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Francesco Mosetti Casaretto

UNIBOS E IL «PIO BOVE»

T’amo, o pio bove; e mite un sentimento,


Di vigore e di pace al cor m’infondi,
O che solenne come un monumento
Tu guardi i campi liberi e fecondi,
O che al giogo inchinandoti contento
L’agil opra de l’uom grave secondi:
Ei t’esorta e ti punge, e tu co ‘l lento
Giro de’ pazïenti occhi rispondi.
Da la la larga narice umida e nera
Fuma il tuo spirto, e come un inno lieto
Il mugghio nel sereno aër si perde;
E del grave occhio glauco entro l’austera
Dolcezza si rispecchia ampio e quïeto
Il divino del pian silenzio verde.
(Giosuè Carducci, Rime nuove, Il bove)

È l’immaginario1 la porta, che può spalcancarci l’età medievale. Per-


ché le immagini create, le immagini erette a simbolo, icona o allegoria,
traducono la struttura di pensiero di un’epoca e la rendono visibile, sve-
lando quale sia l’epicentro testuale delle sue associazioni. E che i Versus

de Unibove
2
– poema ritmico3 a carattere farsesco, di autore anonimo, ma
———
1. «L’immaginario fa parte del campo della rappresentazione. Ma vi occupa il posto della
traduzione non riproduttiva, non semplicemente trasposta in immagine dello spirito,
bensì creativa, poetica in senso etimologico» (J. Le Goff, L’immaginario medievale,
trad. it. a cura di Anna Salmon Vivanti, Roma-Bari, Laterza, 1988 [1985], p. VI).
2. L’opera è attestata con il titolo Versus de Unibove dal manoscritto Bruxelles, Bibliothè-
que Royale, 10078-10095, ff. 38v-42v, datato all’XI sec. Per un primo orientamento
bibliografico sul testo, cfr. B. K. Vollmann, «Unibos (Versus de Unibove)», in Die
deutsche Literatur des Mittelalters Verfasserlexikon, X, Berlin 1996, coll. 80-85.
Abbiamo utilizzato l’ed. critica a cura di F. Bertini - F. Mosetti Casaretto, La beffa di
Unibos, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2000. Le precedenti edizioni si devono a: J.

L’immagine riflessa, N.S. Anno XI (2002), pp.111-139.


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presumibilmente attivo, nella seconda metà dell’XI sec., nell’abbazia be-


nedettina di San Pietro di Gembloux4 – siano una sorta di complesso ca-
leidoscopio, dove la semiologia del testo e quella dell’immagine si inte-
grano e si sovrappongono, dando luogo a un fitto, nonché raffinatissimo,
gioco di sponda, è per noi un fatto ormai indubitabile5.
I Versus ricalcano, adottano e ri-traducono una consumata figura,
quella del contadino «scarpe grosse e cervello fino»6, che, fornito di natu-
rale scaltrezza, riesce a prevalere sul suo prossimo, ricorrendo a beffe e a
tranelli d’ogni sorta. Figura e schema aneddotico sono tipologici, ma pos-
siamo andare oltre e parlare di presunta «leggenda rurale» (folktale): ben
ottocentosettantacinque le varianti fabulatorie finora censite7, dovute, con

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Grimm-A. Schmeller, Lateinische Gedichte des X. und XI. Jahrhunderts, Göttingen,
Dieterich, 1838, pp. 354-380 (editio princeps); P. van de Woestijne, De Klucht van boer
Eenos naar een latÿnsch gedicht uit de 11° eeuw Versus de Unibove, Antwerpen 1944;
K. Langosch, Waltharius, Ruodlieb, Märchenepen, Basel, Stuttgart, 1956, pp. 252-305 e
pp. 379-382; A. Welkenhuysen, Het lied van boer eenos, Leuven University Press, 1975
(in due fascicoli); M. Wolterbeck, «Unibos. The Earliest Full-lenght Fabliau»,
Comitatus 16 (1985): 46-76; T. A.-P. Klein, «Versus de Unibove. Neuedition mit
kritischen Kommentar», Studi Medievali 32 (1991): 843-886.
3. Si tratta di 864 ottosillabi accentuativi a rima baciata (più spesso monosillabica: cfr. F.
Brunhölzl, Geschichte der lateinischen Literatur des Mittelalters, II. Band, s.l. 1992,
Histoire de la littérature latine du Moyen Age, trad. fr. a cura di H. Rochais, Turnhout,
Brepols, 1996, p. 264), per un totale di 216 strofe di quattro versi ciascuna.
4. Cfr. F. Mosetti Casaretto, «Il tempo curvo del contadino. Per una lettura qohèletica dei
Versus de Unibove», Studia Monastica 42 (2000): 109-112.
5. Cfr. F. Mosetti Casaretto, «Il riso come meccanismo: la pseudo-resurrezione nei Versus
de Unibove», in Actas del VIII Congreso Internacional de la Asociación Hispánica de
Literatura Medieval (Santander, 22-26 de Septiembre de 1999), Esplugues de Llobregat
2000, pp. 1353-1368; Id., «Il sermone rappresentato: i Versus de Unibove», in Predica-
zione e società nel Medioevo: riflessione etica, valori e modelli di comportamento, Atti
del Twelfth Medieval Sermon Studies Symposium (Padova, 14-18 VII 2000), Padova,
Centro Studi Antoniani, 2002, pp. 278-284; Id., «Una sfida al Lettore: i Versus de Uni-
bove», in Latin culture in the Eleventh Century. Proceedings of the Thrird International
Conference on Medieval Latin Studies (Cambridge, 9-12 September 1998), II,
Turnhout, Brepols 2002, pp. 153-186.
6. Così F. Bertini, «Il contadino medievale, ovvero il profilo del diavolo (una nuova inter-
pretazione dei Versus de Unibove)», Maia 47 (1995): 327 [ora anche in: Id., Interpreti
medievali di Fedro, Napoli, Liguori, 1998, pp. 111-128].
7. Cfr. F. Bertini, «Il contadino medievale, ovvero il profilo del diavolo», in Bertini - Mo-
setti Casaretto, La beffa, p. 10.
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ogni probabilità, al meccanismo di superfetazione caratteristico della tra-


dizione orale, nonché alla diversa localizzazione folklorica del mythos8.
Naturalmente, il fatto che tutte queste attestazioni derivino da una, più o
meno, riconoscibile matrice comune significa che il plot del contadino
ingannatore è (forse) un archetipo dell’immaginario medievale, non che le
stesse affabulazioni siano fra loro equivalenti. In una prospettiva erme-
neutica, infatti, simili apparentamenti hanno poca importanza; servono per
misurare la diaspora del modulo narrativo, seguirne il movimento e le
fluttuazioni, filtrare in negativo la qualità della distanza, che intercorre fra le
singole testimonianze; ma dal punto di vista del significato, dal punto di
vista del senso, che è l’oggetto precipuo del nostro interesse, ognuna di
queste testimonianze è e rimane un dispositivo semiotico indipendente: vale
in sé e per sé, risponde solo a se stessa ovvero risponde solo al peculiare
criterio informatore che ha voluto imprimerle colui che l’ha espressa. Ogni
rielaborazione è un adattamento del già scritto alla propria enciclopedia e
alla propria storicità; al mutare dell’autore muta il testo, perché muta
l’enciclopedia, il lettore presunto; mutano, in definitiva, le condizioni di
attualizzazione. Il che è ancor più evidente quando, come nel caso dei
Versus, una delle suddette attestazioni giunga, non solo alla stabilità
strategica della codificazione scritta, ma, addirittura, alla stabilità
strategica della codificazione in latino.
Ad oggi, i Versus de Unibove sono la sola versione nota del plot re-
datta in mediolatino. La qual cosa fa una notevole differenza. Nell’XI
sec., infatti, la scelta di veicolare il testo attraverso il latino individua un
autore e un destinatario qualitativamente molto ben definiti, quasi sempre
di segno ecclesiastico. Non a caso, studi indipendenti sul lessico e sul re-
troterra culturale dei Versus hanno dimostrato come:

1. il profilo dell’emittente sia quello di «un chierico», che ha «perfetta


padronanza» di «un materiale linguistico» di segno marcatamente biblico
e religioso9;

———
8. Cfr. su questo quanto in R. Gamberini, «Recensione a »,
La beffa di Unibos Schola Sa-

lernitana5-6 (2000-2001): 310-311.


9. G. La Placa, «I Versus de Unibove, un poema dell’XI secolo tra letteratura e folklore»,
Sandalion 8-9 (1985-1986): 288-291.
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2. il profilo del destinatario sia quello di «un ambiente colto e clericale»10;

3. la principale fonte ispiratrice del poema siano gli aforismi di


Qohèlet
11
, studiati a Gembloux – proprio negli stessi anni, in cui viene
datata la stesura dei ! – da Sigeberto, che compone un commento
Versus

all’ Ecclesiaste in esametri12 (ritrovato e pubblicato nel 1938 da André


Boutemy13).

Tutto questo ribadisce come, di fronte all’ , siamo ben lungi


Unibos

dalla mera traduzione latina di un racconto attribuito alla spontaneità


(presunta) della tradizione orale; in realtà, siamo ben 14
, al
Oltre il folklore

cospetto di una testimonianza di quel processo dinamico di riorganizza-


zione e di consolidamento dell’oralità, che la cultura scritta sviluppò in
vario modo durante l’epoca medievale (in particolare, proprio dai secoli
X-XI) e che ebbe, come conseguenza storica, la comparsa di opere lettera-
rie di genere favolistico, di latente provenienza folklorica, nelle quali tale
componente è ormai del tutto opacizzata ovvero non è più analizzabile in
quanto tale poiché risulta contaminata nella sua originaria purezza dalla
mediazione plastica e dalla capitalizzazione strategica di un autore colto15.

