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EPITTETO

LE DIATRIBE E I FRAMMENTI
DIATRIBE

DI QUEL CHE DIPENDE DA NOI E DI QUEL CHE NON DIPENDE DA


NOI

Tra le altre arti e facoltà non ne troverete nessuna in grado di prendere se


stessa a oggetto di studio e perciò nemmeno in grado di approvarsi o di
disapprovarsi. La grammatica, fino a che punto estende le sue possibilità
speculative? Fino a riconoscere le lettere. E la musica? Fino a riconoscere la
melodia. Forse una di esse prende se stessa a oggetto di studio?
Nient'affatto. Certo, che se scrivi a un amico c'è bisogno di queste lettere, la
grammatica lo dirà: ma se si debba o no scrivere all'amico, la grammatica
non lo dirà. Ugualmente la musica riguardo alle melodie: ma se si debba
adesso cantare e suonare la cetra, ovvero non si debba né cantare né suonare
la cetra, non lo dirà. E chi lo dirà? La facoltà che prende se stessa e tutto il
resto a oggetto di studio. E qual è? La facoltà raziocinante: essa sola, infatti,
di quante ne abbiamo ricevute, comprende se stessa — la natura, la potenza,
il valore che ha venendo in noi, — e le altre tutte. Che altro è ad affermare
che l'oro è bello? L'oro, da sé non lo afferma.
Senza dubbio è la facoltà capace di usare le rappresentazioni. Che altro è a
giudicare la musica, la grammatica, le altre arti e facoltà, a esaminare l'uso
che se ne fa, a indicare le condizioni favorevoli per usarne? Nient'altro. Per
ciò, com'era giusto, solo quel che è più importante di tutto e che domina il
resto, gli dèi l'hanno fatto dipendente da noi; e cioè, il retto uso delle
rappresentazioni: le altre cose non le hanno fatte dipendenti da noi. Forse
perché non vollero? Secondo me, se potevano, anche quelle ci avrebbero
affidato, ma non l'hanno proprio potuto. E, infatti, stando sulla terra, legati a
un corpo siffatto, con siffatti compagni, com'era possibile che, rispetto ad
esse, non fossimo impediti dagli oggetti esterni?
Vediamo, che dice Zeus? « Epitteto, se era possibile, anche il tuo povero
corpo, anche le tue povere sostanze avrei fatto libere, non soggette a
impedimento. Ora, invece, non ti sfugga che questo corpo non è tuo, ma è un
po' di fango mescolato con una certa eleganza. E poiché non ho potuto
questo, ti abbiamo dato una parte di noi, questa facoltà impulsiva e repulsiva,
desiderativa e avversativa, cioè, in una parola, la facoltà che sa usare le
rappresentazioni. Se ne prendi cura e poni in essa i tuoi beni, non incontrerai
mai ostacolo, non subirai mai impedimenti, non gemerai, non biasimerai, non
adulerai alcuno. E dunque? ti par poco, questo? ».
— Non sia mai.
— Te ne contenti?
— Sì, e invoco gli dèi.
E adesso, potendo prenderci cura di una cosa sola e a una sola aderire,
preferiamo, invece, prenderci cura di molte e a molte attaccarci, al corpo, ai
beni, al fratello, all'amico, al figlio, allo schiavo. Così, dunque, attaccati a
molti oggetti, siamo gravati da essi e trascinati in basso. Per ciò, quando non
è possibile navigare, ci mettiamo a sedere sconvolti e ci giriamo
continuamente intorno : « Che vento soffia? Borea» — Che c'è da spartire tra
noi e lui? «E Zefìro, quando soffierà?» Quando parrà opportuno a lui,
carissimo, oppure a Eolo. Te, non t'ha fatto dispensatore dei venti il dio, ma
Eolo. Che conviene fare allora? Organizzare il meglio possibile quel che
dipende da noi, e di tutte le altre cose usare come esige la loro natura. « E
come esige la loro natura? » Come Dio vuole.
«Dunque, devo essere decapitato soltanto io, adesso? » E che? vorresti
fossero decapitati tutti, per tua consolazione?
Non vuoi offrire il collo, come quel Lateranox a Roma che Nerone condannò
al taglio della testa? Aveva offerto il collo e l'avevano colpito: ma essendo
stato debole il colpo, si contrasse un attimo, poi lo ripresentò subito. Qualche
tempo prima Epafrodito era andato a visitarlo e gli aveva chiesto il motivo
dei suoi contrasti coll'imperatore : « Se voglio, gli rispose, lo dirò io al tuo
padrone».
« Che conviene avere a portata di mano in siffatte circostanze? » Cos'altro se
non questo pensiero: Che cos'è mio? che cosa non è mio? Che cos'è in mio
potere? che cosa non è in mio potere? Devo morire:—forse pure tra i gemiti?
Devo essere imprigionato:—forse pure tra i lamenti? Devo partire per
l'esilio:—chi mi impedisce di partire ridendo, con l'animo gioioso e contento?
— Rivelami i segreti.
— Non te li rivelo, perché questo dipende da me.
— Ma io ti metterò in catene.
— Uomo, che intendi? Me? Le mie gambe metterai in catene, che la mia
persona morale non può vincerla neppure
Zeus.
— Ti getterò in prigione.
— Il mio povero corpo.
— Ti farò decapitare.
— E quando mai t'ho detto che solo il mio collo non poteva essere troncato?
Questi i pensieri sui quali dovrebbero meditare quanti si danno alla filosofìa,
questi i pensieri che dovrebbero scrivere giorno per giorno, in questi
dovrebbero esercitarsi.
Traseax soleva dire : « Preferisco essere mandato a morte oggi che in esilio
domani ». Che gli rispose Rufo? « Se scegli la morte perché è più dolorosa,
quale pazzia è la tua scelta! se, invece, perché è più sopportabile, chi te l'ha
concessa tale scelta? Non vuoi badare a contentarti di quel che ti è dato? » E
per questo, che cosa diceva Agrippino? «Io non sono d'ostacolo a me stesso».
Gli fu annunciato : « Discutono la tua causa in Senato. » « Con buona
fortuna! Ma sono le undici — (a quell'ora era solito fare gli esercizi e poi
prendere un bagno freddo) — usciamo e facciamo gli esercizi».
Quando li ebbe terminati, ecco uno che gli dice : « Sei stato condannato».
«All'esilio o alla morte?» — chiese.
«All'esilio». «E delle mie cose che ne è ? » « Non ti sono state confiscate. »
«Allora, andiamo ad Ariccia e pranzeremo lì ». Questo è essere in esercizio
come si conviene, essersi procurati desideri e avversioni in modo da non
subire impedimenti o inciampi. Devo morire. Se subito, eccomi: vado alla
morte: se tra un po', ora mangio perché è tempo, poi morirò. Come? Come
s'addice a chi restituisce quel che è di altri.

COME SI CUSTODISCE LA PROPRIA PERSONALITA’ IN OGNI


OCCASIONE

Per l'essere dotato di ragione unica cosa intollerabile è l'irrazionale, il


razionale è tollerabile. Le percosse non sono intollerabili per natura.
— E come?
— Osserva la cosa in questa maniera: i Lacedemoni si lasciano sferzare,
sapendo ch'è ragionevole.
— Ma l'impiccarsi non è intollerabile?
— Se qualcuno ha l'impressione che sia ragionevole, va e si impicca.
Insomma, se badiamo bene, troveremo che l’essere vivente da niente è
oppresso come dall'irrazionale e al contrario, verso nient'altro è trascinato
come verso il razionale. Ma in un modo intende uno razionale e irrazinale, in
un modo l'altro, come pure buono e cattivo, in un modo uno, in un modo
l'altro, e così utile e inutile. Per questo abbiamo assoluto bisogno di
educazione, onde impariamo ad applicare ai casi particolari, in maniera
conforme alla natura, le prenozioni di razionale e di irrazionale. Ora, per
distinguere il razionale e l'irrazionale, non dobbiamo valerci solamente
dell'entità degli oggetti esterni, ma dovrà ciascuno riportarli alla propria
personalità. Per uno è ragionevole presentare il vaso da notte per la sola
considerazione che, non presentandolo, buscherà dei colpi e non buscherà
cibo, presentandolo, invece, non subirà nessun maltrattamento né pena: per
un altro non solo l'azione stessa del presentare il vaso appare intollerabile, ma
anche il farla compiere da altri. Se dunque mi chiedi : « presenterò il vaso o
no?» ti risponderò: «è meglio prendere il cibo che non prenderlo ed è peggio
essere bastonati che non esserlo: di conseguenza, se misuri le tue cose su
questa norma, va' e presenta il vaso.»
« Ma non è da me, ciò ». Quest'osservazione la devi aggiungere tu alle altre,
per l'esame, non io. Sei tu che conosci te stesso, quanto vali ai tuoi occhi e a
quanto ti vendi, perché ognuno si vende a un prezzo differente. Di
conseguenza, quando Fioro era incerto se dovesse scendere in teatro, in
occasione degli spettacoli di Nerone per sostenere anch'egli una parte,
Agrippino gli disse: « Scendi pure». L'altro chiese: «Tu perché non scendi?»
E lui rispose: «Ma io non pongo neppure la domanda». Infatti, chi si mette
una volta sola a esaminare siffatte questioni, paragonando tra loro l'entità dei
beni esterni e calcolandola, somiglia da vicino a quelli che hanno perduto il
senso della propria personalità. Perché mi chiedi : « Vale più la morte o la
vita?» -- io rispondo: «La vita». «La pena o la gioia? » — io rispondo : « La
gioia » — «Ma se non recito nella tragedia, avrò il collo tagliato».
— Allora, va e recita: io, per me, non reciterò.
— Perché?
— Perché tu ti ritieni un filo qualunque nella trama della tunica.
— E con ciò?
— Dovevi badare ad essere uguale agli altri uomini, proprio come un filo
non vuole niente che lo distingua dagli altri fili. Io, invece, voglio essere
laticlavo, quella fascia piccola e lucente che fa apparire il resto elegante e
bello. Perché allora mi dici: «Fatti simile alla folla?» E come rimarrò
laticlavo?
Questo vide anche Prisco Elvidio e lo mise coerentemente in pratica.
Vespasiano gli aveva mandato a dire di non presentarsi in Senato: egli
rispose: «È in tuo potere non farmi essere senatore: ma finché lo sono, devo
presentarmi in Senato ».
— Allora vieni, gli disse, ma sta' zitto.
— Non m'interrogare e starò zitto.
— Ma io devo interrogarti.
— E anch'io dirti quel che mi pare giusto.
— Ma se parli, t'ucciderò.
— « E quando mai t'ho detto d'essere immortale? Tu compierai la tua parte,
io la mia. È in tuo potere uccidere, in mio, morire senza tremare; è in tuo
potere esiliare, in mio partire senza addolorarmi ». A che servì
l'atteggiamento isolato di Prisco? E a che serve il laticlavo nella tunica? Ad
altro, forse, che a brillare in essa come laticlavo e a offrire un bell'esempio
agli altri? Un altro, se Cesare gli avesse detto nella stessa circostanza di non
presentarsi in Senato, gli avrebbe risposto : « Ti ringrazio che fai a meno di
me ». Ma a un uomo siffatto non avrebbe proibito di presentarsi, sapendo che
sarebbe rimasto seduto come una brocca d'argilla o che, se avesse parlato,
avrebbe detto cose le quali sapeva conformi ai desideri di Cesare e anzi,
molte altre ancora ne avrebbe aggiunte in mucchio.
In questo modo si comportò pure un atleta, la cui vita era in pericolo se non
si fosse mutilato. Andò a visitarlo il fratello — ed era un filosofo lui — e gli
disse: «Orsù, fratello, che hai intenzione di fare? Amputiamo questo membro
e continuiamo a frequentare il ginnasio? » Egli non si piegò, ma persistette
nel suo proposito e morì. Allora uno chiese:
«Come ha fatto ciò? come atleta o come filosofo?» «Come uomo — rispose
Epitteto — un uomo il cui nome è stato proclamato a Olimpia, che ha lottato,
che ha trascorso la vita su un terreno di quella sorta e non impomatandosi da
Batone. Un altro si sarebbe fatto tagliare anche il collo, se poteva vivere
senza collo. Questo significa agire secondo la propria personalità: tanto è il
suo peso per chi è abituato a farla rientrare nelle sue deliberazioni!»
« Epitteto, via, raditi ».
Se sono filosofo, rispondo: « Non mi rado ».
« E io ti stacco il collo ».
« Se ti va bene, staccamelo ».
Uno gli domandò: « Da che potremo riconoscere quanto è conforme alla
personalità di ciascuno? » « E da che riconosce il toro — rispose — e il toro
solo, la sua disposizione alla lotta, quando il leone l'assale, per cui si getta in
difesa di tutto il gregge? Non è forse chiaro che immediatamente, al possesso
di tale disposizione s'accompagna la coscienza di essa?
Per ciò, chiunque di noi possiede siffatta disposizione, non l'ignorerà. Non
s'improvvisa il toro né l'uomo nobile, ma bisogna sottoporsi agli esercizi
invernali, bisogna prepararsi, e non gettarsi a caso in quel che non s'addice.
Solo, bada a che prezzo vendi la tua persona morale. Se non altro, uomo, non
venderla a prezzo basso. Quel che grande ed egregio, però, conviene forse ad
altri, a Socrate e a uomini della sua stoffa. »
— Ma allora, se per natura siamo nati a questo, perché non sono così tutti, o
almeno molti?
— E i cavalli sono forse tutti veloci, e i cani abili tutti a scoprire la traccia? E
con ciò? Se per natura non sono bene dotato, rinuncerò per questo a fare del
mio meglio? Non sia mai. Epitteto non sarà migliore di Socrate: se sarà
inferiore mi basta. Non sarò certo Milone, e tuttavia non mi disinteresso del
corpo: non sarò Creso, e tuttavia non mi disinteresso dei miei averi. In una
parola, io non rinuncio alla cura di alcuna cosa perché dispero di toccare la
cima.

COME TRARRE LE CONSEGUENZE CHE DIO E’ PADRE DEGLI


UOMINI

Se uno riuscisse a compenetrarsi in modo conveniente di questo pensiero, che


veniamo da Dio tutti, essenzialmente, e che Dio è padre degli uomini e degli
dèi, io credo che non nutrirebbe di se stesso pensieri ignobili o bassi. Ma
come! se Cesare ti adotta, nessuno sosterrà il tuo sguardo: e se sai di essere
figlio di Dio, non t'esalterai? Adesso, invece, non ci comportiamo così: ma
poiché al momento della generazione sono mescolati insieme questi due
elementi — il corpo, comune con le bestie, la ragione e il pensiero, comune
con gli dèi, — altri inclinano verso quella parentela sfortunata e mortale,
pochi soltanto verso quella divina e felice. E poiché ognuno necessariamente
usa ciascuna cosa secondo l'opinione che ne ha, quei pochi, i quali si credono
nati per la lealtà, per il rispetto di sé, per usare con sicurezza le
rappresentazioni, non nutrono di sé alcun pensiero basso o ignobile, i molti,
invece, il contrario. «Che sono, infine? Un misero omiciattolo », oppure: « la
mia carne disgraziata ». Sì, disgraziata, e tuttavia hai ben un elemento
superiore alla miserabile carne. Perché lo trascuri e ti attacchi ad essa?
Proprio per tale parentela, alcuni di noi, inclinando verso di lei, diventano
simili a lupi, sleali, perfidi, dannosi, altri a leoni, rozzi, brutali, selvaggi: i più
di noi, poi, son volpi e tutto ciò che c'è di mostruoso tra gli animali. Che
cos'è, infatti, un uomo insolente e vizioso se non una volpe o qualche altra
cosa più mostruosa o più bassa? Badate, dunque, e fate attenzione che non
riusciate uno di siffatti mostri.

SUL PROGRESSO

Chi fa progresso per aver appreso dai filosofi che il desiderio riguarda i beni,
l'avversione è in relazione ai mali, e per aver appreso pure che non altrimenti
la serenità e l'impassibilità sopravvivono nell'uomo se non in quanto non
viene frustrato nell'oggetto dei suoi desideri, né incorre nell'oggetto della sua
avversione — costui ha completamente strappato da sé il desiderio e per il
momento l'ha messo da parte, mentre adopera l'avversione solo per quanto
dipende dalla sua scelta. Perché se vuole evitare qualcosa non dipendente
dalla sua scelta, sa che, un giorno o l'altro, incorrerà in un oggetto della sua
avversione e si rattristerà. Ora, se la virtù promette proprio di procurare la
felicità, l'impassibilità e la serenità, indubbiamente il progresso nella virtù è
progresso in ciascuno di questi stati, perché se c'è un termine al quale la
perfezione conduce una volta per sempre, il progresso segna un
avvicinamento ad esso.
Come va, allora, che ci troviamo d'accordo sulla natura della virtù, il
progresso, invece, lo cerchiamo e mostriamo altrove? Qual è l'opera della
virtù? La serenità. E chi fa progressi? Chi ha letto molti trattati di Crisippo?
Ma la virtù consiste forse nell’aver capito Crisippo? Se ciò fosse, il
progresso, per affermazione concorde di tutti, non sarebbe altro se non il
capire le molte opere di Crisippo. Ora, invece, ammettiamo concordemente
che un risultato ottiene la virtù e un altro riconosciamo ne ottiene
l'avvicinamento, e cioè il progresso nella virtù.
— Costui, si dice, può già leggere Crisippo anche da sé. — Per gli dèi,
uomo, progredisci a meraviglia: che progresso!
— Perché ti prendi gioco di lui? Perché lo distogli dalla coscienza delle sue
miserie? Non gli vuoi mostrare l'opera della virtù, onde apprenda ove abbia a
cercare il progresso? Cercala, miserabile, dove si svolge la tua opera. E dove
si svolge la tua opera? Nella sfera dei desideri e delle avversioni, onde non
fallisca negli uni e non incorra nelle altre; è negli impulsi e nelle repulse,
onde non erri; è nel dare o nel sospendere l'assenso, onde non sia tratto in
inganno. Ma i più importanti sono i primi due punti, e anche i più necessari.
Perché se sei in uno stato di paura o di dolore quando cerchi di non incorrere
in ciò che vuoi evitare, come potrai, in realtà, far progressi?
Tu, dunque, mostrami il tuo progresso in questo campo. E come se io
chiedessi a un atleta: « Mostrami le tue spalle » e quello mi rispondesse: «
guarda i miei manubri! » Pensaci da te ai tuoi manubri; io voglio vedere il
risultato dei manubri. « Prendi il trattato sull'impulso e guarda come l'ho letto
bene ». « Schiavo, non è questo ch'io cerco, ma come ti regoli nei tuoi
impulsi e nelle tue repulse, nei tuoi desideri e nelle tue avversioni, come ti
disponi a fare le cose, come ti applichi, come ti prepari, se in accordo alla
natura o in disaccordo. Perché, se in accordo, mostramelo e dirò che fai
progressi: se in disaccordo, vattene, e non spiegare soltanto i libri, ma
scrivine pure dello stesso tipo. Che ti giova, infatti? Non sai che tutto il libro
costa cinque denari? e chi lo spiega, pensi che ne valga più di cinque? Non
cercate mai, quindi, la sfera della vostra opera in un posto, il progresso in un
altro.
Dov'è, dunque, il progresso? Se uno di voi, staccatosi dagli oggetti esterni, si
rivolge tutto alla sua persona morale, la tiene in azione e l'esercita in modo da
renderla conforme alla natura, elevata, libera, priva d'impedimenti o
d'ostacoli, leale e riservata: se ha compreso che chi desidera o fugge cose
indipendenti da lui non può essere leale né libero, ma deve necessariamente,
egli pure, insieme a quelle, mutare e volgersi, deve necessariamente
sottomettere se stesso agli altri, a quanti cioè possono procurarle o impedirle;
insomma, se quando si leva al mattino, osserva e custodisce questi precetti, si
lava da uomo leale, da uomo riservato, mangia allo stesso modo, sforzandosi
di mettere in pratica, qualunque circostanza gli capiti, i princìpi direttivi,
come il corridore si comporta in ogni azione da corridore, il declamatore da
declamatore, ecco in verità chi fa progressi, ecco chi non invano s'è
allontanato da casa. Ma se si protende sul contenuto dei libri e per questo
s'affatica e per questo s'è allontanato dai suoi, io gli dico di tornarsene subito
a casa, e di non disprezzare gli affari di lì: in realtà, il fine per cui s'è
allontanato non ha valore. L'ha, al contrario, esercitarsi per strappare dalla
propria vita gemiti e lamenti, e gli «ohimè!» e gli «infelice ch'io sono! » e la
fortuna perversa e la sfortuna, e per comprendere che cos'è la morte, l'esilio,
la galera, la cicuta: in tal modo sarà in grado di dire in prigione «caro
Critone, se così piace agli dèi, così sia » e non, invece, «l'infelice ch'io sono!
povero vecchio, questo attendeva i miei capelli bianchi! » Chi s'esprime in tal
guisa? Pensate che stia per nominarvi un uomo ignobile e meschino? Non è
Priamo ad esprimersi così? Non è Edipo? Non i re, tutti quanti? Cos'altro
sono le tragedie se non la narrazione in verso epico di quel che provano
uomini affascinati dagli oggetti esterni? Se ci volesse un inganno per
comprendere che degli oggetti esterni e indipendenti dalla nostra libera scelta
nessuno ci riguarda, io accetterei senz'altro siffatto inganno, in seguito al
quale potessi vivere una vita serena e imperturbata: per parte vostra,
penserete da voi a quel che volete.
Che cosa, dunque, ci offre Crisippo? «Per renderti conto — egli afferma —
che non si tratta di falsità, quando parlo di ciò da cui provengono serenità e
impassibilità, prendi i miei libri e vedrai come sono veri e in armonia con la
natura i precetti che mi rendono impassibile. » Oh, la grande fortuna! Oh, il
grande benefattore che addita la via! Ebbene, a Trittolemo tutti gli uomini
hanno offerto sacrifici e altari, perché ci ha dato cibi ingentiliti, e a chi ha
trovato la verità, l'ha rischiarata, l'ha portata a tutti gli uomini — e non la
verità che fa vivere, ma quella che fa vivere bene — chi di voi ha elevato, per
questo benefìcio, un altare, o dedicato un tempio o una statua, chi si prosterna
davanti a Dio per questo benefìcio? Perché ci hanno dato la vite e il grano,
sacrifichiamo agli dèi, ma perché hanno prodotto nel pensiero umano un
frutto così bello, grazie al quale dovevano mostrarci il vero sulla felicità, per
questo, dico, non renderemo grazie a Dio?

CONTRO GLI ACCADEMICI

Se uno, dice Epitteto, resiste a ciò che è d'una evidenza trasparente, non è
facile trovare contro costui un ragionamento che gli faccia mutare opinione.
E ciò non dipende né dalla sua forza, né dalla debolezza di chi lo istruisce,
ché quando, messo alle strette, quello s'impietra, come si potrà ancora usare
con lui il ragionamento?
Ci sono due forme di impietrimento: l'una colpisce l'intelligenza, l'altra il
senso morale, quando uno sia ostinato a non accettare l'evidenza e a non
desistere dal contraddire. Noi, in gran parte, temiamo la morte del corpo e
tutto escogiteremmo per non incorrervi, tanto è brutta! Della morte dell'anima
non ci curiamo affatto. E sì che, per Zeus, quand'uno è, proprio rispetto
all'anima, in condizione di non poter seguire nessun ragionamento e di non
intendere niente, riteniamo che stia male: ma se in qualcuno il senso morale e
la verecondia sono morti, allora parliamo anche di forza.
T'accorgi di essere sveglio? — « No — risponde — perché non me ne
accorgo neppure, quando, durante il sonno, ho l'impressione di essere
sveglio». — Dunque, non c'è differenza tra questa impressione e quella?—
Nessuna.
Posso continuare a discutere con costui? Quale fuoco, quale ferro posso
applicargli perché avverta che è morto? E se l'avverte, fa fìnta di niente: è
ancora peggio del morto. Il morto non comprende la contraddizione: sta
male. Costui la comprende, ma non ne è scosso, e non ne cava profitto: sta
ancora peggio. Gli sono stati strappati la verecondia e il senso morale: la
ragione non gli è stata strappata, ma è abbrutita. Dovrò chiamarla forza,
codesta? Non sia mai, a meno che non sia forza anche quella dei cinedi, i
quali fanno e dicono tutto quel che passa loro per la testa.

DELLA PROVVIDENZA

Da ogni cosa che accade nel mondo è facile lodare la Provvidenza, purché si
abbiano queste due qualità, la capacità di vedere nel loro insieme i singoli
avvenimenti e il sentimento della riconoscenza. In caso contrario, o non si
scorgerà il retto uso degli avvenimenti o non se ne proverà riconoscenza,
neppure scorgendolo. Se Dio avesse fatto i colori, ma non avesse fatto la
facoltà per contemplarli, quale utilità ne deriverebbe? Proprio nessuna. Se,
all'inverso, avesse fatto la facoltà ma le cose non fossero adatte a soggiacere
alla facoltà visiva, anche in tal caso, quale utilità ne deriverebbe?
Proprio nessuna. E poi, se avesse fatto i colori e la vista, ma non avesse fatto
la luce?
Neppur in tal caso ci sarebbe una qualche utilità. Chi ha adattato, allora,
questo a quello, e quello a questo? Chi ha adattato la spada al fodero, e il
fodero alla spada? Nessuno? Eppure, proprio da tale struttura dei vari prodotti
siamo soliti riconoscere che sono indubbiamente opere d'un artista, e non
costruite a caso. Ognuna di esse, dunque, rivela l'artista: e gli oggetti visibili,
e la visione e la luce non lo rivelano? E il maschio e la femmina, e la brama
di congiungersi l'uno all'altro, e la capacità di usare gli organi adatti, neppur
questo rivela l'artista? Ma certo: e la particolare struttura dell'intelletto che ci
mette in grado di non ricevere semplicemente le impronte delle cose
soggiacendo ai sensibili, ma anche di fare una scelta tra esse, di sottrarre, di
aggiungere, di comporne altre da noi, di passare, per Zeus, dalle une alle altre
che in qualche modo sono affini, tutto questo non riesce a smuovere taluni, e
a distoglierli dall'abbandonare l'artista? O ci spieghino chi è a produrre
ciascuna di queste cose o come è possibile che tante meraviglie, tanti
capolavori d'arte siano prodotti a caso e da sé.
E che? solo rispetto a noi si compiono tali cose? Molte, sì, solo rispetto a
noi, quelle specialmente di cui ha bisogno l'animale ragionevole, molte,
invece, le troverai comunì a noi e agli esseri irragionevoli. Ma questi riescono
anche a comprendere quel che accade? Nient'affatto. Perché altro è usare,
altro comprendere. Dio aveva bisogno di quelli che usano le rappresentazioni
e di noi che ne comprendiamo l'uso. Per ciò, quelli si limitano a mangiare, a
bere, a riposare, ad accoppiarsi e a compiere, ciascuno, quante altre cose
rientrano nell'ambito del loro agire, noi, invece, a cui ha concesso per di più
la facoltà di comprendere, non ci limitiamo a questo, ma se non ci
comportiamo come conviene, in modo ordinato e conseguente ciascuno alla
propria natura e costituzione, non raggiungeremo mai il nostro fine. Chi ha
costituzione differente, ha pure attività e fini differenti. Chi ha la costituzione
diretta esclusivamente all'uso, l'uso, in qualsivoglia maniera, gli basta, ma chi
ha pure l'intelligenza dell'uso, se non gli si aggiunge il modo, non
raggiungerà mai il fine. E allora? Dio da a ciascun animale la sua
costituzione: uno serve di cibo, uno è d'aiuto nel lavoro dei campi, un altro
fornisce formaggio, un altro, poi, è sfruttato per un altro fine in modo
analogo. Per queste funzioni che bisogno c'è di comprendere le
rappresentazioni e di poterle distinguere? L'uomo, invece, l'ha introdotto qui
per contemplare Lui e le sue opere, e non solo per contemplarle, ma anche
per interpretarle. Per questo è vergognoso che l'uomo cominci e termini allo
stesso punto degli esseri irrazionali: egli deve, piuttosto, cominciare di lì e
terminare là dove termina nei nostri riguardi la natura. Ed essa termina nella
contemplazione, nell'intelligenza e in un tenore di vita conforme alla natura.
Badate, dunque, a non morire, senza aver contemplato queste realtà.
Eppure fino a Olimpia ve ne andate per veder il capolavoro di Fidia e
sciagura ritiene ciascuno di voi morire senza averlo ricercato. E dove non è
necessario andare, perché già vi ci trovate e avete le opere sotto gli occhi, non
sentirete il desiderio di ammirarle e di contemplarle? Non capirete, dunque,
né chi siete, né perché siete nati, né che cos'è questo spettacolo al quale siete
stati ammessi?
— Ma si danno contrarietà e difficoltà nella vita.
— E a Olimpia non si danno? Non bruciate pel caldo? Non state stretti per la
ressa? Non prendete il bagno in condizioni disagevoli? Non v'inzuppate se
piove? Non siete deliziati dal tumulto, dalle grida, da altri fastidi? Eppure
ritengo che, contrapponendo tutte queste noie al valore dello spettacolo, voi
le accettiate e le tolleriate. E poi vediamo: non avete ricevuto delle facoltà per
sopportare tutto ciò che capita? La grandezza d'animo non l'avete ricevuta? Il
coraggio non l'avete ricevuto? La pazienza non l'avete ricevuta? E se ho
l'animo grande, che cosa più m'interessa quel che può capitare? Che cosa mi
trarrà fuori di me, che cosa mi sconvolgerà, che cosa m'apparirà doloroso?
Non userò la facoltà per il fine per il quale l'ho ricevuta, ma mi metterò a
piangere e a gemere su quel che accade?
— Va bene, ma mi cola il naso.
— E perché hai le mani, schiavo? Non per nettarti?
— E allora è ragionevole che nel mondo ci siano nasi che colano?
— Quanto sarebbe meglio che te lo nettassi invece di lagnarti! Che pensi ne
sarebbe stato di Eracle senza il famoso leone, l'idra, il cervo, il cinghiale,
certi uomini ingiusti e bestiali, che egli cacciò e di cui purificò la terra?
Che cosa avrebbe fatto se non ci fosse stato niente di questo? Non è chiaro
che, avvolto nelle coperte, avrebbe dormito?
Allora, in primo luogo, bighellonando in siffatta rilassatezza e placidità per
tutta la vita, non sarebbe stato Eracle; poi, se anche lo fosse stato, a che prò?
Come avrebbe usato quelle sue braccia, e l'altro vigore, la forza, la
generosità, se proprio quelle circostanze e quelle occasioni non l'avessero
scosso ed esercitato?
— E allora? se le doveva procurare da sé tali occasioni e cercare di spingere
da qualche parte nel suo paese il leone, il cinghiale, l'idra?
— Ma queste sono pazzie e scioccherie. Una volta che c'erano e che furono
trovati, potevano essere ben usati per rivelare ed esercitare Eracle.
Orsù, dunque, anche tu, consapevole di ciò, volgi lo sguardo alle facoltà che
hai e, dopo averle guardate, dì: « Adesso, o Zeus, mettimi nella congiuntura
che vuoi; io ho la costituzione datami da te e le risorse per guidarmi con
onore attraverso gli avvenimenti ». No, ma ve ne state seduti, tremando che
non vi abbia ad accadere qualcosa, piangendo, lamentandovi e gemendo di
quel che succede. E poi ve la pigliate con gli dèi. E, invero, che cosa può
seguire a una tale ignobiltà, se non l'empietà stessa? Eppure Dio non solo ci
ha dato le facoltà per sopportare tutto quel che può capitare senza esserne
abbassati o umiliati ma, come s'addiceva a un buon re, anzi, in realtà, a un
padre, ce le ha date non legate da impedimento, non costrette da necessità,
libere da ostacoli, ce le ha messe tutte a nostra disposizione, senza riservarsi
potere alcuno per impedirle o ostacolarle. Ora, con in mano tali facoltà libere
e vostre, voi non le usate, né vi accorgete che cosa avete ricevuto e da chi, ma
ve ne rimanete inerti, tra pianti e gemiti, alcuni, senza vedere il donatore e
senza conoscere il benefattore, altri, poi, corrivi per l'ignobiltà a biasimi e a
rimproveri contro Dio. E tuttavia, io ti posso dimostrare che hai risorse e
costituzione adatta per essere magnanimo e coraggioso; per giustificare i
biasimi e i rimproveri, quali risorse possiedi, mostramele tu.

SULL’USO DEI RAGIONAMENTI AMFIBOLOGICI, IPOTETICI E


SIMILI

Ai più sfugge che lo studio dei ragionamenti amfibologici e ipotetici, e


ancora di quelli che procedono mediante interrogazione e, in una parola, di
tutti i ragionamenti di questa maniera, è in relazione al dovere. Noi
cerchiamo, in realtà, come l'uomo di virtù perfetta potrà trovare la via da
seguire in ogni campo e la condotta che in esso gli è doverosa. Dunque, o si
affermi che l'uomo serio non si immischierà in tali domande e risposte, o che,
qualora ci si immischi, non baderà a comportarsi nella disputa in maniera
ponderata e riflessiva, oppure, se non si accettano le due possibilità, è
necessario ammettere che si devono esaminare questi topi, intorno ai quali
verte principalmente la domanda e la risposta.
Ora, che cosa ci si ripromette in un ragionamento? Di stabilire il vero, di
eliminare il falso, di sospendere il giudizio dove c'è dubbio. Basta apprendere
questo solo?
— Certo, si dice.
— E a chi non vuole ingannarsi nel maneggiar monete, basta sentir dire: «
Accetta le dracme genuine, rifiuta le false? »
— No, non basta.
— Che cosa si deve aggiungere? Che altro se non la capacità di saggiare e di
distinguere le dracme genuine dalle false?
Così, anche a proposito del ragionamento, forse che quanto s'è detto non è
sufficiente, ma è necessario saper saggiare e distinguere il vero, il falso, il
dubbio?
— È necessario, sì.
— Oltre ciò, che cosa si prescrive in un ragionamento? Accetta le
conseguenze di ciò che hai convenientemente ammesso. Dunque, anche qui,
basta saper questo? Non basta; bisogna imparare in qual modo una
conseguenza derivi da certe premesse, talora una sola da una sola, talora
invece da più, insieme. Non deve dunque di necessità sobbarcarsi anche a
questo chi voglia comportarsi intelligentemente in un ragionamento, e
dimostrare da sé ogni punto proposto e seguire le dimostrazioni altrui, senza
lasciarsi sviare dagli argomenti dei sofisti, quasi fossero vere dimostrazioni?
Così è venuto a noi lo studio e l'esercizio sugli argomenti conclusivi e sulle
loro forme: così la loro necessità ci è apparsa manifesta.
Ma accade, in certi casi, che le premesse le abbiamo poste a ragion veduta e
che ne derivi questa conseguenza: conseguenza falsa, nondimeno ne deriva.
Che mi conviene fare, allora? Accettare il falso? Com'è possibile? Dire: «non
ho concesso a ragion veduta le premesse»? Neppur questo è permesso.
Ovvero: « Non deriva da quanto si è concesso »?
Ma neppure questo è permesso. Che fare, allora, in tali circostanze? 0 è forse
come nel caso del debito? Che non basta aver ricevuto una volta un prestito
per essere ancora debitori, bisogna aggiungere che il debito permanga e che
non si sia liquidato: allo stesso modo, per dover concedere la conclusione,
non basta aver posto le premesse, bisogna continuare a concederle. E certo,
se rimangono fino alla fine come furono concesse, è necessità assoluta per
noi stare a quel che si è concesso e approvare le conseguenze che ne
derivano, <altrimenti, no>. Ma quella conclusione non è più legittima per noi
e neppure è conforme al nostro punto di vista, qualora rifiutiamo di
accogliere le premesse. Ecco ciò che bisogna esaminare a riguardo delle
premesse, siffatti cambiamenti, siffatte modificazioni, per cui nel corso della
domanda o della risposta o della conclusione o in altra fase
dell'argomentazione, esse, subendo delle modificazioni, sono occasione di
imbarazzo per quanti, non avendo dimestichezza col pensiero, non scorgono
le conseguenze. E per qual motivo bisogna notar ciò? Perché non ci
comportiamo in questo campo altrimenti che come dobbiamo, né a caso né in
preda a turbamento.
Lo stesso vale per le ipotesi e per i ragionamenti ipotetici. Talora è
necessario postulare una ipotesi come via d'accesso al ragionamento
seguente. Bisogna concedere tutta l'ipotesi o no? E se non tutta, quale? E
quando si concede una ipotesi, bisogna continuare ad accettarla fino alla fine,
ovvero, in taluni casi, si può abbandonarla? E le conseguenze bisogna
accettarle e non accettare ciò che le contraddice?
— Certo.
— Ma c'è chi dice: « se accetti un'ipotesi possibile, io ti condurrò ad
ammettere l'impossibile ».
— Contro costui l'uomo prudente non scenderà, ma fuggirà la ricerca e la
discussione? E chi se non l'uomo prudente è ancora capace a manovrare i
ragionamenti, abile a interrogare e a rispondere, immune, per Zeus, dagli
inganni e dai sofismi? Ovvero scenderà sì in lizza, e non farà attenzione a
comportarsi nella disputa in maniera ponderata e riflessiva?
E come sarà ancora quegli che noi immaginiamo? Ma senza una ginnastica
siffatta e senza preparazione, è capace di dare ai pensieri uno svolgimento
logico? Si mostri ciò e tutti questi studi sono tolti di mezzo: erano assurdi e
senza alcun rapporto col concetto che abbiamo dell'uomo serio.
E perché rimaniamo ancora negligenti, rilassati, indifferenti, e cerchiamo
pretesti per non essere in attività, per non vegliare, coltivando la nostra
ragione? « Ma se sbaglio in uno di questi ragionamenti ho ucciso forse mio
padre? »
— Schiavo, dov'era qui tuo padre, che lo uccidessi? Che hai fatto, dunque?
Lo sbaglio che, unico, poteva essere commesso in questo caso, tu l'hai
commesso. Proprio la stessa cosa anch'io dissi a Rufo che mi rimproverava di
non aver notato la sola omissione che c'era in un sillogismo. « Non è come se
avessi dato fuoco al Campidoglio — osservai io. » E lui : « Schiavo, —
rispose — nel nostro caso l'omissione è proprio il Campidoglio ». O forse è
sbaglio solo bruciare il Campidoglio e ammazzare il padre? E usare le proprie
rappresentazioni sconsideratamente, alla cieca e come capita, non tener dietro
a un ragionamento, né a una dimostrazione né a un sofisma, non scorgere, in
una parola, ciò che, nelle domande o nelle risposte, si accorda o no con se
stessi, tutto questo non è uno sbaglio?

CHE LE CAPACITA’ DIALETTICHE NON SONO SICURE IN MANO A


GENTE PROVA DI FORMAZIONE FILOSOFICA

In quanti modi si possono scambiare tra loro i termini equivalenti, in


altrettanti è possibile convertire nei ragionamenti le forme degli epicheremi e
degli entimemi. Prendi, per esempio, questa forma : « Se ricevesti in prestito
e non hai restituito, mi devi del denaro: ora, tu non ricevesti in prestito e non
hai restituito: dunque non mi devi del denaro ». A nessuno, più che al
filosofo, s'addice di far ciò con abilità. In realtà, se l'entimema è un
sillogismo incompleto, è chiaro che chi è esercitato nel sillogismo completo,
sarà non meno capace in quello incompleto.
Per quale motivo allora non ci esercitiamo da soli e insieme agli altri in tale
genere di studi? Perché oggi, sebbene non ci esercitiamo in questi studi, né
siamo distratti — almeno per parte mia — dall'interesse per la morale,
tuttavia non compiamo nessun vero progresso nel bene. Che cosa
bisognerebbe aspettarsi, se ci sobbarcassimo anche a questa attività? Tanto
più che non sarebbe solo un'attività supplementare che ci allontanerebbe dalle
necessità più urgenti, ma un motivo di presunzione, d'orgoglio — e un
motivo non comune, certo. Perché grande è la forza dell'argomentare e del
provare con ragioni verosimili, specie se si sviluppa con l'esercizio e
acquista, in più, una certa eleganza di linguaggio.
E poi, in generale, ogni capacità in mano a persone prive di formazione
fìlosofìca e deboli di carattere è dannosa perché le spinge a insuperbirsi e a
gonfiarsi d'orgoglio proprio per causa sua. In realtà, con quale mezzo si
riuscirebbe più a persuadere un giovane superiore agli altri in questa scienza
che non deve ritenere se stesso un'appendice della scienza, bensì subordinare
la scienza a se stesso? E invece, calpestate tutte queste ragioni, non incede tra
noi superbo e borioso, senza ammettere che altri lo riprenda, ricordandogli da
dove s'allontana e dove va piegando?
Ma, dunque, Piatone non era filosofo?
— E Ippocrate non era medico? Eppure, vedi come s'esprime. Forse che
Ippocrate si esprime in quel modo, in quanto medico? Perché confondi cose
che solo per caso si trovano unite negli stessi individui? Così, se Piatone era
bello e forte, dovrei anch'io, seduto al banco di scuola, cercare di diventare
bello o forte, quasi che ciò sia essenziale alla filosofìa, dal momento che un
filosofo è stato bello e insieme filosofo? Non vuoi capire e cogliere in
rapporto a che cosa gli uomini sono filosofi e quali altre cose si trovano in
essi per caso? Vediamo: se io fossi filosofo, dovreste essere zoppi anche voi?
Ma come? Vi tolgo forse queste capacità? Non sia mai: e neppure la vista.
Comunque, se mi chiedi qual è il bene dell'uomo, posso solo risponderti che è
una certa disposizione della persona morale.

A QUALI CONSEGUENZE CI CONDUCE LA NOSTRA PARENTELA


CON DlO

Se è vero quel che dicono i filosofi sulla parentela tra Dio e gli uomini, che
cosa resta da fare a costoro se non seguire l'esempio di Socrate e cioè non
rispondere mai a chi vuol sapere la loro città: «sono cittadino d'Atene o
cittadino di Corinto », ma «cittadino dell'universo»? Perché dici di essere
ateniese e non semplicemente di quell'angolo di terra in cui fu gettato il tuo
povero corpo al momento della nascita? Ovvero è chiaro che derivi da un
principio superiore, che abbraccia non solo quell'angolo di terra, ma anche
l'intera tua casa, e, in una parola, il paese dove si è perpetuata fino a te la
stirpe dei tuoi antenati, e di qui, se mai, ti chiami ateniese o corinzio? Chi
dunque ha penetrato l'organizzazione dell'universo e ha capito che «di tutte le
cose la più grande, la più importante, la più universale è la società formata
dagli uomini e da Dio, e che da lui le forze generatrici scendono non solo fino
a mio padre e a mio nonno, ma a tutto ciò che sulla terra nasce e cresce,
specialmente agli esseri ragionevoli, giacché essi soli per natura partecipano
alla comunione divina, essendo legati a Dio per la ragione », perche non dirà
di essere cittadino dell'universo? e perché non figlio di Dio? perché avrà
timore di quel che può accadere tra gli uomini? Ma mentre la parentela con
Cesare o con un altro dei potenti di Roma è sufficiente a procurare una vita
sicura, al riparo dal disprezzo e da ogni trepidazione, l'avere Dio per creatore,
per padre, per protettore non ci strapperà agli affanni e ai timori?
— E di che mangio, dice uno, se non ho niente? — E come fanno gli schiavi,
come i fuggitivi? Su che si fondano quando abbandonano i padroni? Sui
campi, sui servi, sulle argenterie? Nient'affatto, ma su se stessi — e tuttavia
non manca loro il nutrimento. E il nostro filosofo dovrà confidare e riposare
negli altri, quando va in terra straniera, e non prenderà personalmente cura di
se stesso, e sarà da meno e più timido delle bestie irragionevoli le quali
provvedono ciascuna a se stessa, e non difettano né del cibo adatto né del
tenore di vita che a ciascuna si conviene e che si armonizza con la loro
natura? Secondo me, il vecchio maestro seduto al suo posto non dovrebbe
tendere a questo, a impedirvi, cioè, di avere un'idea bassa di voi e di fare, su
voi stessi, considerazioni basse o ignobili, ma badare piuttosto che non
capitino tra voi giovani di tale indole che, coscienti della loro parentela cogli
dèi, e sapendo che con altrettante catene siamo avvinti al corpo, a ciò che
esso possiede, e a quante altre cose, sotto questo aspetto, ci abbisognano per
sostenere e condurre la vita sulla terra, vogliono scagliar via tutto questo
come un peso, come una noia, come un'inutilità e ritornarsene dai parenti. In
questo cimento dovrebbe cimentarsi il vostro maestro, il vostro educatore, se
davvero fosse tale. Voi, allora, venendo da me, mi direste : « Epitteto, non ce
la facciamo più ad essere legati a questo povero corpo, a dargli da mangiare e
da bere, a farlo riposare, a pulirlo, e poi a portarcelo attorno da questo e da
quello.
Non è forse vero che sono cose indifferenti, queste, che non hanno nessuna
relazione con noi, che la morte non è un male? Non siamo in qualche modo
congiunti di Dio, non veniamo da Lui? Lascia, dunque, che torniamo là
donde siamo venuti, lascia che ci stacchiamo, una buona volta, da queste
catene che ci avvinghiano e ci gravano.
Qui, briganti, ladri, tribunali e tiranni, come li chiamano, ritengono di avere
un qualche potere su noi, proprio a causa di questo miserabile corpo e di ciò
che possiede. Lasciaci mostrare ad essi che non hanno potere su nessuno ».
E io a mia volta risponderei : « Uomini, aspettate il Dio. Quand'egli vi fa
segno e vi libera da questa servitù, allora fuggite verso Lui: per il momento
rassegnatevi a rimanere nel posto in cui v'ha collocato. Breve è, senza
dubbio, il tempo del soggiorno qui, e agevole per chi ha tali disposizioni.
Quale tiranno, quale ladro, quali tribunali possono ancora metter paura a chi
fa così poco conto del corpo e di quel ch'esso possiede.? Attendete e non
andatevene sconsideratamente ».
Tale dovrebbe essere l'atteggiamento dell'educatore verso i giovani ben
dotati. Ora, invece, che succede? Cadavere è l'educatore, cadaveri siete voi.
Quando vi siete empiti oggi, rimanete al vostro posto a piangere di che vi
sfamerete domani. Schiavo, se ne avrai, ne avrai; se non ne avrai, te ne andrai
via: la porta resta aperta. Perché ti lamenti? Dove c'è più posto per le
lacrime? Che ragione c'è ancora per adulare? Perché l'uno invidierà l'altro?
Perché ammirerà attonito quanti possiedono molto o coprono cariche, specie
se sono forti e facili all'ira? Che ci faranno? Di quel che possono fare non ci
preoccuperemo: quel che ci sta a cuore, essi non possono. Chi, dunque, potrà
dominare un uomo che ha tali disposizioni?
Qual era l'atteggiamento di Socrate a questo riguardo? come poteva essere
diverso da quello proprio di chi è convinto della sua parentela cogli dèi? « Se
adesso mi diceste — egli afferma — : noi ti lasciamo andare a patto che non
tenga più quei discorsi che finora hai tenuto e che non molesti i nostri giovani
o i vecchi, io vi risponderò che siete ridicoli: infatti ritenete che, se un vostro
comandante mi ha assegnato un posto, io devo conservarlo e mantenerlo e
preferire mille volte la morte prima di abbandonarlo, se, invece, Dio ci ha
assegnato un posto e indicato una linea di condotta, dobbiamo abbandonarla»
Ecco un uomo veramente congiunto con gli dèi. Noi, invece, ci consideriamo
alla stregua di ventri, di intestini, di organi sessuali, quando ci diamo in
braccio al timore e agli appetiti: e quelli che sono in grado di aiutarci per
quella strada, li aduliamo, e, insieme, questi stessi, li temiamo.
Uno volle che scrivessi per conto suo a Roma perché era piombato in ciò che
i più ritengono disgrazia: prima, infatti, era segnalato e ricco, poi, aveva
perduto ogni cosa e viveva qui. Ed io scrissi per conto suo in termini umili.
Egli, letta la lettera, me la restituì e disse: «Volevo il tuo aiuto, non la tua
compassione: non m'è accaduto alcun male ». Allo stesso modo, Rufo,
volendo mettermi alla prova, soleva dirmi : « Questo o quello ti capiterà da
parte del padrone». E siccome io gli rispondevo: «Sono cose umane» egli
replicava: «E perché andar da lui a implorarlo, se posso ottenere il medesimo
risultato da te? ». In realtà, ciò che si può avere da sé, sarebbe inutile e
sciocco volerlo ottenere da un altro.
Se riesco ad avere da me la grandezza e la nobiltà d'animo, vorrò ottenere da
te un campo, una somma di denaro, una carica? Non sia mai.
Non sarò davvero così incosciente delle mie risorse! Ma quando un uomo è
vile e meschino, che cos'altro si deve fare per lui se non scrivere delle lettere
come per un cadavere : « Concedici, per piacere, il cadavere del tale e un
sestario del suo miserabile sangue»? In realtà, costui è un cadavere e un
sestario di sangue miserabile: niente più. Se fosse qualcosa di più, capirebbe
che nessuno è infelice a causa di un altro.

A QUELLI CHE METTONO TUTTO IL LORO IMPEGNO PER FAR


CARRIERA IN ROMA

Se ci fossimo accinti alla nostra opera con lo stesso slancio che mettono a
Roma i senatori per quanto ambiscono, indubbiamente avremmo concluso
qualcosa anche noi. Ricordo un uomo, più vecchio di me, ora prefetto
dell'annona in Roma, che passò di qui, ritornando dall'esilio: quante cose mi
disse, riandando la sua vita passata! per l'avvenire, poi, mi promise che, una
volta imbarcato, di nient'altro si sarebbe dato pensiero se non di trascorrere il
resto degli anni in pace e in tranquillità. «E invero, quanto mi rimane ancora
da vivere»?
E io gli risposi : « Non lo farai: il solo odore di Roma ti farà dimenticare tutti
questi propositi ». Anzi, aggiunsi che se gli fosse aperto un piccolo accesso a
corte, ci si sarebbe precipitato, pieno di gioia e di riconoscenza a Dio. « Se tu,
Epitteto, concluse, mi sorprendi a porre un piede a corte, pensa quel che vuoi
».
Ora, che fece? Prima che giungesse a Roma, gli presentarono una lettera da
parte di Cesare: lui la prese, dimenticò completamente tutti i propositi e, in
seguito, cominciò ad ammucchiare affare su affare. Vorrei stargli vicino
adesso e ricordargli i discorsi che mi tenne durante il viaggio di ritorno, e
dirgli: «Quanto sono più acuto di te nel far profezie! »
Che cosa voglio dire con ciò? Che l'essere vivente deve rimanere inattivo?
Non sia mai. Piuttosto, che noi non abbiamo un'attività. Ed ecco, io, prima
degli altri, appena si fa giorno, ricapitolo brevemente che cosa devo leggere a
scuola e mi dico subito : « che m'importa come quello espone il suo testo?
L'essenziale è dormire ». Eppure in che sono uguali le occupazioni di quelli
con le nostre? Se badate a quel che fanno, ve ne accorgerete. Il loro lavoro
non consiste nel passare tutto il giorno a prendere provvedimenti, a discutere,
a consigliarsi per un po'di grano, per un pezzo di terra, per interessi più o
meno simili? Dunque, è uguale leggere una proposta siffatta ricevuta da
qualcuno : «ti prego di autorizzarmi l'esportazione di un po' di grano » e la
seguente: «ti prego di esaminare come concepisce Crisippo l'amministrazione
dell'universo e quale funzione ha in esso la creatura ragionevole: esamina
anche chi sei tu e qual è il tuo bene e il tuo male »? Queste cose sono uguali a
quelle? Esigono uguale attenzione? ed è ugualmente brutto disinteressarsi
delle une e delle altre? E dunque? Noi soli non ce ne preoccupiamo e ci
lasciamo vincere dal sonno? No: ma molto prima voi, che siete giovani.
Perché, certo, anche noi, vecchi, a vedere i giovani giocare, mostriamo
desiderio di entrare nel gioco, noi pure. A più forte ragione, se vi vedessi
svegli e pieni d'entusiasmo, metterei anch'io ogni sforzo per aggiungere al
vostro il mio ardore.

SUGLI AFFETTI FAMILIARI

Si recò da lui un magistrato: dopo avergli rivolto varie domande in


particolare, Epitteto gli chiese se aveva anche figli e moglie. Alla sua risposta
affermativa, continuò a interrogarlo: «Come ti ci trovi?» — Male — disse
quello. E lui: «Come? Non è per essere disgraziati che gli uomini si sposano
e fanno figli, bensì per essere felici». — Eppure, riprese l'altro, io sono così
disgraziato coi miei piccini che, essendosi ammalata poco fa la mia figliola e
sembrando in pericolo, non ebbi neppure il coraggio di starle vicino durante
la malattia e fuggii, me ne andai, finché mi si annunziò che stava bene. —
che? ti pare di aver agito rettamente? — Ho agito secondo natura. — Ma
proprio di questo devi persuadermi — replicò Epitteto — che hai agito
secondo natura ed io ti persuaderò che ogni azione conforme a natura è retta.
— Quel che io ho fatto, riprese l'interlocutore, lo facciamo tutti noi, padri di
famiglia, o, almeno, la maggior parte di noi. — Non sono io a contraddirti,
riprese Epitteto, sostenendo che non si fa così; il punto controverso tra noi è
se si fa rettamente. Perché in tal caso bisogna ammettere che anche gli ascessi
si producono per il bene del corpo, per il fatto che si producono e, in una
parola, che l'errore è conforme a natura, perché tutti, o, almeno la maggior
parte degli uomini, siamo soggetti a errare. Mostrami tu, dunque, in che
modo è naturale.
— Non sono capace, disse: tu, piuttosto, mostrami che non avviene secondo
natura né rettamente.
Ed Epitteto: Se la nostra ricerca fosse intorno al bianco e al nero, quale
criterio invocheremmo per distinguerli?
— La vista — rispose.
E se fosse intorno al caldo e al freddo, o intorno al duro e al morbido, quale
criterio?
— Il tatto.
— Ora, siccome la controversia verte su quel che accade secondo natura e
rettamente oppure no, quale criterio vuoi che prendiamo?
— Non lo so — rispose.
— Certo, ignorare il criterio dei colori, degli odori e ancora dei sapori, non è
probabilmente un grave danno: ma ignorare il criterio del bene e del male, di
ciò ch'è per l'uomo secondo natura o contro natura, ti sembra un piccolo
danno per chi l'ignora?
— II più grande, anzi.
— Ebbene, dimmi: tutto quello che ad alcuni sembra bello e conveniente, è
con giusta ragione che sembra ad essi tale?
È possibile, per esempio, che al presente tutte le opinioni dei Giudei, dei Siri,
degli Egiziani e dei Romani sulla nutrizione siano rette?
— Com'è possibile?
— Anzi, credo, è strettamente necessario che se sono rette le opinioni degli
Egiziani, non lo siano quelle degli altri, se sono buone quelle dei Giudei, non
lo siano quelle degli altri.
— Senza dubbio.
— E dov'è ignoranza, c'è anche mancanza di sapere e di cultura riguardo a
materie indispensabili.
Ne convenne.
— Tu, allora, riprese Epitteto, avendo ben capito ciò, di nessun'altra cosa ti
darai cura né ad alcun'altra porrai attenzione che a imparare il criterio di quel
che è secondo natura, in modo da servirtene per giudicare i casi particolari.
Sul momento, ecco l'aiuto ch'io posso darti per quel che vuoi. L'amore alla
famiglia, secondo te, è conforme a natura e bello?
— Come no?
— Ebbene; l'amore alla famiglia è conforme a natura e <bello>, e ciò che è
ragionevole non sarà bello?
— Nient'affatto.
— C'è allora contraddizione tra l'amore alla famiglia e il ragionevole?
— Non mi sembra.
— Perché, altrimenti, se l'un termine della contraddizione è conforme a
natura, l'altro di necessità è difforme: o no?
— È così, rispose.
— Quindi, dovunque troviamo amore alla famiglia insieme a ragionevolezza
possiamo dire con fiducia che si tratta di cosa retta e bella?
— Certo, rispose.
— E allora? Lasciare la propria bimba malata e andarsene lontano da lei,
penso non t'opporrai definendolo atto irragionevole. Resta da esaminare se
s'accorda al sentimento d'affetto.
— Esaminiamolo, dunque.
— Giacché eri così pieno d'affetto per la tua bimba, agisti rettamente
fuggendo e abbandonandola? La madre non è piena d'affetto per la figlia?
— Oh sì, è piena d'affetto.
— E doveva abbandonarla anche lei o no?
— No, davvero.
— E la nutrice, l'ama?
— L'ama, sì.
— E doveva abbandonarla anche lei?
— Nient'affatto.
— E il pedagogo, non l'ama?
— L'ama, sì.
— E doveva andarsene anch'egli e lasciarla, sicché la bimba rimanesse
abbandonata e senza aiuto per il troppo bene di voi genitori e di quanti le
stavano intorno, o morisse tra le braccia di chi non l'amava né la curava?
— Non sia mai!
— Ma quel che si ritiene conveniente a se stessi, col pretesto dell'affetto, non
è, per lo meno, cosa ingiusta e stolta non permetterlo a quanti sentono lo
stesso affetto?
— È assurdo.
— Vediamo: se eri malato tu, avresti voluto che i parenti, gli altri, i figli
stessi e la moglie t'amassero in modo da lasciarti privo della loro compagnia
e abbandonato?
— Nient'affatto.
— T'augureresti che i tuoi t'amassero in tal modo che per il loro eccessivo
amore rimanessi sempre solo durante le malattie, o piuttosto t'augureresti che
in tal modo t'amassero, se fosse possibile, i tuoi nemici, per rimanere, se non
altro, lontano da loro? Se questo è vero, rimane che il tuo atto non si accorda
affatto col sentimento d'affetto. E dunque?
Proprio niente ti muoveva e spingeva ad abbandonare la bimba? Come
sarebbe possibile? C'era, sì, un motivo, lo stesso, più o meno, che in Roma
faceva coprire il viso a un tale quando correva il cavallo del cuore, e che una
volta lo fece svenire a causa di una inaspettata vittoria del cavallo, sì che
ebbe bisogno delle spugne per riaversi. Qual è questo motivo? Non si
richiede, sul momento, una spiegazione scientifica: ci basti solo essere
persuasi che, se i filosofi dicono il vero, non lo si dovrà cercare al di fuori di
noi: è, anzi, un'unica e medesima ragione che in ogni caso ci determina ad
agire e a non agire, a dire e a non dire, a sollevarci o a raccoglierci, a fuggire
certi oggetti o a inseguirli, la stessa ragione che spinge al presente me e te, te
a venire da me, a metterti seduto adesso per ascoltarmi, me a dir questo. E
che altro è se non il nostro parere?
— Nient'altro.
— Se ci fosse sembrato di agire diversamente, che cos'altro avremmo fatto
se non quel che ci pareva? E anche per Achille il motivo che lo fece gemere
fu proprio questo, non che gli morì Patroclo (un altro non soffre a
tal guisa quando gli muore l'amico) ma che gli parve così. E nel tuo caso, se
sei fuggito, proprio questa è la ragione, che t'è parso così: e, al contrario, se
rimani, è perché ti e parso così. Ora, ad esempio, torni a Roma, perché così ti
pare; se cambiassi parere, non ci andrai. In una parola, la morte, né l'esilio, né
l'affanno, né alcun'altra di codeste cose è la ragione del nostro fare o non fare:
lo sono invece i giudizi e i pareri. Ti convinco, sì o no?
— Mi convinci, rispose.
— Ora, in ogni cosa, tali sono le cause, tali gli effetti. Pertanto a partire da
oggi, quando non compiamo qualcosa in modo retto, non accuseremo altro
che il parere per il quale l'abbiamo fatta e ci sforzeremo di sopprimerlo e di
estirparlo più che gli ascessi e i tumori dal nostro corpo. Così pure di quanto
è fatto rettamente diremo che la causa è la stessa. E non accuseremo più il
servo o il vicino né la moglie né i figli, quasi fossero cause dei nostri mali,
convinti che se certe cose non ci fossero parse in un certo modo non
avremmo compiuto gli atti conseguenti: che, però, ci paiano o non ci paiano,
siamo noi i padroni e non gli oggetti esterni.
— Proprio così.
— Da oggi, dunque, di nessun'altra cosa cercheremo ed esamineremo la
qualità o la condizione, si tratti di campi, di schiavi, di cavalli e di cani, ma
solo dei pareri che abbiamo.
— Me l'auguro — disse.
— Vedi, dunque, che devi fare lo scolaro, quell'essere di cui tutti ridono, se
veramente vuoi compiere una disamina dei tuoi pareri. E che non è affare
d'un'ora sola e d'un giorno, lo capisci da te.

DELLA CONTENTEZZA SPIRITUALE

Intorno agli dèi, c'è chi pretende che la divinità non esiste, altri che esiste ma
è inattiva, indifferente e non provvede a nulla, una terza categoria che esiste e
provvede, ma alle cose grandi e cioè ai fenomeni celesti, escluso ogni essere
che sta sulla terra: una quarta categoria afferma bensì che provvede anche
alle cose che stanno sulla terra e alle umane, ma solo in generale e non a
ciascuna in particolare: una quinta categoria, a cui appartengono e Odisseo e
Socrate ammette che neppur ti sfugge una mia mossa.
Come primissima cosa, è necessario esaminare ciascuna di queste posizioni,
quale si afferma con ragione, quale no.
Perché, se gli dèi non esistono, come sarà nostro fine seguire gli dèi? E se
esistono e non si curano di niente, pure in questo caso, come lo si affermerà
con ragione? E qualora esistano e si curino di qualcosa, se nessuna
corrispondenza c'è da loro agli uomini e, per Zeus, giù giù fino a me, come lo
si affermerà anche in questo caso con ragione? Esaminato tutto ciò, l'uomo di
perfetta virtù, sottomette il suo spirito a chi governa l'universo come i buoni
cittadini alla legge dello Stato. E chi impara deve accingersi alle lezioni con
questa disposizione: « come potrò seguire in tutto gli dèi, come vivere
contento sotto il governo divino, come diventar libero? » Perché libero è
colui al quale tutto accade in pieno accordo con la sua libera scelta e al quale
nessuno può essere d'ostacolo.
— Ma come? la libertà è forse mancanza di ragione?
— Non sia mai. Follia e libertà non coincidono.
— Ma io voglio che mi capiti tutto quanto mi pare, comunque mi paia.
— Tu sei folle, sragioni. Non sai che è una cosa bella, la libertà, una cosa
preziosa? E voler che mi capiti a caso quel che a caso mi pare, rischia non
solo di non essere una cosa bella, ma addirittura la più riprovevole di tutte.
Come ci regoliamo quando si tratta di scrivere? Voglio scrivere a mio piacere
il nome di Dione? No: imparo a volerlo scrivere come si deve. E per la
musica? Allo stesso modo. E, in generale, dove si tratta di arte o di scienza?
<Allo stesso modo.> Altrimenti non varrebbe la pena di imparare qualcosa,
se ci si dovesse regolare ciascuno secondo il proprio capriccio. E qui solo,
nell'argomento più grande e importante, quello della libertà, m'è permesso di
volere a caso? Nient'affatto, ma l'insegnamento consiste proprio nell'imparare
a volere ciascuna cosa, come essa è.
E com'è? Come l'ha ordinata l'Ordinatore. E ha ordinato che ci fossero estate
e inverno, fecondità e sterilità, virtù e vizi e tutti i contrari dello stesso genere
per l'armonia dell'universo, e a ciascuno di noi ha dato un corpo, membra del
corpo, beni e compagni.
Con siffatto ordinamento nella memoria bisogna andare a istruirsi, non per
cambiare lo stato delle cose (che non ci è concesso e non sarebbe certo
meglio) ma perché, conservando quel che ci circonda la sua condizione e la
sua natura, noi possiamo adattare il nostro spirito agli avvenimenti.
E, in realtà, è possibile fuggire gli uomini? Come lo potremmo? E mutarli,
stando insieme ad essi? Chi ce lo permette?
Che cosa rimane, quale procedimento si può escogitare per trattar con loro?
Un procedimento siffatto per cui essi agiranno secondo quel che pare a loro, e
noi, nondimeno, rimarremo in accordo con la natura. Ma tu sei indolente,
difficile a contentarti: se vivi solo, lo dici abbandono il tuo stato, se in mezzo
agli uomini, li chiami intriganti e ladri, biasimi i tuoi stessi genitori, i figli, i
fratelli, i vicini. Chi vive solo, invece, dovrebbe chiamare il suo stato
tranquillità e libertà, dovrebbe ritenersi simile agli dèi; chi vive in mezzo a
molti non dovrebbe dir tutto questo confusione, strepito, fastidio ma piuttosto
festa, baldoria, e così accettare tutto con contentezza. Qual è, dunque, il
castigo per quelli che non sanno adattarsi? Di stare come stanno. Uno si
dispiace di star solo? Resti nel suo abbandono. Uno si dispiace dei genitori?
Sia un figlio cattivo e si lamenti. Uno si dispiace dei figli? Sia un padre
cattivo. « Gettalo in prigione ». Quale prigione? Quella in cui si trova al
presente, perché ci si trova contro voglia: e dove si sta contro voglia, è
davvero una prigione. Per questo Socrate non si trovava in prigione, perché ci
stava di sua piena volontà.
« Così, la mia gamba deve essere zoppa ». Schiavo, e per una miserabile
gamba accusi l'universo? Non ne farai dono al tutto? Non te ne staccherai?
Non la cederai con gioia a chi te l'ha data? Ti irriterai e ti dispiacerai
dell'ordine stabilito da Zeus, quell'ordine ch'egli ha definito e disposto
insieme alle Moire le quali furono presenti alla tua nascita e filarono il tuo
destino? Non sai d'esser piccola parte rispetto al tutto? E questo vale per il
corpo, perché per la ragione non sei né inferiore agli dèi, né più piccolo: la
grandezza della ragione non si giudica né dalla lunghezza né dall'altezza, ma
dai pareri. Non vuoi, dunque, riporre il bene in ciò che ti fa simile agli dèi? «
Oh me infelice, con un padre e una madre tale! » E che? t'era forse concesso
di venir prima, fare una scelta e dire : « Costui si unisca a costei in questo
momento perch'io nasca »? No davvero. Bisognava, invece, che già
esistessero i tuoi genitori, in modo che tu poi fossi messo al mondo. E da
quali genitori? Proprio da quelli, tali quali erano. E poi, essendo essi quali
sono, non t'è dato nessun rimedio? Ignorando per quale fine possiedi la
facoltà visiva, saresti un disgraziato e un infelice, se presentandotisi i colori,
chiudessi gli occhi: ora, ignorando che hai la magnanimità e la nobiltà per
fronteggiare ogni caso, non sei più disgraziato e infelice? Ti si presentano
cose proporzionate alla capacità che hai e tu, proprio allora, la torci indietro
quando bisognerebbe tenerla bene spiegata e attenta. Non sei piuttosto grato
agli dèi che ti hanno messo al di sopra di tutte queste cose, né le posero alle
tue dipendenze, ma ti fecero responsabile solo di quel che dipende da te?
Riguardo ai genitori, t'hanno sciolto da ogni responsabilità, e così riguardo ai
fratelli, e così riguardo al corpo, alle sostanze, alla morte, alla vita. Di che
cosa, dunque, t'hanno fatto responsabile? Di quanto solamente dipende da te,
e cioè dell'uso conveniente delle rappresentazioni. E perché vuoi trascinarti
addosso ciò di cui non sei responsabile? È un crearsi molestie, questo.

COME SI PUO’ COMPIER TUTTO IN MODO DA PIACERE AGLI DEI?

Gli fu chiesto come si può mangiare in modo da piacere agli dèi. « Se si può
farlo come si deve, rispose, e cioè in maniera ragionevole, e così pure con
temperanza e misura, non lo si fa anche in modo da piacere agli dei? Quando
tu chiedi acqua calda e il servo non ti obbedisce, o, se t'obbedisce, te la porta
tiepida, o non si trova neppure in casa, allora, il non adirarsi, il non dare in
escandescenze non è piacere agli dèi? »
— Ma come sopportare tali persone?
— Schiavo, non sopporterai tuo fratello, che ha Zeus per padre, è nato, come
figlio, dallo stesso germe che te e dalla stessa discendenza celeste, ma per
essere stato collocato in una posizione un po' più eminente, t'atteggerai subito
a tiranno? Non ricorderai chi sei e su chi comandi? Non sono uomini della
tua stessa stirpe, fratelli per natura, discendenti di Zeus?
— Ma io ho un diritto d'acquisto su loro, essi non l'hanno su me.
— Vedi dove guardi? Non è sulla terra, sul baratro, su queste infelici leggi
che sono leggi dei morti? alle leggi degli dèi non guardi?

CHE NESSUNO SFUGGE ALLO SGUARDO DELLA DIVINITA’

Gli fu chiesto in qual modo uno potrebbe convincersi che nessuna delle sue
azioni sfugge allo sguardo di Dio. «Non ti sembra, gli disse, che tutte le cose
formano un'unità? »
— Sì, rispose l'altro.
— E poi? le cose terrestri non ti sembra che simpatizzino con le celesti?
— Sì, replicò l'altro.
— E infatti, donde avviene che così ordinatamente, quasi per un comando
divino, quando Dio ordina alle piante di fiorire, fioriscono, quando ordina di
germogliare, germogliano, di portar frutto, portano frutto, di maturare,
maturano, e quando poi di spogliarsi nuovamente, di gettar via le foglie e,
raccolte in se stesse, di rimanere in quiete e di riposare, rimangono in quiete e
riposano? Donde avviene che in relazione al crescere o al calare della luna,
all'avvicinarsi o all'allontanarsi del sole, si notano nelle cose terrestri tante
trasformazioni e tanti cambiamenti d'uno in altro contrario?
Ma allora le piante e i nostri corpi sono così legati al tutto e simpatizzano tra
loro, e le anime nostre non lo saranno molto di più? E le nostre anime sono
così legate e avvinte a Dio, come parti e frammenti di Lui, e Dio non
avvertirà ogni loro movimento come un movimento che Gli è proprio e
connaturale?
Vediamo: tu sei in grado di riflettere sull'ordinamento divino e su
ciascun'opera divina, come pure sulle cose umane: nello stesso tempo, puoi
essere colpito da mille oggetti nei tuoi sensi e nella tua intelligenza e,
insieme, dare ad alcuni la tua adesione, ad altri rifiutarla o sospenderla; da
tanti e sì svariati oggetti conservi nell'animo tuo altrettante impressioni e
passi, mosso da queste, alle idee simili agli oggetti che per primi ti hanno
colpito e dai mille oggetti derivi e conservi le arti, l'una presso l'altra, e il
ricordo: e Dio non sarà capace di osservare ogni cosa e d'essere presente
dovunque e avere qualche comunicazione con tutte? Il sole riesce a
illuminare sì gran parte dell'universo e poca ne lascia senza luce, proprio
quella che è avvolta dall'ombra prodotta dalla terra: e Chi ha fatto e guida nel
suo corso anche il sole, piccola parte di Lui rispetto all'universo, Questi non
può accorgersi di tutto?
— Ma io, replica quello, non posso seguire nello stesso tempo tutte queste
cose.
— E chi ti dice che hai la stessa potenza di Zeus? Nondimeno egli ha messo
vicino a ciascuno, anche un guardiano, il demone proprio di ciascuno e ogni
uomo ha affidato alla sua protezione — ed è uno che non dorme e non si
lascia ingannare. A quale altro custode migliore e più premuroso avrebbe
potuto affidare ciascuno di noi? In conseguenza, quando chiudete la porta e
fate buio all'interno, ricordate di non dir mai che siete soli: non lo siete, in
realtà, ma c'è Dio nell'interno, e c'è il vostro demone.
E che bisogno hanno costoro di luce per vedere le vostre azioni? A questo
Dio dovreste anche voi prestar giuramento come i soldati a Cesare. Ma essi,
in quanto ricevono la paga, giurano di porre sopra tutto la salute di Cesare e
voi, che siete stati ritenuti degni di tanti e sì grandi doni, non presterete il
giuramento o, prestatolo, non lo manterrete? E qual è il giuramento? Di non
disobbedir mai, di non accusare né biasimare niente che vi sia stato concesso
da Dio, di non fare né subire contro voglia ciò che è inevitabile. È simile in
qualche modo questo giuramento a quello? Da una parte, i soldati giurano di
non porre niente sopra Cesare: voi, dall'altra, di mettere voi stessi sopra tutte
le cose.

CHE COSA PROMETTE LA FILOSOFIA


Uno si consigliò con lui sul modo di persuadere il fratello a non serbargli
astio. « La filosofìa — rispose — non promette di procurare all'uomo
qualcuno dei beni esterni, altrimenti si assumerebbe un compito che è fuori
della propria materia. La materia del falegname è il legno, dello scultore il
bronzo; allo stesso modo, l'arte del vivere ha per materia la vita stessa di
ciascuno».
— E che ne è, allora, della vita di mio fratello? — Essa è, per sé, materia
della sua arte, ma rispetto alla tua rientra tra gli oggetti esterni, come un
campo, come la salute, come la reputazione. E di queste cose la filosofia non
ne promette alcuna. « In ogni circostanza (essa dice) baderò che si mantenga
conforme alla natura la parte direttrice dell'anima. Di chi? Di colui nel quale
mi trovo.»
— Ma come non s'irriterà più con me mio fratello?
— Portalo da me e glielo dirò: a te, per quanto riguarda la sua ira, non ho
niente da dirti.
Ma quello che aveva richiesto il suo consiglio, continuò: «Cerco
precisamente in che modo possa rimanere conforme alla natura, io, pur se
mio fratello non si riconcili con me».
Allora Epitteto gli rispose: «Niente di grande si produce d'un subito, come
neppure l'uva né il fico: se adesso mi dici:
'voglio un fico', ti risponderò: 'ci vuole del tempo: lascia che prima fiorisca,
quindi getti il frutto, quindi maturi. E se il frutto del fico non giunge a
maturità d'un subito e in un'ora sola, vuoi raccogliere il frutto d'uno spirito
umano così in breve e facilmente? Non aspettartelo, anche se io te lo
prometta».

DELLA PROVVIDENZA

Non meravigliatevi se gli altri animali trovano pronto il necessario per il


corpo, non solo cibi e bevande, ma anche il covile, e se non hanno bisogno di
calzari, di coperte, di vesti, mentre noi abbiamo per di più bisogno di tutto
questo.
Perché gli animali che esistono non per sé, ma per servire, non era utile farli
con tali bisogni. Pensa un po' che sarebbe se dovessimo badare non solo a
noi, ma anche alle bestie e agli asini, a vestirli, a calzarli, a provvederli del
mangiare e del bere. Invece, come i soldati si presentano in pieno assetto al
comandante, calzati, vestiti, armati, — se il chiliarca dovesse andare in giro
per calzare e vestire i suoi mille uomini, sarebbe un disastro! — così, anche
la natura ha fatto gli animali nati per servire, pronti, in pieno assetto, senza
più bisogno di alcuna cura. Perciò anche un ragazzino, con un bastone, guida
una mandra.
Ora noi, invece di ringraziar Dio che non ci prendiamo degli animali la
stessa cura che ci prendiamo di noi, lo accusiamo della nostra sorte. Eppure,
per Zeus e per gli dèi, basterebbe uno solo di questi fatti perché un uomo,
timorato, s'intende, e riconoscente, si accorgesse della provvidenza. E non
penso adesso ai grandi fenomeni, ma alla semplice trasformazione dell'erba
in latte, del latte in cacio, della pelle in lana: chi ha fatto queste cose? chi le
ha immaginate? «Nessuno — si dice». 0 enorme ottusità e impudenza!
Ma via, lasciamo da parte le opere della natura e consideriamo quelle
accessorie. C'è niente più inutile dei peli del mento? Ebbene, non si è servita
la natura anche di questi nel modo più opportuno che poteva? Non ha distinto
con essi il maschio e la femmina? Non grida subito, anche da lontano, la
natura di ciascuno di noi: «sono uomo: come a uomo avvicinati, come a
uomo parla: non cercar altro: ecco i segni»? A sua volta, nelle donne, come
ha mescolato un tono più morbido nella voce, così anche ha soppresso i peli
del mento. No: ma bisognava lasciar la creatura senza alcun segno di
distinzione, e ognuno di noi doveva proclamare: «Sono uomo». E poi, com'è
bello questo segno, come adatto e nobile!
Quanto più bello della cresta dei galli, quanto più dignitoso della criniera dei
leoni! Per questo bisognerebbe conservare i segni del Dio, bisognerebbe non
gettarli via, e, per quanto dipende da noi, non confondere i sessi ch'egli ha
distinto.
Son queste sole le opere della provvidenza a nostro riguardo? Quale parola
basta a lodarle o a esporle in maniera corrispondente? Se avessimo senno,
che cos'altro dovremmo fare, in compagnia e da soli, se non inneggiare alla
divinità, celebrarla, enumerarne i benefìci? Non dovremmo, mentre
vanghiamo, o ariamo, o mangiamo, cantare l'inno a Dio? «Grande è Dio,
perché ci ha largito strumenti adatti a lavorare la terra: grande è Dio, perché
ci ha dato le mani, la gola, il ventre, perché ci fa crescere senza che ce ne
accorgiamo, perché ci fa respirare mentre dormiamo». Questo bisognerebbe
cantare in ogni occasione e cantare l'inno più sublime e più divino che, cioè,
Egli ci ha dato la facoltà di comprendere tali cose e la via retta per usarle.
Ebbene? giacché la maggior parte di voi è cieca, non era necessario che ci
fosse chi tenesse questo posto e in nome di tutti cantasse l'inno a Dio? E che
cos'altro posso io, vecchio storpio, se non inneggiare a Dio? se fossi un
usignolo, compirei la mia parte di usignolo, se cigno, quella di cigno. E
invece sono un essere ragionevole: devo inneggiare al Dio. Ecco la mia parte;
io la compio e non diserto il mio posto, per quanto mi è concesso, e anche voi
esorto a cantare questo stesso canto.

