mai, in nessun modo, alla gente qualcosa che invalidi la testimonianza
con cui approva la virtù e riprova gli oggetti esterni, né impallidendo il
bellissimo volto né lungo le guance pianto tergendo.
E non basta, ma non deve neppure desiderare o cercare alcunché, persona,
luogo, passatempo, come i ragazzi la vendemmia o le vacanze, egli che è
rivestito d'ogni parte di rispetto come gli altri di pareti, di porte, di portieri.
Adesso, invece, solo che muovano i primi passi verso la filosofìa, come i
deboli di stomaco verso un piatto che poco dopo avranno a nausea, gridano
subito allo scettro e al regno!
S'è lasciato scendere la zazzera, ha preso il pallio, mostra nuda la spalla,
litiga con quelli che incontra, e se scorge uno avvolto nel mantello litiga pure
con lui. Uomo, esercitati prima in inverno: osserva i tuoi impulsi che non
siano quelli di uno debole di stomaco o di una donna in preda alle voglie.
Cerca per prima cosa, che s'ignori chi tu sia: filosofa per te alcun tempo. Così
nasce il frutto: bisogna che il seme sia coperto per un certo tempo, sia
nascosto, e a poco a poco cresca, finché giunga a maturità. Ma se butta la
spiga prima che spuntino i nodi, è un aborto, viene dai giardini di Adone.
Tale pianticella sei pure tu: prima del necessario sei fiorito e l'inverno ti
brucerà. Vedi che dicono i contadini dei semi, quando il calore giunge avanti
tempo: sono in ansia che i semi crescano rigogliosi e poi una gelata sola,
attaccandoli, smentisca [la loro promessa]. Bada anche tu, uomo: sei stato
rigoglioso: ti sei gettato troppo presto sulla povera gloria: credi di essere
qualcuno — pazzo tra pazzi. Gelerai, anzi, sei già gelato in basso, alle radici,
mentre in alto continui a mettere qualche fiore e perciò credi di vivere ancora
e di essere florido. Noi, per lo meno, lasciaci maturare come vuole natura.
Perché ci spogli, perché ci violenti? Non siamo ancora in grado di sostenere
l'aria: lascia che s'ingrossi la radice e che crescano i nodi, il primo, poi il
secondo, poi il terzo; poi, a questo modo, il frutto forzerà la natura, anche
contro il mio volere. E chi in realtà, pregno e pieno di siffatti giudizi, non
s'accorge delle sue possibilità e non si accinge alle azioni che ad esse si
confanno? Ma il toro non ignora la sua natura e le sue capacità, quando
appare una belva, e non attende chi lo stimoli: e neppure il cane, quando
scorge un animale selvaggio. Ed io, se posseggo le capacità dell'uomo buono,
attenderò che tu mi disponga alle azioni che mi sono proprie? Però, adesso,
non le posseggo ancora, credimi. E perché vuoi che inaridisca prima del
tempo, come sei inaridito tu?
Quando vedi uno che è magistrato, opponi, per parte tua, che sai fare a meno
delle magistrature: quando vedi un altro ricco, guarda quel che possiedi in
vece delle ricchezze. Perché se non hai niente in cambio, sei un infelice: ma
se hai la capacità di non aver bisogno delle ricchezze, sappi che hai qualcosa
molto maggiore di lui e di molto maggior valore.
Uno ha una moglie avvenente: tu sai reprimere il desiderio d'una moglie
avvenente. Ti sembra poco? Eppure, quanto pagherebbero questi stessi ricchi
e magistrati e corteggiatori di belle dame per poter disprezzare la ricchezza,
le magistrature, le donne stesse che amano e conquistano? Ignori che razza di
sete è quella del febbricitante? Non ha niente di uguale a quella dell'uomo
sano. Questi, dopo aver bevuto, non ha più sete; quello, dopo un istante di
soddisfazione, ha nausea, converte l'acqua in bile, vomita, si torce, ha una
sete più violenta. Qualcosa di simile è aver ricchezze e sentirne la brama,
avere una carica e sentirne la brama, giacere con una bella donna e sentirne la
brama, che sopraggiungono l'emulazione, il terrore di perderle, le parole
sconce, i pensieri sconci, le azioni irriguardose.