———
10. La Placa, «I Versus», p. 288.
11. Cfr. Mosetti Casaretto, «Il tempo curvo», passim.
12. Ne dà notizia egli stesso: «descripsi heroico metro Ecclesiasten, quem opere stromateo
tripliciter digessi, ad litteram, allegorice, mythologice» (Sigebertus Gemblacensis, De
scriptoribus ecclesiasticis, c. 171 (PL 160, col. 588).
13. Cfr. A. Boutemy, «Fragments d’une œuvre perdue de Sigebert de Gembloux (Le Com-
mentaire métrique de l’“Ecclesiaste”», Latomus 2 (1938): 196-220.
14. Cfr. Oltre il folklore. Tradizioni popolari e antropologia nella società contemporanea, a
c. di P. Clemente e F. Mugnaini, Roma, Carocci, 2001.
15. Il quale l’avrà irrimediabilmente manipolata, elaborata, accorciata, alterata, variata,
estesa allo scopo di creare un prodotto nuovo, dalla forte caratterizzazione letteraria; in
definitiva, allo scopo di creare il suo prodotto semiologicamente strategico e indipen-
dente, conforme alle sue prefissate esigenze progettuali, diverse, in tutto o in parte, dalle
motivazioni, dalla struttura e dalla strategia dell’eventuale palinsesto folklorico. Cfr. an-
che P. Zumthor, La lettera e la voce. Sulla letteratura medievale, trad. it. a cura di M.
Liborio, Bologna, Il Mulino, 1990 [1987], p. 47: «Ammettere che un testo, in qualsiasi
momento della sua esistenza, sia stato orale, significa prendere coscienza di un fatto sto-
rico che non si confonde con la situazione di cui esiste la traccia scritta, e che non appa-
rirà mai, nel senso proprio dell’espressione, davanti ai nostri occhi».
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Con i Versus de Unibove il mythos del contadino ingannatore entra nella


letteratura, ma ci entra come fabula (2.3: «Presentatur ut fabula»), termine
generico16 inequivocabile per la cultura altomedievale: «Fabulas poetae a
fando nominaverunt, quia non sunt res factae, sed tantum loquendo fictae
. . . quod totum utique ad mores fingitur ut ad rem, quae intenditur, ficta
quidem narratione, sed veraci significatione veniatur»17. Ciò significa che
con i Versus de Unibove un probabile luogo comune dell’oralità
medievale diventa fictio asservita alla traduzione di una latente verità.
Quale?
«Inimici consilia / non sunt credenda subdola / ostendit ista fabula /
per seculorum secula» (216.1-4). Ogni fabula ha una moralisatio, ma qui,
espressa con movenze pseudoliturgiche, non viene esposta una perla di
saggezza popolare, empirica; al contrario. La latente verità dei Versus de
Unibove è una sentenza dogmatica, culta, escatologica; messa in chiaro,
suona, più o meno, così: «ista fabula ostendit subdola consilia diaboli
omnino credenda non esse». Sì, diaboli. Perché «inimicus in una società
cristiana medievale non è una parola qualunque»18: inimicus est diabo-
lus19. Dunque, anche se «omnis homo mendax» (Ps. 115.11), Unibos «ex
patre diabolo [est] / ille homicida erat ab initio / et in veritate non stetit /
quia non est veritas in eo / cum loquitur mendacium ex propriis loquitur /
quia mendax est et pater eius» (Io 8.44). In definitiva, la proverbiale e
folklorica storiella del contadino ingannatore può entrare nel circuito della
letteratura mediolatina solo spandendo sul rusticus un certo qual sapore di
zolfo.
Obblighi figurativi o figure obbligate?
Nel Medioevo monastico il rapporto fra testo e immagine non è un
rapporto paritetico. Il testo domina l’immagine e può deformarla fino a
svuotarla di sé e a riempirla di altro-da-sé, fino a renderla un’allegoria,
che è un’immagine testualmente vincolata, un ologramma testuale. Come
il senso letterale nell’esegesi, così la percezione letterale del mondo esce
sconfitta dalla proiezione verso il trascendente della mistica medievale. Il
———
16. L’aggettivo si intende sempre nel senso di «riferito al genere».
17. Isidorus Hispalensis, Etymologiae, I 40 (Oxonii, W. M. Lindsay ed., 1911, I, pp. 80-81).
18. F. Bertini, «Il diavolo e il contadino», Abstracta 36 (1989): 60; in modo più articolato, il
giudizio viene ribadito dallo stesso autore in «Il contadino», pp. 339-41.
19. Mt 13.39: «inimicus autem . . . est diabolus»; cfr. anche Lc 10.17-19.
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Medioevo monastico è un Medioevo in fuga, scettico verso la storia; un


Medioevo paolino, che diffida della littera come della realtà. Per un
mondo scisso «tra Cielo e Inferno»20, l’immagine è una soglia o un
enigma, la cui decifrazione divide il sapiente dall’insipiente. «Principes
enim huius saeculi et simplices alii historiae superficie sunt contenti; triti-
cum enim et medullam, id est interiorem sensum, non intellegunt»21. In
questa dimensione vetrificata, di oggetti esposti e di messe a fuoco pro-
gressive, aforistiche, l’esercizio della vista diventa, inevitabilmente, un
exercitium semiologico.

Et eunt homines mirari alta montium et ingentes fluctus maris et latissimos lapsus fluminum et
Oceani ambitum et gyros siderum et relinquunt se ipsos nec mirantur, quod haec omnia cum
dicerem, non ea videbam oculis, nec tamen dicerem, nisi montes et fluctus et flumina et sidera,
quae vidi, et Oceanum, quem credidi, intus in memoria mea viderem spatiis tam ingentibus,
quasi foris viderem. Nec ea tamen videndo absorbui, / quando vidi oculis, nec ipsa sunt apud
me, sed imagines eo/rum, et novi, quid ex quo sensu corporis inpressum sit mihi.22

Esiste un intuire memoriale, non retinico; se associato al fenomenico,


può diventare visione metabolica del Creato, interna, e, in quanto tale, ap-
partenere alla cultura come ermeneutica e come gnosi. Quando si
esprime, questo percepire è necessariamente produttivo ed è, altrettanto
necessariamente, testuale: è il risultato di una predisposizione di tipo
agnitivo con il concreto. Né mere forme esteriori, né mere icone, dunque,
ma corpi come immagini come figure assorbite dalla testualità e ridise-
gnate nella mente; rappresentazioni, non del sogno, ma della veglia co-
sciente, che portano il segno di una trasmutazione attiva, sociologica del
reale. In questa prospettiva, ogni sovrascrittura diventa tipologia perché
ripetizione di uno stesso testo, iterato fino all’etichettamento. Nel Me-
dioevo monastico, ‘testo’ e ‘immagine’ sono spesso i poli di un passaggio
dall’oggettività alla soggettività; soggettività, che può essere collettiva,
come ‘sentimento del tempo’.

———
20. Cfr. L. Milis, Les moines et le peuple dans l’Europe du Moyen Age, s.l., Éditions Belin,
2002, Monaci e popolo nell’Europa medievale, trad. it. a cura di S. Arecco, Torino, Ei-
naudi 2003, p. 14.
21. Walahfridus Strabo, Glossa ordinaria, c. 12 (PL 113, col. 1251A).
22. Augustinus Aurelius, Confessiones, X 8.15.
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Il ‘testo’ è l’istruttore e il decodificatore dell’immagine, la quale viene


dopo l’oggetto e dopo il testo, in quanto prodotto di una specifica
elaborazione semantica. L’immagine ha – quasi sempre – una didascalia, un
retroterra automatico, già pronto; un trafiletto in corde, preparato per
orientarne e/o correggerne l’interpretazione. Opere come le Allegoriae in
universam sacram Scripturam di Rabano Mauro23 non sono un’enciclopedia:
sono un paio di occhiali certificato per guardare il mondo nella sua sostanza
concettuale, di là da ogni nebulosa parvenza.
Nel Medioevo monastico l’interpretazione dell’immagine è predispo-
sta ed è esclusiva. La fuga mundi è, in primo luogo, fuga dalle cose, si
concretizza in una trasmutazione ideologica del fenomenico24. Il mondo
come figura diventa un potenziale, immenso collegamento ipertestuale
per l’Infinito; le figure del mondo sono emblemi attivi, signa translata,
soglie iconiche per i viatores di una peregrinatio, che si esprime anche e
soprattutto come transcodificazione della storia. Un rapporto di riscrittura
cifrata, dunque, involontariamente promosso dall’unica lettura, che una
società mistica poteva dare di quel vedere «per speculum et in aenigmate»
(I Cor 13.12), che assicurò il primato dell’homo interior sull’exterior, del
vedere interiore sull’esteriore25; di più: della cecità come facoltà intuitiva
dell’occhio perfetto, che – inscritto «nell’ordine della carità»26 – non su-
bisce le abbaglianti rifrazioni del mondo e, per questo, può spingersi oltre,

———
23. Cfr. Hrabanus Maurus, Allegoriae in universam sacram Scripturam (PL 112, coll. 849-
1088).
24. «Lo sguardo sul mondo, modellato nel Medioevo dalla dottrina cristiana, implicava un
atteggiamento negativo nei confronti della materia ed era dunque improntato a un fon-
damentale pessimismo. Vigeva la convinzione che l’ideale della Creazione fosse scom-
parso. Il Male era prevalso, anche se l’uomo era stato creato buono. Il Male non era una
nozione, era soprattutto una realtà, di cui la Bibbia dettava una serie di rappresentazioni:
l’Inferno con i suoi diavoli – il Grande Nemico – e il suo fuoco, i loro inganni e le loro
imboscate, e la perpetuità della sofferenza per coloro che avevano seguito il consiglio
menzognero e devastante di Lucifero» (Milis, Les moines, p. 15).
25. «Homo. Et ecce corpus et anima in me mihi praesto sunt, unum exterius et / alterum in-
terius . . . Sed melius quod interius» (Augustinus Aurelius, Confessiones, X 6.10). Cfr.,
su questo, M. M. Davy, Initiation à la symbolique romane (XII siècle), Paris,
Flammarion, 1964 e 1977, in it. Il simbolismo medievale, trad. it. a cura di B. Pavarotti,
Edizioni Mediterranee, Roma 1988, pp. 71 ss.
26. Davy, Initiation, p. 73.
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può penetrare l’essenza dopo e nonostante il parvente27. È soprattutto (an-


che se non esclusivamente) attraverso Agostino, che il vedere intertestuale
giunge a una teorizzazione etica, per poi innestarsi sulla deriva neo-platonica
di un monachesimo votato integralmente alla dilectio Dei, all’amore di un
Cristo absidale e veterotestamentario da raggiungere oltre il muro
allucinatorio del finito28. Non serve il presupposto della società informatica
per generare The Matrix29: basta lo slancio rarefatto verso il cielo della
societas monachorum.
Iconodulo o iconoclasta che sia, dunque, il Medioevo monastico è
straordinariamente iconico: ha bisogno delle immagini perché illustrano
storicamente ciò, che solo il senso eletto del mistico (la vista cordis) può
intuire; il monaco si dispone a vedere, a conoscere vedendo, ad assimilare
in un’unica soluzione sostanze, che sono sapienziali illuminazioni e si
propongono alla conoscenza come figure emblematiche. Il problema del
Medioevo monastico con le immagini è un problema di Verità. La rela-
zione figurativa che il monachesimo medievale ha con la realtà è, sostan-
zialmente, una relazione di Verità, intesa come dato spirituale nascosto.
L’esistenza è binaria, spirito e carne sono insiemi contrapposti e inconci-
liabili; e per chi vuole passare indenne il vaglio della trascendenza, il pri-
mato deve essere, ovviamente, quello dello spirito (cfr. Rm 8.1-17; Gal
5.13-25; etc.). La percezione carnale (sensoriale) del mondo non è l’unica
percezione possibile; soprattutto, non è una percezione ispirata a un crite-
rio di verità. Il mondo come proiezione, i sensi come imperfetti trasdut-
———
27. «O lux, quam videbat Tobias, cum clausis istis oculis filium docebat vitae vitam et ei
praeibat pede caritatis nusquam errans; aut quam videbat Isaac praegravatis et opertis
senectute carneis luminibus, cum filios non agnoscendo benedicere, sed benedicendo
agnoscere meruit; aut quam videbat Iacob, cum et ipse prae grandi aetate captus oculis
in filiis praesignata futuri popoli genera luminoso corde radiavit et nepotibus suis ex Io-
seph divexas mystice manus, non sicut pater eorum foris corrigebat, sed sicut ipse intus
descernebat, imposuit. Ipsa est lux, una est et unum omnes, qui vident et amant eam. At
ista corporalis, de qua loquebar, inlecebrosa ac periculosa dulcedine condit vitam sae-
culi caecis amatoribus. Cum autem et / de ipsa laudare te norunt, Deus creator omnium,
adsumunt eam in hymno tuo, non absumuntur ab ea in somno suo: sic esse cupio. Resi-
sto seductionibus oculorum, ne implicentur pedes mei, quibus ingredior viam tuam, et
erigo ad te invisibiles oculos, ut tu evellas de laqueo pedes meos» (Augustinus Aurelius,
Confessiones , X 34.52).
28. «L’uomo spirituale appartiene alla storia, ma va al di là di essa, giacché dipende da altre
leggi» (Davy, , p. 73).
Initiation