SULLA NECESSITA’ DELLA LOGICA

Poiché è il ragionamento che rende distinto e spiega il resto, ed era


necessario che non rimanesse, esso proprio, indistinto, per mezzo di che
diventerà distinto? È chiaro, o mediante se stesso o mediante altro. Ma, certo,
è ragionamento anche questo o qualcosa di diverso, superiore al
ragionamento — il che è impossibile. Se è ragionamento, quest'ultimo, a sua
volta, chi lo renderà distinto? E se si rende distinto da sé, anche il primo lo
può. Se poi ce ne servirà un altro, il processo sarà senza fine e non s'arresterà
più.
« Va bene, ma è molto più urgente aver cura di se stessi » — e simili.
— Vuoi dunque ascoltar qualcosa in proposito? Ascolta. È come se mi
dicessi : « Non so se ragioni in maniera vera o falsa » e se, avendo io usato
un termine ambiguo, tu mi ripetessi: « Distingui », ed io non riuscissi più a
sopportarti, ma ti rispondessi « C'è altro più urgente ». Per questo, io penso,
cominciamo con la logica, allo stesso modo che, per misurare il grano,
cominciamo coll'esaminare la misura. Se, infatti, non determiniamo dapprima
che cosa è il moggio, se non determiniamo dapprima che cosa è la bilancia,
come potremo più misurare o pesare qualcosa?
E nel nostro caso, se non conosciamo con esattezza e precisione il criterio
delle altre cose, criterio grazie al quale le conosciamo, ne potremo conoscere
qualcuna con esattezza e precisione? Com'è possibile?
— Sì, ma il moggio è di legno e sterile.
— Però serve a misurare il grano.
— E anche la logica è sterile.
Questo pure vedremo. Ma, anche ammettendolo, basta che essa sia capace di
discernere e di esaminare il resto, e, si potrebbe dire, di misurarlo e di
pesarlo. Chi l'afferma? Solo Crisippo, Zenone, Cleante? E Antistene non
l'afferma? Chi ha scritto che « l'osservazione dei termini è l'inizio
dell'educazione fìlosofica »? E Socrate non l'afferma? Di chi scrive
Senofonte che incominciava dall'osservazione dei termini, quale fosse il
significato di ognuno?
Non è dunque una cosa grande e meravigliosa intendere Crisippo o
interpretarlo? Chi lo dice? E qual è allora la cosa meravigliosa? Intendere il
disegno della natura. Ebbene? Ci riesci da te a comprenderlo? E di che hai
ancora bisogno?
Perché se è vero che nessuno s'inganna volontariamente e tu conosci la
verità, di necessità il tuo agire sarà, per ciò stesso, giusto.
— Ma, per Zeus, io non riesco a seguire il disegno della natura. E chi lo
interpreta? Dicono Crisippo. Mi rivolgo a lui e cerco che cosa affermi lui,
l'interprete della natura. Per cominciare, non capisco quel che dice: cerco
allora uno che l'interpreti. « Guarda un po' in che senso si dice questo: è come
se fosse in latino! » Di che deve insuperbire qui l'interprete? Neppure
Crisippo avrebbe un motivo giusto di farlo, se solamente interpretasse il
disegno della natura senza seguirla: a maggior ragione il suo interprete!
Perché non abbiamo bisogno di Crisippo per se stesso, ma per comprendere
la natura. E neppure del sacrificatore per sé stesso, ma perché riteniamo di
capire, mediante lui, l'avvenire e i presagi datici dagli dèi; e neppure delle
viscere delle vittime per se stesse, bensì per quanto ci viene indicato
mediante esse; e non restiamo estatici davanti al corvo o alla cornacchia, ma
al Dio che per loro mezzo ci da presagi. Mi rivolgo dunque a questo
interprete, a questo sacrificatore e gli dico: «Esamina per me le viscere, quali
presagi mi danno». Egli le prende, le distende e le interpreta: «O uomo, la
persona morale l'hai naturalmente libera da costrizioni e da necessità. Questo
sta scritto qui, nelle viscere. E te lo mostrerò dapprima nel campo
dell'assenso. Chi può impedirti di aderire al vero?
Nessuno. Chi può costringerti ad accettare il falso? Nessuno. Vedi che in
questo campo la tua persona morale è libera da costrizioni, da necessità, da
impedimenti? E poi, per quanto riguarda i desideri e gli impulsi, è forse
diversamente?
Chi può vincere un impulso se non un altro impulso? Chi un desiderio o
un'avversione se non un altro desiderio o un'altra avversione?
«Ma se mi prospettano il terrore della morte, si dice, mi costringono».
«No, non è quel che ti si prospetta, ma il fatto che ti sembra preferibile far
questo o quello piuttosto che morire. Ancora una volta è il tuo giudizio che ti
assoggetta alla necessità, e cioè il libero arbitrio che forza il libero arbitrio.
Perché se Dio avesse assoggettato a impedimento o a necessità, o da parte sua
o da parte di altri, il frammento del suo essere che ha staccato da sé per dare a
noi, non sarebbe più Dio né più si prenderebbe cura di noi, come deve. Ecco,
egli dice, quel che trovo nelle vittime.
Questi i presagi che mi danno. Se vuoi, sei libero; se vuoi, non biasimerai
alcuno, non accuserai alcuno, tutto accadrà secondo la volontà tua e, insieme,
di Dio».
È per una divinazione di tale sorta ch'io mi reco da questo sacrificatore e dal
filosofo e non ammiro lui per la sua interpretazione, ma piuttosto la verità che
interpreta.

CHE NON BISOGNA IRRITARSI PER GLI SBAGLI

Se è vero, come dicono i filosofi, che per un solo motivo tutti gli uomini
danno l'assenso, cioè la supposizione che la cosa stia così, o lo rifiutano, cioè
la supposizione che la cosa non stia così, o, per Zeus, lo sospendono, cioè la
supposizione che la cosa sia incerta: se, d'altra parte, è vero che la sola causa
che spinge verso un oggetto è la supposizione che mi torni utile: se, poi, è
impossibile giudicare utile una cosa e desiderarne un'altra, giudicare
conveniente una cosa ed essere spinti verso un'altra, perche irritarsi ancora
contro tanta gente? Si dice: sono ladri e furfanti.
— Che significa esser ladri e furfanti? Che si sono sbagliati su quel che è
bene e male. E bisogna irritarsi contro loro oppure averne compassione? Ma
mostra ad essi lo sbaglio e vedrai come si staccano dai falli. Se non vedono,
non hanno niente da preferire alla loro opinione.
— Allora, questo ladro e questo adultero non dovrebbero essere messi a
morte? — Nient'affatto; esprimiti piuttosto così: «Quest'uomo che è caduto
nell'errore e si è ingannato sulle questioni più importanti, che ha perduto la
vista, e non la vista che distingue il bianco e il nero, ma quella
dell'intelligenza capace di distinguere il bene e il male, non dovrebbe essere
messo a morte?» Esprimendoti così, conoscerai quant'è inumano quel che
dici, che, infine, si riduce a questo:
«Ma, dunque, questo cieco e questo sordo, non si dovrebbero mettere a
morte?» E, infatti, se il danno più grande <è la perdita dei beni più grandi, e il
bene più grande> in ciascuno è la conveniente disposizione della persona
morale, perché, se uno ne è privo, ti irriti per giunta con lui? Uomo, se il tuo
atteggiamento per gli altrui mali dev'essere contrario a natura, abbine
compassione più che odio, ma lascia quegli atti corrivi all'offesa e all'odio.
Chi sei, uomo, per proferire quelle parole che suole proferire il volgo: «Togli
di mezzo questi maledetti e questi scellerati»? Sia pure: ma come hai
acquistato la saggezza tutto d'un colpo, che adesso sei aspro cogli altri?
E per qual motivo allora ci irritiamo? Perché apprezziamo gli oggetti che ci
vengono tolti. Non apprezzare le tue vesti e non t'irriterai contro il ladro: non
apprezzare la bellezza della tua donna e non t'irriterai contro l'adultero. Sappi
che il ladro e l'adultero non si trovano tra le cose di tua proprietà, ma tra
quelle che appartengono ad altri, che non dipendono da te. Se da quest'ultime
ti distacchi e non ne fai nessun conto, contro chi dovrai ancora adirarti? Ma
finché le apprezzi, adirati contro te stesso piuttosto che contro quelli. Guarda
un po': tu possiedi belle vesti, il tuo vicino no: hai una finestra e vuoi metterle
all'aria. Egli non conosce che cos'è il bene dell'uomo e immagina consista nel
possedere belle vesti — proprio come immagini tu. E allora non verrà e se le
prenderà? Ma tu fai vedere una focaccia a dei ghiottoni, te la metti a
trangugiare da solo, e pretendi che non te la rubino? Non provocarli, non aver
finestre, non mettere all'aria le tue vesti.
Anch'io, l'altro giorno, tenevo una lucerna di ferro davanti ai lari: sentii un
rumore sotto la finestra, mi precipitai. Trovai che la lucerna era stata portata
via. Riflettei che il ladro era stato spinto da un sentimento ben comprensibile.
E dunque? Domani, dissi, la troverai di terra cotta. Perché si perde quel che si
ha. «Ho perduto il mio vestito». Perché ce l'avevi.
«Mi duole la testa». E le corna ti dolgono? Perché irritarti, allora? Perdite e
affanni si hanno soltanto di quel che si possiede.
— Ma il tiranno m'incatenerà.
— Che cosa? La gamba.
— Ma mi staccherà...
— Che cosa? La testa. Che cosa non può incatenare né staccare? La persona
morale. Per questo gli antichi esortavano:
«Conosci te stesso». E allora? Bisognerebbe, per gli dèi, prendersi cura delle
piccole cose e, cominciando da queste, passare alle più grandi. «Mi duole la
testa.» Non dire «ohimè.» «Mi duole un orecchio». Non dire «ohimè.» Non
pretendo, beninteso, che non sia permesso di gemere; solo, non gemere nel
tuo intimo. E se il servo non si affretta a portarti la cintura, non strepitare,
non fare le smorfie esclamando «M'odiano tutti». Chi non l'odierà un uomo
siffatto?
D'ora in poi, fidando in questi princìpi, cammina diritto e libero: non nella
potenza del corpo devi fidare, come gli atleti: non essere invincibile al modo
degli asini.
Chi è allora l'invincibile? Quegli che nessuna cosa indipendente dalla sua
persona morale riesce a sconvolgere. Per il resto, percorrendo le varie
circostanze, una per una, le esamino, come si fa cogli atleti: «Costui ha
strappato la vittoria al primo che la sorte gli ha opposto. Che ne sarà del
secondo? Che succederà se scoppia il caldo? Che farà ad Olimpia?» E
così qui, se gli presenti un po' di denaro, lo disprezzerà. Ma se si tratta di una
bella ragazza? E se è al buio? E se si tratta di un po' di gloria? Se d'un po' di
insulti? Se d'un po' di lode? Se della morte? È in grado di vincere tutto
questo. E che succede se scoppia il caldo, cioè, se è ebbro, se è d'umor nero,
se è nel sonno? Questo è, per me, l'atleta invincibile.

COME BISOGNA COMPORTARSI DAVANTI AI TIRANNI

Se uno possiede una qualche superiorità o per lo meno crede di possederla,


pur non possedendola, è assoluta necessità che, qualora manchi di educazione
filosofica, ne insuperbisca.
Ecco il tiranno che dice: «Sono più potente di tutti» — E che mi puoi
offrire? Un desiderio al sicuro da ogni ostacolo me lo puoi procurare? Donde
a te questo? Lo possiedi davvero? Un'avversione al sicuro da ciò che vuole
evitare? La possiedi davvero? Un impulso infallibile? E come t'appartiene?
Ma via, nella nave t'affidi a te stesso o all'uomo del mestiere? E sul carro, a
chi se non all'uomo del mestiere? E per le altre arti? Allo stesso modo. E
dunque che cosa puoi?
— Tutti hanno riguardi per me.
— Anch'io ho riguardo del mio piatto e lo lavo e lo pulisco e per la mia
boccetta d'olio pianto un chiodo nel muro. Con questo? Valgono più di me?
No, ma mi danno qualche utilità. In vista di questa ne ho riguardo. E poi? Per
l'asino, non ho riguardo? Non gli lavo le zampe? Non striglio? Non sai che
ogni uomo ha riguardo per se stesso, ma per te allo stesso modo che per
l'asino? E, infatti, chi ha per te il riguardo che si deve a un uomo?
Mostramelo. Chi vuole essere simile a te, chi cerca di seguire te, come si
seguiva Socrate?
— Ma io posso tagliarti la testa.
— È giusto. Dimenticavo che bisogna aver riguardo per te, proprio come si
ha per la febbre e per il colera e bisogna innalzarti un altare come si fa alla
Febbre in Roma.
— Che cos'è, dunque, che turba e sbigottisce i più?
Il tiranno e i suoi satelliti? Perché? Non sia mai. Non è possibile che quel
che è per natura libero sia assoggettato a turbamenti o a impedimenti da altri
se non da se stesso.
Sono i giudizi a turbare l'uomo. Quando il tiranno dice a uno «t'incatenerò la
gamba», chi tiene in conto la gamba risponde, «No; abbi pietà di me» ma chi
tiene in conto la sua persona morale, risponde: «Se in qualche modo ti pare
utile, incatenala pure».
— Non ci badi?
— Non ci bado.
— Io ti mostrerò che sono il padrone.
— E come? Zeus mi ha lasciato libero. O, secondo te, doveva permettere che
suo figlio fosse ridotto in schiavitù? Del mio cadavere sei padrone: prendilo.
— Sicché, quando vieni da me, tu non hai riguardo per me?
— No, ma solo per me. Se però vuoi ch'io dica che l'ho anche per te, ti dirò
che ho per te lo stesso riguardo che per una pignatta.
Non è egoismo, questo, perché tale è la natura dell’essere animato: fa tutto
per sé. E, infatti, anche il Sole fa tutto per sé e, del resto, anche Zeus. Ma
quando vuole essere Pluvio o Frugifero o padre degli uomini e degli dèi, tu
vedi che non può ottenere questo intento né questi titoli, senza essere utile
alla comunità. In generale, egli ha disposto la natura dell'essere ragionevole
in modo che non possa raggiungere alcun bene particolare se non porta
qualche contributo all'utilità comune. Così non è più antisociale fare ogni
cosa per sé. Perché, che aspetti? Che uno rinunci a se stesso e al proprio
utile? E come potrà ancora esserci un solo e medesimo principio d'azione per
tutte le creature, e cioè l'amore di sé?
E così? Quando sottentrano giudizi assurdi intorno a oggetti indipendenti
dalla nostra persona morale, quasi fossero buoni o cattivi, allora è assoluta
necessità tener in conto i tiranni. E fossero solo i tiranni e non i loro
camerieri! Ma come può un uomo diventare improvvisamente assennato,
quando Cesare l'ha preposto alla sua seggetta? Come possiamo dire d'un
tratto: «Con quanto senno m'ha parlato Felicione». Vorrei davvero che fosse
cacciato dal gabinetto, perché ti apparisse di nuovo uno stolto! Epafrodito
aveva un cuoiaio, e, siccome non ne ricavava alcun frutto, lo vendette.
Quello, poi, per non so quale caso, comprato da uno dei familiari di Cesare,
divenne il cuoiaio dell'Imperatore.
Dovevi vedere allora come lo riveriva Epafrodito. «Come va il caro
Felicione? Ti bacio la mano». E se uno di noi chiedeva: «E lui, che fa?» la
risposta era: «Si consulta con Felicione per qualche affare». Ma non l'aveva
venduto perché inutile? E chi lo fece d'improvviso assennato? Questo
significa tenere in conto cose diverse da quelle che dipendono dalla persona
morale.
«S'è meritato la potestà tribunizia». Chiunque l'incontra si congratula con
lui: uno gli bacia gli occhi, un altro il collo, gli schiavi le mani. Va a casa:
trova le lucerne accese. Sale al Campidoglio, offre un sacrificio. Chi ha mai
offerto un sacrificio perché i suoi desideri sono stati buoni, perché i suoi
impulsi sono stati conformi a natura? E, in realtà, ringraziamo gli dèi per gli
oggetti in cui poniamo il nostro bene.
Oggi uno mi parlava del sacerdozio di Augusto. Gli dico: «Uomo, lascia la
faccenda: spenderai tanto per niente». «Ma chiunque farà un contratto —
risponde — scriverà il mio nome». «Pensi forse di essere presente alla lettura
del contratto per dire: ' hanno scritto il mio nome? ' E se anche puoi essere
dappertutto, alla morte che farai?»
— Rimarrà il mio nome.
— Incidilo su una pietra e rimarrà. E poi, fuori di Nicopoli, chi si ricorderà
di te?
— Ma porterò una corona d'oro.
— Una volta che desideri una corona, prendine una di rose e adattala sulla
tua testa: apparirai più elegante.
IN CHE MODO LA RAGIONE PUO’ PRENDERE SE STESSA A
OGGETTO DI STUDIO

Ogni arte, ogni scienza ha da studiare determinati princìpi. Ora, se l'arte è


essa pure congenere al suo oggetto, necessariamente potrà prendere anche se
stessa a oggetto di studio, se, invece, non è congenere, non lo potrà. Per
esempio, l'arte del calzolaio s'occupa di pelli, ma essa è del tutto differente
dalla materia, e cioè dalle pelli; per ciò non può prendere se stessa a oggetto
di studio. La grammatica, a sua volta, s'occupa della parola scritta: forse, è,
essa stessa, una parola scritta? Nient'affatto. Per ciò non può prendere se
stessa a oggetto di studio. Ma la ragione, per qual fine c'è stata data dalla
natura? Per l'uso conveniente delle rappresentazioni. Ed essa che cos'è? Un
sistema di rappresentazioni diverse. È naturale, quindi, che prenda anche se
stessa a oggetto di studio. A sua volta, la saggezza sopravvenuta in noi, che
cosa ha da studiare?
Ciò che è bene, ciò ch'è male e ciò che non è né l'uno né l'altro. Ed essa che
cos'è? Un bene. E la stoltezza che cos'è? un male. Vedi dunque che
necessariamente pure la saggezza può prendere se stessa e il suo contrario a
oggetto di studio?
Per questo, compito del filosofo, il più importante e il primo, è saggiare le
rappresentazioni e distinguerle e nessuna accoglierne che non sia stata
saggiata. Nel caso del denaro, che, mi sembra, ha un certo interesse per noi,
vedete come abbiamo inventato addirittura un'arte, e con quali mezzi il
saggiatore proceda all'esame della moneta: la guarda, la tocca, l'odora,
finalmente l'ascolta: la getta a terra e bada al suono che manda e non si
contenta di farla risuonare una volta sola, ma in seguito a reiterate prove, si
rende l'orecchio musicale. Così in una materia in cui riteniamo che l'errare e
il non errare abbiano la loro importanza, usiamo molta attenzione per
distinguere gli oggetti che ci possono indurre in errore; quando si tratta di
quell'infelice parte direttrice dell'anima nostra, rimaniamo a bocca aperta,
sonnecchiamo, accettiamo qualsiasi rappresentazione, perché non ci colpisce
il pensiero del danno.
Se, dunque, vuoi conoscere con quanta noncuranza ti comporti rispetto ai
beni e ai mali, e con quanta sollecitudine rispetto agli oggetti indifferenti,
osserva il tuo atteggiamento di fronte alla cecità, da una parte, e all'errore,
dall'altra: t'accorgerai, allora, che sei molto lontano dall'avere, intorno ai beni
e ai mali, i sentimenti che si convengono.
«Ma è un affare che esige molta preparazione, molta fatica e studio».
— E che? Speri di poter conquistare con poco sforzo l'arte più importante?
Eppure quel che è principale nella dottrina di ogni filosofo è estremamente
breve. Se vuoi saperlo, leggi le opere di Zenone e lo vedrai. È forse lungo
dire: «II fine consiste nel seguire gli dèi, l'essenza del bene nell'uso
conveniente delle rappresentazioni»? Dì, però, «che cos'è Dio, che cosa la
rappresentazione? che cosa la natura della parte e la natura del Tutto?»
Questo è già lungo. Se poi viene Epicuro e afferma che nella carne deve
consistere il bene, allora la cosa si fa di nuovo lunga: è necessario imparare
che cos'è per noi la parte principale, che cosa la parte sostanziale ed
essenziale. Poiché non è probabile che il bene della lumaca sia nel guscio
sarà probabile per l'uomo? E tu, Epicuro, che cosa hai di più importante? Che
cos'è in te che delibera, che esamina ogni cosa, che, dando un giudizio sulla
carne stessa, la ritiene la parte principale? E per quale motivo accendi la
lucerna e t'affatichi per noi e scrivi tanti libri? È perché non ignoriamo, noi,
la verità? Chi noi? Che siamo per te? Così il nostro ragionamento si fa lungo.

A CHI VUOLE ESSERE AMMIRATO

Quando uno nella vita ha l'atteggiamento che si conviene, non sta con la
bocca aperta dinanzi alle cose di fuori. Uomo, che vuoi t'accada? Per me, mi
basta che desideri e avversioni siano conformi a natura, che negli impulsi e
nelle repulse segua la natura, — e lo stesso nelle intenzioni, nei progetti,
nell'assenso. E perché ci giri intorno, come se avessi inghiottito una spada?
«Volevo che chiunque m'incontrasse si riempisse d'ammirazione e mi
seguisse acclamando: ‘Oh, il grande filosofo!’» E chi sono costoro dai quali
vuoi essere ammirato? Non quelli che abitualmente definisci pazzi? E
allora? Dai pazzi vuoi essere ammirato?

SULLE PRENOZIONI

Le prenozioni sono comuni a tutti gli uomini, e prenozione non contraddice a


prenozione. Chi di noi, in realtà, non ammette che il bene è utile, è anche
desiderabile, e che in ogni circostanza si deve ricercarlo e seguirlo? Chi di
noi non ammette che il giusto è bello e conveniente? Allora, quando sorge la
contraddizione? Nell'applicare le prenozioni ai casi particolari: quando uno
dice «Ha agito bene, è valoroso» e l'altro «No, ma è dissennato». Ecco in che
modo gli uomini si contraddicono tra loro. Certo, Giudei, Siri, Egiziani e
Romani non si contraddicono sul fatto che la santità va stimata sopra tutto e
perseguita in ogni occasione, ma sulla questione se è conforme a santità o no
cibarsi di carne suina.
Troverete che anche Agamennone e Achille si contraddicono allo stesso
modo. Chiamali davanti a noi: — «Che dici tu, Agamennone? Non si deve
compiere il proprio dovere e ciò che è bene?
— Senza dubbio, si deve.
— E tu, che dici, Achille? Non sei d'avviso che si compia quel che è bene?
— Certo, ne sono d'avviso in modo assoluto. Applicate, dunque, le
prenozioni. Di qui comincia la
contraddizione.
L'uno dice: «Non è necessario ch'io restituisca Criseide al padre».
E l'altro: «È necessario, invece.»
In ogni caso, uno dei due applica malamente la prenozione di ciò che s'ha da
fare.
Dice di nuovo il primo: «Ebbene, se devo restituire Criseide, bisogna che
prenda il premio di qualcuno di voi».
E l'altro: «Vuoi prendere proprio quella ch'io amo?»
— «Certo, la tua — risponde il primo — Perché io solo...»
— Ma solo io non devo aver niente? In tal modo sorge la contraddizione.
Dunque, in che consiste l'educazione filosofica? Nell'apprendere ad
applicare le prenozioni naturali ai casi particolari in maniera congruente a
natura e, per il resto, nel distinguere tra le cose, quelle che dipendono da noi e
quelle che non dipendono da noi. Da noi dipendono la persona morale e tutti i
suoi atti, non dipendono da noi il corpo, le membra del corpo, gli averi, i
genitori, i fratelli, i figli, la patria, e, insomma, quelli con cui viviamo.
Dove poniamo il bene, allora? A quali cose lo riferiremo? A quelle che
dipendono da noi?
— Ma non è un bene la salute, l'integrità del corpo, la vita? Neppure i figli,
neppure i genitori, neppure la patria? Chi potrà tollerarti?
— E allora spostiamo la denominazione di bene a questi oggetti. È possibile
essere felici se si è ingiuriati o si perdono i beni?
— Non è possibile.
— E avere con chi si vive relazioni convenienti? Com'è possibile? Io sono
portato per natura verso il mio interesse. Se è mio interesse avere un campo, è
anche mio interesse portar via quello del vicino: se è mio interesse avere un
mantello è anche mio interesse rubarne uno allo stabilimento dei bagni. Di
qui guerre, contese, tirannie, complotti. E poi, come potrò compiere il mio
dovere verso Zeus? Se sono ingiuriato e sfortunato, non bada a me. E allora:
«che ho a fare con lui, se non è in grado di recarmi aiuto?» E ancora: «che ho
a fare con lui, se vuole ch'io rimanga nella condizione in cui mi trovo?» D'ora
in poi comincio a odiarlo. E perché costruiamo templi, perché statue come a
divinità malvagie, a Zeus, come alla Febbre? E come può essere ancora il
Salvatore, il Pluvio, il Frugifero? Certo, se poniamo in questi oggetti
l'essenza del bene, tutte queste conclusioni seguono logicamente.
Allora, che faremo? È questa la ricerca di chi filosofa veracemente e si
travaglia nel parto della verità! sul momento io non vedo che cos'è il bene e il
male. Non sono folle? Sì: ma devo forse porre il bene in ciò che dipende dalla
mia persona? Tutti si burleranno di me. Verrà un vecchio dai capelli canuti,
con molti anelli d'oro, e, scuotendo la testa, mi dirà: «Ascoltami, figlio.
Bisogna, sì, filosofare, ma bisogna pure avere cervello. Queste sono pazzie.
Tu dai filosofi impari il sillogismo, ma quel ch'hai da fare, lo sai meglio dei
filosofi.» — Uomo, perché mi biasimi, allora, se lo so?
Che dirò a questo schiavo? Se sto zitto, lui scoppia. Bisogna rispondere così:
«Perdonami, come si perdona agli amanti: non sono padrone di me stesso:
sono folle.»

A EPICURO

Immagina anche Epicuro che per natura siamo esseri sociali, ma una volta
posto il nostro bene nella corteccia della carne, non può più parlare in altro
modo. Perché sostiene pure con energia che non bisogna tener in conto né
accettare alcunché scisso dalla natura del bene: e lo sostiene a ragione. In che
modo, dunque, se non esiste affetto naturale per i figli, ci possono sorgere
sospetti sul fatto che sconsigli il saggio dall'allevar bambini? Perché temi che
per essi vada incontro a dolori? Per il topo nutrito in casa va incontro a
dolori? Che gli interessa se un piccolo topino di dentro si mette a gridare
davanti a lui? Piuttosto egli sa che, una volta nato un bambinello, non è più in
nostro potere non amarlo e non interessarcene. Per questo dice che neppure al
governo dello Stato deve partecipare chi ha senno, perché sa bene ciò che
deve fare chi governa: per quanto, se vuoi vivere tra gli uomini come tra le
mosche, che cosa te l'impedisce?
Comunque, pur sapendo questo, ha il coraggio di affermare: «Non tiriamo su
i figli». Ma la pecora non abbandona il suo parto, e neppure il lupo; e l'uomo
l'abbandonerà? Che vuoi? che siamo stolidi come le pecore? Ma queste non li
abbandonano i figli. O crudeli come i lupi? Neppure questi li abbandonano.
Orvia, chi si lascia persuadere da te, vedendo il suo bambinello caduto in
terra che piange? Per conta mio, penso che se tua madre e tuo padre avessero
divinato che tu avresti parlato così, neppure in tal caso t'avrebbero esposto.

COME SI DEVE LOTTARE CONTRO LE CIRCOSTANZE

Sono le circostanze che rivelano gli uomini. Così, quando te ne capita una,
ricorda che Dio, come un istruttore, ti ha opposto a un duro e giovane
allenatore.
— Per qual motivo? si domanda.
— Perché tu divenga campione ai giochi d'Olimpia: e senza sudore non si
può. Mi sembra che nessuno abbia ottenuto una circostanza migliore della
tua, purché voglia, come un vero atleta, usare del tuo allenatore. Ecco che
adesso noi ti inviamo a Roma in qualità di esploratore. Nessuno invia un
esploratore vigliacco perché, udito appena un rumore o scòrta da una parte
qualunque un'ombra, se ne torni di corsa, tutto sconvolto, a riferire che i
nemici sono già arrivati.
Allo stesso modo, se tu adesso tornando, ci dicessi: «La situazione a Roma è
spaventosa: qualcosa di tremendo è la morte, qualcosa di tremendo è l'esilio,
la maldicenza, la povertà: fuggite, uomini, sono arrivati i nemici» noi ti
risponderemo: «Vattene; i tuoi vaticini tienteli per te: il nostro sbaglio è stato
solo d'aver mandato un simile esploratore.»
Prima di te fu inviato come esploratore Diogene e ci ha riferito notizie tutte
diverse. Egli dice: «La morte non è male, perché non è un disonore.» Dice:
«La cattiva fama è un rumore vano di uomini folli». E che cosa ci ha detto
sulla pena, sul piacere, sulla povertà questo esploratore! «La nudità —
afferma — è preferibile a ogni veste orlata di porpora: il suolo nudo per
dormire è la più morbida delle cucce». E a prova di ciascuna affermazione
egli porta la confidenza in se stesso, l'imperturbabilità, la libertà, e ancora il
suo corpo splendido e sodo. «Nessun nemico si avvicina — dice —: tutto è
pieno di pace». «Com'è possibile, Diogene?» «Guarda — risponde—: sono
stato forse colpito? sono stato forse ferito? son fuggito di fronte a
qualcuno?». Ecco un esploratore come si deve: tu, invece, vieni da noi e ci
racconti una frottola dopo l'altra. Non ci tornerai di nuovo per osservare più
esattamente le cose, senza paura?
— Che farò, dunque?
— Che fai, quando sbarchi dalla nave? Porti via il timone o i remi? Che cosa
porti via? Quel ch'è tuo, la boccetta dell'olio, la bisaccia. Così adesso, se
ricordassi quel che è tuo, non pretenderesti mai quel che è di altri.
Ti dice: «Deponi il laticlavo».
— Guarda: io ho Pangusticlavo.
— «Deponilo egualmente».
— Guarda: io ho solo la toga.
— «Deponi la toga».
— Eccomi nudo.
— «Ma tu mi muovi l'invidia».
E allora prenditi tutto il mio miserabile corpo. Quegli a cui io posso gettare il
mio povero corpo, devo ancora temerlo, costui?
— Ma non mi lascerà erede.
E che? Dimenticavo che nessuna di queste cose è mia? In che senso, allora,
diciamo che mi appartengono? Come il lettuccio nell'albergo. Quindi, se
l'albergatore morendo ti lascia i letti, bene; se li lascia a un altro, costui ne
sarà il padrone e tu dovrai cercarti un altro letto. E se non lo trovi, sdraiati per
terra, ma di buon animo, e russa e ricorda che le tragedie si svolgono tra i
ricchi, tra i re, tra i tiranni: nessun povero ha un ruolo nella tragedia se non
come coreuta. I re, invece, cominciano nell'abbondanza:
Inghirlandate il palazzo e poi, al terzo o al quarto atto :
O Citerone, perché m'hai accolto?
Schiavo, dove sono le ghirlande, dov'è il diadema? Non ti giovano affatto le
guardie del corpo? Perciò quando incontri uno di questi, ricordati che
t'imbatti in un eroe tragico, non in un attore, ma in Edipo stesso.
«Eppure quello è felice: cammina in mezzo a una numerosa scorta di gente».
Anch'io mi mischio alla folla e cammino in mezzo a una numerosa scorta di
gente. Ed ecco l'essenziale: ricorda che la porta sta aperta. Non essere più
timido dei ragazzini, ma, come quelli, quando il gioco non è più di loro
gradimento, dicono «Non gioco più», così anche tu, quando le circostanze ti
sembrano altrettanto spiacevoli, dì semplicemente «Non gioco più» e vattene:
se rimani, però, non lamentarti.

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Se è vero — e noi non siamo né sciocchi né commedianti — che il bene


dell'uomo è nella persona morale, come il male, e che tutto l'altro non ha
rapporto con noi, perché non cessiamo di turbarci, perché non cessiamo di
temere? Di quanto ci sta a cuore, nessuno ha potere: di quanto è in potere
altrui, non ci diamo pensiero. Che preoccupazione abbiamo ancora?
— Ma dammi degli ordini.
— Che devo ordinarti? Non te l'ha ordinato Zeus? Non t'ha concesso che
quanto è tuo fosse libero da ostacoli e da impedimenti, quanto non è tuo,
fosse soggetto a ostacoli e a impedimenti? Con quale ordine sei venuto di lì,
con quale disposizione? Sorveglia le tue cose in ogni modo, non desiderare le
altrui. Tua è la lealtà; tua la dignità personale.
Quindi, chi te le può strappare? Chi altro ti impedirà di usarne se non tu? E
tu, in che modo? Se ti preoccupi di ciò che non è tuo, hai rovinato quel che è
tuo. Con siffatti suggerimenti e ordini da parte di Zeus, quali ancora ne vuoi
da me?
Sono più potente di lui, sono più fededegno? E se li osservi, di quali altri
avrai bisogno? Ma lui non t'ha dato questi ordini? Porta qua le prenozioni,
porta le dimostrazioni dei filosofi, porta quel che spesso hai udito, porta quel
che hai detto tu stesso, porta quel che hai letto, porta quel che hai meditato.
Fino a quando è bello osservare questi precetti e non interrompere il gioco?
Finché lo si gioca bene. Nei Saturnali si tira a sorte un re, perché si è deciso
di svagarsi con questo svago. Egli ordina: «tu bevi: tu mesci: tu canta, tu
vattene, tu vieni». Ed io obbedisco, affinchè per colpa mia non venga
interrotto lo svago.
«Ma tu, via, supponi d'essere tra i mali».
— Non lo suppongo: chi mi costringerà a supporlo?
Un'altra volta abbiamo convenuto di rappresentare la scena tra Agamennone
e Achille. Quello che fa la parte di Agamennone mi dice:
— Va' da Achille e strappagli Briseide.
— Vado.
— Vieni.
— Vengo.
In realtà, come ci comportiamo con gli argomenti ipotetici, così dobbiamo
comportarci nella vita.
— Ammettiamo che sia notte.
— E sia.
— Ma come? È giorno?
— No: ho accettato l'ipotesi che fosse notte.
— Ammettiamo allora che tu supponga sia notte.
— Va bene.
— Non basta: credi anche che sia notte.
— Non consegue all'ipotesi.
Allo stesso modo anche qui.
— Ammettiamo che tu sia infelice.
— Va bene.
— Sei dunque disgraziato?
— Sì.
— E che? sei nelle disgrazie?
— Sì.
— Non basta: credi anche di essere nei mali. Questo non consegue
all'ipotesi: e un Altro mi proibisce
di creder ciò.
Fino a quando ci si deve assoggettare a tali cose? Finché è utile, cioè, finché
riesco a custodire la dignità e la convenienza. Ci sono del resto alcuni
brontoloni e malati di stomaco che dicono: «Non riesco a pranzare da quello,
e sorbirmelo ogni giorno mentre racconta le sue prodezze militari in Misia: 'ti
ho raccontato, carissimo, come m'inerpicai sulla vetta: ed ecco cominciano ad
assediarmi...'».
Un altro dice: «Io, invece, preferisco ancora andare a pranzo da lui e sentirlo
spacciare le sue chiacchiere, quante ne vuole». Paragona questi
apprezzamenti: solo, non far niente contro voglia, né addolorato, né
supponendo di trovarti nei mali. A questo nessuno ti costringe. Han fatto
fumo in casa? Se è poco, rimarrò, se oltremodo troppo, me ne vado.
Perché ricorda e tieni per fermo che la porta sta aperta.
Ma ecco: «Non devi abitare a Nicopoli »
«Non ci abito»
«Neppure in Atene»
«Non sto ad Atene»
«E neppure a Roma»
«Non sto a Roma»
«Vattene ad abitare a Giaro»
«Ci vado. Abitare a Giaro, però, mi fa l'effetto di trovarmi in mezzo a tanto
fumo. E allora me ne vado là dove nessuno può impedirmi di abitare, perché
quell'abitazione resta aperta a tutti. Infine, oltre la mia tunica, voglio dire,
oltre il mio povero corpo, nessuno ha più potere alcuno su me. Per ciò
Demetrio disse a Nerone: «Tu minacci a me la morte; a te la natura».
Se terrò in conto il miserabile corpo, mi faccio schiavo: se i miserabili averi,
lo stesso. Perché mostro subito, a mio danno, il punto ove posso essere preso.
Se il serpente contrae la testa, io dico: «colpiscilo nel punto che protegge»;
allo stesso modo sappi anche tu che, proprio nel punto che vuoi proteggere,
t'attaccherà il tuo padrone. Memore di questo, chi ancora adulerai o temerai?
— Ma io voglio sedere al seggio dei senatori.
— Vedi che ti prendi un posto ben stretto, che ti pigi da te?
— In qual altro modo potrò veder bene nell'anfiteatro?
— Uomo, non andare allo spettacolo e non starai pigiato. Perché vuoi
metterti nei guai? Oppure, aspetta un po' e, terminato lo spettacolo, siediti nei
seggi dei senatori e prendi il sole. In generale, ricorda che da noi stessi ci
pigiamo, da noi stessi prendiamo i posti stretti, voglio dire che sono i nostri
giudizi a pigiarci e a metterci alle strette.
Per esempio, che significa essere ingiuriati? mettiti vicino un sasso e
ingiurialo. Che farai? Se uno ascolta come un sasso, che ci guadagna chi
ingiuria? Ma se chi ingiuria fa presa sulla debolezza dell'ingiuriato, allora
ottiene un risultato.
«Fallo a pezzi, lui».
Che dici? Lui? Prendi il suo mantello e fallo a pezzi.
«T'ho fatto ingiuria» Con tua buona fortuna!
Questo Socrate metteva in pratica, per questo si mostrava sempre con la
stessa espressione del volto. Noi, invece, preferiamo darci a ogni specie di
esercizio e di attività piuttosto che scioglierci dagli impedimenti e renderci
liberi.
«I filosofi raccontano paradossi».
E nelle altre arti non ci sono paradossi? Quale maggior paradosso che colpire
con una punta l'occhio di qualcuno, per farlo vedere? Se lo si dicesse a uno
ignaro dell'arte medica, non si metterebbe a ridere di chi parla? Che c'è da
meravigliarsi, allora, se anche in filosofia molte verità paiono paradossali agli
ignoranti?

QUAL È LA LEGGE DELLA VITA

Mentre si teneva lettura sui sillogismi ipotetici, Epitteto disse: «È legge del
sillogismo ipotetico anche questa, accettare quanto consegue all'ipotesi. Ma
molto più importante è questa legge di vita: fare quanto consegue alla natura.
Perché, se in ogni campo e in ogni circostanza vogliamo custodire l'accordo
con la natura, è chiaro che in tutto dobbiamo mirare a non fuggire quanto le è
conforme, e a non accettare quanto le contrasta. Quindi, i filosofi si
esercitano dapprima nella teoria, un campo più facile, e così, poi, ci
conducono verso difficoltà più grandi, perché nella teoria niente si oppone a
che tiriamo le conseguenze dalle cose apprese, nella vita, al contrario, molti
fattori ci trascinano dall'altra parte. Fa ridere, pertanto, chi dice di volersi
esercitare prima nella pratica, perché non è affatto agevole cominciare dal più
difficile.
E tale difesa si dovrebbe portare a quei genitori che si crucciano perché i
figli si danno alla filosofìa. «Io sbaglio, padre, di certo, e non so quel che mi
spetta e mi conviene. Ma se è cosa che non si può apprendere né insegnare,
perché mi sgridi? Se poi si può insegnare, insegnamela: e se tu non sei in
grado, lascia che l'apprenda da chi dice di saperla. Via, che pensi? Che di mia
volontà mi getto nel male ed evito il bene? Non sia mai. Qual è allora la
causa del mio errare?
L'ignoranza. E non vuoi ch'io deponga l'ignoranza? A chi mai l'ira ha
insegnato l'arte del timone o della musica? E
ritieni che con la tua ira io impari l'arte della vita?».
Questo può dirlo solo chi ha messo mano a tale impresa. Ma se studia questi
argomenti e si reca dai filosofi soltanto chi nel simposio vuole ostentare di
conoscere i sillogismi ipotetici, che altro cerca costui se non di eccitare
l'ammirazione di qualche senatore vicino di tavola? Perché è laggiù che si
danno le grandi possibilità, mentre i ricchi di qui, laggiù, fanno la figura di
balocchi. Per questo è difficile dominare le proprie rappresentazioni, là dove
rilevanti sono i motivi di distrazione. So di uno che abbracciava piangendo le
ginocchia di Epafrodito e gli raccontava d'essere in miseria, perché non gli
era rimasto se non un milione e mezzo di sesterzi. Ed Epafrodito allora? Si
mise a ridere di lui, come voi? No: anzi, pieno di stupore, esclama:
«Disgraziato! Come potevi tacere, come rassegnarti?».
Così Epitteto aveva posto in imbarazzo quello che leggeva i sillogismi
ipotetici: l'altro, invece, che aveva proposto la lettura, s'era messo a ridere
alle sue spalle. «È di te stesso che ridi — gli disse Epitteto —: non hai
esercitato in precedenza il giovinetto, non sapevi se fosse in grado di tener
dietro a queste argomentazioni, e te lo sei preso senz'altro come lettore! E se
uno spirito non è in grado di tener dietro alla conclusione di un sillogismo
copulativo, ci fideremo dei suoi elogi, ci fideremo dei suoi biasimi, del
giudizio suo su quanto è bene o male? E se dice male di uno, costui ci baderà,
se loda uno, costui salirà in superbia? E come? Non sa trarre le conseguenze
neppure in una materia tanto mediocre! Ecco, dunque, il punto di partenza
della filosofia: rendersi conto della condizione in cui si trova la parte
direttrice della nostra anima, perché, qualora se ne sia esperimentata la
debolezza, si eviti di usarla per grandi imprese.
Adesso, invece, gente che non è in grado di ingozzare un boccone compra un
trattato e vi si getta sopra per divorarlo. Di conseguenza vomita o fa
indigestione: e poi coliche, reumi, febbri. Bisognerebbe che riflettessero un
po' sulle loro capacità. Certo, nel campo della teoria è più facile confutare chi
non sa, ma nella vita, nessuno si presta alla confutazione e, in più, odiamo chi
ci confuta. Eppure Socrate diceva di non accettare una vita che sfugga
all'esame critico».

IN QUANTI MODI SORGONO LE RAPPRESENTAZIONI E QUALI


RIMEDI BISOGNA CERCARE DI AVERE A PORTATA DI MANO
CONTRO ESSE
In quattro modi sorgono in noi le rappresentazioni: o ci sono gli oggetti e ci si
presentano come sono, o non ci sono e neppure ci si presentano nella loro
realtà, o ci sono e non ci si presentano o infine non ci sono e ci si presentano.
Ne consegue che, in tutti questi casi, compito di chi ha un'educazione
fìlosofìca è di colpire nel segno. Qualunque sia la difficoltà, dobbiamo
portarci un rimedio. Se ci fanno difficoltà i sofismi dei Pirroniani e degli
Academici, portiamoci un rimedio: se le cose coi loro allettamenti, per cui ci
si presentano come buone talune che non lo sono, cerchiamo, anche qui, un
rimedio: se è un'abitudine a farci difficoltà, contro essa bisogna tentare di
scovare un rimedio. E quale rimedio si può trovare contro l’abitudine?
L'abitudine contraria. Ascolti la gente incolta che dice: «Poverino, è morto! è
distrutto il padre, è distrutta la madre: è stato un colpo. Ed era ancor giovane,
e in terra straniera». Ascolta le ragioni contrarie, strappati da queste parole,
opponi ad abitudine abitudine contraria. Contro i discorsi sofìstici, bisogna
avere i ragionamenti logici, l'esercizio e la pratica di essi, contro gli
allettamenti delle cose bisogna avere chiare, ben nette e a portata di mano le
prenozioni. Se la morte ti appare un male, abbi a portata di mano che è
dovere evitare i mali, mentre la morte è una necessità. Che farò allora? In
qual luogo le sfuggirò? Supponiamo che non sia Sarpedone il figlio di Zeus,
per ripetere nobilmente, come lui: «Io vado e voglio distinguermi o dare a un
altro l'occasione di distinguersi: se non posso riuscire io, non impedirò a un
altro di compiere una gesta nobile». Supponiamo che tale ragionamento
superi le nostre possibilità, ma quell'altro non ci rientra in pieno? E dove
posso sfuggire alla morte? Indicatemi il luogo, indicatemi da quali uomini
devo recarmi, perché contro loro [la morte] non si spinge, indicatemi un
incantesimo. Se non ce l'ho, che volete che faccia? Non posso, davvero,
evitare la morte: e il timore della morte non lo posso evitare? E devo morire
tra gemiti e lamenti? Ecco l'origine della passione: voler qualcosa e non
ottenerla. E allora, se riesco a mutare gli oggetti esterni secondo la mia
volontà, li muto: se no, voglio cavar gli occhi a chi mi ostacola, perché
l'uomo, per natura, non si acconcia a farsi strappare il bene, non s'acconcia a
piombare nel male. Poi, alla fine, qualora non riesca a mutare le cose né a
cavar gli occhi a chi mi ostacola, mi siedo da un canto e gemo e insulto chi
posso, Zeus e gli altri dèi: se, infatti, non si curano di me, che c'è tra me e
loro?
«Sì, ma sarai empio».
«E che? Potrò star peggio di come sto adesso?».
Insomma, ricorda che se non vanno di pari passo la pietà e l'utile, in nessuno
potrà conservarsi la pietà. Non ti pare un ragionamento decisivo?
Venga qui e mi si opponga un pirroniano o un academico. Io, da parte mia,
non ho tempo per queste cose e non posso fare l'avvocato dell'opinione
comune, che, se anche avessi avuto un processo per un campicello, avrei
chiamato un altro a perorare la causa. Dunque, a questo proposito, in quale
argomento mi sento sufficientemente sicuro? Sul modo in cui si produce la
sensazione? Se mediante tutta l'anima o mediante una sua sola parte? Forse
non so rendermi conto né dell'una né dell'altra soluzione ed entrambe mi
fanno difficoltà. Ma che io e tu non siamo gli stessi, lo so più che
esattamente. Come? Gli è che giammai, quando voglio ingoiare qualcosa, lo
porto lì, ma qui: giammai, quando voglio prendere un pezzo di pane, prendo
una scopa, ma vado sempre diritto al pane, come a una mèta. E voi stessi, che
sopprimete l'evidenza dei sensi, agite forse altrimenti? Chi di voi, volendo
andare al bagno, se ne va al mulino?
— Ebbene? Non ci si deve con ogni forza tener stretti a questo, a salvare,
cioè, l'opinione comune e a difenderci contro gli argomenti che la
combattono? E chi dice il contrario? Ma chi è in grado deve badarci, chi ha
tempo a disposizione: chi trema, chi è turbato, chi ha il cuore infranto nel
petto, deve attendere a qualche altra faccenda.

CHE NON BISOGNA IRRITARSI CONTRO GLI UOMINI E CHE COSA


V’HA DI PICCOLO E DI GRANDE TRA GLI UOMINI
Per qual motivo si da l'assenso a una cosa? Perché ci appare nella sua realtà.
Dunque, a quel che non appare nella sua realtà, non è possibile dare l'assenso.
Perché? Perché questa è la natura della mente, di inclinare al vero, di non
accettare il falso e di sospendere il giudizio di fronte all'incerto. Una prova di
ciò? «Immagina, se puoi, che adesso è notte.» Non è possibile.
«Disimmagina che sia giorno.» Non è possibile. «Immagina o disimmagina
che le stelle sono di numero pari.» Non è possibile. Perciò, quando uno da
l'assenso al falso, sappi che non voleva assentire al falso, perché l'anima è
privata del vero contro la sua volontà, come dice Piatone: piuttosto le è parso
vero il falso. Ora, nel campo dell'azione, che cosa abbiamo che corrisponda al
vero e al falso? Il dovere e il contrario del dovere, l'utile e il non-utile, ciò
che mi conviene e ciò che non mi conviene e altrettante cose dello stesso
genere.
— Dunque, nessuno può credere che una cosa gli sia utile senza sceglierla?
— No.
— E come va che [Medea] dice:
Sì, bene intendo quali mali sto per fare, ma il mio corruccio sùpera la mia
ragione?
Perché proprio indulgere al suo corruccio e vendicarsi dello sposo ella ritiene
più utile che salvare i figli.
— Certo, ma s'è ingannata. —.
Mostrale chiaramente che s'è ingannata e non lo farà: ma fin quando non
glielo mostri, che cosa può seguire se non le apparenze? Niente. Perché allora
irritarti con lei, se s'è sviata, l'infelice, nella materia più importante e da
creatura umana s'è trasformata in vipera?
Semmai, non devi avere piuttosto compassione, come abbiamo compassione
dei ciechi, come l'abbiamo degli zoppi, così di quelli che sono acciecati e
azzoppati nelle facoltà essenziali? Chiunque, perciò, avverte in maniera
evidente che per l'uomo misura di ogni azione è l'apparenza (e, del resto,
l'apparenza è giusta o erronea: se giusta, egli sfugge a ogni rimprovero, se
erronea, ne paga personalmente la pena, perché non è possibile che uno
sbagli e un altro ne subisca il danno), dunque, chi avverte ciò, non s'adirerà
con nessuno, non si irriterà con nessuno, non ingiurierà nessuno, non
biasimerà nessuno, non odierà né offenderà nessuno.
Sicché, gesta tanto grandiose e tremende hanno avuto questo inizio,
l'apparenza?
— Questo, non altro.L’Iliade non è se non rappresentazione e uso di
rappresentazioni. Un'apparenza ha spinto
Alessandro a portar via la moglie di Menelao, un'apparenza spinse Elena a
seguirlo. Se un'apparenza avesse prodotto in Menelao l'impressione ch'era un
guadagno per lui essere privato d'una donna come quella, che succedeva?
Non ci sarebbe l’Iliade, non solo, ma neppure l’Odissea.
— Dunque, da una cosa tanto piccola dipendono fatti così grandi?
— Che intendi per fatti così grandi? Guerre, rivoluzioni, perdite di tanti
uomini, distruzioni di città? E che c'è di grande in questo?
— Niente?
— Che c'è di grande nella morte di molti buoi, e di molte pecore? e
nell'incendio o nella distruzione di molti nidi di rondini o di cicogne?
— Sono forse uguali questi due casi?
— Assolutamente uguali. Nell'uno, corpi di uomini vanno distrutti, di bovi e
di pecore nell'altro. Nell'uno,
stanzucce di uomini sono bruciate, nell'altro nidi di cicogne. Che c'è di
grande o di tremendo? Oppure mostrami in che differisce la casa d'un uomo
dal nido d'una cicogna, considerati come abitazione: solo che l'uno costruisce
la sua casetta di travi, di embrici, di mattoni, l'altra di ramicelli e di fango.
— Ma allora c'è simiglianza tra la cicogna e l'uomo?
— Che intendi? Quanto al corpo una simiglianza perfetta.
— E dunque, in niente differiscono l'uomo e la cicogna?
— Non sia mai! Ma non è per questo aspetto che differiscono.
— E in che differiscono, allora?
— Cerca e troverai che è altrove la differenza. Guarda se non sia nel fatto
ch'egli si rende conto di quel che fa, guarda se non sia nell'istinto sociale,
nella lealtà, nel rispetto, nella prudenza, nell'intelligenza. Dov'è dunque
nell'uomo quel che egli ha di grande, il male e il bene? Dov'è il suo elemento
distintivo. Se questo elemento viene custodito, e ben difeso riesce a
mantenersi nella sua integrità, e non si corrompe il pudore, né la lealtà, né
l'intelligenza, allora anche l'uomo è salvo: ma se una di queste qualità è
distrutta ed espugnata, allora anche l'uomo va distrutto. In questo è la
grandezza dell'uomo. La grave caduta di Alessandro si determinò forse
quando arrivarono gli Elleni ed espugnarono Troia e i suoi fratelli morirono?
Nient'affatto: per le azioni altrui non cade nessuno: allora furono distrutti nidi
di cicogne. La sua caduta fu quando perdette il pudore, la lealtà, il rispetto
dell'ospitalità, la decenza. Quando cadde Achille? Quando morì Patroclo? No
davvero: piuttosto quando scoppiò in collera, quando pianse la giovine
schiava, quando dimenticò che stava lì non per procurarsi amanti, ma per
lottare. Ecco che sono le cadute dell'uomo, ecco gli assedi, ecco le rovine,
quando i giudizi retti sono sconvolti, quando sono distrutti.
— Quindi, se le donne vengono trascinate via e i ragazzi fatti prigionieri, se
gli uomini stessi sgozzati, tutte queste cose non sono mali?
— Donde lo congetturi? Insegnalo anche a me.
— No: ma tu, piuttosto, come affermi che non sono mali?
— Ricorriamo alle regole: porta le prenozioni.
È per questo in realtà che non ci si può stupire abbastanza di quel che
succede. Quando vogliamo giudicare una cosa pesante, non giudichiamo alla
leggera, quando una cosa dritta o curva, non agiamo alla leggera: insomma,
quando ci importa di conoscere il vero in questi campi, nessuno di noi farà
alcunché alla leggera. Ma quando si tratta della prima e unica causa del
successo e dell'errore, della prosperità o dell'avversità, dell'infelicità o della
felicità, solo allora ci comportiamo alla leggera e da sconsiderati. Niente è
qui che equivalga a una bilancia, niente che equivalga a una regola, ma mi si
è presentata una cosa e subito la faccio. Sono superiore ad Agamennone o ad
Achille? Essi, per tener dietro alle apparenze, hanno scatenato e subito tanti
mali, e a me l'apparenza non basterà? Quale tragedia ha un altro inizio?
L'Atreo di Euripide, che cos'è? L'apparenza. E l’Edipo di Sofocle, che cos'è?
L'apparenza. Fenice? L'apparenza.
Ippolito? L'apparenza. Che vi sembra di quelli che non si danno alcuna cura
di ciò? Come si chiamano quanti seguono ogni apparenza?
— Folli.
— E noi, allora, ci comportiamo in modo diverso?

DELLA FERMEZZA

II bene nella sua essenza consiste in una certa disposizione della persona
morale, il male in una certa disposizione della persona morale. Che sono,
allora, le cose esterne? Oggetti coi quali venendo a contatto la persona
morale realizzerà il proprio bene o il proprio male. Come realizzerà il bene?
Se non da importanza agli oggetti. Perché, se i giudizi sugli oggetti sono retti,
fanno la persona morale buona, se storti e stravolti, cattiva. Ecco la legge
posta da Dio: egli avverte:
«Se vuoi un bene, prendilo da te stesso». Ma tu dici: «No, piuttosto da un
altro.» Niente affatto, da te stesso. Pertanto, quando il tiranno minaccia, e mi
chiama in giudizio, io dico: «A chi fa minacce?»; se egli dice: «Ti metterò in
catene», io penso: «Alle mani fa minacce e ai piedi»; se dice: «Ti taglierò la
testa», io dico: «Alla testa fa minacce»; se dice: «ti getterò in prigione», «al
mio miserabile corpo, tutt'intero», e se mi minaccia l'esilio, lo stesso.
— Dunque, le sue minacce non ti toccano affatto?
— Affatto, se ho capito che non hanno niente a che fare con me: se, invece,
temo qualcuna di queste eventualità, allora sono io ad essere minacciato. Del
resto, chi ho da temere? Un uomo che è padrone di che cosa? Di quel che
dipende da me? Ma non esiste un tal padrone. Di quel che non dipende da
me? E che m'importa di ciò?
— Ma allora, voi filosofi, insegnate a disprezzare i re?
— Non sia mai. Chi di noi insegna a reclamare da loro qualcosa di cui essi
sono padroni assoluti? Prendi il povero corpo, prendi le sostanze, prendi la
reputazione, prendi i compagni della mia vita. Se c'è qualcuno che io spingo a
reclamare da loro una di queste cose mi si accusi a ragione.
— Sì; ma io voglio controllare anche i giudizi.
E chi t'ha dato siffatto potere? Come puoi superare il giudizio di un altro?
— Inculcandogli terrore, lo supererò.
— Tu ignori che il giudizio solo supera se stesso, non è superato da altro: la
persona morale, nient'altro può superarla, a meno che essa non superi se
stessa. Ecco perche anche la legge di Dio è efficacissima e giustissima:
«II più forte domini sempre sul più debole». «Dieci, si dice, sono più forti di
uno». Per che cosa? Per legare, per ammazzare, per condurti dove vogliono,
per strapparti le sostanze. Dunque i dieci superano l'uno in ciò in cui sono più
forti.
— E in che sono più deboli?
— Se l'uno ha i giudizi retti ed essi no. E che? In questo possono superarlo?
Com'è possibile? Se li mettiamo su una bilancia, il più pesante non dovrebbe
trarre giù il piatto?
Già, perché Socrate sopportasse ogni tormento da parte degli Ateniesi?
Schiavo, a che parli di Socrate? Di'come sta la cosa: perché il povero corpo
di Socrate fosse condotto e trascinato in prigione da gente più forte; si desse
la cicuta al povero corpo di Socrate e così rimanesse esanime. Ti sembra
strano tutto questo, ti sembra ingiusto e per ciò accusi Dio? E non ne ebbe
niente in cambio Socrate? Dov'era per lui l'essenza del bene? Chi vogliamo
ascoltare, te o lui? E lui, che dice? «Anito e Meleto mi possono ammazzare
sì, ma farmi danno, no» E ancora: «Se Dio vuol cosi, così sia ». Ma mostrami
che chi ha giudizi inferiori può trionfare di chi è superiore negli stessi giudizi.
Non lo mostrerai — ci vuoi altro! Infatti è legge di natura e di Dio questa: «il
più forte domini sempre sul più debole». In che? Dov'è più bravo. Un corpo è
più forte d'un altro corpo, i più di uno solo, il ladro del non-ladro. Per questo,
anch'io ho perduto la lucerna, perché nel vegliare, il ladro fu più bravo di me.
Ma egli ha acquistato la lucerna a un prezzo davvero alto: per una lucerna è
diventato ladro, per una lucerna sleale, per una lucerna bestiale. E tutto ciò gli
è parso guadagno.
Va bene: ma, ecco, uno mi prende per il mantello, mi trascina nell'agorà, e
altri schiamazzano: «Filosofo, che prò ti fanno i tuoi giudizi? Guarda, ti
cacciano in prigione; guarda, ti stanno per tagliare la testa». Ma a quale
formazione filosofìca potevo darmi per non essere trascinato via, se uno più
forte m'avesse afferrato per il mantello? per non essere cacciato in prigione,
se circondatimi in dieci, mi ci avessero cacciato dentro? E dunque, niente
altro ho appreso? Ho appreso a considerare che quanto accade, se è
indipendente dalla mia persona morale, non è niente nei miei riguardi. E
per rispetto alla circostanza presente non hai niente che possa giovarti?
Perché, allora, cerchi l'utile in una parte diversa da quella in cui è, a quanto
hai appreso? Del resto, io mi metto seduto da un canto nella prigione e dico:
«costui che s'è messo a schiamazzare contro di me, non ascolta né quel che
gli si spiega né a quel che gli si dice tien dietro, né, in una parola, si prende
cura di sapere quel che i filosofi dicono o fanno. Lascialo.»
«Ma tu, a tua volta, esci di prigione.»
«Se non vi fa più comodo ch'io resti in prigione, me ne vado; se vi fa ancora
comodo, ci ritornerò.»
«Fino a quando?».
— Fin quando alla ragione piace ch'io rimanga col mio povero corpo:
quando più non le piace, prendetelo e statevi sani!
Solo, non ci comportiamo illogicamente, non mollemente, non seguendo il
primo pretesto. Perché Dio, a sua volta, non lo permette: egli ha bisogno di
un mondo cosiffatto, di esseri cosiffatti che si muovono sulla terra. E se da il
segnale della ritirata come a Socrate, si deve obbedire a chi lo da, come a un
generale.
— E che? bisogna dirle ai più queste cose?
— Per quale scopo? Non basta convincersene personalmente? Quando ci
vengono vicino i ragazzi e battono le mani e gridano: «Oggi sono i Saturnali:
evviva!» diciamo forse: «Non c'è ragione di questo evviva?» No, davvero,
anzi battiamo le mani anche noi. Così tu, quando non riesci a mutar
l'opinione di taluno, considera ch'è un ragazzino e batti le mani con lui: se poi
non vuoi far così, non ti resta che tacere.
Questo si deve ricordare e sapere, inoltre, che, qualora siamo chiamati ad
affrontare una difficoltà di tal genere, è giunta l'occasione di mostrare se
abbiamo una vera educazione fìlosofìca. Un giovane che esce da scuola, di
fronte a una difficoltà è come chi s'è preoccupato di risolvere sillogismi.
Gliene propongono uno di facile soluzione? Dice:
«Proponetemene piuttosto uno più abilmente imbastito, perché mi eserciti.»
Anche agli atleti non garbano allenatori che sono pesi leggeri. «Non riesce a
sollevarmi» — dice uno. Ecco l'atteggiamento d'un giovane di buona natura.
E, invece, no: ma se l'occasione ti chiama, ti conviene piangere e dire:
«Vorrei imparare ancora». Che cosa? Se non l'hai imparato tutto ciò, in modo
da mostrarlo in pratica, a che scopo l'hai imparato? Io ritengo che qualcuno di
voi che state qui seduti si travagli in se stesso e chieda: «Non potrebbe
capitarmi adesso una difficoltà simile a quella capitata a costui? Che abbia a
logorarmi qui, seduto in un angolo, mentre potrei essere coronato in Olimpia?
Quando mi si annunzierà un combattimento tale?» Questa dovrebbe essere la
disposizione di tutti voi. Tra i gladiatori di Cesare ci sono taluni che si
lagnano perché nessuno li manda in gara né li accoppia, e pregano Dio e si
recano dagli organizzatori supplicandoli di farli combattere: e tra voi,
nessuno si mostrerà come loro? Vorrei proprio prender la nave per ammirare
questo spettacolo e vedere che fa il mio atleta, come se la sbriga col tema.
«Non lo voglio così — dice». Perché, dipende da te prendere il tema che
vuoi? T'è stato dato un corpo tale, tali genitori, tali fratelli, tale patria, tale
rango in essa patria: ora, tu vieni da me e mi dici «cambiami il tema». Non
hai risorse per usare ciò che t'è stato dato?
Dipende da te proporre il tema, da me bene svolgerlo? No. Ma tu dici: «Non
darmi un sillogismo con una siffatta maggiore disgiuntiva, ma un altro: non
portarmi siffatta conclusione, ma un'altra». Verrà presto il tempo in cui gli
attori tragici riterranno di essere maschere, calzari, vesti a strascico. Uomo,
tutto questo l'hai come materia e tema. Di' qualche parola perché sappiamo se
sei un attore o un buffone; che nel resto sono uguali l'uno e l'altro. Per ciò, se
si tolgono all'attore i calzari e la maschera e se ne mostri la sola ombra,
l'attore è sparito o sussiste ancora? Se ha voce, sussiste. Lo stesso, qui.
«Prendi il comando». Lo prendo, e, presolo, mostro come si comporta un
uomo che ha ricevuto educazione fìlosofìca. «Deponi il laticlavo, raccatta
degli stracci e mostrati in tale acconciatura». E che? non mi è concesso di
spiegare una bella voce? «E come sali adesso sulla scena?» Come testimone
chiamato da Dio. «Va', dunque, e recami testimonianza, che sei degno
d'essere inviato testimone da me. Forse un oggetto al di là della persona
morale è buono o cattivo? Faccio torto a qualcuno? Ho riposto l'utile di
ciascuno in altro che in lui?» Quale testimonianza dai a Dio? «Mi trovo in
gravi difficoltà, Signore; sono disgraziato. Nessuno si occupa di me, nessuno
mi da niente, tutti mi biasimano, sparlano di me». Sarà questa la tua
testimonianza? Vuoi disonorare la chiamata ch'egli t'ha rivolto, onorandoti
con tale onore e ritenendoti degno di inviarti a dare una testimonianza così
importante?
Ma uno che ha autorità ha pronunciato la sua sentenza: «Ti giudico empio e
sacrilego» Che t'è successo? «Sono stato giudicato empio e sacrilego».
«Niente altro?» «No.» Se si fosse pronunziato su un giudizio ipotetico e
avesse espresso questo parere: «Giudico falsa la proposizione: Se è giorno,
c'è luce», che ne sarebbe stato del giudizio ipotetico? Chi è giudicato in
questo caso, chi è condannato? Il giudizio ipotetico o chi s'è lasciato
ingannare al suo riguardo? E chi è costui che ha potere di pronunziare un
giudizio su te? Conosce che cos'è pietà ed empietà? Se ne è mai curato? L'ha
appreso? Dove? Da chi? Un musico non si cura certo di chi afferma che la
nota più alta è la più bassa, né il geometra di chi ritiene che i raggi d'una
circonferenza non sono uguali: e chi ha ricevuto una verace educazione
filosofica farà caso di un ignorante che da giudizi sulla santità e sulla
empietà, sull'ingiusto e sul giusto? Oh, i grandi torti di chi ha ricevuto
un'educazione filosofica! L'hai appreso qui tutto questo? I bei discorsi su tali
argomenti non vuoi lasciarli agli altri, a infelici omiciattoli, perché, seduti a
un angolo, guadagnino il loro salario o bubbolino che non buscano niente da
nessuno?
E tu, non vuoi farti avanti e mettere in pratica ciò che hai appreso? Non sono
le belle parole che ci mancano adesso: ne sono pieni i libri degli stoici di
belle parole! Che ci manca allora? Chi sappia usarne, chi sappia, nella realtà
della vita, dare testimonianza alle parole.
Prenditi questa parte, ti prego, onde in scuola più non ricorriamo ad esempi
antichi ma ne abbiamo uno dei nostri giorni.
E tutti questi problemi chi deve contemplarli teoricamente? Chi ha tempo.
Perché l'uomo si diletta a contemplare. Ma il brutto è contemplarli a guisa di
schiavi fuggitivi: bisogna, invece, mettersi a sedere in tutta tranquillità e
porgere orecchio ora all'attore tragico, ora al citaredo, ma non al modo di
quelli. Ecco, c'è uno che sta molto attento e prodiga elogi all'attore, e intanto
spia intorno: che se qualcuno pronuncia la parola «padrone», subito si
agitano, si sconvolgono.
È brutto, dico, che i filosofi contemplino in tal guisa le opere della natura.
Che cosa significa «padrone»? L'uomo non è padrone dell'uomo; lo sono la
morte e la vita, la gioia e l'affanno. E, invero, se non ci fosse tutto ciò,
conducimi davanti anche Cesare e vedrai come rimarrò tranquillo. Ma
quando egli avanza con quest'apparato, tuonando e folgorando, ed io ne sono
atterrito, che cos'altro faccio se non riconoscerlo, a guisa di schiavo, mio
padrone? E finché le sue minacce mi lasciano un po' di tregua, sto anch'io
come uno schiavo attento in teatro: prendo il bagno, bevo, canto, tutto con
paura e a disagio. Ma se riesco a sciogliermi dai miei tiranni, e cioè da tutto
quel che rende temibili i tiranni, quale affanno ho ancora, quale padrone?
Ebbene? bisogna annunziarle a tutti queste cose? No, ma bisogna adattarsi
agli incolti e dire: «Costui, ciò che ritiene bene per sé, lo consiglia anche a
me: io lo compatisco». Anche Socrate, mentre stava per bere il veleno,
compatì il secondino che piangeva e disse: «Che lacrime generose versa per
noi!». O forse gli dice: «È per ciò che abbiamo rimandato le donne»? No,
questo lo disse ai suoi intimi, a quanti erano in grado di comprenderlo.
Quanto al secondino, egli s'accomoda a lui, come si fa con un ragazzetto.

CHE COSA SI DEVE AVERE A PORTATA DI MANO NELLE


DIFFICOLTA’

Quando entri in casa di qualche potente, ricorda che pure un Altro di lassù
osserva quel che succede e che a Questo più che a quello devi piacere.
Quest'Altro ti interroga :
— L'esilio, la prigione, le catene, la morte, il disonore, come li definivi a
scuola?
— Cose indifferenti.
— E adesso, come le definisci? Sono forse cambiate?
— No.
— E tu, sei cambiato?
— No.
— Dimmi, dunque, quali sono le cose indifferenti: dimmi pure le
conseguenze che ne derivano.
— Quelle che non dipendono dalla mia persona morale. Sono niente per me.
— Dimmi, poi, quali cose ritenete beni?
— La retta disposizione della persona morale e l'uso conveniente delle
rappresentazioni.
— E il fine, qual è?
— Venir dietro a te.
— E lo dici anche adesso?
— Sì, dico anche adesso lo stesso.
— E allora va', entra con fiducia, ricordatene e vedrai che cos'è un giovane
dotato d'una conveniente educazione filosofica in mezzo a gente che ne è
priva.
Io, certo, per gli dèi, immagino che proverai un sentimento di questo genere:
«Perché abbiamo fatto tante e sì grandi preparazioni per un niente? Questo
significa aver potenza? Questo il vestibolo, i camerieri, le guardie? Per
questo ho ascoltato tanti discorsi? Ma questo era proprio niente, ed io mi ci
sono preparato come fosse qualcosa di grande».

CHE IL CORAGGIO NON S’OPPONE ALLA PRUDENZA

Paradosso può sembrare a taluni il seguente asserto dei filosofi:


esaminiamolo, tuttavia, come meglio possiamo: è vero che si deve agire
sempre con prudenza e insieme con coraggio? In un certo senso par che la
prudenza sia contraria al coraggio e i contrari non possono coesistere in
nessun modo. Ora quel che per molti c'è di apparentemente paradossale a tale
riguardo, mi sembra dipenda da una ragione di questo genere: se ritenessimo
di comportarci con prudenza e coraggio rispetto alle stesse cose, a ragione ci
accuserebbero di voler conciliare gli inconciliabili. E, invece, che c'è di
strano in quel detto? Se è vero ciò che si è affermato tante volte e tante volte
dimostrato, che l'essenza del bene consiste nell'uso delle rappresentazioni —
e così del male — e che le cose sottratte alla nostra libera scelta non
partecipano né della natura del male né di quella del bene, che c'è di
paradossale quando i filosofì dicono: «dove le cose son sottratte alla tua
scelta, agisci con coraggio, dove invece dipendono dalla tua scelta, agisci con
prudenza»? Quindi, se il male consiste in una cattiva scelta, è giusto
comportarci con prudenza solo rispetto agli oggetti dipendenti dalla nostra
scelta; ma se gli oggetti ad essa sottratti e indipendenti da noi sono niente per
noi, converrà comportarci con coraggio nei loro riguardi. Così saremo
insieme prudenti e risoluti, e, per Zeus, risoluti proprio per la nostra
prudenza, perché, essendo prudenti rispetto a ciò che è realmente male, ci
accadrà di essere risoluti rispetto a quanto non lo è.
Ora, invece, facciamo come i cervi. Questi, quando hanno paura e fuggono
gli spauracchi, dove si volgono e in che luogo riparano, ritenendolo sicuro?
Nelle reti da tesa. E così muoiono, per aver scambiato ciò che mette paura e
ciò che ispira fiducia. Allo stesso modo, anche noi, dov'è che ci comportiamo
con timore? Di fronte a quanto è estraneo alla nostra libera scelta. Con quali
cose, invece, procediamo coraggiosi, come se non ci fosse niente da temere?
Con quelle che dipendono dalla nostra libera scelta. Essere ingannati, agire
sconsideratamente, compiere azioni sfrontate, avere desideri accompagnati da
una passione turpe, non ci interessa niente tutto ciò, purché in quel che non
dipende dalla nostra volontà raggiungiamo il nostro scopo. Quando invece si
tratta della morte, dell'esilio, delle pene, del disprezzo, ecco che ci si ritira,
ecco che ci si turba. Perciò, come naturalmente accade a chi sbaglia nelle
cose di maggiore importanza, noi trasformiamo il nostro coraggio naturale in
temerità, in disperazione, in sfrontatezza, in spudoratezza, e la nostra
prudenza, il nostro riserbo naturale in paura, in debolezza, piena di timori e di
turbamenti. Che se uno trasporta la prudenza nella sfera della persona morale
e delle azioni della persona morale, non solo vorrà essere prudente, ma, con
ciò stesso, sarà in suo potere anche la facoltà di evitare ciò che vuole: mentre,
se uno la trasporta nel campo di quel che non è in nostro potere e resta al di là
della nostra libera scelta, siccome in tal caso la facoltà di evitare ciò che si
vuole si esercita su cose soggette ad altri, necessariamente allora sarà vittima
di timori, d'irrequietezze, di turbamenti. Perché non è la morte né la pena a
metter paura, ma il timore della pena e della morte. Perciò lodiamo chi ha
detto: Non è brutta la morte, ma la morte turpe.
Contro la morte bisognerebbe rivolgere il nostro coraggio, contro il timore
della morte la nostra prudenza. Ora, al contrario, il nostro atteggiamento di
fronte alla morte è la fuga, di fronte al giudizio sulla morte la noncuranza, la
negligenza, l'indifferenza. Faceva bene Socrate a chiamare «spauracchi»
siffatte paure. E, infatti, come i ragazzini si lasciano atterrire dall'aspetto
impressionante e pauroso delle maschere, per la loro inesperienza, qualcosa
di simile capita anche a noi di fronte alle cose, per lo stesso motivo e nello
stesso modo che ai ragazzini di fronte agli spauracchi.
Che cos'è un ragazzino? Ignoranza. Che cos'è? Mancanza di sapere. Perché
in ciò che sa, non è affatto inferiore a noi. E
la morte cos'è? Uno spauracchio. Volgiti ad essa e lo saprai: guarda, non
morde mica. Il miserabile corpo deve separarsi dal soffio vitale come era
diviso una volta, o adesso o più tardi. Perché ti sdegni se adesso? Che se non
adesso, più tardi.
E per quale ragione? Perché il ciclo dell'universo si compia — ed ha bisogno
di cose presenti, di cose future, di cose passate. E la pena, che cos'è? Uno
spauracchio. Rivolgilo e lo saprai. La povera carne è scossa con violenza: poi
la scossa si fa più lene. Se non la trovi utile, la porta è aperta; se la trovi utile,
sopporta. Giacché, per ogni eventualità la porta deve rimanere aperta, e noi
non abbiamo noie. Qual è, dunque, il frutto di queste dottrine? Quello che
deve essere proprio il più bello e il più adatto a chi ha ricevuto una vera
educazione fìlosofìca, la tranquillità, l'impavidità, la libertà.
Su questo argomento non bisogna rimettersi ai più, secondo cui soltanto i
liberi possono essere educati, ma ai filosofi piuttosto, secondo i quali solo chi
è educato è libero.
— NO.
— E ditemi allora, uomini, volete vivere nell'errore?
— No davvero.
— Dunque, nessun uomo, nell'errore, è libero. Volete vivere tra i timori,
volete vivere tra i dolori, volete vivere tra le inquietudini?
— Niente affatto.
— Nessuno, perciò, è libero né tra i timori, né tra i dolori, né tra le
inquietudini, ma chi s'è liberato dai dolori, dai timori, dalle inquietudini, s'è
liberato, per la stessa via, anche dalla schiavitù. Come dunque crederemo
ancora a voi, carissimi legislatori? Non accordiamo l'educazione se non ai
liberi? Ma i filosofi dicono: «non accordiamo la libertà se non a chi è stato
educato», e, cioè, Dio non l'accorda.
— E quando uno ha fatto girare il suo schiavo davanti al pretore, non ha
fatto niente?
— Certo, ha fatto qualcosa.
— Che cosa?
— Ha fatto girare il suo schiavo davanti al pretore.
— E nient'altro?
— Sì, deve pagare per lui la tassa della vigesima.
— E dunque, chi è stato sottoposto a questa cerimonia non è diventato
libero?
— Non più che imperturbato nell'animo. E tu che puoi far girare gli altri
davanti al pretore, non hai padrone alcuno?
Non il denaro, non una ragazza, non un amasio, non il tiranno, non qualche
amico del tiranno? E perché tremi quando vai ad affrontare una circostanza di
questo genere?
Per questo io dico spesso: esercitatevi con premura e abbiate sempre
presente di fronte a quali cose si deve mantenere un atteggiamento
coraggioso, di fronte a quali prudente e cioè di fronte a quel che non dipende
dalla nostra scelta conviene essere coraggiosi, di fronte a quel che ne
dipende, prudenti.
— Ma non ti ho letto quel che ho scritto, e non sai che faccio.
— In che genere? In fatto di belle frasi? Tienti le tue belle frasi e mostrami
come ti comporti nei tuoi desideri e nelle tue avversioni, se non fallisci in ciò
che vuoi e non cadi in mezzo a ciò che vuoi evitare. Quei periodi, poi, se hai
senno, li toglierai di mezzo e li cancellerai.
— Che dici? Non ha scritto Socrate?
— E chi quanto lui? Ma come? Non potendo avere continuamente chi
mettesse alla prova le sue affermazioni e fosse, a sua volta, messo alla prova
egli pure, si criticava da sé e si esaminava e poneva sempre in discussione in
modo pratico una qualche prenozione. Ecco ciò che scrive il filosofo. Quanto
alle belli frasi, il metodo che io indico, le lascia agli altri, a chi è insensato o
felice, a chi ha tempo a disposizione, grazie alla sua vita tranquilla, o a chi,
per sua follia, non pensa affatto a quel che terrà dietro alle sue azioni. Ed ora,
se si presenta l'occasione, andrai a mostrare le tue composizioni, a leggerle, a
menarne vanto? «Guarda come compongo i miei dialoghi!» No, uomo, ma
piuttosto mena vanto di questo: «Guarda come non fallisco nei miei desideri,
guarda come non incorro in ciò che voglio evitare. Porta la morte e lo saprai:
porta le pene, porta la prigione, porta il disprezzo, porta la condanna». Ecco
come si deve mostrare un giovane che esce dalla scuola. Il resto lascialo agli
altri, né alcuno ascolti intorno ad esso la tua voce, mai, e non accettare i
complimenti che ti possono fare: mostra di essere un nulla, di non saper
niente. Fa' vedere di conoscere solo come non fallisci mai nei tuoi desideri,
come non incorri mai in ciò che vuoi evitare. Altri si preoccupi di processi, di
pròblemi, di sillogismi: tu di morire, d'essere incatenato, d'essere torturato,
d'essere esiliato. E tutto ciò con coraggio, con fiducia in chi ti ha chiamato a
questa vocazione, e t'ha ritenuto degno di questo posto, nel quale potrai
mostrare la potenza del principio direttivo dell'anima messo di fronte alle
forze indipendenti dalla volontà libera. E così quel famoso paradosso non
parrà più né impossibile né paradossale, e cioè che bisogna essere insieme
prudenti e coraggiosi
— coraggiosi di fronte a ciò che non dipende dalla nostra libera scelta,
prudenti di fronte a ciò che da essa dipende.

