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I Sepolcri: Leggere e interpretare

I Sepolcri sono un carme complesso, salutato al momento della pubblicazione dai con-
I parte, vv. temporanei come un’opera difficile da interpretare; l’espressione più famosa e “maligna”
1-90 è costituita dal giudizio di Pietro Giordani, ostile a Foscolo, che definì l’opera un «fumoso
enigma». Decisamente particolare è la struttura del carme, costruito come una sinfonia in
crescendo, in cui tutte le parti si corrispondono armoniosamente. La prima parte (versi 1-90)
si caratterizza per un faticoso procedere causato dalla necessità che Foscolo ha di liberarsi
degli impacci ideologici e religiosi. Le due interrogazioni che aprono il carme, infatti, recupe-
rano la sostanza ideologica del dibattito con Pindemonte e riaf­fermano un principio di base che,
nella sua es­senzialità, il poeta non rinnegherà mai: la concezione meccanicistica e l’inevitabile
trasformazione della materia. Contro la definitiva scomparsa dell’uomo e dei suoi legami con la
terra dove visse e gli esseri con cui ebbe relazioni, Foscolo rivendica l’assoluto diritto a elevarsi
al di là della morte, nella difesa della propria individualità. Segno, questo, di distacco dal ge-
nerale egualitarismo settecentesco, nel nome di una sensibilità di chiaro stampo romantico. Lo
strumento di sopravvivenza diventa allora la tomba e intorno a essa il vivente costruisce quel
particolare vincolo di affetto che Foscolo denomina corrispondenza d’amorosi sensi (v. 30); se
manca la tomba ogni legame è impossibile, ma nessun legame può esistere se il morto non ha
saputo lasciare buon ricordo di sé. È questo il principio che spinge Foscolo ad aprire una doppia
polemica: una contro l’editto di Saint Cloud e l’altra contro l’ingratitudine dei milanesi, che non
vollero offrire a Parini una tomba e un nome. La descrizione notturna del cimitero dove potreb-
bero essere sparse le ossa di Parini ha il sapore macabro della letteratura sepolcrale europea e
compensa il calo di tono poetico con l’asprezza delle descrizioni.
Un procedere sofferto e faticoso caratterizza dal punto di vista della sintassi e dello stile tutti
questi versi, ma soprattutto i primi trenta, segnati da un continuo alternarsi di esclamazioni e
interrogazioni, che denotano l’incertezza concettuale e sentimentale nella quale il poeta si trova
coinvolto. I numerosi enjambe­mentu prolungano oltre il verso il dubbio e la ricerca del poeta,
sostenuti dall’uso frequente del polisindetou, che crea accumuli di oggetti e situazioni: e quando
vaghe…; e la mesta armonia; e l’uomo e le sue tombe/e l’estreme… e le reliquie… Una tale
struttura di pensiero necessita sia di ampi periodi sia di una im­postazione contrastiva, che ora
assume la forma di una dichiarazione esplicativa (vero è ben…; Sol chi non lascia…) ora è
introdotta dalla congiunzione avversativa ma, che assume lungo tutto il carme un particolare
valore. La collocazione delle parole varia spesso: ora il verbo precede il soggetto ora è posto
latinamente in fin di frase, a seconda del rilievo che il poeta vuole assegnare a particolari termini.
Un esempio al verso 61, dove l’aggettivo beato è posposto al sostantivo ozi, ma collocato a metà
tra ozi e vivande, a indicare che la beatitudine nasce proprio dal sostegno dei due beni. Anche
le allitterazioniu concorrono a creare e sostenere il tono delle descrizioni; un esempio tipico di
contrap­po­sizione fonica è nei versi 67 e 69, dove i termini frondi… fremendo contrappongono
l’idea del movimento alla pace espressa dalle parole calma… cortese. Altre volte, infine, lo scopo
è raggiunto accostando la negazione non al verbo, ma al sostantivo, e in posizione anaforica
(vv. 72 e segg.): non ombre pose/ … non pietra, non parola. Degno di rilievo un aspetto che
ritroveremo in gran parte del carme: la tendenza alla frase sentenziosa, all’espressione sintetica
che propone una verità o un principio assoluto (vedi vv. 41-42; 88-90).