29. The Wachowski Brothers, , Village Roadshow Pictures-Warner Bros, 1999.


The Matrix
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tori, la verità come fonte perennemente cifrata: lo slittamento semantico


verso il testo, che piega il reale all’irreale, fino al pregiudizio, è l’esito
necessario di questo immaginario, fatto di presupposti irremovibili. Così,
il monachesimo medievale, in realtà, spesso codifica, anziché decodifi-
care, l’apparente.
Guardiamo i Versus. Se il problema del Medioevo monastico con le
immagini è un problema di Verità, i Versus de Unibove sono la raffigura-
zione virtuale di questa sapienziale diffidenza verso la storia. L’immagine
tradizionale del contadino antagonista non è la stessa immagine finita del
folklore; e questo non perché avvenga una mutazione iconografica, ma
perché avviene una mutazione iconologica. Apparentemente, il ritaglio
del protagonista, rimane, più o meno, lo stesso: quello di un contadino un
po’ cinico e assai scaltro, che, grazie alla propria astuzia, sa trarsi
d’impaccio di fronte alle avversità; tuttavia, proprio questa rusticitas vin-
cente, proprio questo cinismo per la sopravvivenza, proprio questa scal-
trezza antropologica, mors tua vita mea per intenderci, nel momento, in
cui viene assorbita, filtrata e rilanciata da uno specifico fruitore (non po-
polare, ma colto; non laico, ma clericale; non carnale, ma spirituale) cor-
risponde a una diversa semiologia, cambia senso e polarità; viene qualita-
tivamente interpretata, magnetizzata, trasferita dal piano pseudocronachi-
stico del folktale a quello metastorico della fabula omiletica. In sostanza,
viene strumentalizzata da un autore, che segue precisi orientamenti e pos-
siede precise coordinate, e le impiega per sovrascrivere utilitaristicamente
sullo stesso mythos. In pratica, i Versus de Unibove sono l’esempio di
come testo e immagine possano mutare la loro intesa semiotica in base
alla capitalizzazione strategica dell’emittente; nella fattispecie, di un
emittente specializzato.
In un certo senso, con i Versus ci troviamo di fronte a un vero e pro-
prio trasformatore d’immagini, che assume il racconto, lo ricodifica e lo
predispone per essere intuito, scomposto e criticato sul piano etico. Per
questo è latore, nel suo stesso trasmettersi, di una fitta serie di
inequivocabili segnali ermeneutici, che interferiscono con la percezione
storica delle figure originali fino a cancellarle, fino a sostituirle, fino ad
allinearle al pregiudizio ecclesiastico medievale, che vede nel contadino
una categoria ontologicamente predisposta a incarnare il demonio
120 Francesco Mosetti Casaretto

operante nel mondo30. Perché i sono la traduzione in


Versus lingua

clerici
31
del plotdel contadino ingannatore. Ogni particolare viene
convertito allo scopo. La proverbiale scaltrezza dell’ , ad esempio,
agricola

viene escatologizzata, finalizzata al binomio tentazione-perdizione di


sapore tipicamente omiletico: è definita (119.1) perché
calliditas

«callidior cunctis animantibus terræ» ( 3.1)32 era il colubro genesiaco;


Gn.

ha proprietà , poiché
seduttrici
33
è predicato ontologico di Satana,
seduco

«il seduttore» per eccellenza , il quale «non enim cogendo, sed


34
suadendo

nocet»35. Il meccanismo semiologico è chiaro: «filioli nemo vos / seducat

. . . / qui facit peccatum ex diabolo est / quoniam ab initio diabolus peccat


/ . . . / in hoc manifesti sunt filii Dei et filii diaboli / omnis qui non est
iustus non est de Deo» ( 3.7-10).
I Io

Di più. Con definitorio crescendo, l’ diventa «stultus» (21.2);


agricola

«versutus» (69.1); «insensatus compater» (74.2); «confusionis trux faber»


(75.1); «auctor tanti periculi» (117.1); «artifex versutie» (118.3); «vestitus
tegnis» (131.1); «versipellis» (134.1); «fraudifer» (161.2); «nequissimus»
(194.4), assommando in sé un autentico campionario di attributi demo-
niaci, che non lascia spazio al fraintendimento perché «il significato [di
un] personaggio si costruisce progressivamente per ripetizione (ricorrenza
di contrassegni, di sostituti, di ritratti, di temi conduttori) o per accumulo
e trasformazione (da un meno determinato ad un più determinato)»36. In-
———
30. Cfr. J. B. Russell, Il Diavolo nel Mondo Antico, trad.it. a cura di F. Cezzi, Roma-Bari,
Laterza, 1988 [1977], p. 46. Vedi anche in Id., Il Diavolo nel Medioevo, trad. it. a cura di
F. Cezzi, Roma-Bari, Laterza, 1987 [1984] , p. 46: «Il Diavolo appariva anche in varie
forme umane: vecchio o vecchia, bel giovane o bella ragazza, mendicante pescatore
mercante studente calzolaio o contadino . . . La forma che gli è propria non è visibile o non
esiste affatto, ma in base ai suoi obiettivi egli può assumerne una diversa di volta in volta».
31. «Nostri moris esse solet, / quando festum turbas olet, / loqui lingua clerici / ne, si forte quid
dicamus, / unde risum moveamus / cachinnentur laici» (K. Strecker ed., Moralisch-
satirische Gedichte Walters von Châtillon, Heidelberg, C. Winter1929, p. 14).
32. «Il diavolo, quando non può adoperare la violenza per venire a’ suoi fini, adopera
l’astuzia» (A. Graf, Il Diavolo, Roma, Salerno Editrice 1953, p. 158; cfr. anche p. 173).
33. «Nos seduxisti nequiter» (75.2); «magis seducens tres viros» (77.2); «dicunt seducti pa-
riter» (79.2); «seducti per Univobem» (85.1); «magis seducens tres viros» (172.2). Cfr.
La Placa, «I Versus», p. 302 e Bertini, «Il contadino», p. 340.
34. Cfr. R. Lavatori, Satana. Un caso serio. Studio di demonologia cristiana, Bologna,
EDB, 1996, p. 60.
35. Augustinus Aurelius, Appendix Serm. 37 d. v. Test. 6 (PL 39, col. 1820).
36. F. Vittorini, «Fabula» e intreccio, Firenze, La Nuova Italia, 1998, p. 107.
Unibos e il «pio bove» 121

somma, se una comune struttura fabulatoria elementare di derivazione


folklorica c’è (e resta come percezione carnale della storia), agli occhi
dell’homo interior il rusticus non ha scampo: non può nascondere il suo
essere mimesi di Satana; del resto, qui il contadino viene assunto e sti-
pendiato per questo, per impersonare l’ancestrale Inimicus, il quale, non
avendo un corpo, ma avendo la facoltà «di cambiare aspetto per adattarlo
ai suoi fini»37, spesso, sceglie le vesti del villano (4.2) per manifestarsi.
«Ogni società umana . . . guarda al proprio ambiente attraverso un in-
volucro culturale trasparente che essa stessa ha costruito»38: l’Anonimo
gemblacense, in fondo, non fa altro che controllare i convenzionali mec-
canismi della propria societas, procedendo a un etichettamento, che è ti-
pologico e ribadendo per via implicita la giustezza di un certo disprezzo
pregiudiziale verso il contadino39. In realtà, ciò, che appare del tutto ori-
ginale nel poema non è tanto la ricodificazione del plot in senso demo-
niaco, quanto, invece, la sua particolare strategia retroattiva. L’autore non
dichiara mai la natura luciferina di Unibos, non la palesa; si limita a sug-
gerirla, costellando il componimento di particolari indiziari usque ad fi-
nem, quando, terminata la fabula (215.1-4), l’ultima strofa esprimerà un
inequivocabile (ma pur sempre criptato) messaggio di agnizione (216.1-
4). In sostanza, i Versus de Unibove sono un poema semiologicamente re-
trogrado, in quanto è il finale scioglimento, cui tutta la struttura testuale
tende, che fornisce al lettore la chiave definitiva per una corretta inter-
pretazione delle immagini del testo40. È questa è la straordinaria origina-
lità del poema: la sua narratologia duplice, da componimento esemplare a
immagini illusorie, mutanti a seconda dell’illuminazione e della critica,
cui li sottopone la più o meno vigile coscienza del lettore; un poema
istruttivo, enigmistico, a immagini-equivoco, costruite per essere altro da
ciò, che sembrano; per allenare l’«occhio della mente» a discriminare so-
stanza e parvenza. Del resto, si tratta di intenzioni dichiarate: «fiunt cibis
convivia, / sed verbis exercitia» (3.1-2).
———
37. Russell, Il Diavolo nel Mondo Antico, p. 154. Cfr. II Cor 11.14.
38. N. Frye, Mito, metafora, simbolo, trad. it. a cura di C. Pezzini Plevano e F. Valente
Gorjup, Roma, Editori Riuniti, 1989, p. 49.
39. «Libero o non-libero, il contadino dell’alto Medioevo è profondamente disprezzato» (J.
Le Goff, Tempo della Chiesa e tempo del mercante, Torino, Einaudi, 19772, p. 105; sul
tema, cfr. anche le pp. 99-113).
40. Cfr. Mosetti Casaretto, «Una sfida», passim.
122 Francesco Mosetti Casaretto

La Verità: la decostruzione moralistica dell’apparenza, del fenomenico


come allucinazione, questo è il vero fine del poeta medievale; ignoto, ma
certamente di estrazione monastica. Chi ha scritto questo particolarissimo
testo aveva un’idea sapienziale della vista (Ecl 11.9: «et ambula in viis
cordis tui et in intuitu oculorum tuorum») e iniziatica dell’esistenza;
evangelica, giovannea (Io 8; 15 I Io 4; 5; etc.); pensava alla vita, appunto,
come exercitium, come prova di intelligenza e di costanza nella dilectio
(Io 15.9); all’attraversamento di un labirinto di specchi, le cui innumeri e
meravigliose rifrazioni potevano distrarre – se non perdere – il
viaggiatore esistenziale quando fosse stato incapace di decodificare e di
riconoscere il valore della loro nascosta ontologia. La vita come un im-
menso «palazzo d’Atlante», insomma. Giustamente, Arno Borst ha defi-
nito i Versus «il sermone di un chierico . . . all’alba della riforma grego-
riana»41: perché l’anonimo poeta, indirettamente, predica; «si preoccupa
della Salvezza dei suoi ascoltatori»; soprattutto, si preoccupa della «ne-
cessità di sfuggire alle tentazioni e di opporsi alle seduzioni del peccato»,
esercitando il lettore allo «smascheramento delle insidie del diavolo»42.
Osserviamone la strategia.
Fra le immagini illusorie del componimento ha particolare rilevanza
quella del bue. Il bue si impone come icona dominante a vari livelli.