DELL’ATARASSIA

Bada bene, tu che ti presenti in tribunale, a quel che vuoi mantenere e dove
vuoi giungere. Se vuoi mantenere la tua persona morale in accordo con la
natura, tutto è sicuro, tutto è facile, non hai noie: infatti, siccome vuoi
mantenere ciò che è in tuo potere e che per natura è libero, e questo ti basta,
di che devi ancora preoccuparti?
Chi ne è padrone, chi può strappartelo? Se vuoi essere onesto e leale, chi non
te lo permetterà? Se vuoi fuggire impedimenti o costrizioni, chi ti costringerà
a desiderare ciò che non ti piace, o ad avversare ciò che, secondo te, non si
deve? E che? Prenderà, sì, il giudice contro te misure che sembrino
impressionanti: ma che tu ne soffra, volendo evitarle, come potrà farlo
questo? Se dunque dipende da te il desiderare e l'avversare, di che devi
ancora preoccuparti?
Ecco il tuo esordio, la tua esposizione, la tua prova, il tuo successo, la tua
perorazione, ecco ciò che costituisce la tua fama.
Per questo, a chi gli ricordava di prepararsi al processo Socrate rispose:
«Non ti sembra che mi ci sia preparato per tutta la vita?» «Con quale
preparazione?» «Ho mantenuto, disse, ciò che era in mio potere.» «In che
modo?» «Non ho
commesso mai ingiustizia alcuna, né privatamente né pubblicamente.» Ma se
vuoi mantenere anche le cose esterne, il tuo povero corpo, la tua piccola
sostanza, la tua misera reputazione, io ti dico: «Via, preparati
immediatamente e come meglio puoi; inoltre, studia il carattere del giudice e
il tuo avversario. Se conviene abbracciare le ginocchia, abbracciale; se
piangere, piangi; se gemere, gemi. Giacché subordini ciò che è tuo alle cose
esterne, sii d'ora in poi schiavo e non lasciarti trascinare da un'altra parte,
pronto, un momento, ad essere schiavo, un momento no, ma in tutta
semplicità e con piena convinzione o di qui o di lì: o libero o schiavo, o
educato o ineducato, gallo di razza o comune; colpito, sopporta fino a
morirne, ovvero ritirati subito. Ma non t'accada di subire una valanga di colpi
per poi ritirarti alla fine.
Che se questo è turpe, decidi allora subito: «Dov'è la natura delle cose
cattive e delle buone? Dov'è anche la verità»
Credi tu che, se avesse voluto mantenere i beni esterni, Socrate,
presentandosi ai giudici, avrebbe detto: «Anito e Meleto possono sì
ammazzarmi, ma farmi del male no»? Era così insensato da non vedere che
questa strada non
conduce là, ma altrove? E com'è che non tiene conto dei giudici, anzi si
mette a provocarli? Allo stesso modo, il mio Eraclito, avendo a Rodi una
piccola causa per un campicello, dopo aver provato ai giudici che diceva il
vero, giunto alla perorazione, disse: «comunque, non vi supplicherò, né mi
darò pensiero della vostra decisione, giacché a render conto siete più voi che
io». E così rovinò la causa. Per quale scopo? Vedi solo di evitare le
suppliche, di non aggiungere la frase: «io non supplico davvero». A meno
che non sia il caso di provocare deliberatamente i giudici, come fu per
Socrate. Se anche tu prepari una perorazione di quel genere, a che presentarsi
in tribunale, a che rispondere all'invito di comparizione? Se vuoi essere
crocifisso, aspetta e la croce verrà. Se poi la ragione ti esorta a comparire e a
far per lo meno del tuo meglio onde riuscire persuasivo, devi agire di
conseguenza, mantenendo, s'intende, quelli che sono i tuoi propri beni. Perciò
è ridicolo dire: «Dammi un suggerimento.» Che posso suggerirti? Piuttosto
dimmi: «Rendimi il pensiero capace di adattarsi a ciò che può accadere.»
Quanto all'altra espressione, è come se un illetterato domandasse:
«Dimmi che cosa devo scrivere, qualora mi si proponga un nome.» In realtà,
se io gli faccio scrivere il nome di Dione, e il maestro, venendo, gli propone
non il nome di Dione ma di Teone, che succede? Che scriverà? Se invece hai
appreso a scrivere, puoi essere preparato a tutto quel che ti viene dettato.
Altrimenti quale consiglio posso darti, sul momento?
Che se altrimenti suggeriscono le circostanze, che cosa dirai, o che farai?
Ricordati, dunque, di questo principio generale e non sarai mai privo di
consigli. Ma se rimani a bocca aperta davanti alle cose esterne, sarai
necessariamente trascinato in alto o in basso, secondo il capriccio del tuo
padrone. E chi è il tuo padrone? Chi ha potere su qualcuna delle cose che tu
vuoi raggiungere o avversare.

A QUELLI CHE RACCOMANDANO QUALCUNO Al FILOSOFI

Proprio bene rispose Diogene a chi voleva ottenere da lui un biglietto di


raccomandazione: «che sei uomo, anche vedendoti lo saprà: se buono o
cattivo, lo saprà, qualora sia esperto nel distinguere i buoni e i cattivi: qualora
non sia, non lo saprà, quand'anche io gli scriva migliaia di biglietti». È come
se una dracma pretendesse una raccomandazione presso qualcuno per farsi
accettare. Se costui è saggiatore d'argento, ti raccomanderai da te.
Bisognerebbe avere anche noi, nella vita, qualcosa di analogo a ciò che
abbiamo per l'argento, per essere in grado di sentenziare, al pari del
saggiatore d'argento: «portami qualsiasi dracma ed io la valuterò.» Invece, a
proposito dei sillogismi, dico: «Presentami chi vuoi ed io ti distinguerò chi li
sa analizzare chi no». Perché? Perché so analizzare i sillogismi ed ho la
capacità necessaria a giudicare chi li sa costruire secondo le regole. Ma se si
tratta della vita, che faccio? Ora dico buona una cosa, ora cattiva. Quale ne è
il motivo? Il contrario di quello a cui alludevo a proposito dei sillogismi e
cioè l'ignoranza e l'inesperienza.

A UNO SORPRESO UN GIORNO IN ADULTERIO

Epitteto stava dicendo che l'uomo è nato per la fedeltà e che chi la distrugge,
distrugge la caratteristica distintiva dell'uomo, quand'ecco entrare uno che
aveva la fama di letterato e che un giorno era stato sorpreso in adulterio nella
città. «Però, continuò allora, se respingiamo questa fedeltà per la quale siamo
nati e insidiamo la donna del vicino, che facciamo? Che altro se non mandare
in rovina e togliere di mezzo... chi? L'uomo fedele, l'uomo rispettoso, l'uomo
religioso. Questo solo? E i rapporti di buon vicinato non li togliamo di
mezzo? E l'amicizia, no? e lo Stato no? E in quale posizione veniamo a
metterci? Come posso trattarti, o uomo? Come vicino, come amico? Come
chi? Come
cittadino? Quale fiducia avrò in te? Certo, se tu fossi un vaso così guasto da
non essere più buono a nulla, saresti gettato fuori tra le immondizie e nessuno
ti verrebbe a raccattare di lì: e se, pur essendo uomo, non sei in grado di
compiere nessuna funzione umana, che faremo di te? Va bene: non puoi fare
l'amico: lo schiavo puoi farlo? Chi avrà fiducia in te?
Non vuoi per caso essere gettato anche tu nelle immondizie, come vaso
inutile, come letame? E poi dirai: «Nessuno si cura di me, che pur sono uomo
di lettere»? Sei un essere malvagio e inutile. Sarebbe come se le vespe
s'indignassero perché nessuno si cura di loro, anzi, le scansano tutti e chi può,
con un colpo, le schiaccia. Tu hai un pungiglione che reca fastidio e dolore,
se colpisce. Che vuoi dunque che facciamo di te? Non c'è ove metterti.
— Ma come! Le donne non sono proprietà di tutti, per natura?
— Lo dico anch'io. Pure il porcellino da latte è proprietà di tutti gli invitati.
Ma quando le porzioni sono state distribuite, accostati, se ti piace, a quella di
chi sta sdraiato vicino, e portagliela via, rubagliela senza farti accorgere,
oppure allunga la mano e assaggiala: e se non ti riesce di afferrare la carne,
impiastrati le dita di grasso e leccale. Un bel compagno di tavola davvero, un
convitato degno di Socrate!
— Ma vediamo: il teatro non è proprietà comune dei cittadini?
— Ebbene, quando si sono seduti, va', se ti piace, e caccia qualcuno dal suo
posto. A questo modo le donne sono proprietà comune di tutti per natura. Ma
quando il legislatore, come un convitante, le ha distribuite, non vorrai cercare
la tua parte anche tu, ma vorrai rapire quella degli altri e assaggiarla?
— Ma io sono un uomo di lettere, e interpreto Archedemo.
— E allora interpreta Archedemo e sii un adultero, senza fede, un lupo, una
scimmia, non un uomo. Che cosa te lo impedisce?

COME SI CONCILIA LA GRANDEZZA D’ANIMO, CON LA


SOLLECITUDINE

Gli oggetti sono indifferenti, ma l'uso che se ne fa non è indifferente. Allora,


come si potrà conservare la fermezza d'animo e la tranquillità insieme alla
sollecitudine, ugualmente lontana da sconsideratezza e da negligenza? Basta
imitare i giocatori di dadi. I gettoni sono indifferenti, i dadi sono indifferenti:
come sapere che cosa darà la sorte? Ma usare con accortezza e con arte del
risultato ottenuto, questo è già compito mio. Allo stesso modo la faccenda
principale nella vita è questa: distingui le cose, poni una divisione tra loro e
di': «le cose esterne non dipendono da me; la libera scelta dipende da me.
Dove cercherò il bene e il male? Dentro di me, in ciò che è mio.» Rispetto
alle cose che ti sono estranee non usare mai la parola bene o male, utilità o
danno o altre del genere.
— E dunque? queste bisognerà usarle con negligenza?
— Nient'affatto, perché a sua volta sarebbe un male per la persona morale e
con ciò stesso contro natura. Ma con accortezza, perché l'uso non è
indifferente, e, insieme con fermezza d'animo e con calma, poiché gli oggetti
sono indifferenti. Infatti, dove c'è quel che è veramente importante, nessuno
mi può impedire o costringere. Quando sono impedito o costretto, si tratta di
oggetti che non è in mio potere ottenere e che non sono né buoni né cattivi;
solo l'uso ch'io ne faccio è buono o cattivo, ma questo è in mio potere.
Certo è diffìcile unire e conciliare queste cose, la vigilanza di chi si sente
attratto dagli oggetti e la fermezza d'animo di chi rimane indifferente, tuttavia
non è impossibile: se no, sarebbe impossibile essere felici. È un po' come
quando navighiamo. Che cos'è in mio potere? Scegliere il pilota, la ciurma, il
giorno, il momento opportuno.
Poi scoppia una tempesta. In che più mi riguarda? La parte mia l'ho
compiuta. Questo è affare d'un altro, del pilota. Ma oltre ciò, la nave
s'affonda. Che ci posso fare io? Solo quel che è in mio potere posso fare:
annegare senza aver timore, senza gridare, senza incolpare Dio, ben sapendo
che chi è nato ha da morire. Non sono mica eterno, ma un uomo, parte del
tutto, come l'ora è parte della giornata. Devo giungere come l'ora, e come
l'ora scomparire.
Che mi importa come scompaio, se per annegamento o per febbre? In uno di
questi modi devo pur scomparire.
Potrai notare che si comportano così anche i bravi giocatori di palla.
Nessuno di loro si mette a discutere sulla palla, se è buona o cattiva, ma sul
modo di lanciarla o di prenderla. Proprio in questo, del resto, appare
l'eleganza, l'arte, l'agilità, la sagacia, che mentre io, neppure spiegando la mia
veste riesco a afferrare la palla, il mio avversario, invece, l'afferra, quando
gliela lancio. Se la prendiamo o la lanciamo nervosi e intimoriti, a che si
riduce il gioco? come si potrà conservare la fermezza d'animo? come badare
al modo in cui si svolge? Ma uno dirà: «Tirala», un altro: «Non tirarla», un
altro, poi: «Non tirarla in alto». Questo è una rissa, non un gioco.
Però Socrate sapeva giocare alla palla.
— Come?
— Sì, giocare in tribunale.
— « Dimmi, Anito, — disse — come puoi affermare che non credo in Dio? I
demoni chi sono, secondo te? Non sono figli di dèi, o una razza mista
prodotta dagli uomini e dagli dèi?». L'altro convenne e Socrate: «E chi,
secondo te, potrebbe ammettere l'esistenza dei muli, quella degli asini no?» l
In tal modo giocava come con una palla. E in quella partita che palla era in
campo? La vita, l'imprigionamento, l'esilio, il veleno da bere, la perdita della
moglie, l'abbandono dei figli orfani. Tutto questo era in campo e con questo
egli giocava e non di meno giocava e scagliava la palla con eleganza. Anche
noi dobbiamo avere l'attenzione del giocatore più abile, ma l'indifferenza
come se si trattasse d'una palla. Certo, bisogna assolutamente esercitare la
propria abilità intorno a ogni oggetto esterno, non per accettarlo, ma per
mostrare con quale bravura lo trattiamo, qualunque esso sia. Così, anche il
tessitore non fa la lana, ma qualunque lana riceve, mostra con che bravura la
tratta. Un Altro ti concede il nutrimento, gli averi, e può toglierteli — anche
il tuo povero corpo. Tu, da parte tua, prendi gli oggetti e lavorali. Se te n'esci
senza aver subito danno, gli altri, incontrandoti, si feliciteranno con te che
l'hai scampata sano e salvo; ma chi sa veder bene in siffatte cose, se s'accorge
che in questa circostanza ti sei comportato con decoro, ti loderà e si
compiacerà con te, se, invece, [s'accorge] che ti sei salvato a prezzo di
turpitudini, sarà il contrario: perché, dove la gioia è ragionevole, è
ragionevole pure metterne altri a parte.
Come si può dire, dunque, che delle cose esterne alcune sono conformi, altre
contrarie a natura? È come se fossimo isolati. Infatti, al piede, secondo
natura, dirò che si addice essere pulito, mentre, se lo consideri come piede, e
non come una cosa isolata, gli converrà di andare anche nel fango, di
calpestare le spine e talvolta di essere amputato in vista del corpo intero:
altrimenti, non sarà più piede. Lo stesso ragionamento s'ha da fare al nostro
riguardo. Che sei? Un uomo.
Se ti consideri come una cosa isolata, è conforme a natura vivere fino a
vecchiezza, arricchire, star in salute. Ma se ti consideri come uomo e parte di
un tutto, converrà che, proprio in vista di questo tutto, talora ti ammali, talora
navighi, talora t'esponga ai pericoli, talora soffra la povertà e qualche volta
anche muoia prima del tempo. Perché sdegnarti? Non sai che, come quello,
isolato, non sarà più piede, così neppure tu, isolato, sarai più uomo? Che
cos'è, infatti, l'uomo?
Parte d'una città, in primo luogo, di quella formata dagli dèi e dagli uomini,
in secondo luogo di quella chiamata così perché le si avvicina moltissimo ed
è, in piccolo, una copia della città universale.
— Così, adesso devo essere giudicato?
— E adesso un altro deve aver la febbre, un altro deve navigare, un altro
morire, un altro essere condannato? È
impossibile che in un corpo siffatto, in un universo siffatto che ci abbraccia,
in mezzo a siffatti uomini che vivono con noi, non capitino di tali accidenti,
ora agli uni, ora agli altri. A te spetta recarti là, dire ciò che devi, e disporre
ogni cosa come conviene. Poi il giudice pronuncia: «Ritengo che sei
colpevole.» «Buon prò ti faccia. Io ho compiuto il mio dovere; se anche tu
l'hai compiuto, te lo vedrai da te». Corre un rischio anche lui, non
dimenticarlo.

DELL’INDIFFERENZA

II sillogismo ipotetico è cosa indifferente; il giudizio che se ne da, non è


indifferente, ma è o una conoscenza vera, o un'opinione, o un errore. Così
pure la vita è cosa indifferente, ma l'uso che se ne fa non è indifferente. Per
ciò, quando vi si dice che anche certe cose sono indifferenti, non datevi alla
negligenza, quando vi si esorta alla vigilanza, non vi fate meschini né
rimanete stupefatti dinanzi agli oggetti. È bello conoscere la propria
preparazione e la propria capacità, affinchè dove non sei preparato te ne stia
calmo e non te la prenda se alcuni altri in questo campo possono più di te. Tu,
per es., in fatto di sillogismi riterrai di potere più degli altri, e se costoro se la
prenderanno per questo, li consolerai dicendo: «Io li ho imparati, voi no».
Perciò, dove c'è bisogno di esercizio, non cercare la superiorità che
dall'esercizio proviene, ma lasciala a chi si è lungamente esercitato: da parte
tua, contentati della fermezza d'animo.
— Va' a salutare quel tale.
— Lo saluto.
— In che modo?
— Senza bassezze.
— Ma t'è stata chiusa la porta in faccia.
— Già, per la finestra non ho imparato a entrare, e quando trovo la porta
chiusa, devo di necessità o andarmene o entrare per la finestra.
— Ma parlagli pure.
— Gli parlo, sì.
— In che modo?
— Senza bassezze.
— Però, non hai ottenuto niente. Era forse compito tuo, questo? No, suo.
Perché, dunque, bramare quel che è d'un altro?
Ricordati sempre quel che spetta a te e quel che spetta ad altri e non ti
turberai. Per ciò dice bene Crisippo: «Finché le conseguenze mi rimarranno
oscure, io mi tengo stretto a ciò che è più adatto a procurarmi i beni secondo
natura. Dio stesso, creandomi, me ne ha lasciato libera scelta. Se io sapessi
davvero che questa malattia m'è stata decretata adesso dal destino, le andrei
incontro: anche il piede, se avesse l'intelligenza, andrebbe incontro al fango
per immergervisi.»
Per esempio, perché crescono le spighe? Non per maturare? E non maturano
per essere poi mietute? Infatti, non esistono mica isolate. E se avessero la
sensazione, dovrebbero far voti per non essere mai mietute? Ma sarebbe una
maledizione per le spighe non essere mai mietute. Allo stesso modo sappiate
che anche per gli uomini sarebbe una maledizione non morire, perché è come
non venire a maturazione non essere mietuti. E noi, che siamo gli stessi cui si
conviene essere mietuti e insieme comprendere di essere mietuti, ce la
prendiamo proprio per questo. In verità, non conosciamo chi siamo, né ci
prendiamo cura di quanto concerne l'uomo, come fanno i cavalieri per quanto
concerne i cavalli. Eppure Crisanta, sul punto di colpire il nemico, udita la
tromba che suonava la ritirata, si trattenne: giudicò, quindi, più importante
compiere l'ordine del comandante che la propria volontà. Invece, nessuno di
noi, neppur quando la necessità lo chiama, è pronto ad obbedirle, ma tra
pianti e gemiti subiamo quel che subiamo e tutto questo chiamiamo
«circostanze». Quali circostanze, uomo? Se per circostanze intendi quel che
ci sta intorno, allora tutto è circostanza: se invece chiami così ciò che è
spiacevole, che c'è di spiacevole se viene distrutto ciò che è nato? Mezzo di
distruzione è la spada o il laccio o il mare o la tegola o il tiranno: che
t'importa per quale via scendi all'Ade? sono tutte eguali. Ma se vuoi ascoltare
il vero, più breve è quella per la quale ti manda il tiranno. Nessun tiranno ha
mai impiegato sei mesi per sgozzare un uomo; la febbre, invece, ci mette
spesso anche un anno. Vane chiacchiere, tutto ciò, strepito di parole vuote!
— Io rischio la mia testa sotto Cesare.
— E io non la rischio, che abito a Nicopoli, dove sì tremendi sono i
terremoti? E tu stesso quando navighi
sull'Adriatico, che cosa rischi? Non la testa?
— Ma io rischio anche il mio pensiero.
— Il tuo? E come? Chi può costringerti a pensare ciò che non vuoi? L'altrui?
E che pericolo corri se altri pensa il falso?
— Ma io rischio di essere esiliato.
— Che cos'è essere esiliato? Essere altrove che in Roma?
— Già: e poi? se mi si manda a Giaro?
— Se vuoi, ci andrai: altrimenti, hai un altro posto ove recarti, invece che
Giaro: e lì, lo voglia o no, ci andrà anche chi ti manda a Giaro. Perché, allora,
andar via come se dovessi affrontare non so che grandi difficoltà? È una
prova che non richiede la tua preparazione, sì che un giovane generoso
potrebbe dire: «Non valeva la pena di aver ascoltato tante lezioni, d'aver
scritto tante pagine, d'aver frequentato tanto tempo un povero vecchio di non
molto valore, davvero!»
Ricordati solo di quella distinzione che definisce ciò che è tuo e ciò che non
è tuo. Non desiderare mai niente di ciò che appartiene ad altri. Tribuna e
galera sono entrambi luoghi, l'uno elevato, l'altro basso. Ma la persona
morale può essere mantenuta uguale a se stessa, se vuoi mantenerla così, e
nell'uno e nell'altro. E saremo emuli di Socrate quando in galera potremo
scrivere dei peani. Fino a questo momento, nella condizione in cui siamo,
bada se avremmo sopportato in galera uno che ci dicesse: «Vuoi che ti legga
dei peani?» «Perché mi annoi? Non vedi che mali mi opprimono? In queste
circostanze mi è forse possibile?».
— In quali circostanze?
— Sto per morire.
— E gli altri uomini saranno immortali?

COME USARE LA DIVINAZIONE


Per usare della divinazione inopportunamente siamo in molti a trascurare
molti doveri. Perché, che cosa può scorgere l'indovino più d'una morte, d'un
pericolo, d'una malattia, in una parola, di cose di questo genere? Ma se devo
correre il rischio per un amico, se è mio dovere perfino morire per lui, dov'è
più l'opportunità ch'io ricorra alla divinazione? Non ho nell'intimo mio
l'indovino che mi dice la natura del bene e del male, che spiega i segni di
entrambi? Che bisogno ho ancora di viscere e di uccelli? E se lui mi dice:
«Questo ti giova» lo sopporterò? Che cosa è l'utile, lo sa? che cos'è il bene, lo
sa? Ha appreso, tome i segni delle viscere, così i segni del bene e del male?
Perché, se li conosce, conosce pure quelli del bello e del brutto, del giusto e
dell'ingiusto. Uomo, dimmi qual è il senso di questi segni, vita o morte,
povertà o ricchezza. E per conoscere se ciò mi è utile o no, dovrò
interrogarti?
Perché non lo dici a proposito delle lettere, ma qui a proposito d'una materia
ove tutti andiamo fuori di strada e contendiamo l'uno con l'altro? Belle
davvero, le parole di quella donna che voleva mandare all'esiliata Gratilla il
battello con le provviste del mese. Uno le disse: «Domiziano le confischerà»
«In ogni caso — rispose — preferisco le confischi lui piuttosto che non
inviarle io».
Che cosa, dunque, ci spinge a usare tanto frequentemente della divinazione?
La codardia, l'aver paura di quel che succederà. Per questo aduliamo gli
indovini.
— Erediterò, signore, da mio padre?
— Vediamo: offriamo il sacrifìcio.
— Sì, signore: come vuole la fortuna! E se dice: «erediterai», lo ringraziamo,
quasi avessimo ricevuto da lui l'eredità.
Per questo essi, in seguito, si prendono gioco di noi. E dunque? Bisogna
andar da loro senza desideri e senza avversioni, come il viandante che chiede
a chi incontra qual sia la strada giusta, senza alcuna preferenza per la destra o
per la sinistra: infatti, non vuole prendere questa o quella, ma la giusta. In
questo modo bisognerebbe andare anche dal dio, come da una guida, usarne
come usiamo degli occhi, ai quali non chiediamo di mostrarci certi oggetti, di
preferenza, essendo pronti ad accettare le immagini di quanto ci presentano.
Adesso, invece, pieni di timore, tocchiamo la mano dell'augure e,
invocandolo come un dio, gli domandiamo: «Signore, abbi pietà di me!
concedimi di poterne uscire».
Schiavo, che cosa vuoi se non il meglio? E che altro è il meglio se non ciò
che piace a Dio? Perché cerchi, con ogni tua forza, di corrompere il giudice,
di ingannare il consigliere?

QUALE LA NATURA DEL BENE

Dio è utile: ma anche il bene è utile. Naturale, quindi, che dov'è la natura di
Dio, ivi sia anche quella del bene. E qual è la natura di Dio? Carne? Non sia
mai. Campo? Non sia mai. Reputazione. Non sia mai. Egli è intelligenza,
scienza, retta ragione. Solo qua, dunque, assolutamente, cerca l'essenza del
bene. Perché, vuoi cercarla forse nella pianta? No. O
nell'essere senza ragione? No. Se, dunque, la cerchi nell'essere ragionevole,
dov'altro continuerai a cercarla se non in ciò che differenzia questo essere da
quelli irragionevoli? Le piante non usano neppure delle rappresentazioni e
per questo, rispetto ad esse, non parli di bene. Ha bisogno, dunque, il bene
dell'uso delle rappresentazioni. Di questo solo? Se così fosse, dì che pure
negli altri animali si trovano i beni, la felicità e l'infelicità. E invece non lo
dici e fai bene: che se anche hanno in alto grado l'uso delle rappresentazioni,
la coscienza, comunque, che all'uso si accompagna non l'hanno.
Ed è naturale: sono nati, in verità, per servire agli altri, non sono fini in se
stessi. L'asino, per esempio, è forse nato per essere un fine in se stesso? No,
ma perché noi avevamo bisogno di un dorso capace a portare qualcosa. Anzi,
per Zeus, avevamo pure bisogno che si movesse: per questo ha ricevuto la
capacità di usare delle rappresentazioni, altrimenti non era in grado di
muoversi. E del resto, lì si ferma il suo sviluppo. Se poi anche lui avesse in
qualche modo ricevuto la coscienza che s'accompagna all'uso delle
rappresentazioni, è chiaro, di conseguenza, che non sarebbe stato più
sottoposto a noi né ci avrebbe offerto tali servizi, ma sarebbe stato come noi,
simile a noi. Non vuoi, dunque, cercare la natura del bene in quella qualità, la
cui mancanza in tutti gli altri esseri ti impedisce di parlare di bene a loro
proposito?
— E che? Non sono opere degli dèi anch'essi?
— Senz'altro, ma non sono fini in se stessi, né parti della divinità. Tu,
invece, sei un fine, sei un frammento di Dio. Hai in te stesso una parte di lui.
E perché allora ignori la tua parentela? Perché non sai donde sei venuto?
Non vuoi ricordare, quando mangi, chi sei tu che mangi e a chi dai da
mangiare? Quando soddisfi i tuoi bisogni sessuali chi sei a far ciò? Quando ti
dai alla vita sociale, quando eserciti il corpo, quando discuti, non sai che un
dio nutri, che un dio eserciti? Un dio porti intorno, disgraziato, e l'ignori.
Pensi ch'io alluda a un dio d'argento, al di fuori, o d'oro? In te stesso lo porti,
e, senza accorgertene, lo deturpi con pensieri impuri, con atti sconci. Davanti
alla statua di un dio, non oseresti far neppure una delle azioni che fai. E
davanti a Dio stesso che nel tuo intimo tutto osserva e tutto ascolta, non ti
vergogni né di pensarle né di farle, o uomo incosciente della tua stessa
natura, oggetto della collera divina?
Noi, del resto, quando mandiamo un giovane fuori di scuola per qualche
affare, perché temiamo che non si comporti come si deve, che non mangi
come si deve, che non soddisfi i suoi bisogni sessuali come si deve, che si
degradi avviluppandosi di stracci, o vada in superbia per i suoi vestiti
ricercati? Costui non conosce il dio che è in lui, costui non sa con chi s'è
messo in viaggio. Ma gli lasceremo dire: «volevo averti con me»? Dove stai,
non hai Dio? E con lui, chi altro cerchi? E lui potrà parlarti in maniera
diversa da questa? Certo, se fossi una statua di Fidia, l'Atena o lo Zeus, ti
ricorderesti di te stesso e dell'artista, e, se avessi qualche sentimento,
baderesti a evitare qualunque azione indegna di chi t'ha fatto e di te stesso e a
non mostrarti in atteggiamento sconvenevole agli occhi dei visitatori: ora che
t'ha fatto Zeus, non ti importa niente come dovrai mostrarti? E c'è qualche
eguaglianza tra questo artista e quello, tra quest'opera e quella?
Qual opera d'artista ha, per ciò stesso, in sé le facoltà che traspaiono dalla
fattura? Non è forse pietra, o bronzo, o oro, o avorio? Anche l'Atena di Fidia,
una volta stesa la mano e accolta su di essa la Vittoria, rimane così per
sempre, mentre le opere di Dio si muovono, respirano, usano le
rappresentazioni, formulano giudizi. Opera di tanto demiurgo, vuoi
disonorarla? E che? Non solo ti ha fatto, ma ti ha affidato e consegnato a te
solo: non vuoi ricordarti di questo, ma disonorerai per di più la consegna? Se
Dio t'avesse affidato un orfano, lo trascureresti così? Ora t'ha dato in mano te
stesso e ti dice: «Non avevo un altro più fidato di te: custodiscimi costui
come vuole la sua natura, riservato, fedele, di alti sensi, senza paura, senza
passione, imperturbato». E tu non lo vuoi custodire?
Ma diranno: «Come va che costui ha aggrottato le ciglia e si da un'aria tanto
solenne?» II mio portamento non è ancora come dovrebbe. Non ho ancora
abbastanza confidenza con ciò che ho imparato e condiviso. Continuo a
temere la mia debolezza. Lasciate che ci prenda confidenza e vedrete allora
uno sguardo conveniente, un'attitudine conveniente: allora vi mostrerò la
statua, quando sarà rifinita e scintillante. Che v'immaginate? Ciglia
aggrottate? Non sia mai. Forse lo Zeus d'Olimpia contrae le ciglia? Anzi, il
suo sguardo è sicuro, come deve averlo chi sta per dire: non si può revocare
né trovar falsa la mia parola.
Così io mi mostrerò a voi, fedele, riservato, generoso, imperturbabile. Forse,
anche immortale, non sfiorato da vecchiaia, non tòcco da malattia? No; bensì
nell'atto di morire come un dio, nell'atto di sopportare una malattia come un
dio. Questo ho in mio potere, questo posso: tutto il resto non l'ho in mio
potere, né lo posso. Vi mostrerò il vigore d'un filosofo. Quale vigore? Un
desiderio sempre soddisfatto, un'avversione che non incorre mai in ciò che
vuole evitare, un impulso conforme al dovere, un divisamente diligente, un
assenso non precipitato. Ecco quel che vedrete.

COME, NON POTENDO ADEMPIERE LA PARTE DI UOMO,


ASSUMIAMO ANCHE QUELLA DI FILOSOFO

Non è una cosa qualunque adempiere soltanto la parte di uomo. Che cos'è
l'uomo? Un essere animato, ragionevole, mortale, si dice. Orbene, in virtù
dell'elemento razionale, da chi ci distinguiamo? Dalle bestie selvagge. E da
chi altro?
Dalle pecore e da animali simili. Vedi, dunque, di non agire mai come una
bestia selvaggia: altrimenti, hai distrutto l'uomo e non hai adempiuto la tua
parte. E neppure come una pecora: altrimenti, anche in tal modo, s'è distrutto
l'uomo.
«E quand'è che agiamo da pecore?» Se agiamo per amor del ventre, o degli
istinti sessuali, se agiamo
sconsideratamente, sordidamente, con noncuranza, a che ci siamo degradati?
A pecore. E che cosa abbiamo distrutto?
L'elemento razionale. Se agiamo per il desiderio di contendere, o di
danneggiare, o spinti dall'ira o dalla violenza, a che ci siamo degradati? A
bestie selvagge. Ne segue che alcuni di noi sono grosse bestie feroci, altri,
invece, animaletti malvagi e piccini, riguardo ai quali è il caso di dire: «fosse
almeno un leone a divorarmi!».
Da tutte queste azioni è distrutta la parte dell'uomo.
Quand'è che una proposizione copulativa si conserva valida? Quando
adempie la sua funzione, sicché la sua validità consiste nella verità delle
proposizioni che la costituiscono. E una proposizione disgiuntiva? Quando
adempie la sua funzione. E i flauti, la lira, il cavallo, il cane?
Che meraviglia se anche l'uomo allo stesso modo si conserva, allo stesso
modo si distrugge? Ognuno cresce e si conserva mediante le opere che gli si
confanno: il falegname mediante quelle del falegname, il grammatico
mediante quelle del grammatico. Ma se uno si abitua a scrivere in modo
sgrammaticato, necessariamente si rovina e si distrugge l'arte. Così un agire
rispettoso conserva nell'uomo il carattere rispettoso, lo distrugge, invece, un
agire irrispettoso: atti di fedeltà conservano l'uomo fedele, atti contrari lo
distruggono. A loro volta, azioni contrarie accrescono caratteri contrari:
l'impudenza l'impudente, l'infedeltà l'infedele, la calunnia il calunniatore, la
collera il collerico, infine un prendere e un dare sproporzionati l'avaro.
Per questo i filosofi raccomandano di non limitarsi solo a imparare, ma di
aggiungere anche la pratica e poi l'esercizio.
Col passare del tempo, infatti, ci siamo abituati a fare il contrario di quel che
abbiamo appreso e mettiamo
continuamente in uso opinioni contrarie alle giuste. Se non metteremo in uso
anche queste, non saremo altro che commentatori di pareri altrui. Ora, chi di
noi non è capace di dissertare sui beni e sui mali? Per esempio: certe cose
sono buone, altre cattive, altre indifferenti. Buone le virtù e quanto partecipa
delle virtù: cattive le contrarie: indifferenti la ricchezza, la salute, la
reputazione. Ma se nel bel mezzo della nostra dissertazione, si fa rumore un
po' troppo forte o uno dei presenti si mette a ridere di noi, restiamo
sconcertati. Dove sono, filosofo, i princìpi di che parlavi? Da dove li
prendevi per proporceli? Dalle labbra, senza dubbio, di lì. Perché vai
sconciando risorse altrui? perché giocando con cose della più grande
importanza? In verità, altro è riporre pani e vino in dispensa, altro mangiare.
Quel che si mangia viene digerito, distribuito per l'organismo, diventa nervi,
carne, ossa, sangue, bel colorito, sana respirazione. Quel che hai messo in
disparte, puoi prenderlo quando vuoi e mostrarlo, ma nessun giovamento te
ne viene se non d'esserne creduto il proprietario. Che differenza c'è tra il
commentare questi insegnamenti e gli insegnamenti di altre scuole?
Mettiti a sedere, adesso, e disserta sulla dottrina di Epicuro: forse disserterai
più abilmente di Epicuro stesso. Perché dirti stoico, perché ingannare la folla,
perché contraffare il giudeo, se sei greco? Non vedi per quale ragione si dice
che costui è giudeo, costui siriano, costui egiziano? E quando ci accorgiamo
che uno pencola tra due partiti, siam soliti dire:
«non è giudeo, ma vuole contraffare il giudeo.» Quando, però, prende lo
spirito del battezzato e del seguace convinto, allora sì, è e si chiama
veramente giudeo.
In tal modo anche noi siamo pseudo-battezzati, giudei di nome, in realtà
tutt'altra cosa, in disaccordo coi nostri princìpi, ben lontani dal mettere in
pratica le dottrine che esponiamo e che siamo orgogliosi di conoscere. Così,
nonostante l'incapacità di adempiere la parte di uomo, vogliamo assumerci
anche quella del filosofo. Fardello enorme: è come se uno incapace di
sollevare dieci libbre, pretendesse di sollevare il masso di Ajace.

COME DAI NOMI SI POSSONO SCOPRIRE I DOVERI

Considera chi sei. Prima di tutto uomo, cioè uno che non possiede niente più
importante della persona morale ma a lei subordina il resto, e tale persona
morale possiede libera da schiavitù e da soggezione. Osserva, dunque, da chi
ti distingui per la ragione. Ti distingui dalle bestie selvagge, ti distingui dalle
pecore. Oltre ciò, sei cittadino del mondo e parte di questo mondo — e non
una delle parti subordinate, ma delle dominanti, perché puoi comprendere il
governo divino e riflettere sulle conseguenze. Ora, che cosa esige il ruolo di
cittadino? Di non aver nessun interesse personale, di non prendere decisioni
su nessuna cosa quasi fosse isolato, bensì di agire come la mano o il piede, se
ragionassero e comprendessero l'ordine naturale — che, certo, non avrebbero
né impulsi né desideri se non riferendoli al tutto. Perciò dicono bene i filosofi
che se l'uomo di virtù perfetta prevedesse il futuro, coopererebbe alle
malattie, alla morte, alle mutilazioni, perché si renderebbe conto che tutto
questo gli è stato assegnato dall'ordinamento universale e che è più
importante il tutto della parte, la città del cittadino. Ora, siccome noi non
prevediamo il futuro, nostro dovere è di tenerci stretti a ciò che nella scelta è
più conveniente, giacché proprio per questo siamo nati. Dopo ciò, ricorda che
sei figlio. A che ci si obbliga, sostenendo questa parte? A considerare del
padre tutto quel che si possiede, a essergli soggetto in tutto, a non biasimarlo
mai presso alcuno, a non dire né fare ciò che possa essergli dannoso, a
rinunciare a se stessi in ogni cosa e a cedergli, cooperando con lui, nei limiti
del possibile. Dopo ciò, sappi che sei anche fratello.
Questa parte ti obbliga ad essere deferente, compiacente, benevolo nelle
parole, a non contendere mai col fratello per nessuna delle cose indipendenti
dalla tua scelta, ma a lasciargliele di buon grado, per accrescere il tuo
vantaggio in ciò che dipende da te. Vedi, infatti, che cos'è acquistare la bontà
d'animo a prezzo di un piatto di lattuga, all’occorrenza, o d'un seggio: che
guadagno! Dopo ciò, se sei senatore d'una città, ricordati che sei senatore;
<se> giovane, che giovane; se vecchio, che vecchio; se padre, che padre.
Perché sempre, ognuno di questi nomi, se lo si considera attentamente,
suggerisce le azioni appropriate.
Ma se tu, allontanatoti da tuo fratello, lo critichi, io ti dico: «Hai dimenticato
chi sei e che nome hai». Se tu fossi fabbro e usassi male il martello, avresti
dimenticato il mestiere di fabbro: ora, se hai dimenticato i doveri di fratello e
da fratello sei diventato nemico, riterrai di non aver scambiato niente con
niente? Se da uomo, animale domestico e socievole, sei diventato una fiera
selvaggia, pronta a nuocere, a insidiare, a mordere, non hai perduto niente?
Devi perdere proprio una moneta per soffrire danno? e nessun'altra perdita
reca danno all'uomo? Vediamo: se buttassi via le cognizioni letterarie o
musicali, riterresti codesta perdita un danno: e se butterai via il senso del
pudore, la dignità, la gentilezza, non lo conterai niente? Eppure, quelle si
perdono per una causa esterna e indipendente da noi, queste, invece, per
causa nostra: inoltre, quelle, non <è bello> averle, né è brutto perderle,
queste, invece, e il non averle e il perderle è un disonore, un biasimo, una
vera disgrazia. Che cosa distrugge chi subisce nefandezze? L'uomo. E chi le
compie? Molte altre cose e, nondimeno, anche l'uomo. Che cosa distrugge
l'adultero? L'uomo riservato, padrone di sé, onesto, il cittadino, il vicino. Che
cosa distrugge chi va in collera? Qualche altra cosa. E chi è in timore?
Qualche altra cosa. Nessuno è cattivo senza perdita o danno. Del resto, se
consideri danno solo la perdita del denaro, tutti costoro non subiscono né
danno né pena, che anzi, all'occasione, traggono profitto e guadagnano,
qualora riescano ad ottenere denaro da una di quelle azioni. Bada bene che se
riconduci tutto alla miserabile moneta, neppure chi perde il naso soffrirà un
danno secondo te.
— Ma sì — dice — perché il suo corpo resta mutilato.
— Orsù, chi ha distrutto il senso stesso dell'odorato, non ha perduto niente?
E non c'è alcuna facoltà dell'anima, il cui possesso giova, la cui perdita è
danno?
— Quale vuoi dire?
— Non abbiamo un senso naturale di riservatezza?
— Si.
— E chi lo distrugge non subisce un danno, non si priva di niente, non getta
via niente di ciò che è suo?
Non abbiamo per natura un sentimento che ci fa essere fedeli, amorosi,
servizievoli, pazienti l'uno dell'altro? E quindi, chiunque si lascia danneggiare
in uno di questi sentimenti non subisce pene, non subisce danni?
— E che? non devo rendere ingiuria per ingiuria?
— Prima di tutto, considera che cosa è l'ingiuria e ricorda ciò che hai
ascoltato dai filosofi. Perché, se il bene è nella persona morale, e così pure il
male, guarda se le tue parole non si riducono a questo: «E dunque? poiché
costui ha fatto un torto a se stesso, commettendo un'ingiustizia contro di me,
non farò io un torto a me stesso, commettendo
un'ingiustizia contro di lui?» Perché non consideriamo la questione in questi
termini, invece di vedere un danno quando si tratta di una perdita nel corpo o
negli averi, non vederlo, al contrario, quando la perdita colpisce la persona
morale?
Che non soffre certo di testa, chi s'inganna o commette ingiustizia, né di
occhi, né di sciatica e neppure perde un campo.
Ma noi non vogliamo altro che questo: quanto poi a sapere se la nostra
persona morale si manterrà riservata e fedele o spudorata e infedele, non ci
interessa molto, salvo che si tratti di farne una perorazione a scuola. Per
questo, finché si deve perorare, progrediamo, ma al di fuori, no, neppur tanto
così!

QUAL È IL PUNTO DI PARTENZA DELLA FILOSOFIA

Punto di partenza della filosofia, per quanti almeno vi si accingono come si


deve ed entrano per la porta, è la coscienza della propria debolezza ed
incapacità nelle cose necessarie. Veniamo al mondo senza avere nessuna
nozione naturale del triangolo rettangolo, del diesis, del semitono, ma le
apprendiamo ciascuna mediante l'insegnamento tecnico: per ciò chi non le sa,
neppure pretende di saperle. Del bene e del male, invece, del bello e del
brutto, di ciò che s'addice e non s'addice, della felicità, di ciò che ci conviene
e ci si adatta, di ciò che bisogna fare e non fare, chi viene al mondo senza
averne la nozione innata? Per ciò tutti facciamo uso di questi termini e
cerchiamo di applicare le prenozioni ai casi particolari: «s'è comportato bene,
come doveva, non come doveva: è stato disgraziato, è stato fortunato: è
ingiusto, è giusto». Chi di noi si astiene da questi termini? Chi di noi ne
differisce l'uso fin quando li abbia appresi, come fanno per le linee e per le
note quelli che le ignorano? La ragione è che veniamo già al mondo,
ammaestrati in certo senso da natura in quest'ordine di cose: ed è muovendo
da queste che ci mettiamo addosso pure la presunzione.
— Ma perché, dice uno, non conosco forse il bello e il brutto? Non ne ho la
nozione?
— Sì, l'hai.
— E non l'applico ai casi particolari?
— Sì, l'applichi.
— E non l'applico bene?
— Qui è tutta la ricerca ed è qui che si fa avanti la presunzione. Si parte,
infatti, da questi princìpi ammessi da tutti e si finisce in controversie, giacché
non li si applica con coerenza. Perché, se oltre i princìpi, si possedesse per lo
meno anche la capacità di applicarli, che cosa ci proibirebbe di essere
perfetti? Ora, siccome tu credi di applicare coerentemente le prenozioni ai
casi particolari, dimmi, donde ti viene ciò?
— È che mi pare.
— Ma questo non pare anche a un altro, il quale, da parte sua, ritiene di
applicar bene le prenozioni: o non crede?
— Certo che lo crede.
— E in una materia in cui entrambi avete opinioni contrastanti potete
applicare coerentemente le prenozioni?
— Non possiamo.
— Puoi mostrarci qualcosa superiore al tuo parere in rapporto a una migliore
applicazione delle tue prenozioni?
Il pazzo, per es., fa forse altro se non ciò che gli pare bello? E gli sarà
sufficiente questo criterio?
— No davvero.
— Spingiti dunque verso qualcosa superiore al parere. Qual’è?
Ecco il punto di partenza della filosofia: la constatazione che gli uomini
reciprocamente si contrastano e la ricerca dell'origine di tale contrasto, la
condanna del semplice parere, la diffidenza al suo riguardo, una specie di
indagine sul parere, se ha un fondamento di verità, e la scoperta d'una norma
di giudizio, allo stesso modo che abbiamo trovato la bilancia per i pesi e il
regolo per le linee rette e curve. Ecco il punto di partenza della filosofìa: è
giusto ciò che pare a ciascuno? E come possono essere giusti pareri
contrastanti tra loro? Dunque non tutti sono giusti. Ma forse quelli che
sembrano giusti a noi? Perché a noi più che ai Siri, più che agli Egiziani, più
che a me, più che a lui? Non più gli uni degli altri. Dunque, non basta il
parere di ciascuno per la verità.
Quando si tratta di pesi o di misure non ci contentiamo della semplice
apparenza, ma abbiamo trovato una norma per gli uni e le altre. E qui non c'è
norma superiore al parere? Com'è possibile che sia indeterminabile e
irreperibile quel che è più di tutto necessario agli uomini?
— Dunque c'è.
— E perché non lo cerchiamo, non lo troviamo, e, trovatolo, non ce ne
serviamo in seguito rigorosamente, senza staccarcene neppure d'un dito?
Ecco, secondo me, ciò che, trovato, libera da follia quanti si servono del solo
parere come misura di tutto, perché, poi, muovendo da taluni punti noti e ben
definiti, ci serviamo, per giudicare i casi particolari, di prenozioni
chiarificate.
— Qual è l'oggetto su cui è caduta la nostra ricerca? — II piacere.
— Sottoponilo alla norma, gettalo sulla bilancia. Il bene deve essere tale da
ispirare a ragione sicurezza e fiducia?
— Certo.
— E può a ragione ispirare fiducia ciò che è instabile?
— No.
— Ed è qualcosa di stabile il piacere?
— No.
— Toglilo via, allora, gettalo lontano dalla bilancia, allontanalo, quanto più
puoi, dal campo dei beni. E se la tua vista non è acuta e una sola bilancia non
ti basta, portane un'altra. Ci si può fondare sul bene per essere intrepidi?
— Sì.
— E sul piacere, quando ci sta davanti, ci si può fondare, per essere
intrepidi? Bada di non dire di sì: altrimenti più non ti riterrò degno d'essere la
bilancia. Così si giudicano le cose e si pesano quando si hanno le norme a
disposizione. Ora il filosofare consiste proprio nell'esaminare e nel
consolidare tali norme. Quanto a usarle, una volta conosciute, è dovere
dell'uomo dabbene.

DELLA DIALETTICA

Ciò che si deve apprendere per sapere usare l'argomentazione, è stato


esattamente precisato dai filosofi della nostra scuola. Ma riguardo all'uso
conveniente di tali conoscenze, manchiamo completamente di esercizio.
Metti di fronte a uno qualunque di noi un incolto come interlocutore: non
trova modo di trattar con lui ma, dopo aver scosso un po' il suo uomo, se
quello gli si fa avanti di traverso, non riesce più a tenerlo in pugno e allora o
lo insulta o lo deride dicendo: «È
un incolto: non è possibile trattar con lui». Ma la guida buona, quando
s'imbatte in uno che vaga di qua e di là, lo riporta sulla strada giusta invece di
andarsene dopo averlo deriso o insultato. E anche tu, mostragli la verità e
vedrai che la segue. Ma finché non gliela mostri, non metterti a deriderlo;
piuttosto prendi atto della tua incapacità.
Perché, come faceva Socrate? Costringeva il suo interlocutore a testimoniare
per lui e non aveva bisogno di nessun altro testimone. Perciò poteva dire:
«Agli altri dico addio! Mi basta sempre di avere come testimone il mio
contraddittore: degli altri non cerco il voto, ma del mio interlocutore
soltanto». Egli, quindi, metteva in chiaro le conseguenze delle nostre nozioni,
sicché ognuno, chiunque fosse, accortosi della contraddizione, poteva
liberarsene. «E così, l'invidioso prova gioia?». « Nient'affatto: piuttosto,
prova dolore». Mediante l'affermazione contraria scuoteva il suo
interlocutore.
«E poi? secondo te, l'invidia è un sentimento di dolore per i mali? Che
sarebbe l'invidia dei mali?» Di conseguenza gli faceva dire che l'invidia è un
sentimento di dolore per i beni. «E poi? Potrebbe uno provar invidia di ciò
che non ha nessun rapporto con lui?» «No davvero». E così, determinata
appieno la nozione e spiegatala chiaramente, se ne andava, senza dire
all'altro: «definiscimi l'invidia» e poi, dopo la definizione di lui, «l'hai
definita male, perché i termini defìnitori non corrispondono alla cosa nel suo
complesso» — parole tecniche e perciò dure e diffìcilmente
comprensibili agli incolti, dalle quali, comunque, noi non riusciamo a
staccarci. Ma dei termini, mediante i quali l'incolto stesso, servendosi delle
sue rappresentazioni, sarebbe in grado di ammettere o negare una
proposizione, di questi non sappiamo servirci per scuoterlo. E quindi,
naturalmente, consapevoli di tale nostra incapacità, ci asteniamo dall'impresa
— quanti almeno abbiamo un po' di buon senso. Ma i più, che sono
sconsiderati, quando s'impegnano in un affare di tal genere, si confondono e
confondono gli altri e alla fine si separano dopo aver lanciato e ricevuto
mucchi d'insulti.
Invece, la caratteristica prima e la più propria di Socrate era di non adirarsi
mai durante la discussione, di non scagliare mai un insulto, di non essere mai
tracotante, bensì di sopportare le ingiurie degli altri e di metter fine ai
contrasti. Se volete conoscere quanto fu grande la sua capacità a tale
proposito, leggete il Simposio di Senofonte e vedrete quanti contrasti ha
sedato. Per questo a ragione anche dai poeti viene celebrato con grandissime
lodi il fatto che subito pure una grande contesa abilmente placava.
Ma ohimè! Non è troppo sicura tale occupazione adesso, specialmente a
Roma. Chi l'esercita, non la dovrà
evidentemente esercitare in un cantone, ma presentandosi a un ricco di rango
consolare, se così si da il caso, gli dovrà chiedere: «O tu, mi puoi dire a chi
hai affidato i tuoi cavalli?» «Certo.» «Forse al primo venuto, a uno che non
capisce niente di cavalli?» «No.» «E poi? a chi hai affidato il tuo oro, il tuo
argento, le tue vesti?» «Neppur queste al primo venuto.» «E il tuo corpo hai
già pensato a chi affidarlo, perché se ne prenda cura?» «Come no!» «A uno
che s'intende, senza dubbio, e di esercizi fisici e di medicina?» «E molto».
«Ed è questo che tu possiedi di maggior valore, o hai qualcosa ancora più
preziosa di tutto ciò?» «Di che parli?» «Per Zeus, di quel che usa tutte queste
cose, le mette alla prova, una per una, e delibera intorno ad esse.» «Parli forse
dell'anima?» «Hai compreso a perfezione: proprio di lei parlo.» «Per Zeus, la
ritengo il bene di gran lunga superiore a tutto il resto.»
«E puoi dirmi in che modo ti prendi cura dell'anima? Non è certo verisimile
che un uomo saggio e stimato nella città, come te, trattando a caso e come
capita il più prezioso dei suoi beni, lasci che vada trascurato e distrutto.» «No
davvero.» «Ma te ne prendi cura da te? E questa cura l'hai appresa da
qualcuno o l'hai trovata da te?» Allora c'è pericolo che l'altro t'interrompa:
«Che te ne interessa, o eccellente uomo? Chi sei tu per me?» e se persisti ad
annoiarlo, che levi il pugno e te le dia. Tutto ciò era la mia passione un
giorno, prima che m'imbattessi in tali difficoltà.

SULL’ANSIETA’

Quando vedo un uomo in ansia, dico: Che mai vuole costui? Se non avesse
voluto una cosa non in suo potere, come sarebbe ancora in ansia? Ecco
perché il citaredo non è in ansia quando canta da solo, ma quando si presenta
in teatro, pur se possieda una voce più che bella e sappia suonar bene: in tal
caso, infatti, non vuole soltanto cantar bene ma anche aver successo — e
questo non è più in suo potere. Del resto in ciò che sa, è sicuro: portagli un
profano qualunque e non se ne cura. Ma per ciò che non sa e che ha
trascurato, ecco dov'è in ansia. Che significa ciò? Che non conosce che cosa è
la folla né l'applauso della folla: ha imparato senza dubbio a toccare la prima
e l'ultima corda della cetra, ma l'applauso della moltitudine, che cosa sia, che
valore abbia nella vita, egli non lo sa e non se ne è interessato. Necessario,
quindi, che tremi e impallidisca.
Che non sia citaredo, quando pur lo vedo pieno di paura, non posso dirlo, ma
qualche altra cosa posso dirla, e non una sola, ma molte. E prima di tutto lo
chiamo straniero e dico: quest'uomo non sa in che parte della terra vive, ma,
pur abitandovi da tanto tempo, ignora le leggi della città, i suoi costumi, ciò
che è permesso e ciò che non è permesso. E
neppure ha per caso preso con sé uno, esperto in legge, che gli dicesse e
spiegasse ciò che è legale. Ma un testamento non lo redige senza sapere come
bisogna redigerlo o senza aver preso con sé uno che lo sappia, né fa
altrimenti quando appone il sigillo su un atto di malleveria o compila una
garanzia: invece, senza consultare un uomo di legge, maneggia desideri e
avversioni, impulsi, piani, progetti. Come, senza un uomo di legge? Egli non
sa che vuole ciò che non gli è concesso e rifiuta ciò che è nell'ordine delle
cose necessarie: non sa, quindi, né ciò che è suo, né ciò che è d'altri. Se lo
sapesse, non troverebbe mai ostacolo, mai impedimento — e non sarebbe mai
in ansia. E come no? Si teme forse ciò che non è male?
— No.
— E poi? Ciò che è bensì male, ma di cui si può impedire la realizzazione?
— Neppure, in nessun modo.
— Se, dunque, le cose indipendenti dalla nostra scelta non sono né buone né
cattive, quelle dipendenti, invece, sono tutte in nostro potere, e nessuno può
strapparcele o imporcele se non vogliamo, dov'è più posto per l'ansia?
Ma noi siamo in ansia per il nostro povero corpo, per i nostri poveri averi,
per che cosa avrà a pensare Cesare, non certo per alcuna di quelle cose che
stanno dentro di noi. Lo siamo forse per il timore di ammettere il falso?
— No, che questo dipende da me.
— O di avere impulsi contrari alla natura?
— Neppure per questo.
— E allora, quando vedi uno che impallidisce, come il medico,
argomentando dal colore del paziente, dice «questo soffre di bile, questo di
fegato» dì anche tu così: «Costui soffre nei suoi desideri e nelle sue
avversioni, non va bene, ha la febbre». Perché nient'altro fa cambiar colore,
fa tremare, fa battere i denti, fa rannicchiare e poggiare or su un piede [ed ora
sull'altro].
Per ciò Zenone non era affatto in ansia quando doveva incontrare Antigono,
perché di tutto ciò che lui stimava, l'altro non aveva nessun potere, mentre di
quanto aveva il potere l'altro, non si curava lui. Al contrario, quando
Antigono stava per incontrarsi con Zenone, era in ansia; e giustamente,
perché voleva piacergli, il che non rientrava nelle sue possibilità: quanto a
Zenone, non voleva piacergli non più che un artista a un ignorante. Voglio
piacerti? In cambio di che? Sai tu la norma, alla cui stregua un uomo è
giudicato da un altro? Ti è mai importato conoscere che cos'è l'uomo buono e
l'uomo cattivo e come si diventa l'uno o l'altro? Perché dunque non sei tu
stesso un uomo buono?
— Come, dice, non lo sono?
— Il fatto è che nessun uomo buono piange o geme, né si lamenta, né muta
colore, né trema né dice: «come mi
riceverà? come mi ascolterà?» Servo, come gli parrà. Che t'interessa di quel
che dipende da altri? Perché, lo sbaglio non è suo se accoglie malamente le
tue parole?
— Come no?
— E può succedere che uno sbagli, l'altro soffra il male?
— No.
— E allora perché sei in ansia per le cose altrui?
— Certo, sto in ansia come gli parlerò.
— Ebbene, non puoi parlargli come vuoi?
— Ma ho paura di confondermi.
— Se dovessi scrivere il nome di Dione, avresti paura di confonderti?
— Niente affatto.
— Per quale motivo? Non è perché ti sei preso cura di scrivere?
— Come no?
— E poi? se dovessi leggere, non si darebbe lo stesso caso?
— Lo stesso.
— Qual è il motivo? È che ogni tecnica ha in sé qualcosa che ispira forza e
sicurezza nell'ambito del suo dominio. Non hai appreso a parlare? E che
cos'altro hai appreso in scuola?
— Sillogismi e argomenti equivoci.
— A che scopo? Non per disputare da bravo?
E disputare da bravo non significa dire a proposito, senza tentennamenti, con
intelligenza, e ancora senza inciampi, senza imbarazzi, con sicurezza,
insomma, in ogni argomento?
— Sì.
E allora a cavallo, in pianura, opposto a un fante, tremi per un
combattimento in cui tu sei preparato, quello no?
— Già, ma lui ha il potere di uccidermi.
— Dimmi la verità, infelice, e non fare il gradasso: non ritenerti filosofo,
non disconoscere i tuoi padroni, ma finché hai il corpo che offre una presa,
segui chiunque sia più forte. Socrate era esercitato nell'arte del parlare, egli
che discuteva coi tiranni, in quel suo modo, coi giudici, nella prigione stessa.
Diogene era esercitato nell'arte del parlare, egli che si rivolgeva, con quel suo
tono, ad Alessandro, a Filippo, ai pirati, a chi l'aveva comprato. <Lascia tutto
ciò> a loro, che ne prendono cura, che sono coraggiosi. Tu torna ai tuoi
affari, e non allontanartene mai: torna al tuo angolo, mettiti a sedere, intreccia
sillogismi e mostrali a un altro: Non è in te, certo, l'uomo capo di città.

A NASONE
Un giorno entrò un romano col figlio e si mise ad ascoltare una lezione.
«Questo, disse Epitteto, è il tenore del mio insegnamento» — e tacque. E
poiché quello lo pregò di seguitare «Ogni arte — riprese — quando la si
impartisce, comporta fatica per il profano, per chi ne é inesperto. I prodotti
delle arti, invece, mostrano subito la loro utilità in considerazione del fine al
quale sono destinati e hanno, per la massima parte, qualcosa di attraente e di
dilettoso. Per esempio, assistere e seguire il modo con cui si apprende il
mestiere di calzolaio è seccante, ma la calzatura è cosa utile, e guardarla
d'altronde, fa piacere. Così, la tecnica del carpentiere è in sommo grado
noiosa per un profano, che assista per caso all'insegnamento, ma l'opera ne
mostra l'utilità. Questo potrai osservarlo molto meglio nel campo della
musica.
Se sei presente a una lezione di musica, ti sembrerà l'insegnamento più
seccante di tutti, invece, la produzione musicale è dolce e gradita alle
orecchie dei profani. E nel nostro caso il compito di chi filosofa ce lo
rappresentiamo così: bisogna adattare la volontà agli avvenimenti in modo
che niente di quel che accade sia contro il nostro volere, e di quel che non
accade non accada proprio ciò che noi vogliamo. Da ciò risulta che quanti
hanno ben organizzato tale compito non falliscono nei desideri e non
incorrono in ciò che vogliono evitare, menano da parte loro una vita senza
dolori, senza timori, senza turbamenti, osservando col prossimo le relazioni
naturali o acquisite — relazioni di figlio, di padre, di fratello, di cittadino, di
sposo, di sposa, di vicino, di compagno di strada, di capo, di suddito.
Così, più o meno, ci rappresentiamo il compito di chi filosofa. Rimane da
cercare, dopo ciò, come si realizzerà.
Vediamo che il carpentiere diventa carpentiere mediante un insegnamento, il
timoniere diventa timoniere mediante un insegnamento. Forse che anche nel
nostro caso non basta voler essere un uomo di perfetta virtù, ma bisogna
imparar qualcosa? Cerchiamo allora qual è. Dicono i filosofi che la prima
cosa da imparare è questa: esiste Dio, provvede all'universo, e non gli si
possono tener nascoste non solo le azioni, ma neppure i pensieri o i
sentimenti. Inoltre, quali sono gli dèi, perché, proprio nelle qualità che in essi
si trovano, deve cercare di rassomigliare loro, secondo le sue forze, chi vuole
ad essi piacere e obbedire — se la divinità è fedele deve esser fedele
anch'egli, se libera, libero anch'egli, se benefica, benefico anch'egli, se
generosa, generoso anch'egli e così di seguito, come imitatore di Dio, deve
fare e dire ogni cosa.
— Da dove bisogna cominciare, allora?
— Se acconsenti, ti dirò che per prima cosa devi intendere il significato delle
parole.
— Sicché io, adesso, non intendo il significato delle parole?
— Non l'intendi, no.
— Come le uso, allora?
— Come gli illetterati usano il linguaggio scritto, come le bestie le
rappresentazioni, perché altro è l'uso, altro l'intendimento. Se ritieni di
intenderle, prendi la parola che vuoi e saggiamoci, se veramente l'intendiamo.
— Certo, esser messi alla prova è penoso per un uomo abbastanza avanti
negli anni e che, per suo destino, ha già partecipato a tre campagne.
— Lo so anch'io. Perché tu, adesso, sei venuto da me come se non avessi
bisogno di niente. E di che cosa potresti immaginare di aver bisogno? Sei
ricco, hai figli, forse, anche moglie e molti servi. Cesare ti conosce, possiedi
in Roma un gran numero di amici, compi i tuoi obblighi, sai ricambiare il
bene a chi ti fa bene e il male a chi ti fa male. Che ti manca? Se io ti dimostro
che è la cosa più necessaria ed importante per la felicità, e che fino a questo
momento tutto hai curato più che ciò che dovevi, e se concludo con
quest'ultima osservazione: «tu non conosci che cosa è Dio, né che cos'è
l'uomo, né che cosa è il bene, né che cosa è il male», forse puoi tollerare di
non sapere quanto non ti riguarda, ma se aggiungo che ignori te stesso, come
potrai tollerarmi e subire l'esame e rimaner fermo? In nessun modo, ma
t'allontani subito malcontento. Eppure, che male ti ho fatto? A meno che
anche lo specchio non faccia male a chi è brutto, mostrandogli com'è: a meno
che anche il medico non offenda il malato, dicendogli: «Brav'uomo, in
apparenza non hai niente, in realtà, sei febbricitante: per oggi niente cibo,
bevi acqua». In questo caso nessuno commenta: «che affronto tremendo!»:
ma se dici a uno: «i tuoi desideri sono infiammati, le tue avversioni sono
meschine, i tuoi disegni contraddittori, i tuoi impulsi non accordati alla
natura, le tue opinioni inconsiderate e false» — quello subito se ne va ed
esclama: «M'ha fatto un affronto!».
Succede, nelle nostre cose, come in una fiera. Vi si conducono a vendere
mandrie di bestie e di buoi: c'è una gran folla di uomini, alcuni intenti a
comprare, altri a vendere: solo pochi sono venuti per mirare lo spettacolo
della fiera, come si svolge, perché, chi l'ha organizzata, e per qual fine. Lo
stesso accade qui, nella fiera della vita: alcuni, come mandrie di bestie, di
niente si preoccupano più che del foraggio, quanti, cioè, vi lasciate attrarre
dai beni, dai campi, dai servi, dalle cariche — tutto questo non è che
foraggio: pochi sono gli uomini che frequentano la fiera per amore dello
spettacolo.
«Che cos'è il mondo? Chi l'amministra? Nessuno? E com'è possibile che,
mentre una città o una casa non riescono a reggersi, neppure per brevissimo
tempo, senza qualcuno che le amministri e se ne prenda cura, una costruzione
così vasta e bella sia amministrata in modo tanto ordinato a caso e come
capita? C'è dunque qualcuno che la governa. Chi è?
In che modo la governa? E noi, chi siamo che da Lui fummo fatti, e per
quale compito? E abbiamo davvero un legame con lui, una relazione, o no?»
Ecco i sentimenti di questi pochi: e in conseguenza, a questo solo si
dedicano, a studiare la fiera prima di andarsene. Con quale risultato? Sono
derisi dai più: proprio come nell'altro caso gli spettatori dai trafficanti: e
anche le bestie, se potessero riflettere, deriderebbero quanti apprezzano altra
cosa che il foraggio.

A QUANTI SI OSTINANO IN CERTE LORO DECISIONI

Quando taluni ascoltano discorsi di questa sorta, che bisogna essere saldi, che
la volontà è libera per natura e senza costrizioni, mentre tutte le altre cose
sono soggette a impedimenti, a costrizioni, sono schiave e in potere altrui,
immaginano che si deve stare irrevocabilmente a qualunque decisione si sia
presa. Ma innanzi tutto, bisogna che sia sana la decisione. Voglio, sì, che ci
sia vigore in un corpo, ma il vigore d'un corpo sano, d'un corpo allenato: se
mi ti mostri col vigore d'un frenetico e te ne vanti, ti dirò: «uomo, cerca chi ti
curi. Questo non è vigore, ma debolezza, al contrario».
Qualcosa di simile accade nell'anima a quelli che mal comprendono questi
discorsi. Così, per esempio, un mio amico, senza nessun motivo, decise di
lasciarsi morire di fame. Lo seppi quand'era già il terzo giorno che aveva
cominciato il digiuno: andai da lui e gli chiesi che fosse successo.
— Ho deciso, disse.
— Bene, ma che cosa ti ci ha spinto? se la tua decisione è retta, ecco, noi ti
sediamo vicino e ti aiutiamo a uscir di vita: se illogica, mutala.
— Bisogna stare a quel che s'è deciso.
— Che fai, brav'uomo? non a tutto quel che s'è deciso, ma a quel che s'è
deciso rettamente. Perché, se adesso ti viene in testa che è notte, non cambiar
idea, se ti piace, ma restale fedele e dì pure che bisógna restar fedeli alle
proprie decisioni. Non vuoi porre questo principio e fondamento, osservare,
cioè, se la tua decisione è sana o no, e soltanto dopo, costruire su tale base
fermezza e solidità?
Ma se ci sottoponi un fondamento putrido e cascante, non si può più
costruire e quanto più vi accumulerai sopra materiale, e materiale solido,
tanto più rapido sarà il crollo.
Senza alcun motivo ci strappi alla vita un amico, un familiare, un cittadino
delle stesse città, della grande e della piccola: inoltre compi un omicidio,
distruggi un uomo che non ha commesso nessun'ingiustizia e pretendi che
bisogna stare alle proprie decisioni. Se per caso ti fosse venuto in mente di
ammazzarmi, dovevi stare alle tue decisioni?
Quello, allora, a fatica, mutò parere. Anche ai nostri giorni, taluni, non è
facile rimuoverli dai loro propositi, sicché mi sembra d'aver compreso solo
adesso il significato, che prima ignoravo, del detto corrente: «un pazzo, non
lo si può né persuadere né spezzare». Che non mi accada d'avere per amico
un saggio ch'è pazzo! Non c'è niente di più difficile a trattare. «Ho deciso».
Già: anche i pazzi! E quanto più ferme sono le loro decisioni erronee, tanto
più hanno bisogno di elleboro. Non vuoi fare quel che fanno i malati,
chiamare il dottore? «Son malato, signore: aiutami. Guarda che devo fare:
mio dovere è obbedirti».
Così pure in questo caso. «Non so che cosa devo fare e sono venuto per
impararlo». Nient'affatto, ma: «Parlami d'altro: su questo ho la mia buona
decisione». E di che altro? C'è cosa più importante e utile del convincersi che
non basta prendere una decisione e rifiutarsi dì cambiarla? È la forza dei
pazzi, questa, non dei sani.
— Voglio morire, se mi ci costringi.
— Perché, uomo? Che t'è accaduto?
— L'ho deciso.
— Meno male che non hai deciso di uccidermi: sono salvo!
— Non accetto denaro.
— Perché?
— L'ho deciso.
— Sappi che il vigore che adesso impieghi per non accettar denaro, niente
vieta che un giorno, dandogli un indirizzo illogico, lo impieghi proprio per
accettarlo, e poi dirai: «Ho deciso», com'è il caso di un corpo malato e
soggetto a flussi d'umore, in cui l'umore scorre talvolta da questa parte,
talvolta da quella.
Così pure un'anima debole non si sa da quale parte inclini: ma quando a
questa inclinazione e a questa tendenza s'aggiunge vigore, allora al male non
si può recare aiuto e diventa incurabile.

CHE NON CI CURIAMO DI USARE I NOSTRI GIUDIZI SUI BENI E SUI


MALI

— Dov'è il bene?
— Nella persona morale.
— E il male?
— Nella persona morale.
— E ciò che è né l'uno né l'altro?
— In ciò che non dipende dalla persona morale.
— Ebbene? Chi di noi ricorda questi princìpi fuori della scuola? Chi
s'esercita da sé a rispondere ai fatti come risponderebbe alle domande: «è
giorno, sì?» «Certo». E poi: «è notte?» «No» Ancora: «le stelle sono in
numero pari?»
«Non posso dirlo». Quando ti si presenta del denaro, ti sei esercitato a
rispondere come si deve: «Non è un bene»? Ti sei impratichito in questo
genere di domande o solo a confutare sofismi? Che meraviglia, allora, se nel
campo in cui ti sei esercitato, sei superiore a te stesso, nel campo che hai
trascurato, resti quel che sei? Per quale motivo l'oratore che ha coscienza di
aver scritto un bel discorso, d'averlo imparato bene a mente, d'avere una voce
gradita per pronunciarlo, è tuttavia in ansia? Perché non si contenta del puro
esercizio oratorio»
E che vuole? La lode dei presenti. Ora per acquistare abilità nell'arte s'è
esercitato, ma nella lode e nel biasimo non si è esercitato. Ha mai sentito da
qualcuno <che cos'è la lode>, che cos'è il biasimo, quale la natura di
entrambi? Quali lodi conviene ricercare, quali biasimi conviene evitare?
Quando s'è esercitato in questi esercizi conformemente a questi princìpi? E
perché ti meravigli ancora se nel campo che ha studiato, differisce dagli altri,
nel campo, invece, in cui non si è esercitato, somiglia ai più?
Così il citaredo sa suonare la cetra, canta bene, indossa una bella veste e
tuttavia, quando si presenta sulla scena, trema.
Certo, quelle cose le conosce, ma che cosa sia la folla, non lo sa, né che cosa
siano le grida e le risa della folla. Ma neppure che cosa è l'ansia sa, se è di
pertinenza nostra o altrui, se è possibile o no farla cessare. Per ciò se lo si
applaude, esce tutto gonfio: se invece lo si deride, quella povera vescica
d'aria è punta e s'affloscia.
Qualcosa di simile succede anche a noi. Che ammiriamo? Le cose esterne.
Di che ci preoccupiamo? Delle cose esterne.
E poi non riusciamo a comprendere com'è che siamo in timore, com'è che
siamo in ansia? Che succede quando
riteniamo mali gli avvenimenti che ci sovrastano? Non possiamo non essere
in timore, non possiamo non essere in ansia. E poi diciamo: «Signore Iddio,
come posso sfuggire all'ansia?» Pazzo, le mani non ce l'hai? Non te le fece
Dio? E
ora mettiti seduto e prega che non ti gocci il naso: puliscitelo piuttosto e
smettila di muover biasimi. Dunque, in questo caso Dio non t'ha dato niente?
Non t'ha dato la costanza? Non t'ha dato la magnanimità? Non t'ha dato il
coraggio? E
con le mani che hai, cerchi pure chi ti pulisca il naso? Ma di tutto questo non
ci curiamo, né ci preoccupiamo. Datemi un uomo solo al quale interessi come
va fatta una cosa, il quale si preoccupi non del risultato, ma del suo atto
stesso.
Chi si preoccupa, camminando, della sua azione? Chi, deliberando, della sua
deliberazione e non di ottenere l'oggetto della sua deliberazione? E se
l'ottiene, si inorgoglisce e afferma: «Che bella deliberazione, la nostra! Non
te lo dicevo, io, fratello, che, quando noi l'abbiamo ben studiato, l'affare non
può non riuscire nel modo previsto?» Se poi il risultato è tutto diverso, si fa
piccino, il disgraziato, e non trova niente da dire su quel che è accaduto. Chi
di voi, per questo, non ha consultato l'indovino? Chi di voi non ha praticato
l'incubazione per sapere come agire? Chi? Datemi dunque, ch'io lo veda,
questo unico uomo che da tanto tempo cerco, quest'uomo che veramente è di
nobile stirpe e di nobile natura: sia giovane, sia vecchio, datemelo.
Che meraviglia, dunque, se siamo consumati nelle cose materiali, mentre
nelle nostre azioni siamo meschini, inetti, di nessun valore, timidi,
noncuranti, insomma vere e proprie nullità? Il fatto è che non ce ne siamo
curati nel passato né ce ne interessiamo al presente. Ma se temessimo non la
morte o l'esilio, bensì il timore che ne abbiamo, ci eserciteremmo a non
incorrere in ciò che ci appare male. Ora, invece, a scuola siamo formidabili e
linguacciuti e se capita la più piccola ricerca intorno a una qualunque
questione, siamo capaci di esaminare a fondo le conseguenze: passa alla
pratica e troverai disgraziati nàufraghi. Ci piombi addosso una
rappresentazione perturbatrice e conoscerai in che cosa ci esercitavamo e ci
addestravamo. Ne segue che, a causa di tale trascuratezza, noi accumuliamo
senza fine difficoltà e ce le fìngiamo più grandi di quel che sono. Così
quand'io, mentre navigo, mi piego sull'abisso o guardo il mare all'intorno e
non riesco a scorgere la terra, subito esco fuori di senno e immagino che devo
ingozzare tutta quell'acqua se faccio naufragio, e non mi viene in mente che
me ne bastano tre orcioli. Che cosa, dunque, mi perturba? il mare? No, ma il
mio giudizio. Così pure, quando c'è il terremoto, immagino che la città stia
per crollarmi addosso: e non basta, invece, un sassolino a farmi schizzar via il
cervello?
Che cosa ci tormenta, allora, che cosa ci fa uscir di senno? Che cos'altro se
non i nostri giudizi? Chi va via e si stacca dai familiari, dagli amici, dai
luoghi, dalle relazioni abituali, che cos'altro lo tormenta se non il suo
giudizio? I bimbi si mettono subito a piangere se la nutrice s'allontana di un
passo, ma se ricevono un pasticcino, dimenticano la pena. Vuoi che
somigliamo anche noi ai bimbi? No davvero, per Zeus. Che, in realtà, penso,
non sarà certo un pasticcino a influenzarci, ma i giudizi retti. E quali sono i
giudizi retti? Quelli sui quali l'uomo deve meditare tutto il giorno per non
attaccarsi ad alcuna cosa altrui, — né ad amico, né a luogo, né a ginnasio, e
neppure al suo corpo, — e, insieme, per ricordare la legge ed averla davanti
agli occhi. Qual è la legge? Quella divina: attendere alle cose proprie, non
desiderare le altrui, usare di ciò che ci è concesso, non bramare quanto non ci
è concesso: quel che ci è tolto, restituirlo prontamente e lì per lì, grati per il
tempo che ce ne siamo serviti, se non vuoi piangere dietro la nutrice e la
mamma.
Che importa da quale oggetto ci si lascia vincere e da quale oggetto si
dipende? In che cosa sei superiore a uno che piange per una ragazzetta, se ti
lamenti per un misero ginnasio, per un misero portico, per un gruppo di
giovani e simili passatempi? Arriva un altro lamentandosi che non berrà più
l'acqua di Dirce. Perché, l'acqua Marcia è inferiore a quella di Dirce? «Ma io
ero abituato a quella». Ti abituerai egualmente a questa. Che se poi ti ci senti
attaccato, piangi pure per essa e cerca di comporre un verso sul tipo di quello
d'Euripide: Le terme di Nerone e l'acqua Marcia
Vedi come nasce una tragedia quando un fatto comune capita a uomini
dissennati.
«Quando potrò riammirare Atene e l'acropoli?» Infelice, non ti basta quel
che vedi ogni giorno? Che cosa puoi vedere più possente e più grande del
sole, della luna, degli astri, della terra tutta, del mare? Se comprendi davvero
chi governa l'universo e lo porti in te puoi desiderare ancora qualche pietra o
dei marmi elegantemente lavorati? E quando dovrai lasciare proprio il sole e
la luna, che farai? Piangerai in un cantuccio, come i bimbi? Ma dunque, a
scuola che facevi, che ascoltavi, che imparavi? Perché ti dichiaravi filosofo,
mentre potevi dichiarare la verità e dire: «ho studiato qualche introduzione
alla filosofìa, ho letto qualche trattato di Crisippo, ma non ho toccato neppure
la soglia della filosofìa? Che parte ho in quell'opera in cui Socrate ebbe tanta
parte, egli che morì a quel modo e che visse a quel modo? in quell'opera in
cui Diogene ebbe tanta parte?» T'immagini uno di costoro che piange o si
adira perché non vedrà più quello o quella, perché non vivrà più in Atene né a
Corinto, ma, all'occorrenza, in Susa o in Ecbatana? Colui che a suo piacere
può andar via dal banchetto e abbandonare il gioco, si lamenta ancora se
rimane? Non continua ad assistervi come a un gioco, finché l'anima sua ne
sente l'attrattiva? Indubbiamente, un uomo siffatto sopporterà l'esilio
perpetuo o l'esilio della morte, se tale è la condanna.
Non vuoi essere svezzato alla tua età come i bambini e prendere un alimento
più consistente, senza piangere per le poppe o per le nutrici — che sono
pianti di vecchie? —
«Ma se mi staccherò da loro, le addolorerò». Le addolorerai tu?
Nient'affatto: ma, come te, il loro giudizio. Che devi fare, allora? Gettalo via,
ed esse il loro, se vogliono far bene: altrimenti, piangeranno — ma per colpa
loro.
Uomo, come si dice, perdi una buona volta la testa per la felicità, per la
libertà, per la magnanimità. Alza infine il capo come chi s'è staccato di
servitù, osa levare gli occhi a Dio e dirgli: «Serviti di me, oramai, per quel
che vuoi: i miei pensieri sono i tuoi, io sono tuo: niente rifiuto di quel che ti
pare: conducimi dove vuoi, cingimi il vestito che vuoi. Vuoi ch'io abbia
autorità, che viva da privato, che rimanga in patria, che vada in esilio, che sia
povero, che sia ricco?
Io ti giustificherò di tutto questo davanti agli uomini; mostrerò la natura di
ogni cosa». E invece, no: ma seduto in un ventre di vacca aspetta che la
mamma ti porti da mangiare. Se Eracle fosse rimasto a casa, in mezzo ai suoi,
chi sarebbe stato? Euristeo, non certo Eracle. Ebbene: percorrendo il mondo,
quanti familiari si procurò, quanti amici? Eppure niente ebbe più amico di
Dio; per questo fu creduto figlio di Dio e lo era davvero. Per obbedire a Lui,
percorse la terra purificandola dall'ingiustizia e dall'iniquità. Tu, però, non sei
Eracle e non puoi purificare gli altri dai loro mali: non sei Teseo per
purificare l'Attica dai suoi: purificati dai tuoi, allora. Strappa, adunque, dalla
tua mente, invece di un Procuste e di uno Scirone, l'affanno, il timore, il
desiderio, l'invidia, la malevolenza, l'avarizia, la mollezza, l'intemperanza.
Tutto ciò non si può cacciar via se non levando lo sguardo à Dio solo, a Lui
solo aderendo, ai suoi ordini consacrandosi. Ma se desideri altro, seguirai tra
pianti e gemiti chi è più forte di te, cercando sempre al di fuori la felicità,
senza poterla mai trovare, perché la cerchi dove non è, e tralasci di cercarla
dove è.