E che cosa perdo, si dice? Uomo, eri verecondo e adesso non lo sei più —
non hai perduto niente? Invece di Crisippo e di Zenone leggi Aristide ed
Eveno: non hai perduto niente? Invece di Socrate e di Diogene, resti
ammirato davanti a chi può sedurre e ingannare il maggior numero di donne.
Vuoi esser bello e non essendolo ti acconci: vuoi sfoggiare una veste
splendida per attirare le donne e, se mai riesci a procurarti un po' di profumo,
ti credi beato. Prima, non t'importava affatto di tutto questo, ma solo dove
fosse una conversazione dignitosa, una persona stimabile, un sentimento
nobile. Di conseguenza, dormivi da uomo, camminavi da uomo, portavi vesti
degne di un uomo, tenevi il linguaggio conveniente a un uomo nobile. E poi
mi dici: «non ho perduto niente»? Ma come, solo il denaro perdono gli
uomini? La verecondia non si perde? la dignità non si perde? E chi le perde
non subisce danno? Ti sembra forse che non si dia più danno, perdendole?
Eppure ci fu un tempo che questo solo ritenevi danno e male, quando tremavi
che qualcuno ti distogliesse da siffatti discorsi e da siffatte azioni.
Ed ecco, ne sei stato distolto, e non da altri, ma da te. Combatti con te,
riconquista la dignità, la verecondia, la libertà.
Se t'avessero detto sul mio conto che uno mi costringeva ad essere adultero,
o a portare una veste di tal guisa, o a profumarmi, non saresti corso per
uccidere di tua mano quest'uomo che mi faceva tale violenza? Ed ora non
vuoi portare aiuto a te stesso? Quanto è più facile codesto aiuto! Non devi
ammazzare, né legare, né maltrattare alcuno, né recarti in piazza, ma parlare
con te stesso, con chi cioè è soprattutto disposto ad obbedire, presso il quale
nessuno è più persuasivo di te. E in primo luogo, riprova quel che hai fatto;
poi, riprovatolo, non disperare di te e non fare come gli uomini ignobili i
quali, appena hanno ceduto, si arrendono del tutto e sono quasi succhiati dalla
corrente. Osserva piuttosto come si comporta il maestro di ginnastica. È
caduto un ragazzetto. «Levati, gli dice, lotta ancora, finché t'irrobustisci». Fa'
anche tu a questo modo: sappi che non c'è niente più pieghevole dell'anima
umana. Bisogna volere: e la cosa è fatta, la correzione è compiuta: al
contrario, tu sonnecchi e tutto è rovinato. Perche dentro di noi sta il danno e il
rimedio. — E che bene mi può venire? Ne cerchi uno più grande di questo?
Da spudorato sarai riguardoso, da disordinato ordinato, da infedele fedele, da
sfrenato temperante. Se cerchi qualcosa più grande ancora, continua a fare
quel che fai, perché neppure un dio potrà più salvarti.
Gli uomini trovano ogni difficoltà nelle cose esterne, la perplessità nelle cose
esterne. «Che farò? come verrà? come riuscirà? che non mi capiti questo, che
non mi capiti quello!». Sono tutte espressioni di persone che si dibattono
intorno a oggetti indipendenti dalla libera scelta. Chi dice: «Come farò per
non assentire al falso? Come, per non separarmi dal vero?» Se c'è uno di
natura così nobile da tormentarsi per ciò, gli ricorderò: «Perché ti tormenti?
sono cose in tuo potere: sii sicuro: non precipitarti a dare l'assenso prima
d'aver usato la regola naturale». Se poi è in ansia pel timore che il suo
desiderio rimanga incompiuto e irrealizzato o che la sua avversione incorra in
ciò che vuole evitare, prima gli darò un bacio perché, trascurati gli oggetti
davanti a cui gli altri sono sbigottiti e i loro timori, si prende a cuore le cose
sue, tra le quali è veramente lui, poi gli dirò: «Se non vuoi che i tuoi desideri
siano frustrati, se non vuoi incorrere in ciò che badi a evitare, non desiderare
nessuno degli oggetti altrui, non evitare niente di ciò che non è in tuo potere:
se no, necessariamente, non otterrai quelli, incorrerai in questi.» Quale
difficoltà c'è qui? Dove ha più luogo quel «come verrà?» e «come riuscirà?»
e «che non mi capiti questo o quello»?