L’inizio di questa seconda parte (versi 91-150) è solenne e rievocativo e prende spunto
II parte, vv. dalla tesi di Vico secondo la quale la civiltà nasce solo quando sorgono le istituzioni civili
91-150 e religiose. Con la civiltà l’uomo impara ad aver pietà dei suoi morti e dà loro sepoltura,
sottraendoli alla furia delle belve e degli agenti atmosferici. È la pietà che trasforma gli
uomini-bestioni in esseri compassionevoli e così il sepolcro entra a far parte della storia,
giacché custodisce i cari congiunti, ma anche gli uomini coraggiosi che hanno fondato e difeso
la patria. Questo valore civile e religioso delle tombe è patrimonio della storia di ogni nazione,
che celebra riti e culti diversi per onorare i propri morti.

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Prendendo poi spunto dalla considerazione che la tomba è una conquista della civiltà umana,
Foscolo compie un’analisi di alcuni modelli di sepoltura, contrapponendo polemicamente alle
tombe e alla visione della morte cristiana, cupa e macabra, i cimiteri pagani del mondo classico,
ricchi di alberi, luce e acque, in cui il rapporto tra vivo e morto è di affettuoso colloquio, non di
paura (ricorda l’immagine della madre che difende il figlio dai fantasmi dei morti: vv. 108 e sgg.).
Proprio il senso di pietà, che ci fa pensare di parlare con i nostri cari defunti, è il nodo concet-
tuale che permette a Foscolo di compiere il primo “viaggio” nello spazio e di confrontarsi con i
cimiteri inglesi, dove le giovani donne vanno a pregare non solo per la madre morta, ma anche
per Nelson, l’eroe della patria che volle essere sepolto nell’albero maestro della nave francese
da lui catturata. Il tono diventa più sostenuto: alle tombe viene assegnata una funzione quasi
sacrale e, soprattutto nell’orizzonte politico di Foscolo, Nelson sostituisce le vecchie simpatie
napoleoniche, a testimonianza di una visione ormai diversa delle vicende europee. Lo spunto
fornisce al poeta ulteriore motivo di polemica contro chi intende la vita solo come pigra soprav-
vivenza (il dotto e ricco ed il patrizio vulgo del Regno italico): a questa visione della vita Foscolo
oppone la sua esistenza inquieta e coraggiosa, esempio di una condizione dolorosa, ma vissuta
con intensità e con grandi slanci di amor patrio.
La struttura sintattica di questi versi sottolinea sia l’intento didascalico del poeta sia il suo slancio
polemico; ne deriva una frequente contrapposizione di termini e concetti, che risulta più evidente
per l’accostamento tra parole bisillabiche e termini polisillabici (vv. 91-100: nozze, are, vivi, fere
/ miserandi, Testimonianza, giuramento). Dunque la sintassi e la lingua recano chiari i segni del
conflitto tra sentimento e ragione (M. Fubini) o, più ampiamente, tra persuasione e retorica (L.
Caretti: cioè tra i moti dell’animo e una vita intensa, e dall’altra parte un più equilibrato giudizio
sul mondo e sulla storia, che si serve della funzione mediatrice della letteratura e del mito).
Agli ampi periodi segnati dalla negazione (Non sempre i sassi… né agli incensi… né le città, vv.
104 e sgg.) seguono le decise contrap­posizioni introdotte dall’avversativa Ma (v. 114). Va detto
però che in questo segmento dei Sepolcri numerosi sono i cosiddetti momenti di “transizione”
concettuali, nei quali il pensiero di Foscolo attua un innalzamento di tono perché le affermazioni
assumono un particolare significato: Dal dì che nozze… (v. 91); Non sempre… (v. 104); Pietosa
insania… (v. 130); A noi / morte apparecchi… (vv. 145-146).
Il lessico, inoltre, si connota in maniera persistente di termini latini, che mantengono sempre
alto il livello espressivo: are; etere; fere; domestici Lari; polve; educavano; maggior pino; liberal
carme. Al ritmo contribuiscono sia le numerose allitterazioniu (sempre i sassi sepolcrali, 104;
cipressi e cedri, v. 114; perenne… protendean… per… perenne… preziosi, vv. 116-117) che le
consonanzeu (Pietosa insania, v. 130; sensi… esempio, v. 150) e le assonanzeu (a libar latte, v.
127; tronca … trïonfata, v. 135); inoltre rivestono importanza particolare gli enjambe­mentu, che
ora sostengono l’incedere solenne e ampio dei momenti di elevata verità morale (vv. 97 e sgg.;
114 e sgg.) ora contribuiscono ad accelerare il ritmo sottolineando la concitazione di situazioni
incalzanti (si veda, ad esempio, la scena notturna della madre che protegge il figlio, vv. 108 e
sgg.). In generale Foscolo non ricorre quasi mai al­l’iperbatou, ma preferisce ottenere un più
forte risalto presentando la coppia dell’aggettivo e del sostantivo (sintagmau nominale); varia,
invece, la posizione del verbo, ora posto in fine di periodo, come in latino, ora invece anticipato,
in maniera da porre in evidenza il sostantivo: ad esempio, toglieano i vivi…, v. 93; Rapian gli
amici una favilla…, v. 119.
Secondo la ripartizione del critico Caretti è qui che inizia la seconda parte del carme, in cui si
registra una notevole impennata di tono, come sottolineano i tre aggettivi (uno sostantivato) che
compaiono in rapida successione: egregie cose; forte animo; urne de’ forti (si noti il poliptoto
forte … forti).