COME BISOGNA ADATTARE LE PRENOZIONI AI CASI


PARTICOLARI

Qual è il primo compito di chi si da a filosofare? Gettare via la presunzione,


perché è impossibile ci si metta a imparare ciò che si presume di sapere. Di
quel che s'ha da fare o tralasciare, del bene e del male, del bello e del brutto,
tutti, a torto o a ragione, parliamo e ci rechiamo dai filosofi, e aggiungiamo
lodi e biasimi, censure e riprensioni, trinciando giudizi e distinguendo le
azioni belle e brutte. Ma perché ci indirizziamo dai filosofi? Perché vogliamo
apprendere quel che riteniamo di non sapere. E di che si tratta? Dei princìpi.
Ciò di cui parlano i filosofi, lo vogliamo imparare perché è ingegnoso e
acuto; alcuni, poi, per trarne vantaggio. Ma è ridicolo pensare che chi vuole
apprendere una cosa ne apprenderà un'altra, o che, d'altra parte, farà progressi
in ciò che non impara. Quel che inganna la maggior parte degli uomini è
proprio ciò che ha ingannato anche Teopompo l'oratore, il quale biasima
perfino Platone perché voleva definire ogni cosa. Che dice, in realtà?
«Nessuno di noi ha parlato prima di te di bene o di giusto? ovvero, senza
comprendere il senso di ognuno di questi termini, noi mandiamo suoni
insignificanti e inconsistenti?» Chi ti dice, Teopompo, che noi non ne
avevamo, di ciascuno, idee naturali e prenozioni? Ma non è possibile adattare
le prenozioni alle realtà corrispondenti, senza averle prima bene spiegate e
avere anche osservato quale realtà conviene porre sotto ciascuna prenozione.
Puoi dire lo stesso anche dei medici: «Chi di noi non parlava di 'sano' e di
'malato' prima che ci fosse Ippocrate? Ovvero questi termini li facevamo
risuonare a vuoto?» Abbiamo, in realtà, una certa prenozione anche del
«sano», ma non siamo in grado di applicarla. Per ciò uno dice: «persisti nella
dieta», e l'altro: «dagli da mangiare»; e un altro «fagli un salasso» e un altro,
infine: «applicagli delle ventose». Qual è il motivo? E quale se non che non
si è in grado di adattare convenientemente ai casi particolari la prenozione del
sano?
Lo stesso succede anche qui per quel che riguarda la vita. Di bene e di male,
di giovevole e di non-giovevole, chi di noi non ne parla? Chi di noi non ha la
prenozione di ciascuno di questi termini? Ma bene spiegata e perfetta?
Mostrami ciò. «Come mostrartelo?» Adattala in maniera conveniente alle
realtà particolari. Ma ecco, Platone mette le sue definizioni sotto la
prenozione dell'utile, tu, invece, sotto quella dell'inutile. È possibile che
cogliate nel segno tutt'e due? Come potrebbe esserlo? Non adatta uno la
prenozione del bene a ciò che è ricchezza, l'altro no? 0 a ciò che è piacere o
salute? Insomma, se noi tutti, che diciamo questi nomi, avessimo di ciascuno
una piena conoscenza e non dovessimo faticare per spiegare le prenozioni,,
perché verremmo a contrasto, perché polemizzeremmo, perché ci
biasimeremmo a vicenda?
E perché adesso mettermi avanti le nostre polemiche e ricordarmele? Se tu
adatti convenientemente le prenozioni, perché sei infelice, perché sei
attorniato da impedimenti? Lasciamo, per ora, il secondo tema della filosofìa,
quello che riguarda gli impulsi e l'abilità di guidarli in conformità col dovere.
Lasciamo pure il terzo tema sull'assenso. Ti fo grazia di tutto questo.
Rimaniamo al primo, che offre una prova quasi palpabile della nostra
incapacità di adattare bene le prenozioni. Desideri adesso ciò che è possibile
in generale e ciò che è possibile a te? E perché sei pieno di impedimenti?
perché sei infelice? Non cerchi adesso di evitare l'inevitabile? E perché
allora incorri in un ostacolo, perché sei disgraziato? Perché non si realizza ciò
che vuoi e ciò che non vuoi si realizza? È questa la prova più piena della tua
infelicità e della tua disgrazia. Desidero qualcosa e non si realizza: c'è
creatura più infelice di me? Non desidero una cosa ed ecco si realizza: c'è
creatura più infelice di me?
Proprio perché non riuscì a sopportar ciò, Medea giunse a uccidere i figli.
Sotto questo rispetto, per lo meno, ella mostrò un grande spirito: ebbe la
rappresentazione esatta di ciò che significa non ottenere il proprio intento. «E
allora, io mi vendicherò di chi m'ha fatto ingiustizia e mi ha disprezzato. Ma
a che giova ridurlo in uno stato così miserabile?
Ebbene, come si fa? Uccido i figli. Ma punirò anche me stessa. Che
m'importa?» È lo scoppio d'un'anima dalla forza tremenda. Ella non sapeva
dove risiede il potere di fare ciò che vogliamo, non sapeva che non si deve
cercarlo di fuori né sostituendo né trasformando le cose. Non voler tuo
marito, e non ci sarà niente di ciò che desideri che non si realizzi.
Non voler ch'egli a ogni costo abiti con te, non voler rimanere a Corinto. In
una parola, non voler altro se non ciò che vuole Dio. Chi ti porrà ostacolo,
allora? chi ti costringerà? Nessuno: come nessuno può porre ostacolo o
costringere Zeus.
Con una guida siffatta, in unione di volontà e di desideri con lui, perché temi
ancora di non riuscire? Fa' che i tuoi desideri e le tue avversioni s'attacchino
alla povertà e alla ricchezza: non riuscirai nel tuo intento, andrai fuori di
strada.
Alla salute: sarai disgraziato: alle cariche, agli onori, alla patria, agli amici,
ai figli, insomma a qualcosa che non dipende dal tuo arbitrio. Ma fa' che
s'attacchino a Zeus e agli altri dèi: affidali ad essi, li governino essi, insieme
ad essi si dispongano in ordine: come potrai essere ancora infelice? Ma se sei
invidioso, povero disgraziato, se senti compassione e gelosia, se tremi e non
lasci passare un giorno solo senza lamentarti di te stesso e degli dèi, come
puoi affermare di aver avuto un'educazione filosofìca? Quale educazione,
buon uomo? Perché hai fatto dei sillogismi o degli argomenti equivoci? Non
vuoi disimparare, se è possibile, tutto ciò, e ricominciare da capo,
perfettamente convinto che finora non hai neppure sfiorato la materia, e poi,
cominciando di qui, costruire tutto quanto viene di seguito, in modo che
niente accada contro la tua volontà, niente, invece, non accada secondo la tua
volontà?
Datemi un giovane solo che sia venuto a scuola con queste intenzioni, e
diventato campione di quest'idea dica: «A tutto il resto io dico addio; mi
basta di poter vivere senza ostacoli e senza dolori, di portar la testa alta in
faccia agli avvenimenti da uomo libero, di guardare il cielo da amico di Dio
senza il timore di ciò che possa accadere». Tale mi si mostri uno di voi, onde
io dica: «Vieni, giovane, nel tuo dominio: è tuo destino essere ornamento
della filosofìa; tuoi sono questi beni, tuoi i libri, tuoi i ragionamenti». In
seguito, quando s'è affaticato ed esercitato su questo tema, torni da me e mi
dica: «Io voglio essere pure libero da passioni e da turbamenti, voglio sapere
— come s'addice a un uomo pio, amante della filosofìa, diligente — qual è il
mio dovere verso gli dèi, verso i genitori, verso i fratelli, verso la patria,
verso gli stranieri.» Avvicinati anche a questo secondo tema, perché
anch'esso è tuo. Ma mi sono già esercitato anche in questo secondo tema.
Quel che desideravo era di possederlo in modo sicuro e inconcusso e non
solo quando sono sveglio, ma anche se dormo, se ho bevuto, se sono
malinconico.
«Uomo, tu sei un dio, tu hai grandi disegni». E invece no: al contrario: «io
voglio sapere che cosa dice Crisippo nella sua dissertazione sul Mentitore».
«Ma non ti vai ad impiccare, tu e il tuo proposito, disgraziato? Che ti
gioverà? La leggerai tutt'insieme piangendo e la reciterai tremando agli altri.
Ecco come vi comportate anche voi».
«Vuoi che ti faccia una lettura, fratello, e tu poi la fai a me?»
«Scrivi, amico, in modo mirabile».
«E tu magnificamente, nello stile di Senofonte».
«Tu in quello di Platone».
«E tu in quello di Antistene».
Così, dopo aver narrato l'uno all'altro le vostre illusioni, ritornate allo stesso
punto: avete gli stessi desideri di prima, le stesse avversioni, gli stessi
impulsi, gli stessi propositi, gli stessi progetti: domandate le stesse cose, vi
preoccupate delle stesse cose. E poi non cercate chi vi richiami, ma montate
in collera all'udire uno di questi consigli. E dite pure: Vecchio senza amore!
quand'io me ne sono andato, non ha pianto e non ha detto: «Verso quali
difficoltà te ne vai, figlio mio! se riesci a salvarti, accenderò la lucerna.»
Sono espressioni di chi ama, queste? È proprio un grande bene, per costui,
riuscire a salvarsi! merita davvero che sia ricordato con le lucerne! Certo, tu
dovresti essere immortale e immune da malattia.
Tale presunzione, ripeto, per cui si crede di sapere» qualcosa di veramente
utile, bisogna gettarla via prima di accostarci al ragionamento fìlosofìco,
come facciamo nel caso della geometria e della musica: altrimenti, saremo
ben lontani dal notare il più piccolo progresso, se pure esamineremo tutte le
introduzioni e i trattati di Crisippo, insieme a quelli di Antipatro e di
Archedemo.

COME BISOGNA COMBATTERE LE RAPPRESENTAZIONI

Ogni abitudine e ogni capacità si mantiene e si irrobustisce con le azioni


corrispondenti, quella del camminare col camminare, quella del correre col
correre. Se vuoi essere bravo a leggere, leggi, a scrivere, scrivi. Ma se per
trenta giorni di seguito ti astieni dal leggere e ti metti a fare altre cose,
t'accorgerai del risultato. Così, dopo essere rimasto per dieci giorni inerte sul
letto, alzati e cerca di intraprendere un viaggio un po' lungo: vedrai come
sono indebolite le tue gambe! Insomma, se vuoi fare qualcosa, prendi
l'abitudine di farla: se non la vuoi fare, non farla, ma abituati a compierne
un'altra al posto di quella. Lo stesso accade per gli stati dell'anima: quando ti
adiri, sappi che non ti è sopraggiunto soltanto questo male, ma che hai
irrobustito la tua abitudine e, in certo senso, hai aggiunto esca al fuoco.
Quando hai ceduto alla passione carnale, rifletti che non è questa l'unica
sconfitta, ma che hai anche nutrito e irrobustito la tua intemperanza. È
impossibile, infatti, che in forza delle azioni corrispondenti non s'innestino
nell'animo le abitudini e le capacità che prima non v'erano, e che non si
svolgano e acquistino vigore quelle che già c'erano.
In questo modo, certamente, vengon su, secondo i filosofi, le infermità
morali. Perché, se appena hai il desiderio del denaro, la ragione, cui ci si
appella, fa prendere coscienza del male, si placa il desiderio e la parte
direttrice dell'anima è ristabilita nell'antica condizione: se, invece, non ti
appelli a niente per curarlo, essa non tornerà più in quella condizione, ma,
eccitata in senso opposto dalla rappresentazione corrispondente, più presto
che prima s'infiamma al contatto del desiderio. Ora se questo accade di
continuo, finisce per formarsi un callo e l'infermità fortifica l'avarizia. Chi ha
avuto la febbre, una volta ristabilito, non è più come prima, a meno che non
si sia completamente guarito. Qualcosa di simile accade anche per le
affezioni dell'anima. Rimangono nell'anima delle tracce e delle lividure, e, se
non si riesce a cancellarle del tutto, subito, al primo colpo che si riceve nello
stesso punto, non si formano più lividure, ma piaghe.
Quindi, se non vuoi essere collerico, non nutrire la tua abitudine, non porle
niente vicino che possa alimentarla.
Calmala, quando si presenta la prima volta, e conta poi i giorni nei quali non
vai in collera: «Avevo l'abitudine di andare in collera tutti i giorni, ora,
invece, è un giorno intero che non m'adiro, ecco sono due, ecco son tre!» E se
l'eviterai per trenta giorni, fa' un sacrifìcio a Dio. Perché l'abitudine dapprima
s'indebolisce, poi sparisce del tutto. «Oggi non mi sono addolorato, né il
giorno dopo, né in seguito per due o tre mesi, ma mi sono tenuto in guardia,
quando accadeva qualcosa che potesse provocarmi». Sappi che le cose vanno
bene per te. «Oggi, alla vista di un bel fanciullo o di una bella ragazza non mi
sono detto: ‘Oh, si giacesse qualcuno con lei!’ e ‘Beato suo marito!’» Perche
chi lo dice, direbbe anche: Beato l'adultero! Neppure mi rappresento le scene
che seguono: lei che si presenta, che si sveste, che mi si mette a giacere
accanto... Mi carezzo la fronte e dico: «Bravo, Epitteto, hai risolto un sofisma
piccolo e fino, molto più fino del
‘Dominatore’ ». Se poi, nonostante che la ragazzetta voglia e mi faccia cenni
e mi mandi a chiamare, nonostante che mi tocchi e mi si metta accanto, io mi
tolgo di lì e vinco, ecco già risolto un sofisma superiore a quello del
Mentitore o del Riposante. Di questo è ben giusto andar fieri, e non di
proporre il Dominatore. Come può avvenir ciò? Fa' che tua volontà sia
appagarti finalmente di te stesso, apparire bello agli sguardi di Dio: che tuo
desiderio sia diventare puro, d'accordo col tuo 'io' puro e d'accordo con Dio.
E quando ti capita una rappresentazione di questa maniera va' a offrire un
sacrificio espiatorio, come dice Platone, va' supplice al tempio degli dèi
salvatori: basta, anche, che ti apparti in compagnia degli uomini nobili e
virtuosi, allo scopo di paragonare la tua con la loro vita, sia che trovi il tuo
modello tra i vivi o tra i morti. Vattene da Socrate e guardalo che giace
presso Alcibiade e ne deride la bellezza. Considera quale mai vittoria ebbe
coscienza d'aver riportato, quale vittoria olimpica! e quale posto si guadagnò
tra i successori di Eracle!
Sicché, a ragione, per gli dèi, lo si poteva accogliere con queste parole:
«Salve, uomo mirabile!» — lui, certo, e non questi putridi pugnatori e
pancraziasti, o i loro simili, i gladiatori. Ponendoti di fronte questo esempio
vincerai la tua rappresentazione, e non sarai trascinato da essa. Per
cominciare, non lasciarti stordire dalla rapidità del colpo, ma dì così:
«Aspetta un po', rappresentazione: lasciami vedere chi sei e qual è il tuo
oggetto, lascia ch'io ti provi». Dopo questo, non permettere che si svolga,
dipingendoti le conseguenze; altrimenti se ne va, portandoti dove vuole.
Piuttosto, in luogo di questa, inducine un'altra bella e nobile, e quella impura
cacciala via. Se prendi l'abitudine di esercitarti così, vedrai che spalle ti si
svilupperanno, che muscoli, che vigore: ora, invece, hai solo chiacchiere, e
niente più.
Ecco il vero atleta, quello che si esercita contro siffatte rappresentazioni.
Aspetta, disgraziato, non lasciarti trascinare via. Grande è il combattimento,
impresa divina, per il regno, per la libertà, per la felicità, per
l'imperturbabilità.
Ricordati di Dio, invoca il suo aiuto e la sua assistenza, come i naviganti
invocano i Dioscuri nella tempesta. Quale tempesta più grande di quella
scatenata dalle rappresentazioni violente e ribelli alla ragione? E questa
tempesta, che altro è se non una rappresentazione? Certo, togli il timore della
morte e porta tuoni e fulmini, quanti ne vuoi; vedrai che pace e serenità c'è
nella parte direttrice dell'anima! Ma se sconfìtto una volta, dici che vincerai
un'altra volta, e questo ragionamento si ripeterà ancora, sappi che ti ridurrai a
tal punto di miseria e di debolezza che non potrai renderti più conto dei tuoi
errori medesimi, anzi comincerai a provvederti di scuse per giustificare il tuo
agire, e così confermerai la verità del verso di Esiodo: Lotta sempre coi guai
chi tutto rimanda al domani.

CONTRO QUELLI CHE MUTUANO DAI FILOSOFI SOLO


L’ARGOMENTAZIONE

L'argomento dominatore sembra sia sorto in virtù dei princìpi seguenti. Ci


sono tre proposizioni che reciprocamente si oppongono due contro una e
sono:
a) tutto ciò che è vero nel passato è necessario;
b) al possibile non segue l'impossibile;
c) possibile è ciò che non è vero nel presente, né nel futuro.
Consapevole di tale contraddizione, Diodoro sfruttò la verisimiglianza delle
prime due, per stabilire che «non è possibile ciò che non sia vero nel presente
né nel futuro».
Ora, ecco che un altro accetterà la terza e la seconda e cioè «possibile è ciò
che non è vero nel presente né nel futuro» e «al possibile non segue
l'impossibile», per escludere la prima «tutto ciò che è vero nel passato è
necessario», come pare facessero i discepoli di Cleante, con i quali Antipatro
era pienamente d'accordo.
Altri, invece, accetteranno la terza e la prima, e cioè «possibile è ciò che non
è vero nel presente né nel futuro» e « tutto ciò che è vero nel passato è
necessario» e rigetteranno la seconda, ammettendo quindi che al possibile
segue l'impossibile.
Ma tutt'e tre insieme, queste proposizioni, non c'è modo di accettarle, a causa
della loro reciproca contraddizione.
Ora, se uno mi chiede: «E tu, quale ne accetti?» gli risponderò che non lo so:
però ho appreso, come notizia, che Diodoro ne accettava alcune, la scuola di
Pantoide, penso, e di Cleante le altre, la scuola di Crisippo, infine, le altre
ancora.
— E tu, come la pensi?
— Non mi sono mai messo a saggiare le mie rappresentazioni, a paragonare
le varie affermazioni e a formarmi un giudizio mio proprio in proposito. Per
ciò non sono affatto diverso da un maestro.
— Chi era il padre di Ettore? — Priamo.
— E i fratelli?
— Alessandro e Deifobo.
— E la madre di loro, chi era?
— Ecuba. È, questa, una notizia che ho appreso.
— Da chi?
— Da Omero. Ma credo che anche Ellanico e altri come lui trattino delle
stesse questioni. Così, pure io, rispetto all'argomento dominatore che cosa
posso dire di più? Certo, se fossi vanitoso, potrei, specie durante un simposio,
far colpo sui presenti enumerando quanti ne hanno scritto:
«Ha scritto di ciò anche Crisippo in modo mirabile, nel primo libro dei
Possibili. Anche Cleante ne ha scritto un trattato a parte, e così Archedemo.
Ne ha scritto anche Antipatro, non solo nell'opera sui Possibili, ma anche in
modo speciale nell'opera sull'argomento dominatore. Non hai letto il
trattato?».
— Non l'ho letto.
— Leggilo.
Che profitto ne ritrarrà? Sarà più insulso e più importuno di adesso. Tu, per
esempio, che altro hai tratto dalla lettura?
Che giudizio ti sei fatto in proposito? Certo, potrai parlarci di Elena e di
Priamo e dell'isola di Calipso che non è esistita mai e mai esisterà.
In questa materia non ha grande importanza possedere le notizie, se non ci si
sia formato un giudizio proprio. Ma è nel campo morale che avvertiamo tale
necessità più che in quello letterario.
— Parlami del bene e del male.
— «Ascolta:
Delle cose che esistono, alcune sono buone, altre cattive, altre indifferenti.
Buone sono le virtù e ciò che partecipa delle virtù, cattive sono i vizi e ciò
che partecipa dei vizi; indifferenti quelle che stanno tra i due, e cioè la
ricchezza, la salute, la vita, la morte, il piacere, la fatica».
Come lo sai?
«Lo scrive Ellanico nella sua Storia d'Egitto». Che importa dire che lo scrive
Ellanico o Diogene nella sua Etica, oppure Crisippo o Cleante? Hai saggiato
una di queste proposizioni e te ne sei formato un tuo giudizio proprio?
Mostrami come sei solito affrontare la tempesta su una nave. Ricordati di
questa distinzione quando la vela stride e uno, mentre tu gridi di terrore, ti si
mette intorno, impertinente, e dice: «Ripetimi, in nome degli dèi, quel che
asserivi poco fa: è un male far naufragio? O ha rapporto col male?» Non
alzerai il bastone per colpirlo? «Che hai da spartire con me, uomo? Stiamo
morendo e tu vieni e ti metti a scherzare?» E se Cesare ti manda a chiamare
in seguito a un'accusa, ricordati della distinzione, nel caso che uno venendoti
incontro, mentre arrivi pallido e tremante, ti dica: «Perché tremi, uomo? Di
che affare si tratta? forse che dall'interno della reggia Cesare distribuisce a
chi gli si presenta, virtù e vizi?» «Perché ti metti anche tu a scherzare coi
miei mali?» «Eppure dimmi, o filosofo, perché tremi? Non è la morte il
pericolo che ti minaccia, o la prigione, o la pena corporale, o l'esilio o il
discredito? C'è dell'altro? Ed è un male tutto ciò? o ha rapporto col male? E
tu, come le chiamavi queste cose?» «Che hai da spartire con me, uomo? Mi
bastano i miei mali.» Parli proprio bene. Ti bastano i tuoi mali, la bassezza
d'animo, la paura, la millanteria, di cui ti millantavi seduto sui banchi di
scuola. Perché ti facevi bello d'ornamenti non tuoi? Perché ti chiamavi
stoico?
Controllatevi, dunque, nelle vostre azioni e troverete a quale setta
appartenete. La maggior parte di voi li troverete Epicurei, alcuni pochi
Peripatetici, e, per giunta, infiacchiti costoro. Dov'è che voi mostrate a fatti di
considerare la virtù come, anzi, più di tutto il resto? Mostratemi uno stoico,
se ne avete uno. Dove e come? Ma rimasticatori di discorsucci stoici, infiniti.
E costoro non sanno trattare meno bene i discorsucci degli Epicurei? E quelli
dei Peripatetici non li sanno rifinire con la stessa garbatezza? Ma allora chi è
stoico? Noi chiamiamo fidiaca una statua modellata con l'arte di Fidia: così
pure, mostratemi un uomo modellato sulle convinzioni che professa.
Mostratemi uno malato e felice, in pericolo e felice, morente e felice, esiliato
e felice, diffamato e felice. Mostratemelo: io desidero, per gli dèi, di vedere
uno stoico.
Ma voi non avete la possibilità di mostrarmi un uomo modellato in tal guisa:
mostratemene, almeno, uno che si sta modellando, uno che si è orientato in
questa direzione. Fatemi questo piacere: non ricusate di farmi vedere uno
spettacolo che, vecchio qual sono, non ho contemplato ancora. Pensate di
farmi vedere lo Zeus o l'Atena di Fidia, creazioni d'avorio e d'oro? L'anima
mi mostri uno di voi, l'anima d'un uomo che vuole concordare nei suoi
sentimenti con Dio, e non biasimare né Dio né uomo, non fallire nelle sue
imprese, non incorrere in nessun ostacolo, non andare in collera, non cedere
all'invidia né alla gelosia, d'uno, insomma, (perché dovrei usare delle
circonlocuzioni?) che desidera diventare dio da uomo che è, e, pur in questo
povero corpo mortale, medita sempre sulla comunione con Dio.
Mostratemelo. Ma non ne avete la possibilità. E perché allora vi ingannate
da voi, e vi burlate degli altri? E perché, rivestiti d'un abito altrui, andate
dattorno, ladri e usurpatori di denominazioni e di cose che non vi si addicono
affatto?
Ed ecco, ora io sono il vostro insegnante e voi siete istruiti da me. Questo è il
mio progetto, rendervi del tutto affrancati da ogni impedimento, dalla
necessità, dagli ostacoli, liberi, prosperi, felici, con lo sguardo levato a Dio in
ogni circostanza piccola o grande: voi state qui per apprendere e praticar ciò.
Perché dunque non compite l'opera, se anche voi avete da parte vostra un
progetto conveniente ed io, dalla mia, ho, oltre il progetto, i mezzi
convenienti? Che cosa fa difetto? Quando vedo un artista che ha il materiale
a portata di mano, aspetto l'opera. Nel nostro caso l'artista c'è, e c'è il
materiale. Che ci manca, allora? La cosa non può essere insegnata, forse? Sì;
è insegnabile. Non è allora in nostro potere? Ma è la sola, al contrario, tra
tutte le altre: perché la ricchezza non è in nostro potere, né la salute né la
reputazione né, in una parola, alcun'altra cosa fuorché il retto uso delle
rappresentazioni. Questo solo è naturalmente libero da ogni ostacolo, da ogni
impedimento. E perché allora non compite l'opera? Ditemene il motivo, che
certo dipende da me o da voi o dalla natura della cosa. Ma la cosa in sé è
possibile, anzi è la sola in nostro potere. Rimane allora che dipenda da me o
da voi, o, con più verità, da tutt'e due. E allora? Volete che incominciamo
finalmente a occuparci di tale progetto? Lasciamo quel che s'è fatto finora.
Incominciamo soltanto, fidatevi di me e vedrete.

CONTRO GLI EPICUREI E GLI ACCADEMICI

Le proposizioni vere ed evidenti le adoprano di necessità anche quelli che le


contraddicono: anzi la prova più grande dell'evidenza d'un'affermazione è, si
può dire, il fatto che sia trovata necessaria e utilizzata da quello stesso che la
contraddice. Per esempio, se uno nega l'esistenza d'una verità universale, è
chiaro che deve ammettere l'asserzione contraria: «non esiste verità
universale». Schiavo, neppur questa devi ammettere. E, in realtà, cos'altro
significa questa asserzione se non che, se esiste un'affermazione universale,
essa è falsa? Ancora: si presenta uno e dice: «sappi che non si può conoscere
niente ma tutto è incerto» o un altro: «credi a me e ne trarrai giovamento: non
devi credere a nessun uomo» e infine un terzo: «impara da me, uomo, che
non si può imparare niente: te lo dico io e te l'insegnerò, se vuoi».
In che cosa differiscono da costoro quelli — a chi alludo? — che si dicono
Academici? «O uomini, assentite a questo: nessuno deve assentire: credeteci:
non si può credere a nessuno.»
Allo stesso modo anche Epicuro, quando vuole sopprimere la comunanza
naturale degli uomini tra loro, fa appello precisamente a ciò che distrugge.
Che dice, in realtà? «Non v'ingannate, uomini, non deviate, non errate: non
c'è tra gli esseri ragionevoli alcuna comunanza naturale che li unisca l'uno
con l'altro — credete a me. Chi dice il contrario v'inganna e sbaglia nel suo
ragionamento.» Che t'interessa? Lascia che ci inganniamo. Ci rimetterai,
forse, se noi altri tutti siamo convinti che esiste una comunanza naturale tra
gli uomini, e che va in ogni modo mantenuta? Ne trarrai, anzi, molto più
vantaggio e sicurezza. Uomo, perché ti preoccupi di noi, perché vegli per noi,
perché accendi la lucerna, perché ti alzi così di buon'ora, perché compili libri
tanto ponderosi? Per timore, forse, che qualcuno di noi si inganni sugli dèi,
credendoli solleciti degli uomini, oppure che ci si suggerisca un'essenza del
bene diversa dal piacere? Perché se è così, gettati a dormire, fa' il verme,
come meriti, a tuo giudizio: mangia, bevi, accoppiati, va' al cesso, e russa.
Che ti importa di quel che gli altri ne pensano, se le loro idee sono giuste o
no? Che c'è da spartire tra te e noi? Però, delle pecore ti interessi, perché ci si
offrono per farsi tosare, mungere e alla fine abbattere. E non sarebbe
desiderabile che anche gli uomini, ammansiti e incantati dagli Stoici,
potessero assopirsi e offrirsi a te e ai tuoi simili pronti a essere tosati e munti?
Ai tuoi compagni epicurei dovevi tenere tali discorsi e non nasconderli a loro,
anzi persuaderli, specialmente loro, prima di tutti, che per natura siamo
socievoli, che la temperanza è un bene, perché la tua posizione fosse sicura:
non è vero? O converrà custodire tale socialità di rapporti con alcuni solo,
con altri no? E con chi conviene mantenerla? Con chi, a sua volta, la
mantiene o con chi la distrugge? E chi la distrugge più di voi che sostenete
tali dottrine?
Che cosa, dunque, svegliava Epicuro dal sonno e lo costringeva a scrivere
quel che scrisse? Che cos'altro se non quel che v'ha di più forte nell'uomo, la
natura, che piega ciascuno alla sua volontà, anche se rilutta e geme?
«Siccome ti piacciono queste dottrine antisociali — ella dice — scrivile,
lasciale agli altri, resta sveglio per esse e fatti, tu stesso, col tuo agire,
accusatore delle tue tesi». E poi diciamo di Oreste che, inseguito dalle Erinni,
si svegliava di soprassalto dal sonno! Ma con Epicuro non erano più crudeli
le Erinni e le Vendicatrici? Lo svegliavano mentre dormiva e non lo
lasciavano stare in calma, anzi lo costringevano ad annunciare i suoi mali,
come ai Galli fan fare la follia e il vino.
Tanto potente e invincibile è la natura umana! Come potrebbe una vite
svilupparsi non come vite, ma come olivo o l'olivo non come olivo ma come
vite? È impossibile, è inconcepibile. Dunque l'uomo non può distruggere
completamente le tendenze umane, e quelli che si castrano non sono in grado
di castrare i desideri dell'uomo. Lo stesso ha fatto Epicuro: ha amputato tutte
quelle che sono le funzioni dell'uomo, il capo di casa, il cittadino, l'amico, ma
i desideri propri dell'uomo non li ha amputati. E non poteva: non più che gli
infelici Academici non possono rigettare né accecare le loro percezioni
sensoriali pur se a questo s'appuntino sopra tutto i loro sforzi. Oh, quale
miseria! Si ricevono da natura le regole e le norme per scoprire la verità e
non ci si industria a completarle e a compiere ciò che manca, anzi, tutt'al
contrario, se anche si possiede un mezzo per conoscere la verità, si cerca di
estirparlo e di distruggerlo.
— Che dici, filosofo? Che pensi della pietà e della santità?
— Se vuoi, proverò che sono un bene.
— Sì, prova così, affinchè i nostri cittadini si convertano e onorino la
divinità e cessino una buona volta di restare indifferenti di fronte a questioni
della massima importanza.
— Ed hai le prove?
— Certo, e te ne sono grato.
— Dunque, poiché questa posizione ti garba tanto, senti quella contraria:
«gli dèi non esistono, e se anche esistono, non si prendono cura degli uomini,
né c'è alcunché di comune tra noi ed essi: questa pietà e santità, di cui si
ciarla presso i più, è una menzogna di impostori e di sofisti, o, per Zeus, di
legislatori che vogliono atterrire e trattenere i cattivi.»
— Bene, filosofo: hai reso proprio di grandi servigi ai nostri concittadini, hai
conquistato i nostri giovani già inclini a disprezzare le cose divine.
— Ma dunque! Non ti garba questo? E allora prendi: ecco come la giustizia
è un bel niente, come il pudore è pazzia, come il padre è un bel niente, come
il figlio è un bel niente.
— Bene, filosofo: continua, persuadi i giovani, onde moltiplichiamo il
numero di chi crede e parla come te. Sono questi princìpi che ci hanno reso
grandi le città ben governate? Sono questi princìpi che hanno fatto
Lacedemone? E Licurgo, con le sue leggi e il suo sistema di educazione, ha
inculcato ai suoi concittadini queste convinzioni che cioè la schiavitù non è
più brutta che bella, né la libertà più bella che brutta? i morti alle Termopili
morirono per queste dottrine? e per quali altri princìpi professano, si sposano,
fanno figli, compiono il loro dovere di cittadini, compiono le funzioni di
sacerdote e di profeta. Di chi? Di divinità inesistenti. E sono loro a
interrogare la Pizia per sapere delle menzogne e spiegare ad altri gli oracoli.
Oh, grande spudoratezza e impostura!
Uomo, che fai? ti confuti da te, ogni giorno, e non vuoi lasciare queste
frigide argomentazioni? Quando mangi, ove porti la mano? alla bocca o
all'occhio? Quando prendi un bagno, dove entri? Quando hai chiamato
pignatta una scodella o mestolo uno spiedo? S'io fossi schiavo di uno di
costoro, dovessi pure essere fustigato a sangue ogni giorno, non cesserei mai
dal tormentarlo.
— Ragazzo, metti l'olio nel bagno, — io prenderei un po' di garo, tornerei e
glielo verserei sulla testa.
— Che è ciò?
— Ho avuto una rappresentazione indistinta da quella dell'olio, anzi del tutto
uguale, lo giuro per il tuo genio.
— Dammi la tisana — ed io gli porterei una tazza colma di aceto e garo.
— Non t'ho chiesto la tisana?
— Sissignore: e questa è la tisana.
— Ma questo non è aceto e garo?
— Come? che cos'è se non la tisana?
— Prendi e odora, prendi e gusta.
— E come fai a saperlo dal momento che le sensazioni ci ingannano?
Mi basterebbero tre o quattro servi come me, con gli stessi sentimenti miei,
per farlo crepare di rabbia e impiccare oppure mutare d'opinione. Ora, invece,
costoro ci scherniscono giacché usano di tutti i doni di natura che poi
sopprimono nelle loro dottrine. Uomini davvero riconoscenti e timorati! Se
non altro, sarebbe come se, mangiando ogni giorno il pane, osassero poi
affermare: «non sappiamo se esiste una Demetra o una Core o un Plutone».
Senza dire che, pur godendo della notte e del giorno, della successione delle
stagioni e degli astri e del mare e della terra e della cooperazione tra gli
uomini, non sono scossi neppure un po' da alcuna di queste cose, ma cercano
solo di ruttare il loro problemuzzo e, dopo aver esercitato il loro stomaco,
andarsene al bagno. A quel che diranno, ai temi che tratteranno, alle persone
cui parleranno, alle conseguenze che verranno da questi discorsi, essi non
pensano quasi per niente, e c'è pericolo che un giovane nobile, ascoltate
siffatte teorie, ne sia impressionato e che l'impressione distrugga i germi della
sua nobiltà: c'è pericolo che offriamo all'adultero l'incentivo a continuare
nella sua condotta impudente: c'è pericolo che qualche ladro dei pubblici beni
scovi in taluno di questi discorsi un abile sofisma e che un uomo, poco
curante dei suoi genitori, ne tragga incoraggiamento. Che cos'è, dunque,
secondo te, il bene o il male, l'onesto o il disonesto? Questo o quello? Perché
opporsi ancora a qualcuno di questi uomini, o dare una spiegazione o
accoglierla o cercare di convertirli? È molto più facile, per Zeus, sperare di
convertire gente di mal affare che quanti sono giunti a tal punto di sordità e di
accecamento.

DELL’INCOERENZA

Le proprie miserie gli uomini le ammettono, talune senza difficoltà, altre,


invece, con difficoltà. Cosi, nessuno ammetterà di essere stolto o dissennato,
ma, tutt'al contrario, sentirai dire da tutti: «Oh, avessi tanta fortuna quanto
senno!» Ammettono pure senza difficoltà di essere timidi e dicono: «Sono un
po' timido, l'ammetto: per il resto, però, non mi troverai sciocco.» Ma
d'essere intemperante nessuno l'ammetterà senza difficoltà, né ingiusto, in
alcun modo, e neppure invidioso o indiscreto: d'essere misericordioso si,
quasi tutti. Quale ne è il motivo? Il principale è, certo, l'incoerenza e la
confusione in ciò che riguarda il bene e il male: altri motivi si possono
trovare per altre persone, ma di regola, non si ammette mai ciò che si
immagina turpe. La timidità l'immaginano indizio di carattere buono, e così
pure la compassione: la stoltezza, invece, di carattere del tutto servile: di
delitti contro la società poi non si riconoscono affatto colpevoli. La maggior
parte dei difetti si è portati ad ammetterli specialmente per ciò che
s'immagina in essi la presenza di un elemento involontario, come per es. nella
timidità e nella misericordia. E se per caso uno concede d'essere
intemperante, ci mette accanto l'amore, in modo da essere scusato come d'un
atto involontario. Ma l'ingiustizia non l'immaginano affatto qualcosa
d'involontario. Un elemento di involontarietà c'è, invece, a quanto si crede,
nella gelosia: di conseguenza, si finisce per ammettere anche questa.
Chi vive, quindi, tra uomini siffatti, così disorientati, così all'oscuro di ciò
che dicono e del male che c'è o non c'è tra loro, e della causa da cui deriva e
del modo di liberarsene, penso faccia bene a fermare continuamente il suo
pensiero su tale riflessione: «Sono per caso anch'io uno di questi? Che
concetto ho di me stesso? Come mi comporto? Davvero da uomo saggio,
davvero da uomo temperante? Posso dire anch'io di essere preparato a ogni
eventualità? Ho la coscienza di non saper niente, come si conviene a chi non
sa niente? Vado dal maestro, come da un oracolo, pronto ad obbedirgli?
Oppure pieno di stupdità mi reco a scuola anch'io solo per apprendere la
relazione su qualche ricerca, e per capire i libri che prima non capivo, onde,
se si presenta l'occasione, li spieghi agli altri?» Uomo, a casa hai fatto a
pugni col tuo piccolo servo, hai messo a soqquadro la stanza, hai turbato i
vicini: e poi te ne vieni da me, con un'aria da saggio, ti siedi e giudichi come
ho spiegato il mio testo, e che più? come ho cianciato su quanto mi passava
per la testa? Sei venuto pieno di invidia, umiliato perché da casa non t'è stato
mandato niente, e sei rimasto seduto per tutta la lezione solo pensando al
modo con cui si comportano verso di te tuo padre o tuo fratello. «Che dicono
di me laggiù? Ora ritengono ch'io faccia progressi e dicono: Al suo ritorno
saprà tutto. Vorrei davvero una buona volta tornare sapendo tutto, ma occorre
molta fatica e nessuno mi manda niente e a Nicopoli ì bagni son sudici, e in
casa si sta male e male anche qui.» E poi dicono: Nessuno trae giovarnento
dalla scuola! Certo: chi viene a scuola, chi ci viene, col proposito di essere
curato? o di far vedere i suoi giudizi per purificarli o di rendersi conto di ciò
che non ha? E perché vi meravigliate se le cose che portate a scuola, ve le
riportate indietro, così come sono? Il fatto è che non venite per deporle e
correggerle o prenderne altre in cambio di quelle. Come? Ci mancherebbe
altro! E allora guardate meglio se ottenete l'intento per cui venite. Volete
perorare sui princìpi della filosofia. Ebbene? Non avete la parlantina più
sciolta?
E i princìpi non vi offrono materia per fare sfoggio delle vostre piccole
questioni? Non risolvete i sillogismi e gli argomenti equivoci? Non esaminate
le premesse del Mentitore e gli argomenti ipotetici? Perché dunque adirarvi
ancora se ottenete ciò che venite a cercare?
«Già, ma se mi muore il piccino o il fratello, se devo io stesso morire o essere
torturato, che mi gioverà tutto ciò?».
Sei venuto forse per questo? per questo ti sei seduto al mio fianco? per
questo hai acceso talvolta la lucerna o vegliato?
Ovvero, uscendo per la passeggiata, ti sei mai posto davanti alla mente una
rappresentazione al posto di un sillogismo e l'avete esaminata insieme, tu e i
tuoi compagni? Quando mai? E poi dite: «Inutili sono i princìpi.» Per chi?
Per quanti non ne usano convenientemente. Così gli unguenti non sono inutili
per chi se ne unge nel modo e nel tempo dovuto, né sono inutili i cataplasmi,
né i manubri sono inutili, ma per taluni sono inutili, per altri, invece, utili. Se
adesso mi domandi: «Sono utili i sillogismi?» ti risponderò di sì, e, se vuoi, ti
mostrerò in che modo.
«Ma a me, che giovamento hanno dato?»
Uomo, non mi hai chiesto se sono utili per te, ma in generale? Mi chieda chi
soffre di dissenteria se è utile l'aceto: dirò di sì.
«E dunque è utile per me?»
Dirò di no. Cerca prima di tutto di arrestare la tua diarrea, di cicatrizzare le
tue piaghe. E anche voi, uomini, curate prima di tutto le vostre piaghe,
fermate il flusso dei vostri umori, calmate il vostro spirito, portatelo a scuola
libero da ogni distrazione — e conoscerete allora quale forza ha la ragione.

SULL’AMICIZIA

Ciò che si prende a cuore, è giusto che si ami. Forse gli uomini prendono a
cuore le cose cattive? No davvero. Ma forse ciò che non li riguarda affatto?
Neppure questo. Rimane, dunque, che solo le cose buone prendono a cuore: e
se le prendono a cuore, le amano. Perciò, chi è esperto nelle cose buone,
saprà anche amarle: chi, invece, non è in grado di discernere le buone dalle
cattive, e quelle che non sono né buone né cattive dalle altre due, come
potrebbe ancora amarle costui? Di conseguenza, il saggio solamente può
amare.
Ma come? — si dice. Io, pur essendo stolto, amo tuttavia il mio piccino.
— Mi meraviglio davvero, per gli dèi, come tu riconosca, così, su due piedi,
di essere stolto. Che ti manca? Non usi delle sensazioni, non discerni le
rappresentazioni, non dai al corpo i cibi che gli si addicono, non le vesti, non
la casa?
Come puoi dunque ammettere di essere stolto? Perché spesso, per Zeus, sei
tratto fuori di te dalle tue rappresentazioni, e ne sei sconvolto e ti vincono coi
loro motivi persuasivi: e talora queste cose le supponi buone, poi, le stesse,
cattive, e più tardi, né buone né cattive — e insomma sei preda del dolore, del
timore, dell'invidia, del turbamento, dell'incostanza — per ciò ammetti di
essere stolto. E nell'amicizia non sei incostante? Ricchezza, piacere, in una
parola, gli stessi oggetti esterni talora li ritieni buoni, talora cattivi: e le stesse
persone non le ritieni talora buone, talora cattive? e non le tratti talora da
amico, talora da nemico? e non le approvi talora, talora le biasimi?
— Certo: sono questi i sentimenti che provo.
— E poi? chi è rimasto ingannato nei confronti d'un uomo, pensi possa
essergli amico?
— No davvero.
— E chi è volubile nella scelta dell'amico, pensi gli sia affettuoso?
— Neppure costui.
— E chi adesso lo ingiuria e più tardi lo guarda con ammirazione?
— Neppure costui.
— Ebbene: non hai visto mai dei cuccioletti che scodinzolano e scherzano
fra loro, di fronte ai quali hai esclamato: «non c'è niente di più amoroso»? Ma
per capire che cosa sia l'amicizia, getta tra loro un pezzo di carne e lo saprai.
Getta pure tra te e il tuo figliolo un campicello e saprai come il tuo figliolo
vorrà subito sotterrarti e come tu pregherai per la morte del tuo caro figlio. E
poi dirai: «che ragazzo ho allevato! già da un pezzo vuol farmi i funerali».
Getta una fanciulletta tutta elegante e amala, tu, il vecchio, e l'altro, il
giovane, o, se vuoi, una briciola di gloria. Se poi c'è un rischio da correre,
dirai le stesse parole del padre di Admeto: tu vuoi veder la luce e il padre,
credi, no?
Pensi che quello non amasse il suo figliolo quand'era piccino, e non
trepidasse quando aveva la febbre, e non dicesse spesso: «Quant'era meglio
che l'avessi io!»? Poi, al sopraggiungere della prova, al suo avvicinarsi, vedi
che belle frasi si scambiano! Eteocle e Polinice non erano nati dalla stessa
madre e dallo stesso padre? Non erano cresciuti insieme, non avevano vissuto
insieme e insieme diviso la stessa tavola, lo stesso letto? Non si erano spesso
baciati l'un l'altro? Tanto che, se uno li avesse visti, si sarebbe messo a ridere
dei filosofi, io penso, per tutto quel che di paradossale dicono sull'amicizia.
Ma, ecco, cade in mezzo ad essi, come un pezzo di carne tra i cani, la
questione del regno: vedi come parlano:
Eteo. Su, davanti a quale porta ti porrai?
Pol. Perché me'1 chiedi?
Eteo. Affrontarti voglio e ucciderti.
Pol. Ho la stessa brama anch'io.
Ecco i loro voti.
Perché, in generale — non vi fate illusioni — ogni vivente non ha nulla che
gli sia caro quanto il proprio interesse: quindi, tutto quel che gli sembra
d'ostacolo ad esso — sia fratello o padre o figlio o amato o amante — odia, lo
ripudia, lo maledice. Perché non c'è niente ch'egli per natura ami quanto il
suo interesse: questo è per lui padre, fratello, parenti, patria, Dio. Per ciò
quando ci sembra che gli dèi ci impediscano di raggiungerlo, noi li
insultiamo, anche loro, ne buttiamo giù le statue, ne bruciamo i templi, come
Alessandro fece incendiare il tempio di Asclepio perché era morto il suo
diletto. In conseguenza, se si riesce a far coincidere l'interesse e la pietà,
l'onestà, la patria, i genitori, gli amici, allora tutto questo è salvo: ma se da
una parte c'è l'interesse, dall'altra gli amici, la patria, i parenti, e il giusto
stesso, tutto questo va in malora, soverchiato dall'interesse. Dove sono l'«io»
e il «mio»? lì inclina di necessità il vivente: se nella carne, è essa che domina,
se nella persona morale, è essa che domina, se nei beni esterni, sono essi che
dominano.
Se, dunque, il mio «io» si trova dov'è la persona morale, solo allora io sarò
come si deve, amico, figlio, padre. Che in tal caso sarà mio interesse
custodire la fedeltà, la riservatezza, la pazienza, la temperanza, la solidarietà,
e mantenere le mie relazioni sociali. Se, invece, da una parte pongo il mio
«io», dall'altra l'onestà, allora acquista forza il detto di Epicuro, secondo il
quale l'onestà o non è niente o, se mai, una semplice opinione volgare.
Da tale ignoranza ebbero origine le lagnanze tra Ateniesi e Spartani, tra
questi due popoli e i Tebani, tra il Gran Re e l'Ellade, tra questi due e i
Macedoni e adesso tra i Romani e i Geti: così, nei tempi passati, i fatti di Ilio
ebbero la stessa origine. Alessandro era ospite di Menelao e se uno li avesse
visti trattarsi così amichevolmente tra loro, non avrebbe creduto a chi diceva
che non erano amici. Ma una piccola cosa fu gettata in mezzo a loro,
un'elegante donnina: per essa, ecco la guerra. Così adesso, quando vedi amici
o fratelli che paiono avere gli stessi sentimenti, non pronunciarti subito sulla
loro amicizia, neppure se giurano e dicono che niente potrà separare l'uno
dall'altro. Non è fedele la parte direttrice dell'anima nell'uomo inetto: è
instabile, incapace di giudicare, sopraffatta ora da una, ora da un'altra
rappresentazione. E non cercare, come fa il volgo, se questi uomini hanno
avuto gli stessi genitori e sono cresciuti insieme, sotto lo stesso pedagogo, ma
soltanto dove pongono il loro interesse, se nelle cose esterne o nella persona
morale. Se nelle cose esterne non dirli amici, non più che fedeli, sicuri,
coraggiosi o liberi — e neppure uomini, se hai senno. Non è un modo di
pensare da uomini quel che li spinge a mordersi e a ingiuriarsi tra loro, a
occupare i luoghi deserti o le pubbliche piazze, come i banditi le montagne, e
a mettere a nudo davanti ai tribunali misfatti da banditi, o ad essere
intemperanti, adulteri, corruttori e a commettere quanti altri delitti gli uomini
compiono l'uno contro l'altro: tutto ciò trae origine da un unico e solo
pensiero, dal ritenere cioè se stessi e le proprie cose tra gli oggetti
indipendenti dalla scelta morale. Ma se tu senti che questi uomini ripongono
veramente il bene là solo dov'è la persona morale, dov'è l'uso retto delle
rappresentazioni, non cercar oltre, né se sono figlio e padre né se fratelli né se
sono stati lungo tempo insieme e vivono da compagni: ne sai abbastanza per
affermare con fiducia che sono amici, come anche fedeli e giusti. Dov'altro si
può trovare l'amicizia se non dov'è la fedeltà, la riservatezza, la dedizione a
quel che è nobile e a niente di tutto il resto?
«Ma mi ha circondato d'attenzioni per tanto tempo! e non m'amava?» Che ne
sai, schiavo, se ti ha circondato di attenzioni, allo stesso modo che lustra le
sue scarpe o le bestie? Che ne sai se, diventato una roba inutile, egli non ti
scaglierà via, come una tavoletta sfasciata? «Ma è mia moglie e per tanto
tempo siamo vissuti insieme!» E per quanto tempo è vissuta Erifìle con
Anfiarao, madre, per di più, di figli, di molti figli? Poi venne a cadere tra loro
una collana.
Che cos'è una collana? È il giudizio che si da di siffatte cose. E fu, essa, la
forza selvaggia, fu, essa, la forza distruttrice dell'amicizia, che non permise a
una donna d'essere sposa, a una madre, madre. Chi di voi, dunque, ha
sinceramente a cuore o di essere amico di qualcuno, o di guadagnarsi
l'amicizia di un altro, distrugga tali giudizi, li odi, li strappi dall'anima sua.
Così, in primo luogo, non dovrà rivolgersi biasimi, né opporsi a se stesso, né
pentirsi, né tormentarsi: allo stesso modo, poi, si comporterà cogli altri,
quanti sono del tutto uguali a lui: con chi è dissimile, invece, sarà tollerante,
condiscendente, mite, disposto al perdono, come si fa con un ignorante, con
uno che s'è disperso in una materia della massima importanza: non sarà aspro
con nessuno, perché conosce bene le parole di Platone: «è contro sua voglia
che l'anima viene privata della verità» In caso contrario, voi agirete in tutto
come gli amici e berrete insieme e vivrete sotto lo stesso tetto e navigherete
sulla stessa nave e potrete avere anche gli stessi genitori. Perché lo possono
anche i serpenti: ma amici non sono i serpenti, né lo sarete voi, finché avete
quei giudizi selvaggi e perversi.

SULLA POTENZA DELL’ORATORIA


Chiunque leggerebbe molto piacevolmente e agevolmente il libro scritto a
caratteri ben chiari. E i discorsi espressi in una lingua ben elegante e
armoniosa, non li ascolterebbe agevolmente chiunque? Non bisogna perciò
affermare che non esiste una potenza dell'espressione: sarebbe parlare da
empi e insieme da pavidi. Da empi, certo, perché si disprezzano i doni
ricevuti da Dio, come se si negasse l'utilità della vista o dell'udito o del
linguaggio stesso. Dunque, senza un perché Dio ti ha dato gli occhi, senza un
perché ha mescolato in essi uno spirito tanto potente e ingegnoso che,
spingendosi a grandi distanze, ritrae le forme degli oggetti veduti? Quale
messaggero è così veloce e diligente? Senza un perché Dio ha fatto l'aria
intermedia così attiva ed elastica, che, tesa com'è, si lasci, in certo senso,
attraversare dalla visione? Senza un perché ha fatto la luce, la cui assenza
renderebbe inutile tutto l'altro?
Uomo, non essere ingrato e, insieme, non dimenticare quel che è più grande
ancora, ma per la vista e per l'udito, e, in nome di Zeus, per la vita stessa e
per i conforti che ne aiutano il mantenimento, per i prodotti solidi della terra,
per il vino, per l'olio, rendi grazie a Dio: ma ricordati che ti ha dato
qualch'altra cosa, più grande di tutte queste, il potere di usarle, di giudicarle,
di stimarle nel loro valore una per una. E, in realtà, chi si pronuncia sul valore
effettivo di ognuna di queste facoltà? Forse la facoltà stessa, in particolare?
Hai sentito mai la vista dare un giudizio su se stessa? O l'udito?
No, ma come serve e schiave sono state sottoposte a servire la facoltà che
usa le rappresentazioni. E se domandi il valore di ciascuna, a chi lo domandi?
Chi ti risponde? Come può, dunque, un'altra facoltà essere superiore a questa,
che si serve della prestazione delle altre, che di ogni cosa da il giudizio, da sé,
e si pronuncia su esse? Quale di queste conosce la propria effettiva realtà e il
proprio valore? Quale di queste conosce quando dev'essere usata, quando no?
Chi è che apre e chiude gli occhi, li torce da dove deve, li volge dove deve?
La vista? No, ma la facoltà propria della persona morale. Chi è che serra e
apre le orecchie? che rende gli uomini attenti e curiosi ovvero insensibili a
qualunque discorso? L'udito? No; non è altro che la facoltà propria della
persona morale. E allora, quando s'è accorta di stare in mezzo ad altre facoltà,
tutte cieche e sorde, incapaci di abbracciare qualch'altra cosa al di là dei loro
atti, per i quali sono state sottoposte al suo servizio e alle sue dipendenze,
mentre essa sola ha la vista acuta e abbraccia in un solo sguardo tutte le altre
nel loro singolo valore e, insieme, anche se stessa, ci potrà dimostrare che il
bene supremo è altro da se stessa? Che altro fa l'occhio aperto se non vedere?
Ma se si debba guardare la moglie di qualcuno e in che modo, chi lo dice? La
facoltà propria della persona morale. E se si debba prestar fede a quel che
viene detto o no, e, prestatala, ci si debba risentire o no, chi lo dice? Non è
forse la facoltà propria della persona morale? Ora, la facoltà della parola, con
tutte le attrattive del linguaggio, posto che sia davvero una facoltà speciale,
quando il discorso cade su qualche argomento, che altro fa se non cospargere
d'attrattive i vocaboli e armonizzarli, come fanno gli acconciatori con la
chioma? Ma se sia meglio parlare o tacere, e in tal guisa meglio che in quella,
e se questo sia conveniente o no, e il momento opportuno per ciascun
discorso e l'uso, chi altro lo indica se non la facoltà propria della persona
morale? Vuoi dunque che venga essa stessa a pronunciare la sua condanna?
«Ma come! si dice. Se la cosa sta in questi termini, è pure possibile che chi
serve sia superiore a quegli cui serve, il cavallo al cavaliere, il cane al
cacciatore, lo strumento al citarista, i sudditi al re.»
E che cosa si serve dell'altro? La persona morale. Che cosa si prende cura
dell'altro tutto? La persona morale. Che cosa distrugge l'uomo
completamente, talora con la fame, talora col laccio, talora precipitandolo da
un dirupo? La persona morale. E che cosa c'è allora di più possente
nell'uomo? E com'è possibile che cose soggette a impedimento siano più
possenti di chi non lo subisce? Che cosa può, per sua natura, porre ostacoli
alla facoltà della vista? Sia la persona morale sia gli oggetti indipendenti da
essa. Così pure per l'udito e per la lingua. Ma che cosa può per sua natura
porre ostacoli alla persona morale? Niente di ciò che non dipende da lei, ma
essa solo, quand'è pervertita. Per ciò, essa sola diventa vizio, essa sola virtù.
Essendo, dunque, una potenza così grande e preposta a tutte le altre, venga da
noi e ci dica che la carne è superiore a tutto.
Che, certo, se la carne stessa avesse affermato la sua superiorità, non si
sarebbe potuto tollerare. Ed ora, cos'è, Epicuro, che pronuncia tale giudizio?
che ha composto i libri Intorno al fine, La fisica, Intorno al canone? che ti ha
fatto crescere la barba? che sul punto di morire ha scritto: «Mentre viviamo
quest'ultimo giorno che è insieme un giorno felice... »? La carne o la persona
morale? E puoi ammettere di possedere qualcosa superiore ad essa
senz'essere pazzo? Sei davvero così cieco e così sordo?
Con ciò? Si disprezzano le altre facoltà? Non sia mai. Si dice che non c'è
utilità alcuna né progresso, se non in rapporto alla facoltà propria della
persona morale? Non sia mai. Sarebbe un atto di pazzia, di empietà,
d'ingratitudine verso Dio.
Piuttosto si assegna a ciascuna cosa il suo valore. Certo, l'asino ha una sua
utilità, ma non quanto il bove: e anche il cane ha una sua utilità, ma non
quanto il servo: e così il servo, ma non quanto i cittadini: e così questi, ma
non quanto i magistrati. Tuttavia, per il fatto che ci sono cose superiori, non
si deve spregiare l'utilità offerta dalle altre. Anche la facoltà della parola ha
certamente un suo valore, ma non quanto quella della persona morale.
Quando dico ciò, non si creda ch'io vi esorti a disinteressarvi della parola —
come neppure degli occhi, degli orecchi, delle mani, dei piedi, delle vesti,
delle scarpe. Se, però, mi si chiede: «Qual è la cosa più eccellente di tutte?»
che dirò? La facoltà della parola?
Non posso. Piuttosto, la facoltà propria della persona morale, quando è retta.
Perché è questa che si serve di quella e di tutte le altre facoltà, piccole e
grandi: e quando è ben diretta, l'uomo è buono, quando manca l'intento,
l'uomo è cattivo: per essa conosciamo l'insuccesso, il successo, critichiamo
gli uni gli altri, siamo contenti gli uni degli altri; insomma, se ignorata, essa
cagiona l'infelicità, se trova cure, la felicità.
Ma sopprimere la facoltà della parola e dire che non c'è affatto, è in verità
proprio d'un uomo non solo ingrato verso coloro che l'hanno data, ma anche
vile. Una persona siffatta, secondo me, ha paura che, se davvero ci fosse una
facoltà di tale genere non potremmo tenerla in poco conto. Come costoro
sono pure quanti pretendono che non c'è differenza alcuna tra bello e brutto.
E dunque si proverebbero gli stessi sentimenti vedendo Tersite o Achille?
Elena o una donna qualunque? Sono idee sciocche, queste, grossolane,
proprie di gente che ignora la natura di ciascuna realtà ed ha paura che, se si
coglie la differenza, ci si ritragga subito legati e vinti. Invece, l’importante è
questo: lasciare a ogni cosa la facoltà che le è propria, vedere, in seguito, il
valore di questa facoltà, ricercare tra le cose la più eccellente e questa seguire
dappertutto, a questa riservare le proprie attenzioni ritenendo tutte le altre
secondarie rispetto ad essa, senza tuttavia disinteressarsi neppure di queste,
per quanto è possibile.
Perché anche degli occhi bisogna prendersi cura, ma non come di ciò che è
più importante di tutto — e tuttavia pure di quelli, proprio in vista di ciò che
è più importante di tutto, perché questo non si manterrà in armonia con la sua
natura, senza usare con prudenza anche degli occhi e preferire alcuni oggetti
ad altri. Di che si tratta insomma? È come se uno, ritornando nella sua patria,
e attraversando un luogo ove sorge un bell'albergo, attratto dalla bellezza
dell'albergo, vi rimanesse. Uomo, hai dimenticato il tuo fine; non andavi
all'albergo, ma vi passavi.
— Però è bello.
— Quanti altri alberghi belli ci sono! quanti prati! Ma solo come luoghi da
attraversare. La mèta è questa: ritornare in patria, liberare i tuoi
dall'apprensione, compiere i tuoi doveri di cittadino, sposarti, procreare figli,
coprire le cariche legali.
Perché non sei venuto al mondo per scegliere i luoghi che più ci attraggono
ma per stare dove sei nato, e dove ti è stato assegnato il posto di cittadino.
Qualcosa di simile capita anche in questo caso. Siccome mediante la parola e
l'istruzione sul tipo di quella che qui ricevete si deve arrivare alla perfezione,
a purificare la propria volontà, a correggere la facoltà che usa le
rappresentazioni, e siccome tale trasmissione dei princìpi deve di necessità
attuarsi mediante una certa elocuzione e accompagnarsi a una certa varietà e
finezza di termini, taluni attratti da essi, ad essi si arrestano — uno dallo stile,
l'altro dai sillogismi, un altro dagli argomenti equivoci, un altro ancora da un
altro «albergo» del genere, e, fermatisi, imputridiscono come davanti alle
sirene.
Uomo, era tuo proposito metterti in grado di usare le rappresentazioni che ti
capitano in armonia con la natura, ottenere l'oggetto dei tuoi desideri, non
incorrere nell'oggetto delle tue avversioni, non subire mai un insuccesso, non
cader mai nella disgrazia, libero, non impedito, non costretto da necessità,
conforme in tutto al governo di Zeus, ad esso sottomesso, di esso appagato,
senza criticare alcuno, senza incolpare alcuno, in grado di ripetere con tutto il
cuore questo verso: Conducimi, o Zeus, e tu anche, o Destino.
Ebbene, con questo fine davanti agli occhi, se un breve saggio di stile ti attrae
o ti attraggono taluni princìpi, ti fermerai ad essi e preferirai accasarti là,
dimentico di quel che hai in te e dirai: «Ecco ciò ch'è bello»? Chi dice che
non è bello?
— ma come passaggio, come albergo. Che cosa, infatti, proibisce a un
oratore che parla come Demostene di incorrere in un insuccesso? Che cosa
proibisce a uno che sa risolvere i sillogismi come Crisippo di essere infelice,
di soffrire, di provare invidia, in una parola, di essere turbato e misero?
Assolutamente niente. Tu vedi che questi sono tutti alberghi di nessun valore:
il proposito era un altro. Quand'io parlo così a taluni, ritengono che biasimi lo
studio della parola o dei princìpi. No; non è lo studio ch'io biasimo, ma
soltanto l'occuparsi di tali questioni senza mai tregua, e il riporre in ciò le
proprie speranze. Se poi uno, esponendo queste idee, urta gli ascoltatori,
ponete anche me tra quelli che li urtano, perch'io non posso, vedendo qual è
la cosa più importante ed essenziale, affermare tuttavia che è un'altra, solo
per farvi piacere.

A UNO CHE NON GODEVA LA SUA STIMA

Uno gli disse: «Sono venuto spesso da te, desiderando di ascoltarti e non mi
hai risposto mai. Adesso, se puoi, ti prego, dimmi qualcosa.»
— Pensi tu, gli rispose, che, come di ogni altra cosa, così del parlare si da
un'arte, e che chi la possiede, parla con competenza, chi non la possiede, con
incompetenza?
— Certo.
— E allora, chi trae dalla parola giovamento per sé e può con la parola
giovare agli altri, non parlerà con competenza, mentre chi ne ritrae piuttosto
danno per sé e danno per gli altri, sarà incompetente in quest'arte del dire?
Alcuni troverai che ne ricavano danno, altri giovamento. E quelli che
ascoltano, ricavano tutti giovamento da ciò che ascoltano, o anche di questi,
troverai alcuni che ne traggono giovamento, altri danno?
— È lo stesso, certo, anche di questi, rispose.
— Dunque, anche qui, chi ascolta con competenza ne trae profitto, chi senza
competenza, danno?
Ne convenne.
— Ma allora, si dà una certa competenza come nel parlare, così
nell'ascoltare?
— Pare.
— Se vuoi, considera la cosa pure in questo modo. A chi appartiene, a tuo
giudizio, toccare secondo le regole uno strumento musicale?
— Al musico.
— E fabbricare una statua come si deve, a chi appartiene, a tuo giudizio?
— Allo scultore.
— E guardarla con competenza, non ti par che esiga proprio nessun'arte?
— L'esige, senz'altro, anche questo.
— Se, dunque, parlare come si deve appartiene a un competente, t'accorgi
che anche ascoltare con profìtto appartiene a un competente? Come si debba
fare per compiere queste due azioni in modo perfetto e con profìtto, se vuoi,
lasciamolo da parte per il momento, perché ne siamo entrambi molto distanti:
ma un punto in cui ciascuno, mi sembra, dovrebbe convenire, è che ha
bisogno di un certo quale esercizio sulla maniera di ascoltare chi voglia
ascoltare i filosofi. O non ti pare? Di che cosa, dunque, devo parlarti?
Mostramelo. Intorno a che cosa sei in grado di ascoltarmi? Intorno ai beni e
ai mali? Di chi? del cavallo, forse?
— No.
— Del bove, allora?
— No.
— E che? Dell'uomo?
— Certo.
— E sappiamo che cos'è l'uomo, quale la sua natura, quale la sua nozione?
Abbiamo le orecchie sufficientemente aperte a questo problema? E la natura,
comprendi che cos'è e sei in grado di seguire sufficientemente le mie parole?
E dovrò usare una dimostrazione con te? Come? Perché, tu comprendi che
cos'è una dimostrazione, come si fa, con quali mezzi?
e anche quali procedimenti sono simili alla dimostrazione, senza esserlo? Sai
che cos'è il vero e che cosa il falso? Che cosa segue a un'altra, come
conseguenza, che cosa contraddice a un'altra, ovvero è in opposizione a essa,
o in disaccordo? Ma devo spingerti alla filosofìa? Come mostrarti la
contraddizione per cui tanti uomini contendono intorno al bene e al male,
intorno all'utile e all'inutile, se non sai neppure che cos'è la contraddizione?
Mostrami, insomma che cosa concluderò discutendo con te. Eccita il mio
desiderio. Come il pascolo adatto alle pecore, eccita in esse, apparendo, il
desiderio di mangiare — desiderio che non sarà eccitato, se mostri loro una
pietra o un pane — così ci sono in noi certi desideri naturali anche di parlare,
quando appare l'ascoltatore adatto, quando provoca lui stesso. Ma se sta
vicino come una pietra o un sacco di foraggio, in che modo potrà eccitare in
un uomo un desiderio? La vite non dice al contadino «Prenditi cura di me»,
ma col solo mostrargli che gli gioverà, se la cura, lo spinge con ciò stesso a
coltivarla.
E i piccini, così irresistibili e vivaci, chi non spingono a giocare con loro, a
strisciare in terra con loro, a balbettare con loro? Ma con un asino, chi sente il
desiderio di scherzare o di ragliare? Anche se piccolo, è sempre un asinello.
Perché, dunque, non mi dici niente?
— Solo questo posso dirti: l'uomo che ignora chi è e perché è nato e in quale
mondo si trova e insieme a chi vive in società e quali sono i beni e i mali, le
cose oneste e le disoneste, e non comprende né un ragionamento né una
dimostrazione, né che cos'è il vero né che cos'è il falso e non è in grado di
discernerli, quest'uomo non potrà conformarsi alla natura né nei desideri, né
nelle avversioni, né negli impulsi, né nei disegni, né nell'assenso, né nel
rifiuto, né nella sospensione del giudizio: insomma, sordo e cieco andrà
intorno, credendo di essere qualcuno, mentre in realtà è un nulla. È la prima
volta adesso che si verifica ciò? Non è invece vero che, da quando esiste la
stirpe umana, tutti gli errori e le infelicità sono venuti da questa ignoranza?
Perché contendevano tra loro Agamennone e Achille? Non perché
ignoravano quali cose fossero utili e quali inutili? Non pretende l'uno che
giova rendere Criseide al padre, mentre l'altro afferma che non giova? Non
pretende l'uno che deve prendere la ricompensa dell'altro, l'altro, invece, che
non deve? E non dimenticarono per questo chi erano e per qual fine erano
venuti? Orsù, uomo, perché sei venuto? Per procurarti delle amanti o per
combattere? «Per combattere». Contro chi? Contro i Troiani o contro gli
Elleni? «Contro i Troiani». E, dunque, lasci Ettore e snudi la spada contro il
tuo re? Tu, poi, ottimo tra tutti, lasci i doveri del re e ti metti a contendere per
una fanciulletta col più bellicoso dei tuoi alleati, un uomo che dovevi, invece,
circondare d'ogni cura e riguardo? E ti mostri inferiore a un abile gran
sacerdote che ha ogni sorta di attenzioni per i nobili guerrieri? Vedi quali
effetti produce l'ignoranza di ciò che è utile?
— Ma sono ricco anch'io.
— Forse più ricco di Agamennone?
— Ma sono anche bello.
— Forse più bello di Achille?
— Ma ho anche un'elegante capigliatura.
— E Achille non l'aveva più bella e bionda? e non la pettinava con cura e in
foggia elegante?
— Ma in più sono forte.
— Puoi sollevare un macigno grande come quello di Ettore o di Aiace?
— Ma sono anche di nobile progenie.
— Discendi forse da una madre dea, da un padre rampollo di Zeus? E poi,
che gli serve tutto questo, quando, seduto in disparte, piange per una
fanciulletta?
— Ma sono un oratore, io.
— E lui non lo era? Non vedi come tratta Odisseo e Fenice, i più esperti tra i
Greci nell'arte della parola? come chiude ad essi la bocca? Solo questo posso
dirti, e neppure con grande entusiasmo.
— Perché?
— Perché tu non mi hai stimolato. Che cosa posso guardare in te perché ne
sia scosso come i cavalieri dai cavalli di buona razza? Il misero corpo? Lo
curi in modo così sconcio. Le vesti? Anch'esse, sono così effeminate. Il
portamento, lo sguardo? Non c'è proprio niente. Quando hai desiderio di
ascoltare un filosofo, non dirgli: «Non mi dici niente?», ma mostragli solo la
capacità che hai di ascoltarlo, e vedrai come lo spingerai a parlare.

LA NECESSITA’ DELLA LOGICA

Un giorno, uno dei presenti gli chiese: «Devi convincermi che la logica è
utile».
— Vuoi che te lo dimostri? gli disse allora.
— Sì.
— E devo ricorrere a una dimostrazione? L'altro convenne.
— E come saprai, continuò Epitteto, che non t'inganno con un sofisma?
Il nostro uomo si tacque.
— Lo vedi, concluse allora, come tu stesso ammetti che questa conoscenza è
necessaria se, senza essa, non sei neppure in grado di sapere se è necessaria o
no?

QUAL È IL CARATTERE PROPRIO DELLO SBAGLIO

Ogni sbaglio implica una contraddizione. Infatti, poiché chi sbaglia non vuole
comportarsi in modo sbagliato, ma retto, è chiaro che non fa ciò che vuole.
Per es. il ladro, che vuol compiere? Quel che gli è utile. Quindi, se il rubare
non gli è utile, non fa quel che vuole. Ora, ogni anima razionale avversa per
natura la contraddizione, e finché non s'accorge di essere in contraddizione,
niente la ritiene dal compiere azioni contraddittorie: accortasene, è
assolutamente necessario che si stacchi dalla contraddizione e fugga, proprio
come per dura necessità riprova il falso chi del falso abbia coscienza
— ma finché non gli appare nella sua realtà, lo approva come vero. È
dunque abile a ragionare e, insieme, a esortare e a confutare chi può porre
davanti a ciascuno la contraddizione che lo induce nello sbaglio e provargli
chiaramente come non fa quel che vuole, ma quel che non vuole. Se si riesce
a mostrare questo a un uomo, tornerà indietro da sé. Però, finché non gli si
mostri, nessuna meraviglia che persista nel suo fallo, perché egli agisce
immaginando di essere retto.
Per questo Socrate, facendo assegnamento su tale capacità dell'uomo,
diceva: «Io non ho l'abitudine di invocare altro testimonio delle mie parole e
mi contento sempre di chi discute con me, richiedo il suo suffragio, esigo la
sua testimonianza, e, pur essendo uno, mi basta per tutti.» Conosceva, infatti,
ciò che scuote l'anima razionale: simile a una bilancia, essa inclinerà, si
voglia o no. Mostra al principio direttivo dell'anima la sua contraddizione e
se ne staccherà: ma se non gliela mostri, accusa te stesso e non chi non riesci
a persuadere.

SULL’ELEGANZA

Presentatoglisi un giovane studente di retorica con la chioma oltremodo


curata e tutto agghindato nel vestire «Dimmi — gli domandò — se non ti
sembra che alcuni cani siano belli, e alcuni cavalli, e così per ciascun altro
animale.» «Sì, rispose.» «E anche gli uomini, alcuni sono belli, altri brutti?»
«Come no?» — «Forse, secondo lo stesso criterio li diciamo belli, questi
esseri, ciascuno nel suo genere, ovvero ciascuno secondo un criterio proprio?
Esamina la cosa in questo modo. Vediamo che il cane è nato per fare una
cosa, il cavallo un'altra, un'altra, se così si vuole, l’usignolo; in generale,
quindi, non è inconseguente affermare che ciascun essere in tanto è bello in
quanto si trova in perfetta armonia con la sua natura. E siccome la natura di
ognuno è diversa, ciascuno, mi pare, sarà diversamente bello: o no?» Il
giovane convenne. «E allora, quel che fa bello il cane, non fa brutto il
cavallo, e quel che fa bello il cavallo, non fa brutto il cane, se le loro nature
sono diverse?» Pare. «E infatti, a mio parere, quel che fa bello il pancraziaste
non fa certo gagliardo il lottatore, il corridore, poi, lo fa addirittura ridicolo: e
chi è bello al pentatlo non sarà, questo stesso, bruttissimo alla lotta?» È così,
rispose. «Che cosa, dunque, rende bello l'uomo se non proprio ciò che rende
belli il cane e il cavallo nel loro genere?» È questo, certo, disse. «E che cosa
fa bello il cane? L'eccellenza della sua razza ch'è in lui. E il cavallo?
L'eccellenza della sua razza ch'è in lui. E l'Uomo? Non sarà l'eccellenza della
natura umana ch'è in lui? Così tu, giovinetto, se vuoi essere bello, affaticati
per questo, per l'eccellenza umana». «E che è, codesta eccellenza?» —
«Guarda chi lodi, quando lodi qualcuno spassionatamente: i giusti o gli
ingiusti?» I giusti. «I temperanti o gli intemperanti?» I temperanti. «I
continenti o gli incontinenti?» I continenti. «Dunque, facendoti tale, sappi
che ti farai bello; ma finché trascurerai tutto questo, sarai di necessità brutto,
anche se ricorri a ogni mezzo per apparire bello.
Oltre ciò, non so cosa dirti: che se ti dico il mio pensiero, ti rattristerò e tu,
andato via, forse non tornerai più: se non te lo dico, guarda che combinerò —
tu vieni da me per aiuto, e io non ti aiuto affatto, tu vieni da me, in quanto
filosofo, ed io non ti dico niente in quanto filosofo. E come non è crudele,
poi, lasciarti in balìa di te stesso, senza correggerti? Se mai più tardi metterai
giudizio, a buon diritto mi accuserai. — 'Cosa notò in me Epitteto, che,
vedendosi avvicinato da un tipo come me, in condizioni così pietose, non se
ne curò, anzi, non disse neppure una parola? Ha completamente disperato di
me? Non ero giovane? Non sedevo a scuola, desideroso di ascoltare le
lezioni? Quanti altri giovani, a quest'età, cadono in tanti falli, come i miei?
So di un certo Polemone che, da incontinente qual era in sommo grado, ha
fatto un cambiamento completo! Bene: supponiamo ch'egli ritenesse ch'io
non sarei stato Polemone: poteva, però, aggiustarmi la chioma, strapparmi di
dosso gli ornamenti, poteva farmi smettere di depilarmi, e, invece, guardando
me, ch'avevo l'abbigliamento — di chi, devo dire? — rimase muto'. Io non lo
dico di chi è tale abbigliamento: lo dirai da te, quando entrerai in te stesso, e
capirai quale è e chi se ne prende cura.»
Se più tardi mi getterai in faccia queste accuse, come potrò scolparmi? Sì:
ma io parlerò e lui non mi ascolterà. E Laio ascoltò Apollo? Non se ne andò
via e inebbriato mandò tanti saluti all'oracolo? Ebbene? Per questo Apollo
non gli disse la verità? In ogni caso, io non so se mi ascolterai o no: Apollo,
invece, sapeva assolutamente che non l'avrebbe ascoltato, e tuttavia parlò. —
Perché parlò? — E perché è Apollo? Perché da oracoli? Perché si è messo in
quel posto, per essere profeta e fonte di verità e far venire a sé gli uomini da
tutto il mondo? Perché sul frontone del tempio sta scritto — «Conosci te
stesso», anche se nessuno vi bada?
E Socrate persuadeva tutti i suoi visitatori a prendersi cura di se stessi?
Neppure la millesima parte. E tuttavia, poiché fu collocato in quel posto dalla
divinità, com'egli si esprime, non lo lasciò più. E anche di fronte ai giudici,
che cosa dice?
— «Se mi lasciate, egli dichiara, a condizione di non far più quel che faccio
adesso, non l’accetterò né desisterò, ma andando incontro a un giovane o a un
vecchio, e, in una parola, a chiunque mi capiti davanti, gli farò le stesse
domande che adesso faccio, e specialmente a voi, concittadini, che mi siete
più vicini per stirpe». Sei così curioso, Socrate, e intrigante? Che t'interessa
delle nostre azioni? — «Ma che dici? Tu, mio compagno e parente, disprezzi
te stesso e offri allo Stato un cittadino cattivo, ai parenti un parente cattivo, ai
vicini un cattivo vicino.» — « E tu chi sei?» Ecco, a questo punto,
l'affermazione solenne: «Io sono colui che deve aver cura degli uomini». Al
leone non osa opporsi un bove qualunque: ma se un toro, andandogli contro,
lo affronta, digli, se vuoi: — «E tu chi sei?» e ancora: — «Che te ne
interessa?» Uomo, in ogni specie di esseri cresce il tipo eccezionale — tra i
buoi, tra i cani, tra le api, tra i cavalli. Non dire a chi è eccezionale: — «E tu,
che cosa sei?», se no, prendendo da qualche parte la voce, ti risponderà:
«Io sono quel che è la porpora nella veste; non credermi simile agli altri e
non biasimare la mia natura che mi ha fatto diverso dagli altri».
E dunque, io sono tale? E come? E tu sei capace di ascoltare la verità?
Magari! E tuttavia, poiché sono stato in qualche modo condannato a portare
la barba brizzolata e il pallio e tu vieni da me, in quanto sono filosofo, non ti
tratterò con durezza né dispererò di te, ma ti dirò: «Giovinetto, chi vuoi
rendere bello? Conosci prima chi sei e poi adòrnati. Un uomo sei, cioè un
essere animato e mortale, capace di usare le rappresentazioni
ragionevolmente. Che significa ragionevolmente? In modo conforme alla
natura e perfetto. Qual è l'elemento di superiorità in tuo possesso? L'animale?
No. L'essere mortale? No. La possibilità di usare le rappresentazioni? No. La
ragione è l'elemento di superiorità in tuo possesso. Ecco quel che devi
adornare e rendere bello. La chioma, lasciala a chi te l'ha acconciata, come
gli è piaciuto.
Orsù: quali altre denominazioni hai? Sei uomo o donna? — Uomo —
L'uomo, allora, rendi bello, non la donna. Questa è per natura liscia e
delicata: e se ha troppi peli, è una rarità e tra le rarità si mostra a Roma. Lo
stesso succede all'uomo qualora non li abbia: se un uomo non ha per natura i
peli, è una rarità: se poi li rade o li estirpa, che cosa gli faremo?
Dove lo mostreremo e che cartello gli applicheremo davanti? — «Vi
mostrerò un uomo il quale vuole essere donna più che uomo». O spettacolo
sconcio! tutti si stupiranno di questo cartello. Io penso, per Zeus, che quelli
stessi che si estirpano i peli, lo fanno senza capire cos'è quel che fanno.
Uomo, che accusa puoi muovere alla tua natura? Che t'ha fatto uomo?
Ebbene? doveva fare tutte donne? In tal caso, che ti giovava l'adornarti? Per
chi ti saresti adornato, se erano tutte donne? Ma non ti va a genio
quell'affaruccio dei peli: falla del tutto finita, una buona volta: distruggila —
che cos'è mai? — la causa dei peli: renditi completamente donna, perché non
ci inganniamo più, e non metà uomo e metà donna.
A chi vuoi piacere? Alle femminette. Ma piaci loro da uomo. — «Sì, ma loro
godono dei glabri.» Non andrai a impiccarti? Se godessero dei cinedi,
diverresti cinedo? È questo il tuo compito, sei nato per questo, perché ti
godessero donne impudiche?
Con una natura come la tua, dobbiamo farti cittadino di Corinto, e
all'occasione, prefetto della città, capo degli efebi, stratego o presidente dei
giochi? Ma via, ti svellerai i peli, anche dopo sposato? per chi, per qual
motivo? E avuti dei figli, li farai glabri anch'essi, e così li introdurrai nel
corpo sociale? Buon cittadino davvero, buon senatore, buon oratore! E
dobbiamo augurarci che ci nascano e crescano siffatti giovani? No, certo, per
gli dèi, o giovanetto! ma, uditi appena questi ragionamenti, vattene via e dì a
te stesso: — «Tutto ciò non l'ha affermato Epitteto: donde a lui questo? È
stato piuttosto un qualche dio benigno, per suo tramite. Mai gli sarebbe
accaduto ad Epitteto di proferir tali cose, egli che non è solito parlare con
nessuno. Ma via, ascoltiamo il dio, per non incorrere nella sua ira». E invece,
no! Ma se un corvo gracchiando t'indica qualcosa, non è il corvo ad
indicartelo, bensì il dio per suo mezzo: e se vuole indicarti qualcosa mediante
la voce umana, non te la farà dire da un uomo, perché tu conosca la potenza
divina, la quale dà a chi un avviso in un modo, a chi in un altro, e per le cose
più gravi e importanti si serve dell'ambasciatore migliore?
A cos'altro allude il poeta, quando dice:
ché l'avvertimmo noi prima Hermes in terra mandando, il divino ministro
argicida, di non uccider lo sposo, di non sedurre la sposa?
Hermes, disceso dal cielo, doveva dire queste cose a Egisto e adesso a te
queste cose le dicono gli dèi non turbare ciò che sta bene, e non affaticartici
intorno senza scopo: lascia l'uomo uomo, la donna donna, l'uomo bello uomo
bello, l'uomo brutto uomo brutto. Perché non sei carne né peli, ma persona
morale: e se questa sarà bella, sarai bello. Finora non ho il coraggio di dirti
che sei brutto, perché mi pare che tutto vorresti ascoltare più che questo. Ma
guarda che dice Socrate ad Alcibiade, l'uomo più bello, più fresco di tutti:
«Cerca di essere bello.» Che gli dice a tal fine? «Componi bene i tuoi capelli,
liscia bene le tue gambe»? Oh, mai più: bensì gli dice — «Adorna la tua
persona morale, strappa i giudizi inconsistenti». E allora, come tratteremo
questo povero corpo? Come vuole la natura. C'è un Altro a interessarsene:
lascialo a Lui. E dunque? Bisogna essere sporchi? Non sia mai: ma pulisci
chi sei e chi la natura ha prodotto — l'uomo, per essere un uomo pulito, la
donna, per essere una donna pulita, un ragazzino per essere un ragazzino
pulito. E invece, no: e allora strappiamo anche la criniera al leone, perché non
sia sporco, e la cresta al gallo — perché dev'essere pulito anche lui. Già, ma
da gallo, e il leone da leone, e il bracco da bracco.