«Ebbene, il futuro non è al di là della nostra scelta?» — «Certo.» — «E la
natura del bene e del male è tra le cose dipendenti dalla nostra scelta?» —
«Certo.» — «Ti è lecito, dunque, usare di ogni evento secondo natura? E chi
te lo può proibire?» — «Nessuno.» — «E allora non dirmi più: 'Come
succederà?': comunque succederà quell'avvenimento, tu lo volgerai a buon
fine e sarà per te un successo. Che sarebbe stato Eracle se avesse detto:
'Come fare perché non mi si mostri quel grosso leone, né quel grosso
cinghiale né quegli uomini bestiali?' Che t'importa? Se ti si mostra un grosso
cinghiale, in maggior tenzone tenzonerai: se uomini cattivi, da cattivi
libererai la terra.» — «E se muoio in questa impresa?» — Morirai da
valoroso, compiendo una nobile azione. E siccome bisogna assolutamente
morire, è pur necessario che sia trovato a far qualcosa o a coltivare i campi, o
a zappare, o a commerciare, o a esser console, o a soffrir di indigestione o di
diarrea. In quale azione vuoi ti trovi occupato la morte? Io, per parte mia, in
un'azione degna d'un uomo, benefica, utile alla comunità, nobile. E se non
riesco a farmi trovare occupato in siffatte azioni, — siccome, per lo meno, c'è
qualcosa che non può essermi impedita, e m'è stata concessa, — mi trovi
mentre correggo me stesso o esercito la facoltà che usa le rappresentazioni o
mi affatico per raggiungere l'imperturbabilità, o cerco di regolare nel modo
dovuto le diverse relazioni sociali e, se sono così fortunato, anche mentre
pongo mano al terzo punto, che riguarda la stabilità dei giudizi.
Se la morte mi sorprende in tali faccende, mi basta di poter levare le mani a
Dio e dirgli: «Le facoltà che ho ricevuto da te per comprendere il tuo governo
e seguirlo non le ho trascurate: non ti ho disonorato, per parte mia. Guarda
come ho usato i sensi, come le prenozioni. Ti ho mai biasimato? sono stato
scontento di qualche avvenimento o l'ho desiderato altrimenti? ho mancato
alle mie relazioni cogli altri? Ti ringrazio d'avermi fatto nascere, ti ringrazio
di quanto m'hai dato: il tempo che ho usato le tue cose mi basta. Riprendile e
assegnami il posto che vuoi: perché erano tutte tue, tu me le hai date.» Non
basta allontanarsi così disposti? C'è una vita migliore e più dignitosa di quella
sorretta da tali sentimenti? Quale fine è più beata?
Ma per arrivare a tanto, non piccole cose bisogna sopportare, né a piccole
cose rinunciare. Non puoi pretendere il consolato e questi sentimenti,
preoccuparti di possedere campi e questi sentimenti, pensare agli schiavi e a
te stesso. Ma se vuoi una delle cose altrui, le tue sono bell'e distrutte. Perché
è questo il carattere della faccenda: non si fa niente senza pagare. E che c'è di
strano? Se vuoi essere console devi restare sveglio, correre di qua e di là,
baciare mani, marcire presso le porte degli altri, molte cose dire, molte cose
fare indegne di un libero, inviare regali a molti e a taluni doni ospitali giorno
per giorno. Con quale resultato? Dodici fasci di verghe, il privilegio di sedere
tre o quattro volte in tribunale, di dare giochi nel circo e di sfamare i clienti
con le sportule. Ovvero, mi si mostri che cosa v'ha oltre questo. E per la
tranquillità, per l'imperturbabilità, per dormire veramente quando dormi e star
desto veramente quando sei desto, per non avere alcun timore, per non
trepidare di nessuna cosa, non vuoi spender niente, non vuoi penar niente?