Il viaggio immaginario di Foscolo, il suo inquieto itinerario razionale trovano ora precisa
III parte, vv. collocazione nella Chiesa di Santa Croce, che a Firenze raccoglie le ceneri dei grandi
151-195 (forse gli unici, dice Foscolo) che hanno lasciato traccia nella nostra storia civile e sociale.
Lì riposano Machiavelli, Michelangelo, Galilei e Alfieri, e Firenze sembra quasi onorare con
la bellezza della sua natura quel luogo sacro; la città è stretta intorno alle glorie italiane e
contribuisce con la sua storia, essa che ha dato i natali a Dante Alighieri e la lingua a Francesco
Petrarca, a rinsaldare il legame tra presente e passato. Il carme delle illusioni, come i Sepolcri
sono stati definiti, trova ora il suo centro ideale nel valore e nell’esempio delle tombe dei grandi;

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Santa Croce diventa, così, soprattutto per la presenza viva di un tenace difensore della patria
come Alfieri, il simbolo del valore politico e patriottico che caratterizza la storia di un popolo lungo
il filo della memoria. È il grande tema dell’immortalità, cui l’uomo aspira e che le leggi universali
della natura negano; ottenuta nel quotidiano attraverso il legame degli affetti, ora l’immortalità,
su un piano più elevato, viene garantita dalle concrete testimonianze che i grandi hanno lasciato
nella propria vita.
In tal modo, Foscolo evidenzia il suo progetto di “conservare” i valori del passato, ritrovando in
loro una spinta ideale che viene attualizzata e infonde una nota di stimolo e coraggio in un pre-
sente segnato da forte apatia e grande pessimismo. Così appare anche chiaro il suo progetto
politico-culturale: fare di Firenze il centro propulsore della vita sociale italiana e contrapporlo
all’opulenta e oziosa Milano, priva di passioni civili e politiche.
L’incipitu di questa parte del carme presenta il ritmo e l’intonazione dei grandi momenti poetici;
i versi 151-164 rappresentano una rapida rassegna dei grandi sepolti a Santa Croce che serve
a introdurre l’apostrofe gioiosa a Firenze (te beata, gridai, v. 165), un vero grido di lode in cui
Foscolo mostra di ricordare l’esempio di Dante, che tante volte, ma aspramente, si era rivolto a
Firenze. Gli aggettivi sottolineano il momento di entusiastica ammirazione (Lieta… limpidissima…
festanti, vv. 168-70) e tra di loro si impone beata, che per due volte, e in crescendo (v. 165 e v.
180), pone Firenze su un più elevato piano non solo per le bellezze del presente, ma soprattutto
per le glorie del passato (Ma più beata, v. 180). Un maggior rilievo conferisce all’intera scena
l’anaforau E tu (vv. 173 e 175), che fa di Firenze una madre affettuosa, che non solo dà vita ai
suoi figli, ma ne conserva il corpo e la memoria.
Un’interessante spia linguistica e concettuale è rappresentata dai termini ira / irato, il primo riferito
a Dante, il secondo ad Alfieri (e più innanzi, al v. 201, comparirà ancora nell’espressione la virtù
greca e l’ira); è evidente che Foscolo trasferisce ai personaggi della sua opera il suo particolare
sentimento di rabbiosa impotenza ed emarginazione nel generale stato di decadenza politica
del paese. In questi versi l’uso del­l’enjambementu serve a tenere continuamente il tono su livelli
quasi epici; inoltre Foscolo ricorre all’uso frequente del polisindetou per sottolineare la continuità
del discorso che si snoda con i lettori: si vedano, ad esempio, i versi 184-185, in cui ben cinque
sostantivi caratterizzano in negativo le vicende della storia italiana. Infine, il ricorso alle allitte-
razioniu è sempre funzionale al significato che si vuole esprimere: così nei versi 168 e seguenti
le numerose liquide, la l, e la vocale i sottolineano il clima festante che caratterizza Firenze nel
momento della vendemmia: Lieta… la luna (v. 168); di luce limpidissima i tuoi colli (v. 169); le
convalli / popolate di case e d’oliveti (vv. 170 e 171); mille di fiori al ciel (v. 172); mentre il ricorso
all’altra liquida, la r, conferisce ai versi 190 e seguenti, nei quali compare la figura accigliata di
Alfieri, un ritmo sostenuto e risentito, che ben caratterizza il fiero carattere del poeta astigiano:
Irato… patrii… errava… Arno… deserto… mirando. Va osservato, in conclusione, che in questi
versi solo Alfieri è chiamato affettuosamente per nome, Vittorio (v. 189), mentre gli altri grandi
vengono citati solo con delle perifrasiu che evidenziano i meriti e la qualità della loro azione.