1. Eponimico: Versus de Unibove, ovvero, letteralmente, «poema


riguardante un bue».

2. Fictio di cornice: con congruente anfibologia, i Versus si


giustificano come «rumore/notizia di un bue» (2.2: «rumor unius bovis»)
e prendono avvio sull’onda di una grottesca esortazione, «cantiamo i fatti
di un bue» (3.4: «Uno cantemus de Bove»).

3. Onomastico: il nome del protagonista (Unibos) significa,


etimologicamente, unus bos, cioè ‘un bue’.

———
41. A. Borst, Forme di vita nel Medioevo, trad. it. a cura di P. Albarella, Napoli, Guida,
1988 [1973], p. 105.
42. A. J. Gurevič, Contadini e santi. Problemi della cultura popolare nel Medioevo, Torino,
Einaudi, 1986 [1981], p. 289.
Unibos e il «pio bove» 123

4. Fabulatorio: - la presentazione di Unibos (strofe 4-8) ruota attorno


all’immagine del bue; - l’antefatto (strofe 9-20) e il primo inganno
riguardano la vendita di pelli di bue (strofe 21-67); - nel secondo inganno
(strofe 68-118), l’immagine del bue riaffiora come grottesco termine di
paragone (97.3-4; 107.3-4).

Il bue è, in sostanza, una rifrazione costante nel poema, quasi un


Leitmotiv. Cosa si nasconde dietro questa sorta di ossessione figurativa?
Non solo il fatto che «Nei secoli IX e X le curtes . . . non diversamente
dalle casae bubulcariae, erano molto più impegnate nell’allevamento dei
buoi (cioè come bestiame da lavoro) che in quello degli altri animali
domestici», né che «il numero dei buoi era molto più grande di quello
delle mucche e dei vitelli»43. Le condizioni storiche, qui, possono far
risaltare una figura, non giustificarla sul piano ermeneutico.
Partiamo da un dato evidente. Nei Versus de Unibove si registra un co-
stante equivoco fra uomo e animale, fra categoria umana e categoria be-
stiale, che tende all’omologazione biunivoca (sia dall’animale all’uomo,
che viceversa) dei due insiemi mediante l’uso metaforico del piano
espressivo. Si tratta di un meccanismo di significazione già collaudato. La
Bibbia è un «libro interamente dominato dalla metafora»44 e il bue come
tessera allegorica o esemplificativa, intercambiabile con l’uomo, non è
invenzione del Poeta gemblacense; appartiene già alla tradizione scrittu-
rale (ed esegetica), per la quale rappresenta un consolidato termine di pa-
ragone, solitamente positivo45. Frasi come «inretivit eum multis sermoni-
bus et blanditiis labiorum protraxit illum / statim eam sequitur quasi bos
ductus ad victimam» (Prv 7.21-22), possono dare un’idea del tipo di uso
paradigmatico, che la Scrittura fa di questo animale (e possono già offrirci
un valido spunto di riflessione sul valore emblematico del bue nel com-
ponimento; ma non anticipiamo i tempi).
Nei Versus de Unibove, comunque, si va oltre. I Versus accedono a un
livello di metaforizzazione assai più ampio, ibrido e complesso. Osser-
———
43. F. Maspero-A. Granata, Bestiario medievale, Casale Monferrato, Piemme Alessandria,
1999, pp. 85-86.
44. Frye, Mito, p. 40.
45. Cfr. M. P. Ciccarese, Animali simbolici. Alle origini del bestiario cristiano I (agnello-
gufo), Bologna, EDB, 2002, pp. 203 ss.
124 Francesco Mosetti Casaretto

viamo gli effetti delle sovrapposizioni in atto nel testo. Nel poema si
parla, impropriamente, di «bovis amphibalum» (11.2), «vestis» (12.2),
«pallium» (13.4) e «tunica» (15.3, 28.3), «tutti appartenenti allo stesso
campo semantico. Il primo designa un tipo di mantello spesso villosus e
munito di cappuccio, ma anche un indumento sacerdotale: è usato infatti
come sinonimo di casula, che è la veste, il mantello ordinario dei preti.
Vestis indica i paramenti . . . Lo stesso significato ha la parola pallium,
che designa anche la veste tipica dei monaci»46. Ci viene subito in mente
Gregorio Magno («bos ordinem ecclesiasticum designat . . . vel quos bo-
vis significatio exprimit, nisi hos quos intra sanctam Ecclesiam ad praedi-
cationis officium suscepti ordinis iugum premit?»47), ma anche Rabano
(«per boves, praelati»48). I riferimenti sono congruenti: la venatura anti-
clericale è un tratto costante49 dei Versus; non a caso, appunto il presbiter
è il bersaglio preferito del poeta, che, con pungente sarcasmo, ne mette a
nudo, in vario modo, l’«ignobiltà»50. Andiamo oltre.
Nel testo si parla di «denudatum [bovis] cadaver» (10.4) e, poi, di
«cadaver coniugis» (81.1) o di coniugali «cadavera» (114.2)51. Non è un
problema di proprietà espressiva (di «cadaver bovis» parla già la Bibbia,
cfr., ad esempio, Ex 21.35), è, piuttosto, un problema di ambiguità espres-
siva. Nel poema, infatti, la figura della donna appare, ripetutamente, feri-
nizzata, cfr. 43.1-4: «si mutaretur in bovem / uxor, quam duxi nobilem, /
pro tanti lucri spe bona / mox careret pellicula»52; 97.3-4: «prior suam
feminam / occidet sicut vitulam»; 104.2-3: «surge, dolosa simia,/ petulca
sicut asina»; 107.2-4: «sacerdotem de femina / interrogat, ah, mortua, / si
surrexit iuvencula». In questo caso, ci viene in mente un accostamento fi-
gurale fra l’insieme della donna e quello del bue già presente nella
Scrittura; ha valore etico: sicut boum iugum quod movetur ita et mulierem
nequam (Sir 26.10). Per inciso, in una diversa occasione, un simile
———
46. La Placa, «I Versus», pp. 294-295.
47. Gregorius Magnus, Moralia in Iob, c. 12 (PL 75, col. 773D).
48. Hrabanus Maurus, Allegoriae in universam sacram Scripturam (PL 112, col. 877A).
49. Cfr. V. Honemann, «Unibos und Amis», in Kleinere Erzählformen im Mittelalter, a cura
di K.T. Grubmüller-L. Peter Johnson-H.-H. Steinhoff, Paderborn-München, Schoning,
1988 (Paderborn Colloquium 1987), pp. 67-82.
50. Bertini, «Il contadino 1995», p. 335.
51. Queste sono le uniche occorrenze in cui il termine cadaver ricorre nel componimento.
52. Il contesto aveva finora riferito il termine pellis esclusivamente all’animale.
Unibos e il «pio bove» 125

processo di ferinizzazione riguarderà un personaggio maschile, il


sacerdote (di cui l’autore vorrà esporre o suggerire la perversione): ma in
questo caso il gioco di sovrapposizione figurale non concernerà tanto il
bue53, quanto la giumenta del contadino54.
Ma veniamo a Unibos, massima espressione di ambiguità fra uomo e
bue. Data la malvagità del soggetto, l’accostamento del contadino al bue,
a un primo sguardo, appare inadeguato: perché il bue, nella letteratura cri-
stiana, è, da sempre, «pio»; «contrariamente all’asino» ha, di solito, «evo-
cato simboli positivi»55, tanto da essere, addirittura, riconosciuto come
emblema del Cristo56. A fortiori, dunque, il fatto che il protagonista de-
monizzato dei Versus si chiami «Un-bue» non può passare inosservato:
soprattutto, se era «convinzione dell’antichità e del medio evo che il
nome esprim[esse] l’essenza di una persona o di una cosa»57; soprattutto,
se si tratta di un elemento, su cui l’autore medievale si sofferma molto,
troppo58 perché tale insistenza sia immotivata.

———
53. Infatti, anche se Isidoro «accomuna nel nome generico di iumenta i buoi, i cavalli e gli
asini» (Maspero-Granata, Bestiario, p. 86) e anche se tale termine ricorre nell’episodio
citato (126.2: «iumentum»; 134.3: «iumentum»; 138.3: «iumentum»; 148.1: «iumen-
tum»; 153.1: «iumentum»; 157.1: «iumentum»; ma cfr. anche 130.2: «animal»; 132.3:
«bestia»; 143.3: «bestiam»; 145.4: «bestiae»), qui non ci sono dubbi che si tratti di una
giumenta e non di un bue (121.1: «equam»; 125.3: «equae»; 127.3: «equa»; 128.1:
«equa»; 137.3: «equam»; 142.1: «equam»; 142.4: «equae»; 149.3: «equa»; 154.1:
«equam»; 154.4: «equam»; 156.2: «equam»; 158.2: «equa»).
54. L’animale tratteneva una moneta d’argento in una fistola anale; per questo, il poeta dice
che «ani lesi molestia / presbitero dat gaudia» (151.3-4): l’espressione è, evidentemente,
ancipite; infatti, anche se contestualizzata, essa appare inevitabile portatrice di un
osceno doppio senso, del resto congruente con lo spirito del componimento, sul quale
cfr. La Placa, «I Versus», pp. 290 ss.
55. A. Cattabiani, Calendario. Le feste, i miti, le leggende e i riti dell’anno, Milano, Mon-
dadori, 2003, pp. 84-85.
56. Cfr. L. Charbonneau-Lassay, Il Bestiario di Cristo, trad. it. a cura di S. Palamidessi e P.
Lunghi, I, Roma, Arkeios, 1994, pp. 205-6.
57. Cfr. J. Leclercq, Cultura umanistica e desiderio di Dio, trad. it. a cura del «Centro di
Documentazione», Istituto per le scienze religiose, Firenze, Sansoni, 1983 [1957], p. 139.
58. Cfr. Versus de Unibove 2.2 («est rumor Unius Bovis»); 3.3-4 («in personarum dramate /
Uno cantemus de Bove); 6.2 («numquam ducit duos boves»); 8.1-4 («sequax unius fit
bovis / excoriatis reliquis / a vicinis deluditur / “Unus Bos” miser dicitur»); 9.1-4
(«tristis sors mugientium / bovem rapit novissimum; / iam res minor fit elegi / egestate
vocabuli»); 10.1 («exinanito nomine»).
126 Francesco Mosetti Casaretto