Ma se nel tuo affaticarti per tutto questo, qualcosa va perduta o consumata
senza frutto o un altro ottiene ciò che dovevi ottener tu, ti sentirai subito
morso per l'accaduto? Non bilancerai lo scambio che fai, ciò che guadagni e
ciò che perdi, che valore ha quello e che valore ha questo? E vuoi ottenere
siffatti beni senza pagare? Come lo puoi? Una cosa non ha niente in comune
con un'altra.
Non puoi prestar continuamente attenzione alle cose esterne e alla parte
direttrice dell'anima tua. Se vuoi quelle, lascia questa; se no, non avrai né
questa né quelle, trascinato in tutt'e due le direzioni. Se vuoi questa, devi
lasciare quelle. Mi si verserà l'olio, i miei mobili andranno perduti, ma io
rimarrò impassibile. Scoppierà un incendio durante la mia assenza, e
andranno perduti i libri: e tuttavia io userò le mie rappresentazioni in maniera
conforme a natura. Ma non avrò da mangiare. Se sono così infelice, porto è la
morte: ecco il porto di tutti, la morte, ecco lo scampo. Per ciò, niente di quel
che può accadere in vita è grave: quando vuoi, te ne vai e non sei molestato
dal fumo. Perché sei in ansia?
Perché stai sveglio? Perché, invece, considerato dove sta il tuo bene e il tuo
male, non dici subito: «Sono in mio potere l'uno e l'altro: nessuno mi può
strappare il bene né gettarmi nel male contro voglia: e perché allora non mi
metto giù e russo? Le mie cose stanno al sicuro: alle altrui ci pensi chi le
ottiene, a quali condizioni gli sono date da chi ne ha autorità. Chi sono io da
volere che siano in questo o in quel modo? Me n'è stata forse concessa una
scelta? Ne sono stato fatto amministratore da qualcuno? Mi bastano quelle su
cui ho autorità. Queste io devo disporre il meglio possibile: le altre, come
vuole chi ne è padrone.»
Chi ha questo davanti agli occhi, veglia, forse, e «si rivolta di qua e di là»?
Che vuole? Che agogna? Patroclo o Antiloco o Protesilao? Ma quando ha
ritenuto immortale uno degli amici? Quando non ha avuto davanti agli occhi
che domani o dopodomani o lui o l'altro dovevano morire? «Già, dice: però
pensavo che quello mi sarebbe sopravvissuto e avrebbe tirato su mio figlio».
Uno sciocco eri, e cose incerte pensavi. Perché non accusi te stesso, ma siedi
piangendo come le ragazzine? «Ma quello mi serviva a tavola». Già, perché
era vivo, sciocco: ora non lo può più. Ti servirà Automedonte: e se muore
anche Automedonte, troverai un altro. Se va in frantumi la pignatta, ove ti si
cuoceva la carne, devi forse morire di fame, per non avere la pignatta solita?
Non mandi a comprarne un'altra nuova? Risponde:
Nessun'altra disgrazia più grave colpir mi poteva. Perché, tu lo chiami male
questo? E allora, senza badare a strappartelo di dosso, accusi tua madre per
non averti predetto che da quel momento in poi saresti vissuto in mezzo ai
lamenti? Che credete? non l'ha scritto apposta Omero tutto questo per farci
vedere come uomini nobilissimi, fortissimi, ricchissimi, bellissimi, se non
posseggono giudizi convenienti, non si possono salvare dalla più grande
infelicità e disgrazia?