IN QUALI CAMPI DEVE ESERCITARSI CHI VUOL FAR PROGRESSO


E CHE TRASCURIAMO CIO’ CH’E’ PIU’ IMPORTANTE

Tre sono i campi in cui deve esercitarsi chi vuole acquistare la perfetta virtù:
— il primo riguarda i desideri e le avversioni, onde non sia frustrato nei
desideri né incorra in ciò che avversa;
— il secondo, gli impulsi e le repulse, in una parola, il dovere, onde si
comporti in modo ordinato, con ponderatezza, senza negligenza;
— il terzo, infine, l'inerranza e la circospezione nel giudicare, in una parola,
i casi di assenso. Di questi, il più importante e in sommo grado urgente, è
quello riguardante le passioni. La passione non si produce altro che quando il
desiderio sia frustrato o l'avversione incorra in ciò da cui rifugge. Ecco ciò
che apporta sconvolgimenti, tumulti, sfortune, disgrazie, che apporta dolori,
gemiti, invidie, che ci da in braccio all'invidia e alla gelosia, a causa delle
quali non possiamo ascoltare la ragione.
II secondo riguarda il dovere perché, certo, non devo essere impassibile
come una statua, ma osservare le relazioni naturali e acquisite, da uomo pio,
da figlio, da fratello, da padre, da cittadino.
II terzo appartiene a quanti hanno già compiuto progressi e riguarda la
sicurezza di ciò che s'è detto, onde non si insinui, neppure nel sonno, una
qualche rappresentazione inesaminata, neppure negli stati di allegria prodotta
dal vino o di furore. «Questo è aldilà dei nostri compiti» si dice. Già: i
filosofi d'oggi, messo da parte il primo e il secondo campo di studio, si
occupano del terzo — ragionamenti amfibologici, o procedimenti mediante
interrogazione o ipotetici o sofismi come il Mentitore. — «Perché, certo — si
dice — anche chi attende a tali materie deve evitare di cadere in errore». «E
chi è costui?» «L'uomo di perfetta virtù.» «A te, dunque, manca solo questo?
Nel resto hai finito di esercitarti? Quando si tratta del miserabile denaro ti
sottrai all'errore? Se vedi una bella ragazzetta, resisti all'immagine che ti si
presenta? Se il tuo vicino entra in possesso di una eredità, non ti senti
mordere? Ora, dunque, non ti manca altro che la incrollabilità nei giudizi?
Infelice! queste stesse cose le impari pieno di timore e ti angusti se qualcuno
ti disprezza e chiedi se qualcuno parla di te. E se uno, venuto a trovarti, ti
dice che, sorta la questione chi fosse il migliore filosofo, uno dei presenti
affermò che quell'unico filosofo era il Tal dei Tali, la tua animuccia, ch'era di
un dito, diventa di due cubiti. Ma se un altro presente alla discussione ha
ribattuto: 'Hai detto una sciocchezza: non vale la pena di ascoltarlo, quello.
Che sa infine? Conosce i primi rudimenti e niente più', esci fuori di te,
impallidisci e ti dai subito a gridare: 'Glielo farò vedere io chi sono, che sono
un grande filosofo'. Già, lo si vede da tale comportamento. Perché vuoi
mostrarlo in altro modo? Non sai che proprio così Diogene mostrò un sofista,
tendendo il dito medio, poi, mentre quello era infuriato: 'Ecco, disse, il Tal
dei Tali: ve l'ho mostrato'? Perché l'uomo non si mostra a dito come un sasso
o un pezzo di legno, ma quando si mostrano i giudizi di uno, allora lo si
mostra da uomo.»
Vediamo quindi anche i tuoi giudizi. Non è chiaro che la tua persona morale
non la tieni in alcun conto e volgi lo sguardo fuori, a ciò che non dipende
dalla tua scelta: che cosa dirà quello, quale impressione farai alla gente, di
letterato o di uno che ha letto Crisippo o Antipatro? Se ti ci si aggiunge
Archedemo, non vuoi altro. Perché ti angusti ancora nel timore di non
mostrarci chi sei? Vuoi sapere che impressione ci hai fatto? L'impressione di
uno che si presenta meschino, scontento, iracondo, timido, che di tutto si
lagna, che tutti accusa, che non trova mai pace, millantatore:
quest'impressione ci hai fatto. E adesso, vattene e leggi Archedemo; se poi un
topo cade giù e fa rumore, sei morto. Una morte così t'aspetta, come quella
che colpì — chi mai? — Crinide. Anche lui si dava grandi arie perché capiva
Archedemo. Disgraziato, non vuoi mettere da parte queste cose che non ti
riguardano affatto? Conviene che le imparino quanti sono in grado di farlo
senza essere turbati, quanti possono dire: «Non mi adiro, non mi addoloro,
non invidio, non soffro impedimenti, né costrizioni. Che c'è ancora? Ho
tempo a disposizione: me ne sto tutto tranquillo. Vediamo come bisogna
trattare le premesse amfìbologiche nelle argomentazioni. Vediamo come,
stabilita un'ipotesi, si eviti di cadere nell'assurdo». A costoro appartengono
tali questioni. A chi sta bene s'addice accendere il fuoco, pranzare e,
all'occorrenza, cantare e danzare: ma quando la barca sta affondando, tu mi ti
presenti e spieghi la vela più alta!
CAPITOLO III

QUAL È LA MATERIA CON CUI HA DA FARE L'UOMO BUONO E


QUALE L'OGGETTO DEI SUOI SFORZI

La materia con cui l'uomo di virtù perfetta ha da fare è la parte direttrice


della propria anima, mentre il corpo è materia del medico e del
massaggiatore, il campo dell'agricoltore. E attività propria dell'uomo di virtù
perfetta è usare le rappresentazioni in modo conforme a natura. Ora, come
ogni anima è per natura tale che approva il vero, riprova il falso, sospende il
giudizio di fronte all'incerto, così si muove rispetto al bene desiderandolo,
rispetto al male scansandolo, rispetto a quanto non è né bene né male in
modo indifferente. Perché, come il banchiere e l'erbivendolo non possono
rifiutare la moneta di Cesare, ma, se la mostri, devono consegnarti, lo
vogliano o no, ciò che con essa hai acquistato, così succede per l'anima; il
bene, appena appare, la trascina a sé, il male la respinge da sé. La
rappresentazione evidente del bene l'anima non la rifiuterà mai, non più che
l'uomo la moneta di Cesare. Di qui dipende ogni azione dell'uomo e di Dio.
È per questo che si preferisce il bene a ogni forma di parentela. Non ho
niente a che fare, io, con mio padre, ma col bene — «Sei tanto duro?» Così è
la mia natura: questa moneta me l'ha data Dio. Per ciò, se il bene è altro dal
bello e dal giusto, scompaiono e padre e fratello e patria e tutte le cose. Ma io
devo disprezzare il mio bene perché te lo prenda tu e devo lasciarlo a te? In
cambio di che? — «Sono tuo padre». Ma non il bene. «Sono tuo fratello».
Ma non il bene. Se, invece, poniamo il bene nella persona morale retta, il
mantenimento stesso delle relazioni sociali diventa un bene e, inoltre, chi
cede qualcuna delle cose esterne ottiene il bene. «II padre mi strappa le
sostanze». Ma non mi danneggia. «II fratello avrà la parte più grossa dei
campi». Quanti ne vuole! Avrà per questo più rispetto, più lealtà, più amor
fraterno?
Da tale possesso chi è in grado di cacciarmi? Nemmeno Zeus. E neppure l'ha
voluto, ma l'ha posto alle mie dipendenze e me l'ha dato quale egli l'aveva,
libero da ostacoli, da costrizioni, da impedimenti.
Siccome, però, la moneta è altro per questo, altro per quello, chi la mostra si
porta via ciò che con essa ha comperato. È arrivato nella provincia un
proconsole ladro. Che moneta usa? L'argento. Mostraglielo e porta via quel
che vuoi. È arrivato un donnaiolo. Che moneta usa? Le belle ragazze. —
«Prendi la moneta, gli dice uno, e vendimi quest'affaruccio». Dammela e
toglilo. Un altro ha il debole per gli amasi. Dagli la moneta e prendi quel che
vuoi. Un altro ama la caccia. Dagli un bel cavallino o un cagnolino: tra
sospiri e gemiti, ti venderà a quel prezzo ciò che vuoi.
Perché c'è un Altro che lo costringe nell'intimo, colui che ha disposto un tale
scambio.
A tal genere di esercizi si deve principalmente attendere. Appena uscito
all'alba, chiunque vedi, chiunque ascolti, esaminati e rispondi come a
un'interrogazione: Che hai visto? Un uomo bello o una donna bella? Prendi la
regola. È una cosa indipendente dalla tua volontà o dipendente?
Indipendente. Toglila via. Che hai visto? Uno che piangeva il figlio morto?
Prendi la regola. La morte è cosa indipendente dalla volontà: toglila di
mezzo. Ti sei incontrato col console?
Prendi la regola. Che roba è il consolato? Indipendente o dipendente dalla
volontà? Indipendente. Togli via anch'esso, non è roba genuina: gettalo via,
non ha niente da fare con te. Se agissimo così, se ci esercitassimo in questo,
ogni giorno, dal crepuscolo alla notte, si concluderebbe davvero qualcosa, per
gli dèi.
Ora, invece, ci lasciamo sorprendere immediatamente da qualunque cosa ci
appare e rimaniamo a bocca aperta e solo a scuola, seppure, ci svegliamo un
pochino: poi, usciti, se vediamo uno che piange, diciamo: «È finito!», se un
console, «Fortunato lui!», se un esiliato: «Infelice», se un povero «Misero
lui! non ha da mangiare».
Questi giudizi perversi s'hanno da recidere, questo ha da essere il nostro
sforzo. Che cos'è in realtà piangere e gemere?
Un giudizio. E la disgrazia? Un giudizio. E la rivoluzione, il dissidio, il
biasimo, le accuse, l'empietà, le chiacchiere?
Sono tutti giudizi: nient'altro, e, per di più, giudizi su cose indipendenti da
noi e che noi assumiamo come buone o cattive. Ma i giudizi li trasferisca
qualcuno nella sfera delle cose dipendenti dalla sua volontà: io l'assicuro,
allora, che la sua condizione sarà tranquilla, comunque siano le cose che lo
circondano.
Come è un catino pieno d'acqua, così è l'anima, come il raggio di luce che vi
piove sopra, così sono le rappresentazioni.
Se l'acqua è scossa, par che anche il raggio di luce sia scosso — in realtà non
è scosso. Ebbene, quando uno è ottenebrato, non sono sconvolte né le sue
cognizioni, né le sue virtù, ma solo lo spirito che le accoglie: ristabilitosi
questo, anche quelle si ristabiliscono.

A UNO CHE IN TEATRO AVEVA PARTEGGIATO PER UN ATTORE


IN MODO SCONVENIENTE

II procuratore dell'Epiro aveva parteggiato per un attore comico in maniera


troppo sconveniente e per questo era stato pubblicamente schernito. Riferì
allora a Epitteto di essere stato schernito e era tutto irritato contro gli
schernitori. «Che male facevano? gli disse Epitteto. Parteggiavano anche
costoro come te». E lui: «È modo quello di parteggiare?» Ed Epitteto:
Vedendo che tu, loro capo, amico di Cesare e procuratore, parteggiavi così,
non dovevano parteggiare così anch'essi? se poi non si deve parteggiare così,
allora non farlo neppur tu: ma se si deve, perché ti irriti se t'hanno imitato?
Chi ha da imitare il volgo se non voi, che siete i superiori? In chi figgono gli
sguardi, entrando in teatro, se non in voi? — «Bada come sta allo spettacolo
il procuratore di Cesare. Ha gridato: e allora griderò anch'io. Si leva in piedi:
mi leverò anch'io. I suoi schiavi sparsi qua e là stanno strillando, ma io non
ho schiavi e allora, come posso, strillerò da solo per tutti». Devi sapere che,
quando entri in teatro, sei regola e esempio agli altri di come ci si debba
comportare.
Insomma, perché ti schernivano? Perché ognuno odia ciò che l'ostacola. Essi
volevano che ricevesse la corona il tale, tu un altro: essi, quindi, ostacolavano
te, tu loro. Tu avevi la meglio: essi facevano quanto potevano, schernivano
quel che li ostacolava. Dunque, che pretendi? Di fare tu quel che vuoi, mentre
essi non potranno neppur dire quel che vogliono?
Che c'è di strano? I contadini non scherniscono Zeus, quando sono ostacolati
da lui? I naviganti non lo scherniscono? e si cessa mai di schernire Cesare?
Ebbene? Zeus non lo sa? non riportano a Cesare quel che vien detto? E che
fa? Egli sa che se dovesse punire tutti i suoi schernitori, non avrebbe su chi
regnare. E allora? Entrando in teatro, dovevi proprio dire: «Via, deve essere
incoronato Sofrone?» No, ma piuttosto: «Via, devo anche in quest'occasione
mantenere la mia persona morale in accordo con la natura». Per me, nessuno
è più caro di me. E allora sarebbe ridicolo che per far riportare all'altro la
vittoria della sua interpretazione comica, dovessi essere danneggiato proprio
io. Dunque, chi voglio che vinca? Il vincitore. In tal modo vincerà sempre chi
voglio. Ma io voglio che la corona sia data a Sofrone. Allora, appresta quanti
spettacoli vuoi a casa tua, e proclamalo vincitore ai giochi Nemei, ai Pitici,
agli Istmici, agli Olimpici.
In pubblico, però, non pretendere più degli altri e non carpire di soppiatto
quel ch'è di tutti. Altrimenti, sopporta gli scherni, perché, quando ti comporti
come il volgo, ti poni sul suo stesso piano.

A QUELLI CHE PER UNA MALATTIA VOGLIONO TORNARSENE A


CASA

«Qui mi sono ammalato — dice uno — e voglio tornarmene a casa». Già,


perché in casa non avevi malattie, tu? Non consideri se qui fai qualcosa che
valga a correggere la tua persona morale? Se non concludi niente, certo, sei
venuto senza uno scopo. Vattene e prenditi cura degli affari di casa. Perché se
la parte direttrice dell'anima tua non può essere conforme alla natura, potrà
esserlo, per lo meno, il campicello: aumenterai, se non altro, il gruzzolo,
curerai il vecchio padre, t'aggirerai per il mercato, otterrai una carica; da quel
mal uomo che sei, però, farai male tutto il resto. Ma se t'accorgi che getti via
taluni giudizi inconsistenti e altri ne prendi in cambio, e che hai trasferito
l'equilibrio del tuo essere da ciò che è indipendente dalla libera scelta a ciò
che ne è dipendente, se quando esclami: «ohimè» non lo dici a causa di tuo
padre o di tuo fratello, ma di te stesso, darai ancora importanza alla malattia?
Non sai che la malattia e la morte ci devono cogliere mentre facciamo
qualcosa? L'agricoltore lo colgono mentre lavora i campi, il navigante mentre
naviga. E tu, in quale faccenda vuoi che ti trovino occupato? Perché bisogna
pure che ti trovino occupato in qualche faccenda. Se puoi essere colto dalla
morte mentre fai qualcosa più importante di questa, falla allora.
Quanto a me, m'accadesse d'essere colto mentre di nient'altro mi occupo se
non di rendere la mia persona morale imperturbata, priva d'impedimenti, di
costrizioni, libera. Intento a questo voglio essere trovato per poter dire a Dio:
«Ho forse trasgredito in qualche punto i tuoi ordini? Ho usato per altro scopo
le facoltà che mi hai dato? per altro fine i sensi o le prenozioni? Ti ho mai
accusato? Ho biasimato mai il tuo governo? Mi sono ammalato quando hai
voluto; anche gli altri, ma io di buon grado. Sono diventato povero, perché
l'hai voluto; ma con gioia. Non ho coperto cariche, perché non hai voluto: ed
io non ho mai desiderato cariche. M'hai visto forse per questo un
po'accigliato? Non mi ti sono presentato sempre col volto raggiante,
preparato a ogni tuo comando, a ogni tua indicazione? Adesso vuoi che
m'allontani dalla festa: me ne vado: ti ringrazio di tutto cuore perché m'hai
ritenuto degno di partecipare alla festa, di vedere le tue opere, di penetrare
coll'intelligenza nel tuo governo. Oh, il mentre penso a queste cose, mentre le
scrivo, mentre le leggo, mi colga la morte!».
«Ma mia madre non mi sorreggerà la testa quando sono malato.» Vattene da
tua madre, allora: è giusto che ti sorregga la testa quando sei malato. «Ma a
casa dormivo in un lettuccio elegante». Vattene dal tuo lettuccio: è giusto che
quando stai bene in salute ti ci riposi. Non perdere, dunque, quel che puoi
fare laggiù.
Ma che dice Socrate? «Come uno gode, egli afferma, nel migliorare il suo
campo, l'altro il cavallo, così io godo, giorno per giorno, osservando come
divento migliore». — In che? Nelle belle frasette? — Taci, uomo.— In pochi
miserabili princìpi? — Che fai? — Eppure non vedo altro in cui i filosofi
spendono il loro tempo. — E non è niente., secondo te, non accusare mai
nessuno, né Dio, né uomo, non lagnarsi di nessuno, uscire e rientrare sempre
con lo stesso volto?
Ecco ciò che sapeva Socrate. E tuttavia non disse mai di sapere o di
insegnare qualcosa. E se qualcuno chiedeva belle frasette o miserabili
princìpi, lo mandava da Protagora e da Ippia, perché se uno gli si fosse
presentato chiedendo delle erbe, l'avrebbe mandato dall'ortolano. Chi di voi,
dunque, ha le stesse intenzioni di Socrate? Che certo, se l'avevate, eravate
contenti di ammalarvi, di soffrire la fame, di morire. E se qualcuno di voi
ama una bella ragazza, sa che dico il vero.

MISCELLANEA

Uno gli domandò com'era che, sebbene la logica fosse allora coltivata di più,
in passato c'era tuttavia più progresso.
«Quale campo si coltiva di più adesso — replicò Epitteto — e in quale c'era
più progresso nel passato? Perché in quello che oggi si coltiva, si troverà
anche oggi progresso. Oggi, infatti, ci si affatica a risolvere sillogismi e in
questo campo si fa progresso: una volta ci si affaticava a custodire la parte
direttrice dell'anima in conformità con la natura e qui c'era progresso. Non
scambiare i due campi e se t'affatichi in uno, non cercare il progresso
nell'altro. Vedi piuttosto se qualcuno di noi, tutto proteso a mantenersi
conforme a natura e a vivere così, non faccia progresso: che non ne troverai
nessuno.
L'uomo buono è invincibile, perché non scende in lotta dove non è superiore.
«Se vuoi quel che io possiedo in campagna, prendilo: prendi i servi, prendi le
cariche, prendi il povero corpo. Ma non riuscirai a far sì che il mio desiderio
sia frustrato né che la mia avversione incorra in ciò da cui rifugge». In questa
sola lotta egli scende, nella lotta con le cose dipendenti dalla volontà. E allora
come non dovrà essere invincibile?
Uno gli chiese che cosa fosse il senso comune. Egli replicò: «Si potrebbe
chiamare orecchio comune quello che si limita a distinguere i suoni, mentre
quello che distingue i toni non è più comune ma da artista. Così ci sono delle
cose che uomini non del tutto pervertiti vedono in grazia delle facoltà
comuni. Tale atteggiamento dell'intelligenza io chiamo il senso comune.»
Non è facile spingere in avanti giovani snervati, come neppure prendere il
cacio coll'amo: quelli ben dotati, invece, se anche li respingi, si attaccano
sempre più alla parola. Così, anche Rufo soleva spesso respingere i giovani e
usava tale prova per distinguere quelli ben dotati da quelli che non lo erano:
— perché diceva che «come il sasso, seppur lo scagli in alto, ricadrà giù in
terra, in forza della sua struttura, così chi é ben dotato, quanto più lo si
respinge, tanto più si volge ove natura lo chiama.»

A UN «CORRETTORE DI LIBERE CITTÀ» CHE ERA EPICUREO

Venne a visitarlo un «correttore» che era epicureo. «È giusto, disse Epitteto,


che noi profani chiediamo a voi filosofi, come i visitatori d'una città straniera
ai cittadini e ai conoscitori, che cosa v'ha di più grande nel mondo, onde,
dopo averla ricercata anche noi, ci mettiamo dietro a essa, come quelli dietro
i monumenti, e la contempliamo. Che tre cose riguardano l'uomo: anima,
corpo e oggetti esterni, quasi nessuno lo nega: ma rimane a voi il compito di
rispondere alla domanda: qual è la più grande?
Che diremo agli uomini? La carne? E per essa Massimo navigò fino a
Cassiope, d'inverno, insieme al figlio, facendogli da scorta? per aver piacere
nella carne?» L'altro negò e disse: — «Non sia mai!» Epitteto continuò: «E
non conviene preoccuparsi di ciò che è più grande di tutto?» —
«Assolutamente, conviene.» — «Che cosa abbiamo, dunque, più grande della
carne?» — «L'anima, rispose.» — «E sono superiori i beni della cosa più
grande o quelli della cosa più vile?» — «Quelli della cosa più grande.» — «E
i beni dell'anima sono dipendenti dalla nostra volontà o indipendenti?» —
«Dipendenti.» — «Dunque, il piacere dell'anima è qualcosa dipendente dalla
nostra volontà?»
— «Certo, rispose.» — «E un tal piacere a quali condizioni sorge? Forse da
sé? Ma è inconcepibile ciò. Pertanto, bisogna supporre che esista in
precedenza una qualche natura del bene; se l'otteniamo, godremo nell'anima.»
Convenne anche in ciò. — «E di che cosa godremo in questo piacere
dell'anima? Se dei beni dell'anima, è già trovata la natura del bene. Poiché è
impossibile che altro sia il bene, altro ciò per cui ragionevolmente ci
rallegriamo e che, se il precedente non è buono, sia buono il conseguente:
infatti, perché sia ragionevole il conseguente, dev'essere buono il precedente.
Ma questo voi non ditelo, se avete senno: affermerete cose inconseguenti a
Epicuro e alle altre vostre dottrine. Resta, pertanto, che nel piacere dell'anima
si goda per i piaceri del corpo: questi dunque vengono in precedenza e sono
la natura del bene.
Quindi agì da sciocco Massimo se navigò per altro motivo che non fosse la
carne, e cioè per quel che v'ha di più grande.
Da sciocco agisce pure chi si astiene dalle cose altrui, qualora sia giudice e
in grado di prenderle. Ma, se ti va, esaminiamo questo punto solo, che cioè il
furto dev'essere commesso di nascosto, a colpo sicuro, senza che nessuno lo
sappia. E, invero, l'atto del rubare Epicuro stesso non lo ritiene male, ma il
lasciarsi sorprendere: e siccome è impossibile avere la garanzia di rimanere
occulti, per questo afferma: «Non rubate». — Ma io ti dico che, se la cosa si
fa con scaltrezza e accortezza, rimarremo occulti: e poi, abbiamo in Roma
amici potenti e anche amiche, e gli Elleni sono indolenti; nessuno ardirà
imbarcarsi per un affare del genere. E perché ti astieni dal tuo proprio bene?
È sciocco, questo, è insensato. Ma neppure se mi dici che te ne astieni, ti
crederò. Perché, come è impossibile dare l'assenso a ciò che appare falso e
rifiutarlo al vero, così è impossibile rinunciare a ciò che appare bene. E la
ricchezza è un bene, anzi, la sorgente per eccellenza dei piaceri. E perché non
vorrai impossessartene? Perché non corrompiamo la moglie del vicino, se
riusciamo a rimanere occulti? e se il marito fa vuote insinuazioni, perché non
mozziamo il collo anche a lui?
Questo, se vuoi essere un filosofo come si deve, un filosofo completo,
coerente alle tue opinioni — altrimenti, non differirai affatto da noi, che
abbiamo il nome di Stoici: perché anche noi, altro diciamo, altro facciamo.
Noi diciamo cose belle e ne facciamo di brutte: tu, invece, sarai vittima
dell'errore opposto, avendo dottrine brutte e facendo azioni belle.
In nome di Dio, t'immagini una città di Epicurei? — «Io non mi sposo». —
«Neppur io, che non ci si deve sposare.» E
non si deve far figli, e neppure partecipare al governo. Che succede? Donde
verranno i cittadini? Chi li istruirà? quale efebarco? quale ginnasiarca? E che
cosa insegnerà ad essi? Quel che apprendevano i lacedemoni o gli ateniesi?
Prendimi un giovane, tiralo su secondo le tue dottrine. Sono dottrine nocive,
sovvertitrici dello Stato, distruttrici della famiglia, non adatte a donne.
Abbandonale, uomo. Vivi in uno Stato dominatore: devi ricoprire posti di
comando, giudicare secondo giustizia, astenerti dall'altrui: nessuna donna t'ha
da apparire bella se non la tua, nessun ragazzo bello, nessun vasellame bello,
sia d'argento o d'oro. Cerca una dottrina in armonia con questi princìpi, una
dottrina su cui fondarti per astenerti di buon grado dalle cose, tanto abili ad
attrarci e a superarci. Ma se, oltre le seduzioni delle cose, noi troviamo una
filosofìa come la vostra che ci aiuta a darci in braccio ad esse e ne raddoppia
la potenza, che accade?
In un lavoro di cesello che cosa è più importante: l'argento o l'arte? La
sostanza della mano è la carne, ma principali sono i lavori della mano. Ora ci
sono tre specie di doveri: la prima riguarda la mera esistenza, la seconda un
determinato genere di esistenza e poi i doveri principali. Così, nel caso
dell'uomo, non si deve pregiare la sostanza materiale, la carne miserabile, ma
proprio i doveri principali. E quali sono questi doveri? Partecipare allo Stato,
sposarsi, far figli, onorare Dio, aver cura dei genitori, in una parola,
desiderare, avversare, avere impulsi e repulse come ciascuno di questi atti
richiede, come esige la nostra natura. E come esige la nostra natura? [Che ci
comportiamo] da uomini liberi, da uomini nobili, da uomini rispettosi. Qual
altro vivente arrossisce, quale altro ha il senso della turpitùdine? Quanto al
piacere, si deve subordinarlo a tutto questo, come ministro, come servo, onde
risvegli il nostro ardore, onde ci mantenga nelle azioni conformi a natura.
«Ma io sono ricco e non ho bisogno di nulla.» E perché pretendi pure di
filosofare? Ti basta il vasellame d'oro e d'argento: che bisogno hai di
dottrina? — «Ma sono anche giudice degli Elleni.» — «Sai giudicare? Che
cosa t'ha messo in grado di farlo?» «Cesare m'ha mandato la nomina.» Te ne
mandi pure un'altra, onde possa giudicare di questioni musicali: che utilità ne
avrai? Dopotutto, come sei diventato giudice? di chi hai baciato la mano, di
Sinforo o di Numenio? Avanti alla porta di chi hai dormito? A chi hai inviato
regali? E non t'accorgi che essere giudice ha lo stesso, identico valore di
Numenio?
«Ma io posso gettare in galera chi voglio.» Come se fosse un sasso. — «Ma
posso fustigare chi voglio.» Come se fosse un asino. Non è comandare sugli
uomini, questo. Comanda su noi, come su esseri ragionevoli, mostrandoci
quel che ci conviene e ti verremo dietro: mostraci quel che non ci conviene e
ce ne allontaneremo. Facci imitatori di te, come Socrate faceva di se stesso.
Egli davvero governava gli uomini da uomini, egli che se li teneva
assoggettati nei loro desideri e nelle loro avversioni, negli impulsi e nelle
repulse. — «Fa' questo, non farlo: se no, ti butto in galera.» Non è comandare
su esseri ragionevoli, questo. Ma piuttosto: — «Fa' come Zeus ha disposto: se
non lo farai, sarai punito, subirai un danno.» Quale danno? Nessun altro se
non di essere venuto meno al tuo dovere: distruggerai in te l'uomo leale,
rispettoso, ordinato. Non cercare altri danni maggiori di questo.

COME BISOGNA ESERCITARSI CONTRO LE RAPPRESENTAZIONI

Come ci esercitiamo contro le interrogazioni sofistiche, così pure


bisognerebbe esercitarsi quotidianamente contro le rappresentazioni, perché
anch'esse ci presentano delle interrogazioni. È morto il figlio del tale.
Rispondi: «Non dipende dalla libera scelta, non è un male.» II padre l'ha
lasciato senza eredità. Che te ne pare? «Non dipende dalla libera scelta, non è
un male.» Cesare l'ha condannato. «Non dipende dalla libera scelta, non è un
male.» S'è addolorato per questo.
«Ciò dipende dalla libera scelta, è un male.» — L'ha sopportato con
coraggio. «Ciò dipende dalla libera scelta, è un bene». Se prendiamo tale
abitudine, faremo progressi, perché a nient'altro daremo mai l'assenso se non
a ciò di cui avremo la rappresentazione catalettica. È morto il figlio — Che è
successo? È morto il figlio. Nient'altro? Niente. È
andata distrutta l'imbarcazione. Che è successo? È andata distrutta
l'imbarcazione. Fu gettato in prigione. Che è successo? Fu gettato in prigione.
Ma l'osservazione: «è piombato nel male», ciascuno l'aggiunge da sé.
«Eppure Zeus non agisce bene in tutto questo». Per qual motivo? Perché t'ha
fatto tollerante, perché magnanimo, perché ha strappato alle cose la
possibilità di essere mali, perché t'è lecito essere felice pur sopportandole,
perché t'ha spalancato la porta, quando non fanno più per te? Uomo, esci e
non accusare.
Vuoi sapere come si comportano i Romani nei riguardi dei filosofi? Ascolta.
Italico, che passava per uno dei loro più grandi filosofi, adiratosi un giorno
coi suoi, in mia presenza, quasi avesse subito qualcosa d'irreparabile: —
«Non lo posso sopportare — esclamò — Voi mi date la morte: mi ridurrete
come costui» e indicava me.

A UN ORATORE CHE SI RECAVA A ROMA PER UNA CAUSA

Gli si presentò uno che andava a Roma per una causa riguardante un onore
che gli spettava. Saputo il motivo per cui partiva, siccome quello gli aveva
chiesto che pensasse della faccenda. — «Se mi chiedi — rispose Epitteto —
che cosa farai a Roma, se cioè vincerai o perderai la causa, non ho alcun
principio al riguardo, ma se mi chiedi come
dovrai comportarti, posso dirti che, se hai giudizi diritti, bene, se erronei,
male. Perché, in ogni caso, movente dell'azione è per ciascuno il giudizio. E,
in realtà, che cosa ti ha fatto bramare d'essere designato patrono degli abitanti
di Cnosso? Il giudizio. Che cosa ti fa adesso salpare per Roma? Il giudizio. E
pur col mare tempestoso, con pericoli e spese? » «È necessario». E chi te lo
dice? Il giudizio. Dunque, se di tutto causa sono i giudizi e uno ha giudizi
erronei, quale è la causa, tale l'effetto. O forse abbiamo tutti giudizi sani, e tu
e il tuo avversario? E com'è allora che siete in disaccordo? Ovvero tu li hai
più sani di lui? Perché? Perché ti pare. Ma anche a lui pare, e anche ai pazzi.
È un criterio falso, questo. Mostrami piuttosto che hai fatto un esame dei tuoi
giudizi e te ne sei preso cura, e che, come adesso t'imbarchi per Roma per
essere patrono degli abitanti di Cnosso e non ti basta rimanere a casa col
titolo che hai, ma ne desideri uno maggiore e più atto a metterti in vista, così,
un tempo, t'imbarcasti per fare una disamina dei tuoi giudizi e gettarne via
qualcuno, se era erroneo. Da chi ti sei recato per questo scopo? Quale tempo
ti sei prescelto per ciò? Quale periodo di vita? Ripercorri da te questi
momenti, se hai ritegno di me, solo con te stesso. Quand'eri bambino,
esaminavi i tuoi giudizi? E non facevi anche allora quel che facevi, come lo
fai adesso? Quando poi, già ragazzo, ascoltavi gli oratori e declamavi tu
stesso, che cosa immaginavi ti mancasse? Quando poi, giovane, prendevi
ormai parte al governo e difendevi le cause e salivi in fama, chi più ti
sembrava alla tua altezza? Quando avresti sopportato di essere esaminato da
qualcuno perché avevi giudizi falsi? Che cosa vuoi ti dica? — «Aiutami in
questa faccenda.» Non ho princìpi da darti alla bisogna, e se sei venuto da me
per questo, non sei certo venuto da me come filosofo, ma come saresti andato
da un erbivendolo o da un calzolaio. — Ma, allora, i filosofi per che scopo
hanno i loro princìpi? — Per questo, che qualunque cosa accada, la Parte
direttrice della nostra anima sia e continui ad essere fino alla fine in accordo
con la natura. E ti par poco questo? — No, è la cosa più grande. — E allora?
C'è bisogno di poco tempo? Ed è possibile ottenerla con una visita fugace? Se
puoi, fallo.
Poi dirai: — «Mi sono incontrato con Epitteto: è stato come incontrare un
sasso o una statua». Già, perché mi hai veduto e niente più. Ma con un uomo
in quanto uomo s'incontra chi riesce a saperne esattamente i giudizi, e, a sua
volta, gli svela i propri. Apprendi i miei giudizi, mostrami i tuoi e così dì
d'esserti incontrato con me. Ci metteremo alla prova a vicenda: se io ho un
giudizio cattivo, strappalo: se l'hai tu, via, tiralo fuori. Questo significa
incontrarsi con un filosofo. E, invece, no: ma «passiamo di qui e nel mentre
si noleggia l'imbarcazione, possiamo pure visitare Epitteto: vediamo che mai
dice.» Poi esci e «Proprio un nulla era Epitteto: sbagliava parlando,
commetteva dei barbarismi.» Che cos'altro siete venuti a giudicare?
«Ma se mi dò a questo, dice qualcuno, non possiederò più campi, come
neppure tu; non possiederò più coppe d'argento, come neppure tu; e neanche
le greggi belle, come neppure tu.» A ciò basterebbe forse rispondere: — «Ma
non ne ho bisogno: tu, invece, se sei riuscito ad avere molto, hai bisogno di
altro, e, volente o nolente, sei più pitocco di me.» — «E di che ho bisogno?»
— Di quel che non hai: di possedere la calma, di conformare il tuo pensiero
alla natura, di non essere turbato. Ci sia o no il patrono, che m'importa?
Importa a te. Io sono più ricco di te: e non mi angustio di quel che Cesare
penserà di me: non adulo nessuno per tale scopo. Questo io possiedo al posto
del vasellame d'argento, al posto del vasellame d'oro: tu hai suppellettili
d'oro, e di terracotta la ragione, i giudizi, l'assenso, gli impulsi, i desideri. Ma
quando tutto ciò lo possiedo conforme a natura, perché non mi applicherò
pure alla logica? E, infatti, ho tempo libero: il mio intelletto non è trascinato
di qua o di là; che farò, non essendo trascinato né di qua né di là? Che cosa
più di questa s'addice all'uomo? Voi, quando non avete niente da fare, vi
turbate, ve ne andate a teatro o gironzolate senza mèta: e il filosofo, perché
non eserciterà la sua ragione? Tu bada ai tuoi cristalli, io all'argomento del
«Mentitore»: tu alle tue porcellane, io al sillogismo del «Negatore». A te,
tutto quel che hai sembra poco: a me, le mie cose, tutte, molto.
Insaziabile è la tua brama, la mia s'appaga. Ai bambini che ficcano la mano
in un vaso dal collo stretto e cercano di tirar su i fichi secchi, capita lo stesso:
se riempiono la mano, non riescono più a estrarla, e allora piangono.
Lasciane un po' e la tirerai fuori. Anche tu, lascia qualche desiderio da parte:
non bramar molto e l'otterrai.

COME BISOGNA SOPPORTARE LE MALATTIE?


Ogni giudizio, quando si deve usarlo, bisogna averlo a portata di mano: a
pranzo, quelli che riguardano il pranzo, al bagno, quelli che riguardano il
bagno, nel letto, quelli che riguardano il letto.
E non accogliere il sonno nei molli occhi, prima d'avere ben ponderato su
ognuna delle tue quotidiane fatiche: dov'ho sbagliato? che ho fatto? non ho
forse compiuto [un dovere?]
Prendi di qui l'inizio e va' avanti; e in seguito, poi, se le tue azioni son brutte
ti biasima, godi, se buone.
E questi versi bisogna saperli per metterli in pratica, non per declamarli con
enfasi, come «O Apollo Salvatore.» — A sua volta, in occasione della febbre,
conviene usare i principi adatti al caso e non metterli da parte o dimenticarli,
quando siamo febbricitanti. — «Se continuerò a filosofare, capiti quel che
vuole. Dovunque vado, devo prendermi cura del mio miserabile corpo.»
Certo, a meno che non venga la febbre. Ma il filosofare che cos'è? Non è
prepararsi a ogni evenienza? Non intendi che il senso della tua frase è il
seguente: — «Se io continuerò ancora a prepararmi per sopportare con calma
i casi umani, capiti quel che vuole»? Come se uno, per aver subito dei colpi,
si ritirasse dal lottare nel pancrazio. Però, mentre nel pancrazio ci si può
fermare e scansare i colpi, qui, se ci fermiamo e non filosofiamo più, che
utilità ne verrà? Che cosa, dunque, bisogna dirsi in ogni circostanza difficile?
«Proprio per questo mi esercitavo, per questo mi allenavo.» Dio ti dice:
«Mostrami se hai gareggiato a dovere, se hai mangiato quanto dovevi, se ti
sei esercitato, se hai dato ascolto all'alipte.» E adesso, di fronte all'azione,
t'infiacchisci d'un tratto? Ora è tempo di aver la febbre: che venga come si
deve. Di aver sete: abbi sete come si deve. D'aver fame: abbi fame come si
deve. Non dipende da te, questo? E chi te lo proibirà? Il medico ti proibirà, sì,
di bere, ma non può proibirti d'aver sete come si deve: ti proibirà, sì, di
mangiare, ma non può proibirti d'aver fame come si deve.
Ma non amo lo studio? E perché ami lo studio? Schiavo, non per vivere
sereno? non per essere calmo? non per conformarti alla natura e così
continuare a vivere? Che cosa proibisce di mantenere la parte direttrice
dell'anima conforme a natura pur con la febbre? Ecco la prova di tutta la
faccenda e l'esame di chi filosofa. Perché anche la febbre è una parte della
vita: come il passeggio, la traversata per mare, il viaggio per terra. Leggi,
forse, passeggiando? No. E così neppure quando hai la febbre. Ma se
passeggi come si deve, fai quel che spetta a chi passeggia: se hai la febbre
come si deve, fai quel che spetta a chi ha la febbre. Che significa aver la
febbre come si deve? Non biasimare Dio né uomo, non lasciarsi opprimere da
quel che succede, accettare con coraggio e come si deve la morte, compiere
quel che è prescritto: quando viene il medico, non temere che cosa dica, e
non rallegrarsi oltre misura se afferma: — «Stai bene.» Di che bene ti parla?
Quando stavi in salute, che bene avevi? Ma neppure perdersi d'animo, se
afferma: — «Stai male.» Che cos'è star male? Avvicinarsi alla separazione
dell'anima dal corpo. Che c'è di terrificante in ciò? Se non ti ci avvicini
adesso, non ti ci avvicinerai più tardi? E il mondo si sconvolgerà alla tua
morte? Perché, dunque, aduli il medico? Perché dici: «Se vuoi, signore, starò
bene?» Perché gli offri motivo di darsi delle arie? Non lo retribuisci in misura
giusta come il calzolaio per quanto riguarda il piede, e il carpentiere per
quanto riguarda la casa, così anche il medico per questo misero corpo, che
non è mio e per natura è destinato a morire? Di tutto questo è tempo quando
si ha la febbre: e chi lo fa, fa ciò che gli spetta. Non è affare del filosofo
custodire le cose esterne, né un po' di vino, né un po' d'olio, né un corpo
disgraziato: e che cosa allora? La parte direttrice della propria anima. E come
le usa, allora, le cose esterne? Finché ci può stare in mezzo in modo non
contrario alla ragione. Dov'è più, dunque, l'occasione di aver paura?
Dov'è più l'occasione di adirarsi? o di temere per cose che non lo riguardano,
che non valgono niente? Bisogna, invece, aver sotto mano questi due
princìpi: di quanto sta oltre la sfera della persona morale, niente è buono,
niente è cattivo: inoltre, non bisogna guidare le cose, bensì, seguirle. — «Mio
fratello non doveva comportarsi con me in tal guisa.» No: se la vedrà lui,
però. Io, comunque egli si comporterà con me, adempirò, come si deve, il
mio dovere verso di lui. Perché questo è il mio compito: quello non
appartiene a me: in questo nessuno mi può impedire, in quello sì.

MISCELLANEA

Ci sono punizioni assegnate quasi per legge contro coloro che


disobbediscono al governo divino: «Chi riterrà buone cose diverse da quante
rientrano nella sfera della libera scelta, invidi, brami, aduli, sia turbato: chi
riterrà cattive altre cose, si dolga, gema, si lamenti, sia infelice».
E tuttavia, nonostante sì amare pene, non possiamo staccarci da un tal modo
di agire. Ricorda che dice dell'ospite il poeta:
Ospite, non ho diritto di spregiare un viandante, neppure se peggiore venisse
di te: che da Zeus sono tutti ospiti e mendicanti.
Lo stesso s'ha da tenere a portata di mano a proposito del padre: «Non ho
diritto di spregiare il padre, neppure se ne venisse uno peggiore di te, che da
Zeus sono tutti, protettore dei Padri.» E così, a proposito d'un fratello:
«perché da Zeus sono tutti, protettore della stirpe.» Allo stesso modo, rispetto
alle altre relazioni, troveremo Zeus che veglia su tutte.

DELL’ESERCIZIO

Non ci si deve esercitare mediante cose innaturali o bizzarre, giacché allora


non ci sarà differenza alcuna tra i prestigiatori e noi che diciamo di filosofare.
È difficile, certo, camminare sulla corda: non solo diffìcile, ma anche
pericoloso. Per questo dovremo studiarci pure noi di camminare sulla corda o
di drizzare una palma o d'abbracciare le statue? Nient'affatto. Non tutto ciò
ch'è difficile e pericoloso serve ad esercitare, ma solo ciò che è vantaggioso
all'oggetto proposto ai nostri sforzi. E qual è l'oggetto proposto ai nostri
sforzi? Trattare desideri e avversioni senza impedimenti. Che significa ciò?
Non essere frustrati nei propri desideri, né incorrere in ciò che avversiamo. A
questo, dunque, deve tendere anche l'esercizio. E poiché non è possibile
avere un desiderio che non fallisce il suo oggetto, né un'avversione sicura da
ogni inciampo senza lunga e continua preparazione, sappi che se questa
preparazione la rivolgerai di fuori, agli oggetti indipendenti dalla volontà,
non avrai né un desiderio atto a raggiungere il suo oggetto, né una avversione
al sicuro da inciampi. E poiché l'abitudine ha una grande influenza, se noi
siamo abituati a usare del nostro desiderio e della nostra avversione solo in
rapporto agli oggetti esterni, bisogna opporre a questa abitudine l'abitudine
contraria, e dove l'abbaglio delle rappresentazioni è frequente, lì opporre la
forza dell'esercizio.
Sono incline al piacere: a mo' d'esercizio, mi spingerò dalla parte contraria
oltre misura. Aborrisco dalla fatica: occuperò ed eserciterò in questo campo
le mie rappresentazioni onde cessi alfine la mia avversione da qualunque
cosa di questo genere. E, in verità, chi si esercita? Chi si cura di non usare il
suo desiderio, e di usare la sua avversione solo per quanto rientra nella sfera
della persona morale, chi si cura maggiormente di ciò in cui è difficile
riuscire. Per cui bisogna che questo si eserciti più in un campo, quello più in
un altro. A che vale allora drizzare una palma, o portare in giro una copertura
di pelle, il mortaio o il pestello? Uomo, se sei irascibile, esercitati a
sopportare gli insulti, e non irritarti d'essere disprezzato. In tal modo
progredirai tanto che, seppure uno ti picchia, tu stesso gli dirai: — «Supponi
d'aver abbracciato una statua.» Esercitati, inoltre, a usare con discrezione del
vino, non in vista di ingozzarne molto (sebbene anche in questo s'esercitino
taluni sciocchi), ma in primo luogo per astenertene, e tienti lontano dalle
ragazze e dai dolci.
Talora, poi, per metterti alla prova, se ti va, scenderai opportunamente in
lizza contro te stesso, per conoscere se le rappresentazioni conservano sopra
te lo stesso potere di un tempo. Soprattutto, però, fuggì lontano dalle
tentazioni troppo violente. Ineguale è la lotta tra una bella ragazza e un
giovine che è ai primi passi del filosofare: pentola e sasso, dicono, non vanno
d'accordo.
Dopo il desiderio e l'avversione, il secondo campo d'esercizio riguarda
l'impulso e la repulsa, affinchè l'azione che a essi conseguita sia docile alla
ragione e rispetti il tempo, il luogo, e altre convenienze di questo genere.
II terzo riguarda i casi d'assenso ed è in rapporto a quanto può persuadere e
attirare. Perché, come Socrate diceva che non s'ha da vivere una vita priva di
esame, così non bisogna accogliere alcuna rappresentazione senza esame, ma
dire: — «Aspetta, lasciami vedere chi sei e donde vieni.» oppure, come le
sentinelle notturne: «Mostrami le tessere.» — «Hai il segno dato da natura,
segno che deve recare qualunque rappresentazione voglia farsi accettare?». E,
infine, tutte le pratiche a cui si sottopone il corpo da chi lo tiene in attività
potrebbero essere usate anch'esse come esercizio, se in qualche modo mirano
al desiderio e all'avversione: se invece mirano all'ostentazione, allora sono
proprie di uno che guarda al di fuori e va a caccia di qualch'altra cosa e cerca
spettatori che dicano: «Oh, il grand'uomo!». Per ciò diceva bene Apollonio:
«Se vuoi esercitarti proprio per te, quando hai sete ed è caldo, tira su un sorso
d'acqua fresca, poi sputala e non dirlo a nessuno».

CHE SIGNIFICA ABBANDONO E CHI E’ ABBANDONATO


Abbandono è la condizione di chi non ha risorse. Chi è solo non è per ciò
stesso anche abbandonato; al contrario si può stare in mezzo a tanti ed essere
nondimeno abbandonati. Tuttavia, quando non abbiamo più il fratello o il
figlio o l'amico nel quale trovavamo conforto, diciamo di essere rimasti
abbandonati, pur se spesso stiamo a Roma, tra tanta folla che ci viene
incontro, tra tanti che abitano nella stessa casa e talora con un mucchio di
schiavi. Perché abbandonato nel suo significato vuol dire essere senza risorse,
esposto a chiunque voglia far oltraggio. Quindi, in viaggio, diciamo di essere
abbandonati specialmente quando incappiamo nei briganti, perché non è la
presenza dell'uomo a strapparci all'abbandono, ma la presenza dell'uomo
leale, rispettoso, soccorrevole. Giacché, se la solitudine bastasse a essere
abbandonati, dì pure che anche Zeus è abbandonato durante la conflagrazione
del mondo e si lamenta con se stesso: «O me infelice! non ho Era, non ho
Atena, non ho Apollo, né alcuno, insomma, o fratello, o figlio, o nipote, o
parente.» E che faccia questo Zeus, solo, nella conflagrazione del mondo,
taluni l'affermano, perché non riescono a comprendere la maniera di vita di
chi è solo, partendo, come essi fanno, da un dato naturale, che cioè gli uomini
sono per natura socievoli, si amano di mutuo affetto e stanno volentieri in
compagnia l'uno con l'altro. E nondimeno bisogna prepararsi anche a questo,
a poter bastare a se stessi, a poter stare insieme a se stessi: come Zeus vive in
compagnia di sé, e riposa in sé, e pensa al carattere del suo governo e
s'occupa di pensieri a lui convenienti, così anche noi dobbiamo poter
conversare con noi stessi, fare a meno degli altri, non essere in imbarazzo sul
modo di passare il tempo: dedicarci allo studio del governo divino e delle
nostre relazioni con le altre cose: considerare come ci comportavamo un
giorno con quel che ci capitava, come ci comportiamo adesso, quali sono le
cose che ancora ci angustiano: come possono essere curate anche queste,
come rimosse: e se talune hanno bisogno di perfezionamento, perfezionarle
secondo il principio di ragione inerente a loro.
Vedete che Cesare ci offre, a quanto pare, grande tranquillità: non ci sono
più guerre né battaglie, non latrocini in grande stile né piraterie; è lecito a
ogni ora mettersi in cammino e navigare dall'oriente all'occidente. Forse
anche dalla febbre ci può ottenere la pace o dal naufragio o dagli incendi o
dal terremoto o dai fulmini? E dall'amore? Non può. Dal dolore? Non può.
Dall'invidia? Non può. Insomma, da nessuna di queste cose può : invece, la
dottrina dei filosofi promette di offrirci la pace anche da tutto ciò. E che dice?
«Se mi prestate attenzione, uomini, dovunque siate, qualunque cosa facciate,
non sarete più soggetti al dolore né all'ira né alla necessità né agli
impedimenti: impassibili vivrete e liberi da tutto.» Questa pace bandita non
da Cesare (come potrebbe bandirla?) ma da Dio bandita mediante la ragione,
a chi non basta, anche se è solo, quando considera e riflette: «Adesso non mi
può capitare alcun male: per me non ci sono ladri, non ci sono terremoti, tutto
è pieno di pace, tutto è pieno di tranquillità: ogni strada, ogni città, ogni
assemblea, vicini, amici sono tutti innocui. Un Altro offre il cibo, a cui sta a
cuore, un Altro il vestito, un Altro da le sensazioni, un Altro le prenozioni.
Quando poi non offre il necessario, da il segnale della ritirata, lascia aperta la
porta, e ti dice: — ‘Va'.’ Dove? Non in luoghi terrificanti, ma lì donde sei
venuto, verso degli amici e dei parenti, verso gli elementi naturali.
Quanto fuoco era in te, ritornerà in fuoco, quanto era terra in terra, quanto
aria in aria, quanto acqua in acqua. Non c'è Ade, non Acheronte, non Cocito,
non Piriflegetonte, ma tutto è pieno di dèi e di potenze divine.» E chi è in
grado di riflettere su ciò e guardare il sole, la luna, gli astri e prendere diletto
dalla terra e dal mare non è abbandonato più di quanto sia senza aiuto. «Ma
allora? Se uno mi assale, quando sono solo, e mi uccide?» Pazzo, non uccide
te, ma il tuo misero corpo!
Di quale abbandono, dunque, dobbiamo parlare ancora? Di quale imbarazzo?
Perché ci facciamo da meno dei ragazzini? Questi, quando rimangono soli,
che fanno? Prendono conchigliette e sabbia e costruiscono qualcosa, poi la
buttano giù e ne fanno ancora un'altra: e così non restano mai in imbarazzo
sul modo di passare il tempo. Ed io, se voi v'imbarcherete, dovrò mettermi
seduto a piangere che sono rimasto solo e abbandonato così? Non avrò delle
conchigliette? Non della sabbia? Però i ragazzini si comportano in quel modo
per la loro insensatezza, e noi proprio per il nostro senno saremo disgraziati?
Ogni grande potere comporta rischi per i principianti. Bisogna dunque
sostenere tali cose secondo le nostre possibilità, sì, ma secondo la nostra
natura. [La lotta fa bene all’uomo sano,] ma non a chi è tisico. Talvolta, per
esercizio, vivi da malato, onde, in altro tempo, possa vivere da sano. Non
toccar cibo: bevi solo acqua: astienti, talvolta, assolutamente dal desiderare,
onde in altro tempo possa usare il desiderio in conformità a ragione. E se in
conformità a ragione, qualora abbia un bene in te, giustamente lo desidererai.
E invece no: ma d'un tratto vogliamo vivere da saggi e dare aiuto agli uomini.
Quale aiuto? Che fai? Hai aiutato te stesso? Ma vuoi esortare gli altri. Perché,
tu ti sei esortato? e vuoi aiutare gli altri? Mostra loro in te stesso che uomini
produce la filosofìa e non ciarlare inutilmente. Col tuo modo di mangiare,
aiuta chi mangia con te, col tuo modo di bere, chi beve, e così col tuo cedere
a tutti, col tuo ritirarti, col tuo sopportare: aiutali in tal modo e non sputare
loro addosso il tuo catarro.

MISCELLANEA

Come i mediocri coristi non possono cantare da soli ma insieme a molti, così
taluni non possono andare attorno da soli.
Uomo, se sei qualcuno, vattene attorno anche da solo, e conversa con te
stesso e non nasconderti nel coro. Lasciati burlare, talvolta, guardati attorno,
scuotiti per conoscere chi sei.
Quando uno beve acqua o compie un'azione che lo tiene in esercizio, prende
ogni occasione per dirlo a tutti. — «Io bevo acqua». — «Ma tu bevi acqua
solo per bere acqua? Uomo, se ti fa prò bere, bevi: se no, è ridicolo il tuo
agire. Se poi ti giova e la bevi, sta' zitto con quanti non sopportano chi fa
diversamente da loro. E che? Vuoi piacere proprio a costoro?».
Delle azioni alcune si compiono per un dovere principale, altre per le
circostanze, altre per calcolo, altre per esigenze di vita comune, altre, infine,
per un piano prestabilito.
Queste due cose bisogna strappare agli uomini, la presunzione e la diffidenza.
Presunzione è credere di non aver bisogno di niente; diffidenza, invece,
ritenere di non poter vivere sereni tra tante circostanze. La presunzione la
distrugge la confutazione: e con questo cominciava sempre Socrate. Poiché
poi non si tratta di cosa impossibile, esamina e ricerca. Tale ricerca non ti
porterà nessun danno, anzi, il filosofare sta quasi tutto qui, cercare come si
possano avere desideri e avversioni senza impedimenti. — «Io sono più di te,
che mio padre è stato console.» Dice un altro: — «Io sono stato tribuno, tu
no.» Se fossimo cavalli, diresti: — «Mio padre era più veloce» oppure: —
«Io ho tant'orzo e tanta biada» oppure: — «I miei pettorali sono magnifici.»
Ma se alle tue parole io replicassi: — «Sia pure: vogliamo correre?» Ebbene,
non c'è niente per l'uomo che corrisponda a quel che è la corsa per il cavallo,
in base a cui distinguere il peggiore dal migliore? Non c'è per caso il rispetto,
la lealtà, la giustizia? Mostrati superiore in queste virtù, affinchè sia superiore
da uomo. Se mi dici: — «Io sferro calci potenti», ti risponderò a mia volta
che «vai superbo per un'azione da somaro.»

CHE BISOGNA ACCINGERSI A OGNI AZIONE CON CIRCOSPEZIONE

Di ogni azione esamina i precedenti e le conseguenze e poi accingiti ad essa.


Se no, sulle prime ti ci metterai con passione, perché non hai considerato
affatto ciò che viene dopo, ma in seguito, all'apparire d'una difficoltà, ti
tirerai vergognosamente indietro. «Voglio vincere le olimpiadi.» Ma osserva
i precedenti e le conseguenze: e così, se ti fa comodo, metti mano all'opera.
Devi ben disporre ogni cosa, sottoporti a una dieta rigorosa, astenerti dai
manicaretti, esercitarti, tuo malgrado, secondo l'orario stabilito, al caldo, al
freddo, non bere a caso roba gelata né vino; insomma, devi affidarti
all'istruttore come a un medico: poi durante il combattimento essere buttato
sulla rena, e talvolta slogarti una mano, torcerti una caviglia, masticar molta
polvere, incassar colpi — e, con tutto ciò, puoi esser vinto. Fatte queste
considerazioni, se ancora ti garba, vattene a gareggiare: se no, bada che ti
comporterai come i ragazzini, i quali giocano ora agli atleti, ora ai gladiatori,
ora suonano la tromba, ora rappresentano qualunque cosa abbiano visto e
ammirato.
Così, anche tu, ora sei atleta, ora gladiatore, ora filosofo, ora oratore, ma,
con tutta l'anima non sei niente: al pari di una scimmia, imiti quel che vedi e
sempre una cosa dopo l'altra ti piace, mentre quel che diventa abituale ti
dispiace. Ciò perché non ti sei accinto a una cosa con circospezione, né dopo
averla studiata ed esaminata nella sua complessità ma superfìcialmente e con
un interesse a freddo.
Così taluni, visto un filosofo e udito uno che parlava come Eufrate (eppure,
chi è in grado di parlare come lui?) vogliono filosofare anch'essi. Uomo,
esamina prima dt tutto di che si tratta, poi la tua natura e le tue capacità. Se
vuoi essere lottatore, guarda le tue spalle, le gambe, i fianchi. Perché uno è
nato per una cosa, uno per un'altra. Pensi che facendo quel che fai, puoi
filosofare? Pensi di poter mangiare come adesso e come adesso bere, e allo
stesso modo adirarti e allo stesso modo sdegnarti? Vegliare bisogna, faticare,
vincere talune passioni, abbandonare la propria famiglia, sopportare il
disprezzo di uno sciocco schiavo, la derisione di quanti incontri, avere la
peggio in ogni cosa — cariche, onori, cause. Fatto tale esame, se ti va,
accingiti all'opera se vuoi ottenere in cambio l'impassibilità, la libertà,
l'imperturbabilità. Se no, non avvicinarti, per non essere come i ragazzi,
adesso filosofo, più tardi esattore di imposte, poi oratore, poi procuratore di
Cesare.
Tali cose non vanno d'accordo: devi essere un uomo tutto d'un pezzo, buono
o cattivo, devi esercitare la parte direttrice della tua anima o le cose esterne,
devi lavorare sodo intorno alle cose interne o a quelle esterne: ecco che
significa occupare il posto di filosofo o di uomo comune.
Quando Galba fu assassinato, uno disse a Rufo: «È retto dalla provvidenza il
mondo in questo momento?» E lui: «Una cosa tanto secondaria come Galba,
m'è mai servita per provare che il mondo è retto dalla provvidenza?».

CHE BISOGNA ESSERE ACCORTI NELLO SCENDERE A CONTATTO


CON GLI UOMINI

Chi scende di frequente a contatto cogli altri o per ciarlare o per partecipare a
un simposio o semplicemente per stare insieme, dovrà di necessità o
agguagliarsi a loro o trasportarli nel suo ordine di idee. Perché, se si pone un
tizzo mezzo spento vicino a uno che brucia, o quello spegnerà questo o
questo infocherà quello. Essendo, dunque, il pericolo tanto grande, bisogna
essere molto circospetti nell'impegnarsi in siffatte relazioni con gli uomini
comuni, ricordando che chi si stropiccia a persone sporche di fuliggine, è
impossibile non se ne buschi un po' anche lui.
Che cosa farai se quello parla di gladiatori, di cavalli, di atleti, o, peggio
ancora, di uomini: «II tale è cattivo, il tale buono: questo è riuscito bene,
questo male»; o, ancora, se schernisce, se mette in ridicolo, se è una mala
lingua? Chi di voi ha la preparazione del citarista che, presa la lira, non
appena tocca le corde, avverte quali sono scordate e accorda lo strumento? o
la capacità che aveva Socrate il quale in ogni circostanza trascinava a sé
quanti stavano con lui? Come potete averla? Piuttosto, sarete voi e di
necessità abbindolati dagli uomini comuni.
E perché essi sono più forti di voi? Perché essi le loro chiacchiere putride le
dicono con convinzione, voi, i vostri bei discorsi a fior di labbra: e quindi
sono senza mordente, senza vita, e si deve nauseare chi ascolta le vostre
esortazioni, la vostra miserabile virtù, decantata in tutti i toni. Ecco come vi
superano gli uomini comuni. Perché in qualunque campo il giudizio è forte, è
un giudizio invincibile. Perciò, finché non saranno ben ferme in voi le idee
giuste e non avrete ottenuto una certa forza per garantirne la sicurezza, io vi
consiglio di essere circospetti nello scendere a contatto cogli uomini comuni:
se no, giorno per giorno, come cera al sole, si scioglieranno le poche cose
notate a scuola.
Ritiratevi, dunque, in qualche luogo, lontano dal sole, finché le vostre idee
sono di cera. Anche per questo i filosofi consigliano di abbandonare la patria;
in realtà, le antiche abitudini trascinano e non lasciano che cominci a imporsi
un altro costume, e neppure sopportiamo chi ci incontra ed esclama: «Ecco,
quello filosofa, ed è così e così.» Allo stesso modo i medici mandano in altri
paesi, in altri climi chi soffre di malattie croniche: e fanno bene. Anche voi,
quindi, inducete abitudini differenti al posto delle antiche: rendete ben ferme
le vostre idee, esercitatevi con esse. E invece, no: ma ve ne andate di qui agli
spettacoli, ai combattimenti dei gladiatori, nei ginnasi coperti, nel circo: poi,
di lì venite qui, e ancora di qui ritornate lì, sempre gli stessi. E nessuna bella
abitudine, nessuna attenzione né cura di voi stessi: non osservate mai: —
«Come uso le rappresentazioni che mi capitano? Secondo natura o contro
natura? In che modo rispondo ad esse? Come si deve o come non si deve?
Dico a quanto è indipendente dalla mia libera scelta che non ha niente da fare
con me?». Se non vi comportate ancora così, fuggite le antiche abitudini,
fuggite gli uomini comuni, se volete davvero cominciare ad essere qualcuno.

SULLA PROVVIDENZA

Quando accusi la provvidenza, rifletti e t'accorgerai che ogni avvenimento è


in accordo con la ragione. «Sì, ma quell'uomo, con tutta la sua ingiustizia, ha
più di me.» In che? In denaro: infatti, in denaro ti supera, perché inganna con
le adulazioni, è spudorato, non dorme di notte. Che c'è di strano? Guarda
piuttosto se ha più di te nell'essere leale e onorato. Vedrai di no: mentre, dove
lo superi tu, vedrai che hai più di lui. Anch'io una volta dissi a un tale tutto
sdegnato per la fortuna di Filostorgo: — «Vorresti anche tu giacerti con
Sura?» — «Oh, rispose: non venga mai quel giorno!» — «E perché allora ti
sdegni se guadagna qualcosa con quel che vende? O come puoi dirlo felice
lui che fa i suoi acquisti con mezzi che tu aborrisci? Che male commette la
provvidenza se a chi vale di più da di più? O non vale più l'onore della
ricchezza?». L'altro convenne. Perché allora ti sdegni, uomo, se hai quel che
vale di più? Ricordatevi, dunque, sempre e abbiate a portata di mano che è
legge naturale questa, che chi vale di più ha più di chi vale di meno, nel
campo in cui vale di più, s'intende, e non vi sdegnerete mai. — «Ma mia
moglie mi tratta male.» Bene. Se ti si chiede che cosa significa questo, dì:
«Mia moglie mi tratta male.» — «Nient'altro?» — «No». «Il padre non mi da'
niente». <«Che significa questo?» «Il padre non mi da' niente.» —
«Nient'altro?» «No».> Ma che sia male, non è una nuova considerazione che
si deve aggiungere, una nuova menzogna che si deve inventare? Perciò non
bisogna respingere la povertà ma il giudizio che se ne ha: in tal guisa saremo
sereni.

CHE NON BISOGNA LASCIARSI TURBARE DALLE NOTIZIE

Quando ti si annuncia qualcosa che possa turbarti, abbi a portata di mano che
nessuna notizia rientra, in alcun modo, in ciò che dipende dalla persona
morale. Ti si può forse annunciare che hai avuto un brutto pensiero o un
brutto desiderio?
No davvero. Ma che è morto qualcuno, si. Ebbene: a te che importa? O che
qualcuno dice male di te. E a te che importa? O che tuo padre sta facendo dei
preparativi. Contro chi? Forse contro la tua persona morale? Come potrebbe?
Ma contro il tuo misero corpo, contro le tue misere sostanze: sei salvo, non è
contro di te. Però il giudice ti condanna per delitto d'empietà. E Socrate non
l'hanno condannato i giudici? È forse opera tua il loro verdetto? No. E perché
continui a dartene cura? C'è un compito proprio di tuo padre e, se non
l'adempie, ha distrutto in sé il padre, l'uomo che ama la sua creatura, la
persona cortese. Non pensare che subisca altre perdite per questo. Perché non
si sbaglia mai in un campo e in un altro si soffre il danno. A sua volta,
compito tuo è di difenderti in modo fermo, rispettoso, tranquillo: altrimenti,
sei tu che hai distrutto in te il figlio, l'uomo rispettoso e nobile. E poi? Il
giudice è al sicuro da ogni pericolo?
No, ma corre lo stesso pericolo anch'egli. Perché, dunque, continui a temere
il giudizio che pronuncerà? Che cosa c'è tra te e il male di un altro? Il male
tuo è di difenderti male: guardati soltanto da questo, che poi una tua
eventuale condanna o assoluzione, com'è compito di un altro, così è pure
male di un altro. «Quello ti minaccia». Me? No. «Ti biasima.» Se la vedrà lui
come adempie il suo compito. — «Sta per condannarti ingiustamente.» È un
infelice.

QUAL È LA CONDIZIONE DELL'UOMO COMUNE E DEL FILOSOFO?

Ecco la prima differenza tra l'uomo comune e il filosofo. L'uno dice:


«Ohimè! tutta colpa del figliolo, del fratello, ohimè! tutta colpa del padre,»
l'altro, se talora è costretto a esclamare: «ohimè» dopo una pausa aggiunge:
«tutta colpa mia». La persona morale, infatti, niente può impedirla o
danneggiarla di ciò che non dipende dalla persona morale: essa sola lo può.
Se, dunque, prenderemo anche noi questa piega, di incolpare noi stessi
quando fatichiamo ad andare avanti e di ricordare che niente è motivo di
turbamento o di squilibrio se non il giudizio, io, vi giuro, per tutti gli dèi, che
abbiamo fatto progressi. Ora, invece, ci siamo messi fin dall'inizio per una
strada tutta diversa. Ancora ragazzi, se mai inciampavamo a bocca aperta,
ecco, la nutrice non colpiva noi, ma picchiava il sasso. Che ha fatto il sasso?
Doveva scansarsi per la stoltezza tua, d'un ragazzino? Ancora, se tornando
dal bagno non troviamo da mangiare, il pedagogo non reprime mai la nostra
impazienza, ma castiga il cuoco. Uomo, t'abbiamo fatto forse pedagogo del
cuoco? No, ma del nostro figliolo. E lui devi correggere, lui aiutare. Così,
anche crescendo, ci mostriamo ragazzini. Perché il ragazzo nel campo della
musica è senza gusto, nel campo delle lettere illetterato, nella vita ineducato.

CHE E’ POSSIBILE TRAR VANTAGGIO DA OGNI COSA

Per quanto riguarda le rappresentazioni teoretiche, quasi tutti ammettono che


il bene e il male sono in noi e non nelle cose esterne. Nessuno sostiene:
«l'affermazione 'è giorno' è buona, 'è notte' è cattiva, 'tre è quattro' è il
massimo dei mali.» Ma che, piuttosto? «La scienza è bene e l'errore male,
tanto che persino del falso c'è un bene, la scienza del falso.» Dovrebbe esser
così anche a riguardo della vita. La salute è bene e la malattia male? No,
uomo. Ma che, piuttosto? Lo stare in salute come si conviene è bene, come
non si conviene è male. «Quindi si può trar giovamento anche dalla
malattia?» Perché, in nome di Dio, dalla morte non si può? e dalla
zoppaggine no? Ti sembra che abbia tratto poco giovamento Meneceo
quando morì? Chi afferma ciò, ne traesse lui tanto giovamento quanto quello!
Orsù, uomo, non ha custodito in se il vero patriota, l'uomo magnanimo,
l'uomo leale, l'uomo d'onore? Continuando a vivere, non avrebbe distrutto
tutte queste qualità? Non si sarebbe procurato le contrarie? Non si sarebbe
acquistato la taccia di vigliacco, di ignobile, di disertore, di meschino?
Suvvia, ti sembra abbia guadagnato poco morendo? No. Ma il padre di
Admeto guadagnò molto continuando a vivere in modo così ignobile e
infelice? E in seguito, poi, non è morto? Cessate, per gli dèi, di mirare,
stupefatti, le cose materiali: cessate di farvi schiavi, prima, delle cose, poi,
traverso le cose, pure degli uomini che le possono procurare o strappare.
Ma da queste si può trarre vantaggio? Certo, da tutte. Anche da chi mi
oltraggia? Che utilità reca all'atleta l'allenatore?
La più grande. E quegli che m'oltraggia è il mio allenatore: esercita la mia
pazienza, la mia calma, la mia gentilezza. E invece, no: ma l'uomo che mi si
attacca al collo e mi mette a punto i fianchi e le spalle, mi giova, e l'istruttore
fa bene a dirmi: «Solleva la clava con entrambe le mani» — e quanto più è
greve, tanto maggiore utilità ne ricavo: e se qualcuno mi esercita alla calma,
non mi giova? Questo significa non saper trarre partito dagli uomini. È
cattivo il vicino? Sì, per lui: ma per me è buono, esercita la mia moderazione,
la mia amabilità. È cattivo il padre? Sì, per lui: ma per me è buono. Ecco la
verga di Kermes: tocca ciò che vuoi, dice il proverbio, e sarà oro. No, ma
piuttosto: «Porta quel che vuoi ed io ne farò un bene. Porta la malattia, porta
la morte, porta la miseria, porta l'oltraggio, porta una sentenza capitale; tutto
questo diverrà utile con la magica verga di Hermes.» Della morte che farai?
«Che altro se non qualcosa per adornarti, o qualcosa con cui tu possa
mostrare a fatti che cos'è l'uomo sottomesso alla volontà della natura?» Della
malattia che farai? «Mostrerò la sua natura, risplenderò in essa, sarò fermo,
sarò sereno, non adulerò il medico, non invocherò la morte. Che altro cerchi?
Qualsiasi cosa mi dai, la trasformerò e sarà benedetta, strumento di felicità,
veneranda, invidiabile. E invece no, ma «bada di non cader malato — è
male». Come se uno dicesse: «Bada di non immaginarti che tre è quattro: è
male». Uomo, in che modo è male? Se il giudizio che ne ho è come si deve,
in che modo mi potrà ancora danneggiare? Non mi sarà, invece, di
giovamento? Se, dunque, il mio giudizio sulla povertà sarà come si deve, e
così sulla malattia, e sulla vita lontana dalle cariche pubbliche, non sarò
soddisfatto? Non ne trarrò giovamento? In che modo devo ancora cercare
mali e beni negli oggetti esterni?
Ebbene? Queste belle cose valgono finché state qui: a casa nessuno le porta,
che subito scoppia la rissa con lo schiavo, coi vicini, con quanti ci burlano e
ci deridono. Sia benedetto Lesbio, il quale ogni giorno mi provava che non
sapevo niente.

A QUELLI CHE SENZA RIFLETTERE SI METTONO


NELL'INSEGNAMENTO

Quelli che, imparati i principi nudi e crudi, li vogliono subito vomitare,


somigliano ai sofferenti di stomaco che vomitano il cibo. Prima digeriscili e
così poi non li vomiterai: se no, sono veramente un vomito, una roba sozza e
immangiabile. Ma in forza di quei princìpi che ti sono slati impartiti, mostra
che in qualche modo è cambiata la parte direttrice della tua anima, come
mutano le spalle degli atleti per gli esercizi che fanno e per il cibo che
mangiano, come, per ciò che ha appreso, muta chi possiede un'arte.
Non viene un architetto a dire: «Ascoltate la mia discussione
sull'architettura», ma, concluso il contratto per una casa, mostra, nel modo
con cui la costruisce, di possedere l'arte. Fa' qualcosa di simile anche tu:
mangia da uomo, bevi da uomo, adornati, sposati, fa' figli, partecipa al
governo dello Stato: sopporta gli oltraggi, tollera il fratello sconsiderato,
tollera il padre, tollera il figlio, il vicino, il compagno di viaggio. Queste cose
devi mostrarci onde vediamo davvero che i filosofi t'hanno insegnato
qualcosa. E invece no: ma «venite ad ascoltarmi mentre espongo i miei
commenti». Via, cerca degli altri su cui vomitarli. «Eppure io vi spiegherò le
opere di Crisippo come nessuno, vi appianerò le sue espressioni nel modo più
chiaro e, se mai, vi aggiungerò anche la veemenza di Antipatro e di
Archedemo.»
E dunque, i giovani hanno lasciato la patria e i loro genitori, perché, venuti
qui, t'ascoltassero spiegare delle frasette?
Non dovrebbero ritornare pieni di spirito di sopportazione e di cooperazione,
impassibili, imperturbabili, in possesso di risorse tali per vivere da poter
tollerare convenientemente — col loro aiuto — tutto ciò che capita, e di
questo servirsi d'ornamento? E come puoi distribuire ciò che non hai? Tu
stesso, che altro hai fatto dapprincipio se non logorarti sul modo di risolvere i
sillogismi, o i ragionamenti amfìbologici, o quelli che procedono mediante
interrogazione?
«Ma quello tiene una scuola: perché non la terrò anch'io?» Non si fanno a
caso queste cose, schiavo, né come capita; ci vuole una certa età, una certa
dignità, e la guida di un dio. Voi dite di no: eppure nessuno si stacca dal porto
senz'aver sacrificato agli dèi e averne invocato l'aiuto, né seminano se prima
non hanno invocato Demetra: e accingendosi a un'opera di sì grande portata,
chi vi si accingerà con fiducia senza gli dèi? E quelli che andranno a tale
scuola faranno bene ad andarci? Che altro fai, uomo, se non parodiare i
misteri e dire: «c'è una cappella ad Eleusi: eccola anche qui. Lì c'è il
ierofante: lo farò io il ierofante. Lì c'è il banditore: e anch'io porrò il
banditore. Lì c'è un daduco: e anch'io porrò un daduco. Lì le fìaccole: anche
qui. Le parole sono le stesse: in che differisce questa cerimonia da quella?»
Empissimo uomo, non c'è alcuna differenza? Forse che gli stessi atti recano
giovamento se non rispettano né il luogo né il tempo debito? No. Ma si deve
intervenire con un sacrificio e con preghiere, dopo una purificazione
preliminare, con lo spirito disposto a partecipare a riti sacri e, per di più, a riti
sacri di antica data. Così diventano utili i misteri, così giungiamo ad
immaginarci che tutte queste cerimonie furono istituite dagli antichi col
proposito di educare e di correggere la vita. Tu, invece, li sveli e ne fai la
parodia, fuori tempo, fuori luogo, senza sacrifìci, senza purificazioni: non hai
la veste che s'addice al ierofante, non la chioma, non la benda che si
conviene, non la voce, non l'età, non ti sei purificato come lui, ma hai
raccolto solo le sue parole e le proferisci. E queste parole sono forse sacre di
per sé?
In altro modo bisogna accostarsi a tali cose: si tratta d'un affare importante,
pieno di mistero, che non si da come capita né a chiunque. Neppure esser
saggi può forse bastare per occuparsi dei giovani: si richiede, per Zeus, anche
un ardore o un'attitudine speciali, un fisico particolare e, soprattutto, che il
dio ci consigli di attendere a tale compito, come a Socrate consigliò di
attendere a confutare gli uomini, a Diogene di riprenderli in maniera regale, a
Zenone di istruirli e esporre loro la dottrina. Tu apri la clinica e non hai che le
medicine; ma dove e come si applicano non lo sai né ti sei preoccupato di
saperlo. «Guarda, tu dici, quell'uomo ha questi unguenti: ce li ho anch'io».
Ma te ne sai servire? Sai quando e come fanno bene e a chi? Perché ti metti a
rischio in un affare tanto importante, perché agisci sconsideratamente, perché
poni mano a una cosa che non ti riguarda affatto? Lasciala a chi è capace, a
chi è preparato.
Non attirare anche tu, col tuo agire, biasimi sulla filosofia e non essere di
quelli che ne screditano l'opera. Se poi i princìpi ti attirano, mettiti seduto e
meditali in te stesso: non dirti però mai filosofo e non permettere che altri lo
dica, ma dì piuttosto «s'inganna: i miei desideri non sono diversi da prima, né
sento impulsi verso altri oggetti, né ad altre cose dò il mio assenso, né, in
generale, nell'uso delle rappresentazioni, mi sono mutato un pochino dalla
mia precedente condizione». Questo considera e dì di te stesso, se vuoi
pensare come si deve: se no, gettati allo sbaraglio e fa' quel che fai, perché te
lo meriti.