Guardiamo le modalità narrative di presentazione del rusticus: a par-


tire dalla prime tre quartine, la bovinizzazione del personaggio è subito
esposta (seppur in modo enigmistico) e lo è prima ancora del personaggio
stesso, che fa la sua comparsa sulla scena testuale solo dalla quarta strofa;
essa condiziona e qualifica, indirettamente, la natura e l’essenza del pro-
tagonista (2.1-2: «ad mensam magni principis / est rumor Unius Bovis»;
3.3-4: «in personarum dramate / uno cantemus de Bove»). Appare evi-
dente come il nesso generativo, che salda il contadino al suo nomignolo,
travalichi il mero àmbito causale-etimologico e persegua, contempora-
neamente, l’innesco di una precisa interferenza figurale. Infatti, l’iterata
scissione dell’etimo – per di più nel caso di entrambe le occorrenze, in cui
l’onomastico viene presentato per la prima volta59 – è volutamente equi-
voca60: il lettore, a questo stadio del testo, non può ancora sapere se si
trova davanti a un nome proprio composto o a un nome generico e, in
mancanza di ulteriori informazioni, l’«operazione estensionale»61 più
probabile è la seconda. Per certi aspetti, il bue sembra quasi essere il dop-
pio carnevalesco62 di Unibos, il suo «sosia parodico»63.
L’onomastico del contadino è – dichiaratamente – basato sul principio
del nomen omen, ovvero sull’etimologia ex causa, che vuole riflessi nella
denominazione attribuita il vissuto e il destino di colui, che è nominato64.
Lo si evince chiaramente dai vv. 8.1-4:

———
59. Se si esclude il titolo del poema, tràdito dal testimone manoscritto: cfr. La Placa, «I
Versus», p. 285.
60. Il lettore, infatti, non è ancora al corrente dei contenuti del componimento, né
dell’onomastico del protagonista (verrà spiegato solo dalle strofe 6-10).
61. Cfr. U. Eco, «Lector in fabula». La cooperazione interpretativa nei testi narrativi, Mi-
lano, Bompiani, 1997, pp. 75-76.
62. «Si parla di doppio quando, in un contesto spaziotemporale unico, cioè in un unico
mondo possibile creato dalla finzione letteraria, l’identità di un personaggio si duplica:
un uno diventa due; il personaggio ha dunque due incarnazioni: due corpi che rispon-
dono alla stessa identità e allo stesso nome. Questa è una definizione ristretta e letterale
del doppio . . . si ritrova spesso però un reimpiego metaforico del termine» (M. Fusillo,
L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio, Firenze, La Nuova Italia, 1998, p. 8).
63. Cfr. M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella
tradizione medievale e rinascimentale, Einaudi, Torino 1995 [1965], p. 8.
64. Un’equivalenza autorizzata, sul piano biblico, da Mt 16.18. Per questo cfr. E. R. Cur-
tius, Letteratura europea e Medio evo latino, trad. it. a cura di R. Antonelli, Firenze, La
Nuova Italia, 1992 [1948], pp. 553-9.
Unibos e il «pio bove» 127

Sequax unius fit bovis


excoriatis reliquis
a vicinis deluditur:
Unus Bos miser dicitur.

Unibos viene presentato, sin dall’inizio, come colpito da «un destino


avverso» (5.1-2); «a causa di terribili disgrazie, non riesce mai ad aggiogare
due buoi» (6.1-4)65; «inutilmente cerca di opporsi alla sorte» (7.1-2); il
«fato crudele» lo perseguita (7.3); per la sua sfortuna è addirittura «deriso
dai vicini» (8.3); perduti tutti i buoi, è reso più povero di quanto non mostri
il suo stesso nome (9-10); «nessuno lo aiuta» (15.1)66. Formalizziamo la
sequenza: sorte > [nomignolo] > ibridizzazione. Saltando il passaggio
onomastico, è Qohèlet. Nel libro dell’Ecclesiaste – che, non a caso, è il
codice ideologico di tutto il testo67 – l’omologazione fra uomo e animale
c’è, è teorizzata; e avviene proprio sul comune denominatore del Fato:
dixi in corde meo de filiis hominum ut probaret eos Deus et ostenderet similes esse bestiis /
idcirco unus interitus est hominis et iumentorum et æqua utriusque condicio / sicut moritu
homo sic et illa moriuntur / similiter spirant omnia et nihil habet homo iumento amplius /
cuncta subiacenti vanitati et omnia pergunt ad unum locum / de terra facta sunt et in terram
pariter revertentur / quis novit si spiritus filiorum Adam ascendat sursum et si spiritus
iumentorum descendat deorsum.68

Alcuino rettifica:

———
65. Il fatto che Unibos, pur non aggiogando mai due buoi, riesca ugualmente ad arare la
terra (cfr. 5.3-4), indica, necessariamente, che egli allaccia un bue e una giumenta (cfr.
11.3 e 144.1-2): e questo è segno di malvagità, in quanto l’agricoltore trasgredisce il
comandamento di Dt 22.10: «non arabis in bove simul et asino».
66. «Gravis fati commercio / boves emit pauper homo» (5.1-2); «eventus per horribiles /
nunquam ducit duos boves / nec simul pungit stimulo / nec uno ponit sub iugo» (6.1-4);
«frustra fortunam vincere / sua certat pauperie / duro fatorum stamine / boves perdit
assidue» (7.1-4); «sequax unius fit bovis / excoriatis reliquis, / a vicinis deluditur /
‘Unus Bos’ miser dicitur» (8.1-4); «tristis sors mugientium / bovem rapit novissimum /
iam res minor fit elegi / egestate vocabuli» (9.1-4); «exinanito nomine / evacuato
bostare / tergus disponit vendere / denudato cadavere» (10.1-4); «super iumenti sellulam
/ ponit vite fiduciam» (11.3-4); «Unibovem nullus iuvat» (15.1).
67. Cfr. Mosetti Casaretto, «Il tempo curvo», passim.
68. Ecl 3.18-21.
128 Francesco Mosetti Casaretto

quantum ad spiritalem intelligentiam pertinet, quis scit utrum spiritus, qui hominis
appellatione dignus est, ascendat in cœlum, et utrum peccator, qui iumentum vocatur,
descendat in terram?69

Magister Albinus è preoccupato per quella pericolosa sovrapposizione,


per quella eccessiva similitudo, che Qohèlet espone così, laicamente,
senza remore, senza mezzi termini. Il monaco di York non può accettarla
sic et simpliciter, deve correggerla. In fondo, per l’enciclopedia monastica
medievale bestia equivale «peccatum criminale, societas reproborum,
diabolus, increduli, spiritus maligni, peccata»70. C’è tutta un’ontologia da
salvare, un’elezione e una somiglianza immaginifica con Dio da preser-
vare (Gn 1.27). Alcuino sa che l’unica via di normalizzazione possibile è
la binarietà della radicalizzazione escatologica e non esita: probi e re-
probi, giusti ed empi; buoni e cattivi. Salvati i buoni, ai dannati si può dire
di tutto, si può attribuire di tutto, ché sono perduti; hanno optato per un
altro tipo di somiglianza ontologica, quella della disarmonica deformità.
Ecco, a noi serve, soprattutto, questo: la figura del bue come deformità,
identità morale, espressione etica. L’affermazione di Alcuino è lucida:
«peccator iumentum vocatur»; apre risonanze ermeneutiche.
«Tibi dicitur Nabuchodonosor rex regnum transiit a te / et ab homini-
bus te eicent / et cum bestiis feris erit habitatio tua / faenum quasi bos
comedes» (Dn 4.28-29). C’è un paradigma umano e bovino per il Male
nella Bibbia, il paradigma biunivoco di un perfetto transeunte, andata e
ritorno, chiasmico: «qui homo bos fuerat, de bove factus homo est»71. È
Nabuccodonosor, sovrano di Babilonia, che, «inscius esse Deum nisi se è
bestia factus homo»72 e, come il diabolico73 Behemoth di Giobbe (Iob
40.10), «faenum ut bos comedit» (Dn 4.30). Umanità, ferinità, demoniz-
zazione. Tessere, che si mescolano e si sovrappongono nello sforzo di
———
69. Alcuinus Eboracensis, Commentaria super Ecclesiasten, 3.18-21 (PL 100, col. 683D), il
quale ricalca Hieronymus Stridonius, Commentarius in Ecclesiasten, 417 (PL 23, col.
1096A).
70. Hrabanus Maurus, Allegoriae in universam sacram Scripturam (PL 112, col. 875B-C).
71. Dracontius, Prolegomena, c. 8 (PL 60, col. 644C).
72. Theodulus, Ecloga, 241 e 243 (F. Mosetti Casaretto trad. comm., Teodulo. Ecloga. Il
canto della Verità e della Menzogna, Firenze, Edizioni del Galluzzo 1997, p. 18). Sui
fatti relativi al re assiro, cfr. Dn 4.
73. Behemoth, diabolus (Hrabanus Maurus, Allegoriae in universam sacram Scripturam PL
112, col. 875A).
Unibos e il «pio bove» 129

messa a fuoco di una precisa stigmatizzazione morale. Il particolare non


sfugge all’esegesi di Gregorio: «fenum sicut bos comedens, vitam spiri-
tualium consumere dicitur»74. Lo abbiamo detto. Nel Medioevo monastico
c’è sempre una didascalia dietro l’immagine, un retroterra automatico, un
trafiletto in corde, preparato per orientare e/o correggere l’interpretazione.
Frye chiama questo processo di animalizzazione moralistica – cioè
l’esprimere il «senso di un individuo con qualcosa che esiste nel mondo
naturale» – «metafora estatica»75. A ben vedere, non siamo poi molto di-
stanti da un Esopo o da un Fedro, almeno a livello di strumentalizzazione
iconografica76; manca lo scopo di far recitare direttamente le bestie al po-
sto degli uomini, ma il meccanismo di tipicizzazione è simile e di qui
all’Ecbasis captivi o all’Ysengrinus è solo un fatto di scelte mimetiche, di
distanza, di proiezione. Isidoro definisce questo genere più distaccato
«favola libistica»77, ma a noi poco importa; a noi interessa, soprattutto,
che il bue come allegoria di situazione di peccato, di assenza di grazia, di
mancata contritio cordis, che porta l’uomo a perdere la sua condizione
umana e ad abbassarsi al livello della ferinità, sia un etichettamento codi-
ficato, riconosciuto, esista. Adesso, il processo di bovinizzazione in atto
nei Versus de Unibove comincia ad avere più senso.
Torniamo al Fato avverso, che, come «bufera infernal, che mai non re-
sta» (Inf. 5.31), martella incessantemente il nostro rusticus. Il messaggio è
chiaro ed è ancora una volta congruente con l’essenza maligna del perso-
naggio: Unibos abita la riva sinistra della soteriologia cristiana78, il lato
oscuro della Heilsgeschichte, dove la sconfitta e l’accanimento della sorte
non sono fattori incidentali, ma costanti, ché rappresentano l’esito inevi-
tabile dell’essere contra Deum79. Il bestiame morto o disperso (Ier 7.20;
———
74. Gregorius Magnus, Moralia in Iob, c. 13 (PL 76, col. 647A).
75. Frye, Mito, p. 37.
76. A livello generale, cfr. sul tema Bertini, Interpreti, passim.
77. «Sunt autem fabulae aut Aesopicae, aut Libysticae. Aesopicae sunt, cum animalia muta
inter se sermocinasse finguntur, vel quae animam non habent, ut urbes, arbores, montes,
petrae, flumina. Libysticae autem, dum hominum cum bestiis, aut bestiarum cum homi-
nibus fingitur vocis esse conmercium» (Isidorus Hispalensis, Etymologiae, I 40 (Lind-
say ed., p. 80).
78. Cfr. Mt 25.31-41.
79. «La benedizione divina include abbondanza e fecondità del bestiame di cui Israele ha
particolare bisogno sia come strumento di lavoro sia come cibo (Dt 7.13-14; 28.4-11;
32.14; Sal 144.13); la scomparsa degli animali viene vista perciò come il segno del ca-
130 Francesco Mosetti Casaretto