Gli ultimi cento versi del carme presentano il messaggio più fermo e profondo che Fo-
IV parte, vv. scolo rivolge ai suoi lettori. Al critico francese, abate Monsieur Guillon, che gli rimproverava
196-295 l’incon­gruenza dell’ultima parte rispetto all’insieme del carme, Foscolo ribadiva che quella
conclusione rappresentava il momento più significativo ed elevato del componimento e il
naturale completamento di tutta la struttura dell’opera. Infatti da Santa Croce, con uno di
quei nessi logico-concettuali che consentono al poeta un ampliamento spazio-temporale del
suo disegno poetico (Ah sì! da quella / religïosa pace…, vv. 197 e 198), Foscolo si inoltra nel
passato, conducendoci ad ammirare la gloria degli antichi eroi e a compiangere le loro umane
sofferenze. Dal “paradiso” degli eroi ci giunge soprattutto la voce dell’amor patrio, e il nume che
protegge i morti di Santa Croce è lo stesso che tutela la memoria dei caduti a Maratona, nella
battaglia in cui la virtù greca e l’ira (v. 201) respinsero lo strapotere dell’invasore persiano. La
scena notturna della battaglia (vv. 201 e sgg.) si snoda dinanzi ai nostri occhi come un solenne
sacrificio e un esempio perenne per tutti i posteri. Nel passato Foscolo trova l’esempio più lumi-
noso dell’eroismo e della umana sofferenza: quanto più nobile è il personaggio che ci testimonia
il suo dramma tanto più l’esempio ha valore di memoria e di ammonimento e resta come segno
incancellabile nella storia dell’umanità.