DELLA PULIZIA
SULL’ATTENZIONE
Quando crediamo che qualcuno ci abbia parlato con franchezza delle sue
cose, siamo spinti, in certo senso, ad aprirgli anche noi i nostri segreti — e lo
riteniamo franchezza: prima, perché ci sembra ingiusto aver udito le cose del
vicino e, in cambio, non metterlo a parte delle nostre, poi, perché riteniamo di
non dare a loro l'impressione che siamo uomini franchi, tacendo i nostri affari
personali. E, certo, spesso si è soliti dire: «Io t'ho detto tutte le mie cose, tu
non vuoi dirmi niente delle tue? Come va questo?» Si aggiunge anche la
convinzione che ci fidiamo in tutta sicurezza di chi ci ha già confidato le sue
faccende: e in realtà, s'insinua in noi il pensiero che quegli non svelerà mai i
nostri affari, nel timore che anche noi non sveliamo i suoi. A questo modo
viene ingannata in Roma dai soldati la gente facilona. Ti siede vicino un
soldato, in abito civile, e incomincia a dir male di Cesare: allora tu, quasi
avessi ricevuto da lui il pegno della sua buona fede per avere proprio lui
iniziato a sparlare, dici, a tua volta, quel che pensi: poi legato, ti portano in
galera. Più o meno simile è l'atteggiamento generale di noi uomini. Ma per il
fatto che quegli in tutta sicurezza mi ha confidato i suoi affari, io non sono
tenuto a comportarmi allo stesso modo con chiunque incontro. Io, in realtà,
dopo avere ascoltato, me ne sto zitto, se sono una persona a modo: quello,
invece, uscito fuori, lo divulga a tutti. Allora, se vengo a conoscenza
dell'accaduto e sono simile a lui, per desiderio di vendetta, divulgo i suoi
affari e così lo rovino e mi rovino.
Se però ricordo che nessuno danneggia un altro, ma che sono le nostre azioni
a danneggiarci o a giovarci, ottengo questo di certo, di non comportarmi nei
suoi riguardi come lui, e tuttavia soffro quel che soffro per la mia loquacità.
E va bene: ma è ingiusto che, ascoltati i segreti del vicino, non gliene
comunichi, a tua volta, qualcuno dei tuoi. — T'ho invitato io a quelle
confidenze, uomo? O m'hai svelato le tue cose a determinate condizioni, di
ascoltare, cioè, a tua volta, le mie? Se tu sei loquace e ritieni amici tutti quelli
che incontri, vuoi che anch'io ti somigli? E poi, se tu m'hai confidato a
ragione le tue cose, mentre non c'è ragione di confidarle a te, vuoi che io
agisca sconsideratamente? È come se io avessi un vaso ben sano, tu, invece,
forato e, venuto a visitarmi, deponessi da me il tuo vino perché io lo versassi
nel mio vaso e poi ti indignassi con me perché io non ti affido il mio vino:
certo, il vaso che hai è forato. Come può esserci ancora uguaglianza? Tu l'hai
deposto presso un uomo leale, verecondo, che ritiene dannose o giovevoli
solo le sue attività, e nessuno degli oggetti esterni: e vuoi che io l'affidi a te, a
un uomo che ha dispregiato la sua persona morale, che cerca di far quattrini o
di ottenere una carica o una promozione a corte, dovessi anche sgozzare i
figli tuoi come Medea? Dov'è l'uguaglianza? Ma via: mostramiti fedele,
verecondo, costante; mostra che i tuoi giudizi sono amorevoli, mostra che il
tuo recipiente non è forato e vedrai che non aspetterò più le tue confidenze,
ma verrò io stesso da te e ti inviterò ad ascoltare le mie. E, in realtà, chi non
vuole usare un recipiente bello? chi disprezza un consigliere benevolo e
leale? chi non accetterà di buon grado uno che vuole condividerne le
difficoltà, come si fa con un peso, che vuole renderle più leggere, proprio in
quanto le condivide?
Sì, ma io mi fido di te, tu di me non ti fidi. — In primo luogo neppure tu ti
fidi di me, ma sei loquace e per ciò non puoi trattenere niente. Che se è così,
affidale a me solo. Ora, invece, chiunque vedi ozioso, gli siedi accanto e gli
dici: «fratello, non ho nessuno più benevolo né più caro di te: ti prego, ascolta
i miei affari». E agisci così anche con gente che non conosci nemmeno un
po'. Ma se ti fidi di me, è chiaro che lo fai in quanto io sono uomo leale e
verecondo e non perché t'ho svelato le mie cose. E allora lascia che anch'io
pensi lo stesso di te. Mostrami che se uno ha svelato a un altro le sue cose è
perciò stesso leale e verecondo. Se così fosse, andrei attorno a dire le mie
cose a tutti gli uomini, se per questo dovessi essere leale e verecondo. Ma la
cosa non sta in questi termini: per essere tale, c'è bisogno piuttosto di giudizi
e non di giudizi a caso. Se vedi uno che si preoccupa di cose indipendenti
dalla sua libera scelta e ad esse assoggetta la sua persona morale, sappi che
quest'uomo ha infinite persone che lo ostacolano, che lo impediscono. Non
c'è bisogno di pece o di ruota per fargli svelare quel che sa, ma il cenno di
una ragazzetta, all'occorrenza, lo scuoterà, la cortesia di un cesariano, la
brama di una carica o di una eredità, trentamila altre cause simili a queste.