Ez 32.13; etc.), la stalla deserta (Abc 3.17), il nome, che per quel singolare
quanto strano parallelismo etimologico risulta, improvvisamente, vacuo80,
sono tutti esiti tipologici di empietà. Unibos, che perde i suoi buoi, non è
soltanto «Un-bue», che perde la propria legittimazione onomastica;
perché quel rusticus sarà pure «prototipo letterario di Campriano e di
Bertoldo»81, ma non è Campriano o Bertoldo, è Unibos: dietro di lui c’è
un intero bagaglio di letteratura sapienziale, che gli dà vita, anche se lo
scopo è lesivo (la condanna in quanto tale). Così, se di lui si dice che,
«exinanito nomine» (10.1), «iam res minor fit elegi / egestate vocabuli»
(9.3-4), lo si fa per suscitare l’eco sentenziosa di una precisa didascalia:
«un buon nome dura sempre» (Sir 41.13); «il nome del saggio vivrà per
sempre» (Sir 37.26); perdere il nome è segno di maledizione; «il nome
degli empi svanisce» (Prv 10.7).
In altri termini, il nostro agricoltore è, inevitabilmente, «empio e be-
stiale»82. Non a caso, la morte, che i suoi improvvidi compaesani, esacer-
bate vittime di troppi inganni, vorrebbero dargli, è simile a quella, che
essi stessi hanno riservato per i loro buoi; si confrontino i vv. 46.3-4 («ut
clam boves excerebrent, / interfectos excorient») con i vv. 67.3-4 («co-
nantur interficere / Unibovem») e con i vv. 117.3-4 («eius invadat verticem /
amara mors ignobilem»); e, ancora, i vv. 47.3-4 (mactant boves crudeliter /
excoriantes acriter») con i vv. 161.3-4 («occidende crudeliter / mactaberis
carnaliter»). Simmetrie, ripetizioni, «eterno ritorno dell’identica realtà»83,
che realizza certificate uguaglianze; non coincidenze, ma parabole
esistenziali di identità, allineamento delle forme simili, con tutto il valore
pneumatico accessorio insito in questa similitudo.

———
stigo divino (Dt 28.18-31; Gl 1.18; Os 4.3)» (A. Sacchi, «Animali» in Nuovo dizionario
di teologia biblica, a cura di P. Rossano-G. Ravasi-A. Girlanda, Edizioni San Paolo,
Milano, Cinisello Balsamo, 1988, p. 78).
80. Cfr. Versus de Unibove 9.1-4; 10.1.
81. F. Bertini, «Il nuovo nella letteratura in latino», in L’Europa dei secoli XI e XII fra no-
vità e tradizione: sviluppi di una cultura. Atti della X settimana internazionale di studio
(Mendola, 25-29 Agosto 1986), Milano, Vita e Pensiero, 1989, p. 223 [ora anche in: Id.,
Interpreti, pp. 143-168].
82. Cfr. M. Feo, «Dal pius agricola al villano empio e bestiale», in Maia 20 (1968) fasc. II:
89-136; fasc. III: 206-23.
83. N. Lohfink, Qohelet, Brescia, Morcelliana, 1997, p. 43.
Unibos e il «pio bove» 131

Cosa, allora, c’è dietro quella inarrestabile quanto misteriosa emorra-


gia di bestiame, che mina il protagonista dei Versus nella sua stessa es-
senza84? Il nodo è terminologico: «boves perdit assidue» (7.4) non è
un’espressione letterale; è – ancora una volta – una metafora biblica, fon-
data sulla coppia antinomica del «custodire» e del «perdere», ben esem-
plificata nel Quarto Vangelo, dove l’unico a perdersi è il «filius perditio-
nis» . A differenza di Jhwh, infatti, che va in cerca della pecora perduta e
85

la riconduce all’ovile86, o a differenza del Cristo-Buon Pastore87, che offre


la vita per le pecore88 ed è venuto a cercare e a salvare quanto era per-
duto89, Unibos perde i buoi, non li cerca e, anzi – così come al giudice, al
parroco e al sindaco – strappa loro ogni cosa fino all’osso (cfr. 8.1-4,
10.1-4, 11.1-2), risultando omologabile al pastore stolto ritratto dal Deu-
tero-Zaccaria (Zc 9-14) , ai «nemici del bene e amanti del male» su cui
90

si sofferma il libro di Michea91, e al ladro-mercenario del Quarto Van-


gelo92. Non solo. Mentre la preoccupazione di Cristo è quella di non per-
———
84. Cfr. Versus de Unibove 9.1-4: «tristis sors mugientium / bovem rapit novissimum; / iam
res minor fit elegi / egestate vocabuli».
85. «Cum essem cum eis ego servabam eos in nomine tuo / quos dedisti mihi custodivi / et
nemo ex his perivit nisi filius perditionis» (Io 17.12).
86. «Ego pascam oves meas et ego eas accubare faciam dicit Dominus Deus / quod perierat
requiram et quod abiectum erat reducam» (Ez 34.15-6).
87. Cfr. Io 10.1-16.
88. Cfr. Io 10.11-5.
89. «Hæc est autem voluntas eius qui misit me Patris / ut omne quod dedit mihi non perdam
ex eo / sed resuscitem illum novissimo die» (Io 6.39). Nel complesso, il riferimento è
alla «morte» spirituale, cfr: «Venit enim Filius hominis salvare quod perierat» (Mt
18.11); «Venit enim Filius hominis quærere et salvum facere quod perierat» (Lc 19.10);
etc. Vedi anche I Tm 1.15.
90. «Ecce suscitabo pastorem in terra / qui derelicta non visitabit / dispersum non quæret /
et contritum non sanabit / et id quod stat non enutriet / et carnes pinguium comedet / et
ungulas eorum dissolvet» (Za 11.16).
91. Si osservi la prossimità ai Versus: «Qui odio habetis bonum et diligitis malum / violen-
ter tollitis pelles eorum desuper eos / et carnem eorum desuper ossibus eorum / qui co-
mederunt carnem populi mei / et pellem eorum desuper excoriaverunt» (Mi 3.2-3).
92. Il comportamento di Unibos, che uccide e scuoia tutti gli animali in suo possesso, è
congruente: «Fur non venit nisi ut furetur et mactet et perdat» (Io 10.10); «Mercenna-
rius est et non pertinet ad eum de ovibus» (Io. 10.13). La stessa inspiegabile fuga dei
buoi dalla stalla del contadino si giustifica alla luce della parabola evangelica: «Alie-
num autem non sequuntur sed fugient ab eo / quia non noverunt vocem alienorum» (Io
10.5). Si osservi che nella pagina del Quarto Vangelo c’è un esplicito riferimento al
demoniaco ai vv. 10.20-1.
132 Francesco Mosetti Casaretto

dere nessuno93 – anzi, il Salvatore esclude categoricamente la possibilità


stessa che le sue pecore si perdano94 –, Unibos perde anche l’ultimo bue
(«lata porta et spatiosa via quæ ducit ad perditionem»95) e, con manifesta
empietà, ne abbandona il cadavere scuoiato (cioè, non lo seppellisce: cfr.
Tb 2.4-7)96 all’incrocio di quattro strade, aderendo così a una consolidata
iconografia demoniaca97.
La plausibilità di una simile lettura è confermata anche dal fatto che,
nei Versus come nella Scrittura, «perdere» è sinonimo di «morire»98 o di
«uccidere» (cfr. 166.2), con tutte le risonanze sul piano spirituale, che ciò
comporta (Sir 41.13; Io 17.12; etc.). Una sorte esistenziale, che tocca,
indistintamente, tutti i personaggi, «pecudes et homines»99, Unibos
escluso. Di più. In linea con l’ottica mutante, per cui «inter homines et
bestias nihil interes[t]»100, il futuro destino delle tre vittime del contadino
– che, per mezzo del corno di Unibos, giungeranno a muggire (110.2:
«tube mugitibus»; 116.4: «mugitu bucine»101) – è «tristis sors mugien-
tium» (9.1); ovvero, può essere omologato a quel passato di morte e per-
dizione, che ha già vessato le stalle del malefico agricoltore. Insomma, si
torna a Qohèlet: «sicut iumentum moritur, ita moritur et homo102: eadem
conditio est nascendi, ita sors una moriendi103, unum bestiis et hominibus
———
93. «Quos dedisti mihi non perdidi» (Io 18.9).
94. «Et ego vitam æternam do eis / et non peribunt in æternum / et non rapiet eas quisquam
de manu mea» (Io 10.28).
95. Mt 7.13.
96. «I diavoli avevano officio di aguzzini e di carnefici. Ad essi toccava, come siè veduto,
arrostire, lessare, scorticare, squartare le anime» (Graf, Il Diavolo, p. 216).
97. Cfr. Versus de Unibove 11.1. Cfr. J. Chevalier-A. Gheerbrant, [1969], Dizionario dei
Simboli, trad.it. a cura di M. G. Margheri Pieroni-L. Mori-R.Vigevani, 2 voll., I, Mi-
lano, Rizzoli, 1986, p. 355; Graf, Il Diavolo, pp. 144 e 174.
98. I buoi perduti sono implicitamente morti, perché subito dopo nel testo si afferma che
essi sono stati tutti scuoiati. Al v. 7.4 si dice infatti che Unibos «Boves perdit assidue»;
ai vv. 8.1-2 poi si precisa: «sequax unius fit bovis / excoriatis reliquis». Lo stesso si
constata mettendo in parallelo il v. 9.2, «bovem rapit novissimum», e i vv. 10.2-4
(«exacuato bostare / tergus disponit vendere / denudato cadavere»), 11.1-2 («corpus
linquit quadrivio / sumpto bovis amphibalo»).
99. Alcuinus Eboracensis, Commentaria super Ecclesiasten, 3.18-21 (PL 100, col. 683B).
100. Hieronymus Stridonius, Commentarius in Ecclesiasten, 418 (PL. 23, col. 1096C). Cfr.
Alcuinus Eboracensis, Commentaria super Ecclesiasten, 3.18-21 (PL. 100, col. 683D).
101. Si osservi che, invece, significativamente, Unibos quando bucinat, sybilat (199.1-2).
102. Hieronymus Stridonius, Commentarius in Ecclesiasten, 416 (PL 23, col. 1095B).
103. Alcuinus Eboracensis, Commentaria super Ecclesiasten, 3.18-21 (PL 100 col. 683B).
Unibos e il «pio bove» 133