SUL CINISMO

Uno dei suoi conoscenti il quale manifestava propensione per il cinismo gli
chiese: «Che uomo deve essere chi vive da cinico e quale il vero significato
della faccenda?» Epitteto rispose: L'esamineremo con calma: però, questo
posso dirtelo, che chi si accinge a un'impresa così vasta senza un dio, incorre
nell'ira divina e altro non vuole che coprirsi d'infamia agli occhi di tutti.
Perché neppure in una casa bene amministrata uno si fa avanti e dice a se
stesso: «Devo essere io l'amministratore», se no, il padrone, accortosene e
notato che quello s'è messo pomposamente a impartire disposizioni, lo
trascina fuori e lo punisce. Così succede anche in questa grande città. C'è
pure qui un padrone di casa che ogni cosa dispone. «Tu sei il sole.
Percorrendo l'orbita celeste, sei in grado di dar origine all'anno e alle stagioni,
sei in grado di far crescere i frutti e di nutrirli, di suscitare i venti e di
trattenerli, di riscaldare misuratamente il corpo degli uomini: Va' dunque,
percorri la tua orbita e metti così in movimento le cose, dalle più grandi alle
più piccole. Tu sei un vitellino: se appare il leone fa'quel ch'è il tuo compito,
se no, ti dorrai. Tu sei un toro: avanza e combatti. Questo ti tocca e ti
conviene e sei in grado di farlo. Tu sei capace di condurre l'esercito contro
Ilio: sii Agamennone. Tu sei in grado di scendere in singolar tenzone con
Ettore: sii Achille». Ma se Tersite, fattosi avanti, pretendesse il comando, o
non l'otterrebbe o, ottenutolo, si coprirebbe d'infamia di fronte a tantissimi
testimoni.
Tu anche, prendi consiglio sulla questione con avvedutezza: non è come ti
sembra. «II mantelletto lo porto io adesso e l'avrò anche in seguito: duro è
adesso il mio giaciglio e lo sarà in seguito: prenderò pure una bisaccia e una
mazza e andando attorno comincerò a interrogare chiunque incontro e a
morderlo e se vedo che taluno a forza di pomate si depila o si aggiusta i
capelli o s'aggira da ogni parte in vesti scarlatte, lo rampognerò.» Se
t’immagini una faccenda del genere, va' via lontano, non accostarti, che non è
per te: se poi te l'immagini qual è in realtà e non te ne ritieni indegno,
esamina a che grande impresa metti mano.
In primo luogo, per ciò che ti riguarda direttamente, non devi mostrarti più
qual sei adesso in nessuna delle tue azioni, né biasimare Dio o uomo: devi
sopprimere del tutto i desideri e trasferire l'avversione ai soli oggetti che
rientrano nell'ambito della persona morale: non devi aver collera, non ira, non
invidia, non compassione: non ti deve apparir bella una ragazzetta, non la
povera reputazione umana, non un misero amasio, non un misero dolce. Devi
apere che gli altri uomini si proteggono con muri, con case, con tenebre,
quando cedono a una di queste tentazioni e hanno molti mezzi per
nascondersi. Ha chiuso la porta, ha posto uno davanti alla camera da letto:
«chiunque viene, devi dire: sta fuori, non ha tempo a disposizione.» II cinico,
invece di tutto questo, deve mettere il rispetto a sua difesa: se no, nudo e
all'aria aperta, si esporrà al biasimo. Il rispetto è per lui la casa, la porta, i
servi a guardia della camera da letto, le tenebre.
Perche né deve voler celare, lui stesso, qualcuna delle sue cose (se no, è
perduto, ha distrutto in sé il cinico, l'uomo dalla vita all'aria aperta, l'uomo
libero: ha cominciato a temere qualche oggetto esterno, ha cominciato ad
aver bisogno di qualcosa che lo nasconda) e neppure è in grado di farlo, se
vuole. In realtà, dove si nasconderà e come? E se, per caso, questo maestro di
tutti, questo pedagogo cade in una di quelle azioni, che gli capiterà
necessariamente? Chi teme queste cose, può far coraggio e continuare a
dirigere con tutto il cuore gli altri? Non si può, è impossibile.
Prima di tutto, devi render pura la parte direttrice della tua anima, e disporre
una tale linea di condotta: «Ora la materia con cui ho da fare è la mia mente,
come il falegname ha il legno, come il calzolaio il cuoio: mio compito è il
retto uso delle rappresentazioni. Il povero corpo non ha nessun rapporto con
me: le sue parti non hanno nessun rapporto con me.
La morte? Venga quando vuole, sia di tutto il corpo, sia di una parte.
L'esilio? E dove mi possono cacciare? Fuori del mondo, no davvero. E
dovunque andrò, lì c'è il sole, lì la luna, lì le stelle, i sogni, i presagi, i
colloqui cogli dèi.» Però, pur avendo raggiunto siffatta preparazione, il vero
cinico non se ne può contentare, ma deve sapere d'essere stato inviato da Dio
in qualità di messaggero, per mostrare agli uomini, che, in rapporto al bene e
al male, s'ingannano e cercano l'essenza del bene e del male là dove non è, e
non badano dov'è, e come Diogene condotto davanti a Filippo dopo la
battaglia di Cheronea, deve sapere di essere un esploratore.
In realtà, il cinico è esploratore di questo — quali oggetti sono amici agli
uomini, quali nemici — e quindi, condotta un'esplorazione accurata, deve
venire ad annunciare la verità, senza essere sbigottito dalla paura al punto da
denunziare nemici inesistenti e senza essere in alcun altro modo turbato o
sconvolto dalle rappresentazioni.
Perciò, all'occorrenza, egli deve potersi levare in piedi e, salito sulla scena
tragica, pronunciare le parole di Socrate:
«Ohimè, uomini, dove vi lasciate trascinare?» che fate, disgraziati?
v'aggirate, come ciechi, di su e di giù: v'incamminate per un'altra strada dopo
aver abbandonato la vera, cercate altrove ciò che rasserena e rende felici,
dove non esiste, e non prestate fede a un altro che ve lo mostra. Perché
cercarlo nelle cose esterne? Non è nel corpo. Se non credete, guardate
Mirone, guardate Ofellio. Non è nelle ricchezze. Se non credete, guardate
Creso, guardate i nostri ricchi, di quanti lamenti è piena la loro vita! Non è
nelle cariche. Se non altro, quelli che sono stati consoli due e tre volte
dovrebbero essere felici — e invece non lo sono. Su questo argomento,
dunque, a chi presteremo fede? A voi che guardate dal di fuori le loro cose e
vi lasciate abbagliare dalle apparenze, o a loro stessi? Che dicono?
Ascoltateli, quando si lamentano, quando gemono, quando ritengono che
proprio per i consolati, per la gloria, per la posizione altolocata la loro
condizione è più disgraziata e pericolosa. Non è nel regno. Se no, Nerone
sarebbe stato felice e Sardanapalo. Ma neppure Agamennone era felice, per
quanto sia stato più fine di Sardanapalo e di Nerone: anzi, mentre gli altri
russano, lui, che fa?
dalle radici, a gran ciocche, strappava dal capo le chiome
E quali sono le sue parole?
Così vado errando egli dice — e sono turbato ed il cuore mi balza fuori del
petto.
Infelice! Quale delle tue cose si trova in cattiva condizione? Le ricchezze?
No. Anzi, molto oro possiedi e molto bronzo.
Il corpo? No. Che cosa, dunque, sta male in te? Quella che, qualunque sia, da
te trascurata e rovinata, ci fa desiderare e avversare, avere impulsi e repulse.
E com'è stata trascurata? Ignora la vera natura del bene, a cui è naturalmente
portata e la vera natura del male, che cosa possiede di proprio, che cosa le è
estraneo. E quando una di queste cose a lei estranee sta male, esclama:
«Ohimè! gli Elleni sono in pericolo». Infelice parte direttrice dell'anima, essa
sola negletta e non curata! «Devono morire i Greci, annientati dai Troiani».
Se non li ammazzano i Troiani, non moriranno? «Sì, ma non tutti insieme».
Che differenza c'è? Se la morte è male, muoiano tutti insieme o uno per uno,
è ugualmente male. E poi, cos'altro deve succedere se non che il corpo e
l'anima si separano? «Nient'altro.» E se i Greci sono distrutti, t'è forse chiusa
la porta? non t'è lecito morire? «Sì, m'è lecito.» E perché gemi?: «Oh, me
infelice, che sono re e porto lo scettro di Zeus!» Ma non si da un re
disgraziato, non più che un dio disgraziato. Che sei? Un pastore, in verità. E
piangi proprio come i pastori, quando il lupo ha rapito un capo del gregge.
Perché anche questi uomini sui quali hai il comando sono gregge. Su che
cosa, infatti, avevi il comando? Era forse in pericolo il vostro desiderio,
l'avversione, l'impulso, la repulsa? «No — risponde — ma è stata rapita la
moglie di mio fratello.» E non era un grande guadagno non aver più una
moglie adultera? «Ci lasceremo disprezzare dai Troiani?» E chi sono i
Troiani? Uomini assennati o sciocchi? Se assennati, perché siete in guerra
con loro? e se sciocchi, che ve ne importa?
«Ma allora il bene dov'è, se non è in questo? Diccelo, signor messaggero ed
esploratore.» «Dove non pensate né volete cercarlo. Se volevate, lo trovavate
in voi, né andavate errando fuori di voi, né cercavate le cose estranee, quasi
fossero vostra proprietà. Rivolgetevi, dunque, in voi stessi, imparate a
conoscere le prenozioni che avete. Quale cosa v'immaginate sia il bene? È la
serenità, è ciò che procura felicità, è la libertà da impedimento. Orsù, non ve
l'immaginate grande per sua natura? ed eccellente no? e innocuo no? Tra
quali oggetti, dunque, s'ha da cercare la serenità e la libertà da ostacoli? Tra
quelli schiavi o tra quelli liberi?» «Tra i liberi.» «E il miserabile corpo l'avete
libero o schiavo?» «Non lo sappiamo.» «Non sapete che è schiavo della
febbre, della podagra, dell'oftalmia, della dissenteria, del tiranno, del fuoco,
del ferro, di chiunque è più forte?» «Certo, è schiavo». «E come può essere
ancora libera da impedimenti una delle parti del corpo? Come può essere
grande o eccellente ciò che per natura è senza vita, è terra, è fango? Ebbene?
Non avete niente che sia libero?» «Proprio niente.» «E chi vi può costringere
ad ammettere ciò che appare falso?» «Nessuno.» «Chi a non ammettere ciò
che appare vero?» «Nessuno.» «Qui, dunque, vedete che c'è in voi qualcosa
di libero per natura. E, poi, desiderare e avversare, sentire impulsi o repulse,
prepararsi o proporsi qualcosa, chi di voi lo può senz'aver accolto la
rappresentazione dell'utile o del non-conveniente?» «Nessuno.» «Anche qui,
dunque, avete qualcosa non soggetta a impedimenti e libera. Disgraziati,
coltivate allora questa cosa, prendetevi cura di essa, cercate qui il bene.»
E com'è possibile che viva sereno chi non possiede niente, chi è nudo, senza
casa, senza focolare, sordido, senza schiavi, senza città? Ecco, v'ha mandato
Dio uno che, a fatti, ve ne dimostri la possibilità. «Guardatemi: sono senza
casa, senza città, senza beni, senza schiavi: il mio giaciglio è la terra: non ho
moglie, non figli, non una casetta, ma la terra soltanto e il cielo e un unico
mantelletto. Eppure, che mi manca? Non sono senza dolori, non sono senza
timori, non sono libero? Quando uno di voi m'ha visto fallire nei miei
desideri, quando cadere nelle mie avversioni? Quando ho biasimato Dio o
uomo, quando ho rimproverato qualcuno? Forse uno di voi m'ha visto
accigliato? Come tratto quelli che vi mettono paura o meraviglia? Non come
schiavi? Chi, vedendomi, non ritiene di vedere il suo re e il suo padrone?».
Ecco le parole degne d'un cinico, eccone il carattere, eccone il proposito.
Invéce no, voi dite: quel che fa il cinico è una povera bisaccia, la mazza, le
mascelle smisurate, e ingozzare tutto quanto gli danno o metterlo in serbo, o
offendere inopportunamente chiunque incontri, oppure mostrare bella la
spalla. A una tale impresa vedi con quale spirito bisogna metter mano?
Prendi prima lo specchio, guarda le tue spalle, renditi conto dei fianchi e
delle gambe. Ai giochi d'Olimpia vuoi iscrivere il tuo nome, uomo, e non a
una gara qualunque fredda e misera. Non è permesso a Olimpia essere vinti
soltanto e andarsene: in primo luogo ci si deve esporre all'infamia dinanzi a
tutto il mondo, non solo dinanzi agli Ateniesi o ai Lacedemoni o ai
Nicopolitani; in secondo luogo, deve essere coperto di percosse chi scende
sconsideratamente nell'agone e prima delle percosse deve soffrire la sete,
dev'essere arso dal bruciore e mandar giù tanta sabbia.
Prendi con molta avvedutezza una decisione, conosci te stesso, interroga la
divinità, non accingerti all'opera senza il Dio. Perché, se egli t'incoraggia, la
sua volontà, sappilo bene, è che tu diventi grande o che riceva molte
percosse.
Infatti, anche questo è uno splendido elemento legato alla vocazione del
cinico: bisogna che sia percosso al pari di un asino e che, mentre viene
percosso, ami quanti lo percuotono, come padre di tutti, come fratello. E
invece no: ma se uno ti percuote, mettiti a gridare là in mezzo: «O Cesare,
vedi che ho da subire nella pace che hai dato? Andiamo dal proconsole.» Ma
per un cinico che cos'è Cesare, o il proconsole, o qualche altro, se non Chi lo
ha mandato e a cui serve e cioè Zeus? Chi altro invoca se non Lui? Non è
convinto che qualunque contrarietà subisca è Lui che lo esercita?
Eracle, esercitato da Euristeo, non riteneva di essere infelice, ma senza
esitazione eseguiva tutti gli ordini e costui, allenato ed esercitato da Zeus, si
metterà a gridare e andrà in furore, lui che è degno di portare lo scettro di
Diogene?
Ma ascolta quel che dice costui, bruciato dalla febbre, a chi gli passa davanti:
«Teste vuote, esclamava, non volete fermarvi? Eppure per ammirare la lotta o
la morte degli atleti, intraprendete un cammino tanto lungo fino a Olimpia: e
la lotta di un uomo con la febbre non volete vederla?» Certo un uomo siffatto
avrebbe subito biasimato il dio che l'aveva mandato, per un trattamento tanto
indegno! egli che, invece, era orgoglioso di quelle circostanze e riteneva di
essere spettacolo degno ai passanti. E perché lo avrebbe rimproverato?
Perché gli dava decoro? Di che può accusarlo? Di mettere in mostra nel
modo più fulgido la sua virtù? Ma via, che cosa dice della povertà, della
morte, della fatica? Come soleva paragonare la sua felicità a quella del Gran
Re? Anzi, riteneva che non si dovesse fare neppure il paragone.
Infatti, dove sono turbamenti, dolori, timori, desideri irrealizzati, avversioni
inefficaci, invidie, gelosie, da qual parte può entrare la felicità? E dove i
giudizi sono falsi, di necessità esistono tutte queste passioni. Il giovane gli
domandò: «E se cade malato e un amico lo invita a recarsi in casa sua per
esser curato si lascerà convincere?» E dove mi darai un amico del cinico? —
replicò Epitteto? Bisogna che anche quest'altro sia tale da meritarsi di essere
annoverato tra gli amici di lui. Bisogna che sia anche egli compartecipe dello
scettro e della dignità regale e degno servitore, se vuoi essere ritenuto degno
della sua amicizia, come Diogene fu amico di Antistene e Cratete di Diogene.
O pensi che se uno, passandogli vicino, gli dice «addio», gli è perciò stesso
amico e il cinico riterrà costui degno di riceverlo in casa?
Perciò, se t'immagini e ti rappresenti la cosa in tal modo, è meglio che ti
guardi intorno e cerchi un bel mucchio di letame, entro il quale avere la
febbre — un mucchio che ti ripari dal vento di settentrione, onde non ti
colgano i brividi di freddo. Ma tu mi dai l'impressione di voler andare in casa
di qualcuno per un certo tempo a ingrassare. E perché allora metti mano a
impresa siffatta?
«Ma il matrimonio, chiese il giovane, e i figli, specialmente, saranno
accettati dal cinico?» — Se mi dai una città di saggi — replicò Epitteto —
forse non sarà facile che qualcuno s'indirizzi al cinismo. E in realtà a prò di
chi abbracciare una tale condotta di vita? Tuttavia, se l'ammettiamo per
ipotesi, niente gli proibirà di sposarsi e di far figli, perché la sua donna sarà
una persona simile a lui, e il suocero uno simile a lui e i figli saranno allevati
nella stessa maniera. Ma, date le condizioni attuali, quasi di combattimento,
non è necessario che niente distragga il cinico, perché tutto dedito al servizio
del Dio, possa incontrarsi cogli uomini, senza essere legato ad alcun dovere
privato né trattenuto da relazioni, le quali se viola, non conserverà più in sé
l'uomo di perfetta virtù, se osserva, distruggerà il messaggero e l'esploratore e
l'araldo degli dèi? Vedi che deve prestare taluni servizi al suocero, taluni
renderne agli altri parenti della moglie, alla moglie stessa: ridotto a curare chi
non sta bene o a provvedere alla casa, finirà per essere escluso dalla sua
professione.
Per tralasciare il resto, deve pensare alla pila ove riscaldi l'acqua per il
bimbo, per lavarlo nel catino, alla lana per la moglie che ha partorito, all'olio,
al lettino, ai bicchieri — e così si moltiplicano le suppellettili — e non
parliamo delle altre faccende e distrazioni. E dove va a finire quei mio re, che
attende agli interessi di tutti:
cui son commesse le genti e ha cura di affari sì grandi il quale deve
sorvegliare gli altri, quelli che si sono sposati e quelli che hanno avuto figli
— chi tratta bene la moglie e chi male, chi bisticcia, quale casa è ben
piantata, quale no — il quale, come un medico, deve portarsi attorno a tastare
il polso? «Tu hai la febbre, tu soffri di dolori al capo, tu ai piedi: tu astienti
dal cibo, tu mangia, tu evita il bagno, tu hai bisogno d'un taglio, tu d'una
bruciatura.» Dov'è più il tempo libero per chi è avviluppato nei doveri
personali? Non deve procurare mantelletti ai bimbi? non li deve mandare dal
maestro di scuola, con le tavolette, con gli stili, coi blocchetti per appunti? e
non deve preparar loro anche il lettuccio? perché non possono essere Cinici,
appena usciti dal ventre materno: altrimenti, era meglio esporli al momento
della nascita che lasciarli perire in tal guisa. Guarda a che riduciamo il cinico,
come gli togliamo il regno. «Già, ma Cratete si sposò.» Tu mi parli di un caso
particolare che scoppiò in seguito a un amore appassionato e accenni a una
donna ch'era un altro Cratete. Noi, invece, prendiamo in esame i matrimoni
comuni e senza alcuna particolarità ed esaminando così troviamo che, in
siffatte circostanze, il matrimonio non è affare di prima importanza per il
cinico.
«E allora — chiese il giovane — come potrà più il cinico mantenere in vita
la comunità umana?» «In nome di Dio, sono più utili agli uomini quelli che
introducono nel mondo due o tre brutti musi al posto loro o quelli che,
secondo le loro possibilità, sorvegliano tutti gli uomini, che cosa fanno, come
vivono, di che si prendono cura, di che non si prendono cura contrariamente
al loro dovere? Così, ai Tebani recarono più giovamento quanti lasciarono
loro i figli che Epaminonda, morto senza prole? E più di Omero ha giovato
alla società Priamo che ha generato cinquanta vituperi di figli o Danao o
Eolo? Eppure il supremo comando militare e la composizione d'un'opera
potranno tener lontano dal matrimonio e dalla procreazione dei figli un uomo,
il quale, tuttavia, non sembrerà che vi abbia rinunciato per niente: e il regno
del cinico non compenserà altrettanto siffatta rinuncia? Non è forse che non
ci rendiamo mai conto della grandezza di lui e che non ci rappresentiamo a
dovere il carattere di Diogene, ma fissiamo lo sguardo sui Cinici di adesso,
cani della mensa, custodi della porta, che in niente sono simili a quelli se non
nel mandar venti e in nient'altro?
Che allora questi ragionamenti non ci moverebbero affatto e non ci
stupiremmo se il cinico non si sposa o non fa figli.
Uomo, tutto il genere umano egli ha per prole — gli uomini per figli, le
donne per fìglie: con questo spirito a tutti si accosta, con questo spirito di tutti
si cura. O credi che per un'ingerenza indebita riprende chi incontra? Come un
padre lo fa, come un fratello, come un servo del padre comune che è Zeus.
Se vuoi, chiedimi pure se parteciperà al governo dello Stato. Sciocco, cerchi
un governo più grande di quello di cui fa parte? ovvero presentatosi agli
Ateniesi tratterà delle entrate o delle vendite, egli che deve parlare a tutti gli
uomini, ugualmente agli Ateniesi, ugualmente ai Corinti, ugualmente ai
Romani e non di rendite né di entrate, né di pace né di guerre, ma della
felicità e dell'infelicità, della fortuna e della sfortuna, della schiavitù e della
libertà? E un uomo che tratta affari di tal sorta, tu mi domandi se parteciperà
al governo dello Stato? Chiedimi pure se coprirà delle cariche: io ti ripeterò:
«pazzo, quale carica più grande di quella che copre?».
Naturalmente un uomo siffatto ha bisogno pure di un fisico di una certa
qualità. Perché se si presenta consunto, debole, pallido, la sua testimonianza
non fa più la stessa impressione. In effetti, non solo mostrando i beni
dell'anima egli deve persuadere gli uomini comuni che si può essere
eccellenti senza tutto ciò che è oggetto della loro ammirazione, ma deve pure
dimostrare nel suo corpo che una regola di vita semplice, frugale, all'aria
aperta, non nuoce alla salute: «guarda, di questo sono testimone io e il mio
corpo.» Così faceva Diogene: e infatti, andava dattorno tutto lucente e il suo
corpo stesso attirava l'attenzione della folla. Il cinico che desta compassione
sembra un pezzente: tutti gli voltano la faccia, tutti lo canzonano. E neppure
deve mostrarsi sudicio, perché gli uomini non l'abbiano a scacciare per
questo, ma la stessa sua austerità deve essere schietta e attraente.
Deve pure aggiungersi al cinico in abbondanza bellezza fìsica e acutezza di
mente (se no, diventa moccio e nient'altro), perché sia pronto e disposto ad
affrontare qualunque circostanza. Per esempio, uno disse a Diogene: «Tu sei
quel Diogene che non crede agli dèi?» «Com'è possibile — rispose — se ti
ritengo maledetto dagli dèi?» Un'altra volta Alessandro s'avvicinò a lui che
dormiva e gli disse:
Tutta la notte non deve dormire chi regge i consigli ed egli, ancora mezzo
assopito, gli replicò: Cui son commesse le genti e ha cura d'affari sì gravi.
Ma soprattutto la parte direttrice dell'anima sua deve essere più pura del sole:
se no, sarà necessariamente ciarlatano o inetto, giacché, invischiato egli
stesso nel vizio, riprenderà gli altri. Bada, infatti, che significa ciò. Ai re e ai
tiranni di questo mondo, pure se sono perversi, le guardie e le armi danno la
possibilità di riprendere gli altri e anche il potere di punire i trasgressori; al
cinico, invece, tale possibilità gliel'offre la propria coscienza e non le armi né
le guardie.
Quand'egli sa che veglia per gli uomini, che s'affatica per loro, che si mette a
dormire puro e più puro ancora il sonno l'abbandona, e riflette che ogni suo
pensiero è qual s'addice a uno caro agli dèi, servo e partecipe del governo di
Zeus, che in ogni occasione è pronto a dire:
Conducimi, o Zeus, e tu anche, o Destino e «se così piace agli dèi, così sia»,
perché non avrà l'ardire di parlare con libertà ai suoi fratelli, ai figli, in una
parola, ai suoi consanguinei?
Per questo motivo chi ha una tale disposizione di spirito non è né indiscreto
né intrigante, perché non si intriga nei fatti degli altri, quando esamina le cose
umane, ma nei suoi. Altrimenti dì che anche lo stratego è intrigante, quando
passa in rassegna i soldati, li ispeziona, li difende e punisce gli indisciplinati.
Ma se riprendi gli altri nascondendo una focaccia sotto il braccio, io ti dirò:
Perché piuttosto non te ne vai in un angoletto a mangiarti quel che hai
rubato? Che c'è tra te e i fatti degli altri? Chi sei? Sei il toro o la regina delle
api? Mostrami i segni del comando come quelli che la natura da alla regina
dell'alveare. Se fossi un fuco e reclamassi il regno sulle api, non pensi che i
tuoi concittadini ti rovescerebbero come le api fanno coi fuchi?
E uno spirito di sopportazione tale deve avere il cinico da sembrare ai più
insensibile, addirittura un sasso: nessuno lo insulta, nessuno lo percuote,
nessuno lo oltraggia: il suo povero corpo lo ha dato a chi lo vuole perché ne
faccia quel che gli pare. Egli sa bene che di necessità l'inferiore è superato dal
superiore, proprio dov'è inferiore, e che il miserabile corpo è inferiore ai più,
il più debole ai più forti. Perciò egli non scende mai in quella gara in cui può
essere vinto, ma dalle cose altrui si ritrae subito, ciò che è soggetto ad altri
non agogna.
Ma là dov'è il regno della persona morale e l'uso delle rappresentazioni, là
vedrai quanti occhi possiede sì che Argo, puoi bene affermarlo, in confronto
a lui, era cieco. Dov'è un assenso precipitoso, un impulso sconsiderato, un
desiderio inattuato, un'avversione inefficace, un fine non raggiunto, un
biasimo, una meschinità o un'invidia? Qui è tutta la sua attenzione, tutto il
suo sforzo: per il resto russa supino: c'è tranquillità assoluta. Non ci stanno
ladri della persona morale, non ci stanno tiranni. E del misero corpo? Sì. E
delle miserabili ricchezze? Sì. E anche delle cariche e degli onori. Ma che
gliene importa, a lui, di queste cose? E se qualcuno se ne serve per
spaventarlo, lui gli dice: «Va', cerca i ragazzini. A questi fanno paura le
maschere: io so che sono di coccio e che dentro non c'è niente».
Tale il carattere dell'impresa sulla quale prendi consiglio. Quindi, se ti va, in
nome di Dio, rimanda la decisione e considera innanzi tutto se sei preparato.
Vedi che cosa dice Ettore ad Andromaca:
«Suvvia, le dice, è meglio che te ne vada a casa a tessere, che degli uomini è
cura la guerra, di tutti quanti e di me, specialmente».
In tal modo egli riconosceva non solo la sua personale preparazione ma anche
la incapacità della donna.

A QUELLI CHE LEGGONO E DISCUTONO PER FARSI VEDERE

Prima di tutto, dì a te stesso chi vuoi essere: poi, in accordo con la decisione
presa, fa' quel che fai. Perché vediamo che quasi in ogni altro campo succede
così. Quelli che si allenano stabiliscono dapprima chi vogliono essere e poi,
in accordo con la decisione presa, fanno quel che devono: se corridore nel
dolico, tale vitto, tale marcia, tale massaggiatura, tale ginnastica: se corridore
nello stadio, le prescrizioni saranno tutte diverse: se contendente nel pentatlo,
ancora più diverse. Lo stesso troverai nelle arti. Se vuoi essere carpentiere,
avrai da fare questo e questo, se fabbro quest'altro. Perché se ogni nostra
azione non la riportiamo a un fine, agiremo a caso: se la riportiamo a un fine
sconveniente, commetteremo un errore. Rimane da determinare qual è il
riferimento comune e quale il riferimento particolare. Prima di tutto agisci da
uomo. Che cosa implica questo? Un agire non da pecora, anche se a modo, e
non dannoso, al pari d'una bestia selvaggia. Il riferimento particolare è in
relazione all'occupazione e alla persona morale di ciascuno. Il citaredo deve
agire da citaredo, il carpentiere da carpentiere, il filosofo da filosofo, l'oratore
da oratore.
Dunque, quando dici: «Venite qua e ascoltate le mie letture», bada, innanzi
tutto, di non agire a caso: poi, se trovi che c'è un riferimento al quale riporti
la tua azione, osserva se è quello giusto.
Vuoi far del bene o essere lodato? Ecco, senti subito chi dice: «Che
m'interessa della lode della folla?» E dice bene.
Perché non interessa neppure al musico, in quanto musico, né al geometra.
Dunque, vuoi far del bene? A che fine? Diccelo perché corriamo anche noi
nella sala dove tieni lettura. Ora, può uno giovare agli altri, senza trarne egli
stesso giovamento? No: infatti, chi non è carpentiere non può giovare agli
altri nell'arte del carpentiere, né chi non è calzolaio nell'arte del calzolaio.
Vuoi dunque sapere se hai tratto qualche giovamento? Porta qua i tuoi
giudizi, filosofo. Che si ripromette il desiderio?
Di non essere frustrato. E l'avversione? Di non incorrere in ciò che avversa.
Ebbene, realizziamo ciò che si ripromettono desiderio e avversione? Dimmi
il vero: se mentisci, ti dirò: «Tempo fa, siccome i tuoi ascoltatori si
raccoglievano con una certa freddezza e non ti acclamavano, te ne uscisti
mortificato. Un altro giorno, essendo stato lodato, giravi attorno e dicevi a
tutti: «Che impressione t'ho fatto?» «Sei stato magnifico, signore: te lo giuro
sulla mia vita.» «Come ho recitato quel punto?»
«Quale?» «Dove ho descritto Pane e le ninfe.» «Superbamente.» E poi mi
dici che nei desideri e nelle avversioni segui la natura? Via, cerca di
persuadere un altro. E quel tale, proprio l'altro giorno, non lo lodavi contro la
tua opinione? E quell'altro non lo adulavi, il figlio del senatore? Vorresti che
i tuoi figli gli somigliassero? «Non sia mai.» «E perché allora lo lodavi e lo
circuivi?» «È un giovane nobile e desideroso di ascoltar discorsi.» «Donde lo
sai?» «È un mio ammiratore.» «Hai dato la prova giusta.»
E poi, che credi? Non ti disprezzano costoro di nascosto? Quando un uomo
consapevole di non aver fatto né pensato niente di buono trova un filosofo
che gli dice: «Ottima indole la tua: sei schietto e puro» che altro dice,
secondo te, se non «costui ha bisogno di me?» Oppure dimmi, quale prova ha
dato della sua ottima indole? Ecco: sta con te da tanto tempo, ti ha ascoltato
discutere, t'ha ascoltato declamare. E ha posto ordine nelle sue cose? è
rientrato in sé? s'è accorto delle sue cattive condizioni? Ha smesso la
presunzione? Cerca chi gli insegnerà qualcosa? «Sì, lo cerca», dice. Chi gli
insegnerà come ha da vivere? No, pazzo, ma come debba esprimersi. Per
questo, infatti, ti guarda ammirato. Ascoltalo, senti le sue parole. «Costui
scrive con un'arte squisitissima, molto meglio di Dione.» È tutt'un'altra cosa.
O forse dice:
«Costui è un uomo pieno di rispetto, leale, imperturbato?» Se anche l'avesse
detto, gli avrei chiesto: «poiché costui è leale, questo leale che cos'è?». E se
lui non aveva risposta da darmi, avrei aggiunto: «Prima impara di che parli e
poi parla.»
Con tali disposizioni tanto brutte, rimanendo a bocca aperta davanti a chi ti
loda e contando chi ti viene ad ascoltare, vuoi far bene agli altri? «Oggi
m'hanno ascoltato molti di più.» «Molti, certo.» «Cinquecento, pensiamo.»
«Una bazzecola: facciamo mille.» «Non sono mai venuti in tanti ad ascoltar
Dione.» «E come potrebbe averne tanti?» «E poi sono fini intenditori di
discorsi.» «II bello, signore, riesce a scuotere anche un sasso». Ecco le
espressioni di un filosofo, ecco la disposizione di uno che vuole far bene agli
uomini: ecco uno che ha ascoltato la ragione e ha letto le opere socratiche
come se derivassero da Socrate stesso e non da Lisia e da Isocrate.
«Mi sono più volte meravigliato con quali mai argomenti... No, ma con
quale mai argomento, che questa forma è più piana di quella.» Non le leggete
come le canzonette queste opere? Perché se per lo meno le leggeste come si
deve, non indugereste su certi punti, bensì guardereste all'altro: «Anita e
Meleto possono sì ammazzarmi, ma farmi danno, no» e ancora «perché io
sono sempre siffatto da non dare ascolto a nessuna cosa di me se non alla
ragione che, dopo l'esame, mi sembra la migliore.»
Perciò, chi ha mai sentito Socrate dire: «so qualcosa e l'insegno?» Ma li
mandava chi da uno, chi dall'altro. Di conseguenza gli facevano visita,
credendo di essere da lui raccomandati ai filosofi, ed egli li conduceva e li
raccomandava a loro. No: invece, secondo voi, mentre li accompagnava,
diceva: «Vieni ad ascoltarmi oggi che parlo in casa di Quadrato.»
Che cosa ascolterò da te? Vuoi farmi vedere che metti insieme le parole con
eleganza? Sì, con'eleganza, uomo: e che bene rappresenta per te? «Ma tu
lodami» — «Che cosa intendi per lodare?» — «Dimmi: oh! e: stupendo!»
Ecco, lo dico. Ma se lode è qualcosa che i filosofi ripongono nella categoria
del bene, che lode posso darti? Se il bene consiste nell'esprimersi in modo
corretto, insegnamelo e ti loderò. E dunque? Si devono ascoltare di malanimo
costoro? Non sia mai. Io neppure il citaredo ascolto di malanimo, ma forse
per questo devo mettermi in posizione e suonare la cetra?
Senti che dice Socrate: «e neppure s'addice, cittadini, che alla mia età io mi
presenti a voi a modellarvi di bei discorsi, come potrebbe fare un oratore
giovinetto.» «Un oratore giovinetto», dice: per che in realtà è un mezzuccio
elegante scegliere parolette, metterle insieme e, alla presenza della gente,
leggerle o recitarle con una certa nobiltà e, durante la lettura, soggiungere:
«Non molti sono in grado di tener dietro à queste cose: per la vostra vita, lo
giuro!».
Ma il filosofo invita a una conferenza? O non piuttosto, come il sole attira a
sé il nutrimento, così anch'egli attira a sé quelli cui farà del bene? Quale
medico invita la gente a sottoporsi alle sue cure? Eppure so che adesso in
Roma i medici rivolgono tale invito, mentre, quando c'ero io, eran loro ad
essere invitati. «Ti invito a venire da me per sentire che stai male e tutto
prendi a cuore eccetto quel che dovresti e ignori il bene e il male e sei misero
e disgraziato.» Bell'invito!
Eppure, se non producono quest'effetto le parole del filosofo sono morte e
morto chi le pronuncia. Soleva dire Rufo:
«Se trovate modo di lodarmi, le mie parole sono un nulla.» E pronunciava la
frase in modo tale che noi, seduti accanto a lui, credevamo davvero, ognuno
per sé, che qualcuno gli avesse parlato dei nostri difetti: così fortemente egli
era legato alla realtà, così vividamente poneva davanti agli occhi di ciascuno
le sue debolezze.
È una clinica, uomini, la scuola di un filosofo: non si deve uscirne gioiosi,
ma pieni di dolori. Perché non ci venite sani, ma uno ha la spalla slogata, un
altro un ascesso, un altro una fìstola, un altro dolori di capo. Ed ecco, io mi
seggo e vi dico pensieruzzi e parolette, perché voi mi lodiate e poi ve ne
andiate e l'uno porti via la spalla come l'ha portata venendo, l'altro la testa
nelle stesse condizioni di prima, l'altro la fìstola, l'altro l'ascesso? Ed è per
questo che i giovani si sono allontanati di casa, hanno lasciato i loro genitori,
gli amici, i parenti, gli averi, per gridare «bravo» a te che reciti le tue
parolette? Questo faceva Socrate o Zenone o Cleante?
Bene, ma non c'è uno stile esortatorio? — Chi lo nega? Come ce n'è uno
confutatorio e un altro didascalico. Chi ha mai detto, però, che oltre questi ce
ne fosse un quarto, ostentativo? Che è lo stile esortatorio? La capacità di
mostrare agli uomini, a ciascuno in particolare e alla folla in generale, la
contraddizione in cui si dibattono e, inoltre, come di tutto si preoccupano più
che di ciò che veramente vogliono. Perché, in effetti, vogliono i mezzi che
portano alla felicità e li cercano altrove. E per questo bisogna che si
dispongano un migliaio di scanni, che si mandino gli inviti, e che tu, avvolto
in veste elegante o nel mantello, salga in cattedra per dipingerci la morte di
Achille? Basta, per gli dèi, io vi prego, basta, per quant'è in voi, di disonorare
parole e gesta nobili! L'esortazione più efficace il conferenziere la fa quando
mostra agli ascoltatori di aver bisogno di loro. Oppure dimmi: chi mai,
ascoltando le tue letture o le tue discussioni, s'è sentito in ansia per se stesso,
è rientrato in se stesso, o, uscito dalla sala, ha esclamato: «M'ha punto sul
vivo, il filosofo: non devo agir più cosi»? E, invece, se tu fai buona
impressione, non dirà all'amico: «Con che eleganza ha esposto il brano su
Serse» e l'altro: «No, è stato meglio quello sulla battaglia delle Termopili»?
E questo si chiama ascoltare un filosofo?

CHE NON SI DEVE ESSERE ATTACCATI A CIO’ CHE NON DIPENDE


DA NOI

Quel che altri fanno contro natura, non sia un male per te, giacché non sei
nato per essere umiliato insieme ad essi né per dividerne la triste sorte, bensì
la sorte felice. Se uno è disgraziato, ricorda che è disgraziato per colpa sua: e,
invero, Dio tutti gli uomini li ha fatti per la felicità, per la tranquillità. A tale
scopo ha dato delle risorse, concedendo a ognuno cose che gli sono proprie e
cose che gli sono estranee: quelle soggette a impedimenti, al furto, alla
necessità non sono proprie, quelle libere da impedimento sì: ora, la natura del
bene e del male, come conveniva a chi si prende cura di noi e ci protegge al
pari di un padre, l'ha posta tra le cose proprie. «Ma io sono andato via da lui e
lui geme». E perché ha ritenuto proprie le cose altrui? Perché, quando gioiva
al tuo cospetto, non rifletteva che eri mortale e potevi andartene via? Perciò
paga il fio della sua pazzia. E tu di che? Perche compiangi te stesso? Ovvero
neanche tu ti sei preoccupato di questo, ma, al pari delle donnette
insignificanti, stavi insieme agli oggetti che ti procuravano godimento come
se dovessi starci per sempre, fossero luoghi, uomini, occupazioni? Ed ora ti
sei seduto piangendo, perché non scorgi le stesse persone e non t'aggiri negli
stessi luoghi. Meriti davvero di essere più misero dei corvi e delle cornacchie,
cui è lecito volare dove vogliono ed edificare altrove i loro nidi e attraversare
il mare, senza sospirare né rimpiangere quelli antichi. «Già: tale
comportamento è dovuto al fatto che sono irragionevoli.» A noi dunque la
ragione è stata largita dagli dèi per disgrazia, per infelicità, per farci menare
la vita miseri e gemebondi? Oppure siano tutti gli uomini immortali e
nessuno se ne vada via e neppur noi andiamo via altrove, ma restiamo qua,
abbarbicati come le piante: e se qualcuno dei nostri amici se ne va,
piangiamo, seduti in un canto, mentre poi, se torna, danziamo e facciamo
chiasso come i ragazzini!
Non ci svezzeremo una buona volta e non ricorderemo ciò che sentimmo dai
filosofi? A meno che non li abbiamo
sentiti come si sentono gli incantatori, quando dicevano che questo mondo è
una città sola, come pure la sostanza di cui è stato composto, e così una sola è
la necessità di un movimento periodico e d'un ritirarsi di alcune cose dinanzi
ad altre: queste si disperdono, quelle spuntano, queste rimangono nello stesso
posto, quelle si muovono. Tutte le cose sono piene di amici, in primo luogo
di dèi, poi di uomini intimamente uniti per natura tra loro: e bisogna che
alcuni rimangano insieme tra loro, che altri se ne vadano, che gli uni godano
di chi rimane con essi, che gli altri non si addolorino di chi se ne va. E
l'uomo, oltre essere per natura magnanimo e in grado di disprezzare tutto
quanto è indipendente dalla libera volontà, ha pure questa prerogativa, di non
essere radicato né attaccato alla terra, ma di recarsi ora in un luogo, ora in un
altro, talvolta sotto la spinta della necessità, talvolta per il semplice bisogno
di vedere. E a Odisseo accadde qualcosa di simile:
vide di molte genti le città e il pensier ne conobbe e anche prima a Eracle
toccò di fare il giro della terra tutta: per osservare degli uomini lo spirito
ingiusto ed il retto, per disperdere e abbattere quello e immettere questo al
suo posto. Eppure quanti amici, pensi, ebbe a Tebe, quanti ad Argo, quanti ad
Atene, quanti ne acquistò nel suo errabondare per la terra, egli che potè pure
sposare, come gli parve giunto il momento, e fece figli e i figli lasciò senza
sospiri, senza rimpianti e neppure come orfani, quando se ne staccò?
Sapeva, infatti, che nessun uomo è orfano, ma di tutti, sempre e
continuamente è il Padre a prendersi cura. In realtà, non come una favola
aveva ascoltato che Zeus è padre degli uomini, egli che, se mai altri, Zeus
riteneva e invocava padre suo e cogli occhi fìssi in Lui compiva le sue gesta.
Per questo gli era possibile vivere felice dovunque. Non possono mai
coincidere la felicità e il desiderio di ciò che non si ha. Qualsiasi essere felice
deve possedere quanto vuole e somigliare a chi è sazio: non deve aver sete,
non fame. «Ma Odisseo soffriva sospirando la moglie e piangeva seduto su
uno scoglio.» E tu credi in tutto a Omero e alle sue favole? Certo, se Odisseo
piangeva davvero, che altro era se non un disgraziato? E quale uomo di
perfetta virtù è disgraziato? Senza dubbio, l'universo è governato male, se
Zeus non si preoccupa dei suoi cittadini, di farli simili a sé, felici. Tale
supposizione, però, è ingiusta ed empia: e se Odisseo piangeva e gemeva,
non era un uomo buono. Chi è buono se non sa chi è? E chi lo sa, se ha
dimenticato che quante cose vengono all'esistenza sono corruttibili e che non
è possibile per un uomo rimaner sempre insieme a un uomo? E allora?
Desiderare l'impossibile è da schiavi, è da sciocchi, è proprio di chi è
straniero nell'universo e si schiera contro Dio nell'unica maniera possibile,
armato dei suoi giudizi.
«Ma mia madre geme se non mi vede». E perché non ha appreso il senso di
questi ragionamenti? Non dico, certo, che non bisogna cercare di non farla
piangere, bensì che non bisogna volere a ogni costo le cose altrui. Il dolore di
un altro è cosa estranea per me, il mio è cosa mia. Al mio dolore metterò fine
a ogni costo perché è in mio potere: all'altrui dolore, invece, cercherò di
metter fine secondo le mie possibilità, ma non cercherò di raggiungere
l'intento a ogni costo.
Altrimenti scenderò in lotta contro Dio, mi opporrò a Zeus, gli resisterò in
quel che è la sua amministrazione dell'universo. E il prezzo di tale empia
lotta, di tale disobbedienza non lo pagheranno i figli dei figli, ma io
personalmente, durante il giorno e di notte, balzando alle visioni dei sogni,
tutto turbato, tremando a ogni notizia, subordinando la mia imperturbabilità a
lettere che non sono mie. Giunge uno da Roma. «Purché non rechi qualche
male». Quale male ti può capitare là dove non sei? Viene dall'Ellade. «Purché
non rechi qualche male.» Ma così ogni sito può essere per te motivo di
disgrazia. Non ti basta essere disgraziato dove ti trovi, ma vuoi esserlo anche
al di là del mare e a causa di lettere? È questa la solidità delle tue cose? «Ma
allora se mi muoiono gli amici di là?» Che cosa muore se non creature
mortali? O come vuoi invecchiare senza vedere nello stesso tempo la morte
di qualcuno dei tuoi cari? Non sai che nel lungo tempo molti e diversi
avvenimenti devono accadere? La febbre ha la meglio su questo, il ladro su
quello, il tiranno su quell'altro ancora. Questo è il nostro ambiente, questi i
nostri compagni, freddo e caldo, cibi disadatti, viaggi di terra e di mare, vènti,
circostanze diverse: e uno lo distruggono, l'altro lo cacciano in esilio, uno lo
mandano in un'ambasceria, l'altro in una spedizione militare. Siediti, dunque,
sbigottito di fronte a tutto ciò, singhiozzando, sfortunato, disgraziato,
assoggettandoti a ciò che è altro da te, e che non è una cosa sola, e neppure
due, ma diecine e diecine di migliaia.
Questo ascoltavi dai filosofi, questo apprendevi? Non sai che è una
campagna militare l'affare della vita? Uno deve restare di guardia, un altro
uscire a esplorare, un altro a combattere. Non è possibile che rimangano tutti
nello stesso posto, e neppure è bene. Tu, invece, senza pensare a compiere gli
ordini del comandante, ti lagni quando ti viene affidato un compito un po'
duro, e non capisci a che riduci l'esercito, almeno per parte tua. Che, certo, se
tutti ti imiteranno, non ci sarà più chi scavi fosse, non chi munisca valli, non
chi faccia la sentinella di notte, non chi si esponga al pericolo: appariranno
tutti soldati inetti.
Così pure, se sei marinaio su una nave, abbi un incarico solo e mantienilo:
ma se c'è da salire sull'albero, rifiutati, se c'è da correre a prua, rifiutati. Quale
nocchiero ti sopporterà? e non ti getterà via come un vaso inutile, te, che non
sei se non d'impiccio e di cattivo esempio agli altri marinai? Lo stesso qui: è
una campagna militare la vita di ciascuno, campagna militare lunga e varia.
Devi mantenere l'atteggiamento del soldato e fare ogni cosa al cenno del
comandante, divinando, se è possibile, ciò che vuole.
Perché non c'è confronto tra questo comandante e un comandante ordinario,
né per la potenza né per l'eccellenza del carattere. Sei stato posto in una città
imperiale e non in umile condizione, che sei senatore non per un anno, ma
per sempre. Non sai che un uomo di tale rango deve interessarsi ben poco
dell'amministrazione familiare, ma spesso ha da lasciar casa, sia per
comandare sia per obbedire o per coprire una magistratura o per militare
nell'esercito o per amministrare giustizia? E vuoi attaccarti come una pianta
agli stessi posti e abbarbicartici con le radici? «Perché è gradito.» E chi lo
nega? Ma anche il brodo è gradito, anche una bella donna è gradita. Cos'altro
dicono quelli che ritengono fine il piacere?
Di chi è questo tuo linguaggio, te ne accorgi? Non è di Epicurei e di Cinedi?
E allora, se agisci come loro, se pensi come loro, ci tieni i ragionamenti di
Zenone e di Socrate? Non getterai via, il più lontano possibile, queste cose
altrui di cui ti adorni e che non ti si addicono affatto? Che altro vogliono
quelli se non dormire senza impedimento e senza costrizioni, alzatisi, poi,
sbadigliare in tutta tranquillità, pulirsi il viso, poi, scrivere e leggere a loro
piacere, poi, ciarlare di qualcosa, applauditi dagli amici, checché dicano, in
seguito, fare una passeggiata e dopo un breve giro lavarsi, poi mangiare e poi
mettersi a giacere nel modo che s'addice a persone siffatte — perché dire la
parola? si può congetturare.
Ma via, dimmi anche tu il tuo genere di vita, quello che desideri, o seguace
della verità e di Socrate e di Diogene. Che cosa vuoi fare in Atene? Proprio
quel che ho detto? O forse dell'altro? E perché ti professi stoico? Quelli che
falsamente si attribuiscono la cittadinanza romana sono severamente puniti, e
quelli che falsamente si attribuiscono un titolo e un nome sì grande e
venerando dovranno andarsene impuniti? Ovvero questo non è possibile ed è,
invece, legge divina, incrollabile, inevitabile quella che irroga le pene più
grandi a chi è reo dei delitti più grandi? Che dice? «Chi pretende ciò che non
gli spetta affatto, sia un impostore, sia un ambizioso: chi disobbedisce al
governo divino sia abietto, sia servo, provi dolore, invidia, misericordia, e,
insomma, sia disgraziato e gema».
«Ebbene? Vuoi ch'io presti i miei servizi a quell'uomo? Che mi diriga verso
le sue porte?» Se lo esige la ragione per il bene della patria, dei parenti, degli
uomini, per qual motivo non ci vai? Verso le porte del calzolaio non ti
vergogni di dirigerti, quando hai bisogno di scarpe, né verso quelle del
fruttivendolo, quando hai bisogno di lattughe: e verso quelle dei ricchi sì,
quando hai un bisogno analogo? «Certo, perché il calzolaio non lo guardo
stupito» E non guardare neppure il ricco. «E il fruttivendolo non lo adulerò.»
E non adulare neppure il ricco. «E come otterrò ciò di cui ho bisogno?» Ti
dico forse di andarci per ottenere ciò che vuoi? e non invece solo per
compiere quel che ti si addice? «Perché, dunque, mi ci devo recare?» Per
andarci, per compiere, da parte tua, i doveri di cittadino, di fratello, di amico.
Per il resto, ricorda che sei andato da un calzolaio, da un erbivendolo, che
non dispongono di nessuna cosa grande o importante, anche se la vendono
cara. Tu vai come se andassi a comprar lattughe: costano un obolo e non un
talento. Così qui.
L'affare esige ch'io frequenti quelle porte: bene, ci andrò. Che parli in questo
modo: bene, parlerò. Ma devo anche baciargli la mano, devo lusingarlo con
lodi. Va' via: questo costa un talento, non giova a me né alla città né agli
amici ch'io distrugga un cittadino onesto e un amico.
Già, ma se non riesci, darai l'impressione di non averci posto tutto l'impegno.
Ancora una volta hai dimenticato perché ci sei andato? Non sai che l'uomo di
perfetta virtù nessun'azione compie per dare impressione, bensì per agire
bene?
«Che utilità gli viene dall’agire bene?» E che utilità viene a chi scrive il
nome di Dione come si deve? Il fatto stesso d'averlo scritto così. «E premio
nessuno?» E tu per l'uomo buono cerchi un premio più grande del compiere
azioni belle e giuste? In Olimpia nessuno pretende altro, anzi ti sembra
sufficiente ricevere la corona olimpica. E ti par tanto poco e insignificante
essere uomo di perfetta virtù e felice? Per questo scopo sei stato introdotto
dagli dèi in questa città e, dovendo già metter mano alle azioni da uomo,
rimpiangi le nutrici e le mammelle e ti abbattono e ti rendono effeminato
pazze donnette piangenti? E così, non cesserai mai di essere un ragazzino
sciocco? Non sai che chi si comporta da ragazzino, quanto più avanza negli
anni, tanto più diventa ridicolo? In Atene non vedevi chi andavi a visitare?
Sì, chi volevo. Anche qui, desidera vedere quest'uomo e vedrai l'uomo che
vuoi: solo, non agire in maniera meschina, non agire con desiderio o
avversione e le tue cose andranno bene. Tale condizione, però, non deriva dal
materiale atto di andare e neppure di fermarsi sulla soglia della porta, ma
dall'interno, dai giudizi che si hanno. Quando hai disprezzato le cose esterne
e indipendenti dalla libera scelta e nessuna ne ritieni più tua, bensì tue queste
soltanto, giudicare come si deve e così pure opinare, propendere, desiderare,
avversare, dov'è più possibilità di adulazione, di meschinità? Perché
rimpiangi ancora la pace di lì? perché i luoghi a te familiari? Attendi un po' e
anche questi, a loro volta, ti diverranno familiari. Ma se hai un'indole tanto
ignobile, anche quando ti stacchi di qui, piangi e gemi. «In che modo devo
essere, allora, affezionato ai miei?» Da uomo nobile, da uomo fortunato. La
ragione non esige mai che l'uomo si avvilisca né che si abbatta né che si
assoggetti ad altro, né che biasimi mai Dio o uomo. Sii, dunque, ti prego,
affezionato ai tuoi in modo da non derogare a questi princìpi; che se a causa
dell'affetto ai tuoi — qualunque cosa tu intenda con questo nome — devi
essere schiavo e infelice, allora non ti giova essere affezionato. In realtà, che
cosa ti proibisce d'amare qualcuno come una persona mortale, come una
persona destinata a emigrare? Socrate non amava i suoi figli? Sì, ma da
libero, da uomo memore che bisogna essere prima di tutto caro agli dèi. Per
questo non trasgredì nessuno dei doveri dell'uomo buono, né parlando in sua
difesa, né stabilendo la pena contro se stesso, né, ancor prima, mentre era
buleuta o soldato.
Noi, invece, ci procuriamo contenti ogni pretesto per essere ignobili, — e per
alcuni sarà il figlio, per altri la madre, per altri i fratelli. Eppure nessuno ha
da essere per noi motivo di infelicità, anzi, tutti devono essere motivo di
felicità, specie il dio che ci ha disposto a tal fine. Suvvia, Diogene non amava
nessuno, egli, così mite e umano che per la comunità degli uomini sottopose
di buon grado il suo corpo a tante fatiche e a stenti? Ma li amava in che
modo? Come conveniva a un ministro di Zeus: se ne prendeva sì cura, ma
insieme rimaneva sottomesso al Dio. Per questo ogni terra gli era patria, e a
lui solo, e nessuna a preferenza delle altre: preso prigioniero non rimpiangeva
Atene, né i conoscenti di lì e gli amici, ma si metteva a vivere coi pirati stessi
e tentava di correggerli. Più tardi, venduto a Corinto, viveva com'era vissuto
prima in Atene e se anche fosse arrivato tra i Perrebi, avrebbe fatto lo stesso.
Così si conquista la libertà. Per ciò diceva: «Da quando Antistene mi ha fatto
libero, non sono stato più schiavo». E come lo fece libero?
Senti che dice: «M'insegnò quel che era mio e quel che non era mio. Gli
averi non sono miei: i consanguinei, i familiari, gli amici, la reputazione, i
luoghi consueti, la compagnia degli uomini, tutte queste cose sono altrui. 'Ma
proprio tuo, allora, che cos'è? L'uso delle rappresentazioni.' E tale uso mi fece
vedere che io lo possiedo libero da impedimenti, da costrizioni: nessuno può
intralciarmi, nessuno può spingermi con la forza a farmi usare le mie
rappresentazioni diversamente da come voglio. Chi dunque ha ancora
dominio su me? Filippo o Alessandro o Perdicca o il Gran Re?
come potrebbero? Chi si lascia superare dall'uomo, deve essere superato
molto prima dalle cose.» Perciò, chiunque non si lascia vincere né dal
piacere, né dalla fatica, né dalla fama, né dalle ricchezze, e può, quando gli
piaccia, andarsene, sputando il suo miserabile corpo tutt'intero in faccia a
qualcuno, di chi è ancora schiavo? A chi è sottoposto?
Ma se viveva volentieri in Atene, ed era soggetto a un certo tenore di vita, le
sue cose erano in potere di chiunque, e uno più forte sarebbe stato padrone di
causargli dolore.
Pensi come avrebbe adulato i pirati perché lo vendessero a un ateniese,
perché vedesse una buona volta il Pireo splendido, e le lunghe Mura, e
l'Acropoli? Ma chi saresti stato guardandole, o schiavo? Un servo, un tapino.
E quale giovamento ne avresti avuto? — Nessuno, ma sarei stato un uomo
libero. — Mostrami in che modo libero. Ecco, ti tiene stretto quegli, chiunque
sia, che ti strappa dal solito tenore di vita e dice «sei mio schiavo: dipende da
me proibirti di vivere come vuoi, da me rilassare i legami, da me umiliarti:
quand'io voglio, ti allieterai ancora ed esultante te ne tornerai ad Atene». Che
dici a costui che ti riduce in schiavitù? Chi puoi presentargli come
emancipatore? O non osi levargli neppure gli occhi in faccia, ma, lasciando i
molti discorsi, lo supplichi di liberarti? Uomo, con viso gioioso devi
incamminarti per la galera, affrettandoti, precedendo chi ti conduce. Ecco,
non sai deciderti a vivere in Roma e desideri l'Ellade? E quando devi morire,
anche allora scoppierai a piangere dinanzi a noi, che non puoi vedere Atene e
neppure passeggerai per il Liceo?
Per questo ti sei allontanato dal tuo paese? Per questo hai cercato di
incontrarti con qualcuno da cui trarre profitto?
Quale profitto? Di risolvere più speditamente i sillogismi o di esaminare gli
argomenti amfibologici? E hai lasciato fratelli, patria, amici, familiari per
tornare con un corredo di siffatte nozioni? Sicché non ti allontanavi da casa
per acquistare la costanza di carattere e l'imperturbabilità? non perché,
immunizzato contro ogni danno, non accusassi nessuno, non biasimassi
nessuno, nessuno ti offendesse e così mantenessi le tue relazioni senza alcun
impedimento? Un bel commercio è quello che hai organizzato, sillogismi,
argomenti equivoci e ipotetici! E se ti piace, mettiti seduto nel mercato e da'
le tue prescrizioni, come chi spaccia rimedi. Non negherai di conoscere anche
quel che hai imparato per non accusare d'inutilità i princìpi filosofici? Che
male t'ha fatto la filosofìa? In che t'ha fatto torto Crisippo perché con la tua
condotta criticassi come inutili le sue fatiche? Non ti bastavano tutti i mali
che avevi in casa e che ti erano cagione di dolore e di pianto, anche se non te
ne allontanavi, ma te ne sei tirati addosso degli altri? Se aumenti il numero
dei tuoi familiari ed amici, ti procurerai motivi maggiori di gemere: lo stesso
se ti attacchi a un'altra terra. E perché vivi? Per ammucchiare intorno a te
dolori su dolori e renderti così disgraziato? E questo me lo chiami affetto per
i tuoi? Quale affetto, uomo? Se è bene, non deve essere causa di male alcuno:
se è male, non ha niente a che fare con me. Io sono nato per i miei beni, ma
per i mali, no, non sono nato.
Quale esercizio si richiede, dunque, a questo scopo? In primo luogo,
quell'esercizio principale e importantissimo che si trova subito, quasi sulla
soglia e cioè di non ritenere inalienabile l'oggetto a cui ti affezioni, ma nello
stesso conto d'una pignatta o d'un bicchiere di vetro, sicché, caso mai vada in
frantumi, tu, ricordandone la natura, non ne rimanga turbato.
Cosi pure nel nostro caso: se baci il tuo figliolo, o il fratello o l'amico, non
abbandonare la tua fantasia a ogni sogno e non lasciare che la tua contentezza
si sbrigli dove vuole, ma reprimila, moderala, come fanno quelli che stanno
dietro al trionfatore ricordandogli che è uomo. Qualcosa di simile ricorda
anche tu: che ami un oggetto mortale, che ami un oggetto non tuo: ti è stato
concesso per il momento, e non in maniera inalienabile né per sempre, ma,
come il fico, come l'uva, in una determinata stagione dell'anno; quindi, se ne
senti la brama d'inverno, sei pazzo. Così se desideri un figlio o un amico
quando non t'è concesso, sappi che brami un fico d'inverno. In realtà, quel
che é l'inverno rispetto al fico lo è ugualmente ogni circostanza prodotta
dall'universo rispetto a quanto essa esige ci sia strappato.
Del resto, nel momento stesso in cui godi di qualcosa, póniti davanti alla
mente le rappresentazioni contrarie. Che male c'è se nel baciare il tuo figliolo
dica balbettando: «domani morrai»? e così con un amico: «domani partirai o
tu o io, e non ci vedremo più»? — Ma tutto ciò è di cattivo augurio, —
Anche alcuni incantesimi lo sono, ma siccome fanno bene non me ne curo:
purché, però, facciano bene. E tu chiami di cattivo augurio cose diverse da
quelle che indicano un male? Di cattivo augurio è la vigliaccheria, di cattivo
augurio l'ignobiltà, il gemito, il dolore, l'impudenza: ecco le parole di cattivo
augurio. E tuttavia non bisogna neppure esitare a pronunciarle per tenerci in
guardia contro le cose. Mi dici di cattivo augurio una parola che indica un
processo naturale? dì allora di cattivo augurio anche il mietere le spighe,
perché significa la distruzione delle spighe: già, ma non dell'universo. Dì
allora di cattivo augurio anche il cader delle foglie o il seccarsi del fico e
l'appassirsi dell'uva. Si tratta, in tutti questi casi, di mutamenti da uno stato
precedente in uno diverso: non distruzione ma un'ordinata disposizione e
amministrazione. Tale è l'andar via dal proprio paese, un piccolo mutamento:
tale è la morte, un mutamento più grande, ma non da ciò che al presente è,
verso il nulla, ma verso ciò che al presente non è. «Non sarò più allora?» No:
ma sarai una cosa diversa da quella di cui al presente il mondo ha bisogno.
Perché anche tu nascesti non quando hai voluto, ma quando il mondo ebbe
bisogno.
Perciò, l'uomo di perfetta virtù, ricordando chi è e donde è venuto e da chi è
stato generato, è tutto proteso a questo solo, ad assolvere il suo compito in
maniera disciplinata e docile a Dio. «Vuoi che io rimanga ancora?» Da uomo
libero, da uomo generoso, come tu hai voluto, perché, in quel che è mio, mi
hai fatto libero da impedimenti. Ed ora non hai più bisogno di me? Con
buona fortuna per te! Sono rimasto fino a questo momento per te, e non per
altri: ora, obbediente a te, mi ritiro» «Come ti ritiri?» «Ancora una volta,
come tu hai voluto: da libero, da ministro tuo, da uomo che si rende conto dei
tuoi ordini e delle tue proibizioni. E fin quando continuerò a vivere tra le cose
tue, chi vuoi che io sia?
magistrato o cittadino privato? senatore o plebeo? soldato o comandante?
precettore o capo di casa? Il posto e l'ufficio che m'hai dato, come dice
Socrate, morirò mille volte prima di abbandonarlo. Dove vuoi ch'io stia? A
Roma, o ad Atene, o a Tebe o a Giaro? Solo, ricordati di me in quel luogo. Se
mi mandi dove non c'è possibilità di vivere in maniera conforme alla natura
umana, me ne andrò, non disobbedendoti, ma come se tu mi dessi il segnale
della ritirata. Non ti abbandono — non sia mai! — ma mi rendo conto che
non hai bisogno di me. Se invece è possibile vivere conforme a natura, non
cercherò altro luogo da quello in cui mi trovo, né altri uomini da quelli coi
quali mi trovo.»
Questi pensieri ti siano presenti di notte, lo siano di giorno: scrivili, leggili,
intorno a essi fa' conversazione da solo a solo, con un altro: «Puoi aiutarmi in
questo?»
Poi avvicinati a un altro e a un altro ancora. E se succede uno di quei casi
cosiddetti indipendenti dalla volontà, subito il pensiero che non era
inaspettato sia il primo a darti sollievo. Di grande utilità è in tutte le cose
poter dire: «Sapevo d'aver generato un mortale». Così dirai anche tu: e inoltre
«sapevo d'essere mortale» e «sapevo ch'avrei potuto lasciare la mia terra »,
«sapevo ch'avrei potuto essere cacciato in esilio», «sapevo ch'avrei potuto
essere gettato in prigione». Se poi rifletterai in te stesso e cercherai l'origine
di quel caso, ti ricorderai subito che ha la stessa provenienza dei fatti
indipendenti dalla volontà, dei fatti, cioè, che non sono in mio potere. Quindi,
che relazione ha con me? C'è poi l'argomento più importante: «Chi l'ha
mandato?» II sovrano o il comandante, lo Stato o la legge dello Stato.
«Dammelo, perché io devo sempre obbedire alla legge in ogni occasione.»
Poi, quando la immaginazione ti morde (che questo non dipende da te)
combàttila con la ragione, debellala: non lasciar che acquisti forza o che vada
avanti, passo per passo, rappresentandosi quanto vuole e come vuole. Se stai
a Giaro, non immaginarti la vita di Roma e gli svaghi di chi ci vive e quelli
che godresti anche tu col tuo ritorno, ma sii tutto proteso a vivere con
coraggio a Giaro, come s'addice a chi vive a Giaro. E se vivi a Roma, non
immaginarti la vita di Atene, ma bada soltanto a quella di lì.
E al posto di tutti gli altri svaghi opponi quello derivante dalla
consapevolezza che tu obbedisci a Dio e che non a parole ma a fatti adempì il
dovere dell'uomo di perfetta virtù. Quant'è bello poter dire a se stesso: «quel
che in gli altri adesso nelle loro dissertazioni magnifìcano di parole, credendo
di affermare l'incredibile, io lo compio: essi pure, seduti ai loro banchi,
analizzano le mie virtù, fanno ricerche su me, mi esaltano: di tutto questo
Zeus volle che proprio io dessi una dimostrazione in me; volle inoltre sapere
se aveva un soldato come si deve, un cittadino come si deve, e volle
presentarmi agli altri uomini, per dare loro una testimonianza riguardo ai casi
indipendenti dalla volontà umana: 'vedete che avete paura senza ragione, che
invano desiderate ciò che desiderate. Non cercate di fuori il bene, cercatelo in
voi stessi: se no, non lo troverete'. Per questo adesso mi conduce qua, adesso
mi manda là, mi mostra povero agli uomini, senza una carica, ammalato: mi
invia a Giaro, mi caccia in galera. Non per odio: non sia mai! — e chi può
odiare il migliore dei suoi servi? — non per trascuratezza — perché, certo,
Egli non trascura neppure la più umile delle creature, ma per esercitarmi, ed
usare di me come testimone agli altri. Posto a un servizio siffatto, continuerò
a pensare dove sono o con chi o che cosa dicono di me? Non sono tutto
proteso verso Dio, verso i suoi comandi, verso i suoi ordini?.
Se avrai queste massime costantemente presenti, se le mediterai sempre con
te stesso e te le porrai a portata di mano, non avrai più bisogno di chi ti
consoli né di chi ti faccia forza. Perché brutto non è non aver da mangiare,
ma non aver un ragionamento capace di allontanare la paura e l'affanno. Una
volta immunizzato contro l'affanno e la paura, ci sarà più per te tiranno o
guardia o cesariano, soffrirai perché uno è stato nominato funzionario o
perché altri sacrificano sul Campidoglio nell'atto di prender possesso della
loro carica, tu, che hai ricevuto sì importante autorità da Zeus? Solo, non
vantartene, non esserne vanaglorioso, ma mostrala con la tua condotta: e se
nessuno se ne accorge, contentati di vivere sano e felice.

A QUANTI RINUNCIANO AI LORO PROPOSITI


Considera, di quante cose da principio ti sei proposto, quali hai ottenuto,
quali no, e come il ricordo delle une ti rallegri, delle altre, invece, ti rattristi,
e, se è possibile, recupera anche quelle sfuggite alla tua presa. Perché, chi si
accinge alla gara più grande di tutte, non ha da esitare, ma deve subire anche
percosse. Ci sta di fronte una gara, la cui posta non è la vittoria nella lotta e
nel pancrazio per la quale, e in caso di successo e di insuccesso, si può
meritare moltissima considerazione, se ne può meritare poca, e, per Zeus, si
può essere l'uomo più fortunato, si può anche essere l'uomo più infelice: la
posta è proprio la fortuna e la felicità. E dunque? Se rinunciamo una volta,
nessuno vieta di gareggiare ancora, senza dover aspettare altri quattro anni,
perché torni un'altra olimpiade, ma, appena ci si riprende e si riacquista fiato,
con lo stesso slancio di prima, si può tornare alla gara: e se ancora una volta
soccombi, si può tornare ancora: e purché vinca una volta, sarà come se non
ti fossi mai ritirato. Bada solo, però, che a furia di ripetere la stessa cosa, non
cominci a farla con gusto, che allora finisci per andare di qua e di là, come un
atleta di nessun valore, vinto per tutto il ciclo delle competizioni, al pari delle
quaglie messe in fuga.
«Mi vince l'aspetto d'una bella fanciulletta. Con questo? L'altro giorno non
fui vinto?» «Mi vien voglia di criticare qualcuno. L'altro giorno non l'ho
criticato?» Ci parli come se te la fossi cavata impunito: come chi osservasse
al medico che gli ha proibito di prendere un bagno: «L'altro giorno non l'ho
preso?» E il medico allora potrà dirgli: «Già, ma che t'è successo dopo il
bagno? Non t'è venuta la febbre? Non t'è scoppiato il dolor di testa?» Ora, tu
che l'altro giorno hai criticato qualcuno, non ti sei comportato da uomo
maligno? non da chiacchierone? Non hai sviluppato codesta tua abitudine
mettendole davanti le azioni che le sono proprie? Vinto dalla fanciulletta, te
la sei cavata impunito? Perché vai ricordando i fatti dell'altro giorno?
Piuttosto, io penso, bisognerebbe che al loro ricordo, come gli schiavi al
ricordo delle busse, ti astenessi dagli stessi errori. E invece i due casi non
sono uguali: lì è il dolore a produrre il ricordo; ma dei nostri errori che dolore
c'è, che pena? quando ti sei abituato a evitare un modo d'agire perverso?