Bisogna dunque ricordare, in generale, che i segreti esigono fede e giudizi di
tal genere. Ma adesso, dove si possono trovare facilmente?
Mi si mostri un uomo in condizione da dire: «A me stanno a cuore solo le
mie cose, che non sono soggette a
impedimenti, che sono per natura libere: questa, che è la vera natura del
bene, io la posseggo: il resto, venga come Dio vuole: per me non ha
importanza».
FRAMMENTI E TESTIMONIANZE
« Che m'importa, dice Epitteto, se le cose che esistono sono formate di atomi
o di indivisibili o di fuoco e di terra?
Perché, non basta conoscere la vera natura del bene e del male, le norme dei
desideri e delle avversioni, degli impulsi e delle repulse e di ordinare su di
esse, come su regole, la condotta della vita e tralasciare quante cose sono al
di là di noi?
Queste c'è caso siano incomprensibili alla mente umana: e se pure se ne
ammettesse la piena comprensibilità, che utilità deriverebbe da tale
comprensione? Non si deve dire, quindi, che si affannano senza scopo quanti
le assegnano come necessarie all'indagine del filosofo?» — «È forse
superfluo anche il precetto di Delfì, conosci te stesso?» — «Questo, davvero,
no, dice.» «E che significa? Se si ordinasse a un coreuta di conoscere se
stesso, non baderebbe costui all'ordine, prestando attenzione ai compagni del
coro e accordando il suo canto al loro?» — «Certo.» — «E nel caso di un
navigante? o d'un soldato? Ti sembra che l'uomo sia stato fatto per vivere da
solo o per la comunità?» — <«Per la comunità.»> — «Da chi?» — «Dalla
natura.» — «E che sia la natura e come governi l'universo, e se realmente
esista o no, sono questioni di cui non bisogna preoccuparsi». Chi è scontento
di quel che ha e che gli è stato dato dalla fortuna, è un estraneo nella vita,
mentre chi sopporta tutto ciò con nobile spirito e fa un uso ragionevole di
quanto ne deriva, merita di essere ritenuto uomo buono.
Tutto obbedisce e serve al Cosmo, la terra, il mare, il sole e gli altri astri e le
piante e gli animali della terra; gli obbedisce anche il nostro corpo che
s'ammala e si guarisce quando il Cosmo vuole, che fiorisce e s'invecchia e
passa attraverso ogni altro mutamento. È dunque ragionevole che quel che è
in nostro potere, cioè la decisione della volontà, non gli si opponga, essa sola:
perché il Cosmo è potente e superiore a noi e decide, nei nostri riguardi,
meglio di noi, facendoci rientrare insieme all'universo nella sua
amministrazione. Oltre ciò, l'opposizione a lui, che rappresenta un'alleanza
con l'irragionevole e non approda ad altro che a una lotta vana, ci fa incorrere
pure in pene e in dolori.
Delle cose esistenti, Dio ne ha poste alcune in nostro potere, altre no. In
nostro potere Egli ha posto la più bella e la più importante, per la quale Egli
stesso è felice, l'uso delle rappresentazioni. Quando quest'uso si esercita
rettamente si ha libertà, serenità, tranquillità, sicurezza: si ha pure giustizia,
legge, padronanza di sé e ogni virtù. Tutte le altre cose non le ha poste in
nostro potere. Quindi, bisogna che anche noi siamo consenzienti con Dio e,
divisi gli oggetti secondo la sua veduta, cerchiamo di ottenere in ogni modo
quelli che sono in nostro potere, gli altri, che non lo sono, lasciamo al cosmo,
e gli cediamo volentieri, qualunque cosa chieda, siano figli, sia patria, sia
corpo o simili.