præparari locum . . . omnia ad inferos descenderunt»104. E non è forse


questa la fabula delle tre vittime del contadino, che, «sub capitali frenesi»
(215.3), «dant se precipitiis» (215.2), ovvero si gettano nella profondità
dell’abisso, uscendo di scena come i dèmoni di Gadara (o di Gerasa)105
escono dal Vangelo?106
Rispunta il dato omiletico: «noli peccatis adicere peccata, ne provoces
Deum, et hic tibi inferat supplicium»107. Il ripetuto assenso dato dai tre
malcapitati a Unibos e ai suoi inganni provoca la loro progressiva opaciz-
zazione, il loro apparentamento progressivo al malefico agricoltore, au-
tentico modello esemplare di «pio bove» «alla rovescia» del testo (29.3-4:
«exemplum de me . . . / . . . suscipe»). In altri termini, ne provoca, per
così dire, la «demoniaca bovinizzazione». In ciascuno di essi si può rico-
noscere lo stultus108, che «ex diabolica suggestione . . . quasi bos trahitur
ad victimam et non praevidebit sibi nec cavet aeterni interitus ruinam»109.
Del resto, Unibos è mirabilis (cfr. 4.4), cioè «in grado di suscitare mera-
viglia» ovvero suggestione; perché «meraviglie» sono gli inganni, che il
personaggio appronterà nel testo (cfr. 33.1; 33.2; 44.4; 85.2; 123.4; 126.4;
etc.) e perché «meraviglia» provano le sue vittime di fronte ad essi (cfr.
23.4; 31.1; 85.1; 123.4; 202.1; 210.1). Insomma, «inretivit eos multis
sermonibus et blanditiis labiorum protraxit illos / statim eum sequuntur
quasi boves ducti ad victimam» (cfr. Prv 7.21-22). L’interferenza figurale
con il bue cela la realtà di un segnale negativo; è l’espressione di un nero
seme, che parte dal malefico agricoltore come infezione dello spirito e
germina negli attori del testo: «bovis ergo nomine contumax discipulus

———
104. Alcuinus Eboracensis, Commentaria super Ecclesiasten, 3.18-21 (PL 100 col. 683B).
105. Cfr. Bibbia TOB. Edizione integrale, trad.it. a cura del Centro Catechistico Salesiano di
Leumann, Leumann, LDC, 1992, pp. 2200-1, nota k.
106. Cfr. Versus de Unibove 210.1-215.4 e Mt 8.28-34; Mc 5.1-20; Lc 8.26-39.
107. Alcuinus Eboracensis, Commentaria super Ecclesiasten, 7.18 (PL 100, col. 696D).
108. «Tra i vari significati del bue: . . . stoltezza» (L. Bartoli, La chiave per la comprensione
del simbolismo e dei segreti del sacro, Trieste, Edizioni Lint, 1995, p. 193). Che i tre
compari siano effettivamente «stolti» traspare, non solo dalle azioni assurde, che essi
compiono, e dalle frasi insulse, che al contempo pronunciano, ma anche e soprattutto
dalla costanza con cui tale ottusità viene, sotto varie forme, sottolineata e loro riferita
lungo tutto il testo (cfr. 47.1; 60.3-4; 68.4; 102.3; 211.1; 211.2; 215.4); il che, fra l’altro,
allineerebbe gli stessi personaggi a Unibos, in quanto anch’egli stolto (cfr. 21.2; 76.1).
109. Hrabanus Maurus, Commentaria in Ecclesiasticum, III, c. 11 (PL 109, col. 891A).
134 Francesco Mosetti Casaretto

denotari potest: qui per fastum superbiae laniat, et reliqua pecora gregis
Dominici infestat»110.
Il bue ha due qualità specifiche: «subiugale est animal»111 e lavora la
terra, «boves autem terram versant»112. Si tratta di particolari troppo as-
serventi, abbassanti, troppo materiali, per sfuggire all’emblematizzazione
spirituale, con cui lo sguardo monastico medievale trasfigura eticamente
il mondo. Nella sua «valenza peggiorativa» questo atteggiamento può
estremizzarsi e, accentuando quel senso di necessario aggiogamento in
esso insito, ovvero, accentuando quel senso di asservita proiezione verso
il basso, di cui l’immagine del bue arante può essere portatrice, diventa
simbolo dell’«uomo che si occupa di cose terrene» o icona di coloro, che,
servi della propria cupidigia, «bramano le ricchezze della terra»113. Ce n’è
abbastanza per ritrovare, in filigrana, Unibos e suoi stolti (cfr. 47.1:
«stultitiam»; 60.3-4: «stultior»; 68.4: «stultissimos»; 102.3: «stultus»;
211.1: «stultior»; 211.2: «stultior»; 215.4: «stulte»; etc.) e fatui (cfr. 55.2:
«sum fatuus?»; 110.4: «fatuus prepositus»; 197.3-4: «fatuos magistros»;
196.1: «fatuitatis divites») seguaci: «Bos, quilibet fatuus, ut in Parabolis:
“Sequitur eam, quasi bos ductus ad victimam”, quod mundi huius cupidi-
tatem sequitur stultus ad interitum»114. Del resto, «Diabolus animal qua-
drupes per actionis immundae fatuitatem»115.
Tutta la coloritura anticristica di Unibos traspare attraverso
l’apparentemente incongruo simbolismo del bue. Unibos, «[qui] sub exem-
plis agricolae / terram laborat scindere» (5.3-4)116 e che «numquam ducit
duos boves / nec simul pungit stimulo / nec uno ponit sub iugo» (6.2-4) è
l’opposto del Messia, al cui mite giogo (Mt 11.28-29) sono allacciati gli
Apostoli, «qui, suscepto iugo Christi, Evangelii vomere mundum exarave-
runt»117. Il parallelismo è smascherante, in quanto innesca, ancora una
volta, una specularità escatologica, che coinvolge e qualifica (per contrasto)
———
110. Hrabanus Maurus, Commentaria in Exodum III (PL 108, col. 115B).
111. Hrabanus Maurus, Commentaria in Exodum III (PL 108, col. 117C).
112. Augustinus Aurelius, Sermones, 112.3 (PL 38, col. 644).
113. Ciccarese, Animali, p. 205.
114. Hrabanus Maurus, Allegoriae in universam sacram Scripturam (PL 112, col. 876D).
115. Gregorius Magnus, Moralia in Iob, c. 15.30 (PL 76, col. 691C).
116. Cfr. Mosetti Casaretto, «Il tempo curvo», p. 70.
117. Eucherius Lugdunensis, Liber formularum spiritalis intelligentiae, c. 5 (PL 50, col.
752D).
Unibos e il «pio bove» 135

il rovinoso destino delle vittime di Unibos: «quia qui Redemptoris dominio


colla subiiciunt quo, nisi ad requiem tendunt?».
Anche il «pio bove», pertanto, conosce un lato oscuro; si tratta di una
proiezione simbolica forse minoritaria, ma che può renderlo ipostasi de-
moniaca118. Lo ricorda Rabano Mauro: «bos antiquus hostis»119; «bos dia-
bolus in membris»120. Bue, toro e vitello, inoltre, sono intercambiabili sul
piano iconografico121, e le vicende interne del poema consentono di appli-
care, coerentemente, a Unibos l’immagine del vitello demonizzato:
Il libro dell’Esodo [32.32] ha fatto di questo animale uno degli emblemi dello Spirito del
Male . . . nel simbolismo cristiano è infatti diventato l’immagine del Demone delle
ricchezze. Nella scala dei vizi esso esprime non solo l’avarizia, ma l’insaziabile avidità,
l’auri sacra fames, l’esecrabile fame dell’oro che spinge a tutte le bassezze, a tutti i crimini,
a tutte le vergogne122.

Il rapporto semiologico del contadino con la ricchezza e con il denaro


ne esce rafforzato: Unibos, che trova un tesoro perché Satana «conosce ed
ha in sua potestà tutti i tesori nascosti nelle viscere della terra»123 e che lo
trova defecando124, perché il rapporto alchemico fra il denaro del diavolo
———
118. Cfr. Graf, Il Diavolo, pp. 98, 123, 126. Per inciso, si osservi che l’iconografia demo-
niaca accetta le corna come attributo stabile del diavolo proprio a partire dall’XI secolo
(cfr. Russell, Il Diavolo nel Mondo Antico, p. 97 e, soprattutto, p. 155: «gli attributi be-
stiali del Diavolo più comuni a partire dal Mille erano le corna»), benché tale riferi-
mento debba essere inteso qui in senso associativo e non propriamente figurale: in linea
con la tendenza rappresentativa del demoniaco in vigore nell’Alto Medioevo («fino al
Mille Satana è normalmente un uomo o un umanoide; in seguito assomiglia di più a un
animale o a un mostro uomo/bestia; dal XIV secolo diventa sempre più grottesco», ibi-
dem), Unibos ha, infatti, fattezze umane.
119. Hrabanus Maurus, Allegoriae in universam sacram Scripturam (PL 112, col. 877B). «I
demoni assunsero sempre più di frequente aspetti bestiali: le immagini più comuni nel
folklore sono il capro, i cani, il bue, i corvi e i porci» (Russell, Il Diavolo nel Mondo
Antico, p. 28).
120. Hrabanus Maurus, De universo VII, c. 8 (PL 111, col. 208B).
121. Si consideri, fra l’altro, che laddove nella Vulgata si ha bos, il riferimento è al toro o al
vitello, poiché per Lv 22.25 agli Ebrei era vietato castrare i bovini (cfr. anche M. Lur-
ker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, trad.it. M. R. Limiroli, Milano,
Edizioni Paoline, 1990 [19873], p. 215).
122. Charbonneau Lassay, Le Bestiaire, I, p. 215.
123. Graf, Il Diavolo, p. 89.
124. «Dum ventris purgat lacum / nummatum trahit meritum / anum dum certat tergere, /
herbam festinat rumpere, / sed herbam vellens repperit, quod gens avara diligit» (Versus
136 Francesco Mosetti Casaretto

e lo sterco è tipologico125 (e verrà iterato con maggiore evidenza nel te-


sto126), Unibos è, a partire dal suo stesso nome, simbolo e veicolo di avi-
dità, «qui congregat thesauros lingua mendacii» (Prv 21.6), segno attivo
di quella cupidigia, che dall’oro127 dissepolto si diffonde nel poema, per-
vade e corrompe coloro i quali lo scorgono e ne sono irresistibilmente at-
tratti128.
«Per bovem – del resto – cupiditates sensuum»129. Non a caso, il più
potente motore narrativo del testo è proprio il «venenum rerum tempora-
lium»130, la cupidigia131, «radix omnium malorum» (I Tim 6.10), forse il
peggiore vizio dello spirito, diametralmente opposto alla carità132, para-
gonato da san Paolo all’idolatria (Eph 5.5; Col 3.5) e relegato «nelle zone
più profonde del male, tra i peccati che portano fuori dai confini della