A CHI TEME LA POVERTÀ

Non ti vergogni d'essere più vile e ignobile degli schiavi fuggitivi? Come
fanno questi, quando si danno alla fuga e lasciano i padroni, su quali campi si
fondano, su quali servi? Non si procurano di nascosto quel poco che basti per
i primi giorni e poi si spingono per terra e per mare, escogitando artifìci su
artifici per sostenersi? E quale mai fuggitivo è morto di fame? E tu tremi che
t'abbia a mancare il necessario e passi le notti insonni. Disgraziato, così cieco
sei e non vedi la via, dove conduce la mancanza del necessario? Dove
conduce? Dove conduce anche la febbre, un sasso che ci colpisce: alla morte.
E questo non l'hai detto varie volte tu stesso agli amici, non le hai spesso lette
tali cose, non le hai spesso scritte? Quante volte ti sei vantato che a morire,
per lo meno, eri convenientemente disposto? — «Si: ma i miei soffriranno la
fame.» Ebbene? Forse la loro fame conduce in qualche altro posto? Non è per
caso la stessa discesa? Gli inferi non sono gli stessi? Non vuoi figgere laggiù
gli occhi, intrepido contro ogni povertà e ogni bisogno, laggiù dove hanno da
discendere anche i ricchissimi, e quelli che coprono le cariche più alte e gli
stessi re e i tiranni e anche tu, affamato, se così vuole il destino, essi, invece,
mentre scoppiano d'indigestione e d'ubriachezza? T'è stato mai facile vedere
un pezzente che non fosse vecchio? o non era invece decrepito? Pur passando
al gelo notte e giorno, buttati in terra e cibandosi giusto di quanto è
necessario, si riducono a tal punto da non poter neanche morire: e tu, uomo
fìsicamente perfetto, con mani e piedi, temi tanto la fame? Non sei in grado
di attinger acqua, non di scrivere, non di fare il pedagogo, non di guardare le
porte degli altri? «Ma è turpe abbassarsi a questa necessità». Impara prima
quali sono le cose turpi e poi dicci che sei filosofo. Per il momento, non farlo
dire neppure a un altro.
Turpe è per te una cosa che non ti appartiene, della quale non sei tu la causa,
che ti ha colpito a tua insaputa, come un dolor di testa o la febbre? Se i tuoi
genitori erano poveri, ovvero, erano si ricchi, ma hanno lasciato eredi altre
persone, e, pur in vita, non ti sovvengono in nulla, è forse turpe tutto questo
per te? E questo imparavi dai filosofi? Non hai mai sentito che quel che è
turpe è biasimevole, e che quel che è biasimevole merita biasimo? E chi puoi
biasimare per un'azione che non gli appartiene, che neppure ha compiuto? È
forse opera tua che tuo padre abbia un'indole siffatta? O ti è lecito riformarlo?
Ti è concesso? Ebbene? Devi proprio volere quel che non ti è concesso, o,
non ottenendolo, vergognartene? Cosi, dunque, con tutto il tuo filosofare, ti
sei abituato a guardare gli altri e a non sperare niente da te stesso? E allora
singhiozza e gemi e mangia, pieno di timore che non abbia cibo domani:
trema per i miserabili schiavi, che ti rubino qualcosa, che ti fuggano, che
muoiano. Vivi dunque così, e non aver mai tregua, tu che solo a parole ti sei
accostato alla filosofìa e i suoi principi, per quanto è in te, hai disonorato,
dimostrandoli inutili e dannosi a chi li accoglie: tu non hai mai desiderato la
fermezza d'animo, l'imperturbabilità, l'impassibilità: per questo scopo non hai
mai frequentato nessuno, ma per i sillogismi molti: non hai mai provato
attentamente da te alcuna delle tue rappresentazioni:
«sono in grado di sostenerla o no? che mi rimane?» ma come se tutto stesse
bene e al sicuro, ti sei spinto subito all'ultimo punto, quello che riguarda
l'incrollabilità, per avere incrollabile che cosa? La codardia, l'ignobiltà,
l'ammirazione per i ricchi, il desiderio irrealizzato, l'avversione inefficace:
ecco le cose della cui sicurezza ti davi pensiero.
Non dovevi far dapprima qualche acquisto dalla ragione e poi renderlo
saldo? Hai visto mai costruire un fregio per disporlo intorno a un muro
inesistente? E quale portiere vien messo a guardia d'una porta inesistente? Ma
tu badi a poter dimostrare, che cosa? Badi che i sofismi non ti scuotano, da
che cosa? Mostrami prima che custodisci, che misuri, che pesi, e poi, a queste
condizioni, fammi vedere la bilancia o il medimmo. O fino a quando
misurerai la polvere? Non devi mostrare ciò che fa gli uomini felici, che da
alle loro cose l'andamento ch'essi vogliono, per cui non devono biasimare
nessuno, accusare nessuno, ma obbedire all'amministrazione dell'universo?
Questo mostrami. «Ecco: te lo mostro, dice uno, ti risolverò i sillogismi». Ma
questa è la misura, schiavo, non è il misurato. Per ciò adesso paghi il fio
d'aver trascurato qualcosa: tremi, passi le notti insonni, ti consigli con tutti; e
se i tuoi disegni non dovessero piacere a tutti, li riterresti cattivi.
E poi temi la fame, come sembra. Eppure non è la fame che temi: piuttosto,
hai paura di non avere il cuoco, un servo che pensi alle provviste, un altro che
ti calzi, un altro che ti vesta, altri che ti massaggino, altri che ti seguano,
perché nel bagno, spogliato e disteso come chi è crocifìsso, sia massaggiato
di qua e di là, mentre l'alipte, standoti presso, dice:
«Voltati, dammi il fianco, tu prendigli la testa, porgimi la spalla», e poi,
tornato dal bagno in casa, strepiti «nessuno porta da mangiare?» e più tardi,
«sparecchia: lava la tavola con la spugna.» Questo temi — di non poter
vivere una vita da malato, laddove impara la vita dei sani, come la vivono gli
schiavi, come la vivono i lavoratori, come chi filosofa davvero, come la visse
Socrate — e aveva moglie e figli —, come la visse Diogene, come Cleante
che andava a scuola e insieme attingeva acqua. Se vuoi ottenere ciò,
dappertutto l'otterrai e vivrai pieno di fiducia. In che? Nell'unica cosa in cui è
possibile aver fiducia, in ciò che è leale, scevro da impedimenti, inalienabile
e cioè la tua libera volontà. Perché ti sei fatto così inutile e vano che nessuno
vuole accoglierti in casa, nessuno prendersi cura di te? Eppure uno strumento
sano e utile, quand'è gettato via, chiunque lo trovi lo raccatterà e lo riterrà un
guadagno, te, al contrario, nessuno riterrà guadagno, ma ciascuno un danno.
Così non puoi offrire neppure l'utilità d'un cane o d'un gallo. E perché vuoi
ancora vivere, essendo qual sei?
Quale uomo bravo teme che gli manchi il cibo? Ai ciechi non manca, agli
zoppi non manca, mancherà all'uomo bravo?
Ma al bravo soldato non manca chi l'assoldi e neppure al lavoratore, né al
calzolaio: e all'uomo bravo mancherà? E Dio trascura in tal modo le sue
creature, i ministri, i testimoni, dei quali soltanto si serve per mostrare agli
incolti che egli esiste, e bellamente governa l'universo, e non trascura gli
affari umani e che per l'uomo bravo niente è male né in vita né in morte?
«Va bene: ma quando non mi procura il cibo?» Che altro fa se non darmi il
segnale della ritirata, come un bravo comandante? Io obbedisco, e seguo
applaudendo il mio capo, esaltando le sue opere. Perché son venuto quando
Egli ha stabilito e me ne torno adesso che Egli stabilisce; in vita questo fu il
mio compito, esaltare Dio e da solo e cogli altri — sia uno, siano molti. Non
mi da molto, né in abbondanza, non vuole ch'io viva mollemente: ma neppure
a Eracle lo dava, al figlio suo, che anzi un altro era re di Argo e di Micene, e
lui riceveva gli ordini, s'affaticava, si esercitava. Ed Euristeo, chiunque fosse,
né di Argo né di Micene era re, egli che neppure di se stesso lo era: ma Eracle
fu signore e guida di tutta la terra e del mare, la purificò dall'ingiustizia e
dall'illegalità, v'introdusse giustizia e purezza: e tutto questo compieva nudo e
solo. E Odisseo, quando fu gettato naufrago sulla spiaggia, forse che la
povertà lo umiliò, forse che lo infranse? Ma come si presentò alle vergini per
chiedere il necessario? — e sì che mendicare da un altro il necessario pare
davvero la cosa più vergognosa. — Come leone nutrito sui monti.
Su che si fondava? Non sulla gloria, non sulle ricchezze, non sulle cariche,
ma sulla sua forza e cioè sui giudizi ch'aveva di ciò che dipende e non
dipende da noi. È solo questo che rende liberi, non soggetti a impedimenti,
che leva in alto il collo degli umiliati, che fa guardare in faccia i ricchi e i
tiranni con occhi imperterriti. Ed è questo il dono del filosofo: e tu non verrai
avanti con coraggio, ma tutto tremante per le tue vesti meschine, per le tue
meschine argenterie?
Disgraziato, in tal modo hai sciupato finora il tuo tempo?
«Va bene: ma sé cadrò malato?» «Cadrai malato come si deve.» «E chi mi
curerà?» «Dio, gli amici.» «II mio giaciglio sarà duro.» «Ma da uomo.» «Non
avrò un'abitazione confortevole.» «T'ammalerai in un'abitazione non
confortevole.»
«Chi mi farà da mangiare?» «Chi lo fa agli altri: starai male come Mane.»
«E qual è il termine della malattia?» «Quale altro se non la morte? Rifletti
che per l'uomo il colmo d'ogni male, della ignobiltà, della vigliaccheria non è
la morte bensì il timore della morte? Contro questo timore, ti prego,
esercitati, ad esso siano rivolti tutti i discorsi, gli esercizi, le letture, e ti
renderai conto che così soltanto gli uomini acquistano la libertà.»
SULLA LIBERTA’

Libero è chi vive come vuole, chi non può essere costretto né ostacolato né
forzato, i cui impulsi sono privi di impedimenti, i cui desideri raggiungono il
segno e le avversioni non incorrono in ciò da cui rifuggono. Chi vuol vivere
in errore? Nessuno. Chi vuol vivere facendosi ingannare, agendo
temerariamente, essendo ingiusto, sfrenato, scontento della propria sorte,
meschino? Nessuno. Ma nessun uomo dappoco vive come vuole: dunque
neppure è libero. E chi vuole vivere addolorato, intimorito, invidiando,
compassionando, desiderando senza ottenere, avversando qualcosa e
cadendoci dentro? Nessuno. E troviamo un uomo dappoco che non ha dolore
o paura, che non incorre in ciò da cui rifugge, che ottiene ciò che vuole?
Nessuno. Dunque non è neppure libero.
Qualora codeste parole le ascolti uno che è stato console due volte, se
aggiungi: «tu, però, sei saggio e non hanno niente a vedere con te» allora ti
perdonerà: ma se gli dici la verità e cioè «in fatto di schiavitù non c'è
differenza alcuna tra te e quelli che sono stati venduti tre volte» che cos'altro
dovrai aspettarti se non le busse? «Come? Sono schiavo io? — dirà.
Mio padre è libero, mia madre libera: nessuno m'ha comprato, anzi sono
senatore e amico di Cesare: sono stato console e molti schiavi possiedo.» In
primo luogo, ottimo senatore, tuo padre era probabilmente schiavo della tua
stessa schiavitù e anche la madre e il nonno e, per ordine, tutti gli antenati. Se
poi erano in sommo grado liberi, che ha da vedere con te questo? E che? se
essi erano nobili e tu ignobile? essi impavidi e tu vigliacco? essi temperanti e
tu dissoluto?
«Ma che ha da vedere questo, dirà, con la condizione il di servo?» «Secondo
te, non ha da vedere niente con la condizione di servo, agire contro voglia,
costretto, gemendo?» «Va bene, riprende: ma chi mi può costringere se non
Cesare, padrone di tutti?» «Dunque, d'avere un padrone, l'hai ammesso tu
stesso: che sia padrone comune di tutti, come dici, non ti sia un conforto, ma
riconosci di essere schiavo in una grande casa. Allo stesso modo, anche i
Nicopolitani sogliono gridare: 'Per la fortuna di Cesare siamo liberi'».
Tuttavia, se ti piace, mettiamo per il momento da parte Cesare e dimmi
piuttosto: Non sei mai stato innamorato di qualcuno? D'una ragazzetta, d'un
ragazzetto, d'uno schiavo, d'un libero? «Ma che ha da vedere questo con
l'essere schiavo o libero?» — E dall'innamorata non t'è stata mai imposta
un'azione che non volevi? Non hai mai adulato il tuo schiavetto? Non gli hai
mai baciato i piedi? Eppure, se ti si costringesse a baciare quelli di Cesare, lo
riterresti un oltraggio e il colmo del despotismo. Che altro è la schiavitù? Di
notte non sei mai andato dove non volevi? Non hai mai speso quel che non
volevi? Non hai mai parlato tra gemiti e pianti, non hai mai sopportato
oltraggi, non sei mai stato messo alla porta? Ma se ti vergogni di confessare
le tue bravure, guarda quello che dice e fa Trasonide che pure ha fatto più
campagne militari di te, probabilmente: prima di tutto esce di notte quando
Geta non osa uscire, o se talora è costretto dall'altro, esce dopo aver molto
imprecato e maledetto la sua triste schiavitù. E che dice? Ecco:
M'ha fatto schiavo una ragazza vile assai ciò che nessuno dei nemici mai
potè.
Disgraziato, che sei schiavo d'una ragazza e, per di più, d'una ragazza molto
vile. E perché continui a dirti libero?
perché vanti le tue campagne? E poi chiede la spada e si adira con chi per
prudenza non gliela da e invia regali alla ragazza che lo detesta, supplica e
piange: poi, dopo un piccolo successo, va in superbia. A meno che proprio
allora non sapesse più come si fa per non aver desideri e timori, costui
possedeva la libertà?
Considera, a proposito degli animali, in che senso usiamo il concetto di
libertà. Alcuni allevano leoni addomesticati dopo averli chiusi in gabbia,
danno loro da bere, e c'è chi se li porta pure a spasso. Ma chi dirà che questo
leone è libero? Non è invece tanto più schiavo quanto più la sua vita è molle?
E quale leone in possesso di sentimento e di ragione vorrebbe essere uno di
codesti leoni?
E poi, quegli uccelli che, presi e messi in gabbia, vengono allevati, che cosa
soffrono nel tentativo di fuggire? Ce ne sono alcuni che si lasciano morire di
fame pur di non adattarsi a siffatta esistenza: quanti poi continuano a vivere
lo fanno a stento, con difficoltà, struggendosi, e se trovano un piccolo
pertugio, si lanciano subito fuori. Tanto è il loro desiderio di avere la libertà
naturale, di essere indipendenti e non impediti! Che male c'è per te in questo?
«Come parli?
Sono nato per volare dove voglio, per vivere sotto la volta celeste, per
cantare quando voglio — tu mi strappi tutto e dici: «che male c'è?».
Per questo diremo liberi solo quegli animali che non si assoggettano alla
cattività, ma, appena catturati, la fuggono con la morte. Così anche Diogene
dice in un punto che c'è un mezzo solo per raggiungere la libertà ed è di esser
sempre pronti a morire contenti. E al re dei Persiani scrive: «Lo stato degli
Ateniesi, non lo puoi ridurre in schiavitù, non più che i pesci.» — «Come?
Non li prenderò? » — « Se li prendi, dice, ti lasceranno subito e se ne
andranno via, come i pesci. Infatti, se prendi un pesce, muore: così, se pure
questi muoiono, una volta presi, quale utile ti verrà dalla tua spedizione
militare?». Ecco la voce d'un uomo libero, che ha esaminato con cura la
faccenda e ha trovato la soluzione come si doveva. Ma se la cerchi dove non
sta, qual meraviglia se non la trovi mai?
Lo schiavo fa voti d'esser lasciato subito libero. Perche? Secondo voi
desidera versare il denaro agli appaltatori delle vigesime? Nient'affatto.
Piuttosto, egli immagina che fino a questo momento, per non aver ottenuto la
libertà, è impedito e sfortunato. «Se vengo affrancato, dice, ecco
immediatamente la felicità completa; non mi prendo più cura di nessuno,
rivolgo la parola a tutti da pari e uguale, viaggio dove voglio, vengo donde
voglio e dove voglio.» Poi è messo in libertà, ed ecco che non ha più da
mangiare e cerca chi possa adulare, da chi possa pranzare: e allora, o fa
scempio del corpo sottoponendosi a ogni vergogna e, se anche si procura una
greppia, cade in una schiavitù molto più dura della precedente, oppure, se
acquista una certa agiatezza, da quell'uomo sciocco che è, si da all'amore di
una ragazzetta e, non ottenendolo, si dispera e rimpiange la schiavitù.
«Infine, che male avevo? Era un altro a vestirmi, un altro a calzarmi, un altro
a nutrirmi, un altro a curarmi, quando cadevo malato, e a ben poco si
riduceva il mio servizio per lui. Ora, invece, disgraziato, quanto soffro,
schiavo non di uno ma di tanti! Eppure, continua, se riesco ad ottenere
l'anello, allora vivrò in piena serenità e felicità.» E dapprima, per ottenerlo,
subisce quel che si merita: ottenutolo, poi, siamo daccapo. E poi dice: «Se
partecipo a una campagna militare, sarà la liberazione da tutti i mali». Va in
guerra, soffre quel che può soffrire un mariolo e nondimeno cerca una
seconda campagna e una terza. Alla fine, quando ha raggiunto proprio il
culmine ed è diventato senatore, allora è uno schiavo che va in Senato, allora
è schiavo della schiavitù più splendida e magnifica.
Badi a non essere più sciocco, e impari piuttosto, come diceva Socrate, la
natura di ogni cosa, e adatti non a sproposito le prenozioni ai casi particolari.
Perché è questa la causa di tutti i mali degli uomini, non riuscire ad adattare
le prenozioni comuni alle cose particolari. Noi, invece, pensiamo chi a una
causa, chi a un'altra. Per costui è star male.
Nient'affatto: è che non adatta le prenozioni. Per quello è andar pitoccando:
per quello aver un padre o una madre arcigna, per quell'altro non godere i
favori di Cesare. E invece la causa è sempre la stessa e unica, non saper
adattare le prenozioni. E infatti, chi non ha la prenozione del male, che il
male è una cosa dannosa, da fuggirsi, da rimuoversi in ogni modo?
Prenozione non contraddice a prenozione, se non si venga ad applicarle. Qual
è, dunque, questo male dannoso e da fuggirsi? Secondo costui non essere
amico di Cesare: è fuori strada, ha sbagliato la giusta applicazione, si
angustia, va in cerca di cose che non hanno niente a che fare con l'argomento,
perché, ottenuta l'amicizia di Cesare, non ha ottenuto, nondimeno, quel che
cercava. In realtà, cos'è quel che ognuno cerca? Essere tranquillo, essere
felice, far tutto a proprio piacere, non soffrire impedimenti né costrizioni.
Dunque, quando è diventato amico di Cesare, cessano per lui gli ostacoli,
cessano le costrizioni, è tranquillo, è sereno? A chi lo chiediamo? Chi
abbiamo più fededegno di quello stesso ch'è diventato amico di Cesare?
Vieni avanti e dicci quando dormivi più placido, adesso o prima di diventare
amico di Cesare? Ecco la sua risposta prontissima: «basta, per gli dèi, ti
prego, di schernire la mia sorte! non sai le mie sofferenze, disgraziato! Il
sonno non mi visita più, ma arrivano, uno dopo l'altro, e mi dicono: 's'è già
svegliato, già esce'. E allora imbarazzi, allora preoccupazioni.» Suvvia:
quando pranzavi con più gioia, adesso o prima?
Ascolta che dice anche a questo proposito: se non è invitato si tortura, se è
invitato, pranza come uno schiavo presso il padrone, badando, nel mentre, a
non dire né a commettere qualche sciocchezza. E che teme, secondo te?
D'essere fustigato come uno schiavo? E donde a lui un timore d'una fine tanto
bella? Piuttosto, come si conviene a un uomo del suo calibro, amico di
Cesare, egli teme di lasciarci la testa. Quando prendevi il bagno più
placidamente? Quando t'esercitavi più liberamente? Insomma, quale vita
preferiresti vivere, quella di adesso o quella d'un tempo? Posso giurare che
nessuno è tanto insensato o bugiardo da non lamentarsi delle sue disgrazie,
quanto più è amico di Cesare.
Ora, dal momento che i cosiddetti re non vivono come vogliono e neppure
gli amici dei re, c'è ancora chi è libero?
Cerca e troverai, che la natura t'ha dato i mezzi per scovare la verità. Se poi
non sei in grado da te, impiegando solo queste risorse, di giungere a una
conclusione, ascoltala da quelli che hanno già fatto la ricerca. Che dicono?
«Ti sembra un bene la libertà?» — «II più grande.» — «E chi ottiene il bene
più grande, può essere infelice o star male?» «No.» —
«Dunque, quanti vedi infelici, inquieti, gemebondi, afferma pure senza
esitare che non sono liberi.» — «L'affermo.» —
«Prescindiamo, quindi, ormai, da quel che può essere vendita o compera e
altrettanti strumenti riguardanti la proprietà: infatti, posto che quanto hai
ammesso sia giusto, se il Gran Re è infelice, non è libero, e neppure un
piccolo re o chi è stato console una volta o due.» — «Sia pure».
Rispondimi ancora a questa domanda: «Ti sembra una cosa grande e nobile
la libertà? una cosa preziosa?» «Come no?»
— «E chi ottiene una cosa tanto grande, tanto preziosa, tanto nobile, può
essere meschino?» — «Non è possibile» — «Allora, quando vedi uno che si è
assoggettato a un altro o lo adula contro le sue convinzioni, dì senza esitare
che anche costui non è libero: e non soltanto se agisce così in vista d'un
pranzetto, ma anche d'una provincia o d'un consolato.
Piuttosto chiama schiavi in stile ridotto quelli che agiscono in tal modo per
piccole cose, gli altri, com'è giusto, schiavi in grande stile.» «Ammettiamo
anche ciò.» «Non ti sembra che la libertà consista nella piena padronanza, nel
pieno arbitrio di se stessi?» «Come no?» «Dunque, colui che è in potere altrui
impedire e costringere, dì pure senza esitare che non è libero. E non guardare,
per favore, gli avi suoi o i proavi, né cercarne l'atto di vendita o di compera,
ma se gli senti dire dal profondo del petto e con commozione 'padrone', anche
se lo precedono dodici fasci, chiamalo schiavo. E se gli senti dire 'disgraziato
me! che soffro', chiamalo schiavo. E, insomma, se lo vedi piangere,
biasimare, essere inquieto, chiamalo schiavo adorno di pretesta.
Se poi non fa niente di tutto questo, non dirlo ancora libero, ma cerca di
conoscerne i giudizi, se in qualche modo sono soggetti a costrizioni, a
impedimenti, a turbamenti. E se lo trovi così, chiamalo schiavo in ferie per i
Saturnali: dì che il padrone è andato via: quando tornerà, conoscerai la sua
condizione.» «Chi tornerà?» «Chiunque ha il potere su qualcuna delle cose
che egli vuole, o di procurargliela o di strappargliela.» «Così, dunque,
abbiamo tanti padroni?» «Proprio così.
Perché le cose abbiamo innanzi tutto come padroni — e son molte —:
attraverso le cose, necessariamente, saranno nostri padroni quelli che su
qualcuna di esse hanno potere. Certo, nessuno teme Cesare per se stesso, ma
la morte, l'esilio, la confisca dei beni, la galera, l'ignominia. E nessuno ama
Cesare, a meno che non sia degno di grande stima, bensì la ricchezza
amiamo, il tribunato, la pretura, il consolato. E quando amiamo o odiamo o
temiamo tali oggetti, necessariamente saranno nostri padroni quelli che ne
dispongono. Per ciò li adoriamo pure come dèi: infatti, pensiamo che è divino
ciò che ha la possibilità di rendere il benefìcio più grande. Quindi
sussumiamo in modo sbagliato: 'ma costui ha la possibilità di rendere il
benefìcio più grande'. Di necessità, però, anche la conclusione di tali
premesse è tratta in modo sbagliato.
Che cosa, dunque, rende l'uomo privo di impedimenti e padrone di se stesso?
Non certo la ricchezza né il consolato né le province né l'impero: bisogna
scovare qualche altra cosa. Ora, riguardo allo scrivere, che cosa ci permette
di farlo senza impedimenti e senza intralci?» — «La scienza dello scrivere.»
— «E riguardo al suonare la cetra?» — «La scienza del suonare la cetra.» —
«Dunque, anche riguardo al vivere, la scienza del vivere. Com'è il principio
in generale, l'hai sentito: consideralo, però, anche nelle sue applicazioni
particolari. Chi desidera cosa dipendente da altri può essere senza
impedimenti?» — «No.» — «Può essere senza intralci?» — «No.» —
«Dunque, neppure libero. Sta bene attento, adesso: non abbiamo proprio
niente dipendente da noi soli? o tutto? ovvero certe cose da noi, certe da
altri?» — «Come dici?» — «Se vuoi che il corpo sia integro, dipende da te o
no?» — «Non dipende da me.» — «E se vuoi star bene in salute?» —
«Neppur questo.» — «E se vuoi esser bello?» — «Neppur questo.» —
«Vivere o morire?» — «Neppur questo.» — «Dunque il corpo è cosa altrui,
soggetta a chiunque sia più potente di te.» — «Va bene.» — «E un campo,
dipende da te possederlo quando vuoi, per quanto vuoi, e come vuoi?» —
«No.» — «Gli schiavi?» — «No.» — «Le vesti?» — «No.» — «Una
casetta?» — «No.» — «I cavalli?» — «Niente di tutto questo.» — «E se vuoi
a ogni costo che i tuoi figli vivano o tua moglie o tuo fratello o gli amici,
dipende da te?» — «Neppur questo». «Dunque, non hai proprio niente
soggetto al tuo potere, dipendente da te solo? O hai qualcosa di questo
genere?» — «Non lo so.» — «Esamina allora in tal modo e osserva. Può
qualcuno farti assentire al falso?» — «Nessuno.» «Dunque, nel campo
dell'assenso, sei privo di impedimenti e di intralci.» — «E sia.» — «Bene: ad
avere l'impulso verso ciò che non vuoi, ti può costringere qualcuno?» — «Sì,
che quando mi minaccia morte o catene, mi costringe a questo.» — «Ma se tu
disprezzi la morte e le catene, gli baderai ancora?» — «No.» — «Ed è affar
tuo disprezzare la morte o no?» — «Mio.» — «Ed è affar tuo anche aver
l'impulso o no?» — «Ammettiamo che sia mio.» — «E rifiutare qualcosa di
chi è? Tuo anche questo.» — «E che succede se io ho l'impulso a camminare
e quello mi impedisce?» — «Quale parte di te impedirà? Forse il tuo
assenso?» — «No, ma il miserabile corpo.» — «Già, al pari di un sasso.» —
«Va bene, però io non cammino più.» — «E chi t'ha detto che camminare è
affar tuo, privo di ostacoli? Io dicevo privo di ostacoli solo aver l'impulso:
dove c'è bisogno del corpo e della sua cooperazione, già da un pezzo hai
sentito che non c'è niente di veramente tuo.» — «Ammettiamo anche
questo.» — «E a desiderare ciò che non vuoi, ti può costringere qualcuno?»
— «Nessuno.» — «E a proporti o a intraprendere qualcosa o, semplicemente,
a usare delle rappresentazioni che ti si presentano, ti può costringere
qualcuno?» — «No davvero: e tuttavia mi potrà proibire di raggiungere,
nonostante il mio desiderio, l'oggetto del mio desiderio.» — «Ma se tu
desideri un oggetto che è proprio tuo e che è quindi privo di impedimenti,
come te lo potrà proibire?» «In nessuna maniera.» — «E chi ti dice che è
privo di impedimenti chi desidera cose altrui?» — «Ma allora la salute non
devo desiderarla?» — «No, e nessun'altra cosa altrui. Quel che non è in tuo
potere procurarti o mantenere quando vuoi, è cosa altrui: lungi da essa non
solo le mani, ma molto prima il desiderio. Altrimenti ti sei fatto schiavo, hai
offerto il collo, se guardi con stupore ciò che non è tuo, se ti senti trasportato
con passione verso qualsiasi cosa soggetta ad altri e mortale.» — «La mano
non è mia?» — «È un membro tuo, ma per natura è fango, soggetto a
impedimenti, a costrizioni, schiavo di chiunque sia più forte. E perché ti
nomino la mano? Tutto il corpo lo devi trattare come un asinello carico, per
quanto tempo è possibile, per quanto tempo è concesso: ma se si fa una
requisizione e un soldato te lo piglia, lascialo, non opporti, non brontolare: se
no, sarai picchiato e perderai nondimeno l'asinello. Ora, se questo dev'essere
il tuo atteggiamento rispetto al corpo, bada che ti resta da fare delle altre
cose, quante cioè si procurano in vista del corpo. Se il corpo è l'asinello, le
altre cose saranno i freni dell'asinello, i basti, i ferri, l'orzo, il fieno. Lascia
anche tutto questo, liberatene con più fretta, con più gioia che non hai fatto
dell'asinello.
Quando ti sarai procurato questa preparazione e ti sarai esercitato a
distinguere le cose altrui dalle tue, le cose soggette a impedimento da quelle
non soggette, e a ritenere le une dipendenti da te, le altre no, e a dirigere
accuratamente il tuo desiderio da una parte, l'avversione dall'altra, c'è ancora
qualcuno che temi?» — «Nessuno.» E in realtà, per che cosa temerai? Per le
cose tue, in cui è la sostanza del bene e del male? E chi ne ha il potere? Chi te
le può strappare? Chi metterci un ostacolo? Non più che non lo si può mettere
a Dio. Temerai forse per il tuo corpo, per i tuoi averi? per cose altrui? per
cose che non hanno niente a vedere con te? E a che altro badavi dapprincipio
se non a distinguere le cose tue e le cose non tue, quelle dipendenti da te e
quelle non dipendenti da te, quelle soggette a impedimento e quelle non
soggette a impedimento? Per quale motivo ti sei accostato ai filosofi? Per
essere nondimeno sfortunato e disgraziato?
Ma in tal caso non sarai senza timore e turbamento. E il dolore, che ha da
vedere con te? Il timore di cose che si aspettano, diventa dolore quando sono
presenti. Ma tu che cosa bramerai ancora? Perché delle cose dipendenti dalla
tua volontà, in quanto ti sono belle e presenti, hai un desiderio moderato e
composto: di quelle indipendenti dalla tua volontà, non senti tale desiderio
per cui si provochino in te certi ardori irrazionali, violenti e oltre ogni misura
impetuosi. Sicché, quando tale è il tuo atteggiamento verso le cose, quale
uomo può ancora metterti paura? Cos'ha di terrificante l'uomo per l'uomo, sia
che gli appaia, o gli parli, o, semplicemente, stia con lui? Non più che il
cavallo per il cavallo, o il cane per il cane, o l'ape per l'ape. Sono le cose
piuttosto che mettono paura a ciascuno, e quando uno le può concedere o
strappare, allora, anche costui mette paura.
In che modo, quindi, si abbatte l'acropoli? Non col ferro, non col fuoco, ma
coi giudizi. Perché, se abbiamo distrutto l'acropoli materiale della città,
abbiamo forse distrutto anche quella che ci oppone la febbre, quella che ci
oppongono le belle ragazze, l'acropoli, insomma, che è in noi, abbiamo
cacciato i tiranni che sono in noi e che teniamo giorno per giorno presso
ciascuno di noi, talvolta gli stessi, tal'altra diversi? Ma di qui bisogna
cominciare, proprio di qui bisogna distruggere l'acropoli e cacciare i tiranni:
tralasciare il miserabile corpo, le sue membra, le facoltà, gli averi, la fama, le
cariche, gli onori, i figli, i fratelli, gli amici e ritenere di altri tutte queste
cose. E se i tiranni sono espulsi di qui, perché assedierò ancora l'acropoli, per
conto mio, almeno? Se resta, che mi fa? Perché caccerò ancora le guardie del
corpo?
Dove ne avverto più la presenza? Per altri essi portano i bastoni, le aste, le
spade. Io non sono stato mai impedito nella mia volontà né costretto contro la
mia volontà. Come sarebbe possibile? Ho unito i miei impulsi a Dio. Egli
vuole ch'io abbia la febbre: anch'io lo voglio. Vuole che imprenda qualcosa:
anch'io lo voglio. Vuole che desideri: anch'io lo voglio.
Vuole che ottenga alcunché: è anche la mia volontà. Non vuole: non è la mia
volontà. Perciò voglio morire: per ciò voglio esser messo alla tortura. Chi può
ancora impedirmi contro la mia opinione o costringermi? Non più che non lo
si potrebbe con Zeus.
Così fanno pure i viaggiatori più prudenti. Uno ha sentito che la strada è
infestata da briganti: non osa mettercisi da solo, ma attende la compagnia
d'un ambasciatore o d'un questore o d'un proconsole e, unendosi a questi,
procede sicuro.
Allo stesso modo agisce il saggio nel mondo. «Molte sono le rapine, i
tiranni, le tempeste, le perplessità, le perdite delle cose più dilette. Dove
rifugiarsi? Come procedere al riparo dai briganti? Quale compagnia attendere
per marciare sicuri?
A chi unirsi? A quello, che è ricco, che è stato console? Che utilità me ne
viene? Ecco: lo spogliano: geme, si lamenta.
E poi, se proprio il mio compagno di viaggio mi si rivolta contro e si mette a
derubarmi? Che farò? Sarò amico di Cesare e come amico di lui nessuno mi
farà torto. Prima di tutto, per diventarlo, quanto devo soffrire e sopportare,
quante volte e da quanti devo essere derubato! Se poi lo divento, egli resta
pur sempre un mortale. E se per una qualche circostanza mi si fa nemico,
dove mai sarà bene ch'io ripari? Nel deserto? Ma via, non ci giunge la febbre,
là? Che succede allora? Non si può trovare un compagno di strada sicuro,
leale, forte e non insidiatore?». Così riflette e pensa che se si unisce a Dio,
marcerà sicuro.
In che senso dici «unirsi»? Così: quel che Dio vuole anch'egli vuole, e quel
che Dio non vuole, neppur egli vuole. E come ottener questo? Altrimenti,
forse, che osservando i disegni di Dio e il suo governo? Che cosa mi ha dato
di veramente mio, di mio proprio arbitrio e che cosa si è lasciato per sé? Le
cose dipendenti dalla mia volontà le ha date a me, le ha fatte soggette a me,
prive di ostacoli e di impedimenti. Ma il corpo, ch'è di fango, come poteva
farlo privo d'impedimenti? Quindi l'ha sottoposto al moto periodico
dell'universo, come i beni, le masserizie, la casa, i figli, la moglie. E perché
scendo in lotta con Dio? Perché voglio cose che non rientrano nell'ambito
della volontà, cose che non m'è stato assolutamente concesso di avere? Ma
come devo volerle? Com'è stato concesso e per quanto si può. Ma chi le ha
date se le riprende. E perché mi oppongo? Dico che non solo sarò sciocco
ricorrendo alla violenza contro chi è più forte, ma anche, e soprattutto,
ingiusto. Da chi le ho avute queste cose venendo quaggiù? Me le ha date mio
padre. E a lui chi? E il sole chi l'ha fatto, e i frutti chi, e le stagioni chi, e
l'unione e la comunanza reciproca degli uomini, chi?
E allora, avendo ricevuto tutte le cose da un Altro e lo stesso tuo essere, ti
adiri e biasimi chi te le ha date, se te ne strappa una? Chi sei e per che scopo
sei venuto? Non ti ci ha introdotto Lui? Non ti ha mostrato Lui la luce? Non
ti ha dato cooperatori? Non t'ha dato anche i sensi? Non la ragione? E in che
qualità t'ha introdotto? Non come un mortale?
Non come chi doveva vivere insieme a un po' di carne sulla terra, per
ammirare l’amministrazione di Dio, glorificarlo insieme agli altri e celebrarlo
cogli altri, per breve tempo? Non vuoi, dunque, finché t'è concesso, ammirare
la processione e la festa, poi, quando Dio te ne trae fuori, andartene, dopo
averlo adorato e ringraziato per quanto hai udito e veduto? «No, volevo
rimanere ancora alla festa». Già: anche gli iniziati vogliono essere istruiti di
più nei misteri e, probabilmente, anche gli spettatori a Olimpia vogliono
vedere altri atleti: ma la festa ha dei limiti. Va', staccatene, da persona
riconoscente e rispettosa: fa' spazio ad altri. Devono nascere altri pure, come
sei nato tu, e, nati, avere un posto, una casa, il necessario. E se i primi non si
ritirano, che resta ad essi? Perché sei insaziabile? Perché riluttante? Perché
opprimi il mondo?
«Sì: ma io voglio con me i miei figlioli e mia moglie.» — «Perché, sono
tuoi? E non di chi te li ha dati? Non di chi ha fatto anche te? E, dunque, non ti
staccherai dalle cose altrui? Non ti ritirerai davanti a chi vale di più?» — «E
perché mi ha introdotto a queste condizioni?» — Se non ti garbano, vattene
via. Non se ne fa niente di uno spettatore che biasima la sua sorte: ha bisogno
di uomini che partecipino insieme al tripudio e alle danze, onde più forte sia
l'applauso, l'invocazione agli dèi, l'esaltazione della festa. Gli indifferenti, i
timidi, non senza gioia li vedrà ritirarsi dalla riunione, perché, quando erano
presenti, non si comportavano come esigeva la festa, non adempìvano i
doveri che loro convenivano, ma si rattristavano, accusavano il demone, la
sorte, gli altri, incoscienti di quanto avevano ottenuto e delle possibilità che
avevano contro le avversità e cioè la grandezza d'animo, la nobiltà, l'ardire, la
libertà stessa, che adesso è oggetto della nostra ricerca. «Ma perché ho avuto
queste cose?» — «Per usarne.» — «Fino a quando?» — «Fin quando vuole
chi te le ha prestate.» — «Ma se mi sono necessarie?» — Non ti ci attaccare,
e non lo saranno. Non dire che ti sono necessarie e non lo saranno.
Ecco i pensieri in cui bisognerebbe esercitarsi da mattina a sera. Incomincia
dalle cose più piccole, dalle più fragili, un bacile, un bicchiere, e così poi
spingiti alla veste, al cagnolino, al cavallino, al campicello: di qui a te stesso,
al corpo, alle membra del corpo, ai figli, alla moglie, ai fratelli. E dopo un
minuzioso esame da ogni parte, gettale lontano da te; purifica i tuoi giudizi,
che non ti si attacchi qualcosa non tua, che non ti si incarni, che non ti
addolori, staccandosi da te.
E mentre ti eserciti, giorno per giorno, come fai nel ginnasio, non dire che
filosofi (è un'espressione pretenziosa, questa) ma che mostri il tuo
emancipatore. Ecco veramente la libertà. In questo modo fu affrancato
Diogene da Antistene e disse che non poteva essere più ridotto in schiavitù da
nessuno. E, in conseguenza, come fu fatto prigioniero? come trattò i pirati?
chiamò forse padrone qualcuno di loro? Non mi riferisco certo alla parola,
perché non ho paura del vocabolo, ma all'atteggiamento di cui il vocabolo è
espressione. Come li riprendeva perché nutrivano male i prigionieri?
E come fu venduto? Cercava forse un padrone? Piuttosto un servo. E una
volta venduto, come si rivolse al suo signore?
Gli disse subito che non doveva vestire come vestiva e neppure portare i
capelli come li portava: quanto ai figli aggiunse in che modo dovevano
vivere. Che c'è di strano? Se quell'uomo avesse comprato un maestro di
palestra, l'avrebbe trattato da servo o da padrone negli esercizi della palestra?
Lo stesso se avesse comprato un medico o un architetto: e così, in ogni
campo, è assoluta necessità che l'esperto guidi l'inesperto. Dunque, in
generale, se uno possiede la scienza della vita, chi altro se non lui deve essere
il padrone? Chi è il signore sulla nave? — II timoniere.— Perché? Perché chi
gli disobbedisce è punito. — Ma quello mi può frustare. — E lo può
impunemente? — lo pensavo di sì. — E, invece, poiché non lo può
impunemente, non ne ha la possibilità: infatti, nessuno resta impunito quando
agisce male. — E qual è la punizione per chi ha messo in catene il suo
schiavo? che ne pensi? — Proprio l'averlo messo in catene: e ne converrai
anche tu, se vuoi salvare la definizione che l'uomo non è una bestia, ma un
animale mansueto.
Quand'è che l'uva sta male? Quando si trova in una condizione innaturale. E
il gallo? Lo stesso. Dunque, anche l'uomo.
E qual è la natura dell'uomo? Mordere, tirar calci, gettare in prigione,
mozzare la testa? No, ma fare del bene, aiutare gli altri, invocare gli dèi.
Quindi, che tu lo voglia o no, sta male quando agisce senza riflettere.
Di conseguenza Socrate non stette male? — No; bensì i giudici e gli
accusatori. — E neppure Elvidio a Roma? —
No; bensì chi l'uccise. — Ma come dici questo? — Proprio come tu non dici
che sta male il gallo uscito vittorioso dal combattimento anche se ferito, bensì
quello che senza ricevere un colpo è stato sconfìtto, e non chiami felice il
cane che non insegue niente e non s'affatica, ma quando lo vedi grondante di
sudore, quando lo vedi affaticato, e spezzato dalla corsa. Che c'è di
paradossale se affermiamo che il male d'ogni cosa è ciò che ripugna alla sua
natura? È un paradosso, questo? Perché? Non lo dici tu di tutte le altre cose?
E per qual motivo solo rispetto all'uomo la pensi diversamente? Ma il dire,
come facciamo noi, che la natura dell'uomo è mansueta, socievole, leale, non
è forse un paradosso? — No davvero. — E allora, come non subisce danno
chi è frustato, o gettato in galera o decapitato? Non è affatto così: se costui si
comporta nobilmente, non ne esce invece con un guadagno e con un attivo,
mentre il danneggiato è chi soggiace alle tentazioni più durevoli e
vergognose, chi da uomo diventa lupo, vipera, o vespa?
Orsù, dunque, rivediamo i punti sui quali s'è raggiunto l'accordo. Libero è
l'uomo che non soggiace a impedimenti, che ha a portata di mano le cose
come vuole, mentre quello che si può impedire, o costringere o ostacolare, o
spingere ad agire contro voglia, è schiavo. E chi non soggiace a impedimenti?
Chi non desidera nessuna delle cose altrui. E quali sono le cose altrui? Quelle
che non dipende da noi avere o non avere, o avere d'una certa qualità o in
certe condizioni.
Perciò il corpo è una cosa altrui, le membra del corpo sono cose altrui, gli
averi sono cosa altrui. Quindi se ti affezioni a una di queste cose, come se
fosse tua, pagherai il fio che si merita chi desidera cose altrui. La strada che
conduce alla libertà, la sola che è liberazione dalla schiavitù è poter dire una
buona volta con tutto il cuore:
Conducimi, o Zeus, e tu anche, o Destino, là dov'è il fine a me da voi
assegnato.
Ma che dici filosofo? Ti chiama il tiranno per farti dire qualcosa indegna di
te. Gliela dici o no? Rispondimi. «Lasciami esaminare.» — «Esaminerai
adesso? E quand'eri a scuola, che cosa esaminavi? Non ti interessavi di quel
che è bene, di quel che è male, e di quel che non è né l'uno né l'altro?» — «Sì
che l'esaminavo.» — «E quali erano le vostre conclusioni?» — «Che le cose
giuste e belle sono buone, le cose ingiuste e brutte, cattive.» — «E il vivere è
forse un bene?» — «No.» — «E il morire, forse, un male?» — «No.» —
«Forse la galera?» — «No.» — «Ma un discorso ignobile e sleale, il tradire
l'amico, l'adulare il tiranno, che vi apparivano?» — «Mali.» — E allora? Tu
non esamini la questione adesso né l'hai mai esaminata né ti sei mai
consigliato in proposito. E poi che razza di esame è vedere se mi si addice,
quando sono in grado di procurarmi i beni più grandi e di non procurarmi i
mali più grandi? Bell'esame e necessario, che richiede un lungo consiglio!
Ma perché ti burli di noi, uomo? Tale esame non si fa mai. Se davvero
immaginavi che le cose brutte sono male, (le cose belle sono bene), le altre né
male né bene, non ti saresti fermato su questo punto, nemmeno per sogno!
che potevi risolvere subito il problema con la tua mente, come se lo scorgessi
cogli occhi. E, infatti, quando esamini se il nero è bianco? se il grave è
leggero? non segui, forse, quel che si presenta distintamente ai sensi? E come
va che adesso dici di esaminare se cose indifferenti siano da fuggirsi più dei
mali? Ma tu non hai codesti giudizi e la morte e la galera non ti appaiono
cose indifferenti, bensì i mali peggiori mentre le parole e le azioni
disonorevoli non sono mali, ma piuttosto cose senza alcuna relazione con noi.
Perché così ti sei abituato da principio: «Dove sto? A scuola. E mi ascolta
qualcuno? Parlo in compagnia di filosofi. Ma adesso sono uscito di scuola.
Togli di mezzo tutta questa roba da studenti e da pazzi.» Così il filosofo
testimonia il falso contro l'amico, così il filosofo fa la parte del parassita, così
si vende a prezzo, così in Senato uno non dice quel che pensa: e intanto, dal
di dentro il suo giudizio grida e non è un freddo e misero concettuzzo sospeso
ad argomentazioni sconsiderate, come a un capello, ma un giudizio gagliardo
e abile e addestrato a contatto con la realtà.
Controlla come ascolti le mie parole: Non dico: «l'è morto il figliolo»: come
potresti sopportarle? ma: «Ti si è rovesciato l'olio, t'hanno bevuto il vino».
Oh ti si avvicinasse qualcuno mentre sei tutto eccitato per dirti soltanto:
«Filosofo, a scuola t'esprimi diversamente: perché ci inganni? Perché
pretendi di essere uomo quando sei verme?» Mi piacerebbe avvicinarmi a
uno di questi filosofi, in preda alla foia, per vedere come si gonfia, che razza
di parole proferisce, se ricorda il suo nome e i ragionamenti che ascolta o
dice o legge.
E che hanno da vedere tutte queste cose con la libertà? «Oltre queste, non ce
ne sono altre che han da fare con lei, lo vogliate voi, ricchi, o no.» — «E che
cosa te lo prova?» — Che altro se non voi stessi? Voi che avete un signore
così potente e vivete ai suoi cenni e alle sue mosse, che vi perdete d'animo
s'egli guarda uno solo di voi col corruccio negli occhi, voi che corteggiate le
vecchie e i vecchi e dite: «Non sono in grado di far questo: non.mi è lecito.»
Perché non ti è lecito? Non mi ti opponevi poco fa, affermando di essere
libero? «Me l'ha proibito Aprilla.» Dì la verità, schiavo: non fuggire i tuoi
padroni, non negare, non ardire di mostrare il tuo emancipatore, con tante
prove della tua schiavitù.
Eppure chi è costretto da amore a compiere azioni contrarie alle sue
opinioni, che vede il meglio e nello stesso tempo non ha forza di seguirlo,
qualcuno potrebbe ancora ritenerlo degno di perdono, in quanto è posseduto
da una passione violenta, e, in certo modo, divina. Ma te, chi ti potrebbe
sopportare che ti dai all'amore di vecchie e di vecchi, e le smocci, le lavi, le
corrompi con doni e, malate, le curi come uno schiavo e intanto fai voti che
muoiano e interroghi i medici se stanno finalmente in punto di morte? O,
ancora, quando in vista di quelle grandi e venerande cariche e dignità, baci le
mani dei servi altrui, sì che non sei schiavo neppure di liberi? E poi mi
passeggi intorno pieno di sussiego, pretore, console. Non so come hai
ottenuto la pretura, donde hai preso il consolato, chi te l'ha dato? Quanto a
me, non vorrei neppure vivere se dovessi la mia vita a Felicione, sostenendo
il suo sopracciglio e la sua servile arroganza, perché so che cosa è un servo
fortunato in apparenza ma tumido di superbia.
Tu dunque, dice qualcuno, sei libero? — Lo voglio, per gli dèi, e fo voti per
esserlo, ma non riesco ancora a fissare gli occhi in faccia ai padroni; ancora
pregio il povero corpo e faccio gran conto di conservarlo integro, anche se
integro non l'abbia. Però posso mostrarti un uomo libero, per non farti più
cercare un esempio. Diogene era libero. Donde gli venne?
Non certo dall'essere nato da liberi, (e in verità non lo era) ma da ciò che lo
era lui stesso, perché aveva reciso tutti gli appigli della schiavitù, e non c'era
né modo che qualcuno lo assalisse, né motivo di prenderlo per ridurlo in
schiavitù.
Quanto aveva si poteva sciogliere agevolmente, quanto aveva era
semplicemente accostato a lui. Se ti fossi spinto contro i suoi beni, te li
avrebbe lasciati piuttosto che venirti dietro per essi: se contro la gamba, la
gamba, se contro tutto il miserabile corpo, tutto il suo miserabile corpo: lo
stesso per i familiari, per gli amici, per la patria. Perché sapeva donde li
aveva e da chi e a quali condizioni li aveva presi. Ma i veri genitori, gli dèi, e
la patria vera non li avrebbe mai abbandonati né avrebbe lasciato a un altro di
prestare loro più obbedienza e più sottomissione, né alcun altro sarebbe
morto più volentieri per la patria. Non cercava mai di far vedere che la sua
azione era in prò dell'universo, ma ricordava che ogni avvenimento di lì
deriva e per quella patria si compie ed è ordinato da chi l'amministra. Quindi,
osserva come si esprima e scriva: «Per questa ragione, Diogene, egli dice, ti è
lecito incontrarti a tuo piacere anche col re dei Persiani e con Archidamo, re
dei Lacedemoni.» Forse perché era nato da genitori liberi? Ma allora, tutti gli
Ateniesi, tutti i Lacedemoni e i Corinti erano nati da schiavi che non
potevano incontrarsi con quelli a loro piacere, anzi li temevano e li
blandivano! Perché, dunque, egli dice che gli è lecito? «Perché questo
miserabile corpo io non ritengo mio, perché non ho bisogno di niente, perché
per me la legge — e nient'altro — è tutto». Ecco ciò che gli permetteva di
essere libero.
E perché tu non creda ch'io ti porti l'esempio di un uomo solitario, senza
moglie né figli né patria né amici né congiunti capaci di piegarlo e di
rimuoverlo dal suo proposito, prendi Socrate e bada che ebbe moglie e
figliuoli, ma li considerava cose altrui, ebbe una patria, per tutto il tempo che
fu necessario e nel modo che fu necessario, e amici e congiunti, ma tutti
subordinati alla legge e alla spontanea accettazione della legge. Perciò,
quando doveva andare in guerra, era il primo a partire e sul campo di
battaglia si esponeva ai pericoli sprezzando la vita: ma, inviato per ordine dei
tiranni da Leonte, siccome considerava l'atto turpe, neppure si consigliò sul
da farsi, pur sapendo che, all'occorrenza, sarebbe dovuto morire. Che conto
ne fece? Qualcos'altro voleva salvare, non la miserabile carne, ma la lealtà e
il rispetto. Sono questi i valori intangibili, non subordinati a nessuno. Poi,
dovendo parlare in difesa della sua vita, si comporta forse come chi ha figli,
come chi ha moglie? No, ma come chi è solo. E dovendo bere il veleno, come
si comporta? Poteva mettersi in salvo e Critone stesso l'esortava: «Fuggì per i
tuoi figli». Che risponde? Lo considerava un guadagno? E per quale causa?
Egli piuttosto ha di mira la dignità e tutto il resto non guarda, neppure ci
pensa. Perché non voleva, egli dice, salvare il miserabile corpo, ma ciò che la
giustizia accresce e mantiene, mentre l'ingiustizia impicciolisce e distrugge.
Socrate non si salva a prezzo d'un'azione turpe, egli che non volle procedere
alla votazione nonostante l'ordine degli Ateniesi, egli che non calcolò i
tiranni, egli che tenne così nobili discussioni sulla virtù e sulla eccellenza
morale: non è possibile ch'egli si salvi a prezzo di un'azione turpe, ma
morendo si salva, non fuggendo. E anche il bravo attore si salva, se si arresta
al momento giusto più che se recita fuori tempo. Che faranno allora i figlioli?
«Se mi recavo in Tessalia, vi sareste presi cura di loro: e quando sarò partito
per l'Ade, non ci sarà nessuno a prendersene cura?» Vedi con quale grazia
chiama la morte e come ci scherza sopra! Se eravamo io e tu al posto suo,
dopo aver subito stabilito con un ragionamento fìlosofico che «chi riceve
ingiustizia ha da difendersi con le stesse armi»
e aggiunto che «sarò utile a molti se resto in vita, ma se muoio a nessuno»,
ce ne saremmo fuggiti, anche se bisognava scappare da un buco. E in che
modo saremmo stati d'utilità a qualcuno? E dove lo saremmo stati se quelli
rimanevano in Atene? Ovvero, se eravamo utili vivendo, non avremmo recato
agli uomini molto maggiore utilità morendo nel tempo e nel modo debito? E
adesso che Socrate è morto, non certo di meno, anzi di più, giova agli uomini
il ricordo di quanto, ancora in vita, egli ha fatto o detto.
Attendi a questo, a questi giudizi, a questi discorsi; a questi esempi poni
attenzione se vuoi essere libero, se desideri la cosa nel suo vero valore. Che
meraviglia se alcunché di così grande lo compri a un prezzo tanto alto e caro?
Per quella che volgarmente si ritiene libertà alcuni si strangolano, altri si
precipitano dall'alto, talvolta intere città vanno addirittura distrutte: per la
libertà vera, non esposta a insidie e sicura, quando Dio ti richiede quel che
t'ha dato, non vi rinuncerai?
Non cercherai invece, secondo l'espressione di Piatone, non solo di morire,
ma anche di essere torturato, cacciato in esilio, frustato, in una parola, di
restituire tutto quel che è di altri? Sarai, dunque, schiavo tra schiavi, anche se
diecimila volte console, anche se sali al Palazzo — schiavo, nondimeno. E
t'accorgerai che i filosofi dicono forse cose contrarie alle apparenze, come
pure Cleante ammetteva, ma non contrarie alla ragione. Conoscerai, per
esperienza, che sono vere e che oggetti tanto ammirati e ambiti non sono di
nessuna utilità per chi li ottiene, mentre quelli che non li hanno ottenuti
immaginano che, avendoli presso di sé, possiederanno tutti i beni: poi,
quando li hanno, l'ardore è lo stesso, l'irrequietezza la stessa, e così la nausea,
la brama di ciò che non possiedono. In realtà, non saziandovi di quel che
desiderate si conquista la libertà, bensì sopprimendo il desiderio. E affinchè ti
renda conto che dico il vero, come ti sei affaticato per quelle cose, così sposta
i tuoi sforzi a queste: veglia per ottenere un giudizio che ti faccia libero,
onora, invece d'un ricco decrepito, un filosofo, fatti vedere alle sue porte: non
ci rimetterai di dignità, se ti vedranno, e non te netornerai vuoto né senza
guadagno se ti ci rechi come si deve. In ogni caso, prova, per lo meno:
provare non è vergogna.

SULLE RELAZIONI COGLI UOMINI

Riguardo a questo punto devi fare innanzi tutto attenzione a non legarti mai
con qualcuno dei tuoi antichi conoscenti o amici in maniera da scendere al
suo livello: se no, distruggerai te stesso. E se ti si insinua il sospetto: «gli
apparirò ingenuo e non si comporterà più con me come prima» ricorda che
niente si fa senza pagare e che non è possibile essere quello d'un giorno se
non si agisce allo stesso modo.Scegli dunque quel che preferisci: o continuare
ad essere amato dagli antichi amici, restando simile all'antico te stesso, o,
diventando migliore, non aver più il medesimo affetto. Se questa seconda
alternativa è migliore, volgiti immantinente ad essa e non ti distraggano altre
considerazioni. Perché nessuno può far progressi quand'è incerto tra due
partiti; ma se hai posto questo al di sopra di tutto, se a questo solo ti vuoi
dedicare, se per questo vuoi compiere ogni sforzo, lascia tutto il resto. Se no,
codesta incertezza produrrà due risultati: non farai progressi come dovresti,
non otterrai ciò che prima ottenevi: prima, infatti, quando desideravi
sinceramente oggetti di nessun valore, eri gradito agli amici. Non puoi
eccellere nell'una condizione e nell'altra, ma è necessario che, quanto acquisti
nell'una, altrettanto perda nell'altra. Se non bevi con quelli coi quali bevevi,
non puoi apparire ai loro occhi gradito come allora. Scegli dunque: vuoi
essere ubriacone e gradito ad essi oppure astemio e sgradito? Se non canti
con quelli con cui cantavi, non puoi essere amato da loro come allora: scegli,
dunque, anche qui quel che vuoi. E se è meglio essere rispettoso e modesto
che sentir dire: «È un compagno gradito!» lascia le altre cose, gettale, voltati
indietro: non c'è niente in comune tra te ed esse. Se poi questo non ti piace,
inclinati tutto dalla parte opposta: sii un cinedo, un adultero, agisci in
conseguenza e otterrai ciò che vuoi. E salta in piedi e grida il tuo entusiasmo
al ballerino. Parti così differenti non si confondono: non puoi fare Tersite e
Agamennone. Se vuoi essere Tersite, devi essere gobbo e calvo; se
Agamennone, invece, grande, bello e affezionato ai tuoi sudditi.

QUALI COSE POSSONO SCAMBIARSI CON ALTRE?

Ecco la riflessione che devi avere a portata di mano quando abbandoni un


oggetto esterno: che cosa ne ottieni in cambio
— e se questa vale di più, non dir mai «Ci perdo», che non è perdita ottenere
per un asino un cavallo, per una pecora un bove, per un po' di denaro una
bella azione, per una conversazione futile la pace che s'addice all'uomo, per
discorsi osceni la verecondia. Se te ne ricorderai, conserverai dovunque la tua
personalità come si conviene: se no, bada che il tuo tempo si perde senza
scopo e che quante cure rivolgi adesso a te stesso, vuoi disperderle tutte e
rovinarle. Poco ci vuole a produrne la distruzione e la rovina completa: una
piccola aberrazione della ragione. Per capovolgere la barca, il timoniere non
ha bisogno delle stesse manovre che si richiedono per mantenerla sull'acqua:
basta che la volga un po' contro vento e va distrutta: anche s'egli non lo fa
apposta, e magari perché è intento in altri pensieri, va distrutta.
Qualcosa di simile succede anche qui: basta che sonnecchi un po' e tutto
quanto hai finora raccolto è bello e disperso.
Bada, dunque, alle rappresentazioni, vigila su di esse. Non è poco ciò che va
custodito: si tratta, invece, del rispetto, della lealtà, della tranquillità, d'una
condizione di spirito scevra da passioni, da dolori, da timori, da turbamenti,
in breve, della libertà. E con quali oggetti intendi barattare tutto ciò? che
valore hanno? guardalo bene. — «Ma io non otterrò [tu dici] qualcosa pari a
quella che dò» — Bada ancora, se pure l'ottieni, che cosa prendi in cambio di
quel che dai. «Io la modestia, ma quello il tribunato: quello la pretura, io la
verecondia. Però non strepito, ov'è inopportuno, e neppure mi levo, quando
non si deve. Sono libero e amico di Dio, sì che gli obbedisco
spontaneamente. Niente di tutto il resto devo acquistare, non il corpo, non gli
averi, non le cariche, non la reputazione, in una parola, niente. Ed Egli, poi,
neppur vuole ch'io l'acquisti. Se voleva, quei beni li avrebbe fatti per me: ora,
invece, non li ha fatti. Per ciò, non posso in alcun modo trasgredire i suoi
ordini.» Custodisci il bene ch'è tuo in ogni occasione: il bene di tutto il resto,
secondo quanto t'è concesso, nei limiti voluti dalla ragione, e di questo solo
contentati. Se no, sarai infelice, disgraziato, soggetto a impedimenti e a
ostacoli. Queste sono le leggi che di là discendono, queste le disposizioni, di
queste devi essere interprete, a queste sottomesso, non a quelle di Masurio e
di Cassio.

A QUANTI SI PREOCCUPANO DI VIVERE IN PACE

Ricorda che non solo la brama delle cariche e della ricchezza rende meschini
e soggetti agli altri, bensì anche la brama della tranquillità, dell'ozio, dei
viaggi, dell'erudizione. Insomma, qualunque sia l'oggetto esterno, il valore
che gli si da, rende soggetti ad altri. Che differenza c'è tra chi desidera essere
senatore e chi desidera non esserlo? che differenza c'è tra chi desidera una
carica e chi desidera una condizione privata? Che differenza c'è tra chi dice:
«Oh me infelice, non posso far niente, che sono attaccato ai libri come un
cadavere!» e chi dice: «Oh me infelice, non ho un momento per leggere»? Le
salutazioni e le cariche sono cose esterne e indipendenti dalla volontà, com'è
anche il libro. Per qual motivo vuoi leggere? Dimmelo. Perché, se ti dai alla
lettura solo per dilettarti o apprendere qualcosa, sei frivolo e misero; se,
invece, riporti la lettura al suo vero fine, qual altro può essere se non la
serenità? E, infatti, se la lettura non ti da serenità, a che giova? «Ma me la da,
si dice: e mi infastidisco proprio perché devo rinunciarvi.» Che razza di
serenità è questa che uno qualunque riesce a impedire — e non dico Cesare o
un amico di Cesare, ma un corvo, un auleta, la febbre, un'infinità di cose?
Mentre la serenità non ha niente di così proprio quanto di essere continua e al
riparo da ogni impedimento.
Ora sono chiamato a far qualcosa: vado via sull'istante, la mente fìssa ai
modi che si devono osservare per agire con rispetto, con sicurezza, senza
desiderare o avversare alcuna cosa esterna: inoltre, bado agli uomini — che
dicono, come agiscono — e non per malanimo né per aver qualcosa da
biasimare o da deridere, ma con l'occhio rivolto in me stesso, caso mai cada
anch'io negli stessi difetti. «Come potrò liberarmene? Pure io una volta avevo
dei difetti: ora non più, grazie a Dio». Orsù, se hai agito così, se ti sei
occupato di tali faccende, hai compiuto un'azione peggiore che se avessi letto
mille versi o ne avessi scritto altrettanti? Quando mangi, ti dispiace di non
leggere? Non ti basta di mangiare secondo le regole che hai letto? E quando ti
lavi? E quando fai la ginnastica? Per qual motivo, dunque, non ti comporti in
tutto allo stesso modo, e quando accosti Cesare e quando accosti quell'altro?
Se ti conservi libero da emozioni, impassibile, calmo, se guardi più a quel che
succede che a essere guardato, se non sei geloso di chi ti è anteposto negli
onori, se non ti sconvolgono gli oggetti, che ti manca? I libri? Come? Perché?
Non è anche il leggere una preparazione a vivere? Ma il vivere si materia di
cose diverse dai libri. Sarebbe come se un atleta, entrando nello stadio,
piangesse perché non si esercita di fuori. Proprio per questo ti esercitavi:
questo lo scopo dei manubri, della polvere, dei giovani allenatori. E li cerchi
adesso ch'è tempo dell'azione? È come se, trattandosi di dare l'assenso e
presentandocisi alcune rappresentazioni catalettiche, altre acatalettiche, non
volessimo discernerle, ma leggere un trattato sulla catalessi.
E quale ne è il motivo? Che non abbiamo mai letto per questo scopo, non
abbiamo mai scritto per questo scopo, per usare, cioè, conformemente a
natura le rappresentazioni che ci si mostrano, una volta venuti a contatto con
la realtà, ma ci limitiamo ad apprendere quel che si dice, a poterlo spiegare ad
altri, ad analizzare un sillogismo, ad esaminare un argomento ipotetico.
Naturalmente, dove c'è sollecitudine, c'è anche impedimento. Vuoi ad ogni
costo quel che non è in tuo potere? Allora, sii soggetto a impedimenti, a
ostacoli, sii frustrato nel tuo desiderio. Se leggessimo i trattati «sull'impulso»
non per sapere che cosa si dice dell'impulso, ma per regolarci bene nei nostri
impulsi; se leggessimo i trattati «sul desiderio e sull'avversione» per non
essere mai frustrati nei nostri desideri e per non incorrere in ciò che vogliamo
evitare; se leggessimo i trattati «sul dovere», perché, memori delle nostre
relazioni, la nostra condotta non fosse né sconsiderata né in contrasto con
quelli, allora, certo, non ci infastidiremmo di non poter leggere, ma saremmo
soddisfatti di compiere le azioni richieste dalle nostre mutue relazioni e non
conteremmo quel che abbiamo avuto l'abitudine di contare finora: «Oggi ho
letto tanti versi, ne ho scritti tanti» piuttosto: «Oggi ho usato dei miei impulsi
nel modo indicato dai filosofi: desideri non ho avuto, e l'avversione solo per
quanto dipende dalla mia volontà: non mi sono lasciato intimidire da Tizio,
non mi sono lasciato confondere da Caio: mi sono esercitato nella pazienza,
nell'astinenza, nell'aiutare gli altri». Così potremmo rendere grazie a Dio per
ciò di cui gli si deve render grazie.
Ora, invece, non ci accorgiamo che, sebbene in altro modo, ci rendiamo pur
noi simili ai più. Uno teme di non raggiungere quella carica, tu, di
raggiungerla. No, uomo: ma, come deridi chi teme di non arrivare alla carica,
così deridi anche te stesso. Non c'è differenza tra chi ha sete perché è
febbricitante e chi odia l'acqua, al pari dei rabbiosi.
E come potrai ancora dire con Socrate: «Se così piace a Dio, così sia»?
Secondo te, se Socrate desiderava darsi bel tempo nel Liceo o nell'Academia
e conversare giorno per giorno coi giovani, avrebbe fatto di buon grado tante
campagne quante ne fece? O non si sarebbe messo a piangere e a gemere:
«Povero me! eccomi qua, disgraziato, infelice, mentre potevo prendere il sole
al Liceo»? Perché, era questo il tuo compito, prendere il sole? E non invece,
essere sereno, privo di impedimenti, privo di ostacoli? E come sarebbe stato
ancora Socrate, se si fosse lamentato in tal guisa? Come avrebbe composto
ancora dei peani in prigione?
Insomma, ricorda che qualunque oggetto apprezzerai al di fuori di quanti
rientrano nell'ambito della tua persona morale, hai distrutto la persona
morale. E sono al di fuori dell'ambito della persona morale non solo le
cariche, ma anche il rifiuto d'una carica, non solo l'azione, ma anche l'ozio.
«Sicché adesso, devo vivere in mezzo a tanto strepito?» Che chiami strepito?
Il vivere tra molti uomini? E che c'è di penoso? Fa' conto di stare a Olimpia,
ritieni che lo strepito sia una festa. Anche lì, chi grida da una parte, chi da
un'altra, chi fa una cosa, chi un'altra, chi spinge uno, chi un altro. Ai bagni c'è
ressa. E chi di noi non gode di questa festa e non se ne stacca rattristato? Non
mostrarti scontento né schifiltoso per quel che accade. «L'aceto è cattivo: è
aspro, infatti.» — «II miele è cattivo; infatti, mi sconvolge la digestione.»
«Non voglio verdura.» Allo stesso modo: «Non voglio stare in ozio, che
significa essere sequestrati dal mondo.» «La ressa non mi piace, che significa
chiasso.» Ma se le circostanze ti portano a vivere solo o con pochi, chiama
allora questa tua condizione tranquillità e sappi usarne per un fine
conveniente: parla con te stesso, prova le tue rappresentazioni, tieni in attività
le prenozioni. Se poi capiti in mezzo alla folla, dì che si tratta d'una gara,
d'un'accolta, d'una festa, e cerca di partecipare alla festa insieme agli altri.
Quale spettacolo più gradito per chi ama gli uomini che un gran numero di
uomini? Mandre di cavalli o di buoi le vediamo con piacere: quando
contempliamo tante imbarcazioni ci rallegriamo: chi si cruccia guardando
tanti uomini? «Ma m'infastidiscono coi loro gridi!» Oh, è il tuo udito che
viene impedito. A te che importa? Viene forse impedita anche la facoltà che
usa le rappresentazioni? E chi ti proibisce di usare il desiderio e l'avversione
in modo conforme a natura, e cosi l'impulso e la ripulsa? Quale ressa è da
tanto? Da parte tua, ricorda soltanto i precetti generali: «che cos'è mio, che
cosa non è mio? che cosa m'è dato? quale azione vuole farmi compiere
adesso Dio, quale non vuole?» Poco fa, voleva che tu vivessi in ozio, parlassi
con te stesso, scrivessi di ciò, leggessi, ascoltassi, ti preparassi — e avesti a
tal fine tempo sufficiente. Ora ti dice: «Vieni finalmente nell'agone, mostraci
che cosa hai imparato, come ti sei allenato. Fin quando vorrai esercitarti da
solo? È già tempo di vedere se sei uno di quegli atleti degni della vittoria o di
quelli che vanno per il mondo, sempre sconfìtti.» Perché ti infastidisci? Non
c'è agone senza chiasso. Ci devono essere molti allenatori, molti tifosi, molti
dirigenti, molti spettatori. «Ma io volevo vivere in pace.» E allora piangi e
gemi, come meriti. Per uno privo di educazione filosofica e riluttante alle
disposizioni divine quale altro castigo è maggiore dell'addolorarsi, del
gemere, dell'invidiare, in breve, dell'essere disgraziato e sfortunato? E da
tutto ciò non vuoi staccarti?
Come me ne staccherò? — Non hai spesso sentito che devi estinguere del
tutto il desiderio, rivolgere l'avversione esclusivamente a quel che rientra
nell'ambito della persona morale, e tutto il resto devi metterlo da parte, corpo,
averi, reputazione, libri, chiasso, cariche, non cariche? Dovunque ti pieghi, ti
sei fatto schiavo, sottoposto, sei diventato soggetto a impedimenti, a
costrizioni, interamente in potere degli altri. Ma ti siano a portata di mano le
parole di Cleante:
Conducimi, o Zeus, e tu anche, o Destino.
Mi volete a Roma? Eccomi a Roma. A Giaro? Eccomi a Giaro. Ad Atene?
Eccomi ad Atene. In carcere? Eccomi in carcere. Ma sol che tu dica: «quando
si può andare a Atene?» sei finito. È necessario, infatti, che questo desiderio,
rimanendo incompiuto, ti renda infelice, compiendosi, vano e orgoglioso per
cose di cui non si deve inorgoglire, se poi incontri degli ostacoli, disgraziato,
giacché incorri in ciò che non vuoi. Lascia dunque tutto questo. «Bella è
Atene.» Ma la felicità è molto più bella, la tranquillità, l'imperturbabilità, la
padronanza assoluta sulle tue cose. «A Roma c'è chiasso, ci sono le
salutazioni.» Ma la serenità compensa tutte le molestie. Quindi se viene il
momento di fare una di queste cose, perché non togli di mezzo l'avversione
che hai per esse? Per quale necessità sopportare siffatti pesi come un asino
bastonato? Se no, bada che devi essere sempre schiavo di chi ti può procurare
la liberazione, di chi ti può porre ostacolo ovunque, e costui devi sempre
onorare, come un cattivo genio.
Una sola è la strada per la serenità — questo pensiero abbilo a portata di
mano all'alba, durante il giorno, di notte staccarsi da quanto è indipendente
dalla scelta morale, niente ritenere proprio, affidare tutto alla divinità, alla
fortuna, di tutto fare amministratori costoro, giacché Zeus stesso li ha fatti
tali: tu, da parte tua, occupati dell'unica cosa veramente tua, non soggetta a
impedimento, e se leggi, riferisci ad essa la lettura — e così pure se scrivi o
se ascolti. Perciò, non posso dire amante del lavoro uno di cui so soltanto che
legge o scrive: anche se si aggiunge che lo fa per notti intere, non posso dirlo
ancora, se non conosco a qual fine riferisce la sua fatica. Perché neppure tu
dici amante del lavoro chi sta sveglio per una ragazzetta: quindi neppur io.
Ma se lo fa per la gloria, lo dico amante della gloria, se per il denaro, amante
del denaro, non del lavoro. Se invece riferisce il lavoro alla parte direttrice
dell'anima sua, onde sia e si svolga conforme a natura, allora solo lo dico
amante del lavoro. Non distribuite mai lodi e biasimi in rapporto a cose che
possono essere buone o cattive, ma solo in rapporto ai giudizi. Perché questi
sono ciò che ciascuno possiede per sé ed essi rendono le azioni belle o brutte.
Ricordando ciò, godi di quel che hai e accetta con gioia quel che il momento
porta. Se vedi qualcosa che hai appreso e meditato realizzartisi nell'azione,
rallegrati per essa. Se hai smesso del tutto o moderato la malignità, il vezzo
del biasimo, la precipitazione, la volgarità del linguaggio, la sconsideratezza,
la trascurataggine, se non sei più scosso da ciò che prima ti scoteva e neppure
come prima, allora puoi celebrare la festa, giorno per giorno, oggi perché ti
sei comportato bene in un'azione, domani in un'altra. Quanto maggior motivo
di offrire un sacrifìcio che non il conseguimento d'un consolato o d'una
prefettura! Quelle cose ti vengono da te stesso e dagli dèi; queste, ricorda chi
le da, a chi le da e per qual fine. Nutrito di tali considerazioni, sei ancora
incerto dove troverai la felicità, dove piacerai a Dio? Non da ogni luogo gli
uomini distano ugualmente da Dio? Non da ogni luogo hanno la stessa
visione di quel che succede?
CONTRO I LITIGIOSI E I BRUTALI

L'uomo di perfetta virtù non litiga personalmente con alcuno e, secondo le


sue possibilità, non lo lascia fare ad altri. C'è di esempio anche in questo,
come per il resto, la vita di Socrate, il quale non soltanto evitava lui,
personalmente, in ogni occasione il litigio, ma neppure permetteva che atri
litigasse. Guarda nel Simposio di Senofonte quanti litigi compose: poi, come
sopportò Trasimaco e Polo e Callide: come sopportava la moglie, come
sopportava il figlio che aveva tentato di confutarlo con ragionamenti sofistici.
Perché troppo saldo era in lui il pensiero che nessuno può dominare la parte
direttrice dell'anima di un altro. In conseguenza non voleva se non quanto era
di sua proprietà. E che cos'è questo? Non spingere gli uomini ad agire
secondo natura — che questo non gli apparteneva — ma far sì che,
continuando essi ad agire secondo il loro parere, egli nondimeno rimanesse se
stesso e vivesse conforme a natura, badando solo a fare quanto era in lui
perché essi pure si comportassero in conformità alla natura. Ecco ciò che sta
continuamente davanti all'uomo di perfetta virtù. Diventare pretore? No; ma
se gli è dato, custodire anche in questa posizione la parte direttrice della
propria anima. Sposarsi? No: ma se gli è dato il matrimonio, conservare se
stesso anche in questa posizione conforme a natura. Però, se pretende che né
il figlio né la moglie cadano in fallo, pretende che l'altrui non sia altrui. In
realtà, l'istruzione fìlosofìca è tutta qui, apprendere ciò che è proprio e ciò che
non è proprio.
Dunque, quando uno ha tali sentimenti, dov'è più posto per il litigio? si
stupisce di qualche avvenimento? o qualcosa gli appare strana? non si aspetta
dagli uomini dappoco azioni peggiori e più brutte di quelle che gli capitano?
e non ritiene guadagno tutto ciò che essi non riescono a compiere fino in
fondo? «Quello mi ha biasimato». Tante grazie a lui, che non m'ha battuto.
«Ma mi ha pure battuto». Tante grazie che non mi ha ferito. «Ma mi ha pure
ferito». Tante grazie che non mi ha ucciso. E, invero, quando ha appreso o da
chi che l'uomo è un animale mansueto, che ama e vuol essere amato, che il
grande danno per chi commette ingiustizia è l'ingiustizia stessa? Se non l'ha
appreso e non ne è convinto, perché non dovrà seguire quel che gli appare
giovevole? «Il vicino m'ha preso a sassate». Hai forse sbagliato tu? «Ma se
ne è andato in pezzi quel che avevo in casa». E tu sei un utensile? No, ma una
persona morale. Che cosa t'è stato dato contro tali offese? Se ti comportassi
come un lupo, restituiresti i morsi e scaglieresti altri sassi, e in maggior
quantità: ma se cerchi che cosa è stato dato all'uomo, osserva bene la tua
provvista, guarda con quali facoltà sei venuto quaggiù.
Forse con uno spirito brutale? o con uno spirito di vendetta? Il cavallo
quand'è spregevole? Quando non ha più le sue facoltà naturali — non quando
non può cuculiare, ma quando non può correre. E il cane? Quando non può
volare?
Piuttosto quando non riesce ad andare sulle tracce. E non è forse allo stesso
modo disgraziato anche l'uomo, ma non quello che non riesce a strozzare
leoni o ad abbracciare statue (perché non ha portato con sé da natura facoltà
adatte a ciò) sibbene quegli che ha distrutto la benevolenza e la lealtà? Costui
bisognerebbe riunirsi a piangere, in vista dei mali in cui è caduto; non, per
Zeus, chi è nato o chi è morto, ma colui al quale in vita è accaduto di
distruggere le cose di sua proprietà e non quelle del padre, un campicello, una
casetta, un albergo o dei poveri schiavi (nessuna di queste cose è proprietà
dell'uomo, ma sono tutte di altri, dipendenti, soggette, concesse dai loro
proprietari una a questo, un'altra a quello) bensì le qualità che lo fanno uomo,
il marchio che aveva nello spirito venendo qui — quel marchio che noi
cerchiamo anche nelle monete e quando lo troviamo, le accettiamo, quando
non lo troviamo, le buttiamo. «Di chi è il marchio che reca questo sesterzio?
Di Traiano. Bene, dammelo. Di Nerone. Buttalo via, non è di buona lega, è
alterato.»
Così anche qui. Che marchio recano i suoi giudizi? «È mansueto, socievole,
paziente, affettuoso.» Dammelo, l'accetto: ne faccio un cittadino, di questo,
l'accetto come vicino, come compagno di navigazione. Bada soltanto che non
abbia il marchio di Nerone. Forse è iracondo, collerico, scontento di tutto?
«Se gliene viene l'estro, spacca la testa di chi incontra.» E perché allora
dicevi ch'era un uomo? Forse che dalla sola forma si giudicano le singole
cose? Se così fosse, dì pure che una mela di cera è una mela vera. Invece,
bisogna che abbia pure l'odore e il gusto della mela: non basta la figura
esterna. Quindi neppure a provare che uno è uomo, bastano il naso e gli
occhi: bisogna che abbia anche i giudizi propri dell'uomo. Costui non sente
ragione, non capisce quando lo si confuta: è un asino. Il ritegno in quest'altro
è del tutto spento: è un essere inutile — pecora, tutto fuorché uomo. Costui
cerca chi possa prendere a calci o a morsi per via: di conseguenza non è né
pecora né asino, ma un'altra bestia selvatica.
E allora? vuoi che mi lasci disprezzare? — Da chi? Da uomini di senno? E
come disprezzeranno uomini di senno uno che è mansueto e rispettoso? Da
uomini senza senno? E che te ne importa? Nessuno esperto in un'arte bada,
davvero, a chi ne è ignorante. — Già, ma molto più si avventeranno contro di
me. — Che intendi per «me»? Può distruggere qualcuno la tua persona
morale o impedirle di usare in modo conforme a natura le rappresentazioni
che le si presentano?
— No. — E perché sei ancora sconvolto e vuoi far vedere d'essere spavaldo?
Perché piuttosto non vieni avanti e proclami che sei in pace con tutti gli
uomini, qualunque cosa facciano, e te la ridi specialmente di quanti ritengono
di danneggiarti? «Questi schiavi non sanno né chi io sia né dove siano posti il
mio bene e il mio male: non hanno alcun accesso a ciò che è veramente mio».
Così pure gli abitanti di una città ben munita se la ridono degli assalitori.
«Ma perché costoro adesso si danno tanto da fare per niente? Solide sono le
nostre mura, abbiamo scorta di viveri per tanto tempo, e ogni altro apparato
bellico.»
Ecco quel che rende una città ben munita e inespugnabile: l'anima dell'uomo,
invece, nient'altro se non i suoi giudizi.
Perché, quale muro è così possente, quale corpo così adamantino, quali
possessi così inamovibili, quale dignità così inattaccabile? Cose tutte
corruttibili, queste, per ogni verso, facilmente espugnabili. E chi ad esse in
qualsiasi modo si volge è assolutamente necessario sia turbato, sia
scoraggiato, tema, gema, desideri senza scopo, incorra in ciò che vuole
evitare. E così, il solo mezzo di salvezza che c'è stato concesso non lo
vogliamo rendere sicuro? E staccatici dalle cose corruttibili e soggette, non
vogliamo dedicare i nostri sforzi a quelle immortali e per natura libere? Non
ricordiamo che nessuno danneggia un altro né gli giova, ma che solo il
giudizio che si ha di ogni cosa, questo solo danneggia, questo distrugge,
questo è motivo di contese, di sedizioni, di guerre? Di nient'altro sono frutto
Eteocle e Polinice se non di questo, e precisamente del giudizio sul regno, da
una parte, sull'esilio, dall'altra: perché l'esilio parve ad essi il male estremo, il
regno, il sommo bene. Ora la natura d'ognuno è precisamente di cercare il
bene, di fuggire il male e di riguardare come nemico e insidiatore chi tenti di
strapparci l'uno e gettarci in braccio all'altro, fosse anche fratello, figlio,
padre, perché niente ci è più strettamente congiunto del bene. Di
conseguenza, se beni e mali sono le cose esterne, il padre non sarà più amico
ai figli né il fratello al fratello e ogni cosa sarà dovunque piena di nemici, di
insidiatori, di calunniatori. Se, invece, bene è solamente la persona morale
convenientemente disposta, e male solo la persona morale non
convenientemente disposta, dov'è più il litigio, dove più il biasimo? Intorno a
che? Intorno a oggetti che non hanno niente a che fare con noi? Con chi? Con
chi è ignorante, con chi è disgraziato, con chi si lascia ingannare sui valori
più importanti?
Con questi pensieri fìssi nella memoria Socrate viveva in casa sua,
sopportando la moglie quanto mai bisbetica, e il figlio ingrato. Ma bisbetica
per che cosa? Per rovesciargli l'acqua in testa, quanta ne voleva e per mettersi
sotto i piedi la focaccia. E che cos'è questo per me, se rifletto che tali cose
non significano niente per me? Questo è l’unico mio compito e allora né il
tiranno impedirà la mia volontà, né il padrone, né la moltitudine l'individuo,
né il più forte il più debole, perché solo questa cosa è stata data da Dio a
ciascuno libera da impedimento. Questi giudizi producono l'amore in
famiglia, la concordia nelle città, la pace tra i popoli, rendono l'uomo gradito
a Dio, fiducioso in ogni occasione, per il fatto che tratta roba altrui, di nessun
valore. Ma noi siamo capaci di scrivere e di leggere queste cose e di lodarle
una volta lette, ma quanto a persuadercene, non ce lo sognamo neppure. Per
ciò il proverbio riferito ai Lacedemoni: leoni in patria, solo volpi in Efeso si
potrà adattare anche a noi: leoni a scuola, ma fuori volpi.