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Aiace è il primo degli eroi che si presenta a noi, colpito nella sua illusione più generosa: la fiducia
nella giustizia. Ulisse, ora eroe “negativo”, gli sottrae con l’inganno le armi di Achille, che solo
la morte e la giustizia divina restituiranno alla tomba di Aiace. Un momento di notevole tensione
morale e poetica è rappresentato dai versi 226-229, quando Foscolo si pone come collegamento
tra l’antico mondo degli eroi e il presente, e tende ad assumere la funzione di poeta-vate, con-
servatore e trasmettitore di valori che appartengono alla storia dell’umanità. È qui che si riafferma
l’alto valore della poesia, la più alta tra le illusioni; essa vince le distruzioni della materia e come
una grande ala di vita si stende dal passato verso il futuro. Il canto pietoso della poesia si rivolge
ora soprattutto ai vinti: intorno al cimitero di Troia si snoda l’epopea dolorosa di un popolo che
ha visto la fine della sua storia perché sconfitto da un esercito che il destino e la potenza degli
dèi proteggono e vogliono vincitore. Ora la scena si anima e vivi e morti si confrontano lungo una
linea scandita da tutti i re che hanno reso potente Troia.
La galleria degli eroi si arricchisce inoltre di altre epiche figure: Elettra, che, pur amata da Giove,
non può ottenere l’immortalità e chiede almeno la memoria di sé; e poi Cassandra, la profetessa
inascoltata che invano prevede la caduta di Troia. Cassandra, intorno alle sacre tombe dei
troiani, inviolabile come lo è il segreto della morte, canta le rovine della sua patria e profetizza
l’avvento di un grande vate cieco, Omero, che assicurerà pietà ed eternità alle afflitte anime dei
morti grazie alla sua poesia.
Al vertice il canto del poeta porrà il più puro degli eroi, Ettore, il simbolo universale della sacralità
della patria, nel cui nome, e lungo il doloroso percorso della storia, il tempo si concentra in un
punto in cui fi­nalmente solo l’ideale dell’illusione ha il valore dell’eternità.
Colpisce immediatamente, in questa parte conclusiva del carme, l’estrema mobilità dei tempi
verbali: presente e passato si alternano (un Nume parla: / e nutria contro a’ Persi in Maratona,
vv. 198-199) a dimostrazione che si attua quella compresenza temporale che annulla le distanze
e rende eterno l’antico.
Giustamente, invece, alle parole di Cassandra, che sono una profezia, si addice l’uso del futuro:
pascerete, cercherete, fumeranno; Un dì vedrete fino all’ultima espressione, la “sentenza” con-
clusiva che racchiude il messaggio ultimo e, insieme, la ferma convinzione del poeta, che con-
trappone all’immutabile presenza del Sole il mobile e doloroso passaggio dell’uomo sulla Terra: e
finché il Sole / risplenderà su le sciagure umane. Così il carme si chiude secondo la tecnica della
composizione anulare, e sia l’incipitu che la conclusione concordano sul tema contrastativo luce/
ombra, vita/morte, gioia/sofferenza. La ricchezza dei temi e delle figure che caratterizza quest’ul-
tima parte richiede a Foscolo una notevole varietà di tono e di linguaggio, tale da caratterizzare
diversamente i personaggi e la loro funzione. Così nella descrizione della battaglia di Ma­ratona
il tono è epico e sostenuto; il campo semanticou è ricco di termini militari che indicano la furia
della guerra (elmi, brandi, armi, guerriere, pugna, moribondi, pianto, inni, vv. 204-212) e la scena
si arricchisce sia di contrasti cromatici (per l’ampia oscurità scintille, v. 203, con una posizione
contrapposta dei termini (ossimoro) oscurità e scintille; balenar d’elmi… orror de’ notturni/silenzi,
vv. 204-208) che di una tragica contrapposizione tra suoni e silenzio, simboli di vita e di morte
(cozzanti brandi … un tumulto, e un suon di tube, vv. 204-209; e all’orror de’ notturni silenzi /
pianto… inni… canto, vv. 207-­212). Alla scena, così ricca di alterne tonalità, il suono delle s ora
sottolinea il terrore dei silenzi (silenzi… spandea) ora la forza travolgente di uomini e cose (suon,
scalpitanti, su). Il ritmo è caratterizzato sia dai frequenti enjambementu – nella descrizione della
battaglia di Maratona il ricorso all’enjambement si unisce al particolare effetto determinato dal
frequente uso del polisindetou e dall’accumulo concitato di termini – sia dalle pause ritmiche,
che ora cadono a mezzo il verso e coincidono con un segno di punteggiatura (Siedon custodi de’
sepolcri, v. 230) ora seguono l’inarcatura dell’enjambement e fondono due versi in un più ampio
concetto (vedi vv. 280 e 281; 286 e 288). In ogni caso, in questi versi conclusivi, l’endecasillabo
sembra liberarsi dalle contrazioni e dal faticoso procedere delle parole e si apre dilatandosi
in un più armonico ritmo, quanto più il poeta si libera dai vincoli della sofferenza materiale e si
proietta nella superiore dimensione della accettazione e contemplazione del dolore del mondo.
Anche il livello fonico si rivela particolarmente pregnante; segnaliamo, come esempio, i versi
250-257, in cui le nasali m ed n sottolineano il generale senso di preghiera e di commozione che
accompagna la morte di Elettra e il dolore di Giove. E più innanzi, nei versi 279-285, introdotto
dalla preghiera che Cassandra rivolge alle piante del cimitero di Troia (Proteggete i miei padri,
in anaforau col verso 275) il suono delle r evidenzia prima il faticoso avanzare di Omero verso le
tombe dei morti troiani (errar; vostre; brancolando; penetrar; abbracciar; interrogarle) poi accom-

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pagna la dolorosa risposta dei morti, che raccontano le vicende della loro patria (Gemeranno
gli antri/secreti; narrerà; raso; risorto). Tutta la scena finale, dominata dalla presenza di Omero
ed Ettore, è introdotta da un sintagma caro a Foscolo: Un dì, che ricorda l’incipit del sonetto In
morte del fratello Giovanni, e anche Dal dì che… (v. 91); qui l’espressione, pur nella sua generi-
cità temporale, rimanda a un futuro certo, che rafforzerà la sua identità facendo propria l’eredità
del messaggio che proviene dal passato. Non dunque una fuga nel passato, ma un percorso
circolare che guarda al passato e di nuovo si proietta verso il futuro; la solenne lode a Ettore,
sostenuta da un lessico di elevata tensione stilistica (onore, santo, lagrimato, versato) conferisce
alla chiusura del carme una sacralità omerica: nella dimensione eroica dell’epos l’umanità intera
trova la sua sublimazione.

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