———
de Unibove 17.3-18.4). «Questo tratto non poteva mancare nella descrizione delle
vicende del contadino, tipico rapresentante del bachtiniano basso corporeo» (Bertini, «Il
contadino 1995», p. 331).
125. Russell, Il diavolo nel Medioevo, p. 47.
126. Si cfr. la truffa della «giumenta che caca monete» (Bertini, «Il nuovo», p. 224); cfr.
Versus de Unibove 115-158.
127. «Oro» si intende qui in senso figurato, come sinonimo di «tesoro», poiché il contadino
trova, in effetti, dell’argento (cfr. Versus de Unibove 16-24).
128. Il valore demoniaco del tesoro di Unibos, è espresso dal v. 18.4: egli trova quod gens
avara diligit. La frase, vista in retrospettiva – cioè consapevoli dei futuri sviluppi narra-
tivi del testo – è illuminante. Essa definisce, infatti, non solo il senso etico da attribuire
alla sete di ricchezza nel testo, ma qualifica anche il grave vizio dello spirito in cui in-
corrono più spesso le tre vittime di Unibos, l’avarizia, che giustifica il loro finale e me-
taforico sprofondamento (cfr. I Tm 6.9: «qui volunt divites fieri / incidunt in temptatio-
nem et laqueum / et desideria multa inutilia et nociva / quæ mergunt homines in interi-
tum et perditionem»).
129. Hrabanus Maurus, Allegoriae in universam sacram Scripturam (PL 112, col. 877B).
130. Pascasius Radbertus, De fide, spe et caritate, III 11 (PL 120, col. 1478C).
131. È il vero e proprio parametro testuale: cfr., ad esempio, 34.1; 36.1-2; 37.1-38.4; 40.3-4;
43.1-4; 126 e sgg.; 137.4; 139.1-4; 146.1-4; 147.1-4; 153.1-4; 170.2; 185.1-4; 196.1;
204.1-4; 210.3-4; etc. Cfr. anche Honemann, «Unibos und Amis», pp. 78 ss.
132. «Sicut radix omnium malorum cupiditas, ita radix omnium bonorum caritas» (cfr. Eu-
gippius, thes., c. 351 – PL 62, col. 1083D), c. 352 – PL 62, col. 1086A; Hrabanus
Maurus, Homiliae, XLVI – PL 110, col. 85D; Pascasius Radbertus, de fide, spe et cari-
tate, III 11 – PL 120, col. 1478C. Sulla giustapposizione fra caritas e cupiditas come
categorie di scelta morali in rapporto all’amore, cfr. A. Nygren, Eros e Agape. La no-
zione cristiana dell’amore e le sue trasformazioni, trad. it. a cura di N. Gay, Bologna,
EDB, 1990 [1955], pp. 488 ss.
Unibos e il «pio bove» 137

fede e precludono ogni possibilità di salvezza»133. E, infatti, è dal mo-


mento, in cui il perfido contadino riesuma «quod gens avara diligit»
(18.4), che tutta la complessa trama dei suoi inganni può cominciare a
svolgersi; e – sia che si tratti di brama di ricchezza (strofe 34-45; 130-
137; 210-211), di lussuria (strofe 87-94) o di vino (strofa 178) – è sempre
e comunque l’avidità, uno smodato e anti-qohèletico134 desiderio imma-
nente di possesso, il denominatore comune attraverso cui è possibile in-
terpretare la storia di Unibos come iter iconografico di perversione spiri-
tuale.
Alla fine, cosa resta del «pio bove», «animal sine dolo et fraude»135,
nei Versus de Unibove? Nulla, se non la specularità di un’opposizione ba-
sata sull’identità della forma, che è contrappunto anticristico: «quis est
mendax / . . . / hic est antichristus» (I Io 2.22). L’essere unus bos per Uni-
bos è, a livello di rappresentazione mentale, «eidolon, nel senso di imma-
gine, nome derivato da eidos, che significa ‘aspetto’ . . . Eidolon ha una
sua contiguità con la nozione di irrealtà, nel senso di riflesso, e lo tro-
viamo associato all’idea di menzogna, semanticamente vicino a phanta-
sma»136. In questo gioco di fluttuazioni semantiche, Unibos, come assume
la metafora dell’agricola (4.1-2; 5.3) per mimesi e per contrasto con
l’agricola, che è Dio (Io 15.1); come assume la metafora dell’aratura
(5.3-4) per mimesi e per contrasto con il perfetto («ut in Iob: boves ara-
bant, id est, perfecti opera perfecta faciebant»137); come assume la meta-
fora del giogo (6.4) per mimesi e per contrasto con il giogo di Cristo (Mt
11.29-30); così assume la metafora del «bue» per mimesi e per contrasto
con il taurus Christus, aderendo pienamente a quella classe negativa di
bovini indomiti, «qui erecta cervice seducunt animas innocentes, et ad
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133. C. Casagrande-S. Vecchio, I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel Medioevo,
Torino, Einaudi, 2000, pp. 103-104.
134. Dall’esegesi altomedievale il libro di Qohèlet è infatti percepito come essenzialmente
proteso contro la cupidigia mondana: cfr. Alcuinus Eboracensis, Commentaria super
Ecclesiasten præf. (PL 100, coll. 667D-668B).
135. Libellus de natura animalium 37 (P. Navone ed., Genova, Costa & Nolan, 1983, p.
308).
136. J.-J. Wunenburger, Philosophie des images, Filosofia delle immagini, trad. it. a cura di
S. Arecco, Torino, Einaudi 1999 [1997], p. 9.
137. Hrabanus Maurus, Allegoriae in universam sacram Scripturam (PL 112, coll. 876D-
877A).
138 Francesco Mosetti Casaretto

suum gregem trahunt, quos infelici persuasione decipiunt»138. Perché


Unibos è l’«iniquus / . . . / cuius est adventus secundum operationem Sa-
tanae / in omni virtute et signis et prodigiis mendacibus / et in omni se-
ductione iniquitatis his qui pereunt / eo quod caritatem veritatis non rece-
perunt ut salvi fierent» (II Th 2.8-10). In lui, Metafora e menzogna139 col-
limano in modo perfetto, sono fattori generativi, produttivi di un’identità
dissimulata, che ha la sua giustificazione all’interno di un immaginario
dei sinonimi e dei contrari dove i contrari sono tutti demonizzati. La lette-
ratura monastica medievale, si sa, corrisponde a «un mondo di contrappo-
sizioni binarie»140.
In fondo, la lezione omiletica dei Versus è semplice: «manete in dilec-
tione mea / si praecepta mea servaveritis manebitis in dilectione mea (Io
15.9); si vos manseritis in sermone meo / vere discipuli mei eritis / et co-
gnoscetis veritatem / et veritas liberabit vos» (Io. 8.31-32). La rovina
(perdizione) dei tre compaesani è di non capirlo; è di non sapere che
«melior pauper quam vir mendax» (Prv. 19.22), che «os autem quod
mentitur occidit animam» (Sap. 1.11) e che «ideo mittit illis Deus opera-
tionem erroris / ut credant mendacio / ut iudicentur omnes qui non credi-
derunt veritati / sed consenserunt iniquitati» (II Th. 2.11-12).
Questo è il retroterra morale dei Versus, questo il loro ordito strate-
gico, cui il bue, come metafora ibrida di transizione – un po’ figura
dell’anima, un po’ figura di docilità e/o di soggiogamento, un po’ eccle-
siastico e un po’ laico, un po’ santo e un po’ demonio – si presta in modo
funzionale, coprendo quasi tutto lo spettro figurativo del poema; non solo
quello relativo al demonio, ma anche quello relativo alle sue vittime, cioè
i peccatori: «Sicut enim bruta animalia nesciunt discernere inter amicum
et inimicum, inter veracem et fallacem, inter bonum et malum, ita insi-
pientes ignorant distantiam catholicae doctrinae et haereticae, veritatis et
falsitatis, iustitiae et iniquitatis; sed aequaliter falsis et veris doctoribus
prompti sunt obedire»141. Che dire, a questo punto, del fatto che Unibos

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138. Hrabanus Maurus, De universo VII, c. 8 (PL 111, col. 207D).
139. Cfr. H. Weinrich, Metafora e menzogna, Bologna, Il Mulino, 1976.
140. J. Le Goff, La nascita del Purgatorio, trad. it. a cura di E. De Angeli, Torino, Einaudi
1982 [1981] , p. 128.
141. Hrabanus Maurus, Commentaria in Ecclesiasticum, VI, c. 6 (PL 109, col. 956B).
Unibos e il «pio bove» 139

giunge a definire i suoi interlocutori, con la consueta ambiguità, «bruti


viri» (134.2)?
Davvero, iugum hic boum ponit pro insipientia stultorum142. Perché,
se è vero che, materialmente, Unibos non riesce ad aggiogare nessun bue
(6.4), è altrettanto vero che, a livello metaforico e virtuale, non è così: le
vittime del contadino, ammansite (69.1: «versutus mites reddidit»; 72.3-4:
«crudeles mansuescere / incipiunt»; etc.), private della volontà (7.2: «pro-
cedunt ad insaniam»; 94.4: «vertuntur in insaniam»; 99.2: «insania»;
105.2: «amens»; 109.2: «privatus mentis sensibus»; 114.2: «insania»;
215.3: «sub capitali frenesi»; etc.), «instupidite» (23.4: «stupet»; 31.1:
«attonitus»; 57.1: «ammiratio»; 85.1: «stupentes»; 123.4: «stupent»;
202.1: «stupidi»; 210.1: «sub ammirationibus»; etc.), sono, effettiva-
mente, aggiogate, asservite (Gal 5.1: «iugo servitutis»), al loro
persecutore, ai multi ingenii di Unibos (119.2), presso il quale,
incessantemente, fanno ritorno. Del resto, i santi, come i vitelli, hanno «il
collo libero da costrizioni»: «vituli, sancti fide crescentes et a iugo . . .
libera colla habentes»143.
Ma c’è un valore aggiunto, una qualità discriminante definitiva, che
trascina, inevitabilmente, i tre malcapitati verso l’abisso, togliendo loro
ogni autentica speranza di riscatto: è il loro stesso status sociale. Alla fine,
quasi con vieta predestinazione, quasi più del loro assenso, li condanna
proprio quell’essere «simboli del potere costituito»144, quell’essere illu-
stri, onorevoli145, il giudice (23.1: «præpositus»), il sindaco (30.3: «villæ
maior») e il sacerdote (30.4: «sacerdos», 42.1: «presbiter») di uno scono-
sciuto – quanto onirico – villaggio dell’Europa dell’XI sec., capace, pro-
prio per la sua riconoscibilità e indeterminatezza, di essere comunità e
metafora scalare del mondo al contempo. Perché «homo cum in honore
esset non intellexit / conparatus est iumentis insipientibus / et similis fac-
tus est illis / . . . / sicut oves in inferno positi sunt / mors depascet eos» (Ps
48.15).
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142. Ibidem.
143. Hrabanus Maurus, De universo VII, c. 8 (PL 111, col. 209C).
144. Bertini, «Il nuovo», p. 223. Cfr. Versus de Unibove 30.1-4.
145. L’onorabilità dello status sociale dei tre compaesani, oltreché di fatto, si desume anche
dal prestigio, che i vv. 182.1-195.4 danno, implicitamente, alla carica di praepositus da
uno di loro ricoperta.

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