A CHI SI RATTRISTA PERCHÉ È COMPATITO

«Mi dispiace di essere compatito» dice uno — «Ma la compassione che si


prova per te è opera tua o di chi ti compatisce? E cioè, dipende da te farla
cessare?» — «Da me, se non mi mostro più ad essi degno di compassione.»
— «Dunque, riguarda o non riguarda te non essere degno di compassione?»
— «Io penso, sì, che mi riguardi. Tuttavia, costoro non hanno compassione di
me per ciò che, se mai, mi farebbe degno di compassione, per i miei sbagli,
cioè, ma per la povertà, per la mia posizione lontana dalle cariche, per le
malattie, per la morte e simili.» — «Dunque ti accingi a persuadere la gente
che nessuna di queste cose è male e che è possibile essere felice anche a un
povero, a uno che vive lontano dalle cariche e senza onori, oppure a farti
vedere pieno di ricchezze e d'autorità? Delle due alternative, la seconda è
proprio di un uomo fanfarone, frivolo, di nessun valore. Codesta pretesa, poi,
sta' attento con quali mezzi potrebbe realizzarsi: dovrai procurarti in prestito
degli schiavi, acquistarti un po' d'argenteria ed esporla, se è possibile, spesso,
sempre la stessa, evitando di far notare che sia la stessa, acquistare, inoltre,
vesti splendide e ogni altra specie di abbigliamento, e mostrarti onorato dai
personaggi più ragguardevoli e cercare di pranzare presso di loro, o, per lo
meno, far credere che ci pranzi e corrompere con ogni artifìcio il corpo in
modo da renderlo più bello e prestante del vero.
Ecco i mezzi ai quali devi rivolgerti, se vuoi metterti per la seconda strada al
fine di evitare la compassione.
La prima, poi, è inattuabile e lunga: dovresti por mano a un'impresa che
neppur Zeus riuscirebbe a compiere, a convincere tutti gli uomini quali sono i
beni, quali i mali. Perché, non t'è concesso questo? T'è soltanto concesso di
persuadere te stesso. E non ti sei ancora persuaso e adesso mi ti metti a
persuadere gli altri? E chi sta tanto tempo con te come te con te stesso? E chi
è così persuasivo da convincerti come te con te stesso? Chi ha più
benevolenza e familiarità che te con te stesso? E come va che non ti sei
ancora convinto che devi imparare? Non sei tutto a soqquadro adesso? Ed è
questo l'oggetto delle tue premure? E non invece, imparare ad essere privo di
dolore, di turbamenti, di meschinità e quindi libero? Non hai sentito dire che
c'è una sola strada che conduce a questo fine, metter da parte le cose
indipendenti dalla scelta morale, staccarsi da esse, e riconoscere che sono di
altri? E l'azzardare una qualche supposizione sul tuo conto, a che specie di
cose appartiene?» — «A quelle indipendenti dalla scelta morale.» —
«Dunque non ha niente a che fare con te?» — «Niente.» — «Ma se sei ancora
morso e sconvolto dalle supposizioni altrui, ritieni di essere convinto qual è il
bene, quale il male?».
Dunque, non vuoi, tralasciando gli altri, essere a te stesso discepolo e
maestro? «Se la veda chi vuole, se gli fa comodo vivere e agire contro natura:
per me, non c'è nessuno che mi sia più intimo di me stesso. Come va, allora,
che ho ascoltato le lezioni dei filosofi e le condivido, e tuttavia in pratica non
mi sento affatto più leggero? Sono forse tanto insensato? Eppure in tutte le
altre cose che ho voluto, non mi sono trovato eccessivamente insensato, anzi
ho imparato subito le lettere, la lotta, la geometria, l'analisi dei sillogismi.
Forse che la ragione non è riuscita a persuadermi? E sì che dall'inizio non
altre cose ho allo stesso modo approvato, né preferito e adesso sono queste
che leggo, che ascolto, che scrivo: finora non abbiamo trovato altro
ragionamento più forte di questo. Che mi manca allora? Non sono stati
strappati del tutto i giudizi contrari? O forse i pensieri stessi non sono
esercitati né abituati a realizzarsi nell'azione, ma, come armi messe da parte,
sono coperti di ruggine e non riescono neppure ad adattarmisi? Eppure e nel
combattere e nello scrivere e nel leggere non mi contento del semplice
imparare, ma rivolgo per ogni verso gli argomenti che mi si presentano e altri
ne formo e così pure per i sillogismi equivoci. Invece, i princìpi necessari da
cui bisogna partire per essere senza affanni, senza timori, senza passioni,
senza impedimenti e quindi liberi, questi non li tengo in esercizio né me ne
prendo conveniente cura. Di conseguenza mi interessa che cosa diranno gli
altri di me, se apparirò loro degno di qualche considerazione, se apparirò
beato?».
Disgraziato, non vuoi vedere che cosa dici tu di te stesso? quale appari ai
tuoi occhi? quale nelle supposizioni, quale nei desideri, quale nelle
avversioni? quale negli impulsi, nella preparazione, nei propositi, in tutte le
altre attività dell'uomo?
Invece ti importa se gli altri sentono compassione di te? «Certo: perché non
merito d'essere compatito.» — «Dunque, per questo ti rattristi? E chi si
rattrista è, per lo meno, degno di compassione?» — «Certo.» — «E allora,
come non meriti di essere compatito? Proprio quel che tu pensi della
compassione, ti fa degno d'essere compatito.»
Che dice Antistene? Non l'hai sentito mai? «È davvero sorte regale, Ciro,
agir bene e aver cattiva fama». Non ho mal di capo e tutti ritengono che ne
soffra. Che m'importa? Non ho febbre e tutti si dolgono con me, come se
l'avessi.
«Poverino, da quanto tempo te la trascinavi dietro!» E anch'io dico con lo
sguardo triste: «Sì, in verità, è già da molto tempo che sto male.» «Ma che è
successo infine?» Quel che Dio vuole. E così me la rido zitto zitto di chi
sente pietà di me.
Che cosa mi proibisce di comportarmi allo stesso modo in questo caso? Sono
povero, ma un giusto concetto ho della povertà. Che m'importa se mi
compassionano per la povertà? Non ricopro cariche: altri le ricopre. Ma
pensieri convenienti intorno al ricoprire o no cariche, io li ho.
Se la vedano quelli che hanno compassione di me, ma io non soffro né fame
né sete, né freddo, mentre, pel fatto ch'essi soffrono fame e sete, ritengono
che ne soffra anch'io. Che cosa dunque farò per costoro? Devo andare attorno
con un bando e dire: «Non errate, uomini: io sto bene. D'essere povero non
mi curo, né di non coprire cariche, né insomma d'altra cosa se non dei giudizi
retti: e questi giudizi io li possiedo privi d'impedimento e di nient'altro più mi
preoccupo»? Ma che sciocchezza è questa? Come posso avere ancora giudizi
retti, se non mi contento di essere quel che sono, ma mi lascio sbigottire da
quanto pensano gli altri?
Ma altri otterranno di più e mi saranno preposti negli onori. — Che cosa di
più logico che quanti si sono preoccupati d'un oggetto ottengano di più in ciò
di cui si sono preoccupati? Essi si sono preoccupati delle cariche, tu dei
giudizi: essi delle ricchezze, tu del modo di usare le rappresentazioni. Vedi se
ottengono più di te in ciò che tu hai perseguito con zelo, essi invece
trascurano: se il loro assenso è più conforme alle norme naturali, se meno di
te vengono frustrati nei loro desideri, se meno incorrono in ciò che vogliono
evitare, se nei loro propositi, nei loro progetti, nei loro impulsi colgono più di
te nel segno, se osservano quel che loro spetta come mariti, come figli, come
genitori e cosi via, per tutti gli altri gradi delle relazioni sociali. Ma essi sono
magistrati: e tu non vuoi dire a te stesso la verità che, cioè, da parte tua, non
fai niente per esserlo, essi tutto, e che sarebbe estremamente illogico che chi
si prende cura di qualcosa riporti meno di chi non se ne cura affatto?
«E invece no: ma siccome mi preoccupo di avere giudizi retti è pur logico
che sia nei primi posti.» — «Certo, in ciò a cui attendi, nei giudizi: ma nel
campo in cui altri si sono più preoccupati di te, cedi a loro. Sarebbe come se,
per il fatto che possiedi giudizi retti, ritenessi giusto di riuscire meglio degli
arcieri nel trar d'arco o dei fabbri nel lavorare il bronzo. Lascia, dunque, di
prendere a cuore i giudizi e volgiti a ciò che vuoi ottenere e poi piangi
qualora non ti riesca bene, perché te lo meriti. Adesso dici di essere occupato
in altre cose, di attendere ad altro, e anche la gente dice molto bene che una
cosa non ha niente in comune con un'altra. Quegli si leva all'aurora e cerca
chi saluti tra i personaggi di palazzo, a chi rivolga una parola gradita, a chi
mandi regali, come riesca accetto al danzatore, come s'ingrazi uno
malignando sull'altro. Quando prega, per questo prega, quando sacrifica, per
questo sacrifica: il precetto di Pitagora: non accogliere, quindi, sugli occhi
languidi il sonno l'applica a questo proposito. «Che sbaglio ho commesso in
materia di adulazione? Che ho fatto? Qualcosa forse da uomo libero, da
uomo nobile?» E se trova d'essersi comportato così, si biasima e si riprende:
«Che necessità avevi di dire anche questo? Non potevi mentire? Lo
ammettono pure i filosofi che niente vieta di dire una bugia.» Ma tu, se
davvero non ti sei preoccupato d'altro che dell'uso conveniente delle
rappresentazioni, subito, appena ti levi, di buon'ora, rifletti: «Che cosa mi
manca per raggiungere l'impassibilità? Che cosa per la tranquillità? Chi
sono? Forse questo miserabile corpo? Forse gli averi? Forse la reputazione?
Niente di questo. Ma che cosa? Sono un animale partecipe di ragione.» Quali
dunque le domande in questo caso? Ritorna sulle tue azioni. «Che sbaglio ho
commesso riguardo a quanto promuove la serenità? Che cosa ho fatto che
non fosse né da amico, né da essere socievole o sensato? A quale dovere sono
venuto meno rispetto a queste relazioni?».
Ma con una tale diversità di desideri, di azioni, di voti, pretendi ancora che la
tua parte sia uguale alla loro, a proposito di cose per le quali tu non ti sei
impegnato, essi sì? E poi ti meravigli se hanno compassione di te, e te ne
sdegni? Essi non si sdegnano se tu hai compassione di loro. Perché? Perché
sono persuasi di avere il bene, tu, invece, non ne sei persuaso. Per ciò non ti
bastano le tue cose, ma desideri le cose di quelli, mentre quelli si contentano
delle loro e non desiderano le tue. In realtà, se fossi davvero persuaso
riguardo ai beni, che tu li hai, essi, invece, ne vagano lontano, non penseresti
neppure a quel che dicono di te.

SUL NON AVER PAURA

Che cosa rende temibile il tiranno? Gli sgherri, dice uno, le loro spade, il
capo della guardia del corpo, e quelli che respingono chiunque si presenta. —
Perché, allora, se conduci un ragazzino da un tiranno che sta in mezzo ai suoi
sgherri, non ne ha paura? Non è perché il ragazzino non li avverte? E se uno
li avverte e avverte pure che hanno le spade e tuttavia si presenta al tiranno
proprio con l'intenzione di morire in qualche maniera e cerca chi lo possa
agevolmente uccidere, ha forse paura degli sgherri costui? — No, perché
vuole proprio quel che li rende temibili. — Se poi gli si presenta uno che non
vuole né morire né vivere a ogni costo, ma come gli è dato, che cosa
proibisce a costui di presentarglisi senza paura? — Niente.— E se uno
conserva anche rispetto agli averi lo stesso atteggiamento che ha costui per il
corpo, e così rispetto ai figli e alla moglie, se, insomma, a causa d'una follia o
d'una disperazione, sia ridotto in tale condizione che non calcoli affatto averli
o non averli, ma, come i ragazzi che giocano con le conchiglie s'interessano
del gioco senza badare alle conchiglie, così anche costui non fa alcun conto
degli oggetti e gode soltanto di giocare con essi e di trattarli, quale tiranno
sarà ancora temibile per costui, quali sgherri, quali spade?
Quindi, sotto la spinta della follia uno può raggiungere tale disposizione
riguardo a queste cose, e anche sotto la spinta dell'abitudine, come i Galilei; e
sotto la spinta della ragione e della dimostrazione nessuno può apprendere
che Dio ha fatto tutte le cose del mondo e il mondo stesso, tutto quanto,
libero da impedimento, col suo fine in se stesso, e le parti per servire ai
bisogni del tutto? Tutti gli altri esseri sono esclusi dal poter intendere il
governo di Dio, ma l'animale dotato di ragione possiede mezzi per trarre tutte
queste conclusioni, che cioè egli è una parte e una ben determinata parte e
che è bene per le parti cedere al Tutto. Inoltre, essendo per natura nobile,
magnanimo, libero, s'accorge che delle cose che lo circondano, alcune sono
prive di impedimento e in suo potere, altre soggette a impedimento e in
potere di altri: prive di impedimento quelle sottoposte alla libera scelta,
soggette a impedimento quelle non sottoposte alla libera scelta. Per ciò se
ripone il suo bene e il suo utile soltanto in quelle che sono prive di
impedimento e alla sua dipendenza, sarà libero, sereno, felice, immune da
danno, d'alto sentire, pio, riconoscente per ogni cosa a Dio, nessuno
biasimerà mai di quel che accade, nessuno accuserà: ma se li ripone nelle
cose esterne e indipendenti dalla libera scelta, andrà necessariamente incontro
a impedimenti, a ostacoli, si farà schiavo di quanti hanno potere sulle cose
che egli ammira stupito e pauroso, sarà necessariamente empio come chi
ritiene di essere maltrattato da Dio, ingiusto, desideroso di procacciarsi
sempre più roba, sarà necessariamente meschino e gretto.
E se uno ha compreso questo, che cosa gli proibisce di vivere in modo
tranquillo e piano, aspettando con calma tutto quel che può accadere e
rassegnandosi a quel ch'è già accaduto? «Vuoi darmi la povertà?» Dammela e
saprai che cos'è la povertà quando incontra un bravo attore. «Vuoi darmi le
cariche?» Dammele. «Vuoi darmi una condizione lontana dalle cariche?»
Dammela. «Le pene?» Dammi anche le pene. «L'esilio?» Dovunque vado,
starò bene. Perché anche qui, non è per il luogo che io mi trovavo bene, ma
per i giudizi che voglio portare sempre con me. Infatti, non me li può
strappare nessuno ed essi soltanto sono miei e inalienabili e mi bastano,
ovunque sia, checché faccia. «Ma è già tempo di morire.» Che intendi per
morire? Non drammatizzare la faccenda, ma dì piuttosto come sta veramente:
«è già tempo che la materia sia di nuovo reintegrata negli elementi dai quali
fu composta.» E che c'è di terribile in questo? Che sta per distruggersi nel
mondo, che sta per avvenire di strano, di irragionevole?
In vista di questo il tiranno mette paura? Per questo sembra che i suoi sgherri
abbiano spade lunghe e taglienti? Ad altri sì: quanto a me, ho già esaminato
tutto: su me nessuno ha potere. Sono stato fatto libero da Dio: conosco i suoi
ordini, nessuno può più trascinarmi in schiavitù: ho l'emancipatore ideale e
giudici ideali. «Non sono padrone del tuo corpo?»
Ebbene? che ha da vedere con me? «Non dei tuoi miseri averi?» Ebbene?
che ha da vedere con me? «Non di esiliarti o d'incatenarti?» Ma a tutto questo
e all'intero mio povero corpo io rinuncio in tuo favore, quando vuoi. Prova, ti
prego, il tuo potere e saprai fin dove s'estende.
«Chi devo ancora temere? Le guardie del corpo? Per paura di che? Che mi
respingano? Se mi sorprendono a voler entrare, mi respingano pure.» «E
perché t'appressi alle porte?» «Perché ritengo conveniente partecipare al
gioco, finché il gioco dura.» «E allora, come non sarai respinto?» II fatto è
che, se nessuno mi riceve, non voglio entrare, ma preferisco sempre quel che
succede. In realtà, secondo me, quel che Dio vuole è meglio di quel che
voglio io. Aderirò a Lui, suo ministro e suo seguace: i miei impulsi sono uniti
a Lui, i miei desideri sono uniti a Lui, in breve la mia volontà è unita a Lui.
Nessuna porta si chiude in faccia a me, ma a chi fa forza per entrare. E per
qual motivo io non faccio forza per entrare? Perché so che dentro non si
distribuisce nessun bene a chi è entrato. Ma quando sento che è ritenuto beato
uno perché ha ricevuto un onore da Cesare, dico: «E che gli capita? <una
provincia, un'amministrazione>. Forse, anche il giudizio che si deve avere
d'una provincia? forse anche la capacità di reggere l'amministrazione? Perché
dovrei spingermi avanti? Uno getta fichi secchi di qua e di là: i ragazzi
cercano di afferrarli e se li contendono l'uno all'altro, ma gli uomini no, che li
calcolano poco. Se uno gettasse conchigliette, neppure i ragazzi le
afferrerebbero. Ebbene: vengono distribuite le provincie: se la vedano i
ragazzi. Denaro. Se la vedano i ragazzi. Preture e consolati. Se li strappino i
ragazzi: siano messi alla porta, siano picchiati, bacino la mano di chi li da,
dei loro servi: per me sono fichi secchi.» Ma se, mentre quello getta a caso i
fichi, me ne cade uno in seno? Lo prendo e me lo mangio. Fin qui si può far
conto anche di un fico secco. Ma che mi curvi e scosti un altro o sia scostato
da un altro e aduli chi li getta non vale la pena né per un fico né per
alcun'altra di quelle cose non buone che i filosofi mi hanno persuaso a non
ritenere beni.
Mostrami le spade degli sgherri. «Guarda: sono tanto grandi e come
aguzze!» E che fanno queste spade così grosse e aguzze? — «Uccidono.» E
la febbre che fa? «Niente altro.» — E una tegola che fa? «Nient'altro.» —
Vuoi dunque che ammiri e mi prosterni davanti a tutto questo e me ne vada
attorno, schiavo di tutto? Non sia mai. Ma una volta capito che quanto viene
alla luce deve pure perire, onde il mondo non si fermi né soffra ostacoli, non
fa differenza se la fine me la procurerà la febbre o una tegola o un soldato;
anzi, dovendo fare un paragone, so bene che il soldato la procurerà con meno
dolore e più in fretta. Di conseguenza, quand'io più non temo niente di ciò
che il tiranno può farmi, né più bramo alcunché di quanto può procurarmi,
perché dovrei ancora guardarlo con stupore, perché ancora guardarlo con
maraviglia? Perché temere gli sgherri? Perché rallegrarmi se mi parla e mi
accoglie con cortesia e riferire agli altri come parla con me? È forse Socrate,
è forse Diogene, che la sua lode costituisce una testimonianza in mio favore?
Ho forse invidia del suo carattere? No: è piuttosto per continuare il gioco che
mi reco da lui, e gli obbedisco fin quando non mi dia un ordine sciocco e
sconveniente. Che se mi intima: «Recati da Leonte di Salamina» gli dico:
«Cerca un altro; io non gioco più.» «Portalo in galera.» E io lo seguo, perché
anche questo è nel gioco. «Ma ti sarà mozzata la testa». E la sua dovrà
sempre rimanere al suo posto, e così quella di voi, suoi sudditi? «Ma sarai
buttato via, senza sepoltura». Se io sono il cadavere, sarò buttato via; se sono
qualcosa di diverso dal cadavere, dì con più garbo come sta la faccenda e non
spaventarmi, che ai ragazzini metton paura queste cose e agli sciocchi. Ma se
uno, entrato una volta nella scuola di un filosofo, non conosce chi è, merita
veramente di aver paura e di adulare quelli che un giorno adulava — se non
ha imparato ancora che non è carne, né ossa né nervi, bensì ciò che di tutto
questo usa e che governa le rappresentazioni e le comprende.
Già, ma dottrine come queste fanno disprezzare le leggi. — Al contrario,
quali dottrine più di queste rendono chi le accetta sottomesso alle leggi?
Legge non è, però, il capriccio d'un pazzo. Eppure, guarda come anche verso
costoro ci dispongano in modo conveniente, insegnandoci a non pretendere
mai da loro niente di ciò in cui possono esserci superiori. Esse ci insegnano a
rinunciare al miserabile corpo, a rinunciare agli averi, ai figli, ai genitori, ai
fratelli, a cedere in ogni cosa, ad abbandonare ogni cosa: fanno eccezione
solo per i giudizi che pure Zeus volle fossero possesso riservato di ciascuno.
A quale violazione di leggi alludi, a quale stoltezza? Dove sei migliore e più
forte di me, ivi cedo a te: ma dove, poi, io sono migliore, fammi posto tu.
Perché io me ne sono preso cura, di questo, tu no. A te interessa abitare in
case di marmo, inoltre, farti servire da schiavi e da affrancati, indossare vesti
pregiate, possedere gran numero di cani da caccia, di citaredi, di attori tragici.
Li pretendo io, forse? Ma tu, ti sei mai preso cura dei giudizi? o della ragione
ch'è in te? Sai di quali elementi è formata, com'è composta, come si articola,
che facoltà ha, e di quale natura? E perché t'infastidisci se un altro, che se ne
è preso cura, ha la meglio su te in questo campo? — Ma queste cose sono le
più importanti. — E chi ti proibisce di dedicarti ad esse e di prendertene
cura? Chi più di te ha a portata di mano libri, tempo libero, persone che
l'aiutino? Solo, volgiti di quando in quando ad esse, consacra, magari, un po'
di tempo alla parte direttrice della tua anima. Considera cos'è ciò che
possiedi, donde è venuto, esso che usa tutto l'altro, tutto l'altro mette alla
prova, sceglie e rigetta. Certo, finché ti occuperai delle cose esterne, le
possiederai come nessuno, quelle, ma la parte direttrice dell'anima tua, sarà
come la vuoi avere, e cioè sordida e negletta.

A QUELLI CHE D'UN TRATTO SI PICCANO D'ATTEGGIARSI A


FILOSOFI

Non dovete mai elogiare né biasimare alcuno per cose che possono essere
buone o cattive, e neppure dovete ascrivere ad alcuno perizia o imperizia:
così vi terrete lontani da sconsideratezza e insieme da malevolenza. «Costui
si lava in fretta.» Fa male? Nient'affatto. E allora? Si lava in fretta. — E
dunque, sta tutto a posto? — No davvero: ciò che procede da giudizi retti sta
a posto, ciò che procede da giudizi storti, non sta a posto. Quindi, finché non
sai con quale giudizio si compie ciascuna azione, non lodarla né biasimarla. E
il giudizio non è facile coglierlo dalle cose esterne.
«Costui è falegname.» Perché? «Perché usa la scure.» Che significa ciò?
«Costui è musico perché canta.» Anche ciò che significa? «Costui è
filosofo.» Perché? «Porta il pallio e la zazzera.» E i ciarlatani che portano? Di
conseguenza, quando si vede uno di costoro agire in maniera sconcia, subito
si dice: «Ecco che fa il filosofo!» mentre per quel comportamento sconcio,
bisognerebbe piuttosto dire che quegli non è filosofo. Che se prenozione e
professione di filosofo consistono nel portare pallio e zazzera, parlerebbero a
ragione: ma se consistono piuttosto nell'essere immune da colpa, dal
momento che quello non compie quanto pur professa di essere, perché non
gli tolgono il titolo? E per verità, così si fa negli altri mestieri. Quando si
vede uno che lavora male d'ascia, non si dice: «Che utile c'è nell'arte del
falegname? Guarda che porcherie combinano i falegnami!» bensì, tutt'al
contrario, si dice: «Questi non è un falegname perché lavora male d'ascia!»
Allo stesso modo, se si ascolta uno che canta male, non si dice: «Ecco come
cantano i musici!» ma piuttosto: «costui non è un musico.» Solo nel caso
della filosofia la gente si comporta così: quando vede uno che agisce contro
la professione di filosofo, non gli toglie mica il titolo di filosofo, ma
ammesso che è filosofo e stabilito, da quanto è accaduto, che si comportava
male, conclude che il filosofare non giova a niente.
E qual è il motivo? che alla prenozione del fabbro diamo un valore preciso e
a quella del musico e degli altri artisti ugualmente: a quella del filosofo no,
ma quasi fosse confusa e indistinta nella nostra mente, cerchiamo di coglierla
solo dagli oggetti esterni. E quale altra arte si acquista coll’abito e colla
zazzera, e non ha pure dei princìpi, una materia, un fine? E qual è la materia
del filosofo? il pallio forse? No, ma la ragione. E quale il fine? Portare il
pallio, forse? No, ma possedere retta la ragione. E quali i princìpi? Forse
quelli che riguardano il modo di farsi folta la barba o fluente la zazzera? No,
ma piuttosto, come dice Zenone, conoscere gli elementi della ragione, la
natura di ciascuno di essi, i loro reciproci rapporti e le conseguenze che ne
derivano. Non vuoi vedere prima se, comportandosi sconciamente, il filosofo
compie quanto professa di essere e quindi biasimare quel modo di agire?
Adesso, invece, che tu hai giudizio, se lui compie un'azione, a tuo parere,
cattiva, dici: «Guarda il filosofo!» (come se fosse conveniente chiamare
filosofo chi compie tali azioni) e ancora: «È questo il filosofo?», mentre,
«Guarda il fabbro!» non lo dici, quando sai che uno di essi è adultero o
ingordo, e neppure «Guarda il musico!». Così poco intendi anche tu la
professione del filosofo, ma scivoli e ti confondi per noncuranza.
Però, anche quelli che sono chiamati filosofi si servono di cose né buone né
cattive per attuare la loro professione: hanno appena preso il pallio, si son
fatti appena crescere la barba, che subito gridano «Sono filosofo!». Ma
nessuno dirà «Sono musico» se ha comprato il plettro e la cetra, e neppure
«sono fabbro» se si è messo cappuccio e grembiule: si adatta, certo, l'abito
all'arte, ma il nome lo si prende dall'arte, non dall'abito. A ragione, quindi,
Eufrate diceva: «Ho cercato di tener nascosto per molto tempo che
filosofavo: e indubbiamente, aggiungeva, m'è giovato. Infatti, in primo luogo,
sapevo che tutte le mie buone azioni non le compivo perché c'era chi mi
guardava, ma per me stesso: stavo composto a tavola per me, ero modesto nel
guardare e nel camminare: tutto per me e per Dio. In secondo luogo, come
solo scendevo in lotta, così pure solo mi compromettevo: se compivo
un'azione turpe o sconveniente, la causa della filosofìa non era compromessa,
da parte mia, e neppure danneggiavo gli altri, cadendo in fallo da filosofo.
Per ciò, quanti ignoravano il mio piano, restavano stupiti come, pur trattando
tutti i filosofi e vivendo con loro, non filosofassi. E che male c'era se il
filosofo si riconosceva dalle mie azioni e non dai segni esterni?».
Guarda come mangio, come bevo, come dormo, come sopporto le cose,
come me ne astengo, come accorro in aiuto degli altri, come impiego
desiderio e avversione, come osservo le relazioni naturali o acquisite senza
confusione e senza impedimenti: di qui giudicami, se puoi.
Ma se sei cosi ottuso e cieco da non ritenere nemmeno Efesto un bravo
fabbro, qualora non gli veda un cappuccio in testa, che male c'è a essere
ignorato da un giudice tanto sciocco?
Allo stesso modo Socrate era sconosciuto ai più, e molti si recavano da lui
nella convinzione di essere presentati ai filosofi. S'irritava, forse, come noi e
diceva: «Non ti sembro filosofo, io?» No, ma li prendeva e li presentava: a lui
bastava di essere filosofo e, tutto contento, non si rodeva di non apparire tale,
perché aveva davanti agli occhi il suo compito. E qual è il compito dell'uomo
di perfetta virtù? Avere molti discepoli? Nient'afFatto. Se la vedano quelli
che hanno tale ambizione. Esaminare sottilmente principi diffìcili? Anche
questo, se lo vedano altri. E allora in quale campo era qualcuno e voleva
esserlo? Dove ci sono danno e utilità. «Se qualcuno può danneggiarmi, egli
dice, non concludo un bel nulla: se attendo che un altro mi sia d'utilità, sono
proprio un nulla. Voglio qualcosa e non succede: sono un infelice». A tale
prova sfidava chiunque e non mi sembra che abbia ceduto ad alcuno. A far
che cosa, secondo voi? Ad annunciare e a dire: «Ecco chi sono io»?
Non sia mai, ma ad essere qual era. Perché, poi, è proprio d'un pazzo e d'un
fanfarone dire: «Sono impassibile e imperturbabile. Non ignorate, uomini,
che mentre voi vi dimenate e tumultuale per roba di nessun conto, io solo mi
sono staccato da ogni turbamento.» Così, non ti basta non sentire affatto il
dolore se non fai il bando: «Raccoglietevi tutti, che soffrite ai piedi, al capo,
che avete la febbre, e voi, storpi e ciechi, e guardate come sono libero da ogni
acciacco»? È un agire vuoto e grossolano codesto, a meno che, al pari di
Asclepio, non sia in grado pure tu di mostrare sull'istante con quali cure
possano guarire anch'essi, e, a questo scopo, porti, come esempio, la tua
salute.
Tale è, in realtà, il cinico, ornato da Zeus di scettro e di diadema. Egli
afferma: «Perché vi rendiate conto, uomini, che cercate la felicità e
l'imperturbabilità non dove si trovano ma dove non si trovano, ecco, io sono
stato mandato a voi da Dio come esempio, io che non possiedo né beni né
casa né moglie né figli, ma neanche un letto né una tunica né un mobile.
Eppure, vedete come sono florido di salute. Fate la prova su me e se mi
vedete imperturbato, ascoltate i rimedi e i mezzi con cui sono stato curato».
Questo è già un atteggiamento umano e nobile. Ma vedete di chi è questo
compito: di Zeus o di chi Zeus ritiene degno di una tale missione, onde non
sveli mai, in nessun modo, alla gente qualcosa che invalidi la testimonianza
con cui approva la virtù e riprova gli oggetti esterni, né impallidendo il
bellissimo volto né lungo le guance pianto tergendo.
E non basta, ma non deve neppure desiderare o cercare alcunché, persona,
luogo, passatempo, come i ragazzi la vendemmia o le vacanze, egli che è
rivestito d'ogni parte di rispetto come gli altri di pareti, di porte, di portieri.
Adesso, invece, solo che muovano i primi passi verso la filosofìa, come i
deboli di stomaco verso un piatto che poco dopo avranno a nausea, gridano
subito allo scettro e al regno!
S'è lasciato scendere la zazzera, ha preso il pallio, mostra nuda la spalla,
litiga con quelli che incontra, e se scorge uno avvolto nel mantello litiga pure
con lui. Uomo, esercitati prima in inverno: osserva i tuoi impulsi che non
siano quelli di uno debole di stomaco o di una donna in preda alle voglie.
Cerca per prima cosa, che s'ignori chi tu sia: filosofa per te alcun tempo. Così
nasce il frutto: bisogna che il seme sia coperto per un certo tempo, sia
nascosto, e a poco a poco cresca, finché giunga a maturità. Ma se butta la
spiga prima che spuntino i nodi, è un aborto, viene dai giardini di Adone.
Tale pianticella sei pure tu: prima del necessario sei fiorito e l'inverno ti
brucerà. Vedi che dicono i contadini dei semi, quando il calore giunge avanti
tempo: sono in ansia che i semi crescano rigogliosi e poi una gelata sola,
attaccandoli, smentisca [la loro promessa]. Bada anche tu, uomo: sei stato
rigoglioso: ti sei gettato troppo presto sulla povera gloria: credi di essere
qualcuno — pazzo tra pazzi. Gelerai, anzi, sei già gelato in basso, alle radici,
mentre in alto continui a mettere qualche fiore e perciò credi di vivere ancora
e di essere florido. Noi, per lo meno, lasciaci maturare come vuole natura.
Perché ci spogli, perché ci violenti? Non siamo ancora in grado di sostenere
l'aria: lascia che s'ingrossi la radice e che crescano i nodi, il primo, poi il
secondo, poi il terzo; poi, a questo modo, il frutto forzerà la natura, anche
contro il mio volere. E chi in realtà, pregno e pieno di siffatti giudizi, non
s'accorge delle sue possibilità e non si accinge alle azioni che ad esse si
confanno? Ma il toro non ignora la sua natura e le sue capacità, quando
appare una belva, e non attende chi lo stimoli: e neppure il cane, quando
scorge un animale selvaggio. Ed io, se posseggo le capacità dell'uomo buono,
attenderò che tu mi disponga alle azioni che mi sono proprie? Però, adesso,
non le posseggo ancora, credimi. E perché vuoi che inaridisca prima del
tempo, come sei inaridito tu?

A UNO CHE S'ERA DATO ALLA SPUDORATEZZA

Quando vedi uno che è magistrato, opponi, per parte tua, che sai fare a meno
delle magistrature: quando vedi un altro ricco, guarda quel che possiedi in
vece delle ricchezze. Perché se non hai niente in cambio, sei un infelice: ma
se hai la capacità di non aver bisogno delle ricchezze, sappi che hai qualcosa
molto maggiore di lui e di molto maggior valore.
Uno ha una moglie avvenente: tu sai reprimere il desiderio d'una moglie
avvenente. Ti sembra poco? Eppure, quanto pagherebbero questi stessi ricchi
e magistrati e corteggiatori di belle dame per poter disprezzare la ricchezza,
le magistrature, le donne stesse che amano e conquistano? Ignori che razza di
sete è quella del febbricitante? Non ha niente di uguale a quella dell'uomo
sano. Questi, dopo aver bevuto, non ha più sete; quello, dopo un istante di
soddisfazione, ha nausea, converte l'acqua in bile, vomita, si torce, ha una
sete più violenta. Qualcosa di simile è aver ricchezze e sentirne la brama,
avere una carica e sentirne la brama, giacere con una bella donna e sentirne la
brama, che sopraggiungono l'emulazione, il terrore di perderle, le parole
sconce, i pensieri sconci, le azioni irriguardose.
E che cosa perdo, si dice? Uomo, eri verecondo e adesso non lo sei più —
non hai perduto niente? Invece di Crisippo e di Zenone leggi Aristide ed
Eveno: non hai perduto niente? Invece di Socrate e di Diogene, resti
ammirato davanti a chi può sedurre e ingannare il maggior numero di donne.
Vuoi esser bello e non essendolo ti acconci: vuoi sfoggiare una veste
splendida per attirare le donne e, se mai riesci a procurarti un po' di profumo,
ti credi beato. Prima, non t'importava affatto di tutto questo, ma solo dove
fosse una conversazione dignitosa, una persona stimabile, un sentimento
nobile. Di conseguenza, dormivi da uomo, camminavi da uomo, portavi vesti
degne di un uomo, tenevi il linguaggio conveniente a un uomo nobile. E poi
mi dici: «non ho perduto niente»? Ma come, solo il denaro perdono gli
uomini? La verecondia non si perde? la dignità non si perde? E chi le perde
non subisce danno? Ti sembra forse che non si dia più danno, perdendole?
Eppure ci fu un tempo che questo solo ritenevi danno e male, quando tremavi
che qualcuno ti distogliesse da siffatti discorsi e da siffatte azioni.
Ed ecco, ne sei stato distolto, e non da altri, ma da te. Combatti con te,
riconquista la dignità, la verecondia, la libertà.
Se t'avessero detto sul mio conto che uno mi costringeva ad essere adultero,
o a portare una veste di tal guisa, o a profumarmi, non saresti corso per
uccidere di tua mano quest'uomo che mi faceva tale violenza? Ed ora non
vuoi portare aiuto a te stesso? Quanto è più facile codesto aiuto! Non devi
ammazzare, né legare, né maltrattare alcuno, né recarti in piazza, ma parlare
con te stesso, con chi cioè è soprattutto disposto ad obbedire, presso il quale
nessuno è più persuasivo di te. E in primo luogo, riprova quel che hai fatto;
poi, riprovatolo, non disperare di te e non fare come gli uomini ignobili i
quali, appena hanno ceduto, si arrendono del tutto e sono quasi succhiati dalla
corrente. Osserva piuttosto come si comporta il maestro di ginnastica. È
caduto un ragazzetto. «Levati, gli dice, lotta ancora, finché t'irrobustisci». Fa'
anche tu a questo modo: sappi che non c'è niente più pieghevole dell'anima
umana. Bisogna volere: e la cosa è fatta, la correzione è compiuta: al
contrario, tu sonnecchi e tutto è rovinato. Perche dentro di noi sta il danno e il
rimedio. — E che bene mi può venire? Ne cerchi uno più grande di questo?
Da spudorato sarai riguardoso, da disordinato ordinato, da infedele fedele, da
sfrenato temperante. Se cerchi qualcosa più grande ancora, continua a fare
quel che fai, perché neppure un dio potrà più salvarti.

QUALI COSE SI DEVONO DISPREZZARE E DI QUALI, INVECE, SI


DEVE FAR MOLTO CONTO

Gli uomini trovano ogni difficoltà nelle cose esterne, la perplessità nelle cose
esterne. «Che farò? come verrà? come riuscirà? che non mi capiti questo, che
non mi capiti quello!». Sono tutte espressioni di persone che si dibattono
intorno a oggetti indipendenti dalla libera scelta. Chi dice: «Come farò per
non assentire al falso? Come, per non separarmi dal vero?» Se c'è uno di
natura così nobile da tormentarsi per ciò, gli ricorderò: «Perché ti tormenti?
sono cose in tuo potere: sii sicuro: non precipitarti a dare l'assenso prima
d'aver usato la regola naturale». Se poi è in ansia pel timore che il suo
desiderio rimanga incompiuto e irrealizzato o che la sua avversione incorra in
ciò che vuole evitare, prima gli darò un bacio perché, trascurati gli oggetti
davanti a cui gli altri sono sbigottiti e i loro timori, si prende a cuore le cose
sue, tra le quali è veramente lui, poi gli dirò: «Se non vuoi che i tuoi desideri
siano frustrati, se non vuoi incorrere in ciò che badi a evitare, non desiderare
nessuno degli oggetti altrui, non evitare niente di ciò che non è in tuo potere:
se no, necessariamente, non otterrai quelli, incorrerai in questi.» Quale
difficoltà c'è qui? Dove ha più luogo quel «come verrà?» e «come riuscirà?»
e «che non mi capiti questo o quello»?
«Ebbene, il futuro non è al di là della nostra scelta?» — «Certo.» — «E la
natura del bene e del male è tra le cose dipendenti dalla nostra scelta?» —
«Certo.» — «Ti è lecito, dunque, usare di ogni evento secondo natura? E chi
te lo può proibire?» — «Nessuno.» — «E allora non dirmi più: 'Come
succederà?': comunque succederà quell'avvenimento, tu lo volgerai a buon
fine e sarà per te un successo. Che sarebbe stato Eracle se avesse detto:
'Come fare perché non mi si mostri quel grosso leone, né quel grosso
cinghiale né quegli uomini bestiali?' Che t'importa? Se ti si mostra un grosso
cinghiale, in maggior tenzone tenzonerai: se uomini cattivi, da cattivi
libererai la terra.» — «E se muoio in questa impresa?» — Morirai da
valoroso, compiendo una nobile azione. E siccome bisogna assolutamente
morire, è pur necessario che sia trovato a far qualcosa o a coltivare i campi, o
a zappare, o a commerciare, o a esser console, o a soffrir di indigestione o di
diarrea. In quale azione vuoi ti trovi occupato la morte? Io, per parte mia, in
un'azione degna d'un uomo, benefica, utile alla comunità, nobile. E se non
riesco a farmi trovare occupato in siffatte azioni, — siccome, per lo meno, c'è
qualcosa che non può essermi impedita, e m'è stata concessa, — mi trovi
mentre correggo me stesso o esercito la facoltà che usa le rappresentazioni o
mi affatico per raggiungere l'imperturbabilità, o cerco di regolare nel modo
dovuto le diverse relazioni sociali e, se sono così fortunato, anche mentre
pongo mano al terzo punto, che riguarda la stabilità dei giudizi.
Se la morte mi sorprende in tali faccende, mi basta di poter levare le mani a
Dio e dirgli: «Le facoltà che ho ricevuto da te per comprendere il tuo governo
e seguirlo non le ho trascurate: non ti ho disonorato, per parte mia. Guarda
come ho usato i sensi, come le prenozioni. Ti ho mai biasimato? sono stato
scontento di qualche avvenimento o l'ho desiderato altrimenti? ho mancato
alle mie relazioni cogli altri? Ti ringrazio d'avermi fatto nascere, ti ringrazio
di quanto m'hai dato: il tempo che ho usato le tue cose mi basta. Riprendile e
assegnami il posto che vuoi: perché erano tutte tue, tu me le hai date.» Non
basta allontanarsi così disposti? C'è una vita migliore e più dignitosa di quella
sorretta da tali sentimenti? Quale fine è più beata?
Ma per arrivare a tanto, non piccole cose bisogna sopportare, né a piccole
cose rinunciare. Non puoi pretendere il consolato e questi sentimenti,
preoccuparti di possedere campi e questi sentimenti, pensare agli schiavi e a
te stesso. Ma se vuoi una delle cose altrui, le tue sono bell'e distrutte. Perché
è questo il carattere della faccenda: non si fa niente senza pagare. E che c'è di
strano? Se vuoi essere console devi restare sveglio, correre di qua e di là,
baciare mani, marcire presso le porte degli altri, molte cose dire, molte cose
fare indegne di un libero, inviare regali a molti e a taluni doni ospitali giorno
per giorno. Con quale resultato? Dodici fasci di verghe, il privilegio di sedere
tre o quattro volte in tribunale, di dare giochi nel circo e di sfamare i clienti
con le sportule. Ovvero, mi si mostri che cosa v'ha oltre questo. E per la
tranquillità, per l'imperturbabilità, per dormire veramente quando dormi e star
desto veramente quando sei desto, per non avere alcun timore, per non
trepidare di nessuna cosa, non vuoi spender niente, non vuoi penar niente?
Ma se nel tuo affaticarti per tutto questo, qualcosa va perduta o consumata
senza frutto o un altro ottiene ciò che dovevi ottener tu, ti sentirai subito
morso per l'accaduto? Non bilancerai lo scambio che fai, ciò che guadagni e
ciò che perdi, che valore ha quello e che valore ha questo? E vuoi ottenere
siffatti beni senza pagare? Come lo puoi? Una cosa non ha niente in comune
con un'altra.
Non puoi prestar continuamente attenzione alle cose esterne e alla parte
direttrice dell'anima tua. Se vuoi quelle, lascia questa; se no, non avrai né
questa né quelle, trascinato in tutt'e due le direzioni. Se vuoi questa, devi
lasciare quelle. Mi si verserà l'olio, i miei mobili andranno perduti, ma io
rimarrò impassibile. Scoppierà un incendio durante la mia assenza, e
andranno perduti i libri: e tuttavia io userò le mie rappresentazioni in maniera
conforme a natura. Ma non avrò da mangiare. Se sono così infelice, porto è la
morte: ecco il porto di tutti, la morte, ecco lo scampo. Per ciò, niente di quel
che può accadere in vita è grave: quando vuoi, te ne vai e non sei molestato
dal fumo. Perché sei in ansia?
Perché stai sveglio? Perché, invece, considerato dove sta il tuo bene e il tuo
male, non dici subito: «Sono in mio potere l'uno e l'altro: nessuno mi può
strappare il bene né gettarmi nel male contro voglia: e perché allora non mi
metto giù e russo? Le mie cose stanno al sicuro: alle altrui ci pensi chi le
ottiene, a quali condizioni gli sono date da chi ne ha autorità. Chi sono io da
volere che siano in questo o in quel modo? Me n'è stata forse concessa una
scelta? Ne sono stato fatto amministratore da qualcuno? Mi bastano quelle su
cui ho autorità. Queste io devo disporre il meglio possibile: le altre, come
vuole chi ne è padrone.»
Chi ha questo davanti agli occhi, veglia, forse, e «si rivolta di qua e di là»?
Che vuole? Che agogna? Patroclo o Antiloco o Protesilao? Ma quando ha
ritenuto immortale uno degli amici? Quando non ha avuto davanti agli occhi
che domani o dopodomani o lui o l'altro dovevano morire? «Già, dice: però
pensavo che quello mi sarebbe sopravvissuto e avrebbe tirato su mio figlio».
Uno sciocco eri, e cose incerte pensavi. Perché non accusi te stesso, ma siedi
piangendo come le ragazzine? «Ma quello mi serviva a tavola». Già, perché
era vivo, sciocco: ora non lo può più. Ti servirà Automedonte: e se muore
anche Automedonte, troverai un altro. Se va in frantumi la pignatta, ove ti si
cuoceva la carne, devi forse morire di fame, per non avere la pignatta solita?
Non mandi a comprarne un'altra nuova? Risponde:
Nessun'altra disgrazia più grave colpir mi poteva. Perché, tu lo chiami male
questo? E allora, senza badare a strappartelo di dosso, accusi tua madre per
non averti predetto che da quel momento in poi saresti vissuto in mezzo ai
lamenti? Che credete? non l'ha scritto apposta Omero tutto questo per farci
vedere come uomini nobilissimi, fortissimi, ricchissimi, bellissimi, se non
posseggono giudizi convenienti, non si possono salvare dalla più grande
infelicità e disgrazia?

DELLA PULIZIA

Dubitano taluni se l'istinto sociale sia un carattere della natura umana:


tuttavia, questi stessi non mi sembra dubitino del fatto che, per lo meno, lo
sia, sotto ogni riguardo, la pulizia e che, se mai per altro, per esso, l'uomo si
distingue dagli animali. Quindi, se vediamo un qualunque altro animale
pulirsi, siamo soliti commentare pieni di sorpresa: «agisce come un uomo»:
viceversa, se uno rimprovera un animale, subito siamo soliti dire, quasi
scusandolo: «non è mica un uomo». Tanto esclusiva dell'uomo consideriamo
la pulizia, che dagli dèi riceviamo prima di ogni altra cosa! Infatti, siccome
essi sono per natura puri e illibati, in quanto gli uomini si avvicinano ad essi
in virtù della ragione, in tanto tendono anche alla pulizia e alla purezza. E
siccome è impossibile che la loro natura sia d'ogni parte pura, data la materia
di cui è composta, la ragione, ch'essi hanno ricevuto, tenta di renderla pura
nei limiti del possibile. La prima e più alta purezza è quella che c'è
nell'anima: lo stesso per l'impurità. Ma l'impurità dell'anima non la troverai
simile a quella del corpo, poiché dell'anima che cos'altro potrà essere
impurità se non ciò che la rende sordida nelle funzioni che sono sue?
Funzioni dell'anima sono avere impulsi e repulse, desideri e avversioni,
disporsi, applicarsi, assentire. Cos'è, dunque, ciò che in tali funzioni rende
sordida l'anima e impura? Nient'altro se non le sue decisioni erronee. Sicché
l'impurità dell'anima consiste nei giudizi cattivi, la purificazione, poi, nel
produrre in lei giudizi come si deve. Pura è l'anima che possiede giudizi
come si deve, perché essa sola non conosce confusione o contaminazione
nelle sue funzioni.
Qualcosa di simile bisogna escogitare anche rispetto al corpo, per quanto si
può. È impossibile che non gocci il moccio, se l'uomo ha il corpo combinato
com'è: per questo la natura ha fatto le mani e le narici stesse, a guisa di
condotti, per spurgare gli umori. Quindi se uno inghiottisce il moccio, io dico
che il suo modo di agire non è da uomo.
È impossibile che non s'infanghino i piedi e che non s'insudicino tutti, se
devono attraversare certi luoghi: per questo ha procurato l'acqua, per questo
le mani. È impossibile che, in conseguenza del masticare, non rimanga
attaccato ai denti qualche minuzzolo impuro. Per questo dice: «lavati i denti».
Perché? Perché sia uomo, e non una bestia o un porcellino.
È impossibile che in conseguenza del sudore e del continuo strusciare contro
le vesti non rimanga nel corpo un po' di sporcizia, la quale debba quindi
essere pulita. Per questo c'è l'acqua, l'olio, le mani, le pezze di lino, lo strigile,
il nitro e, all'occorrenza, tutto l'altro necessario per pulirlo. E invece no: ma il
fabbro toglierà la ruggine al ferro e terrà ben pronti a questo i suoi strumenti:
il piatto te lo laverai da te, quando devi mangiare, a meno che non sia del
tutto sozzo e sporco: e il tuo povero corpo non lo laverai, non lo farai pulito?
«Perché? — si dice». Te lo ripeterò: prima di tutto per comportarti da uomo,
poi per non disgustare chi incontri. Perché in proposito tu agisci, più o meno,
nel modo seguente, e non te ne accorgi. Ritieni giusto di appestarti. Va bene:
sia pure giusto. Lo è forse anche per quelli che ti siedono accanto o che si
sdraiano sullo stesso letto o che ti baciano? Ma via, vattene in qualche posto
nel deserto che ti meriti e vivi solo, deliziandoti dei tuoi odori. Perché è
conveniente che ti goda da solo la tua sozzeria. Ma se sei in città, un
portamento così negligente e trasandato che persona denuncerà? Se la natura
t'avesse affidato un cavallo, l'avresti trascurato senza dartene pensiero? Ed
ora pensa che il tuo corpo t'è stato messo in mano come un cavallo: lavalo,
lustralo, fa' in modo che nessuno si volga indietro, che nessuno si scansi. E
chi non scansa un uomo sudicio, puzzolente, dalla pella sporca più che uno
lordo di sterco? In questo caso il puzzo viene dal di fuori, è qualcosa di
esterno: nell'altro, invece, dall'incuria e cioè dal di dentro, ed è quasi lezzo di
putrefazione.
Ma Socrate si lavava di rado. — Eppure risplendeva il suo corpo, eppure era
così gradito e piacevole che i più belli e i più nobili l'amavano e preferivano
sdraiarsi accanto a lui che ai più formosi. Poteva fare a meno di prendere il
bagno o di lavarsi, se così gli garbava — e tuttavia quei rari bagni gli
bastavano. Ma Aristofane dice:
A quella gente allampanata e scalza alludo.
Sì, ma dice che Socrate si librava in aria, che rubava i vestiti dalla palestra.
Ora, quanti hanno scritto di Socrate, attestano sul suo conto tutto il contrario:
che non era solo dolce ascoltarlo, ma anche vederlo. Così, scrivono lo stesso
di Diogene. Perché neppure l'aspetto del corpo deve allontanare la gente dalla
filosofia, ma, come nel resto, così anche nel corpo, ci si deve mostrare ilari e
imperturbati. «Vedete, uomini, che niente possiedo e di niente ho bisogno:
vedete come senza casa, senza patria, addirittura esiliato, all'occorrenza, e
senza un focolare, io viva più imperturbato e sereno di tutti gli eupatridi e dei
ricchi. E guardate anche il mio corpo, che non è affatto sfigurato dall'austero
regime di vita.» Se, però, questo me lo dicesse uno dal portamento e dalla
faccia di condannato, qual dio mi persuaderebbe ad accostarmi alla filosofia,
se riduce in tale condizione? Non sia mai: non vorrei, dovessi pure diventare
un saggio.
Da parte mia, per gli dèi, preferisco che il giovane che muove i primi passi
verso la filosofia, mi si accosti ben pettinato più che coi capelli trascurati e in
disordine. Si scorge in lui una qualche idea del bello, un desiderio di decoro.
Naturamente, dove ritiene che sia, ivi dirige i suoi sforzi. Non rimane che
suggerirgli dov'è e dirgli: «Giovinetto, tu cerchi il bello e fai bene. Sappi,
dunque, che cresce dove hai la ragione: cercalo dove hai gli impulsi e le
repulse, dove hai i desideri e le avversioni. Ecco l'elemento speciale che è in
te: il povero corpo è per natura fango. A che ti ci affatichi intorno senza
scopo? Se non altro, conoscerai col tempo che è nulla.» Ma se mi si accosta
uno lordo di sterco, sordido, la barba fino alle ginocchia, che gli posso dire?
A quale uguaglianza fare appello per istradarlo? C'è un oggetto equivalente al
bello intorno a cui ha speso le sue cure, perché io lo trascini altrove e gli dica:
«Non è là il bello, ma qui.»? O vuoi che gli dica: «II bello non consiste
nell'essere lordo di stereo, ma nella ragione»? A che scopo? Sente il desiderio
del bello? ne reca in sé un'impronta? Va' a dire al maiale che non si rivolti nel
brago! I discorsi di Senocrate riuscirono a toccare Polemone proprio perché
era un giovane entusiasta del bello: gli si era accostato bruciando dal
desiderio del bello, ma lo cercava altrove.
E poi neppure gli animali che vivono con gli uomini la natura li ha fatti
sordidi. Il cavallo si voltola forse nel brago? O il cane generoso? No, ma il
maiale e le oche fetide e i vermi e i ragni che sono stati assolutamente posti in
bando dalla convivenza umana. E tu, che sei uomo, non vuoi essere neppure
uno degli animali che vivono insieme all'uomo, ma un verme o un ragno?
Non ti laverai, dunque, talvolta, in qualsiasi modo vorrai? non ti pulirai? se
non con l'acqua calda, con quella fredda. Non ti presenterai pulito per la gioia
di chi ti sta vicino? Ma entrerai con noi in quell'arnese anche nei templi, dove
è sacrilegio sputare e soffiarsi il naso, tu che sei tutto sputo e moccio?
Che dunque? Chi dice di abbellirsi? Non sia mai, a meno che non abbelliamo
quel che è la nostra vera natura, la ragione, i giudizi, le azioni: il corpo,
invece, nei limiti della pulizia, nei limiti del rispetto per gli altri. Ma se senti
che non bisogna portare vesti cremisine, va via, imbratta di sterco il tuo pallio
o fallo a pezzi. — «Ma da dove mi viene un bel pallio?» — Uomo, hai
l'acqua, lavalo. Ecco un giovane amabile, ecco un vecchio degno di amare e
di essere corrisposto nel suo amore, al quale si può affidare un figlio per farlo
ammaestrare, dal quale si recheranno fìglie e giovinetti, perché,
all'occorrenza spieghi le sue lezioni in mezzo al letame. Non sia mai! Ogni
aberrazione deriva da qualche principio che è nella natura umana, ma è ben
lontana d'avere in sé qualcosa di umano.

SULL’ATTENZIONE

Se rallenti per un po' l'attenzione, non immaginarti di poterla riprendere


quando vuoi: piuttosto, abbi bene in mente che per l'errore di oggi la tua
condizione necessariamente peggiorerà sotto ogni altro rispetto. In primo
luogo — ciò ch'è più grave di tutto — ti si attacca l'abitudine di non prestar
attenzione, poi l'abitudine di differire l'attenzione, e così ti abitui a rimandar
sempre d'uno in altro giorno la serenità, una condotta dignitosa, una maniera
di comportarsi e di vivere conforme a natura. Che se il rimandarle ad altro
tempo è utile, rinunciarvi del tutto è più utile ancora: ma se non è utile,
perché non stai continuamente attento? «Oggi voglio giocare.» Ebbene? che
cosa proibisce di farlo con attenzione? —
«Voglio cantare.» Che cosa proibisce di farlo con attenzione? Si può
eccettuare una parte sola della vita, a cui non si estenda l'attenzione? Come,
la renderai peggiore con l'attenzione, migliore senza attenzione? E quale altra
azione, di quelle che formano la vita umana, si compie meglio da chi non fa
attenzione? Il falegname, quando non è attento, lavora con più precisione? E
il timoniere, quando non è attento, governa la nave con più sicurezza? E qual
altro lavoro, tra quelli di minore importanza, riesce meglio con la
disattenzione? Non t'accorgi che, quando hai rilassato la mente, non è più in
tuo potere richiamarla al decoro, alla verecondia, alla modestia? Anzi,
qualunque cosa ti passa per la testa, la fai, tenendo dietro ai capricci.
«A quali cose, allora, devo prestar attenzione?» — «In primo luogo, alle
regole generali: averle a portata di mano, e senza esse non andare a dormire,
non alzarsi, non bere, non mangiare, non frequentare gli uomini. Eccole:
nessuno è padrone dell'altrui persona morale: in essa sola risiede il bene e il
male. Nessuno, dunque, è padrone di procurarmi il bene o di gettarmi nel
male, ma io stesso, solo io, sotto questo riguardo, ho autorità su di me.
Perciò, quando questi punti sono ben saldi in me, in che posso essere turbato
dagli oggetti esterni? quale tiranno mi metterà paura? quale malattia? quale
povertà? Quale offesa?» — «Ma non sono piaciuto a quel tale.» — «E quegli
è forse opera mia? è forse un mio giudizio?» — «No.» — «Che me ne
interessa più?» — «Ma sembra che sia qualcuno.» — Se la vedrà lui e quelli
a cui sembra tale: io ho a chi devo piacere, a chi star soggetto, a chi obbedire:
a Dio, e, dopo lui, a me. Egli mi ha raccomandato a me stesso, e la mia
persona morale ha assoggettato a me solo, mi ha dato regole per usarne
rettamente — e quand'io le seguo, non mi curerò più di chiunque coi
sillogismi dice altrimenti, più non baderò a chiunque lo fa cogli argomenti
equivoci.
Perché, dunque, in questioni di maggior peso chi mi critica m'infastidisce?
Qual è il motivo di tale turbamento? Nessun altro se non che in questo campo
non sono esercitato. Ogni scienza, in realtà, disprezza l'ignoranza e gli
ignoranti — e non solo le scienze, ma anche le arti. Prendi un qualunque
calzolaio — e si metterà a ridere della gente, per quanto riguarda il suo
mestiere: e così un qualunque falegname.
In primo luogo, quindi, questi princìpi bisogna aver tra le mani e niente fare
prescindendo da essi: anzi, si deve tendere l'animo a questo fine, a non
inseguire nessuna delle cose esterne, nessuna delle cose altrui, ma, come ha
stabilito chi ne dispone, quelle che dipendono dalla libera scelta a ogni costo,
le altre nel modo che ci è concesso. Oltre ciò, bisogna ricordare chi siamo e
che nome abbiamo, e cercare di regolare i doveri sulle esigenze delle
relazioni sociali: quale il tempo del canto, quale il tempo del gioco e alla
presenza di chi: quale la conseguenza dell'azione onde i nostri amici non
disprezzino noi o noi loro: quando conviene celiare e di chi ridere: in quale
occasione bisogna entrare in rapporto cogli altri e con chi; infine, come
bisogna in tali rapporti mantenere la propria dignità.
Ma se ti staccherai da uno di questi princìpi, ecco subito il danno, e non dal
di fuori, ma dalla tua stessa azione.
E dunque? è possibile senz'altro evitare le cadute? No, con nessun mezzo,
ma è possibile essere continuamente intenti a evitare le cadute. Perché c'è da
contentarsi se, non rilassando mai l'attenzione, riusciremo a tenerci lontano
per lo meno da un piccolo numero di cadute. Adesso, invece, quando dici:
«Domani starò attento» sappi che con ciò affermi: «Oggi sarò spudorato,
importuno, meschino: sarà in potere di altri recarmi dolore: andrò in collera,
oggi: sarò invidioso».
Guarda quanti mali ti tiri addosso. Ma se domani ti conviene stare attento,
quanto più oggi! Se domani fa comodo, molto più oggi, in modo che anche
domani possa continuare ad esserlo, senza rimandarlo a dopodomani.

A CHI PARLA TROPPO LEGGERMENTE DELLE SUE COSE

Quando crediamo che qualcuno ci abbia parlato con franchezza delle sue
cose, siamo spinti, in certo senso, ad aprirgli anche noi i nostri segreti — e lo
riteniamo franchezza: prima, perché ci sembra ingiusto aver udito le cose del
vicino e, in cambio, non metterlo a parte delle nostre, poi, perché riteniamo di
non dare a loro l'impressione che siamo uomini franchi, tacendo i nostri affari
personali. E, certo, spesso si è soliti dire: «Io t'ho detto tutte le mie cose, tu
non vuoi dirmi niente delle tue? Come va questo?» Si aggiunge anche la
convinzione che ci fidiamo in tutta sicurezza di chi ci ha già confidato le sue
faccende: e in realtà, s'insinua in noi il pensiero che quegli non svelerà mai i
nostri affari, nel timore che anche noi non sveliamo i suoi. A questo modo
viene ingannata in Roma dai soldati la gente facilona. Ti siede vicino un
soldato, in abito civile, e incomincia a dir male di Cesare: allora tu, quasi
avessi ricevuto da lui il pegno della sua buona fede per avere proprio lui
iniziato a sparlare, dici, a tua volta, quel che pensi: poi legato, ti portano in
galera. Più o meno simile è l'atteggiamento generale di noi uomini. Ma per il
fatto che quegli in tutta sicurezza mi ha confidato i suoi affari, io non sono
tenuto a comportarmi allo stesso modo con chiunque incontro. Io, in realtà,
dopo avere ascoltato, me ne sto zitto, se sono una persona a modo: quello,
invece, uscito fuori, lo divulga a tutti. Allora, se vengo a conoscenza
dell'accaduto e sono simile a lui, per desiderio di vendetta, divulgo i suoi
affari e così lo rovino e mi rovino.
Se però ricordo che nessuno danneggia un altro, ma che sono le nostre azioni
a danneggiarci o a giovarci, ottengo questo di certo, di non comportarmi nei
suoi riguardi come lui, e tuttavia soffro quel che soffro per la mia loquacità.
E va bene: ma è ingiusto che, ascoltati i segreti del vicino, non gliene
comunichi, a tua volta, qualcuno dei tuoi. — T'ho invitato io a quelle
confidenze, uomo? O m'hai svelato le tue cose a determinate condizioni, di
ascoltare, cioè, a tua volta, le mie? Se tu sei loquace e ritieni amici tutti quelli
che incontri, vuoi che anch'io ti somigli? E poi, se tu m'hai confidato a
ragione le tue cose, mentre non c'è ragione di confidarle a te, vuoi che io
agisca sconsideratamente? È come se io avessi un vaso ben sano, tu, invece,
forato e, venuto a visitarmi, deponessi da me il tuo vino perché io lo versassi
nel mio vaso e poi ti indignassi con me perché io non ti affido il mio vino:
certo, il vaso che hai è forato. Come può esserci ancora uguaglianza? Tu l'hai
deposto presso un uomo leale, verecondo, che ritiene dannose o giovevoli
solo le sue attività, e nessuno degli oggetti esterni: e vuoi che io l'affidi a te, a
un uomo che ha dispregiato la sua persona morale, che cerca di far quattrini o
di ottenere una carica o una promozione a corte, dovessi anche sgozzare i
figli tuoi come Medea? Dov'è l'uguaglianza? Ma via: mostramiti fedele,
verecondo, costante; mostra che i tuoi giudizi sono amorevoli, mostra che il
tuo recipiente non è forato e vedrai che non aspetterò più le tue confidenze,
ma verrò io stesso da te e ti inviterò ad ascoltare le mie. E, in realtà, chi non
vuole usare un recipiente bello? chi disprezza un consigliere benevolo e
leale? chi non accetterà di buon grado uno che vuole condividerne le
difficoltà, come si fa con un peso, che vuole renderle più leggere, proprio in
quanto le condivide?
Sì, ma io mi fido di te, tu di me non ti fidi. — In primo luogo neppure tu ti
fidi di me, ma sei loquace e per ciò non puoi trattenere niente. Che se è così,
affidale a me solo. Ora, invece, chiunque vedi ozioso, gli siedi accanto e gli
dici: «fratello, non ho nessuno più benevolo né più caro di te: ti prego, ascolta
i miei affari». E agisci così anche con gente che non conosci nemmeno un
po'. Ma se ti fidi di me, è chiaro che lo fai in quanto io sono uomo leale e
verecondo e non perché t'ho svelato le mie cose. E allora lascia che anch'io
pensi lo stesso di te. Mostrami che se uno ha svelato a un altro le sue cose è
perciò stesso leale e verecondo. Se così fosse, andrei attorno a dire le mie
cose a tutti gli uomini, se per questo dovessi essere leale e verecondo. Ma la
cosa non sta in questi termini: per essere tale, c'è bisogno piuttosto di giudizi
e non di giudizi a caso. Se vedi uno che si preoccupa di cose indipendenti
dalla sua libera scelta e ad esse assoggetta la sua persona morale, sappi che
quest'uomo ha infinite persone che lo ostacolano, che lo impediscono. Non
c'è bisogno di pece o di ruota per fargli svelare quel che sa, ma il cenno di
una ragazzetta, all'occorrenza, lo scuoterà, la cortesia di un cesariano, la
brama di una carica o di una eredità, trentamila altre cause simili a queste.
Bisogna dunque ricordare, in generale, che i segreti esigono fede e giudizi di
tal genere. Ma adesso, dove si possono trovare facilmente?
Mi si mostri un uomo in condizione da dire: «A me stanno a cuore solo le
mie cose, che non sono soggette a
impedimenti, che sono per natura libere: questa, che è la vera natura del
bene, io la posseggo: il resto, venga come Dio vuole: per me non ha
importanza».

FRAMMENTI E TESTIMONIANZE

« Che m'importa, dice Epitteto, se le cose che esistono sono formate di atomi
o di indivisibili o di fuoco e di terra?
Perché, non basta conoscere la vera natura del bene e del male, le norme dei
desideri e delle avversioni, degli impulsi e delle repulse e di ordinare su di
esse, come su regole, la condotta della vita e tralasciare quante cose sono al
di là di noi?
Queste c'è caso siano incomprensibili alla mente umana: e se pure se ne
ammettesse la piena comprensibilità, che utilità deriverebbe da tale
comprensione? Non si deve dire, quindi, che si affannano senza scopo quanti
le assegnano come necessarie all'indagine del filosofo?» — «È forse
superfluo anche il precetto di Delfì, conosci te stesso?» — «Questo, davvero,
no, dice.» «E che significa? Se si ordinasse a un coreuta di conoscere se
stesso, non baderebbe costui all'ordine, prestando attenzione ai compagni del
coro e accordando il suo canto al loro?» — «Certo.» — «E nel caso di un
navigante? o d'un soldato? Ti sembra che l'uomo sia stato fatto per vivere da
solo o per la comunità?» — <«Per la comunità.»> — «Da chi?» — «Dalla
natura.» — «E che sia la natura e come governi l'universo, e se realmente
esista o no, sono questioni di cui non bisogna preoccuparsi». Chi è scontento
di quel che ha e che gli è stato dato dalla fortuna, è un estraneo nella vita,
mentre chi sopporta tutto ciò con nobile spirito e fa un uso ragionevole di
quanto ne deriva, merita di essere ritenuto uomo buono.
Tutto obbedisce e serve al Cosmo, la terra, il mare, il sole e gli altri astri e le
piante e gli animali della terra; gli obbedisce anche il nostro corpo che
s'ammala e si guarisce quando il Cosmo vuole, che fiorisce e s'invecchia e
passa attraverso ogni altro mutamento. È dunque ragionevole che quel che è
in nostro potere, cioè la decisione della volontà, non gli si opponga, essa sola:
perché il Cosmo è potente e superiore a noi e decide, nei nostri riguardi,
meglio di noi, facendoci rientrare insieme all'universo nella sua
amministrazione. Oltre ciò, l'opposizione a lui, che rappresenta un'alleanza
con l'irragionevole e non approda ad altro che a una lotta vana, ci fa incorrere
pure in pene e in dolori.
Delle cose esistenti, Dio ne ha poste alcune in nostro potere, altre no. In
nostro potere Egli ha posto la più bella e la più importante, per la quale Egli
stesso è felice, l'uso delle rappresentazioni. Quando quest'uso si esercita
rettamente si ha libertà, serenità, tranquillità, sicurezza: si ha pure giustizia,
legge, padronanza di sé e ogni virtù. Tutte le altre cose non le ha poste in
nostro potere. Quindi, bisogna che anche noi siamo consenzienti con Dio e,
divisi gli oggetti secondo la sua veduta, cerchiamo di ottenere in ogni modo
quelli che sono in nostro potere, gli altri, che non lo sono, lasciamo al cosmo,
e gli cediamo volentieri, qualunque cosa chieda, siano figli, sia patria, sia
corpo o simili.

La frase di Licurgo il Lacedemone, chi di noi non l'ammira? Accecato d'un


occhio da un suo concittadino, potendo disporre del giovane che il popolo gli
aveva consegnato perché si vendicasse a suo piacere, se ne astenne, gli diede
un'educazione e, fattolo uomo a modo, lo presentò in teatro. Siccome i
Lacedemoni erano sorpresi, disse: «Costui l'ho preso da voi tracotante e
violento, ve lo restituisco garbato e cortese.»

Ma soprattutto è opera della natura collegare e armonizzare l'impulso a quel


che si concepisce conveniente e utile.

Ritenere che saremo spregevoli agli altri, se non offendiamo in ogni modo i
primi nemici che ci capitano, è proprio di uomini estremamente ignobili e
dissennati. Perché diciamo in genere che l'uomo spregevole si riconosce tra
l'altro dalla sua inettitudine a offendere: ma molto più si riconosce dalla sua
inettitudine a far del bene.

Perché tale era, è e sarà la natura dell'universo e non è possibile che le cose
che vengono all'essere ci vengano in maniera diversa dall'attuale. A tale
mutamento e trasformazione non soltanto gli uomini partecipano e gli altri
esseri terrestri ma anche quelli divini, e per Zeus, gli stessi quattro elementi si
mutano e si trasformano secondo una direzione in su e una in giù, e la terra
diventa acqua e l'acqua aria e questa a sua volta si trasforma in etere: uguale è
il processo di trasformazione dall'alto in basso. Chi cerca di volgere la sua
mente a queste cose e di persuadersi ad accettare di buon animo quel che
deve necessariamente accadere, trascorrerà una vita molto moderata e
armoniosa.

Un filosofo rinomato nella scuola stoica... trasse dal suo bagaglio il quinto
libro delle Diatribe del filosofo Epitteto, redatte da Arriano e conformi, senza
dubbio, agli scritti di Zenone e di Crisippo. In quel libro, naturalmente in
greco, si legge un brano del seguente tenore: «Le rappresentazioni dell'animo
da cui lo spirito dell'uomo è subito colpito non appena le apparenze d'un
oggetto giungono all'animo, non dipendono dalla volontà né dall'arbitrio, ma
s'impongono di forza alla coscienza dell’uomo. Al contrario, gli assensi che
trasformano tali rappresentazioni in conoscenze, sono volontari e dipendono
dall'arbitrio dell'uomo. In conseguenza, quando si produce un rumore
terrificante o in cielo o in seguito a uno scoscendimento, quando si diffonde
la notizia improvvisa di non so quale pericolo e succede qualche altro fatto
dello stesso genere, anche l'animo del saggio dev'essere scosso, deve
angustiarsi e impallidire: ma non è effetto della previsione d'un male — si
tratta di movimenti rapidi e irriflessi che prevengono l'esercizio del pensiero
e della ragione. Tuttavia, il saggio, tali rappresentazioni terrificanti giunte al
suo animo, rifiuta subito di accettarle ma le rigetta e le ripudia né ritiene vi
sia in esse qualcosa da temere. E proprio questa dicono sia la differenza tra
l'anima dell'insensato e quella del saggio, e cioè l'insensato considera davvero
terribili e spaventose le cose quali gli si sono presentate alla prima
impressione — e così pure le azioni — e, come se fossero davvero temibili,
da loro il suo assenso: il saggio, invece, dopo essersi mutato per un attimo e
leggermente nel colore del volto, rifiuta l'assenso, ma rimane fortemente
attaccato all'opinione che s'è fatto di queste rappresentazioni che cioè non
hanno assolutamente niente di terribile e che presentano solo una vana
apparenza di terrore e costituiscono una paura illusoria.
Ecco quel che pensa e dice il filosofo Epitteto, conforme alla dottrina stoica
come abbiamo letto nel libro che ho citato.

Ho sentito dire da Favolino che il filosofo Epitteto la maggior parte di


costoro che s'atteggiano a filosofi, li chiamava filosofi non a fatti, ma a
chiacchiere. Ed ecco un'espressione ancora più forte ch'egli soleva ripetere e
che si trova nei libri delle Diatribe raccolte da Arriano. «Quando s'accorgeva
— egli dice — che un uomo senza pudore, dalla condotta sregolata, dai
costumi corrotti, provocatore, pieno di iattanza nel parlare, di tutto
preoccupato fuorché dell'anima, quando, dunque, vedeva che un siffatto
uomo si dava alle questioni e agli studi dei filosofi, si accingeva alla fìsica,
meditava sulla dialettica, esaminava e investigava molti princìpi teoretici di
questo genere, allora invocava la testimonianza degli dèi e degli uomini e
spesso nel procedere della requisitoria lo apostrofava con tali parole: «Uomo,
dove lo riponi questo? guarda se il vaso è pulito. Perché se lo riponi sulla tua
presunzione, è perduto — e se va a male, diventa orina o aceto o qualcosa di
peggio ancora». In realtà, niente è più forte di queste parole, niente più vero:
con esse il grandissimo filosofo intendeva mostrare che quando la cultura e le
cognizioni fìlosofìche entrano in un uomo furbo, in un carattere degenerato,
si mutano, cambiano d'aspetto, si corrompono, come fossero in un vaso
sporco e impuro o, per usare le sue espressioni più ciniche, diventano orina o
qualcosa più schifosa ancora dell'orina.
Lo stesso Epitteto, come ho udito dal medesimo Favorino, soleva dire che i
due difetti di gran lunga più gravi e spregevoli sono la mancanza di
sopportazione e l’intemperanza, qualora non sopportiamo né tolleriamo i torti
che si devono sopportare o non ci asteniamo dagli oggetti e dai piaceri da cui
dobbiamo astenerci. «Perciò, diceva, se uno si mettesse bene in testa queste
due parole e si sforzasse di applicarle per regolare e governare la propria
condotta, costui sarebbe sempre libero da falli e vivrebbe una vita
estremamente tranquilla. Ecco le due parole: sopporta e astienti.»

Quando si tratta della salvezza dell'anima e del rispetto per noi stessi, bisogna
pur fare qualcosa senza troppo pensarci, — un'espressione di Epitteto che
Arriano riferisce e approva.

Ma quando Archelao mandò a chiamare Socrate col proposito di arricchirlo,


quello gli fece rispondere: «Ad Atene quattro chenici di farina costano un
obolo e le fontane buttano acqua». Perché, se le mie cose non mi contentano,
io mi contento di esse, e così anch'esse contentano me. Non vedi che Polo,
dovendo sostenere la parte di Edipo re, non sfoggiava voce più bella né
mostrava più gioia di quando doveva sostenere la parte di Edipo a Colono,
vagabondo e pezzente? E l'uomo generoso si mostrerà inferiore a Polo e non
rappresenterà bellamente qualunque parte la divinità vorrà assegnargli? E non
imiterà Odisseo che in mezzo agli stracci non risplendeva meno che nel
villoso manto di porpora?

Ci sono taluni di nobile sentire che compiono garbatamente, con calma e


quasi senza collera azioni che compiono anche uomini trascinati da un'ira
eccessiva. Bisogna evitare pure l'errore di costoro, giacché è molto peggio
d'un violento scoppio di collera. Infatti, quelli che scoppiano in collera, si
saziano subito della vendetta, gli altri, invece, la prolungano per molto
tempo, come chi è affetto da febbri leggere.

«Eppure, dice qualcuno, io vedo che gli uomini di perfetta virtù muoiono di
fame e di freddo». E quelli che non sono di perfetta virtù, non vedi che
muoiono per la lussuria, per l'arroganza, per l'ignoranza del bello e del
buono? «Però è vergognoso farsi nutrire da altri.» Miserabile sciocco, chi si
nutre da sé all'infuori del Cosmo? Quindi chi accusa la provvidenza perché i
cattivi non pagano il fio delle loro malvagità, perché sono potenti e ricchi, fa
come chi dicesse che quelli, pur avendo perduto un occhio, non hanno pagato
il fio delle loro malvagità perché le loro unghie sono in buone condizioni.
Secondo me, tuttavia, tra virtù e ricchezze c'è una differenza molto maggiore
che tra occhi e unghie.

...e mettono avanti quegli intrattabili filosofi, per i quali il piacere non è
conforme a natura, ma si aggiunge alle cose conformi a natura, alla giustizia,
alla saggezza, alla libertà. Ma perché l'anima, come dice Epicuro, gode e si
quieta nei beni del corpo, per quanto siano così piccoli, e non trova il suo
piacere nei beni suoi propri, che sono tanto grandi?
Eppure la natura mi ha dato il senso del pudore e spesso arrossisco quando
m'accorgo di dire una sconcezza. È proprio tale emozione che non mi fa
ammettere il piacere come bene e fine della vita.

A Roma le donne hanno tra le mani la Repubblica di Platone perché


propugna la comunanza delle donne. In realtà, esse badano alle parole, non
all'intenzione dell'autore, perché egli vuole tale comunanza, non in quanto
ammette il matrimonio e la coabitazione dell'uomo e della donna, ma in
quanto toglie di mezzo siffatta forma di nozze e ne introduce un'altra. E in
generale, gli uomini godono nel trovare attenuanti ai loro difetti. Eppure la
filosofia ammonisce che neanche un dito bisogna allungare a caso.

Bisogna sapere che non è facile per l'uomo acquistarsi un giudizio stabile a
meno che giorno per giorno non dica e ascolti gli stessi princìpi e, insieme, li
applichi alla vita.

Invitati a un banchetto, prendiamo quel che ci viene servito: se uno chiedesse


all'ospite di offrirgli pesce o dolci farebbe la figura di eccentrico. Invece nel
banchetto del mondo chiediamo agli dèi quel che non danno, nonostante le
molte cose che ci hanno dato.

Sono proprio graziosi, egli disse, quelli che vanno in superbia per le cose
indipendenti da noi. Uno dice: «Sono superiore a te perché possiedo tanti
campi, mentre tu ti torci per la fame». Dice un altro: «Sono stato console.» E
un altro: «io sono procuratore.» Un altro: «Io ho una folta capigliatura». Ma
un cavallo non dice a un cavallo: «Sono superiore a te perché ho tanto fieno e
tanto orzo e le briglie d'oro e i finimenti variopinti», bensì perché «sono più
veloce di te». E ogni essere è superiore o inferiore a un altro in rapporto alla
sua particolare capacità o incapacità. Ora, l'uomo soltanto non ha una
capacità sua propria, e dobbiamo ricorrere ai capelli, ai vestiti, agli antenati?

Quando il medico non prescrive niente, i pazienti se la prendono con lui e


ritengono che disperi di loro. E perché uno non dovrebbe pensare lo stesso di
un filosofo, ritenere cioè che disperi di condurlo a saggezza se non gli da
nessun avvertimento utile?
Chi ha il corpo ben disposto, resiste al caldo e al freddo; così pure chi ha
l'anima in buone condizioni, sopporta l'ira, la tristezza, la grande gioia e ogni
altra emozione.

Per questo motivo è giusto lodare Agrippino, che, sebbene fosse un uomo
degno di moltissima considerazione, non si lodò mai, anzi arrossiva, se altri
lo lodava. Aveva un carattere siffatto che quando gli capitava una difficoltà,
ne tesseva l'elogio: della febbre, se aveva la febbre, dell'infamia, se era
colpito dall'infamia, dell'esilio, se era esiliato. Una volta, continuò, in
procinto di andare a pranzo, gli si avvicinò uno dicendogli che Nerone gli
imponeva di partire per l'esilio. E lui «Bene, replicò, pranzeremo ad Ariccia».

Quando Agrippino era governatore, cercava di persuadere quanti condannava


che conveniva ad essi subire la condanna.
Perché, soleva dire, non dò questa sentenza da nemico o da brigante, bensì da
capo e da custode — proprio come il medico esorta chi viene operato e lo
persuade a sottomettersi all'atto operatorio.

Mirabile è la Natura e, come dice Senofonte, «amante delle creature». Il


nostro corpo che è di tutte la cosa più sgradevole e sordida, l'amiamo e lo
curiamo; perché se dovessimo curare il corpo del vicino solo per cinque
giorni, non resisteremmo. In realtà, guarda quant'è pesante la mattina, appena
alzato, lavare i denti d'un altro e, dopo che ha compiuto i bisogni naturali,
pulire certe parti! In verità, è ammirevole amare una cosa alla quale
prestiamo tanti servigi, giorno per giorno. Riempio questa sacchetta, poi la
vuoto: che c'è di più gravoso? Ma io devo servire Dio. Per ciò rimango e mi
adatto a lavare questo miserabile corpo, a nutrirlo, a coprirlo: quand'ero più
giovane, mi aveva ordinato anche qualche altra cosa e, nonostante tutto, mi ci
adattavo. E perché, quando la Natura che ce l'ha dato, si riprende il corpo,
non vi ci adattate? — Perché gli voglio bene, dice uno. — Ma questo stesso
amore, come dicevo poco fa, non è stata la Natura a dartelo? Ed essa stessa
dice: «Lascialo ormai, il corpo, e non soffrire più.»

Se muore uno giovane, biasima gli dèi, (perché muore giovane. Se uno
vecchio non muore, biasima anch'egli gli dèi) perché, potendo una buona
volta riposare, soffre ancora: nondimeno quando si presenta la morte, vuol
vivere e manda a chiamare il medico e lo prega di non risparmiare né zelo né
cura. Strani tipi, soleva dire, che non vogliono né vivere né morire.

Prima di attaccare qualcuno con veemenza e minacce, ricorda di dirti che sei
un essere mite. Così non compirai nessun atto violento, e vivrai senza
pentimenti e senza colpe.

Sei un'animuccia che porta un cadavere, come soleva dire Epitteto.

Bisogna trovare — dice Epitteto — l'arte dell'assenso e, nel luogo che tratta
degli impulsi, dice che bisogna mantenere ben desta l'attenzione perché siano
guidati dalla dovuta riserva, perché siano utili alla comunità, perché siano
proporzionati al valore oggettivo delle cose: dice ancora che dal desiderio
bisogna astenersi del tutto, e dell'avversione non valersi rispetto alle cose che
non sono in nostro potere.

La posta della gara non è una cosa qualunque: si tratta di essere pazzi o no.

Diceva Socrate: «Che cosa volete? avere anime di creature ragionevoli o


irragionevoli?» «Di creature ragionevoli.» — «E di quali creature
ragionevoli? Sane o stolte?» — «Sane.» — «E perché allora non le cercate?»
— «Ma le abbiamo.» — «E perché allora vi contraddite e discordate tra
voi?».

«Oh me infelice, che m'é accaduta questa disgrazia!» Nient'affatto! Piuttosto:


«Me felice! m'è accaduta questa disgrazia, eppure io continuo a vivere senza
dolori; non sono colpito dal presente né temo il futuro». Un tale caso poteva
capitare a tutti, ma non tutti, con un tale caso, avrebbero seguitato a vivere
senza dolori. E perché poi quella cosa è sfortuna più che quest'altra fortuna?
In sostanza, dici sfortuna dell'uomo ciò che non rappresenta un'imperfezione
della natura dell'uomo? E imperfezione della natura dell'uomo è, secondo te,
ciò che in realtà non è contro il volere della sua stessa natura? E dunque?
Questo volere l'hai appreso. Forse quel che ti è capitato t'impedisce di essere
giusto, magnanimo, temperante, saggio, prudente, sincero, riservato, libero,
etc? E la presenza di queste virtù non fa sì che la natura dell'uomo possieda
pienamente tutto quel che le è proprio?
Del resto, qualsiasi caso ti possa trascinare nel dolore, ricorda di usare questo
principio: «Non è sfortuna, questa: ma il sopportarla nobilmente è una
fortuna».

In ogni circostanza non pensare a niente come alla tua sicurezza, perché è più
sicuro il tacere del parlare: tralascia, quindi, di dire ciò che non ha senso ed è
pieno di biasimo.

Né una nave si può fissare a un'ancora sola né la vita a una sola speranza.

Secondo le gambe e le speranze si deve misurare il possibile.

È più necessario curare l'anima che il corpo, perché la morte è meglio d'una
vita cattiva.

Ci danno la gioia più grande i piaceri che capitano rarissimi.

Se si oltrepassa il limite, le cose più gradevoli diventano le più sgradevoli.

Non c'è uomo libero che non domini se stesso.

Cosa immortale è la verità ed eterna e non ci offre una bellezza che col tempo
si spegne né una libertà di parola che la giustizia può togliere, ma ciò ch'è
giusto e legale e da questo distingue quel che è ingiusto e lo ripudia.

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