Ritenere che saremo spregevoli agli altri, se non offendiamo in ogni modo i
primi nemici che ci capitano, è proprio di uomini estremamente ignobili e
dissennati. Perché diciamo in genere che l'uomo spregevole si riconosce tra
l'altro dalla sua inettitudine a offendere: ma molto più si riconosce dalla sua
inettitudine a far del bene.
Perché tale era, è e sarà la natura dell'universo e non è possibile che le cose
che vengono all'essere ci vengano in maniera diversa dall'attuale. A tale
mutamento e trasformazione non soltanto gli uomini partecipano e gli altri
esseri terrestri ma anche quelli divini, e per Zeus, gli stessi quattro elementi si
mutano e si trasformano secondo una direzione in su e una in giù, e la terra
diventa acqua e l'acqua aria e questa a sua volta si trasforma in etere: uguale è
il processo di trasformazione dall'alto in basso. Chi cerca di volgere la sua
mente a queste cose e di persuadersi ad accettare di buon animo quel che
deve necessariamente accadere, trascorrerà una vita molto moderata e
armoniosa.
Un filosofo rinomato nella scuola stoica... trasse dal suo bagaglio il quinto
libro delle Diatribe del filosofo Epitteto, redatte da Arriano e conformi, senza
dubbio, agli scritti di Zenone e di Crisippo. In quel libro, naturalmente in
greco, si legge un brano del seguente tenore: «Le rappresentazioni dell'animo
da cui lo spirito dell'uomo è subito colpito non appena le apparenze d'un
oggetto giungono all'animo, non dipendono dalla volontà né dall'arbitrio, ma
s'impongono di forza alla coscienza dell’uomo. Al contrario, gli assensi che
trasformano tali rappresentazioni in conoscenze, sono volontari e dipendono
dall'arbitrio dell'uomo. In conseguenza, quando si produce un rumore
terrificante o in cielo o in seguito a uno scoscendimento, quando si diffonde
la notizia improvvisa di non so quale pericolo e succede qualche altro fatto
dello stesso genere, anche l'animo del saggio dev'essere scosso, deve
angustiarsi e impallidire: ma non è effetto della previsione d'un male — si
tratta di movimenti rapidi e irriflessi che prevengono l'esercizio del pensiero
e della ragione. Tuttavia, il saggio, tali rappresentazioni terrificanti giunte al
suo animo, rifiuta subito di accettarle ma le rigetta e le ripudia né ritiene vi
sia in esse qualcosa da temere. E proprio questa dicono sia la differenza tra
l'anima dell'insensato e quella del saggio, e cioè l'insensato considera davvero
terribili e spaventose le cose quali gli si sono presentate alla prima
impressione — e così pure le azioni — e, come se fossero davvero temibili,
da loro il suo assenso: il saggio, invece, dopo essersi mutato per un attimo e
leggermente nel colore del volto, rifiuta l'assenso, ma rimane fortemente
attaccato all'opinione che s'è fatto di queste rappresentazioni che cioè non
hanno assolutamente niente di terribile e che presentano solo una vana
apparenza di terrore e costituiscono una paura illusoria.
Ecco quel che pensa e dice il filosofo Epitteto, conforme alla dottrina stoica
come abbiamo letto nel libro che ho citato.
Quando si tratta della salvezza dell'anima e del rispetto per noi stessi, bisogna
pur fare qualcosa senza troppo pensarci, — un'espressione di Epitteto che
Arriano riferisce e approva.
«Eppure, dice qualcuno, io vedo che gli uomini di perfetta virtù muoiono di
fame e di freddo». E quelli che non sono di perfetta virtù, non vedi che
muoiono per la lussuria, per l'arroganza, per l'ignoranza del bello e del
buono? «Però è vergognoso farsi nutrire da altri.» Miserabile sciocco, chi si
nutre da sé all'infuori del Cosmo? Quindi chi accusa la provvidenza perché i
cattivi non pagano il fio delle loro malvagità, perché sono potenti e ricchi, fa
come chi dicesse che quelli, pur avendo perduto un occhio, non hanno pagato
il fio delle loro malvagità perché le loro unghie sono in buone condizioni.
Secondo me, tuttavia, tra virtù e ricchezze c'è una differenza molto maggiore
che tra occhi e unghie.
...e mettono avanti quegli intrattabili filosofi, per i quali il piacere non è
conforme a natura, ma si aggiunge alle cose conformi a natura, alla giustizia,
alla saggezza, alla libertà. Ma perché l'anima, come dice Epicuro, gode e si
quieta nei beni del corpo, per quanto siano così piccoli, e non trova il suo
piacere nei beni suoi propri, che sono tanto grandi?
Eppure la natura mi ha dato il senso del pudore e spesso arrossisco quando
m'accorgo di dire una sconcezza. È proprio tale emozione che non mi fa
ammettere il piacere come bene e fine della vita.
Bisogna sapere che non è facile per l'uomo acquistarsi un giudizio stabile a
meno che giorno per giorno non dica e ascolti gli stessi princìpi e, insieme, li
applichi alla vita.
Sono proprio graziosi, egli disse, quelli che vanno in superbia per le cose
indipendenti da noi. Uno dice: «Sono superiore a te perché possiedo tanti
campi, mentre tu ti torci per la fame». Dice un altro: «Sono stato console.» E
un altro: «io sono procuratore.» Un altro: «Io ho una folta capigliatura». Ma
un cavallo non dice a un cavallo: «Sono superiore a te perché ho tanto fieno e
tanto orzo e le briglie d'oro e i finimenti variopinti», bensì perché «sono più
veloce di te». E ogni essere è superiore o inferiore a un altro in rapporto alla
sua particolare capacità o incapacità. Ora, l'uomo soltanto non ha una
capacità sua propria, e dobbiamo ricorrere ai capelli, ai vestiti, agli antenati?
Per questo motivo è giusto lodare Agrippino, che, sebbene fosse un uomo
degno di moltissima considerazione, non si lodò mai, anzi arrossiva, se altri
lo lodava. Aveva un carattere siffatto che quando gli capitava una difficoltà,
ne tesseva l'elogio: della febbre, se aveva la febbre, dell'infamia, se era
colpito dall'infamia, dell'esilio, se era esiliato. Una volta, continuò, in
procinto di andare a pranzo, gli si avvicinò uno dicendogli che Nerone gli
imponeva di partire per l'esilio. E lui «Bene, replicò, pranzeremo ad Ariccia».
Se muore uno giovane, biasima gli dèi, (perché muore giovane. Se uno
vecchio non muore, biasima anch'egli gli dèi) perché, potendo una buona
volta riposare, soffre ancora: nondimeno quando si presenta la morte, vuol
vivere e manda a chiamare il medico e lo prega di non risparmiare né zelo né
cura. Strani tipi, soleva dire, che non vogliono né vivere né morire.
Prima di attaccare qualcuno con veemenza e minacce, ricorda di dirti che sei
un essere mite. Così non compirai nessun atto violento, e vivrai senza
pentimenti e senza colpe.
Bisogna trovare — dice Epitteto — l'arte dell'assenso e, nel luogo che tratta
degli impulsi, dice che bisogna mantenere ben desta l'attenzione perché siano
guidati dalla dovuta riserva, perché siano utili alla comunità, perché siano
proporzionati al valore oggettivo delle cose: dice ancora che dal desiderio
bisogna astenersi del tutto, e dell'avversione non valersi rispetto alle cose che
non sono in nostro potere.
La posta della gara non è una cosa qualunque: si tratta di essere pazzi o no.
In ogni circostanza non pensare a niente come alla tua sicurezza, perché è più
sicuro il tacere del parlare: tralascia, quindi, di dire ciò che non ha senso ed è
pieno di biasimo.
Né una nave si può fissare a un'ancora sola né la vita a una sola speranza.
È più necessario curare l'anima che il corpo, perché la morte è meglio d'una
vita cattiva.
Cosa immortale è la verità ed eterna e non ci offre una bellezza che col tempo
si spegne né una libertà di parola che la giustizia può togliere, ma ciò ch'è
giusto e legale e da questo distingue quel che è ingiusto e lo ripudia.